Opus incertum 2015

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rivista di storia dell’architettura università degli studi di firenze

residenze medievali di villa in italia

2015

Residenze medievali di villa in italia

€ 24,00

ISSN 2035-9217

2015

FIRENZE UNIVERSITY

PRESS



rivista di storia dell’architettura università degli studi di firenze

2015


Rivista del Dipartimento di Architettura Sezione di Storia dell’Architettura e della Città Università degli Studi di Firenze

Pubblicazione annuale Registrazione al Tribunale di Firenze n. 5426 del 28.05.2005 ISSN 2239-5660 (print) ISSN 2035-9217 (online) Direttore responsabile Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze Nuova Serie, anno I | 2015

Residenze medievali di villa in Italia a cura di Alessandro Rinaldi In copertina Villa Porto Colleoni, Thiene (Vicenza) (© CISA “A. Palladio”)

Direttore scientifico Gianluca Belli | Università degli Studi di Firenze Consiglio scientifico Amedeo Belluzzi | Università degli Studi di Firenze Mario Bevilacqua | Università degli Studi di Firenze Joseph Connors | Harvard University Francesco Paolo Di Teodoro | Politecnico di Torino Roberto Gargiani | Ecole Polytechnique Fédérale de Lausanne Alessandro Nova | Kusthistorisches Institut in Florenz Riccardo Pacciani | Università degli Studi di Firenze Susanna Pasquali | Università di Roma “La Sapienza” Brenda Preyer | The University of Texas at Austin Alessandro Rinaldi | Università degli Studi di Firenze Redazione Daniela Smalzi Coordinatore editoriale e progetto grafico Susanna Cerri Caratteri albertiani della testata Chiara Vignudini Logo “Opus” Grazia Sgrilli da Donatello

Referenze fotografiche M.M. Bares: pp. 99, 103, 104. Centro Internazionale di Storia dell’Architettura “Andrea Palladio”, Vicenza: pp. 81, 82, 84, 85, 86, 87, 88, 90, 91, 93, 94, 95, 96, 97. M. Frati: pp. 29, 30, 34, 36, 39, 45, 48, 53, 54. V. Giostra: pp. 106, 107, 108. K. Guza: pp. 53, 54. L. Rossi: pp. 111, 113, 119, 121. D. Smalzi: p. 52. Tutti i saggi sono sottoposti a un procedimento di revisione affidato a specialisti disciplinari esterni al comitato scientifico, con il sistema del ‘doppio cieco’. L’opera è stata realizzata grazie al contributo del DIDA Dipartimento di Architettura | Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 14 50121 Firenze Copyright: © The Author(s) 2015 This is an open access journal distribuited under the Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 4.0 International License (https://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/4.0/) Published by Firenze University Press | Università degli Studi di Firenze Firenze University Press Borgo Albizi, 28, 50122 Firenze, Italy www.fupress.com


sommario

6 | Il problema storiografico della villa tra Medioevo e Umanesimo Alessandro Rinaldi 8 | A Meridione dell’Urbe. Il palazzo comitale nei feudi Caetani agli inizi del Trecento Pio Francesco Pistilli 16 | Alle soglie della villa fiorentina: l’architettura delle dimore rurali nel Trecento Marco Frati 46 | Forme e modelli nell’architettura delle residenze medievali di villa nei dintorni di Firenze. L’habiturium magnum dei Buonaccorsi al Querceto Alessandro Rinaldi 64 | Tra civiltà cavalleresca e imprenditorialità rurale: appunti sui castelli subalpini nell’autunno del Medioevo Andrea Longhi 80 | Torri, portici, logge nelle residenze venete di campagna pre-palladiane Donata Battilotti 98 | Ville e residenze extraurbane del Quattrocento a Palermo e in Sicilia Marco Rosario Nobile 110 | San Martino in Soverzano, da insediamento fortificato a villa rinascimentale Francesco Ceccarelli

delizie per gli eruditi

122 | Vincigliata, un castello immaginario del Quattrocento Alessandro Rinaldi 125 | Considerazioni sul tema del “Sommerhaus” nei castelli altoatesini e tirolesi: il diffondersi del concetto classico di amoenitas e di ‘villeggiatura’ al tempo di Massimiliano I d’Asburgo Wolfgang Lippmann


Alessandro Rinaldi

Il problema storiografico della villa tra Medioevo e Umanesimo

The implicit, yet improper comparison with the “Renaissance villa”, has deprived Medieval extra-urban residences of their autonomy, and left them without a proper historical and critical analysis, relegating them to a marginal and preparatory position. Their recognition at a national scale (Piedmont, Veneto, Emilia, Tuscany, Lazio, Sicily), presented in this number of Opus Incertum, offers the possibility to appreciate, together with the sheer quantitative dimension of the phenomenon, the development of models and formulas of an extraordinary refined nature which reflect both how qualified the patrons which commissioned the works actually were, on the one hand, and the presence, on the other, of an architectural culture that had reached a remarkable level of maturity.

“Quotiens vidimus peregrinos homines [...] palaciorum moltitudine et crebritate deceptos, villas urbem putare”(Collaudatio quedam urbis genuensis, anonimo, 1430 ca.); “sono bellissimi orti e giardini con abitazioni di casamenti e palagi spessi che pare il contado tutta una città” (G. Dati, Istoria di Firenze, 1409). Il topos della doppia città racchiude nelle pieghe di una formula retorica di successo l’ammirazione viva per un fenomeno che, al di là del risvolto sensazionalistico e celebrativo dell’iperbole che lo esprime, dovette possedere una massiccia, indubitabile evidenza: la rapida travolgente proliferazione di residenze di villa nei dintorni di alcune grandi città come Firenze e Genova nel corso del Trecento. Se si pensa poi che l’organizzazione produttiva e amministrativa del contado, tra processi di frammentazione delle proprietà prima e di concentrazione poi, si decide tra il XIV e il XV secolo, risulta evidente come entro questi due secoli il popolamento edilizio della campagna dovette compiersi pressoché integralmente almeno per alcune aree suburbane di importanti città italiane. Il primato quantitativo delle residenze medievali di villa nelle loro diverse modulazioni funzionali (ricreative, produttive, difensive) è un dato di facile verifica. Secondo una stima prudente, sembra di poter dire che almeno in metà dei casi dietro lo strato rinascimentale o barocco si nasconda un nucleo due-trecentesco ancora riconoscibile in qualche elemento lapideo – le colonne di una loggia, la cornice di una porta, uno stemma, un cantonale – o in scampoli di strutture – tor-

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re, portico, cortile – sopravvissute in superficie o nel sottosuolo. Questa imponente sovrapproduzione edilizia relega i contributi successivi quattro-cinque-seicenteschi a un ruolo sovrastrutturale di ampliamento, cosmesi, aggiornamento linguistico a cui la preesistenza medievale continua però a fornire la conditio sine qua non, il supporto, materiale e patrimoniale. Come la città moderna vive tutta quanta dentro il circuito sovradeterminato di quella medievale, allo stesso modo il corpus della villa rinascimentale continua a muoversi e a svilupparsi all’interno della cornice materiale fornita delle dimore rurali medievali, senza mai riuscire a esaurirne la straordinaria portata. E ciò anche per il diverso retroterra economico e sociale: la fitta costellazione delle residenze extraurbane medievali corrisponde a una fase straordinariamente prospera e dinamica, mai più raggiunta in seguito dalla società italiana, mentre la villa rinascimentale e barocca accompagna la parabola di una lunga, irreversibile ‘decrescita felice’. Il fenomeno è stato indagato con larghezza di mezzi nei suoi aspetti politico economico sociali, meno sotto il profilo delle forme che lo veicolano. Certo sugli orientamenti della ricerca grava il carattere incerto e lacunoso dei manufatti tanto che il problema filologico della ricostruzione del nucleo originario e della identificazione degli strati di formazione finisce per assorbire gran parte degli sforzi conoscitivi. Ma c’è dell’altro: si esita ad attribuire alla architettura medievale di villa quei caratteri di dignità e di complessità formale che sembrano esclusivi di quella ri-

nascimentale. Questa disposizione riduttiva fa della villa medievale essenzialmente un documento e la trattiene, documento tra i documenti, nel campo di indagine di discipline extrarchitettoniche quali la storia politica, sociale, economica. Oppure la confina in una posizione storiografica subalterna, assegnandole il ruolo preparatorio e imperfetto della prefazione al capitolo cruciale della villa del Rinascimento. In ogni caso la priva del diritto a un trattamento storico-critico specifico, basato sull’analisi delle scelte compositive e quindi rivolto alla ricerca del contributo personale dell’autore o del committente, alla individuazione dei modelli di riferimento, alla valutazione del grado di rappresentatività sociale. Per ridare spazio e dignità all’architettura medievale di villa e per farla uscire dal cono d’ombra che l’avvolge, potrebbe essere opportuno sottrarla al confronto con gli esempi rinascimentali e con il loro schiacciante successo storiografico. Ipotesi di lavoro: comportiamoci come se la villa rinascimentale non esistesse, “etsi non daretur”. Ne risulterebbe un paesaggio di architetture tradizionali, castelli, case forti, magioni e palagi, in cui si mescolano, in dosi prima molecolari poi via via più estese e pervasive, temi classici e richiami archeologici veicolati per lo più dal miraggio della casa degli antichi e da alcune formule di successo del moderno linguaggio classicistico. Penso al caso di Careggi: aspetto esteriore neocastellano con coronamento di merli e beccatelli ma salone in posizione centrale secondo l’ipotesi albertiana del sinus come cuore del-


la domus e due moderne logge tergali con archi a pieno centro e colonne corinzie. Il riferimento al mondo classico rimane a lungo solo un ingrediente accessorio inserito nel corpus della residenza medievale (che resta il soggetto principale, il sustrato), almeno fino a che non riesce a saturare e risolvere un intero edificio; come accade ad esempio a Poggio a Caiano, senza peraltro che la villa medicea assurga allo status di paradigma. A Roma villa Madama batte altre strade e così la Farnesina Chigi o ancora l’Imperiale di Pesaro o palazzo Doria a Genova. Ci sono quindi le ville rinascimentali, non la villa rinascimentale. Nessun modello egemone interviene a normalizzare e orientare un fenomeno che pro-

cede nel più felice disordine sperimentale. Mentre al contrario un manipolo di generi codificati sono riconoscibili nell’architettura medievale dove le residenze pure, ad esempio, si distinguono nettamente da quelle fortificate, le cosiddette ‘case forti’, e queste a loro volta dai castelli. All’interno di questi filoni i singoli edifici seguono poi strade individuali e raggiungono livelli qualitativi diversi che è compito della storiografia identificare. In questo numero di Opus Incertum si alternano contributi di carattere panoramico (Longhi, Battilotti, Frati, Nobile) che in aree regionali differenti prendono in esame l’estensione del fenomeno e la sua articolazione in gruppi e sottogruppi, ad altri di taglio monografico (Ceccarel-

li, Rinaldi, Pistilli) che riflettono sul valore individuale e sulla specifica posizione storica di alcuni esemplari. In questa occasione si è limitato il discorso agli edifici immuni da inserti classici clamorosi, senza limiti cronologici in avanti, e si pensa di riservare un numero successivo agli ibridi interpolati da venature classico archeologiche, anche qui senza limiti cronologici, naturalmente all’indietro. Si dovrebbe così poter delineare sia pur a tratteggio, il quadro di una architettura residenziale di villa cui potrebbe convenire il titolo di medievale e umanistica, mutuando la definizione dalla omonima disciplina letteraria che riunisce due termini che la storia dell’architettura tiene ancora separati.

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Pio Francesco Pistilli

A Meridione dell’Urbe. Il palazzo comitale nei feudi Caetani agli inizi del Trecento

This paper focuses on the origins of the baronial palaces to the south of Rome in the early fourteenth century, looking at exemplary cases which are based on models commissioned by the House of Anjou (see the residences of Charles I of Anjou in Mola di Bari and Villanova di Ostuni, perfectly documented in the registry of the Curia regia) and which found in the patronage of Roffredo Caetani their diffusion to the northern territories of the Kingdom in the bordering Pontifical region of Marittima.

Quando oltre vent’anni fa veniva dato alla stampe Baroni di Roma, indiscussa pietra miliare per comprendere le dominazioni signorili nell’Urbe, come nell’agro laziale tra il Duecento e il primo Trecento, forse per motivi di mera opportunità il titolo dell’opera convergeva su Roma la radice collettiva di un fenomeno ‘clanistico’ orientato anche al controllo del distretto, e non esclusivamente della landa rurale1. Va ben inteso che l’autore, già nell’Introduzione, mirava a non livellare i lignaggi di estrazione urbana a stirpi la cui provenienza andava ravvisata altrove, ben lungi dalle mura aureliane2. Si trattava di sparuti gruppi familiari, spesso ascesi per trascinamento a elevati gradi di potere vuoi per carrierismo ecclesiastico di alcuni membri vuoi pure per calcolati vincoli matrimoniali. Piuttosto le stesse casate avevano uno scontato vantaggio sulla concorrenza romana, in quanto godevano di un filo diretto con quel territorio, ove trovavano naturale alimento nella pervicace azione feudale. Per chi si è interessato di fatti artistici, resta invece ancora da puntualizzare il portato culturale di un tale distinguo. Finora la storiografia lo ha recepito, se non altro, per intendere talune ragioni di quel problematico, ambiguo e alle volte paritetico rapporto tra centro e periferia che nei decenni centrali del XIII secolo strinse Roma al suo immediato circondario, e nella fattispecie alla provincia di Campagna e Marittima con la contigua Comarca3. Tuttavia sarebbe stato sufficiente allargare lo sguardo al modo di essere visibili sul territorio, per riconoscere che

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i baroni del Lazio furono al crepuscolo del Duecento di ben altro stampo, e con i Caetani intesero per primi manifestare attraverso la confezione delle loro residenze un ambizioso e inedito modo di trasmettere l’autorità comitale, riconosciutagli dal 1300 in avanti a cavaliere tra la Marittima pontificia e la Terra di Lavoro. La primogenitura È noto che il nepotismo di Bonifacio VIII innalzò le fortune dei suoi consanguinei e, nella sete di creare un dominio familiare, oltrepassò i limiti meridionali dello Stato della Chiesa4, reiterando l’intraprendenza del conterraneo Innocenzo III, allorché consegnava la contea di Sora al fratello Riccardo nel 12085. Cancellata dalla stagione sveva qualsiasi orma dell’antesignana azione innocenziana in Terra di Lavoro e trascorso quasi un secolo, per mezzo del pronipote Roffredo III6, il Caetani si faceva di nuovo battistrada entro i confini del Regnum e dal 1299 con risultati più che lusinghieri7. E se il patronato roffrediano nel palazzo di Fondi (fig. 2) ne è da subito il documento in pietra, in esso è altrettanto esplicito il camaleontico adeguamento del potere signorile a modelli ‘altri’ e, nell’immediato, tipologia da esportare nei recenti feudi dell’Agro romano (figg. 6, 11) e della regione Pontina8, ora come emblema di riconoscibilità nella distanza dai masti duecenteschi dei baroni di Roma9, ma pur sempre spia di un iniziale e irreversibile processo di meridionalizzazione della casata anagnina10. Del resto, alla luce di una recente monografia de-

dicata al monumento fondano, erano emerse per gradi le diverse radici dell’evergetismo Caetani11. Allungatasi nell’arco di quasi duecento anni, da inizi Trecento alla seconda metà del secolo successivo, la magione rivela il suo vissuto per frammenti, in forma di palinsesto o integralmente, testimoniando nelle strutture contraddittorie e contrapposte di residenza-fortilizio l’adeguamento di chi lo ha posseduto a più aggiornate esigenze funzionali e di rappresentanza12. Di fatto qui è depositata al più alto livello l’immagine materiale che i Caetani hanno voluto offrire di sé in una strategica città di frontiera, così come – generazione dopo generazione – hanno consapevolmente ancorato il complesso palaziale con le tarde appendici edilizie a una parlata di stampo regnicolo, fosse esso di matrice angioina, durazzesca o aragonese13. Va dunque da sé che sia necessario restringere il campo d’azione alla sua primogenitura, prodotto dell’investitura comitale nel 1299. Escluso per ovvie ragioni il basamento quadrangolo del mastio normanno, giunto in stato di rudere scapitozzato e tutt’al più rimasto in uso come riserva d’acqua14, la rocca ubicata al di là della “porta de suso”15 determina l’espansione di secondo Trecento (fig. 1), al pari del contiguo blocco cilindrico con cui da ultimo si rivitalizzava il torrione de Aquila16. È sul fronte opposto dell’Appia, serrata tra le mura tardorepubblicane17 e la platea episcopale, che invece si era insediata al principio del secolo la dimora baronale. A partire dal braccio sud-orientale, la magione fu organizzata attorno a una corte,


A Meridione dell’Urbe. Il palazzo comitale nei feudi Caetani agli inizi del Trecento Pio Francesco Pistilli

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A Meridione dell’Urbe. Il palazzo comitale nei feudi Caetani agli inizi del Trecento Pio Francesco Pistilli

1 S. Carocci, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel Duecento e nel primo Trecento, Roma 1993, cui ha fatto seguito Id., Il nepotismo nel medioevo. Papi, cardinali e famiglie nobili, Roma 1999. 2 Id., Baroni di Roma… cit., pp. 7-9. 3 Sulla circolazione di frescanti tra Subiaco, Anagni e Roma, risultano centrali le considerazioni di F. Gandolfo, Introduzione, in Gli affreschi dell’aula gotica nel Monastero dei Santi Quattro Coronati: una storia ritrovata, a cura di A. Draghi, Milano 2006, pp. 11-16: 14, quanto il lavoro di tesi di Claudia Quattrocchi: C. Quattrocchi, La Centralità della Periferia: i cicli ad imitazione di San Pietro in Vaticano fra Roma e Lazio meridionale nella prima metà del XIII secolo, tesi di dottorato, Università di Roma Sapienza, XXVII ciclo. Qui ringrazio la studiosa per avermi messo a parte delle sue ricerche ancor prima del conseguimento del diploma. 4 Carocci, Il nepotismo… cit., e in particolare su Bonifacio VIII le pp. 129-136. 5 M. Maccarone, Studi su Innocenzo III, Padova 1972, pp. 181-208 e sulla politica nepotista di Innocenzo III, ancora Carocci, Il nepotismo… cit., pp. 111-117. 6 D. Waley, Caetani, Roffredo, in Dizionario biografico degli Italiani, XVI, Roma 1973, pp. 221-224. 7 Riguardo le mire del baronato romano e dei Caetani in direzione del Regno dopo l’avvento della dinastia angioina, si rinvia ancora a Carocci, Baroni di Roma… cit., pp. 40-42.

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esito di una lenta ma progressiva dilatazione del costruito che ha visto come attori anche la discendenza. Sia Onorato I che Onorato II, passando per Cristoforo che dal 1418 governò per oltre un ventennio, hanno impresso un timbro nell’articolare a quadrato la propria residenza18, elevando quantomeno due delle restanti tre ali e addirittura sottraendo al duomo di San Pietro un settore dello spiazzo su cui si affacciava. Eppure a mettere in atto un’operazione di voluta discontinuità con il passato normanno fu il capostipite Roffredo e nella scelta del sito a ribaltare la posizione occupata dal mastio rispetto alla porta urbana. Nessuna fonte è in grado di chiarirne il motivo, per quanto una ponderata spiegazione risiede nel rapporto di stretto vicinato che veniva così a instaurarsi tra il palazzo e

il duomo. Nel provvedere a riunire nel medesimo quadrante la sede signorile e il vescovado19, la dimora del Caetani doveva rappresentare il tassello iniziale di un’operazione a più ampio respiro e nulla osta che la primaziale fosse già da allora oggetto di cure, perché la sua fronte a cavetto in definitiva riproduceva il prospetto assunto nel Duecento dalla basilica vaticana, con cui condivide la medesima titolatura 20. Se così fosse, l’impresa di Roffredo andrebbe evidentemente interpretata quale prodotto di una decisione imposta dall’alto e non frutto esclusivo dell’autorità comitale, e le conseguenze vanno a riverberarsi pure sulla tempistica della residenza, ancorando l’avvio della fabbrica entro gli anni di pontificato di Bonifacio VIII, quindi non oltre il 1303.


La consistenza del sopravvissuto Tuttavia i profondi mutamenti sofferti dal monumento ‘roffrediano’21 escludono di riconoscerne l’esatta perimetrazione, benché sul perduto sopperiscono in parte le rare fonti a disposizione. Queste certificano che sul finire del 1336, a breve distanza dalla scomparsa di Roffredo, l’insediamento ospitava di sicuro un cortile22. Restando alle vicende narrate sempre dalle medesime carte, il claustrum palatiorum comitis era evidentemente consacrato alle adunanze secondo la prassi di governo23, il che fa desumere – vagliando l’odierna planimetria (fig. 4) e la vicinanza al duomo – che la sua estensione doveva arrestarsi in corrispondenza con il prospetto interno del quattrocentesco braccio nord-occidentale, poiché allineato con lo spigolo meridionale della fronte del San Pietro. Per lo stesso versante della corte, parallelo alla dimora e confinante con la platea vescovile, torna per giunta utile un secondo documento. Risalente questa volta al 1432, in un passo vi si marca la prossimità della porta magna ipsius curie alla porta ecclesie Sancti Petri24. Ne discende che il portone si affacciava ancora a quella datata sullo pagina 9 Fig. 1 Rocca Caetani, Fondi. pagina a fronte Fig. 2 Palazzo Caetani, Fondi. Ala roffrediana. in alto Figg. 3-4 Palazzo Caetani, Fondi. Prospetto sud-est con sopravvivenze della cinta romana (da Di Fazio, Il circuito murario… cit., 2012). Planimetria del pianterreno (da Pesiri, Pistilli, Il Palazzo Caetani… cit., 2012). a lato Fig. 5 Palazzo Caetani a Capo di Bove, Roma. Planimetria (da Meogrossi, Cereghino, Tomba di Cecilia Metella… cit., 1986).

slargo in condominio con il duomo prima di essere trasferito lungo l’Appia causa l’avanzamento del palazzo, dilatazione che causò anche il parziale occultamento del prospetto della basilica. Circoscritti grossomodo i limiti del complesso originario e considerato il progressivo sviluppo ad ali, la sede comitale non era in principio circondata su ogni fronte da altrettanti corpi edilizi. Piuttosto, lunghi tratti del perimetro quadrangolo che a sud-est si agganciava alle mura urbane dovevano essere semplicemente recintati, qual era il lato che costeggiava la platea e servito dalla porta magna. Dimodoché l’azione di sottrarre il molto addizionato già nel corso del Trecento, fa riemergere il braccio su due livelli del più antico braccio palaziale. Custodita per intero nell’odierna compagine, l’ala sfruttava con un fianco l’opus incertum della cinta urbana, restando contigua al bastione di “porta de suso”25 (figg. 2, 3). Tuttavia a fissarne il riconoscimento sono le sue prerogative architettoniche, desunte sia dal sopravvissuto, sia dalle descrizioni dell’immobile tramandate dall’Inventarium del 1491 e, nel 1690, dall’Apprezzo della Camera regia26. Entrambe le fonti

Sulla civitas Caietana, insediatasi a cavallo dell’Appia incorporando il mausoleo di Cecilia Metella, si veda P. Delogu, Castelli e palazzi. La nobiltà duecentesca nel territorio laziale, in Roma Anno 1300, atti della IV settimana di studi (Roma, 1924 maggio 1980), a cura di A.M. Romanini, Roma 1983, pp. 707-717: 712-713; P. Meogrossi, R. Cereghino, Tomba di Cecilia Metella (circ. XI). 1. Restauri e indagini nell’area del castello Caetani, “Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma”, XCI, 1986, 2, pp. 601-607: 601-605; M. Righetti Tosti-Croce, L’architettura tra il 1254 e il 1308, in Roma nel Duecento. L’arte nella città dei papi da Innocenzo III a Bonifacio VIII, a cura di A.M. Romanini, Torino 1991, pp. 73143: 117-126; R. Paris, La storia del monumento, in Via Appia. Il mausoleo di Cecilia Metella e il castrum Caetani, a cura di R. Paris, Milano 2000, pp. 5-25: 15-24; P. Procaccini, Il castrum Caetani: un mondo medievale all’ombra del mausoleo, in Via Appia… cit., pp. 45-63. Per le residenze nella Marittima, innalzate nella prima metà del Trecento, si rimanda a P.F. Pistilli, Arte e architettura nei domini Caetani della Marittima dal 1297 alla fine del XV secolo, in Bonifacio VIII i Caetani e la storia del Lazio, atti del convegno (Roma-Latina-Sermoneta, 30 novembre-2 dicembre 2000), a cura di R. Cerocchi, Roma 2004, pp. 81-116: 83-89. 9 Per una recente lettura dei masti baronali, vedi M.T. Gigliozzi, Dalla ‘torre di Federico II’ a Roma al mastio Annibaldi di Sermoneta: nuove proposte e riflessioni sul transito di modelli architettonici nell’Urbe e verso la Marittima, “Arte medievale”, IV s., IV, 2014, pp. 147-162. 10 Riguardo la progressiva ‘meridionalizzazione’ dei lignaggi romani entrati a far parte della nobiltà regnicola, si rinvia di nuovo a Carocci, Baroni di Roma… cit., p. 42. 11 Il Palazzo Caetani di Fondi. Cantiere di studi, a cura di G. Pesiri, P.F. Pistilli, Roma 2012. 12 P.F. Pistilli, Risiedere in città. I Caetani e la stratigrafia di un insediamento signorile tardomedievale, in Il Palazzo Caetani… cit., pp. 89-90. 13 Cfr. Il Palazzo Caetani… cit., e in particolare i saggi di J. Rossetti, L’addizione della rocca ovvero l’impronta angioina sotto Onorato I Caetani, pp. 112-147; A. Cuccaro, Da Cristoforo a Onorato II Caetani. La riformulazione durazzesca e aragonese del complesso palaziale, pp. 148-164 e F. Betti, Nuove acquisizioni e aggiornamenti critici sulle mensole lignee quattrocentesche del palazzo Caetani, pp. 167-192. 14 P.F. Pistilli, Castelli normanni e svevi in Terra di Lavoro. Insediamenti fortificati in un territorio di confine, San Casciano Val di Pesa 2003, p. 49, e inoltre Id., Risiedere in città… cit., pp. 90-96. 15 Demolita nel 1869, porta Napoli o del Castello era registrata nel tardo Medioevo pure come “porta de suso”, stando a G. Caetani, Regesta chartarum. Regesto delle pergamene dell’archivio Caetani, San Casciano Val di Pesa 1925-1932, IV, p. 187, e Id., Domus Caietana. Storia documentata della famiglia Caetani, I.2 (Medio Evo), San Casciano Val di Pesa 1927, p. 169. 16 Rossetti, L’addizione della rocca… cit., pp. 124-147. 17 C. Di Fazio, Il circuito murario romano di Fondi e i resti nel palazzo Caetani, in Il Palazzo Caetani… cit., pp. 15-41: 20-41. 18 Sulla dilatazione ad ali del palazzo, vedi Pistilli, Risiedere in città… cit. e Cuccaro, Da Cristoforo a Onorato II… cit. 19 Nel 31 agosto 1438, un atto descrive nel dettaglio l’area della dimora, sita “intus Fundis, iuxta ecclesiam Sancti Petri, iuxta menia civitatis ipsius, vias publicas et alios confines” (Caetani, Regesta chartarum… cit., IV, p. 187). 20 Vedute relative alla fronte duecentesca della San Pietro cos8

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tantiniana sono raccolte in R. Krautheimer, S. Corbett, A.K. Frazer, Corpus basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (IV-IX sec.), V, Città del Vaticano 1980, p. 229, fig. 201 e p. 235, fig. 211. 21 Una ricostruzioni degli eventi che causarono l’incendio della dimora il 24 dicembre 1798, si deve a G. Pesiri, Distruzione e ristrutturazione del palazzo del “Principe di Fondi”: gli “apprezzi” del 1812 e del 1840, in Il Palazzo Caetani…, cit., pp. 229-250. 22 Caetani, Regesta chartarum… cit., II, p. 106 (30 novembre 1336 e 2 dicembre 1336). 23 Pistilli, Risiedere in città… cit., p. 100. 24 Caetani, Regesta chartarum… cit., IV, p. 122 (10 aprile 1432); Pistilli, Risiedere in città… cit., pp. 98-99. 25 Sulle preesistenze romane, ancora Di Fazio, Il circuito murario… cit., pp. 20-41. 26 Inventarium Honorati Gaietani: l’inventario dei beni di Onorato II Gaetani d’Aragona, 1491-1493, trascrizione di C. Ramadori (1939), revisione critica, introduzione e aggiunte di S. Pollastri, Roma 2006, pp. 1-38; Apprezzo dello Stato di Fondi fatto dalla regia Camera nell’anno 1690, a cura di B. Angeloni, G. Pesiri, Firenze 2008, pp. 6-9. La funzionalità della residenza è stata restituita, analizzando e interpolando le due fonti, da G. Pesiri, Il palazzo Caetani a Fondi nel Quattrocento: prime indagini, in Scritti per Isa. Raccolta di studi offerti a Isa Lori Sanfilippo, a cura di A. Mazzon, Roma 2008, pp. 747-780, e Id., Per una storia del palazzo Caetani a Fondi tra XII e XVI secolo, in Il Palazzo Caetani… cit., pp. 42-87. 27 Id., Il palazzo Caetani… cit., pp. 755-756. La sala maior è così menzionata il 19 maggio 1456 (Caetani, Regesta chartarum… cit., V, p. 115, inoltre Pesiri, Per una storia… cit., pp. 75-77). Per la camera picta (ivi, pp. 83-84), se ne rinviene l’esistenza già l’11 ottobre 1369 (Caetani, Regesta chartarum… cit., II, pp. 305-306; inoltre Pesiri, Il palazzo Caetani… cit., pp. 769-770 e nota 68) e quindi il 18 ottobre 1380 quale sala picta (A. De Santis, Inventario delle pergamene, Velletri 1978, p. 57 n. 56), così come di una camera pincta informa il testamento di Colantonio Caetani del 6 maggio 1443 (Caetani, Regesta chartarum… cit., IV, p. 221). 28 Apprezzo… cit., p. 8 (cc. 3v-4r). 29 Le fotografie sono a corredo della pratica approntata dalla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio in previsione di un primo restauro dell’ala sud-orientale (Roma, Archivio storico della SBAP del Lazio, fasc. LT 6968, Fondi, Palazzo baronale o del Principe - Banca Popolare di Fondi, prot. 3158, 1 marzo 1977). 30 Rossetti, L’addizione della rocca… cit., pp. 114-122.

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riferiscono un quadro affidabile dell’assetto medievale. Ancora nel 1491 lo spazio a pianoterra era frazionato in due locali e la loro differente metratura si ripeteva nella soprastante sala maior con a capo la camera picta27 (fig. 4). Un ingresso concorreva all’accesso dal livello del cortile in posizione mediana, mentre un passaggio archiacuto collegava i vani interni, con il minore isolato dall’esterno, così come la ridotta luminosità ne garantiva un uso a magazzino tramite feritoie che foravano la parete sul claustrum. È comunque l’Apprezzo secentesco a illustrare in che modo si configurasse l’ossatura, quando afferma che il pianterreno possedeva un soffitto a travi e, nel mezzo, archi in muratura28. Pertanto, eliminando posticce tramezzature, ambedue gli ambienti erano intervallati da uno o più archi-diaframma. Va invece scartato che un identico sistema modulasse il livello nobile, raggiungibile da uno scalone prospettante all’interno della corte. Per certo la camera picta ne era sprovvista considerato che la stesura dei murali trecenteschi non lo segnala e l’osservazione è da estendere anche all’aula, ove le fiancate non palesano le impronte di un passato smantellamento. Per contro, recenti lavori di risanamento al pari di poche riprese storiche29, hanno evidenziato sulle muraglie della sala maior l’esistenza di un doppio registro di aperture,

composto in alto da feritoie a sguincio interno che accompagnavano ampi vani finestrati allocati alla quota pavimentale. Delle prime, accecate anche dai restauri di trent’anni fa, si è recuperato un esemplare nel sottotetto della camera da letto di Onorato II; gli altri, manomessi dal cantiere quattrocentesco, dovevano invece essere allestiti con bifore e provvisti di sedilia laterali. Sancita la primogenitura del palazzo baronale nell’ala sudorientale, la medesima anticipa pure interventi attribuibili a Roffredo dopo il 1319, ora coincidenti con il profondo ridisegnamento del coefficiente difensivo dell’abitato murato di Fondi30. Il fatto che nelle due carte del 1336 si parli nella stessa misura di palatiorum comitis sta forse a sottolineare che il Caetani si fece promotore in seguito di ulteriori miglioramenti tesi a espandere la dimora lungo il principale asse cittadino. D’altronde poche ma qualificate emergenze avvalorano che una tale iniziativa fu condotta in sintonia con la veste prototrecentesca e con la riconfigurazione dell’accesso urbano31, laddove è invece l’indagine stratigrafica a separare senza appello il prima dal dopo, individuando nella camera sopra il bastione della porta urbana il punto di addossamento dell’addizione, il che va a determinare del resto l’insolita planimetria del vano che, nel 1363, ospitava lo studium di Onorato I32 (fig. 4).


Figg. 6-7 Palazzo Caetani a Capo di Bove, Roma. Fronte sulla campagna e arco-diaframma a pianoterra dell’ala roffrediana (da Meogrossi, Cereghino, Tomba di Cecilia Metella… cit., 1986).

La sostanza del progetto e le residenze laziali Dunque, accantonato qualsivoglia giudizio sul prolungamento edilizio perché del tutto ininfluente ai nostri fini, si deve inevitabilmente tornare al braccio di stretta pertinenza roffrediana e, in assenza di prove documentali, è giocoforza che sia ancora il monumento a parlare. La sua confezione dimostra di possedere gli standard architettonici delle altre dimore la cui fondazione i Caetani avevano patrocinato dopo il 1301: con Pietro nella civitas Caietana sull’Appia (fig. 6) e, di lì a breve, pure entro le mura dell’Urbe con il cardinale Francesco presso la basilica di Santa Maria in Cosmedin, stando però ad antiche e recenti ricostruzioni33. Lasciata da parte la domus cardinalizia, tanto a Fondi, quanto nei sopravvissuti ruderi dell’Agro romano, si ravvisa che essi testarono in concomitanza un bagaglio progettuale e formale alquanto morigerato, di conseguenza efficace da riproporre in maniera quasi serializzata ovunque fosse stato necessario. Esso si fondava in primo luogo sull’adozione dell’impianto vuoi rettilineo vuoi a ‘elle’ del palazzo che, associato al cortile recintato, costruiva un complesso dalla configurazione compatta e quadrangola. Quindi, in alzato, i perimetrali sviluppavano semplici muraglie, ritagliate da un doppio registro di aperture – feritoie in basso e bifore al piano superiore – e rinsaldate a pianoterra da archi-diaframma a tutto sesto volti a sostenere i solai lignei e, per il palazzo di Capo di Bove, pure i tramezzi parietali del livello nobile (fig. 7). Se il riscontro di identici parametri vale come indicatore nel fissare la cronologia assoluta dell’impresa roffrediana agli anni iniziali del suo governo, la fortuna del modello travalica pure il primo lustro del Trecento. In risalita da Fondi lo si trova applicato con talune varianti di nuovo nei feudi della Marittima, da Sermoneta a San Felice Circeo, da Ninfa sino forse a Norma, con il precipuo compito di ri-

A Meridione dell’Urbe. Il palazzo comitale nei feudi Caetani agli inizi del Trecento Pio Francesco Pistilli

Pistilli, Risiedere in città… cit., pp. 106-108. Caetani, Regesta chartarum… cit., II, p. 215 (26 marzo 1363), mentre il 31 agosto 1438 si tramanda che la camera era “posita supra menia Fundorum, prope portam dicte civitatis, que dicitur la Porta de suso, et prope viridarium ipsius comitis” (ivi, IV, p. 187); inoltre Pesiri, Per una storia… cit., pp. 80-81 e Pistilli, Risiedere in città… cit., p. 98 e nota 32. 33 G.B. Giovenale, La basilica di S. Maria in Cosmedin, Roma 1927, pp. 406-419, tavv. LIV-LVI e J. Barclay Lloyd, The Medieval Church and Canonry of S. Clemente in Rome, Rome 1989, fig. 115. 34 Caetani, Regesta chartarum… cit., II, pp. 165 (30 ottobre 1354) e 201 (29 settembre 1360); inoltre Pistilli, Arte e architettura… cit., p. 88 e nota 31. 35 Sulla fondazione templare, si rinvia a P.F. Pistilli, Due tipologie insediative templari: la domus romana sull’Aventino e il locus fortificato di San Felice Circeo, in L’Ordine Templare nel Lazio meridionale, atti del convegno (Sabaudia, 21 ottobre 2000), a cura di C. Ciammaruconi, Casamari 2003, pp. 157-200: 174-179, e più di recente Gigliozzi, Dalla ‘torre di Federico II’… cit., pp. 157-158. Sull’operazione Caetani, a San Felice, rimasta forse incompiuta, vedi Pistilli, Arte e architettura… cit., pp. 84-85. A dispetto di quanto asserito in passato dallo scrivente, va corretta la datazione dai primi del Trecento al secondo decennio del secolo, il che vale per la rocca del Circeo ma soprattutto per l’intervento di Roffredo a Sermoneta. 36 Ivi, pp. 86-89. 31

generare fabbriche ormai datate sotto l’assetto tipologico e per certo non più all’altezza quali sedi di rappresentanza del potere comitale. Perduto da tempo il palatium rocce castri a Norma34, l’evergetismo dei Caetani investì prima del 1324 il maniero Annibaldi di Sermoneta e il locus già templare di San Felice35, poi la rocca di Ninfa, dove l’impianto a ‘elle’ della residenza fu accolto nella corte quadrilatera di un più antico fortilizio entro la metà del secolo36 (fig. 9). Ma rispetto a Ninfa è in particolare il caso sermonetano a caricarsi di valore aggiunto, dal momento che è ancora Roffredo a riproporlo a distanza di un ventennio dal palazzo di Fondi, superata la profonda crisi incorsa dalla casata all’indomani della morte di Bonifacio VIII. Qui, più che nella ‘incompiuta’ magione di San Felice, ri-

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Ivi, pp. 83-84. Sulla nascita di un idioma locale improntato su un formulario gotico di matrice cistercense, si rinvia a P.F. Pistilli, Influenze dell’architettura cistercense nell’edilizia urbana della Marittima, in Il monachesimo cistercense nella Marittima medievale. Storia e arte, atti del convegno (Fossanova, Valvisciolo, 24-25 settembre 1999), Casamari 2002, pp. 299-324. 39 Caetani, Regesta chartarum… cit., II, p. 40 (11 ottobre 1324), e inoltre Pistilli, Risiedere in città… cit., p. 104 e nota 54. 40 Riguardo gli affreschi trecenteschi e le loro istanze iconografiche, si veda M. D’Onofrio, I murali della camera picta nel Palazzo Caetani, in Fondi nel Medioevo, atti del convegno internazionale (Fondi, 17-18 ottobre 2013), a cura di M. Gianandrea, M. D’Onofrio, in corso di stampa, e in precedenza F. Savelli, Ricerche preliminari per uno studio sulle pitture del Palazzo Caetani, in Il Palazzo Caetani… cit., pp. 193-210. 37

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sulta emblematica la voluta contrapposizione fisica tra masti baronali e dimore trecentesche, allorché aggiunse un braccio edilizio su due piani a lato del baluardo Annibaldi37 (fig. 10). Pur omologato al torrione tardoduecentesco per l’impiego in chiave romana dell’opera saracinesca, è l’allestimento degli archi-diaframma dal disegno gotico – che a Sermoneta raggiungevano l’incastellatura del tetto – a far virare il cantiere verso soluzioni incamerate dal territorio pontino già alla metà del XIII secolo, quando la realtà cistercense le aveva praticate nel refettorio abbaziale, come nell’infermeria di Fossanova38. Per quanto calata nella realtà locale, l’ala roffrediana continuava comunque a certificare per al-

tre vie la sua dipendenza dalla dimora di Fondi e in particolare attraverso un duplice ordine di motivi, funzionali e distributivi. A sostegno del

Figg. 8-9 Rocca Caetani, Ninfa. Testata del palazzo e planimetria (da Pistilli, Arte e architettura… cit., 2004). Fig. 10 Castello Caetani, Sermoneta. Planimetria con il Mastio Annibaldi: 1. Mastio Annibaldi: camera majori picta, in capite sale magne 2. Palatium di Roffredo Caetani: sala magna o “sala dei baroni” 3. Palatium di Roffredo Caetani: anticamera pagina a fronte Fig. 11 Palazzo Caetani a Capo di Bove, Roma

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primo interviene un documento del 1324 che descrive il piano nobile composto da una “camera maiorj picta, in capite sale magne”39, ovvero la cosiddetta ‘sala dei baroni’. Riguardo all’aspetto distributivo, l’aula era accompagnata su entrambe le testate da altrettanti vani. Oltre alla citata camera maior, vi era un locale di più modeste dimensioni, contestuale alla fabbrica del Caetani. Tenendo in disparte la camera maior in quanto ricavata nel mastio Annibaldi, il corpo edilizio trecentesco riproponeva in maniera palmare la sistemazione della magione fondana, dove l’assenza di una struttura più antica aveva fatto inevitabilmente convergere nell’unica stanza a disposizione, la camera picta, compiti molteplici tra cui quelli di governo40.


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Un eventuale antefatto Viene così spontaneo interrogarsi sulle origini di una siffatta tipologia di residenza signorile. A Roma, come nei centri baronali del Lazio al confine con il Regno, essa non è attestata prima dell’anno 1300. Anzi, è proprio la casata anagnina a introdurla dapprima nell’Agro romano per sublimarla nella dimora di Capo di Bove (figg. 6, 11), ma in un momento successivo all’elevazione di Roffredo III a conte di Fondi. Se ciò apre uno spiraglio per un dibattito sul primato temporale tra i palazzi di Fondi e di Capo di Bove, a favore del primo gioca il fatto che la sua formulazione si configuri perfettamente regolata alle esigenze di un potere feudale ora insediato in una realtà urbana, segnale che il Caetani aveva adoperato uno schema già codificato. Senza scomodare modelli più elevati che nella seconda metà del XIII secolo erano comunque in via di affermazione, come sono le residenze pontificie per l’Italia centrale, è nel regno angioino che va cercato l’esemplare da cui entrambe derivano, dopo essere stata voltata la pagina della stagione sveva. E nella fattispecie, credo si possa ravvisare nelle dirette committenze della Corona che, ancor prima di Fondi, aveva investito i familiari di Bonifacio VIII della contea di Caserta. Ben due palazzi regi, risalenti agli anni Settanta del XIII secolo ma da tempo perduti, registrano nella consueta ricchezza dei mandati della cancelleria requisiti logistici, dimensionali e architettonici pressoché sovrapponibili al mo-

numento fondano. Si tratta delle residenze di Mola e di Petrolla (l’attuale Villanova di Ostuni), cittadine murate di forma quadrangola, fondate da Carlo I d’Angiò dal 1277 sul litorale pugliese e i cui lavori erano sovrintesi dai prothomagistri Pierre de Angicourt e Jean de Toul41. Nella somma delle informazioni42, si apprende che entrambi i complessi rettilinei erano impostati con un fianco sopra la cinta e ubicati nelle vicinanze della porta di accesso. Edificati su due piani suddivisi da impalcati lignei, il pianterreno non è mai descritto perché a uso magazzino e dunque del tutto marginale agli interessi del sovrano. Diversamente si verifica per il livello soprastante. Raggiungibile tramite una rampa esterna, le disposizioni di Carlo I per la zona residenziale, e nello specifico per la domus di Petrolla, sono piuttosto minuziose fin nel computo delle singole parti e ricalcano nell’assetto il piano nobile della committenza di Roffredo. Vi trovano posto due ambienti affiancati, una camera e una sala di rappresentanza con camino e tre finestre su ogni lato lungo, vale a dire coppie di bifore e trifore munite di sedili. Ma la quadratura del cerchio è offerta da un mandato dell’estate del 1280, questa volta destinato al cantiere di Mola, ormai in via di ultimazione, allorché si intimava di dotare il palacium della cisterna prevista e soprattutto restava ancora da realizzare “murus pro curti cum porta una introytus eiusdem curti in eodem muro”43.

41 Sul ruolo avuto dai capimastri angioini nelle due fondazioni pugliesi, vedi P.F. Pistilli, Architetti oltremontani al servizio di Carlo I d’Angiò nel Regno di Sicilia, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca. Costruire, scolpire, dipingere, decorare, atti del convegno (Firenze, 7-10 marzo 2006), a cura di V. Franchetti Pardo, Roma 2007, pp. 263-276: 264. 42 Relativamente ai documenti si rinvia a E. Sthamer, Dokumente zur Geschichte der Kastellbauten Kaiser Friedrichs II und Karls I von Anjou, II (Apulien und Basilicata), Leipzig 1926: per la dimora di Mola, pp. 69-71, docc. 776 (19 gennaio 1279) e 778 (14 febbraio 1279), p. 29, doc. 620 (21 marzo 1279) e pp. 72-73 doc. 788 (30 maggio 1279); per la residenza di Petrolla, pp. 149-150, docc. 986 (19 gennaio 1279), 987 (14 febbraio) e doc. 989 (20 marzo 1279) e p. 38, doc. 642 (13 luglio 1280). 43 Ivi, p. 38, doc. 642 (13 luglio 1280).

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Marco Frati

Alle soglie della villa fiorentina: l’architettura delle dimore rurali nel Trecento This contribution attempts to quantitatively and qualitatively analyse the phenomenon of the extra-urban residences in the region around Florence, which was a precursor of the later, much more widely known and formally recognised phenomenon of the renaissance villa. Proceeding backwards in time, the first step will be that of evaluating the persistence of the structures of medieval residences during the first modern era (15th-16th centuries); after which an attempt will be made to make a comprehensive overview of the phenomenon through the analysis of historical documents and regional samples which may provide statistical information and quantitative projections. An effort will be made as well to outline the innovative elements that characterise Florentine country residences, extricating meaning from the terminological difficulties created by the documentation and by the various typologies proposed by historiography, drawing from specific cases that can be examined and attempting to determine their compositive and symbolic worth. Introduzione: uno sguardo regressivo Nel terzo quarto del Quattrocento l’immagine della villa rinascimentale sembra essere già codificata: prova eloquente ne è la celebre Annunciazione degli Uffizi attribuita a Leonardo da Vinci (fig. 2). Al di là del suo contenuto, della sua datazione, delle sue anomalie compositive e della sua originale collocazione che tanto hanno occupato la critica1, la splendida tavola propone alle spalle della Vergine un’architettura chiaramente rurale e signorile. Il rapporto fra lo spazio costruito dall’uomo e quello creato dalla natura è estetizzante, essendo il paesaggio dominato2 dall’alto di un giardino pensile direttamente comunicante con la camera da letto, luogo delle meditazioni di Maria, ma separato dal sottostante pianoro attraverso un basso muricciolo; il blocco edilizio si presenta inquadrato da uno o più elementi sporgenti (forse turriformi) che donano concavità e inclusività al volume complessivo dell’edificio; gli elementi architettonici (le ampie aperture) e le finiture (le elaborate modanature e il rivestimento a intonaco) alludono alla dignità palaziale e al comfort informale della residenza del signore in campagna; la rigida geometria segnata agli spigoli da cantonali bugnati conferisce un tono nobiliarmente militaresco. Tutte caratteristiche messe a punto nella prassi da Michelozzo nei decenni precedenti3 ma non ancora recepite nella descrizione della campagna dagli altri pittori4. Le residenze medicee di Trebbio, Cafaggiolo e Careggi, prima che le teorie di Alberti fossero sustanziate a Quaracchi,

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Fiesole e Poggio a Caiano, fanno da snodo tra il tipo della villa rinascimentale – in realtà assai vario e articolato – e le precedenti esperienze in area fiorentina. Con questo contributo si cerca di restituire in termini quantitativi e qualitativi la consistenza materiale del fenomeno delle dimore extraurbane nel territorio di Firenze che – insieme a pochi altri – ha fatto da precedente a quello ben più noto e formalmente riconosciuto della/e villa/e rinascimentale/i. Procedendo in modo regressivo, si tenterà innanzitutto di valutare la persistenza delle strutture delle dimore medievali nella prima età moderna (XV-XVI secoli); successivamente, di dare uno sguardo complessivo al fenomeno attraverso documenti storici o campioni territoriali che possano fornire statistiche e proiezioni quantitative. Districandosi fra le difficoltà terminologiche poste dalla documentazione e dalle diverse tipologie proposte dalla storiografia (medievistica e architettonica), si proverà a delineare i caratteri innovativi che definiscono le dimore fiorentine di campagna, cercando di comprenderne la valenza compositiva e simbolica, per poi riconoscerli nella prassi e nella teoria rinascimentali. Ciò al fine di verificare il paradigma convenzionale per cui solo la villa rinascimentale possiede una forma matura e “non esistono più ville del XIV secolo”5. A priori: il fenomeno (persistenti preesistenze) Le nitide scelte formali dei progettisti rinascimentali – è noto – furono assai condizionate

dalle preesistenze medievali, rintracciate e rintracciabili in innumerevoli casi di ville quattro-cinquecentesche del territorio fiorentino, fra cui le stesse residenze medicee6. Una dimensione quantitativa del fenomeno è offerta da studi sistematici sulle ville fiorentine che permettono di elaborare impressionanti statistiche. Per fare un esempio, comunque altamente significativo, nel territorio comunale della città7 sono state schedate 468 ville (fig.3), fra cui 298 realizzate su strutture risalenti entro il 1600 (il 64%). Delle 468 ville, 221 hanno ancora forme databili entro quell’anno (il 47%): di queste, 15 hanno caratteri pienamente medievali (databili al XIII o al XIV secolo: il 7%) mentre il resto presenta forme moderne (riferibili al XV-XVI secolo: il 93%). Fra queste ultime (206) ben 37 mostrano tracce di precedenti fasi medievali (il 18%, ovvero il 17% delle 221). Questa prima fascia suburbana corrisponde grosso modo a quella corona larga tre miglia dalle mura che già Giovanni Villani indicava come fittamente punteggiata da ‘palagi’ nel quarto decennio del Trecento8. In essa, dunque, quasi un quarto delle dimore rurali sopravvissute ha, almeno in parte, consistenza di età medievale. Se poi si sottopone una porzione di quel territorio ad un’analisi più minuziosa9, si scoprono altre emergenze prerinascimentali che ne aumentano il tasso di resistenza. Ciò sta a significare una lunga coesistenza delle vecchie fabbriche con le nuove, con le prime a condizionare nella forma e nella sostanza le seconde.


Alle soglie della villa fiorentina: l’architettura delle dimore rurali nel Trecento Marco Frati

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pagina 17 Fig. 1 Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo, 1338 ca. (Siena, Palazzo Pubblico). Dettaglio con l’allegoria della Sicurezza a lato Fig. 2 Leonardo da Vinci, Annunciazione (dettaglio), 1470 ca. (Firenze, Uffizi) pagina a fronte Fig. 3 Comune di Firenze. Localizzazione delle ville nel XX secolo (da Zangheri, Ville… cit., 1989)

Da ultimi, si vedano: L’Annunciazione di Leonardo: la montagna sul mare, a cura di A. Natali, Cinisello Balsamo 2000; M. Landrus, Leonardo’s ‘Annunciation hortus conclusus’ and its reflexive intent, in Gardens and the passion for the infinite, a cura di A.T. Tymieniecka, Dordrecht 2003, pp. 25-46; A. Cottignoli, Dichiarazione d’amore: il vero significato dell’Annunciazione di Leonardo da Vinci, Ravenna 2006; F. Manenti Valli, Il comporre armonico nella tavola dell’Annunciazione, Cinisello Balsamo 2012. Sull’uso della pittura di paesaggio come documento per la storia del territorio: A. Rinaldi, La formazione dell’immagine urbana tra XIV e XV secolo, in D’une ville à l’autre. Structures matérielles et organisation de l’espace dans les villes européennes (XIIIe-XVIe siècle), actes du colloque (Rome, 1-4 décembre 1986), Rome 1989, pp. 773-811. 2 Per la villa come architettura di dominazione: R. Bentmann, M. Müller, Villa als Herrschaftsarchitektur, in Kunst 18711918, a cura di H.E. Mittig, C. Plagemann, V. Plagemann, Köln 1970, pp. 1-31. 3 M. Gori Sassoli, Michelozzo e l’architettura di villa nel primo Rinascimento, “Storia dell’Arte”, XXIII, 1975, pp. 5-51; M. Ferrara, F. Quinterio, Michelozzo di Bartolomeo, Firenze 1984, pp. 73-81; J.S. Ackerman, The villa: form and ideology of country houses, London 1990, trad. it. La villa: forma e ideologia, Torino 2000, pp. 82-120; Michelozzo: scultore e architetto (1396-1472), a cura di G. Morolli, Firenze 1998: in particolare, pp. 73-87. 4 Va notato che gli altri edifici descritti nell’Annunciazione appartengono tutti alla città portuale dello sfondo. I noti paesaggi di Benozzo, Verrocchio, Bellini e Mantegna, tanto per citare maestri della generazione precedente ma ancora attivi intorno agli anni Settanta del Quattrocento (a quando cioè comunemente si ritiene databile la nostra tavola) insistono, piuttosto, sull’aspetto militare delle strutture rurali. Un confronto stringente si può invece avanzare con l’Annunciazione del Louvre, la cui paternità è contesa a Leonardo dal condiscepolo Lorenzo di Credi. 5 Ackerman, La villa… cit., p. 84. 6 Sicuramente costruite inglobando preesistenze medievali sono le ville di Cafaggiolo, Careggi, Castello, Cerreto Guidi, Lappeggi, Marignolle, Montevettolini, Petraia, Poggio a Caiano, Poggio Imperiale, Trebbio: si vedano le relative schede di Lisa Leonelli, Anna Maria Di Pede, Pamela Zanieri, Barbara Bargilli, Francesca Martusciello, Daniele Simonelli, Emanuele Zappasodi, Lucia Soldi, Catia Desantis e Monica Paggetta, in M. Frati, Le residenze della Corona di Toscana: un sistema territoriale dai Medici ai Savoia, in corso di stampa. Nel frattempo, si veda I. Lapi Ballerini, Le ville medicee: guida completa, Firenze 2003. 7 L. Zangheri, Ville della provincia di Firenze. La città, Milano 1989, pp. 466-482. Per quanto datata e superata da studi monografici e interventi di restauro, questa rimane l’unica ricognizione sistematica e completa delle ‘ville fiorentine’. Il processo di recupero di molti edifici e di privatizzazione del loro intorno rende oggi meno agevole la ricerca. 8 “Ma·ssi magnifica cosa era a vedere, ch’uno forestiere non usato venendo di fuori, i più credeano per li ricchi edifici d’intorno a tre miglia che tutto fosse della città al modo di Roma, sanza i ricchi palagi, torri e cortili, giardini murati più di lungi alla città, che inn-altre contrade sarebbono chiamati castella. In somma si stimava che intorno alla città VI miglia avea più d’abituri ricchi e nobili che recandoli insieme due Firenze non avrebbono tante”: G. Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Parma 1991, III, pp. 201-202 (lib. XII, rub. XCIV), per il passo; P. Pirillo, Torri, fortilizi e «palagi in fortezza» nelle campagne fiorentine (secoli XIV-XV), in Motte, torri e caseforti nelle campagne medievali (secoli XII-XV). Omaggio ad Aldo A. Settia, atti del convegno (Cherasco, 23-25 settembre 2005), a cura di R. Comba, F. Panero, G. Pinto, Cherasco 2007, pp. 241-254: 241-243, 246-247, per la più recente interpretazione. 1

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Per ricostruire quantitativamente l’incidenza delle dimore signorili sul paesaggio fiorentino si può fare affidamento su alcuni documenti sistematici, che però purtroppo non si possono sovrapporre e confrontare puntualmente, data la loro diversa natura. Essi, comunque, consentono di verificare la tenuta del tipo e ipotizzare il momento originario con metodo regressivo10. Una fonte ben nota è il Catasto fiorentino (dal 1427), che, se fosse fruibile attraverso database interrogabili11, permetterebbe di ricostruire lo stato precedente l’ideazione (Michelozzo) e la teorizzazione (Alberti) del tipo della villa rinascimentale. Già ben più di un secolo fa Guido Carocci si era ampiamente servito delle dichiarazioni dei redditi (portate) dei cittadini fiorentini per rintracciare le origini di moltissime ville esistenti nei dintorni di Firenze a nord e a sud dell’Arno12. Anche ricerche su altri brani di territorio circostanti la città si sono concentrate, fra le altre fonti, sul Catasto con una certa sistematicità13. Una indagine capillare, guidata da Italo Moretti e condotta da Andrea Celletti, copre l’intero territorio comunale di Bagno a Ripoli14, dove sono stati schedati ben 101 edifici civili medievali affidandosi proprio alle portate. Questo elenco deve ridursi a 97 casi, escludendo ospedali e siti produttivi o ad ancora meno (78) limitando l’analisi ai soli abituri presentati al Catasto come ‘case da signore’ (63), ‘palagi’ (12) e ‘fortezze’ (3). Che questi termini non abbiano poi un significato preciso lo mostra proprio il confronto con la variabilissima realtà materiale dei relativi

manufatti (assai trasfigurati e tutti ancora da capire nella stratigrafia relativa e assoluta). Ciò che resta fermo sembra proprio l’uso di dimora signorile di questi edifici, la cui complessità è assai varia. Proiettando questo dato sull’area che abbiamo preso in esame (le sei miglia) di cui Ripoli è certamente uno dei settori più ricchi di edifici medievali, possiamo immaginare le centinaia di “bellissimi orti e giardini con abitazioni di casamenti e palagi spessi che pare il contado tutta una città; che a pigliare tutte le belle ville, cioè palazzi de’ cittadini, che sono intorno a Firenze a dieci miglia, si farebbe due altre Firenze” come ebbe ad esprimersi Gregorio Dati intorno al 1400, riprendendo tanto il giudizio quanto l’espressione del Villani di mezzo secolo prima15. Ma per avere un’idea più precisa del fenomeno nella sua interezza, è necessaria una ricognizione più capillare delle fonti documentarie (innanzitutto il Catasto) e materiali (andando a fondo nell’analisi delle fasi costruttive). Retrocedendo in senso cronologico, un altro documento si offre alle riflessioni dello storico del paesaggio: la ricognizione delle fortezze private sparse in tutto il contado fiorentino nella primavera del 140916. La Repubblica aveva obbligato i proprietari di “tenute seu fortilia” a denunciarne il possesso e assumersi la responsabilità della difesa, depositando una fideiussione di 2000 fiorini per ogni struttura. I 94 fortilitia (non altrimenti specificati), le 12 turres, i 6 castra, i 4 palatia, l’unica roccha e l’unico campanile denunciati17 erano posseduti da 88 famiglie, per lo più fioren-


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tine, da 19 comunità di contado e 2 enti religiosi. Si tratta di una statistica parziale, perché l’elenco non contempla tutte le dimore signorili ma solo gli apparati difensivi privati, collocati soprattutto ai confini del territorio (Mugello, Chianti) anche se non mancano casi entro il raggio delle sei miglia: almeno 22 su 117 (ma non tutti i siti sono identificabili). Fra questi uno solo è definito palazzo18, tre sono torri19, gli altri 18 appaiono come generici fortilizi20. Ma la terminologia utilizzata, alquanto piatta e talvolta confusa21, non aiuta a costruire una tipologia. L’urgenza militare – finalità del documento – impedisce una chiara distinzione fra manufatti di diversa complessità e dimensione, che dagli ufficiali sono percepiti come nodi equivalenti dell’unica rete difensiva che copre il territorio (da qui l’identica cifra versata da ciascun detentore). È

significativo che questi fortilizi solo diciotto anni dopo fossero considerati in modo assai più vario. Incrociando – dove possibile – l’elenco del 1409 con il Catasto del 1427 si nota una certa discrepanza fra i termini: la fortezza dei Milanese a Castello è poi detta “palagio con orto murato e cortili e vivai”22; ‘casa da signore’ quella dei Cioni a Carmignanello, detta ora Torre di Baracca (fig. 9)23; la fortezza dei Sinibaldi a Lappeggi appare come una “chasa da signore”24; la fortezza di Sandro Biliotti alla Torre di Settimo (l’attuale Palazzaccio a Granatieri, già ricetto del popolo della pieve) è dichiarata come “casa da signore con torre e i quattro canti di detta fortezza” cioè dotata di un recinto turrito agli angoli25; la fortezza dei Peruzzi alle Corti è detta casa con palagio26; la fortezza dei Cavalcanti a Bellosguardo è portata come castello27; la ‘fortezza’ dei Bartoli

“La misura delle miglia del contado di Firenze si prendono ed è loro termine de le V sestora che sono di qua da l’Arno a la chiesa, overo Duomo, di Santo Giovanni; e del contado di là dal fiume d’Arno si prendono alla coscia del ponte Vecchio di qua da l’Arno dal piliere dov’è la figura di Mars. E questa fue l’antica consuetudine de’ Fiorentini; e il migliaio si fu mille passini, che ogni passino si è tre braccia a la nostra misura”: Villani, Nuova… cit., I, p. 217 (lib. V, rub. XXXIII), per la misura delle sei miglia, che corrispondevano a due semicerchi del raggio di 10,5 Km con centri nel Battistero e nella spalla destra di Ponte Vecchio. 9 Cfr. G. Gobbi Sica, La villa fiorentina. Elementi storici e critici per una lettura, Firenze 1991, che prende in considerazione il territorio di Castello-Quinto, a cavallo del confine fra Firenze e Sesto Fiorentino, leggermente più a nord della Zona 1 analizzata da Zangheri, Ville… cit., pp. 216-244. Su 54 ville schedate dalla prima, 34 trovano posto anche nel repertorio curato dal secondo, comprendente nello stesso territorio 52 edifici di cui solo 4 (l’8%) mostrerebbero tracce medievali. Per almeno 5 di questi 34 (il 15%) sono documentabili importanti fasi prerinascimentali (Gobbi Sica, La villa… cit., pp. 157, 160, 172, 184, 212): un dato che raddoppia le potenzialità della ricerca su tutto il territorio comunale. 10 Sul tipo delle fortificazioni isolate e a scala territoriale: E. Lusso, Torri e colombaie nel Monferrato dei secoli XV-XVI. Il contributo delle fonti iconografiche e documentarie alla conoscenza della diffusione dei modelli architettonici, in Motte, torri… cit., pp. 87-124; M.E. Cortese, Palazzi, fortilizi, torri: prime linee di ricerca sulle fortificazioni rurali ‘minori’ nel territorio senese, in ivi, pp. 255-278.

