giovannni bartolozzi
Verso il progetto
La serie di pubblicazioni scientifiche Ricerche | architettura, design, territorio ha l’obiettivo di diffondere i risultati delle ricerche e dei progetti realizzati dal Dipartimento di Architettura DIDA dell’Università degli Studi di Firenze in ambito nazionale e internazionale. Ogni volume è soggetto ad una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata al Comitato Scientifico Editoriale del Dipartimento di Architettura. Tutte le pubblicazioni sono inoltre open access sul Web, per favorire non solo la diffusione ma anche una valutazione aperta a tutta la comunità scientifica internazionale. Il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze promuove e sostiene questa collana per offrire un contributo alla ricerca internazionale sul progetto sia sul piano teorico-critico che operativo. The Research | architecture, design, and territory series of scientific publications has the purpose of disseminating the results of national and international research and project carried out by the Department of Architecture of the University of Florence (DIDA). The volumes are subject to a qualitative process of acceptance and evaluation based on peer review, which is entrusted to the Scientific Publications Committee of the Department of Architecture. Furthermore, all publications are available on an open-access basis on the Internet, which not only favors their diffusion, but also fosters an effective evaluation from the entire international scientific community. The Department of Architecture of the University of Florence promotes and supports this series in order to offer a useful contribution to international research on architectural design, both at the theoretico-critical and operative levels.
ricerche | architettura design territorio
ricerche | architettura design territorio
Coordinatore | Scientific coordinator Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy Comitato scientifico | Editorial board Elisabetta Benelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Marta Berni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Stefano Bertocci | Università degli Studi di Firenze, Italy; Antonio Borri | Università di Perugia, Italy; Molly Bourne | Syracuse University, USA; Andrea Campioli | Politecnico di Milano, Italy; Miquel Casals Casanova | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Marguerite Crawford | University of California at Berkeley, USA; Rosa De Marco | ENSA Paris-LaVillette, France; Fabrizio Gai | Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Italy; Javier Gallego Roja | Universidad de Granada, Spain; Giulio Giovannoni | Università degli Studi di Firenze, Italy; Robert Levy| Ben-Gurion University of the Negev, Israel; Fabio Lucchesi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Pietro Matracchi | Università degli Studi di Firenze, Italy; Saverio Mecca | Università degli Studi di Firenze, Italy; Camilla Mileto | Universidad Politecnica de Valencia, Spain | Bernhard Mueller | Leibniz Institut Ecological and Regional Development, Dresden, Germany; Libby Porter | Monash University in Melbourne, Australia; Rosa Povedano Ferré | Universitat de Barcelona, Spain; Pablo RodriguezNavarro | Universidad Politecnica de Valencia, Spain; Luisa Rovero | Università degli Studi di Firenze, Italy; José-Carlos Salcedo Hernàndez | Universidad de Extremadura, Spain; Marco Tanganelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Maria Chiara Torricelli | Università degli Studi di Firenze, Italy; Ulisse Tramonti | Università degli Studi di Firenze, Italy; Andrea Vallicelli | Università di Pescara, Italy; Corinna Vasič | Università degli Studi di Firenze, Italy; Joan Lluis Zamora i Mestre | Universitat Politécnica de Catalunya, Spain; Mariella Zoppi | Università degli Studi di Firenze, Italy
giovannni bartolozzi
Verso il progetto
Il volume è l’esito di un progetto di ricerca condotto dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze. La pubblicazione è stata oggetto di una procedura di accettazione e valutazione qualitativa basata sul giudizio tra pari affidata dal Comitato Scientifico del Dipartimento DIDA con il sistema di blind review. Tutte le pubblicazioni del Dipartimento di Architettura DIDA sono open access sul web, favorendo una valutazione effettiva aperta a tutta la comunità scientifica internazionale. Questo volume è frutto di una esperienza didattica del 2013, svolta con la collaborazione di Michela Sardelli, Lorenzo Rossi ed Elena Marcucci che ringrazio. Michela Sardelli ha dato un contributo prezioso alla stesura del volume anche grazie al suo testo che svela lo spirito e la dimensione della nostra didattica. Simone Passaro e Federica Trudu sono stati fondamentali per questo libro che non sarebbe stato pensabile senza la loro instancabile dedizione per il corso e per tutte le attività ad esso collaterali. Un ringraziamento speciale ad Alberto Breschi che ha contribuito in maniera decisiva alla struttura di questo volume, ed anche alla mia.
in copertina
Simone Passaro e Federica Trudu
Selezione delle immagini
Simone Passaro e Giovanni Bartolozzi
Foto dei plastici di modello
Giacomo Salizzoni e Lorenzo Matteoli
progetto grafico
didacommunicationlab Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Susanna Cerri Cecilia Marcheschi
didapress Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2018 ISBN 978-88-3338-023-0
Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset
indice
Introduzione 9
Saverio Mecca C’è insomma architettura Alberto Breschi
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Soggiorno didattico
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Michela Sardelli Lab_Aula4 17
Lorenzo Rossi Operazioni di progetto
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Giovanni Bartolozzi Blu isoscele
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Giovanni Bartolozzi Rocinha 25 maggio 2009
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studio ++ (a cura di) Workshop. Case studio per committenti della città Case studio per committenti della città
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Giovanni Bartolozzi La mostra 215 Intervista a Giovanni Bartolozzi
a cura di Ilaria Castellino 2+2=5 227
Federica Trudu e Simone Passaro
introduzione Saverio Mecca
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Foto dei plastici di case studio realizzati in occasione della prima esercitazione del corso
Questo volume raccoglie una vivace esperienza didattica condotta dentro la nostra scuola che ha lasciato un segno, non solo nella formazione degli studenti che l’hanno resa possibile ma anche tra le aule di Santa Teresa, con ‘Rocinha, 25 maggio 2009’ che rimane una testimonianza del lavoro corale di 52 studenti. Il materiale raccolto in questo volume ci consente di affermare che un laboratorio di progettazione, fin dal primo anno di formazione dell’architetto, si qualifica come tale nella misura in cui elabora modelli e ipotesi di studio per tradurli in esiti tangibili, ben confezionati, sintetici, quindi comunicabili. Ottenere questo risultato al primo anno richiede uno sforzo di coordinamento che solo in parte è comprensibile tra queste pagine, un lavoro di educazione al progetto volta a stimolare la diversità, la possibile ricchezza di un approccio individuale capace di liberare energie e storie personali, in grado di moltiplicare le proposte per renderle autonome e potenziali di sviluppi. I progetti di case studio sviluppati dagli allievi del laboratorio di Progettazione 1 tenuto da Giovanni Bartolozzi, sono ambientati a ridosso del nucleo storico di Firenze, su un declivio tra il Piazzale Michelangelo e il Lungarno Cellini, in corrispondenza di un vuoto che risalta tra le quinte dei palazzi. Come subito si comprende scorrendo le pagine del libro, la contestualizzazione di questi progetti è stata sviluppata all’interno del corso come esperienza critica, principalmente finalizzata all’impatto urbano e all’aderenza alle esigenze di reali committenti che hanno singolarmente dialogato con gli studenti. Il tema della casa studio, centrale e basico nell’iter formativo dell’architetto, si presta in questa sequenza di progetti a nuove interpretazioni che producono un alfabeto di soluzioni diversificate e possibili, capaci di trasmettere un messaggio deciso, scultoreo, che ha tutti i pregi e i difetti di una progettazione al primo anno della scuola di architettura. Tra i suoi pregi quella di riaprire dentro la scuola e fin dalla prima esperienza progettuale, un’occasione di dibattito sulle possibilità comunicative della forma rispetto ai suoi contenuti, alla sua possibile committenza e sulla sua necessaria personalizzazione.
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verso il progetto • giovanni bartolozzi
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Plastico realizzato dagli studenti della Casa Teorica di Leonardo Ricci, studiata in occasione delle prima esercitazione del corso
Da questo punto di vista il laboratorio di progettazione tenuto da Giovanni Bartolozzi si inscrive in un percorso progettuale ben preciso che ha ereditato le provocazioni e gli strumenti dell’architettura radicale fiorentina, le tensioni esistenziali di maestri lontani e perfino la severa pulizia dei maestri più vicini, e che si propone in questi lavori con una veste nuova, autonoma e coincisa. Da questo punto di vista il laboratorio di progettazione tenuto da Giovanni Bartolozzi si inscrive in un percorso progettuale ben preciso che ha ereditato le provocazioni e gli strumenti dell’architettura radicale fiorentina, le tensioni esistenziali di maestri lontani e perfino la severa pulizia dei maestri più vicini, e che si propone in questi lavori con una veste nuova, autonoma e coincisa.
c’è insomma architettura Alberto Breschi
Ci voleva questo testo dell’amico Giovanni Bartolozzi per farmi tornare, dopo che ho lasciato l’insegnamento presso la scuola di Architettura di Firenze, a occuparmi di didattica del progetto o meglio a interessarmi di nuovo alle tematiche della progettazione architettonica. Il tema affrontato da questo giovane professore per gli studenti del 1° anno di architettura è ambizioso e attuale perché, ancor oggi, la questione può considerarsi aperta pur rappresentando una delle tematiche più dibattute dalla nascita del Movimento Moderno in poi. La questione riguarda il progetto della casa unifamiliare, casa-studio più precisamente, non come prodotto di una committenza teorica astratta ma al contrario il più possibile realistica e concreta definita dalla conoscenza del suo possibile utilizzatore. Il progetto proposto doveva essere inserito in un contesto noto e rispettare quei requisiti che permettessero l’aggregazione con altre residenze analoghe in una prospettiva urbanistica d’insieme. Nelle intenzioni di Giovanni l’esercitazione degli studenti aveva l’ambiziosa finalità di “aprire degli orizzonti e delle prospettive di contemporaneità” proprio a Firenze, città congelata nel suo passato e assolutamente refrattaria ad ogni cambiamento. L’operazione non voleva essere solo una provocazione, ma proprio perché inserita all’interno del centro storico, sul lungarno Cellini, a poca distanza da Piazza Poggi, voleva dimostrare che il confronto con il passato non solo era possibile ma poteva rappresentare anche una grande risorsa per rivitalizzare il centro storico che pare ormai avviato ad un lento e progressivo decadimento sotto la spinta del turismo becero e dequalificato. La mia riflessione vuole sottolineare quanto giusta e corretta sia stata questa impostazione, convinto come sono che i contenuti del progetto sono legati al suo utilizzo e saranno tanto più efficaci quanto questa utilizzazione si proietterà in una prospettiva di cambiamento della società. Questo è a parer mio uno dei compiti alti dell’architettura. Questi lavori, seppur espressi con strumenti ancora incerti vista la giovane età, ne sono la testimonianza.
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verso il progetto • giovanni bartolozzi
Testimonianza di un programma di lavoro certamente ambizioso e utopico ma capace di fornire quel valore aggiunto di speranza che è fondamentale nell’affrontare ogni questione connessa al miglioramento della società. Nei risultati dell’esercitazione guidati da Bartolozzi verifichiamo quanto decisiva e utile sia stato l’inserimento del committente nell’input progettuale, committente scelto liberamente dallo studente con caratteristiche empatiche ed innovative tali da fornire alla progettazione quella componente sostanziale troppo spesso assente nella didattica e non di rado nella prassi professionale corrente. Troppo spesso assistiamo a progetti e realizzazioni, specie nell’ambito della residenza, che sono la mera trascrizione formale delle tipologie consolidate più banali oppure, nel migliore dei casi sono la risposta della personalità dell’architetto (spesso delle sue frustrazioni) che non quella di chi quelle case dovrebbe viverle. Il risultato di questo comportamento porta in genere ad una eccessiva semplificazione ed omologazione degli elementi compositivi mentre la presenza del committente impone di dar corpo a atteggiamenti, utilizzazione degli spazi, desideri ed eccezioni funzionali e formali che scaturiscono proprio dalla conoscenza del personaggio e dall’empatia che il giovane allievo progettista riesce a costruire in questa circostanza. Solo così il progetto si proietta oltre le consuete ‘già viste’ configurazioni planivolumetriche ed esplora, spesso con esiti sorprendenti, ambiti e territori non prevedibili all’inizio del processo. I ‘committenti’ che incontriamo in questa esperienza sono anche personaggi veri, vitali, protagonisti che intendono far proprio la citazione di Almodovar ovvero di essere “autentici quanto più somigliano all’idea che hanno sognato di se stessi”. Incontriamo artisti, giovani professionisti, scrittori, direttori artistici, artigiani, musicisti, chef, blogger, deejay, che impegnati nel mondo creativo sono la speranza e la sostanza vera per un futuro di questa città. Un panorama vivacissimo di una cultura giovane la cui architettura proposta attraverso la casa-studio ne rappresenta la diretta e visibile trascrizione formale. Soluzioni spesso ingenue, ma mai banali, espressione di un linguaggio che non è scopiazzato da Internet o dalle riviste di settore, ma che è autentica espressione ancora in fieri di un linguaggio che vuole essere contemporaneo con quel tanto di desiderio e di protagonismo che sono gli ingredienti più importanti sottintesi alla formazione dell’architetto. Infine vorrei sottolineare un’ultima considerazione su questo lavoro che mi viene dall’osservare, nelle ultime pagine del testo, le immagini dell’esposizione dei modellini delle case-studio.
c’è insomma architettura • alberto breschi
Il risultato è stupefacente perché ci mostra una configurazione urbana possibile in cui i singoli elementi si presentano in una aggregazione a scala urbana che trasmette la forza di un disegno unitario pur nella variabilità e ricchezza delle sue eccezioni. Mi sono tornati alla mente, con un filo di commozione, i plastici che l’amico Remo Buti riusciva a proporci, riempiendo quasi totalmente il pavimento della mitica aula Minerva di via Ricasoli, assemblando quella miriade di habitat-cubi-sculture-10x10 tutti diversi e contemporaneamente simili che i suoi studenti producevano in un tripudio di divertimento e libertà compositiva, dovendo rispondere a quell’unica e imprescindibile condizione di derivazione da un’idea artistica libera e originale. E’ una città diversa, un habitat fantastico e gioioso se pur fragile che trova proprio nelle proposte degli allievi di Giovanni Bartolozzi una maggiore sostanza perché la struttura portante non appartiene alla leggerezza del linguaggio artistico, ma a quella più pesante del linguaggio architettonico. In questo caso l’espressione artistica cede il posto ad una sintesi di forma-funzione-contenuto. C’è insomma Architettura. C’è evidente e chiara la sfida che da ora in poi quel giovane allievo dovrà affrontare per dare sostanza al proprio sogno.
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soggiorno didattico Michela Sardelli
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Modelli di studio realizzati nel corso
La prima volta di LABAULA4 è nel 2012, quando il corso era semplicemente Corso di Progettazione I che si svolgeva nell’Aula4. Un giorno alla settimana, per mesi, perfetti sconosciuti o quasi si ritrovavano a condividere quello spazio per una giornata intera. Mentre penso, corre nella mia mente un timelapse di quelle giornate: i tavoli che si spostano, i ragazzi che si muovono, il prof. che cammina tra i ragazzi, ospiti che entrano, luci spente per la lezione, tutto aperto per disegnare e costruire, tavoli uniti per la revisione collettiva, tutti fuori per blu isoscele a “le Murate”, la bianca parete che diventa un’opera collettiva. Uno spazio dinamico che velocemente si è trasformato in una stanza familiare in cui gli abitanti per un giorno alla settimana hanno vissuto come in un soggiorno, adattandolo alle esigenze, aprendo le porte a ospiti e diventando sempre più intimi. Una perfetta fusione tra il laboratorio di progettazione e l’aula 4 dove si svolgeva: LABAULA4. Il nome nasce quindi dall’esperienza. La vivacità fisica si è mossa insieme alle idee che si evolvevano internamente e agli stimoli che arrivavano dall’esterno. Le porte di LABAULA4 si sono aperte in varie occasioni per far si che l’esperienza fosse interdisciplinare. La prima iniziativa è avvenuta attraverso la rete, con il blog e con la pagina facebook in cui venivano postati i momenti significativi. Poi gli ospiti, in momenti diversi. Durante lo svolgimento del corso sono stati invitati per raccontare la propria esperienza e la loro presenza ha fatto sì che nel corso confluissero sollecitazioni che hanno spaziato su temi non strettamente legati all’architettura e hanno creato momenti di discussione e riflessioni che sono spesso sono confluiti nel progetto finale. Ricordo e ringrazio: lo stilista Michele Chiocciolini, il critico Pietro Gaglianò, l’artista Paolo Parisi, il fotografo Giacomo Salizzoni, gli architetti Fabbricanove, il professor Gino Anzivino, la ricercatrice Marzia Marandola. L’esperienza più coinvolgente, ha interessato una giornata intera con Studio ++, in cui gli ar-
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verso il progetto • giovanni bartolozzi
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Esercitazione collettiva ‘Inventa la regola’
tisti hanno lavorato a stretto contatto con gli studenti e, alla fine della giornata, abbiamo appeso un’opera permanente alla parete dell’Aula 4: ‘Rocinha, 25 maggio 2009’. A fine anno, in occasione degli esami, circa dieci professionisti, ‘la giuria’, anche in questo caso non strettamente legati all’architettura sono stati chiamati ad esprimersi sui lavori degli studenti, perché abbiamo ritenuto che una critica esterna e multidisciplinare fosse complementare alla nostra valutazione del progetto e del percorso personale di ognuno. Dopo gli esami, la festa. In linea con lo spirito del corso, labaula4 si è spostato fuori dall’aula. Le novità erano l’orario serale e lo stare insieme senza alcun tipo di obiettivo. Una bella serata, il migliore arrivederci. Dopo l’estate abbiamo pensato che un’esperienza così intensa meritasse ancora una volta di essere condivisa, ancora di più. Lo abbiamo raccontato in una mostra ‘Ipotesi Urbane’ curata da noi (docente e assistenti) e alcuni studenti in uno spazio all’interno delle Murate. Un grande parallelepipedo nero tra le colonne della stanza accoglieva i progetti finali; intorno, come satelliti a descrivere il percorso, i plastici di studio, ‘Inventa la regola’, ‘Blu isoscele’, un video e la nostra super foto: tutti presenti!
