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Prospettive

Prospettive L’approccio bioregionalista urbano, nella sua tensione verso un ritorno al territorio come bene comune, poggia su alcuni elementi fondamentali: la critica contestuale a un modello insediativo e a un modello di sviluppo, la personalità del luogo come fondamento dello sviluppo locale autosostenibile, una visione interconnessa e multidisciplinare delle scienze del territorio, il ruolo proattivo degli abitanti nella costruzione del progetto locale. Abbiamo visto come questi temi affondino le radici nel pensiero di Patrick Geddes (oltre che negli studi degli esponenti della Regional Planning Association of America che lo hanno in seguito sviluppato). Per questo può essere utile ripartire da alcune considerazioni proprio sull’opera di Geddes per corroborare l’idea di approfondire soprattutto due ambiti di ricerca, negli studi bioregionalisti. Il primo ambito riguarda il rapporto, quantomai complesso, che il progetto e il piano intrattengono con la dimensione storica (uno dei punti cruciali dell’approccio bioregionalista). Per Patrick Geddes la lezione della storia riveste un ruolo di primaria importanza nell’orientare le opzioni progettuali alla scala regionale o urbana: la storia ha infatti modellato i luoghi facendo interagire e co-evolvere la componente fisica, antropica e sociale (sintetizzate rispettivamente nella triade place/work/folk) e conformando quella personalità dei luoghi che è compito del piano far emergere e sviluppare. Non casualmente la sezione di valle, dispositivo descrittivo ed euristico per l’evidenziazione di tali aspetti, può essere considerato un “evolutionary diagram, a visual longue durée” (Maclean 2004, p. 90). Pur riconoscendo la centralità della storia, l’approccio di Geddes resta però fortemente progressista, poiché la sua è una concezione dinamica della storia stessa (che discende dalla sua formazione di biologo evoluzionista), che non approda a visioni idealizzate del passato e che è sorretta da una profonda fiducia nella tecnica. A questo proposito Lewis Mumford osserva che l’interesse di Geddes per le radici storiche della cultura dei luoghi (“roots of regional culture”) non si è mai tradotto in uno sguardo eminentemente retrospettivo. Al contrario, scrive, “if the roots were alive, they would keep on putting forth new shoots, and it was in the new shoots that he was interested” (Mumford 1947, p. 8). Riteniamo che questo sia un punto fondamentale per proseguire sulla strada degli studi relativi alla costruzione della bioregione urbana. L’attenzione per i patrimoni territoriali che la storia ha modellato nei percorsi di co-evoluzione rischia, soprattutto in contesti di particolare pregio paesaggistico, di condurre verso una cristallizzazione dell’idea di patrimonio stesso ossia verso scenari in cui le possibilità di modificazione dell’esistente sono estremamente ridotte, a meno che le trasformazioni non siano finalizzate al ripristino di

assetti storici. Ma il patrimonio territoriale è un concetto selettivo: non tutti gli elementi del territorio possono essere riconosciuti di valore patrimoniale (o quantomeno del medesimo grado di valore patrimoniale) soprattutto se ci poniamo in un’ottica progettuale, poiché questo implicherebbe un congelamento del territorio ad un presunto stato “storico”, riconosciuto come ideale punto di equilibrio co-evolutivo. Inoltre, in che modo i patrimoni territoriali prodotti dalla storia si radicano nella coscienza e consapevolezza di quelle “genti vive” che oggi li abitano e che dovrebbero essere edotti delle regole che li hanno prodotti?11. In quest’ottica è importante che la “auto-sostenibilità” di certi patrimoni territoriali storici vada letta non solo in termini ecologici ma anche economici e sociali, valutando la loro rispondenza tanto alle funzioni di tipo ambientale espresse dal territorio quanto ad una sfera di bisogni di altra natura espressa dai suoi abitanti. Crediamo che sia imprescindibile chiedersi quanto la prefigurazione di scenari che propongono una rivitalizzazione del patrimonio territoriale attraverso la riattivazione di pratiche, saperi, mestieri tradizionali, intercetti i desideri e le prospettive di quegli abitanti che dovrebbero essere il motore del cambiamento nell’approccio bioregionalista. E in che modo la suddetta tensione progettuale si incontri (o si scontri) con questioni fondamentali, come quelle della giustizia spaziale e della prospettiva di genere, per citare solo due tra le principali. Il tema è molto vasto e complesso e in questa sede ci limitiamo a sottolineare l’importanza di svolgere indagini rigorose, di tipo non solo antropologico ed etnografico ma anche sociologico, sui territori del progetto bioregionale perché la comprensione della componente antropica sia quanto più possibile approfondita. Ancora una volta prendiamo a prestito le bellissime parole di Patrick Geddes sul compito del planning, che è “to find the right places for each sort of people; places where they will really flourish” (Geddes 1947, p. 22). Il secondo ambito di approfondimento che vorremmo segnalare è il rafforzamento dell’approccio transcalare e della sua efficacia. In particolare, è a nostro parere fondamentale che il ripensamento radicale dei modelli insediativi proposto dalla bioregione precipiti in forme tangibili alla scala degli insediamenti esistenti (di tutti gli insediamenti esistenti e soprattutto di quelle aree urbanizzate le cui criticità sono ben note), da quella urbana fino a quella di quartiere. Il problema abitativo, la carente o ineguale distribuzione dei servizi, il degrado ambientale delle aree urbanizzate sono temi quantomai urgenti a cui l’approccio bioregionalista può provare a dare risposta, proponendo una diversa visione della rigenerazione urbana. Ci rivolgiamo nuovamente all’eredità di Geddes per le suggestioni che, anche rispetto a questo campo di lavoro, possiamo ritrovare. Geddes ha infatti promosso, ben prima di altri,