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Un tentativo in questo senso è stato condotto da Christiane Klapisch-Zuber e David Herlihy ma senza indicizzare i tipi edilizi: http://cds.library.brown.edu/projects/catasto/overview.html. Un simile sforzo esula dagli obiettivi di questa ricerca ma darebbe ottimi frutti, come già sperimentato su piccoli campioni territoriali: cfr., ad esempio, G.C. Romby, Il castello di Montevettolini tra Medioevo ed età moderna, secc. XIV-XV, in Il castello di Montevettolini in Valdinievole. Insediamento, popolazione, vita civile tra medioevo ed età moderna, a cura di G.C. Romby, Ospedaletto 2010, pp. 25-76: 42-76. 12 La ricerca, condotta nell’ultimo quarto dell’Ottocento, fu poi più volte perfezionata per l’ultima e definitiva edizione di G. Carocci, I dintorni di Firenze, Firenze 1906-1907. Su questo ricco e agile testo si basano più recenti repertori, come quello di Zangheri, Ville… cit., per il comune di Firenze. 13 D. Lamberini, L. Lazzareschi, Campi Bisenzio. Documenti per la storia del territorio, Firenze 1982, pp. 187332, per il comune di Campi Bisenzio; Gobbi Sica, La villa… cit., per una porzione del comune di Sesto Fiorentino. 14 A. Celletti, “Case da signore” del Medioevo: il territorio di Bagno a Ripoli, tesi di laurea, Università degli studi di Siena, 1995-1996; I. Moretti, Il paesaggio delle «case da signore», in Alle porte di Firenze cit., pp. 163-174: 171, nn. 30-32; A. Celletti, Bagno a Ripoli. Architettura civile, in Medioevo nelle colline a sud di Firenze, Firenze 2000, pp. 84-127. 15 G. Dati, L’Istoria di Firenze dal 1380 al 1405, a cura di L. Pratesi, Norcia 1904, p. 119. È evidente il calco dal Villani. 16 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, cc. 48r-82v, indicato da G. Antonelli, La magistratura degli Otto di Guardia a Firenze, “Archivio Storico Italiano”, CXII, 1954, 402, pp. 3-39: 11; P. Pirillo, La diffusione della “casa forte” nelle campagne fiorentine del basso medioevo, in La società fiorentina nel basso medioevo, a cura di R. Ninci, Roma 1995, pp. 169-198. Devo rinunciare per motivi di spazio alla mia seppur parziale trascrizione, e rimandarne i confronti materiali ad altra occasione. 17 Questi dati differiscono leggermente da quelli riportati da P. 11

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a Poggio a Luco appare ancora degna di tale nome28. In qualche raro caso il cambiamento di appellativo corrisponde a vere modifiche edilizie, come per la ‘torre’ degli Antellesi al Palazzaccio a Marcignano, trasformata in ‘torre con fortezza’ precocemente rinascimentale dai Rinuccini entro il 143429. Un utile confronto è offerto dalla situazione senese. Al 1377-79 risale un doppio elenco di oltre 110 castra et fortilitia diffidati dall’accogliere sbanditi30. A Siena – come a Firenze nel 1409 – per fortilitia s’intendono castelli declassati o nuove strutture fortificate private, il cui termine fortilitium si trova affiancato anche da palatium o da turris e specificato con il nome dei proprietari (spesso magnati cittadini)31. Andando indietro di più di mezzo secolo, troviamo la Tavola delle Possessioni del 1318-20. Questo antico documento catastale di Siena, che cita 75 fortezze private32 offre un altro importante termine di confronto con la situazione fiorentina. Qui il termine fortilitium indica un castello privato (chiaro nell’endiadi con cassero, arce, rocca, castella-

re) di cui i proprietari possiedono tanto l’edificio abitativo (cassero, rocca, palazzo) quanto il complesso di opere difensive (fortezza)33. Nello stesso documento il termine palatium identifica edifici castrensi o periurbani dall’aspetto fortificato (torri, recinti, merli) ma dalla consistenza poco resistente (mura basse e poco spesse, assenza di apparato sporgente), di proprietà di cittadini e circondati da strutture per la produzione agricola34. In una parola, delle ville, come quella che Ambrogio Lorenzetti mostra nella celeberrima Allegoria del Buongoverno (1338-1339), accessibile da un portale con tettoia e per un criptoportico (fig.1), articolata in volumi puri anche turriformi coronati da merletti e bucati da ampie e regolari aperture, circondata da cancellate e siepi, dotata di un giardino pensile con pergolato che guarda a valle. Un interessante caso trasversale è fornito dal castello di Strozzavolpe, situato nella curia di Poggibonsi al confine fra Siena e Firenze35 (fig. 4). Esso compare nel 1409 fra le fortezze fiorentine di proprietà degli Adimari36 ai quali era


Fig. 4 Castello di Strozzavolpe, Poggibonsi Fig. 5 Diocesi di Fiesole e Firenze. Organizzazione in pivieri nel XIV secolo (da Pirillo, Forme… cit., I, 2005). Il tratto più spesso delimita le corone delle 3 e delle 6 miglia

giunto per metà nel 1381 dai Firidolfi (ribelli espropriati) come “castello e fortilizio”37 e per l’altra metà dai senesi antiviscontei Malavolti, essendo andato in eredità alle figlie di Benuccio Salimbeni, morto nel 1331. È probabilmente al ricco e potente senese che se ne deve la trasformazione a “castello e fortezza” nelle dimensioni attuali, già registrata nella Tavola. Ciò dimostra non soltanto la persistenza del termine ‘fortezza’ nel corso di tutto il Trecento ma anche la sua corrispondenza a un’identica realtà, tanto nel vocabolario senese quanto in quello fiorentino. Per la prima metà del Trecento disponiamo di un’ingente quantità di informazioni grazie alle ricerche di Paolo Pirillo38 (fig. 5), che permettono una verifica quasi puntuale della febbrile attività edilizia frutto della mania per le ville descritta da Villani39. Nei pivieri entro sei miglia dalle mura si sono presi in considerazione complessi dotati di funzioni esplicitamente signorili (65 palazzi, 31 case da signore, 54 giardini) o che indirettamente possono essere ricondotte a un uso padronale (5 interi castellari, 1 torre abitabile, 27 case alte, 30 case grandi, 6 casamenti, 1 casa con terrazzo, 52 case con logge, 11 case con portici)40; più incerta è l’attribuzione di funzioni signorili a 95 edifici turriformi e ad altri 16 residenziali (ma non da lavoratore), espunti dalla statistica. Con quale distribuzione si presenta la documentazione? Anche qui occorre procedere con alcune semplificazioni discrezionali che – il lettore ci concederà – nulla tolgono alla lettura complessiva del fenomeno. Per prima cosa si è fatto corrispondere il territorio delle tre miglia ai popoli extraurbani del piviere del Bel San Giovanni e l’ulteriore corona di tre miglia ai circostanti pivieri (da nord in senso orario) di Santo Stefano in Pane, Sant’Andrea a Cercina, San Romolo a Fiesole, San Giovanni a Remole, San Donnino a Villamagna, San Pietro a Ripoli, Santa Maria all’Antella, Santa Maria all’Impru-

neta, Sant’Alessandro a Giogoli, San Giuliano a Settimo, San Martino a Brozzi, San Martino a Sesto. La superficie delle due zone si è calcolata assumendo convenzionalmente valori simbolici che non si discostano molto dalla realtà dei confini suddetti: un miglio di raggio per la città, tre miglia per la prima corona circolare (47,10 miglia quadre = 128,70 Kmq), altre tre per la seconda (103,62 miglia quadre = 283,13 Kmq). Il rapporto fra le due aree risulta così poco più del doppio della superficie (2,21). Infine, si sono compensati i pochi documenti che contengono più citazioni con i rari edifici menzionati più volte. Considerando ora i tipi offerti dalla terminologia dei documenti (per lo più atti privati di compravendita o locazione), si nota la seguente distribuzione di immobili sicuramente non adibiti alla produzione agricola. Dei cosiddetti ‘palazzi’ (palagi, palatia, …) ne compaiono 23 entro le tre miglia, pari al 42% del totale e a una densità di un edificio ogni 5,56 Kmq, e 32 entro le 6 miglia, pari al 58% e alla densità di 1/11,30. Le case da signore sono presenti in soli 5 casi nella prima corona, pari al 16% e alla densità di 1/25,80, e 16 nella seconda, corrispondenti all’84% e a 1/10,88. Di giardini ne compaiono 16 entro le tre miglia, per il 30% del totale e una densità di 1/8,06, e 38 nelle ulteriori tre, pari al 70% e una densità di 1/7,45. Per quanto approssimativi siano i dati di partenza, questi calcoli mostrano in modo molto chiaro alcune fattispecie. I ‘palazzi’ della fascia periurbana sono doppiamente densi che in quella suc-

Pirillo, Costruzione di un contado: i fiorentini e il loro territorio nel Basso Medioevo, Firenze 2001, p. 167. 18 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 48v. 19 Ivi, cc. 49r, 55v, 61r. 20 Ivi, cc. 50r, 50v, 51v, 54r, 56r, 59v, 60v, 61v, 62r, 62v, 70v, 76r, 77v. 21 I possedimenti sono definiti in alcuni casi “casserum seu turrim” (ivi, c. 71r), “castrum seu fortilitium” (ivi, c. 48v), “fortilitiam seu palatium” (ivi, c. 82v), “fortilitiam sive turrim” (ivi, c. 49r), “roccham seu fortilitiam” (ivi, c. 51r), “turrim sive fortilitiam turris” (ivi, c. 67r), “turrim sive fortilitiam” (ivi, cc. 50v, 51r). 22 Ivi, c. 50v; C. Acidini Luchinat, G. Galletti, Le ville e i giardini di Castello e Petraia a Firenze, Ospedaletto 1992, p. 13. 23 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 70v. L. Mercanti, G. Straffi, Le torri di Firenze e del suo territorio, Firenze 2003, p. 194. 24 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 50r; Celletti, Bagno a Ripoli… cit., p. 98. 25 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 51v; I. Bigazzi, G. Contorni, Gli itinerari, in Scandicci, itinerari storico-artistici nei dintorni di Firenze, a cura di D. Lamberini, Firenze 1990, pp. 17-256: 68-71; M. Poli, Scandicci. Architettura civile, in Medioevo nelle colline… cit., pp. 216-228: 218. 26 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 56r; Celletti, Bagno a Ripoli… cit., p. 101. 27 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 59v; Zangheri, Ville… cit., p. 355. 28 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 60v; Celletti, Bagno a Ripoli… cit., p. 126. 29 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 55v; M.A. Causarano, Il processo di decastellamento di un territorio alle porte di Firenze, in Alle porte di Firenze, a cura di P. Pirillo, Roma 2008, pp. 125-161: 143-147. 30 ASS, Consiglio Generale, 187, cc. 67v-68v; ivi, 189, 72v-73r (conferma del primo divieto). Cfr. V. Passeri, Documenti per la storia delle località della provincia di Siena, Siena 2002, passim, per l’uso della fonte. 31 Cortese, Palazzi… cit., pp. 266-267. 32 Per le fonti, A. Lisini, Le fortezze della Repubblica di Siena nel 1318, “Miscellanea Storica Senese”, I, 1893, pp. 198-203; Gli insediamenti della Repubblica di Siena nel catasto del 1318-1320, a cura di V. Passeri, L. Neri, Siena 1994. Da ultima, Cortese, Palazzi… cit., pp. 274-277. 33 Cortese, Palazzi… cit., pp. 268-269. 34 Cortese, Palazzi… cit., pp. 272-274. 35 P. Cammarosano, V. Passeri, Repertorio, in I castelli del Senese, Siena 19852, pp. 271-398: 353; L. Castellucci, G.L. Scarfiotti, Abitare in Toscana, Milano 1990, pp. 220-227. 36 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 79r. 37 A. Arcangeli, Il castello di Strozzavolpe, Poggibonsi 1960, p. V. 38 P. Pirillo, Forme e strutture del popolamento nel contado fiorentino, Firenze 2005-2008; per una sintesi, Pirillo, Torri… cit. 39 Cfr. nota 8; Ackerman, La villa… cit., p. 84. 40 Da ora in poi con ‘portico’ s’intende una struttura coperta situata a piano terra e completamente aperta almeno su di un lato. Per ‘logge’ s’intendono analoghe strutture situate ai piani fuori terra.

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Sul tema, si veda la relazione di Paolo Pirillo, Il giardino delle ‘case da signore’ (secc. XIV-XV), nella giornata di studi Prati, verzieri, pomieri. Il giardino medievale. Culture, ideali, società, svoltasi il 23 maggio 2015 presso l’Antico Spedale del Bigallo (Bagno a Ripoli). Ringrazio l’autore per la segnalazione. 42 Per i siti nel suburbio, Liber Extimationum (Il libro degli estimi An. MCCLXIX), a cura di O. Brattö, Göteborg 1956, nn. 176, 184, 198, 253, 256, 267, 276, 318, 323, 388, 391, 394, 403, 410, 462, 464, 491, 492, 494, 508, 530. L’incertezza è dovuta alla mancanza di alcune localizzazioni sicure, che rende la statistica approssimata per difetto. Ma, considerando l’accanimento dei ghibellini ritornati al potere contro i beni dei nemici, è probabile che il Liber registri una buona percentuale di tutti i possedimenti guelfi. 41

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cessiva, mentre il contrario avviene per le ‘case da signore’. La presenza di giardini, invece, è un dato costante e accompagna molti insediamenti signorili41. Al di là della definizione dei tipi – che come abbiamo visto presenta non pochi problemi – e del loro riconoscimento nei casi concreti, è indubbia la percezione nella zona immediatamente intorno alla città di un paesaggio quasi urbano composto per lo più da edifici prestigiosi degni del titolo palaziale. Poiché i documenti utilizzati possono solo offrire un campione di un fenomeno molto più vasto, bisogna immaginare tanto più densa la distribuzione di palazzi, giardini e case da signore. Questa situazione si era andata formando nella seconda metà del Duecento, quando le grandi famiglie mercantili avevano cominciato a investire nelle campagne, approfittando della fuoriuscita dei ghibellini e delle ingenti vendite di beni e diritti da parte dei feudatari. La rotta di Montaperti (1260) comportò un ritorno all’ordine preceden-

te ma già i magnati guelfi si erano assicurati numerosi beni rurali, com’è testimoniato dal Liber Extimationum (1269) che registra i danni subiti dal patrimonio edilizio della parte perdente nel sessennio 1260-1266. Escludendo gli edifici entro le mura di castelli e borghi, e gli interi castra di proprietà signorile (di grande o piccola nobiltà ancora resistente), dal documento si può ricavare una minima terminologia nell’indicare complessi isolati, la cui esatta definizione – come al solito – è destinata a sfuggirci forse per sempre. Fatto sta che nell’intero contado fiorentino (e fiesolano) vennero distrutti 27 palazzi, 27 torri, 5 case grandi, 2 case alte, 3 casseri, 11 castelli e 1 casamento, in siti che almeno in 22 casi su 60 (il 37%) fanno parte delle 6 miglia42. Alla metà del Duecento: i palatia Dopo esser risaliti alla più antica ricognizione del patrimonio edilizio fiorentino, tentiamo ora una ricostruzione in ordine cronologico crescen-


Fig. 6 Palazzo Ghibellino, Empoli. Dettaglio delle strutture durante i restauri (da Frati, Maiuri, La consistenza… cit., 2012)

Alle soglie della villa fiorentina: l’architettura delle dimore rurali nel Trecento Marco Frati

Fig. 7 Villa Arrivabene, Firenze. Pianta del piano interrato (da Bertocci, Lucchesi, Villa Arrivabene… cit., 2001)

te dell’evoluzione dal 1250 in poi. Questa data segna la conquista guelfa e popolare del comune e l’affacciarsi sulla campagna della borghesia (il Primo Popolo), che comincia a percepire la città non solo come uno snodo di traffici ma come il centro di un territorio da ‘colonizzare’. Un labile indizio di questo spostamento d’interesse è fornito dall’episodio, datato 1258, dell’indebita appropriazione di un vecchio cancello del serraglio dei leoni da un ‘anziano’ del comune che lo aveva riutilizzato nella sua villa (la si chiama proprio così): un atto punito in modo esemplare (mille lire di multa) ma sintomatico di una certa tendenza a trasferire simboli e comportamenti urbani nelle residenze di campagna43. Tornando al Liber Extimationum, fra i molti edifici lì denunciati si sono considerati come signorili quelli che alludono a una certa qualità (palazzo) o a una certa imponenza (torre, casa grande, casa alta, casamento): ma quali sono i tipi che emergono dalla documentazione? Complessi comprendenti palazzo, torre, corte, case e/o portici circondati da mura (4); palazzi isolati o con strutture temporanee (capanne) (4), circondati da case (4), accompagnati da torri (1); torri con casa e colombaia (2), con casa e corte (1), con portico (1); case o casamenti con corte murata (3); case grandi isolate (2). Raggruppandoli diversamente, notiamo complessi introversi protetti da mura che comprendono spazi aperti (corti), edifici imponenti (palazzi, torri) e altri più modesti (case, opifici, portici) i cui legami distributivi e volumetrici non sono noti. Ancora, si danno recinti che proteggono case affacciate su di una corte ma senza una gerarchia evidente (anche l’unica torre è una ‘torricella’). Spiccano poi grandi edifici (palazzi, torri) intorno a cui proliferano altre costruzioni più basse (case, capanne). Infine compaiono blocchi isolati (palazzi o case grandi). In sintesi, si svaria da articolati complessi che ruotano intorno a spazi aperti protetti da alti edifici, a semplici e nitide costruzioni

isolate. Ma le più sistematiche fonti documentarie possono solo offrire sommatorie di elementi senza legami combinatori. Resta aperta la questione in che misura ciò che appare in mano ai guelfi fino al 1260 sia di iniziativa ‘borghese’ o, piuttosto, ‘feudale’. I nomi dei proprietari appartengono a famiglie di mercanti (dell’Abate, Alberti del Giudice, Spini), di magnati (Bostichi, Adimari, Albizzi, Agli), di piccola nobiltà (Tosinghi, Alighieri) ma non sappiamo come fossero entrati in possesso di quei luoghi e – soprattutto – chi vi avesse costruito gli edifici signorili. Un caso meglio noto di altri è quello degli Adimari nell’Empolese44. Essi compaiono già ben introdotti nell’area, forse fin dall’epoca cadolingia (entro il 1113), e confinanti con i beni dei conti Guidi nel castello di Empoli Nuovo al momento della loro cessione al Comune di Firenze (1255)45. Questi stessi beni risultano nelle mani degli Adimari pochi anni dopo (1260-1266), compresi due palatia e una torre nel castello nuovo e una domus magna sul sedime di quello vecchio46. La famiglia, di origini aristocratiche ma ora guelfa e dedita ad attività commerciali e finanziarie, aveva dunque acquisito, nell’area in cui aveva concentrato i propri investimenti fondiari, adeguati edifici di rappresentanza, un tempo di pertinenza comitale: due dentro il castello, e uno fuori. Purtroppo ben poco resta di queste strutture, la cui consistenza materiale fu comunque assai modesta, come dimostrano le tracce del palatium vetus all’interno dell’attuale Palazzo Ghibellino in piazza Farinata degli Uberti a Empoli (fig. 6). Anche se si tratta di un caso al confine del contado, esso mostra bene la dinamica di acquisizione delle residenze nella campagna alla metà del Duecento. Vediamo ora la consistenza di questi edifici, ove possibile47. Entro le tre miglia si trovava il palazzo dei Bostichi a Remiano nel popolo di San Quirico a Legnaia48. L’edificio confinava forse

Villani, Nuova… cit., I, pp. 359-361 (lib. VII, rub. LXV). F. Berti, Empoli e gli Adimari: alle origini della presenza fiorentina nell’Empolese, in Tra storia e letteratura. Il parlamento di Empoli del 1260, atti della giornata di studi (Empoli, 6 novembre 2010), a cura di V. Arrighi, G. Pinto, Firenze 2012, pp. 69-88. 45 Documenti dell’antica costituzione del Comune di Firenze, a cura di P. Santini, Firenze 1952, II, pp. 65-75 n. 20, pp. 78-86 n. 22, pp. 130-141 n.43. M. Frati, W. Maiuri, La consistenza del castello di Empoli nel Duecento, in Tra storia e letteratura… cit., pp. 103-131: 117. 46 Liber Extimationum… cit., p. 74 n. 389, p. 76 n. 398. Su Empoli Vecchio: M. Frati, Empoli prima di Empoli. Nuovi studi sull’organizzazione territoriale prima del nuovo incastellamento (1119), “Bullettino Storico Empolese”, XVII, in corso di stampa. 47 Un esempio paradigmatico di quanto di essi sia andato effettivamente distrutto dopo Montaperti è offerto dalla torre dei Da Panzano nell’omonimo castello: Liber Extimationum… cit., p. 60 n. 284; cfr. D. Romei, Torri e “case-torri” a Panzano (FI) nel Bassomedioevo, “Archeologia dell’Architettura”, V, 2000, pp. 101-118. 48 Liber Extimationum… cit., p. 57 n. 267. Il toponimo, ora scomparso, era ancora in uso nel Trecento: Pirillo, Forme… cit., I, p. 39 n. 10110. 43

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Fig. 8 Il Casone, Sorgane, Firenze. La corte (da Cini, Il restauro… cit., 1987). Fig. 9 Torre di Baracca, Carmignanello, Prato. Casa da signore dei Cioni.

Nel Liber Extimationum non si fa distinzione fra stratae e viae, né fra vie pubbliche e private. 50 G. Trotta, Legnaia, Cintoia e Soffiano: tre aspetti dell’antico “suburbio occidentale” fiorentino, Firenze 1989, pp. 17-21. 51 Liber extimationum… cit., p. 69 n. 358; S. Bertocci, L. Lucchesi, Villa Il Giardino: una dimora signorile nella campagna di San Salvi, Firenze 1984, pp. 12-15, 18. 52 Esempi datati non mancano nell’edilizia religiosa e in quella civile: M. Frati, Chiese romaniche della campagna fiorentina. Pievi, abbazie e chiese rurali tra l’Arno e il Chianti, Empoli 1997, passim; A. Mennucci, San Gimignano, il colle di Montestaffoli e la collegiata. Archeologia, storia, urbanistica, in La collegiata di San Gimignano. L’architettura, i cicli pittorici murali e i loro restauri, a cura di A. Bagnoli, Siena 2009, pp. 51-137: 80-84. 53 Liber Extimationum… cit., p. 55 n. 253; B. Patzak, Palast und Villa in Toscana. Versuch einer Entwicklungsgeschichte, I: Die Zeit des Werdens, Leipzig 1912, pp. 93, 97, LI, LIV; Zangheri, Ville… cit., pp. 257-258; C. Tripodi, Gli Spini tra XIV e XV secolo. Il declino di un antico casato fiorentino, Firenze 2013, pp. 51 (testamento del 1414: palazzo), 55, 56 (testamento del 1421: masserizie), 86 (acquisto del 1429: “medietatem unius turris sive domus cum panora sex vel circha terre ortive cum cella et palcis” alle prata lungo la strata), 96, 129 (catasto del 1446: casamento in rovina), 176, 199, 200. 54 Simile struttura introversa dovette avere il complesso dei Tosinghi a Santo Stefano in Pane, costituito da un palazzo, due case e una corte: Liber Extimationum… cit., p. 85 n. 464. 55 Ivi, p. 47 n. 198; Pirillo, Forme… cit., I, p. 355 n. 14805; ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 77v. 56 Liber Extimationum… cit., p. 74 n. 388; Pirillo, Forme… cit., I, p. 338 n. 14602; Celletti, Bagno a Ripoli… cit., p. 92. 57 Liber Extimationum… cit., p. 65 n. 323; Pirillo, Forme… cit., I, p. 268 n. 13807 (palazzo con casa di incerta ubicazione nel 1310, podere nel 1341); Bigazzi, Contorni, Gli itinerari… cit., pp. 67-68; Poli, Scandicci… cit., p. 219. 58 Liber Extimationum… cit., p. 59 n. 276; Pirillo, Forme… cit., I, p. 318 n. 14409 (castellare nel 1325, semplice casa sul poggio nel 1336); U. Meucci, Dal castello di Montebuoni a Tavarnuzze: i segni del passato, Firenze 2009, p. 13, per i resti. 59 Liber Extimationum… cit., p. 45 n. 184 (nel popolo di San Martino); Pirillo, Forme… cit., I, p. 331 n. 14504 (nel popolo di Santa Maria 1326). Casi analoghi sono quelli degli impianti dei Tosinghi a Quinto e a Sesto: Liber Extimationum… cit., p. 89 n. 494, p. 94 n. 530. 60 Ivi, p. 44 n. 176. 61 D. Lamberini, L. Lazzereschi, Campi Bisenzio: documenti per la storia del territorio, Prato 1982, p. 147; cfr. Pirillo, Forme… cit., I, p. 120 n. 11206 (casa grande, 1315). 62 Cfr. M. Frati, “de bonis lapidibus conciis”. La costruzione di Firenze ai tempi di Arnolfo di Cambio: strumenti, tecniche e maestranze nei cantieri fra XIII e XIV secolo, Firenze 2006, pp. 131-132, 323-326; Palazzo Spini Feroni e il suo museo, a cura di S. Ricci, Milano 1995. 63 Villani, Nuova… cit., I, pp. 315-320, 326-329, 380-382 (lib. 49

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con la via Pisana49 ed è da cercare fra i numerosi resti di strutture medievali che si riconoscono ancora oggi lungo la strada a ovest della chiesa50. Nelle immediate vicinanze si trova il cosiddetto ‘Palagio dei Diavoli’, consolidato nel suo stato di rudere: l’unico che abbia ancora leggibili le murature originali, caratterizzate da una certa qualità. Si tratta di un blocco compatto rivestito da conci squadrati e ben chiuso ai primi due piani; aperture (bifora e portalino) e aggetti (buche pontaie) si vedono solo al terzo livello e sono databili al XIII secolo. Altrettanto compatti erano i duo palatia degli Adimari a Sant’Ambrogio fuori le mura, i cui resti vanno cercati nei sotterranei di villa Arrivabene51 (fig. 7): la ‘torre’ laterizia, finora datata all’XI-XII secolo, è invece una struttura pienamente duecentesca, proprio in forza della bella ghiera a zig-zag della monofora52, mentre la poca altezza (9,5 m), il piccolo spessore dei muri (45 cm) e la notevole ampiezza dello spazio interno (6,6x10 m) orientano verso funzioni prevalentemente abitative; i brani di muratura pertinenti all’altro edificio sono più difficilmente interpretabili ma non sono incompatibili con una datazione alla metà del Duecento. Di alcuni ‘palazzi’ entro le sei miglia si possono ripercorrere meglio le vicende edilizie e documentarie. Quello degli Spini ai Prati di Peretola sembra essere approdato integro al Rinascimento per poi subire danni e ricevere l’attuale configurazione nel Cinquecento53. Esso consisteva in un circuito murario rinforzato da una torre e contenente il palazzo, più portici e capanne: questa struttura introversa54, del tutto simile a un piccolo castello, si mantiene nell’odierno complesso, recentemente restaurato. L’associazione del palazzo alla torre ha un chiaro valore militare nel caso del perduto fortilizio dei Gherardini al Prato di San Piero a Ema55, rammentato come casa da signore nel 1343 e fortezza nel 1409, ormai di proprietà dei Bardi. La torre (intonacata) è ciò che rimane di medievale del palazzo

degli Adimari a Candeli (Casa Vecchia al Ponte a Rimaggio)56, poi dichiarato come semplice podere o come casa da signore. Quando il palatium è situato sul sedime di un castello distrutto, si assiste alla conferma della vocazione militare del sito, come per la torre dei Trinciavelli al Castellare di Montecascioli57, oppure a un suo declassamento a uso agricolo, come nel caso dei Buondelmonti a Montebuoni58. Ma troviamo anche palazzi legati a impianti produttivi, come quello dei Bagnesi lungo la Greve a Scandicci, dotato di mulini e case da lavoratore59. Del resto, si riscontra qualche incertezza nella definizione di una domus sive palatium dei Dell’Abate a San Donnino60, forse identificabile con la casa torre Benvenuti, già Tornaquinci61. E va sottolineato che proprio negli anni di compilazione del Liber (1269) andava mettendosi a punto il tipo del palazzo urbano, che tanta fortuna ebbe fino alla formulazione di quello rinascimentale. Veri e propri capolavori come le case romaneggianti dei Mozzi (entro il 1273) o degli Spini (dal 1289)62, però, dovevano ancora sorgere e dunque non è a questi modelli che si poteva guardare per definire palatium una dimora signorile rurale. Ma doveva essere preferibile per molti magnati una vita alternativa a quella urbana: isolata, comoda, lontana dai pericoli derivanti dalla costipazione della città medievale (ancora costretta nella penultima cerchia). Il tipo del palazzo signorile della metà del Duecento è molto sfuggente: le case ghibelline e guelfe, rispettivamente distrutte nei primi episodi di fuoriuscitismo (1248, 1255, 1260), non ci sono più63. Qualche raro indizio si può ricavare dagli scavi archeologici, che hanno rintracciato anche nitidi edifici isolati64, e dalle rare descrizioni, come quella – notissima – del ‘Palazzo’ dei Tosinghi, “alto LXXXX braccia, fatto a colonnelli di marmo, e una torre con esso alta CXXX braccia”65. Un modello di magnifica residenza rurale poteva essere quello della villa del cardinale Ottaviano


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degli Ubaldini a Fagna nel Mugello: nulla, però, sappiamo della sua struttura a dispetto del suo meraviglioso contenuto66. Per quel che si può capire dai pochi e lacunosi dati a nostra disposizione, i palatia suburbani avevano per lo più un impianto introverso e un aspetto fortificato di chiara origine castellana e frutto dell’adattamento a condizioni locali. È decisamente presto attendersi un’applicazione degli aulici modelli letterari cortesi, indubbiamente già circolanti fra i ceti dirigenti fiorentini67, o delle reminiscenze dei manieri francesi, certamente visti e ammirati oltralpe dai mercanti del Battista nei loro viaggi d’affari o diplomatici68. Ci sembra, infine, significativo che i compilatori del Liber non abbiano dato nessun valore ai giardini, mentre abbiano valutato i dan-

ni a platee, terrata e curie, che fossero murate o no. La mancanza d’interesse per l’hortus – spazio indispensabile all’esercizio dell’otium – è un forte indizio di una concezione della residenza rurale come luogo ancora esclusivamente produttivo e protettivo. Per gli ultimi trent’anni del Duecento mancano dati sistematizzati, ma sembra di poter attribuire a questo periodo alcune case alte, tutte nella corona fra le tre e le sei miglia. Questo tipo è ben rappresentato da una casa da signore dei Serristori-Del Nero all’Arco del Camicia69: essa, binata e un tempo alta quattro piani fuori terra, ha aperture regolarmente disposte anche se non molto ampie. La datazione al 1280 finora proposta non trova conferme documentarie ma non si discosta dai pochi dati stilistici (portalini architravati e

VII, rubb. XXXIII, XXXIX, LXXIX); cfr. F. Redi, Edilizia medievale in Toscana, Firenze 1989, pp. 101-103; K. Tragbar, Vom Geschlechterturm zum Stadthaus : Studien zu Herkunft, Typologie und städtebaulichen Aspekten des mittelalterlichen Wohnbaus in der Toskana (um 1100 bis 1350), Münster 2003, pp. 114-134, 182-185, per i tentativi tipologici, ancora generici e non periodizzati. 64 Per la casa torre degli Uberti: S. Bianchi, G. De Marinis, M. Salvini, Piazza della Signoria, in S. Maria del Fiore: teorie e storie dell’archeologia e del restauro nella città delle fabbriche arnolfiane, a cura di G. Rocchi Coopmans De Yoldi, Firenze 2006, pp. 44-54: 47, 51. 65 Villani, Nuova… cit., I, p. 319 (lib. VII, rub. XXXIII). La facciata a colonnine sembra interpretare in chiave civile un tema religioso urbano (cfr. le facciate di primo XIII secolo del duomo di Lucca e della pieve di Arezzo). 66 A. Giovannoni, Il cardinale Ottaviano Ubaldini alla luce di un documento mugellano, “Bollettino della Società Mugellana di Studi Storici”, IV, 1928, 1, pp. 445-451. 67 B. Latini, Il Tesoro di Brunetto Latini volgarizzato da Bono Giamboni, a cura di P. Chabaille, L. Gaiter, Bologna 18771883, II, pp. 68-69. 68 Patzak, Palast… cit., pp. 68-70. 69 Casa al Tabernacolo: Celletti, Bagno a Ripoli… cit., pp. 8788. Cfr. la torre di Rignalla: R. Stopani, Medievali “case da signore” nella campagna fiorentina, Firenze 19812, documentazione iconografica fuori testo.

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abella 1 70 Zangheri, Ville… cit., pp. 444-445; G. Cini, Il restauro del Casone di Sorgane, Firenze 1987. 71 Celletti, Bagno a Ripoli… cit., p. 89. I libri di commercio… cit., p. 468. 72 Pirillo, Forme… cit. 73 Sono stati esclusi i castra. 74 Cfr. il testo alla nota 174. 75 Pirillo, Forme… cit., I, p. 257 n. 13704. Sulle gualchiere del Girone, C. Cosi, Le gualchiere del Girone, Firenze 2000. 76 Nel 1312 viene detto torre o palazzo il principale edificio di un podere: Pirillo, Forme… cit., I, p. 334 n. 14509. Sul vocabolario notarile, sintomatico per varietà, ivi, pp. 21-26. Qui si sono presi in considerazione i seguenti termini: abituro (edificio o parte di esso destinato alla residenza), camera (vano residenziale), casa alta, casa alta da signore, casamento (edificio di grandi dimensioni), castellare (spazio precedentemente occupato da un castello o suoi resti), castelluccio (recinto difensivo temporaneo), chiostro (cortile chiuso), colombaia, corte (spazio scoperto delimitato presso una casa, non necessariamente chiuso), giardino, loggia (portico, struttura aperta su pilastri o colonne), palazzo (edificio di grandi dimensioni), platea murata (area pavimentata e cinta da mura), portico, pratello (prato o giardino di piccole dimensioni annesso a residenze signorili), pratello murato (giardino segreto), trebbio (luogo di delizie), torre, torre con palchi (a più piani abitabili), verone (terrazza o loggia al piano superiore di un edificio), vivaio, volta (vano con copertura a volta), volta sottoterra (cantina seminterrata), tomba (volta sotterranea). 77 A. Lillie, Florentine villas in the fifteenth-century: an architectural and social history, Cambridge 2005, pp. 58-60. 78 Pirillo, Forme… cit., I, p. 38 n. 10107, per il territorio delle tre miglia; p. 59 n. 10201, per quello circostante.

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Tabella 2 Tipologia delle dimore signorili fra le tre e le sei miglia, 1300-1350. I tipi da 01 a 25 corrispondono a quelli della tabella 1

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centinati) a disposizione. Anche il nucleo a nord del Casone di Sorgane70 presentava almeno tre piani fuori terra, con analoghe aperture verso il cortile attuale e mensoloni che presuppongono elementi aggettanti lignei (fig. 8). Infine, l’ala est del Passerino71, venduto dai Passerini ai Peruzzi nel 1299 come “casa in palco”, si palesa come un unico blocco compatto. La prima metà del Trecento: palagi, giardini e case da signore Uno sguardo complessivo al paesaggio fiorentino è nuovamente possibile grazie alla documentazione raccolta da Paolo Pirillo per gli anni 1300-1350 e consistente per lo più in atti privati contenuti nei fondi diplomatici e nei protocolli notarili72. Purtroppo manca un lavoro sistematico per il periodo precedente, solo durante il quale sembra essersi formata e diffusa la cultura del vivere in villa, fatto ormai consolidato alle soglie del Trecento, come emerge dalla sintesi dei dati analitici e da altri indizi, che tentiamo ora di presentare. Per la corona delle tre miglia, concentrandoci sui nuclei isolati73 contenenti esplicitamente palazzi, case da signore e giardini, si nota una molteplicità di situazioni sintetizzata nella tabella 1. Non conoscendo però i nessi fra gli ambienti e i corpi edilizi, è impossibile addivenire a una tipologia distributiva e funzionale. Si può solo rilevare l’invariabile presenza di altri corpi edilizi (prevalentemente case) vicino agli edifici signorili, solitamente protetti o affiancati da una corte. Ad essi alternative, le torri appaiono altrettanto recintate e circondate da case ma anche da corpi filtranti (logge, portici, veroni), meno frequenti in palazzi e case da signore. Nel territorio fra le tre e le sei miglia la situazione appare ancora più variegata, ma alcune combinazioni prevalgono nettamente sulle altre, come mostra la tabella 2: la casa da signore con casa e corte (02), la casa da signore con case (01), il pa-

lazzo con casa e corte (10), il giardino con casa, filtro e corte (38), il palazzo con case (05), la casa da signore con casa e colombaia (13), la casa da signore con filtro e corte (06), la casa da signore con case e filtro (39). Analizzando i tipi più diffusi nell’arco dei primi cinque decenni del Trecento, si notano alcune variazioni interessanti (tabella 3), da rapportare alla documentazione complessiva, che va particolarmente infittendosi durante il quarto decennio. Osservando le percentuali rispetto al totale, oscillanti risultano i palazzi con casa e corte, i giardini con casa e corte e le case da signore con casa e colombaia. In decremento, i palazzi con casa. In aumento, invece, le case da signore e i giardini con case, filtro e/o corte. Appaiono, cioè, in declino gli aggregati più semplici, stabili o quasi quelli dotati di una certa complessità, in espansione quelli dotati di spazi sia aperti sia chiusi. In particolare, colpiscono l’improvvisa scomparsa e ricomparsa del giardino e la tardiva affermazione della casa da signore con casa, filtro e corte. Conviene anche osservare la fortuna nelle due corone periurbane degli specifici tipi di spazio che abbiamo assunto come indicatori di un uso signorile dei complessi rurali: il palazzo, la casa da signore, il giardino. Entro le tre miglia (tabella 4) si nota un’alternanza di palazzi e case da signore. Il sopravanzare dei primi sui secondi è concomitante con l’improvvisa comparsa dei giardini, come a significare un ritorno a forme di vita più comode, aperte e sfarzose. Ciò avviene non a caso negli anni Trenta del Trecento, al termine cioè della lunga crisi militare iniziata con la discesa in Italia di Enrico VII e terminata con la fine di Castruccio Castracani. La situazione nella fascia delle tre-sei miglia è leggermente diversa (tabella 5) e offre altri spunti di riflessione. La diffusione di case da signore è in costante


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ascesa mentre quella dei palazzi si accentua nei decenni di massima insicurezza militare (anni Dieci-Venti). Così, anche i giardini, timidamente comparsi all’inizio del Trecento e poi abbandonati, tornano a popolare stabilmente le campagne dagli anni Trenta in poi. Cosa fossero un palazzo, una casa da signore, un giardino lo possono meglio spiegare i ricchi e sempre più frequenti testi letterari che non gli scarni documenti notarili. Com’è noto, nelle pagine del Decameron, scritte alla fine di un’epoca (almeno per quanto riguarda la periodizzazione della villa) e perciò ancor più preziose74, compare più volte il termine ‘palagio’: esso indica l’ampio edificio suburbano dove la compagnia di amici protagonisti si è ritirata fuggendo dalla peste, ma anche la sede delle istituzioni di governo oppure il complesso di più corpi edilizi: dunque con esso si rappresenta la maestosità dell’edificio. E del resto, la documentazione coeva assegna il termine di palazzo anche a organismi evidentemente produttivi ma di grandi dimensioni, come le gualchiere75. I notai estensori degli atti presi in considerazione da Pirillo non sembrano peraltro avere molte incertezze terminologiche76 anche se ne restano – e non poche! – per i lettori moderni77: ad esempio, nel definire cosa sia un palazzo rispetto a una ‘casa da signore’. Quest’ultima espressione entra stabilmente nel dizionario notarile solo dagli anni Trenta del Trecento78, a parte una sporadica attestazione del 131879, per rimanervi e superarvi la prima, come appare sempre più chiaramente (tabelle 4-5) e fino alle portate del Catasto quattrocentesco. Raramente si elencano nello stesso documento sia una casa da signore, sia un palazzo: termini che, se congiunti, indicano evidentemente due realtà diverse. Purtroppo queste preziose attestazioni80 non trovano un sicuro e utile riscontro materiale, neanche volendo forzare l’identificazione con strutture ancora esistenti81.

Lo stesso problema si pone per la distinzione fra casa da signore e casa da lavoratore82, tanto più spesso coesistenti nello stesso insediamento rurale. Cosa caratterizza una dimora padronale rispetto a quelle dei dipendenti? In questo caso la documentazione è più abbondante ma resta il problema di agganciare i dati storici con quelli materiali. Dove possibile individuarle, si notano strutture turriformi83 e il criterio di distinzione fra i due tipi sembra davvero essere l’altezza dell’edificio anche nei rari casi offerti dalla documentazione. Le case alte sono invariabilmente ‘da signore’84, ma le basse vengono talora ulteriormente differenziate da quelle ‘da lavoratore’85. Negli atti notarili si dice poco del giardino, che vi fa la sua prepotente ricomparsa nel 133286 dopo qualche attestazione nel primo decennio del secolo87 e il lungo silenzio dei due successiTabella 2 vi. L’influenza della letteratura sulla diffusione e sull’idea di giardino – concettualmente assai lontana dal luogo tradizionale della produzione agricola – è stata già messa in evidenza88. Più che ai trattati di agronomia, però, conviene guardare alla poesia, capace più di ogni altro genere di costruire paradigmi e suggerire nuovi stili di vita. L’idea di una ruralità alternativa all’urbanesimo è già presente ne Li Trésors di Brunetto Latini89, sul modello francese, e torna come forte aspirazione nel corso della seconda metà del Trecento. Al di là della terminologia delle residenze signorili e della contestualizzazione e del dimensionamento del fenomeno, resta il problema del riconoscimento di modelli architettonici specifici e della messa a fuoco di caratteri ‘villani’ invarianti. Per fare ciò è necessaria una verifica puntuale sui dati prodotti da dettagliate analisi archeologiche dei complessi ancora esistenti ma questo obiettivo richiede ben altre forze rispetto all’economia di questo saggio90. La ricerca potrebbe comunque prendere spunto dai complessi non produttivi documentati: fra questi emergono i già noti ‘resedi’ di Querceto, Rusciano, Camerata,

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52

53

54

55

56

57

● ●

59

1 1

1

● ●

58

1 ●

1

1

1

1 ● ●

1

Ivi, p. 41 n. 10113. Ivi, p. 36 n. 10105; p. 66 n. 10208, p. 340 n. 14605. 81 Identificando, ad esempio la ‘casa palagina’ a Monte Mulino, distinta nel 1335 da altre case, torre e colombaia, con Villa Martini a Serpiolle (Zangheri, Ville… cit., pp. 228-229) o il palazzo, descritto nel 1350 con una casa da signore e più case da lavoratore a San Piero in Palco, con il Castello di Bisarno (ivi, pp. 442-443). 82 Cfr. L. Gori Montanelli, Architettura rurale in Toscana, Firenze 1964; Stopani, Medievali… cit.; I. Moretti, “Case da signore” e “case da lavoratore” nelle campagne toscane dell’età comunale, Pistoia 1986; Id., Le “case da signore” del Medioevo e l’origine dell’architettura rurale toscana, in Le dimore di Siena. L’arte dell’abitare nei territori dell’antica Repubblica dal Medioevo all’Unità d’Italia, atti del convegno internazionale di studi (Siena, Montepulciano, 27-30 settembre 2000), a cura di G. Morolli, Firenze 2002, pp. 97-105. 83 Cfr. per Santa Maria a Quarto (1345), Poggio di Villamagna (1348), Roncigliano di San Martino alla Palma (1346), Pirillo, Forme… cit., I, p. 341 n. 14607, p. 348 n. 14702, p. 265 n. 13803, e, rispettivamente, Celletti, Bagno a Ripoli… cit., pp. 105, 127, Poli, Scandicci… cit., p. 222. 84 A Sant’Andrea di Rovezzano (1341) e Pietrafitta di Badia Fiesolana (1347): Pirillo, Forme… cit., I, p. 343 n. 14612; p. 455 n. 20103. 85 A Ripa di Careggi (1344): ivi, p. 59 n. 10201. 86 Ivi, p. 270 n. 13811. 87 Ivi, p. 359 n. 14814 (1303); p. 329 n. 14503 (1308); p. 64 n. 10204 (1310); I libri di commercio dei Peruzzi, a cura di A. Sapori, Milano 1934, p. 479 (1311). 88 Cfr. Patzak, Palast… cit., pp. 68-69, che pensa al Liber ruralium commodorum di Pietro de’ Crescenzi (entro 1309). 89 R. Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze 1956-1968, VII, pp. 634-636; Pirillo, Torri… cit., p. 244. 90 Ancora isolate sono le analisi di Causarano, Il processo… cit., né si può fare affidamento sulle spesso imprecise e incomplete descrizioni delle schede in Medioevo nelle colline… cit. 79 80

27


Alle soglie della villa fiorentina: l’architettura delle dimore rurali nel Trecento Marco Frati

Tabella 3 cronotipologia parziale delle dimore signorili entro le sei miglia, 1300-1350 Tabella 4 cronologia dell’uso di alcuni termini entro le tre miglia, 1300-1350 Tabella 5 cronologia dell’uso di alcuni termini fra le tre e le sei miglia, 1300-1350

Decenni del XIV secolo

I

%

II

%

III

%

IV

%

V

%

I-V

%

Casa da signore con case e corte (02)

1

5

1

5

2

8

4

5

15

12

23

8

Casa da signore con casa (01)

0

0

2

9

2

8

5

6

12

10

21

8

Palazzo con casa e corte (10)

1

5

2

9

1

4

6

8

5

4

15

6

Palazzo con casa (05)

2

11

1

5

1

4

4

5

4

3

12

4

Casa da signore con casa, filtro e corte (06)

0

0

0

0

0

0

3

4

8

6

11

4

Giardino con casa e corte (03)

3

16

0

0

1

4

1

1

6

5

11

4

Giardino con casa, filtro e corte (38)

0

0

0

0

0

0

5

6

5

4

10

4

Casa da signore con casa e colombaia (13)

1

5

3

14

2

8

0

0

4

3

10

4

Totale

19

100

22

100

24

100

80

100

126

100

271

100

Tabella 3 Decenni del XIV secolo

I

%

II

%

III

%

IV

%

V

%

I-V

%

Palazzo

3

42

3

50

1

20

6

35

10

43

23

40

Casa da signore

2

28

2

33

3

60

4

24

4

17

15

26

Giardino

0

0

0

0

0

0

7

41

9

39

16

28

Totale

7

100

6

100

5

100

17

100

23

100

58

100

Decenni del XIV secolo

I

%

II

%

III

%

IV

%

V

%

I-V

%

Palazzo

1

8

6

38

6

32

13

21

15

15

41

19

Casa da signore

3

25

4

25

6

32

22

35

47

46

82

38

Giardino

3

25

0

0

1

4

13

21

23

22

39

18

Totale

12

100

16

100

19

100

63

100

103

100

213

100

Tabella 4

Tabella 5

91 Per gli esempi citati, Pirillo, Forme… cit., I, p. 40 n. 10112; p. 42 n. 10113; p. 50 n. 10123; p. 119 n. 11204; p. 267 n. 13807; p. 70 n. 10301, rispettivamente. 92 A. Rinaldi, Il “Palagio” di Querceto dai Buonaccorsi agli Strozzi, in Villa Strozzi “Il Querceto” nel tempo: l’edificio, il giardino, il parco agricolo, a cura di A. Rinaldi, T. Grifoni, Firenze 2006, pp. 7-32. 93 C. Vasic, La villa di Rusciano, in Filippo Brunelleschi: la sua opera e il suo tempo, atti del convegno internazionale di studi (Firenze, 16-22 ottobre 1977), Firenze 1980, pp. 663-677; Zangheri, Ville… cit., pp. 451-452; R. Viel, Il “Possesso di Rusciano”, Firenze 1990. 94 Patzak, Palast… cit., pp. 71, 108, LXVI; Zangheri, Ville… cit., pp. 317-318. 95 A. Rinaldi, La villa di Giovanni Rucellai a Quaracchi, in Leon Battista Alberti. Architetture e Committenti, atti del convegno internazionale di studi (Firenze, Rimini, Mantova, 1216 ottobre 2004), I, Firenze 2009, pp. 179-215: 182-184. 96 E. Repetti, Dizionario geografico, fisico, storico del Granducato di Toscana, Firenze 1833-1846, I, pp. 580-581; Pirillo, Forme… cit., I, p. 267 n. 13807; P. Ruschi, Castel Pulci, da castello a villa, in La villa di Castel Pulci, a cura di P. Ruschi, Firenze 1999, pp. 29-42. 97 Frati, Chiese… cit., p. 169.

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Quaracchi, Castelpulci, a cui si potrebbero aggiungere la torre di Carmignanello e tanti altri edifici in attesa di verifica91. L’habiturium magnum dei Buonaccorsi a Querceto92 era imperniato sulla torre intorno a cui si svolgevano le camere e la sala voltata; al palazzo corrispondeva un cortile murato quadrangolare che offriva dinamiche visioni sull’edificio. Ancora oggi vi si apre verso nord-est un portico su pilastri ottagoni, originariamente a quattro campate e sovrastato da un verone, a cui si doveva accedere per una scala aerea. All’esterno il complesso si doveva presentare compatto grazie alle alte pareti, bucate da ampie e regolari aperture e coronate da merli che conferivano un aspetto arcigno al peraltro nitido volume. Villa Pitti a Rusciano93, prima dell’ampliamento

verso est attribuito a Brunelleschi, era un complesso a U intorno alla corte rivolta a nord e un portico sul lato sud con tre archi ribassati su pilastri ottagoni a foglie di palma. Questa composizione – ancora imperfetta e asimmetrica – rispecchia quella di due atti del 1334 e del 1339 in cui compare un podere con una curia, un palazzo (identificabile a ovest della corte), una torre (a nord-est), più case (a sud-est), un portico (a sud), un pozzo (a nord), un giardino (a sud). Villa “il Garofano” a Camerata 94, già degli Alighieri, constava in origine di una torre con corpo longitudinale; probabilmente dopo il passaggio ai Portinari (1332), adiacente e parallelo al palazzo fu aggiunto un portico su tre archi e pilastri ottagoni e inserito un bel pozzo con eleganti colonne pseudocomposite. Il resedio dei Rucellai a Quaracchi (Firenze), poi da loro trasformato in villa, consisteva in un irregolare cortile quadrilatero murato sul quale si ergeva un robusto corpo di fabbrica parallelepipedo alto un piano fuori terra (volta, camera grande, camera superiore, loggia) con aperture archivoltate databili al Trecento che tuttora emergono dall’intonaco e testimoniano l’aggiunta di una bassa manica (cantina, stalla)95. Nella ‘seconda cerchia’ i palagi appaiono decisamente più arcigni. Il ‘castello dei Pulci’ a Settimo96 appariva come tale prima di passare agli Orsini (1321): dotato di una torre (rintracciata nelle fondazioni dell’attuale complesso) e di un circuito rinforzato da altre due, fu gravemente danneggiato dalle truppe di Castruccio nel 1325. Dopo la distruzione (1341) appariva come un aggregato di più case con una curia, il resedio, un giardino cinto da muri, un portico, una torre e più casolari. La cinta muraria comprendeva anche l’oratorio privato di San Jacopo97. Durante i restauri è stata rintracciata la torre centrale, a cui sono addossati più tardi corpi di fabbrica (uno dalle ampie aperture identificabile come palazzo) che formano una pianta a L.


Fig. 10 Palazzo Mozzi, Firenze. Veduta zenitale.

La torre di Baracca a Carmignanello (fig. 9), inserita come fortezza nell’elenco del 140998, si mostra in tutto il suo nitore stereometrico di canna parallelepipeda ma in origine, come mostrano le mensole con buche pontaie, essa doveva espandersi in strutture lignee aggettanti che ne proiettavano all’esterno i non angusti livelli interni. Questi pochi esempi riconducibili alla prima metà del Trecento mostrano già una notevole varietà di impostazioni planivolumetriche che pongono il problema di ciò che si sarebbe selezionato e distillato nella villa rinascimentale. Mancando un repertorio dell’edilizia civile tardomedievale fiorentina – obiettivo di una ricerca di ben più ampio respiro di questa – che sia utilizzabile per un ragionamento filologico sull’architettura, si dovrà far riferimento alle rare analisi archeologiche e a qualche osservazione diretta per campioni. Per una tipologia: il fenomeno In modo del tutto provvisorio, proviamo a disporre in ordine di crescente complessità fenomeni architettonici simili, a partire da casi significativi per la loro leggibilità o per la loro documentazione, indipendentemente dalla collocazione geografica (entro le tre o le sei miglia). Analizzandone varianti e invarianti si può giungere a una tipologia preliminare dei caratteri distributivi e architettonici, che sembra giocarsi su di una varia combinazione di alcuni limitati elementi repertoriali. Consideriamo come variabile principale l’articolazione del palazzo in uno o più blocchi intorno a una corte99. Il blocco unico La più semplice composizione è costituita da un solo volume. Di questo tipo, per la verità poco diffuso, disponiamo di un caso esemplare e monumentale: il palazzo fatto edificare presso il monastero di San Miniato al Monte dal vescovo Andrea de’ Mozzi (1287-1295) “de suis

bonis patrimonialibus […] ut ibi staret de tempore vite sue”100. Esso, assai rimaneggiato, appare come un semplice ma grandioso parallelepipedo ben visibile dalla città sulla quale si gode un panorama destinato a divenire celebre (fig. 11). La merlatura di coronamento, in fase con il resto della muratura, dona al petrigno edificio un deciso tenore militaresco. Le aperture originali del primo piano, completamente sostituite e ora ritoccate anche negli archi laterizi, erano ampie ed eleganti bifore archiacute del tipo del palazzo arcivescovile; il fronte interno, esposto a sud-est e più chiuso, è ingentilito dal portico su pilastroni e archi laterizi che si salda con il chiostro del monastero. I Mozzi, come si vedrà, non erano nuovi a iniziative del genere: assai famosa era la loro villa a Lucola (entro il 1289)101 e, del resto, anche il loro palazzo di città (fig. 10), dotato di cortile, portico e bagno caldo, aveva caratteristiche quasi campagnole, essendo isolato, immerso in un giardino e addirittura protetto da una rocca a monte102. Più tardi, una versione in picco-

ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 70v. Primi tentativi in questo senso appartengono a Stopani, Medievali… cit., pp. 33-45; Zangheri, Ville… cit., pp. 466-482. 100 La memoria del 1295 parla di un edificio già costruito: L. Berti, F. Gurrieri, C. Leonardi, La Basilica di San Miniato al Monte a Firenze, Firenze 1988, pp. 79, 84, 114 n. 3. Cfr. Patzak, Palast… cit., pp. 75-76, XXXVII-XXXVIII, che ipotizza anche l’esistenza di una scala aerea. Sul vescovo: S. Diacciati, Mozzi, Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXVII, Roma 2012, p. 370: www.treccani.it. 101 Patzak, Palast… cit., p. 75. 102 “… unum palatium magnum in medio divisum per medietatem, videlicet dicti domini Thomasi et pro alia medietate filiorum vel condam domini Vannis, cum logia grande et pratello post ipsum palatium et domus dicti domini Thomasi, que olim fuerunt filiorum Diedi, iuxta ipsum palatium cum logia, curia et stufa, orto et pratello murato post ipsas domus cum orto cultu et terreno post dictum palatium et domo posita in populo Sancte Lucie de Magnolis cum rocca et domibus positis in populo Sancti Georgii, quibus a i° via publica et platea pontis Rubacontis, a ii° heredum Iannis Bonapartis, chiassolino in medio, et plurium aliorum et cultus qui fuit Diritte et Rucchi de’ Mocçis, a iii° domus condam Diritte et Rucchi de Mocçis et locus qui dicitur Scarpuccia et aliorum, a iiii° via Sancti Georgii et muri comunis Florentie, via in medio, et illorum de Lamis et aliorum …”: ASF, Diplomatico, Cartaceo, Riformagioni atti pubblici, 1309 novembre 6 (approfitto per correggere una mia svista archivistica in Frati, “de bonis… cit., p. 27 n. 29). 98

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Alle soglie della villa fiorentina: l’architettura delle dimore rurali nel Trecento Marco Frati

103 Patzak, Palast… cit., pp. LXVIII-LXIX; Zangheri, Ville… cit., p. 292. 104 Patzak, Palast… cit., pp. 73, XXXIII-XXXIV; Zangheri, Ville… cit., p. 254. 105 M. Turchi, Storie di un paese. Indagine sul territorio di Osteria Nuova, Firenze 1993-2014, I, pp. 140, 141; II, pp. 5662; Celletti, Bagno a Ripoli… cit., pp. 101-102; Rinaldi, “Il Palagio”… cit., pp. 20, 23. 106 Zangheri, Ville… cit., p. 302. 107 Celletti, Bagno a Ripoli… cit., pp. 118-119; Rinaldi, Il “Palagio”… cit., p. 30.

lo e più aperta di questo schema compare alle Pergole a Careggi103: qui il blocco orizzontale si apre verso sud attraverso una loggia trabeata e un portico a tre arcate su colonne lapidee. Inoltre, come si è già visto, dotato anche di corte murata era il palagio dei Rucellai a Quaracchi. Non facilmente databile, villa Aruch104, interessata da un recente restauro, mostrava verso il giardino ampie finestre ricavate nella muratura laterizia e un bellissimo portico a tre campate con volte a crociera ribassate e costolonate su archi a tutto sesto, peducci e colonne lapidee ornate da capitelli fogliati. Il blocco turrito Di palazzetti turriti, realizzati in una sola fase di costruzione e non come risultato di suc-

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cessivi accorpamenti (come forse il resedio di Camerata), ci sono pochi esempi, uno dei quali, piuttosto ben conservato, è Torre di Sopra a Osteria Nuova105 ove nel corpo a est spiccano grandi aperture a testimonianza della vocazione residenziale del complesso. Il blocco fra torri angolari Purtroppo per questo tipo non disponiamo di casi datati e facilmente leggibili. Villa La Colombaia a Sollicciano106 presenta una struttura laterizia inserita fra due colombaie gemelle e che nasconde un giardino murato. Non dissimile doveva essere il palagio degli Scolari a Tizzano107 del quale una veduta del 1792 mostra un corpo compatto fra torri angolari: ma qui si tratta forse di aggiunte successive.


Fig. 11 Palazzo Vescovile, San Miniato al Monte, Firenze

Alle soglie della villa fiorentina: l’architettura delle dimore rurali nel Trecento Marco Frati

Fig. 12. Pianta del monastero di Santa Brigida a Fabroro, 1781 ca. (Firenze, Museo Firenze com’era). Dettaglio del trecentesco ‘Paradiso’ degli Alberti (da Il “Paradiso”… cit., 1985)

Due corpi contrapposti Un esempio sicuramente datato e assai circostanziato è la perduta casa di Andrea di Gherardo Razzanti, ampliata nel 1339-1340 dal maestro Meo di Tinuccio da San Gimignano secondo un preciso contratto di appalto108. Una possibile lettura109 restituisce un corpo a tre piani: a piano terra un portico voltato (preesistente), al primo piano una loggia su pilastri laterizi ottagoni con basi e capitelli lapidei e archi di mattoni, al secondo piano una sala, una camera e un guardaroba separati da sottili pareti. La sala, molto luminosa grazie a ben sette finestre, era riscaldata da un camino, come pure la camera. Le pareti, intonacate all’interno, all’esterno erano di pietra a faccia vista rimboccata e coronate da merli, mentre le finestre erano finite da un davanzale in pietra modanata e corredate da ferri e scuri. Il tetto, appoggiato a capriate lignee, aveva manto di lastre lapidee. Presumibilmente di fronte, come già a Villa Arrivabene, si ergeva il “palagio vecchio” sopra il quale fu realizzata la cucina, collegata alla sala da un verone (verosimilmente aggettante sul cortile e incastrato al muro di cinta110 o a un secondo corpo di fabbrica), sul quale sbarcava una scala a due rampe (una per ogni livello superato), probabilmente agganciata al vecchio edificio. Al di là dell’interpretazione planimetrica, emerge chiaramente che con i nuovi lavori si elevarono di un piano gli edifici preesistenti (casa da signore e casa da lavoratore) raggiungendo altezze considerevoli (almeno 16 m) e li si collegarono ottenendo un complesso unitario ma articolato111. Certi elementi architettonici – le finestre numerose, la loggia con colonne a base poligonali, la scala rampante – richiamano certamente l’edilizia urbana, mentre altri dettagli – il coronamento merlato, la copertura lapidea – alludono al contesto rurale e militare. Certamente contrapposte sulla corte interna (aperta verso nord-ovest e sud-est) apparivano

invece le case da signore e da lavoratore del Palagetto degli Strozzi a Castello, poi involucrate dai Corsini nella loro splendida villa112. Due corpi contigui A questo tipo appartiene il celebrato complesso di Fabroro a Ripoli (fig. 12) “detto Paradiso per rispecto della belezza et ornamento degli edifici et giardini che ci erano e de’ dilecti corporali” (1411)113, il cui ampliamento con l’istituzione di un doppio monastero brigidino si deve agli Alberti nel 1392 ma il cui nucleo originale fu voluto dai Mozzi probabilmente negli stessi anni del palazzo vescovile a San Miniato114. Da questa famiglia guelfa, preminente a Firenze intorno al 1300 e crollata finanziariamente nel 1309, il ‘palasgio’ passò nel 1311 ai Peruzzi, che immediatamente lo adeguarono alle loro smisurate esigenze115, coronando di merli il tetto dell’edificio, aggiungendo una scala esterna, spostando la viabilità più a ovest, sistemando il giardino murato e quello (vastissimo) esterno, coprendo la cappella e realizzandovi una piccola canonica. L’anno successivo si migliorò l’impianto idraulico del giardino e del vivaio e si fortificò il complesso, accrescendo l’altezza del ‘palasgio basso’ e delle mura del resedio e rinforzando il circuito difensivo con bertesche. Garantite comodità e sicurezza (sono gli anni della temuta discesa di Arrigo VII), gli interventi successivi (1317, 1318, 1319, 1321) appaiono di ordinaria amministrazione (fossi nel giardino, sistemazione della corte, “lavorio del palagio e case e corte” a seguito della divisione del 1320). Del “palagio grande messo in fortezza con molti edifici di muraglia”, come appariva definitivamente nel 1331116, si scorge oggi il “grande circuito” delle mura perimetrali rinforzato da barbacani (forse oggetto dei lavori del 1336 ed elemento riconosciuto caratteristico anche più tardi: 1376, 1401) e portale d’ingresso con arme lapidea. In asse con quest’ultimo è l’atrio centrale dell’“habituro da signore”, da cui si

Pirillo, Costruzione… cit., pp. 146-153, 158-161. Cfr. Frati, “de bonis… cit., pp. 188, 190-191, dove ho inteso un edificio compatto a un solo piano fuori terra. A una più attenta disamina risulta che la nuova loggia viene sovrapposta alla vecchia e che la scala sbarca sul verone poggiandosi su archi rampanti. 110 La presenza del muro di cinta si ricava dall’incrocio di documenti del 1323 e del 1330 col nostro: Pirillo, Costruzione… cit., p. 142 n. 20, p. 157 n. 92; Pirillo, Forme… cit., I, p. 51 n. 10123. 111 Pirillo, Costruzione… cit., pp. 146-148. 112 Zangheri, Ville… cit., pp. 120-131; Gobbi Sica, La villa… cit., pp. 172-176; Villa Corsini a Castello, a cura di A. Romualdi, Firenze 2010. 113 L. Meoni, Le preesistenze e il primo nucleo monastico: 13921398, in Il “Paradiso” in Pian di Ripoli, Firenze 1985, pp. 3440; A. Rensi, Il Palagio, in ivi, pp. 106-108. Per il rilievo del palagio, ivi, p. 121 nn. 1-9; Zangheri, Ville… cit., pp. 448-449. 114 Se il palazzo e l’attigua cappella intitolata a San Zanobi (primo vescovo di Firenze) sono sorti insieme, si può ipotizzarne la fondazione durante l’episcopato di Andrea de’ Mozzi. Il patronato dell’oratorio passò dai Peruzzi ai Bardi nel 1357. 115 I libri di commercio… cit., pp. 165, 320, 433, 445, 449, 450, 454, 465, 481, 486, utilizzati in parte da Stopani, Medievali… cit., pp. 28-29. Il complesso passò nel 1345 dai Peruzzi ai Visdomini. 116 Causarano, Il processo… cit., p. 143 n. 48. 108

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Celletti, Bagno a Ripoli… cit., pp. 101-102; Rinaldi, “Il Palagio”… cit., pp. 20, 23. 118 Celletti, Bagno a Ripoli… cit., pp. 95-96. 119 Frati, “de bonis… cit., pp. 115-116. 120 Cfr. I libri di commercio… cit., pp. 36, 333, per la datazione; R.C. Proto Pisani, Una committenza per la croce di Santo Stefano a Paterno, “Prospettiva”, XII, 1986, 47, pp. 52-57, per i rapporti con la committenza e il contesto artistico; Frati, Chiese… cit., pp. 159-161, per la descrizione. 121 Trotta, Legnaia… cit., pp. 15-16; Zangheri, Ville… cit., pp. 361-362. 122 Gobbi Sica, La villa… cit., pp. 154, 170-171; Zangheri, Ville… cit., pp. 222-223. 123 Acidini Luchinat, Galletti, Le ville e i giardini … cit., pp. 139-140; Gobbi Sica, La villa… cit., p. 184. 124 Trotta, Legnaia… cit., pp. 55-58; Zangheri, Ville… cit., pp. 356-357. Il Castello di Torregalli: storia e restauro di un complesso fortificato del “contado fiorentino”, a cura di M. De Vita, Firenze 2007. 125 G. Fagnoni Spadolini, Villa Lemmi a Careggi, restauro e adattamento, “Antichità Viva”, I, 1962, 1, pp. 25-29; Villa Tornabuoni Lemmi a Careggi, a cura di M. Pedroli Bertoni, Firenze 1988; Zangheri, Ville… cit., pp. 24-39. 126 Da ultimo, C. Paolini, Architetture d’Oltrarno: da piazza Giuseppe Poggi a piazza Santa Maria Soprarno, Firenze 2010, pp. 63-68. 117

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accede alla sequenza trasversale di sale voltate a crociera e illuminate da ampie finestre centinate. A rompere la simmetria verso est si trova un corpo più corto in cui si apriva un portico lapideo a tre fornici verso sud-ovest. Questo schema ad L ebbe particolare fortuna fra i Peruzzi. A Torre di Sopra117 ne resta un bell’esempio intorno a una corte chiusa da alte mura anche sui lati est e sud. Su quest’ultimo è addossata una scala a due rampe che sale sopra un portico a L rivolto a sud-est e poggiante su pilastri e archi laterizi (fig. 13). Ma è a Varliano118 che compaiono delle sostanziali novità: intorno alla corte (ancora lastricata) si svolge verso sud-ovest il nitido volume completamente privo di accenti militari. Il palazzo aveva in origine un solo piano fuori terra e copertura lapidea a tre falde. A piano terra si entra attraverso un androne coperto a botte e si accede ad ampie sale ora voltate piuttosto buie; al piano superiore le camere prendono luce da ampie aperture centinate identiche fra loro. In fase col palazzo e rivolto a sud si svolge un portico a cinque archi laterizi a sezione poligonale sostenuti da colonne lapidee ottagonali le cui facce appaiono raffinate dalla martellina dentata119. Sopra il portico sbarcava una scala esterna e si ergeva una loggia, inizialmente tutta aperta con basi dei sostegni alla tettoia in laterizio ma con semipilastro lapideo ammorsato nella muratura del palazzo (e dunque in fase), poi chiusa da un parapetto e sullo spigolo, successivamente tamponata e bucata da finestre e infine abbassata e sconvolta da livelli interni diversi. Anche qui, a poca distanza dal palagio, fu associato un oratorio: risalente al 1334120, esso, se costruito poco dopo o in concomitanza con l’insediamento padronale, ne costituirebbe un importante riferimento cronologico. Dunque, già nel primo terzo del Trecento si metteva a punto un tipo nuovo di residenza rurale, dalla geometria precisa e chiusa, priva di elementi ostentatamente difensivi.

Fig. 13 Torre di Sopra, Bagno a Ripoli, Firenze (da Rinaldi, Il “Palagio”… cit., 2006)

In forma meno chiara questi stessi caratteri compaiono a Querceto, nella villa Carducci a Soffiano (nota anche come Fornacione o Palagio alla Volta di Legnaia)121 con la scala su volta rampante verso il cortile e la tettoia su pilastro ottagonale e puntoni lignei, nel Chiuso a Castello122, la cui struttura si svolge intorno al cortile quadrangolare irregolare verso est, e forse anche alla Petraia123. Tre corpi contigui con torre È questo uno dei tipi più diffusi nelle sei miglia ma purtroppo manca un caso esemplare sufficientemente circostanziato e restano dubbi sull’origine di molti corpi turriti, che conferiscono una generica ‘medievalità’ all’edificio. Recentemente restaurato ma non accompagnato da un’altrettanto attenta ricerca storica, il nucleo medievale di villa Nerli a Torregalli (Soffiano)124 appare organizzato simmetricamente intorno alla torre centrale con due ali a L che racchiudono il cortile parallelogrammo (fig. 15). Sul lato sud si apriva un portico (ora chiuso) su pilastri ottagonali e (probabilmente) tre arcate a sostegno di un solaio ligneo. La facciata verso ovest aveva ampie e regolari aperture al primo piano a funzione difensiva, poiché dietro di esse corre un ballatoio (sostenuto da setti murari) a protezione del portale d’ingresso. Il palazzo presenta cantine voltate nei sotterranei, sale coperte a crociera su semipilastri ottagonali a piano terra e sale soffittate e decorate al primo piano. La stessa muratura a filaretto coronata da una merlatura originale (così appariva ancora nel 1715) caratterizza la fabbrica e il retrostante giardino murato. Villa Macerelli-Lemmi-Tornabuoni a Careggi, la cui immagine è fissata da uno storico restauro125, ha corte rivolta a sud-est con portico (verso nord-est) a due campate coperte a crociera su sostegni ottagonali (quello centrale ha colonna sostituita in cemento armato) e capitelli a scudo confrontabili con quelli di palazzo Bardi


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Canigiani126. I corpi edilizi, probabilmente aggregati successivamente, recano anche estese decorazioni a drappeggi e travi dipinte che riprendono quelle dei lussuosi palazzi cittadini. Altrettanto restaurate (e completamente intonacate) ma non accompagnate da una pubblicazione illustrativa sono le ville Davizzi (poi Rosselli Del Turco) al Sassetto (Novoli)127 e Aldobrandini alle Brache o di Bellagio (Castello)128. Nella prima un enorme torrione scarpato alla base sorveglia il cortile rivolto a sud-est e filtrato da due portici esposti a sud (l’uno a tre arcate su pilastri ottagonali, l’altro trasversale al primo), forse realizzati dopo il passaggio ai Davizzi (1344). Nella seconda due torri stringono il nucleo originale dotato di portico (rivolto a nord) a due campate con volte a crociera su archi ribassati e colonna lapidea con fusto ottagonale e capitello a scudo; il corpo centrale (che guarda a ovest) reca tracce di portale trecentesco mentre la terza ala

ha finestre lapidee centinate poco sotto la gronda, che probabilmente un tempo era più alta. Ancora leggibili nei rapporti stratigrafici ma inavvicinabili sono i complessi di Bisarno o Le Pergole a San Piero in Palco129, del Pitto a Poggio di Ripoli130 e della Mula a Quinto131. Nel primo caso, forse già databile entro il 1329 e dovuto agli Scali132, prevale una dinamica aggregativa di cui è frutto l’impianto con quattro torri angolari e le facciate (merlate) inflessa verso l’ingresso ed estroflessa sul retro; intorno al cortile trapezoidale si dipanano gli ambienti, anche decorati con pitture policrome, la scala esterna rampante, il verone pensile e il portico (verso ovest) a tre campate a crociera su pilastri ottagoni. La casa da signore dei Pitti, già Barbadori, mostra invece, dietro a un giardino murato, un lungo corpo di fabbrica merlato fra due torri e intorno a una minuscola corte. Il resedio dei Tosinghi, impostato sopra una tomba etrusca a tumulo, era difeso

Patzak, Palast… cit., p. LXI; Zangheri, Ville… cit., p. 263. Patzak, Palast… cit., pp. 104, LX; N. Baldini, G. Passani, Villa Le Brache (Bellagio), in Castello, campagna medicea, periferia urbana, Firenze 1984, pp. 88-89; Zangheri, Ville… cit., p. 218. 129 Patzak, Palast… cit., pp. 109, LXVII; Zangheri, Ville… cit., pp. 442-443; Rinaldi, “Il Palagio”… cit., p. 20. 130 Zangheri, Ville… cit., p. 450. 131 Gobbi Sica, La villa… cit., pp. 152, 222-223; da ultimi, A. Monti, C. Nembi, Un elevato poggiuolo artefatto. Brevi note di storia e arte sulla villa La Mula di Quinto Fiorentino, Tricase 2014. Ringrazio gli autori per avermi cortesemente fornito il dattiloscritto prima della pubblicazione. 132 I libri di commercio… cit., p. 54. 127

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133 Celletti, Bagno a Ripoli… cit., p. 84; M. Jaff, Immagini di Dimore Storiche nei rilevamenti degli allievi della Facoltà di

Architettura di Firenze, “Firenze Architettura”, IX, 2005, Suppl. 1, pp. 26-27. 134 Celletti, Bagno a Ripoli… cit., p. 90; Bertsch, Villa… cit., pp. 234-235. 135 Queste fasi, che comprendono anche la realizzazione del portico su tre pilastri lapidei, sono databili a dopo l’acquisto dei Gianfigliazzi (entro il 1427): ai due corpi ne fu aggiunto uno nuovo a nord e l’interno fu decorato a vaio. Zangheri, Ville… cit., pp. 331-332; S. Bertocci, L. Lucchesi, Villa Arrivabene: affreschi di città, fortezze e condottieri in una villa fiorentina, Firenze 2001, pp. 1417. La ‘torre’ fu invece realizzata più tardi, imitando una struttura medievale.