lab_aula4 Lorenzo Rossi
Il laboratorio di progettazione per uno studente del primo anno è sempre un’esperienza straniante; difficilmente prima ha affrontato qualcosa di simile, sia perché è la sua prima vera esperienza progettuale, sia perché prima non ha mai dovuto convogliare così tante energie verso un unico scopo, un progetto di un’abitazione che all’inizio sembra quasi impossibile da realizzare. All’interno del LabAula4 abbiamo sempre cercato di stimolare lo studente da diverse direzioni perché l’esperienza fosse totalizzante e non escludesse alcun aspetto umano, quindi anche architettonico. Proprio per questo la scelta di un committente reale è stata uno dei temi portanti dell’attività del laboratorio. La possibilità di relazionarsi con committenti reali e non immaginari, che nella maggior parte dei casi finivano per essere gli studenti stessi, ha caricato di spunti progettuali gli allievi e li ha messi davanti ad esigenze concrete. Il fatto che i committenti fossero legati strettamente alla città di Firenze, è stato un altro aspetto importante per il laboratorio. Il rapporto con Firenze è divenuto subito centrale nel progetto: i committenti conoscono la città e il loro mondo professionale si intreccia con essa e con il progetto. Il lotto scelto per l’abitazione, volutamente uguale per ciascuno studente, risulta centrale e legato a due elementi chiave della città, le colline, che salgono verso il Piazzale Michelangelo, ed il fiume Arno che scorre davanti al prospetto principale della casa studio. Il percorso progettuale che porta ai risultati qui rappresentati è stato breve e tortuoso. Alcune scelte chiare all’inizio si sono rivelate inappropriate, ma il cammino non risulta mai vano, perché anche le soluzioni scartate hanno arricchito ciascun progetto, hanno permesso agli studenti di mettersi in gioco. E il nostro ruolo di assistenti è spesso stato quello di aiutare a semplificare, ad asciugare i progetti per far emergere un’idea chiara e subito comprensibile. Riuscire a condensare un progetto in poche immagini è un lavoro complesso per uno studente al primo anno di architettura. Per questo abbiamo suddiviso il lavoro di progettazione in fasi e organizzato una modalità singola e collettiva al contempo di revisione dei progetti. Il maggiore sforzo progettuale è stato profuso nella messa a punto dei concept e nella loro
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verso il progetto • giovanni bartolozzi
pagina a fronte Esercitazione collettiva ‘Inventa la regola’
comunicazione attraverso dei passaggi restituiti in assonometria, che sono riportati nelle schede di progetto. Dei rudimentali diagrammi capaci di evidenziare e rendere immediato il processo di ideazione e costruzione del progetto. L’immediatezza che abbiamo perseguito nel racconto di questi progetti rappresenta uno dei tratti distintivi di questa esperienza didattica, svolta come assistente al corso con Michela Sardelli ed Elena Marcucci.
lab_aula4 • lorenzo rossi
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verso il progetto • giovanni bartolozzi
c’è insomma architettura • saverio mecca
Operazioni di Progetto
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operazioni di progetto Giovanni Bartolozzi
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Rem Koolhaas_ Haunted House Fondazione Prada Milano 2016
Il concetto di operazione – appunto opera-azione – ha delle origini radicate nella storia dell’arte del 900 e sottende la volontà di operare un’azione capace di coinvolgere e portare dentro il pubblico in maniera attiva, immediata e cosciente attraverso la sua forza espressiva e comunicativa. Questa maniera di generare progetto non interessa soltanto l’architettura, che per ragioni connesse alla sua natura costruita prevede tempi più lunghi, ma riguarda una maniera di fare progetto nella sua accezione più ampia. Procederemo per salti alla ricerca di un percorso ricco di spunti che arriva ai nostri giorni, prendendo in esame alcune esperienze artistiche che hanno contribuito a individuare una linea di pensiero in evoluzione, sempre nel tentativo di dimostrare quanto l’architettura non possa fare a meno di includere esperienze collaterali forti, provenienti da altri ambiti per ritrovare in essi e nella loro reinterpretazione linfa vitale per il suo rinnovamento. L’azione prima dell’operazione Il concetto di operazione che in queste pagine si vuole tracciare muove timidamente, inconsapevolmente, dall’Impressionismo. Come è noto le tele degli impressionisti non raccontano più, letteralmente, il paesaggio dei primi del secolo scorso ma subentrano concetti e tecniche operative che danno un nuovo carattere alle opere, si pensi alla volontà di ‘impressionare’ la tela in relazione alla luce e al colore. Si pensi ancora al Puntinismo di Seurat e Signac, artisti che in qualche modo aprono al sistema della ripetizione del gesto come espediente tecnico. Proprio tra gli impressionisti vi è un precursore, un artista che anticipa temi e modalità dell’arte degli anni a venire. Edgard Degas (1834-1917) è un impressionista rivoluzionario, il primo che intuisce e anticipa il salto a cui l’arte si stava inevitabilmente preparando, quello di ridefinire il concetto stesso di arte, di aprire un nuovo orizzonte visivo e prima ancora di pensiero. L’artista non è uno specchio sul quale la realtà si proietta e si amplifica grazie alle sue capacità tecniche, ma egli capta, sente, rielabora, anticipa, osserva ossessivamente parti della sua realtà.
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verso il progetto • giovanni bartolozzi
pagina a fronte De Gas Il ridotto dell’opera 1872 sotto De Gas Place de La Concorde 1875
Impressionista outsider, Degas non era interessato al paesaggio naturale degli impressionisti e prediligeva i paesaggi artificiali, quelli costruiti dall’uomo capaci di captare la psicologia della vita moderna, della realtà misera e quotidiana che lo circondavano. Prediligeva catturare l’azione attraverso il disegno, la pittura e la scultura, sinteticamente il movimento nello spazio. Non si trattava di fissare un fotogramma ma di raccontare attraverso istantanee una dinamica delle azioni che si propagano nello spazio e che lasciano anche presagire una evoluzione dei movimenti: figure che evocano azioni e loro movimenti successivi. Le ballerine alle prese con l’esercizio della danza sono state la sua ossessione per un periodo, anche perché si trattava di un tema con un buon riscontro commerciale (a dimostrazione di quanto sia importante nella vita artistica e professionale saper individuare temi di ricerca appetibili). Tutto all’interno della tela di Degas è finalizzato al racconto del movimento, della transitorietà dell’azione della ballerina nello spazio. Osserviamo per esempio Il Ridotto dell’Opera (1872) che mostra dieci ballerine durante l’esame all’interno di una grande sala da ballo. La prospettiva marcata, l’inquadratura spaziosa e austera, la prevalenza prospettica del vuoto sono caratteristiche riconoscibili in Degas, chiaramente espresse in questa tela. La composizione delle ballerine si addensa sui bordi e ciascuna di essa è impegnata con tutto il corpo nel compimento della propria azione in maniera autonoma e indipendente dal movimento delle alle altre ballerine. Ciascun volto e ciascun corpo individuano una direzione solo apparentemente casuale. Ciascuna figura è come se fosse bloccata, messa in ‘pause’ nell’istante che lascia intravedere il ritmo e la sua naturale prosecuzione del movimento. Un rudimentale fermo immagine che trattiene dentro ciascuna figura la tensione attiva e spontanea per il compimento dell’azione. Place de la Concorde (1875) è la dimostrazione di come l’obiettivo di fissare l’azione attraverso il movimento, persista al di là del tema, questa volta dichiaratamente urbano e legato alla poetica del flaneur. Si tratta del ritratto di un mecenate parigino, il barone Lepic con le sue figlie: il taglio e la prospettiva evidenziano con forza la profondità della piazza, mentre tutti i componenti della famiglia, vicini e ritratti in una sorta di attimo di smarrimento domenicale, individuano un centro asimmetrico nella tela ma ciascuno guarda e segna con il corpo una direzione diversa. Perfino il cane. Ancora una volta ciascuno intento nella propria azione e indifferente alla presenza all’altro. Tutta la produzione di Degas indaga le infinite sfaccettature e possibilità espressive del movimento dei corpi a tal punto da assumere il carattere di una serie, modalità operativa che gli consente di studiare lo sviluppo di un gesto o di un particolare movimento e che anticipa alcuni procedimenti dell’arte a venire.
operazioni di progetto • giovanni bartolozzi
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Con Degas siamo di fronte ad un fatto nuovo: è una delle prime volte, nella storia dell’arte, in cui il perseguimento ossessivo di un tema di ricerca condiziona l’intera produzione di un artista che ne dà una risposta seriale. Degas mette a punto un tema riconoscibile a prescindere dalla contestualizzazione dei suoi soggetti (vita urbana, ballerine, fantini). L’individuazione di un messaggio figurativo esplicito produce una dimensione tecnica artificiosa, ma chiara, riconoscibile, immediata, facile da capire, quindi alla portata di tutti, che non si perde più nella storia che ha certamente assimilato o nella cronaca urbana, per comunicare un messaggio fresco, nuovo: la tensione del movimento. Degas introduce dunque in forma primordiale quello che chiameremo operazione, giacché porta letteralmente l’azione dentro l’opera con un metodo riconoscibile di serialità tematica. Grandi artisti nella Parigi di quegli anni ci avevano dimostrato una padronanza straordinaria del linguaggio, del segno, del colore con opere importanti: si pensi ai mille volti e alle mille tecniche di Picasso, alla pennellata di Cezanne. La pittura di Degas, per la prima volta, concede una comprensione alternativa perché nuovo e alternativo è l’obiettivo che si pone. Il linguaggio pittorico ne è conseguenza. Il ready-made Nel primo decennio del secolo scorso è Duchamp a dare forza e riconoscibilità a quello che Degas aveva intuito: l’ispirazione dell’arte deve essere artificiale, il terreno d’azione ossessivamente ricercato e concettualmente costruito. Per Duchamp e per i Dadaisti il contenuto diventerà addirittura arbitrario. Tutto questo significava rivendicare attraverso l’arte uno spazio mentale all’opera, riconoscere all’arte il primato dell’artificio e dell’ideazione capace di produrre un riconoscibile atto estetico. Due opere del 1911, “Duchamp che scende le scale” e la successiva tela “Nudo che scende le scale” – oltre a creare un filo di continuità con il tema del movimento, ossessione di Degas – anticipano una modalità di lavoro radicale, che subito rimanda al tema e al suo correlato messaggio estetico. Gli atti estetici di Duchamp sono provocatori e spiazzanti, come l’orinatoio Fontana del 1917 e La Mona Lisa coi baffi L.H.O.O.Q. del 1919 con cui celebra il ready made, prima ‘operazione’ riconosciuta nella storia dell’arte, che Duchamp aveva inaugurato a partire dal 1913 con il primo Bicycle Wheel. Si tratta di gesti che sono stati compresi e metabolizzati dalla storia dell’arte anni dopo la loro concezione e che ancora destano stupore per una diffusa riverenza nei confronti dell’arte classica ma che, nei primi anni cinquanta e sessanta, hanno legittimato e ispirato numerosi artisti e correnti culturali negli Stati Uniti, un paese decisamente più predisposto, in quegli anni, ad assorbire il potenziale di una visione irriverente e radicale.
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Il ready made è un procedimento forte e deciso, estremo, affascinante: soprattutto è un’operazione riconoscibile che per la prima volta un artista battezza con un nome. Duchamp mette a punto un metodo imprevisto, che utilizza tecniche e soluzioni radicalmente diverse da quelle in uso in quegli anni. Con il ready made l’arte inizia a liberarsi dei linguaggi, dei suoi tradizionali strumenti, per attivare una trascrizione libera di contenuti, di idee, di procedimenti. Nel 1911 il messaggio di Duchamp è dissacratorio, incomprensibile e solo nei decenni successivi sarà compreso e portato avanti in forme più discorsive e letterali, ma cerchiamo di comprendere i punti di forza di questa provocazione. L’operazione di Duchamp ha un contenuto innovativo, perché catapulta nel mondo dell’arte oggetti apparentemente arbitrari che appartengono a contesti lontani all’arte e di ordinaria quotidianità. Oggetti riconoscibili, le cui semplici o complesse forme sono unicamente il risultato della funzione per cui erano state ideate e disegnate, attraverso il ready made vengono decontestualizzati dai loro ambiti di origine ed elevati su un piedistallo ad opera d’arte. L’operazione è incomprensibile con gli strumenti a disposizione dell’arte in quegli anni ma è diventata un caposaldo per l’arte degli anni a venire. Per semplificare il concetto di ready made e dare un riscontro immediato della sua influenza nel campo delle arti visive proviamo ad analizzare una serie di oggetti di design dei fratelli Castiglioni chiamata appunto ready made e ispirata a Duchamp. Lo Sgabello Mezzadro (1957) è caratterizzato da un profilo in acciaio piegato (stabilizzato a pavimento da un contrappunto in legno), che sostiene la seduta di un trattore, così come si intuisce dal nome dello sgabello. Declinando l’operazione del ready made nel mondo del design, possiamo valutare i seguenti passaggi: la seduta di un trattore è stata ideata con le migliori caratteristiche di confort ed ergonomia, e questo si può facilmente riscontrare osservando la modellazione del sedile, le sue forme e le sue forature. La sua eccellente ergonomia doveva garantire comodità ai contadini che trascorrevano intere giornate nei campi sopra i trattori. Castiglioni fa un gesto mentale anzitutto. Decontestualizza la seduta dal mondo dei campi e la catapulta dentro le case disegnandogli un elegante piedistallo, ovvero il piede sopra descritto. Infine chiama lo sgabello Mezzadro. Castiglioni fa la stessa operazione con la lampada Toio (1962), riutilizzando e quindi decontestualizzando il faro di un’automobile per realizzare una piantana con lo stesso procedimento. Di più, per rimanere fedele al funzionamento del faro dell’automobile, prevede alla base della piantana un sistema a dinamo come quello che occorreva per l’accensione dei fari delle automobili. Questa serie di oggetti, che a loro volta ne hanno ispirati altri nel mondo del design – fino alla banalità del riciclo a tutti i costi –, sono la traduzione e certamente la reinterpretazione di quella operazione rigenera-
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Duchamp Fontana 1917 sotto Achille Castiglioni Sgabello Mezzadro 1957
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trice di Duchamp, che ha rotto la purezza dell’arte e delle arti per dar vita a interconnessioni pensate, capaci di suscitare domande, reazioni, dissensi, stupore. L’operazione ha dunque un nome, ha un contenuto, ed è accompagnata da un’immagine forte: in definiva l’operazione è l’anima del progetto. Opera e azione sulla tela Il primo passo verso l’operazione che ha prodotto straordinarie opere è stato quello di portare l’arte al di fuori della tela e contestualmente quello di aggredire la tela con strumenti e tecniche non convenzionali. Questo passaggio affrontato da molti artisti tra gli anni Cinquanta e Sessanta, risulta decisivo per l’affermarsi dell’operazione come metodo artistico e progettuale, perché aggredire la tela comportava la messa a punto di un’azione sulla tela stessa che ha costituito di fatto l’esordio dell’operazione, in quanto passaggio obbligato tra la pittura e l’installazione. Potremmo prendere a riferimento numerosi artisti, soprattutto italiani, per comprendere l’efficacia e le potenzialità di questo passaggio, come per esempio Fontana coi suoi tagli, Vedova coi suoi Plurimi, Burri coi suoi Cretti, Scheggi con le sue forature. Tutti artisti che fuori e soprattutto dentro la tela, aprono alla strada dell’operazione come atto fisico, mentale e spaziale, come metodo riconoscibile e seriale in cui si identifica l’artista. Yves Klein nella sua breve ma intensa attività è stato uno degli artisti europei che ha maggiormente sperimentato nuove azioni per aggredire la tela, modificando radicalmente il rapporto tra artista e pubblico. A partire dal 1960 le sue Antropometrie divengono rudimentali operazioni performative, in cui modelle nude impregnate del suo Blue IKB (International Klein Blue) e accompagnate dal suono di violini della sua Sinfonia Monotona (unica nota suonata per venti minuti), improntavano con il corpo le bianche e grandi tele disposte a pavimento e parete. Klein mette a punto un colore, una musica, una sceneggiatura e attua un’operazione sulla tela che diviene la pellicola di una performance poetica di cui l’artista cura pubblicamente la regia. Operazione seriale Tra gli artisti americani attivi nei primi anni cinquanta negli Stati Uniti, troviamo un folto gruppo accomunato dall’appartenenza a quella corrente che qualche anno dopo verrà battezzata come Minimal Art. Tra questi Donald Judd è l’artista che ha più ispirato il mondo del design e dell’architettura ma anche Carl Andre che vedremo di seguito, Sol Le Witt, Walter De Maria, Dan Flavin e molti altri che hanno dato sorprendenti contributi. Questi artisti instaurano un rapporto con l’opera che è radicalmente diverso da quello degli artisti europei tra le due guerre, un rapporto che ha superato uno spartiacque, un punto di non ritorno che
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pagina a fronte Yves Klein Antropometrie 1960 sotto Yves Klein durante la performance di una delle Antropometrie 1960
è evidentemente rappresentato dall’opera di Duchamp. L’arte inizia ad allontanarsi dai suoi ambiti più riconosciuti e si avvicina all’artigianato, all’industria, alla tecnologia, si avvicina sempre più al mondo del progetto, ai suoi procedimenti e ai suoi meccanismi. Questi artisti non realizzano più le proprie opere in atelier ma le commissionano agli artigiani, le realizzano al fianco degli artigiani e diventano essi stessi esperti artigiani. Il metodo è dunque molto simile a quello del progetto di architettura, perché l’opera prima si progetta e poi si realizza, tanto che il suo progetto consente la realizzazione anche successiva di una o più opere. Questa metodologia per esempio ha permesso recentemente a Rem Koolhaas e Francesco Stocchi di curare ‘Between the Lines’, un’importante mostra dedicata a Sol LeWitt in cui i due curatori hanno reinterpretato il concetto di site specific adattando allo spazio espositivo i progetti delle opere dell’artista, riproponendo alcuni dei celebri Wall Drawings sulle pareti della Fondazione Carriero di Milano. Con LeWitt l’arte si slega dalla fisicità intrinseca dell’opera per celebrare il primato della sua pura ideazione e del suo progetto, mentre la sua esecuzione rappresenta un atto a se stante che, dentro i parametri della sua progettazione, può ritrovare nuovi margini di reinterpretazione. Lo sviluppo dell’industria siderurgica americana in quegli anni porta gli artisti a scoprire il fascino e la potenzialità dell’acciaio, le sue caratteristiche, la sua essenza materica, la sua massa, le infinite possibili lavorazioni, capaci di definire superfici materiche inedite, così l’acciaio grezzo, il corten, il rame, il bronzo, l’ottone, il piombo diventano i nuovi materiali da plasmare e progettare. Untitled 1969 di Donald Judd è data dalla ripetizione di elementi scatolari chiusi in rame, ancorati a parete come mensole a sbalzo alternati da vuoti, che raggiungono altezze considerevoli, capaci di stabilire forti relazioni spaziali per ritmo e dimensioni. “La prima battaglia di quasi tutti gli artisti è per liberarsi della vecchia arte europea” scriveva Judd, che negli anni sessanta produce una quantità notevole di opere utilizzando l’alluminio, il corten, il plexiglass colorato, il rame e numerosi altri metalli. Scatole chiuse, scatole aperte, scatole con fianchi inclinati, scatole dentro scatole, posate a pavimento o parete e sempre ripetute. In queste opere la cura del dettaglio, la giunzione delle lastre, la saldatura o la giustapposizione e il fissaggio divengono i dettagli capaci di dare forma e forza all’intera opera. Dettagli solo apparentemente semplici, frutto di calcolo, sperimentazione e ricerca. Definizione di un dettaglio, composizione della scatola e ripetizione sono le operazioni che consentono a Judd di produrre una variabile infinita di opere. Operazioni transcalari, perché la messa a punto di questi procedimenti permette passaggi di scala che comportano una ridefinizione degli spessori strutturalmente necessari, dei materiali
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e delle proporzioni, ma l’operazione progettuale rimane inalterata, come si può notare in ‘15 untiled works in concrete’ opera più tarda che appartiene alla scala della land art. In Untitled 1980, Judd propone una variante di Untitled 1969 realizzata in alluminio e plexi trasparente blu, con cui riveste il lato frontale delle singole scatole che viene leggermente traslato verso l’interno, così da lasciar leggere la continuità del bordo in alluminio che compone la scatola. Una sorta di operazione dentro l’operazione che arricchisce l’opera di riflessi ed ombre e favorisce una lettura coerente della costruzione della scatola, introducendo delle gerarchie cromatiche e costruttive. Nel 1968 Judd acquista a New York un edificio di cinque piani nell’angolo tra Spring Street e Mercer Street a Soho, caratterizzato da un impianto planimetrico stretto e lungo e dai due fronti classici su strada con struttura in acciaio, ritmati da un continuo susseguirsi di grandi finestre. Judd trasforma questo spazio nella sua casa-atelier e lo configura come se fosse una delle sue opere tridimensionali, con la stessa semplicità e pulizia riorganizza l’intero edificio come sovrapposizione di cinque livelli di open space: al terzo e quarto piano riveste interamente pavimento e soffitto in legno lasciando galleggiare nello spazio invaso di luce gli arredi e le opere. Una inedita simbiosi tra vita domestica e arte che, in sintonia con il modello proposto dalle gallerie newyorkesi, apre le porte a quella tipologia del loft che diventerà simbolica. Artista singolare Donald Judd, spesso criticato per la crudezza della sua opera o per aver utilizzato il colore lasciandolo prevalere sulla essenza materica, rimane certamente tra gli artisti più interessati a dialogare con lo spazio. Anche Carl Andre appartiene alla corrente del Minimalismo ma ha una formazione da scultore e da giovane segue con interesse l’opera di Costantin Brancusi. Chiama le sue opere sculture ed è il primo a negare l’essenza volumetrica della scultura tradizionale, attraverso la riduzione degli elementi. L’opera di Andre è data, ancora una volta, dalla messa a punto di un componente unico per dimensioni, identificabile come mattone o lastra, realizzato in metallo e prodotto industrialmente, che viene assemblato per ‘accostamento’ e giustapposizione. Le opere di Andre sono site specific e stabiliscono sempre forti relazioni con gli elementi costitutivi e visivi dello spazio, come il pavimento e le sue trame, gli spigoli e le pareti. Nel 1967 espone Eight Cuts alla Dwna Gallery di New York, una delle prime opere che ribalta il concetto di scultura in orizzontale. Sovrappone al pavimento della galleria uno strato continuo di blocchi in cemento e ne svuota otto porzioni caratterizzate da una differente forma rettangolare (date da sottrazioni del medesimo blocco modulare), lasciando emergere il pavimento in legno della storica galleria newyorkese.
