restauro archeologico Conoscenza, conservazione e valorizzazione del patrimonio architettonico Rivista del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze
Poste Italiane spa - Tassa pagata - Piego di libro Aut. n. 072/DCB/FI1/VF del 31.03.2005
Knowledge, preservation and enhancement of architectural heritage Journal of the Department of Architecture University of Florence
Memories on John Ruskin Unto this last special issue
2019
1 FIRENZE UNIVERSITY
PRESS
unto this last
a cura di
susanna caccia gherardini marco pretelli
RA | restauro archeologico Conoscenza, conservazione e valorizzazione del patrimonio architettonico Rivista del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze Knowledge, preservation and enhancement of architectural heritage Journal of the Department of Architecture University of Florence
Editors in Chief Susanna Caccia Gherardini, Maurizio De Vita (Università degli Studi di Firenze)
Guest Editors Susanna Caccia Gherardini (Università degli Studi di Firenze)
Anno XXVII special issue/2019 Registrazione Tribunale di Firenze n. 5313 del 15.12.2003
Marco Pretelli (Alma Mater Studiorum | Università di Bologna)
ISSN 1724-9686 (print) ISSN 2465-2377 (online) Director Saverio Mecca (Università degli Studi di Firenze)
Memories on John Ruskin. Unto this last Florence, 29 November 2019 HONORARY COMMITTEE
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Alma Mater Studiorum | Università di Bologna
Cover photo John Ruskin, Column bases, doorway of Badia, Fiesole. 1874. Pencil, ink, watercolour and bodycolour. © The Ruskin, Lancaster University
Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni
Indice
vol.
1
Tour
9
La cultura inglese e l’interesse per il patrimonio architettonico e paesaggistico in Sicilia, tra scoperte, evoluzione degli studi e divulgazione Zaira Barone
10
John Ruskin e le “Cattedrali della Terra”: le montagne come monumento Carla Bartolomucci
18
Dalla Lampada della Memoria: valori imperituri e nuove visioni per la tutela del paesaggio antropizzato. Alcuni casi studio Giulia Beltramo
26
Il viaggio in Sicilia di John Ruskin. Natura, Immagine, Storia Maria Teresa Campisi
32
Verona, and its rivers. Il paesaggio di Ruskin e la sua tutela. Marco Cofani, Silvia Dandria
40
Karl Friedrich Schinkel, Mediterraneo come materiale da costruzione Francesco Collotti
48
John Ruskin a Milano e il ‘culto’ per Bernardino Luini Laura Facchin
52
Un vecchio corso di educazione estetica (ad uso degli inglesi). John Ruskin dentro e fuori Santa Croce (1874-2019) Simone Fagioli
60
New perception of human landscape: the case of Memorial Gardens and Avenues Silvia Fineschi, Rachele Manganelli del Fà, Cristiano Rininesi
64
Dalle pietre al paesaggio: la città storica per John Ruskin Donatella Fiorani
70
Geologia, tempo e abito urbano (Imago urbis) Fabio Fratini, Emma Cantisani, Elena Pecchioni, Silvia Rescic, Barbara Sacchi, Silvia Vettori
78
‘P. horrid place’. L’Emilia di John Ruskin (1845) Michela M. Grisoni
86
Terre-in-Moto tra bello e sublime. Lettura ruskiniana del paesaggio e dei borghi dell’Abruzzo montano prima e dopo il sisma del 1915 Patrizia Montuori
94
La percezione del paesaggio attraverso la visione di Turner. Riflessioni sull’idea di Etica e Natura in John Ruskin. Emanuele Morezzi
100
Naturalità del paesaggio toscano nei viaggi di John Ruskin Iole Nocerino
108
Il pensiero di Ruskin nella storia del restauro architettonico: quale eredità per il XXI secolo? Serena Pesenti
114
La Venezia analogica di Ruskin. Osservazioni intorno a I Caratteri urbani delle città venete Alberto Pireddu
122
«Piacenza è un luogo orribile…». John Ruskin e la visita nel ducato farnesiano Cristian Prati
130
RA
John Ruskin e l’architettura classica. La rovina nei contesti medievali come accumulazione della memoria Emanuele Romeo
134
La città di John Ruskin. Dalla descrizione del paesaggio di Dio alla natura morale degli uomini Maddalena Rossi, Iacopo Zetti
142
Una nuova idea di paesaggio. William Turner e l’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere Luigi Veronese
148
Lontano dalle capitali. Il viaggio di Ruskin in Sicilia: una lettura comparata Maria Rosaria Vitale, Paola Barbera
156
Le periferie della storia Claudio Zanirato
162
Tutela e Conservazione
169
La diffusione del pensiero di John Ruskin in Italia attraverso il contributo di Roberto Di Stefano Raffaele Amore
170
L’eredità di John Ruskin in Spagna tra la seconda metà dell’XIX secolo e gli inizi del XX secolo Calogero Bellanca, Susana Mora
176
Ruskin, il restauro e l’invenzione del nemico. Figure retoriche nel pamphlet sul Crystal Palace del 1854 Susanna Caccia Gherardini, Carlo Olmo
182
Il “gotico suo proprio” nel Regno di Napoli: problemi di stile e modelli medioevali. La didattica dell’architettura nel Reale Collegio Militare della Nunziatella Maria Carolina Campone
190
La religione del suo tempo. L’Ottocento, Ruskin e le utopie profetiche Saverio Carillo
196
Francesco La Vega, le intuizioni pioneristiche per la cura e la conservazione dei monumenti archeologici di Pompei Valeria Carreras
204
«Sono felice di parlarti di un architetto, Mr. Philip Webb» Francesca Castanò
210
I disegni di architettura di John Ruskin in Italia: un percorso verso la definizione di un lessico per il restauro Silvia Crialesi
218
Una riflessione sul restauro: Melchiorre Minutilla e il dovere di “conservare e non alterare i monumenti” Lorenzo de Stefani
222
Quale lampada per il futuro? Restauro e creatività per la tutela del patrimonio Giulia Favaretto
