davide lucia
Utopie Ipogee Percorso antropologico nel sottosuolo di Campomaggiore Vecchio
tesi | architettura design territorio
Il presente volume è la sintesi della tesi di laurea selezionata dalla commissione interna per la partecipazione all’EAM European Architectural Medals 2015 in rappresentanza della Scuola di Architettura di Firenze (finalista). Commissione selezionatrice: Proff. F. Capanni, R. Paloscia, L. Giorgi, M. C. Torricelli
Ringraziamenti A tutti i briganti, alle loro storie passate. A tutti i briganti che ancora oggi credono nella propria terra. All’Italia. Alla sua bellezza.
in copertina Opera scultorea La famiglia di Vincenzo Mancuso
Laboratorio Comunicazione e Immagine Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
© 2017 DIDAPRESS Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 14 Firenze 50121 ISBN 978-88-9608-072-6
davide lucia
Utopie Ipogee Percorso antropologico nel sottosuolo di Campomaggiore Vecchio
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nelle pagine precedenti foto di Michele Santarsiere 2015 in basso foto di Michele Santarsiere 2015
Utopiche rovine
Larga parte del panorama architettonico attuale si contorce nel definire, o per meglio dire ridefinire, alcune tematiche o ambiti culturali propri dell’agire dell’Architettura. In realtà tutto ciò sembra sempre straordinariamente in ritardo rispetto ai tempi propri dell’Architettura, a maggior ragione oggi in cui l’universo piatto delle comunicazioni rende tutto senza tempo e spazio. Infatti l’Architettura si muove con i tempi, lunghi della propria, necessaria con buona pace di molti, realizzazione e quindi spesso accade che alcune pur interessanti ed elevate riletture su temi fondamentali come quello di memoria, rovina, monumento, spazio, luogo, siano superate nell’arco della loro irrealizzata verifica. Il campo dell’utopia, in cui questo lavoro di Davide Lucia si è mosso, è proprio uno dei più considerati e recentemente ha ritrovato interesse nel suo essere contrapposto all’idea relativista dell’inutilità o per lo meno della fragilità dell’Architettura come espressione concreta del pensiero umano nell’assolvimento delle proprie necessità. L’Utopia leggendaria è proprio qui rappresentata al contrario dalla concretezza del lavoro dell’uomo che qui a Campomaggiore ha voluto imprimere la propria impronta, forse già conscio della frivolezza e inconsistenza della propria azione ma allo stesso tempo dell’importanza di questa nei confronti della storia e della crudeltà della natura. Se ancora oggi questi lacerti segnano il terreno e comunicano il pensiero che li ha resi possibili lo si deve proprio a quella scellerata scelta utopica. Certamente siamo d’accordo con l’idea che questo luogo di scarti, in qualche modo un junkspace per i più smaliziati, sia in realtà un deposito di risorse pronte al riutilizzo oppure indifferentemente a rimanere come sono, semplici testimoni di un’azione umana ma non è tutto qui. L’Architettura non finisce mai dove termina il muro che la costituisce, casomai quella è l’edilizia, che è ben altra cosa. Il progetto si propone non tanto il riciclo di queste pietre ma ben altro. L’obiettivo è di rileggere ciò che vi si trova come reperto, come prova documentale, e su questo tracciare una nuova idea di insediamento, con altri fini ed altri esiti. Al centro di quel Meridione d’Italia così difficile e frammentario l’idea è di riproporre un tessuto ipogeo e di definire non un’ulteriore esperienza di musealizzazione ma piuttosto una sorta di vero e proprio monumento abitabile alla storia, e all’utopia appunto, che in quei luoghi ha condotto tanto ad apici di assoluta avanguardia quando a baratri di indicibile crudeltà. La domanda che segue può essere se tutto può avere un senso e se questo possa essere l’atteggiamento corretto. Infondo tanto quanto le utopiche rovine che da li ci guardando dopo generazioni, anche il nostro modo di approcciarne l’essenza è utopico nel suo essere di per se frammento ulteriore e voluta parziale soluzione. Michelangelo Pivetta Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
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Campomaggiore
Riflessi di roccia Impressioni
a sinistra Chiesa Maria SS. del Carmelo, Frammento della facciata, 2014
Monolitica. Ferma nel tempo. Quasi come se il paesaggio circostante si piegasse a lei, alla sua silenziosa presenza, alla sua storia. Come se ci fosse una soglia, un limite, oltre il quale, in quasi due secoli, l’uomo non è voluto andare. Per rispetto. Rispetto di ciò che rimane di quel sogno. Che un uomo ha costruito con la pietra e che la natura ha deciso di fermare, calcificando quelle impronte sulla terra, come un’istantanea, come un fermo immagine di ciò che è stato. Era l’alba e la terra si mosse. Poi venne il sole, e l’ombra che la chiesa quella mattina fece sulla piazza era diversa. E ci fu silenzio. La città taceva. In quella fredda mattina di febbraio, gli abitanti vedevano le loro vite cambiare, crollo dopo crollo. Venne ricostruita, poco più in là. Qualcosa era diverso. L’utopia era finita. Ma non la sua forza. Quell’inspiegabile forza con cui essa oggi è divenuta rovina, l’irremovibile punto fermo nell’accelerazione di quell’orografia che, ostile, scende veloce verso valle, si bagna nel Basento e poi, ancora più veloce, sale di nuovo su, verso le Dolomiti. Ed è li che questo sogno si riflette. Pietra contro pietra, miracolo naturale contro miracolo umano. Imprescindibile dialogo di cui oggi quella ter-
ra non può fare a meno. Ed è nella misura di questa distanza, nell’assoluta percezione di questo vuoto, che i ruderi parlano all’uomo. Da valle, come assoluti padroni di tutto ciò che dominano. E ti senti inerme, sospeso sul fiume, in quella che credi sia la fine di una montagna e l’inizio di un’altra, ma che in realtà nient’altro è che il campo di battaglia su cui si gioca la sfida tra giganti. Da monte, da dove si ha l’impressione che la terra si sia compressa per accogliere quelle pietre, che il paesaggio abbia cessato per un attimo la sua corsa, come fosse una breve concessione, quasi consapevole del tesoro che ne sarebbe sorto, conscio del fatto che da li a poco se lo sarebbe ripreso, stigmatizzandolo per sempre nella sua memoria. E oltre i ruderi, la montagna. Arrogante, fredda. Che si impone sullo sfondo della città, ma rispettando sempre quello stesso vuoto, quella pertinenza di cui il fiume sembra esserne colpevole. Qui, oltre l’acqua, l’attesa. Ed è in questa distanza che la città trova la sua forza. E avverti allora che tutto è al suo posto, nei rapporti, nella misura, nella prospettiva, nei colori. Avverti che non poteva essere che così, che non serve nient’altro. In un istante avviene, capisci che quello che hai davanti non è più panorama.
È diventato paesaggio. Nulla distrae da questa immagine. C’è silenzio. I pochi suoni che avverti sono racchiusi nella memoria di quest’immagine stessa. E così il belare delle pecore ti riporta indietro a scene lontane. In lontananza, il delicato suono delle pale eoliche sparse lungo i crinali. Un suono impercettibile, quasi assente, emblematico della presenza dell’uomo in questo stralcio di Lucania. L’attesa è bellezza. Lo stupore per un’immagine che si concretizza improvvisamente davanti agli occhi, specie se avviene alla fine di un viaggio. La consapevolezza di avvicinarsi, che qualcosa apparirà, da un momento all’altro, dopo la prossima altura, dopo la prossima curva. E così avviene, nel percorso che da Campomaggiore Nuovo porta a Campomaggiore Vecchio. Un continuo susseguirsi di differenti quadri di uno stesso paesaggio, lungo una discesa tortuosa che lo inquadra nella sua totalità. Ora le Dolomiti, ora il lago. Fino a che non compare. Per primo. Unico superstite, che con la sua massività domina dall’alto la città, oggi come ieri, sebbene con rapporti differenti: il campanile. Appare come una figura totemica nella sua integrità, quasi una gentile concessione della natura, una traccia atta al ricordo che fa da guardiano ai frammenti di un an-
tico sogno. Elemento di riconoscimento sia da valle che da monte per il contadino che un tempo viaggiava per crinali in cerca di fortuna. Cammina lungo il fiume, sa che prima o poi accadrà. Alza lo sguardo ed accade. “Siamo arrivati” e indica a sua moglie un punto lontano. “Ecco l’Utopia”.