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La scultura tradizionale utilizzava il piedistallo, la modellazione materica con tutta la sua gamma di tecniche, la costruzione del volume, la gerarchia delle masse, mentre la scultura di Andre recupera l’essenza materica, il volume si trasforma in spessore, la saldatura diviene una fuga, la gerarchia si annulla a favore di un accostamento cangiante e materico che anticipa il concetto di texture, come riscontrabile nella serie denominata Plains, tra cui Steel-magnesium plain del 1969 nella quale 18 lastre di magnesio e 18 lastre di acciaio (ciascuna di 30,5 x 30,5 x 9,3), posizionate in maniera sfalsata, compongo una grande scacchiera quadrata sovrapposta al pavimento e in dialogo con esso, attraverso fughe e allineamenti apparentemente non visibili ma presenti. L’opera di Andre stabilisce una relazione quasi costitutiva con lo spazio e inevitabilmente con l’architettura, poiché ne contraddistingue delle parti, sovrapponendo livelli di significato e di lettura attenti alle caratteristiche dello spazio, capaci di rileggere dettagli, accentuare prospettive, esaltare percezioni, capaci soprattutto di essere immediate come loghi. Alla luce di queste esperienze possiamo concludere che l’artista, con dinamiche sempre più vicine a quelle del progetto e quasi sempre site specific, sintetizza il suo messaggio in un atto estetico chiaro, riconoscibile, immediato. L’installazione site specific rappresenta per l’artista un nuovo punto di convergenza con il metodo progettuale dell’architettura e lo sarà ancora di più nei contesti urbani. L’opera seriale consente di declinare le possibili variazioni dell’azione sulle caratteristiche degli spazi espositivi: all’opera preconfezionata e assoluta questi artisti contrappongono quella contestuale e seriale. Gli artisti che analizzeremo di seguito si sono identificati nella definizione di un’operazione più o meno dichiarata ma comunque riconoscibile in tutta la loro attività e gradualmente comprenderemo come questa maniera di operare dell’arte ha influenzato l’architettura. Splitting Gordon Matta Clark si laurea in architettura alla Cornell University e subito dopo si stabilisce a New York dove inizia la sua attività anarchica, spesso clandestina, sempre spinta da una profonda coscienza degli accadimenti politici negli Stati Uniti in quegli anni. Le sue opere hanno infatti solide radici sociali che giustificano e avvalorano la durezza dei suoi atti estetici. Matta Clark vive nella comunità artistica che si era autonomamente costituita a Soho, accogliente quartiere residuale ai margini della prosperosa vita Newyorkese negli anni sessanta e settanta. Egli rifiuta l’architettura del benessere e del capitalismo, della città rigenerata e dedica numerose ricerche e alcune opere alle case dei senza tetto, a quello che aveva definito alloggio spazzatura per uomini spazzatura. Predilige le case abbandonate, gli edifici prossimi alla demolizione, quegli spazi apparentemente di nessuno. E’ attratto da tutto quel
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Donald Judd Untiled 1969 a fianco Donald Judd Untiled 1980
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patrimonio costruito e non, momentaneamente messo da parte dal sistema del capitalismo, tanto che nel 1973, con l’opera Fake Estate, acquista dall’amministrazione di New York 15 proprietà ad un prezzo ridicolo caratterizzate da requisiti penalizzanti e anti-immobiliari: spazi urbani di risulta tra edifici, tra cui strisce larghe anche 60 cm della lunghezza dell’intero isolato e addirittura spazi accessibili solo da cortili privati, uno dei quali acquistato sulla carta e mai visto per la sua inaccessibilità. Lo Splitting è un’operazione che deriva da queste premesse ed è una delle operazioni più crude e più note nell’arte, riferita prevalentemente alle opere di Matta Clark. Splitting 1974 è un’opera chiave per comprendere la forza, la sintesi e i processi innescati dal concetto di operazione progettuale. Si tratta di un intervento, di un’azione temporanea su una casa disabitata e prossima alla demolizione (per la costruzione di nuove villette) posta al 322 di Humprey Street a Englewood nel New Jersey. La casa con tetto a falde e basamento in pietra rappresenta il prototipo della comune casa suburbana americana, un modello semplificato della casa dei Simpson. Matta Clark opera un taglio netto, preciso e perentorio. Per dirlo in termini tecnici seziona letteralmente la casa dal basamento in su, secondo un piano ortogonale al lato lungo. Eseguire manualmente la sezione di una casa di due piani è una lavorazione per nulla semplice che necessita di un progetto preciso, con delle scelte mirate sul punto esatto di sezione, dei saggi, dei rilievi, dei tracciamenti, un doppio taglio esterno-interno e infine una certa precisione. A taglio eseguito, la scelta di sottrarre le pietre nello spigolo del basamento, consentono ad una porzione del volume, non più unico, di inclinarsi per esaltare la completezza, la profondità, la tridimensionalità del taglio. Splitting 1974 è un’opera site specific eseguita per sottrazione con la sola fatica fisica e mentale del suo ideatore, un’opera che ha una forza espressiva e comunicativa straordinaria per gli anni in cui è stata concepita. Arrivata al mondo dell’arte esclusivamente grazie alla fotografia e ad un filmato, essa rappresenta l’atto estetico più dirompente dell’arte in quegli anni, operato da un artista su un’architettura. I livelli di lettura sono molteplici, soprattutto se dal puro terreno estetico ci spostiamo sui contenuti politici e sociali dell’opera, come anticipato prima assolutamente rilevanti per Matta Clark. Tagliare, significa ferire lo stereotipo della vita medio borghese americana, significa prendere una posizione forte contro la standardizzazione imposta dalla società capitalista che produceva quell’architettura. Tagliare è una operazione povera, fatta con pochi mezzi, fatta materialmente con una sega. Matta Clark si avvicina a questo gesto collaborando con Dennis Oppenhiem alla realizzazione di Accumulation Cut, un taglio ondulato sul lago ghiacciato eseguito con la motosega, realizzato nel 1969 in occasione della mostra Earth Art organizzata, intorno al campus della Cornell University, da Willoughby Sharp, che aveva invitato artisti del calibro di Walter De
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Gordon Matta Calrk Splitting 1974 a fianco Steven Holl con Vito Acconci Storefront gallery a New York 1993
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Maria, Robert Smithson e lo stesso Oppenhiem con l’intento di produrre opere site specific sul paesaggio. Nelle opere successive lo Splitting di Matta Clark diviene più articolato, si arricchisce di temi, sfumature, livelli di complessità dati dalle geometrie, dall’architettura, dai contesti urbani, per raggiungere l’apoteosi in Conical Intersect, 1975, una delle opere più note realizzate nell’edificio adiacente al nascituro Centre Pompidou di Parigi (prima della sua demolizione), nel quale l’operazione dello splitting è generata – non più da un piano/sezione come in Splitting 1974 ma appunto – da un virtuale cono/sezione che interseca la struttura e innesca lo svuotamento di porzioni di pavimento, soffitti e pareti, generando in questi tradizionali elementi dell’architettura geometrie di taglio date dall’intersezione con il virtuale solido/ sezione. Sul terreno plastico ed espressivo, gli splitting di Matta Clark svelano stratigrafie, composizioni strutturali, dettagli costruttivi e intercapedini grezze. Alcuni di essi, praticati nelle superfici dei prospetti come Bingo 1974, al di fuori del significato intrinseco dell’opera, suggeriscono anche una possibile maniera di aprire la casa verso l’esterno. Sono reali sezioni tecniche che celebrano la spazialità di edifici sordi e abbandonati a se stessi, che certamente hanno contribuito negli anni successivi ad aprire nuovi immaginari nell’arte e soprattutto nell’architettura, ad avere un rapporto più libero e poetico tra l’esterno e l’interno come riscontrabile per esempio nelle architetture di Steven Holl. La poetica delle aperture che caratterizza buona parte dei suoi progetti è assimilabile alla gestualità dello splitting, sia nelle superfici bidimensionali dei fronti, sia nel coinvolgimento spaziale. Non sembrerà azzardato accostare all’opera di Matta Clark il progetto realizzato per lo StoreFront di New York da Steven Holl con la collaborazione di Vito Acconci, una galleria ricavata in un piccolo spazio a forma triangolare con un fronte lungo sulla strada. Sulla scia di una serie di progetti d’interni che teorizzavano la sua idea di spazio a cerniera, Holl concepisce l’intero prospetto su strada come sistema di pareti rotanti dalla forma geometrica articolata, ritagliate nello spessore del muro e incernierate con un sistema di bilico a volte orizzontale, a volte verticale, che consente alle porzioni tagliate di diventare aperture interattive, continuamente regolabili e riconfigurabili a seconda delle esigenze espositive. Tale rudimentale dispositivo consente soprattutto di portare l’arte sulla strada e stabilire un rapporto spaziale unico tra galleria e spazio urbano. Fuori scala Nei primi anni sessanta, nel contesto americano che abbiamo fin qui analizzato, la capillare diffusione della Pop Art diviene luogo di incontro, di comune ispirazione per numerosi am-
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pagina a fronte Claes Oldenburg Balancing Tools a Weil am Rhein 1993 sotto Frank Gehry casa a Santa Monica 1978
biti disciplinari che vanno dall’arte alla fotografia dalla musica alla grafica pubblicitaria che prendeva sempre più corpo, con baricentro nella produzione di alcuni artisti che fanno leva su un rinnovamento linguistico ispirato per contrasto alla risonante comunicazione del capitalismo e della mercificazione di massa. Gli artisti captano in questi anni una serie di passaggi obbligati della produzione, della catena merceologica, soffermandosi su aspetti quali la pubblicità e la comunicazione del prodotto, la sua identificazione, la sua esposizione, la sua confezione. Questi e molti altri step della catena di produzione dell’oggetto di massa hanno ispirato gli artisti e favorito la nascita di nuovi linguaggi, soprattutto di operazioni artistiche e progettuali chiaramente riconducibili al prodotto di consumo. Claes Oldenburg è uno degli artisti Pop che certamente ha contribuito alla costruzione di un nuovo scenario urbano ed anche alla definizione di operazioni progettuali decisive. Con Oldenburg la cultura oggettuale trova una sponda nuova, non nell’oggetto di consumo, ma nell’oggetto di uso comune, riconoscibile, spesso di utilizzo domestico che, con spinta duchampiana, viene decontestualizzato, portato nei contesti urbani mediante una operazione di giocoso ingrandimento. L’operazione di Oldenburg è il clamoroso fuori scala attraverso cui coinvolge, con l’immediatezza del colpo d’occhio, le grandi masse che riconoscono nelle sue gigantesche e colorate opere urbane quegli oggetti di uso comune che utilizzano quotidianamente dentro casa. L’operazione di Oldenburg è per tutti e alla portata di tutti. La realizzazione di queste opere introduce un nuovo aspetto dell’operazione, già presente nell’opera di Matta Clark in una dimensione solitaria e povera: la complessità. Le opere di Oldenburg sono maestose, impegnative, esagerate. Ingigantire un oggetto molto piccolo come una molletta, una vite, uno spillo o un hamburger mantenendone inalterate le proporzioni, significa costruire un ‘oggetto nuovo’, perché non sono più verificati i requisiti materici, quindi strutturali e plastici degli oggetti di partenza. Gli oggetti così ingigantiti si confrontano con l’edificato urbano, con la dimensione pubblica, divengono vere e proprie architetture che richiedono una struttura spesso sofisticata, non soltanto nel calcolo, ma anche nel trasporto, nella posa, nell’ancoraggio al suolo, nei dettagli e soprattutto nelle giunzioni al fine di lasciar percepire la continuità del materiale. Infine il colore, molto ben calibrato dalla compagna Coosje Van Bruggen diviene la pelle di questi grandi oggetti urbani. Frank Gehry, uno tra gli architetti oggi più riconosciuti, vive e si forma a fianco degli artisti, inala l’atmosfera, le opere e le istanze dell’esperienze che abbiamo fin qui analizzato, dal minimalismo alla Pop Art, a tal punto che l’intera sua opera non è comprensibile al di
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fuori del contesto americano di quegli anni. Nel 1978 Gehry progetta la sua nuova casa e, con essa, avvia una nuova stagione creativa che si caratterizza per un aspetto sostanziale: traspone in architettura tematiche, istanze sociali, culturali e urbane desunte dal mondo dell’arte, per costruire opere d’architettura, con gli strumenti dell’architettura. Ciò significa trovare riscontro nella committenza, articolare programmi funzionali, giustificare la scelta di materiali radicali per i contesti urbani di quegli anni e risolvere significative complessità progettuali. Ecco allora che l’utilizzo dei materiali poveri e soprattutto la messa a punto di operazioni povere già veicolate dal mondo dell’arte entrano in gioco con la sapienza e la marcia in più dell’architetto. Non è un caso che nel realizzare la propria casa scelga di acquistarne una già esistente e decida di non demolirla bensì di ‘operare’ su di essa con un ampliamento. Gehry sceglie di intervenire su una casa in stile realizzata intorno 1920, tipica espressione dell’architettura della borghesia locale. Sceglie di progettare un’operazione di ampliamento cosciente del fatto che il mondo dell’arte aveva legittimato azioni sulle preesistenze, nel tentativo di stabilire dialettiche stridenti e anticonformiste, così come aveva fatto pochi anni prima Matta-Clark con gli splitting, che prima ancora di atti estetici erano operazioni contro il sistema. La casa di Gehry è stata oggetto di innumerevoli attenzioni, le immagini stesse raccontano chiaramente l’operazione attuata dal suo progettista che avvolge la casa esistente con un ampliamento planimetrico a forma di ‘U’, grazie al quale rifunzionalizza il programma dell’abitazione sui due livelli. Il lato orizzontale della U ospita la cucina/pranzo, mentre le due ali ospitano rispettivamente il nuovo ingresso su strada e un portico/galleria verso il cortile sul retro. Questa sorta di deambulatorio contemporaneo consente di portare all’esterno le funzioni accessorie della zona giorno per liberare il soggiorno della casa che, svuotato e ripulito, diviene il nuovo baricentro. Così facendo porzioni della bianca facciata dell’originario nucleo della casa divengono ‘interni’ lungo i tre lati dell’ampliamento, mentre le nuove strutture che contengono l’addizione sono dichiarate nella sequenza dei tagli e aperture sghembe delle finestre che proseguono in prismatici lucernari e richiamano il caloroso legno dell’interno. All’esterno un tripudio di materiali grezzi fanno da contrappunto alla tradizionale volumetria della preesistenza che emerge: il recinto interamente rivestito con la povera lamiera ondulata viene bruscamente interrotto dai prismi in legno e vetro dei lucernari, i blocchi di poroton che delimitano la pertinenza sopraelevata dell’ingresso sono lasciati a vista, senza intonaco; il rivestimento in lamiera si smaterializza verso l’alto con la rete esagonale sostenuta da una struttura tubolare, mentre l’asfalto della strada penetra dentro e pavimenta la cucina. Una libertà espressiva impregnata del reale, che è desiderosa di
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contaminare l’architettura con le realtà urbane più semplici e banali, legittimate dall’arte e per questo ancora più autentiche. Se Oldenburg guarda al quotidiano e porta dentro l’arte oggetti semplici e riconoscibili per il loro comune utilizzo, Gehry guarda il paesaggio urbano delle strade, delle periferie, dei ‘retro’ e porta dentro l’architettura materiali umili e grezzi: il legno non trattato, la lamiera, la rete dei pollai, l’asfalto. L’architettura di Gehry a partire da questa piccola sperimentazione fatta sulla propria pelle desterà stupore in numerose occasioni progettuali e svilupperà un percorso del tutto personale capace di concepire le architetture come ‘operazioni’ mai seriali ma uniche, con una sensibilità gestuale ereditata dal mondo dell’arte, sempre ispirate dai contesti urbani e dalla sua energica e generosa forza plastica. Risalgono agli anni ’80 alcune collaborazioni con Oldenburg a progetti di architettura caratterizzati da operazioni di fuori scala, mediante oggetti ingigantiti e tematici che ospitano generose architetture come la più nota sede per uffici della Chiat-Day-Mojo a Venice (19751991), dove un gigantesco binocolo fa da cerniera tra due grandi edifici. Con Gehry l’operazione di progetto si sposta nel campo dell’architettura e acquista forti valenze urbane a tal punto che nei primi anni ’90 lo vedremo in Europa a concepire un’operazione urbanistica attraverso un’architettura, con il museo Guggenheim di Bilbao (19911997), indubbiamente l’architettura che chiude il secolo e segna l’avvio dei processi di rigenerazione che coinvolgeranno numerose realtà urbane negli anni successivi. Layering Siamo a questo punto nel vivo l’architettura. La casa a Santa Monica è del 1978, sarà ristrutturata dallo stesso Gehry nei primi anni ’90 per mutate esigenze della sua famiglia. Si tratta di un decennio decisivo per l’architettura contemporanea perché, se da una parte si risente delle forti nostalgie del Postmodern, dall’altra un gruppo di architetti sta costruendo le basi teoriche e di ricerca per l’architettura degli anni a venire. Questi architetti sono Peter Eisenman e il suo allievo Bernard Tschumi, Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Daniel Libeskind, il gruppo austriaco Coop Himmelb(l)au che nel 1988, assieme a Frank Gehry, danno corpo alla famosa mostra Deconstructivist Architecture a New York, mostra che avrà una grande risonanza, voluta da Philippe Johnson e curata da Mark Wigley. Questi architetti erano stati selezionati in quanto autori di opere ritenute decisive nell’indirizzare una nuova corrente di pensiero, appunto il Decostruttivismo, all’interno della quale ciascuno di essi convergeva forzatamente. Certo è che essi rappresentavano dei focolai individuali di ricerca e che, visti da più lontano, erano accomunati da una personale idea di paesaggio urbano o, per dirla con Antonino Saggio di contesto. Scrive Saggio: “Gli architetti guardano con una attenzione mai