228
La conservazione come atto progettuale di tutela Stefania Franceschi, Leonardo Germani
236
John Ruskin’s legacy in the debate on monument restoration in Spain María Pilar García Cuetos
242
L’influenza delle teorie ruskiniane nel dibattito sul restauro dei monumenti a Palermo del primo Novecento Carmen Genovese
248
Le radici filosofiche del pensiero di John Ruskin sulla conservazione dell’architettura Laura Gioeni
254
Marco Dezzi Bardeschi, ruskiniano eretico Laura Gioeni
260
Prossemica Architettonica. Riflessioni sulla socialità dell’Architettura Silvia La Placa, Marco Ricciarini
266
«Every chip of stone and stain is there». L’hic et nunc dei dagherrotipi di John Ruskin e la conservazione dell’autenticità Bianca Gioia Marino
272
Imagination & deception. Le Lampade sull’opera di Alfredo d’Andrade e Alfonso Rubbiani Chiara Mariotti, Elena Pozzi
280
Educazione e conservazione architettonica in Turchia: Cansever e Ruskin en regard Eliana Martinelli
288
La lezione di Ruskin e il contributo di Boni. Dalla sublimità parassitaria alla gestione dinamica delle nature archeologiche Tessa Matteini, Andrea Ugolini
294
Interventi sul paesaggio. Il caso delle centrali idroelettriche di inizio Novecento in Italia Manuela Mattone, Elena Vigliocco
300
L’eredità di John Ruskin a Venezia alle soglie del XX secolo: il dibattito sull’approvazione del regolamento edilizio del 1901 Giulia Mezzalama
306
L’estetica ruskiniana nello sviluppo della normativa per la tutela del patrimonio ambientale. Giovanni Minutoli
312
L’attualità di John Ruskin: Architettura come espressione di sentimenti alla luce degli studi estetici e neuroscientifici Lucina Napoleone
316
Il viaggio in Italia e il preludio della conservazione urbana: prossimità di Ruskin e Buls Monica Naretto
322
Le Pietre di Milano. La conservazione come paradosso. Gianfranco Pertot
330
L’etica della polvere ossia la conservazione della materia fra antiche e nuove istanze Enrica Petrucci, Renzo Chiovelli
336
vol.
2
Tutela e Conservazione
9
John Ruskin nel milieu culturale del Meridione d’Italia tra Otto e Novecento Renata Picone
1o
Architettura e teoria socioeconomica in John Ruskin Chiara Pilozzi
18
«Nulla muore di ciò che ha vissuto». Ripensare i borghi abbandonati ripercorrendo il pensiero di John Ruskin Valentina Pintus
24
L’abbazia di San Galgano “la sublimità degli squarci” Francesco Pisani
28
L’eredità di John Ruskin ‘critico della società’ Renata Prescia
34
Pietre di Rimini. L’Influenza di John Ruskin sul pensiero di Augusto Campana e i riverberi nella ricostruzione postbellica del Tempio Malatestiano. Marco Pretelli, Alessia Zampini
40
John Ruskin e le Valli valdesi: etica protestante e conservazione del patrimonio comunitario Riccardo Rudiero
46
How did Adriano Olivetti influence John Ruskin? Francesca Sabatini, Michele Trimarchi
50
Goethe e Ruskin e la conservazione dei monumenti e del paesaggio in Sicilia Rosario Scaduto
58
L’eredità del pensiero di John Ruskin nell’opera di Patrick Geddes: il patrimonio culturale come motore dell’evoluzione. Giovanni Spizuoco
64
Ruskin and Garbatella, Architectonic Prose Cultivating the Poem of Moderate Modernity Aban Tahmasebi
70
RA
Il lessico di John Ruskin per il restauro d’architettura: termini, significati e concetti. Barbara Tetti
76
John Ruskin, dal restauro come distruzione al ripristino filologico Francesco Tomaselli
82
L’attualità del pensiero di John Ruskin sulle architetture del passato: una proposta di rilettura in chiave semiotica. Francesco Trovò
90
Città, verde, monumenti. I rapporti tra Giacomo Boni e John Ruskin Maria Grazia Turco, Flavia Marinos
98
Papers on the Conservation of Ancient Monuments and Remains. John Ruskin, Gilbert Scott e la Carta inglese della Conservazione (Londra, 1865) Gaspare Massimo Ventimiglia
104
La lezione ruskiniana nella tutela paesaggistico-ambientale promossa da Giovannoni. Il pittoresco, la natura, l’architettura. Maria Vitiello
116
Dal Disegno alla Fotografia
125
La fotogrammetria applicata alla documentazione fotografica storica per la creazione di un patrimonio perduto. Daniele Amadio, Giovanni Bruschi, Maria Vittoria Tappari
126 134
La Verona di John Ruskin: “il posto più caro in Italia” Claudia Aveta Ruskin e la fotografia: dai connoisseurship in art ai restauratori instagramers Luigi Cappelli
142
Alla ricerca del pittoresco. Il primo viaggio di Ruskin a Roma Marco Carpiceci, Fabio Colonnese
146
Ruskin e la rappresentazione del sublime Enrico Cicalò
154
Elementi di conservazione nell’archeologia coloniale in Egitto Michele Coppola
162
Tracce sul territorio e riferimenti visivi. Il disegno dei ruderi nelle mappe d’archivio in Basilicata Giuseppe Damone
168
Lo sguardo del forestiero: le terrecotte architettoniche padane negli album e nei taccuini di viaggio anglosassoni dalla metà dell’Ottocento. Influssi nel contesto ferrarese Rita Fabbri
174
Ruskin a Pisa: visioni e memorie della città e dei suoi monumenti Francesca Giusti
180
La documentazione dei beni culturali “minori” per la loro tutela e conservazione. Il monastero di Santa Chiara in Pescia Gaia Lavoratti, Alessandro Merlo
186
Carnet de voyage: A Ruskin’s legacy on capture and transmission the architectural travel experience Sasha Londoño Venegas
192
L’espressività del rilievo digitale: possibilità di rappresentazione grafica Giovanni Pancani, Matteo Bigongiari
198
Ruskin e il suo doppio. Il “metodo” Ruskin Marco Pretelli
204