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Urbs, civitas Sui borghi abbandonati
a sinistra Campomaggiore Vecchio visto dalla strada. Sullo sfondo, le Dolomiti Lucane. 2014
Era gaio questo povero campo maggiore con le sue casette e tutte uniformi ed ordinate in fila come le tende di un campo: coperte da tegole rosse ed ombreggiate da fichi e da viti piantati innanzi alle porte e che salendo lungo i muri facevano festone sull’architrave o intorno la finestrella. Sulla piazza, assai vasta, e posta quasi al centro dell’abitato torreggiava scuro e severo il palazzo di Rendina e di riscontro era la chiesa, bianca e pulita che pareva una sposa, con un bel altare di marmo di Vitulano ed un organo del Carelli. Un semicerchio di colline riparava il paese dal soffio di borea e di Ponente e da prendersi a mezzogiorno e declinando verso oriente lasciava aperta come una larga finestra dalla quale entrava lentamente a fiotti la luce del sole nascente. Il viaggiatore abituato alle strade ripide, strette e tortuose dei paesi di Basilicata, quando giungeva in questo e lo trovava tanto ordinato ed agevole, ne rimaneva sorpreso e compiaciuto. (Cutinella G., Campomaggiore)
Ciò che l’uomo costruisce lascia una testimonianza del valore di quella terra, dell’identità delle genti che vi sono passate e che hanno deciso di rimanervi. La testimonianza del perché ha deciso che quel luogo fosse idoneo per accogliere la sua casa. Di come l’uomo l’ha modificato, nella sua conformazione territoriale, infrastrutturale, sociale. Campomaggiore, e così altri borghi che hanno avuto storie diverse ma che hanno visto nell’abbandono una sorte simile, sono luoghi carichi di questi valori, apparentemente invisibili, ma che non trovano modo di raccontarsi poiché l’uomo non sembra voler ascoltare, lasciandoli andare in quel lento processo di rovina che, tempo prima, qualcosa o qualcuno ha provocato, portando alcuni di questi alla totale scomparsa. Altri resistono, portando con se ancora la memoria storica di quel territorio, essendo capaci ancora di raccontare. Per molti di loro, però, il destino sembra quello di morire di nuovo. Un’altra volta. E questa volta per sempre. Poichè senza tutela, saranno destinati a scomparire e con loro quel pezzo di storia che custodiscono. Ma senza conoscenza, non vi è tutela. Vi è un’inevitabile corrispondenza fra queste due cose. Così questi luoghi rimangono fermi, in attesa, ascoltando il silenzio che li penetra dal giorno in cui sono diventa-
ti tali. Il giorno in cui delle due forme basilari dell’essenza della città, una è venuta meno. Prima vi erano l’urbs e la civitas: l’urbs era la città nella sua struttura fisica, con i suoi edifici, le sue emergenze, le sue infrastrutture; poi vi era la civitas, imprescindibile dall’urbs, poiché era fatta dalle persone che abitavano la città, che con essa e con il territorio circostante avevano intessuto delle relazioni. Quando la civitas viene a mancare, ecco che nascono le città fantasma. E sono diversi i motivi per cui questo avviene, rintracciabili nei grossi eventi storici, nelle forze naturali, nell’asperità dei territori ma anche nelle piccole vicende umane. Le guerre hanno sempre visto l’abbandono di piccoli borghi verso città fortificate, così come i forti dissesti geologici hanno causato esodi di massa verso luoghi più sicuri. Questi abbandoni si sono perpetuati nel tempo sempre per motivi diversi; di molti di questi non vi è traccia, poiché spesso erano piccoli borghi costituiti di capanne. Altre volte queste città erano delle grosse realtà urbane, strutturalmente complesse, il cui improvviso abbandono ha portato alla fondazione dei nuovi centri abitati, in posti che spesso perdono quella cultura dell’abitare nel loro rapporto con la terra, con il paesaggio, diventando soltanto nuove scatole di cemento. Si spoglia l’antico per
quello che si poteva e si lascia lì il resto. Del tempo di quell’utopia, di quella città che cambiò le sorti di quella terra rimane una cancello chiuso, legato con un lucchetto, per proteggere l’uomo dai crolli della città e la città dall’incuria dell’uomo che ne provoca quegli stessi crolli. Non è crollata solo la città, ma un intero senso del abitare quel luogo. Campomaggiore è stato ricostruito ricercando il suo genius loci attraverso la riproposizione della struttura urbana, ma qualcosa non ha funzionato. O forse, non è bastato. Un tempo, l’uomo raggiungeva quella terra come luogo felice per il suo vivere. Oggi l’abbandona, emigrando per le grandi città, portando con sé il ricordo di un antico passato.
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Racconto di un sogno
a sinistra Rilievo archeologico di Campomaggiore Vecchio
1741. Inizio della storia1. È il 30 dicembre quando Don Pasquale Rendina, ancora minorenne, e i suoi due tutori firmano insieme alle 17 famiglie che già abitavano quel feudo l’atto di fondazione della città. “Divisone delle terre e condizioni. Rinascita di Campomaggiore”. Ma torniamo indietro di un secolo. La famiglia Rendina, la cui dinastia è strettamente legata all’evoluzione del paese, era originaria di Benevento, ma nel XV secolo si trasferì a Napoli. Nel 1622 Filippo IV di Spagna concede a Carlo Rendina il titolo di conte. A un solo patto: che questi si legassero a un feudo di antiche origini. E così fu. Campomaggiore era un feudo abbandonato, disabitato fin dall’età aragonese. La famiglia Rendina riusci a comprarlo per pochi ducati, da una tale Cassandra Sabariano, marchesa di San Chirico. Era l’anno 1675. Conte di Campomaggiore era Gerardo Antonio Rendina. Poco si conosce di questi primi anni, ma sicuramente vi era la volontà di ripopolare questo feudo.
1 Per il quadro storico è stato preso come linea guida il libro di Giuseppe Damone Lettura storico critica di una ghost town. Il progetto utopico di Campomaggiore.
Verso i principi del decimottavo secolo si incominciò a raccogliere un primo nucleo di popolazione, formato da salariati della casa baronale e delle famiglie dei coloni che coltivavano quelle terre, nucleo che grazie alle cure e alla preveggenza dei Redina venne man mano crescendo fino a diventare Comune2. Alla morte di Gerardo gli succedette suo figlio Nicola. La popolazione continuava a crescere. La piccola cappella costruita non bastava più: serviva una chiesa più grande. Ma don Nicola morirà prematuramente, nel 1739. Il feudo passa nelle mani del figlio Don Pasquale. E torniamo al 1741. Don Pasquale stilava con i coloni quell’atto che sarebbe stato alla base della storia successiva di Campomaggiore, permeata dal concetto di utopia sociale, sull’equa distribuzione della ricchezza e con Teodoro Rendina, successivamente, basata su un’organizzazione razionale dello spazio. Ad ogni abitante insediato o da insediare è riconosciuto un lotto di venti palmi, circa cinque metri per lato, per la ricostruzione della propria casa. In risposta a questa concessione è richiesto il pagamento annuo di una gal2 Tutte le citazioni del Conte Gioacchino Rendina ivi riportate sono tratte dalla pubblicazione Campomaggiore sulla rivista “Lucania Letteraria” del 1885.
lina o il prezzo della stessa, da versare alla Camera Baronale. Se ciò non fosse stato assolto per tre anni consecutivi, l’edifico diveniva proprietà dei conti. Ad ogni colono venivano riconosciuti appezzamenti di terreno per attività agricole e attività di allevamento. Tutto ciò attraverso il pagamento di oneri di diversa natura, regolarizzati nella stesura dell’atto. I coloni entravano in pieno possesso dei terreni assegnati, godendone di pieni diritti, inclusa la possibilità di darli in dote o in eredità. Doveva essere un accordo vantaggioso per i coloni visto che in pochi anni il feudo da circa ottanta abitanti crebbe notevolmente: i contadini migrarono dalle campagne circostanti per diventare ufficialmente abitanti di Campomaggiore. Morto don Pasquale, sarà il figlio Giuseppe a continuare la sua stessa politica. Ma sarà solo con suo nipote, Teodoro Rendina, che il sogno utopico avrà inizio. Teodoro Rendina diventerà conte nel 1797. È grazie a lui che si avvierà la grande ristrutturazione urbana della città e il rilancio dell’economia del suo latifondo. Era un uomo di cultura e di scienza, formatosi presso il Collegio Tolomei di Siena. Tornò in Basilicata e la prima impressione fu quella di una realtà molto diversa da quella vista in Toscana. Non solo a Campomag-
giore, ma in tutta la Lucania. L’agricoltura era molto arretrata. Si accorse, inoltre, che il paese si stava sviluppando senza alcun disegno urbanistico. La politica portata avanti dai suoi avi aveva permesso la formazione di un borgo con un cospicuo numero di abitanti, ma con case sorte in maniera causale nell’aerea restrostante a dove oggi si trova la chiesa della Madonna del Carmelo, dove sorgeva la prima cappella costruita da Don Carlo e dove si ipotizza sorgesse il primo Palazzo Baronale. Teodoro ebbe presto a mostrare coi fatti quanto si fosse giovato della buona educazione che aveva ricevuto. Egli che veniva dalla gentile Toscana notò subito quanta abietta fosse la condizione di questi contadini trascurata l’agricoltura; e perché aveva l’animo giusto ed il cuore generoso, deliberò dedicarsi tutto al miglioramento di quelli e di questa […] La popolazione di Campomaggiore che grazie alle cure dei suoi maggiori era venuta sempre crescendo, abitavano in case e parte in capanne di stoppia aggruppate senza ordine alcuno intorno alla casa Baronale.
