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Postfazione Afterwords
Andrea Ricci Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
Il percorso di ogni progetto di architettura, indipendentemente dalle scelte figurative e dagli esiti formali dello stesso, è determinato dall’intreccio “compositivo” per cui un programma più o meno articolato di esigenze di ordine funzionale ( intese estensivamente dalla dimensione pratica a quella simbolica) si pone in relazione alla specificità di un “luogo” che si qualifica attraverso la sua capacità di fissare nella sua natura il lascito, reale e/o ideale, degli eventi della storia umana. Il progetto di tesi di Sara Masi non fa eccezione. Nell’area archeologica di Ashkelon soltanto le alcune testimonianze monumentali sono state oggetto di scavi sistematici e sono attualmente visibili nelle poche parti superstiti (in sostanza solo la basilica romana ed il circuito delle mura urbiche). La maggior parte dell’antico spazio urbano è ancora scarsamente indagato e solo parzialmente conosciuto per singoli frammenti Tutta area è oggi compresa in un grande parco posto ai margini della moderna Ashkelon, forse più attrezzato per ospitare i pic-nic dei turisti e/o per la gestione di eventi, che non per valorizzare il patrimonio storico del luogo. Nemmeno esiste una adeguata struttura museale in città, dal momento che, a quanto mi risulta, l’esposizione pubblica dei locali reperti archeologici si limita ad alcune vetrine collocate nell’atrio dell’Ashkelon Accademic College, la locale sede universitaria. Da tali premesse discende una chiara scelta programmatica del progetto. L’intervento all’interno della città antica non poteva essere concepito soltanto come un’efficiente struttura logistica di servizio all’attività di scavo, una “cittadella” destinata a studiosi ed archeologi, magari un po’ defilata rispetto ai flussi del turismo dei campeggiatori e dei bagnanti. Un progetto di architettura dovrebbe, al contrario, tenere insieme le diverse esigenze postulate dal “luogo”: la necessità di studiarne la storia (attraverso l’indagine archeologica dallo scavo alla fase di analisi interpretativa), la necessità di mostrarne la storia (attraverso una pubblica esposizione del reperto fin dalla sua fase di studio) infine, la necessità di usarne positivamente la storia (attraverso la flessibilità di un sistema in grado di veicolare interazioni di reciproco vantaggio fra diverse modalità di fruizione dell’area). La chiave figurativa capace di comporre (cioè tenere insieme in termini compositivi) tali complessità, si cela proprio in quel concetto di “luogo” che comprende in sè, ma anche trascende, il dato fisico. Ovviamente esiste una dimensione planimetrica/altimetrica con cui non può non confrontarsi qualsiasi progetto, pena la sua irrilevanza ed ineffettualità, ma il “luogo” incarna soprattutto l’idea di quella continuità progettuale che, attuandosi nel sito attraverso la storia, diventa di fatto il fattore qualificante di una riconoscibilità figurativa del sito stesso. In tale stratificazione narrativa la memoria di ciò che è stato può abitare accanto agli sviluppi di ciò che, plausibilmente, avrebbe potuto essere. Appare allora legittimo che, fuori da ogni accertata “verità” archeologica, il progetto “inventi” le proprie ragioni figurative all’interno di una memoria plausibile, anzi oggettivamente assai probabile, come la parziale rappresentazione di Ashkelon romano-bizantina presente nella mappa mosaicata di Madaba. Nel frammento di tale mosaico, purtroppo mutilo, due decumani porticati si dipartono dalla Porta di Gerusalemme, l’uno a scendere verso il mare, l’altro a salire verso il tell meridionale. L’idea d’ordine che strutturava la città antica definisce una matrice spaziale che, oggi, può strutturare anche l’impianto planimetrico del progetto all’interno di una precisa “volontà” urbana. Essa è tanto forte nell’affermare la necessità del gesto ordinatore, quanto contemporaneamente consapevole dell’impossibilità di dare ad esso compimento. I “nuovi” decumani sono strumenti figurativi “antichi” che connettono complessità ed ambiguità del sito, disegnando, fuori da ogni mimesi formale, la riconoscibilità del luogo. Essi creano le condizioni affinché le diverse istanze funzionali comprese nel programma di progetto possano non solo disporre degli spazi necessari, ma anche interagire all’interno di un sistema unico, capace cioè di agevolare situazioni di scambio e condivisione tra i vari ambiti. I luoghi della ricerca a servizio dell’attività archeologica di scavo sono contigui ai percorsi di un variegato flusso turistico: da un lato studiosi ed archeologi possono svolgere il proprio lavoro senza doversi isolare all’interno di un “museo”, dall’altro ogni visitatore del parco, sia esso campeggiatore, bagnante o sportivo, è inevitabilmente coinvolto nell’offerta culturale del sito, cioè la fruizione visiva dei reperti in deposito, senza dover mai compiere l’atto di entrare in un “museo”. La questione non riguarda tanto la fisicità degli spazi progettati, quanto le relazioni di un sistema che il progetto struttura in termini di ideale recupero della memoria “urbana” del sito antico, seppur nell’ottica del frammento. È vero che il progetto rappresenta sempre il momento deputato a confrontare le soluzioni tecniche più opportune e/o meno invasive per ottimizzare la funzionalità e/o sostenibilità degli interventi in relazione al contesto. È però altrettanto vero che un progetto d’architettura non è soltanto questo: uno specifico strumento operativo atto a fornire risposte tecniche a problemi contingenti. Perseguire una sorta di “comodità” d’uso nelle varie scelte progettuali rappresenta un logico, forse necessario, obiettivo di programma, ma il fine ultimo cui deve tendere l’architettura è la costruzione di “luoghi”. Questa idea sottende tutto il percorso figurativo del progetto di tesi, anzi, di fatto, “è” il progetto di tesi il resto è mera questione “di mestiere”.