Disegno della luce o stampa del bello. L’influenza di John Ruskin nel riconoscimento della fotografia come arte. Irene Ruiz Bazán
212
John Ruskin and Albert Goodwin: Learning, Working and Becoming an Artist Chiaki Yokoyama
218
L’applicazione della Memoria Claudio Zanirato
224
Linguaggio letteratura e ricezione
231
Alcune note sul restauro, dagli scritti di J. Ruskin (1846-1856), tra erudizione e animo Brunella Canonaco
232
Etica della polvere: dal degrado alla patina all’impronta Marina D’Aprile
238
Another One Bites the Dust: Ruskin’s Device in The Ethics Hiroshi Emoto
244
Ruskin, i Magistri Com(m)acini e gli Artisti dei Laghi. Fra rilancio del Medioevo lombardo e ricezione operativa del restauro romantico Massimiliano Ferrario
248
«Non si facciano restauri»: d’Annunzio e Ruskin a Reims. Raffaele Giannantonio
256
J. Heinrich Vogeler e la Colonia artistica di Worpswede (1899-1920) | Reformarchitektur tra design e innovazione sociale Andreina Milan
262
La fortuna critica di John Ruskin in Giappone nella prima metà del Novecento Olimpia Niglio
268
Ruskin a Verona, 1966. Riflessioni a cinquant’anni dalla mostra di Castelvecchio Sara Rocco
276
Traversing Design and Making. From Ruskin’s Craftsmanship to Digital Craftsmanship Zhou Jianjia, Philip F. Yuan
282
Tempo storia e storiografia
289
I sistemi costruttivi nell’architettura medievale: John Ruskin e le coperture a volta Silvia Beltramo
290
«Disturbed immagination» e «true political economy». Aspirazioni e sfide tra Architettura e Politica in John Ruskin Alessandra Biasi
298
John Ruskin and the argumentation of the “imperfect” building as theoretical support for the understanding of the phenomenon today Caio R. Castro, Amílcar Gil Pires
304
Conservazione della memoria nell’arte dei giardini e nel paesaggio: la caducità della rovina ruskiniana, metafora dell’uomo contemporaneo Marco Ferrari
310
I giardini di Ruskin, tra Verità della Natura, flora preraffaelita e Wild Garden Maria Adriana Giusti
318
John Ruskin la dimensione del tempo e il restauro della memoria Rosa Maria Giusto
326
Il carattere e la storia dell’architettura bizantina nel pensiero di John Ruskin a confronto con le politiche e gli studi Europei nel XIX secolo Nora Lombardini
332
Cronologia e temporalità, senso del tempo e memoria: l’eredità di Ruskin nel progetto di restauro, oggi Daniela Pittaluga
340
La temporalità e la materialità come fattori di individuazione dell’opera in Ruskin. Riverberi nella cultura della conservazione Angela Squassina
348
“Before and after the Gothic style”: lo sguardo di Ruskin all’architettura, dai templi di Paestum al tardo Rinascimento Simona Talenti
354
Tour
Zaira Barone
RA
La cultura inglese e l’interesse per il patrimonio architettonico e paesaggistico in Sicilia, tra scoperte, evoluzione degli studi e divulgazione Zaira Barone | zaira.barone@unipa.it Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Palermo
Abstract We will trace the evolution of an encounter between two cultures, the English and the Sicilian culture, which, at a time of political and social change, discover the classical world and the Arab-Norman architecture. The enchanted charm of Sicily and its imposing and melancholic nature was crossed for two centuries by the exodus of an English world that will share the eternal romanticism of it throughout Europe, and is also represented by the exploit of publications requested and produced by the Anglo-Saxon world between the eighteenth and nineteenth centuries. John Ruskin arrived in Sicily in 1874 to discover the nature and the architecture of the island. A comparison with the English travellers who described Norman architecture before him is fascinating; it shows how much the previous travel literature guided his choices, influenced him, and how much the personal visiting of such great monuments impressed him: «every clef is surmounted by a Moorish, Saracen or Norman architecture completely new to me». Parole chiave Sicilia, viaggiatori inglesi, John Ruskin, rappresentazione, architettura arabo-normanna
P. Brydone, A tour through Sicily and Malta, Londra, Strahan and Cadell 1773. 2 H. Swinburne, Travel through Spain, London, printed for P. Elmsly 1779. 1
10
Il rapporto tra la Sicilia e i viaggiatori delle Isole britanniche / anglosassoni affonda le sue radici nel Settecento e si protrae fino ai primi anni del Novecento. Il pioniere della cultura inglese che viaggia e racconta in madrepatria la Sicilia è l’irlandese Patrick Brydon1, che la raggiunge nel 1770, diventando un riferimento per tutti i viaggiatori stranieri che esplorano con spirito cosmopolita. Molti inseguono il mito del Gran Tour e alcuni si spingono fino all’estremo Sud del Mediterraneo, raggiungendo Malta. La moda del viaggio, della scoperta, tra brillanti intellettuali e annoiati aristocratici europei, è il motivo dell’exploit delle pubblicazioni richieste in tutto il mondo anglosassone. Allo spirito e all’itinerario del viaggio di Brydon, a pochi anni di distanza, segue il viaggio dell’inglese Henry Swinburne, che arriva in Sicilia nel 1777 ed esplora le mete più rappresentative dell’architettura classica. Già noto per un altro libro dedicato al viaggio in Spagna, con stampe sull’architettura monumentale romana e moresca2, è tra i primi ad incuriosirsi a quell’architettura molto diversa dai canoni del mondo
Fig. 1 Palazzo della Zisa, Palermo. Henry Swinburne la menziona come “la torre Zizza”, da Henry Swinburne, Viaggio nelle due Sicilie negli anni 1777-1780.