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in basso Giovanni Patturelli, l’architetto dell’Utopia a destra Chiesa Maria SS. del Carmelo, Scorci, 2014
È questo il momento in cui Teodoro decide di pianificare una ristrutturazione urbanistica, introducendo una sorta di piano regolatore che andasse a dettagliare le aree e le modalità con cui edificare. A disegnare ciò fu Giovanni Patturelli, abile architetto della corte Borbonica che aveva avuto modo di farsi apprezzare per il suo talento, formatosi sotto Vanvitelli durante la costruzione della Reggia di Caserta alla quale partecipò; autore anche del disegno di Ferdinandopoli, mai realizzata, con cui si progettava l’espansione della colonia produttiva di San Leucio. È proprio a corte che pare sia avvenuto l’inconto fra i due personaggi. Concepì un’ordinata pianta del paese disponendo tutto a schacchiera con strade larghe, dirette tagliantisi ad angoli retti con vasta piazza nel mezzo Fu cosi concepito un paese con una pianta regolare ed ordinata, con case delle stesse dimensioni che gravitano intorno a Piazza dei Voti e Piazza Rendina, centro del potere e dei servizi. Fu operata una bonifica idraulica che prevedeva la regimentazione delle acque che scorrevano lungo i pendii delle colline e che impaludivano l’area oggi occupata da Piazza Rendina. Proprio li, fu costruita la nuova residenza dei Rendina: il Palazzo Barona-
le, anch’esso disegnato dal Patturelli. Poco più a monte, laddove la vista permetteva di godere di quel sogno che stava prendendo forma, fu costruita anche la Casina della Contessa, la residenza estiva dei Conti. Oltre alla componente urbana, grande fu anche la politica di gestione che Teodoro pensò, una politica di autosufficienza. Il feudo di Campomaggiore, infatti, doveva essere dotato di tutte le attrezzature e di tutti i servizi tanto da dover autosostentarsi ed autogestirsi. Fu così che nella stessa località furono costruiti il Laboratorio del Vino e la Masseria Cutinelli con all’interno un frantoio. Verso valle, quasi in prossimità del fiume Basento, venne invece eretto “lo Jazzo”, una stalla concepita con un’organizzazione razionale degli spazi, che serviva per le attività di allevamento del bestiame e trasformazione del latte. Teodoro era vicino ai nuovi coloni che venivano ad abitare questa terra: donava loro il lotto per costruirvi la propria casa, il materiale per la costruzione e anche un piccolo aiuto in denaro per completare l’edificazione della stessa. A coloro che fabbricava nella casa, oltre il suolo, donava di travi, la calce. E se ve ne era bisogno aggiungeva pure un piccolo aiuto in denari. È vivo ancora qualche vecchio che ricorda aver visto il
nobil uomo andare attorno un po’ curvo, colle mani incrociate dietro la schiena, come era uso, ad investigare le costruzioni del nascente paese e guardare che le mura sorgessero entro limiti segnati e la muratura fosse fatta dovere; con un suo bastoncello tentar la calce e la sabbia per vedere se fossero di buona qualità e mescolate bene, e dar consigli e distribuir biasimi e lodi secondo il bisogno. L’operato di Teodoro funzionava. L’abitato cresceva sempre più velocemente, più di quanto era accaduto nei decenni precedenti. Da circa ottanta abitanti si giunge, nel 1795, a quattrocentodieci, per poi raggiungere i mille nel 1816. Le capanne sparivano e le case aumentavano, la popolazione cresceva. Gli studi in agraria che Teodoro aveva compiuto gli consentirono di riformare l’agricoltura da lui stesso considerata arretrata, nonostante l’agro di Campomaggiore offrisse terreni molto fertili. Introdusse la coltivazione dell’ulivo che fino a quel momento era sconosciuta. È per questa ragione fece arrivare anche da altre regioni delle maestranze che si insedieranno, in maniera stabile, a Campomaggiore. Richiamò dalla Puglia agricoltori esperti olivicoltori, importò piante di viti ed alberi da
frutta che distribuì per incrementare le specie già coltivate. Dalla Puglia e dalla Sicilia importò semenze del grano. Anche nell’allevamento vi sono innovazioni: introduce le arieti merinos e suini casertani, migliora le condizioni igieniche delle stalle. Lentamente Campomaggiore diventava una realtà con un’organizzazione sempre più complessa e funzionale, che non aveva pari nella Lucania interna. Durante il Decennio Francese, nell’Italia Meridionale, Giuseppe Bonaparte procede ad abrogare, nel 1806, le leggi sulla feudalità. Ciò nonostante Teodoro Rendina riesce a mantenere salda la sua posizione, facendo si che nel suo feudo non si verificassero mai scontri tra i coloni per l’occupazione delle terre demaniali. Nel 1811 Campomaggiore diventa comune autonomo. Nel 1822 si raggiungono i 1300 abitanti. Il sogno utopico di Teodoro si stava realizzando. Patturelli, oltre disegnare le case tutte uguali disposte in una pianta ordinata realizzò gli edifici monumentali, un forno, un mulino, un frantoio, le stalle attrezzate e una fonte pubblica. Alla sua morte la città è quasi completata. È il 24 Maggio 1833. Solo la Chiesa, per motivi economici, è rimasta incompleta. Le celebrazioni continuano così nella vecchia cappella a cui più vol-
te vengono fatti lavori di ristrutturazione e di manutenzione a causa di problemi statici a legati ai movimenti franosi che già si iniziavano ad avvertire. Fu seppellito nella cripta realizzata sotto la Casa della Contessa. Qui in Campomaggiore Vecchio vive ancora benedetta la memoria del Conte Teodoro Rendina uomo benefico morto il XXIV maggio MDCCCXXXIII. Vivrà durevole più di questo monumento che gli posero i figli Giuseppe e Saverio. Giuseppe e Francesco Saverio Rendina succedettero al padre. Erano personaggi di spicco nella politica risorgimentale della Basilicata, ricordati anche dalla storiogra a ufficiale. Francesco Saverio Rendina, in particolare, fu deputato del Parlamento Napoletano del 1848, venne poi nominato con l’Unità senatore, carica che rifiuterà. A Napoli ricoprì diverse cariche pubbliche tra cui quelle di assessore e consigliere comunale. Il nuovo conte Giuseppe Rendina continuò i lavori di costruzione del centro abitato che venne ampliato con nuove strutture pubbliche, portando avanti la costruzione della Chiesa, i cui lavori divennero necessari a causa di alcuni movimenti franosi che hanno reso quasi totalmente inagibile la vecchia cappella: l’effige della Madonna
del Carmelo, a cui la chiesa è dedicata, venne trasportata all’interno del Palazzo, dove le celebrazioni avverranno fino al completamento. Morì celibe, e divenne conte per soli nove anni suo fratello Francesco Saverio. Morì anche lui celibe. Il testamento prevedeva che l’ erede sarebbe stato il nipote Gioacchino, figlio della loro unica sorella Teresa e di Mattia Cutinelli. È con Gioacchino Cutinelli Rendina che Campomaggiore vedrà la sua seconda fase di splendore. Gioacchino nacque a Napoli nel 1829 e si fece conoscere sin da giovane per le sue idee liberali. Ancora studente partecipò agli episodi del 1848 e questo gli comportò l’iscrizione nella lista degli “attendibili politici” e fu dunque condannato al domicilio coatto. Fu solo grazie all’intermediazione di suo zio Saverio che riusci a scontare questa condanna a Campomaggiore, venendo successivamente cancellato dalla lista dei sorvegliati politici. Dopo l’Unità Gioacchino contribuì alla lotta al brigantaggio. L’amore per il suo feudo che gli zii gli avevano trasmesso, porterà Gioacchino a rinunciare a diverse cariche politiche per ritornare nel feudo di famiglia, del quale ne divenne sindaco e poi conte. Come suo nonno, riuscì a portare Campomaggiore a nuovi splendori, continuando il sogno utopi- 17
in basso Casina della Contessa, 2014 a destra Foto d’epoca del Palazzo Baronale
co. È una realtà lontana da quella di Napoli, dove era cresciuto, ma era rimasto affascinato dalla politica dei suoi avi che avevano fatto di una città così interna geograficamente, una città progredita rispetto al contesto lucano. Si occupò soprattutto di interventi urbanistici e di manutenzione e costruzione di opere pubbliche, oltre che di proseguire il disegno urbano della città che era arrivato nel 1871 a 1423 abitanti. Eretto a Comune e vivendo di vita propria, Campomaggiore sempre più andò progredendo, e perché abitato da gente laboriosa, di suolo fertile e con svariati prodotti, l’agiatezza si venia diffondendo e il fabbricato allargando. Io che scrivo in men di vent’anni ho visto sorgere tutto intero un nuovo rione, e come oramai lo spazio mancava a fabbricare, alle camere terrene, si cominciò a sovrapporre le stanze soprane. Grazie a Gioacchino, nella metà del XIX secolo nel territorio di Campomaggiore furono realizzate diverse infrastrutture, come la linea ferroviaria lungo la valle del fiume Basento e la strada provinciale. Quel territorio che fino a quel momento era ostile e poco penetrabile, divenne aperto alle linee viarie grazie alle nuove infrastrutture. Ma la terra cominciava a muoversi. Nel 1885 il sogno finì. Il 10 febbraio una
delle tante frane che da tempo aveva dato avvertimenti e per cui non erano mai stati fatti gli interventi programmati, distrusse gran parte della città. Il giorno 10 verso le cinque del mattino due contadini del paese conducevano al mulino i loro muli carichi di grano. Quando furono al primo ponte della rotabile, che si incontra, uscendo dall’abitato, le due bestie dettero segni di paura e passarono riluttanti; al secondo ponte, che era un centinaio di metri più innanzi, si mostrarono anche più inquiete, una delle due passò, renitente l’altra ricusò ostinatamente di progredire. Era ancora buio e i contadini non sapevano spiegarsi la paura delle bestie: ma uno di essi ripensando ai fatti del giorno precedente e credendo all’istinto del mulo volle tornare indietro ed invitò il compagno a fare altrettanto. Quegli si ostinò a proseguire ma fatti appena altri seicento passi trovò il terzo ponte caduto e la strada rotta, in modo che gli fu impossibile andare innanzi. Raggiunge allora precipitosamente il compagno e tutt’e due diedero l’allarme al paese, e cosi fu che tanta rovina non si ebbero a deplorare vittima. Tutta la gente uscì fuori dalle case e guardava, fatto giorno chiaro, ansiosa e trepidante, il progredir della frana. Questa veniva giù dal lato nord e dal la-
to ovest e premendo sul piano nel quale era edificato il paese, lo spingeva innanzi a valle producendo avvallamenti spaventosi. Non è possibile concepire senza vederlo lo sconvolgimento prodotto da questa gran massa di terra che di sopra è venuta precipitando a cozzare sull’altra sottoposta. Vi sono zone di terra che hann progredito di oltre quindici metri, altre che si sono affondate per cinque e dieci metri: alberi posti colle radici in aria, altri distesi per terra, altri rimasti in bilico, che al più piccolo soffio precipitano. Una gigantesca mina di dinamite non avrebbe potuto produrre effetti più perniciosi. La frana si protrarrà per diversi giorni, provocando altri crolli e danneggiamenti. L’intera popolazione fugge verso le campagne e per trovare riparo dalla pioggia, dalla neve e dal gelo che in quei giorni imperversavano, trovò una sistemazione di fortuna negli edifici rurali e nella Casina della Contessa. Da li, gli abitanti videro verso valle la fine dell’esistenza della città nata dal sogno di un uomo illuminato e costruita con l’impegno del loro lavoro. Così annunciava l’accaduto il cantore al marchese Gioacchino che in quei giorni si trovava a Napoli: Stimatissimo signor Marchese, Le scrivo la presente cogli occhi bagnati di lagrime, qual uomo colpito da grave sciagura, e gurandomela presenta con la buona Sig.ra Marchesa Laura, quali miei cari ed affettuosi amici, o per meglio dire sviscerati benefattori s’accresce in me l’affezione e non posso soffocarla che con calde lagrime e ripetuti singhiozzi. La triste sciagura capitataci con l’intera popolazione non poteva al certo essere più infelice di questa, s’immagini Lei quali sono i sintomi e gli effetti di tale catastrofe di crudele franamento. L’infelice Campomaggiore non più esiste.