11 Si rimanda, per questi argomenti, al capitolo 6 di questo volume “Il progetto del paesaggio”.

un approccio anticonvenzionale alla rigenerazione urbana, soprattutto in India, dove ha saputo intervenire con il metodo della conservative surgery, opposta agli sventramenti proposti dall’urbanistica coloniale dell’epoca. Il metodo prevedeva un coinvolgimento costante dei cittadini per la realizzazione e la successiva manutenzione di interventi che non stravolgevano i tessuti esistenti ma li riqualificavano valorizzandone gli spazi pubblici (e con essi i valori collettivi che questi rappresentavano). Nei report dall’India che illustrano questi progetti, Geddes descrive il piano “as a great chessboard on which the manifold game of life is an active progress” (Geddes 1947, p. 27) sottolineando l’importanza di saper leggere i problemi posti dal contesto come delle opportunità (esattamente come nella dinamica del gioco degli scacchi, in continuo cambiamento) e osservando come una strategia che, di fronte alle difficoltà, fa tabula rasa, sia poco efficace oltre che inutilmente dispendiosa. Forse l’approccio alla rifondazione della città contenuto nel modello della bioregione urbana potrebbe includere un coraggioso salto di scala e una presa in conto, in termini analitici e progettuali, dei tessuti costruiti esistenti dell’intera città, specie di quelli a vario titolo marginalizzati (nei quartieri periferici, in quelli della città storica e consolidata). Come scriveva Geddes dall’India, “we must constantly keep in view the whole city, old and new alike in all its aspects and at all its levels” (Geddes 1947, p. 26) perché la città – e quella indiana lo dimostra per eccellenza – “form an inseparably interwoven structure” (ibidem, p. 27).

In questo lavoro, come è stato detto, abbiamo inteso restituire una nostra ricostruzione della tradizione disciplinare italiana e delle sue matrici, proponendo una lettura critica dei filoni teorici e progettuali che riteniamo fondativi del nostro bagaglio scientifico e culturale. Siamo coscienti che, evolvendo nel quadro complessivo della storia dell’Italia unitaria, specialmente nella sua fase repubblicana (Ginsborg 1989), l’urbanistica ha prodotto una estrema varietà di posizioni culturali e una mole notevole di studi, piani e progetti che possono consentire l’individuazione di differenti visioni, posture e orizzonti disciplinari. Si tratta di un campo vasto, e tuttavia a fondo indagato anche nelle sue radici internazionali (Sica 1985, Salzano 2007), dal quale emergono alcune posizioni che sono capisaldi condivisi di una elaborazione collettiva, che a volte si è nutrita anche di fertili contrapposizioni. Fondativa, ad esempio, la posizione di Gustavo Giovannoni (Giovannoni 1931), che tenta tra i primi di elaborare, con un occhio alle vicende estere e in modo originale, il portato di modernizzazione necessario allo sviluppo di una nazione profondamente radicata nella sua storia insediativa; si distingue la figura di Giovanni Astengo (Astengo 1966) che tenta di rendere autorevole la disciplina nella sua rigorosa dimensione scientifica, in qualche modo emancipandola dall’architettura. Ma parallelamente si sviluppano le posizioni espresse da un gruppo di figure che hanno un debito con chi ha elaborato il concetto di “storia operante” nel campo disciplinare (Muratori 1960), con un forte legame con l’architettura come dimensione costitutiva della qualità delle città italiane (Gregotti 1962; Rossi 1966). Elaborazioni così differenti non impediscono l’affermarsi di posizioni connotate da una forte carica riformista della disciplina, che tanto peso ebbe in Italia attraverso differenti stagioni (Campos Venuti, 1967). Differenti generazioni di urbanisti si sono succedute (Di Biagi, Gabellini1992), così come differenti generazioni di “piani” (Campos Venuti 1987); il territorio e il paesaggio hanno assunto un ruolo e uno spessore finalmente consistente (Magnaghi 1994), l’ambiente è entrato costitutivamente nel discorso pianificatorio (Gambino 1996), e la disciplina ha raggiunto una piena maturità, elaborando la ricchezza di contributi accumulati, pur

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