«Una certa attrattiva le preesistenze del Medioevo l’avevano sempre esercitata ma principalmente per la loro curiosità e stranezza, come nel caso dei palazzi della Zisa e della Cuba di Palermo descritti minuziosamente in opere del XVI secolo», in F. Tomaselli, Scoperta, ricerca, restauro e fortuna iconografica dei monumenti medievali e moderni nella Sicilia dell’Ottocento, in Il monumento nel paesaggio siciliano dell’ottocento, a cura di G. Costantino, Catalogo della mostra (Agrigento, 3.12.2005-6.1.2006), Palermo, Regione Siciliana 2005, p. 35. 4 H. Swinburne, I Travels in the two Sicilies in the years 1777-1780, London, Davis for Elmsly 1783. 5 Camillo Boito consapevole della confusione in cui si poteva incorrere, predilige la definizione di “arte siciliana del medioevo”, cfr. C. Boito, Architettura del Medioevo in Italia, Milano, Hoepli 1880, pp. 67-68; F. Tomaselli, Il ritorno dei Normanni. Protagonisti ed interpreti del restauro dei monumenti a Palermo nella seconda metà dell’Ottocento, Roma, Officina 1994, pp. 39-40. 3
classico, che data tra il IX e il X secolo, come la menzionata torre Zizza di Palermo (fig. 1). La Zisa è anche la protagonista dell’importante lavoro del principe di Torremuzza, regio custode delle antichità del Val di Mazara che, dal 1779, la presenta tra gli edifici monumentali da sottoporre a tutela da parte dello stato borbonico3. Una volta diffusi in Inghilterra, il diario di viaggio di Swinburne e di Brydon velocemente diventano un successo editoriale e, di fatto, sono le prime pubblicazioni inglesi che raccontano di un’isola ancora fortemente legata al mito del mondo classico4. Sono varie le ragioni che spingono uomini e donne a intraprendere il viaggio per raggiungere l’Isola: c’è chi lo fa per spirito di avventura, chi per studiare le antichità classiche, chi per alleviare problemi di salute e chi, esortato dai resoconti di altri viaggiatori, vuole conoscere quell’architettura che appartiene all’«arte siciliana del medioevo»5. Alcuni di loro viaggiano accompagnati dai libri che hanno ispirato il loro itinerario, alcuni dei quali di autori siciliani. Ad esempio William Agnew Paton cita i siciliani Tom-
11
Zaira Barone
RA Cfr. W. A. Paton, Picturesque Sicily, New York-London, Harper&Brothers 1898; D. Sladen, In Sicily, London, Sands&Co 1901, p. XIV. 7 E. Low, Unprotected femmales in Sicily, Calabria and on the top of Mount Etna, London, Routledge 1859. Tradotto in italiano da: S. Arcara, Emily Low, Due viaggiatrici “indifese” in Sicilia e sull’Etna: diario di due lady vittoriane, La Spezia, Agorà 2001. 8 I. Emerson, Things Seen in Sicily. A description of one of the most beautiful islands of the world with its ancient buildings of golden sandstone & its interesting people: a land of legend & history, London, Seeley Service&Company 1929. 9 M. C. Martino, Viaggiatrici. Storie di donne che “vanno dove vogliono”, Cerasuolo Ausa di Coriano, Edizioni XL 2010, pp. 146-151. 10 I. Emerson, Things Seen in Sicily... cit., p.17. 11 Richard Colt Hoare a proposito del porto di Girgenti scrive: «una pietra speciale, simile all’argilla, ha la proprietà di preservare per un lungo periodo il frumento […] depositato in grotte scavate nella roccia che appartengono al re […] il profitto del re deriva dalla crescita della massa». In R. C. Hoare, A classical tour through Italy and Sicily: tending to illustrate some districts, which have not been described by Mr. Eustace, in his classical tour by Sir Richard Colt Hoare, London, Mauman 1819, pp. 377-378. Mariana Starke scrive: «Il moderno porto di Girgenti può davvero essere chiamato un emporio per il grano», in M. Starke, Travels in Europe Between the Years 6
12
maso Fazello e Giuseppe Pitrè, considerandoli letture obbligate per chi intraprende un viaggio in Sicilia. Douglas Sladen scrive, invece, di avere inviato dall’Inghilterra i suoi libri con un corriere postale, in modo da poterli trovare sul posto e consultare nel suo viaggio6. Anche le donne sono molto presenti nell’Isola, come la pioniera delle viaggiatrici inglesi, Emily Lowe che, nel 1857, percorre la Sicilia in compagnia dei suoi libri, della madre e seguendo un itinerario che include monumenti classici, normanni, i celebri paesaggi e l’immancabile, scenografico, vulcano Etna7. Dalla diffusione editoriale del viaggio della Lowe si genera una spinta per altre donne in tutta Europa, che seguono l’esempio e decidono di partire alla scoperta del Sud Italia. L’editoria legata ai viaggi di donne inglesi, in Sicilia, si protrae fino ai primi decenni del Novecento, con esempi come quelli della giornalista inglese Isabel Emerson8 che porta con sé libri e lettere di presentazione. Tra queste quella dell’archeologo, professore Paolo Orsi9, che gli permette di presentarsi prima ancora che come semplice viaggiatrice, come intellettuale accreditata e interessata alla scoperta delle diverse culture della Sicilia. Emerson, a proposito di Palermo, scrive: «quanta varietà nelle strade di questa affascinante città, il cui profumo e colore si mescolano in profusione orientale e dove ci si sente più vicini all’est che in qualsiasi altra città siciliana»10. Tra XVIII e XIX, le radicali trasformazioni politiche ed economiche consentono alla Sicilia di competere con il resto d’Europa, per la qualità e la varietà della produzione di grano11 e per la produzione di sale, di vino Marsala e per la pesca e la lavorazione del corallo. Si tratta dei commerci più floridi per l’esportazione in Europa, in particolare verso l’Inghilterra. I rapporti commerciali sono un dato interessante nell’analisi dei legami tra le due culture. Nel 1784, in Sicilia, era arrivato John Woodhouse, uno dei più importanti commercianti inglesi, per acquistare ceneri di soda. Il suo arrivo è il primo e significativo esempio di imprenditore che investe parte dei suoi capitali e sposta la