Le case erano semi distrutte. Dopo la frana, qualcuno tornò provvisoriamente a vivere nella propria casa.Ma il paese doveva essere ricostruito. Si cercò una zona del feudo che potesse essere idonea, non soggetta a movimenti franosi, non lontana dai campi coltivati e che fosse abbastanza vicina per recuperare il materiale dai ruderi e riutilizzarlo per la nuova edificazione. Questo posto fu trovato, e oggi vi sorge la nuova città. La volontà di Gioacchino Cutinelli Rendina di vedere rifiorire il suo paese fu stroncata per sempre dalla sua morte prematura. È il 2 novembre 1885, Gioacchino percorre la strada che da Campomaggiore Vecchio porta al Casino della Contessa. Una improvvisa caduta da cavallo. E poi la morte. Campomaggiore Nuovo non riuscì più a raggiungere lo splendore del paese Vecchio. Ed è tanta la fede che ho nella operosità di quella brava gente, che se fossi più giovane prenderei impegno di mostrarlo fra trent’anni prospero ed agiato come era al giorno del disastro. Sarebbe grave danno e maggior vergogna se Governo e Provincia né volessero, né potessero oggi, quello che nel passato secolo volle e seppe fare una famiglia di privati.
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in basso Scorcio delle Dolomiti lucane da una via della cittĂ vecchia, 2014
Son cento anni dal triste evento è giusto un secolo da che crollò. Che ne infausta, che tradimento l’avversa sorte gli riserbò! Era incantevole, era invidiato, avea l’aspetto d’una città, le vie diritte dell’abitato, era un’antica modernità. Cinto di colli verdi e ridenti, di beni e pace dispensator, uomini forti, donne avvenenti, vita orgogliosa, vita d’amor! E a nulla valsero lavoro e fede, il rio destino qui si accanì, lotte col demone, soccombe, cede, e in una sola notte perì. Io ti saluto Campomaggiore, oh, quanti drammi vissuti hai tu! Da sempre regni qui nel mio cuore anche se oggi non ci sei più! Gerardo Loguercio, anni 72 Poesia tratta dall’opera di Filardi G., Storia di un paese Lucano, vol III, pag 63
Utopie ipogee
Silenziosa rovina
a sinistra Palazzo Baronale, Frammento della facciata, 2014 nelle pagine precedenti Inquadramento territoriale con Campomaggiore Vecchio (a destra) e Campomaggiore Nuovo (a sinistra). A valle, il fiume Basento e la strada statale Basentana
Ricordatevi di progettare delle belle rovine (August Perret)
C’è un momento, dall’inizio della sua costruzione al completamento, in cui un’architettura anticipa le sue sorti. Inevitabilmente. È il momento in cui si avverte questo primo dialogo fra l’edificio e il luogo che lo accoglierà. Non come ospite, non come estraneo, ma come parte integrante di quel luogo stesso, come un nuovo frammento, un elemento di continuità di ciò che è già stato, che lo ha reso tale e che ancora non ha smesso di esercitare la sua forza. Campomaggiore Vecchio sorge silenziosa, come una rovina monolitica che la terra custodisce gelosamente. Come se la natura, ormai unica padrona, avesse deciso, all’improvviso di schiudersi per mostrare ciò che nasconde. E invece no. L’Utopia l’ha fatta l’uomo. È stata il risultato di un lento processo, un susseguirsi di fasi costruttive, di pianificazioni intellettuali. Di scelte. Progettare a Campomaggiore Vecchio significa rapportarsi a questo. Avere la responsabilità di essere ciò che viene dopo, di ciò che sarà: l’architettura lotterà con i suoi materiali contro la forza di gravità fino a quando, un giorno, questa non riporterà la sua inesorabile vittoria. Come è sempre stato. Ed è li, in quell’istante, che diverrà parte eterna di quell’immagine, di quella stessa immagine iniziale, di quel delicato equilibrio, con una nuova fase che par-
lerà un nuovo linguaggio: quello della contemporaneità. Come scrive Ungaretti “La rovina conquista all’architettura un valore universale. L’architettura ha sempre una doppia componente: una attuale, contingente, immersa nella contemporaneità; l’altra universale, eterna. Questa è la condizione perché l’architettura sia degna di portare questo nome”. Se quell’equilibrio verrà rispettato, se quel silenzio che gravita su ogni singola pietra continuerà a pervadere quell’immagine, se l’atto progettuale darà vita a una nuova rovina e non a delle macerie, allora l’architettura sarà parte di quel monolite. Un nuovo monolite. Prenderà parte alla poesia che quelle rovine ancora riescono a esprimere: non semplici frammenti della memoria di una città che il tempo ha fermato, ma parte di una totalità più grande, della consapevolezza di un paese e di una tradizione che reputa quelle pietre una soglia tra la grandezza di ciò che è stato e quello che ancora potrebbe essere. La percezione della rovina avviene differentemente nella misura di quanto questa parla all’anima. Solo chi possiede la coscienza della temporalità e della storicità della sua terra ne coglie la bellezza e la potenza. Chi, attraverso la rovina, riesce a fermare il tempo e godere dell’assolutezza di alcune immagini che oramai sono estranee alla
nostra realtà e ad ancorare la propria identità in un mondo in rapida trasformazione dove, come scrive Marc Augè1, le macerie non hanno più tempo di diventare rovine. Altrimenti la rovina rimane muta, incomprensibile, un semplice resto del naturale processo distruttivo. A volte ingombrante, fastidiosa. Non solo fisicamente, ma anche per la mente. Essa parla a chi è in grado di comprenderla, di non lasciarla nella sua condizione di semplice eredità del passato ma di trasportarla nel presente per non lasciarla morire, come scrive Francesco Venezia2, una seconda volta, volgendosi con responsabilità al futuro, esercitando da una parte la memoria, dall’altra la progettualità.
1 Cfr. Augè M., Rovine e Macerie, Il senso del tempo. 2 Cfr. Venezia F., Che cos’è l’architettura.
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Finis coronat opus
a sinistra Schema delle fasi evolutive dell’impianto urbano
Il mondo sotterraneo, che meglio di qualsiasi altro esprime una condizione fondamentale di riferimento per l’uomo è, nella memoria, una percezione originaria del costruire. Ognuno di noi, pensando ad una prima forma di costruire, pensa allo scavare. (Francesco Venezia)
Lettura della città Considerazioni alla base del progetto Campomaggiore Vecchio oggi si presenta come un insieme di tracce. Nonostante il tempo trascorso, nonostante i crolli che hanno interessato quasi la sua totalità, nonostante le operazioni di spoliazione del materiale della città vecchia per costruire quella nuova. È da queste tracce che il progetto trae la sua forma, ma, prima ancora, dalla lettura della città. Campomaggiore nasce come città di fondazione, ovvero secondo un progetto ben definito a seguito di una precisa volontà. Dai Greci in poi, attraverso le teorizzazioni di Ippodamo di Mileto, la città di fondazione si è sviluppata secondo esigenze ed esperienze diverse attraverso tutta la storia, passando dal castrum romano, basato sul cardo e decumano, arrivando fino alla città ideale rinascimentale, nata nel tentativo di trasporre una riflessione teorica utopica-umanistica nelle forme concrete di una città. La trattatistica sulla città ideale trovò ampio respiro nell’elaborazione della fortificazione moderna e molte furono le città costruite per scopi difensivi che all’interno delle mura presentavano uno schema geometrico della struttura urbana, una tra tutte Palmanova. Al di fuori dell’esperienza difensiva, le città di fondazio-
ne, specie nell’epoca post rinascimentale, nacquero anche per altri motivi, uno tra questi è quello volto all’insediamento produttivo e proto-industriale di cui Campomaggiore, insieme a San Leucio in Campania, rappresenta uno degli esempi tipologicamente emblematici. La sua natura di città di fondazione a scopo produttivo è stata decisiva nella lettura della città e della sua evoluzione poiché da un primo nucleo, costituito dal Palazzo Baronale e dalla Chiesa di SS Maria del Carmelo, e da un primo gruppo di abitazioni disposto in ordine casuale intorno a questo, la città si è evoluta attraverso diverse fasi seguendo la griglia ortogonale disegnata dal Patturelli, per far fronte al forte incremento demografico che la città ha visto in quasi due secoli di vita in seguito alla prosperosa attività produttiva. Questa espansione è avvenuta in maniera centripeta intorno a Piazza dei Voti, piazza centrale sul quale si affacciano i due Poteri della città oltre ai servizi principali e gli edifici pubblici. L’evoluzione urbana, che prevedeva quindi il palazzo Baronale come perno centrale, è interrotta a Ovest, dove l’orografia, ostile, non permetteva di continuare il disegno della città, il quale sembra mancare della sua parte terminale. Campomaggiore, infatti, è un centro di media valle e sorge proprio
nel punto in cui il pendio frena, per diverse centinaia di metri, la sua discesa verso il Basento. Laddove il pendio non permetteva l’espansione edilizia, da una attenta lettura della città si può notare come la pianificazione a tavolino del Patturelli abbia previsto, nei limiti del possibile, l’edificazione di muri controterra atti ad aumentare la superficie edificabile disponibile. Lo stesso palazzo Baronale, con il relativo giardino privato, trova la sua possibilità di realizzazione proprio grazie a questo tipo di intervento.