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Bernard Tschumi diagramma dei layer per il progetto del Parc de la Villette 1983 a fianco OMA Rem Koolhaas sistema dei layer per il progetto del Parc de la Villette 1983
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esercitata in maniera così intensa in precedenza all’ambiente in cui la nuova architettura deve nascere, e quindi al rapporto con il luogo, con i materiali, con le geometrie e con le forme ricorrenti. Il ‘contesto’ diventa un Leimotiv.” Questa attenzione critica per il contesto favorisce la diffusione di operazioni progettuali capaci di intervenire per sovrapposizione e stratificazione alla scala urbana. La nuova architettura nasce da operazioni complesse e di rottura ma capaci di generare contesto per sovrapposizione. Non sarà possibile analizzare singolarmente le ricerche messe a punto da ciascuno di questi architetti ma per meglio definire il nostro concetto di operazione analizziamo sinteticamente due progetti chiave. Nel 1983 Tschumi si aggiudica il noto progetto per il Parc de La Villette a Parigi, realizzato tra il 1984 e il 1989. Oltre a utilizzare la griglia a grande scala per riammagliare il parco al tessuto urbano, Tschumi mette a punto l’operazione del layering, ovvero concepisce l’intero parco come sovrapposizione di tre layers che risolvono autonomamente temi diversi del programma. Il progetto viene ‘disgiunto’ in tre differenti livelli – le superfici, le folies e le linee – che troviamo sovrapposti nel progetto finale. Non vi è nel progetto una sintesi compositiva poiché esso è dato automaticamente dalla stratificazione. Si tratta di una operazione progettuale meccanica, illustrata nei noti diagrammi, che consente di gestire le complessità di ogni singolo livello tematico e che trova nello strato intermedio delle folies lo stadio più alto e seducente per la comunicazione della sua identità progettuale. Il parco è infatti ritmato da numerosi piccoli volumi rossi utilizzati come sculture, attrezzature e servizi, distribuiti secondo una griglia regolare di 120m x 120m, che determinano la riconoscibilità del progetto alla scala del parco. Il progetto di Koolhaas per il medesimo progetto del Parc de La Villette, che risulta secondo classificato al concorso, propone anch’esso una operazione di layering più sofisticata e razionale che lavora su cinque livelli sovrapposti: le fasce, le griglie puntiformi o coriandoli, le vie di acceso e percorsi, gli oggetti trovati, le zone. Il primo livello genera l’immagine complessiva e unitaria del progetto attraverso la scansione continua di fasce a differente tipologia di verde dei giardini, che caratterizzeranno il parco e lo scandiscono nella sua interezza. Le parti, i pezzi minuti e gli oggetti più grandi contenuti nei rimanenti layers si sovrappongono, sedimentano e generano un insieme più denso e compatto rispetto al progetto di Tschumi. E’ utile notare quanto il layering utilizzata da Tschumi e Koolhaas sintonizzi con una maniera di governare il progetto che sul finire degli anni ’80 prendeva corpo attraverso i primi software di disegno cad, che utilizzavano il layer come matrice di controllo e gestione del disegno, che negli anni ’90 diventerà un riferimento per tutta la produzione, la rappresentazione e la didattica architettonica attraverso le versioni avanzate del cad e di photoshop,
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programmi che utilizzano il livello come sistema di semplificazione e razionalizzazione della tecnica di costruzione. Se sovrapposizione, stratigrafia e contesto sono le parole chiave per comprendere le ricerche e i progetti dell’architettura dei primi anni ’90, il layering è l’operazione progettuale, meccanica, trasmissibile, che le esalta non solo alla scala urbana ma anche alla scala dell’edificio multipiano, concepito come sandwich di layers così come avverrà in numerosi progetti di Koolhaas e dei più giovani MVRDV. Wrapped Un artista determinante per il nostro percorso verso la definizione dell’operazione di progetto è Christo che assieme alla compagna Jeanne-Claude è attivo dai primi anni ’50 con opere e interventi di arte pubblica urbana e di Land Art. Negli anni la coppia di artisti mette a punto un’operazione progettuale che consiste dell’impacchettare oggetti di differente forma e dimensione, espediente divenuto gradualmente di notevole complessità. Gli esordi sono legati a quella ricerca di oggetti comuni e di utilizzo quotidiano che abbiamo rintracciato nell’opera di Oldenburg. Abbiamo infatti tratteggiato il legame tra la Pop Art e i meccanismi del consumo di massa, della pubblicità, della propaganda del prodotto che aveva ispirato principalmente in America gli artisti Pop. Le prime operazioni di impacchettamento di piccoli oggetti di Christo sono la trascrizione del confezionamento della merce che i meccanismi del consumo di massa veicolavano attraverso la pubblicità. Il prodotto confezionato e incartato, lo studio del suo packaging come accattivante veste per presentalo al consumatore, sono gli ingredienti sociali e culturali che lambiscono la sensibilità di Christo nella definizione della sua operazione di wrapped. La plastica trasparente, lo spago, il tessuto sono i materiali con cui attua l’operazione trasformando gli oggetti più comuni – un tavolino, dei magazine, dei segnali stradali, delle lattine – in nuove presenze che occultano l’oggetto originario ma ne svelano la forma arricchendola di drappeggi, piegature, panneggi, protuberanze, ombre e complesse tessiture di spago. Sono dei primi anni sessanta i fotomontaggi in cui Christo impacchetta interi edifici, come il collage realizzato tra 1964-66 su Manhattan, in cui emergono dal noto skyline gli edifici posti al n.2 della Broadway e il n.20 di Exchange Place, integralmente impacchettati. Questi primi fotomontaggi sono e diventeranno a tutti gli effetti dei progetti, perché pochi anni dopo Christo e Jeanne-Claude riusciranno a impacchettare edifici come la fontana di Spoleto nel 1968 e il museo di arte contemporanea di Chicago nel 1969, con un proseguimento del wrapped all’interno, nella scala e nel pavimento. Il pas-
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saggio dall’oggetto comune all’oggetto urbano è straordinario e dimostra quanto sia legittimo e affermativo dentro l’operazione il salto di scala, che comporta una crescita esponenziale della complessità dell’opera. Per gestire la complessità del fuori scala occorre un processo con delle tappe obbligate: occorre un progetto. Un progetto ambizioso che molto spesso deve mettere in conto la ricerca di un committente. La realizzazione dei Wrapped è sempre preceduta dalla elaborazione di grandi disegni-collage, molto curati e attenti, in cui Christo con matite, carboncino, fogli lucidi, pastelli a cera e fotomontaggi presenta l’opera. Questi disegni sono dei veri e propri layout di progetto e contengono tutte le informazioni utili per la comprensione, con una grande vista d’inserimento del wrapped, un inquadramento, delle planimetrie, delle indicazioni dimensionali, insomma un elaborato prezioso che rivela tutta la sua abilità nel disegno e che sintetizza il progetto in un elaborato chiave. Christo utilizza questo disegno non solo per mettere a punto il progetto ed illustrarlo ai committenti, ma soprattutto per ricavare i primi finanziamenti dell’opera attraverso la sua vendita. Si apre a questo punto il complesso capitolo che riguarda l’esecuzione dell’opera, la scelta dei materiali, delle corde (la consistenza, il diametro), delle attrezzature necessarie, delle autorizzazioni, delle misure di sicurezza. Tra le numerose opere urbane realizzate negli anni di attività, il Wrapped del Reichstag di Berlino rimane l’esperienza di arte pubblica più maestosa e simbolica, non tanto per l’opera in sé ma quanto per l’edifico scelto, per il suo valore nella storia della Germania che proprio con quell’opera celebrava l’avvio di una importante stagione di rigenerazione urbana, seguita alla caduta del muro, che negli anni successivi ha radunato a Berlino i più più grandi artisti e architetti. Il primo disegno di Christo e i primi tentativi per autorizzare il wrapped del Reichstag risalgono al 1971: l’opera sarà approvata nel 1994 e realizzata l’anno successivo, dopo una gestazione di circa 25 anni. Interamente finanziata dalla vendita dei disegni, dei modelli, dei collage di Christo e Jeanne-Claude, l’opera è costata 15 milioni dollari, realizzata con 100.000 metri quadrati di tessuto in polipropilene a maglia stretta e 15.600 metri di corda blu, da una squadra di 90 professionisti e 120 operai. “Tutti i nostri progetti hanno una fortissima qualità nomade, che ricorda le tribù che si spostavano con le loro tende; – spiega Christo – usando un materiale fragile si avverte l’urgenza di vedere quello che domani non ci sarà…nessuno può comprare questi progetti, nessuno può diventarne proprietario, nessuno li può commercializzare, nessuno può far pagare biglietti d’ingresso; nemmeno noi possediamo queste opere. Il nostro lavoro è sulla libertà. La libertà è nemica del possesso, e il possesso equivale alla permanenza. Ecco perché l’opera non può rimanere.” Cinque milioni di persone visitarono l’opera e trasformarono con la loro presenza continua la piazza antistante per due settimane, 24 ore su 24, dopo le quali il Reichstag fu spogliato per
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Christo e Jeanne Claude disegno del Wrapped per il Reichstag di Berlino 1994 a fianco Christo e Jeanne Claude Wrapped per il Reichstag di Berlino 1994
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dare inizio al cantiere del progetto di Norman Foster. Il tessuto ha semplificato la frastagliata architettura e, le asperità della pietra sono state ammorbidite da altissimi e anomali drappeggi. Questa temporanea occultazione dell’architettura, neutralizzata dal bianco candido del tessuto, ha assunto la forza di un rito purificatorio per uno degli edifici più segnati dalle piaghe della propria storia. Impacchettare un edificio tanto grande, caratterizzato dalle pronunciate facciate Neoclassiche è un’operazione di incomprensibile complessità tecnica, che richiede una struttura operativa professionale e articolata. Con Christo e altri artisti attivi negli stessi anni come per esempio Anish Kapoor, l’opera, seppur temporanea, si confronta con livelli di complessità che richiedono sofisticati processi di ingegnerizzazione: questo rappresenta un ulteriore punto di contatto tra arte e architettura. L’operazione di Christo e Jeanne-Claude, è divenuta negli anni un ingranaggio articolato e circolare capace di integrare tutto, a partire dalla intuizione dell’opera alla sua comunicazione (con espedienti diversi come, per esempio, da distribuzione di campioni di tessuto nelle settimane di permanenza dell’opera), dal suo finanziamento alla sua non semplice esecuzione, per finire con il riciclo delle grandi quantità di tessuto impiegate per i wrapped. Tutto è controllato e diviene parte di un ingranaggio che ha come obiettivo l’opera, la sua perfetta riuscita, la sua comunicazione. Sul terreno dell’architettura il wrapped apre un campo di possibili operazioni, dal punto di vista tecnico, tecnologico, estetico, comunicativo ed urbano e, nello specifico, esso genera due operazioni radicali sull’involucro edilizio e sul colore. Nello scenario articolato dei processi di rigenerazione urbana che hanno coinvolto numerose capitali europee a partire dagli anni novanta, questa opera di Christo e più in generale la sua operazione di wrapped, rappresenta una metafora esemplificativa per individuare due atteggiamenti possibili in architettura, diciamo pure le due operazioni progettuali che analizzeremo. L’involucro La prima operazione deducibile riguarda il concetto di rivestimento, così come si è gradualmente sviluppato negli ultimi anni, ovvero una pelle capace di stabilire relazione dialettiche con i contesti urbani, capace di reinterpretare in forme e pezzature nuove quei sensibili riferimenti alle tradizioni locali, espediente che il movimento moderno aveva categoricamente negato. L’operazione del wrapped in architettura è tanto più forte quanto più essa è omogenea e capillare, anche a svantaggio della compenetrazione esterno-interno, perché il carattere urbano deve prevalere. Per comprendere la radicalità di questa operazione in architettura possiamo fare riferimento a numerosi progetti di Herzog e De Meuron, ad alcune
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Herzog e De Meuron Cabina Auf dem Wolf, Basilea 1991-1994
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più recenti come lo Schaulager di Basilea, inaugurato nel 2003, oppure alla più nota cabina Auf dem Wolf ancora a Basilea. Ultimata nel 1994, si tratta di un edificio commissionato dalle ferrovie svizzere con un programma funzionale molto rigido per la sua natura tecnica di cabina nello snodo ferroviario. Gli architetti attingono da quello specifico contesto, scandito dalla sovrapposizione delle linee elettriche dei treni che sovrastano ciascun binario, dalle presenze ferrose e rugginose dei tralicci per mettere appunto un’operazione di wrapped mediante un involucro tessuto da bande orizzontali di rame, accostate per tutto lo sviluppo verticale e ancorate ad una sottostruttura metallica che crea una contro-forma urbana all’edificio, una pelle che semplifica e propone un’immagine seducente, cangiante, resa dinamica dalle piegature orizzontali delle fasce di rame in prossimità delle finestre, necessarie per il dosaggio della luce naturale. Questa operazione sull’involucro che diviene pelle, preziosa per la ripetizione delle bande orizzontali che la rendono un filamento continuo, è capillare, non ammette cesure, occulta esaltando, genera una nuova immagine urbana, comunica l’appartenenza ad un contesto che al contempo rigenera. Nel 2012 MVRDV ristrutturano a Dijon un edificio dismesso con un budget ridotto per una società di call center. Il gruppo mette a punto un’operazione low cost: amplia la facciata esistente e attua un wrapped sulle parti piene mediante l’applicazione delle etichette flashcode QR, che vengono ripetute in maniera capillare così da creare una texture. Il confronto con l’edificio dismesso rende bene la forza dell’operazione che trasforma un involucro anonimo in infrastruttura di comunicazione, capace di esaltare il servizio e le prestazioni dell’azienda che ospita. L’operazione che attuano all’interno è sul colore. Il colore La seconda operazione riguarda il colore ed è spesso una conseguenza della prima sull’involucro. Colore non più inteso nella sua accezione compositiva, riferito agli elementi dell’architettura o ai linguaggi, ma colore nella sua accezione più radicale ed estrema: colore totalizzante, come il bianco assoluto del wrapped di Berlino. Abbiamo già accennato all’opera di Yves Klein, ma per comprendere la forza dell’operazione sul colore è utile rivisitare alcune sue opere, non solo le tele Monocrome integralmente imbevute del blue IKB o i Monogold realizzati con la foglia d’oro e con la medesima caratteristica di assolutezza del colore. Nel 1955 Klein scrive: “le mie tele sono ricoperte da uno o più strati di un solo colore unito, dopo una certa preparazione del supporto e con diversi procedimenti tecnici. Non appare nessun disegno, nessuna variazione di tonalità; c’è soltanto un colore ben UNITO. In qualche modo, la dominante invade tutto il quadro.” Come abbiamo visto Klein va oltre la tela e attua la medesima operazione su alcuni oggetti, come la scultura Globe terreste bleu o L’Esclave
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de Miche-Ange (S 20) del 1962, nel quale utilizza il pigmento puro IKB per uniformare una copia di Lo Schiavo morente di Michelangelo del 1513 conservata al Louvre. Klein attua una operazione di trasmutazione materica e, senza intaccare la perfezione plastica dell’originale michelangiolesco, la riconsegna alla storia con una nuova veste immateriale. L’operazione di Klein non ammette sbavature, è perfetta, dettagliata, preziosa, uniforme. L’operazione sul colore è dunque complessiva e assoluta. In architettura questa operazione è stata negli ultimi anni utilizzata in alcune opere e recentemente anche in Italia; Rem Koolhaas ne ha dato una significativa interpretazione nel suo progetto per la Fondazione Prada a Milano, un ex complesso industriale ristrutturato e caratterizzato da un insieme di edifici a differente tipologia. Il progetto di Koolhaas ha esasperato il contrasto tra le tipologie edilizie esistenti e quelle di nuova realizzazione come la torre e il podio, creando una ‘micro città’ che oltre a mixare il programma funzionale grazie al sistema poroso degli spazi aperti, li tiene insieme come se i vari edifici fossero stati progettati da differenti architetti. Tra questi spicca la Hauted house, una preesistenza semplice e anonima di circa 4 piani, dedicata ad una parte della collezione, che il progetto di Koolhaas ha caratterizzato con un rivestimento esterno in foglie d’oro. Con assoluta continuità ogni elemento visibile nei quattro fronti (intonaco, serramenti, caditoie, parapetti, marcapiani) è stato uniformato senza alcuna distinzione. La sua architettura è stata semplificata, resa assoluta con un’operazione capillare sul volume che lo rende un oggetto urbano riconoscibile in dialettica con il contesto. In questa direzione numerosi altri interventi tra cui segnaliamo il Didden Village di MVRDV e il padiglione di Jean Nouvel per la Serpentine Gallery. Per l’ampliamento della casa Didden, ultimato nel 2006, il gruppo realizza un coronamento sul top di un tradizionale edificio in mattoni, ideato come prototipo urbano per una espansione possibile della città. Per caratterizzare il progetto come elemento urbano aggiunto e sovrapposto, gli architetti utilizzano l’operazione del colore per uniformare senza alcuna distinzione tutte le parti che lo compongono mediante un rivestimento poliuretanico blu chiaro. Ancora una volta un’operazione immersiva e totalizzante il cui obiettivo è comunicare con immediatezza e senza mezzi termini il suo messaggio teorico di prototipo, di villaggio urbano e potenziale matrice di espansione della città. MVRDV grazie al loro imprinting olandese e ad una tradizione molto legata alla cultura del colore, utilizzano spesso nei loro progetti operazioni simili per evidenziare parti del programma, anche attraverso l’utilizzo di materiali colorati, come se i diagrammi analitici delle loro architetture si trasformassero in concreti strumenti di comunicazione dell’architettura.