propria famiglia in Sicilia. Alla fine del Settecento, dopo la rivolta giacobina e l’invasione francese del Regno di Napoli, Ferdinando II Re di Napoli fugge verso Palermo con l’aiuto delle navi inglesi. Ma non fu solamente militare la presenza inglese in Sicilia, poiché il numero di mercanti e di imprenditori inglesi continua a crescere ed è destinato ad aumentare fino alla fine dell’età napoleonica, influendo in modo determinante nella vita politica, sociale e culturale. Questa emigrazione dall’Inghilterra si sviluppa soprattutto in quello che è definito il “decennio inglese” (1806-1815)12, tanto che se si può sostenere che nel Settecento i viaggiatori inglesi in Sicilia erano stati una minoranza, nell’Ottocento la situazione si capovolge13. È indubbio che sono diversi i fattori che alimentano l’intensificarsi dei viaggi dall’Inghilterra verso la Sicilia: maggiori scambi commerciali, nuovi mezzi di trasporto che coprono le distanze con più comodità, accresciuta accessibilità del viaggio alle diverse classi sociali, diffusione delle guide, dei racconti e delle rappresentazioni dei monumenti più noti. Fino ai primi decenni dell’Ottocento i viaggiatori inglesi si interessano ancora principalmente di quella parte del mondo classico che in Sicilia è rappresentato dalle testimonianze dell’architettura greca e latina. Un’impostazione chiaramente illuminista, retaggio di un Settecento che tarda ad affiancare l’irrompere della sensibilità romantica, che sta sopraggiungendo. Thomas Watkins nel 1792, ad esempio, scrive che nel suo viaggio in Sicilia non darà spazio ad una visita a Mazzara essendo, questa, poco interessante perché si tratta di una città di origine saracena14. O ancora John Galt che, come altri inglesi che ricalcavano gli archetipi settecenteschi, disprezza il gotico e il barocco e a proposito dei mosaici della cattedrale di Monreale scrive: «L’architettura è di uno stile ibrido. Colonne classiche sostengono archi gotici; quanto ai mosaici, non vale la neanche la pena di mettersi gli occhiali per guardarli»15. Nei primi decenni dell’Ottocento nuovi viaggiatori inglesi, come Louis Simond, indagano la Sicilia con occhi diversi. Simond vive buona parte della sua vita a New York e intraprende un viaggio nell’Isola tra il 1817 e il 1818. Con le parole del suo diario, pubblicato e diffuso a Londra nel 1828, esprime bene l’importanza dell’Isola nella storia dell’architettura in Europa, legata alla cultura classica e contemporaneamente agli aspetti «esotici» di un mondo medievale da comprendere nella sua unicità. Descrivendo Epipolae, promontorio a nord-est di Siracusa ricordato da Tucidide, scrive: Epipolae era una volta un potente rivale di Siracusa, e conteneva una popolazione numerosa. Più in là, vicino al margine sul mare, altre rovine si sono succedute in tempi diversi, quelle dei castelli saraceni, seduti su audaci promontori, per la difesa della riva del mare. Faceva un caldo intenso: la roccia, la sabbia, le piante esotiche, il blu tropicale profondo del Mediterraneo, la spuma bianca, la solitudine, noi stessi - almeno il nostro modo di viaggiare - suggerivano l’idea di una carovana alla Mecca che si muoveva lungo la costa del mare rosso, o in qualsiasi altro luogo tranne che in Europa16.
Solo con il primo trentennio del XIX secolo, in Sicilia, si dà un notevole impulso allo sviluppo del dibattito sull’architettura medievale. Sono gli anni in cui si pubblica il lavoro di Jakob Ignaz Hittorff e Ludwig Zanth su L’Architecture moderne de la Sicile (1835) e la fondamentale opera del Duca di Serradifalco Del Duomo di Monreale e di altre chiese siculo-normanne (1838)17. Circa un decennio dopo Michele Amari pubblica a Parigi un saggio con la traduzione dell’iscrizione epigrafica del palazzo della Cuba18. L’Ottocento è dunque il secolo della diffusione editoriale internazionale, che contribuisce al mito dell’architettura medievale in tutta Europa, tanto che nel 1836 attrae personaggi come il giovane professore di disegno Eugène E. Viollet-le-Duc19 e il parla-
pagina a fronte Fig. 2 Henry Gally Knight, Tombe dei Re normanni, Cattedrale, Palermo, Henry Gally Knight, Saracenic & Norman remains to illustrate the Normans in Sicily. London, published by John Murray, 1840. ETHBibliothek Zürich, Rar 10038 (https://doi.org/10.3931/erara-56562 / Public Domain Mark). Fig. 3 John Ruskin, Tombe dei Re normanni, Cattedrale, Palermo, 1874, The Ruskin Art Collection at Oxford, Catalogues, Notes and Instructions, E. T. Cook and A.Wedderburn, eds, The Works of John Ruskin, Library Edition, 39 (London, George Allen, 1903-1912), 21, cat. Reference no. 84.