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a sinistra Planimetria di progetto nelle pagine precedenti Prospetto verso valle
Il progetto Laddove la città si è fermata, lì inizia il progetto. Dove la forte orografia, o semplicemente il tempo inesorabile, ha reso impossibile completare questo disegno urbano, è di nuovo l’architettura a intervenire. E lo fa attraverso il medesimo principio, l’addizione, attraverso quella stessa operazione che, due secoli prima, aveva permesso ad un piccolo, primordiale nucleo urbano di espandersi e, nel tempo, diventare ciò che poi sarebbe stato. Dove la terra termina, lì se ne porta altra. Un nuovo muro. Richiamando quello stesso elemento generatore di frammenti di città, il progetto riprende il muro di contenimento, mantenendone l’espressività, ma non la matericità, traslata nel linguaggio contemporaneo. Attraverso l’attenta ricerca delle geometrie sottese a quelle tracce che ancora permettono di individuare il disegno originale, il progetto si pone a chiusura della città, come terminazione, fase conclusiva, e lo fa insediandosi, con più forza rispetto al passato, nel punto in cui il terreno accelera la sua discesa verso valle: il disegno urbano trova la sua compiutezza e il Palazzo Baronale torna ad essere al centro della composizione della città. Se da una parte il muro concede alla città nuovo spazio per continuare la
sua crescita, dall’altra il progetto sceglie di svilupparsi al di sotto della superficie, quasi volesse rispettare quella linea di demarcazione tra l’ultimo rudere e le dolomiti che fronteggiano la città, immagine ormai assorbita, interiorizzata, quasi sacra nel suo rapporto con il paesaggio per chi dal paese nuovo scende verso quello vecchio. Avanza verso le dolomiti, silenziosamente. Oltre gli ultimi ruderi, dove prima c’era il vuoto, la città continua, trovando un nuovo rapporto con ciò che guarda. Percorrendo la Basentana, il rapporto si inverte. Se scendendo da monte il progetto sembra quasi scomparire nel paesaggio, da valle mostra la sua massività. Come fosse da sempre parte di un tutto, riportando alla mente antiche immagini Schinkeliane, sembra nobilitare la città ponendosi come suo basamento, quasi fosse un’antica acropoli, contrapponendo il pieno del suo prospetto, che in nessuno punto cede la sua massa per dialogare con l’esterno, alla ormai vacuità della città che sostiene, che solo nel campanile e nel palazzo trova maggiore forza. Da sempre l’uomo ha cercato nel sottosuolo un luogo inevitabile del suo vivere. Sopra vi era l’abitare, il quotidiano, il terreno. Sotto, il sacro, lo spirituale. Dapprima ciò avveniva all’interno di
cavità naturali, adeguandosi alla morfologia del terreno. Da un certo punto in poi, l’uomo ha fatto di questi spazi architettura, dominandone i rapporti fra le parti, la successione degli spazi. Cercando di tradurla in quelle forme che potessero essere idonee a quello di cui necessitava. Ogni parte del progetto vive di questo principio. All’esterno è misurato in ogni sua parte dalla città utopica con la sua regolarità ortogonale. All’interno, invece, a generare l’architettura è lo scavo: un’operazione progettuale differente, che trova le sue radici nell’architettura funeraria dell’antica Grecia, nelle catacombe cristiane, nelle città scavate del Mediterraneo e del Medio Oriente. Se prima dunque era la dimensione della città a misurare il progetto, ora è quella dell’uomo. Si scava in relazione a ciò che serve. Si scava per cercare quegli spazi di cui l’uomo ha bisogno per comunicare qualcosa o perchè qualcosa gli venga comunicato. E ciò avviene nella successione continua di compressioni e decompressioni dello spazio. È questo il principio che permea tutto il progetto, quella ricerca e quel controllo compositivo che già caratterizzava l’architettura tombale greca e, ancora prima, egiziana, dove l’uomo cercava il rapporto con il divino proprio in quell’istante, l’istante in cui
lo stretto cunicolo si apriva alla grande sala ipogea. Ne è un esempio il Tesoro di Atreo 1( sec. XIV a.C.), il tholos meglio conosciuto come Tomba di Agamennone. La tomba si compone di un corridoio di accesso scoperto che penetra dentro la collina e termina davanti la facciata della tomba. L’entrata alla sala non occupa tutta la larghezza del corridoio, ma si restringe in un breve cunicolo la cui porta è incorniciata da due semicolonne addossate alla parete. Oltre questo restringimento, la grande sala. Uno spazio puro, integro, dove nulla turba quella tensione che si avverte: primo esempio di spazio esclusivamente interno concepito senza nessun riferimento esterno. Lo spazio verso cui l’uomo si dirige senza la consapevolezza di quello che troverà. Cammina, nella compressione di quello spazio che a null’altro serve se non a prepararlo a ciò che sta per accadere, a quell’attimo in cui, nell’improvviso cambiamento del rapporto spaziale, passa dall’essere padrone assoluto di ciò che lo avvolge a essere inerme davanti al grande, improvviso vuoto. E non sa spiegare bene cosa accade, ma avverte che quel salto di scala l’ha messo in rapporto con qualcosa di più grande: la divinità. Non è servito nient’altro: nessu1
Cfr Espuelas F., Il Vuoto.
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a sinistra Tindaya - Pesquisa Eduardo Chillida nelle pagine precedenti Sezione di progetto
na decorazione, nessun simbolismo. La presenza dell’uomo quasi non si avverte. È bastata la purezza della forma, il vuoto perfetto. Questa continua alternanza di spazi compressi e dilatati scandisce il percorso museale. L’intero scavo si genera dalla sovrapposizione di due griglie, entrambe costituite da una maglia 60x60cm emblematica di come tutto si basi sulla necessità del passaggio umano. La prima segue l’ortogonalità della griglia della città, a cui risponde l’intera volumetria del progetto. La seconda, invece, ruota lungo l’unico asse della città che presenta una diversa direzione e che ancora si legge nell’impianto, ovvero quello dell’antica cappella esistente prima della costruzione della Chiesa della Madonna del Carmelo, appartenente all’impianto orginario, quello del primo borgo spontaneo antecedente al disegno urbano del Patturelli. Sulla sovrapposizione di queste due griglie si misura l’intero progetto: una città scavata che si genera senza riferimento alcuno con ciò che accade sulla superficie. Sopra, il rigido ordine dell’urbanistica illuminista. Sotto, il disordine razionale della città mediterranea. L’unico contatto tra queste due realtà avviene tramite i pozzi di luce che illuminano le grandi sale e il grande taglio orizzontale che, sul prospetto latera-
le, esce fuori dalla terra e si interrompe laddove la misura del muro del giardino gli impone il suo limite. I pozzi si presentano come “tracce utopiche”: sono misurati perfettamente dai moduli delle abitazioni che caratterizzano i filari appartenenti all’ultima fase di espansione della città, moduli pressocchè tutti uguali poiché rispettano i principi socialisti alla base della concezione della città. Se nella città il modulo rappresenta un pieno, nel progetto ne diventa il negativo, un vuoto che lo scava in tutta la sua altezza: tre pozzi portano la luce nelle tre grandi sale del percorso, mentre un quarto, emblematico, poiché permette di misurare la profondità dell’intero scavo, contiene la grande scala monumentale a cielo aperto che, dall’ingresso, introduce all’interno del museo. È il pendio naturale della terra che entra nel progetto e ne definisce l’ingresso. Laddove l’attuale strada che arriva dal paese nuovo entra nella città vecchia svolta verso il percorso di crinale, la terra entra nel basamento dividendolo in due parti, quasi come se di questa strada ne volesse essere la continuazione. Questa partizione, che rispetta le geometria della città, vede il progetto frazionarsi in due parti, apparentemente indipendenti, ma che comunicano a livello ipogeo: da una parte
il museo, dall’altra, dimensionalmente più piccolo, il volume dei servizi, misurato dall’ultimo isolato della città. Questo si pone come fosse un frattale staccato del volume del museo, del quale ne riprende la stessa forma in scala diversa. Questa tensione di distacco che ne deriva viene enfatizzata in prospetto dove si pone come ultimo elemento alla fine della sequenza di decelerazione volumetrica che vede in successione il Palazzo Baronale, il giardino ed, infine, il progetto nelle sue due parti. A metà della sua discesa la terra intercetta il volume dei servizi e ne genera l’entrata. Qui trovano posto l’auditorium, la caffetteria, i servizi al pubblico, l’archivio museale e, nel livello più basso, i locali tecnici e i depositi direttamente collegati con il museo. Continuando verso valle, una scalinata parzialmente affiorante dal terreno conduce all’ingresso del museo. Oltre non si può andare. Da qui in poi, solo paesaggio. Una seduta monolitica posta alla fine della scala permette di sostare per godere della vista. Ultimo sguardo verso il sole prima di scendere all’interno della terra. Il museo si presenta come un percorso continuo di risalita che da ventidue metri di profondità ritorna in superficie. La monumentale scala bron-
zea, inserita all’interno di uno dei pozzi, permette di superare il dislivello e di scendere alla quota più bassa. Ciò è rappresentativo di uno dei temi che compositivamente caratterizzano tutto il progetto: ogni operazione di scavo avviene attraverso figure pure, stereometriche. Tutto ciò che serve all’uomo per abitare questo scavo, come i collegamenti verticali ed orizzontali o le strutture per l’allestimento, viene affidato ad un solo materiale: il bronzo. Qui si gioca il dualismo materico che caratterizza tutto il progetto: da una parte il cemento che ne definisce le spazialità nella sua totalità, che viene lasciato volutamente allo stato grezzo per indicare, come nel Tesoro di Atreo, la minima presenza dell’uomo, limitata alla sola necessità strutturale. Dall’altra il bronzo, quasi un elemento estraneo alla terra, che invece diviene emblema dell’artificio umano, che l’uomo utilizza per abitare un luogo diverso da quello che la natura gli ha destinato. Lo scavo genera tre grandi sale, aventi lo stesso impianto planimetrico quadrato, ma altezze diverse poiché poste a quote differenti: di queste la prima risulta essere un cubo perfetto. Ogni sala, che nell’allestimento rivela il suo tematismo, risulta un volume puro, illuminata dai pozzi che dalla 37 superficie scavano la terra inon-
a sinistra Ingresso al percorso nelle pagine precedenti Planimetria
dando lo spazio di luce, ma allo stesso tempo esponendolo ai fattori meteorologici: le sale, nella misura in cui sono interessate dai lucernari, diventano a cielo aperto. Il percorso, infatti, non è inteso come un interno ma come un percorso ipogeo che, analogamente a quanto accade per le grotte, intercetta in più punti l’esterno e da questo ne prende le condizioni climatiche. Come nel museo storico di Salisburgo di Hans Hollein, quest’architettura si caratterizza per il suo viscerale rapporto con il sottosuolo stabilendo, anche attaverso questi espedienti epidermici, un forte dialogo con i sensi. Le sale, che nella conformazione scultorea presentano un forte richiamo alla Tindaya di Eduardo Chillida, sono progettate secondo una volontà compositiva ben precisa: in ogni sala si entra in angolo e si esce nell’angolo opposto, ogni volta in luce, per far si che sia la spazialità della stanza, sia l’allestimento, siano vissute obbligatoriamente dall’uomo che la attraversa. Il loro collegamento avviene, alle diverse quote, attraverso un sistema di gallerie in salita, all’interno dei quali, i rapporti spaziali cambiano: come per le architetture funerarie greche, lo spazio si comprime, raggiunge la dimensione umana, preparando chi lo percorre all’esplosione della grande sala, dove, dopo il buio, torna la luce.