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naturalmente e fortificato da una torre, dal coronamento merlato e da un antiporto e incentrato sulla corte, filtrata verso nord-ovest da un portico trabeato a tre sostegni. Il ferro di cavallo La più antica attestazione di questo tipo, che sembra essere un’evoluzione di quello precedente senza l’arcaica torre, è rintracciabile nel palagio dei Pitti a Rusciano che, come si è già visto, è riferibile al primo quarto del Trecento. Allo stesso periodo potrebbe appartenere quello dei Macinghi agli Alberi (villa Pedriali)133 (fig. 14) che, nonostante le notevoli integrazioni neo-medievali (coronamento torre, loggia, atrio e portico, le più evidenti), conserva la struttura a U rivolta a ovest intorno al cortile, databile grazie alle ampie e regolari aperture (singolare la variazione della curvatura dell’arco delle finestre, per mantenerne costante la freccia) in fase con la muratura a filaretto e simili a quelle di Varliano. L’attuale livello di gronda regolarizza l’aspetto del complesso, risultante da successive aggiunte di corpi di fabbrica di diverse altezze a

partire dal palagio duecentesco (databile per il portalino) sporgente a sud-ovest poi trasformato in torre liberty. Anche il complesso dei Bardi a Tavernucole (Baroncelli)134 è frutto di più corpi edilizi (fig. 16), che, al netto delle aggiunte post-medievali (compreso il corpo turriforme) omogeneizzate dalla copertura a gronda costante, ruotano intorno a una grande corte aperta verso sud. Infatti, il muro verso il giardino mostra solo qualche rara traccia di apertura in basso (le rinascimentali, tutte ricavate in rottura), mentre in facciata esse sono disordinate e databili al Duecento (laterizio) e al secolo successivo (arco ribassato in pietra). Sul fronte nord, da sinistra, si notano: un’aggiunta tardomedievale, un corpo centrale orizzontale (poi rialzato) con aperture ad archi ribassati, resti di copertura lapidea (tangente in facciata alla finestra archivoltata e dunque ad essa posteriore) e successivo innalzamento di merli (o finestre poi tagliate dall’attuale copertura) che testimoniano almeno tre fasi edilizie medievali. Questo stesso schema compositivo riguarda villa


Fig. 14 Villa Pedriali agli Alberi, Bagno a Ripoli, Firenze.

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Fig. 15 Torregalli, Soffiano, Firenze. Pianta del primo piano rialzato (da Il Castello di Torregalli… cit., 2007).

Arrivabene135, dove dopo l’aggiunta di un nuovo corpo porticato fra i due preesistenti duecenteschi136 si ottenne un cortile quadrilatero aperto a sud, Careggi Vecchio137, dove la torre fu aggiunta o ricostruita in età rinascimentale138, e altri edifici le cui strutture sono ora coperte da intonaco e finiture del XVI secolo, come la Loggia dei Bianchi139, che ha due lati porticati (verso sud-ovest), Villa Pozzolini a Novoli140, con portico ligneo su colonne e pilastri in mattoni, o Villa Mini ai Pepi o alle Pergole (Careggi)141. Quest’ultimo edificio è significativo per il suo bel triportico a due ordini su colonne ottagonali, che si inserisce nel cortile quadrangolare regolarizzandolo, e per il verone (qui un ballatoio su volticelle a cappuccio), che non protegge più l’ingresso ma si apre generosamente sul paesaggio verso ovest. La corte chiusa Uno schema distributivo introverso e anulare come questo ha naturalmente origini castellane ma i casi fiorentini hanno altra genesi, anche per l’insufficiente disponibilità di strutture adeguate142. Infatti, si tratta, ancora una volta, di complessi risultanti da aggiunte successive a corpi duecenteschi come, per esempio, a Palagio Spini a Peretola143 e al Passerino (Baroncelli), già “casa in palco” (corrispondente all’ala est) acquistata dai Peruzzi nel 1299144 e aggiunta di tre corpi a tre piani con vasti sotterranei e sale grandiose. Più tarda (seconda metà del Trecento) risulterebbe la trasformazione di un corpo duecentesco alto almeno tre piani fuori terra nel Casone di Sorgane (Pieve di Ripoli)145: a nord della corte lastricata dà un portico su colonna e semicolonne ottagonali laterizie intonacate, archi ribassati e volta a crociera (fig. 17); una scaletta pensile con tettoia lignea su colonnini poligonali in pietra e un ballatoio garantiscono i collegamenti fra i diversi ambienti ma, allo stesso tempo, rendono lo spazio scoperto dinamico e variato; una certa

modernità è data al cortile dai finti conci graffiti e dalle aperture architravate su mensole; le cantine e le sale al primo piano sono voltate, alcuni ambienti sono riscaldati da un camino in pietra; la facciata, bucata da numerose tracce di aperture laterizie, è conclusa da una merlatura a quote diverse che ne muovono il profilo. Aspetto del tutto compatto e concluso ha invece il palazzo dei Peruzzi alle Corti (Osteria Nuova)146 (fig. 18), forse identificabile con il “palagio e corte” da loro acquistato a Pratovecchio (al confine fra i popoli di San Quirico a Ruballa e della pieve di Antella) dai Passerini nel 1315 e sistemato l’anno successivo con lavori a “le palcora e ‘l tetto e la scala di fuori e agiamenti e altri aconcimi” per 245 lire147. Una cifra del genere sarebbe stata insufficiente per grandi opere murarie148 mentre qui si tratta soprattutto della sostituzione di strutture lignee, verosimilmente andate distrutte in occasione del passaggio di Arrigo VII nel 1312149. Non trovando altri pagamenti o transazioni, bisogna ammettere che il complesso fosse così configurato già all’inizio del Trecento. Tracce di un preesistente edificio turriforme si scorgono al centro del fronte sud: una muratura in calcare alberese in cui si aprivano piccole monofore (ora tamponate) a livelli diversi dalle altre finestre corrisponde a un robusto nucleo a pianta quadrangolare. Il complesso trecentesco è formato da un blocco chiuso intorno a un cortile quadrato (il palagio) e da una grande corte

Cfr. il testo a nota 52. Zangheri, Ville… cit., p. 300. 138 Come dimostrano i brani di muratura sotto l’intonaco cadente in una foto di Alessandro Rinaldi, che ringrazio per la cortesia. 139 Gobbi Sica, La villa… cit., pp. 160-161. 140 Zangheri, Ville… cit., pp. 260-261. 141 A. Lensi, Ville fiorentine medievali,“Dedalo”, XI, 1931, 18, pp. 1319-1334: 1331-1332, 1333-1334; Zangheri, Ville… cit., p. 291. 142 Per un repertorio, R. Francovich, I castelli del Contado fiorentino nei secoli XII e XIII, Firenze 1973; M.E. Cortese, Castelli e città: l’incastellamento nelle aree periurbane della Toscana (secc. X-XII), in Castelli Medievali. Storia e archeologia del potere nella Toscana medievale, a cura di R. Francovich, M. Ginatempo, Firenze 2000, pp. 205-237: 219-223; Ead., Signori, castelli, città: l’aristocrazia del territorio fiorentino tra X e XII secolo, Firenze 2007, pp. 237-241; Ead., Famiglie aristocratiche nei pivieri di Ripoli, Villamagna, Antella e Impruneta (secc. XI-XII): patrimoni, relazioni politiche, rapporti con la Città, in Alle porte di Firenze cit., pp. 1740. 143 Fu forse allora che venne inserita la loggia a tetto. Cfr. la nota 53. 136 137

144 Celletti, Bagno a Ripoli… cit., p. 89. I libri di commercio… cit., p. 468. 145 Cini, Il restauro… cit.; Zangheri, Ville… cit., pp. 444-445. 146 Patzak, Palast… cit., pp. 76-78, XXXIX; Turchi, Storie… cit., I, pp. 124-125; III, pp. 53-56; IV, pp. 53-88; Celletti, Bagno a Ripoli… cit., p. 101. Ringrazio per l’entusiasmante sopralluogo Alessandro Rinaldi, i signori Fancelli e Michele Turchi, le acute osservazioni del quale ho potuto leggere solo al termine della stesura di questo saggio. 147 I libri di commercio… cit., pp. 469, 471. 148 L’anno precedente era costata 100 lire la costruzione della volta superiore della porta a San Gallo: Frati, “de bonis… cit., p. 249 n. 3. 149 Villani, Nuova… cit., II, p. 248 (lib. X, rub. XLVII).

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quadrangolare accessibile da nord e murata da una cortina un tempo merlata (l’attuale piatto coronamento è frutto di un rialzamento). Le due strutture appaiono legate fra loro e dunque concepite in una sola fase, secondo un progetto chiaramente assiale che prevedeva la monumentale sequenza di ingresso-corte-atrio-cortile resa visivamente attraverso l’infilata dei portali. La volumetria del palazzo, però, aveva un aspetto più articolato di quella attuale, frutto di un livellamento ottocentesco. Il piano terra si presentava quasi cieco con poche alte piccole finestre rettangolari mentre al piano superiore fanno bella mostra di sé ampie e regolari aperture centinate con ribassati archi crescenti e corredate di davanzali modanati e uncini metallici a sostegno di pali per tendaggi. Identiche finestre dovevano trovarsi sul lato sud del secondo piano, molto più alto di adesso, come risulta da analoghi davanzali e stipiti di aperture in perfetta corrispondenza verticale con le prime. Per una galleria voltata a botte ribassata e protetta da una bertesca (ne re-

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sta traccia dei mensoloni al secondo piano) si penetra all’interno del palazzo: esso ruota intorno al cortile, su cui dava un portico a tre fornici su robusti pilastri quadrati ingentiliti dalla perfetta finitura delle facce e da bastoni agli spigoli e travi su mensole scolpite a reggere il soffitto, un altro a una sola potente arcata laterizia ribassata e una scala lignea (ne resta la portafinestra di arrivo) da cui si accedeva al piano superiore. Qui le finestre sono ingentilite da una cornice marcapiano e vivacizzate dagli archi laterizi, così come la tecnica costruttiva delle pareti (stilatura dei giunti, finitura a picconcello dei cantonali) appare piuttosto raffinata. I lavori dei Peruzzi al complesso confermarono le compatte volumetrie già impostate dai Passerini, limitandosi a qualche miglioria. A nord fu leggermente sopraelevata la merlatura del cortile d’ingresso; a sud fu aggiunto il giardino murato da una parete bassa e non merlata, con accesso diretto dall’esterno, rafforzando l’assialità originale. I tetti originali, più bassi degli attuali, furono rifatti cambiando-


Fig. 16 Le Tavernucole, Bagno a Ripoli, Firenze Fig. 17 Il Casone, Sorgane, Firenze. Pianta del piano terra (da Cini, Il restauro… cit., 1987)

ne leggermente quote e pendenze. All’interno furono eseguite, soprattutto al piano superiore, pitture su muro (imponente la figura rinvenuta nel sottotetto di un re Angioino, probabilmente Roberto, che aveva soggiornato nel palazzo di famiglia cinque anni prima150) e su legno (travature del tetto). A posteriori: il noumeno I tipi che si sono appena descritti attraverso i casi più facilmente leggibili e circostanziati sembrano essere nati in frangenti molto vari e non rispondere a una linea evolutiva dall’organismo più semplice al più complesso o dal più articolato al più cristallino. Anzi, dovendo (per forza?) procedere a una cronotipologia si osserverebbe come tutti i tipi sono stati messi a punto nel primo quarto del Trecento, se non addirittura entro il 1315, con un evidente quanto complicato intreccio di rimandi che rende difficile – quando non impossibile – stabilire una sequenza temporale fra i diversi casi non datati e le loro astrazioni tipologiche. Cionondimeno, si può giungere a un’importante conclusione: e cioè che la dimora rurale medievale fiorentina come nuovo tipo abitativo rurale era già stato elaborato all’inizio del Trecento. E anche che – dopo una certa interruzione dell’attività edilizia in campagna a causa dell’insicurezza militare del secondo e terzo decennio del secolo151 – il suo sviluppo riprese negli anni Trenta con la ripetizione degli schemi precedenti, l’ampliamento e la sistemazione delle strutture preesistenti, in risposta all’aspirazione dello stesso ceto dirigente – se non degli stessi individui – a una vita più libera e pura, compressa per almeno tre lustri. Una nuova crisi intervenne nel corso del decennio successivo con il fallimento delle principali compagnie creditizie e con la peste nera152, che colpirono duramente i più forti committenti di residenze di campagna e ridussero di molto la

domanda edilizia in generale. Anche la seconda metà del Trecento sembra un periodo negativo per lo sviluppo della villa fiorentina, con la crescente insicurezza militare delle campagne e l’ascesa al potere del popolo minuto. Cercando di arrivare a una sintesi, ovviamente resa difficile dall’incertezza di molti dati, sembra di poter comunque affermare l’esistenza di alcune invarianti alla metà del Trecento. In quasi tutti i casi, infatti, si riscontrano corpi compatti, anche se non nitidamente geometrici e, anzi, frastagliati da merlature, dotati spesso di portici a piano terra e sempre bucati da grandi e numerose finestre ai piani alti. Un riflesso di questa tipologia appare anche nell’Allegoria della Povertà che Giotto (o un suo collaboratore) dipinse tra il secondo e il quarto decennio del Trecento sulla volta della crociera della Basilica inferiore di Assisi153 (fig. 19). In essa si osservano compendiati tutti i caratteri dell’architettura villana, elevata dal pittore a simbolo, insieme al lussuoso vestiario, della ricchezza di cui san Francesco si libera nelle sue mistiche nozze con madonna Povertà: il portico, le ampie e decorate finestre, il giardino segreto, il coronamento merlato. I portici appaiono rivolti prevalentemente verso sud (12

150 I libri di commercio… cit., p. 476; R.C. Proto Pisani, Una committenza… cit., p. 56. 151 Patzak, Palast… cit., pp. 92-93. 152 A. Sapori, La crisi delle compagnie mercantili dei Bardi e dei Peruzzi, Firenze 1926. 153 Patzak, Palast… cit., p. 73. Sul dipinto: A. Tomei, Giotto, in Enciclopedia dell’arte medievale, Roma 1995, VI, pp. 649679: 669.

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C. Tosco, Il paesaggio come storia, Bologna 2007, p. 19 ; Id., Petrarca: paesaggi, città, architetture, Macerata 2011. 155 Patzak, Palast… cit., p. LXIII. Da ultimo: J. Gardner, Giotto and His Publics: Three Paradigms of Patronage, Cambridge 2011, pp. 63-64; F. Benelli, The Architecture in Giotto’s Paintings, Cambridge 2012, pp. 126-131. 156 Sul tema, cfr. l’ormai classico E. Panofsky, Gothic Architecture and Scholasticism, Latrobe 1951. 157 Cfr. C. Tosco, Il paesaggio storico. Le fonti e i metodi di ricerca, Roma-Bari 2009, p. 31, per la terminologia e, più in generale, per la metodologia d’indagine. 154

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su 23 casi indagati), ma l’orientamento sembra rispondere anche a esigenze diverse da quella di ripararsi dal sole. Infatti, analizzando la direzione assunta dai corpi convessi (tipi a U con corti semiaperte) o dalla posizione di logge e veroni, scopriamo un comportamento omogeneo: nei casi d’altura (Le Corti, Tavernucole, Le Pergole, Rusciano, Careggi ecc.) gli edifici sono sempre rivolti verso la città in un rapporto di reciproca introspezione come per l’antesignano palazzo Mozzi a San Miniato al Monte, mentre nei casi planiziali (La Mula, Torregalli ecc.) avviene il contrario, con i complessi che voltano le spalle alla città e guardano alla piana fino all’orizzonte chiuso da colline e catene montuose. Insomma, nel comporre i volumi (pieni, vuoti, semipieni; preesistenti, progettati) gli architetti delle ‘ville’ trecentesche cercano di instaurare un rapporto diretto col paesaggio, com’è ormai suggerito dalla letteratura dell’epoca154. Dobbiamo a questo punto porci il problema se esiste o meno un modello teorico di ‘villa medievale’ fiorentina. Effettivamente, se si guarda all’immaginario (collettivo o elitario, non importa) rappresentato dalla finzione letteraria e pittorica, sembra proprio così. In particolare, è Giotto a offrircene una prova nella cappella Bardi in Santa Croce, datata al 1325 circa155, cioè nel pieno della crisi militare, che sconsigliava investimenti in architetture civili rurali, e quando gli esperimenti dei primi anni del secolo erano ormai decantati. Orbene, la scena della Rinuncia agli averi mostra la stessa contrapposizione fra due gruppi della Basilica superiore, ma dal modello assisiate si differenzia per un diverso sfondo, non più costituito dalla variopinta e caotica architettura urbana (fig. 20): questa volta appare un nitido edificio elevato su di un alto basamento e pertanto distinto dal paesaggio; la sua perfezione geometrica rivela una completa e compiuta libertà di espressione, così come le grandiose logge alludono a una molteplicità

Fig. 18 Le Corti a Osteria Nuova, Bagno a Ripoli, Firenze

di relazioni spaziali e visuali. Nelle aperture e nell’articolazione delle pareti rimangono delle concessioni alla tradizione architettonica ma le ampie monofore e le classicissime trabeazioni con la cornice continua che separa i piani e chiude definitivamente il volume appaiono di una straordinaria modernità, raggiunta solo parzialmente – e non a caso! – dalle due coeve residenze dei Peruzzi a Varliano e alle Corti. D’altra parte, il naturalismo – figlio di Aristotelismo e Scolastica (veicolati a Firenze, fra gli altri, da Brunetto Latini) e rappresentato in pittura al più alto livello proprio da Giotto – tendendo ad attribuire valore alla cosa in sé (fino agli estremi del Nominalismo)156 avrebbe dovuto condurre, piuttosto, alla dispersione fenomenologica nella molteplicità di casi singoli in ciascuno dei quali si risponde a esigenze particolari (gli ecofatti della situazione paesaggistica157, i manufatti delle strutture preesistenti, il Kunstwollen del committente ecc.) ispirandosi naturalmente anche a modelli concreti come quelli offerti dall’edilizia pubblica e privata. Ma nella varietà di combinazioni (scolasticamente, di relazioni delle parti con il tutto), come dimostra l’affresco di Assisi, è l’assunzione di soluzioni architettoniche pressoché costanti a costituire la vera invariante nella tipologia villana. Vediamole nel dettaglio e in sequenza. L’accesso, comodo dalla strada, era generalmente segnato da un portale con arme che dichiarava l’appartenenza del complesso, la cui muratura all’esterno era invariabilmente a filaretto, talvolta con i giunti e i letti di posa preziosamente stuccati. Spesso l’ingresso – soprattutto alle corti interne – era protetto da monofore (come quelle di Palazzo Vecchio dopo il 1306)158 e merlature raggiungibili internamente da un ballatoio aggettante o, più raramente, da una loggia. Il camminamento – detto anche ‘verone’, che mi parrebbe avere con il tedesco Wehrgang un etimo comune – si appoggiava a volticciole su


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Alle soglie della villa fiorentina: l’architettura delle dimore rurali nel Trecento Marco Frati

setti murari o a mensole aggettanti159. Entrati nel sinus della villa, dalla corte murata si aveva una visione completa dell’intero complesso e calpestando il pavimento lastricato si poteva accedere ad alcuni degli ambienti a piano terra fra i quali spiccava il portico. Questo elemento, indispensabile nelle dimore urbane160, era molto spesso coperto da volte a crociera su campata rettangolare che spingevano su archi ribassati e catene metalliche che, a loro volta, scaricavano il proprio peso su pilastri: quasi sempre di pietra con fusti ottagonali e capitelli a scudo dalle ovvie conseguenze araldiche o, più di rado, a foglie d’acqua161. In qualche raro caso – soprattutto nel tipo della villa a corte chiusa – i cortili avevano pianta rettangolare tendente alla perfezione del quadrato ma la loro maggioranza ha forma irregolarmente quadrangolare, con il risultato di offrire all’osservatore una visione più dinamica, tipica anche dei palazzi pubblici cittadini (Bargello, palazzo Vecchio) e coerente con la nuova sensibilità prospettica della cultura pittorica giottesca162. Il dinamismo insito nelle forme irregolari degli spazi scoperti era accompagnato

dalla varia altezza dei volumi circostanti ma i casi delle ville Arrivabene, Tavernucole, Careggi Vecchio e Alberi dimostrano che non necessariamente le torri oggi visibili sono di origine medievale163. L’accesso all’edificio era segnato, nei casi più aulici, da un atrio voltato a botte dal quale si penetrava nelle sale al piano terra o al cortile interno. Simile copertura, dalla sezione generalmente ribassata, avevano le cantine seminterrate, solitamente accessibili dall’esterno. Le sale al piano terra spesso erano voltate a crociera, con le unghie talvolta poggianti su lesene, e con le pareti interne intonacate semplicemente imbiancate o decorate con pitture a fresco imitanti velari e insegne araldiche. Gli edifici più raffinati erano dotati di un rudimentale impianto di riscaldamento (camini in alcune camere) e di uno idrico (l’acquaio in cucina). Arredi fissi come uncinelli per le torce, porte a chiusura automatica (a saliscendi) e panche o armadi a muro rendevano più confortevole l’abitare. Una scala su volte a botte rampanti o su travi lignee portava al piano superiore attraverso un verone in muratura o, più raramente, su di un

Fig. 19 Giotto di Bondone (attr.), Allegoria della Povertà, 1325 ca. (Assisi, San Francesco, Basilica inferiore). Fig. 20 Giotto di Bondone, Rinuncia agli averi, 1325 ca. (Firenze, Santa Croce, Cappella Bardi).

Cfr. M. Trachtenberg, Founding the Palazzo Vecchio in 1299: the Corso Donati Paradox, “Renaissance Quarterly”, LII, 1999, pp. 967-993: 971. 159 Per la complessità dei percorsi, cfr. M. Trachtenberg, Archaeology, merriment, and murder: the first cortile of the Palazzo Vecchio and its transformations in the late Florentine Republic, “The Art Bulletin”, LXXI, 1989, pp. 565-609. 160 G. Leinz, Die Loggia Rucellai. Ein Beitrag zur Typologie der Familienloggia, Bonn 1977. 161 Sulla scarsa diffusione in ambito cittadino dei capitelli a foglie lisce: C. Piccinini, Capitelli a foglie nella Firenze del Due e Trecento: fogliame rustico e barbaro, Firenze 2000, p. 51; sul tipo, C. Piccinini, Foglie lisce medievali: note di vocabolario, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia. Quaderni”, IV s., I, 1996, 1-2, pp. 23-37. 162 Rinaldi, Il “Palagio”…, pp. 21-23. 163 In questo senso sono da verificare i casi di Campigliano (casa da signore), Alberti (Bagno a Ripoli), Candeli Casa Vecchia (casa da signore), Cavicciuli (Bagno a Ripoli), Candeli La Gioietta (casa da signore) e Biliotti (Bagno a Ripoli): Celletti, Bagno a Ripoli… cit., pp. 91-92. Per una coeva sopraelevazione turriforme di strutture preesistenti, cfr. C. Cosi, Le gualchiere di Remole e l’“industria” laniera nella Firenze bassomedievale, “I quaderni del M.Æ.S”, V, 2002, pp. 57-85: 68-69; L. Fabbri, “Opus novarum gualcheriarum”: gli Albizzi e le origini delle gualchiere di Remole, “Archivio Storico Italiano”, CLXII, 2004, pp. 507-560: 514. 158

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Trachtenberg, Archaeology… cit. M. Frati, I tetti medievali di Firenze, dalle lastre alle tegole: contributo alla storia del paesaggio urbano, in La Maremma al tempo di Arrigo. Società e paesaggio nel Trecento: continuità e trasformazioni, atti del convegno (Suvereto, 22-24 novembre 2013), a cura di G. Galeotti, M. Paperini, Livorno, in corso di stampa. 166 C. De Benedictis, Lorenzetti, Ambrogio, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, VII, Roma 1996, pp. 878-884: 879. 167 Pirillo, Forme… cit., I, p. 329 n. 14503; p. 49 n. 10122, per fare gli esempi più antichi. 168 Ivi, p. 54 n. 10128; p. 332 n. 14504; p. 333 n. 14506; p. 338 n. 14602. I pergolati rivestono importanza tale da entrare nelle date topiche di atti: ASF, Diplomatico, Riformagioni atti pubblici, 1376 Giugno 16. 169 I libri di commercio… cit., p. 482. 170 A. Lillie, The patronage of villa chapels and oratories near Florence: a typology of private religion, in With and without the Medici: studies in Tuscan art and patronage 1434 - 1530, edited by E. Marchand, A. Wright, Aldershot 1998, pp. 19-46, in attesa degli atti della session Free-Standing Chapels in Medieval and Early Modern Europe dell’Annual Conference for the Society of Architectural Historians 2013 (Buffalo, 10-14 april 2013). 171 Su questo tema l’autore ha in corso una ricerca occasionata dall’edizione critica dell’oratorio di San Bartolomeo in via Cava alle Fontanelle di Prato. I casi raccolti finora sono ormai alcune decine. 172 Sui rapporti fra i due: É.G. Léonard, Nicolas Acciaiuoli victime de Boccace, Paris 1934. 173 G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino 1992, pp. 41-42 (I, Introduzione). Cfr. Patzak, Palast… cit., pp. 94-96, che identifica il palagio con la villa di Poggio Gherardo; Lensi, Ville… cit., p. 1319; C. Tosco, Il castello, la casa, la chiesa. Architettura e società nel medioevo, Torino 2003, p. 182. 164

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ballatoio ligneo, come già nel cortile di palazzo Vecchio164. Ai piani fuori terra si trovavano più comunemente camere coperte da travi, talvolta dipinte a secco con decori geometrici o vegetali, e illuminate da grandi e numerose finestre ingentilite da davanzali modanati o cornici marcapiano che emulavano il tenore cittadino. Più raramente le sale comunicavano con l’esterno attraverso una loggia con tettoie sostenute da pali o da svelte colonne a base poligonale. I manti di copertura generalmente erano lapidei, al contrario di quelli di città, tendenzialmente laterizi165, ma la loro presenza era spesso mascherata da un coronamento merlato: solo in casi eccezionali e corrispondenti a un progetto di grande modernità, s’incontrano tetti a falde con la gronda ben visibile e a quota costante che conclude nettamente l’edificio. Altrimenti, mancando la copertura al solaio, esso poteva funzionare da terrazzo da cui, debitamente protetti da parapetti o merlature, gli abitanti potevano godere del panorama. Effettivamente, le ampie finestre, le logge e i solai garantivano notevoli visuali su paesaggi più o meno lontani, corrispondenti alla poetica del nuovo genere pittorico culminato proprio alla fine degli anni Trenta nell’Allegoria del buon governo di Ambrogio Lorenzetti, senese ma immatricolato a Firenze nel 1327166 (fig. 21). Lo sguardo poteva spaziare lontano ma anche concentrarsi sul giardino segreto con vivaio e condotti. Molti sono infatti i giardini cinti da

muri167 o accompagnati da pergolati168. Assai rare invece sono le notizie di impianti idrici, come quello fatto realizzare dai Peruzzi presso il palazzo di San Marcellino a Ripoli: “due condotti nel giardino per menare l’aqua nel vivaio e per rimondare e’ parte de’ fossi del giardino”169. Un capitolo a parte è costituito dall’oratorio privato che in molte occasioni accompagnava la villa suburbana. Il tema della free-standing chapel nei dintorni di Firenze – area in cui è presente forse con la maggior intensità – è stato affrontato per il primo Rinascimento170 ma attende di essere analizzato nelle sue fasi iniziali171. Due compagnons de route a una svolta Alla metà del secolo sembra essersi esaurita la possibilità di realizzare nuove ville ma il loro prestigio resta immutato. Di ciò rendono testimonianza due grandi uomini che hanno condiviso formazione e avventure giovanili: Giovanni Boccaccio e Niccolò Acciaiuoli172. Ben nota per la sua efficacia è la descrizione del ‘palagio’ in cui si riuniscono i giovani protagonisti del Decameron173, scritto esattamente al termine del nostro periodo (fig. 22). Il palazzo, situato sulla cima di una collina a due miglia dalla città ma lontano dai principali tracciati viari, è costituito da logge, sale e numerose camere (almeno dieci, quanti sono gli ospiti con la loro servitù) decorate da pitture. Gli ambienti sono distribuiti intorno a un cortile, mentre seminterrate si


Fig. 21 Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo, 1338 ca. (Siena, Palazzo Pubblico).

trovano le cantine voltate e tutto intorno prati e giardini da cui si può godere un meraviglioso panorama. Interessante anche la descrizione di un altro “bellissimo e ricco palagio, il quale alquanto rilevato dal piano sopra un poggetto era posto”174 due miglia più in là (dunque forse nella seconda cintura): oltre alle ampie sale, alle numerose camere e alle cantine voltate, segno di magnificenza, è presente “una loggia che la corte tutta signoreggiava” e permette di contemplarla, “ampissima e lieta”, dall’alto. Loggia e corte costituiscono due poli dello stesso paesaggio domestico, che in un gioco di specchi si guardano a vicenda: lo spazio scoperto ma chiuso del cortile e quello coperto ma filtrante dell’altana. Il palazzo è affiancato da un giardino “che, se Paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere che altra forma che quella di quel giardino gli si potesse dare, né pensare, oltre a questo”175 – e dunque ideale: protetto da un muro, è organizzato da ampie e dritte vie coperte da pergolati di viti e chiuse da roseti, con al centro un prato fiorito circondato da piante di agrumi e una fontana di marmo scolpito da cui sgorga l’acqua di una complessa rete idrica (che alimenta anche gli opifici del podere). All’invenzione letteraria si aggiunge il commento di sapore cronachistico di “un piccol laghetto, quale talvolta per modo di vivaio fanno ne’ lor giardini i cittadini che di ciò hanno destro”176. Come si può notare, la lirica descrizione di Boccaccio, costituente una sorta di compendio delle precedenti esperienze abitative, coincide perfettamente con quanto emerge dalla documentazione notarile e, soprattutto, dall’analisi archeologica del costruito. Per quanto riguarda il giardino, invece, solo alcuni elementi dell’ideale verzura si trovano con una certa frequenza nella prosa realistica dei notai ma sono oggi impossibili da rintracciare materialmente. Ma quello di Boccaccio è un bilancio consuntivo di un’esperienza che sembra non potersi ripetere a breve,

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se non altrove. E, del resto un po’ amaramente, egli asseriva che era follia attendersi l’immortalità da costruzioni che cadono in rovina177. Forse meno noto, ma altrettanto importante nell’economia del nostro discorso, è il cosiddetto ‘Palazzo degli Studi’ alla Certosa del Galluzzo178, voluto dall’Acciaiuoli come proprio “habitaculo” presso Firenze dopo esser diventato gran siniscalco del re di Napoli (fig. 23). Dopo aver completato, non senza interruzioni, la chiesa e il monastero179, nel 1355 Niccolò dette avvio, nonostante le resistenze dei certosini, anche al palazzo, di cui egli ebbe chiara fin da subito la portata: esso, vero e proprio monumento al fondatore, doveva essere ben difeso (lettera del 9 marzo 1356) e avere sale e giardini degni di imperatori e papi (lettera del 1 luglio 1356). L’anomalo e grandioso edificio, concluso in appena due anni, ha una struttura a L isolata dagli spazi religiosi del grande complesso monastico (era l’oratorio privato a far da collegamento). Le ampie sale sono coperte a volta a crociera al piano inferiore e da tetti appoggiati su archi trasversi a quello superiore, con un senso del ritmo e della grandiosità dello spazio tipicamente francese. Il nitore del volume affiorante dal terreno non corrisponde alla grande articolazione del piano seminterrato180, mentre la militareggiante scarpa basamentale contrasta con le aperture ampie, regolari e decorate, e con l’intenzione di realizzare una loggia all’ultimo piano, coronato da merli solo molto più tardi181. Non pago, nel 1362 l’Acciaiuoli espresse la volontà di circondare la Certosa de “lo più notabile jardino et lo più magnifico […] di Florenza”, secondo modelli internazionali veicolati dalla letteratura cortese182 e ben noti a uno degli uomini più navigati e potenti d’Europa. Con la morte del suo fondatore, avvenuta nel 1365, il palazzo fu ridotto a usi non residenziali, fu completato e collegato al monastero con il portico e la piazza della chiesa, disattendendo

Boccaccio, Decameron …cit., p. 324 (III, Introduzione). Ivi, pp. 324-326: III, Introduzione. Sul tema: M. Petrini, Nel giardino di Boccaccio, Udine 1986; R. Fabiani Giannetto, Writing the garden in the age of humanism: Petrarch and Boccaccio, “Studies in the History of Gardens & Designed Landscapes”, XXIII, 2003, pp. 231-257. 176 Boccaccio, Decameron… cit., p. 780 (VI, Conclusione). 177 E. Corazzini, Lettere edite ed inedite di G. Boccaccio, Firenze 1877, p. 156. 178 Patzak, Palast… cit., pp. 102-103, LV-LVI; G. Leoncini, La Certosa di Firenze nei suoi rapporti con l’architettura certosina, Salzburg 1980, pp. 123-130. 179 Le tappe della realizzazione della Certosa sono le seguenti: dopo la vaga intenzione “che si faccia in Firenze o nel contado” espressa col testamento del 1338, il complesso fu fondato con la precisa scelta del sito (Monte Acuto) nel 1342, dando avvio ai lavori; il fallimento della compagnia degli Acciaiuoli nel 1346 provocò difficoltà di finanziamento dell’impresa fino al 1348 e oltre. 180 Da ultimo, G. Leoncini, Esame delle sostruzioni e dei sotterranei della Certosa di Firenze, in Certose di montagna, certose di pianura. Contesti territoriali e sviluppo monastico, atti del convegno (Villar Focchiardo, Susa, Avigliana, Collegno, 13-16 luglio 2000), a cura di S. Chiaberto, Borgone Susa 2002, pp. 233-248. 181 Così appare nelle vedute di età moderna ma i merli originali all’ingresso sono assai diversi da quelli posticci. 182 Al Petrarca accenna Patzak, Palast… cit., p. 98. 174

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Cfr. Leoncini, La Certosa… cit., pp. 156-162. Non sembra però che Niccolò Acciaioli l’abbia vista: cfr. K. Setton, Athens in the Middle Ages, London 1975, cap. VI, passim. La presenza degli Acciaiuoli ad Atene e il loro insediamento nei Propilei risalgono comunque alla prima metà del Quattrocento: T. Tanoulas, Through the broken looking glass: the Acciaiuoli Palace in the Propylaea reflected in the Villa of Lorenzo il Magnifico at Poggio a Caiano, “Bollettino d’Arte”, VI s., LXXXII, 1997, 100, pp. 1-32. 185 Si tratterebbe di fra’ Iacopo Talenti, secondo Leoncini, La Certosa… cit., pp. 157-158. 186 L. Gargan, I libri di Niccolò Acciaioli e la biblioteca della Certosa di Firenze, “Italia Medioevale e Umanistica”, LIII, 2012, pp. 37-116: 43, 45, 51. 187 Copie erano a disposizione anche di Petrarca, Boccaccio, Giovanni Dondi, Domenico di Bandini, tutti parte di uno stretto cerchio di eruditi, di cui anche Niccolò faceva parte: cfr., sulla conoscenza di Vitruvio a Firenze all’epoca dell’Acciaiuoli, S. Schuler, Vitruv im Mittelalter: die Rezeption von “De architectura” von der Antike bis in die frühe Neuzeit, Köln 1999, pp. 95, 122, 130. Prova della penetrazione di Vitruvio a Firenze è il giudizio di Filippo Villani (1382) su Taddeo Gaddi (morto nel 1366): C. Tosco, Vitruvio in età gotica, in Vitruvio nella cultura architettonica antica, medievale e moderna, atti del convegno internazionale (Genova, 5-8 novembre 2001) a cura di G. Ciotta, Genova 2003, pp. 306-316: 312-313. 188 G. Ciotta, Vitruvio e l’architettura medievale, in Vitruvio nella cultura… cit., pp. 233-249. 189 Tosco, Vitruvio… cit., p. 316. 190 Vitruvio, De architectura, a cura di P. Gros, Torino 1997, pp. 834-835 (VI.II.2). 191 Ivi, pp. 844-845 (VI.V.3). 192 Ivi, pp. 56-57 (I.VII.1). 193 Si pensi all’eroe-semidio Marco Boemondo d’Altavilla, morto nel 1111 e venerato nella vicina Canosa: M. Frati, I Santi Sepolcri nell’Italia meridionale, in Le rotonde del Santo Sepolcro – Un itinerario europeo, a cura di P. Pierotti, C. Tosco, C. Zanella, Bari 2005, pp. 121-138: 128-130. 194 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, infra cc. 48r-82v. 195 Villa Papiniano: cfr. Liber Extimationum… cit., p. 77 n. 410; ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 48v; I. Romitti, M. Zoppi, Guida ai giardini di Fiesole, Firenze 2000, pp. 35-37. 196 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 49r. Ora il Sassetto, già Rosselli Del Turco: cfr. la nota 127. 197 Cfr. la nota 22. 198 Cfr. la nota 24. 199 Cfr. la nota 29. 183

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forse il legato del 1359 con cui l’habitaculo e la sua imponente biblioteca erano stati donati alla Certosa per fondarvi una scuola. L’amore di Niccolò per la cultura, seppur discusso e non paragonabile a quello dei suoi amici Boccaccio, Petrarca e Zanobi da Strada, potrebbe avergli suggerito alcune delle scelte architettoniche che rendono il suo palazzo un unicum nel panorama dell’edilizia fiorentina del Trecento183, e non solo. Più che alle realiste ma consuntive descrizioni di Boccaccio, si potrebbe cercare fra le diverse esperienze classiciste avute dall’Acciaiuoli. Prima di tutto, durante la sua formazione fiorentina: la già citata scenografia della Rinuncia ai beni di Giotto, così simile per posizione, struttura ed eleganza al suo habitaculo, potrebbe esser stata vista da un Niccolò adolescente (sarebbe partito per Napoli nel 1331) ancora imbevuto di cultura classica dal suo grande maestro, il latinista Giovanni da Strada. Così anche il viaggio in Grecia (1338-1341) potrebbe

Fig. 22 Giovanni Boccaccio, Ludovico Ceffini, Decameron, 1410 ca. (Paris, Bibliothèque nationale de France) Fig. 23 Certosa di San Lorenzo, Galluzzo, Firenze

avergli fornito visioni di acropoli, anche se non necessariamente quella di Atene, dove s’intravedevano i templi ancora integri184: una situazione comunque non dissimile dalla Certosa di San Martino a Napoli, modello dichiarato per quella di Firenze. Infine, Niccolò e il suo architetto185 avrebbero potuto leggere comodamente il De architectura di Vitruvio, fra i pochi classici da lui accumulati e poi donati all’erigenda scuola nel 1359186. Dal già diffuso e fondamentale testo187, si potevano ricavare indicazioni di massima su di una gran quantità di aspetti progettuali: già usuali erano senz’altro la modularità della composizione, necessaria in un edificio voltato a crociera e tipica della cultura gotica188, o l’attenzione alle condizioni di fondazione di una città (e una certosa lo è in piccolo!) e la cura al rapporto fra architetto e principe (e tale sembrava il Gran Siniscalco!)189. Più precisamente attuati al Galluzzo sembrano i suggerimenti operativi. La visione dal basso e scorciata dell’edificio privato è suggerita, oltre che da Giotto, ancora da Vitruvio190, che non manca di indicare la più corretta sequenza peristilio-atrio per le abitazioni suburbane, per il resto in tutto simili a quelle di città191. E non deve stupire se la scelta consapevole di mostrare al visitatore proveniente da Roma e da sud (e dunque anche a se stesso) un edificio elevato al culto della propria personalità corrisponde alla migliore localizzazione dei templi di Giove (in alto) e di Marte (fuori dalla città)192: una corrispondenza non spiacevole per l’Acciaiuoli che, già portato alla più sfrenata ambizione, in quanto conte di Melfi (dal 1348), poteva assorbire una forte tendenza all’autocelebrazione dai suoi predecessori193 oltre che dalla dinastia francese. Un epilogo: i fortilitia Ma l’episodio eccezionale del Galluzzo doveva rimanere isolato. Il ritorno al governo della vecchia oligarchia borghese nel 1382 rilanciò la


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concentrazione di capitale e beni fondiari necessaria alla realizzazione di tenute in campagna, il cui esito architettonico, però, sono le arcigne fortezze enumerate nel 1409194, piuttosto che le più pacifiche ville di cent’anni prima. Fra i 22 fortilitia situati entro le sei miglia, almeno 15 sono residenze signorili localizzabili e rintracciabili nelle strutture. Fra queste ce ne sono 13 che effettivamente mostrano caratteri esplicitamente militari: il palagio degli Spinelli “in pendicibus Fesularum”195, la torre dei Davizzi a Novoli196, Castello del Milanese197, l’Appeggia dei Sinibaldi198, Marcignano degli Antellesi199, la torre a Pogna dei Rinuccini200, Torre Intaiano dei Benini201, Bellosguardo dei Cavalcanti202, Poggio a Luco dei Bartoli203, Maiano dei Bardi204, Rocca Tedalda a Montalbano205, il palagio dei Lippi a Badia Fiesolana206, la torre di Pian di Mugnone dei Lippi207, Gricigliano dei Guadagni208, Carmignanello dei Cioni209. Per lo più si tratta di imponenti torrioni con apparato sporgente (merlatura in aggetto con piombatoie su archetti e beccatelli) circondati da edifici più bassi e, più raramente, da circuiti merlati che conferiscono im-

ponenza al complesso. Quasi sempre trasformati in ville rinascimentali o più tardi ripristinati in senso neomedievale, essi difficilmente conservano integralmente i caratteri originali210, come del resto molti altri – e molto più famosi – ‘castelli’: Marignolle, La Loggia, Montauto211, Torre Alta212, Vincigliata213, Poggio Gherardo214 … Resta il fatto che a cavallo fra i due secoli viene considerato imprescindibile l’elemento turriforme, tanto da aggiungerlo dove non c’era mai stato215. L’unica struttura che non mostra elementi prevalentemente militari è il resedio dei Peruzzi “in populo Sancti Quirici de Ruballa cui dicitur la Corte”, a noi già noto216. Ma sono forse le sue dimensioni, la merlatura e l’apparato sporgente a decretarne la qualifica di ‘fortezza’. Di fronte al proliferare di edifici protettivi neocavallereschi adatti alle peggiorate condizioni di sicurezza e alla svolta oligarchica della società fiorentina217, passavano in secondo piano i caratteri geometricamente cristallini del palagio protoumanistico, che, in anticipo di un secolo e mezzo, annunciavano quelli della villa rinascimentale.

ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 57v. Oggi Torre a Cona. Portata del 1378: Ricordi storici di Filippo di Cino Rinuccini dal 1282 al 1460: colla continuazione di Alamanno e Neri suoi figli fino al 1506; seguiti da altri monumenti inediti di storia patria estratti dai codici originali e preceduti dalla storia genealogica della loro famiglia e dalla descrizione della cappella gentilizia in S. Croce; con documenti ed illustrazioni, a cura di G. Aiazzi, Firenze 1840, p. 38. Repetti, Dizionario… cit., IV, p. 703; Mercanti, Straffi, Le torri… cit., p. 196. 201 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 59v. Forse identificabile con Torre di Sopra: cfr. il testo alle note 105 e 117. 202 Cfr. la nota 27. 203 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 60v. Castello di Ostina: Celletti, Bagno a Ripoli… cit., pp. 126127. 204 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 61v. Patzak, Palast… cit., pp. 110, LXX. 205 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 61v. Zangheri, Ville… cit., pp. 334-335. 206 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 62r. Attuale villa Salviati: Zangheri, Ville… cit., pp. 296-298. 207 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 62r. Torre dei Palagi, ancora integra nel 1771. 208 Ivi, c. 62v. 209 Cfr. la nota 98. 210 Fanno infatti eccezione solo la torre di Baracca (Carmignanello) e Torre di Sopra (Intaiano). 211 Zangheri, Ville… cit., pp. 281-282, 355-356, 370-371. 212 Celletti, Bagno a Ripoli… cit., p. 86. 213 F. Baldry, John Temple Leader e il Castello di Vincigliata: un episodio di restauro e di collezionismo nella Firenze dell’Ottocento, Firenze 1997. 214 M. Tamassia, Uno sguardo sulla Villa di Poggio Gherardo: in ricordo di Umberto Baldini, direttore del Gabinetto Fotografico, “Critica d’Arte”, VIII s., LXIX, 2007, 32, pp. 127-134. 215 Cfr. il testo alla nota 163. 216 ASF, Otto di guardia e balia della Repubblica, 10, c. 56r. cfr. il testo alle note 146-150. 217 F.W. Kent, Il palazzo, la famiglia, il contesto politico, “Annali di Architettura”, II, 1990, pp. 59-72.www 200

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Alessandro Rinaldi

Forme e modelli nell’architettura delle residenze medievali di villa nei dintorni di Firenze. l’habiturium magnum dei Buonaccorsi al Querceto This paper proposes a reconsideration of the phenomenon of extra-urban medieval residences, both from a quantitative and qualitative point of view. It aims at analysing the compositional criteria that regulate such an abundant production, as well as identifying models and possibly reconstruct the network of relationships between the most challenging buildings, thus applying to medieval architecture the same historico-critical analysis that is usually used in the case of Renaissance architecture. This method of interpretation, which privileges compositional aspects as well as stylistic choices, is applied to a most significant residence built near Florence from the merchant family of the Buonaccorsi in the middle of the XIV century, shortly before its complete political and economic downfall.

Tra XIII e XIV secolo il contado fiorentino è investito da un impetuoso fall out di residenze signorili che suggellano, con la loro fitta punteggiatura materiale, l’unità politica del territorio e l’omogeneità del suo popolamento. I singoli edifici presentano tuttavia una grande varietà di comportamenti formali dovuti alla combinazione e all’intreccio di fattori diversi quali la distanza dalla città, la classe sociale del proprietario, il ruolo territoriale della fabbrica, la dimensione del possedimento, l’eventuale vincolo di una preesistenza1. La complessità e la mutevolezza dello scenario architettonico si rispecchiano nel pluralismo terminologico a cui le cronache coeve fanno ricorso nel descrivere il fenomeno. L’epopea dell’edilizia rurale del XIII-XIV secolo trova il suo cantore più efficace in Giovanni Villani che dedica una pagina assai nota della Cronica alla radicale trasformazione dei dintorni di Firenze in una sorta di seconda città diffusa ed estensiva, di nebulosa criptourbana formata da un assortimento di edifici di diversa natura e qualità. “Uno forestiere non usato, venendo di fuori, i più credeano per li ricchi edifici e belli palagi d’intorno a tre miglia, che tutto fosse della città al modo di Roma, sanza i ricchi palagi, torri e cortili, giardini murati più di lungi alla città, che in altre contrade sarebbono chiamati castella. In somma, si stimava che intorno alla città VI miglia aveva più d’abituri ricchi e nobili , che recandoli insieme dua Firenze non avrebbono tante”2. Non possiamo non chiederci se dietro ciascuno dei termini enunciati da

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Villani si profili uno specifico modello architettonico; oppure se, al contrario, il cronista stia solo accumulando dei sinonimi per rendere al vivo, attraverso la loro successione incalzante, la tumultuosa congerie di edifici che affolla il contado fiorentino. Nemmeno la divisione del territorio in due fasce poste a distanza diversa dalla città (“tre miglia”, “sei miglia”) cambia la composizione del corredo edilizio, almeno a giudicare dalla terminologia che resta reversibile e confusa (“ricchi edifici”, “belli palagi”, “ricchi palagi”, “ricchi e nobili abituri”). Le parole di Villani non restano isolate ma trovano nelle formule descrittive delle dichiarazioni catastali, dei contratti notarili o nel minuzioso cahier de doleance del Liber Extimationum (1269, un elenco dei danni immobiliari subiti dagli esponenti del partito guelfo dopo la sconfitta di Montaperti)3 un’eco puntuale che le moltiplica e le rifrange interminabilmente. Anche qui la nomenclatura è ridondante e ambigua nell’avvicendarsi apparentemente casuale di termini quali “palagio”, “magione”, “casamento”, “torre”, “abituro”, “fortezza”, “abituro atto a fortezza”, “casa alta”, “casa da signore” e non è possibile stabilire subito un rapporto significativo tra la varietà dei nomi e quella delle forme. Certo appare improbabile che una produzione di edifici così massiccia e ravvicinata nel tempo e nello spazio non abbia dato luogo spontaneamente a un canone di criteri regolativi e di procedimenti ripetibili e quindi a un repertorio relativamente circoscritto e riconoscibile di soluzioni architettoniche. Si potrebbe addirittu-

ra pensare che, visto l’interesse delle istituzioni comunali per una unificazione del contado sotto il profilo giuridico e normativo, l’ondata edilizia sia stata regolata e incanalata fin dall’inizio entro parametri dimensionali e funzionali che abbiano poi orientato e condizionato gli esiti formali. La risposta – ed è una risposta affermativa – arriva da un’altra cronaca, quella di Giovanni di Pagolo Morelli, con cui le pagine di Villani possono essere incrociate e confrontate. Morelli seleziona e ridistribuisce sul territorio storicamente determinato del Mugello ai primi del secolo XV quegli stessi esemplari confusamente accumulati da Villani nei dintorni di Firenze e stabilisce finalmente un legame puntuale tra le parole e le cose. “Si dimostrano principalmente sei notevoli fortezze poste pella comune di Firenze a guardia e fortezza di tutto il paese [...] vedile prima intorniate da un bello, largo e cupo foso; appresso le vedi cinte d’alte mura e grosse e forti, dove sopra siede fortissime torri, alte in beccatelli, molto vaghi; e dentro le vedi nobilissimamente bene abitate, piene di case.[…] Intorno a queste castella, pelle piaggie e colli e poggetti, dattorno a due o tre miglia, ha molti abituri di cittadini posti in vaghi e dilettevoli siti, bene residenti con vaga veduta, sopra istanti a vaghi colti, adorni di giardini e pratelli, con belli abituri e grandi di sale e camere onorevoli a gran signori. […] Appresso a questi, più fra maggiori poggi, di lungi dalle castella sei o otto miglia, ha molte fortezze grandi e nobili, possedute da’ nobili e gentili uomini, i quali allettano per degni-


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Ringrazio i proprietari degli edifici presi in esame per la loro gentilezza e ospitalità: Riccardo Marasco e Maria Virginia Ghini, Mauro e Gregory Fancelli, la “Casa AIL” di Careggi nella persona del suo presidente Silvio Fusari. E poi Marco Frati per lo scambio di idee e informazioni, e Kamela Guza e Daniela Smalzi per le riproduzioni fotografiche. Il fitto popolamento residenziale del territorio intorno a Firenze è stato oggetto di studi intensivi e prolungati che si sono concentrati soprattutto sul quadro generale delle condizioni sociali e produttive. Sull’argomento si è sedimentata una vasta bibliografia di cui mi limito a ricordare uno dei titoli più pertinenti e più recenti: A. Zorzi, L’organizzazione del territorio in area fiorentina tra XIII e XIV secolo, in L’organizzazione del territorio in Italia e Germania: secoli XIII-XIV, a cura di G. Chittolini, D. Willoweit, Bologna 1994, pp. 279-349. Si distinguono per l’approfondimento su base rigorosamente documentaria degli aspetti architettonici, i numerosi studi di Paolo Pirillo ora raccolti in P. Pirillo, Costruzione di un conta-

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tà i paesani, onorandogli acciò ch’eglino usino e istieno volentieri alle loro fortezze in compagnia e in piacere di loro: E con queste ha, né luoghi più foresti e dove è il bisogno, assai fortezze tenute e guardate pel nostro comune, le quali sono [...] atte agli oppurtuni bisogni de’ paesani”4. Tre diversi modelli insediativi, disposti ad anelli concentrici , gravitano sul nucleo di un castello cioè di un borgo fortificato popoloso e pulsante di attività artigianali, in cui si potrebbe riconoscere ad esempio, in area mugellana, la cittadina

di Scarperia. Sul cerchio più esterno, nei “luoghi più foresti”, è disposto uno schieramento di fortezze “del nostro comune” con la funzione di difendere i confini dello stato e di proteggere la popolazione locale. A una distanza minore, circa otto miglia, dal centro abitato si estende ancora una cintura di fortezze di cui si sottolinea però il carattere privato: “possedute da nobili e gentili uomini”. Queste fortezze ingentilite non rinunciano però a crearsi tutto intorno una vasta zona di influenza attirando a sé le popolazioni locali


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Fig. 1 Villa il Querceto, Settignano, Firenze. Facciata. pagina a fronte Fig. 2 Le Corti a Ruballa, Bagno a Ripoli, Firenze. Stemma Peruzzi, affresco, sec. XIII.

non più con la minaccia delle armi o con la promessa della sicurezza ma con la forza di seduzione di uno stile di vita raffinato e ricco di piaceri. Un’altra fascia, quella più vicina alla città, è popolata invece da “abituri”, da residenze prive di ogni traccia di arroccamento difensivo, dove tutto parla di una intensa, agiata relazione con il paesaggio – una amena cornice naturale di pratelli, giardini, campi ordinatamente coltivati – e di una disposizione interna dominata da ampi spazi di rappresentanza e di ricevimento. Il quadro delineato da Morelli è rappresentativo della realtà territoriale generale agli inizi del secolo XV: le strutture difensive collocate al centro e alla periferia del sistema – il borgo fortificato e le fortezze perimetrali – ricadono ormai sotto l’esclusiva pertinenza delle autorità pubbliche, qualunque esse siano. Tra i due poli estremi si estende un fitto sciame di edifici residenziali privati suddivisi nei due grandi schieramenti edilizi che già si intravedevano in Villani: gli “abituri” più o meno disarmati, con i loro sinonimi, “magioni” e “palagi”, da una parte, e le “castella, o “fortezze” più o meno addomesticate, dall’altra. Un analogo schema dialettico aveva impiegato Brunetto Latini, dislocandone però i termini tra Italia e Francia, e alle bellicose residenze italiane guarnite di “tours, fosses et pals de mur et tourneles, et pons et portes coleices”, aveva contrapposto le “maisons” francesi “granz et pleuieres et peintes”, con le loro “belles chambres” circondate da “praians et vergiés et pomiers et arbres” “por avoir joie et delit sans guerre et sans noise”5. Come si vede la differenza non è solo morfologica e funzionale ma anche ideologica e chiama in causa modelli di comportamento, stili di vita, immagini di sè, radicalmente opposte. La pittura coeva è prodiga di conferme visive. La Tebaide di Starnina/Angelico, il corteo dei Magi di Benozzo Gozzoli, i paesaggi di Lorenzo di Bicci, di Lorenzetti, di Lippo Vanni sono costellati di edifici confrontabili per posizione e

per caratteri funzionali con quelli delle cronache. Castella, abituri, case forti finalmente escono dal cono d’ombra del nominalismo letterario e mostrano il loro vero volto. Nella Deposizione dell’Angelico, la visione della città sulla sfondo è inquadrata da una stereometrica residenza fortificata, chiusa in un nitido guscio lapideo, con torre e bertesche angolari che incarna alla perfezione una variante asciutta e severa di residenza fortificata (fig. 3). Nella Tebaide di Starnina/ Angelico al paesaggio rupestre del ‘diserto’ popolato di romiti affaccendati si contrappone in primo piano, al di qua del braccio di mare e del corso d’acqua che segna il confine tra i due mondi, un lembo collinare morbido e popoloso, su cui si dispiega una campionatura completa di soluzioni insediative6. Al centro un cenobio, il modello monastico accentrato e collettivo, alternativo a quello eremitico, disperso e individualistico, e tutto intorno un corollario di edifici dall’armamento più o meno pesante a sottolineare il clima di ostilità e insicurezza che domina il mondo civilizzato; mentre, all’opposto, una rete di rapporti fraterni e solidali lega uomini e animali del deserto eremitico nelle trame di una idilliaca e spontanea societas. La critica del modello antropizzato è ribadita dalla prospettiva inversa, qualitativa, che ingigantisce uomini e cose del ‘diserto’ e minimizza il paesaggio irto di torri e merli in primo piano. L’edificio che compare ai piedi del monastero appartiene alla classe degli ‘abituri’. Lo dimostra la giacitura orizzontale, l’assenza della torre, gli spazi cuscinetto – un giardino tergale con boschetto e un cortile anteriore – che attutiscono la durezza del contatto con il fuori e consentono di espandere e proseguire all’esterno, in spazi di manovra, di sosta, di svago, le attività che si svolgono all’interno. Il tema difensivo è affidato ai ‘merli sopra tetto’, il grado minimo di protezione consentito a un ‘abituro’ senza snaturare la propria indole pacifica e la purezza del volume con massicci e dispersivi dispositi-

do. I Fiorentini e il loro territorio nel Basso Medioevo, Firenze 2001. Meno frequenti i contributi degli storici dell’architettura. Resta fondamentale, dimenticato ma non superato, B. Patzak, Palast und villa in Toscana Versuch einer Entwicklungsgeschichte, I-II, Leipzig 1912-13, che attribuisce alla villa medievale una dignità storica e un risalto critico pari a quello della villa rinascimentale e barocca. Alcuni lavori di schedatura a vasto raggio consentono di perimetrare la ragguardevole dimensione del fenomeno: G. Carocci, I dintorni di Firenze, Firenze 1906-1907; G.C. Lensi Orlandi Cardini, Le ville di Firenze, Firenze 1954-1955; L. Gori Montanelli, Architettura rurale in Toscana, Firenze 1964; G. Gobbi Sica, La villa fiorentina: elementi storici e critici per una lettura, Firenze 1980; L. Zangheri, Ville della provincia di Firenze: la città, Milano 1989; Il medioevo nelle colline a sud di Firenze, a cura di I. Moretti, Firenze 2000. L’unica indagine storico critica impegnata a definire i caratteri morfologici di un campione significativo di residenze del contado rimane a tutt’oggi quella di R. Stopani, Medievali “case da signore” nella campagna fiorentina, Firenze 1977, aggiornato dallo stesso con Id., “Case da padrone”. L’edilizia signorile nella campagna toscana ai primordi della mezzadria, Poggibonsi 2001. Rari gli studi monografici, spesso concepiti al seguito di operazioni di restauro e valorizzazione: A. Lensi, Ville fiorentine medievali, “Dedalo”, XI, 1931, 18, pp. 1319-1334 (su villa Mini a Careggi); G. Fagnoni Spadolini, Villa Lemmi a Careggi. Restauro e adattamento, “Antichità Viva”, I, 1962, 1, pp. 25-29 e Villa Tornabuoni Lemmi di Careggi, a cura di M. Pedroli Bertoni, M. Prestipino Moscatelli, Roma 1988; Studi e ricerche sul nucleo antico di Lastra a Signa, a cura di G. Tampone, Lastra a Signa 1980, pp. 91-116 (su Torre Pandolfini a Lastra a Signa); P. Marcaccini, Villa delle Panche. Il restauro, Firenze 1993; Il castello dell’Acciaiolo a Scandicci: storia e rilievi per il restauro, a cura di D. Lamberini, Firenze 2002; La Rocca di Campi Bisenzio, l’identità ritrovata: interventi di restauro e nuove prospettive di recupero, a cura di G.A. Centauro, Campi Bisenzio 2004; Villa Strozzi Il Querceto nel tempo: l’edificio, il giardino, il parco agricolo, a cura di T. Grifoni, A. Rinaldi, Firenze 2006; M. Frati, Il Castelluccio degl’Innocenti. Ricetto medievale, fattoria moderna, monumento da salvare, “Bullettino Storico Empolese”, 48/51, 2004/07, 15, pp. 23-58; M. De Vita, Il Castello di Torregalli: storia e restauro di un complesso fortificato del “contado fiorentino”, Firenze 2007; A. Lillie, Politics of castellation, in The Medici: citizens and masters, edited by R. Black, J.E Lang, “I Tatti Studies”, 32, 2015, pp.311-347: il contributo analizza il caso specifico di villa Pazzi al Trebbio ma si articola in una ampia riflessione sulla fortuna delle forme castellane a Firenze nel Quattricento; G. Cini, Il restauro del Casone di Sorgane, Firenze s.d. [1987]. Le pubblicazioni più lontane nel tempo sono corredate da repertori fotografici di fondamentale importanza storica che documentano la condizione dei manufatti alla vigilia della crisi della civiltà contadina e quindi delle radicali trasformazioni d’uso e di immagine che hanno stravolto il paesaggio architettonico della campagna toscana. 2 G. Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Parma 1991, III, pp. 201-202 (lib. XII, rub. XCIV). 3 Ildefonso di San Luigi, Delizie degli eruditi toscani, VII, Firenze 1776, pp. 203-286; Liber extimationum, a cura di O. Brattö, Göteborg 1956. 4 G. Morelli, Ricordi, a cura di V. Branca, Firenze 1956, pp. 94-95. 5 B. Latini, Li Livres dou Tresor, édité par F.J. Carmody, Genève 1998, I, CXXIX, p. 126.

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Fig. 3 Angelico, Deposizione, particolare (Firenze, Museo di S. Marco).

Gli studi recenti si sono tendenzialmente allineati sulla proposta di Longhi (R. Longhi, Fatti di Masolino e Masaccio, “Critica d’Arte”, V, 1940, 25/26, pp. 145-191) per una attribuzione all’Angelico (C.B. Strehlke, Fra Angelico studies, in Painting and illumination in early Renaissance Florence 13001450, exhibition catalogue (Metropolitan Museum of Art, New York, 17 november 1994-26 february 1995), New York 1994, pp. 26-27; Id., Angelico, Milano 1998). Tra le rare voci di dissenso, J.T. Spike, Angelico, Milano 1996, p. 20. 7 7 ottobre 1363. La battaglia della Val di Chiana, “Torrita. Storia, Arte, Paesaggio”, 4, 2013. 8 Sulle Storie di Santa Cecilia nella sacrestia del Carmine, A. Tartuferi, Le testimonianze superstiti (e le perdite) della decorazione primitiva (sec. XIII-XV), in La chiesa di S. Maria del Carmine a Firenze, a cura di L. Berti, Firenze 1992, pp. 143-171. 6

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vi da combattimento come bertesche, caditoie, beccatelli. I merli sopra tetto creano una pseudocortina posticcia, profilata da una sorta di orlo dentellato, che nasconde le prosaiche falde della copertura (specie se, come qui, risvolta anche sui lati corti) e consente però di trasformare all’occorrenza la sommità della casa in una linea di difesa dall’alto. Appartengono invece alla famiglia militaresca e composita delle ‘fortezze’ i due complessi che sovrastano il cenobio. In uno di essi la parte residenziale turrita e merlata si trova all’interno di un recinto con torre angolare e porta fortificata. Ma la torre bassa in primo piano si apre in grandi finestre dietro cui si indovina lo spazio di una vasta sala sensibile alla visione del paesaggio. Presenta un grado inferiore di potenzialità militare il complesso sulla sinistra. La torre è preceduta da una antiporto ma il blocco residenziale si intreccia e fa tutt’uno con la cortina, affacciando all’esterno con una serie di ampie finestre che ridimensionano l’efficacia protettiva del recinto. Il paesaggio operoso e pacifico del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti contiene insieme a numerose case da lavoratore un eloquente esemplare di ‘abituro’ equipaggiato con due torri belvedere dalle alte finestre centinate e un giardino anteriore con pergola che precede l’edificio (come accade nella villa medicea del Trebbio) e ne dichiara anticipatamente la natura residenziale e la disposizione edonistica e fiduciosa. Nel paesaggio della Battaglia della Valdichiana7, Lippo Memmi in mezzo al frastuono

delle armi e ai dentati profili dei castelli sommitali, inserisce, come una pausa e un contrappunto pacifico, un ‘abituro’, cioè un edificio a sviluppo orizzontale, con giardino, torre colombaia e i fianchi protetti da cortine merlate a due spioventi. Nelle Storie di Santa Cecilia eseguite da Lippo d’Andrea nella sacrestia della chiesa del Carmine a Firenze, le scene del Battesimo di Tiburzio e Valeriano sono contrassegnate dai due modelli contrapposti: da una parte un castello merlato e turrito, dall’altra un ‘abituro’ che ostenta una completa rinuncia alla merlatura sia nelle due torri belvedere che nel recinto esterno8. Anche il repertorio dell’architettura dipinta del XIV secolo conferma dunque la bipartizione delle residenze extraurbane tra le categorie contrapposte degli ‘abituri’ e delle ‘fortezze’. È però impossibile tracciare una linea di confine stabile e rettilinea. I due modelli si contaminano e si intrecciano inestricabilmente dando luogo a una varietà combinatoria inesauribile in cui i due ingredienti principali, la disposizione edonistica e quella aggressiva e i loro rispettivi attributi, giardini, sale, ampie finestre, logge da una parte, cortine merlate, apparati sporgenti e torri dall’altra, sono presenti in proporzioni variabili. Quella che prevale è, infine, una vasta, intermedia classe di edifici ibridi che mescolano e integrano efficacia difensiva e vocazione residenziale e sembrano trovare la definizione più appropriata nel termine duale “abituro in forma di fortezza” o “acto a fortezza”, “casa da signore fatta a fortezza”, “palagio fatto a fortezza”, presente ripetutamente nelle portate al catasto del 1427. Gli ‘abituri atti a fortezza’ sono solo la variante regionale fiorentina di una classe di edifici diffusa in tutta Europa che, nella lunga fase di declino del sistema feudale, subentrano o si mescolano ai castelli in disarmo e ne ripropongono l’immagine in una versione parzialmente smilitarizzata che stempera la loro aggressività e la rende compatibile con la progressiva rivendica-


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zione del monopolio della forza da parte delle istituzioni. È il fenomeno delle ‘case forti’, maison fort, castelli succedanei e fittizi che identificano la quota di potere e di controllo territoriale che è possibile detenere senza suscitare sospetti nel mutato orizzonte politico e sociale del XIV e XV secolo dominato dai processi di accentramento e unificazione territoriale da parte delle monarchie nazionali in Europa e degli stati regionali in Italia9. Sono numerosi e convergenti i fattori che favoriscono la diffusione di questa formula. Nel caso di Firenze, Milano, Venezia, la dominante nell’assumere il controllo del territorio tende a scavalcare la sovranità tradizionale dei centri subordinati facendo leva sui piccoli poteri locali a cui vengono restituiti o attribuiti ex novo margini strumentali di autonomia e di autorità ‘neofeudale’. Per di più, almeno in area toscana, la rovina della piccola proprietà terriera nell’arco del XIV secolo, permette la ricomposizione di vasti domini fondiari e l’assoggettamento delle popolazioni rurali a rapporti di dipendenza e di fedeltà nei confronti del signore e padrone. Il revival in forme moderne di condizioni di egemonia territoriale è accompagnato dal recupero di tutto l’armamentario antropologico e figurativo della civiltà cavalleresca imperniato sul mito della donna, della guerra, della caccia. Di questa rinnovata disposizione edonistico-militaresca, ma anche di una restaurazione controllata di micropoteri territoriali, la casa forte costituisce l’espressione architettonica10. Così, all’indomani della sua sparizione come sede attiva di dominio, il castello ricompare, moltiplicato, sotto la forma dissimulata di residenze lussuose in cui l’apparato militare tradizionale viene riproposto e reinterpretato in chiave formale e ideologica come contrassegno e veicolo di una condizione sociale prestigiosa, dell’appartenenza ad una elite sociale politica culturale ma anche come segno tangibile di un moderato esercizio di potere locale in cui si intrecciano e si con-

fondono diritto proprietario e prerogative giurisdizionali. E se l’‘abituro’, nella costanza dei suoi elementi, nella austerità razionale che regola la loro composizione, rappresenta l’immagine di un territorio unificato e normalizzato sotto il controllo delle istituzioni cittadine, la casa forte, con il suo disorganico, pittoresco aggregato di volumi eterogenei, torri, beccatelli, cortine merlate interpreta il personalismo e la velleitaria supremazia dei poteri locali e rurali rilegittimati. La fortuna della casa forte è dunque successiva e inversamente proporzionale al declino del castello come sede di un dominatus territoriale e tocca infatti il culmine nel corso del secolo XV insieme alla rinascita controllata dei particolarismi locali e alla parallela reviviscenza degli ideali aristocratico cavallereschi. In questo la casa forte partecipa della stessa operazione di salvataggio e di sublimazione che il romanzo cavalleresco o la lirica cortese operano nei confronti dei riti, delle convenzioni, dei meccanismi di regolazione del mondo feudale morente. Insieme sintetizzano, trasfigurandole in valori assoluti e rendendole così universalmente disponibili, quelle che in origine erano solo espressioni funzionali di una classe specifica in un momento storico determinato11. Sul versante morale, l’amore cortese e l’avventura si trasformano in modelli di vita e in strutture narrative che non usciranno mai più dall’orizzonte letterario ed esistenziale dell’Occidente; i principi costitutivi del rapporto feudo vassallatico – cortoise, largesce, lialté ecc. – diventano i capisaldi di una morale laica destinata a fronteggiare e contrapporsi stabilmente a quella religiosa. Il torneo e la caccia, da corollari della guerra tendono sempre più a trasformarsi in sostituti della ‘festa crudele’ capaci di distillarne gli aspetti più spettacolari e coloriti. Analogamente, in campo architettonico, la casa forte salva quanto è possibile delle strutture difensive tradizionali sublimandole nella moderna imagerie del ‘castello’ come sintesi di grazia

9 Sulla casa forte si è accumulata una robusta bibliografia che ha scandagliato a fondo gli aspetti giurisdizionali, politici, economici di questo struttura, meno le sue caratteristiche formali. La casa forte entra massicciamente in scena con il convegno La maison forte au Moyen Age, actes de la table ronde (Nancy-Pont-a-Mousson, 31 mai-3 juin 1984), édité par M. Bur, Paris 1986. Per l’Italia sono fondamentali gli studi di Settia raccolti in A.A. Settia, Erme torri. Simboli di potere fra città e campagna, Vercelli 2007; Motte, torri e caseforti nelle campagne medievali (secoli XII-XV). Omaggio ad Aldo A. Settia, atti del convegno (Cherasco, 23-25 settembre 2005), a cura di R. Comba, F. Panero, G. Pinto, Cherasco 2007; Caseforti, torri e motte in Piemonte (secoli XII-XVI), “Bollettino della Società di Studi Storici, Archeologici ed Artistici della Provincia di Cuneo”, 132, 2005, 1; per la Toscana, P. Pirillo, La diffusione della “casa forte” nelle campagne fiorentine del basso Medioevo, in La società fiorentina nel Basso Medioevo. Per Elio Conti, a cura di R. Ninci, Roma 1995, pp. 169198 ripubblicato in Pirillo, Costruzione di un contado… cit., pp. 163-188. 10 La persistenza e reviviscenza del costume nobiliare più o meno associato a risvolti giurisdizionali di tipo feudale è stato oggetto di studi che hanno sovvertito l’idea tradizionale del carattere mercantile e borghese della civiltà comunale (G. Luzzatto, Tramonto e sopravvivenza del feudalesimo nei comuni italiani del Medio Evo, “Studi Medievali”, III, 1962, pp. 401420; G. Chittolini, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado: secoli XIV e XV, Torino 1979 e soprattutto P. Jones, Economia e società nell’Italia medievale: il mito della borghesia, in id., Economia e società nell’Italia medievale, Torino 1980, pp. 3-189). L’entusiasmo per questo inedito punto di vista e per le insolite prospettive storico-critiche che esso apre non deve far dimenticare l’esistenza e il peso di una componente mercantile borghese, della novità che essa mette in circolazione sul piano della mentalità e dei modelli di comportamento, coinvolgendo le stesse tendenze oligarchiche in un gioco incrociato di contaminazioni e di scambi. Un ritorno allo schema storiografico classico della dialettica tra “popolani e magnati” è segnato dal recente J.M. Najemy, Storia di Firenze: 1200-1575, Torino 2014. Per una riconsiderazione del dibattito storiografico: I comuni di Jean Claude Maire Viguer: percorsi storiografici, a cura di M.T. Caciorgna, S. Carocci, A. Zorzi, Roma 2014. 11 E. Köhler, L’avventura cavalleresca. Ideale e realtà nei poemi della Tavola Rotonda, Bologna 1985.