1824 and 1828: adopted to the use of travelers. Comprising an Historical account of Sicily with particular information for strangers in that island, London, Murray 1828, p. 377. 12 Cfr. D. D’Andrea, Nel «decennio inglese» 18061815. La Sicilia nella politica britannica dai «Talenti» a Bentinck, Messina, Rubbettino 2009. 13 M. C. Martino, Viaggiatori inglesi in Sicilia nella prima metà dell’Ottocento, Palermo, Edizioni e ristampe siciliane 1977, p.10. 14 T. Watkins, Travels Through Switzerland, Italy, Sicily, the Greek Islands to Constantinople, Through Part of Greece, Ragusa, and the Dalmatian Isles: In a Series of Letters to Pennoyre Watkins, Piccadilly, Owen 1792, p.64. 15 J. Galt, Voyages and Travels, in the years 1809-1811; containing statistical, commercial, and miscellaneous observations on Gibraltar, Sardinia, Sicily, Malta, Serigo, and Turkey, London, T. Cadell&Davies 1812, p. 57. 16 L. Simond, A tour in Italy and Sicily, London, Richard Taylor, Red Lion Court, Fleet Street 1828, p. 493.
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RA J. I. Hittorff, L. Zanth, Architecture moderne de la Sicile, Paris, Renouard 1835. D. Lo Faso Pietrasanta (Duca di Serradifalco), Del Duomo di Monreale e di altre Chiese siculo-normanne, Palermo, Roberti 1838. 18 M. Amari, Lettera sulla origine del palazzo della Cuba presso Palermo, diretta da un Siciliano al sig. A. di Longperrier, «RevueArchéologique», Paris 1850, pp. 669-691. 19 F. Tomaselli, Viollet-le-Duc e la scoperta delle origini dell’architettura gotica in Annunziata Maria Oteri (a cura di), Viollet-le-Duc e l’Ottocento. Contributi al margine di una celebrazione (18142014), «ArcHistoR EXTRA», 1, 2017, pp.181-219. 20 H. Gally Knight, The Normans in Sicily, London, John Murray 1838. I disegni di George Moore appartengono alla seconda edizione dell’opera di Henry Gally Knight, Saracenic and Norman remains to illustrate the “Normans in Sicily”, London, Murray 1840. 21 J. Evans, J. H. Whitehouse, The Diaries of John Ruskin (1835-1889), Oxford, Clarendon Press 1959, pp. 785 -787; J. Clegg, Circe and Proserpina: John Ruskin to Joan Severn, ten days in Sicily 1874, «Quaderni del Dipartimento di Linguistica», Università della Calabria, edizioni Brenner 1986, pp. 113-138; S. Casiello, R. Picone, John Ruskin e il Mezzogiorno d’Italia. Gli esiti sulla conservazione dei Beni Architettonici nel Novecento, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini Editore 2006, pp. 65-82. 17
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mentare inglese, letterato e studioso dell’architettura medievale, Henry Gally Knight, già noto per avere dedicato un libro all’architettura normanna in Francia e in Inghilterra. Gally Knight è accompagnato dall’apprezzato disegnatore di antichità George Moore e le pubblicazioni, frutto di quel viaggio, segnano una vera svolta nell’apprezzamento critico dell’architettura arabo-normanna in Sicilia20. Il lavoro di Knight e Moore è certamente conosciuto dall’inglese John Ruskin che, nella primavera del 1874, arriva per la prima volta in Sicilia21. Saranno dieci giorni di viaggio, che lui definirà una «vera avventura pagana»22 e che rimangono un bellissimo esempio di narrazione, di un mondo molto diverso dall’Inghilterra, che lo fa allontanare dalla sua tormentata vita inglese e che lui affida a lettere, diari e disegni. Ruskin aveva già visitato nel 1841 il Mezzogiorno d’Italia, appena ventunenne, arrivando fino a Napoli. Questo secondo viaggio, a trent’anni di distanza, lo affronta in un’età più matura, con una diversa consapevolezza. È indubbio che Ruskin, come tutti i viaggiatori inglesi prima di lui, conosca la Sicilia raccontata dalle numerose pubblicazioni diffuse in Inghilterra, prima fra queste quella del pioniere Brydon e, sicuramente, da quelle annoverate come diari, racconti, resoconti e illustrazioni che seguiranno il celebre Brydon. Quello di Ruskin è, essenzialmente, un itinerario analogo a quello dei viaggiatori inglesi che lo hanno preceduto: Palermo, Monreale, Taormina, Messina e l’Etna. Un percorso di appena dieci giorni che risulta essere l’applicazione di un modello, un tipo di viaggio, che per tutto l’Ottocento si avvale del background accumulato dalle esperienze pubblicate nel mondo inglese e che, oltre a comprendere i monumenti più classici e la natura prorompente dell’Isola, si interroga anche sull’eredità trasmessa dalla cultura arabo-normanna: «ogni dirupo è sormontato da un’architettura moresca, saracena o normanna del tutto nuova per me»23. I confronti con le descrizioni dell’architettura normanna di altri viaggiatori appaiono interessanti e mostrano quanto la letteratura di viaggio dei suoi predecessori lo abbia indirizzato, nell’itinerario, nello spirito e nelle atmosfere che il viaggio in Sicilia promette. Nelle descrizioni di Ruskin e nelle