Le gallerie si snodano in un percorso che gira intorno alle stanze e porta l’uomo ad una condizione di disorientamento, un “labirinto ordinato” come direbbe Aldo Van Eyck, dove gli unici riferimenti spaziali sono affidati agli istanti in cui le gallerie intercettano, a diverse quote, le stanze, offrendone inedite prospettive e percezioni differenti. Lungo il percorso, alcune pause espositive scavano le pareti delle gallerie per trovare nuove spazialità, che variano a seconda di ciò che vi è esposto: l’architettura dello scavo è generata da ciò che deve contenere. Anche questa conformazione di pieni e vuoti richiama la ricerca di Chillida, emblematica della forte relazione tra scultura e architettura nel loro rapporto con la materia. Dopo aver lasciato l’ultima sala, il percorso risale verso l’esterno. Ciò avviene recuperando il tracciato del vecchio giardino privato del Palazzo Baronale, posto a una quota leggermente più alta rispetto alla città: il giardino, insieme al palazzo, diviene così parte integrante del progetto. Le geometrie dell’antico orto vengono riproposte, disegnando lungo tutto il perimetro la fase finale del percorso che, entrando nel giardino in trincea, ad una quota più bassa dalla parte opposta al palazzo, continua la risalita fino a giungere in superficie. È durante
questa lenta risalita a cielo aperto che si inizia a recuperare quell’orientamento che l’esperienza ipogea aveva fatto smarrire. La leggera inclinazione del giardino, che dal palazzo si piega verso l’uscita, contribuisce a svelare, lentamente, ciò che c’è al di sopra, andando a rafforzare quella visione prospettica che vede il palazzo baronale al centro dell’insieme. Questo è un luogo di silenzio. Un prato verde circondato dalle mura perimetrali che celano ciò che accade intorno. Da una parte vi è la città, dall’altra la montagna. È un momento di sosta: il percorso non è ancora terminato. L’ultimo momento progettuale è il palazzo. Questo, in continuità con quanto già è stato deciso dalla amministrazione comunale2, viene totalmente recuperato per anastilosi ai fini della sua musealizzazione. Sui due piani, che girano intorno al cortile centrale che fa da perno al palazzo, si sviluppano, al piano superiore, l’ultima parte del percorso, mentre al piano inferiore i servizi al pubblico e i servizi di ristorazione. Se il palazzo viene recuperato nella sua conformazione originale, ciò non avviene per il rudere destinato ad acco-
Il palazzo baronale è attualmente in fase di restauro per un progetto di recupero a ni museali. Il progetto di tesi si pone come complementare, includendolo nel percorso ma dando solo un’indicazione della nuova destinazione.
gliere i collegamenti verticali alternativi alla lenta discesa naturale, necessari per l’accessibilità dei disabili. Questo si presenta come un volume puro, che si innesta sull’impianto di un modulo abitativo, recuperandone quelle poche tracce lapidee rimaste ed esaltandole, come Zumthor nel Kolumba Museum, attraverso un cambiamento materico. All’ interno, la sua bipartizione ospita due scavi: in quello minore vi è il montacarichi che permette lo scarico a tutti i piani del progetto; in quello maggiore, una struttura bronzea contiene scala e ascensore e permette l’accesso a tutti i piani destinati al pubblico: auditorium, archivio e ingresso al museo.
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In questo luogo, adesso
Per quale peccato originale, per quali orgogli, per quale maledizione della storia, per quale fatalità geografica noi italiani del nord e del sud non riusciamo a fare di questo Paese un paese unito? (Giorgio Bocca)
È ormai lontano il giorno in cui fu pronunciata la famosa frase “Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”. Dopo un secolo e mezzo, quella preoccupazione di Massimo d’Azeglio sembra essere rimasta. Dopo tutto questo tempo, c’è ancora chi fatica a parlare di Italia. Peggio, c’è ancora chi avverte la presenza latente di problemi a cui però non è in grado di dare una ragione storica, perché non in grado o perché, forse, non ne ha interesse. “Da che ne ho memoria, ci sono sempre stati”. Come fossero congeniti. Si rema nella direzione opposta a quella a cui si deve andare. La ricerca di una vera identità nazionale lascia spesso il posto, a Nord come a Sud, a realtà opposte, quelle che non tendono a comprendere, ma si limitano a condannare l’altro, a prescindere. Che guardano al passato non come punto di ripartenza, ma semplicemente come un possibile ritorno, l’unica soluzione. L’Unità di Italia comprende molte vicende storiche e verità, tra loro controverse, che negli ultimi decenni sono soggette a continuo revisionismo, molte delle quali sono alla base di questa disparità. Si parla di questione meridionale, di emigrazione, di criminalità, ma non vengono
a sinistra Opera scultorea “La famiglia” di Vincenzo Mancuso
mai forniti gli strumenti giusti per far si che ciascuno possa comprenderle a pieno sino alle radici formulando un proprio pensiero critico. Non viene fornito un quadro che porta l’individuo ad andare oltre il semplice pregiudizio. E questo ci blocca: cento cinquant’anni fa come ora. Non riusciamo quindi ad essere l’Italia che, memore degli errori delle generazioni che hanno vissuto questa Unità, si riconosce insieme in qualcosa di nuovo. Ci limitiamo a continuare ad alimentare conflitti di vecchia data, che spesso non si comprendono a pieno poiché non si hanno gli strumenti adatti ma soprattutto perché appartengono ad un tempo e ad una società troppo lontani dalla nostra per poter arrogarci le capacità di poterle giudicare in maniera assoluta. L’Unità è costata sacrificio. È stata il risultato finale di una guerra che, come ogni guerra, ha vissuto tragici episodi e ha visto drammatiche statistiche. Sono molte le cause che hanno provocato queste fratture che sono arrivate fino ad oggi. Il percorso museale vuole fare questo, tentare di sanare queste fratture, avere la possibilità di far più luce, attraverso la storiografia che su questo tema ha chiarito molti aspetti negli ultimi decenni. Un percorso dentro la terra che racconta la storia del meridione in questo lasso temporale, dalla restaurazione post-napoleonica alla fine
della guerra civile post-unitaria, periodo che racchiude la giusta chiave di lettura per comprendere ciò che è venuto dopo, ma soprattutto ciò che c’è adesso. Si pone come racconto cardine della condizione politica, socio-culturale, economico-industriale del Sud, a partire dal secondo regno borbonico, attraverso l’analisi di punti di forza e debolezze, fino ad arrivare agli anni dell’Unità. Cerca, soprattutto, di fornire all’uomo gli strumenti idonei per un’analisi critica personale, indagando, attraverso le fonti storiche, quel discusso e complesso passaggio dal pre unità al post unità che ha visto il Sud Italia passare, in pochi decenni, da una condizione trainante nel panorama europeo dal punto di vista industriale, culturale, economico, ad uno dei territori più poveri del Mediterraneo. Condizione, questa, che ne ha ribaltato inevitabilmente le sorti, innescando tutti quei meccanismi che si sono perpetuati e trascinati fino ad oggi, dei quali conosciamo i nomi ma non la loro esatta provenienza. Nulla di questo, però, può accadere senza un processo di conoscenza: la coscienza di un popolo è in misura di quanto a questo gli è concesso di sapere. Non il sapere passivo di un qualcosa che ci viene detto, che mai rispecchia una verità assoluta e che cela, a volte, verità nascoste, ma il sapere nell’accezione più profonda del termine, quel
“sapère” latino che vol dire esser saggio, capire. Prendere coscienza da soli, analizzare, realizzare, essere critici. Scrive Milan Kundera: Per liquidare un popolo si comincia con il privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, gli fornisce un’altra cultura, un’altra storia Questo è ciò che spesso porta un popolo a non avere coscienza di ciò che è stato e lo rende incapace di voler sapere. Campomaggiore è l’emblema di una società modello che, attraverso una pianificazione sociale, urbana, economica che riecheggia di infussi culturali illuministi europei, è rappresentativa di cosa fossero queste terre in quel periodo. Eppure adesso, rimangono solo pietre. Pochi conoscono, in Basilicata, quella storia. Pochi sanno quali contributi quell’esperimento sociale ha dato alla loro terra. È per questo che il museo trova ancora di più, in questa parte di Lucania, la sua ragion d’essere. Si riparte da qui. Dove in superficie, sotto il sole, c’è la testimonianza di ciò che si scopre al di sotto. In un percorso ascensionale che, nella città dell’Utopia, si assume il compito di fare questo. Forse un’al43 tra utopia. Un’utopia ipogea.