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Stopani, Medievali “case da signore”… cit., p. 41; Il medioevo nelle colline … cit., pp. 95-96. 13 Il Palazzo dei Signori da cui dipende la trasformazione dell’edilizia residenziale cittadina si sviluppa a sua volta in un rapporto di contrapposizione dialettica con le sedi imperiali toscane. Lo scabro bugnato rustico sembra una replica a quello levigato del castello Federiciano di Prato formulata a partire da un comune codice ‘all’antica’. Potrebbe essere questa la risposta alla domanda di I. Krüger, Der Palazzo Vecchio in Florenz. Romisches oder staufisches Erbe? in Burg und Kirche zur Stauferzeit, Akten der 1. Landauer Staufertagung (Landau in der Pfalz, 1997), herausgegeben von V. Herzner, Regensburg 2001, pp. 238-254. Anche il ‘ciborio’ della cella campanaria sembrerebbe riecheggiare l’analogo coronamento della torre del castello imperiale di San Miniato al Tedesco (M. Trachtenberg, What Brunelleschi saw. Monument and site at the Palazzo Vecchio in Florence, “Journal of the Society of Architectural Historians”, 47, 1988, 1, pp. 14-44). 14 Alla fine del Settecento, quando viene costruito il portico rurale ad archi ribassati che fiancheggia il lato interno del palazzo, la loggia trecentesca sarà stata chiusa, utilizzando materiale di recupero della demolizione dei muri di cinta, e trasformata in una struttura di servizio collegata alle cantine da una rampa cordonata, accessibile dall’esterno attraverso un valico poi tamponato, le cui tracce sono ancora ben visibili sul lato tergale in corrispondenza della seconda campata da ovest. 12

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e di virtù guerriera, di magnificenza e sicurezza. L’identikit ottenuto incrociando immagini pittoriche e fonti letterarie trova infine riscontri nella casistica concreta degli edifici sopravvissuti in parte o integralmente. Il cosiddetto ‘Palazzaccio’ alla Croce di Varliano, presso Bagno a Ripoli è un lampante esempio di ‘abituro’, di residenza pura priva di retropensieri militari e difensivi12 (fig. 4). La volumetria nitida e compatta non è solo la conseguenza meccanica dello sfrondamento di apparati guerreschi come merli e caditoie, della eliminazione delle torri e delle loro escursioni altimetriche ma dipende anche da scelte stilistiche positive, confrontabili con quelle in atto nell’architettura cittadina e riconducibili a un medesimo nucleo programmatico: l’aspirazione a un radicale semplicismo edificatorio, fatto di volumi monolitici, di superfici tese, spoglie, prive di concessioni decorative, avverse a ogni divagazione plastica. Questo postulato stilistico si afferma con lampante evidenza nei palazzi pubblici (che forse rispondono a loro volta alla adamantina bellezza di certi castelli imperiali)13 e poi ricade sia sui palazzi

privati, sia sulle residenze extraurbane. La liberazione di queste ultime dal vincolo degli apparati difensivi castellani e il superamento in città del modello della casa torre sembrano svolgersi in parallelo con movimenti sincronici e speculari, in un continuo andirivieni di suggerimenti e riverberi che rimbalzano dal fronte urbano a quello rurale. In villa la ricerca della essenzialità si fa ancor più radicale e più drastico il prosciugamento di ogni tipo di aggettivazione e di risalto. Mentre i palazzi di città esibiscono ricchi rivestimenti bugnati, qui la parete appare del tutto nuda e inerme, tesa e liscia nel paramento a vista di alberese. Il veicolo espressivo e materiale del geometrismo esasperato della fabbrica è proprio il paramento in filaretto di alberese di dimensioni medie. La lucentezza della pietra e il taglio esatto, a filo, dei blocchi, forma una scorza cristallina ininterrotta che avvolge tutto il volume dell’edificio e ne esalta l’integrità. Ma anche nella disposizione dei vuoti le scelte appaiono più radicali. Le aperture che in città si susseguono con ritmo regolare appoggiandosi al righello di sottili, affilate cornici, qui si reggono da sole, senza al-


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cun supporto o sottolineatura accessoria. Il punto di forza del Palazzaccio risiede proprio nella sequenza solenne dei grandi valichi del piano superiore, nel loro ritmo ampio e costante, pausato da larghi intervalli murari, sottolineato talvolta dal contrasto cromatico dei cunei di arenaria scura e opaca degli archi sulla superficie lustra e luminosa del paramento di alberese (fig. 5). La rigorosa impaginazione delle aperture presuppone una condizione di libertà da vincoli pratici e di fedeltà esclusiva ai valori disinteressati di ordine e bellezza, in contrapposizione con l’opportunismo – e quindi il disordine – delle bucature in fabbriche come castelli o fortezze che devono rispondere a esigenze pratiche. Il complesso di Varliano si articola in due blocchi: il parallelepipedo della residenza e, disposto ortogonalmente a esso, un portico a cinque fornici con verone superiore (fig. 6). Nell’attuale pittoresco palinsesto di materiali, tecniche, ordinanze eterogenee che si ritagliano e si sovrappongono sul prospetto interno del braccio porticato si legge in filigrana tutta la tormentata storia di questa struttura. Al piano inferiore si deli-

nea con chiarezza l’impianto originario di archi e volte in mattoni su pilastri di pietra forte. Al piano superiore è riconoscibile l’alto parapetto in alberese del verone, successivo rispetto a una prima versione lignea con ritti sostenuti da piedistalli in mattoni di cui sono visibili ancora dei rimasugli. All’estrema sinistra una superficie omogenea di tamponamento chiude il vano di una porta che presuppone una scala esterna scomparsa insieme al muro perimetrale a cui si addossava. L’immissione nel cortile avveniva attraverso un valico aperto nel lato opposto, quello sud, del recinto murario, preceduto e preparato da uno spazio introduttivo di interposizione, un pratello, che colmava il singolare distacco tra il palazzo e la strada di riferimento, la “via vecchia della Croce” (fig. 7). L’attuale ingresso alla residenza comunicava invece probabilmente con un giardino laterale. Giardino e pratello non potevano peraltro mancare in un edificio dal carattere così ostentatamente distensivo14. La loggia/vestibolo, la scala pensile, il blocco residenziale sono i tre ingredienti che con lievi varianti combinatorie compongono l’architettura degli ‘abituri’ e ne

Fig. 3-4 Il “Palazzaccio”, alla Croce di Varliano, Bagno a Ripoli, Firenze. Vedute lato ovest e lato est.

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Il medioevo nelle colline… cit., pp. 95-96. Stopani, Medievali “case da signore”… cit., p. 41; Il medioevo nelle colline … cit., pp. 101-102. 17 Identificabile probabilmente nel “podere con palagio e corte e case basse posto nel popolo di Sanchirico a Roballa e parte nel popolo de la Pieve a L’Antela ne luogo detto Pratovechio” che i Peruzzi acquistano dai Passerini nel 1315 (I libri di commercio dei Peruzzi, a cura di A. Sapori , Milano 1934, p. 469). L’identificazione è proposta da M. Turchi, Storie di un paese. Indagine sul territorio di Osteria Nuova, II, Osteria Nuova 2001, pp. 53-56. 15 16

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definiscono il carattere essenziale nei termini di un tipo di edificio non già monolitico e raccolto in sé stesso ma composito ed estrovertito che si scinde e si articola in settori tematici specializzati, non solo per ragioni di maggior facilità esecutiva ma direi per una sorta di compiaciuta strategia dell’autoriflessione. La scala, il verone, la loggia cioè i collegamenti verticali e orizzontali e gli spazi aperti di sosta contemplativa e ricreativa, vengono individuati uno per uno e distribuiti all’esterno, separati dal nucleo abitativo che racchiude le camere e il salone. A ciascun pezzo viene assegnato uno statuto formale e una posizione specifica entro una sequenza continua che si sviluppa a spirale sui tre lati del cortile. Il movimento di accesso e le diverse modalità d’uso vengono così diluite e scaglionate in tappe distinte e successive, valorizzate e drammatizzate, rese visibili e spettacolari nel loro svolgersi dinamico l’un dall’altra. L’edificio si trasforma in un organismo plurale ma consecutivo dove i riti dell’intrattenimento e della festa, le pratiche di una socievolezza agiata e raffinata vengono tradotti e fissati in una forma architettonica stabile che li

mette in scena, li amplifica, li valorizza e ne fa il proprio principale oggetto di comunicazione e di rappresentazione. Il ‘Palazzaccio’ di Varliano viene costruito dai Peruzzi ai primi del secolo XIV15 e la sua stessa organizzazione concatenata e dinamica, lo stesso trattamento asciutto del blocco residenziale si ritrova nelle numerose dimore della famiglia concentrate nell’area dell’insediamento tradizionale nel popolo di Bagno a Ripoli. Così nella vicina Torre di Sopra ad esempio, dove sopravvive un raro esemplare di scala esterna originale a sbalzo, anch’essa collegata a un verone con una loggia sottostante e poi alle camere del piano superiore16. Nell’imponente complesso delle Corti a Ruballa presso Bagno a Ripoli (fig. 8), riedificato dai Peruzzi dopo il 131517, il cortile principale, racchiuso su tutti e quattro i lati dai bracci della residenza, è preceduto da una corte di servizio anch’essa murata e merlata posta sulla stesso asse ed è seguito da un giardino murato. Si genera così un impressionante sequenza di grandi invasi vuoti, uniti da una serie di porte e valichi allineati assialmente, che si apre a partire dalla an-


Fig. 6 Il “Palazzaccio”, alla Croce di Varliano, Bagno a Ripoli, Firenze. Loggia.

tica via dei Colli e passando da un cortile all’altro attraversa tutte le parti del complesso permettendone una visione telescopica, ordinata e successiva, obbediente ai canoni della più avanzata cultura trecentesca dello sguardo e del controllo prospettico della profondità dello spazio (fig. 9). La serie consecutiva degli spazi, eccezionale nel panorama architettonico coevo, è confrontabile solo con la progressione di cortili e giardini di villa Madama e la sua singolarità è sottolineata dal toponimo al plurale ‘Le Corti’. All’esterno l’organizzazione del complesso traspare appena dietro una muraglia cieca continua, tramata da filari di blocchi di alberese e arenaria, modulata da lievi dislivelli corrispondenti ai tre settori principali: il volume cubico e torreggiante della residenza, la meno elevata cortina merlata del cortile introduttivo e il muro basso del giardino18. Il versante difensivo dell’edificio si avvale di feritoie al livello del piano di campagna distribuite sul fronte lungo la strada aretina del San Donato (attuale via Roma), e di una piattaforma lignea sporgente, sorta di bertesca provvisoria – restano tracce delle due mensole lapidee di sostegno – posta a coronamento del fronte che guarda verso il primo cortile – che si qualifica così come la facciata ufficiale della pars dominica – a perpendicolo sul corridoio voltato a botte che immette nel secondo cortile. Il tema residenziale, svolto dal giardino e dalla sequenza di grandi finestre del primo piano, è enfatizzato dalle estese superfici pittoriche di un ciclo decorativo che celebra le relazioni privilegiate della famiglia con la dinastia angioina e ribadisce l’appartenenza delle Corti alla categoria delle “maisans granz et pleuieres et peintes”19 (fig. 2). Il doppio registro residenziale e difensivo introduce un elemento di ambiguità nella identità dell’edificio, classificato infatti come “fortilitium” nell’elenco delle strutture censite in funzione militare nel 140920 e come “palazzo” nelle portate al catasto dei Peruzzi nel 142721.

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Nel palagio posto nel popolo di San Marcellino acquistato in seguito al fallimento della compagnia dei Mozzi, i Peruzzi aggiungono una scala esterna, un verone e ampliano la corte. Un nucleo precedente dalla struttura elementare viene quindi aggiornato e arricchito con il corredo di elementi accessori che sono ormai propri di una magione moderna: la corte, il verone e la scala esterna. Ma vengono introdotte anche guarnizioni difensive, merli sopra tetto e bertesche, e quindi l’‘abituro’ viene messo in sicurezza e vira verso il modello della casa forte. “Chostane anche in aconciare il palasgio e merlarlo sopra teto e fare la scala di fuori. Chostane anche per ispese di murare sopra teto il palasgio baso e cresciere la corte del palagio e fare bertesche”22. Quello della casa forte è il genere a cui appartiene esemplarmente Careggi Vecchio23 (fig. 11). Il complesso noto come Torre di Orlando prende il nome da Orlando di Guccio de Medici (13801455) membro di un ramo collaterale della famiglia e passa al ramo principale probabilmente intorno al 1466 quando il suo ultimo proprietario, Manno Temperani, appartenente ad una fazione ostile ai Medici, viene condannato all’esilio in seguito alla partecipazione al fallito movimento antimediceo di Luca Pitti24. Nell’inventario redatto in morte di Lorenzo il Magnifico (1492, ma noto in una trascrizione del 1512) il “palagio”, con tutte le altre proprietà di Orlando, appare oramai assorbito nel patrimonio mediceo ma porta ancora su di sé l’impronta dell’appartenenza originaria. “Una chasa overo palagio con torre corte orto loggia e più sua habituri vocato il palazzo che fu di messer Orlando de’ Medici”25. La grande torre che si eleva sul lato ovest del complesso e che domina tutta la piana dell’Arno da Firenze a Prato rende esplicite le motivazioni di carattere militare della scelta del sito e della stessa genesi dell’edificio, in origine castello dei Vecchietti smantellato o ridimensionato dopo la sconfitta di Montaperti26. Alla torre, pro-

Gli sviluppi dell’edificio dal XVI secolo fino a oggi sono ricostruiti con scrupolo documentario in M. Turchi, Storie di un paese. Indagine sul territorio di Osteria Nuova, IV, Osteria Nuova 2014, pp. 53-88. Si veda anche: L. Ginorlisci, Cabrei in Toscana: raccolte di mappe, prospetti e vedute, sec. XIV-sec. XIX, Firenze 1978, p. 102, fig. 96, p. 106, p. 285, n. 102. 19 R.C. Proto Pisani, Una committenza per la Croce di S. Stefano a Paterno, “Prospettiva”, 47, 1986, pp. 52-57. Particolarmente impressionante, per la miscela di naturalismo e araldico rigore astrattivo, la coppia di pavoni che affianca lo stemma dei Peruzzi nelle testate di due sale del primo piano. 20 “quandam fortilitiam positum in dicto populo cui dicitur La Corte” (ASF, Otto di Guardia e di Balia, 10, c. 56r). Sul censimento delle strutture del contado adatte a difesa intrapreso dalla magistratura degli Otto di Guardia nel 1409, P. Pirillo, La ‘casa forte’ nelle campagne fiorentine in id. Costruzione di un contado... cit., pp. 163-188: pp. 166-167. 21 ASF, Catasto, 72, cc. 211, 389. 22 I libri di commercio… cit., pp. 481-482. 23 C. Conforti, Le residenze di campagna dei granduchi, in Città, ville e fortezze della Toscana nel XVIII secolo, a cura di C. Conforti, A. Fara, L. Zangheri, Firenze 1978, p. 17. 24 Orlando di Guccio de’ Medici, stretto collaboratore di Cosimo il Vecchio con il quale condivide anche l’esilio, dirige la filiale di Ancona del Banco Mediceo con esiti non brillanti; dignitosa ma non di primo piano, la carriera politica. Nel 1452 riceve dalle mani dell’imperatore Federigo III il titolo di “cavaliere a spron d’oro”. È ricordato da Benedetto Dei tra gli uomini più ricchi della città. (B. Dei, La cronica dall’anno 1400 all’anno 1500, a cura di R. Barducci, Monte Oriolo 1984, c. 33v e 35r). Quella che emerge dagli scarni dati biografici è una figura di secondo piano che si direbbe abbia lasciato un’unica traccia memorabile di sé: il monumento funebre realizzato da Bernardo Rossellino nella cappella di Santa Maria Maddalena nella chiesa della Santissima Annunziata (A. Markham Schulz, The sculpture of Bernardo Rossellino and his workshop, Princeton 1977, pp. 64-68). Il figlio Piero viene eletto nella Balia del 1484 e poi ricusato per il suo stato di grave indebitamento (N. Rubinstein, Il governo di Firenze sotto i Medici (1434-1494), Firenze 1999, p. 281). A lui, viste le malferme condizioni finanziarie, si deve probabilmente la vendita dei beni di Careggi a Manno Temperani. 25 Libro d’inventario dei beni di Lorenzo il Magnifico, a cura di M. Spallanzani, G. Gaeta Bertalà, Firenze 1992, p. 164. 18

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Fig. 7 Il “Palazzaccio” (qui, “casa dal lavoratore del principe Corsini”) nel Campione delle strade comunitative, 1744 (Archivio Storico Comunale di Bagno a Ripoli, Campioni di Strade, 1, c. 22; su concessione del Comune di Bagno a Ripoli). pagina a fronte Fig. 8 B. Fallani, Le Corti a Ruballa .Veduta, sec. XVIII. (Archivio Storico Comunale di Firenze, Ospedale di San Giovanni di Dio, 1239, c. 5; su concessione dell’Archivio Storico Comunale di Firenze). Fig. 9 Le Corti a Ruballa, Bagno a Ripoli, Firenze. Planimetria (da Turchi, Storia di un paese… cit., IV. 2014).

26 Carocci, I dintorni di Firenze… cit., I, p. 233. Non è stato finora possibile identificare la fonte documentaria della notizia. 27 La residenza di Careggi non è presente nelle portate al catasto di Orlando del 1430 e 1451 (ASF, Catasto 410, c. 113v; ASF, Catasto 721, c. 396). Un “podere chon chasa da signore [...] posto nel popolo di s. piero achareggi” confinante con il “fiume terzolla”, compare invece nella portata del 1457 dei figli Piero e Giovanfrancesco (ASF, Catasto 832, c. 294r). L’acquisto e la ristrutturazione di “Careggi Vecchio” si verrebbero così a collocare tra il 1452 e la data di morte di Orlando (1455), in stretta connessione con il conferimento del titolo di cavaliere (1452).

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tesa sull’orlo del rilievo collinare e agganciata al suolo da un poderoso basamento scarpato, si aggiunge, su una linea più avanzata lungo strada, un blocco residenziale dal fronte sfaccettato che aderisce a una piega del tracciato viario. Dietro il fronte principale sfila una sequenza maestosa di sale, attualmente riunite in un solo ambiente, ma ancora perfettamente leggibili al livello dello scantinato. Tra di esse spiccava una sala grande, contrassegnata in seguito da una finestra inginocchiata, che si sovrappone a un grande ambiente sotterraneo voltato a botte ribassata, alto ben 3,30 metri. Una scala esterna, addossata al muro di cinta nord, raggiungeva il primo piano della torre passando per una porta con architrave su mensole concave. Da qui una stretta scala a sbalzo, a due rampe di cui la seconda assai ripida, conduce alla sommità della torre perforando con fare sbrigativo la volta a crociera della sala. Le componenti residenziale e militare appaiono scisse e dislocate alle estremità opposte di un complesso bipolare. Da una parte, sul versante colloquiale e di contatto con la strada, l’‘abituro’, sull’altro la torre, sovradeterminata e isolata, calibrata alla scala del territorio e collegata con cortine merlate al settore anteriore. Il cortile interno è corredato da una loggia a tre fornici sul lato sud. L’ingresso originale si apriva su questo lato e

lo si raggiungeva attraverso una corte laterale di servizio su cui affacciava anche la casa poderale. La loggia svolgeva il ruolo di spazio di accoglienza e di smistamento e formava con il blocco residenziale parallelo alla strada un impianto ad L. In seguito il nucleo originario due-trecentesco è stato sviluppato e aggiornato sul lato sud con l’aggiunta di un corpo di fabbrica corredato degli elementi di un moderno nodo distributivo, vestibolo e scala a doppia rampa, che sottrae alla loggia la sua funzione introduttiva (fig. 12). Ad esso corrisponde nel sotterraneo un ambiente irregolare voltato a crociera, nettamente distinto dalla serie delle impeccabili camere a botte trecentesche. In questa occasione sarà stata anche ripristinata la torre, finora probabilmente capitozzata e declassata, e ricostruita la parte superiore che il paramento irregolare assegna a una fase post trecentesca. I merli sopra tetto e la bertesca angolare possono risalire alla facies originaria ma potrebbero anche far parte, insieme alla ricostruzione della torre, di un programma di riarmo dell’edificio in chiave neofeudale intrapreso da Orlando dei Medici all’indomani dell’investitura a cavaliere a spron d’oro ottenuta nel 1452 dall’imperatore Federico III. In questo caso la ristrutturazione della fabbrica (ma probabilmente anche il suo acquisto27) incentrata sulla valorizzazione dei temi militareschi interverrebbe a suggellare il compimento del processo di ennoblement da parte di un membro del ceto mercantile ‘borghese’. La datazione bassa della versione quattrocentesca della Torre di Orlando è coerente con la modernità del genere della casa forte che nasce sulle ceneri ancora calde della civiltà feudale come una sua reviviscenza colta e idealizzata e quindi appartiene a una congiuntura successiva rispetto all’‘abituro’ che interpreta invece una istanza residenziale pura, libera da “noia e guerra”, e quindi estranea e opposta al mondo feudale e neofeudale e alla sua indole bellicosa. Questa


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G. Contorni, La villa medicea di Careggi, Firenze 1992; La villa medicea di Careggi e il suo giardino. Storia rilievo e analisi per il restauro, a cura di L. Zangheri, Firenze 2006. 29 Ancora oggi l’indagine più ricca su Trebbio e Cafaggiolo resta quella di M. Gori Sassoli, Michelozzo e l’architettura di villa nel primo Rinascimento, “Storia dell’Arte”, 23, 1975, pp. 5-51; su Trebbio si veda, T. Carunchio, Michelozzo architetto “restauratore” di fabbriche medicee: il Trebbio, in Michelozzo scultore e architetto (1396-1472), a cura di G. Morolli, Firenze 1998, pp. 73-80. Preziose novità documentarie in R. Budini Gattai, F. Carrara Screti, Il Trebbio in Mugello, Firenze 2011. Gabriele Morolli ha proposto uno spostamento della proprietà e della committenza di Cafaggiolo dal ramo principale a quello cadetto di Averardo: G. Morolli, Cafaggiolo è la villa di Cosimo de’ Medici?, Firenze 2005. 30 Lo studio più completo sulla famiglia Buonaccorsi è quello di M. Luzzati, Giovanni Villani e la compagnia dei Buonaccorsi, Roma 1971 che integra la voce Buonaccorsi nel Dizionario Biografico degli Italiani e rielabora il precedente Id., Ricerche sulla attività mercantile e sul fallimento di Giovanni Villani, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano”, 81, 1969, pp. 173-235. 28

sequenza cronologica è riscontrabile nella stratostoria di uno stesso complesso. Il nucleo originario della villa di Careggi che Cosimo acquista dai Lippi nel 1417, consiste in una piccola ‘casa da signore’, un parallelepipedo con una sala terrena e alcune camere adiacenti, preceduto da una corte anteriore tangente alla strada28. L’intervento michelozziano non solo amplia e articola la preesistenza ma racchiude vecchi e nuovi volumi nel giro di un poderoso camminamento di ronda merlato su beccatelli, elegante e virile come una corazza da torneo, che conferisce alla nuova dimora il carattere della casa forte, sia pur mitigato dall’assenza della torre. La vicenda di Careggi contiene una morale sociologica che, a titolo di ipotesi, può contribuire a declinare ulteriormente la distinzione tra i due gruppi , ‘abituri’ e ‘case forti’. L’‘abituro’, come quello dei Lippi, è il portavoce di un ceto di mercanti che si identificano e si rappresentano attraverso la limpida, asciutta razionalità delle proprie residenze e si calano senza riserve nel quadro territoriale di un contado normalizzato e sottomesso ai poteri cittadini. Il modello della casa forte registra invece le successive aspirazioni della stessa classe all’ennoblement neocavalleresco e al conseguimento di una condizione di superioritas signorile. In area fiorentina il picco cronologico della fortuna delle residenze fortificate cade infatti intorno alla metà del secolo XV con la serie delle cosiddette ‘ville michelozziane’ di Cosimo il Vecchio29. Piccole architetture di potenza dove il tema della forza viene modulato in rapporto alla distanza dalla dominante e quindi sulla base delle esigenze di sicurezza, ma dipende anche dall’immagine che il potere intende dare di sé stesso: più aggressiva ai confini dello stato (Cafaggiolo, Trebbio), più mite al cospetto del-

la città (Careggi), venata da inflessioni idilliache e contemplative di impronta umanistica. Comune a tutti questi edifici, la pellicola immacolata di intonaco imbiancato a calce che avviluppa paramenti irregolari, di più rapida e meno accurata esecuzione e al geometrismo tutto di un pezzo, sostanzioso e materico, dei palagi trecenteschi , al loro duro, scintillante guscio di alberese a vista, sostituisce un aggregato pittoresco ma controllato, ‘cubistico’, di volumi astratti e opachi, che rispondono al nuovo indirizzo intellettualistico e purovisibilistico che sempre più sottomette l’architettura, sia rurale che cittadina, al ‘dominio dello sguardo’. Altri edifici neocastellani plateali ma innocui, irti di torri e torrette pleonastiche, appartenenti per lo più a famiglie di antica aristocrazia, come Poggio Baroncelli subito fuori porta Romana o villa Salviati alla Badia fuori porta San Gallo, sorgono in questo periodo negli immediati dintorni della città. Le “castella” di cui Villani alla metà del Trecento notava compiaciuto la scomparsa dall’orizzonte urbano, un secolo dopo sono ormai presenti in forze, sia pur in versione revivalistica e di secondo grado, entro la cintura immunitaria delle sei miglia e con i loro profili esuberanti, disorganici, e quindi fortemente caratterizzati, espressivi della “grandigia” delle nuove oligarchie cittadine, alterano il tranquillo paesaggio di un tempo, contrassegnato dai volumi nitidi e compatti dei palagi trecenteschi. Il legame tra ‘abituro’ e ceto mercantile trova conferma nella villa dei Buonaccorsi al Querceto, nella valle del Mensola, presso Settignano (fig. 1). I Buonaccorsi sono un campione assai rappresentativo della classe mercantile fiorentina, dei suoi limiti e delle sue virtù30. Il loro raggio d’azione è risolutamente extracittadino. Dopo un piccolo cabotaggio iniziale tra Pisa e Ge-

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Fig. 10 Villa il Querceto, Settignano, Firenze. Rilievo (da Villa Strozzi Il Querceto… cit., 2006). Fig. 11 Careggi Vecchio, Veduta, in Ville, fortezze, e città dello stato, e confini della Toscana di Sua Altezza Reale (Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio, Roma, Fortificazioni, cartella XXII, c. 15).

pagina a fronte Fig. 12 Careggi Vecchio, Pianta, in Ville, fortezze, e città dello stato, e confini della Toscana di Sua Altezza Reale (Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio, Roma, Fortificazioni, cartella XXII, c. 15).

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nova, la compagnia inizia a infiltrarsi nelle regioni meridionali lungo gli spazi interstiziali lasciati liberi dal gruppo dominante Bardi-Peruzzi-Acciaioli. Consolidata la loro posizione al servizio della corte angioina come esattori di imposte e poi come prestatori di fiducia, i Buonaccorsi estendono la loro attività alla corte pontificia di Avignone. Avignone spalanca alla compagnia le porte dell’Europa e la crescita diviene vertiginosa, scandita dall’apertura di sempre nuove filiali, dalla Francia (Marsiglia, Parigi, Laon, Reims), all’Inghilterra (Londra, succursale aperta nel 1332), alle Fiandre (Bruges, succursale aperta nel 1338). Dal ‘24 al ‘42 la com-

pagnia registra un tasso di incremento superiore a quello dei Bardi e dei Peruzzi pur restando al di sotto del loro volume complessivo di affari. L’appoggio finanziario offerto a Carlo di Calabria nella effimera avventura fiorentina (132628) rafforza la posizione della famiglia che si trova ora ad assumere un ruolo sociale che le è sempre sfuggito – o che non ha mai cercato – e che si concretizza nella partecipazione attiva alla vita politica e in una rinnovata strategia residenziale. I Buonaccorsi finora si sono identificati totalmente con l’attività finanziaria e commerciale e si sono calati senza riserve nella dimensione di mobilità logistica e di extraterritorialità


L’habiturium magnum dei Buonaccorsi al Querceto Alessandro Rinaldi

che le è propria senza preoccuparsi di rafforzare la posizione sulla scena cittadina. Non hanno quindi rivestito cariche significative né allacciato relazioni politiche autorevoli e hanno continuato a risiedere nella originaria casa di famiglia nel popolo di San Piero alla Badia31. Ora il basso profilo fin qui tenacemente perseguito viene meno e subentra una ricerca di maggiore visibilità sociale che si esprime, con una sorta di impaccio e di scolastica diligenza, con l’adesione al canonico modello residenziale duale che prevede l’abbinamento di un palazzo di città e di un insediamento rurale possibilmente incardinato sul luogo dell’origine così da ostentare robuste radici territoriali che dimostrino la nobiltà e l’antichità del lignaggio. E così, sia pur con molto ritardo, tra il 1324 e il 132832, i Buonaccorsi si procurano una nuova residenza cittadina nel popolo di Sant’Apollinare, tra via dell’Anguillaia e via delle Burella: un palazzo moderno, con paramento di bugne lisce al piano terra e assi regolari di finestre, in cui si trasferisce parte della famiglia; subito dopo, presumibilmente entro il primo quinquennio degli anni ’30, provvedono ad allestire un vasto possedimento agricolo con 5 poderi e una grande residenza-fattoria nella valle del Mensola33. L’insediamento rurale è completato dal patronato sulla chiesa di Santa Maria a Vincigliata34 e sul convento di San Martino a Mensola di cui diventa badessa la combattiva Taddea di Buonagiunta Buonaccorsi, protagonista di uno scontro furibondo con l’abate Giovanni della Badia Fiorentina di cui il convento è tributario35. L’acquisto del castello di Vincigliata o meglio del “resedium cum turrem , curte, giardino, […] loco dicto ala torre”36, conferisce al vasto possedimento agricolo i tratti tradizionali del dominio pseudofeudale. L’acquisto di Vincigliata sembra però soprattutto un omaggio a un modello patrimoniale more nobilium, compiuto senza convinzione. La famiglia non si riconosce in quello che doveva essere probabilmente so-

lo una antica struttura male in arnese e anziché potenziarla e restaurarla (cosa che faranno i proprietari successivi, gli Alessandri) investe con larghezza nella costruzione ex novo dell’“abiturium magnum” di Querceto e ad esso, alla sua lucida e calibrata bellezza, affida il racconto della propria identità. L’area del Mensola potrebbe essere quella di provenienza della famiglia e la campagna di acquisti configurare un ritorno in forze sui luoghi di origine. Altrimenti la scelta del luogo potrebbe essere stata occasionale e suggerita solo dal rapporto di dipendenza tributaria che legava il monastero di San Martino a Mensola alla chiesa di Badia nel cui popolo risiedevano i Buonaccorsi37. Il legame tra i due poli ecclesiastici ha comunque condizionato e guidato i movimenti della famiglia: indirizzandola sull’area di Badia nel caso di una origine rurale e di un successivo inurbamento o, viceversa, suggerendo la destinazione della valle del Mensola nell’ipotesi di una provenienza cittadina e di una proiezione nel contado, alla ricerca di fittizie radici territoriali. Nel primo caso, non si può escludere che il luogo di Querceto appartenesse ab antiquo ai Buonaccorsi. L’“habiturium magnum” sorge infatti a fianco di una precedente casa da signore con torre ma, con una mossa sintomatica delle ambizioni dei committenti, la preesistenza viene declassata a struttura di servizio, separata e ac-

31 Vi risiedono almeno dal 1311, quando in occasione dell’amnistia concessa ai ghibellini “Bettus Bonacchursus et frates” sono registrati “de sextu porte Sancti Petri” (Il Libro del chiodo, a cura di F. Ricciardelli, Roma 1998, p. 305). 32 Nel 1324 i Buonaccorsi sono ancora segnalati nel popolo di Santo Stefano alla Badia (Luzzati, Ricerche sulla attività mercantile… cit., p.185, nota 11), mentre nel 1328 l’anagrafe dell’Arte di Calimala (ASF, Manoscritti, 542, c.n.n.) colloca già il grosso della famiglia nella nuova residenza nel popolo di Sant’Apollinare. 33 Il complesso di Querceto potrebbe essere stato costruito tra il 1326-28, quando con l’avvento di Carlo di Calabria i Buonaccorsi rafforzano la loro posizione sociale e trasferiscono la residenza cittadina, e il 1335 quando la proprietà di Vincigliata passa dagli Usimbardi ai Buonaccorsi insieme al patronato della chiesa di Santa Maria. Sembrerebbe l’atto conclusivo che suggella con una mossa di marca ‘signorile’ l’insediamento nell’area del Mensola che resta comunque incentrato su Querceto, la cui realizzazione potrebbe quindi risalire ai primi anni ’30. 34 Il documento con cui gli Usimbardi nell’agosto 1335 cedono il patronato della chiesa a Simone di Vanni Buonaccorsi è pubblicato da G. Baroni, Il Castello di Vincigliata e i suoi contorni, Firenze 1871, doc. V, pp. LXVI-LXIX. 35 G. Baroni, La parrocchia di S. Martino a Mensola: cenni storici, Firenze 1866, pp. 52-58. 36 ASF, Notarile Antecosimiano, 18530, c. 25v: notaio Salvi Dini, 7 giugno 1335; pubblicato in Baroni, Il castello di Vincigliata... cit., doc. III, pp. IX-XXX. 37 Baroni, La parrocchia di S. Martino a Mensola… cit., p. 52.

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Fig. 13 Villa il Querceto, Settignano, Firenze. Corte.

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cessoria. Si evita di incorporarla e di sfruttarla come addentellato per dare profondità storica e radicamento territoriale alla nuova fabbrica che si vuole invece libera e immune da ogni compromesso, intatta nella modernissima purezza delle sue forme. Per un felice paradosso l’“habiturium” di Querceto fa la sua prima apparizione documentaria nel contratto di vendita con cui la famiglia si priva del possedimento, cedendolo agli Strozzi. Il contratto di vendita fissa così l’inequivocabile terminus post dell’edificazione e ne assegna il merito agli sfortunati Buonaccorsi riabilitandone il nome e il ruolo che la lunghissima durata della successiva proprietà Strozzi tendeva a offuscare. Nel 1342 i Buonaccorsi vengono infatti coinvolti nel fallimento delle altre banche d’affari fiorentine ma poiché non possono contare sulla copertura creditizia di un retroterra immobiliare adeguato né su potenti protezioni politiche, la loro caduta è ancor più rovinosa e senza attenuanti. Il Tribunale della Mercanzia esige il pagamento immediato dei debiti e non concede sconti

né proroghe. Querceto viene sacrificato agli obblighi della spietata ‘ragione debitoria’ e l’edificio, appena inaugurato e dotato dei più moderni requisiti formali, il 12 ottobre 1347 passa nelle mani degli Strozzi che per due secoli non sentiranno alcun bisogno di modificarlo o aggiornarlo. I tratti essenziali del nucleo medievale delineati nel documento sono ancora riconoscibili nell’assetto attuale. “Unum resedium sive habiturium magnum cum palactio, logia, terrazza, turribus, et tribus habituris et cum volta sub terra et una supra terram et tribus columbariis, cameris, terrenis, granariis, curtis cum tribus puteis et duobus viridariis cum pluribus et diversis arboribus fructiferis positum in populi sancti Martini la Melsola comitatus Florentie loco dicto Querceto”38. La loggia con colonne ottagone e capitelli a foglie d’acqua è tuttora al suo posto con la sovrastante terrazza, sia pur tamponata. Le volte sub terram et super terram costituiscono ancora il baricentro dell’edificio. Nel documento i due saloni vengono uniti in un binomio che sottolinea la corrispondenza e il parallelismo e quindi la


L’habiturium magnum dei Buonaccorsi al Querceto Alessandro Rinaldi

pari dignità tra i due spazi e quindi tra i due livelli. Una stesso respiro monumentale soffia infatti sulla sala terrena e sul grandioso spazio di quella sotterranea. I due ambienti condividono le stesse proporzioni impeccabili nel rapporto di uno a due tra lunghezza e larghezza (metri 12x6). Alla volta lunettata della sala di sopra39 corrisponde di sotto una spettacolare volta a botte in laterizio governata dal rapporto proporzionale semplice di 2 a 1 tra l’altezza in chiave di quattro metri e quella all’imposta di due metri. I criteri di chiarezza distributiva e di agiatezza finora riservati agli ambienti in superficie investono anche gli spazi sotterranei finora angusti, ribassati e per lo più scavati in misura parziale. Lungo il fronte principale tutto il piano interrato si spinge per circa un metro e mezzo fuori dal terreno così da poter ricavare una grande finestra capace di illuminare la volta sub terram in maniera adeguata al suo rango dimensionale. Anche i due ambienti sotterranei tergali coperti da crociere rispecchiano le dimensioni di quelli superiori. Andrà probabilmente localizzata in quello collocato a est la base di una delle torri ricordate nel contratto di vendita (l’altra è ancora riconoscibile nella casa da signore preesistente declassata a struttura di servizio). Se ne coglie l’ombra documentaria in un pagamento del 1661 per la demolizione di un “colombaione antico”40. L’epiteto tra accrescitivo e spregiativo tradisce il fastidio per l’ingombro e la molestia di una struttura oramai sottoutilizzata e decaduta e lascia intravedere un volume considerevole che può corrispondere solo a uno dei due ambienti tergali. In questo caso la torre si sarebbe innalzata su una base ampia che le permetteva di inserirsi a ciascun piano nell’impianto distributivo generale in forma di una camera di media grandezza; mentre lo sviluppo in altezza, e quindi il risalto sul profilo esterno della fabbrica, sarà stato modesto, limitato probabilmente a una stanza per i volatili e a una terrazza belvedere41. Tutti gli ambien-

ti a est di questo nucleo sono il frutto dell’intervento sei-settecentesco a cui si deve anche una completa reimpaginazione della facciata con il tamponamento delle finestre originarie e la stesura di un omogeneo, unificante strato di intonaco sul paramento originario a vista di alberese42. Il settore ovest a sua volta, per una estensione pari a un asse delle finestre attuali, è frutto anch’esso di un ampliamento che ha incorporato e cancellato una campata, la quarta, del portico insieme alla porzione corrispondente del terrazzo superiore43 (fig. 10). Una colonna ottagona allineata con quelle del portico e ad esse identica per forma e altezza, è venuta alla luce, in occasione di un recente restauro, nel muro di un piccolo locale alle spalle del moderno vano scale. Una finestra trecentesca riemersa in facciata non già in corrispondenza di un ambiente interno ma della testata dell’attuale muro ovest, conferma il carattere spurio di questa parte dell’edificio attuale. La finestra superstite non poteva che appartenere alla parete adiacente, quella del terrazzo, e non sarà stata la sola ma avrà fatto parte di una serie di aperture analoghe che si spalancavano generosamente verso l’esterno trasformando il terrazzo in verone. L’accesso al primo piano della residenza avveniva per il tramite del terrazzo e di una scala esterna che vi si addossava a conferma della preferenza per l’estroversione dei dispositivi di accesso e per il loro spettacolare svolgimento. La scala poteva correre lungo il lato est o quello ovest del cortile e quindi raggiungere direttamente il primo piano del palazzo oppure indirettamente, tramite il verone, dopo aver intrattenuto i visitatori con il doppio spettacolo dell’affaccio interno verso il cortile e di quello panoramico verso il paesaggio44. La stessa preferenza per una impostazione dinamica e vitalistica dell’architettura si riscontra nell’assetto del cortile (fig. 13). Tutti i lati divergono tra loro e formano angoli disuguali creando un sottile squilibrio dinamico e imprimendo

ASF, Provvisioni, 35, c. 31r:12 ottobre 1347. “Una sala in volta a lunette con due catene di ferro” è documentata ancora nel 1871 (ASF, Strozzi Sacrati, 88: Stato di Consistenza della Fattoria di Querceto, c.n.n.) e rimane probabilmente vittima dei lavori primo ’900 ispirati al gusto per un medioevo caldo e avvolgente di legni bruniti, arazzi e tappeti. Ma la sostituzione delle volte con soffitti lignei, consigliata forse anche da problemi strutturali segnalati dalle catene, era probabilmente già iniziata alla metà del ‘600 se il “palcho di legname” realizzato in quella occasione (vedi nota successiva) si riferisce agli ambienti storici della villa e non alla aggiunta moderna. 40 “A dì detto fiorini 87.12.1 moneta spesi dal dì di 8 maggio 1587 fino al predetto […] in abbellire e modernare detta villa con fare usci e finestre a riscontro, levare un colombaione antico, […] fare il palcho di legname, intonachare la facciata vecchia” (ASF, Strozzi Sacrati, 804, c. 207v). 41 La ridotta altezza della torre è suggerita dalla scarsa profondità delle fondazioni, elemento comune peraltro a tutto il settore tergale insieme a una condizione di fragilità costituzionale aggravata dalla natura instabile del terreno argilloso. La pur modesta elevazione della torre avrà ulteriormente acutizzato il difetto e contribuito a consigliare infine la demolizione della farraginosa struttura. 42 Vedi nota 40. 43 Come accade spesso lo spunto per un rinnovamento dell’edificio potrebbe essere stato offerto da una occasione matrimoniale. La più probabile è quella delle nozze di Piero di Carlo d’Andrea Strozzi con Lucrezia Pitti avvenute nel 1579. Cadrebbero nell’arco cronologico non documentato ma potrebbero non essere rimaste senza conseguenze sulla vita dell’ edificio se hanno lasciato memoria di sé in uno stemma Strozzi/Pitti murato sopra la porta tergale del cortile. Il corredo di Lucrezia Pitti (ASF, Strozzi Sacrati, 693) è pubblicato in Villa Strozzi… cit., Appendice, pp. 232 -235. 44 Non sono stati rintracciate notizie relative alla demolizione della scala che cadrà quindi nella stessa fase di vuoto documentario in cui si colloca anche la costruzione dell’ala moderna ovest (sec. XVI, vedi nota 43). Qui trova posto anche la scala interna che avrà sostituito in questa occasione quella originaria esterna. 38

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Fig. 14. “Habiturium magnum” dei Buonaccorsi nel sec. XIV, ipotesi ricostruttiva (da Villa Strozzi Il Querceto… cit., 2006).

una pulsazione ritmica allo spazio che ora si contrae e ora si espande, vivo e sfuggente45. La deviazione obliqua nasce all’interno del corpo di fabbrica. Il lato tergale si scosta progressivamente da quello di facciata man mano che procede da est a ovest fino a raggiungere una inclinazione sensibile nel muro di fondo del cortile. La deformazione appare troppo estesa e pilotata per essere frutto di un vincolo materiale di cui non si intravede peraltro alcun indizio. Sembra riconducibile piuttosto ad una libera preferenza ideologica per gli spazi vibranti e irregolari di cui avevano già dato prova autorevole i due palazzi pubblici del Podestà e della Signoria con i loro cortili trapezoidali irregolari. Alla scelta di fondo, ispirata da modelli autorevoli, a favore di uno spazio reattivo e fortemente qualificato si aggiunge una motivazione circostanziata di ordine tattico. I lati divergenti introducono una sia pur moderata forzatura illusionistica che dilata il cortile o almeno mette in moto il suo spazio mascherandone la relativa angustia. Le dimensioni di un cortile dipendono strettamente da quelle dell’edificio che vi si affaccia definendone il lato maggiore. Per lo più la testata del blocco residenziale è rivolta verso la strada mentre il lato lungo con il salone affaccia sul cortile che per questo risulta di ampiezza considerevole. A Querceto avviene il contrario. Il lato lungo è rivolto all’esterno ed è tangente alla strada. Il lato breve invece guarda sul cortile ma poiché le stanze sono disposte su due file, la sua larghezza è doppia e la dimensione dell’invaso, che da essa dipende, resta dignitosa e tuttavia inferiore a quella che avrebbe avuto se a determinarla fosse stato il lato lungo dell’edificio. Da qui la ricerca di una irregolarità calcolata che manipoli il perimetro del cortile e scuota il suo spazio rendendo meno evidenti quei limiti che una statica trama di linee ortogonali avrebbe messo spietatamente a nudo. Insieme al lato lungo della residenza vengono a disporsi lungo strada gli ambienti di rappresentanza, il salone o i sa-

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loni e il vestibolo, che abbandonano così la sfera protetta ed introversa del cortile per proiettarsi in facciata e mostrarsi all’esterno seguendo l’esempio dei palazzi cittadini Il lato lungo dell’edificio traslato in facciata va a sommarsi con il muro del cortile e insieme formano un fronte unico, fortemente allungato. Anche la torre, come si visto, viene retrocessa in secondo piano e non interferisce con l’orizzontalità del volume principale. Alcuni sottili accorgimenti compositivi provvedono a perfezionare l’integrazione tra le due parti e a fare di esse un blocco unitario. L’inusitata altezza delle colonne di 4 metri e mezzo a fronte di una misura standard di tre e mezzo (Torre Pandolfini, Casone di Sorgane, Rusciano46) determina un rigonfiamento del volume del portico che ora può sommarsi e confluire nello spazio del cortile liberandosi dalla condizione subalterna di elemento accessorio di margine. L’altezza maggiorata delle colonne ha però soprattutto il compito di portare la terrazza più vicino possibile alla quota del primo piano della residenza – che, lo ricordiamo, è spinta verso l’alto dall’emersione del piano interrato per più di un metro – in modo da pareggiare gli orizzontamenti delle due parti e quindi unificarle rendendo impercettibile e continuo il passaggio dall’una all’altra47. L’assimilazione tra verone e residenza si sviluppa non solo sul piano funzionale e distributivo ma anche su quello formale ed esteriore. L’apertura sulla parete del terrazzo di una serie di finestre che proseguono quelle della residenza unifica i due prospetti e li trasforma in un fronte omogeneo. Svolge infine una efficace funzione di collante tra cortile e residenza il clinamen che si propaga dall’uno all’altro e li coinvolge entrambi in un unico movimento di lenta dilatazione. Tutte scelte né banali né scontate. Finora il fronte lungo strada degli abituri era formato dalla testata della residenza e dal muro cieco del cortile mentre la loggia si disponeva per lo più sui lati interni. Nelle strutture più complesse, in gene-


L’habiturium magnum dei Buonaccorsi al Querceto Alessandro Rinaldi

re residenze fortificate, le parti si moltiplicano e si aggregano secondo relazioni gerarchiche che prevedono la posizione centrale della residenza, con tutto il peso del suo volume e dei suoi attributi guerreschi, affiancata dai muri bassi e ciechi del cortile di servizio e dell’orto murato. Si veda l’esempio delle Corti o di Careggi. Talora frammentismo e differenze di quota possono essere aggravati dal repentino sbalzo verticale di una torre in facciata come alle Tavernucole o a Tizzano. A Querceto invece tutte le parti canoniche del ‘palactio’, loggia-terrazza, cortile e residenza, si compattano e si coalizzano, disponendosi entro una stessa fascia altimetrica. Il risultato è un fronte unico, continuo, monumentale di circa 40 metri, a cui contribuiscono in maniera paritaria sia il lato del cortile con il verone sia la residenza (fig. 14). Una dimora rurale, appartenente ad un genere finora muto e senza volto, entra in possesso di quella che può essere definita una facciata, cioè un lato privilegiato e tutto visibile che riassume e comunica i valori formali e i significati ideologici della fabbrica, la sua magnificenza e organicità. La facciata è infatti anche lo specchio dell’ordine distributivo interno e della sua elevata qualità. L’abbondanza di ambienti luminosi, ampi, confortevoli traspare all’esterno nell’apparecchio regolare di finestre fitte e spaziose del livello superiore, alte 2 m e larghe 1,90 m, che passano, forse con un lieve scarto, dalla residenza alla terrazza. Di quelle inferiori un arco superstite con una luce di m 1,30-1,60 come quella delle aperture terrene di villa Pedriali, consente di immaginare una altezza analoga di circa due metri e quindi una finestra relativamente stretta ma allungata, ben diversa dalle feritoie e dal-

le finestrelle quadrate delle altre ‘case da signore’ così come dei palazzi di città coevi. L’altezza dei piani raggiungerebbe così quella di 10 braccia codificata in una nota anonima del De Ingeneis48. Il rispetto di proporzioni canoniche, l’applicazione di sottili accorgimenti compositivi che garantiscono la inedita coesione di un edificio complesso, tutto ciò presuppone un progetto unitario e di grande qualità e postula la presenza di un architetto esperto. Un nome potrebbe essere ragionevolmente avanzato. Nel 1332, in uno dei suoi rari incarichi pubblici, Vanni Buonaccorsi si trova a ricoprire il ruolo di provveditore ai lavori di ampliamento e ristrutturazione del palazzo del Podestà49. In quella occasione sarà entrato in contatto con Neri di Fioravante, responsabile della riconfigurazione del palazzo, e avrà potuto seguire da vicino la mirabile realizzazione della grande sala del primo piano, della scala e del cortile50. A quegli anni dovrebbe risalire la costruzione di Querceto e niente di più probabile che Vanni ne abbia affidato il progetto all’architetto conosciuto e apprezzato sul campo di uno dei più importanti cantieri della Firenze della prima metà del secolo. Neri di Fioravanti avrebbe a sua volta colto l’occasione per trasferire e sperimentare su una residenza privata idee e soluzioni già introdotte nel palazzo pubblico. Insieme a esse una quota significativa del prestigio e della magniloquenza del modello sarebbe entrata a far parte del corredo simbolico dell’habiturium magnum dei Buonaccorsi. Il fenomeno della trasfusione e reversibilità di temi e forme dalla sfera pubblica a quella della residenze private su cui la storiografia è generalmente d’accordo, troverebbe così il tramite concreto di una persona storica.

45 Solo l’angolo di sud-ovest presenta un’apertura di 90 gradi. Quindi solo il lato ovest del cortile è ortogonale alla facciata. 46 Per le notizie bibliografiche sulle residenze medievali di villa qui e successivamente citate rinvio al contributo di M. Frati in questo fascicolo. 47 Resta tuttavia uno scarto di un metro circa, colmato nel secolo XVIII con una serie di volticciole appoggiate all’estradosso delle crociere del portico. È probabile che il lieve dislivello residuo sia stato fedelmente riportato all’esterno e tradotto nella differenza di quota tra le finestre del verone e quelle della residenza in modo da alludere discretamente alla autonomia originaria dei due settori. 48 “Nota se vuoi fare la faccia di uno chasamento […]. Ancho farai diminuire la grossezza del muro di dieci braccia in dieci braccia secondo assuffitientia di tale edifitio e questi lasserai alle imposte delle volte overo palchi”: M. Taccola, De Ingeneis, Biblioteca Comunale di Siena, Codice S IV 16, c. 34r, pubblicato in F.D. Prayer, G. Scaglia, Mariano Taccola and his book ‘De Ingeneis’, London 1972, p. 202, n.150. 49 “Probi viri Cennes Nardi Rucellai eVannes Bonacursi a Consilio flor. fuerunt deputati supra reparationem, et refectionem Palatii Communis flor. in quo moratur D. Potestas, de anno 1332, die 6 mensis Julii, et Fulcus fil. olim d. Antonii not. suprascritta omnia exacti de publice scripto per D. Gratiolus olim Domini Curradi not. mutinensis” (BNCF, F.L. Del Migliore, Zibaldone Istorico, X, 22, Magliabechiano, XXV, CCCC, c. 393). Si veda anche J. Gaye, Carteggio inedito d’artisti dei secoli XIV, XV, XVI, Firenze 1839, I, p. 478, che riporta il documento dell’Archivio delle Riformagioni, datato 27 agosto 1332, con cui si istituisce una balia “ad reparationem et refectionem palatii communis flo., in quo moratur dominus potestas civitatis florent”. 50 Luca Giorgi e Pietro Matracchi (L. Giorgi, P. Matracchi, Il Bargello di Firenze. Nuove indagini sulla costruzione del Palazzo, in La storia del Bargello. 100 capolavori da scoprire, a cura di B. Paolozzi Strozzi, Milano 2004, pp. 95-113) ritengono invece che la sala superiore sia, come quella inferiore, frutto dei restauri ottocenteschi e che la sala del consiglio originale, realizzata da Neri di Fioravante, fosse limitata alla sola campata meridionale dell’attuale sala di Donatello.

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Andrea Longhi

Tra civiltà cavalleresca e imprenditorialità rurale: appunti sui castelli subalpini nell’autunno del Medioevo

The continuous transformation of the structures and functions of castles during the Late Middle Ages is demonstrated through an interpretation of architecture as the material and stratified result of cultural, political and economic dynamics. This paper identifies certain institutional and social processes that had an influence on the transformation -in terms both material and of meaning- of rural castles, examined in the period between the consolidation of regional principalities in the fourteenth century and the formation of modern states in the second half of the sixteenth century. Certain study cases, which have emerged in recent literature related to the areas belonging to the House of Savoy as well as to Saluzzo, are presented for illustrative purposes, and may be considered as pilot cases concerning wider and shared dynamics regarding the relationship between fortification, residentiality and rural life.

La letteratura sul Quattrocento subalpino vive una doppia estraneità rispetto alla questione storiografica – quasi mitografica – sottesa alla presente raccolta di studi: la ‘villa’ nel primo ‘Rinascimento’. La ‘villa’, infatti, in area subalpina è considerabile un tipo edilizio – o forse, piuttosto, un tipo letterario – solo dopo la rifondazione del ducato sabaudo nel 1559: il tema viene sviluppato nel territorio circostante alla nuova città-capitale, Torino, grazie alla committenza dei duchi Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele I, nel quadro di un ridisegno complessivo degli assetti geopolitici e in una logica insediativa rispondente alle esigenze di uno stato moderno, sostenuta da una attiva politica culturale di corte aperta verso le istanze lombarde e centroitaliane1, pur senza dimenticare il valore legittimante delle radici medievali della dinastia2. Il ‘Rinascimento’, d’altra parte, è una categoria interpretativa che trova in area pedemontana declinazioni peculiari rispetto al punto di vista centroitaliano, egemone nella storiografia: nel primo Quattrocento, i paradigmi dei principati alpini e subalpini (ducato di Savoia e marchesati di Saluzzo e Monferrato) restano ancorati alla cultura letteraria e figurativa delle corti che si contendono il primato politico e artistico nel cuore dell’Europa, tra l’Ile-de-France e il lago di Ginevra, area attorno a cui gravitano le tensioni tra il regno di Francia, l’Impero, il papato e i ducati protagonisti della vita culturale e militare europea. La vitalità delle corti alpine occidentali fatica dunque a essere convin-

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centemente interpretata in chiave ‘rinascimentale’3, e la sua lettura tarda pure a liberarsi dalla presunzione di ‘ritardo’ rispetto ai principati centroitaliani impegnati nella riscoperta della cultura classica. Probabilmente solo la storiografia transalpina sarebbe in grado di osservare le vicende subalpine con lenti storiografiche più libere e orientate verso il dibattito internazionale sull’Europa delle corti quattrocentesche4. Nel quadro della lunga continuità di cultura castellana e cavalleresca che regna sull’architettura delle Alpi occidentali5, si può individuare una cesura decisiva – con significative ripercussioni anche sull’architettura delle dimore fortificate – nei quasi tre decenni di occupazione francese (1536-1563 e oltre per alcune piazzeforti): la fine dei conflitti che segnano i primi due terzi del Cinquecento consegna alle élites sabaude un territorio pacificato, ma da ridisegnare politicamente ed economicamente, anche nei suoi connotati architettonici. Si pone dunque, con una declinazione e una cronologia particolari rispetto al panorama italiano, il problema critico del nesso tra la formazione degli stati nazionali e l’utilizzo di un linguaggio moderno nelle architetture del potere. Sebbene la storiografia recente tenda ad anticipare al XV secolo il riconoscimento dei processi di formazione degli stati moderni pedemontani6, è solo nel secondo Cinquecento che si afferma la costruzione di uno spazio politico che privilegia il versante italiano e la sua cultura, verso cui si orientano sia la macchina amministrativa, sia la corte. Il ducato sabau-

do, conservando la propria vocazione stradale e alpina, ricompatta i corpi territoriali pedemontani impossessandosi del marchesato di Saluzzo e della contea di Tenda7, mentre il Monferrato inizia a gravitare su una dimensione totalmente padana, essendo assegnato alla dinastia dei Gonzaga8. In tale dinamica, i precedenti modelli cortesi e gotico-internazionali – pur senza perdere il proprio fascino – devono lasciar spazio a nuove espressioni architettoniche e artistiche, esplicitamente orientate verso la cultura rinascimentale centroitaliana. In tale quadro, possiamo considerare che il tema della ‘villa rinascimentale’ attecchisca pienamente e pervasivamente solo negli ultimi decenni del Cinquecento, costituendo il sostrato dell’esperienza eclatante delle dimore di corte sabaude attorno a Torino, nuova città-capitale sabauda, ma anche dei variegati paesaggi rurali che si dispiegano sia attorno alle città-capitali dei corpi territoriali dinastici subalpini (soprattutto Casale Monferrato e Saluzzo, erette sedi diocesane nel 1474 e 15119), sia nei contadi delle città comunali più solide e mature (Alba, Fossano, Savigliano, Chieri o Asti, ad esempio10), riprendendo le prime esperienze di linguaggio architettonico all’antica, sperimentate al volgere tra Quattro e Cinquecento senza poter raggiungere adeguata maturazione, e rileggendole alla luce di più ampi ideali letterari di vita di campagna. Alla luce di tale problematica integrazione tra prospettive storiografiche, potremmo avvicinarci al tema delle dimore signorili extraurbane pe-


Tra civiltà cavalleresca e imprenditorialità rurale: appunti sui castelli subalpini nell’autunno del Medioevo Andrea Longhi

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pagina 65 Fig. 1 Castello di Serralunga d’Alba, Cuneo. Castello della famiglia Falletti (dalla metà del XIV secolo). Fig. 2 Monastero reale di Brou, Bourg-en-Bresse, Ain. Tramezzo e coro, primo quarto del XVI secolo.

1 La questione è impostata in V. Comoli Mandracci, Torino, Roma-Bari 1983, p. 45 e sgg. e in C. Roggero Bardelli, M.G. Vinardi, V. Defabiani, Ville sabaude, Milano 1990; tra le sintesi più efficaci, attente al rapporto tra la corte sabauda e la cultura architettonica centroitaliana: V. Comoli Mandracci, S. Mamino, A. Scotti Tosini, Lo sviluppo urbanistico e l’assetto della città, in Storia di Torino III. Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello Stato (1536-1630), a cura di G. Ricuperati, Torino 1998, pp. 355-447; C. Roggero Bardelli, Il grande disegno per una città regale, in Ascanio Vitozzi. Ingegnere militare, urbanista, architetto (1539-1615), a cura di M. Viglino, Orvieto 2003, pp. 69-118. 2 A. Longhi, Le residenze sabaude nel Medioevo: il quadro territoriale, i modelli architettonici, i cantieri, in Le residenze sabaude come cantieri di conoscenza, a cura di M. Volpiano, I (Ricerca storica, materiali e tecniche costruttive), Torino 2005, pp. 33-44. 3 Un ampio bilancio critico è stato proposto da Corti e città. Arte del Quattrocento nelle Alpi Occidentali, catalogo della mostra (Palazzina della Promotrice delle Belle Arti, Torino, 7 febbraio-14 maggio 2006), a cura di E. Pagella, E. Rossetti Brezzi, E. Castelnuovo, Milano 2006, in particolare per l’architettura G. Donato, L’architettura e i suoi complementi: uno sguardo sui due versanti alpini, pp. 47-83; in sintesi si vedano anche: S. Baiocco, P. Manchinu, Il Rinascimento, Ivrea 2004; G. Saroni, Le goût à la cour de Savoie d’Amédée VIII (1391-1451) à Charles II (1504-1553), in De van Dyck à Bellotto. Splendeurs à la cour de Savoie, catalogue de l’exposition (Palais des Beaux-Arts, Bruxelles, 20 février-24 mai 2009), édité par C.E. Spantigati, Brussels-Torino 2009, pp. 35-40; M. Caldera, L’area ligure-piemontese, in Corti italiane del Rinascimento. Arti, cultura e politica. 1395-1530, a cura di M. Folin, Milano 2010, pp. 93-111. 4 Si veda, per esempio, la recente sintesi di F. Elsig, L’arte del Quattrocento a Nord delle Alpi. Da Jan Van Eyck ad Albrecht Dürer, Torino 2011, per le parti pertinenti il Ducato, o – più in dettaglio – i saggi di M. Grandjean, Remarques sur le renouveau flamboyant et la Renaissance dans l’architecture entre Saône et Alpes, in La Renaissance en Savoie. Les arts au temps du duc Charles II (1504-1553), catalogue de l’exposition (Musée d’art et d’histoire, Genève, 15 mars-25 août 2002), établi par M. Natale, F. Elsig, Genève 2002, pp. 27-52, e F. Elsig, Reflections on the Arts at the Court of the Dukes of Savoy (1416-1536), in Artist at Court. Image-making and Identity. 1300-1550, symposium (Isabella Stewart Gardner Museum, march 2002), edited by S.J. Campbell, Boston 2004, pp. 57-71. 5 C. Bonardi, Rivisitazione del passato nell’architettura piemontese tra rinascimento e barocco, in La tradizione medievale nell’architettura italiana dal XV al XVIII secolo, a cura di G. Simoncini, Firenze 1992, pp. 135-166: 147-159. Sul tema è intervenuto più volte Renato Bordone; si veda ad esempio: R. Bordone, Architettura del desiderio: nobiltà e cavalleria nei revival del castello medievale, in Dal castrum al “castello” residenziale. Il Medioevo del reintegro o dell’invenzione, a cura di M. Viglino, E. Dellapiana, Torino 2000, pp. 65-71. 6 B.A. Raviola, Territori e poteri. Stato e rapporti interstatuali, in Il Piemonte in età moderna. Linee storiografiche e prospettive di ricerca, a cura di P. Bianchi, Torino 2007, pp. 91135:92-94. 7 In sintesi: V. Comoli, Il territorio della grande frontiera, in Le Alpi. Storia e prospettive di un territorio di frontiera, a cura di V. Comoli, F. Very, V. Fasoli, Torino 1997, pp. 17-83. 8 B.A. Raviola, Il Monferrato gonzaghesco. Istituzioni ed élite di un micro-stato (1536-1708), Firenze 2003; per le ripercussioni architettoniche del quadro geopolitico cinquecentesco: A. Longhi, Istituzioni, comunità, insediamenti. Strutture del sacro nel Monferrato del ‘Moncalvo’ (1568-1625), in T. Verdon, A. Longhi, Fede e cultura nel Monferrato di Guglielmo e Orsola Caccia, Casale Monferrato 2013, pp. 47-87.