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Jean Nouvel è un architetto di rara sensibilità nei confronti dell’arte contemporanea a tal punto che l’intera sua produzione potrebbe essere riletta in rapporto alle esperienze dell’arte. Questa sensibilità emerge con più irruenza nelle sue opere temporanee come per esempio nel noto padiglione svizzero per l’expo del 2004 oppure nel padiglione del 2010 per la Serpentine Gallery di Londra, dove una struttura ibrida realizzata da componenti quali portali metallici, tende retrattili, divisori in policarbonato, arredi e giochi crea un riparo dichiaratamente temporaneo, una piazza coperta dal grande piano inclinato generato dalle tende. Utilizzando il colore più identitario della città, Nouvel uniforma con un’operazione decisa tutte le singole componenti senza alcuna distinzione: tavoli, frigoriferi, tende, strutture, pavimento sono letteralmente immerse in secchio di vernice rossa che mette a sistema i singoli pezzi e li uniforma in un padiglione subito riconoscibile e giocoso come lo ha definito Richard Rogers. Verso il progetto Il percorso che abbiamo tracciato non può essere esaustivo, ma è quello strettamente necessario per delineare attraverso le opere e le architetture un metodo di progetto sintetico, unitario e coinciso. Le esperienze artistiche, cariche di valori sociali ed emozionali, a partire dagli anni sessanta si sono imbattute nel vivo della pratica costruttiva e hanno raggiunto livelli di complessità che in alcuni casi le rendono equiparabili alle strutture architettoniche con una qualità nella definizione del dettaglio che può essere assunta a riferimento per chiarezza e radicalità nella cura dei materiali e delle logiche di assemblaggio. Dall’altra parte il lavoro di alcuni architetti dimostra quanto sia efficace la vicinanza all’arte e quanto siano state d’ispirazione alcune opere per la definizione del progetto di architettura. Questo avvicinamento non si esaurisce sul piano visivo del linguaggio o dell’immagine così come storicamente si è riconosciuto il rapporto tra arte e architettura. Questo avvicinamento è oggi divenuto un’affinità perché è più autentico, più calato in una dimensione totale che va dalla ideazione alla costruzione e che integra una molteplicità di aspetti. Questa affinità è sintetizzabile nel concetto di operazione progettuale, un espediente concettuale nell’approccio ma capace di essere pragmatico e rigoroso, che consente all’architetto di mettere a punto un atto estetico forte, comunicabile ma al contempo carico di valori urbani e contestuali, efficace nella esaltazione del programma
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Jean Nouvel Padiglione della Serpentine Gallery, Londra 2010 sotto MVRDV Didden Village a Rotterdam 2002-2006
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Bibliografia di riferimento Argan G.C. (1970) L’arte moderna 1770/1970, Sansoni, Firenze. Baal-Teshuva J. (2007) Christo and Jeanne-Claude, Taschen, Koln; Filardo D., Iori A. (2012) Arte torna arte, Giunti, Firenze. Fusi L., Pierini M. (2008) Gordon Matta-Clark, Silvana Editore, Milano. Garofalo L. (2002) Rem Koolhaas_architetto avant pop, Edilstampa, Roma. Growe B. (2001) Degas, Taschen, Koln. Holl S. (2004) Parallax. Architettura e percezione, Postmedia Srl, Milano. Honnef K.(2004) Pop Art, Taschen, Koln. Koolhaas R. (2006) Junkspace, Quodlibet, Macerata. Lailach M. (2007) Land Art, Taschen, Koln. Lima A. I. (1996) Alle soglie del 3° Millennio sull’architettura, D. Flaccovio, Palermo. Mari A. (2002) Steven Holl, Edilstampa, Roma. Martone P. (2015) Walter De Maria – L’invisibile è reale, Calstelvecchi, Roma. Marzona D. (2006) Arte Concettuale, Taschen, Koln. Marzona D. (2005) Minimal Art, Taschen, Koln. McEvilley T. (2014) Yves il provocatore, Johan & Levi Editore Truccazzano, Milano. MVRDV Agendas of Urbanism, Equal Books. Saggio A. (1997) Frank O. Gehry Architetture Residuali, Testo&Immagine, Torino. Pawson J. (2003) Minimum, Phaidon Press Ltd. Prestinenza Puglisi L. (1999) This is tomorrow, Testo&immagine, Torino. Saggio A. (2010) Architettura e modernità, Carrocci Roma. Saggio A., Scanner N. (2008) Roma a_venire, I Tool. Tchumi B. (2005) Architettura e disgiunzione, Edizioni Pendragon, Bologna. Zambelli M. (2007) Tecniche di invenzione in architettura, Marsilio, Venezia.
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Blu isoscele
blu isoscele Giovanni Bartolozzi
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Disegno dell’ installazione Blu Isoscele realizzata per la Design Week di Firenze
Ideato come metafora di una porzione di pavimento pubblico, Blu isoscele è il risultato dell’accostamento di cinquanta tesserine a forma triangolare, ciascuna realizzata da uno studente del laboratorio utilizzando tecniche e materiali diversi. Questa piccola esercitazione didattica, nata dall’invito a partecipare alla Florence Design Week di Firenze con una installazione dedicata al colore, è stata realizzata in pochi giorni e ha coinvolto gli studenti nella costruzione di una superficie intesa come un ‘inventa la regola’ tridimensionale. Ancora una volta, sulla base di un formato rigorosamente comune, si tenta di esaltare le singole personalità degli studenti, soprattutto durante i momenti di confronto delle revisioni. Blu isoscele indaga le potenzialità espressive e materiche di un colore nobile – appunto il blu – utilizzato per la prima volta in pittura da Cimabue e successivamente da Giotto nei suoi noti affreschi fiorentini. Un colore che ha segnato la storia dell’arte e delle arti, fino a diventare il simbolo di operazioni concettuali forti e radicali come avviene nell’opera di Yves Klein. Nello specifico dell’architettura, la scelta di un colore forte e deciso va oltre il gesto decorativo e poetico e si traduce in operazione progettuale semplice, riconoscibile, capillare. All’interno di questa riflessione, sostanziata da una lezione teorica all’interno del corso ‘Il colore come operazione progettuale’, ogni studente ha condotto una riflessione materica sul colore che si è trasformata in un patchwork collettivo.
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Workshop per l’installazione Blu Isoscele
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Workshop per l’installazione Blu Isoscele
Pagina a fronte Installazione Blu Isoscele realizzata per la Design Week di Firenze
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Rocinha 25 maggio 2009
rocinha 25 maggio 2009 Studio ++
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Dettaglio dell’ installazione Rocinha 25 maggio 2009 installata nella ex aula 4 a Santa Teresa
Il tempo ha le sue forme di bellezza. Tra queste senza dubbio la forma della città: esito di un lento e continuo stratificarsi della storia socio-culturale dell’uomo e del suo disporsi nello spazio. Forma in movimento fatta di parti, piccole azioni dei singoli e grandi scelte collettive, compromessi con la morfologia del luogo e con il senso delle relazioni che vivono al suo interno. Gli insediamenti informali estremizzano la bellezza dei processi di definizione urbana, perché li rendono più chiari attraverso trasformazioni veloci e ne svelano una profonda spontaneità sociale. Specie nella forma e nel valore degli spazi pubblici è straordinario come si affermi, nella completa assenza di regole scritte, un ordine ed una gerarchia che dimostrano la necessità esistenziale di una comunità di creare un equilibrio nel rapporto tra società e spazio, anche in condizioni di grande difficoltà. L’articolazione di pieni e vuoti nello spazio pubblico di una favela ci aiuta a visualizzare le regole profonde delle relazioni tra vivere sociale e spazio urbano. Spazio privato e pubblico si spiegano facilmente osservando dall’alto la planimetria ‘umile’ di una favela. Con la stessa chiarezza oggi le forme di questi spazi hanno un significato importante perché possono essere la metafora di una nuova visione politica dell’uso e del progetto della città, una nuova aspirazione alla bellezza attraverso un equilibrio tra le comunità ed i luoghi. Abbiamo chiesto ai cinquanta studenti del corso di farsi carico ognuno del ridisegno vettoriale di una parte delle favelas più grandi del mondo: Rocinha a Rio de Janeiro nella sua conformazione del 1995 così come ripresa da Google. La nostra richiesta intendeva innescare un processo di ‘formalizzazione’ di un insediamento informale, nel quale il metodo stesso di ri-disegno collettivo, ripete il legame tra particolare e forma complessiva di una città, rende forma il processo e viceversa processo la creazione della forma, richiamando così il senso della città come opera d’arte collettiva. Alla fine del percorso, quando abbiamo iniziato a montare i singoli pezzi in una forma complessiva e si poteva fare un paragone tra i diversi contributi, l’oggettività della forma urbana, come dato di fatto immutabile così come l’oggettività dei nuovi strumenti di osservazione
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Foto aerea della Favelas di Rocinha
Pagina a fronte Targa affissa in aula 4 a Santa Teresa dopo l’installazione dell’opera
(Google Earth) e rappresentazione (Autocad) scricchiolavano, dichiarando ad ogni più piccolo dettaglio, una sottile e insidiosa menzogna, un dubbio su chi fosse veramente l’autore degli spazi che viviamo, e conosciamo. Rocinha è stato infatti un percorso di approfondimento su alcuni dubbi che noi stessi nutriamo ancora oggi, un esercizio critico, che mette in discussione alcune parti della nostra vita che diamo per scontate: la forma delle città come l’oggettività dello strumento tecnico. Non sarebbe potuto essere altrimenti, perché sia nell’arte che nell’insegnamento la cosa più vera che si può fare, o forse l’unica, è condividere il dubbio ed i castelli che lo tengono in piedi. Abbiamo condiviso questi dubbi con gli studenti, con Giovanni e tutti gli altri, inventando un dispositivo in grado di farci lavorare collettivamente alla stessa domanda, amplificandola e rendendola visibile. Ci piace pensare che la collocazione di Rocinha oggi, in un’aula della Facoltà di Architettura perpetui i nostri dubbi, soprattutto sulle forme prodotte dalle relazioni tra intenzione personale e regole collettive, tra l’intimità e la fragilità dei singoli e la dimensione pubblica come condizione solida e protettiva. A volte, queste regole sembrano potere reggere anche nella loro estrema fragilità, nella precarietà, come un castello di carte, ma quello che ci insegna Rocinha è che anche questo non è vero, anche su questo è necessario, vitale, dubitare, la città è fatta di parti fragili, quasi sempre, anche quando sembrano solidissime, e poiché tale non è evitabile che cambi, anche se non ci piace affatto. Rocinha è in qualche modo allora una metafora delle nostre vite e delle nostre relazioni e del perché forse ci affezioniamo così tanto a luoghi che cambieranno o che cambieremo.
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Griglia complessiva applicata sulla foto aerea di Rocinha e suddivisa in 63 quadranti in formato A4 orizzontale assegnati a ciascuno studente per la mappatura
Istruzioni • Apri il file autocad • Rendi il layer immagine attivo, importa l’immagine che hai trovato nella cartella (importa come immagine raster) • Rendi il layer rettangolo immagine attivo Seleziona lo strumento rettangolo e disegna il perimetro dell’immagine • Rendi il layer case attivo • Blocca i layers: immagine e rettangolo immagine. • Seleziona lo strumento polilinea Disegna il perimetro delle case (assicurati che stai usando il layer case– assicurati che le tue polilinee siano chiuse) Ricordati di salvare di tanto in tanto (il nome del file deve essere lo stesso)!!
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a sinistra estratto numero 6 della Favelas di Rocinha e riproduzione CAD a destra estratto numero 60 della Favelas di Rocinha e riproduzione CAD
• Apri il file albero.dwg Seleziona l’albero – copialo (comando ctrl+C) – incollalo (comando ctrl+V) nel file in cui stavi disegnando. Seleziona e scala alla dimensione necessaria il tuo albero. Copia l’oggetto in corrispondenza degli alberi nell’immagine. • Seleziona il layer retino Spegni il layer albero Spegni il layer immagine Seleziona lo strumento retino Inserisci i retini solo nelle case Accendi tutti i layer. • Quando hai finito di ribattere tutto, salva e consegna.
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Workshop a Santa Teresa per la costruzione dell’ installazzione Rocinha 25 maggio 2009
Pagina a fronte Foto dell’ installazione Rocinha 25 maggio 2009, installata nella ex aula 4 a Santa Teresa
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Foto dell’ installazione Rocinha 25 maggio 2009, installata nella ex aula 4 a Santa Teresa
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Case studio per i committenti della cittĂ
progetti in quattro operazioni Giovanni Bartolozzi
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Grafico di sintesi dei concept di progetto elaborati dagli studenti del corso
Gli esiti del lavoro di progettazione svolto all’interno del corso possono essere sintetizzati e ricondotti a quattro operazioni progettuali predominanti, che ciascuno studente o ciascun gruppo ha sviluppato nel tentativo di rafforzare al massimo il concept di progetto, tenendo conto delle esigenze specifiche dei singoli committenti. Questo tentativo di dialettica tra la messa a punto di una operazione progettuale e le esigenze della committenza, in alcuni progetti ha raggiunto un buon livello di maturazione e dei risultati soddisfacenti, mentre in altri ha prevalso la spinta formale ed è mancato un confronto più serrato con il committente e la sua personale idea di casa-studio. Se da un lato vi era il desiderio di tener fede ad una operazione chiara e riconoscibile, dall’altro vi era l’urgenza di far si che tale operazione elevasse la richiesta più qualificante del committente per costruire quegli elementi di diversità capaci di sostanziare ciascun progetto come esperienza unica, generata da una condivisione di obiettivi. I progetti hanno dunque preso le mosse dalla individuazione di un volume teorico, dettato da una sorta di regolamento edilizio interno al corso che prevedeva la realizzazione di massimo due piani dal livello della strada di accesso, via dei Bastioni, e la possibilità di avere un livello seminterrato. Le dimensioni in larghezza e profondità sono invece risultate dal lotto scelto e dalle relative distanze dai confini. Il volume teorico così generato è stato la base di partenza per i progettisti del primo anno che hanno lavorato su di esso ciascuno con le proprie capacità e seguendo una serie di steps previsti dal corso. Primo tra tutti la costruzione di un piccolo modello a scala urbana per l’inserimento, che tenesse conto dell’inclinazione del terreno, delle altezze degli edifici adiacenti, delle relazioni con la strada di accesso e con il Lungarno Cellini. Questo primo modello di studio è servito a configurare la massa del progetto ed è stato il primo strumento utile per le revisioni condivise e per gli scambi con i committenti. Ciascun progetto ha una storia propria, personale e collettiva al contempo, persegue obiettivi dei committenti e desideri dei progettisti. Apparentemente simili tra loro e deci-
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samente tutti affascinati dalla possibilità di poter traguardare la città dall’alto, questi lavori, se guardati nel dettaglio, sono profondamente diversi. Nelle pagine che seguono i loro esiti sono stati raggruppati in quattro grandi operazioni progettuali così sintetizzabili: svuotare la massa, modellare i volumi, stratificare i livelli, sollevare la piastra. Analizziamo singolarmente ciascuna delle quattro operazioni nel tentativo di comprendere le differenze. Svuotare la massa è una delle operazioni più riconoscibili. Svuotare in un punto piuttosto che in un altro, in una direzione specifica, in superficie o in profondità o secondo infinite altre esigenze rappresenta in questi lavori il passaggio progettuale predominante. In buona parte di essi svuotare significa creare le condizioni per costruire un vuoto (interno o esterno) capace di mettere in relazione le due richieste principali del committente ovvero la casa e lo studio. Questo avviene per esempio svuotando un anello continuo di distribuzione su due livelli e a cielo aperto nel progetto di Petrolini-Tsengelidis per il loro committente writer. La sottrazione di questo anello definisce l’abitazione al centro come nucleo protetto, mentre lo studio diviene un ballatoio che perimetra il lotto, sempre a contatto con la città, che fa da recinto alla casa. Operazione simile è quella di Rosati-Stefanini, che creano un patio segnato da passerelle aeree di collegamento, per staccare e mettere in relazionare visiva la casa con lo studio. Piccardi e Ruberto attuano uno svuotamento del primo livello e generano un cortile interno che, attraverso una rampa, stabilisce continuità con la copertura, mentre Trudu svuota il volume in maniera non convenzionale, praticando tagli obliqui che segnano gli accessi e divengono spalti inclinati panoramici. Il risultato è una volumetria scultorea, estranea al paesaggio ma segnata da finestre continue che lo catturano al suo interno. Zamperini fa una doppia operazione di sottrazione: la prima verso via dei Bastioni con un piccolo patio quadrato sul quale si impernia la vita domestica della casa e la seconda nel soggiorno/sala prove, un interno vuoto che dialoga con l’esterno grazie ad un serramento continuo tra facciata e copertura. Paoletti infine svuota l’intero volume teorico secondo una pezzatura che distingue i blocchi della casa e dello studio fotografico come monoliti autonomi e in dialogo tra loro. Modellare i volumi significa estrudere, piegare, ruotare, smussare, stirare, giustapporre, incastrare le masse. In questo caso si tratta di progetti che non sempre muovono dal volume teorico di partenza sopra descritto ma da una predisposizione compositiva
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funzionale o formale che tenta di mettere in relazione le parti della casa-studio attraverso la modellazione dei suoi elementi. Pianigiani taglia il volume teorico secondo direzioni oblique che accentuano la massa del volume verso la parte panoramica della casa. Petrini-Romagnoli differenziano i due volumi regolarizzando quello della casa e stretchando lo studio del regista per inquadrare in verticale la città, traducendo in forma il gesto delle mani aperte di un regista quando sceglie uno scorcio urbano. Scheggi mette in dialettica i volumi ponendoli su due differenti livelli e orientando i fronti con diverse angolazioni. Romani-Romiti modellano il volume sulla pendenza del terreno, interrando lo studio e lasciando emergere una superficie piegata sul dislivello che genera un teatro in copertura per un committente che si occupa di teatro. Vitale piega lievemente il secondo livello del volume e lo stacca dalla composizione sottostante, quasi a rievocare la lievità di un passo di danza, ed utilizza il volume inclinato per un palco interno. Neri mette in relazione un volume chiuso a giacitura verticale che rimane sul retro e un volume orizzontale per la zona living della casa. E ancora Picchioni configura la casa studio come sovrapposizione di volumi ramificati che stabiliscono una dialettica attraverso grandi aperture. Stratificare i livelli è una delle modalità che ha consentito a ciascun progettista di differenziare e scomporre i piani del volume teorico al fine di avere un’articolazione differenziata in orizzontale, capace di dialogare con la città attraverso slittamenti, aggetti, sollevamenti. Nel progetto di Purpura per la casa di un pianista, i tre volumi stratificati vengono modellati diversamente ma secondo forme ondulate, metafora della coda di un pianoforte, per ritrovare nella loro sovrapposizione una continuità formale nel serramento ondulato e continuo. Il progetto di Tomassoli-Usignoli è ispirato ad una catasta di libri, essendo ideato per una ricercatrice amante dei libri. Esso è tradotto con semplicità in tre volumi orizzontali tra loro traslati e sovrapposti così da organizzare un gioco di terrazze, portici, sbalzi con un piacevole dinamismo complessivo. Il progetto di Sapienza sovrappone tre volumi con impianti generati dalla costruzione di una spirale che risulta più evidente dall’ultimo livello. Il progetto di Palermo stratifica i livelli lasciandoli aderire alla inclinazione del terreno per generare due terrazze panoramiche, mentre dei setti laterali che corrono per tutta la lunghezza del perimetro, unificano la composizione in un compatto volume inclinato. Rotella-Scandurra sovrappongono i due livelli e li unificano attraverso una grande rampa in copertura che stabilisce continuità con la terrazza, anche se l’eccessiva presenza delle finestrature rischia di attutire questa semplice intuizione del progetto. Passaro stratifica
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pagina a fronte Foto del corso in occasione della esame finale
livelli, non intesi come piani ma come strati materici, come artificiali curve di livello che, nel generare l’involucro, definiscono con la medesima stratigrafia gli spazi interni, cavernosi e complessi. Rivetti-Spina stratificano tre livelli, due a giacitura orizzontale sfalsata per dichiarare la casa con la terrazza ed uno a giacitura verticale per lo studio, ancora segnato da una suggestiva risalita verso la parte più panoramica. Parente-Petrini giustappongono tre volumi a sezione esagonale schiacciata che, in una configurazione di autonomia statica, sono lievemente ruotati così da inquadrare porzioni differenti di città al variare del livello. Nei progetti di Bifarella e in quello di Pettazzi il concetto di stratificazione è trasposto in verticale, ma riamane inalterata l’operazione progettuale. Bifarella stratifica i volumi restituendo l’inclinazione del terreno e configura una volumetria a gradoni, svasati in pianta, che si amplificano verso la città, mentre Pettazzi stratifica i livelli con un artificio che associa a ciascuno dei tre volumi una inclinazione propria che si riverbera sulla sezione interna, con un punto di convergenza che diviene distribuzione comune ai tre volumi. Sollevare la piastra è l’operazione che ha consentito di identificare il progetto come un volume compatto, a giacitura orizzontale e sollevato da terra, appunto una piastra. Per questa specifica operazione, il noto progetto di Rem Koolhaas per la casa-studio di Bordeaux, è stato uno dei riferimenti più accreditati del corso. In questi progetti, il tema della piastra è stato declinato nelle più svariate configurazioni, lavorando sulla pianta, sulla inclinazione del terreno, sui sostegni della piastra, sul trattamento della copertura e delle superfici. Il progetto di Pagni definisce la piastra come elemento aereo incastonato sul terreno verso via dei Bastioni e gravitante su un monolite verso la città. Questo volume monolitico è dato dall’estrusione del patio sulla piastra e ospita al suo interno il palco con una grande apertura su Firenze, mentre il declivio del terreno che ad esso conduce, si configura come una gradinata: un piccolo teatro all’aperto, studio dell’attrice, sul quale si fonde la casa racchiusa all’interno del volume-piastra. Il progetto di Torzoni-Parrini lavora sui temi del labirinto e della prigione cari al loro committente, per questo la piastra si presenta prevalentemente chiusa, ad eccezione di piccole aperture. Essa è inoltre scavata verso via dei Bastioni per ospitare un giardino labirintico che prolunga la sua trama sulla copertura. Nel progetto di Vanni-Vasarri la piastra viene rastremata in pianta per assecondare le irregolarità del lotto e incassata sul declivio. La copertura della piastra diviene una grande terrazza per le attività della
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committente, mentre un secondo volume, sollevato dal piano della terrazza ospita lo studio panoramico. Pllumbi prevede invece una piastra aggettante, forata da un patio che stabiliste il filo con i livelli sottostanti dove è situato l’atelier dell’artista. Nel progetto di Vagnoli la piastra stabilisce una dialettica con il volume cilindrico della biblioteca richiesta dal committente come una colonna portante della casa. I due volumi sono strutturalmente incastonati ma la loro immagine e la loro dialettica rimane autonoma e pulita. La casa-studio di Napoli presenta una copertura calpestabile, alla quota del piano di accesso, punteggiata da tre grandi camini che deformano la copertura della piastra e identificano gli ambienti principali della casa. Infine il progetto di Ventimiglia controbilancia la piastra con due volumi, uno al di sotto di essa e uno al di sopra, mentre il segno trasversale della lunga scala che attraversa tutti gli ambienti, si riverbera sull’intera volumetria attraverso lucernari sulle coperture. Il plastico a scala urbana, è stato approfondito con la costruzione di un modello finale di restituzione del progetto in scala 1.50, che ha consentito a ciascun progetto di approfondire quei dettagli costruttivi finalizzati all’esaltazione del concept di progetto. Unitamente ad una selezione di elaborati ritenuta significativa, ciascun lavoro è sintetizzato nelle schede che seguono con l’obiettivo di raccontare la storia che ha unito ciascuno progettista al proprio committente e l’immediatezza di un metodo progettuale chiaro e deciso.