Il percorso
a sinistra La scala scultorea bronzea che conduce all’inizio del percorso
Noi preferiamo le vie tortuose per arrivare alla verità. (Nietzsche F., Ecce Homo) Ogni edificio racconta una storia o, per meglio dire, diverse storie. (Daniel Libeskind)
La lenta discesa nel basamento, che all’arrivo nella città vecchia ti invita a scendere verso quella porzione di paesaggio inquadrato dai due grossi muri, aumenta gradualmente la sua velocità. Dapprima lenta, continua la naturale pendenza del terreno, accelera nel secondo tratto laddove la terra svela la presenza di una scala affiorante che porta all’ingresso. Oltre questo, inaspettatamente, la discesa continua. La compressione dello spazio che dall’esterno penetra all’interno esplode nuovamente nel pozzo della scala: a metà fra il cielo e la terra, una grossa scala bronzea si aggrappa alle pareti fredde dello scavo e supera la verticalità del pozzo. Qui inizia in percorso. Un percorso ascensionale continuo, che parte dal fondo per tornare in superficie, molti metri sotto quei frammenti di Utopia. Come se non fosse ancora il momento di vederli. Come se non si fosse pronti. Come se, prima, servisse qualcosa. È questo l’ultimo momento in cui l’uomo riesce a collocarsi spazialmente nel progetto. Da qui in poi, il percorso di risalta lo porterà ad una condizione di disorientamento: soltanto arrivato nuovamente in superficie lo riacquisterà. Il percorso si divide in diverse tappe tematiche, ognuna caratterizzata da spazialità ben definite. Alle tre grandi sale ipogee, ottenute a
quote diverse attraverso scavi stereometrici, si alternano gallerie, dove non solo si perde la dilatazione spaziale delle sale, ma cambia anche la percezione visiva: alla luminosità delle stanze, dove i pozzi a cielo aperto costituiscono quasi la quarta parte di tutta la superficie, si contrappongono gli spazi bui dei cunicoli, dove l’illuminazione diventa artificiale ed è portata ad una condizione di penombra. La linearità delle gallerie, in ogni tratto del percorso, viene interrotta da episodi che si diramano in ulteriori cunicoli espositivi, più piccoli, ma articolati. Questi spazi sono scavati in maniera differente a seconda di ciò che devono esporre: alcuni saranno semplici diramazioni del cunicolo del quale ne manterranno la spazialità, altri presenteranno geometrie diverse, sia in pianta che in alzato, andando a scavare una quota anche molto sotto il livello di calpestio: lì lo scavo diventa pura esposizione, è inaccessibile all’uomo, che può godere di questo spazio soltanto dall’alto, dalla distanza imposta. Laddove vi è la necessità di vivere questi scavi, in continuità con quanto accade in tutto il progetto, si inseriscono elementi bronzei. La forte prospettiva data dall’orizzontalità dei lunghi percorsi, che girando intorno alle stanze si spezzano in più tratti, trova nell’oscurità il suo punto di fuga, facendo si che, chi li percorre, non
riesca a individuarne la fine, ad eccezione del tratto finale dove la luce indica, sul fondo, l’arrivo al grande spazio della sala che, salendo, riduce sempre più la sua altezza. L’esperienza è sempre la medesima: si entra in angolo e si esce nell’angolo opposto, dove la luce scava la materia anche oltre le geometrie stereometriche della sala. La percezione delle stanze, oltre che dalla spazialità e dalla luce, è data dalle sculture bronzee che ne identificavano il tema: da una parte puro simbolo, come fossero reperti nascosti nella terra, dall’altra, parte fondamentale dell’allestimento, diventando vere e proprie esperienze spaziali. L’allestimento del museo è pensato in chiave multimediale e si basa molto sulla percezione sensoriale ed emotiva. Lungo il percorso il racconto è affidato a proiezioni, video, citazioni, audio ed episodi espositivi allestiti negli scavi. Ogni utente sarà fornito di un dispositivo multimediale con cui, in ogni momento, potrà accedere ad approfondimenti audio/video attraverso un sistema di connessione tra supporto multimediale ed allestimento.
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a sinistra Sala della Memoria a destra Pianta di progetto del livello di ingresso con le gallerie che dalla Sala della Memoria conducono alla Sala degli Ideali nelle pagine precedenti Ideogramma tematico del percorso
Sala della Memoria Il percorso inizia con la stanza più grande, la Sala della Memoria. Lo scavo è un cubo perfetto totalmente vuoto dove, al centro, gravitano due possenti monoliti bronzei, che formano le geometrie di un cubo di undici metri di lato, sospeso quasi ad altezza umana. Questo si genera dalla volontà di esprimere un senso di incombenza di qualcosa di pesante che gravita poco sopra la dimensione umana, ad indicare che nei millenni le vicende di un popolo o del singolo sono sempre state influenzate da forze maggiori, da quei macro eventi storici che ne hanno inevitabilmente cambiato, in un modo o nell’altro, le sorti. La stanza si pone come una premessa a tutto il percorso: racconta la storia di tutti i popoli che hanno dominato il meridione, gli eventi principali, gli influssi culturali, le innovazioni. Dai Greci ai Popoli Italici, dai Romani agli Svevi. Fino ad arrivare ai Borboni. E lo fa attraverso lo strumento didattico più antico che l’uomo ha utilizzato: la raffigurazione. I monoliti, infatti, sono totalmente istoriati da bassorilievi che, come una colonna Traiana srotolata, raffigurano le principali vicende storiche. Ogni faccia del cubo narra le vicende di un popolo diverso. La percezione, al centro della stanza, è di essere avvolti da un grosso, silenzioso, racconto. L’uomo, attraverso il dispositivo multimediale, potrà approfondire individualmente le nozioni principali di ogni singolo periodo: politica, condizione socio-economia, culturale, tradizioni. Questa stanza consente di avere un quadro generale della situazione meridionale fino al periodo storico da cui parte la trattazione: la Restaurazione.
Gallerie | Primo tratto L’uscita dalla stanza introduce nel primo tratto di gallerie, che la collegherà con la stanza successiva. Qui si entra più nel dettaglio del tema del percorso, si pone come approfondimento dell’ultimo periodo a cui la prima stanza ha introdotto: la condizione del Sud all’indomani della Restaurazione, durante il secondo regno borbonico. Nelle diverse spazialità che confluiscono in questo percorso verrà data una visione generale di questo popolo, dandone una lettura complessiva: verrà analizzata la situazione culturale del Regno delle due Sicilie, dalla corte borbonica fino al contadino; verrà illustrata quella che era la sua condizione economico-industriale e ne verrà spiegata, in ogni parte del regno, la condizione socio-politica. Attraverso proiezioni e musica, l’uomo farà un viaggio tra storia e tradizioni. Uno scavo circolare porterà l’utente in uno spazio totalmente buio dove è la musica l’unica protagonista, dove la vista si sospende per lasciare spazio all’udito.
Verrà, dunque, tracciato un profilo tale da consentire di comprendere qual era la situazione e i diversi motivi per cui, all’indomani dall’arrivo di Garibaldi, il popolo meridionale crederà in questa spedizione, prendendone parte alla realizzazione del nuovo obiettivo: l’Italia Unita.
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a sinistra Sala degli Ideali a destra Pianta di progetto con le gallerie che dalla Sala degli Ideali conducono alla Sala degli Uomini
Sala degli Ideali La seconda stanza è la Sala degli Ideali. Qui lo spazio puro della sala viene scavato oltre il piano di calpestio, generando un vuoto che la rende inaccessibile. Anche qui è la scultura che diventa protagonista e permette all’uomo di abitare questo spazio: l’intera superficie è occupata da una struttura bronzea che, dal livello di sbarco, scende per colmare il dislivello. La scultura acquisisce le fattezze di un labirinto che invita l’uomo a scendere al suo interno, a fruire dei suoi percorsi ed a risalire verso l’uscita della sala. L’archetipo del labirinto viene richiamato per la forza del suo valore concettuale come strumento ordinatore: fin dall’antichità il mito del labirinto era considerato una vera e propria narrazione sacra, serviva da espediente narrativo per ordinare, classificare, conoscere la realtà. Le sue caratteristiche principali si rintracciano soprattuto nella totale mancanza delle coordinate spazio-temporali, in quanto i suoi significati sembrano essere validi al di là dei limiti geografici e restare intatti nei secoli. Ciò spiega perché il mito del labirinto può riproporsi simile in diverse culture e in differenti secoli, mutando nella forma, ma non nella sostanza. Questa, infatti, si pone come una stanza “rivelatrice” che, come fosse la chiave di lettura dell’intero percorso museologico, porterà alla presa di coscienza di alcuni dei problemi alla base dell’Italia attuale. Viene trattato il periodo del post-unità, tirando le somme di come è avvenuta e cosa ha comportato per il Sud: nuove riforme, politica di repressione, stragi, impoverimento economico e culturale. Vengono analizzati alcuni dei problemi alla base della società contemporanea: la Questione Meridionale, il problema dell’emigrazione, la disparità economica, quella industriale, il rapporto governo-criminalità. La percezione, entrando nella sala, è quella di una grossa massa bronzea
che si staglia sotto i piedi, dove un percorso obbligato conduce lentamente in profondità. L’intera scultura diventa esperienza espositiva: oltre che lungo il percorso, l’allestimento trova spazio in alcune sue cavità interne. L’Unità d’Italia al Sud porta alla famosa affermazione “O Brigante o Emigrante”. Gallerie | Secondo tratto Le gallerie successive affrontano il tema del Brigantaggio e di tutte le vicende politiche che ne sono conseguite e che hanno caratterizzato gli anni della guerra civile. Analogamente a quanto è accaduto nel tratto precedente, anche qui diverse tipologie di scavo accolgono l’esposizione. Questo tratto del percorso si sofferma sul brigante, figura molto complessa che spesso la storiografia ha semplificato, identificandolo negativamente, analizzando l’origine del fenomeno, ma soprattutto la forte evoluzione che ha avuto in questo preciso periodo storico. La guerra contro il bri-
gantaggio ha portato a drastiche statistiche di morti in pochi anni: con l’attuazione della Legge Pica, della quale si analizzano cause ed effetti, si estenderà la definizione di brigante, legittimando rappresaglie e condanne che hanno portato a migliaia di morti ed alla distruzione di interi paesi. In continuità a ciò, le gallerie parleranno degli studi antropologici che ne sono derivati, illustrando la figura del medico antropologo criminologo Cesare Lombroso e la sua ricerca per delineare la fisionomica del criminale attraverso lo studio anatomico sui volti dei briganti condannati. Uno scavo in profondità esporrà alcune delle teste tutt’ora conservate al museo antropologico di Torino e attraverso un approfondimento multimediale il visitatore potrà collegarsi direttamente con il museo per visionare ulteriori reperti. In ultimo verrà trattato il tema delle carceri e dei campi di lavoro dove venivano deportati i briganti e gli ex soldati borbonici, come la famosa fortezza di Fenestrelle, tutt’oggi al centro di un 51 discusso dibattito storiografico.