The process of every architectural project, regardless of the figurative choices and formal outcomes of the same, is determined by the “compositional” interweaving whereby a more or less articulated programme of functional requirements (understood extensively from the practical dimension to the symbolic one) is placed in relation to the specificity of a ‘place’ that qualifies itself through its ability to fix in its nature the legacy, real and/or ideal, of the events of human history. Sara Masi’s thesis project is no exception. In the archaeological area of Ashkelon, only a few monumental remains have been systematically excavated and are currently visible in the few surviving parts (essentially only the Roman basilica and the city wall ring). Most of the ancient urban space urban space is still poorly investigated and only partially known for individual fragments The entire area is now included in a large park on the edge of modern Ashkelon, perhaps better equipped to host tourists’ picnics and/or events than to enhance the historical heritage of the place. Nor is there an adequate museum facility in the city, since, as far as I know, the public display of local archaeological finds is limited to a few showcases located in the atrium of the Ashkelon Academic College, the local university campus. A clear programmatic choice of the project is derived from such premises. The intervention within the ancient city could not be conceived merely as an efficient logistical structure to serve the excavation activity, a ‘citadel’ for scholars and archaeologists, perhaps a little removed from the flow of tourism from campers and bathers. An architectural project should, on the contrary, hold together the different needs postulated by the ‘place’: the need to study its history (through archaeological investigation from the excavation to the stage of interpretative analysis), the need to show its history (through public display of the find from its study phase), and finally the need to use its history positively (through the flexibility of a system capable of conveying interactions of mutual benefit between different ways of using the area). The figurative key able to compose these complexities (“hold together” in compositional terms) is concealed in the concept of “place” that not only includes but also transcends the physical datum.
Obviously there is a planimetric/altimetrical dimension with which any project cannot be confronted, on pain of its irrelevance and ineffectuality, but the “place” embodies above all the idea of that design continuity which becomes in fact the qualifying factor of a figurative recognisability of the site itself. Being implemented in the site through history, . In such narrative stratification, the memory of what has been can dwell alongside the developments of what, plausibly, could have been. It therefore seems legitimate that, outside of any ascertained archaeological “truth”, the project “invents” its own figurative reasons within a plausible, indeed objectively very probable, memory, such as the partial representation of Roman-Byzantine Ashkelon found in the mosaic map of Madaba. In the fragment of that mosaic, unfortunately mutilated, two porticoed decumans branch off from the Jerusalem Gate, one descending towards the sea, the other ascending towards the southern tell. The idea of order that structured the ancient city defines a spatial matrix that, today, can also structure the planimetric layout of the project within a precise urban “will”. It is as strong in affirming the necessity of the ordering gesture as it is simultaneously aware of the impossibility of giving it fulfilment. The “new” decumani are “ancient” figurative tools that connect the complexity and ambiguity of the site, drawing, beyond any formal mimesis, the recognisability of the place. They create the conditions for the different functional instances included in the project programme not only to have the necessary spaces, but also to interact within a single system, that is, capable of facilitating situations of exchange and sharing between the various areas. The research sites at the service of archaeological excavation activity are contiguous with the routes of a varied tourist flow: on the one hand, scholars and archaeologists can carry out their work without having to isolate themselves within a ‘museum’, and on the other hand, every visitor to the park, whether camper, sunbather or sportsman, is inevitably involved in the cultural offer of the site, that is, the visual enjoyment of the finds in storage, without ever having to perform the act of entering a ‘museum’. The question does not so much concern the physicality of the designed spaces as the relations of a system that the project structures in terms of an ideal recovery of the ‘urban’ memory of the ancient site, even if from the perspective of the fragment.
It is true that the project is always the moment to compare the most appropriate and/or less invasive technical solutions to optimise the functionality and/or sustainability of interventions in relation to the context. It is equally true, however, that an architectural project is more than just this: it is a specific operational tool to provide technical answers to contingent problems. Pursuing a sort of “comfort” of use in the various design choices is a logical, perhaps necessary, programme objective. The ultimate goal to which architecture must strive is the construction of “places”. This idea underlies the entire figurative path of the thesis project, or rather, in fact ‘is’ the thesis project... the rest is merely a matter of ‘profession’.
Verifying the credibility of this urban design gave way to a design idea that, far from being nostalgic for classicism, suggested how to dislocate the functions necessary to create an archaeological park with multiple functions. Not only a tourist site but also a site for active research, a place to store finds by organising laboratories and collective residences for groups of researchers, all located according to the original urban organisation. A desire, therefore, to re-semanticise an ancient idea according to new functions to be established, in a temporal and spatial continuum that would have no equal in the land of Israel. The project, therefore, is not looking for a pretext to legitimise itself, but has the will to place itself in a dialogue with urban history by sinking its composition into the cardo decumanus traces of the Severans. By rediscovering perspectives and organising them according to ancient views and vistas renewed by the reconstructions of archaeologists, it turns a mere path towards the lido into a real path where history appears in fragments and glimpses. This I believe is the merit of the project presented, to be essential, current and mindful of the past from which it does not run away by distorting it or wanting to deny it, on the contrary, confronting it and seeking a contemporary language harmonised with the new reality of the park. The design action thus becomes an all-round improvement and is also effective in the possibility of being expanded in the future in step with new discoveries and new requirements. Modules that unfold on the design of the Madaba mosaic and that overlook not only the sea but also a two-thousand-year history.
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