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Svuotare la massa
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Sabrina Bafucci Casa studio per Letizia Scarfiello Falconiera L’idea della casa che accoglie un giardino interno è nata pensando alle esigenze di una committente amante degli animali e falconiera di professione. Lo spazio è organizzato in modo da permetterle di svolgere l’addestramento base dei rapaci, distinguendo gli ambienti dedicati a questa attività da quelli dell’abitazione, senza mai separarli. Al primo livello si trovano lo studio, le voliere e lo spazio per la pratica al chiuso, al secondo la zona notte e al terzo la zona giorno: questo corpo, più imponente rispetto agli altri, da un lato si affaccia verso la città, dall’altro si apre sul giardino, l’area dove la committente può uscire con i suoi amici alati. Un sistema di rampe collega i vari spazi e simboleggia il lungo e difficile percorso dell’addestratore con il suo animale, per giungere ad un rapporto di totale fiducia e reciproco rispetto. Letizia Scarfiello nasce a Poggibonsi (SI) nel 1980. Amante degli animali, fin da piccola alleva e cresce piccoli animali di fattoria. Nel 2001 incontra Gianluca Barone, e con lui il mondo della Falconeria. Inizia quasi subito ad addestrare e ad effettuare spettacoli. Oggi collabora alla riabilitazione nel Centro Recupero Rapaci della Certosa a Firenze ed effettua spettacoli e dimostrazioni di volo in libertà di rapaci in tutta Italia. E’ inoltre responsabile insieme a Barone de “I Falconieri del Re”, gruppo che addestra per il volo in libertà circa 80 esemplari di rapaci.
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Mariachiara Petrolini e Laura Tsengelidis Casa studio per Fabio Bertini Writer La casa-studio ha un impianto centrale, ed è composta da due strutture distinte: un loggiato perimetrale che è il laboratorio del writer e il nucleo centrale della casa, distanziato dal loggiato mediante un anello di giardino, concepito come uno scavo nel volume complessivo. L’intera casa-studio si sviluppa su due livelli ed è caratterizzata dalla presenza di pannelli verticali scorrevoli a tutta altezza, che consentono al committente di esporre le sue opere e modificare la superficie dell’involucro. Il secondo livello del nucleo casa è un open space che ospita cucina e soggiorno, mentre il primo ospita la camera-studio dell’artista, da cui si accede al giardino e al loggiato. La scelta di ampi spazi unitari va incontro ai desideri del committente poiché spesso i writers ospitano altri writers per la notte. Il loggiato perimetrale è dato da uno scheletro di setti murari in cemento armato che si alternano a pareti scorrevoli intelaiate delle stesse dimensioni. Le pareti e gli infissi scorrevoli creano un gioco di aperture e chiusure che mutuano continuamente gli spazi interni e i prospetti esterni. Fabio Bertini è un writer cresciuto a Firenze. Ha studiato elettronica, ma poi si è laureato in graphic design. Oggi lavora in uno studio grafico come graphic & motion designer. Come tanti altri writers è un giovane artista che prova a suo modo a rendere il mondo un posto migliore da guardare. I murales, oltre ad essere vere e proprie opere d’arte dal punto di vista grafico, sono anche un mezzo di comunicazione, nascondono infatti temi sociali e messaggi di critica.
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Federica Trudu Casa studio per Michele Chiocciolini Stilista Il progetto per la casa studio di Michele Chiocciolini nasce dalla volontà di dar vita ad uno spazio capace di comunicare un senso di astrazione dalla realtà e, allo stesso tempo, di protezione. La casa, che si affaccia sul Lungarno Cellini, si trova a Firenze ma potrebbe essere anche altrove. Da questa considerazione la scelta della sfera, il solido perfetto, capace di generare uno spazio evocativo, nucleo centrale della casa nonché atelier dello stilista. La sfera tuttavia non è direttamente visibile ma viene ideata come vuoto interno della casa, un segreto che non si coglie a prima vista ma solo percorrendo l’abitazione. Da questo elemento centrale, pensato per essere anche area espositiva, si snodano tutti gli altri, direttamente richiesti dal committente: bagno con vista su Firenze al piano superiore e un ampio spazio per shooting fotografici a quello inferiore. Michele Chiocciolini nasce a Firenze, si laurea in Architettura ma decide di intraprendere la carriera da stilista aprendo un proprio Atelier nel cuore della città. La sua passione inizia durante l’infanzia, trascorsa nella merceria della nonna, a Castagno d’Andrea. La sua prima collezione ha riscosso fin da subito un ampio successo tanto da essere notato dal designer Karim Rashid. Il suo lavoro si basa su una continua ricerca volta ad esprimere un messaggio di contemporaneità.
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Dayana Zamperini Casa Studio per i Go!Zilla Musicisti La casa nasce dall’idea di diffusione della musica. La casa si articola attorno a due grandi vuoti: il primo è un patio a forma regolare, che ospita un giardino interno su cui si affacciano l’ingresso e le due camere da letto, mentre il secondo è un grande soggiorno/sala prove sul quale la band può esibirsi, che si apre sulla città come un megafono. Questo spazio è evidenziato da un grande serramento continuo sul fronte e sulla copertura che lo caratterizza appunto come ‘vuoto’ interno. La casa è organizzata su due livelli: nel primo si concentra l’abitazione mentre nel livello parzialmente interrato si trova lo studio di registrazione che rappresenta la parte pubblica. Citazione Committente: “Uno studio di registrazione in casa? Sarebbe comodissimo! Diciamo che puoi dividerlo in due parti, come fosse un bilocale. La parte più piccola è la regia, dove sta il mixer, i computer e gli addetti alla registrazione. Nella stanza più grande invece avvengono le registrazioni, quindi ci saranno amplificatori, una batteria e roba del genere. Genericamente uno studio di registrazione è figo quando è buio, no? Buio nel senso non illuminato troppo dall’esterno e che mantiene un po’ quell’atmosfera chillout.” I GO!ZILLA sono un duo anticonvenzionale formato da Luca Landi e Fabio Fausto Ricciolo che mixa il rock psichedelico degli anni 60 ad un garage punk moderno. La band, formatasi a Firenze nel gennaio 2012, ha già affrontato 4 tour europei per un totale di 50 date estere passando per vari club rinomati. Nel 2013, entrati a far parte del roster della fiorentina Black Candy Records pubblicano l’album ì Grabbing a Crocodileî.
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Elena Rosati, Beatrice Stefanini Casa Studio per Veronica Cornacchini Super Duper Hats Il progetto per la casa-studio di Veronica Cornacchini nasce da una profonda compenetrazione tra le caratteristiche dell’area di intervento e le richieste del committente. La casa e lo studio vengono scisse con l’interposizione di un patio, dando vita ad uno spazio ‘interno’ vuoto. Le due parti dedicate alla casa e allo studio sono collegate grazie a passaggi vetrati aerei, a segnare il profondo legame tra due aspetti fondanti della vita dell’uomo. La zona dedicata al lavoro assume un ruolo predominante grazie alla grande vetrata inclinata che proietta lo studio sul lungarno e diviene una galleria urbana per l’esposizione dei cappelli prodotti da Super Duper Hats. Veronica Cornacchini, assieme a sua sorella Ilaria e Matteo Gioli formano il trio di creatori di cappelli più entusiasmante dello scenario artigianale italiano: Super Duper Hats. La loro storia ha inizio da alcune vecchie forme di legno, utilizzate oggi da una minoranza di maestranze, per ‘tirare’ il feltro dei cappelli. Dopo una lunga ricerca di artigiani che potessero insegnare loro il mestiere, tanta dedizione e pazienza, esordiscono nel dicembre 2010 con la collezione Super Duper on a Tree.
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Tommaso Piccardi e Mattia Ruberto Casa Studio per Alex neri Dj La casa è data dalla sovrapposizione di due livelli che assecondano i limiti dell’isolato, caratterizzati da una grande superficie vetrata rivolta verso il lungarno. Il livello più basso, parzialmente incassato nel declivio è adibito alla residenza del deejay, mentre il piano superiore è interamente dedicato allo studio. Il livello più alto è infatti scavato da un patio che crea una importante centralità nella distribuzione degli ambienti e dalla rampa che permette l’accesso da via dei Bastioni. L’accesso principale avviene dunque dal piano superiore, attraverso il patio. Al livello dell’ingresso la casa si presenta come una terrazza panoramica integrata al patio, dedicata alle feste e alle serate musicali organizzare dall’artista. Alex Neri comincia la sua carriera in età molto giovane, quando i primi approcci con la musica lo spingono a cominciare a suonare nei vari club della Toscana. Sono gli anni del new wave e dell’elettro funk, del garage e dell’house dei primi anni ‘90. Crea i suoi primi dischi in studio con Marco Baroni tra cui il progetto Kamasutra che lo consacrerà nella scena mondiale. Nel 1999 nascono i Planet Funk e nel 2003 in collaborazione col club Tenax di Firenze fonda l’etichetta indipendente ‘Tenax Recordings’. Il primo singolo ‘Housetrack’ ha ricevuto il premio Siae come disco più venduto da un’etichetta indipendente nell’anno 2004. Contemporaneamente all’attività di produttore, Alex Neri porta avanti anche l’intenso lavoro di remixer per moltissimi artisti della scena italiana e internazionale.
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Damiano Paoletti Casa studio per Lorenzo Michelini Fotografo Il progetto nasce dalla volontà del committente di avere un ampio studio fotografico con affaccio sul giardino. Coniugando la morfologia del terreno ai desideri del committente, sono nati due volumi indipendenti e complementari, la casa e lo studio, separati da un giardino inclinato ma tra loro collegati. Il collegamento tra la casa e lo studio avviene mediante un elemento di distribuzione vetrato che segna l’ingresso principale e che, nello spazio interstiziale, libera la vista più suggestiva sulla città, grazie ad una apertura prospettica ispirata al cono ottico della macchina fotografica. Lorenzo Michelini Specializzato nella fotografia in still life, ha lavorato per importanti marchi internazionali come Gucci, Rebecca, Peuterey, Opera di Santa Croce di Firenze, Gruppo Fondaria Sai, Lorenzo Villoresi, Leone 1947 e con importanti gallerie d’arte contemporanea, fotografando opere di numerosi artisti.
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Chiara Pianigiani Casa Studio per Gianni Ugolini Fotografo La casa-studio per Gianni Ugolini è ispirata ad un obiettivo fotografico, che si dilata dall’ingresso verso la città. La casa è composta da un volume unico e da un soppalco utilizzato come studio fotografico. La configurazione planimetrica della casa è assimilabile ad una grande C orientata su Firenze, che cattura il paesaggio e lo proietta sulla parete interna (quinta-diaframma): quest’ultima definisce la zona giorno che si sviluppa a doppia altezza. La parte dell’ingresso, dei servizi e della zona notte si concentra in corrispondenza del lato opposto, verso Via dei Bastioni. Il volume ha un rivestimento grezzo sul retro e sulla copertura mentre è caratterizzato da ampia vetrata in corrispondenza del soggiorno. Gianni Ugolini Nato a Firenze, inizia la sua attività di fotografo freelance a Londra nel 1972. Lavora per il gruppo Mondadori e successivamente per le redazioni di Domus e Abitare. Negli anni ‘80 realizza alcuni scatti per Fashion Designer, Amica, Vogue, Donna e Cosmopolitan. Si specializza in moda e realizza campagne fotografiche per Roberto Cavalli, Emilio Pucci, Benetton ed altri. Nel ‘92 lavora a New York: sue le foto nella campagna GAP per gli Stati Uniti. Produce un calendario per l’ATT, (Associazione Tumori Toscana), con personaggi come Cesare Prandelli, Caterina Bellandi, Irene Grandi e Piero Pelù. Gianni Ugolini ha anche una grande passione per la cucina e all’interno della sua casa-studio realizza workshop di cucina e mostre culinarie.
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Silvia Petrini, Sabrina Romagnoli Casa Studio per Giovanni Veronesi Regista La casa-studio per Giovanni Veronesi è ispirata ad una camera da presa, che grazie alle sue ampie vetrate cattura immagini urbane per proiettarle nella pellicola della vita domestica. La casa-studio è data dall’accostamento di due volumi parallelepipedi – uno destinato all’abitazione e l’altro allo studio – che subiscono delle deformazioni geometriche sulle pareti e sul tetto per accrescere il campo visivo e la luminosità degli interni. Così la copertura dell’abitazione diviene un tetto giardino, mentre quella dello studio si innalza con un piano inclinato realizzato da gradonate praticabili. Giovanni Veronesi. Fratello minore dello scrittore Sandro e marito dell’attrice Valeria Solarino, fa parte del gruppo di giovani che ha portato al successo il cosiddetto ‘cinema toscano’. Inizia a lavorare al cinema come sceneggiatore nel 1985 con ‘Tutta colpa del paradiso’. Il suo primo lavoro come regista è ‘Maramao’ del 1987, al quale segue ‘Per amore solo per amore’ per il quale firma anche la sceneggiatura che vince il David di Donatello nel ‘94. L’anno dopo inizia con Pieraccioni una collaborazione che parte dalla scrittura de ‘I laureati’. Ha lavorato anche con Christian De Sica e Carlo Verdone e per il teatro: nel 2006 è regista di ‘È tempo di miracoli’, scritto assieme al protagonista Rocco Papaleo.
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Ilaria Scheggi Casa studio per Diego Granato Restauratore Il progetto si articola in due blocchi ben distinti (laboratorio e abitazione) che si differenziano per quota e lunghezza. Questi sono stati diversamente orientati per consentire all’abitazione una vista sul centro della città e alla falegnameria un rapporto più diretto con il Lungarno Cellini. Il laboratorio, situato al livello più basso, si compone di due ambienti, uno per attrezzi e materiali, l’altro per il disegno e l’esposizione dei lavori. L’abitazione è composta da un soggiorno con vista su Firenze ed uno spazio dove poter suonare la chitarra. Il dislivello del lotto su cui si adagia la casa studio viene modellato in modo tale da poter creare una rampa che da Via dei Bastioni porta alla quota dell’abitazione. Citazione Committente: “Ciò di cui ho sicuramente bisogno è uno spazio ‘sporco’ dove poter usare le vernici e uno spazio più ordinato e pulito [..] Il mio lavoro si basa su una prima fase di ricerca, quindi avrò bisogno di una grande libreria, e di mensole dove riporre gli attrezzi e i barattoli.” (D. Granato) Diego Granato nasce nel 1982 a Lucca. Frequenta l’istituto d’arte nella città natale per poi trasferirsi a Firenze dopo il diploma. Qui frequenta la facoltà di architettura e contemporaneamente fa esperienza in alcune botteghe artigiane. Dopo essersi laureato lavora presso artigiani per quattro anni, affinando così la propria tecnica. Nel 2010 si mette in proprio ed apre un piccolo laboratorio artigiano in cui Diego decora il legno, riproduce dipinti in stile antico ed effettua restauri.
