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Patrimonio e progetto tra opportunità e complessità

Patrimonio e progetto tra opportunità e complessità L’approccio fin qui sinteticamente illustrato ha contribuito a promuovere il passaggio da una concezione settoriale della pianificazione a una più multidisciplinare e integrata, volta alla ricomposizione dei saperi che contribuiscono alla comprensione e al progetto del territorio. Gli sforzi compiuti dai piani che hanno adottato tale approccio, costruendo prima di tutto i propri quadri conoscitivi sull’integrazione delle “scienze del territorio” e tentando di preservarne le ricadute negli scenari progettuali, hanno compiuto degli avanzamenti molto significativi. Naturalmente non senza incontrare ostacoli, dal momento che la costruzione di politiche per il territorio e la città di carattere intersettoriale è tutt’altro che conseguenza automatica della multidisciplinarietà messa in atto nella costruzione del piano. Vorremmo concludere questa sintesi evidenziando alcune direzioni di riflessione e di ricerca che andrebbero a nostro parere incentivate nell’ambito dell’approccio patrimoniale, dopo circa vent’anni di codificazione e sperimentazione dei suoi paradigmi fondativi. La prima riflessione riguarda il rapporto tra patrimonio e città contemporanea e, per svolgerla, partiremmo da un’osservazione: dal punto di vista spaziale, nei piani improntati dall’approccio territorialista, i tessuti insediativi di ruolo patrimoniale sono sempre antecedenti la soglia storica della grande trasformazione urbanistica italiana, che possiamo collocare intorno alla fine degli anni ’50. In alcuni contesti regionali tale soglia coincide, inoltre, con la datazione di importanti materiali documentari per la ricostruzione storica della città e del territorio su base regionale (per la Toscana il riferimento è alla copertura ortofotografica del Volo GAI del 1954). Anche per questo, nella prassi urbanistica regionale, si è diffusa una consuetudine a distinguere in modo particolarmente netto tessuti ritenuti di valore (anteriori al 1954) e non (successivi al 1954). Come è evidente tale lettura pone non pochi problemi. In primo luogo, perché esclude che la parte più estesa delle conurbazioni attuali, successiva al 1954, possa comprendere tessuti di qualità, in senso spaziale, urbanistico e architettonico. Una prospettiva che, se al livello di area vasta può risultare praticabile per le inevitabili generalizzazioni che tale scala impone, a quella della pianificazione urbanistica e ancor più del progetto urbano appare riduttiva. In secondo luogo, tale lettura pone una questione metodologica complessa: come agire, sul piano progettuale, su tessuti privi di valore patrimoniale, all’interno di un approccio che concettualizza il progetto soprattutto come esplicitazione di princìpi già scritti e sedimentati nel palinsesto dei luoghi? Come intervenire su luoghi che sono prodotto di una logica insediativa altra, che non ha riletto le opportunità del contesto traendone princìpi progettuali ma si è spesso relazionata al territorio in modo indifferente, massimizzando la produzione di rendita a discapito delle prestazioni ambientali, paesaggistiche e, non di rado, funzionali? Crediamo

che questo insieme di domande solleciti la necessità di mettere in atto una riflessione approfondita sulla riqualificazione dei tessuti insediativi moderni e contemporanei, un patrimonio immenso prodotto in Italia dalla intensa stagione urbanistica compresa tra il secondo dopoguerra e gli anni 2000 (per la quale si rimanda anche al capitolo Il progetto della città pubblica di questo volume). Il tema è stato in parte affrontato, nell’ambito della scuola territorialista, dagli studi incentrati sulla valorizzazione delle pratiche di protagonismo sociale e di auto-organizzazione, sulle esperienze legate al co-housing, ai comitati di abitanti delle periferie, ai forum della cittadinanza attiva ecc. (Cellamare, Scandurra 2015; Cellamare 2019). Ma ulteriori e importanti contributi in questa direzione, saldamente ancorati alla dimensione spaziale del problema, potrebbero provenire: • da quel nutrito filone disciplinare incentrato sul ripensamento degli “standard” urbanistici17 – che potrebbero costituire un telaio di servizi e spazi (Basso 2019) di uso collettivo – e sulla loro relazione con i servizi ecosistemici18; • dal progetto di paesaggio, che ormai da decenni ha attecchito con vigore soprattutto in ambito francese nei progetti di riqualificazione urbana sedimentando una gamma vastissima di opere (dalle prime esperienze di paesaggisti come Desvigne e Dalnoky, Bernard Lassus, Michel Corajoud, Gilles Clement, fino alle più recenti realizzazioni del collettivo Coloco); • dagli interventi di “urbanistica tattica” (Lydon, Garcia 2015), che realizzano progetti di micro-trasformazione urbana attraverso un approccio incrementale, attento al contenimento di costi e tempi e incentivante nei confronti della partecipazione civica ai processi di rigenerazione. Il filo rosso che ricuce questi ambiti di ricerca e sperimentazione è rappresentato dallo spazio pubblico che, ripensato e riprogettato in un’ottica integrata e transcalare, può costituire una risposta non episodica bensì sistematica e strutturale alla nuova “questione urbana”, intesa come nesso tra problematiche legate all’ambiente, alla marginalità, alla giustizia sociale (Secchi 2011). Il secondo asse di riflessione sull’approccio patrimoniale riguarda la natura “implicita” del progetto e coinvolge, nuovamente ma non solo, un fattore relativo alla scala di osservazione. Si può notare, infatti, che la reinterpretazione dei princìpi insediativi