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demontane occidentali ipotizzando di considerale come espressione materiale di una forma genetica non già di ‘miopia’, ma piuttosto di ‘strabismo’ culturale: inoltrandosi nel Quattrocento, lo sguardo dei committenti tenta infatti di riorientarsi verso entrambi i versanti delle Alpi, in cerca di sintesi sperimentali tra la solida e rassicurante koiné gotica internazionale delle corti transalpine e i segnali di una nuova cultura orientata all’antico, maturata nelle città centroitaliane e nelle piccole signorie lombarde e padane che aspirano a conseguire il rango di ducato (precocemente conseguito dai Visconti nel 1395 e dai Savoia nel 1416, superando il titolo di sovranità antiquato di ‘vicario imperiale’)11 e ad accreditarsi sullo scacchiere politico europeo12, presto egemonizzato dai grandi stati moderni. I paesaggi costruiti centroitaliani, in cui si respira un clima letterario e culturale rivolto alla riscoperta moderna della classicità, maturano all’interno di categorie istituzionali e giuridiche radicate nella filosofia e nella prassi politica medievale, le cui espressioni materiali del

potere (palazzi reali e ducali) necessariamente seguono codici linguistici consolidati13, ma al tempo stesso sono espressione materiale di “nuove forme di legittimazione, […] nuovi modelli di sovranità e inedite esigenze di immagine”14. Le istanze formali innovative rivolte alla cultura dell’antico dovranno quindi trovare adeguate mediazioni con la costruzione simbolico/ liturgica medievale dello spazio15 e con le vivaci dinamiche radicate nella cultura comunale e nelle tradizioni municipali italiane16. Come nota Enrico Lusso, l’apparente “schizofrenia” tra alcune scelte artistiche innovative e altre soluzioni architettoniche schiettamente tradizionali, riscontrabile nei due marchesati subalpini nel travagliato primo quarto del Cinquecento, è il risultato di “scelte ideologiche consapevoli, la principale delle quali parrebbe essere il riconoscimento di una maggiore auctoritas a linguaggi architettonici più tradizionali, quasi che l’aderenza a modelli consolidati e ampiamente diffusi nelle corti padane tardomedievali meglio si addicesse ai principi, costituendo, di per sé, una sorta di consacrazione dinastica”17. Scelte


Tra civiltà cavalleresca e imprenditorialità rurale: appunti sui castelli subalpini nell’autunno del Medioevo Andrea Longhi Fig. 3 Castello di Moretta, Cuneo. Castello di Filippo Savoia-Acaia (dal 1322), poi della famiglia Solaro (dal 1362). Fig. 4 Castello sabaudo di Fossano, Cuneo. Esterno del castello (cortine dal 1324).

Per il confronto tra le due capitali: E. Lusso, Il nuovo paesaggio urbano, in Saluzzo, città e diocesi. Cinquecento anni di storia, atti del convegno (Saluzzo, 28-30 ottobre 2011), Cuneo 2013, pp. 121-141; approfondimenti in Id., La committenza architettonica dei marchesi di Saluzzo e di Monferrato nel tardo Quattrocento. Modelli mentali e orientamenti culturali, in Architettura e identità locali, 1, a cura di L. Corrain, F.P. Di Teodoro, Firenze 2013, pp. 423-438, con particolare riferimento al ruolo delle principesse francesi Anna d’Alençon e Margherita di Foix. 10 Sulle dinamiche urbane tra Quattro e Cinquecento rimando a A. Longhi, Chantiers ecclésiastiques et ambitions urbaines dans les villes neuves et dans les «quasi città» de la région subalpine occidentale (XIIIème-XVIème siècles), in Petites villes européennes au bas Moyen Âge: perspectives de recherche, édité par A. Millán da Costa, Lisboa 2013, pp. 51-75. 11 M. Folin, Corti e arte di corte nell’Italia del Rinascimento, in Corti italiane del Rinascimento… cit., pp. 7-31: 8; cfr. anche Id., La dimora del principe negli Stati Italiani, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, a cura di G.L. Fontana, L. Molà, VI (Luoghi, spazi, architetture), a cura di D. Calabi, E. Svalduz, Treviso-Costabissara 2010, pp. 345-365. 12 E. Svalduz, Città e ‘quasi-città’: i giochi di scala come strategia di ricerca, in L’ambizione di essere città. Piccoli, grandi centri nell’Italia rinascimentale, a cura di E. Svalduz, Venezia 2004, pp. 7-43. 13 Si vedano, ad esempio: J. Mesqui, Les ensembles palatiaux et princiers en France aux XIVe et XVe siècle, in Palais royaux et princiers au Moyen Age, actes du colloque international (Mans, 6-8 octobre 1994), édité par A. Renoux, Le Mans 1996, pp. 51-70, o M. Whiteley, Royal and Ducal Palaces in France in the Fourteenth and Fifteenth Century. Interior, ceremony and function, in Architecture et vie sociale. L’organisation intérieure des grandes demeures à la fin du Moyen Age et à la Renaissance, actes du colloque (Tours, 6-10 juin 1988), études réunies par J. Guillaume, Paris 1994, pp. 4763; B. Bove, Les palais royaux à Paris au Moyen Age (XIe-XVe siècles), in Palais et pouvoirs. De Costantinople à Versailles, édité par M.F. Auzépy, J. Cornette, Saint-Denis 2003, pp. 4579; J.P. Caillet, Genèse et modèles du complexe palais-sanctuaire chez les Capétiens (XIe-XIIIe siècles), in Medioevo: la Chiesa e il Palazzo, atti del convegno (Parma, 20-24 settembre 2005), a cura di A.C. Quintavalle, Milano 2007, pp. 468-475. 14 Folin, Corti e arte… cit., p. 11. 15 Sul rapporto tra strategie politiche e spazi sacri, ad esempio: A. Longhi, Chapels in Fifteenth-Century Palaces and the Idea of Palatine Chapel, in 1st International Meeting EAHN European Architectural History Network, conference proceedings (Guimaraes, 17-20 june 2010), edited by J. Correia, Guimaraes 2010, pp. 353-562, ripreso ora in Id., Palaces and palatine chapels in 15th Century: ideas and experiences, in A Renaissance Architecture of Power. Princely Palaces in Italian Quattrocento, edited by M. Folin, S. Beltramo, F. Cantatore, Leiden 2016, pp. 82-104. 16 In tale direzione: P. Boucheron, Non domus ista sed urbs: palais princiers et environnement urbain au Quattrocento (Milan, Mantoue, Urbino), in Les palais dans la ville. Espaces urbains et lieux de la puissance publique dans la Méditerranée médiévale, table ronde (Avignon, 3-5 décembre 1999), textes réunis par P. Boucheron, J. Chiffoleau, Lyon 2004, pp. 249284. 17 Lusso, La committenza architettonica… cit., p. 438. 18 Sintesi recente in L. Ciavaldini-Rivière, Aux premières heures du monastère de Brou. Un architecte, une reine, un livre, Paris 2014; cfr. anche Brou, un monument européen à l’aube de la Renaissance, actes du colloque scientifique international (Brou, 13- 14 octobre 2006), Paris 2007. 19 Per un inquadramento critico del tema del mondo cavalleresco: A. Barbero, La cavalleria medievale, Sesto San Gio9

analoghe di legittimazione e di radicamento in un’incontestata cultura giuridica imperiale centroeuropea sono probabilmente alla base della più importante committenza sabauda di primo Cinquecento, il monastero-sacrario dinastico di Brou (fig. 2) presso Bourg-en-Bresse – promosso dalla duchessa di Savoia Margherita d’Asburgo, figlia dell’imperatore Massimiliano I e vedova di Filiberto di Savoia – complesso monumentale realizzato da maestranze fiamminghe in elaboratissimo linguaggio gotico, a partire dal 150618. In sintesi, nel Quattrocento alpino e pedemontano il fascino del cavaliere19 prevale ancora– e prevarrà a lungo – su quello del letterato umanista: ne discende che i caratteri ostentatamente castellani delle dimore extraurbane avranno

una durata lunghissima, che travalica le periodizzazioni consolidate della storia dell’architettura italiana, abitando le campagne e le valli piemontesi fin nel cuore dell’età moderna20. Anche i rari episodi di cultura classica roveresca che penetrano in alcune città subalpine negli ultimissimi anni del Quattrocento sono sostanzialmente circoscritti all’architettura religiosa di committenza episcopale o canonicale21: il contagio dell’architettura domestica e castellana è – nei fatti – circoscritto, come traspare dai pochi studi disponibili22 e come vedremo in conclusione del presente contributo. Nella più recente sintesi sull’architettura del Quattrocento italiano, Francesco Paolo Fiore denuncia il ritardo degli studi sulle “architetture utilitarie” e “comuni”,

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Fig. 5 Castello sabaudo di Fossano, Cuneo. Palatium nella corte (ultimo quarto del XV secolo). Fig. 2. Torre d’accesso di villa Poiana, Pojana Maggiore (Vicenza). Fronte verso la corte.

vanni, 20132; al tema è dedicato il recentemente istituito Museo della Civiltà Cavalleresca, allestito nella Castiglia di Saluzzo, curato da Rinaldo Comba e Massimiliano Caldera, per il quale si rimanda alla Guida al Museo della Civiltà Cavalleresca. Il Marchesato di Saluzzo e l’Europa, a cura di R.Comba, M. Caldera, Cuneo 2014. 20 Il tema è impostato in C. Bonardi, I castelli rurali in età moderna, in Piemonte, a cura di V. Comoli Mandracci, Roma-Bari 1988, pp. 55-62, e approfondito da numerosi saggi dell’autrice, tra cui Ead., I castelli del principato di Piemonte in rapporto al progetto filibertino di difesa dello stato, in Architettura castellana: storia, tutela, riuso, atti delle giornate di studi (Chiesa Confraternita dei Battuti Bianchi, Carrù, 31 maggio-1 giugno 1991), a cura di M.C. Visconti Cherasco, Carrù 1992, pp. 81-86, ed Ead., Castelli e dimore patrizie nel Torinese fra medioevo ed età moderna, in Torino fra Medioevo e Rinascimento. Dai catasti al paesaggio urbano e rurale, a cura di R. Comba, R. Roccia, Torino 1993, pp. 266-304. 21 Un primo quadro dei cantieri di cattedrali e collegiate, tra tradizioni costruttive lombarde, innovazioni gotiche transalpine e citazioni classiche in: A. Longhi, La costruzione della collegiata di Saluzzo e la cultura del cantiere negli ultimi decenni del Quattrocento, in Saluzzo, città e diocesi… cit., pp. 143-172. 22 G. Carità, Il castello di Fossano: da «castrum» a «palatium». Trasformazioni ad opera dei duchi di Savoia nel XV secolo, in Castelli. Storia e archeologia, atti del convegno (Cuneo, 6-8 dicembre 1981), a cura di R. Comba, A.A. Settia, Cuneo 1984, pp. 299-312; Id., Il castello da struttura di difesa a struttura residenziale. Alcuni esempi piemontesi tra XV e XVI secolo, in Architettura castellana… cit., pp. 65-79. 23 F.P. Fiore, Introduzione, in Storia dell’architettura italiana. Il Quattrocento, a cura di F.P. Fiore, Milano 1998, pp. 9-37: 19. 24 Non è questa la sede per approfondire le linee metodologiche condivise dagli studi sull’architettura bassomedievale subalpina degli ultimi lustri: è tuttavia evidente l’approccio geostorico allo studio dell’architettura e dell’insediamento, unito alla sensibilità verso i temi dell’esercizio del potere sviluppato dagli studi di Claudia Bonardi prima, Carlo Tosco poi e, negli anni più recenti, da chi scrive e da Enrico Lusso, Silvia Beltramo, Marco Frati e altri più giovani studiosi, le cui ricerche si giovano di un fitto dialogo interdisciplinare e di frequenti occasioni di scambio con i gruppi di ricerca maturati nella scuola medievistica di Giovanni Tabacco, diretti da Rinaldo Comba, Giuseppe Sergi, Aldo Settia e Francesco Panero. Per un primo quadro delle ricerche più organiche sull’architettura bassomedievale subalpina si rimanda a: Architettura e insediamento nel tardo medioevo in Piemonte, a cura di M. Viglino, C. Tosco, Torino 2003; La torre, la piazza, il mercato. Luoghi del potere nei borghi nuovi del basso Medioevo, atti del convegno (Cherasco, 19 ottobre 2002), a cura di C. Bonardi, Cherasco-Cuneo 2003; C. Tosco, Il castello, la casa, la chiesa. Architettura e società nel medioevo, Torino 2003; C. Tosco, Architetture del Medioevo in Piemonte, Savigliano-Torino 2003; E. Lusso, F. Panero, Castelli e borghi nel Piemonte bassomedievale, Alessandria 2008; E. Lusso, Forme dell’insediamento e dell’architettura nel basso medioevo. La regione subalpina nei secoli XI-XV, La Morra 2010; Borghi nuovi. Paesaggi urbani del Piemonte sud-occidentale. XIII-XV secolo, a cura di R. Comba, A. Longhi, R. Rao, Cuneo 2015; S. Beltramo, Il marchesato di Saluzzo tra Gotico e Rinascimento. Architettura città committenti, Roma 2015. 25 Come riferimenti storiografici principali possono essere assunti G. Tabacco, Le ideologie politiche del medioevo, Torino 2000, pp. 83-101; R. Bordone, G. Sergi, Dieci secoli di medioevo, Torino 2009, pp. 198-262. 26 Fondativi i riferimenti agli studi di Aldo Settia, in partico-

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o sul rapporto “tra architetture cittadine e rurali”; annota inoltre che sui “numerosi centri ‘minori’ di Piemonte o Sardegna più vicini ai confini occidentali”, esclusi dalla storiografia “perché sostanzialmente tardogotici e meno significativi ai fini di cogliere l’emergenza del nuovo linguaggio nel Quattrocento, si potrebbe scrivere un volume speculare rispetto al presente”23. Le brevi note qui presentate intendono suggerire alcune piste di ricerca in tale direzione, riferendole alla tradizione di studi della medievistica subalpina, segnata dallo studio interdisciplinare dei rapporti tra poteri, dinamiche sociali, scelte insediative e architettura24, e in cui il tema edilizio è indagato con categorie interpretative prevalentemente mutuate dalla storia delle istituzioni e delle ideologie politiche25.

Castrum di diritto e castrum di forma Se il paesaggio rurale, colto tra il consolidamento dei principati dinastici nel XIV secolo e il lungo governo francese cinquecentesco, è caratterizzato da un’incessante rielaborazione sul tema dei modelli formali castellani medievali, è tuttavia assodato dalla storiografia che già dai primi decenni del Trecento – in un contesto demico ed economico florido – le funzioni dei castelli negli spazi politici sabaudo, saluzzese, monferrino e visconteo virano in modo risoluto dal tema militare a quello produttivo rurale, e che tale processo non pare del tutto interrotto nemmeno dalla crisi mediotrecentesca. Osservando dunque non tanto l’espressione formale dell’edificio ‘castello’, ma il valore di quanto viene denominato giuridicamente ‘castrum’, è evidente una


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ridiscussione complessa del rapporto tra quanto ‘sembra’ castrum (attributi fortificatori di cortine, edifici, torri) e quanto è istituzionalmente castrum, ossia manufatto edilizio portatore di prerogative giurisdizionali specifiche, espressione materiale della presenza del legittimo detentore del potere su un territorio26. L’affermazione del principio di territorialità27, che supera il frazionamento delle signorie rurali medievali e volge la cultura politica europea verso la costruzione degli stati moderni, porta a una divisione sempre più netta tra quei castelli che, pur conservando prerogative giurisdizionali locali, di fatto si trasformano in dimore private e demilitarizzate, e quei – pochi – poli fortificati di interesse ‘statale’ (castelli urbani o cittadelle), affidati alla cura della burocrazia. In estrema sintesi, dunque, nel Quattrocento subalpino si intrecciano percorsi diversi: castelli giuridicamente tali (o divenuti tali con vicende articolate di rifeudalizzazione bassomedievale del territorio) assumono viepiù forme urbane e domestiche; altri castelli, rimasti al controllo dinastico e alle signorie territoriali superiori, diventano fortezze urbane, che a loro volta iniziano a ospitare al loro interno edifici civili con sempre più spiccati caratteri di aggiornamento formale e residenzialità; infine, sedicenti castelli, giuridicamente fasulli in quanto privi di prerogative giurisdizionali (dimore rurali, case forti, recinti rurali più o meno stabilmente insediati, forme di habitat sparso dotate di attrezzature difensive28), non rinunciano a dotarsi di apparati bellici o fortificati, la cui pretesa militare è resa sempre più inattuale dalla riarticolazione del rapporto tra dinastie regnanti e famiglie signorili, ma in cui l’amministrazione statale tollera alcune forme innocue di ostentazione. In ogni caso, l’affermazione della ‘residenzialità’ del castello – sia esso di famiglia signorile, di dinastia proto-statale o di gestione funzionariale – assume, fin dal Trecento, il ruolo guida nella definizione sia degli spazi interni (palazzi, sale di

rappresentanza, cappelle), sia degli spazi esterni (recinti, corti, giardini, portici). Tali complessi fenomeni – qui sintetizzati sulla base di una letteratura recente, sempre più articolata nei diversi paesaggi costruiti geostorici29 – sono correttamente descrivibili solo grazie all’esistenza di fonti documentarie che consentono di analizzare sia il significato istituzionale, sia il ‘vissuto’ di tali molteplici forme castellane, attestando funzioni e relazioni spaziali sempre più domestiche e produttive, e sempre meno belliche. Nel superamento della cultura giuridica medievale, per Howard Burns “agli occhi di un osservatore rinascimentale le case di campagna distingueranno in categorie a seconda dell’ubicazione e della funzione, più che della forma”30, ma al tempo stesso le fonti reimpiegheranno il lessico medievale adattandolo alla morfologia piuttosto che al diritto: i documenti definiscono castrum ciò che ‘sembra’ castrum; entrando nel castello, viene indicato come palacium lo spazio residenziale aulico, a prescindere dal fatto che vi si eserciti qualche forma di potere emanato dall’autorità pubblica; la turris resta il luogo depositario della memoria e dell’integrità del dominatus locale, o della convergenza dei diversi rami familiari dei consortili, pur rivestendo ormai funzioni marginali e diventando quasi un ostacolo al ridisegno residenziale e produttivo degli spazi castellani, o un problema per la sicurezza dei difensori stessi, con il passaggio alle armi da fuoco e al cannoneggiamento. Principi e signori imprenditori rurali Come contributo alla riflessione, saranno segnalati alcuni casi-studio, espressione di dinamiche certamente più ampie e condivise, che consentano di leggere la dialettica tra esigenze residenziali, istanze produttive e – residualmente – questioni fortificatorie, tra il pieno consolidamento dei principati territoriali tre-quattrocenteschi e la formazione degli stati moderni cinquecenteschi.

lare: A.A. Settia, Castelli e villaggi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XII secolo, Napoli 1984 e Id., Proteggere e dominare. Fortificazioni e popolamento nell’Italia medievale, Roma 1999; puntualizzazioni storiografiche recenti, utili al tema qui trattato, in Id., Fortezze in città. Un quadro d’insieme per l’Italia medievale, in Castelli e fortezze nelle città e nei centri minori italiani (secoli XIII-XV), atti del convegno (Cherasco, 15-16 novembre 2008), a cura di F. Panero, G. Pinto, Cherasco 2009, pp. 13-26. Per una ridiscussione di sintesi del tema: F. Panero, Il castello: strumento di difesa e simbolo dell’esercizio del potere politico, in Lusso, Panero, Castelli e borghi… cit., pp. 47-62. 27 G. Castelnuovo, Principati regionali e organizzazione del territorio nelle Alpi occidentali: l’esempio sabaudo (inizio XIII - inizio XV secolo), in L’organizzazione del territorio in Italia e Germania: secoli XIII-XIV, a cura di G. Chittolini, D. Willoweit, Bologna 1994, pp.81-93; Id., Lo spazio sabaudo fra nord e sud delle Alpi: specificità e confronti (X-XV secolo), in Kommunikation und Mobilität im Mittelalter. Begegnungen zwischen dem Südenund der Mitte Europas (XI-XIV Jahrhundert), herausgegeben von S. de Rachewiltz, J. Riedmann, Sigmaringen 1995, pp. 277-289; per uno sguardo complessivo, resta fondativo G. Chittolini, Città, comuni e feudi negli stati dell’Italia centro-settentrionale (XIV-XVI secolo), Milano 1996. 28 La letteratura sulle origini delle dimore rurali fortificate (motte, case forti, torri) e sull’habitat intercalare è ampia, e affonda le proprie radici nei dibattiti sul popolamento delle campagne; si rimanda ad alcuni capisaldi, quali: A.A. Settia, Tra azienda agricola e fortezza: case forti, “motte” e “tombe” nell’Italia settentrionale. Dati e problemi, in “Archeologia medievale”, 7, 1980, pp. 31-54 (ora raccolto in Id., “Erme torri”. Simboli di potere fra città e campagna, Vercelli-Cuneo 2007, pp. 15-35, con altri saggi sul medesimo tema); R. Comba, Tours et maisons fortes dans les campagnes médiévales italiennes: état présent des recherches, in La maison forte au Moyen Age, actes de la table ronde (Nancy-Pont-à-Mousson, 31 mai-3 juin 1984), dirigé par M. Bur, Paris 1986, pp. 317323 e, più diffusamente, Id. Metamorfosi di un paesaggio rurale. Uomini e luoghi del Piemonte sud-occidentale dal X al XVI secolo, Torino 1983; Id., Le origini medievali dell’assetto insediativo moderno nelle campagne italiane, in Storia d’Italia, a cura di C. Romano, V. Vivanti, VIII (Insediamento e territorio), a cura di C. De Seta, Torino 1985, pp. 367-404. Per un bilancio storiografico: Caseforti, torri e motte in Piemonte (secoli XII-XVI), atti del convegno (Cherasco, 25 settembre 2004), Cuneo 2005 e Motte, torri e caseforti nelle campagne medievali (secoli XII-XV). Omaggio ad Aldo A. Settia, atti del convegno (Cherasco, 23-25 settembre 2005), a cura di R. Comba, F. Panero, G. Pinto, Cherasco 2007, per l’architettura subalpina in particolare: A. Longhi, Torri e caseforti nelle campagne del Piemonte occidentale: metodi di indagine e problemi aperti nello studio delle architetture fortificate medievali, ivi, pp. 51-86. 29 Si rimanda, ad esempio, a E. Lusso, Castelli militari, castelli residenziali e castelli agricoli. Modelli funzionali e assetti formali nel Monferrato tardomedievale, in Lusso, Panero, Castelli e borghi… cit., pp. 85-247; Id., Le “periferie” di un principato. Governo delle aree di confine e assetti del popolamento rurale nel Monferrato paleologo, in “Monferrato. Arte e Storia”, 16, 2004, pp. 5-40; L. Patria, Caseforti e casetorri tra Savoia, Piemonte e Delfinato: considerazioni sul patrimonio fortificato delle Alpi Cozie, in Caseforti, torri e motte… cit., pp. 17-135; S. Beltramo, La committenza architettonica di Ludovico II: i castelli di Verzuolo e di Saluzzo per la difesa del marchesato, in Ludovico II marchese di Saluzzo: condottiero, uomo di stato, mecenate (1475-1504), a cura di R. Comba, II (La circolazione culturale e la committenza marchionale), atti del convegno (Saluzzo, 10-12 dicembre 2004), Cuneo 2006, pp. 280-315.

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H. Burns, Castelli travestiti? Ville e residenze di campagna nel Rinascimento italiano, in Il Rinascimento italiano e l’Europa… cit., pp. 465-545: 480. 31 Si veda ad esempio R. Comba, Le villenove del principe. Consolidamento istituzionale e iniziative di popolamento fra i secoli XIII e XIV nel Piemonte sabaudo, in Piemonte medievale. Forme del potere e della società. Studi per Giovanni Tabacco, Torino 1985, pp. 123-141, oltre ai testi citati in nota 27. 32 In sintesi: A. Longhi, Contabilità e gestione del cantiere nel Trecento sabaudo, in Il cantiere storico: organizzazione, mestieri, tecniche costruttive, a cura di M. Volpiano, Torino-Savigliano 2012, pp. 104-123; in un’ottica comparativa: Id., L’organisation et la comptabilité des chantiers à l’époque des principautés territoriales dans la région subalpine occidentale (XIVe-XVe siècles), in Kirche als Baustelle. Große Sakralbauten des Mittelalters, Ergebnisse einer internationalen Tagung (Dresden, 10-13 november 2011), herausgegeben von K. Schrök, B. Klein, S. Burger, Köln-Weimar-Wien 2013, pp. 152-168. Sulla contabilità di castellania sabauda: C. Guilleré, J.L. Gaulin, Des rouleaux et des hommes: premières recherches sur les comptes de châtellenies savoyards, “Etudes savoisiennes”, 1, 1992, pp. 51-108; A. Barbero, G. Castelnuovo, Governare un ducato. L’amministrazione sabauda nel tardo medioevo, “Società e storia”, 57, 1992, pp. 465-511; G. Castelnuovo, C. Guilleré, Les finances et l’administration de la Maison de Savoie au XIIIe siècle, in Pierre II de Savoie. ‘Le Petit Charlemagne’ (†1268), colloque international (Lausanne, 30-31 mai 1997), études publié par B. Andenmatten, A. Paravicini Bagliani, E. Pibiri, Lausanne 2000, pp. 33-126. Di prossima pubblicazione le sintesi di C. Guilleré, J. Coppier e A. Longhi nel catalogo Vies de châtraux: de la forteresse au monument. Les châteaux sur le territoire de l’ancien Duché de Savoie, du 15ème siècle à nos jours, Annecy, in corso di stampa. 30

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Una prima dinamica che interessa i temi qui affrontati può essere riconosciuta nei primi decenni del Trecento, ossia nel momento in cui l’affermazione delle principali dinastie subalpine passa attraverso la necessità di ridefinire la natura giuridica del controllo del territorio. La costruzione di un corpo territoriale sovraordinato alla frammentata geografia dei dominatus loci avviene sia mediante la messa a punto di strumenti istituzionali innovativi di esercizio della sovranità, sia mediante l’acquisto di quote di condominio locale31, ma il princeps opera anche per la costruzione di un proprio patrimonio fondiario, sotto il controllo diretto suo e dei suoi massari. La prima dinamica politica – la sperimentazione istituzionale – implica la messa a punto di luoghi in cui l’esercizio del potere superiore sia materializzato da adeguati edifici, adatti alle liturgie istituzionali e prevalentemente affacciati su una scena urbana, mentre il secondo strumento – il condominio – non rimette in discussione, inizialmente, le strutture stratificate dei castra dei signori locali, popolati da una pluralità di domus all’interno di un recinto e raccolti attorno a una torre. È invece il terzo fenomeno – l’investimento fondiario diretto – che apre nuove prospettive architettoniche. Si tratta infatti di inventare un tipo di edificio che abbia un prevalente interesse

produttivo e che sia munito, ma non fortificato al punto da essere un possibile obiettivo primario in conflitti di carattere regionale, condotti ormai da milizie professioniste e quadri funzionariali. Inoltre, il messaggio che l’architettura comunica deve essere chiaramente riconoscibile in termini di continuità con le sedi di esercizio del potere locale (i precedenti castra), ma al tempo stesso evocare la natura sovraordinata della signoria, che si chiama al di sopra della microconflittualità. Tale complessa dinamica, giocata sul triplice registro dell’efficacia economica, della sicurezza e della rappresentazione del potere, è ben documentata soprattutto nel processo di territorializzazione del potere di Filippo di Savoia (reg. 1295-1334), titolare dell’appannaggio sabaudo a sud delle Alpi, corroborato dall’acquisito per via matrimoniale nel 1301 del titolo di principe di Acaia (regione greca di cui mai avrà il controllo). Le politiche del princeps sono note non solo tramite la diplomatica, ma soprattutto grazie alla contabilità dei suoi funzionari decentrati (i castellani) e degli embrionali apparati burocratici centrali del principato: i rotoli di castellania e di tesoreria costituiscono, per i territori sabaudi, una fonte sostanzialmente inesauribile di informazioni sociali, economiche ed edili32, la cui restituzione estensiva – diacronica e sincronica –


Fig. 6 Castello dei Tapparelli, Lagnasco, Cuneo. Interventi della seconda metà del XV secolo.

Tra civiltà cavalleresca e imprenditorialità rurale: appunti sui castelli subalpini nell’autunno del Medioevo Andrea Longhi

consente di individuare strategie territoriali e relazioni tra architettura e sistemi istituzionali33. Il caso di Moretta (fig. 3), borgo sorto non lontano dalla sponda destra del Po, tra Torino e Saluzzo, è estremamente ben documentato: il principe penetra – mediante acquisto di quote e operazioni militari – nel consortile dei domini loci e – acquisitone il controllo nei primi del Trecento – insedia nel castrum una propria azienda agricola e costruisce il palacium magnum castri, destinato sia a rappresentare la sua signoria sovraordinata, sia a conservare e proteggere i prodotti del fertile territorio, provenienti dall’imposizione fiscale riscossa dai suoi funzionari e dal raccolto dei propri poderi personali (in realtà intestati alla seconda moglie, Caterina di Vienne). I castellani del principe e i massari della principessa documentano in maniera puntigliosa sia i lavori agricoli, sia le spesse edilizie34, concentrate nella fase di massima fioritura del principato, tra il 1322 e il 1326, anni in cui viene anche fondato nella parte meridionale della castellania un borgo nuovo per consentire una migliore messa a coltura dell’area35. Il tipo di registrazione contabile (in parte a misura, in parte a corpo, in parte in economia) non prevede una descrizione formale dell’architettura tale da consentirne un immediato riconoscimento nell’attuale castello stratificato. È tuttavia ben intuibile la logica dell’organismo: un palacium magnum in muratura, coerente e unitario, viene realizzato all’interno del preesistente castrum, organizzato in tre livelli fuori terra (con solai lignei, pavimentati in cotto), sotto cui si trova la cantina voltata. L’edificio, riscaldato da tre camini, prospetta sulla corte, dove si trova la scala lignea che distribuisce i diversi livelli. I conti permettono di individuare le diverse funzioni dei piani: nella cantina sono conservate le botti; il piano terreno, illuminato da una grande finestra con grata, è il livello di rappresentanza, mentre il piano intermedio è per la vita privata del castellano (vi si ricavano

una sala per dormire e altri spazi di servizio, quali una latrina); l’ultimo livello, sotto il tetto ligneo coperto in coppi, è il prezioso granaio, dove sono concentrati i raccolti della castellania e dei poderi. Altre tettoie ed edifici funzionali sono poi realizzati nella corte del castrum. Confrontando i conti con l’edificio conservato, possiamo ipotizzare che le strutture fondamentali del corpo di fabbrica occidentale, riplasmato nel Settecento, siano riferibili al cantiere del palacium trecentesco, sebbene la documentazione non menzioni esplicitamente né le merlature, né i cammini di ronda ancor oggi riconoscibili. È comunque evidente che il tipo di apparati militari dispiegati è sostanzialmente irrilevante (merlatura non sporgente dal filo della cortina, assenza di torri d’angolo o di altri apprestamenti per il tiro radente) e colloca il nostro edificio in un genere di architettura certamente non militare, sebbene di prerogative principesche. La ricca contabilità sabauda consente dunque di interpretare in termini funzionali e giuridici le strutture di Moretta – tutto sommato modeste, e confrontabili con decine di altre fortificazioni rurali – ma soprattutto permette di metterle in relazione diretta con le politiche di popolamento e con l’attenta strategia complessiva di valorizzazione delle vocazioni economiche locali. Com’è noto, negli stessi anni e con lo stesso tipo di fonte sono documentabili una pluralità di interventi di costruzione e fondazione di insediamenti – soprattutto concentrati nell’area circostante la ‘capitale’ del principato, Pinerolo – attuati dalla burocrazia sabauda con una grande flessibilità di obiettivi e di metodi di lavoro36. Meno immediata è l’individuazione di fenomeni analoghi negli altri principati subalpini, la cui documentazione contabile è meno accurata o non conservata37. Segnaliamo tuttavia che, nel medesimo intorno cronologico, il marchese di Saluzzo avrebbe promosso, a pochi chilometri da Moretta, la rifondazione di villa e castrum a Cardé, secondo

Per il caso del principato di Filippo mi permetto di rinviare ad A. Longhi, Architettura e politiche territoriali nel Trecento, in Architettura e insediamento nel tardo medioevo… cit., pp. 23-70, e ad alcuni approfondimenti sviluppati negli anni successivi. 34 La documentazione contabile è analizzata in A. Longhi, Il cantiere sabaudo del castello di Moretta (1295-1335), “Bollettino della Società per gli Studi Storici, Archeologici ed Artistici della Provincia di Cuneo”, 137, 2007, 2, pp. 7-23. 35 A. Longhi, Tra fondazioni non riuscite e rischi di abbandono: i casi di Villanova e Villabona presso l’attuale Moretta, in Villaggi scomparsi e borghi nuovi nel Piemonte medievale, a cura di R. Comba, R. Rao, “Bollettino della Società per gli Studi Storici, Archeologici ed Artistici della Provincia di Cuneo”, 145, 2011, pp. 39-63. 36 Si rimanda a Comba, Le villenove… cit. e Longhi, Architettura e insediamento… cit., passim; da ultimo, A. Longhi, Le strutture insediative: dalle geometrie di impianto alle trasformazioni dei paesaggi costruiti, in Borghi nuovi. Paesaggi urbani… cit., pp. 29-68. 37 E. Lusso, Cantieri, materiali e maestranze nel tardo medioevo. L’altro Piemonte: i marchesati di Monferrato e Saluzzo, le aree di influenza francese e viscontea, in Il cantiere storico… cit., pp. 125-143. 33

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Fig. 7 Castello di Manta, Cuneo. Salone baronale.

C. Bonardi, Il disegno del borgo: scelte progettuali per il centro del potere, in La torre, la piazza… cit., pp. 39-67: 65; le vicende insediative di Cardé, dal XIII secolo alla rifondazione, sono ricostruite da R. Comba, «In silva Stapharda». Dissodamenti, grange e villenove in un grande complesso forestale (XI-XIV secolo), “Archivio Storico Italiano”, CLXVII, 2009, 4 (622), pp. 607-624; da ultimo S. Beltramo, Cardé, in Borghi nuovi. Paesaggi urbani… cit., pp. 291-293. 39 E. Lusso, Da strutture di difesa ad aziende da reddito. Metamorfosi di un sistema territoriale, in Monferrato. Un paesaggio di castelli, a cura di V. Comoli, Alessandria 2004, pp. 50-59. 40 La questione è posta e discussa in R. Comba, Il costo della difesa. Investimenti nella costruzione e manutenzione di castelli nel territorio di Fossano tra il 1315 e il 1335, in Castelli. Storia e archeologia… cit., pp. 229-239. 41 G. Tabacco, La storia politica e sociale. Dal tramonto dell’Impero alla prima formazione di Stati regionali, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano, C. Vivanti, II (Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII), Torino 1974, 1, pp. 3-427: 268. 42 Il fenomeno è riscontrabile in numerose aree padane e alpine, quali il Torinese, passato al controllo diretto del conte di Savoia Amedeo VI (Bonardi, Castelli e dimore patrizie nel Torinese….cit., p. 272 e sgg.), la città-stato astigiana (R. Bordone, Progetti nobiliari del ceto dirigente del Comune di Asti al tramonto, “Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino”, XC, 1992, p. 481 e sgg.) o lo stato visconteo (Chittolini, Città, comuni e feudi… cit., p. X e sgg. e passim); in sintesi: G. Scarcia, Élites del territorio piemontese e corte sabauda fra XIV e XV secolo, in L’affermarsi della corte sabauda. Dinastie, poteri, élites in Piemonte e Savoia fra tardo medioevo e prima età moderna, a cura di P. Bianchi, L.C. Gentile, Torino 2006, pp. 163-176: 172 e sgg. 43 A. Longhi, Castelli nelle terre di Langa: le architetture fortificate dei Falletti, in I Falletti nelle terre di Langa tra storia e arte: XII-XVI secolo, atti del convegno (Castello Falletti, Barolo, 9 novembre 2002), a cura di R. Comba, Cuneo 2003, pp. 61-80. 44 Longhi, Architetture e politiche territoriali… cit., pp. 53 e sgg. 45 Sui singoli edifici, si rimanda alle utili schede monografiche, con precedente bibliografia, in Atlante castellano. Strutture fortificate della provincia di Torino, a cura di M. Viglino Davico et alii, Torino 2007 e Atlante castellano. Strutture fortificate della provincia di Cuneo, a cura di M. Viglino Davico et alii, Torino 2010. 38

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una comune strategia di fondazione di aziende agricole da parte dei principi territoriali contermini38. Il fenomeno è studiabile anche nel marchesato di Monferrato, ma su fonti relative a un arco cronologico successivo39. La ‘rifeudalizzazione’ del territorio Nel caso sabaudo, l’investimento diretto in edilizia e in proprietà terriere non resta economicamente sostenibile per il principe dal secondo terzo del Trecento, a causa della sfavorevole congiuntura politico-militare e sociale40. I territori subalpini sono diffusamente coinvolti dalla cosiddetta rifeudalizzazione – o, secondo il magistero di Giovanni Tabacco, la prima vera ‘feudalizzazione’41 –, promossa dai principati territoriali dinastici e cittadini che, ricorrendo all’ausilio del diritto feudale, vendono castelli e territori, o ne concedono il dominatus a esponenti del ceto emergente, che ha fatto fortuna con il commercio o con il prestito di denaro42. Per l’area sabauda, il fenomeno si verifica alla crisi del principato di Filippo (quando, ad esempio, i Falletti acquistano la citata Villanova di Moretta, che entra a far parte di un ramificato patrimonio familiare di castelli e terre43) e, in una seconda ondata, dopo il conflitto dinastico del 1360 tra Giacomo di Savoia-Acaia e il cugino, conte Amedeo VI (reg. 1343-1383), che assume il controllo anche dei territori subalpini, redistribuendo cariche e signorie (ad esempio, il passaggio ai Solaro del citato castello di Moretta)44. Il fenomeno,

evidentemente, ha un impatto architettonico sostanziale, in quanto quel ceto di homines novi arricchitisi con il prestito e la mercatura ricerca legittimazione al proprio insignorimento anche mediante un’attiva politica edilizia. Se i castelli rurali non perdono i propri – seppur minimi – apparati militari, adatti appena alla protezione dei beni familiari da sbandati e scorribande, vengono soprattutto enfatizzati quei connotati para-bellici di tipo ostentatorio che caratterizzano la facies esterna di castelli e dimore rurali, con una sorta di ‘araldica architettonica’ di gusto cavalleresco; al tempo stesso, viene curata la residenzialità dei palacia e delle domus interne ai castelli, in cui le famiglie non rinunciano al comfort borghese urbano. Il fenomeno coinvolge i castelli che si sono sviluppati con un recinto regolare, provocando l’addensamento di nuovi edifici regolarizzati nell’area della corte, in sostituzione di eventuali precedenti strutture in legno: corpi di fabbrica in muratura sono addossati alle cortine, distribuiti da loggiati e scale a chiocciola di sempre maggior rilevanza monumentale, ed eventualmente illuminati ed arieggiati anche con finestre aperte nelle cortine. Verso il cortile, i portici e i loggiati hanno solitamente sostegni laterizi con capitelli cubici scantonati, eventualmente architravati in legno al secondo livello. I casi più interessanti si verificano nelle signorie controllate dalle famiglie più intraprendenti e inserite negli uffici statali, quali i Solaro nella già citata Moretta (dal


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1362) (fig. 3), a Macello (dal 1396, anche in questo caso cantiere avviato su committenza di Filippo e Caterina negli anni Venti) e a Villanova di Moretta (dal 1422, subentrando ai Falletti)45, o la famiglia Cacherano (per tutti Osasco, dal 1406, precedentemente della famiglia Provana)46. Con uno sguardo a scala più ampia, è interessante rilevare come il processo di saturazione della corte interna contribuisca a preservare la leggibilità dell’impianto regolare esterno delle cortine: si tratta – in via ipotetica – di una sorta di revival del sistema geometrizzato a cortine rette e torri angolari, messo a punto come emblema di sovranità nella territorializzazione della corona di Francia attuata da Filippo Augusto nei primi decenni del Duecento, e riapplicato – pur con i necessari adattamenti alla poliorcetica più aggiornata, alle esigenze abitative e soprattutto alle politiche di immagine del potere – nel cuore del Trecento, soprattutto da parte di Carlo V di Francia (reg. 1364-1380)47. Si tratta dunque di un modello figurativo – prima ancora che icnografico o bellico – di retaggio ‘regale’, considerato dalla storiografia come prerogativa solo di chi può esercitare sovranità territoriali di prestigio, come nel caso del conte Amedeo VI e della sua affermazione su Ivrea (il cui castello è iniziato per ragioni di politica interna negli anni Cinquanta del Trecento, per completarsi a fine secolo)48, o nel caso delle numerose cittadelle viscontee in Piemonte, a impianto regolare. Probabilmente, proprio il cantiere di Ivrea funge da traino per la valorizzazione degli spazi interni dei tanti recinti preesistenti, ma anche come modello per la realizzazione di nuovi complessi geometrizzati con corte porticata interna, sia nei contesti signorili rurali sopra citati49, sia nei grandi castelli dinastici urbani50. L’ostentazione bellica non riguarda però solo i castelli a cortina geometrica saturata, ma anche altre formule, derivate – per esempio – dal tipo edilizio della casa forte a blocco, anch’esso riat-

tualizzato nell’età di Amedeo VI e dei suoi successori. L’esito signorile privato più spettacolare è il castello di Serralunga d’Alba (fig. 1), realizzato a cavallo della metà del Trecento da un ramo della famiglia Falletti, con un palatium a vano unitario, su soli quattro livelli, ma a forte slancio verticale grazie alla morfologia dell’altura51. In questo caso il tono militare è dato dall’adiacente torre – che, preesistente, viene sviluppata in altezza –, mentre l’applicazione sulle pareti del palatium di fregi laterizi ad archetti pensili e la realizzazione di ampie aperture decorate hanno un indubbio sapore civile, definendo quasi una commistione tra l’ostentazione bellicosa e il fasto urbano della vicina città di Alba52, culla delle fortune finanziarie ed economiche familiari: una sorta di conciliazione tra la permanenza di un carattere militare e la ricerca nel comfort abitativo. Lo scenario di vita in cui si producono tali scelte non può essere delineato tramite le scarne fonti documentarie sull’architettura: trattandosi di edifici privati, la documentazione non deve seguire la puntigliosa procedura contabile delle opere di committenza comitale, e sfuggono quindi sia i rapporti tra famiglia e maestranze, sia le modalità di scelta e contrattualizzazione delle opere, come pure, in termini più complessivi, il senso del cantiere e il ‘vissuto’ degli spazi. Non si può che procedere per ipotesi: per superare le mere congetture hanno un ruolo decisivo lo studio delle élites – funzionariali e signorili53 – e l’approfondimento dei profili biografici delle famiglie coinvolte, nel tentativo di catturarne i valori e le ideologie sottese alle scelte artistiche ed edilizie, come in parte già avvenuto nel caso dei Falletti54. Si pensi alle valenze architettoniche di temi quali la dialettica tra violenza e vita cortese, o l’impatto di una categoria come la ‘alterigia’55, da inquadrare in un contesto tardo cavalleresco di relazioni sempre rinnovate tra signorie locali e corti principesche, in quanto, ricorda Luigi Provero, “la cavalleria rappresenta

46 A. Longhi, Il castello di Osasco, in Case antiche della nobiltà in Piemonte, a cura di A. Re Rebaudengo, Torino 2005, pp. 136-146. 47 Per un inquadramento della dinamica, si rimanda alle sintesi di M. Bur, Le Château, Turnhout 1999, p. 100 e sgg. e J. Mesqui, Castelli. Francia, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, a cura di A.M. Romanini, IV, Roma 1993, pp. 402-408: 407-408 con ampia bibliografia; un bilancio sulla committenza di Carlo V è proposto in Paris et Charles V. Arts et architecture, catalogue de l’exposition (Bibliothèque Forney, Paris, 2001), sous la direction de F. Pleybert, Paris 2001, in particolare M. Whiteley, Lieux de pouvoir et résidences royales, pp. 105-131; sulla politica dell’immagine delle architetture di Carlo V: B. Carqué, «Paris 1377-78». Un lieu de pouvoir et sa visibilité entre Moyen Âge et temps présent, “Médiévales”, 53, 2007, pp. 123-142. Per le declinazioni nello spazio politico sabaudo: D. De Raemy, Châteaux, donjons et grandes tours dans les Etats de Savoie (1230-1330). Un modèle: le château d’Yverdon, I (Le Moyen Âge: genèse et création), Lausanne 2004, p. 171 e sgg., e C.L. Salch, A. Longhi, En Savoie des apanages: châteaux à donjon cylindrique et enceinte quadrangulaire, “Châteaux-forts d’Europe”, 41, 2007. 48 G. Roddi, Note sulla costruzione del Castello di Ivrea, “Studi piemontesi”, XI, 1983, pp. 139-148; C. Tosco, Ricerche di storia dell’urbanistica in Piemonte: la città d’Ivrea dal X al XIV secolo, “Bollettino Storico-Bibliografico Subalpino”, XCIV, 1996, pp. 467-498; C. Natoli, Risvolti urbanistici e architettonici delle politiche territoriali sabaude nel Piemonte del Trecento: il caso di Ivrea, in La città europea del Trecento. Trasformazioni, monumenti, ampliamenti urbani, atti del convegno internazionale (Cagliari, 9-10 dicembre 2005), a cura di M. Cadinu, E. Guidoni, “Storia dell’urbanistica/Sardegna” I, 2008, pp. 218-219. 49 Longhi, Architettura e politiche territoriali… cit., p. 51 e sgg. 50 Il tema è stato recentemente sviluppato in A. Longhi, Castelli urbani in area subalpina occidentale: continuità e discontinuità nei paesaggi del potere, in Prima dei castelli medievali: materiali e luoghi nell’arco alpino occidentale, a cura di B. Maurina, C.A. Postinger, “Atti della Accademia Roveretana degli Agiati”, CCLXIV, s. IX, 2014, vol. IV, A, fasc. II, , pp. 185-218: 197, 206, 210 e sgg. 51 Longhi, Le architetture fortificate dei Falletti … cit., passim; si veda l’approfondimento monografico del recente: W. Accigliaro, B. Ghiglione, B. Molino, Serralunga d’Alba e i Falletti: storia, arte, territorio di un feudo nelle Langhe, Serralunga d’Alba 2012. 52 Sull’architettura civile albese: C. Bonardi, Spazio urbano e architettura tra X e XVI secolo, e G. Donato, Ornamento e finiture nell’edilizia albese, in Una città nel Medioevo. Archeologia e architettura ad Alba dal VI al XV secolo, a cura di E. Micheletto, Alba 1999, pp. 61-87 e 191-222. 53 G. Castelnuovo, Ufficiali e gentiluomini. La società sabauda nel tardo medioevo, Milano 1994; A. Barbero, Un’oligarchia urbana. Politica ed economia a Torino fra Tre e Quattrocento, Roma 1995; per le famiglie aristocratiche del secondo Trecento, in rapporto anche alle consuetudini abitative e all’uso dei castelli: B. Del Bo, La spada e la grazia. Vite di aristocratici nel Trecento subalpino, Torino 2011. 54 Dopo i Falletti nelle terre di Langa… cit., si segnalano gli approfondimenti di B. Del Bo, Un itinerario signorile nel crepuscolo angioino: i Falletti di Alba, in Gli Angiò nell’Italia nord-occidentale (1259-1382), a cura di R. Comba, Milano 2006, pp. 313-330, ripreso come I Falletti di Alba e il loro itinerario politico nel crepuscolo Angioino, in Alba medievale. Dall’alto Medioevo alla fine della dominazione angioina. VIXIV secolo, a cura di R. Comba, Alba 2010, pp. 197-207.

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Il tema è sviluppato in Del Bo, La spada… cit., p. 139 e sgg. L. Provero, Valerano di Saluzzo tra declino politico e vitalità culturale di un principato, in La sala baronale del castello della Manta, a cura di G. Romano, Milano 1992, pp. 9-25: 22. 57 G. Castelnuovo, Quels offices, quels officiers? L’administration en Savoie au milieu du XVe siècle, “Etudes Savoisiennes”, 1993, 2, pp. 3-43; più diffusamente: A. Barbero, Il ducato di Savoia. Amministrazione e corte di uno stato franco-italiano (1416-1536), Roma-Bari 2002, passim. 58 R. Comba, Les Decreta Sabaudiae d’Amédée VIII: un projet de société?, in Amédée VIII- Félix V. Premier duc de Savoie et pape (1383-1451), colloque international (Ripaille-Lausanne, 23-26 octobre 1990), études publiées par B. Andenmatten, A. Paravicini Bagliani, Lausanne 1992, pp.179-190; si segnala il recente La Loi du Prince. Les Statuta Sabaudiae d’Amédée VIII, colloque (Genève, 2-4 février 2015), in corso di stampa. 59 A. Barbero, L’oro e l’acciaio. La cavalleria nel Livre du Chevalier Errant di Tommaso III di Saluzzo, in Immagini e miti nello Chevalier Errant di Tommaso III di Saluzzo, atti del convegno (Archivio di Stato, Torino, 27 settembre 2008), a cura di R. Comba, M. Piccat, Cuneo 2008, pp. 23-30: 30. 60 E. Castelnuovo, Le Alpi, crocevia e punto d’incontro delle tendenze artistiche nel XV secolo, in Id., La cattedrale tascabile. Scritti di storia dell’arte, Livorno 2000 (ma testo edito nel 1967), pp. 35-35: 36. 55

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l’ideologia che unisce il mondo aristocratico, ed è nel contempo uno strumento di rafforzamento del potere del principe, grazie all’insistenza della cultura cavalleresca sulla fedeltà e l’obbedienza dovute al proprio signore, in un ideale di solidarietà e amore fra principi e nobili”56. Dall’autunno del Medioevo alla costruzione degli stati moderni A partire dai primi decenni del Quattrocento i principati territoriali subalpini hanno ormai consolidato la propria natura istituzionale e hanno iniziato a svilupparne le implicazioni architettoniche e rappresentative. È questo il momento della massima affermazione politica dei Savoia, che conseguono l’ambito titolo ducale nel 1416 con Amedeo VIII (reg. 1393-1434), e che annettono nel 1418 il principato subalpino degli Acaia al corpo del Ducato, che si estende così dal cuore del lago Lemano fino allo sbocco sul Mediterraneo, affermandosi come uno degli stati cardine sullo scacchiere politico europeo. A metà Quattrocento il Ducato ha ormai consolidato la propria trama amministrativa57, ma soprattutto ha fissato un sistema di valori e di legami familiari su cui organizzare la formazione delle élites e l’organizzazione del territorio, nel quadro della cornice giuridica unitaria dei Decreta seu Statuta Sabaudiae del 143058. L’arco alpino occidentale ha un ruolo certamente non periferico

nel quadro dell’autunno del Medioevo centroeuropeo, lacerato sì da conflitti, ma innervato anche di fermenti letterari, artistici e religiosi, che sono considerati da Alessandro Barbero non segnali dell’irreversibile crisi tratteggiata da Huizinga, ma “della contraddittoria vitalità dell’Europa moderna in gestazione”59. Per Enrico Castelnuovo, il Quattrocento è il momento in cui si può più propriamente parlare di “arte alpina”; anzi, un secolo che potrebbe essere chiamato, almeno per la sua prima parte, “secolo delle Alpi”, segnato dalla “civiltà delle valli e dei colli”60. In tale contesto alpino fortemente dinamico, il percorso verso la costruzione dello stato – sia esso sabaudo, saluzzese o monferrino – implica un ulteriore processo di forte selezione di poli fortificati di competenza dell’amministrazione centrale, ma anche un ripensamento del senso delle sedi di corte, nel passaggio tra un esercizio del potere itinerante a una modalità più sedentaria, orientata verso l’individuazione di una città-capitale e di una sede stabile per la burocrazia centrale. Tale questione, sebbene apparentemente estranea al tema della villa/dimora rurale qui posto, ha ripercussioni indirette ma rilevanti sulla storia dei castelli familiari extraurbani. Innanzitutto si ha una divaricazione tra i manufatti con destinazione militare e gli spazi con funzione residenziale e amministrativa: pur conservando – come sopra accennato – la leggibilità


Figg. 8-9 Castello di Villanova Solaro, Cuneo. Il loggiato verso la corte del castello, lato nord: foto del palinsesto murario negli anni Venti del novecento (da Olivero, Il castello cit., 1928) e dettaglio attuale di uno dei sostegni, dopo i recenti restauri (foto S. Beltramo).

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degli antichi castelli, elemento di legittimazione del potere e di continuità di esercizio del medesimo (non solo in Piemonte, ma in diverse capitali padane)61, da un lato si creano – esternamente – nuove attrezzature militari adatte alla guerra con cannoni, dall’altro si codifica la sequenza canonica degli spazi di rappresentanza e di abitazione interni, enucleando la riconoscibilità dell’aula, della cappella e della camera, cuore di ogni organismo castellano-moderno, anche periferico. Per Marco Folin, nella seconda metà del Quattrocento “il modello della rocca acquistò una nuova visibilità, confermandosi come una delle tipologie di dimora ‘regale’ per eccellenza”, talora “ingentilito da innesti classicheggianti”62. In area pedemontana il fenomeno, chiaramente, non riguarda solo le stagioni più fortunate della dinastia sabauda, ma è leggibile – ad esempio – negli anni Venti del Quattrocento nelle politiche edilizie dei Paleologi marchesi di Monferrato, che realizzano il palacium novum nel castello di Casale, prefigurandone un ruolo di sede di corte preferenziale63. Negli anni Trenta-Quaranta processi analoghi coinvolgono anche il castello di Saluzzo, città eponima della dinastia marchionale. Si rimette mano radicalmente ad entrambi i castelli marchionali negli anni Settanta, per meglio disciplinare gli spazi interni e per adeguare ulteriormente le strutture ad ospitare le amministrazioni centrali degli stati, creando una struttura a ‘doppia corte’ (una amministrativa, una residenziale)64. Ancora una volta è la contabilità sabauda la fonte che ci permette di entrare documentalmente nel cuore del fenomeno, ad esempio con il caso di Fossano (fig. 4), dove un palatium idoneo al rango e alle funzioni ducali va a occupare lo spazio interno alle geometriche cortine turrite costruite dal Filippo d’Acaia sopra citato, tra il 1324 e il 132765. Lavori significativi sono condotti durante l’età di Amedeo VIII e negli anni Quaranta del Quattrocento sotto la direzione del mare-

sciallo di Savoia Ludovico d’Acaia, ma – soprattutto – è interessante per i temi qui indagati il cantiere promosso dal giovane duca Carlo I nel 1485-1487. Non è questa la sede per ripercorrere il lungo cantiere, ma si può annotare che la risistemazione degli spazi del potere ha una natura ‘introversa’, ossia che non lede l’unitarietà figurale e geometrica del recinto esterno, e aderisce a un codice compositivo proprio di una sede dinastica di rango europeo (sebbene non si tratti di una capitale), basato sulla sequenza processionale degli spazi dell’ingresso, della corte porticata (fig. 5), della scala e del sistema sala/cappella/ camera. Se la storiografia sta iniziando a mettere ordine nelle vicende dei palazzi ducali e marchionali quattrocenteschi, manca ancora un’analisi sistematica della ricaduta di tali fenomeni sulle dimore nobiliari extraurbane – residenziali e rurali –, costruite dall’aristocrazia legata alle dinastie e agli apparati funzionariali dei principati territoriali. Così pure, manca una conoscenza del fenomeno dell’investimento fondiario dei cittadini nei contadi dei principali centri urbani66 – processo generatore di una nuova stagione di complessi rurali di pregio –, estendendo le analisi già condotte sul caso torinese67. Ci limiteremo quindi a rileggere alcuni casi-studio non dinastici, noti nella letteratura storico-artistica sul ‘Rinascimento’ negli spazi saluzzese e sabaudo. Nella complessa fabbrica dei castelli di Lagnasco una profonda riplasmazione residenziale è promossa per iniziativa dei Tapparelli a partire dagli anni Quaranta del Quattrocento, momento in cui la famiglia assume un ruolo di primo piano alla corte del duca Amedeo IX di Savoia e di Iolanda e rileva la totalità del complesso dai Falletti. Sebbene si segnalino interventi squisitamente residenziali e celebrativi di riplasmazione e ampliamento del castrum trecentesco, riferibili a tali fasi sono le tre torri angolari dell’edificio di levante (fig. 6) che, oltre la metà del XV secolo,

Si pensi ai casi dei lavori condotti dal marchese Luodovico II a Mantova o da Ercole I d’Este a Ferrara: G. Rodella, S. L’Occaso, “…questi logiamenti de castello siano forniti et adaptati…” Trasformazioni e interventi in Castello all’epoca del Mantegna, in Andrea Mantegna e i Gonzaga. Rinascimento nel Castello di San Giorgio, catalogo della mostra (Museo del Palazzo Ducale, Mantova, 16. Settembre 2006-14 gennaio 2007), a cura di F. Trevisani, Milano 2006, pp. 21-35; G. Cavicchi, G. Marcolini, Il Castello Estense di Ferrara in epoca ducale, in Il Castello Estense, a cura di J. Bentini, M. Borella, Viterbo 2002, pp. 39-66. 62 Folin, Corti e arte di corte… cit., pp. 22-23. 63 E. Lusso, Il castello di Casale come spazio residenziale. Note per una storia delle trasformazioni architettoniche in età paleologa (1351-1533), “Monferrato. Arte e storia”, 21, 2009, pp. 7-29: 11-12; cfr. anche Id., Dal castello alla città allo “stato”. Politiche marchionali e spazi urbani tra medioevo e rinascimento, in Lusso, Panero, Castelli e borghi… cit., pp. 195207. 64 E. Lusso, Tra fortezza e palazzo: confronti fra il castello di Saluzzo e le residenze dei marchesi di Monferrato (XIV-XVI secolo), in Saluzzo. Sulle tracce degli antichi castelli. Dalla ricerca alla divulgazione, a cura di R. Comba, E. Lusso, R. Rao, Cuneo 2011, pp. 29-43; Beltramo, La committenza architettonica di Ludovico II… cit.. 65 Sulle fasi quattrocentesche: A. Longhi, Presidio e rappresentatività. Il palazzo sabaudo nel castello di Fossano, in Storia di Fossano e del suo territorio, III (Nel ducato sabaudo (1418-1536)), a cura di R. Comba, Fossano 2011, pp. 43-72, con riferimento alle analisi condotte per Il castello e le fortificazioni nella storia di Fossano, a cura di G. Carità, Fossano 1985. Per le precedenti fasi costruttive promosse da Filippo d’Acaia, in sintesi: A. Longhi, Cantieri e architetture, in Storia di Fossano e del suo territorio, II (Il secolo degli Acaia (13141418)), a cura di R. Comba, Fossano 2010, pp. 45-89: 46-57. 66 Sul tema di veda l’intervento di Gian Maria Varanini in Delizie estensi. Architetture di villa nel Rinascimento italiano ed europeo, atti del congresso (Ferrara, 29-31 maggio 2006), a cura di F. Ceccarelli, M. Folin, Firenze 2009, pp. 449-453. 67 Bonardi, Castelli e dimore patrizie… cit.; Barbero, Un’oligarchia urbana… cit. 61

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Tra civiltà cavalleresca e imprenditorialità rurale: appunti sui castelli subalpini nell’autunno del Medioevo Andrea Longhi

68 M.G. Bosco, Il castello di Lagnasco. Storia e committenza al centro della cultura manierista, Cuneo 1999, p. 24 e sgg.; G. Gritella, Il rosso e l’argento. I castelli di Lagnasco: tracce di architettura e di storia dell’arte per il restauro, Torino 2008, p. 61 e sgg., 179-197. 69 Gritella, Il rosso… cit., p. 67. 70 G. Carità, Il castello Quattrocentesco di Valerano, in La sala baronale… cit., pp. 27-36; P. Sella, G. Carità, «Si sale al castello o… al palazzo». Le architetture del castello della Manta, in Le arti alla Manta. Il castello e l’antica parrocchiale, a cura di G. Carità, Torino 1992, pp. 35-75: 43-51. 71 G. Romano, Per un eroe senza nome: il maestro della Manta, in La sala baronale… cit., pp. 1-8; da ultimo, si vedano gli interventi in Immagini e miti … cit., passim e R. Silva, Gli affreschi del Castello della Manta. Allegoria e teatro, Cinisello Balsamo 2011, p. 10 e sgg. 72 Per un primo quadro E. Olivero, Il castello, in E. Olivero, G. Maggiorotti, Il castello, la canonica e l’ospedale di Villanova Solaro, Torino 1928, pp. 18-19; Longhi, Architetture e politiche territoriali… cit., p. 51 e sgg. e Id., Le architetture fortificate dei Falletti… cit., p. 69 e sgg.; da ultimo: S. Beltramo, Castello di Villanova Solaro, in Atlante castellano. Strutture fortificate della provincia di Cuneo… cit., pp. 139-140. 73 Archivio di Stato, Torino, Sez. I, Paesi, Città e provincia di Saluzzo, inv. 26, m. 14, Villanova Solara, n. 5. 74 Carità, Il castello da struttura di difesa a struttura residenziale… cit., p. 67. 75 R. Comba, A. Longhi, Da grangia cistercense a castello e villaggio: il caso di Carpenetta, in Caseforti, torri e motte in Piemonte… cit., pp. 139-150; analisi stratigrafica del costruito in M. Bonansea, B. Bongiovanni, Fonti materiali e stratigrafia del costruito: il caso di Carpenetta, da grangia a castello, in Fonti scritte e materiali sull’abbazia di Santa Maria di Staffarda (1300-1420), a cura di E. Garis, M. Bonansea, B. Bongiovanni, Cuneo 2012, pp. 155-170. 76 L.C. Gentile, Due realtà di confine: Biellese e Vercellese nel XV secolo, in Arti figurative a Biella e Vercelli. Il Quattrocento, a cura di V. Natale, Biella 2005, pp. 9-20: 15; sul complesso, da ultimo: S. Beltramo, Castello di Gaglianico, in Atlante castellano. Strutture fortificate della provincia di Biella, a cura di M. Viglino Davico et alii, Torino s.d. [ma 2010], scheda BI-05. 77 G. Donato, Per le terrecotte rinascimentali di Biella e Vercelli, in Arti figurative a Biella e Vercelli. Il Cinquecento, a cura di V. Natale, Biella 2003, pp. 87-89: 87.

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continuano a riproporre un assetto e un aspetto muniti, seppur inseriti in un quadro di vita residenziale e produttivo68. Per Gianfranco Gritella i luoghi di residenza cortese non sono sostanzialmente distinti dagli ambienti rurali e di abitazione dei massari e dei conduttori del castello nominati dai Tapparelli: “residenza nobiliare ed edifici aventi funzione rurale o militare con spazi riservati allo stoccaggio di prodotti agricoli convivono in un’unica struttura”69. Altro caso-studio ineludibile, prossimo al clima culturale di Lagnasco, è il castello della Manta: nel quadro di una stratificazione di fasi costruttive attorno al nucleo turrito primitivo, l’intervento quattrocentesco più riconoscibile e noto è la riplasmazione voluta da Valerano di Saluzzo – figlio naturale del marchese Tommaso III –, a partire dal secondo decennio del Quattrocento. In questo caso il processo aggregativo non è tanto di saturazione di una cortina regolare, ma piuttosto di addizioni successive ‘avvolgenti’ un nucleo centrale originario70. In questo caso, l’aspetto ‘introverso’ del volto residenziale del castello – che conserva la sua facies arcigna esterna – è affidato non alla gradevolezza di una corte centrale, ma a uno straordinario programma iconografico e decorativo che conferisce un nuovo valore alla sala del primitivo nucleo del castrum. I cicli pittorici dei Prodi e delle Eroine, associato al mito della Fontana della giovinezza, offrono una delle pagine più emblematiche del clima letterario e figurativo dell’autunno del Medioevo subalpino, che richiama gli scritti cavallereschi del padre del committente, il marchese Tommaso III, e un contesto culturale in stretta relazione con le corti francesi di Carlo V e VI71 (fig. 7). Restando nel Piemonte centro-meridionale, uno dei casi più interessanti è il castello di Villanova di Moretta (figg. 8-9), costruito dai Falletti nel secondo terzo del Trecento, passato ai Solaro nel 142272. Nel 1475 un articolato documento per la divisione del castello tra Giorgio e An-

tonio Solaro offre una situazione assai dinamica, che distingue una “pars antiqua” da una “pars nova”, in un cantiere apparentemente in divenire, in quanto la divisione impone una serie di prescrizioni organizzative ed edilizie73. L’esito è, anche in questo caso, un organismo a cortine regolari e torri angolari, di dimensioni più ampie e distese rispetto ai casi due-trecenteschi, che ospita al suo interno una serie di edifici addossati alle cortine e aperti su loggiati interni, con evidenti tentativi di regolarizzazione di corpi di fabbrica variamente articolati, con aspetti formali che richiamano il cantiere degli anni Ottanta a Fossano, come già rilevato dalla letteratura74. Fenomeni non dissimili riguardano anche edifici più prettamente rurali, quali il complesso di Carpenetta, che da grangia cistercense diventa domus fortis (inizio XIV secolo) e successivamente castrum: maniche con ampi loggiati si aprono verso la corte, realizzate probabilmente in concomitanza con la costruzione di una salla nova attestata nel 148375. Muovendo verso il quadrante biellese, ossia i paesi di più recente acquisizione nello spazio sabaudo, un luogo di grande interesse è la corte del castello di Gaglianico (fig. 10), articolata in loggiati con sostegni, capitelli e ghiere laterizie; la complessa facies residenziale tuttora leggibile può essere riferita a una sostanziale riplasmazione residenziale, attribuibile alla committenza di Sebastiano Ferrero (post 1479), funzionario di elevate responsabilità nell’amministrazione sabauda, passato al servizio di Luigi XII di Francia come tesoriere generale del Ducato di Milano nel 149976. L’elegante intervento residenziale – definito da Giovanni Donato “capolavoro rinascimentale di timbro nordico prima dell’affermazione del lessico vitruviano”77 – sarebbe però stato presto affiancato da un repentino ritorno anche del tema militare: il castello sarebbe stato infatti rifortificato – con torrioni angolari dotati di caditoie, aggiunti al preesistente assetto già


Figg. 10 Castello di Gaglianico, Biella. La corte del castello, interventi dell’ultimo quarto del XV secolo (da L. Spina, I castelli biellesi, Cinisello Balsamo 2001).

munito con torri – in occasione delle campagne del 1509 della terza guerra d’Italia, per iniziativa di Charles d’Amboise, maresciallo di Francia e governatore del Ducato di Milano78. Restando nei ranghi dell’altissima aristocrazia ducale, una struttura a loggiati sovrapposti verso la corte – ora non integralmente conservata – pare documentabile e riconoscibile nelle prime fasi del cantiere, promosso da Giorgio di Challant, alla fine degli anni Ottanta del Quattrocento, nel castello di Issogne, in Val d’Aosta 79, divenuto nell’Ottocento l’icona del castello medievale valdostano, soprattutto dopo i lavori promossi dal pittore Vittorio Avondo80. Sebbene il tema principale del presente contributo non sia l’adozione di modelli e soluzioni all’antica centroitaliani in un contesto cavalleresco alpino e internazionale, può essere utile proporre alla riflessione due casi di intrigante giustapposizione di scelte cortesi e di addizioni rinascimentali, che potrebbero significativamente aggiungersi alle prime esplorazioni sul tema della penetrazione della classicità in Piemonte, prevalentemente riferite al tema religioso e alla committenza roveresca81. Il castello di Roddi (fig. 12) è un palinsesto di straordinaria complessità82: attorno a una torre cilindrica – posta sulla sommità di un’altura, in un castrum attestato documentalmente dal X secolo – si aggrega un complesso a blocco con tor-

rette angolari, senza cortile, la cui costruzione può essere riferita al periodo di controllo del comune albese, entro la metà del XIV secolo. Le fasi più riconoscibili e rilevanti sono però relative alla ‘privatizzazione’ del castello, venduto e infeudato nel 1425 al ramificato consortile dei Bossavino e dei Neive, cittadini di Alba che, negli anni centrali del Quattrocento, sono documentati come stabilmente residenti a Montpellier, principale porto mediterraneo del regno di Francia. Grazie agli atti di una controversia tra i consignori e la comunità, scoppiata nel 147083, relativa agli sgravi fiscali conseguenti alle opere prestate dagli uomini di Roddi nel cantiere del castello, possiamo ragionevolmente datare ai decenni centrali del secolo la struttura castellana, a pianta pentagonale compatta raccolta attorno alla torre generatrice84. Committente delle opere, secondo gli atti, sarebbe stato Filiberto di Neive, personalità di spicco dell’ambiente mercantile e finanziario di Montpellier, associato nei suoi traffici in Levante con Secondino Bossavino, altro consignore di Roddi, entrambi gravitanti sul flusso di affari promossi da Jacques Coeur (13951456), il più noto uomo d’affari europeo del suo tempo e argentiere di Carlo VII di Francia85. Si può dunque ragionare sul contesto in cui, nel castello di Roddi, è realizzato uno dei più singolari solai lignei dipinti degli anni centrali del Quattrocento, decorato con scene cavalleresche, gio-

78 G.C. Sciolla, Il Biellese dal Medioevo all’Otteocento. Artisti, committenti, cantieri, Torino 1980, pp. 112-116; sull’Amboise è tornato V. Natale, Un hommage aux Amboise à Gaglianico (Biella): les fresques de la chapelle du château et autres commandes de Sebastiano Ferrero, général des finances du duché de Milan, in Georges Ier d’Amboise. 1460-1510. Une figure plurielle de la Renaissance, actes du colloque international (Liège, 2-3 décembre 2010), sous la direction de J. Dumont, L. Fagnart, Rennes 2013, pp. 209-222. 79 B. Orlandoni, Costruttori di castelli. Cantieri tardomedievali in Valle d’Aosta, II (Il XV secolo), Aosta 2009, p. 195 e sgg. e 262-265; cfr. A. La Ferla, Giorgio di Challant, un grande mecenate, in Il castello di Issogne in Valle d’Aosta. Diciotto secoli di storia e quarant’anni di storicismo, a cura di S. Barbieri, Torino 1999, pp. 41-49. 80 Sulla reinvenzione avondiana dell’atmosfera quattrocentesca: S. Barbieri, L’ultimo castellano della Valle d’Aosta: Vittorio Avondo e il maniero di Issogne, in Tra verismo e storicismo: Vittorio Avondo dalla pittura al collezionismo, dal museo al restauro, a cura di R. Maggio Serra, B. Signorelli, Torino 1997, pp. 137-163. 81 G. Donato, Un episodio di committenza Della Rovere in Piemonte nel Tardo Quattrocento: il cortile del castello di Vinovo, in Sisto IV e Giulio II. Mecenati e promotori di cultura, atti del convegno internazionale di studi (Savona, 1985), a cura di S. Bottaro, A. Dagnino, G. Rotondi Terminiello, Savona 1989, pp. 161-174; G. Carità, La committenza della Rovere per il nuovo Duomo nel quadro del mecenatismo roveresco: tra cultura dell’antico e promozione artistica, in I 500 anni del Duomo, atti del convegno (Torino, 21 febbraio 1998), “Archivio Teologico Torinese”, VI, 2000, 1, pp. 21-42; I. Manfredini, Il mecenatismo di Domenico della Rovere, in Id., Il castello Della Rovere di Vinovo. Storia di una committenza rinascimentale, Vinovo 2007, pp. 11-23; Una chiesa bramantesca a Roccaverano. Santa Maria Annunziata (1509-2009), atti del convegno (Roccaverano, 29-30 maggio 2009), a cura di G.B. Garbarino, M. Morresi, Acqui Terme 2012; F.P. Di Teodoro, L’Antico nel Rinascimento casalese, in Monferrato. Identità di un territorio, a cura di V. Comoli, E. Lusso, Alessandria 2005, pp. 65-73. 82 Le considerazioni qui esposte sono la sintesi degli studi storici preliminari al restauro condotti da chi scrive con Arianna Semenzato (2007) e del confronto con le risultanze degli interventi finora condotti e ancora in corso, diretti dai professori Giovanni Torretta e – per il restauro – Maurizio Momo. Un approfondimento sulla lettura del costruito è offerto da G. Gandino, L’analisi stratigrafica per la storia e la conservazione: il castello di Roddi, tesi di laurea magistrale in Architettura, Politecnico di Torino, Torino 2013. 83 Una prima segnalazione è in E. Lusso, Gli interventi signorili di riorganizzazione insediativa a Roddi, in E. Lusso, E. Panero, Un viaggio in Piemonte. Il territorio tra Santa Vittoria, Pollenzo, Cherasco e La Morra dall’antichità alla prima età moderma, La Morra 2006, p.36. 84 Sulla morfogenesi: Longhi, Le architetture fortificate dei Falletti… cit., p. 70 e sgg. 85 Notizie sui rapporti tra i protagonisti della vicenda sono in L. Guiraud, Sur le prétendu role di Jacques Coeur étudié dans ses rapports administratifs et commerciaux avec le Languedoc et principalement avec Montpellier d’après des documents entièrement inédits, Paris 1900, p. 33 e sgg. e passim.