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Matteo Romani, Elia Romiti Casa studio per Riccardo Ventrella Direttore artistico Il progetto per la casa-studio di Riccardo Ventrella nasce dal desiderio di rendere Firenze scenografia della ‘teatralità’ quotidiana che si svolge all’interno della casa. L’idea è quella di creare una sequenza di spazi richiesti dal committente, all’interno di un volume che si spezza e crea in questo movimento un teatro artificiale. La costruzione del progetto muove da un volume/piastra, un ideale blocco che recepisce la conformazione naturale del terreno e si adatta ad esso, così da assumere una forma continua, perfettamente integrata al sistema abitativo. Assume inoltre grande importanza il rapporto tra interno ed esterno, enfatizzato dal taglio vetrato che segna il prospetto laterale sul lato giardino e che segue il movimento della casa. Riccardo Ventrella si laurea nel 1994 in storia del cinema al DAMS di Bologna. Nel 2003 è responsabile di marketing del teatro La Pergola, per diventare poi nel 2005 vicedirettore e nel 2007 direttore. Vanta numerose pubblicazioni in campo cinematografico. Accademico d’Onore dell’Accademia delle Belle Arti di Firenze, è membro del Consiglio Direttivo della Società Dantesca Italiana.
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Luana Vitale Casa studio per Giuseppe Saiola Ballerino La casa studio è ideata per un ballerino, figura artistica sinonimo di leggerezza ed equilibrio, temi che divengono punti di forza per la costruzione del progetto. La piastra-volume del secondo livello, nell’assecondare l’inclinazione di un piccolo teatro interno, si configura in una posizione di equilibrio mediante una piegatura del suo profilo. All’interno dell’abitazione si ritrovano gli spazi richiesti dal committente per esaudire esigenze dettate dal lavoro e desideri mossi dalle sue passioni. Essa si articola su due piani: il primo ospita gli ambienti domestici con una soluzione di loggia leggermente staccata dalla volumetria, il secondo ospita il teatro per le prove, con un palco inclinato e aperto sulla città. Luana Vitale. Inizia a studiare danza all’età di 11 anni presso la Scuola di Danza Ermanno Aurino e Jacques Beltrame, ballerini del Teatro Massimo di Palermo. Dal 10 ottobre 1983 entra a far parte del Corpo di Ballo del Maggio Musicale Fiorentino. Oggi continua a coltivare la sua passione e a trasmetterla ai giovani ballerini in varie scuole della Toscana.
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Iacopo Neri Casa Studio per Giuseppe Barone e Giustina Terenzi Speakers radiofonici La casa per Giuseppe Barone e Giustina Terenzi ha un impianto molto semplice, generato dalla differente giacitura di due volumi puri. Il primo a giacitura orizzontale si presenta come una grande cornice che risucchia dentro il paesaggio e che al suo interno, attraverso un doppio volume, organizza la zona giorno e studio. Il secondo volume, a giacitura verticale, ospita gli ambienti più privati della casa, i servizi e la zona notte. Elementi di saldature tra i due volumi sono il camino e il vano scala che su di esso si avvita, mentre le aperture della zona notte sono differenziate per rispondere alle esigenze degli spazi interni. Giustina Terenzi è una speaker radiofonica della storica emittente toscana Controradio. Sposata con Giuseppe Barone, la coppia di conduttori è famosa nello scenario fiorentino per l’ impegno costante nella promozione della scena underground musicale attraverso manifestazioni di rilevanza nazionale (quali ad esempio il ‘Rockcontest’, oramai arrivato alle 24 edizione).
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Caterina Picchioni Casa Studio per Clet Abraham Artista La casa studio di Clet è ideata in modo da rendere autonomi e riconoscibili tutti gli ambienti che la compongono, sia all’interno sia all’esterno. Nella sua configurazione complessiva assume un andamento ramificato e apre i suoi ambienti più significati verso la città con ampie vetrate cannocchiale. L’atelier dell’artista è situato al primo piano, subito a contatto con l’accesso su via dei Bastioni, dove l’arretramento dei volumi genera una terrazza frastagliata, mentre l’abitazione trova posto al piano inferiore, a diretto contatto con il giardino. Clet Abraham è un artista francese conosciuto più semplicemente come CLET. Inizia la carriera artistica con un approccio canonico (pittore, scultore) mentre negli ultimi anni si è avvicinato alla street art. Nel 2005 si trasferisce a Firenze e apre il suo studio. Le sue più recenti opere consistono nell’applicazione di stickers sui cartelli stradali e nella realizzazione di interventi sull’arredo urbano, presenti a Firenze e in diverse città europee.
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Ascanio Purpura Casa studio per Alessandro Lanzoni Jazzista Il progetto per la casa-studio risponde all’esigenza del committente di uno ‘spazio protetto’ per creare musica. Questo spazio privato vuole aprirsi all’ambiente circostante così da poter godere della bellezza della posizione su cui sorge: il terreno scosceso a gradoni che si affaccia sul fiume Arno. L’idea è quella di realizzare un volume dalle forme morbide le cui curve richiamano le rotondità delle sagome dello strumento musicale. I volumi sovrapposti dei piani ripercorrono ipotetiche curve di livello del terreno. La posizione dominante dell’edificio permette, attraverso la parete vetrata verso il fiume, di godere di una visione ampia e aperta della città e dei caratteristici argini, aprendo nuovi stimoli alla creatività. Alessandro Lanzoni è considerato una delle personalità più interessanti della nuova scena del jazz italiano. Affermatosi nei più importanti concorsi in Italia, è ‘Best Young Soloist’ a Parigi nel 2010, in occasione dell’ultima edizione del concorso internazionale Martial Solal, la più prestigiosa fra le competition jazzistiche internazionali dedicate al pianoforte.
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Samuele Sapienza casa studio per Franco Zeffirelli Regista Il progetto per la casa studio si basa sul tentativo di abbandonare l’utilizzo della linea continua (retta o curva), per ricercare delle configurazioni possibili che si presentano con una linea spezzata. Per questo è stata fondamentale l’osservazione di alcuni studi compiuti da Paul Klee nel saggio ‘Teoria della forma e della figurazione’. Tutte le linee del progetto sono state disegnate sulla base di forme appartenenti a due schemi geometrici: la spirale e l’evoluzione di un movimento rotatorio. Lo sviluppo del progetto è proseguito cercando di rafforzare la forma della spirale, andando ad eliminare tutti gli altri elementi superflui. La distribuzione di tutti gli ambienti della casa ha seguito questa forma geometrica e le linee di fuga generate dai suoi spigoli. Un fattore importante è stato quello di sottolineare e di rinforzare, sia per motivi stilistici che per fini strutturali, l’occhio della spirale, vero cuore della casa, che diventa un elemento centrale di collegamento e identità. Franco Zeffirelli. Nato a Firenze il 12 febbraio 1923 Franco Zeffirelli si diploma all’Accademia di Belle Arti, frequenta architettura e s’interessa di prosa lavorando a Radio Firenze (1946). Debutta come attore di cinema nel 1947 interpretando il ruolo di Filippo Garrone ne ‘L’onorevole Angelina’ di Luigi Zampa ed assistendo Luchino Visconti sul set de ‘La terra trema’; esordisce come regista teatrale con ‘Lulù’ ed in seguito si dedica con notevole successo alla regia di opere liriche, attività che svolge con continuità.
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Giacomo Palermo Casa studio per Sandro Veronesi Scrittore La casa si configura come una sequenza a cascata, caratterizzata da una serie di volumi che degradano verso il basso e verso la città, a partire dall’ingresso su Via dei Bastioni fino al grande soggiorno e alla zona notte che si trova al livello più basso. Ogni livello della casa definisce inoltre delle ampie porzioni di terrazza che catturano suggestive viste sulla città. Cuore dell’intera composizione è il grande soggiorno che, come richiesto dal committente, sarà il luogo delle interferenze tra lavoro e vita privata, soggiorno ma anche studio. I volumi dei tre livelli sono infine tenuti insieme da una sorta di recinto perimetrale che unifica l’intera composizione della casa-studio, mentre una rampa laterale porta sulla falda più alta della copertura: luogo unico di meditazione per lo scrittore. Citazione Committente: “Caro Giacomo, come committente hai scelto proprio un caso estremo. Ora io ti dico com’è la mia vita vera, e cioè quali sono le esigenze reali e poi tu deciderai se non sia meglio ‘normalizzare’ un po’ la tipologia, per non impazzire troppo.” (S. Veronesi) Sandro Veronesi. Nato a Prato nel 1959, è un noto scrittore italiano. Si laurea in Architettura a Firenze nel 1985 con una brillante tesi su Victor Hugo e la cultura del restauro moderno. Dal 1988 con il suo romanzo di esordio “Per dove parte questo treno allegro” è autore di numerose opere di successo. Ad oggi collabora con numerosi quotidiani e riviste letterarie; insieme a Domenico Procacci ha fondato la casa editrice Fandango Libri ed è tra i fondatori della radio web Radiogas.
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Giuseppe Rotella, Martina Scandurra Casa studio per Alessandro Colombo Direttore IED Firenze Il progetto è dato dalla sovrapposizione di due volumi che si adagiano al declivio del terreno e tentano una fusione volumetrica attraverso degli scorrimenti e soprattutto grazie alla rampa che rende la copertura uno spazio fluido, interamente fruibile. La copertura diviene l’ingresso panoramico alla casa. Lo spazio interno, segnato da grandi finestrature, prevede un open space ampio e luminoso al piano superiore, destinato alla zona giorno, ideale per lo studio e per la musica. Il piano inferiore ospita la zona pranzo cucina e le camere da letto. Citazione committente: “Mi piacerebbe uno spazio-studio con molti libri, tranquillo e luminoso, con sedute comode ma anche una parte con un tavolo dove poter lavorare. Mia moglie è musicista e suona il violoncello, mi piacerebbe che ci fosse uno spazio anche per la musica che concilierebbe il lavoro. Non lavorando a casa lo spazio verrebbe utilizzato il tardo pomeriggio e il week-end”. Alessandro Colombo è direttore della sede fiorentina dello IED dal 2008. Si è laureato in economia aziendale e si è occupato di produzione nell’ambito delle performing arts (teatro e danza). Collabora dal 2002 con il Fringe Festival di Edimburgo ed ha curato progetti speciali, in relazione al festival scozzese, con la Fondazione Cariplo, Il Comune di Firenze e il Comune di Spoleto.
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Chiara Tomassoli, Valentina Usignoli Casa studio per Maria Pia Paoli Ricercatrice Il progetto per la casa studio è ispirato ad una catasta di libri, immagine ricorrente nella vita domestica della committente. Attraverso la sovrapposizione di volumi, il progetto ricompone un’ideale pila di libri, composta da tre parallelepipedi a differente dimensione, che individuano i tre ambienti principali della casa studio: la zona notte a contatto col terreno; la zona giorno al primo livello, con accesso diretto da via Dei Bastioni; la biblioteca che si posiziona nel piano più alto e gode di una vista a 360° sulla città. Lo sfalsamento in orizzontale dei tre volumi lascia spazio a terrazze panoramiche e spazi coperti mentre la texture a striature orizzontali delle grandi vetrate rievoca il motivo delle pagine di un libro. Maria Pia Paoli nasce a Livorno, vive e studia a Firenze, dove si laurea in Storia Moderna nel 1976. Dal 1981 è docente presso la Scuola Normale Superiore di Pisa come ricercatrice. Sviluppa e approfondisce i propri interessi nel campo della storia culturale e religiosa dei secoli XVI-XVIII con particolare attenzione alla storia della Toscana medicea e lorenese, sui cui sta per concludere un libro.
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Domenico Rivetti, Gabriele Spina Casa studio per Paolo Masi Artista Il progetto muove dalla scomposizione di un parallelepipedo. La separazione del solido avviene grazie allo slittamento dei due volumi che ospiteranno la zona giorno e la zona notte dell’abitazione. Parte del volume della zona giorno avanza verso l’Arno e si innalza a formare un solido piramidale che avrà la funzione di studio galleria per l’artista. La casa-studio prende luce dal fronte rivolto sulla città dove si apre una vetrata continua che corre dallo studio fino alla zona notte; mentre i rimanenti volumi sono caratterizzati da sottili finestre a nastro a creare tagli di luce. Il progetto è denso di aperture per consentire all’artista di lavorare in continua osmosi con la città natale. La copertura dello studio è una gradonata che permette di arrivare nel punto più alto e vertiginoso della casa. Paolo Masi è nato a Firenze nel 1933, ed è uno dei più noti e riconosciuti artisti contemporanei fiorentini. Fin dagli anni Cinquanta partecipa a quella elaborazione sperimentale di nuove tendenze artistiche che a Firenze si caratterizzerà come frattura profonda nei confronti del passato. Una liberazione dai canoni del formalismo e dell’accademismo, che in Paolo Masi passerà dalle iniziali esperienze della pittura informale e dell’astrattismo concreto a un’attività articolata e diversificata sul piano tecnico-linguistico.
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Federica Parente e Agnese Petrini Casa studio per Edoardo Rosadini Musicista Il committente immagina la sua casa come un luogo intimo e privato, ma non isolato dalla città. Amante dell’ordine e della geometria, desidera una casa che lo rispecchi e vorrebbe un giardino, uno studio, una camera da letto molto grande e, più in generale, dei luminosi spazi aperti. Da qui l’idea di creare tre volumi autonomi distribuiti su livelli diversi: il primo è interamente dedicato allo studio;il secondo, in quota con la strada di accesso, ospita l’ingresso e il soggiorno con cucina; il terzo e più alto ospita la zona notte. I tre volumi sono ideati come cannocchiali con sezione ad esagono schiacciato, come se fossero degli ‘strumenti’ ottici che si sovrappongono: la loro rotazione in tre direzioni differenti, oltre a generare le terrazze, permette affacci mirati su punti specifici del centro di Firenze. Edoardo Rosadini nasce a Firenze nel 1978. Ha studiato viola presso la scuola di Musica di Fiesole. Nel 1994 ha vinto il primo premio alla rassegna violinisti di Vittorio Veneto ed è stato prima viola solista dell’Orchestra Giovanile Italiana e dell’Orchestra Verdi di Milano. Dal 2000 è docente di quartetto d’archi alla Scuola di Musica di Fiesole e dal 2002 è direttore-docente dell’Orchestra dei Ragazzi della Scuola. Con l’Orchestra dei Ragazzi è stato invitato in alcune tra le più famose rassegne estive in Italia e all’estero. È direttore stabile dell’orchestra ‘I nostri tempi’ ed è regolarmente invitato a dirigere Sinfonica, l’orchestra di Aosta.
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Alberto Bifarella Casa studio per Claudio Ripoli Fondatore di “Te la do io Firenze” La casa studio per Claudio Ripoli nasce da un’attenta analisi delle necessità del committente. Claudio infatti è l’amministratore delegato di Napier, un’azienda di web marketing, che ha tra le sue file diversi collaboratori e dipendenti: da qui nasce l’esigenza di avere grandi spazi aperti concepiti come loft e differenziati dalle quote d’imposta dei volumi. L’intera composizione è articolata dall’organizzazione di tre volumi (notte-studio-giorno) che seguono la pendenza del terreno e la riverberano a scala urbana. Nello studio è stato ricavato, sfruttando l’altezza del volume, un soppalco adibito a pensatoio per lavorare in tranquillità ma allo stesso tempo a contatto con i suoi collaboratori; la scala che dalla zona giorno conduce al loft, diventa l’elemento di unione con l’ingresso, situato su via dei Bastioni. Claudio Ripoli è una personalità attiva nel panorama fiorentino. Formatosi alla facoltà di Scienze Politiche di Firenze, coltiva da sempre la passione per la musica. Nel 2007 crea il suo primo grande progetto ‘salotto live’. E’ uno dei fondatori della pagina TE LA DO IO FIRENZE, il web magazine più cliccato del capoluogo toscano che tratta di arte, cultura, lifestyle e molto altro. E’ infine amministratore delegato di NAPIER, azienda attiva nel settore del web marketing, da lui fondata.
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Francesca Pettazzi Casa Studio per Lorenzo Evangelista Fotografo La casa distingue con un gesto deciso le tre parti funzionali (studio-zona giorno-zona notte), assimilandole a tre cannocchiali orientati sul Lungarno con differente inclinazione. La zona giorno è collocata in posizione centrale e attraverso un passaggio trasversale è connessa allo studio e alle camere da letto. I tre ambienti sono organizzati in sezione con una sequenza di ampie gradonate, dei terrazzamenti interni che hanno come sfondo una delle parti più suggestive di Firenze. Lorenzo Evangelisti è un fotografo still life e si occupa di pubblicità in collaborazione con un’azienda fiorentina che segue clienti come General Electric e il Comune di Firenze.
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Simone Passaro Casa Studio per Antonino Saggio Architetto Questa casa tenta di parlare di un tempo ancestrale, un tempo in cui la concezione stessa dell’abitazione era profondamente legata al terreno e alle possibilità offerte dalla natura. Imitando una formazione rocciosa, si presenta come un paesaggio di curve di livello che nasce dal sottosuolo per plasmare la volumetria, tra la forma e l’assenza di forma. Gli spazi interni sono grezzi e punteggiati da decine di aperture che frammentano la città antistante. Protagonisti diventano la luce e le superfici, che assieme generano e modellano gli ambienti in un continuo divenire. Citazione Committente: “Il modello lo trovo mostruoso. Perché mai come cliente dovrei appoggiarle un incubo del genere? Io voglio una casa di campagna con il tetto!” Antonino Saggio (Roma, 1955) architetto, insegna Progettazione architettonica e urbana alla Facoltà di Architettura L. Quaroni di Roma La Sapienza. Nel 1998 fonda la collana Internazionale ‘IT Revolution in Architecture/La Rivoluzione Informatica in Architettura’ che ha contribuito ad incoraggiare il dialogo tra informatica e progettazione architettonica. Ha perseguito una impostazione di indagine storica vicina alla modalità del pensiero progettuale, sia nei suoi lavori monografici che nella cura, dopo la scomparsa di Bruno Zevi, della serie ‘Gli Architetti’.
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Benedetta Pagni Casa studio per Alice Bachi Attrice La casa è ideata come una piastra su un unico livello e si distribuisce intorno ad un patio, concepito come un anfiteatro, che asseconda il declivio del terreno. Il palco è racchiuso in un grande prisma materico che diviene elemento strutturale della casa, con due pareti vetrate oscurabili, che consentono un rapporto visivo tra la gradinata e il paesaggio. Dall’ingresso si accede all’abitazione attraverso un percorso che si affaccia sul patio-gradonata e si conclude con un’apertura su Firenze. La vita domestica si concentra su un unico piano che ospita una camera per la committente e una per gli ospiti, la cucina, un ampio soggiorno, la stanza per cucire e la sala video. Dal soggiorno una scala esterna conduce alla terrazza panoramica sul tetto. Citazione committente: “…aria e molta luce. Soffitti alti e tante finestre. Pochi mobili, ma funzionali. Un grande tavolo dove ci si possa mangiare, lavorare, riunire, disegnare, cucire, progettare. La sala prove non necessariamente deve essere grande, basta che possa essere oscurata. La terrazza sui tetti di Firenze è meravigliosa… Una stanza per montaggio video è fondamentale… Il proiettore fissato al soffitto… E un piccolo spazio per computer, mixer, tecnologia varia.” Alice Bianchi. (Pisa, 1982) Frequenta le scuole a San Miniato, dove inizia a fare teatro. Nell’estate del 2002 decide di frequentare Ia Prima del Teatro. Nel 2005 si diploma alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano. Studia Commedia dell’Arte con Ferruccio Soleri e Stefano De Luca, che la dirige in ‘La barca dei comici’. Diretta da Sergio Castellitto, prende parte alla realizzazione della pièce teatrale ‘Il dubbio’. Alla drammaturgia si avvicina dopo un seminario con Francesco Niccolini, che la porta a lavorare con Marco Paolini.