17 A questo proposito si segnala la ricerca interuniversitaria “Cinquant’anni di standard urbanistici (1968-2018)”, in merito alla quale si veda il servizio omonimo sul numero 84/2018 di “Territorio”. Anche l’INU è attivo su un progetto di ricerca sull’argomento, i cui esiti sono pubblicati in Giamo 2018. 18 Sul tema si veda Poli 2020 e la sezione “Servizi ecosistemici, infrastrutture verdi e pianificazione urbanistica” del n. 159 di “Urbanistica”.

sedimentati nel tempo lungo della storia si rivela uno strumento di ruolo progettuale particolarmente efficace al livello della struttura territoriale profonda: quando, cioè, tali princìpi riguardano il rapporto tra componenti fisiografiche (in primis geomorfologiche e idrauliche) e modalità di antropizzazione, tradotte in specifiche occupazioni del suolo. Come già accennato, nel territorio collinare toscano si può notare in modo ricorrente che i supporti di crinale siano il luogo maggiormente vocato all’insediamento, o che i suoli caratterizzati da una composizione geologica rocciosa e/o con condizioni di pendenza sfavorevoli all’agricoltura (in genere superiori al 35-40% di pendenza) siano occupati dal bosco e così via. Un eventuale progetto di questi luoghi scaturisce effettivamente in modo molto chiaro da queste osservazioni. Ma quando i caratteri storici di un territorio non discendono da scelte operate sulla base di condizionamenti prevalentemente di carattere fisiografico bensì da fattori di natura socioeconomica (quali la struttura della proprietà fondiaria, le forme di conduzione dell’agricoltura e così via), la loro resistenza alle trasformazioni è più labile e la loro riattualizzazione come princìpi in grado di guidare il cambiamento risulta assai più difficoltosa: si pensi alla maglia agraria dei paesaggi storici, in gran parte e piuttosto rapidamente cancellata dalla grande trasformazione del territorio italiano avvenuta tra gli anni ‘60 e ’80 del Novecento come esito della meccanizzazione agricola e dell’introduzione dei fertilizzanti chimici. Di questi paesaggi agrari si può recuperare, più che le forme storiche, un insieme di prestazioni che possono essere anche da esse indipendenti: sempre con riferimento al paesaggio della Toscana centro-settentrionale si può riproporre, per esempio, un certo grado di diversificazione vegetazionale (colturale e non) che era tipico di quell’assetto e del quale riconosciamo oggi il valore di biodiversità e di connettività ecologica; in ambito urbano, la componente che della città storica possiamo riattualizzare per il progetto contemporaneo può essere lo spazio pubblico che, con le sue qualità di mixité funzionale e sociale, può rappresentare il tessuto connettivo dell’insediamento. In altre parole, quando i condizionamenti fisici sono meno forti non possiamo trarre dalla storia del luogo tanto regole morfogenetiche quanto per lo più di carattere prestazionale. Le qualità dei luoghi proverranno da innovazioni e trasformazioni che non sono necessariamente inscritte nella forma fisica del palinsesto territoriale e urbano. Il terzo punto, al quale ci limitiamo ad accennare, è incentrato sul ruolo delle comunità locali nella preservazione e riproduzione dei patrimoni territoriali. Come ha recentemente osservato Paolo Baldeschi19, il protagonismo delle comunità locali non può essere dato per scontato, come pure non si può supporre che esse agiscano in modo coeso e coerente rispetto

19 Nella recensione al volume curato da Anna Marson “La prospettiva territorialista alla prova”, pubblicata su “Casa della Cultura” (https://www.casadellacultura.it/1147/la-prospettiva-territorialista-alla-prova).

all’obiettivo di costruire un progetto territoriale virtuoso. Nella società contemporanea, lo stesso riconoscimento dei cosiddetti giacimenti patrimoniali non è sempre esito di un processo corale che avverrebbe in seno alle comunità locali. La visione del patrimonio si definisce piuttosto come in un caleidoscopio, dove riflessioni ottiche multiple danno luogo a immagini diverse, ciascuna corrispondente a una specifica postura politica e sociale, elaborata nelle singole traiettorie individuali. Questo non vuol dire invalidare il nesso fondamentale tra una “base” portatrice di pratiche sperimentali e gli strumenti propri della pianificazione, che da esse hanno tratto elementi di significativa innovazione. Occorre però, su questi temi, incrementare una riflessione che, orientata da una prospettiva francamente volta alla comprensione dei nodi critici di cui sopra, possa continuare a produrre scenari condivisi di trasformazione patrimoniale.

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