rappresentazioni di dettagli e prospettive, traspare quanto il rapporto diretto con l’esperienza della visita dei monumenti lo abbia impressionato. Visita due volte le tombe dei re normanni custoditi alla cattedrale di Palermo. Si tratta indubbiamente di una delle tappe obbligate, che fin dal viaggio di Henry Gally Knight sono oggetto di descrizione e rappresentazione (fig.2). Quando Ruskin disegna le tombe reali, oltre a studiarne i simboli (fig.3), utilizza una rappresentazione diversa dalla visione ancora settecentesca di Henry Gally Knight, sceglie di esaltare la monumentalità dell’opera con una prospettiva dal basso, che accentua il chiaroscuro e mostra la sequenza delle due tombe «di porfido corinzio e oro»24 di Federico II e di Ruggero II, uniti nella gloria del ricordo e nella morte (fig.4). La sua esplorazione del medioevo arabo-normanno, che Ruskin comprende appartenere solo a questi luoghi, è piena di stupore e meraviglia. A proposito del chiostro di San Giovanni degli Eremiti, a Palermo, realizza bellissimi dettagli e dichiara di aver visto «una delle più raffinate chiese gotico-saracene». Esalta nei suoi schizzi gli aspetti tecnico costruttivi delle cupole che esprimono, a parere suo, il «puro Arabo-Normanno del XI e XII secolo»25 (fig.5). Una comprensione profonda di una realtà stratificata, complessa e che esprime storie diverse, tutte importanti per la qualità dell’architettura monumentale che esprimono. Nel suo viaggio in Sicilia Ruskin si fa accompagnare da Miss Amy Frances Yule, un’amica inglese che vive in Sicilia con la famiglia, e per la quale John Ruskin rimarrà per sempre un ami-
co e un mentore. In una delle sue lettere dalla Sicilia, Ruskin incarica il suo editore di inviare in dono a Yule una serie completa di Fors Clavigera e Artra Pentelici, il ciclo di conferenze sulla scultura greca dedicato in gran parte alla scultura siciliana e calabrese, sottolineando che nel suo viaggio ha comprato una grande collezione di elettrotipìa26. Difatti il suo modo di guardare alla cultura classica è quella di un romantico che non riesce a descrivere l’architettura antica senza ritrovare il rapporto che questa ha con il paesaggio che la comprende e di cui è parte integrante. A proposito della visita al teatro greco di Taormina, scrive: «da un lato veniva l’Etna nella piena luce rosea dell’alba - dall’altro l’edificio greco si ergeva opposto alla luce e i raggi Apollinei lo penetravano»27. Non manca di intrecciare alla descrizione dei monumenti, la difficoltà di ambientazione sia al clima che allo spirito dei luoghi e, come per tutta la letteratura inglese di viaggio in Sicilia, persiste anche in maniera latente uno spiritoso bavardage che contraddistingue sia Ruskin che i suoi connazionali (fig.6). Ad esempio a Palermo, Ruskin scrive: «una città costruita con grandi pietre del colore del fango, con un balcone di ferro arricciato ad ogni finestra, e tutte le camicie, camicie, camicie, camicie, sottogonne, e lenzuola stese sopra di esse ad asciugare. Sembra una città di lavandaie senza fili per il bucato, che appendono tutto fuori dalle finestre di casa. Sono andato prima a guardare la Cattedrale, e ho trovato che anch’essa fosse colore del fango»28.
Fig. 4 J. Ruskin, Dettaglio della tomba reale di Federico II, cattedrale, Palermo, 1874, The Ruskin Art Collection at Oxford: Catalogues, Notes and Instructions, Edward T. Cook and Alexander Wedderburn, eds, The Works of John Ruskin, Library Edition, 39 (London, George Allen, 1903-1912), 21, cat. Working Series no. I.49. Fig. 5 J. Ruskin, Chiesa di San Giovanni degli Eremiti, 1874, matita su carta, Ruskin Foundation, Ruskin Library, Lancaster University, da G. Bologna, Il viaggio di John Ruskin in Sicilia, «Kalós, arte in Sicilia», 2, 2010.
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RA Fig. 6 E. Lear, Il tentativo, di John Proby e Edward Proby, di disegnare il tempio della Concordia ad Agrigento, da M. C. Martino, Viaggiatori inglesi in Sicilia nella prima metà dell’Ottocento, Edizioni e ristampe siciliane, 1977.
22 T. Hilton, John Ruskin. The Later years, New Haven and London, Yale University Press 2000, p.275. 23 G. Bologna, Il viaggio di John Ruskin in Sicilia, «Kalós, arte in Sicilia», n. 2, 2010, p. 15. 24 I preraffaelliti: il sogno del ‘400 italiano da Beato Angelico a Perugino, da Rossetti a Burne-Jones, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale 2010, p. 106. 25 G. Bologna, Il viaggio di John Ruskin… cit., p. 15. 26 J. Clegg, Circe and Proserpina… cit., p. 117. 27 G. Bologna, Il viaggio di John Ruskin… cit., p. 14. 28 J. Clegg, Circe and Proserpina… cit., p. 121. 29 T. Watkins, Travels Through Switzerland…cit., p.71. 30 J. Clegg, Circe and Proserpina… cit., p. 122. 31 R. C. Hoare, A classical tour… cit., pp. 323-324. 32 G. Bologna, Il viaggio di John Ruskin… cit., p. 14.