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Gabriele Parrini, Saverio Torzoni casa studio per Francesco Ciampi Illustratore La struttura della casa studio si basa sull’unione di parallelepipedi le cui dimensioni sono casuali, fatta eccezione per l’altezza. Attraverso questa operazione si cerca di ricreare un labirinto che insieme alla prigione costituiscono i temi centrali del progetto. Il concetto della prigionia si ritrova nel piano dedicato alla zona notte (quota -6,00 m), immaginata come una grande cella, e nella torre. Attraverso gli spazi abbiamo cercato di trasmettere un messaggio caro al nostro committente: l’abbandono della ‘regolarità’, non solo applicata alle forme, ma anche alla vita in generale. Le uniche forme ‘regolari’ (sfera, triangolo equilatero, cubo) le ritroviamo nella torre e nella finestra della zona notte: la prima è una scatola cubica senza aperture, da cui non si può uscire, né fisicamente, né con l’immaginazione (data l’assenza di finestre); la seconda è l’unica apertura verso l’esterno dell’intero piano, ma posta a 2 metri da terra e troppo stretta per passarvi attraverso. Ausonia, pseudonimo di Francesco Ciampi, è un illustratore, fumettista e pittore italiano. Nato a Firenze nel Gennaio 1973, studia presso la sezione di Arti Grafiche dell’Istituto d’Arte di Firenze. Nel 1995 pubblica il suo primo fumetto su ‘Schizzo, idee e immagini’. Nel 1998 inizia a dipingere, la sua prima opera è una cupa rivisitazione del Pinocchio di Collodi, candidata al Premio Micheluzzi 2007. Attualmente insegna alla Scuola Internazionale di Comics di Firenze.
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Ludovica Vanni, Elettra Vasarri Casa Studio per Elisa Taviti Fashion blogger La casa studio per Elisa Taviti vuole trasmettere un’immagine di apertura alla città, al mondo, alla dimensione dell’evento che sintonizza con la sua attività di fashion blogger. Una casa aperta agli amici ma anche palcoscenico dei set fotografici con cui Elisa aggiorna quotidianamente il suo blog. Su richiesta della committente è stato pensato un impianto molto flessibile in grado di tradurre necessità e desideri, spazi liberi, un’ampia zona giorno, una grande quantità di armadi per gli abiti. La caratteristica principale dell’abitazione è quella di ricercare e catturare la città, attraverso il volume affusolato della zona giorno che si trasforma in una grande terrazza su Firenze. Sollevato dal piano della terrazza si trova il secondo volume che sovrasta il primo solo per metà della superficie: esso ospita lo studio, l’ampio guardaroba e la zona notte. Elisa Taviti è una Fashion blogger, laureata in Scienze Politiche presso l’Università Degli Studi di Firenze. Nel Settembre 2010 inaugura il suo blog ‘My Fantabulous World’, nel quale dispensa consigli, condivide i suoi outfit e la sua quotidianità con migliaia di persone. Ha collaborato con prestigiosi marchi come Dior, Borsalino, Jean Louis David, Zannotti, Pinko. Attualmente ha una rubrica settimanale sul sito Styloshopy e collabora con Spartoo.it.
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Klevis Pllumbi Casa Studio per Mario Panelli Artista La casa studio per l’artista Mario Panelli è caratterizzata dalla presenza di un patio aereo scavato sulla piastra dell’ultimo livello, in corrispondenza dell’abitazione. Uno svuotamento massiccio del volume che stabilisce un rapporto di continuità con la composizione del volume sottostante e con la città. L’atelier è incassato nel terreno e illuminato da una vetrata che si estende sul fronte. La casa dell’artista occupa un unico livello soprastante lo studio e, la sua configurazione a piastra, consente la realizzazione di un grande sbalzo proiettato sulla città, mentre al suo interno il patio stabilisce dinamiche relazioni visuali con il sottostante atelier. Mario Panelli. Nato a Calitri in Irpinia nel 1956, da giovane frequenta diverse botteghe artigiane e frequenta l’Istituto d’Arte di Calitri (AV), conseguendo nel ‘76 il Diploma di Maturità delle Arti Applicate. Nello stesso anno si trasferisce a Firenze completando gli studi all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (I.S.I.A.), nel 1981. Attualmente la sua attività artistica spazia dal disegno alla grafica, alla ceramica d’arte e ai complementi d’arredo.
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Valentina Vagnoli Casa Studio per Pietro Gaglianò Critico d’arte Forme semplici, pure, individuano le due emergenze vitali della casa. Una piastra orizzontale, un parallelepipedo poggiato sul pendio che nella sua orizzontalità accoglie la vita domestica, mentre un cilindro materico, posizionato sul fronte principale, diviene lo studio-libreria, una promenade di libri e luce che conduce alla grande terrazza sul tetto. Questi due elementi non si intersecano ma coesistono: la geometria con cui i due solidi sono accostati traduce la volontà del committente di una dialettica tra ricerca artistica e vita privata. Citazione Committente:“la mia casa è sempre stata nella sua interezza anche il mio studio (libri ovunque, opere di artisti, appunti, riviste, dal bagno allo studio a tutti gli spazi della casa). […] Ho bisogno di avere a portata di mano tutti i miei libri (ho una biblioteca di circa 2500 volumi) e oltre alle librerie spesso mi servo di varie superfici per lasciarli aperti per un periodo di tempo indeterminato”. Pietro Gaglianò Vibo Valentia 1975. Laureato in Architettura a Firenze, è un critico d’arte e studioso dei linguaggi della contemporaneità. I suoi principali campi d’indagine riguardano i rapporti tra le pratiche dell’arte visiva e i sistemi teorici della performance art e del teatro di ricerca. È attivo in progetti nazionali e reti internazionali per la sperimentazione di processi di formazione non formale e l’uso dei linguaggi artistici per l’educazione contro la discriminazione.
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Loredana Napoli Casa Studio per Gianni Caverni Critico d’arte e giornalista Una casa che cattura la luce e la porta dentro attraverso grandi ambienti, veri e propri camini di luce che cercano la città. L’ingresso avviene da una copertura giardino che consente tre accessi differenziati alle varie parti della casa. Lo studio/atelier è segnato dal camino più alto, organizzato su tre livelli. Ampie e sinuose scale punteggiano il grande soggiorno, con vista sulla città, in corrispondenza dei camini di luce. Citazione Committente: “mi piacerebbe molto che lo spazio lavorativo fosse unico e versatile. Mi piacerebbe che lo spazio fosse luminoso e vorrei avere una bella vista sulla città. […] Nella zona giorno vorrei che pranzo e soggiorno fossero un unico ampio ambiente, la cucina invece la vorrei separata, ma abitabile. Per la zona notte mi piacerebbe una camera piuttosto ampia ma priva di armadi […]”. Gianni Caverni è nato a Firenze dove vive e lavora. Critico d’arte e giornalista, da anni scrive di arte e cultura su L’Unità e collabora con la rivista di arti visive contemporanee ‘Segno’. Le sue opere come artista spaziano dai quadri astratti fatti di sabbie e gesso, alle installazioni di orti in terra e canne. Ha inoltre realizzato fotografie e video che testimoniano la pervicacia della natura e della memoria. Nel 2007 ha pubblicato When I’m sixtyfour di Lennon e McCartney.
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Fabio Ventimiglia Casa Studio per The Patterns Musicisti La casa studio dei ‘The Patterns’ è stata progettata per essere abitata da Reach Wickrama, bassista del gruppo, e per ospitare il resto della band nelle giornate delle prove. La casa è organizzata su tre livelli, il terzo con l’ingresso e l’accesso alla terrazza, il secondo con l’abitazione ed il primo con la sala prove. Il committente ha richiesto una casa che avesse ampi spazi aperti ma che allo stesso tempo mantenesse separata la sua vita pubblica da quella privata. Punto focale della casa studio è la lunga scala che segue l’inclinazione del terreno e segna l’interno e l’esterno mediante un gioco di lucernari sulle terrazze. Il piano più basso è interamente dedicato alla sala prove del gruppo, munita di cabina fonica e un piccolo servizio. I ‘The Patterns’ sono un gruppo Indie Rock nato a Firenze nel 2008. La band è composta da Christopher J. Argentino, Francesco Santini, Reach Wickrama e Matteo Giovannelli. Nel 2011 registrano il loro primo album, l’omonimo ‘The Patterns’ registrato presso la nota sala di registrazione Larione 10 con la collaborazione di Sergio Salaorni, produttore musicale fiorentino.
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La mostra
la mostra: case studio per committenti della città Ilaria Castellino
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Esposizione dei lavori del corso presso la sala Colonne alle Murate di FIrenze
Giovanni Bartolozzi è un giovane architetto, docente di Progettazione all’Università di Firenze, attento ai suoi studenti e volenteroso nel volergli insegnare i principi di una sana compenetrazione tra professione, creatività e attenzione alla committenza. Da questi principi e dalla volontà di mostrare ad un pubblico più ampio, i risultati di un corso, nasce la mostra “Ipotesi urbane-case studio per committenti della città”. Ilaria Castellino: la prima cosa che voglio chiederti è: perché una mostra? Giovanni Bartolozzi: perché credo che l’impegno profuso nella didattica debba essere visibile a tutti, soprattutto in una città come Firenze e in una Facoltà come Architettura, che dovrebbe aiutare la città ad uscire da certi schemi, da certi circuiti imposti. Mi ha sempre affascinato l’idea di mettere a disposizione della città le potenzialità di un corso universitario, mettere a disposizione significa aiutare e stimolare i cittadini, gli abitanti ad immaginare diversa la propria città. Credo sia una potenzialità I. C.: credo sia importante anche per gli studenti entrare in contatto con quelli che poi saranno i loro futuri e reali committenti G.B.: e siccome i progetti che abbiamo fatto si trovavano proprio sul Lungarno, mi piace molto la coincidenza di essere intervistato da “Lungarno” I. C.: entriamo un po’ più nello specifico: i tuoi studenti si sono cimentati nel progetto di case-studio, qual è la location scelta? G.B.: quello della casa studio è il tema classico del primo anno di architettura, il progetto è localizzato sul un lotto inclinato che si trova sotto il piazzale e guarda Firenze, si trova con esattezza in via dei Bastioni, in corrispondenza dell’edificio più basso del Lungarno Cellini. L’idea era quella di configurare questi progetti come degli ampliamenti verticali, come fanno ad Amsterdam. l’edificio che fa da base è quello più basso del Lungarno Cellini
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I. C.: quindi, vediamo di tracciare l’iter, tu hai proposto ai tuoi studenti il sito e poi? G.B.: poi ho detto loro di scegliersi un committente attivo e impegnato sulla città, che attraverso il proprio lavoro e le proprie modalità di vita potesse dare carattere ad una casa-studio, che potesse avere bisogno di una casa studio a Firenze. Da lì, oltre al lavoro duro, e iniziato anche il gioco: mail per contattare tutti questi personaggi, risposte, committenti molto interessati, altri meno, insomma una cosa divertentissima che ci ha permesso di caratterizzare queste case. I.C.: e ognuno di loro ha dato la sua idea e le sue necessità per lo spazio G.B.: esatto I. C.: davvero divertente, sto invidiando i tuoi studenti! Quindi quello che vedremo sono dei progetti presentati come ad un esame? G.B.: sì, ma non in maniera troppo accademica, non ci sono disegni, considera in tutto questo che erano studenti al primo anno di architettura, non avevano mai fatto un progetto prima, andavano entusiasmati, ma loro non sapevano disegnare, non restava che fare plastici. Ci saranno due plastici per studente, a due differenti scale, e un pannello per progetto e poi un video realizzato da Giacomo Salizzoni. I: mi interessano molto un paio di aspetti: il primo è il contatto con la realtà che proponi ai tuoi studenti, cosa rara almeno nella mia esperienza universitaria, nel senso che ti abituano a fare le archistar e poi quando esci e vai a lavoro ti trovi a parlare di tramezzi e strumenti urbanistici di cui non avevi idea. G.B.: hai ragione è così! Questi progetti sono molto semplici, ma fanno lo sforzo che credo importante per dei ragazzi al primo anno, di tradurre un’idea molto semplice in progetto. I.C.: tenendo conto delle richieste di un committente, che non è banale G.B.: certo, quella è stata la partenza, ci è servito come spinta poetica e soprattutto è servita ad evitare il classico tema della “casa per l’artista”… cioè della casa per nessuno. Queste case hanno un nome e cognome, poi ogni studente ha scelto anche in base alle proprie inclinazioni. I.C.: i committenti scelti sono molto contemporanei, uno spaccato anche del mondo del lavoro e di come riuscire a cavarne le gambe! G.B.: molti non li conoscevo neanche ed è stata una novità anche per me
la mostra • ilaria castellino
I.C.: l’altro aspetto che mi interessa è il dialogo con la città: dialogare con la città in Italia, e a Firenze nello specifico, per un architetto non è facile. G.B.: infatti il punto era lanciare una provocazione e fare in modo che i progetti consistessero nel posizionare un nuovo organismo a due passi dal cuore di Firenze, sul suo Lungarno. Volevo questa dialettica, questo confronto con la città storica. Firenze evita il contemporaneo, aggira da ventenni l’ostacolo, è una delle poche città italiane che si nasconde ancora dietro ciò che è stata. Mi piaceva pensare che questi studenti con molta disinvoltura lavorassero coi desideri e i mezzi di oggi accanto alla città di ieri. Il punto è che l’architettura possa farsi spazio, anche per stratificazioni verticali, come è sempre accaduto e come accade ancora oggi nelle capitali europee. Molti edifici che oggi sembrano classici a Firenze sono oggetto di stratificazioni, di innalzamenti. G.B.: vorrei lasciarti con un estratto della mail Di Sandro Veronesi, uno dei committenti scelti, che ben fa capire qual è stato il rapporto tra neo-progettisti e committenti che ha prodotto i risultati che vedrete in mostra: Caro Giacomo, come committente hai scelto proprio un caso estremo. Ora io ti dico com’è la mia vita vera, e cioè quali sono le esigenze reali – poi tu deciderai se non sia meglio “normalizzare” un po’ la tipologia, per non impazzire troppo. Una semplificazione è che io lavoro (da sempre) in soggiorno. Non ho mai avuto uno studio, né mai lo vorrò – almeno finché avrò figli per casa. Voglio essere “disturbato”, distratto, interrotto, voglio che loro mi portino “roba”, specialmente i bambini. Ormai mi ci sono abituato, perché è vent’anni che va così. Oltretutto ci sono intere mattinate in cui la casa è a completa disposizione, dato che i figli vanno a scuola. Dunque, mi basta un soggiorno grande, o una stanza da pranzo grande, dove mettere il tavolino.[…] Riepilogando, questi sono i requisiti (un po’ schizofrenici): abitanti della casa, normalmente 2, due fine settimana al mese almeno 6 o 7, in qualche particolare occasione (Natale, tipo, o altri periodi festivi) fino a otto. Di buono c’è che l’elasticità ce la mettiamo anche noi, per come siamo abituati, e quindi sappiamo adattarci. Questo, per dirti che rogna ti sei scelto. Io sono qui, a tua disposizione per qualunque chiarimento. Un caro saluto. (Intervista tratta da Lungarno n° 15 febbraio 2014 a cura di Ilaria Castellino)
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Il laboratorio di Giovanni, fin dai primi istanti, non è mai stato un’esperienza individuale. Per questo motivo vedere condensato il lavoro di quasi cinquanta studenti durante un intero semestre ci restituisce l’esatta dimensione di quello che è stato lo spirito di questo corso. Si parla della volontà di voler rendere lo studente parte di una sorta di azione collettiva, sempre mirata alla creazione di un’unica opera, data dalla sommatoria dei lavori dei singoli. Un’idea di lavoro, questa, capace di proiettare lo studente fuori dalle classiche dinamiche dell’istituzione universitaria, che sempre più spesso tende a far vincere la competizione individuale sulla collaborazione. Ci si sente parte di un unico grande ingranaggio, bello e complesso proprio perché formato da un insieme di individualità differenti che unite riescono ad esprimere tutta la loro forza. Dalle tessere che formano la grande favela di Rocinha, ai triangoli che compongono ‘Blu Isoscele’, fino ai plastici dei progetti in grande scala che, affiancati, andavano a costituire un unico grande Lungarno Serrisistori. Tutti i lavori qui presentati sono degli inizi, primissimi tentativi di persone che per la prima volta si misurano con le difficoltà del progettare. Sicuramente non costituiscono nulla di nuovo nel panorama della ricerca architettonica, ma dimostrano che spesso il tutto è maggiore della somma delle singole parti.
Finito di stampare per conto di didapress Dipartimento di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze Marzo 2018
Il volume Verso il progetto racconta la parte più significativa di una esperienza didattica svolta presso la Facoltà di Architettura di Firenze, all’interno del Laboratorio di Progettazione Architettonica e Urbana del primo anno, tenuto da Giovanni Bartolozzi. Costruito come montaggio di capitoli autonomi, il libro tenta di restituire uno spirito alternativo del fare didattica che punta sulla dimensione comune del progetto prima dell’architettura in senso stretto. L’esperienza corale del corso diviene elemento di forza che tiene insieme, arricchisce e moltiplica all’interno di una dimensione capace e desiderosa di produrre progetto a partire dalle piccole cose, da idee semplici, sempre nel tentativo di dimostrare che ogni occasione progettuale diviene autentica se condivisa.
Giovanni Bartolozzi, architetto e designer lavora tra Firenze e Milano. È co-fondatore dello studio Fabbricanove di Firenze, con cui ha recentemente realizzato la sede del Milano Luiss Hub e il nuovo Auditorium della B.C.C. di San Cataldo (CL). Tiene il ‘Laboratorio di Progettazione Architettonica II’ alla Facoltà di Architettura di Firenze. Nel 2008 ha fondato ‘Soqquadro Design’, una linea di design autoprodotto che ha collaborato con diverse aziende e che produce prototipi. Ha scritto per numerose riviste tra cui L’architetto italiano, Anark, Paesaggio Urbano, Opere. Ha recentemente curato per Giunti T.V.P. Editori le schede e i testi sull’architettura moderna e contemporanea del volume ‘ART PLUS 5’. Nel 2013 ha pubblicato il libro Leonardo Ricci. Nuovi modelli urbani, per Quodlibet Macerata.
ISBN 978-88-3338-023-0
ISBN 978-88-3338-023-0
9 788833 380230
€ 18,00