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Fig. 11 Castello di Roddi, Cuneo. Pianta del blocco pentagonale del castello (fasi di XV secolo) e della manica moderna (dall’inizio del XVI secolo). Fig. 12 Castello di Roddi, Cuneo. Rapporto tra il castello quattrocentesco e la loggia esterna (secondo quarto del XVI secolo).

86 Una prima segnalazione dell’opera e del legame con la Linguadoca è in A. Semenzato, Per un itinerario artistico nelle terre dei Falletti in età tardomedievale, in I Falletti nelle terre di Langa… cit., pp. 89-103: 93-94. 87 G. Donato, Il cielo dipinto. Soffitti di età angioina nel palazzo Serralunga ad Alba, in Alba medievale… cit., pp. 209252: 223; un riferimento ai solai di Roddi è a p. 226, di cui sono sottolineate le “reminscenze più vernacolari”. Una ricca documentazione sui casi della Linguadoca è disponibile in Plafonds peints médiévaux en Languedoc, actes du colloque (Capestang-Narbonne-Lagrasse, 21-23 février 2008), études réunies par M. Bourin, P. Bernardi, Perpignan 2009. Sul tema dei solai dipinti in contesti castellani: S. Castronovo, Peintures murales et plafonds peints dans les châteaux, maisons fortes et édifices civils du Piémont, de la Vallée d’Aoste et de Savoie du xiiie au début du xvie siècle, in Le décor peint dans la demeure au Moyen Âge, journées d’études (Angers, 15-16 novembre 2007), 2008, disponibile da http://expos.maineet-loire.fr/culture/peintures_murales/medias/pdf/simonetta_ castronovo.pdf.

chi equestri, mostri, memorie di ‘grilli’ gotici, figure enigmatiche ed emblemi araldici86, espressione straordinaria di una cultura divertita e grottesca, affascinata dall’Oriente e dalle sue meraviglie, probabilmente debitrice dello “straordinario patrimonio di case con solai lignei decorati di Montpellier, forse l’insieme più importante per il XIII-XIV secolo”87. Radicate definitivamente le fortune familiari nei commerci francesi, le due famiglie albesi cedono le proprie proprietà a uno dei rami dei Falletti, che per circa un ventennio possiede e amministra l’intero castello, ridefinendone probabilmente in modo omogeneo la facies esterna delle aperture, con rassicuranti cornici rette late-

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rizie. Con l’estinzione del ramo dei Falletti e il passaggio a una famiglia non autoctona, il castello di Roddi diventa il centro di una seconda operazione culturalmente ‘estranea’ al contesto locale: nel 1525, infatti, il feudo passa di proprietà a Giovanna Carafa, moglie di Giovanni Francesco Pico della Mirandola, la cui famiglia conserva il castello nei decenni successivi. A questa fase, probabilmente agli anni iniziali, è riferibile la costruzione di una manica porticata su giardino (il castello a blocco non aveva una corte) e di una loggia a doppio ordine verso il borgo, realizzate con ordini classici e linguaggio all’antica, con gusto e proporzioni che non possono non richiamare le esperienze bramantesche romane o


Fig. 13 Palazzo di Revello, Cuneo. Cappella marchionale nel palazzo di Ludovico II e Margherita di Foix.

Tra civiltà cavalleresca e imprenditorialità rurale: appunti sui castelli subalpini nell’autunno del Medioevo Andrea Longhi

Fig. 14 Palazzo di Revello, Cuneo. Ricostruzione della facciata verso il giardino nel primo quarto del XVI secolo. (ricerca di Enrico Lusso, elaborazione di Fernando Delmastro e Clara Distefano per il Museo della Civiltà Cavalleresca di Saluzzo; immagine da Guida al Museo… cit., 2014).

– meglio, coerentemente con il radicamento territoriale della famiglia – la cultura rinascimentale basso-padana (figg. 11-12). I cavalieri e i mostri dipinti nelle sale del castello vengono dunque affiancati e – poi – soppiantati dal linguaggio classico: la vita sociale si sposta infatti verso la nuova manica porticata ‘rinascimentale’, mentre le sale dipinte vengono frazionate e destinate a usi privati. Un ultimo caso ci riporta al tema del rapporto tra dinastie e residenze extraurbane, e a una singolare commistione di tipi politico-edilizi medievali, suggestioni figurative lombarde e soluzioni scenografiche rinascimentali. Il palazzo di Revello è ricostruito, o forse piuttosto completato e ampliato, come residenza ufficiale di corte dal marchese Ludovico II di Saluzzo (reg. 1475-1504), secondo un solido e tradizionale impianto a corte porticata su pilastri laterizi, ma è ultimato solo nei primi due decenni del Cinquecento dalla vedova reggente, Margherita di Foix. La parte più nota del complesso è la cappella marchionale88, cardine del valore ideologico del nuovo palazzo

di corte, che riprende esplicitamente il modello ducale transalpino medievale della ‘cappella palatina’89 (fig. 13), mediante un telaio strutturale con volte gotiche e la proiezione esterna dell’abside. Il programma iconografico dinastico interno, tuttavia, si volge ormai verso la cultura figurativa delle corti dell’Italia settentrionale, in particolare quella sforzesca, legata a quella saluzzese da una fitta trama diplomatica. L’inedita associazione di modelli architettonici medievali con apparati iconografici aggiornati secondo la cultura figurativa rinascimentale non è, del resto, un fenomeno isolato nei principati subalpini90, ma ciò che qui più ci interessa è la soluzione adottata nella manica verso il giardino (ora non più esistente): mentre verso la piazza il palazzo offre un fronte compatto – segnato solo dalla possente massa della cappella estroiettata, la cui abside è alla base di una torre – dalla parte opposta, verso la campagna, si dispiega un impaginato di facciata con tre loggiati sovrapposti, che presenta scelte inedite nei contesti pedemontani, direttamente riferibili al mondo umanistico centroitaliano: i loggiati non seguono la tradizione del cotto subalpino, ma hanno sostegni e rivestimenti marmorei, e non sono rivolti – come di consueto – verso l’interno della corte castellana, cuore intimo della residenza, ma si aprono verso il paesaggio circostante91 (fig. 14). Un’architettura costruita per la fruizione del paesaggio, e per mostrare verso la campagna saluzzese non il volto militare della dinastia (demandato alla rocca sovrastante), ma la sua vita di corte aperta alla cultura umanistica e al godimento della natura, ostentata grazie a un’architettura che si fa “spettacolo nel paesaggio”, una “controfacciata paesaggistica” del tutto gratuita, perché priva di funzioni, “una delle rare precoci realizzazioni architettoniche dell’umanesimo subalpino, modellata come le altre sulla cultura romana e declinata in un linguaggio locale”92.

E. Pianea, Revello. La Cappella dei Marchesi di Saluzzo, Savigliano 2003, pp. 25-31, 81. 89 Longhi, Palaces and palatine chapels… cit. 90 Sulle valenze geopolitiche e ideologiche dello iato tra architetture tradizionaliste e gusti pittorici aggiornati nei principati subalpini a fine Quattrocento: E. Lusso, «Positus fuit primis lapis in fondamentis ecclesie Sancti Laurentii». Il vescovo Andrea Novelli e la fabbrica del nuovo duomo di Alba (14861516), in Pietre e marmi: materiali e riflessioni per il lapidario del Duomo di Alba, a cura di G. Donato, Alba 2009, pp. 39-49: 45-46, e Id., La committenza architettonica dei marchesi… cit.. 91 La ricostruzione ideale della facciata è proposta, sulla base delle fonti documentarie, da C. Bonardi, Revello: il palazzo marchionale e le sue gallerie di candidi marmi, in Ludovico II… cit., pp. 595-610; un modello virtuale dell’opera, che individua anche una seconda corte adiacente al primo nucleo del palazzo, è stato realizzato per il Museo della Civiltà Cavalleresca di Saluzzo, su ricerche di Enrico Lusso e modellazione di Fernando Delmastro e Clara Distefano: si veda R. Comba, A. Longhi, E. Lusso, Le basi scientifiche dei modelli di edifici storici nel Museo della Civiltà Cavalleresca, in Guida al Museo della civiltà cavalleresca… cit., pp. 161-167: 166 (testo di Enrico Lusso), e tav. XI.1 92 Bonardi, Revello… cit., pp. 608 e 610. 88

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Donata Battilotti

Torri, portici, logge nelle residenze venete di campagna pre-palladiane*

The country residences which were built in Veneto during the 14th and 15th centuries are more numerous than one may believe, and offer varying forms and typologies, both concerning the manors themselves, and in relation to the agricultural structures attached to them. They were evolved from various medieval models, both urban and rural, which then branched into many directions that, however, are for the most part ascribable to certain clearly defined typologies. The detailed survey carried out by the Regional Institute for Venetian Villas in 2006 permits a large scale analysis which identifies as well the constants and particularities that are linked to the different geographic and cultural areas in the region.

A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso gli studi sulle ville venete hanno iniziato ad allargare il campo d’indagine, estendendo l’attenzione anche al periodo che precede il clamoroso exploit cinquecentesco e gli esemplari esiti palladiani1. L’interesse, motivato in primo luogo dalla necessità di ancorare questi ultimi a una persistente tradizione locale, individuando l’origine di particolari soluzioni formali e funzionali, fu certamente stimolato dal pionieristico censimento curato da Giuseppe Mazzotti per la mostra trevigiana del 1952, subito seguito dalle numerose e via via ampliate edizioni del catalogo2. Appariva evidente che le ville quattrocentesche più note e di maggior pregio non erano realizzazioni eccezionali e isolate, ma facevano parte di un fenomeno, in buona parte ancora concretamente osservabile, che già in quel secolo si presentava precocemente ampio e vivace nelle sue polimorfe manifestazioni, sia dal punto di vista architettonico che tipologico3. Una realtà caleidoscopica, diversificata a seconda degli scenari geografico-ambientali, della vicinanza o meno ai centri urbani, dello status sociale e culturale dei proprietari, e che tuttavia appariva possibile ricondurre, nel complesso, ad alcune categorie di “forme e funzioni”, come recita il titolo di un pionieristico saggio di Marco Rosci4. L’ampiezza del fenomeno ha assunto progressivamente contorni più definiti grazie alle ricerche parallele sulla villa in rapporto con le modalità di gestione economica delle campagne5 e sulla base di sempre più numerosi edifici da

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analizzare, via via emersi attraverso opere di catalogazione sempre più capillari6, fino ai recenti censimenti promossi dall’Istituto regionale per le ville venete7. Nel 1977 Martin Kubelik8 individuava 233 residenze rurali quattrocentesche nelle attuali province di Padova, Treviso, Venezia, Verona e Vicenza9, di cui ben 154 nel solo territorio vicentino. Dagli ultimi censimenti è emerso che circa un terzo degli edifici catalogati nelle province di Verona e Vicenza risale o reca tracce di preesistenze databili al XV secolo o oltre10. Sono dati puramente indicativi e frammentari, che se da un lato sono da considerare in difetto, dal momento che su buona parte degli edifici censiti non esiste documentazione, né è stato condotto un intervento di restauro che abbia potuto verificare composizione delle murature e presenza di tracce più antiche, dall’altro vanno valutati con cautela perché non sempre le strutture o gli elementi superstiti sono così eloquenti – frammenti di affreschi, stemmi nobiliari, cornici di aperture finemente scolpite – da consentire una datazione sicura o di discriminare la loro appartenenza a strutture padronali piuttosto che a fabbriche rustiche o di altra natura, di cui peraltro è arduo se non impossibile ricostruire l’impianto originario. Si tratta in ogni caso di indicazioni sull’ordine di diffusione del fenomeno ampiamente confermate da fonti documentarie e letterarie11. Un efficace quadro sintetico dei processi di trasformazione agraria del territorio veneto in rapporto con la crescita demografica, economica e

politica delle citta dal tardo Medioevo alla prima età moderna è tracciato da Gian Maria Varanini come necessaria premessa dell’evolversi delle forme dell’abitare in campagna da parte del proprietario cittadino12. Se nell’alto e pieno Medioevo sono prevalentemente le colline e le vallate prealpine, al riparo dal dissesto idraulico e da invasioni, a essere densamente abitate e coltivate, a partire dal Duecento, sulla spinta della crescita demografica che porta a un forte inurbamento, si assiste al progressivo disboscamento e alla bonifica delle zone paludose di pianura che, superata la crisi trecentesca e il periodo di stasi del primo Quattrocento, riprende con vigore nella seconda metà del secolo, propiziato anche dalla ormai decennale pax veneziana, portando alla formazione di un “insediamento sparso assai più capillare, con la fondazione di numerosissime corti rustiche, e un’occupazione ancora più intensiva della collina”13. Al di là delle specificità storico-territoriali, che differenziano modalità, tempi e spazi, in generale gli esponenti della vecchia aristocrazia feudale tendono a trasferire la loro residenza in città, mantenendo tuttavia i propri castelli progressivamente smilitarizzati e le basi rurali nelle terre degli avi14; mentre gli abitanti dei centri urbani, dai ricchi artigiani in sù – compresi da un certo punto in poi i veneziani –, acquistano fondi nelle campagne come investimento sicuro rispetto ai rischi della mercatura e della finanza, come attestato di una certa posizione sociale, come fonte di alimenti per la propria famiglia.


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*Per agevolarne l’identificazione ciascuna villa è contrassegnata dal numero di codice del relativo catalogo provinciale dell’Istituto regionale per le ville venete (si veda nota n. 6), formato dalla sigla della provincia e da un numero progressivo. Ai cataloghi si rimanda anche per le referenze bibliografiche, qualora non diversamente specificato. Nella scelta delle immagini si sono privilegiate le fotografie storiche che meglio documentano lo stato originario degli edifici. Ringrazio il Centro Internazionale di Studi di Architettura “Andrea Palladio” per la cortese concessione. 1 In particolare: B. Rupprecht, Ville venete del ’400 e del primo ’500: forme e sviluppo, “Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio”(da ora in poi CISA), VI, 1964, parte II, pp. 239-261; M. Rosci, Forme e funzioni delle ville venete pre-palladiane, “L’Arte”, 2, 1968, pp. 27-54; Id., Ville rustiche del Quattrocento veneto, “Bollettino del CISA”, VII, 1969, pp. 78-82; L. H. Heydenreich, La villa: genesi e sviluppi fino al Palladio, “Bollettino del CISA”, VII, 1969, pp. 11-22; M. A. Zancan, Le ville vicentine del Quattrocento, “Bollettino del CISA”, VII, 1969, pp. 430-446. 2 Le Ville Venete, catalogo della mostra a cura di G. Mazzotti, Treviso 1952. 3 Un quadro estremamente lucido e puntuale, soprattutto dal punto di vista metodologico, sulle tipologie delle ville quattrocentesche italiane è delineato da L. Giordano, “Ditissima tellus”. Ville quattrocentesche tra Po e Ticino, “Bollettino della Società Pavese di Storia Patria”, LXXXVIII, 1988, pp. 251-269. Utile per possibili confronti anche il recente M. L. Sambin De Norcen, Le ville di Leonello d’Este. Ferrara e le sue campagne

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Soprattutto nel Trecento delle signorie scaligera e carrarese, vengono pesantemente erosi gli importanti patrimoni ecclesiastici, in particolare dei monasteri benedettini15, i cui modelli insediativi ed edilizi poterono fornire validi esempi ai proprietari laici. Con la conquista veneziana fu poi la volta dei grandi complessi fondiari delle sconfitte signorie a essere venduti all’asta nei primi anni del Quattrocento; mentre proseguiva l’accaparramento da parte dei cittadini di terre dei distrettuali, spesso ottenute attraverso il prestito su interesse mascherato da patto livellario16 Per quanto riguarda le funzioni, la villa in Veneto si caratterizza principalmente, fin dall’alto Medioevo, come centro da cui controllare i possedimenti, per cui l’edificio residenziale del proprietario fa parte di un sistema più o meno complesso di strutture di servizio atte non solo

al suo comfort, ma anche alla conduzione di un’azienda agricola e all’immagazzinamento dei prodotti17. Ne può condividere gli spazi, collocandosi entro una corte comune – caso assai frequente soprattutto per proprietà di piccole e medie dimensioni, che sono la maggioranza –, oppure ne può essere separato, anche solo da un semplice muro, qualora il proprietario preferisca una sistemazione più aristocratica, come puntualizza all’inizio del Trecento il bolognese Pietro de’ Crescenzi nel suo trattato di agronomia: “Ma se la nobiltà et la potenza de padroni fosse tanta, che si sdegnassero habitar co’ suoi lavoratori in una corte medesima, potranno […] far essi in altra parte luogo separato per loro con palazzi, con torri, et con giardini, secondo ch’essi crederanno che si convenga alla lor nobiltà et alla lor potentia”18.


pagina 81 e pagina a fronte Fig. 1-2 Villa Porto Colleoni, Thiene (Vicenza).

Fattore condizionante le forme e le modalità dell’abitare in villa è poi, ovviamente, la sicurezza della proprietà e delle rendite nei confronti di scorrerie di eserciti, brigantaggio, faide, ma anche di semplici furti, la cui necessità si attenua con la pacificazione veneziana senza tuttavia poter essere mai elusa. Discriminante a tal riguardo è la collocazione all’interno e nelle immediate vicinanze di città o villaggi, come ancora mette ben a fuoco de’ Crescenzi: “s’il luogo sarà posto tra l’altre case della villa, la corte non harà bisogno di tanta fortezza et guernimento di chiusura, percioché cotal luogo è meno esposto all’insidie de’ ladri, et anco perché ha appresso l’aiuto de gli huomini vicini, se gli facesse bisogno. Ma se fosse partito dall’altre case in luogo solingo, si dee cinger intorno di convenevoli fosse, et di ripe, et di siepi”19. Strutture a vario titolo fortificate sono anche per il Veneto tra le forme primordiali di residenze in campagna, antenate della villa quattrocentesca e assai spesso nuclei generatori di quest’ultima. Come opportunamente sottolinea Howard Burns, “non c’è una vera linea di demarcazione, in termini funzionali ma anche formali, fra il castello, la villa fortificata e il palazzo rurale di una certa dimensione” 20. Se la quasi totalità dei castelli non è sopravvissuta alla distruzione imposta da Venezia, il loro ricordo rimane nelle numerose residenze che in tempi successivi ne hanno riutilizzato o inglobato le strutture, assicurandosi materiale edile disponibile in loco e una posizione sperimentata favorevole, oltre che il valore simbolico di antica nobiltà feudale. Del resto torri e merlature, elementi simbolo dell’architettura castellana, sono frequentemente usati quali eloquenti messaggi anche in ville di nuova costruzione, come nella quattrocentesca Porto Colleoni a Thiene (VI 536) (fig. 2) o nella cinta muraria con fossato e ponte levatoio dell’innovativa villa Giustinian a Roncade (TV 510) del primo decennio del Cin-

Torri, portici, logge nelle residenze venete di campagna pre-palladiane Donata Battilotti

quecento21; mentre nella villa Querini Stampalia a Pressana, nel Colognese (VR 302), la merlatura ghibellina viene aggiunta alle facciate a salienti nel secondo Quattrocento quando passa dall’ordine gerosolimitano al patrizio veneziano Francesco Querini22. La torre è una componente della villa quattrocentesca tra le più presenti e versatili, ma anche ambigue, la cui derivazione e il cui uso non sono generalizzabili e andrebbero indagati caso per caso. La sua presenza non sempre risulta oggi palese ed emerge spesso solo da rilievi planimetrici ed esami materiali che evidenziano ambienti quadrangolari di massiccio spessore murario inglobati in più recenti costruzioni, di solito in posizione angolare23. Spesso, pur assorbita, mantiene la sua fisionomia esteriore, fungendo da perno o da appoggio a nuove strutture e dando luogo a particolari tipologie edilizie su cui torneremo in un secondo tempo. Altrettanto di frequente rimane isolata o aggregata a barchesse24 o altro tipo di stabile rustico, trasformandosi e assumendo molteplici funzioni, anche variabili nel tempo. Non c’è dubbio che molte delle torri presenti in complessi di villa siano quanto rimane di antiche strutture difensive o di avvistamento, che pur trasformate e destinate ad altri usi continuano a mantenere anche queste utili funzioni. Possono fungere pertanto da ingresso ben controllato nei recinti: valga come esempio la torre ingentilita da bifore archiacute e da una piccola loggia protorinascimentale sul lato interno, che introduce alla corte quattrocentesca di villa Poiana a Pojana Maggiore (VI 403), resto del castello scaligero duecentesco dei Paltinieri, che fino all’Ottocento manteneva tracce di un ponte levatoio25 (fig. 3). La trasformazione più comune però è in colombara –così in Veneto è chiamata la torre colombaia – che può essere isolata oppure aggregata a strutture sia rurali che padronali. A

agli albori dell’età moderna, Venezia 2012, in part. pp. 137-172. 4 Rosci, Forme e funzioni… cit. 5 Un ottimo punto della situazione in G.M. Varanini, Cittadini e “ville” nella campagna veneta tre-quattrocentesca, in Andrea Palladio e la villa veneta da Petrarca a Carlo Scarpa, catalogo della mostra (Vicenza, Museo Palladio, 5 marzo - 3 luglio 2005) a cura di G. Beltramini e H. Burns, Venezia 2005, pp. 39-53. Ricco di informazioni anche il volume collettaneo Villa. Siti e contesti, a cura di R. Derosas, Treviso 2006. 6 Specifico lo studio di M. Kubelik, Die Villa im Veneto. Zur tipologischen Entwicklung im Quattrocento, München 1977. Di carattere generale, per ambiti territoriali: A. Alpago Novello, Ville della provincia di Belluno, Milano 1968; R. Cevese, Ville della provincia di Vicenza, Milano 1971; La villa nel Veronese, a cura di G.F. Viviani, Verona 1975; A. Baldan, Ville venete in territorio padovano e nella Serenissima Repubblica, Abano Terme 1986; E. Bassi, Ville della provincia di Venezia, Milano 1987. Per i numerosi studi su singoli edifici o gruppi di edifici, aggiornati al 2001, si rimanda a L. Mavian, Ville venete. Bibliografia, Venezia 2001. 7 Ville venete: la Provincia di Rovigo. Insediamenti nel Polesine, a cura di B. Gabbiani, Venezia 2000; Ville venete: la Provincia di Treviso, a cura di S. Chiovaro, Venezia 2001; Ville venete: la Provincia di Padova, a cura di N. Zucchello, Venezia 2001; Ville venete: la Provincia di Verona, a cura di S. Ferrari, Venezia 2003; Ville venete: la Provincia di Belluno, a cura di S. Chiovaro, Venezia 2004; Ville venete: la Provincia di Vicenza, a cura di D. Battilotti, Venezia 2005; Ville venete: la Provincia di Venezia, a cura di A. Torsello e L. Caselli, Venezia 2005; Ville venete: la Regione Friuli Venezia Giulia, a cura di S. Pratali Maffei, Venezia 2006. 8 Kubelik, Die Villa im Veneto… cit. 9 Per motivi diversi sia nell’area montana del Bellunese che nella pianura rodigina le ville hanno una diffusione più tarda. 10 D. Battilotti, Alcune osservazioni sugli insediamenti di villa vicentini, in Ville venete: la Provincia di Vicenza, cit., pp. XVII-XXIV: XVIII. 11 Ivi, pp. XVII-XVIII; Varanini, Cittadini e “ville”… cit., pp. 45-49. 12 Varanini, Cittadini e “ville”… cit. 13 Ivi, p. 41. 14 Nel Vicentino questo risulta molto chiaro e testimoniato dalla documentazione fiscale: Battilotti, Alcune osservazioni… cit., pp. XVII-XVIII. 15 A. Rigon, Decadenza e tensioni di rinnovamento nei monasteri veneti sino al primo Quattrocento, in Il Veneto nel Medioevo. Le signorie trecentesche, a cura di A. Castagnetti, G. M. Varanini, Verona 1995, pp. 357-378; Varanini, Cittadini e “ville”… cit, pp. 40-46. 16 Varanini, Cittadini e “ville”… cit, pp. 40-46. Alcuni casi di formazione di patrimoni immobiliari di famiglie vicentine nel Trecento sono analizzati in Id., Vicenza nel Trecento. Istituzioni, classe dirigente, economia (1312-1404), in Storia di Vicenza, II, L’età medievale, a cura di G. Cracco, Vicenza 1988, pp. 139-246: pp. 227-229. Sul prestito ad usura: G. Corazzol, Fitti e livelli a grano. Un aspetto del credito rurale nel Veneto del ’500, Milano 1975. 17 Ci sono eccezioni, ovviamente, prima tra tutte per celebrità e precocità la trecentesca residenza di Francesco Petrarca ad Arquà, sui colli Euganei: La casa di Francesco Petraca ad Arquà, a cura di M. Magliani, Milano 2003. 18 L’Opus ruralium commodorum è scritto da Pier de’ Crescenzi nel primo decennio del Trecento. A partire dal 1471 si moltiplicano le edizioni a stampa e le traduzioni, molte delle quali impresse nel Veneto. La citazione è presa da Pietro Crescentio Bolognese tradotto nuovamente per Francesco Sansovino, Venezia 1561, l. I, cap. VI, p. 7v.

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Fig. 3 Torre d’accesso di villa Poiana, Pojana Maggiore (Vicenza). Fronte verso la corte.

Ivi, cap. V, p. 6r. H. Burns, Castelli travestiti? Ville e residenze di campagna nel Rinascimento italiano, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, a cura di G.L. Fontana, L. Molà, VI (Luoghi, spazi, architetture), a cura di D. Calabi, E. Svalduz, Treviso-Costabissara 2010, pp. 465-545: 489. 21 M. Morresi, Villa Porto Colleoni a Thiene. Architettura e committenza nel Rinascimento vicentino, Milano 1988; M. Ceriana, Villa Badoer-Giustinian a Roncade, in Andrea Palladio e la villa veneta… cit., pp. 261-265. Non a caso entrambe le ville sono chiamate anche “castello”. 22 Viviani, La villa nel Veronese… cit., pp. 805-809; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 115-116, figg. 409-416; F. Monicelli, Le ville della provincia di Verona, in La catalogazione delle ville venete. Antologia, a cura di M. Brancaleoni, C. Canato, Venezia 2010, pp. 147-175: 149-153. 23 Per esempio nelle quattrocentesche ville Ferri a Casalserugo (PD 131), Spessa a Carmignano di Brenta (PD 109), Palazzi a Schiavon (VI 499); ma anche la palladiana villa Gazzotti a Bertesina (VI 588) ingloba nell’angolo sud-orientale un’antica torre. 24 Questo termine, come il sinonimo tezza, si riferisce a edifici piuttosto bassi e allungati, dotati di portico, destinati ad ospitare animali, fieno, carri, attrezzi, cantine. 25 Situata di fronte all’omonima villa palladiana: Zancan, Le ville vicentine… cit., p. 434; Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., pp. 439-440; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 179-180, figg. 718-723. Significativi esempi anche la cosiddetta Colombara a Cittadella (PD 160), la torre con passaggio sottostante di villa Roberti a Brugine (PD 077), quella della cinquecentesca villa Saraceno delle Trombe a Finale di 19

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tal scopo la parte sommitale, adibita a piccionaia vera e propria, viene protetta da una cornice orizzontale aggettante per impedire che i predatori si arrampichino, come prescrive de’ Crescenzi: “Si faccia adunque una torre di pietra larga o stretta secondo la volontà del padrone e il potere, non molto alta, con le mura liscie e biancheggiate bene di calcina bianca con finestrelle o buchi piccioli da tutte quattro le parti, i quali bastino solamente all’entrar e all’uscir de colombi, sotto le quali sia un circuito di pietre che sopravanzi intorno, il qual impedisca il salimento delle donnole et delle altre fiere nocive”26. Bisogna tuttavia fare attenzione perché la tipologia stessa della colombara porta a prendere a modello antiche torri anche per costruzioni ex novo quattro-cinquecentesche, assumendone basi a scarpa e merlature27, senza contare che – sono sempre indicazioni dell’agronomo trecentesco ritenute valide anche nei secoli successivi – una struttura

a torre, sia pur polifunzionale, dove “il padrone si possa ritrar ne bisogni con i lavoratori, e con la sua famiglia”28, era sempre opportuna. Non tutte le torri oggi esperibili – numerose soprattutto nella fascia pedemontana vicentina – hanno però queste origini o vengono trasformate o costruite per queste sole funzioni, bensì rientrano tra le prime tipologie di abitazione rurale di un certo pregio, per materiali e rifiniture, di cui permangono documentati esempi anche a Cinquecento inoltrato. Stiamo parlando di vere e proprie case torri e non solo del riuso a scopo abitativo di vecchi torrioni, caso che del resto dovette essere frequente. Ne è un esempio l’ampio torrione (oltre 8 metri di lato contro i 5-7 usuali) a Riva di Breganze (VI 107), abbellito con eleganti bifore e monofore e trasformato in residenza di villa alla fine del Quattrocento dai Montorio Mascarello29 (fig. 4). Una fitta presenza di nuove dimore signorili fortificate, torri, case forti, motte, è documentata un po’ ovunque anche nel Veneto dai primi del Duecento, soprattutto nel Veronese e Vicentino30. Le attestazioni più antiche di case forti, che risalgono al settimo decennio del secolo precedente a Vigasio, località a una quindicina di chilometri a sud di Verona31, si riferiscono a strutture elementari, costruite con materiali poveri e che quindi non dovevano superare i quattro-cinque metri di altezza, il cui carattere difensivo era affidato essenzialmente all’apparato periferico, costituito da un fossato con un ponte retrattile da ritirare nelle ore notturne e alti graticci da approntare in caso di necessità32, avvicinandosi in questo alla corte descritta da de’ Crescenzi33. In un libro tardocinquecentesco di disegni di edifici del territorio bolognese è raffigurata la residenza delle Tombe dei Bentivoglio che può dare l’idea di tali circuiti fortificati34. Vigeva comunque una notevole varietà tipologica e qualitativa. Per altre “motte” venete si parla di case in pietra, talvolta munite di archi e merla-


Fig. 4 Torre di villa Montorio Mascarello, Riva di Breganze (Vicenza).

ture, mentre accanto al modello primitivo sviluppato in orizzontale si afferma ben presto anche un genere di edificio caratterizzato dall’altezza e avvicinabile alla tipologia della casa torre35. Sulla derivazione di questo tipo di edificio – dal castello o da modelli urbani – le opinioni non sono concordi36, anche se le ricerche disciplinari sulle tipologie architettoniche, le loro funzioni, i meccanismi storici di trasmissione, sembrano confermare la migrazione del tipo dalle case torri di città alle residenze rurali37. L’assenza di mirate indagini storiche e materiali sui singoli manufatti e le ripetute manomissioni e variazioni d’uso non permettono di individuare chiaramente l’origine e la funzione primaria della maggior parte delle strutture a torre oggi esistenti. Quel che è certo è che per molte di esse, se non in origine per un periodo abbastanza precoce della loro storia, può essere documentato l’uso a dimora signorile. E che ciò fosse abbastanza diffuso e consueto è testimoniato da alcuni casi fino a Cinquecento inoltrato. Tra gli esempi che quasi sicuramente ebbero

funzione abitativa si può annoverare villa Grompo a Casale di Scodosia (PD 121), a tre piani, con balconcino gotico, cornicione ad archetti di gusto romanico e comignolo alla veneziana databile agli inizi del Quattrocento38. Nel Vicentino, la colombara Porto a Thiene (VI 539) presenta affreschi al pianterreno e finestre protorinascimentali al piano superiore, mentre la parte terminale era chiaramente riservata ai piccioni. A Campolongo, sulle pendici dei Berici (VI 445), i Barbarano ricostruirono a fine Quattrocento un edificio a torre, ornando di preziose cornici in pietra le finestre centinate e il portale a ogiva e di bassorilievi e affreschi le facciate, non certo per farne una semplice colombara39. In territorio veronese, a Fasanara di Marano di Valpolicella, il primo nucleo di villa Guantieri (VR 220) è la torre colombara a uso abitativo con affreschi interni40; la massiccia torre di villa Randina a Pastrengo (VR 620) ha la sala al primo piano illuminata da una finestra trilobata ed è affrescata a motivi floreali e medaglioni con tracce di sinopie raffiguranti dame e cavalieri. La vicina torre

Agugliaro (VI 005), l’alta torre d’accesso Bottagisio a Terrazzo (VR 422). 26 Pietro Crescentio Bolognese… cit., l. IX, cap. LXXXVI, p. 199v. 27 Le numerose torri e torri colombare ancora presenti nella fascia prealpina del Vicentino presso Breganze risalgono quasi tutte al primo Quattrocento, come per esempio la colombara Battistello alla Cuca (VI 086) con finta merlatura: F. Rigon, Le torri di Breganze, “Antichità Viva”, XI, 1, 1972, pp. 54-62: 60. 28 Pietro Crescentio Bolognese… cit., l. 1, cap. V, p. 6r. 29 Rigon, Le torri di Breganze… cit., p. 60; Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., pp. 294-296; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 139-140, figg. 525-534. 30 A.A. Settia, Tra azienda agricola e fortezza: case forti, “motte” e “tombe” nell’Italia settentrionale. Dati e problemi, “Archeologia Medievale”, VII, 1980, pp. 31-54; Id., L’esportazione di un modello urbano: torri e case forti nelle campagne del nord Italia, “Società e Storia”, IV, 1981, pp. 273-297; Id., “Erme torri” simboli di potere fra città e campagna, VercelliCuneo 2007; R. Comba, Le origini medievali dell’assetto insediativo moderno, in Storia d’Italia, Annali, VIII (Insediamenti e territorio), a cura di C. De Seta, Torino 1985, pp. 367-404: 377-382. 31 Qui gli Avvocati tentano ripetutamente di costruire alcune case forti circondate da fossato, contrastati dall’abate di San Zeno che esercitava signoria su questi luoghi. La casa forte isolata dal villaggio, oltre a essere centro di conduzione di aziende signorili, ambisce infatti fin dalle origini a svolgere le funzioni di castello e mira ad affermare un potere politico-giurisdizionale sul territorio circostante: Comba, Le origini medievali… cit., pp. 377-382; Settia, “Erme torri”… cit., pp. 23-24. 32 Settia, “Erme torri”… cit., pp. 23, 94. 33 Pietro Crescentio Bolognese… cit., l. 1, cap. V, p. 6r. 34 M. Fanti, Le “Tombe”. Una dimenticata dimora di Giovanni II Bentivoglio, “Strenna Storica Bolognese”, XVII, 1967, pp. 185-218, fig. 1. Si tratta di un album, conservato nella Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna (Manoscritto Gozzanini 171), assai interessante per le diverse tipologie di insediamenti rurali raffigurate: Id., Ville, castelli e chiese bolognesi. Da un libro di disegni del Cinquecento. Seconda edizione riveduta e aumentata, Bologna 1996. Si veda anche Giordano, “Ditissima tellus”… cit., p. 210, fig. VIII. 35 Settia, “Erme torri”… cit., p. 94. Una casa torre è raffigurata sotto l’assalto di un gruppo armato di lance e torce in un ex-voto del santuario di Monte Berico a Vicenza, databile alla fine del Quattrocento, con portone d’ingresso ad arco, finestre centinate in alto e piccole aperture quadrate sotto le falde del tetto piramidale: F. Barbieri, scheda n. 21, in Andrea Palladio e la villa veneta… cit, pp. 212-213. 36 Le due posizioni sono sostenute rispettivamente da Comba, Le origini medievali… cit. e Settia, L’esportazione di un modello urbano… cit. 37 Giordano, “Ditissima tellus”… cit., pp. 161-163. 38 Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., p. 63, figg. 91-94. 39 Ivi, p. 118, figg. 756-759. 40 Viviani, La villa nel Veronese… cit., p. 442; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., p. 110, figg. 380-382.

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Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 113-114, figg. 399400. 42 Viviani, La villa nel Veronese… cit., pp. 809-810. 43 D. Battilotti, La corte dominicale dei Trissino a Meledo e la villa di Palladio, “Annali di Architettura”, XXIV, 2012, pp. 19-34. 44 I termini del dibattito e le diverse posizioni sono chiaramente esposti e vagliati da Giordano, “Ditissima tellus”… cit., pp. 170-179. 41

Fig. 5. Villa Quinto, Spessa di Carmignano (Padova). Fronte verso la corte. pagina a fronte Fig. 6 Villa Trissino Paninsacco, Trissino (Vicenza).

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di corte Scappini (VR 622), costruita o riadattata a inizio Cinquecento, ha base quadrata di ben nove metri e mezzo di lato e il pianterreno interamente occupato da una grande sala con volta a ombrello su peducci scolpiti a putti e mascheroni41. Di notevole interesse anche la parte quattrocentesca merlata di villa Cainaqua a Pressana (VR 298), la cui funzione abitativa è attestata da un bel ciclo d’affreschi vicino al modi del gotico ferrarese rinvenuto nella sala42. Sulla persistenza dell’uso di allestire nobili residenze nelle torri basti l’esempio del vicentino Francesco Trissino che negli anni Settanta del XVI secolo, abbandonato il progetto palladiano per la villa di Meledo, si ritira nella recente “colombara” (VI 493) lì costruita, nelle stanze a volta affrescate a grottesche e riscaldate da un pregevole camino di marmo43. È chiaro che se edifici di questo tipo poterono costituire un primitivo luogo di residenza per brevi soggiorni del padrone e per un numero limitato di familiari, ben presto condizioni di maggior si-

curezza delle campagne, variate esigenze e una mutata concezione di comfort indirizzarono verso strutture residenziali meno condizionate da necessità difensive, più ampie e comode, meglio organizzate, più aperte. Come per la casa torre anche per altre tipologie di villa che si delineano nel Quattrocento veneto, molteplici e discordi sono le opinioni sui modelli di riferimento: urbani, rurali, castellani, da insediamenti monastici, da schemi di edilizia antica come la Portikusvilla mit Eckrisaliten, ossia con fronte a logge tra pieni angolari, a sua volta ritenuta mediata dall’architettura medievale veneziana o al contrario persistente nella tradizione rurale44. Temo che il problema sia destinato a non avere soluzione univoca: la natura sfuggente e poliedrica della villa fa sì che i modelli di riferimento siano molteplici, spesso compresenti e reciprocamente interagenti. Se è palese e preponderante la trasposizione in campagna di schemi abitativi e rappresentativi cittadini è altrettanto


logico, a mio avviso, soprattutto in relazione al carattere polifunzionale della maggior parte delle ville, che vengano assorbiti e adattati impianti e strutture in origine puramente utilitari della tradizione edilizia locale o appartenenti ad altri contesti e di collaudata efficacia. Senza contare che, come si è visto per le torri, assai frequente dovette essere, almeno in prima istanza e per brevi soggiorni di controllo del proprietario, l’uso di fabbricati già presenti nelle corti rurali e il ripristino di costruzioni monastiche e ospizi dismessi, in un secondo tempo rinnovati e nobilitati a seconda dei gusti e delle esigenze personali, pur mantenendo l’impostazione originaria. È stata ampiamente commentata la notissima xilografia del trattato di de’ Crescenzi nell’edizione veneziana del 1495, rilevandone le divergenze dal testo per quanto riguarda l’orientamento e la disposizione degli edifici della corte rustica e considerandola un adattamento alla realtà storica regionale del momento45. Tuttavia, come rileva Luisa Giordano46, l’individuazione

del corpo padronale come piccolo castello, con merlature e torre centrale, non corrisponde in alcun modo alla casistica di area veneta. Le si potrebbe avvicinare la merlata villa Montanari a Pradelle di Gazzo Veronese (VR 147), che presenta anche un accenno di torre centrale e alti comignoli ai lati47; ne richiamano il volume compatto e chiuso la vicina, più tarda, villa Giusti (VR 143)48, le tardogotiche ville Monza a Dueville (VI 217)49 e Quinto, poi Grimani, a Spessa di Carmignano (PD 109), asimmetrica a causa di una torre inglobata su un lato50 (fig. 5), la protorinascimentale Trissino Paninsacco a Trissino (VI 548)51 (fig. 6), ma queste e gli altri esempi quattrocenteschi del tipo52 ripropongono costantemente, salvo rare eccezioni e con poche varianti, l’assetto planimetrico tripartito generato da quattro muri paralleli del palazzetto veneziano, diffusosi anche nelle città della terraferma. Tale schema si manifesta in facciata nell’addensarsi delle aperture al piano superiore in una polifora (composta da due a cinque luci)

Rupprecht, Ville venete… cit., pp. 284-285. Giordano, “Ditissima tellus”… cit., p. 166. 47 Viviani, La villa nel Veronese… cit., pp. 666-668; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 107-108, figg. 362-365; Monicelli, Le ville della provincia di Verona… cit., pp. 150-151. 48 Viviani, La villa nel Veronese… cit., pp. 665-666; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 106-107, figg. 360-361. 49 Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., pp. 338-339; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 156-157, figg. 610-616. 50 L’edificio fu eretto nella seconda metà del Quattrocento da una famiglia di mercanti di lana vicentini che nella tenuta avevano un allevamento di ovini e vi eseguivano lavorazioni preliminari della lana sfruttando un corso d’acqua deviato all’interno della corte: F. Rigon, Villa Spessa e S. Anna di Carmignano, “Bollettino del CISA”, X, 1968, pp. 325-331; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 61-62, figg. 80-87. 51 Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., pp. 499-500; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., p. 207, figg. 870-874. 45 46

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Fig. 7 Villa Dal Verme, Agugliaro (Vicenza).

che illumina la sala passante, situata di solito in posizione centrale, mentre le coppie di monofore che tradizionalmente l’affiancano sono separate da un ampio spazio murario riservato internamente alla canna fumaria del camino. Questo è in assoluto lo schema compositivo più diffuso nelle ville venete, anche dei secoli successivi, che tuttavia, nella trasposizione dall’ambiente urbano a quello campestre tende ad accogliere e trasformare varianti che introducono nel volume compatto spazi aperti di transizione tra esterno e interno, declinati in vari modi e funzionali sia a esigenze pratiche di riparo e collegamento, sia rappresentative, sia di una più soddisfacente integrazione con l’ambiente naturale. Portici e logge sono di fatto i protagonisti, assieme alle torri, delle ville venete quattrocentesche. È stato giustamente notato come gli stessi palazzetti urbani – soprattutto a Padova, ma anche a Vicenza o Treviso – presentino spesso il pianterreno porticato sul fronte strada, a volte raddoppiato con una loggia soprastante verso il cortile interno53. Per non parlare della stessa casa fondaco medievale veneziana con il portico sul canale per lo sbarco e imbarco delle merci. La sua versione più monumentale con corpi pieni angolari, sul tipo del Fondaco dei Turchi, conosce a metà Quattrocento una splendida quanto eccezionale riproposizione in terraferma nella villa Porto Colleoni a Thiene (VI 536) (fig. 2). Questo esplicito omaggio alla città dominante da parte di un esponente della potente famiglia vicentina di fede filoveneziana assume del modello anche la tipica sala e il sottostante portego passanti con pianta a T, fondendovi reminiscenze feudali nelle pseudo-torri angolari e nel coronamento a merli ghibellini, mantenuti anche nell’intervento di sopraelevazione degli anni Venti del Cinquecento54. Ma – ripeto – si tratta di un edificio unico nel suo genere. L’inserimento di uno spazio porticato a pianterreno di corpi padronali a impianto tripartito, pur

Torri, portici, logge nelle residenze venete di campagna pre-palladiane Donata Battilotti

destinato a non avere grande seguito, è riscontrabile in un gruppo abbastanza nutrito di ville quattrocentesche, soprattutto vicentine e trevigiane, declinato in varie soluzioni a seconda del carattere e dell’uso dell’edificio, e nella quasi totalità è definito da archi, sia su esili colonne che su più massicci pilastri. Come ha chiarito Marco Rosci55, il carattere prevalentemente urbano di queste ville viene “ruralizzato” attraverso il rapporto che esse stabiliscono con le strutture rustiche, sia allusivo, attraverso l’assonanza dell’elemento porticato con le barchesse, sia diretto mediante la comunicazione tra i rispettivi sottoportici. Villa Quaglia a Paese (TV 421), variamente datata nel secondo decennio o poco oltre la metà del secolo sulla base di alcuni particolari decorativi e degli affreschi a motivi geometrici, girali d’acanto e scene cavalleresche che coprono l’intera facciata rivolta alla corte recintata56, appare piuttosto dilatata in larghezza per l’assenza del piano sottotetto e presenta una trifora centrale ad archetti trilobati affiancata da due bifore anzichè dalle tradizionali coppie di monofore. In contrasto con questa veste raffinata, il portico, in posizione disassata e formato da tre tozze e disuguali arcate su pilastri a spigolo vivo, fa pensare che dovesse svolgere anche funzioni pratiche nel contesto dell’azienda agricola. Una simile impostazione si ritrova nella forse coeva o di poco successiva villa Dal Verme ad Agugliaro (VI 002), dalle proporzioni più eleganti, con trifora tardogotica centrale e portico di due ampie arcate in posizione angolare, aperto anche sul fianco57 (fig. 7). L’edificio sorge oggi isolato e non c’è più traccia delle strutture di servizio che inevitabilmente lo dovevano completare. Al contrario, si è conservato eccezionalmente integro l’impianto complessivo a corte di villa Capra a Carrè (VI 159), che è possibile datare con certezza al 1444-1446 grazie ai millesimi incisi sui diversi elementi che la compongono58 (fig.

Questo tipo di villa a palazzetto e senza portico (a meno di mettere in conto successive chiusure), si trova in particolare nell’entroterra veneziano e nei vicini territori di Padova e Treviso, dove permane numeroso anche nel secolo successivo. Ne sono esempi le ville Cappello (VE 145) e Malipiero (VE 153) a Meolo; villa Pisani ad Arquà (PD 034), quella eretta sul finire del Quattrocento dal patrizio veneziano Pietro Zen ad Asolo (TV 039), la facciata meridionale della Gradenigo a Carbonera (TV 065). Ma si vedano anche, nel Vicentino, ca’ Dotta a Sarcedo (VI 484), Porto a Villaverla (VI 634). 53 Giordano, “Ditissima tellus”… cit., pp. 168-169; Burns, Castelli travestiti?… cit., pp. 478-479. Valgano come esempi edifici con portico e loggia sul fronte interno i palazzi Porto Breganze e Porto Colleoni in contrà Porti a Vicenza: F. Barbieri, Vicenza città di palazzi, Milano 1987, pp. 25-30. 54 Morresi, Villa Porto Colleoni a Thiene… cit. Quelle che in alzato hanno l’aspetto di torri si sviluppano in pianta come sequenze di stanze. Altra villa con fronte a portico e loggia tra avancorpi pieni di diversa dimensione e sporgenza, è la cosiddetta “ca’ Brusà” a Lovolo di Albettone (VI 011). Queste ville di derivazione dal fondaco veneziano, a sua volta assai affine in facciata alle ville tardoromane e per le quali è stata coniata la definizione Portikusvilla mit Eckrisaliten, rimangono però un’eccezione: Zancan, Le ville vicentine del Quattrocento… cit., pp. 435-436. Rigon, Ville vicentine… cit, p. 182, ritiene questa tipologia una sorta di “continuità etimologica” preservata da una “tradizione cantieristica che si mantenne viva fin dalla matrice latina delle origini”. 55 Rosci, Forme e funzioni… cit., pp. 42-43. 56 Per Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 81-83, figg. 217221, la villa risale al secondo decennio del Quattrocento, ma le datazioni proposte coprono tutto l’arco del secolo. 57 Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., p. 249; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 121-122, figg. 443449; G. Bödefeld, B. Hinz, Ville venete, Milano 1990, pp. 86-87. 58 Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., pp. 315-317, Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 145-146, figg. 561-566. 52

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Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 76-77, figg. 191-201; Bödefeld, Hinz, Ville venete… cit., pp. 87-89. 60 Cevese, Ville della provincia di Vicenza, cit., pp. 325-326; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 152-153, figg. 594-599. 61 Questa tipologia è stata analizzata in particolare da Rosci, Forme e funzioni… cit., pp. 43-50; per l’area vicentina da Zancan, Le ville vicentine del Quattrocento… cit., pp. 435437, e, per l’area veronese, da L. Puppi, Funzioni e originalità tipologica delle ville veronesi, in La villa nel Veronese… cit., pp. 87-140: pp. 102-107. 62 G. Conforti, Le ville a portico e loggia: origine, evoluzione, modelli in Valpolicella da Tre al Cinquecento, “Annuario Storico della Valpolicella”, 1998-1999, pp. 209-242. 59

Fig. 8 Villa Capra, Carrè (Vicenza). pagina a fronte Fig. 9 Villa Barbaro Dall’Aglio, Lughignano di Casale sul Sile (Treviso).

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8). Lacerti di affreschi, proporzioni allungate e l’unica bifora tardogotica rimasta al piano superiore in posizione laterale avvicinano il corpo padronale a villa Quaglia, ma qui il portico ha slanciate arcate a sesto acuto su più snelli pilastri con cornice d’imposta e si estende, leggermente sopraelevato, all’intero fronte, conferendo in tal modo maggior dignità alla residenza padronale rispetto ai rustici che definiscono la corte: una barchessa in linea, innestata al fianco sinistro col cui profondo portico architravato è direttamente in comunicazione, e l’antistante torre colombara sull’angolo opposto della corte. Anche la più tarda villa Barbaro Dall’Aglio a Lughignano sul Sile (TV 072), databile alla fine del secolo, con elegante quadrifora protorinascimentale, era in origine agganciata a una barchessa, in questo caso perpendicolare all’estremità sinistra del portico passante composto di eleganti archi a tutto sesto su colonne, il che

può spiegare la sua asimmetria59 (fig. 9). Tuttavia il carattere di nobile dimora è qui assai più accentuato, paragonabile a quello della coeva, perfettamente simmetrica, villa Trissino a Cornedo Vicentino (VI 183)60. Un gruppo decisamente interessante di ville, diffuso quasi esclusivamente, anche se con varianti locali, nel Veronese e nel Vicentino, vede il raddoppio del portico in una loggia soprastante, estesi entrambi al punto da costituire l’intera facciata o la sua parte preponderante61. L’origine di questa tipologia nel Veronese, dove assume e mantiene un carattere più deciso e aulico, sembra risalire agli ultimi decenni del Trecento nelle relativamente sicure aree collinari prossime al capoluogo e in particolare in Valpolicella, come appannaggio dell’aristocrazia militare scaligera62. Ben documentato è il “palatium” a Santa Sofia di Pedemonte che il capitano dell’esercito Cortesia Serego riceve in


Torri, portici, logge nelle residenze venete di campagna pre-palladiane Donata Battilotti

dono da Antonio della Scala e che egli, nel corso degli anni Ottanta, arricchisce “cum lodiis”, trasferendo in campagna il modello cortese della loggia di rappresentanza che si stava affermando in città sull’esempio di quella di Cansignorio nei palazzi scaligeri63. Illustrazioni di Tacuina sanitatis tre-quattrocenteschi di area veneto-lombarda testimoniano inoltre la diffusione di questo tipo di edifici in ambienti campestri64. L’aggiunta di portici e logge a strutture preesistenti è intervento che si è appurato frequente anche nei secoli successivi e che porta, assieme al persistere di stilemi decorativi derivati dalla tradizione locale dei lapicidi, a divergenze significative sulla cronologia degli edifici, tanto che quella che veniva considerata un tempo dalla storiografia il modello di riferimento quattrocentesco, villa Bertoldi a Negrar (VR 250) (fig. 10), sembra essere stata edificata in parte nel Cinquecento inoltrato65. Anzi, Giuseppe Conforti è

convinto che tutto il gruppo delle più note ville della Valpolicella, contraddistinte dal raddoppio regolare degli archi della loggia rispetto a quelli del sottostante portico, sia da ricondurre alla diffusione in area veneta di tale motivo – che considera di derivazione colta dall’antico – e da posticipare di conseguenza, in blocco, alla prima metà del XVI secolo66. Va fatto tuttavia notare che il medesimo schema è adottato già all’inizio del Trecento da Giovanni degli Eremitani nel palazzo della Ragione di Padova e viene riproposto negli anni Ottanta del Quattrocento da Tommaso Formenton nelle logge del palazzo della Ragione di Vicenza, poi sostituite da quelle palladiane67. Senza entrare nel merito della spinosa questione cronologica, testimonianza in ogni caso della vitalità di tale soluzione, va osservato che l’assetto planimetrico di questo tipo di villa si differenzia nettamente da quello sviluppato in profondità e

G. Conforti, Il palacium trecentesco di Cortesia Serego a Santa Sofia di Pedemonte, “Annuario Storico della Valpolicella”, 1996-1997, pp. 47-84. L’edificio sarà trasformato nel Cinquecento da Andrea Palladio. 64 Ivi, pp. 77, 79. 65 Viviani, La villa nel Veronese… cit., pp. 447-448; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., p. 112, figg. 390-395; Conforti, Le ville a portico e loggia… cit., p. 218. 66 Conforti, Le ville a portico e loggia… cit., pp. 218-231. L’autore fa derivare lo schema dalla cosiddetta Crypta Balbi nella reinterpretazione bramantesca dei chiostri di Sant’Ambrogio a Milano. Nel Veronese tale sistema sarebbe giunto attraverso la mediazione di edifici ferraresi quali palazzo Costabili. Oltre a villa Bertoldi, egli data nella prima metà del Cinquecento le ville Quintarelli a Negrar (VR 258), Del Bene a Volargne di Dolcè, Selle a Volta di Fumane (VR 136), Ridolfi Cossali Sella a Castelnuovo del Garda (VR 086), Rotari Cartolari ad Avesa di Verona (VR 504), Guantieri a Valgatara di Marano di Valpolicella (VR 220). 67 F. Barbieri, La Basilica palladiana, Vicenza 1968, tav. II b. 63

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Fa eccezione villa Del Bene a Volargne di Dolcè (VR 125) in cui portico e loggia sono stati aggiunti nella prima metà del Cinquecento a un precedente edificio a blocco e tripartito dell’inizio del Quattrocento: M. G. Martelletto, Villa Del Bene: la storia, il restauro e la valorizzazione, “I Quaderni della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le Province di Verona, Rovigo e Vicenza”, V, 2013, pp. 192-201: 192-194. 69 Viviani, La villa nel Veronese… cit., pp. 380-381; Monicelli, Le ville della provincia di Verona… cit., p. 152. 70 Viviani, La villa nel Veronese… cit., pp. 387-388; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., p. 114, figg. 402-406; Monicelli, Le ville della provincia di Verona… cit., p. 152. 71 Viviani, La villa nel Veronese… cit., p. 447; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 112-113, figg. 396-397. 72 Viviani, La villa nel Veronese… cit., p. 604; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 101-102, figg. 342-346. 73 Viviani, La villa nel Veronese… cit., p. 442; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., p. 110, figg. 380-382. 74 Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., p. 302; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 141-142, figg. 539545. 75 Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., p. 253; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 123-125, figg. 456460; si veda sopra, alla nota n. 54. 76 Barbieri, Vicenza città di palazzi… cit., pp. 25, 29, 33, 36. 77 Ivi, pp. 41-42. 78 Zancan, Le ville vicentine… cit., pp. 436-437. 79 Battilotti, Alcune osservazioni… cit., pp. XX-XXI. 80 Puppi, Funzioni e originalità… cit., p. 104. 68

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tripartito alla veneziana, presentandosi decisamente dilatato in larghezza lungo l’asse distributivo costituito dal portico e dalla loggia sui quali, almeno in origine, si aprivano direttamente le stanze accostate in sequenza68. Soluzione questa che rende non trascurabile la possibile influenza anche di strutture claustrali. All’impianto così allungato si possono trovare variamente aggregati corpi pieni, su uno o entrambi i lati, a filo della facciata e senza soluzione di continuità o più alti e leggermente avanzati, uno dei quali è spesso costituito da una torre colombara, che però può anche risultare inglobata in posizione arretrata o retrostante, lasciando così il fronte completamente aperto. Tra gli esempi più notevoli si possono annoverare la parte più antica della villa di Quinzano (VR 503), appartenuta nella seconda metà del Quattrocento allo scrittore apostolico Benedetto Rizzoni, con portico e loggia formati da quattro ariose arcate su esili colonne69; villa Sparavieri a Settimo di Pescantina (VR 294), alle cui quattro ampie e ribassate arcate del portico su pilastri si sovrappongono, sfalsati, sette archi su colonne70; villa Quintarelli a Noval di Negrar (VR 258), asimmetrica, con loggia a fitta archeggiatura e colombara inglobata sul retro71. La colombara è in posizione retrostante anche nella più tarda villa Ridolfi Cossali Sella a Castelnuovo del Garda (VR 086) dalla loggia a luci raddoppiate72; mentre è a filo della facciata quella della Guantieri, detta Fasanara, a Valgatara di Marano di Valpolicella (VR 220), pure con loggia ad arcate doppie rispetto al portico73. Sono invece due, disposte simmetricamente ai lati, le torri aggiunte nel Cinquecento alla precedente struttura della già citata, monumentale villa Bertoldi a Negrar (VR 250) (fig. 10). In territorio vicentino rientra in questa tipologia villa Piovene a Brendola (VI 131) con le arcate più fitte e sfalsate rispetto a quelle del portico, raccordate anche esteticamente alla torre latera-

Fig. 10 Villa Bertoldi, Negrar (Verona). Fig. 11 Villa Piovene, Brendola (Vicenza).

le74 (fig. 11). Presenta affinità anche la facciata – pertinente però a un impianto planimetrico a sala passante, che riconduce al palazzo fondaco veneziano – della cosiddetta ca’ Brusà a Lovolo di Albettone (VI 011), probabile rimaneggiamento tardoquattrocentesco di una fabbrica gotica, dove i tre archi del portico e quelli in numero doppio della loggia sono rinserrati da due corpi pieni avanzati, più alti e di difforme larghezza75 (fig. 12). La variante locale più diffusa dello schema a portico e loggia si differenzia tuttavia dagli esempi veronesi, oltre che per la minore estensione, per la netta preferenza accordata alle travature rettilinee al posto degli archi, preferenza che si fa pressoché assoluta nelle logge. Questo aspetto rende a mio avviso più sfumato il riferimento a modelli cittadini, anche se la trecentesca Loggia dei Carraresi a Padova potrebbe aver fornito una patente di nobiltà a tale soluzione. Portici e logge dei fronti interni dei palazzi vicentini quattrocenteschi sono infatti ad arco76 e solo la raffinatissima Loggia Zeno, eretta negli anni Ottanta all’interno del Vescovado, presenta lo spazio superiore architravato77. Anche l’ipotesi di una derivazione da costruzioni monastiche, canoniche e ospizi sparsi nelle campagne e nei borghi78, pur pertinente, non spiega del tutto né la diffusione limitata a un territorio tutto sommato circoscritto, né le evidenti assonanze con l’architettura rustica locale. Si pensi alle barchesse con stalle e depositi per gli attrezzi al pianterreno e soprastanti fienili, ma anche alle abitazioni contadine, soprattutto delle zone montane, con ballatoi e scale lignee esterne di disimpegno79. Del resto strutture multifunzionali di questo tipo – che “assorbendo in sé, e trasfigurando in eloquio civile, la struttura […] della barchessa, recupera[vano] la esigenza rustica alla stessa dimensione dominicale, portando a far coincidere la funzione pratica con quella ideale”, come postilla Lionello Puppi80 – poteva-


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no rispondere efficacemente ai bisogni residenziali, operativi e di immagazzinamento di una piccola e media proprietà agricola. In territorio vicentino gli esempi sicuramente quattrocenteschi non superano la decina, ma è possibile che molte versioni successive, riscontrabili fino a Settecento inoltrato, siano dei rifacimenti di preesistenti strutture, semplicemente aggiornate sul piano figurativo81. Le versioni più rustiche presentano larghi intercolumni, con gli elementi verticali in asse, a volte dotati di stampelle, uno o entrambi gli architravi e spesso anche le balaustre in legno. L’esempio più arcaico e ben conservato, databile entro la prima metà del Quattrocento, si trova in realtà in territorio trevigiano, dove però questa tipologia non ha sviluppi successivi. Villa Dal Zotto a Venegazzù di Volpago di Montello (TV 748) unisce sotto lo stesso tetto un doppio loggia-

to con architravi in legno su colonne e un corpo pieno sulla destra che contiene un’ampia stanza per piano con camino centrale. Affreschi, anche di carattere religioso, ricoprivano un tempo l’intera facciata e l’interno della loggia82. Del gruppo vicentino, presentano portico e loggia molto simili villa Valmarana a Creazzo (VI 198), dove però sono accostati a un corpo pieno più alto e avanzato e hanno anche la balaustra in legno83 (fig. 13); villa Pizzoni Rota Barbieri sulle pendici meridionali del monte Crocetta a Vicenza (VI 612), sorta accanto a un’antica torre di guardia trasformata in colombara84; villa Porto a Zugliano (VI 653). Tra le varianti con portico ad arcate, che nell’insieme assumono una connotazione più urbana, gli esempi quattrocenteschi meglio conservati sono la villa Loschi alle Cattane di Vicenza (VI 593), dai massicci pilastri al pianterreno, appoggiata a un’alta torre (re-

81 Battilotti, Alcune osservazioni… cit., pp. XX-XXI. Va segnalato inoltre che proprio l’assonanza di tale tipologia con strutture rustiche fa sì che nei secoli successivi, specie nel SetteOttocento, a volte le venga fabbricato a fianco un nuovo corpo padronale, di cui diviene un’appendice spesso adibita a foresteria, o che addirittura essa venga aggiunta, sempre con la stessa funzione, a una preesistente residenza. 82 Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 84-86, figg. 227-234. K.W. Forster, Back to the Farm, “Architectura”, I, 1974, pp. 1-12: 6, porta casa Dal Zotto a dimostrazione della sua teoria sulla derivazione rustica di questo tipo di ville. 83 Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., p. 337; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 154-155, figg. 602606. 84 Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., p. 536; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 212-213, figg. 898890.

Fig. 12 Villa Erizzo detta ca’ Brusà, Lovolo di Albettone (Vicenza). pagina a fronte: Fig. 13 Villa Valmarana, Creazzo (Vicenza).

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Zancan, Le ville vicentine… cit., p. 442; Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., p. 507. 86 Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., p. 530; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., p. 212, figg. 893-896. 87 In entrambe un corpo pieno è arretrato, respinto in secondo piano. Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., pp. 256257; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., pp. 126-127, figg. 473-482. 88 Villa Mosca: Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., pp. 321-322; Kubelik, Die Villa im Veneto… cit., p. 149, fig. 576. 89 Cevese, Ville della provincia di Vicenza… cit., pp. 298-299; Battilotti, Alcune osservazioni… cit., pp. XXI-XXII. 90 Rosci, Forme e funzioni… cit., p. 44. 91 A. Palladio, I Quattro Libri dell’Architettura, Venezia 1570, II, p. 61. 85

Fig. 14 Villa Povegliani, Longara di Vicenza. pagina a fronte: Fig. 15 Villa Valmarana, Valmarana di Altavilla Vicentina (Vicenza). Fig. 16 Villa Mosca detta ca’ Decima, Villaganzerla di Castegnero (Vicenza).