Sala degli Uomini L’ultima sala del percorso è la Sala degli Uomini. Qui lo spazio della sala raggiunge la sua massima compressione. Silenziose come frammenti riportati alla luce, lastre monolitiche di bronzo definiscono la scansione spaziale della stanza attraverso la loro doppia direzionalità, rapportandosi dimensionalmente con l’uomo. Ogni lastra rappresenta una particolare personalità che ha partecipato a questi eventi: generali, politici, briganti, nomi illustri. Su ognuna di queste si leggono citazioni celebri di ciascun personaggio, come volessero essere una finestra sul suo pensiero in questo preciso momento storico. Sul lato opposto, invece, la lastra mostra le incisioni di date ed episodi principali, delineandone un breve quadro, che l’uomo potrà approfondire multimedialmente. Entrando nella sala non si riesce a scorgerne l’uscita, poiché queste lastre frammentano lo spazio attraverso una accelerazione spaziale che è minore verso l’ingresso e maggiore verso la fine.
Gallerie | Terzo tratto Nelle gallerie successive, ovvero l’ ultima parte del percorso ipogeo, il racconto continua. Viene delineata la figura dei liberali, la loro presenza e la forte attività in tutta la prima parte del secolo fino all’Unità, riportando le vicende più importanti; viene raccontato il romantico fenomeno delle brigantesse, donne divenute briganti per amore e ideali; infine, si traccia il profilo delle personalità che hanno governato la destra storica durante la guerra civile, analizzandone il pensiero e le riforme. L’ultimo tratto della galleria, che in nessun punto viene interrotto da episodi espositivi, forza la prospettiva verso il fondo, dove la luce indica l’arrivo in superficie. È il termine del percorso ipogeo, ma non di quello museale.
Il giardino Racchiuso tra quattro mura che ne richiamano l’antico impianto, vi è il giardino. Un luogo puro, silenzioso. Un luogo di sosta, dove la lieve pendenza del terreno invita a sedersi prima di continuare il percorso ed a riflettere su quello che si è appena visto. È un posto in cui raccogliere i pensieri, ordinarli e farli propri. Niente può distrarre da questa operazione, poiché gli alti muri perimetrali isolano completamente questo spazio dall’esterno. Non si recupera ancora il rapporto con la città. Oltre il verde, solo il cielo.
Il palazzo A chiusura del percorso, il palazzo. Questa forte emergenza architettonica, perno della composizione urbana, viene recuperata per anastilosi, secondo un progetto già previsto dalla pubblica amministrazione. Al suo interno, l’ultima parte del museo: il museo di Campomaggiore. Un salto di scala, dal racconto di un intero popolo a quello di una città. La prima testimonianza tangibile di quanto il percorso ha appena rivelato. Prima lo si fa attraverso la sua storia, tra quelle mura dove un tempo si progettava l’utopia. Subito dopo, oltre il portale, attraverso il frammento e la memoria.
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in basso foto di Michele Santarsiere 2015 nelle pagine precedenti a sinistra Sala degli Uomini a destra Piante di progetto con le gallerie che dalla Sala degli Uomini conducono in superficie
Corpo? Spazio!
Essere architetti oggi significa intraprendere un viaggio senza la guida di coloro i quali avremmo chiamato maestri e senza lo spirito critico del dialogo che dovrebbe scaturire tra il nostro lavoro e l’accademia. Se da un lato questo incerto cammino è pervaso dall’atteggiamento incosciente nei confronti della cultura umana che ha perso il paradigma dell’assoluto, dall’altro è guidato da una incredibile sete di futuro, da una incrollabile fede nel nostro operare, nel nostro lavoro quotidiano, l’unica via per sfuggire all’imperativo del consumo del tempo, della materia, persino del progetto. Così l’atteggiamento di chi affronta l’esercizio dell’immaginazione deve necessariamente essere guidato da un metodo che ne sostenga le riflessioni e favorisca l’incontro fecondo con la Madre Terra; libero da una soluzione preordinata, ma in grado di garantire al tempo stesso che l’idea sia stata posta al servizio dell’uomo e non viceversa: la forma è il risultato di un percorso logico che non esclude il momento magico della creazione, è il risultato di una volontà di espressione di valori e significati e non la rincorsa al modello matematico migliore per poter realizzare una “visione”. L’utopia ipogea, quindi, si inscrive in quel confronto con la materia per via di levare che l’uomo ha cominciato con l’avventura della costruzione, facendo emergere le relazioni assolute dello spazio con il corpo, del vuoto con la misura, della forma con la materia che ne permette la genesi. Se la misura ha consentito di muoversi all’interno di un campo logico conosciuto e controllato, dall’altro è stata lo strumento con il quale il progetto ha dialogato con la rovina e al tempo stesso con il corpo, poiché il successivo confronto con la forma-materia dei manufatti necessita del paradigma di riferimento del corpo affinché lo spazio possa essere in grado di instaurare un rapporto diretto con chi lascia riecheggiare i suoi passi tra le stanze della memoria. Se è pur vero che l’età moderna ha scardinato la certezza rinascimentale dell’entità spaziale unica ed uniforme, in luogo della multidimensionalità in cui prolifera la nostra società liquida, è altrettanto vero che “Il mondo sotterraneo, che esprime meglio di qualsiasi altro una condizione fondamentale di riferimento per l’uomo, è, rispetto alla memoria, una condizione originaria dell’azione del costruire. Tutti quanti noi, quando pensiamo ad una prima maniera di costruire, pensiamo in qualche modo allo scavare. Quindi, il fatto di aver posto in contrapposizione le cose del mondo sotterraneo con quelle del mondo astratto, della geometria, significa definire in termini esatti una questione sulla modernità”1. Così il processo compositivo è riuscito nel suo intento: instaurare con lo spazio una relazione fisica a partire dalla materia che si fa corpo mediante l’operazione dello scavo2. Conseguenza naturale, l’opera non è un semplice contenitore, un vuoto in attesa di essere riempito; continue compressioni e dilatazioni tra diverse scale, l’inanellamento sotterraneo del percorso, la luce delle stanze contrapposta all’ombra delle gallerie, la costante salita verso l’orizzonte non sono i caratteri di un edificio, bensì quelli di un’esperienza. Esperienza reale che si concretizza attraverso il corpo, le sue misure, i suoi movimenti. Il vuoto è possibilità, la forma-materia è diretta conseguenza della logica compositiva, le sculture di acciaio che ne permettono la fruizione, siano esse scale, rampe o vere e proprie opere d’arte, non possono che abitare quegli spazi. Antitetica rispetto all’architettura contemporanea costruita per essere guardata, impossibile da inquadrare con un unico punto di vista, l’architettura di Davide Lucia crede ancora possibile che il manufatto della costruzione deve essere compreso pienamente solo se vissuto. Stefano Buonavoglia Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
Venezia F. 1987, Teatres y antres. El retòn del mòn subterrani a la modernitat, «Quaderns d’Arquitectura i Urbanisme» n. 175, p. 39. “Questo trovare nel cercare lo spazio stesso; il nostro cercare, il nostro rapporto con lo spazio stesso. Perciò, rapporto uomo e spazio. L’uomo-spazio. La rappresentazione abituale dello spazio e della sua relazione con il corpo. Quindi, spazio e uomo in quanto corpo. Uomo? Spazio” (Heidegger M.). 1
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Bibliografia
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in basso foto di Michele Santarsiere 2015
Bibliografia
Filmografia
Bibliografia tematica
Bibliografia di progetto
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Augè M. 2004, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Borighieri editore.
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Augè M. 2009, Nonluoghi, Elèuthera. Borges J. L. 2014, Finzioni, Einaudi.
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Boullee E. L. 1977, Architettura saggio sull’arte, Marsilio editore.
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in basso foto di Michele Santarsiere 2015 nelle pagine seguenti foto di Michele Santarsiere 2015
Indice
Utopiche rovine Michelangelo Pivetta
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Campomaggiore Riflessi di roccia Urbs, Civitas Racconto di un sogno
9 11 13 15
Utopie ipogee Silenziosa rovina Finis coronat opus In questo luogo, adesso Il percorso
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Corpo? Spazio! Stefano Buonavoglia
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Bibliografia
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Finito di stampare per conto di DIDAPRESS Dipartimendo di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze Febbraio 2017
L’Architettura è origine di civilta e strumento di consapevolezza dei popoli. Non fosse così non sarebbe architettura ma edilizia. Intravedere una possibilita di emancipazione sui remoti pendii dei monti dell’Italia meridionale è di per sé dimostrazione di sagacia e intelligente volontà di conoscenza. Il progetto di laurea a Campomaggiore è questo: guardare oltre gli storicismi e le perversioni di una cultura partigiana ormai becera, per proporre una rinnovata idea della propria terra, finalmente considerata degna di aspirare al bello e al giusto. Architettura è ricerca, Architettura è linguaggio e tra le pieghe di questi monti il progetto di un edificio italiano, per l’Italia e per l’Europa, di cui l’Italia è uno dei pilastri storici di cultura, assume l’onere della testimonianza, dell’icona del possibile ove tutto invece sembra impossibile. Questo lavoro di tesi è la dimostrazione dell’acquisizione di una nuova coscienza collettiva, di cui l’Architetto, massimo interprete nella storia del suo popolo, deve essere anche coraggioso attore. Preesistenza, geometria, composizione, scavo, espressività della forma taciuta, simbolo, sono alcune delle parole chiave di questo progetto. Un progetto simbolo per la rinascita della propria terra attraverso la musealizzazione acritica della propria storia e forse esempio per tutta l’Europa per l’assunzione di una nuova coscienza collettiva. Davide Lucia, Noci, 1988, architetto. Si forma presso la Scuola di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze laureandosi nel 2015 con Michelangelo Pivetta. Dall’anno accademico 2014-2015 collabora presso il Laboratorio di Progettazione Architettonica II presso la stessa Scuola.
ISBN 978-88-9608-072-6
9 788896 080726