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centemente sopraelevata) con bifora trilobata in corrispondenza della loggia85; villa Povegliani a Longara di Vicenza (VI 606), dove il sistema portico-loggia è completamente svincolato e aperto su entrambi i voltatesta86 (fig. 14), così come nella raffinata villa Valmarana a Valmarana di Altavilla Vicentina (VI 015), con loggia architravata a ritmo raddoppiato87 (fig. 15). Va segnalata infine un’ulteriore variante vicentina, non numerosa ma significativa, che ancor più della precedente tende a confondersi con strutture rustiche fino talvolta a mimetizzarsi con queste. Si tratta di residenze dove la facciata è risolta in un unico grande porticato, con o senza attico soprastante, di cui un esempio della fine del Quattrocento è la ca’ Decima a Villaganzerla di Castegnero (VI 171): una fila di stanze disposte su due piani che si affacciano su un portico di archi sorretti da raf-

finate colonnine a base poligonale poggianti su un parapetto continuo88 (fig. 16). Questo tipo di soluzione non doveva essere raro se ancora nel Cinquecento si costruiranno complessi di villa come la cosiddetta ca’ Ostile di Breganze (VI 109) dove dietro la sequenza indistinta di grandi arcate su pilastri in muratura del portico si celano sia la barchessa che la residenza padronale affrescata e con caminetti scolpiti89. Come ha notato Rosci90, questo processo di assorbimento della barchessa nel corpo stesso della casa dominicale rappresenta una tappa fondamentale affinché essa diventi a sua volta partecipe di un “preciso linguaggio architettonico”. E lo stesso Palladio del resto arriverà a proporre nei Quattro Libri un progetto di villa per Mario Repeta a Campiglia dove la parte signorile e la parte rustica sono esteriormente indistinguibili91.


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Marco Rosario Nobile

Ville e residenze extraurbane del Quattrocento a Palermo e in Sicilia

With the exception of a few splendid residences inherited from the past and related to the Norman or Swabian courts -which are both in use and fully operative- the documented cases of new constructions in the 15th century are rare. In a city such as Palermo, the great private gardens were internal to the walled circuit, which allowed for an elitist way of life and matching social behaviours. A compact group of towered buildings constructed during that century in several places throughout the island constitutes, however, a significant phenomenon. In these buildings, which were commissioned by distinguished clients (the Cabrera in Pozzallo, the Ventimiglia in Montelepre, the Speciale in Ficarazzi), a blend can be identified between defensive needs, productive interests, or else connected to hunting, and architectural and distributive choices which reflect conventions that are common to the entire Mediterranean basin, but also the influence of the Aragonese court and that of the buildings favoured by the monarchy. Episodio trascurabile, fenomeno limitato e comunque privo di casi architettonici di qualità; per chi intendesse ragionare sul tema delle residenze aristocratiche extraurbane nel Quattrocento siciliano, basandosi su quanto emerso sinora dagli studi o messo in luce dalla storiografia, la prima impressione non potrebbe che delineare un quadro di disarmante modestia, ambizioni molto limitate, specialmente se poste a confronto con un passato di indiscutibili vertici architettonici (quasi sempre veicolati dalla corte) e con un immediato futuro (diciamo a partire dal terzo decennio del XVI secolo) dove si possono individuare i primi episodi che si prestano a colmare differenze e distacchi (nelle convenzioni e nei comportamenti delle classi sociali più elitarie) con le realtà italiane considerate più all’avanguardia1. A prima vista e limitatamente al tema, il Quattrocento in Sicilia appare quindi una sorta di lunga quanto irrilevante parentesi. Proveremo in questa sede a rivalutare i dati a disposizione, a individuare i caratteri specifici e a decodificare le retoriche intrinseche in Sicilia, nella certezza che sia necessario dotarsi di parametri differenti per spiegare episodi architettonici molto distanti dai criteri di giudizio in auge nella storiografia nazionale. La città verde I giardini, gli orti, le coltivazioni hanno costituito da sempre vanti di un’isola fertile, ma un primo principio da mettere in discussione è legato alla presunta radicale dualità tra i centri abitati dotati

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di mura e la campagna alla fine del Medioevo2. Se questa separazione ha probabilmente una sua fondatezza per le città europee di età moderna, appare molto più problematico e labile per Palermo fra Trecento e Quattrocento. Gli studi di Henri Bresc hanno mostrato che il circuito murario di età aragonese inglobava ampie arie non edificate e un numero significativo di giardini e di orti3. Due torrenti (il Kemonia e il Papireto) attraversavano la città e il decorso delle acque era funzionale anche all’irrigazione delle terre e degli orti coltivati intra moenia. Solo nel corso del lungo Cinquecento, molti tra questi terreni inedificati saranno soggetti a operazioni speculative, a nuove lottizzazioni e alla costruzione di interi nuovi quartieri4, ma la questione assunta come titolo in un libro dall’intellettuale palermitano Paolo Caggio (Raggionamenti […] ne’ quali egli introduce tre suoi amici, che naturalmente discorrono intorno a una vaga fontana, in vedere se la vita cittadinesca sia più felice, del viver solitario fuor le città, e nelle ville, Venezia 1551) non pare costituire un reale dilemma nel corso del XV secolo. La documentazione consente di comprendere che tra le consuetudini insediative dell’aristocrazia c’era la moda diffusa di contemplare accanto o alle spalle del proprio palazzo un giardino murato. Si trattava con ogni evidenza di un aspetto distintivo e non c’è alcun dubbio che le maggiori residenze del XV secolo fossero dotate di “viridari”, cioè di ampi spazi alberati, talora con fontane, pergolati e su cui si affacciavano sovente delle logge

(denominate nei documenti “tocchi” o “teatri”). Il più celebre giardino della città era probabilmente quello dello Steri, il palazzo che i Chiaromonte avevano realizzato a partire dai primi anni del XIV secolo. Dopo la confisca nel 1392, il palazzo era diventato sede reale e conosciamo l’interesse dei sovrani aragonesi per questo luogo. Circostanziato risulta il coinvolgimento di re Martino per la riparazione dei condotti idraulici e per i “joki di l’aqua” nel giardino. All’interno di una sala nel viridario si trovava un ludus aquarium, e nel 1407-1408 vi si teneva rinchiuso uno struzzo5. Al giardino e ai portici, re Martino aveva fatto aggiungere una sala nuova, dotata di un trono6; evidentemente lo sfarzo delle residenze di corte normanna (in particolare la cosiddetta “Sala Verde” nell’antico palazzo reale, che lo stesso Martino contribuì a smantellare) aveva colpito il sovrano che intendeva in qualche modo emularne i fasti. Ancora nel 1423, durante il regno di Alfonso, i mastri Mannus (Magnus de Johanne, probabilmente catalano o maiorchino, attivo in molteplici cantieri della città) e il maestro Xalomus vennero compensati per avere ripristinato i giochi d’acqua del complesso7. Anche i Sottile possedevano un grande giardino con fontane accanto al loro hospicium magnum, realizzato adottando moderni intagli flamboyant agli inizi del XV secolo. Una parte del giardino con il pomario viene definito in un documento del 1498 “paradiso”8. Analoghe considerazioni possono farsi per altre importanti residenze patrizie (tra gli altri i palazzi Abatellis, Aiutamicristo,


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1 Per un quadro di insieme sul tema rimando senz’altro a S. Piazza, Le Ville di Palermo. Le dimore extraurbane dei Baroni del Regno di Sicilia (1412-1812), Roma 2011. 2 Ho mutuato il titolo e alcune considerazioni di questo paragrafo dall’interessante e imprescindibile saggio di E.H. Neil, A Green City: Ideas, Conditions, and Practices of the Garden in Sixteenth Century Palermo, in L’Urbanistica del Cinquecento in Sicilia, atti del convegno (Roma, Facoltà di architettura, 3031 ottobre 1997), a cura di A. Casamento, E. Guidoni, Roma 1999, pp. 227-235. 3 H. Bresc, Les Jardins de Palerme (1290-1460), “Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Moyen Age”, 84, 1972, pp. 55-127. 4 Su questo tema si rimanda a: M. Vesco, Viridaria e città. Lottizzazioni a Palermo nel Cinquecento, Roma 2010. 5 Bresc, Les Jardins…cit., pp. 99-100. 6 L. Sciascia, Il palazzo invisibile: lo Steri di Palermo dai Chiaromonte all’Inquisizione, in Città e vita cittadina nei paesi dell’area mediterranea: secoli XI-XV, atti del convegno (Adrano, Bronte, Catania, Palermo, 18-22 novembre 2003), a cura di B. Saitta, Roma 2006, pp. 759-766: 764. 7 G. Bresc Bautier, Les étapes de la construction de l’église de Santa Maria di Gesù hors de Palerme au XV siècle, in Studi dedicati a Carmelo Trasselli, édité par G. Motta, Soveria Mannelli 1983, pp. 145-156, nota n. 9. 8 A. Gaeta, Secus locum Muschite: le proprietà urbane della famiglia Sottile tra XV e XVI secolo, memoria e revisione,“Archivio Storico Siciliano”, IV s., XXIX, 2003, pp. 95-132. 9 Vesco, Viridaria e città…cit., pp. 49-51.

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Alliata, Bonett, Imperatore, Ventimiglia) (fig. 2). La documentazione restituisce indirettamente anche una dimensione ludica, adatta al tempo libero, come nel caso del giardino dei Ventimiglia, dotato di un portico e di un “passiaturi” (un viale pergolato). L’intreccio e la ridotta separazione con l’economia rurale e l’agricoltura appaiono invece comprovati dalla presenza nel giardino degli Imperatore di un “refinatorium”, cioè una fabbrica per la lavorazione della canna da zucchero9: l’impresa maggiormente redditizia in questi stessi decenni in Sicilia. Paesaggi mutevoli e riscoperte La dimensione introversa dei giardini di Palermo, il valore aggiunto che costituivano per i palazzi, almeno quelli di maggiore ricercatezza e qualità, non circoscrivono comunque i fenomeni. Nel Quattrocento il paesaggio

intorno alla maggiore città del Regno appare in costante mutazione. Pietro Ranzano (1470 ca.) testimonia l’attività edilizia nei dintorni di Palermo: “Et foro edificati più di 30 turri di una altitudini non mediocri, et innumerabili, quasi in omni loco di la chana di Palermo, casi, secundo la facultà e comodità di omni homo privato. Et su stati plantati multi vigni et multi oliveti amplissimi circum circa di ipsa chitati”10. Non si trattava solo di campi coltivati, di case, residenze fortificate o masserie, ma anche di infrastrutture: ponti, viadotti, acquedotti, frantoi e raffinerie per la canna da zucchero (fig. 3). Quest’ultimo fronte costituiva un modello di economia che comportava notevoli investimenti, così come testimoniato da un aristocratico francese che nel 1420 visita e descrive una di queste attività produttive11. La riconquista del territorio – dopo un secolo di guerra civile – si


Ville e residenze extraurbane del Quattrocento a Palermo e in Sicilia Marco Rosario Nobile Fig. 3. . Rocca Caetani, Fondi Fig. 1. Palazzo Caetani, Fondi. Ala roffrediana Fig. 2. Palazzo Caetani a Capo di Bove, Roma. Fronte sulla campagna, planimetria (da Meogrossi, Cereghino, Tomba di Cecilia Metella… cit., 1986) e versante interno alla ‘civitas’.

prolunga e interessa, con intensità differenti, varie zone della Sicilia; tuttavia il prevalente carattere difensivo delle strutture abitative esterne alla cinta muraria è comune, permane a lungo, condiziona i progetti. Sono questi comunque gli anni dove l’aristocrazia riscopre interesse per la campagna ed è insieme all’attenzione per la produzione agricola e per i commerci che – anche all’interno delle tipologie ‘a torre’ (o dotate di circuito fortificato) – si ridefiniscono lentamente alcuni caratteri della residenza extraurbana e si incamerano nuovi investimenti simbolici. In realtà, la scomparsa o le condizioni attuali dei manufatti non consentono di stabilire il grado di qualità assunta da alcune residenze, come la torre dei Castrone a Pagliarelli, collocata all’interno di un vasto oliveto, e solo più avanti soggetta a radicali integrazioni12. Eppure anche in assenza di dati incontrovertibili, i segni latenti di

una riappropriazione del territorio e del paesaggio anche ai fini della contemplazione e dell’ozio non sono assenti. Ranzano cita per esempio che “Masi Crispo edificao una turri, la quali no ej da dispriczari, incosto mari”13. Il mare, fonte di commercio e orizzonte da tenere sotto costante controllo, è un luogo che si presta bene anche a scopi diversi, più intimi e più simbolici. In questo contesto alcune prestigiose dimore extraurbane dei secoli precedenti diventano luoghi ambiti di residenza e ciò vale in primo luogo per la celebre Zisa. L’interesse per questo straordinario edificio ne amplifica la fama, il successo, comportando persino una certa attualità operativa14. La testimonianza di Antonio Beccadelli (noto come il Panormita), che intorno al 1440 proprio dallo stesso Alfonso il Magnanimo sarebbe stato gratificato con l’assegnazione della residenza reale, appare deter-

10 P. Ranzano, Delle origini e vicende di Palermo, di Pietro Ransano, e dell’entrata di re Alfonso in Napoli: scritture siciliane del secolo XV pubblicate e illustrate su’ codici della Comunale di Palermo da G. di Marzo, Palermo 1864, pp. 81-82. 11 Così Nompar de Caumont: “sa préparation est longue, et me semble d’un grand prix”. Si rimanda a: B. Dansette, Le voyage d’outre-mer à Jérusalem. Nompar de Caumont XVe siècle, in Croisades et pèlerinages. Récits, chroniques et voyages en Terre Sainte XIIe-XVIe siècle, édité par D. Régnier-Bohler, Paris 1997, pp. 1057-1123: 1114. 12 F. Scaduto, Architettura, committenza e città nell’età di Filippo II. Il palazzo Castrone a Palermo, Palermo 2003, p. 15. L’edificio venne trasformato in una residenza di villeggiatura con interessanti soffitti lignei nella prima metà de XVI secolo, nel 1549 il cantiere era ancora in corso (“loco grande arborato e terre scapuli, iardino, molino, stanci, maragmi”, dove quest’ultimo termine indica una fabbrica in attività): ivi, p. 109, doc. 3. 13 Ranzano, Delle origini…cit., p. 82.

pagina 99 Fig. 1 Torre Cabrera, Pozzallo (Ragusa). Interno (foto M.M. Bares) Fig. 2 Palazzo Aiutamicristo (Palermo). Loggiato che prospettava sul giardino, 1490 Fig. 3 Villabate (Palermo). Acquedotto Speciale, 1443 (maestri Nicolaus de Nucho e Antonio Rovira di Barcellona)

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Ville e residenze extraurbane del Quattrocento a Palermo e in Sicilia Marco Rosario Nobile

Ancora da studiare è il fenomeno della ripresa di complessi meccanismi adatti alla refrigerazione degli ambienti. Allo stato attuale delle conoscenze le cosiddette “camere dello scirocco” sono documentate in palazzi e residenze di Palermo a partire dal XVI secolo, ma non se ne può escludere una origine più precoce. 15 N. Basile, Palermo felicissima: divagazioni d’arte e di storia. Seconda serie, Palermo 1932, pp. 87-95. 16 L. Alberti, Descrittione di tutta Italia […] Aggiuntavi la descrittione di tutte l’isole all’Italia appartinenti […],Venezia 1567, II parte, pp. 47-49. 17 G. Bellafiore, La Zisa di Palermo, Palermo 1978, pp. 1921. 18 G. Spatrisano, Lo Steri di Palermo e l’architettura siciliana del Trecento, Palermo 1972, p. 107. L’identificazione del giardino di Federico Abatellis si trova in Neil, A Green City… cit., nota 13. 19 A. Venuti, D’Agricoltura, nel quale si insegna il vero modo di coltivare i Campi, i Prati, gli Orti, i Giardini, Le Vite, gli Arbori & tutte le cose utile & necessarie, che s’appartengono a l’huomo in materia di Villa. Nuovamente ridotto in buona Lingua, Venezia 1543 (prima ed. Napoli 1515). 20 Il relativismo di Venuti emerge in più occasioni: “o per differentia d’aere, o d’asperità di terreni […] tutto il contrario nella nostra Sicilia ritrovato havemo”; oppure : “gli sopraddetti auttori per altri regni, et province havendo scritto, credo molto bene scrissero, ma variando di luoghi non è maraviglia se ancora le loro esperientie, & documenti medesiamente variano”. Le citazioni sono tratte dall’edizione veneziana (ivi, p. 3r) e sono state trascritte da Erik Neil (Neil, A Green City… cit., p. 229) che per primo ne ha intuito il valore. 21 M.R. Nobile, La torre Cabrera a Pozzallo,“Χρόνος, Quaderni del Liceo Classico Umberto I Ragusa”, 8, 1997, pp. 17-38. Id., Tra Gotico e Rinascimento: l’architettura negli Iblei (XV-XVI secolo), in G. Barone, M.R. Nobile, La storia ritrovata. Gli Iblei tra Gotico e Rinascimento, Ragusa 2009, pp. 55-58. Si rimanda poi ai saggi contenuti in Torre Cabrera. Documento/ Monumento della Costa Iblea. Storia. Salvaguardia. Interventi, atti del convegno (Maganuco, Modica, 28 giugno 2003), Modica 2005. 22 M.M. Bares, M.R.Nobile, Volte tabicadas nelle grandi isole del Mediterraneo: Sicilia e Sardegna (XV-XVIII secolo), in Construyendo bóvedas tabicadas, editado por A. Zaragozá, R. Soler, R. Marín, Valencia 2012, pp. 119-131. 23 M. Gómez-Ferrer Lozano, Las bóvedas tabicadas en la arquitectura valenciana durante los siglos XIV, XV y XVI, in Una Arquitectura Gótica Mediterránea, catálogo exposición (Valencia, Museu de Belles Arts, 2003), editado por E. Mira, A. Zaragozá Catalán, II, Valencia 2003, pp. 133-156. 24 T. Conejo, Assistencia i hospitalitat a l’edat mitjana. L’arquitectura dels hospitals catalans: dels gótic al primer renaixement, tesis doctoral, Universitat de Barcelona, 2002, p. 336; F. Meli, Matteo Carnilivari e l’architettura del Quattro e Cinquecento in Palermo, Roma 1958, p. 255, doc. 59. 25 Si rimanda a M.R. Terés, Arnau Bargués, in Gli ultimi indipendenti, architetti del gotico mediterraneo tra XV e XVI secolo, a cura di M.R. Nobile, E. Garofalo, Palermo 2007, pp. 23-43. 26 F. D’Angelo, Azulejos Heraldicos provenienti dalla Torre Cabrera, in Torre Cabrera…cit., pp. 64-65. 14

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minante15. Certamente riduttivo è immaginare che il possesso del palazzo normanno e dei giardini circostanti costituisse solo una appetibile prebenda di natura economica; il prestigio che l’opera possedeva riverbera nella descrizione effettuata un secolo dopo da Leandro Alberti16 e non si spiegherebbero gli interventi di “restauro” dei mosaici, avviati nel 1511 mentre la Zisa era in possesso di donna Maria de Acuña, vedova del viceré Fernando de Acuña, che nel 1490 aveva ottenuto la concessione dell’edificio 17. In questo filone può inquadrarsi anche il giardino di Federico Abatellis, conte di Cammarata, alla Guadagna nei pressi di Palermo, annesso a un raffinato palazzetto trecentesco appartenuto ai Chiaromonte, e originariamente destinato a padiglione da caccia18. Abatellis è uno dei primi aristocratici a impiantare un giardino di arance dolci e a lui significativamente, intorno al 1513, Antonio Venuti dedicherà un libro sull’agricoltura19; le acute osservazioni di questo oscuro intellettuale costituiscono un monito anche per altri campi di attività e finiscono per incrinare al loro preludio le pretese universalistiche del classicismo rinascimentale20. Architetture per l’aristocrazia La portata quantitativa del fenomeno è innegabile, ma è anche evidente che analisi di questo tipo non vanno oltre una dimensione interpretativa di natura economica e sociologica. Per aggirare questo limite è necessario misurarsi in dettaglio con alcune architetture del tempo. Una ridotta serie di torri quattrocentesche si presta a questo scopo. Si tratta di costruzioni che hanno un implicito o dichiarato uso residenziale, che sono sufficientemente documentate, risultano realizzate nel corso del secolo e adottano strutture e linguaggi omogenei. Per la conformazione prismatica e la relativa semplicità distributiva (ma su questo punto sarà necessario tornare) si sono spesso fatti risaltare

Fig. 4 Torre Cabrera, Pozzallo (Ragusa), 1420 ca. (foto M.M. Bares)

le relazioni interne all’isola, i rapporti con la lunga tradizione costruttiva normanna e sveva. Se a prima vista non sembrano esserci apprezzabili differenze con quanto costruito prima e con i numerosi donjon del XIII e XIV secolo, questi accostamenti, insieme scontati e impressionistici, hanno determinato un cortocircuito di giudizi sommari e di visioni distratte che finiscono per non cogliere le reali novità che queste fabbriche possiedono. Le conoscenze attuali e lo stato di conservazione di molte fabbriche non offrono garanzie tali da ritenere sufficientemente completo il discorso. Un significativo approfondimento è in realtà oggi possibile solo su un numero estremamente limitato di esempi, e tuttavia, anche all’interno di questa breve serie si possono cogliere aspetti e connessioni insolite. L’esempio più maestoso e precoce è la torre-palazzo dei Cabrera a Pozzallo nel sud-est dell’isola (fig. 4). La scelta di Bernat Cabrera – artefice della conquista aragonese dell’isola nel 1392 e nuovo Conte di Modica – di realizzare una residenza sul mare appare in qualche misura scontata. Nel corso del basso Medioevo lungo il tratto di costa tra Siracusa e Gela non esistevano porti o centri abitati; città antiche come Camarina o Caucana erano abbandonate da secoli e questa condizione doveva apparire inaccettabile per un uomo legato alla corte e con domini e interessi politici in Catalogna. Da quello che possiamo arguire, attraverso indizi incrociati, la poderosa costruzione (un parallelepipedo con base di 19,50x19,30 m e di oltre 30 metri di altezza) si realizzò entro il primo quarto del XV secolo21. Da laconici dati documentari e dagli stemmi inseriti nelle chiavi di volta è possibile dedurre che le crociere vennero realizzate nel secondo decennio del secolo (fig. 1). A Pozzallo si costruirono volte a crociera fortemente ribassate con costoloni in pietra, chiavi araldiche e vele realizzate con fogli di mattoni disposti di piatto22 (fig. 5). Le volte denominate ‘tabicadas’ o ‘rajol de pla’,


economiche, leggere e veloci da realizzare, erano state usate per la prima volta a Valencia negli anni Ottanta del Trecento e solo nei primi anni del XV secolo si trovano esempi a Barcellona23. La precocità delle date delle crociere potrebbe quindi avallare l’ipotesi che il committente si sia avvalso della prestazione di uno dei più rinomati maestri del tempo (fig. 6). Nel luglio 1419 a Barcellona Guillem Abiell redigeva un testamento, l’atto appare propedeutico a un viaggio e sappiamo, del resto, che il maestro sarebbe morto nel novembre 1420 a Palermo24. Dopo il ritiro dall’attività e la scomparsa di Arnau Bargues, architetto delle residenze di re Martino a Poblet e di Bernat Cabrera a Blanes25, Abiell era il professionista che vantava maggiore prestigio a Barcellona, la mole di attività e i cantieri che curava sono notevoli e risultano opportunamente elencati all’atto della celebre consulta del 1416 a Girona. Abiell era anche il maestro che primo aveva usato le volte ‘de rajola’ a Barcellona

e questa sua esperienza potrebbe essere stata determinante per suscitare l’interesse del Cabrera, mentre lo spostamento del maestro a Palermo alla fine del 1420 si spiegherebbe con l’attesa dell’arrivo del suo committente e di re Alfonso, reduci dalla guerra in Sardegna (la flotta reale sarebbe giunta a Palermo nel gennaio 1421). Con buona certezza i mattoni dovettero essere importati dagli opifici del Regno d’Aragona, lo stesso vale per le preziose maioliche dei pavimenti (sicuramente valenciane), oggi purtroppo scomparse26. Le trifore, ritrovate in frammenti e ricostruite nei recenti restauri, appartengono al modello sintetico che appare nascere ancora tra XIV e XV secolo nel palazzo della Generalitat di Barcellona e noto come ‘finestra coronella’. Sebbene gli indizi siano, in questo caso, tenui c’è un ulteriore ipotesi che va vagliata. A Malta (Pozzallo è l’approdo siciliano più prossimo all’isola) e nell’entroterra della Contea di Modica è possibile rintracciare un certo numero di costru-

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Le informazioni sono desumibili dai conti di spesa di Caterina Llull i Çabastida: “Les despesses yo fiu en la torre del Pusallo quant se adoba lo solar quant fou caygut […]. Per adobar lo sostre de la dita torre […] CL taules venesians e 22 traus”; G.T. Colesanti, Caterina Llull i Çabastida, una mercantessa catalana nella Sicilia del ‘400, tesis doctoral, Universitat de Girona, 2005, p. 545. Il dato è riportato parzialmente anche in: M. Vindigni, I Cabrera conti di Modica, tra Catalogna e Sicilia, 1392-1480, Torino 2008. 28 Sulla torre Ventimiglia: E. Lesnes, Montelepre, in Castelli Medievali in Sicilia. Guida agli itinerari castellani dell’isola, Palermo 2001, pp. 335-336; S. Farinella, I Ventimiglia. Castelli e dimore di Sicilia, Caltanissetta 2007, pp. 220-224; V. Giostra, La Torre Ventimiglia a Montelepre tra storia e restauro, in Il castello di Misilmeri. Origine, storia, restauro, riqualificazione, atti della giornata di studio (Misilmeri, 24 novembre 2005), a cura di A. Mazzè, M.R. Nobile, Palermo 2007, pp. 8288; M.R. Nobile, La torre Ventimiglia a Montelepre, in Alla corte dei Ventimiglia. Storia e committenza artistica, atti del convegno (Geraci Siculo, Gangi, 27-28 giugno 2009), a cura di G. Antista, Geraci Siculo 2009, pp. 117-121. 27

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zioni ascrivibili al XVI secolo e caratterizzate da una merlatura a scaletta. Questi esempi sparsi in un’area concentrata presuppongono l’esistenza di un prototipo scomparso. In Sicilia l’episodio più antico è quello del palazzo Ciampoli a Taormina (probabilmente realizzato tra fine XV e inizi XVI secolo) ma per spiegare il successo del modello nella Contea di Modica e a Malta si può ipotizzare una terminazione simile nella torre di Pozzallo. La merlatura a scaletta era del resto comune in Catalogna e caratterizzava la residenza di Bernat Cabrera a Blanes. Riassumendo: la torre di Pozzallo possiede un evidente carattere residenziale: crociere con chiavi araldiche, pavimenti preziosi, stanze luminose, apertura con grandi trifore sul paesaggio e sul mare. Inizialmente la torre doveva essere certamente provvista di un terrazzo terminale (nei documenti siciliani: “astraco”), ma forse la difficoltà a proteggere dall’umidità le sale dell’ultimo piano, e probabilmente

il crollo di una delle crociere suggerirono, in un secondo momento, tra 1474 e 1475, la costruzione di un solaio ligneo e di un tetto27. Per Bernat Cabrera, la conquista del paesaggio, seguita alla sanguinosa conquista dell’isola, si accompagnava a una esibizione di simboli che possiamo definire “coloniali” e la sua residenza mostrava contemporaneamente l’adesione a codici locali e una più radicale estraneità nella scelta dei dettagli. Elementi costruttivi, materiali, elementi di rifinitura si sommano quindi a una struttura tradizionale, ma anche sul fronte della distribuzione interna non tutto è scontato o privo di interesse. La residenza è organizzata su tre livelli, gli ultimi due separati da un setto intermedio e suddivisi in sale coperte da serie di tre crociere ciascuna. Si accedeva direttamente al secondo livello da una scala esterna e i collegamenti interni avvenivano con scale a chiocciola e a rampa ricavate nello spessore murario esterno. La medesima conformazione degli spazi inter-


Fig. 5 Torre Cabrera, Pozzallo (Ragusa). Interno (foto M.M. Bares) Fig. 6 Torre Cabrera, Pozzallo (Ragusa). Volte (attr. Guillem Abiell)

“Pera mayor declaraçom de como entendo que devemos das cousas sentimento virtuosamente en consiiro no coraçom de cada huũ de nos cynco casas, assy ordenadas como costumam Senhores. Prymeira, salla em quem entram todollos do seu Senhorio, que omyzyados nom som, e assy os estrangeiros que a ella querem viir. Segunda, camara de paramento, ou antecamara, em quem costumam estar seus moradores, e alguũs otros notavees do reyno. Terceyra, camara de dormyr, que os mayores e mais chegados de casa devem aver entrada. Quarta, trescamara, onde se costumam vestir, que pera mais speciaaes pessoas, pera ello perteecentes, se devem apropriar. Quinta, oratório, em que os Senhores soos alguas vezes cada dia he bem de se apartarem pêra rezar, leer per boos livros, e pensarem virtuosos cuidados”. Leal conselheiro, o qual fez Dom Duarte […], Paris 1854 p. 390 (stampa di manoscritto del secolo XV a cura del Visconde de Santarem). Ho tratto questo suggerimento a partire dal testo di J.C. Vieira Da Silva, Il Tardogotico nell’architettura civile portoghese (XV-XVI secolo), in L’architettura del Tardogotico in Europa, atti del seminario internazionale (Milano, Politecnico, 21-23 febbraio 1994), a cura di C. Caraffa, M.C. Loi, Milano 1995, pp. 191-197. 30 Può essere interessante notare come una suddivisione analoga degli spazi si riscontra nella casa di Don Miguel Lucas de Iranzo a Jaen in Andalusia (dal 1459). Si vedano le interessanti osservazioni di F. Marías, Arquitectura y vida cotidiana en los palacios nobiliares españoles del siglo XVI, in Architecture et vie sociale l’ organisation intérieure des grandes demeures à la fin du Moyen Age et à la Renaissance, actes du colloque (Tours, 6-10 juin 1988), édité par J. Guillaume, Paris 1994, pp. 167-180. 29

ni si ritrova in un’altra costruzione, realizzata solo qualche decennio dopo. Nel 1433 l’arcivescovo di Monreale Giovanni Ventimiglia (in carica dal 1408 al 1449) richiese al sovrano licenza per la costruzione di una torre nel feudo di Munkilebbi (attuale Montelepre) che aveva acquisito alcuni anni prima28 (figg. 7-8). Appare possibile che non si trattasse di una autorizzazione a costruire, ma di una sorta di sanatoria dal momento che l’anno successivo il re vi venne ospitato (a quanto pare tra il giugno e il novembre 1434). Una permanenza così estesa, che fonti e storiografia fanno coincidere con una lunga stagione di caccia, inducono a ritenere che la corte abbia scelto questa residenza per l’intera estate del 1434 e se ne può dedurre che il livello di comfort richiesto fosse adeguato agli standard del sovrano. La torre è un parallelepipedo di 21,40x17,00 metri, alto circa 28 metri e si stagliava alle pendici di un costone che dominava il golfo di Castellammare. All’ultimo livello sono visibili un camino, dotato di una piattabanda di dimensioni considerevoli, e una nicchia dotata di un portale (con un gusto tradizionalista), che certamente identifica una cappella (fig. 9). Riassumendo, le torri di Pozzallo e di Montelepre possiedono un pianoterra dove sono allocati servizi (dispense, cucine, stalle, alloggi per la servitù), due saloni al primo piano che sono direttamente accessibili dall’esterno, due ulteriori stanze al piano superiore, forse a loro volta sud-

divise per rispondere ad esigenze più intime e familiari (locali per pranzi privati, camera da letto, spogliatoio, cappella). In occasioni precedenti si è fatto notare come la descrizione offerta da Don Duarte, re del Portogallo, nel Leal Conselheiro di una residenza tipica dei primi anni del Quattrocento, appare sovrapponibile allo schema distributivo individuato29; la consonanza tra l’etichetta aristocratica e l’uso degli spazi in due torri della Sicilia del primo Quattrocento e una descrizione coeva di un ipotetico palazzo signorile portoghese non fa altro che dimostrare la veloce sedimentazione comune di usi e di costumi, nell’ambito del gotico mediterraneo30. Per un terzo caso, quello della torre Speciale a Ficarazzi, presso Palermo, possediamo più completi dati documentari. Si sarà notato che il limite maggiore delle due residenze citate è costituito dai collegamenti verticali. Piccole e claustrofobiche scale a chiocciola o a rampa rettilinea erano inserite negli spessori murari, dovendo consentire un accesso sino al solaio del terrazzo. Perché la scala acquisti un ruolo differente all’interno di strutture multipiano sarà necessario valicare la metà del XV secolo. Nel 1468 il pretore della città di Palermo Pietro Speciale ingaggiava il maestro Perusino de Jordano da Cava dei Tirreni per la realizzazione di una residenza-torre nel feudo di Ficarazzi, dove aveva impiantato una coltivazione di canna da zucchero. Si trattava ancora di un edificio a tre livelli, con terrazza terminale e

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Ville e residenze extraurbane del Quattrocento a Palermo e in Sicilia Marco Rosario Nobile

31 Documento segnalato in G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI: memorie storiche e documenti, Palermo 1880-83, I, p. 24, nota 2, è stato trascritto in A. Palazzolo, La torre di Pietro Speciale a Ficarazzi, Palermo 1987, pp. 27-34. M.M. Bares. Le scale elicoidali con vuoto centrale: tradizioni costruttive del val di Noto nel Settecento, in Le scale in pietra a vista nel Mediterraneo, a cura di G. Antista, M.M. Bares, Palermo 2013, pp. 73-97. 32 Su Sagrera: G. Alomar, Guillem Sagrera y la arquitectura gótica del siglo XV, Barcelona 1970; J. Domenge i Mesquida, Guillem Sagrera, in Gli ultimi indipendenti… cit., pp. 58-93. 33 Questa è la definizione di Alonso de Vandelvira, si veda: J.C. Palacios Gonzalo, Trazas y Cortes de Cantería en el Renacimiento Español, Madrid 20032, pp. 156-161. 34 I resti di una scala di questo tipo erano osservabili sino a qualche anno fa nella torre di Pozzallo, forse la prova di una integrazione tardoquattrocentesca. Dopo essere stata integralmente ricostruita, la scala è stata inspiegabilmente rimossa durante il corso degli ultimi restauri. Si vedano: G. Agnello, Le torri costiere di Siracusa nella lotta anticorsara,“Archivio Storico Siracusano”, IX, 1963, pp. 21-60; X, 1964, pp. 40-50; Nobile, La torre Cabrera a Pozzallo cit., pp. 17-38.

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un setto divisorio interno per consentire l’appoggio di costoloni per volte a crociera. La torre esiste ancora, sebbene abbia subito modifiche e integrazioni ma è il meticoloso documento di obbligazione che offre maggiori spunti. Nell’atto, de Jordano si impegnava a costruire un edificio multipiano – simile ai casi citati di Pozzallo e di Montelepre – collegato verticalmente da una scala a chiocciola di prepotente novità. Il passaggio in questione merita di essere riportato integralmente: “Item se farrà uno giragiru pi sagliri a la ditta turri in quali serrà di lu fundamentu zoè di lu solu di la rocchetta ed ad una di li cantoneri seu agnuni di ditta turri et ascendirà sino a lu astracu superiuri e havirà suo cappellu supra lu astracu predittu e serrà apertu in burduni come quelli di la sala grandi di lu castellu novu di Napoli e havirà porti corrispondenti tutti tri li dammusi mizagni et astraco superiori e tutti altri aperturi necessarii per usu e lustru di lu garagolu predittum […]”31. Il riferimento alla celebre

scala del Castelnuovo di Napoli, realizzata pochi anni prima da Guillem Sagrera32 individua un sensazionale caso di pressoché immediato trasferimento e di sub-diramazione di un modello. Il maestro maiorchino aveva infatti imposto a Napoli, in forme monumentali, la scala “a occhio aperto”, più comoda e luminosa rispetto a quelle consuete con bastone centrale, che aveva precedentemente sperimentato nella Loggia di Mallorca (una struttura che, non a caso, a partire dal XVI secolo, in ambito iberico verrà definita ‘caracol de mallorca’)33. Selezionare il modello e replicarlo non individua solo una opzione formale, ma cela anche l’ossequio indiretto al prestigio di una fabbrica moderna da parte di un committente che era stato testimone diretto delle imprese costruttive promosse dal sovrano. Quanto accade nella torre di Pietro Speciale non costituisce comunque un caso isolato34. Gli anni del Regno di Alfonso il Magnanimo hanno contribuito ad accelerare le relazioni


Fig. 7 Torre Ventimiglia, Montelepre (Palermo). 1430 ca. (foto V. Giostra) Fig. 8 Torre Ventimiglia, Montelepre (Palermo). Interno (foto V. Giostra)

interne alle città legate alla corona d’Aragona, a determinare modelli di azione e di gusto che una parte della committenza aristocratica di corte ha recepito con tempestività. All’indomani della morte del sovrano nel 1458 sono numerosi gli artefici – scultori rinascimentali e maestri costruttori gotici, seguendo una suddivisione di ruoli e di competenze che ci appare ancora oggi evidente – che trovano un approdo sicuro nelle città siciliane. Così la fortuna del modello del Castelnuovo di Napoli appare in qualche modo immediata e manifesta. Un esempio è la nuova cinta bastionata del castello dei Moncada ad Adrano, costruita nella seconda metà del XV secolo e che negli angoli a cuspide delle torri ricalca in buona misura la struttura articolata di quelle del Castelnuovo di Napoli35. La scala a “occhio aperto”, che si accingeva a diventare uno dei manifesti della capacità stereotomica locale, ebbe immediate ulteriori applicazioni. A Castellammare del Golfo, una torre di più antica datazione, posizionata sul mare come quella dei Cabrera a Pozzallo, venne completata inserendo un moderno corpo scala, una chiocciola di dimensioni autorevoli, che raggiungeva la terrazza e si concludeva con un’altra manifestazione di sapienza geometrica (fig. 10): un portalino con terminazione mistilinea obliqua e a unico blocco (seguendo una delle singolari convenzioni del gotico mediterraneo, a partire dagli esempi elaborati a Valencia alla metà del secolo, dove i caracol de Mallorca si accompagnano sovente ai portali obliqui o en esvjae). In assenza di fonti e di documentazioni non è semplice individuare gli ambiti cronologici e gli attori coinvolti, ma forse esiste una traccia percorribile che anticiperebbe di qualche decennio le date più accreditate36. Il complesso fortificato di Castellammare è stato oggetto di rifacimenti (questi certamente ben documentati) nella prima metà del Cinquecento37. Si conservano comunque i resti di tre archivolti di finestre con

una decorazione flamboyant a fondo cieco (fig. 11), che forse arricchivano un salone, rivolto verso il mare e con buona certezza possono far parte della stessa campagna di lavori della scala a chiocciola. Gli stemmi araldici presenti nei frammenti indicano come promotori le famiglie dei Luna e degli Alliata, e a questo punto si potrebbe ipotizzare una committenza di Carlo Luna e della consorte Giulia Alliata (sposati certamente nel 1482)38. Le date (ultimo quarto del XV secolo) potrebbero mettere agevolmente in gioco alcuni tra i più autorevoli maestri presenti a Palermo negli stessi anni, in particolare Jacopo Bonfanti da Trapani e il tedesco Giovanni de Grassi, autori della costruzione del palazzo Plaia di Vatticani, che possiede inserti molto simili a quelli descritti39, o il maiorchino Joan de Casada, coinvolto nei primi anni Novanta a palazzo Abatellis (dove c’è un portale obliquo e dove sino ai bombardamenti del 1943 esisteva

E. Garofalo, F. Scaduto, Fortified Palaces in Early Modern Sicily: Models, Image Strategy, Functions, in Investigating and writing architectural history: subjects, methodologies an frontiers, papers from the third EAHN international meeting (Turin, Italy, 19-21 june 2014), edited by M. Rosso, Turin 2014, pp. 35-47. Probabilmente è Giovanni Tommaso Moncada (1461-1501) il committente di questa parte della fabbrica. 36 Si veda la scheda di G. Antista, Castellammare del Golfo. La scala a chiocciola e il portale obliquo nel castello, in La Stereotomia in Sicilia e nel Mediterraneo: guida al museo di palazzo La Rocca a Ragusa Ibla, a cura di M.R. Nobile, Palermo 2013, pp. 59-61. Antista propende per una datazione vicina al 1530. 37 M. Vesco, Città nuove fortificate in Sicilia nel primo Cinquecento: Castellammare del Golfo, Capaci, Carlentini, in Il tesoro delle città, “Strenna dell’Associazione Storia della Città”, VI, 2008-2010 (Roma 2011), pp. 504-520. Nel cantiere sono presenti i maestri Nicola de Castellis e Stefano de Alesio, in questi anni si costruisce una “sala nova”. 38 M.A. Russo, Beatrice Rosso Spatafora e i Luna (XV secolo), “Mediterranea. Ricerche Storiche”, VIII, 2011, 23, pp. 427466: 455. Le date di costruzione potrebbero anche essere più precoci e coinvolgere altri attori se si tengono in conto i dati offerti dal De Spucches che segnala il passaggio dell’investitura del feudo dai Luna agli Alliata tra 1468 e 1472. In questa occasione l’acquirente Gerardo Alliata rimborsò al conte Carlo de Luna una significativa cifra per lavori intrapresi nel castello (F. San Martino De Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia […], II, Palermo 1925, pp. 363-364). 39 Meli, Matteo… cit., pp. 266-267 doc. 81; M. Vesco, Palazzo Plaia di Vatticani, in Palermo e il gotico, a cura di E. Garofalo, M.R. Nobile, Palermo 2007, pp. 83-90. 35

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Fig. 9 Torre Ventimiglia, Montelepre (Palermo). Sala con camino: le crociere sono crollate nel XVI secolo (foto V. Giostra) pagina a fronte Fig. 10 Torre Alliata, Castellammare del Golfo (Trapani). Scala a occhio aperto, seconda metà del XV secolo Fig. 11 Torre Alliata, Castellammare del Golfo (Trapani). Resti di un finestra con decorazione flamboyant a traforo cieco.

Colesanti, Caterina Llull i Çabastida… cit. Si veda quanto accade per esempio a Pozzallo: P. Nifosì, La torre Cabrera a Pozzallo: da palazzo a fortezza, “Lexicon. Storie e Architettura in Sicilia e nel Mediterraneo”, 16, 2013 (numero monografico: Architettura civile in età moderna tra Sicilia e Malta), pp. 75-78. 42 Rimando al contributo di: F. Scaduto, Carlo V e la città di Alcamo, “Lexicon. Storie e Architettura in Sicilia e nel Mediterraneo”, 14-15, 2012, pp. 33-48, nota 9. 43 Il castello di Pietraperzia diviene residenza dei Barresi allorché nel 1472 i proprietari vi trasferirono la propria dimora, gli interventi maggiori che contemplavano nuove sale, scale, porte e finestre preziose e bizzarre e una fontana sono tuttavia degli anni Venti del XVI secolo. Si veda F. Scibilia, La committenza dei Barresi nel castello di Pietraperzia: la trasformazione della fabbrica in palazzo residenziale nel primo Cinquecento, “Lexicon. Storie e Architettura in Sicilia e nel Mediterraneo”, 9, 2009, pp. 23-36. 44 Per le intrinseche caratteristiche difensive, il modello della struttura a torre sopravvisse anche nei secoli successivi e non sono rari gli episodi di persistenza o di riconfigurazione. Si veda il saggio di M. Giuffrè, La catastrofe e la memoria: il Medioevo in Val di Noto dopo il 1693, in Presenze medievali nell’architettura di età moderna e contemporanea, atti del congresso (Roma, 7-9 giugno 1995), a cura di G. Simoncini, Milano 1997, pp. 227-234. 40 41

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una grande scala a occhio aperto) e successivamente negli intagli delle finestre del vescovado. Conclusioni L’immagine complessiva delle residenze extraurbane della Sicilia del Quattrocento appare in buona parte estranea al coevo ambito del centro e nord Italia. Problematiche, qui come in altre manifestazioni, appaiono le definizioni stilistiche, in un ambiente dove le novità più apprezzate sembrano piuttosto le conquiste tecniche e la sapienza geometrica applicata alla stereotomia. Le abitudini e le architetture non si prestano a delineare premesse al trionfo del classicismo o ad anticipare modelli che giungeranno nell’isola solo in date successive; altrettanto vago e approssimativo appare oggi il riferimento al ‘gotico catalano’, una etichetta che per lungo tempo ha contraddistinto quanto si costruisce nel Meridione d’Italia e nelle isole lungo il Quattrocento. L’ozio, la meditazione, la contemplazione, l’amore per i giardini, il paesaggio e il tempo libero probabilmente sono sempre esistiti e immaginare da questi presupposti delle cornici architettoniche perfettamente convenienti e identificabili, costituisce una forzatura. Così come accade nella vita, non c’è necessariamente incompatibilità con residenze che assorbono anche altre mansioni. La residenza sul mare – nel porto di Brucoli, presso Siracusa – del governatore della Camera Reginale (anni Sessanta del XV secolo) Johan Çabastida de Hostalrich e poi della sua consorte Caterina Llull potrebbe apparire una delle tante struttu-

re fortificate se le ricerche di Gemma Colesanti non avessero messo in luce la qualità di vita e gli interessi mondani di una mercantessa del Quattrocento40. Per molte strutture la conversione da residenza privata a edificio difensivo appare generalizzata e sono certamente le differenti condizioni del Mediterraneo nel XVI secolo che hanno comportato radicali mutazioni nelle torri collocate sul mare41, rendendone complicata la decifrazione dei caratteri originali, ma il problema storiografico della conservazione e dello stato attuale delle fabbriche investe una casistica ancora più ampia. Che caratteri possedeva la torre con baglio dei Sanclemente a Inici, recentemente crollata, nella quale il 31 agosto 1535 alloggiava l’imperatore Carlo V, prima del suo ingresso ad Alcamo? I resoconti parlano di “una casa de campo y recreo llamada Innichy” e la delizia dei boschi e degli oliveti del posto venne fissata da poeti e cronisti42. In che modo potremmo ancora valutare la residenza dei Barresi a Pietraperzia, riconfigurata nel corso del primo quarto del Cinquecento43, e che raccoglieva uno studio con una eccezionale biblioteca e ricche collezioni artistiche? Gli inventari, in questo caso, restituiscono la complessità distributiva di una residenza di corte che ha pochi paralleli nel resto dell’isola. Certamente le connessioni verticali con il locale passato medievale sono preponderanti, mentre il circuito di relazioni che la committenza instaura appartiene a un ambito geografico mediterraneo sovranazionale e sovente legato alle iniziative della corte. Nelle torri siciliane del Quattrocento si addensano le trame di una storia in grado di assorbire, senza traumi eclatanti, le tradizioni e le suggestioni locali44, affiancandole tuttavia a segni di appartenenza al mondo aragonese, alle sue retoriche rappresentative, ai suoi criteri residenziali e ai suoi cerimoniali.


Ville e residenze extraurbane del Quattrocento a Palermo e in Sicilia Marco Rosario Nobile

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Francesco Ceccarelli

San Martino in Soverzano, da insediamento fortificato a villa rinascimentale

Some of the most important country residences of the Bolognese nobility, which can be found in the area between Bologna, the river Reno and the province of Ferrara, often evolved in the 15th century from previous small fortified settlements. In Egnazio Danti’s book of drawings, which he produced in 1578 for what was later to become the Gallery of Maps of the Vatican, what is striking is the permanence of the fortified nature of the settlements, something that had, however, already been considered as indispensable for life in a villa by Pier de’ Crescenzi in the early 14th century. The disappearance of many of the buildings has not allowed as yet the writing of a satisfactory history of the original pre-renaissance villa settlements, nor the carrying out of a proper census of them in the region. From this point of view, the complex at San Martino in Soverzano represents a particularly significant case for establishing a first well-documented interpretative framework on the phenomenon of pre-renaissance country manors in the province of Bologna. Se prestiamo ascolto alla prima descrizione corografica della pianura bolognese che verso la metà del Quattrocento Biondo Flavio ci propone nella sua Italia Illustrata, possiamo cogliere il ritratto di un contado fertile e produttivo, ma soprattutto incardinato su di un fitto reticolo di insediamenti umani. In particolare, “quel territorio, ch’è tra il Reno, Padusa e Bologna, e molto pieno di terre, ville e castella, come è Podio di Lambertini, Prospero de Paltesi, Venantio, Galleria, Peretulo, Centhio e Plebeio”1. Nel suo breve elenco di “terre ville e castella”, l’umanista forlivese prende significativamente in considerazione i centri demici posti ai confini settentrionali del territorio diocesano e che costellano i confini con il Ferrarese, disposti ai lembi di quelle zone ancora largamente impaludate che coincidevano con le bassure di “Padusa”. Accanto a Cento e alla Pieve, vengono ricordati Poggio Renatico, San Venanzio, San Prospero e Galliera, dunque le principali comunità attestate nel cosiddetto Saltopiano2, il comprensorio più settentrionale del contado che, una volta pienamente riconquistato alla sfera di dominio della città di Bologna, avrebbe assunto un’importanza crescente, sia in termini produttivi che politico-strategici durante il Tre-Quattrocento, creando le condizioni anche per la realizzazione di importanti nuclei edificati secondo originali principi architettonici. È proprio in quest’area di pianura dagli ampi orizzonti e solcata da numerose vie d’acqua naturali e artificiali che, fin dalla prima metà del

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Quattrocento possiamo rintracciare alcune delle principali residenze signorili di campagna del patriziato cittadino, spesso generate a partire da piccoli insediamenti fortificati (torri o case-forti) che vennero poi lentamente trasformati, con incessanti opere di ampliamento e miglioria, in confortevoli residenze rinascimentali, pur conservando ampie tracce delle più antiche strutture di fondazione e delle contemporanee opere difensive. Ne possiamo riconoscere l’eterogeneo catalogo delle forme nel libro di disegni che Egnazio Danti produsse oltre cent’anni dopo la descrizione di Biondo, nel 1578, in occasione di una campagna di rilevamento propedeutica all’impresa gregoriana della tavola della Bononiensis Ditio nella Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano3. Più di cento schizzi prospettici illustrano altrettanti palazzi, ville e chiese del contado, offrendoci una documentazione visiva di eccezionale importanza per valutare distesamente e senza pregiudizi il fenomeno della residenza signorile di campagna in uno dei territori agricoli più estesamente insediati e produttivi dell’Italia settentrionale. Come è stato recentemente sottolineato, con riferimento a quest’opera, “la varietà di forme che si riscontra in queste residenze della campagna bolognese è sconcertante, non rispecchiando quell’immagine ordinata che siamo soliti associare alla ‘villa’“4 ma rivelando piuttosto, in tutta la sua evidenza, il grado di complessità dei tanti nodi interpretativi ancora irrisolti. In particolare è la permanenza esteriore dei

caratteri fortificati dell’insediamento a colpire l’osservatore, immancabilmente sorpreso dalle numerose torri, dai recinti merlati e dalle muraglie scarpate, oppure dallo scarso impiego degli ordini architettonici e di altre raffinate soluzioni ‘all’antica’ che lo spingerebbero sbrigativamente a confinare questi edifici rilevati nel secondo Cinquecento in un orizzonte oramai anacronistico e culturalmente poco aggiornato. Viceversa, come vedremo oltre, si tratta piuttosto di scelte ben consapevoli operate da una committenza per nulla ‘disimpegnata’, anzi fermamente convinta delle proprie scelte formali e ideologiche, più ancorate a un radicato quadro di riferimento neofeudale che disponibili a sperimentalismi architettonici poco condivisi e tuttavia saltuariamente praticati. In via preliminare, si potrebbe sostenere che la particolare organizzazione degli spazi del paesaggio nel territorio bolognese di pianura, assieme a una prima, embrionale concezione del ‘moderno’ vivere in villa, andrebbe fatta risalire agli albori del Trecento, quando proprio a Bologna nasce il primo e più famoso trattato di agricoltura del Medioevo, l’Opus ruralium commodorum di Pier De’ Crescenzi destinato a una larghissima fortuna in tutta Europa grazie ai numerosi volgarizzamenti e alle tante riedizioni5. È proprio l’agronomo bolognese, con questa sua moderna enciclopedia pratica, il primo a teorizzare un ritorno ai piaceri della campagna (ruralia commoda), per godere dei quali anche l’organizzazione fisica dell’insediamento deve


San Martino in Soverzano, da insediamento fortificato a villa rinascimentale Francesco Ceccarelli

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San Martino in Soverzano, da insediamento fortificato a villa rinascimentale Francesco Ceccarelli pagina 111 Fig. 1 Castello di San Martino in Soverzano (Bologna). Capitello ionico del cortile, metà del XV secolo (foto L. Rossi). Fig. 2 Piero De’ Crescenzi, De agricultura istoriato, Venezia 1504, frontespizio. pagina a fronte Fig. 3 Castello di San Martino in Soverzano (Bologna). Veduta aerea (foto L. Rossi).

1 B. Flavio, Roma ristaurata et Italia illustrata di Biondo da Forlì tradotte in buona lingua volgare per Lucio Fauno, Venezia 1543, cc. 145v-146r. 2 In particolare si veda A. Cianciosi, L’insediamento medievale tra storia e archeologia: dal Saltopiano al vicariato di Galliera (IX-XIV secolo), tesi di dottorato, Università di Bologna, 2008. 3 Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna (d’ora in poi BCAB), ms. Gozzadini 171: Dissegni di alcune prospettive di Palazzi, Ville e Chiese del Bolognese fatti nel tempo del Sig.r Cardinal Paleotti Arcivescovo di Bologna, 1578. I disegni sono riprodotti in Ville, castelli e chiese bolognesi: da un libro di disegni del Cinquecento, a cura di M. Fanti, Sala Bolognese 19962. Sul manoscritto si veda anche S. Bettini, scheda n. 139, in Andrea Palladio e la villa veneta. Da Petrarca a Carlo Scarpa, a cura di G. Beltramini, H. Burns, Venezia 2005, pp. 398-399. 4 H. Burns, La villa italiana del Rinascimento. Forme e funzioni delle residenze di campagna, dal castello alla villa palladiana, Costabissara 2012, p. 15. 5 Sull’Opus ruralium commodorum (Liber cultus ruris) del De’ Crescenzi, scritto nel primo decennio del Trecento, diffuso in forma manoscritta nei due secoli successivi e infine fatto circolare a stampa in molteplici edizioni per tutta l’età moderna a partire dalla editio princeps del 1471, cfr. Pier De’ Crescenzi, 1233-1321. Studi e documenti, a cura di T. Alfonsi, Bologna 1933; P. Toubert, Crescenzi, Pietro De’, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXX, Roma 1984. 6 Per una compiuta discussione sul tema si rinvia a M. Miglio, Pier De’ Crescenzi. Organizzare gli spazi del paesaggio: utilitas e delectatio, in Testi agronomici d’area emiliana e Rinascimento europeo: la cultura agraria fra letteratura e scienza da Pier De’ Crescenzi a Filippo Re, a cura di L. Avellini, R. Finzi, L. Quaquarelli, atti del convegno internazionale di studi (Bologna, 31 maggio-1 giugno 2007), I, Bologna 2007, pp. 107122. 7 Ivi, p. 113. 8 Sul castello di San Martino in Soverzano si vedano ora i due volumi: Il castello di San Martino in Soverzano, I (La storia e le famiglie), a cura di M. Fanti, Bologna 2013 e F. Ceccarelli, N. Aksamija, Il castello di San Martino in Soverzano, II (Architettura, arte e mitologia familiare nel contado bolognese), Bologna 2013.

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fare la sua parte, coniugando funzionalità ed estetica in funzione di delectatio e utilitas6. La particolare organizzazione spaziale della villa che ne consegue dovrà tenere conto di una razionale disposizione delle diverse componenti fisiche dell’insediamento rurale (fig. 2) e seguire accorgimenti pratici ricorrenti, che si riallacciano alle consuetudini della tradizione locale e ad alcuni principi mutuati dai principali autori classici e medievali di agricoltura, da Columella e Varrone a Isidoro di Siviglia e Giordano Ruffo. De’ Crescenzi non entra nel dettaglio delle soluzioni formali arrestandosi alla soglia delle disposizioni generali per migliorare sia le condizioni della produzione che quelle dell’abitare in villa. In particolare, per quest’ultimo fine, egli si raccomanda soprattutto che “securitas et delectatio dominorum requirit in villis habitationis fortitudinem et decorem”7 ovvero che la tranquillità e il piacere dei signori trovino un saldo fondamento a partire dalla sicurezza e dal decoro dell’abitazione, una prescrizione generale dettata sia dallo stato di permanente insicurezza delle campagne, sia dalle esigenze della rappresentatività sociale e che permarrà valida nel

Bolognese per un arco di tempo ultracentenario. La scomparsa di molti edifici dell’epoca, soprattutto residenziali, sia per effetto di radicali demolizioni che a causa delle incessanti trasformazioni subite nel corso dei secoli, non ha finora permesso di scrivere una soddisfacente storia di questi originari nuclei insediativi di villa protorinascimentali e tantomeno di censirne adeguatamente le presenze sul territorio. Fanno tuttavia eccezione alcune rare fabbriche di eccezionale interesse che, per essere giunte fino a noi in condizioni particolarmente buone o per essere documentate da un ricco materiale archivistico, si prestano ad essere analizzate come significativi esempi di studio per la storia dell’architettura. In questa prospettiva, il complesso monumentale di San Martino in Soverzano, localizzato nei pressi di Budrio e al centro di quel distretto più settentrionale del contado bolognese già descritto da Biondo Flavio, può essere individuato come un caso particolarmente significativo e utile anche per disporre di un primo quadro interpretativo ben documentato sul fenomeno della residenza signorile protorinascimentale di campagna nel bolognese.


La residenza fortificata di San Martino in Soverzano Situato in un’area tra le più fertili della pianura irrigua, a breve distanza da Budrio e Minerbio, il castello di San Martino in Soverzano è senz’altro uno dei complessi architettonici più interessanti e meglio conservati del contado bolognese (fig. 3). Ritenuto troppo ben conservato per essere ‘vero’, ha scontato a lungo il pregiudizio di coloro che lo vorrebbero catalogare come l’opera di un falsario, quasi fosse l’ambiguo prodotto in pietra delle visioni ideologiche, per non dire fantastiche, di un pugno di esteti di fine Ottocento. In particolare la circostanza che si trattasse del primo edificio su cui Alfonso Rubbiani aveva rivolto la sua attività di ‘restauratore’, poteva suonare quasi come un certificato di manipolazione aggravata8. Alla luce delle ricerche più recenti possiamo viceversa affermare che l’intero complesso di edifici monumentali, e in particolare la monumentale rocca “in isola”, non è stato affatto ‘sterilizzato’ dagli interventi tardottocenteschi, quanto piuttosto riconsegnato alla modernità dopo essere stato riletto nelle sue vicende costruttive alla luce di una precoce coscienza storico-critica e per effetto

di misurati interventi reintegrativi che non alterarono significativamente la struttura dell’edificio. Fondato dagli Ariosti durante il XIV secolo e poi posseduto per oltre tre secoli dai Manzoli, il minuscolo castello di San Martino ha preservato una destinazione residenziale per tutta l’età moderna e contemporanea che ha certamente contribuito a non stravolgere l’organizzazione spaziale interna, mantenendo pressoché inalterate le partizioni tra i diversi ambienti domestici stabilite a più riprese nel corso del Quattrocento e Cinquecento. Più in generale, tutto l’organismo architettonico appare oggi come il risultato di una lenta opera di sedimentazione materiale e stilistica solo in parte depurata dei rimaneggiamenti compiuti negli anni Ottanta dell’Ottocento da Tito Azzolini dietro istruzioni di Alfonso Rubbiani e Corrado Ricci9.

9 Sui restauri al castello tra 1883 e 1885 si veda: A. Rubbiani, Notizie intorno all’architettura del castello di San Martino sopra Zena, detto dei Manzoli – Descrizione del medesimo e dei restauri eseguitivi negli anni 1883-84-85, in Il castello di S. Martino sopra Zena. Descrizione e storia, Bologna 1885, pp. 5-8. Si veda anche G. Cavallari, Il castello di S. Martino sopra Zena, “L’Italia Artistica Illustrata”, IV, 1886, 4. Per la attività di Rubbiani in questo contesto si rinvia a F. Ceccarelli, Memorie storiche per una “villeggiatura fortificata”. Alfonso Rubbiani a San Martino in Soverzano, in The Gordian Knot. Studi offerti a Richard Schofield, a cura di M. Basso, J. Gritti, O. Lanzarini, Roma 2014, pp. 297-304.

Il nucleo monumentale della rocca, dominato dall’alta torre portaia innestata sul prospetto meridionale del corpo di fabbrica quadrangolare a un solo piano, incorpora le strutture materiali più antiche, sulle cui origini si possono solo fare alcune ipotesi cronologiche, da tempo oggetto di analisi e discussione storiografica. Sul tema del-

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San Martino in Soverzano, da insediamento fortificato a villa rinascimentale Francesco Ceccarelli

10 F. Cavazza, Il castello di San Martino in Soverzano e i suoi antichi signori, Bologna 1937. 11 Cfr. Rubbiani, Notizie… cit. e G. Giordani, Memorie storiche riguardanti il castello di San Martino in Soverzano volgarmente appellato de’ Manzoli, “Almanacco Statistico Bolognese”, 8, 1837, pp. 162-195. 12 Si veda nota n. 28. 13 BCAB, Fondo Speciale Ariosti, Istrumenti, b.1, n. 31 e ivi, Sommario per ordine di cronologia de documenti della nobile casa Ariosti dall’anno 1133 all’anno 1599, tomo I, p. 17. 14 F. Cazzola, Galliera tra medioevo ed età moderna: la terra e gli uomini, in Una terra di confine: storia e archeologia di Galliera nel Medioevo, a cura di P. Galetti, Bologna 2007, p. 221. 15 A. Benati, Il sistema difensivo bolognese lungo il confine medievale con il Ferrarese, “Strenna Storica Bolognese”, 39, 1989, pp. 29-49; Cianciosi, L’insediamento… cit., p. 187 e note 384387. 16 R. Dondarini, La «Descriptio civitatis Bononie eiusque comitatus» del cardinale Anglico (1371). Introduzione ed edizione critica, in Documenti e studi della Deputazione di storia patria per le province di Romagna, XXIV, Bologna 1990, p. 88. 17 C. Ghirardacci, Della historia di Bologna, II, Bologna 1657, p. 429.

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le origini del complesso si interrogarono infatti sia Francesco Cavazza, nel suo articolato saggio del 193710, sia prima di lui Alfonso Rubbiani e Gaetano Giordani11, che fondarono gran parte delle proprie valutazioni sui testi manoscritti riguardanti il castello elaborati da Giovan Battista Bombello nella seconda metà del XVI secolo12. Le più antiche attestazioni documentarie riguardanti la presenza di strutture monumentali a San Martino risalgono alla prima metà del XIV secolo, quando nel testamento di Giacomo di Bonifacio di Tommaso Ariosti del 19 febbraio del 1336, si fa menzione di una “casa e torre” nel comune di San Martino in Soverzano13. Questi edifici, di cui ci sfugge sia la consistenza materiale, sia la precisa localizzazione topografica, si trovavano all’interno di un’area di pianura largamente controllata dagli Ariosti fin dalla fine del XII secolo, quando la famiglia, originaria di Riosto, nell’Appennino bolognese, incrementò il patrimonio fondiario e trasferì una parte dei propri investimenti dalle alture collinari verso la bassa pianura, ai confini con il Ferrarese, contribuendo a sviluppare un’area fino ad allora solo parzialmente sfruttata. La comunità di San Martino in Soverzano, analogamente a quelle di San Vincenzo, San Venanzio, San Prospero o Galliera, si era andata via via consolidando nel corso del tardo Medioevo come centro agricolo grazie alla fertilità dei terreni creati dalle esondazioni dei torrenti appenninici che ne solcavano il territorio. Si trattava di un’area coincidente con la fascia settentrionale dell’antico confine diocesano e che, pur essendo al centro di un territorio largamente instabile e ai margini delle selve e delle paludi che dominavano le bassure al confine con il Ferrarese, richiamava interessi e investimenti nell’agricoltura, oltre naturalmente ad attirare l’attenzione di malfattori e grassatori di ogni risma14. Anche per questo, e dunque allo scopo di mettere al riparo le comunità dalle costanti minacce

incombenti, oltre a tutelare le principali vie d’acqua di pianura, vennero edificate diverse torri di difesa al confine tra Ferrara e Bologna, tra cui vanno ricordate la torre dell’Uccellino (1242), la torre Verga (1297), la torre dei Cavalli (1301), la torre di Molinella, la torre Canoli, la torre di Galliera e la torre di Cocenno nel Bolognese, oltre alla torre del Fondo, nel Ferrarese, già documentata nel 129315. La torre degli Ariosti faceva parte di questo sistema difensivo e si attestava a tutela di un nucleo demico, quello di San Martino in Soverzano, la cui consistenza, al 1371, viene documentata pari a 21 famiglie16. Il termine castello, con riferimento a San Martino in Soverzano, appare invece molto più tardi. Una prima volta nel 1386, quando veniamo a sapere che Dinadano di Masolino Ariosti abitava nel “castello di San Martino” e una seconda volta quattro anni dopo, nel 1390, quando lo stesso castello di San Martino venne requisito dal Comune di Bologna a Francesco Ariosti per impiegarlo contro Gian Galeazzo Visconti17. Se la sua esistenza è dunque attestata almeno a partire dall’ottavo decennio del Trecento, la sua organizzazione fisica è per la prima volta precisata in un atto di compravendita tra Francesco di Giacomo Ariosti e suo nipote Bonifacio di Rinaldo datato 20 maggio 1394 e oggi noto grazie a un ‘transunto’ settecentesco, in cui si fornisce la descrizione di un “Castello, o sia fortezza denominata il Castello di San Martino di Soverzano fornito di porte, ponte, fosse, case etc. con una pezza di terra unita a detto Castello quale ha una casa grande, e due piccole, colombara, teggia etc. con quattro medaglie di canella di tornature 119 1/5. Item una possessione di terra arrativa prativa etc con casa di tornature 89 1/3 il tutto per lo prezzo di L. 6200”18. A distanza di quasi sessant’anni dalla prima e incerta notizia su di una “casa e torre” degli Ariosti nel territorio di San Martino, a fine Trecento il sito appare pertanto insediato da una strut-


Fig. 4 Planimetria del castello di San Martino in Soverzano (disegno di E. Aprile). Si noti l’orientamento diverso della torre portaia e del suo avancorpo rispetto al recinto perimetrale.

tura fortificata di una certa complessità, che ruota attorno a un solido nucleo che sembra riferirsi a una rocca (al cui interno sono “case”) circondata da un fossato e integrato da edifici rurali: tre case, una torre colombaia, un fienile (“teggia”) e quattro capanne in canna di palude (“medati”) al servizio del lavoro dei campi. Questo castello sembrerebbe essersi dunque sviluppato prima del 1386, agglutinandosi attorno alla torre più antica in un processo di crescita di cui non è al momento possibile definire in dettaglio i modi e i tempi. Tra gli antefatti più ragguardevoli al costituirsi del nuovo insediamento, si possono solo immaginare gli impegnativi interventi idraulici per intercettare l’acqua dal canale di Zena (o del Gombito), a sua volta derivato dal corso del Savena, abbandonato allo scopo di alimentare le fosse del castello e del mulino poco più a nord, oltre alle cospicue forniture di materiali da costruzione per innalzare le strutture della fortezza. A seguito di questi lavori la torre preesistente fu integrata all’interno di un nuovo recinto, il cui perimetro tuttavia non rispettò i più antichi allineamenti, come si può evincere ancora oggi dallo scarto planimetrico, un sensibile disassamento, tra l’impianto della torre (adattata come torre portaia) e quello delle più tarde murature adiacenti (fig. 4). Osservando sempre lo sviluppo planimetrico odierno della rocca si può notare anche un notevole ispessimento delle murature in corrispondenza delle pareti esterne dell’edificio all’angolo nord-orientale del suo perimetro. Questo scarto dimensionale piuttosto evidente rispetto allo spessore costante delle altre pareti della cortina muraria della rocca, potrebbe essere motivato dal reimpiego parziale delle strutture di un più antico edificio residenziale (forse i muri di una delle “case” citate dal documento del 1394), inglobato al momento della realizzazione del perimetro della rocca e poi ridefinito in una fase costruttiva più tarda. Va

notata anche la notevole larghezza delle fosse, oltre 20 metri di larghezza, confrontabili per dimensioni e complessità del sistema idraulico con quelle di alcuni tra i più ragguardevoli edifici tardomedievali delle signorie basso padane, come il castello bentivolesco di Ponte Poledrano o quello estense di San Michele a Ferrara. La scarna descrizione notarile del 1394 non consente di tradurre in immagini nitide l’elenco di quei beni architettonici, ma ci assicura dell’esistenza di una fortezza murata di una certa importanza che probabilmente aveva molti tratti in comune con altri castelli di pianura edificati negli stessi decenni nella fascia di confine tra Bologna e Ferrara. Ad esempio, la rocca di San Venanzio (oggi scomparsa ma documentata da numerose piante e schizzi sei-settecenteschi) che i Piatesi edificarono sempre nel corso del XIV secolo non lontano dal castrum di Galliera19, presentava un impianto molto simile a quello della rocca di San Martino (fig. 5), con ampie fosse, uno schema planimetrico regolare e di forma rettangolare con unico accesso da ponte levatoio, torre frontale e due torrette più basse disposte in posizione tergale. Anche le dimensioni in pianta delle due rocche sono pressoché coincidenti. Una configurazione talmente simile fa pensare quasi a una replica dello stesso modello insediativo trecentesco a poche miglia di distanza. Anche il castello di San Prospero (forse poco più di una casa forte con torre, circondata da fosse), posseduto sempre degli Ariosti nel corso del XIV secolo e localizzato a breve distanza da quello di San Venanzio, presentava elementi comparabili con quello

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18 BCAB, Fondo Speciale Ariosti, Sommario per ordine di cronologia… cit., tomo I, p. 47. 19 Sul castello di San Venanzio e quello di San Prospero cfr. Cianciosi, L’insediamento medievale… cit., p. 191. 20 Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi ASB), Memoriali, Provvisori, serie pergamenacea, n. 60, II semestre 1407, notaio Taddeo figlio di Nanni Mamellini, c. 6v. L’atto fu registrato il primo settembre. Citato in Cavazza, Il Castello di San Martino… cit., p. 18. 21 Ivi, p. 24. 22 Ibidem. 23 ASB, Archivio Bentivoglio Manzoli, b. 4, n. 25, Fede del Legato fatto da Bartolomeo Manzoli ad Alessandro Manzoli suo figlio nel suo testamento (…), 6 novembre 1430. Su questo documento cfr. P. Foschi, Il castello di San Martino in Soverzano dal Medioevo all’Ottocento, in Il castello di San Martino… cit., I, p. 57. 24 Ibidem.

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di Soverzano, almeno a giudicare dalla raffigurazione che Egnazio Danti fornisce nel 1578 (fig. 6). Come si è ricordato all’inizio di questo saggio, è senz’altro significativo che Biondo Flavio ricordi ambedue questi ultimi edifici, oggi scomparsi, nella sua Italia Illustrata, pur lasciando in ombra il nostro castello di San Martino. Quando Bonifacio di Rinaldo Ariosti decise di vendere il castello nel 1407 a Chiara Arrighi, probabilmente per spostare i suoi investimenti da Bologna a Ferrara, città in cui si era trasferito alla corte degli Este assieme a buona parte della sua famiglia, la struttura dell’insediamento non era probabilmente dissimile da quella delineata nel rogito di 13 anni prima. In questa recente occasione, però, il documento notarile è più dettagliato e parla di un: “castello de’ Sancto Martino in Suvrizano, cum turri, muris baldrischis, corritoriis, foveis, redefossis et quibuscumque domibus et hedificiis in dicto castro existentibus”20, soffermandosi maggiormente sulla struttura della rocca, che per la prima volta appare attrezzata di una torre, di bertesche, camminamenti di ronda (corritoriis), edifici, fosse e impianti idraulici (redefossis), lasciando emergere il profilo di una fortezza ben munita e soprattutto dall’impianto pressoché coincidente con quello odierno. Ai primi del Quattrocento quindi, Chiara Arrighi, che di lì a poco sarebbe diventata moglie di Bartolomeo Manzoli, acquistò dagli Ariosti, che per primi ne avevano disegnato l’impianto fortificato, uno dei castelli più importanti della bassa pianura bolognese, assicurando nel tempo ai discendenti suoi e del marito, il prestigio

sociale derivante da una residenza di stampo neofeudale e le cospicue entrate derivanti dalle proprietà agricole su quelle terre fertili. Per Bartolomeo di Melchione Manzoli, che ereditò metà dell’usufrutto del castello alla morte della moglie nel 1414 (l’altra metà era stata riservata al figlio Alessandro), il controllo del castello e la libertà di poterlo trasformare a suo piacimento in una residenza signorile extraurbana corrispose senz’altro a una tappa significativa di quella rapida arrampicata sociale che i Manzoli, una famiglia di commercianti e imprenditori tessili originaria di Cremona e trapiantata a Bologna, avevano tentato con successo nella città del Trecento. Soprattutto con Melchione il Vecchio, padre di Bartolomeo, le fortune della famiglia avevano letteralmente preso il volo e quello che per i suoi membri, soltanto alla metà del Trecento, era ancora un profilo sociale da nouveaux riches, a fine secolo poteva ben dirsi oramai accompagnato da attributi e comportamenti tipici di un casato di lungo corso. Il possesso di un castello così rilevante e per giunta al centro di una vasta proprietà fondiaria equivaleva senz’altro alla conquista di uno status symbol di prima grandezza. Già pochi anni dopo l’acquisto del castello da parte della moglie, Bartolomeo Manzoli, in qualità di usufruttuario della metà del bene, dovette affrontare importanti lavori edilizi nel castello di San Martino. Fu Francesco Cavazza, per primo, a formulare questa ipotesi sulla base del ritrovamento di due iscrizioni, notate al momento dei restauri di fine Ottocento (e oggi scomparse), che riportavano la data 1411 e che a suo dire


San Martino in Soverzano, da insediamento fortificato a villa rinascimentale Francesco Ceccarelli Fig. 5. E. Danti, San Martino dei Manzuoli, 1578 (Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna, ms. Gozzadini 171, n. 49)

si trovavano l’una incisa a sgraffito su intonaco all’interno di una casamatta e l’altra dipinta in rosso all’esterno della torre e “precisamente sotto la bertesca del mezzo”21. Per Cavazza, queste testimonianze grafiche erano il suggello di un ben più ampio e complessivo intervento di restauro e ampliamento del castello che Bartolomeo avrebbe intrapreso, a suo dire “facendo costruire le bertesche che formano l’elegante mazza della torre, e così pure le due torri agli angoli sud-est e sud-ovest e le casematte, due agli altri angoli del castello ed altre due nel mezzo dei lati di levante e di ponente”22. A questi interventi strutturali si doveva aggiungere inoltre la realizzazione della totalità delle merlature a coda di rondine di coronamento e il fregio laterizio a losanghe con i colori araldici dei Manzoli (bianco, rosso e nero) che circonda l’intero edificio (fig. 7). A Bartolomeo, pertanto, Cavazza attribuiva una trasformazione radicale del castello degli Ariosti che avrebbe comportato l’assetto volumetrico e formale ancor oggi riconoscibile

e che non fu più alterato, almeno nei prospetti esterni, se non molto limitatamente e nei secoli successivi, mantenendo nel tempo quell’aspetto fortificato che ancora oggi lo contraddistingue. Questa interpretazione si appoggia anche su di una lettura estensiva di un articolo molto significativo del testamento del 6 novembre 1430, con cui Bartolomeo lasciava i suoi beni al figlio Alessandro e, in particolare, per quanto ci interessa, il castello di San Martino “cum omnibus et singulis bonis rebus massaritiis et monitionibus, bombardis et balistis ad illud spectantibus et in eo existentibus”23. Nel testamento, infatti, Bartolomeo precisava che in questi beni erano incluse anche le migliorie che egli vi aveva apportato, dispensando il figlio dalle relative spese, effettuate “pro reparationibus, augmentationibus et seu novis edificii castri”24. Dal momento che l’entità di questi restauri (reparationibus), accrescimenti e innovazioni non è specificata nel documento, si possono solo formulare delle congetture al proposito. Per Cavazza, come

pagina a fronte Fig. 5 Il castello di San Venanzio in un cabreo settecentesco della famiglia Piatesi (Biblioteca d’Arte e di Storia di San Giorgio in Poggiale di Bologna). Fig. 6 E. Danti, San Martino dei Manzuoli, 1578 (Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna, ms. Gozzadini 171, n. 49). in alto Fig. 7 P. Poppi, Prospetti est e sud del castello di San Martino in Soverzano dopo i restauri di Alfonso Rubbiani, 1885 ca. (Biblioteca d’Arte e di Storia di San Giorgio in Poggiale di Bologna).

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Fig. 8 Villa Rossi, Pontecchio Marconi (Bologna).Veduta da ovest. pagina a fronte Fig. 9 Castello di San Martino in Soverzano (Bologna). Cortile, metà del XV secolo (foto L. Rossi).

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si è già visto, si trattava soprattutto di interventi di adeguamento ossidionale, come torri, bertesche o merlature; mentre curiosamente egli non contemplava l’ipotesi che le fortificazioni del castello potessero essere state in gran parte già completate nella fase costruttiva tardotrecentesca ad opera degli Ariosti e che gli interventi del Manzoli si concentrassero piuttosto all’interno della rocca e dunque nella direzione del riordinamento di quelle “case” citate nel rogito del 1394. È infatti probabile che lo scopo dei lavori di Bartolomeo, senza escludere che naturalmente potessero in parte indirizzarsi anche ad aggiornare l’apparato difensivo, fosse proprio quello di trasformare la struttura fortificata degli Ariosti nella confortevole residenza extraurbana di un facoltoso mercante alla ricerca di remunerative rendite fondiarie e desideroso di svagarsi con saltuarie partite di caccia e di pesca, sul modello di quanto si andava affermando proprio negli stessi decenni nelle castalderie e nelle ‘delizie’ estensi, ovvero nelle residenze di villeggiatura del confinante mondo ferrarese25. Grazie ai recenti ritrovamenti archivistici di Pier Luigi Perazzini sappiamo inoltre che, sempre ai

primi del Quattrocento, Bartolomeo Manzoli era entrato in possesso anche di un’altra importante proprietà fondiaria nel Bolognese, a Pontecchio, lungo la valle del Reno. Si trattava di un piccolo centro paleoindustriale che ruotava attorno a mulini e ad altri impianti produttivi, cui erano annessi vasti edifici che sembrerebbero coincidere con il nucleo originario di quella che a fine Quattrocento diventerà la grandiosa villa dei Rossi a Pontecchio (fig. 8) e di cui finora si era supposta una prima fase di edificazione senz’altro più tarda. Bartolomeo Manzoli, alla cui committenza vanno comunque ascritti anche numerosi interventi nel palazzo urbano lungo la via San Donato, risulterebbe in tal caso non solo uno dei più facoltosi esponenti del patriziato cittadino, ma anche colui che disponeva di due complessi edilizi e produttivi tra i più rappresentativi dell’intero contado bolognese. La cessione ai Rossi della proprietà di Pontecchio nel 1451 avrebbe poi certamente permesso ai suoi eredi di riconvertire parte di quelle nuove risorse nell’abbellimento della rocca di San Martino, attraverso alcuni importanti interventi di riqualificazione architettonica degli spazi interni.


San Martino in Soverzano, da insediamento fortificato a villa rinascimentale Francesco Ceccarelli Fig. 7. Villa Rossi, Pontecchio (Bologna)

Il processo di miglioramento residenziale della rocca si sviluppò infatti lungo tutto il corso del Quattrocento, interessando gli ambienti che si affacciavano sul cortile interno rettangolare e culminò con la costruzione del loggiato ionico aperto su tre lati dell’invaso, di datazione incerta, ma probabilmente risalente alla seconda metà del secolo (fig. 9). Francesco Cavazza lo ritiene, con certezza, compiuto “circa la metà del secolo XV”26, ma non riporta alcun documento a sostegno della sua tesi. Questo arioso portico su volte a crociera è ritmato da arcate a sesto lievemente ribassato sostenute da colonne con il fusto in laterizio, basi e capitelli in arenaria di Montovolo ben conservati, che documentano l’impiego, molto raro in ambito bolognese, dell’ordine ionico in un’architettura quattrocentesca. I dodici capitelli, ciascuno dei quali presenta sottili differenze formali e buona qualità esecutiva nella fattura di dettaglio, non sembrano rifacimenti più tardi o addirittura copie realizzate durante i lavori di restauro coordinati da Alfonso Rubbiani, ma paiono risalire alla trasformazione rinascimentale del cortile condotta mediante l’impiego di un

linguaggio architettonico raffinato ed erudito. L’altezza del loggiato (vincolata a sua volta da quella delle cortine esterne) condizionò le proporzioni delle colonne, con il risultato di ridurre lo sviluppo verticale del fusto a soli 6,5 diametri e di accentuare la larghezza dell’intercolumnio (soluzione frequente nell’edilizia tardoquattrocentesca bolognese), mentre la sovrastante cornice a dentelli e gli archivolti modellati in terracotta a tre fasce dimostrano una matura comprensione della sintassi dell’ordine classico da parte dell’ignoto progettista e degli altrettanto anonimi esecutori. Dei capitelli in arenaria, uno solo (che peraltro appare differente dagli altri anche per il più modesto stato di conservazione) è intagliato in forme più compiutamente classiche (fig. 1), con echino a ovoli e dardi e balaustrino decorato da foglie d’acanto. Gli altri esemplari mostrano una struttura semplificata e di fattura più rozza, con il canale della voluta scavato in profondità da mani diverse e non sempre esperte, astragalo a fusarole e balaustrino stilizzato in forma di pergamena accartocciata con balteo disegnato a linea spezzata. Tutti i capitelli inoltre sono caratterizzati da un alto collarino liscio e da un echino

25 Vedi M. Folin, Le residenze di corte e il sistema delle delizie fra Medioevo ed età moderna, in Delizie estensi. Architetture di villa nel rinascimento italiano ed europeo, a cura di F. Ceccarelli, M. Folin, Firenze 2009, pp. 79-135 e M.T. Sambin de Norcen, Le ville di Leonello d’Este. Ferrara e le sue campagne agli albori dell’età moderna, Venezia 2012. 26 Cavazza, Il Castello di San Martino… cit., p. 26.

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San Martino in Soverzano, da insediamento fortificato a villa rinascimentale Francesco Ceccarelli

27 F. Martinelli, Planimetria della rocca di San Martino in Soverzano, prima metà del XVII sec., in ASB, Periti Agrimensori, 30, c. 214v. 28 Siamo a conoscenza della esistenza di tre manoscritti di Giovan Battista Bombello dedicati al Castello di San Martino, scritti rispettivamente nel 1577, 1578 e 1585 e solo parzialmente pubblicati; Francesco Cavazza fu l’ultimo a poterli esaminare tutti e tre per il suo studio sul castello (Cavazza, Il castello di San Martino… cit., p. 3). Oggi sono rintracciabili solo i due manoscritti del 1577 e 1585, conservati presso la Biblioteca Universitaria di Bologna (d’ora in poi BUB), mentre la copia del 1578, già presente nell’archivio privato Bevilacqua (Bologna), è al momento dispersa. Il manoscritto del 1577 (BUB, ms. 312) porta il titolo: Breve descrittione dello sito et archittetura del castello di San Martino delli Ill.ri S.ri conti Marchione, Allesandro e Giorgio Mangioli. Una prima trascrizione integrale del manoscritto è in Giordani, Memorie storiche… cit., pp. 196-235. 29 Sulla complessa sequenza degli interventi architettonici per restaurare l’edificio e trasformarlo compiutamente in una vera e propria villa della Controriforma, cfr. Ceccarelli, San Martino… cit., pp. 28-58 e N. Aksamija, Un encomio emblematico. Giovan Battista Bombello e le decorazioni rinascimentali del castello di San Martino in Soverzano, in Ceccarelli, Aksamija, Il castello di San Martino in Soverzano… cit., pp. 78-128. 30 Si tratta del Dialogo della villa e delle lodi del castello di San Martino de Sig.ri Conti Mangioli. Con un breve epilogo de’ fatti di Bologna del 1300 sino a questi tempi e della nobiltà della casa Mangiola (BUB, ms. 2059). Questo manoscritto, come pare lo fosse anche la versione del 1578 oggi dispersa, è dedicato alla contessa Lucrezia Guerrera da Rho ed è diviso in tre libri. Per una analisi del secondo libro, in cui si affronta il tema del Castello di San Martino in Soverzano come il “più honorato luogo” del contado e villa che sopravanza tutte le altre “delitie del Bolognese”, si rinvia a F. Ceccarelli, «Delitie» bolognesi. Identità e tradizione nel Dialogo della Villa di Giovan Battista Bombello (1585), in Architettura e identità locali, a cura di H. Burns, M. Mussolin, II, Firenze 2013, pp. 553-566.

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che mostra decorazioni sempre diverse: a ovoli e dardi, a corona di fogliette aguzze, a treccia, a fascio intrecciato, ecc. La base attica, anch’essa in arenaria, si eleva su di un sottile plinto di sezione ottagonale. Anche la vera da pozzo, sempre in arenaria scolpita con lo scudo dei Manzoli, le cui parti lapidee furono quasi certamente ripristinate nel corso dei lavori di fine Ottocento, fu forse inserita nel cortile durante la ristrutturazione di secondo Quattrocento, conservando nel tempo la posizione attuale, come si può notare anche al confronto con la più antica planimetria (fig. 10) del cortile di cui si può disporre27. Con la realizzazione di questi interventi quattrocenteschi all’interno della rocca, si raggiunse un misurato equilibrio tra l’involucro trecentesco e l’innovativa organizzazione planimetrica e distributiva degli interni, che si conserverà anche nel corso del Cinquecento, quando l’architettura di San Martino verrà particolarmente apprezzata proprio per la ben riuscita ibridazione tra le sue diverse componenti stilistiche. Durante il XVI secolo il castello diventerà centro direzionale di un distretto territoriale dotato di un’autonomia giurisdizionale relativamente ampia negli anni di Leone X, quando Melchione di Giorgio Manzoli fu infeudato (1514) della contea di San Martino in Soverzano attraverso una fastosa cerimonia che si svolse all’interno della “sala maggiore” del castello. Nella prima metà del secolo i comparti residenziali continuarono a sussistere, ma furono presto oggetto di fraziona-

menti patrimoniali (e probabilmente anche fisici) per effetto delle nuove assegnazioni ereditarie tra Manzoli e Bentivoglio, foriere di convivenze difficili che sarebbero poi sfociate in aperte liti attorno alla metà del secolo. Tra il 1560 e il 1571 il possesso esclusivo del castello venne minato dalle pretese dei diversi eredi che ne rivendicavano legittimamente il dominio ritagliandosi delle precise aree di pertinenza. Di conseguenza, all’interno della rocca si crearono due settori ben distinti: quello circoscritto alle stanze nella torre e nell’ala occidentale del cortile, controllato da Ulisse Bentivoglio Manzoli, e quello corrispondente all’ala orientale e a buona parte di quella settentrionale, presidiato dai tre figli di Ercole Manzoli oltre ai diversi annessi di servizio e ai terreni circostanti anch’essi distribuiti fra i due nuclei contendenti. La risoluzione della controversia, grazie al risolutivo impegno di Ugo Boncompagni (poi Gregorio XIII) e del cardinale Gabriele Paleotti (zio dei tre fratelli Manzoli) comportò il riaccorpamento patrimoniale delle diverse zone del castello sotto il pieno controllo dei Manzoli i quali, per riaffermarne l’avvenuto recupero, si dedicarono alla “instauratio” dello status quo, sostenendo, nei primi anni Settanta, una complessa campagna di lavori di restauro poi accuratamente descritti dal letterato bolognese Giovan Battista Bombello nel suo Breve discorso sopra il castello e pitture di San Martino, un libello del 1577 che si proponeva di celebrare per via ecfrastica l’edificio e la sua architettura28. Il testo encomiastico del Bombello registra gli ammodernamenti effettuati dai tre giovani Manzoli ampliando e rimodellando all’antica gli spazi interni alla rocca (con il rifacimento delle stanze, la redistribuzione dei percorsi sul cortile, la costruzione della cappella dedicata alla Vergine Maria e la realizzazione di un importante ciclo decorativo emblematico esteso anche a un vasto “giardino delle Esperidi”)29 per poi metterli a confronto con la mole medie-


San Martino in Soverzano, da insediamento fortificato a villa rinascimentale Francesco Ceccarelli Fig. 9. Castello di San Martino in Soverzano (Bologna). Capitello ionico del cortile, metà del XV secolo (foto L. Rossi).

vale dell’involucro esterno (fig. 11), apprezzato come “soda” espressione di una tradizione locale che si voleva continuare a mantenere ben viva. Grazie ai restauri compiuti e all’innesto molto misurato dei nuovi interventi architettonici, decorativi e topiari nell’organismo medievale, Bombello dà voce alle aspirazioni dei committenti, che possono così sia rivendicare una nobiltà ben radicata in un periodo storico remoto e leggendario, sia godere di ambienti sempre più confortevoli, aperti al buon vivere e attrezzati ad accogliere numerosi ospiti nelle sale ariose e decorate e nei bellissimi giardini. San Martino resta senz’altro un castello, almeno stando alle apparenze monumentali dell’esterno della rocca, che conserva l’immagine del maniero fortificato, ma al tempo stesso va considerato come una villa a pieno titolo, anzi la ‘più nobile’ di tutte le ville del Bolognese, proprio perché soddisfa in pieno le qualità più significative di quel modello insediativo ed è la cornice ideale per lo stile di vita ad esso sotteso. Nella versione più estesa del suo Breve Discorso, ossia nel Dialogo della Villa del 1585, il letterato inserisce la residenza di San Martino all’interno di una panoramica allargata all’intero insediamento di villa nel Bolognese, per sottolinearne l’originalità rispetto alle diverse abitazioni di campagna del patriziato locale ed elevarla a modello residenziale esemplare30. Questo elenco integra e potenzia, per via letteraria, le

informazioni fornite dal contemporaneo libro di disegni di Egnazio Danti e conferma l’eterogeneità delle scelte insediative, formali e in ultima analisi di gusto del patriziato bolognese di fine secolo. Oltre a sottolineare la scelta del sito, che si posiziona al vertice delle priorità nella scala dei valori ambientali di riferimento per la villa, nel manoscritto si continua a cogliere, anche nella descrizione di altri edifici, l’importanza attribuita alla facies neomedievaleggiante dei prospetti esterni (sottolineata sempre dalla presenza di merlature, torri e fossati) associata alla moderna disposizione degli ambienti interni per renderne più confortevole la fruizione. La villa-castello dei fratelli Manzuoli non è dunque un caso isolato nel paesaggio della campagna bolognese di fine Cinquecento, sempre più dominato da un’agricoltura altamente produttiva, remunerativa e nutrice della città, ma ancora infestata da mille problemi irrisolti, e in primo luogo dalla piaga del banditismo, contro cui si sarebbe impegnato profondamente sia Gregorio XIII che poi Sisto V. Il costante richiamo alla securitas, a cui si raccomandava già due secoli prima Pier De’ Crescenzi, e un certo atteggiamento neofeudale del patriziato locale, ebbero forse l’effetto di continuare a fare apprezzare, almeno nelle fasce più periferiche del contado e distanti dalla protezione della città, strutture castellane e motivi architettonici oramai antiquati senza che per questo diventassero desueti.

Fig. 11 Castello di San Martino in Soverzano (Bologna). Prospetto est (foto L. Rossi). pagina a fronte Fig. 10 F. Martinelli, Planimetria del piano terreno del castello di San Martino in Soverzano, XVII sec. (Archivio di Stato di Bologna, Periti Agrimensori, 30, c. 214 v).

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delizie degli eruditi

Alessandro Rinaldi

Vincigliata, un castello immaginario del Quattrocento The most picturesque and military-like configuration of the castle of Vincigliata near Florence – largely reproduced in the extended and rather poetic restoration endeavour that took place in the 19th century – is the result of an intervention of the Alessandri family (a branch of the Albizi family) that radically trasformed the previous “casa da signore” in a monumental fortified residence, an eloquent expression of the neo-feudal aspirations and mentality of the Florentine aristocracy of th 15th century. “Del vetusto edifizio, che fu degli Usimbardi/ e ch’ai Degli Alessandri passò in man più tardi,/ purtroppo rimanea poco meno che nulla;/ pochi cadenti ruderi su una montagna brulla!”. Ma grazie all’impegno del nuovo proprietario, il collezionista e mecenate inglese John Temple Leader, tra il 1855 e il 1860, il castello di Vincigliata torna in vita. La rinascita “fu il prodotto del Gusto più fine e più corretto,/ fu bramosia del Bello, fu intelletto d’Arte/ confortato da studi fatti su vecchie carte”1. Le vecchie carte evocate dai versi d’occasione sono quelle ritrovate dall’archivista Giovanni Baroni su commissione di Temple Leader allo scopo di offrire un fondamento certo, di carattere documentario, alla ricostruzione della fabbrica medievale2. Ancora una volta la carta d’archivio, insieme al reperto autentico e al lacerto architettonico originale, è chiamata a conferire “i colori del vero” alla libera riedizione moderna di un monumento. Come ogni romanzo storico, anche il restauro/ripristino del castello degli Albizi/ Alessandri si dipana dall’incipit di un “manoscritto trovato a Saragozza”3. Baroni ripercorre la storia dei passaggi della grande possessione agricola di Vincigliata, situata nella parte alta della valle del fiume Mensola, tra Maiano e Settignano, presso Firenze, e della sua residenza di riferimento nella fase cruciale del XIV secolo e pubblica i relativi atti4. Tra di essi quello del 7 giugno 1335 con il quale le proprietà di Barnaba di Bartolo Usimbardi vengono divise tra i due nipoti Niccolò, figlio di Giovanni di Bartolo, e Gregorio, figlio di Francesco di Bartolo. A ciascuno dei due cugini è assegnata una parte della residenza: “medietas pro indiviso cuiusdam resedii cum turre, curte, giardino, terra laborativa, puteo, e arboribus positum in populi Sancte Marie de Vincigliata comitatis Florentiae, loco dicto ala torre”5. Quella che emerge dal succinto profilo

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descrittivo sembra una tipica ‘casa con torre’ dove la torre appare come l’elemento qualificativo e sostanziale. La sua presenza deve essere stata tanto antica e autorevole da imprimersi nel toponimo, “loco dicto la torre”, e poi nel nome del podere adiacente, “de la torre”. Poco dopo, il 9 luglio, Niccolo Usimbardi si disfa dei beni di cui è appena entrato in possesso e li cede per 4060 fiorini a Paolo giudice, figlio di Decco di Ceffino da Figline6. Si tratta evidentemente di un acquisto fittizio. Il suo beneficiario effettivo è Simone Bonaccorsi, presente alla transizione in qualità di testimone, che il giorno successivo, il 10 luglio, il giudice Paolo di Decco si affretta a nominare procuratore per la gestione di tutta la proprietà7. La vera identità del protagonista di questa serie di transazioni è confermata dal successivo atto del 4 agosto con il quale Niccolò Usimbardi cede a Simone il patronato della chiesa di Santa Maria di Vincigliata, tradizionale prerogativa della famiglia, suggellando così il passaggio di tutta l’area sotto il controllo dei Buonaccorsi, sia sotto il profilo patrimoniale che ideale8. In occasione della vendita, per uno dei frequenti casi di eclissi temporanea a cui questo elemento macroscopico è misteriosamente soggetto (si pensi al caso della villa medicea del Trebbio), il termine torre scompare dallo spazio linguistico dell’enunciato (anche se la sua traccia resta impressa in maniera indelebile sul toponimo) “quidem resedium cum curia giardino terra laborativa et arboribus posita populo Sancte Marie de Vincigliata [...] loco dicto la torre”9. Torna però subito al centro della scena nel successivo atto di procura del 10 luglio con il quale “Alexjus rector ecclesie Sancte Marie qui ut ipse asseruit tenet turrim cum curte domibus et giardino”10. Ogni dubbio sul passaggio di proprietà ai Buonaccorsi

(e sull’esistenza della torre) è cancellato a posteriori dal contratto con il quale il 25 giugno del 1345, ormai in piena stagione fallimentare, la famiglia è costretta a disfarsi anche del possedimento di Vincigliata cedendolo a Niccolò di Ugo degli Albizi11. Nella casa da signore che compare nel contratto di vendita la parte residenziale sembra ridimensionata mentre appare cresciuto in proporzione inversa il peso della torre che non è più solo uno degli elementi che compongono l’enunciato ma il suo soggetto principale. “Turris cum domibus bassis, curia, logiis, giardinis et pergulis”12. La formula conferma, se ce ne fosse bisogno, che la torre non è mai venuta meno ma che intorno ad essa la fabbrica ha subito un declassamento almeno verbale e quello che era definito un “resedium”, una residenza, si è scomposto in un insieme di casupole in cui la funzione abitativa sembra essersi affievolita. I Buonaccorsi, con un atteggiamento proprio del ceto mercantile a cui appartengono, hanno evidentemente concentrato i loro sforzi finanziari e le loro ambizioni espressive sull’“habiturium magnum” di Querceto in costruzione in quegli stessi anni13 e hanno trascurato invece il nucleo turrito di Vincigliata, senza cogliere la possibilità di svilupparlo in una casa forte con cui suggellare il vasto possedimento agricolo accumulato nella valle del Mensola. Che è invece proprio ciò che faranno gli Albizi. O meglio gli Alessandri, poiché nel novembre 1372 i figli di Ugo di Niccolò degli Albizi, Alessandro e Bartolommeo, si dissociano dalla famiglia e dalla sua collocazione nei ranghi magnatizi e chiedono di essere iscritti tra i popolani, adottando il nuovo nome di Alessandri14. Come in tutti i casi di ‘desolidarizzazione’, di rottura della unità di una famiglia e di passaggio di campo politico-sociale di alcuni dei suoi membri, la manovra trasformistica è non già il segno di


Fig. 1 E. Burci, La corte del castello di Vincigliata, prima del restauro (disegno, proprietà privata).

un ripiegamento e di una resa, ma la spia della volontà di rafforzare la partecipazione attiva alla vita pubblica in una misura che i vincoli e i limiti imposti al ceto magnatizio a cui appartengono gli Albizi, non avrebbero consentito15. È probabile che questa strategia di rilancio di una parte del gruppo familiare abbia trovato la sua manifestazione visibile e la sua dichiarazione programmatica proprio nella ricostruzione di Vincigliata, tanto più giustificata dopo i danni subiti dall’edificio al seguito delle scorrerie di Giovanni Acuto nell’aprile del 136416. A differenza dei Buonaccorsi, il ramo popolano degli Alessandri intravede nel possedimento a cavaliere della valle del Mensola l’occasione per riaffermare la propria posizione politica e sociale instaurando alle soglie della città la parvenza di un dominio territoriale di carattere pseudofeudale che dovrà culminare nella ricostruzione dell’antico resedio nella forma di una aggiornata ‘casa forte’ dagli esuberanti tratti militareschi. Risulta però ridimensionata la torre, assorbita nel volume del nuovo corpo residenziale, come sembra di capire da un disegno dello stato ruderale del complesso, eseguito da Emilio de Fabris nel 1842 (fig. 2). La perdita di evidenza della torre trova conferma nella dichiarazione catastale (1427) di Niccolò di Ugo Alessandri in cui essa

non è nominata ed emergono invece, tra gli aspetti più appariscenti della moderna casa forte, il nuovo antemurale e la merlatura del “palagio dassignore”, termine questo che probabilmente segna la maggiore dignità e personalità architettonica acquistata dalla residenza, finora designata dal plurale “domis”, “domibus”. “Un palagio dassignore merlato chon volte sotterra, antemura et chon orto e vignia intorno al detto palagio [...] posto nel popolo di Santa Maria a Vincigliata luogho detto la torre”17. Gli elementi dell’enunciato catastale sono avvalorati e completati dalle numerose vedute ottocentesche del complesso in rovina18. La torre è scomparsa e al posto delle “domus bassae” è sorto il recinto altissimo di un cassero merlato, costellato di caditoie e bertesche, circondato all’esterno dalle cortine dell’antemurale19. All’interno il lato nord-orientale è occupato dal nucleo residenziale, una “casa alta” di almeno tre piani che ha inglobato la torre e che si raccoglie sull’angolo nord in un corpo irregolare e massiccio leggermente più elevato del recinto che chiude il cortile. È saldamente agganciato al terreno da una “volta sotterra”20, un attributo inconsueto negli edifici più antichi, per lo più poco o malamente scavati, che accresce la salubrità e la solidità della struttura e dimostra che tutto il “palagio” è stato

costruito ex novo con criteri moderni e sofisticati. La residenza è accessibile attraverso una scala esterna a una rampa che immette su un ballatoio a sporto che a sua volta disimpegna gli ambienti del primo piano. Dall’altro lato un portico a due campate con pilastri ottagoni e capitelli a foglie d’acqua era probabilmente sovrastato da una loggia o verone sobriamente aperto verso l’esterno da due grandi finestre, una sul lato di nord-ovest e una su quello adiacente di sud-est. La sovrastruttura era raggiungibile dal pianerottolo della scala esterna con un ponte ligneo poi sostituito da un passetto su unghie di cui sono visibili le tracce nel disegno di Emilio Burci che raffigura il cortile prima degli interventi moderni (fig. 1). La ‘casa forte’ si conferma ancora una volta come un prodotto cronologicamente maturo, espressione delle ambizioni politiche e delle aspirazioni neocavalleresche di un gruppo sociale emergente. La formula residenziale che in questo frangente tra Tre-Quattrocento si viene consolidando insieme al suo ceto di riferimento, prevede una pittoresca moltiplicazione degli elementi difensivi, bertesche, merli, torrette, che vengono distribuiti secondo un canovaccio compositivo fatto di calcolate asimmetrie, sbalzi di quota, movimenti di masse,

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Delizie degli eruditi Alessandro Rinaldi

Fig. 2 E. De Fabris, Il castello di Vincigliata in rovina (disegno, 1842, proprietà privata).

dove sull’esercizio attivo della forza prevale la sua evocazione o dimostrazione. Lo stereotipo del ‘castello medievale’ che dopo un

lungo intermittente percorso carsico raggiunge il filone dell’architettura e della letteratura neogotica tra Sette e Ottocento, sembra già abbozzato nel

modello della casa forte tre-quattrocentesca21 e il moderno revival neomedievale appare preceduto e preparato da quello neocavalleresco di quattro secoli prima. Così che le parole con cui Marcotti riconosce il carattere immaginario del castello di Temple Leader e la sua appartenenza alla sfera visionaria e desiderativa del sogno, avrebbero potuto essere fatte proprie, paradossalmente, da Niccolò di Ugo degli Albizi e dai suoi figli: “Castello è una parola che ha fatto palpitare tutte le giovani fantasie [...]. Chi è di noi che almeno una volta non abbia sognato il castello? [...]. Ma dopo averlo incontrato in tanti romanzi, dopo averlo visto tante volte dipinto [...] si finisce spesso per non crederci più. E anch’io non ci credevo più, quando un bel giorno Vincigliata mi rivelò la realtà di quei sogni: avevo finalmente dinnanzi un castello”22.

Ringrazio Veronica Vestri per la consulenza paleografica e Lorenzo Tanzini per aver discusso con me la questione intricata dei passaggi di proprietà del possedimento di Vincigliata. 1 E. Vecchietti, Al signor commendatore Giovanni Temple Leader nel giorno del suo onomastico, Firenze 1894, p. 5. 2 La personalità e l’opera di John Temple Leader è ricostruita esemplarmente in F. Baldry, John Temple Leader e il castello di Vincigliata: un episodio di restauro e di collezionismo nella Firenze dell’Ottocento, Firenze 1997, dove prevale l’interesse per l’arredo plastico e la decorazione pittorica del nuovo edificio in relazione al gusto collezionistico del committente. 3 È il topos comune a molta narrativa romantica, dal Manoscritto trovato a Saragozza di J. Potocki ai Promessi sposi. Per un excursus sul tema: C. Povolo, Il romanziere e l’archivista: da un processo veneziano del ’600 all’anonimo manoscritto dei Promessi sposi, Venezia 1993. 4 G. Baroni, Il castello di Vincigliata e i suoi contorni, Firenze 1871. 5 ASF, Notarile Antecosimiano, 18530, c. 25v, notaio Salvi Dini, 7 giugno 1335; pubblicato in Baroni, Il castello di Vincigliata… cit., doc. III, pp. IX-XXX. 6 ASF, Notarile Antecosimiano, 18530, c. 41r, notaio Salvi Dini, 9 luglio 1335; pubblicato in Baroni, Il castello di Vincigliata… cit., doc. IV, pp. XXXI-LXIII. 7 ASF, Notarile Antecosimiano, 18530, c. 42r, notaio Salvi Dini, 9 luglio 1335; pubblicato in Baroni, Il castello di Vincigliata… cit., doc. IV, pp. XXXI-LXIII. 8 ASF, Notarile Antecosimiano, 18530, c. 25v, notaio Salvi Dini, 4 agosto 1335; pubblicato in Baroni, Il castello di Vincigliata… cit., doc. V, pp. LXVI-LXIX. 9 ASF, Notarile Antecosimiano, 18530, c. 41r, notaio Salvi

Dini, 9 luglio 1335; pubblicato in Baroni, Il castello di Vincigliata… cit., doc. IV, p. XXXII. 10 ASF, Notarile Antecosimiano, 18530, c. 42r, notaio Salvi Dini, 10 luglio 1335; pubblicato in Baroni, Il castello di Vincigliata… cit., doc. IV, p. XXXII. 11 ASF, Notarile Antecosimiano, 18534, c. 41v; notaio Salvi Dini, 25 giugno 1345; pubblicato in Baroni, Il castello di Vincigliata… cit., p. 8, nota 8. 12 ASF, Notarile Antecosimiano, 18534, c. 41v. 13 Sull’habiturium magnum di Querceto si veda il mio contributo in questo fascicolo. 14 Un breve cenno alla proprietà di Vincigliata in G. Dumon, Les Albizzi: histoire et généalogie d’une famille à Florence et en Provence du onzième siècle à nos jours, s.l. 1977, p. 23. 15 C. Klapisch-Zuber, Ritorno alla politica. I magnati fiorentini 1340-1440, Roma 2009, pp. 301-303. 16 W. Caffero, John Hawkwood. An english mercenary in fourteenth century Italy, Baltimore 2006, pp. 105-106. La notizia delle distruzioni subite dal castello è comunque priva di base documentaria ed è attestata solo dalla tradizione come si legge in una nota di J. Temple Leader, G. Marcotti, Giovanni Acuto (Sir John Hawkwood). Storia d’un condottiere, Firenze 1889, p. 14. È possibile che l’intervento di ricostruzione sia da assegnare ai primi del sec. XV, in corrispondenza di una fase di ristrutturazione e di consolidamento del possesso di Vincigliata, ampliato e sottoposto a fidecomisso nel 1399 da Ugo figlio di Bartolommeo (Baroni, Il castello di Vincigliata… cit., pp. 8-9). Ai primi del Quattrocento i due figli di Ugo, Niccolò e Alessandro, finanziano il restauro della chiesa di Santa Maria a Vincigliata e la costruzione del campanile (Baroni, Il castello di Vincigliata… cit., p. 9).

ASF, Catasto, 80, c. 75v (1427). Sulla iconografia dei ruderi, F. Baldry, John Temple Leader… cit., pp. 32-33. Ai bei disegni di Burci, De Fabris, Fattori, Moricci si aggiungono le piccole incisioni a corredo del volume di Baroni, ricavate in parte dai disegni noti di Burci e De Fabris, in parte da altri che sono evidentemente andati perduti. Le immagini dello stato ruderale dimostrano che l’assetto quattrocentesco del complesso nel corso degli anni successivi era rimasto intatto o non aveva subito modifiche significative. 19 Non mi sembra che possa costituire una prova del contrario la dichiarazione resa il 7 dicembre 1857 a Temple Leader dal vignaiolo G. Battista Merlazzi, e “copiata fedelmente” da Marcotti (G. Marcotti, Vincigliata, Firenze 1879, pp. 8-9): “e attempo di Babbo era nesere anco la torre quando fu levato la tetoja rovino le mura”, dove probabilmente con il termine “torre” ci si riferisce a quanto restava dell’antica struttura difensiva ormai inglobata e pareggiata in altezza dal nuovo corpo di fabbrica della residenza. La torre, ingrediente indispensabile dell’imagerie del castello medievale, verrà ricostruita ex novo nella versione moderna di Vincigliata. 20 La volta, sopravvissuta nell’edificio ruderizzato, è documentata in una vignetta del volume di Baroni, Il castello di Vincigliata… cit., p. 13. 21 Per la fortuna dell’architettura medievale in età barocca: Presenze medievali nell’architettura di età moderna e contemporanea, atti del 25 congresso di storia dell’architettura (Roma, 7-9 giugno 1995), a cura di G. Simoncini, Milano 1997. Per il fenomeno nell’ambito del genere della villa: A. Rinaldi, Architettura di villa e ‘invillanimento’ dell’architettura in Toscana tra XVII e XVIII secolo, in Firenze e il Granducato. Province di Grosseto, Livorno, Pisa, Pistoia, Prato, Siena, a cura di M. Bevilacqua, G.C. Romby, Roma 2007, pp. 129-158. 22 G. Marcotti, Vincigliata cit., pp. 5-7.

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Wolfgang Lippmann

Considerazioni sul tema del “Sommerhaus” nei castelli altoatesini e tirolesi: il diffondersi del concetto classico di amoenitas e di ‘villeggiatura’ al tempo di Massimiliano I d’Asburgo The term Sommerhaus often appears in Tirolese documents from the Fifteenth and Sixteenth centuries. It is used to identify a summer pavilion intended for leisure within a noble residential complex. Sommerhäuser were generally built in such a way that they enjoyed scenic views over the surrounding landscape. This feature probably derives from classical literary texts, especially from Pliny the Younger, well known in the Court of Maximilian I, and by the Emperor himself who, like Pliny, both commissioned architectural works and was an amateur architect. Nei documenti d’archivio di ambito tirolese troviamo più volte il termine “Sommerhaus” che in italiano significa “casa estiva” o, come vedremo, “padiglione estivo”1. Non appare del tutto chiaro che cosa si debba intendere per questo genere di edificio, finora poco studiato, anche se è evidente che non può essere sinonimo di ‘villa’ pur mostrando elementi tipici delle ville: in primis la funzione di luogo di svago e di villeggiatura, abbinato ad un’apertura verso la natura e la campagna circostante. Il termine “Sommerhaus” risale al Medioevo e ha un corrispondente latino, ovvero “palatium aestivali”, menzionato nel Chronicon Ebersbergense del secolo XII e definito già in precedenza da Aethicus con le seguenti parole: “habitatione in hortis constructa”2. Si tratterebbe perciò di un’architettura residenziale all’interno di un giardino, simile al “Lusthaus” tedesco, molto diffuso nei secc. XVI-XVIII, sia come luogo di svago che come casino di caccia principesco3. Esistevano anche analoghi edifici per gli ecclesiastici dall’impianto molto simile4; alcuni di essi presentano però una morfologia piuttosto inusuale come la cosiddetta “Moschee” (“moschea”) di Kremsmünster in Austria dell’abate Bonifaz Negele (1639-44) ossia un edificio di svago a copertura ottagonale, che sembra appunto una moschea (fig. 1)5.

Il termine “Sommerhaus” è ancora in uso nel Cinquecento come risulta ad esempio dai documenti sul castello di Vellenberg in Tirolo6, appartenuto all’imperatore Massimiliano I d’Asburgo (14931519), oggi pervenutoci allo stato di rudere. Questi documenti accennano all’esistenza di due “Sommerhäuser” all’interno delle mura. Si potrebbe pensare a una tipologia chiaramente definita ma proprio il caso di Vellenberg dimostra che non era così poiché, mentre una delle due “case estive” era addossata e collegata al castello, l’altra era isolata e ubicata sul terreno all’interno della doppia cinta muraria (fig. 3)7. Plausibilmente questo terreno in pendio era almeno in parte adibito a giardino come si evince da un incarico di Massimiliano trasmessoci in un documento: “noch einen hüpschen Lustgarten oben unter der negsten Voglhüttn [...] mit grüenen selbstgewachsen Gänngen, Penncken, Stiegen, auch Sumerhäuslen und anderm” (“ancora sopra un grazioso giardino segreto vicino all’uccelliera […] con una pergola coperta di piante verdi, panche, scalini e anche un piccolo Sommerhaus e altro”)8. Credo che in parte i “Sommerhäuser” fossero strutture lignee o a graticcio9, perciò di non facile conservazione (e dunque oggi scomparse senza lasciar traccia), simili agli ambienti che – prima della

sua distruzione – coronavano il castello di Aschaffenburg. Si trattava certamente di ambienti di svago, lontani dall’ufficialità e dalla vita di corte. Un “Sommerhaus” in buono stato di conservazione fa parte di Castel Roncolo (in tedesco “Schloss”, ossia residenza, Runckelstein), alle porte di Bolzano (fig. 2). Edificato nel Duecento, il castello ha subito ampliamenti, modifiche e restauri, in particolare nel tardo Trecento (1395-1400 ca.), quando venne aggiunta una nuova ala. In un documento del 1493 tale ala è denominata “Sommerhaus”, ma ciò non dimostra che fosse definita con tale termine fin dall’epoca della sua costruzione10. Essa non fa parte dell’originale nucleo abitativo e mostra caratteristiche molto particolari, sia nella struttura che nella decorazione pittorica. A pianterreno si apre una grande loggia, scandita da monumentali arcate a tutto sesto, adatta per ricevimenti e banchetti11. Il piano superiore è caratterizzato da una balconata lignea, sulla quale affaccia un appartamento riccamente affrescato con personaggi storici, biblici e anche mitici come Alessandro il Grande, Giulio Cesare, Carlo il Grande, Goffredo di Buglione, re Artù e Parsifal. Si è voluto interpretare l’edificio come un luogo di raduno per nobili e cavalieri (ma anche aspiranti tali), simile alle “Artushöfe” (“corti Artù”) in ambito inglese e prussiano12. È molto

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probabile che il piano superiore fosse destinato ad appartamento di rappresentanza per ospiti di riguardo come l’imperatore, il principe della contea o qualche importante personaggio di passaggio per la val d’Adige (appartamenti di questo genere sono piuttosto comuni nelle residenze nobiliari tedesche di un certo livello13). Gli affreschi furono eseguiti tra il 1393 e il 1410 da un ignoto pittore e restaurati tra il 1508 e il 1511 forse dal pittore Marx Reichlich su incarico dell’imperatore Massimiliano I d’Asburgo14; per cui – almeno per quanto riguarda la figura del committente – notiamo tra i due castelli un evidente nesso. Ubicati in posizione elevata i “Sommerhäuser” godevano di vedute panoramiche eccezionali. Sono propenso a credere che i loro committenti abbiano valorizzato questa componente traendo ispirazione dai testi letterari classici, in particolare da Plinio il Giovane, il quale nel descrivere la villa Tuscia si preoccupa di inquadrarla in un contesto ambientale molto ampio: “Regionis forma pulcherrima: imaginare amphitheatrum aliquod immensum et quale sola rerum natura possit effingere. Lata et diffusa planities montibus cingitur […]. Villa in colle imo sita prospicit quasi ex summo […]. a tergo Appenninum…”15. L’idea della villa come organismo aperto verso un vasto territorio trova puntuale conferma nella particolare attenzione riservata dall’illustre letterato agli affacci della villa Laurentana: “undique valvas aut fenestras […], a fronte quasi tria maria prospectat; a tergo […] silvas et longinquos respicit montes”16. Di particolare interesse, in questo contesto, sono i riferimenti agli ambienti privati dell’illustre autore

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romano17: “in capite xysti, deinceps cryptoporticus, horti, diaeta est, amores mei – re vera amores”18. Da queste parole si evince un particolare rapporto con la natura che per Plinio si esplica nel silenzio e nella contemplazione: “non illud voces servulorum, non maris murmur, non tempestatum motus […] sentit, nisi fenestris apertis”19. In modo molto simile egli si esprime sulla Tuscia: “est in hac diaeta dormitorium cubiculum, quod diem, clamorem, sonum excludit, iunctaque ei cotidiana amicorumque cenatio”20. Da ciò risulta anche che le “diaetae” erano nuclei abitativi che consistevano di più ambienti, adatti al riposo, all’incontro – anche se piuttosto informale – con gli amici, ai banchetti. Inoltre, dalle parole di Plinio risulta una certa raffinatezza di decoro dovuta ai rivestimenti marmorei e alle pitture murali: “…aliud cubiculum […] marmore excultum podio tenus, nec cedit gratiae marmoris ramos insidentesque ramis aves imitata pictura”21. Questi ambienti gli stavano talmente a cuore – per essere lontani dai rumori e dal vociferare dei servitori – da essere definiti “amores mei, re vera amores”22. Secondo la storiografia l’imperatore Massimiliano soffriva della ristrettezza delle sue dimore di Vienna e di Innsbruck, in gran parte ancora realizzate nell’Alto Medioevo23, per cui è facile immaginare che, possedendo una cultura classica24, egli abbia letto queste descrizioni e ne sia rimasto fortemente colpito (va notato che il termine “diaetae” è usato assai raramente in epoca classica, ma è piuttosto frequente in epoca medievale, anche se allora fu utilizzato in contesti molto diversi e con varie funzioni 25).

Nel suo ordine scritto sulla realizzazione dei “Sommerhäuser” del castello di Vellenburg possiamo leggere, infatti, un riferimento implicito a Plinio sotto diversi aspetti: nell’evocazione dell’“amoenitas” in senso linguistico-letterario e come concetto architettonico da imitare per la trasformazione di un castello medioevale che fondesse alcune caratteristiche della villa classica con quelle di una struttura fortificata, ovvero nel tentativo di riproporre e sviluppare il tema delle “diaetae”. Di fondamentale importanza mi sembra, a questo punto, la frase con la quale Plinio si definisce ‘autore’ delle sue “diaetae”: “amores mei – re vera amores. ipse posui”26. Queste due ultime parole sono state interpretate in differenti modi a seconda delle traduzioni. In alcune edizioni italiane “ipse posui” è stato tradotto “l’ho posto là io”27; in un’altra edizione, che mi sembra più convincente, figura invece come “l’ho fatto innalzare proprio io”28, volendo così attribuire a Plinio la partecipazione attiva all’impresa, forse persino la progettazione di questi nuclei abitativi. Questa considerazione ci riporta alla figura di Massimiliano I d’Asburgo, al suo doppio ruolo – confermato da diversi documenti d’archivio29 – di committente e dilettante di architettura: mi riferisco non solo alle sue disposizioni a riguardo della ristrutturazione del castello di Vellenberg30 – talmente precise che potremmo sostituire alle parole i segni grafici di uno schizzo – ma anche alla costruzione ex novo di altre opere e persino di apparati decorativi come molti altri principi e regnanti del suo tempo, specie se si trattava di fondare o migliorare le proprie dimore campestri o di caccia31.


Delizie degli eruditi Wolfgang Lippmann

pagina 125 Fig. 1“Moschee”di Kremsmünster (Oberösterreich). pagina a fronte Fig. 2 Sommerhaus di Castel Roncolo, Schloss Runkelstein (Bolzano). Fig. 3 Castello di Vallenberg a Götzens (Innsbruck). Indicazione degli ambienti privati dell’imperatore: n. 1 Stube, n. 2 Kammer, n. 4 scala ‘segreta’ di accesso al Sommerhaus (disegno arch. Paul von Molajoni. Pembaur). Non esiste finora un’approfondita analisi del termine o degli ambienti specifici, almeno per il periodo rinascimentale; per l’uso del termine in epoca più recente cfr. J. Grimm, W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, X, Leipzig 1905 (rist. anast. München 1984), parte 2, coll. 1532-1533. Il termine appare principalmente nei documenti riguardanti il Tirolo: dalla Sigmundsburg, costruita intono al 145457 ed ultimata nel 1462-63 dal duca Sigmund d’Asburgo (regnante 1446-90; cfr. H. Hammer, Die Bauten Herzog Siegmunds des Münzreichen von Tirol, “Zeitschrift des Ferdinandeums für Tirol und Vorarlberg”, s. 3, XLIII, 1898, pp. 205-276: p. 248: “La scala del castello, che era stata costruita – come veniamo a sapere – insieme al «Sölderli oder Sumerhewslj» al tempo dell’amministratore e burggravio [“Pfleger”] Jörg Brandisser, era completamente marcia”), al castello di Vellenberg (vedi sotto) e eccezionalmente anche uno in Franconia: riguardo al castello di Pappenheim cfr. F. Pfeiffer, Das Sommerhaus der Grafen von Pappenheim am Bergnershof, “Villa Nostra. Weißenburger Blätter für Geschichte, Heimatkunde und Kultur von Stadt und Weißenburger Land”, II, 1991, pp. 19-21. A proposito della Sigmundsburg cfr. H. Arnold-Öttl, Sigmundsburg, in Tiroler Burgenbuch, VII (Oberinntal und Ausserfern), herausgegeben von O. Trapp, W. Beimrohr, M. Hörmann, Bozen/Innsbruck 1986, pp. 247-268. 2 Aethicus, Cosmographia; cfr. Die Kosmographie des Aethicus, herausgegeben von O. Prinz, München 1993, p. 199; per un breve aggiornamento cfr. il dizionario di lingua tedesca medievale Mittellateinisches Wörterbuch bis zum ausgehenden 13. Jahrhundert, herausgegeben von P. Lehmann, München 1967-, in particolare il vol. III, München 2007, coll. 561. 3 Per una prima visione dell’argomento cfr. J. Matthies, Lusthäuser, in Höfe und Residenzen im spätmittelalterlichen Reich: ein dynastisch-topographisches Handbuch, II (Bilder und Begriffe), herausgegeben von W. Paravicini, Ostfildern, 2005, I, pp. 434-437; 2, figg. 222-223, 232-233; cfr. anche W. Lippmann, Dal castello di caccia al „Lusthaus“ cinquecentesco: la maison des champs nell’ambiente austro-germanico, in Maisons des champs dans l’Europe de la Renaissance, édité par M. Chatenet, actes des premières rencontres d’architecture européenne (Château de Maisons, 10-13 juin 2003), Paris 2006, pp. 299-316. L’accostamento dei termini “diaeta” e “Lusthaus” si può già riscontrare nel primo Seicento in L. Hulsius, Dittionario Italiano-Francese-Tedesco; Francese-ItalianoTedesco; e Tedesco-Francese-Italiano: con una breve istruttione della prononciatione di tutte e tre lingue in forma di grammatica, ed. a cura di F.M. Ravelli, Francoforte 16165; cfr. Grimm, Deutsches Wörterbuch, cit., parte 2, col. 1532. 4 Tali edifici, adibiti nel periodo estivo a residenze di campagna o anche a casini di caccia, sono abbastanza comuni in ambito austriaco, in parte risalenti all’Alto Medioevo, e talvolta costituiti anche solamente da strutture in traliccio; cfr. Lippmann, Dal castello di caccia… cit., p. 300, nota 7. 5 Cfr. L. Pühringer-Zwanowetz, Hofgarten, in Die Kunstdenkmäler des Benediktinerstiftes Kremsmünster, I (Das Stift, der Bau und seine Einrichtungen mit Ausnahme der Sammlungen), herausgegeben von E. Doberer, Wien 1977, pp. 458-478. 6 Tiroler Landesarchiv, Innsbruck (d’ora in avanti TLA), Urkunden Copialbuch (d’ora in avanti Urk. Cop.), I, c. 248v e sgg. (mandato dell’imperatore Massimiliano all’incaricato della costruzione “praefectus arcis” Blasius Hölzl, in data 5 novembre 1511); ivi, c. 242v (documento di incarico dell’imperatore, in data 10 settembre 1514; ulteriore copia nello stesso archivio: TLA, Maximiliana, XII, c. 71); cfr. H. Öttl, Vellenberg, in Tiroler Burgenbuch, VI (Mittleres Inntal), Bozen/Innsbruck 1982, p. 79, nota 57. 7 Citazione dall’ordine di incarico dell’imperatore Massimiliano in data 5 novembre 1511 (vedasi nota 6): “Desgleichen hinder der Capellen ausserhalb des hindern Thurns, da wir unnsern Ausgang in den obern Zwinger hinab haben, ain news Sumerhewsl, darzue die alt mitter Stuben vor der Capellen schaben oder wäschen und mitsambt der Camer daran etwas erweytern” (“Si faccia similmente anche dietro alla cappella fuori alla seconda torre un nuovo «Sommerhaus», dove abbiamo la nostra uscita sul muro di recinzione; inoltre si faccia raschiare e pulire la vecchia Stube centrale prima della cappella, come anche la [mia] camera e la si faccia ingrandire un pochino”) da Öttl, Vellenberg, cit., pp. 77-78, nota 53; per l’altra citazione riguardante un “Sommerhaus” si veda la nota 8. 8 TLA, Urk. Cop., I, c. 242v (indicazioni trascritte dell’imperatore Massimiliano, in data 10 settembre 1514: vedasi nota 6) da Öttl, Vellenberg, cit., p. 79. Rimane il dubbio sul fatto che queste costruzioni descritte dai documenti siano state interamente realizzate, essendosi conservato solo l’ordine di costruzione e mancando invece i re1

lativi pagamenti che ne confermerebbero l’effettiva messa in opera. 9 Cfr. Grimm, Deutsches Wörterbuch, cit., parte 2, col. 1533, dove si trova un esplicito riferimento all’uso (improprio) per indicare un appartamento al piano superiore. L’uso alternativo dei termini “Söller” (ovvero in dialetto austriaco: “Sölderli”: vedasi nota 1) per “Sommerhaus”, farebbe intendere che tale confusione sia dovuta al fatto che più volte tali ambienti si trovassero all’ultimo piano o persino nel sottotetto di un edificio, come nel caso della Katterburg, situata in principio alle porte di Vienna e poi inglobata nel Seicento nella residenza di Schönbrunn; qui è documentato già nel 1543 un “Lusthaus” in una torre (“Lusthaus im Thurn”); cfr. E. Hassmann, Von Katterburg zu Schönbrunn. Die Geschichte Schönbrunns bis Kaiser Leopold I, Wien/Köln 2004, pp. 309 (documento 68) e 339. 10 Cfr. Tiroler Burgenbuch, VI (Mittleres Inntal) cit., pp. 73-106, in particolare p. 146; cfr. anche A. Grebe, U. Grossmann, A. Torggler, Burg Runkelstein, trad. it. Castel Roncolo, Regensburg 2005, p. 27. 11 In origine sembra che tale loggia fosse stata suddivisa; cfr. A. Torggler, Runkelsteiner Sommerhaus – ein Artushof?, in L. Andergassen, Artus auf Runkelstein. Der Traum vom Guten Herrscher, Ausstellungskatalog (Bozen, Schloß Runkelstein, 16. April 2014-1. Februar 2015), Bozen 2014, pp. 137-158: 147. 12 Ivi, pp. 149-151. Tuttora esistono a Danzica e Thorun imponenti costruzioni denominate “Corti Artù” (in tedesco Artushof), costruite intorno al Trecento, ma più volte rifatte in epoca posteriore, generalmente usate come sedi di rappresentanza della locale mercanzia; cfr. T. Hirsch, Über den Ursprung der Preußischen Artushöfe, in “Zeitschrift für Preußische Geschichte und Landeskunde”, I, 1864, 1, pp. 3-32; W. Paravicini, Die ritterlich-höfische Kultur des Mittelalters, München 20113 (prima ed. München 1994), p. 34 e sgg. Rimane da sottolineare che Castel Roncolo è stato generalmente considerato come un connubio di influssi italiani e germanici, per cui il rapporto con il mondo inglese e prussiano sembra molto azzardato e poco convincente. 13 A proposito degli appartementi di rappresentanza, denominati anche Kaiserappartements, cfr. S. Hoppe, Der Raumtypus des “Prunkappartements” als Träger symbolischen Kapitals. Über eine räumliche Geste der zeremonialen Gastfreundschaft im deutschen Schloßbau der beginnenden Neuzeit, in Zeichen und Raum. Ausstattung und höfisches Zeremoniell in den deutschen Schlössern der frühen Neuzeit, herausgegeben von P.M. Hahn, U. Schütte, München und Berlin 2006, pp. 229-251. 14 L’ordine dell’imperatore a riguardo di tale intervento è stato tramandato nelle carte d’archivio: “Item daz Sloss Runckstain mit den mel lassen zu vernewen” (“Item, si ripristini il Castel Roncolo con le [sue] pitture”); cfr. “Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses”, I, 1883, pp. XLIIXLIII: regesto, 230 (c. 33v). I lavori di ‘restauro’ furono affidati al pittore Marx Reichlich (ca. 1460-ca. 1520), noto per aver collaborato con Michael Pacher e per essere stato un conoscitore della pittura veneta, in particolare di Giovanni Bellini e Vittore Carpaccio; cfr. G. Goldberg, Marx Reichlich, in Neue Deutsche Biographie, XXI, Berlin 2003, pp. 316-317; cfr. anche Schloss Runkelstein. Die Bilderburg, Ausstellungskatalog (Bozen, Schloß Runkelstein, 19. April-31. Oktober 2000), herausgegeben von A. Bechtold, Bozen 2000, pp. 41-42, 51 e 461-462. Nel manoscritto Ambraser Heldenbuch, redatto da Hans Ried (ca. 1465-1516), si fa riferimento agli affreschi di Castel Roncolo; cfr. J.D. Müller, Kaiser Maximilian I. und Runkelstein, in Schloss Runkelstein… cit., p. 459 e sgg. Cfr. ultimamente la pubblicazione Andergassen, Artus auf Runkelstein… cit., in particolare pp. 137-158; per un breve riepilogo Grebe, Grossmann, Torggler, Burg Runkelstein, cit., pp. 10, 33, 40, anche in lingua italiana. 15 Plinio il Giovane, Lettere ai familiari. Libri I-IX, a cura di L. Lenaz, trad. it. di L. Rusca, E. Faelli, Milano 1994, pp. 380-383 (Epist., V, 6, 7 e 14-15): “L’aspetto del paese è bellissimo: immagina un anfiteatro immenso e quale soltanto la natura può crearlo. Una vasta e aperta piana è cinta dai monti […]. La villa posta alla base di un colle ha la stessa vista che se fosse in cima […]. Alle spalle hai l’Appennino”; cfr. anche Id., Lettere scelte, con commento archeologico di K. Lehmann-Hartleben, Firenze 1936 (rist. anast. Pisa 2007), pp. 50-51. 16 Plinio il Giovane, Lettere ai familiari… cit., pp. 178-179 (Epist., II, 17, 5): “Tutt’intorno la sala ha delle porte o finestre […] sembra affacciarsi su tre mari”; cfr. Id., Lettere scelte… cit., p. 44. 17 Sul tema cfr. La Laurentine et l‘invention de la villa romaine, édité par P. Pinon, Paris 1982; H.H. Tanzer, The villas of Pliny the younger, New York 1924.

Plinio il Giovane, Lettere ai familiari… cit., pp. 184-185 (Epist., II, 17, 20): “In fondo alla terrazza, e quindi alla galleria e al giardino, ci è un padiglione, la mia passione, si proprio la mia passione”; cfr. Id., Lettere scelte… cit., p. 47. 19 Plinio il Giovane, Lettere ai familiari… cit., pp. 186-187 (Epist., II, 17, 22): “A lato vi è una camera adatta per la notte e il sonno: qui non arriva né la voce degli schiavi, né il mormorio del mare […], se le finestre non sono aperte”; cfr. Id., Lettere scelte… cit., p. 48. 20 Plinio il Giovane, Lettere ai familiari… cit., pp. 384-385 (Epist., V, 6, 21): “In questo appartamento vi è una camera da riposo, che non lascia entrare né la luce, né gli schiamazzi, né i rumori, e presso la camera un tinello da cenarvi ogni giorno, con persone di confidenza”; cfr. Id., Lettere scelte… cit., p. 52. 21 Plinio il Giovane, Lettere ai familiari… cit., pp. 384-385 (Epist., V, 6, 22): “…un’altra camera […], ornata di marmo nella parte inferiore della parete, e alla bellezza del marmo non la cede un affresco raffigurante dei rami e degli uccelli che vi posano sopra”; cfr. Id., Lettere scelte… cit., pp. 52-53. 22 Ibidem, vd. nota 18. 23 Cfr. Österreichische Kunsttopographie, XLVII (Die Kunstdenkmäler der Stadt Innsbruck. Die Hofbauten), Wien 1986, pp. 57-61, 82; Tiroler Burgenbuch, VI (Mittleres Inntal) cit., pp. 114131; H. Fichtenau, Der junge Maximilian (1459-1482), München 1959. 24 Cfr. S. Weiss, Zur Herrschaft geboren. Kindheit und Jugend im Hause Habsburg von Kaiser Maximilian bis Kronprinz Rudolf, Innsbruck 2008, p. 67 e sgg. Riguardo gli studi umanistici e la biblioteca personale dell’imperatore cfr. T. Gottlieb, Büchersammlung Kaiser Maximilians. Mit einer Einleitung über älteren Bücherbesitz im Hause Habsburg, Leipzig 1900 (rist. anast. Amsterdam 1968). Non mi è stato possibile accertare se Massimiliano avesse posseduto personalmente un’edizione o un manoscritto delle Lettere di Plinio, ma credo, visto che il manoscritto più famoso su cui si basano quasi tutte le prime edizioni italiane dell’epistolario pliniano si trovava allora a Magonza, che sia uno zelo inutile. 25 Come è stato notato, il termine in epoca classica è stato utilizzato – oltre che da Plinio – solo da Plutarco (Poplicola, 15), mentre è piuttosto frequente in epoca medievale e sta a indicare varie funzioni: dalla sala dei banchetti alla camera da letto e a quella per gli incontri ufficiali (ad esempio le Diete), ma persino ambienti adibiti al lavoro quotidiano o la dieta nutritiva prescritta da un medico. Dai documenti risulta però evidente che prevaleva il concetto di un luogo dove si mangia e si dorme; cfr. Mittellateinisches Wörterbuch… cit., III, München 2007, coll. 560-562. Solo in occasione di questi nuclei o padiglioni, ideati per la vita ritirata, Plinio adopera il termine di “diaeta” (Epist., II, 17, 2; II, 17, 13 e 20; V, 6, 20 e 27; VI, 16, 14; VII, 5, 1); cfr. R. Förtsch, Archäologischer Kommentar zu den Villenbriefen des jüngeren Plinius, Mainz 1993, pp. 48-53. 26 Epist., II, 17, 20; vd. nota 18. 27 Epist., II, 17, 20; Plinio il Giovane, Lettere, trad. it. di S. Nalli, Milano [1927], p. 49. 28 Plinio il Giovane, Lettere ai familiari… cit., p. 185 (Epist., II, 17, 20). Chiara evidenza della partecipazione attiva dell’autore alla costruzione del suo rifugio spirituale si trova nella traduzione tedesca a cura di H. Kasten, Darmstadt 19763 (prima ed. München 1968), p. 115. 29 L’argomento è stato approfondito in una ricerca sulla committenza asburgica che pubblicherò a breve, inclusi i relativi documenti archivistici; si veda, inoltre, il mio contributo al convegno internazionale dell’Accademia delle Scienze di Wolfenbüttel, Germania, Fürst und Fürstin als Künstler, 9-11 ottobre 2014, di prossima pubblicazione. Rimando per una prima analisi al contributo di H. Günther, Kaiser Maximilian I zeichnet den Plan für sein Mausoleum, in Il Principe architetto, atti del convegno internazionale (Mantova, 21-23 ottobre 1999), a cura di A. Calzona, F.P. Fiore, A. Tenenti, Firenze 2002, pp. 493-516. 30 Si tratta di un lungo e dettagliato ordine, solo in parte pubblicato da Öttl, Vellenberg, cit., p. 79 (vedasi note 6 e 8). 31 La tesi di dottorato ultimata nel 2014 (Università di Firenze), che è focalizzata su committenti e dilettanti medicei, fa parte di questo più ampio studio che mette anche a fuoco le relazioni di parentado o solamente di scambio epistolare fra numerosi studiosi d’architettura nobili, spesso appassionati intendenti e dilettanti di architettura, tra i quali, oltre Lorenzo de’ Medici, Ferdinando de’ Medici e Don Giovanni de’ Medici, anche l’arciduca Ferdinando di Tirolo, Daniele Barbaro, Alvise Cornaro e Gian Giorgio Trissino. 18

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