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Sono racconti che ritraggono, nei quaderni e tra le righe, un mondo denso di contrasti, che respinge e affascina, apparentemente distante dalla cultura inglese, ma che difatti appare avere, con continui rimandi e confronti, punti in comune anche con l’Inghilterra. Questo impatto con il paesaggio e il confronto con la terra natia, è una costante per i viaggiatori inglesi, che ritrovano il ricordo della madrepatria, nella descrizione di spazi e atmosfere. Spesso il paragone con l’Inghilterra si risolve a sfavore della Sicilia, ma non mancano gli spiriti aperti come Thomas Watkins che nei suoi diari, della fine del Settecento, racconta del suo viaggio e, a proposito delle strade di Palermo, scrive: «Quando le percorro di notte, la folla di persone, lo splendore dei negozi e le tante carrozze che passano e ripassano continuamente, mi ricordano Londra»29. Anche per John Ruskin non è diverso e, più volte, si trova a descrivere queste sensazioni che lo rimandano con il pensiero all’Inghilterra, «nebbia su tutte le colline, sembra esattamente l’atmosfera di un mattino d’estate a Euston Square», e il giorno successivo, «Palermo: normale nebbia da Elephant and Castle»30. Ma la Sicilia per gli inglesi è fortemente rappresentata dalla natura, dallo spirito mitologico e selvaggio, descritta nei suoi giardini reali normanni, nelle specie vegetali e animali che la popolano, nei miti di Scilla e Cariddi sullo stretto di Messina, il castagno dei Cento Cavalli, le sorgenti del fiume Ciane, le fiumare dei Nebrodi, le latomie di Siracusa, Monte Pellegrino, Capo Zafferano e l’immancabile, fin dai tempi del Brydon, rappresentante della natura che predomina sull’uomo: l’Etna. Richard Colt Hoare a proposito della sua esperienza sul vulcano scrive: «Ho sempre immaginato che, da questa esaltante situazione, avrei ritrovato l’intera isola […] Anche i colori più incandescenti, in cui Dante e Milton hanno raffigurato le regioni infernali di fuoco e di tempesta, trasmetterebbero un’idea molto inadeguata del cratere dell’Etna»31. Anche Ruskin, che sin dal viaggio napoletano del 1841 mostra grande interesse per i vulcani, descrive il paesaggio del vulcano siciliano come «la scena più imponente e lugubre che io abbia mai visto nella mia vita»32 (fig.7). Questo breve excursus fa emergere la graduale e inevitabile trasformazione dell’esperienza del viaggio in Sicilia in un confronto tra culture di due mondi distanti, non solo geograficamente. Un tipo di viaggio che tratteggia, per tutto l’Ottocento, un graduale e sempre maggiore interesse verso il mondo normanno e le sue peculiarità. Un mo-
dello di viaggio, perfettamente espresso dall’itinerario, del 1874, di John Ruskin. Scelte, descrizioni e rappresentazioni che raccontano pienamente, non solo un nuovo modo di intendere la letteratura di viaggio, ma rappresentano il passaggio tra il mondo illuminista e quello romantico, a cui Ruskin appartiene.
Fig. 7 J. Ruskin, Twilight in Etna, 1874, fotoincisione, da The Works of John Ruskin, E.T. Cook and A. Wedderburn, Library Edition, vol. XXI.
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pagina a fronte Fig. 1 W. Turner, Mer de Glace, 1812 (©Tate London, Creative Commons CC-BY-NCND 3.0) in <https:// www.tate.org.uk/art/ artworks/turner-merde-glace-a01011> [29/06/2019].
Con il testo tra virgolette Ruskin si riferisce a: «the mountains and high places do not mar its beauty, nor want their use, where the beasts have a shelter provided» (Robert Fleming, The fullfilling of the Scripture, 1726, p. 133). 2 R. Giuseppe, John Ruskin e le origini della moderna teoria del restauro, «Restauro», a. 3, n. 13-14, 1974, pp. 13-73. 3 A. Malcolm, The Emotional Truth of Mountains: Ruskin and J.M.W. Turner, «Caliban», 23, 2008, pp. 21-28, <https://journals.openedition.org/caliban/1088> [21/05/2019]; L. Roussillon-Constanty, In Sight of Mont Blanc: an Approach to Ruskin’s Perception of the Mountain, «Caliban», 23, pp. 2008, pp. 37-44, <https://journals.openedition.org/caliban/1098> [19/06/2019]. 4 Vedi le mostre: John Ruskin e le Alpi (Torino 1990), Le sentiment de la montagne (Grenoble 1998) e diversi articoli (F. Dentice, I 1
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John Ruskin e le “Cattedrali della Terra”: le montagne come monumento Carla Bartolomucci | carla.bartolomucci@univaq.it Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile-Architettura, Ambientale Università degli Studi dell’Aquila
Abstract John Ruskin frequented the Alps throughout all his life and wrote many works on mountains, giving a relevant contribution to the interest developed with the Grand Tour and the discovery of glaciers already since the 18th century. His definition of mountains as “cathedrals of the earth” effectively indicates the magnificence, but also the perception of mountains seen as a natural monument – hence the need for protection. Ruskin’s attention reveals a sensitivity that goes beyond the Romantic feeling for landscape, expressing very modern concepts on the defence of the mountain environment; he told with singular premonition about the risks caused by tourism. Moreover, in his writings a special link appears between mountains attraction and his way of seeing art and architecture: Ruskin meticulously observed forms, structures, materials, degradation. He studied the geological formations as “constructions” and represented them in drawings, paintings and suggestive literary descriptions. Mountains become with Ruskin a veritable “monument” to be safeguarded, so much so he explicitly dedicated to them some of his lessons at Oxford University. Parole chiave Paesaggio montano, valore monumentale, storia, tutela, restauro
[The mountains] seem to have been built for the human race, as at once their schools and cathedrals; full of treasures of illuminated manuscript for the scholar, kindly in simple lessons to the worker, quiet in pale cloisters for the thinker, glorious in holiness for the worshipper. And of these great cathedrals of the earth, with their gates of rock, pavements of cloud, choirs of stream and stone, altars of snow, and vaults of purple traversed by the continual stars, […] “They are inhabited by the Beasts”1 J. Ruskin, Of Mountain Beauty (1856), in “Works”, vol. 6, cap. XX: The mountain glory, p. 425
Introduzione L’interesse di Ruskin per le montagne, rilevato già da tempo2, è stato finora considerato perlopiù dalla critica d’arte per le considerazioni sull’estetica del paesaggio mon-
tano e per le sue raffigurazioni stimolate dalla produzione artistica di J. M. William Turner (fig. 1) a cui è dedicata buona parte del suo Modern Painters3. Di recente, alcune iniziative di carattere alpinistico4 ripercorrono attraverso i Diaries i luoghi da lui frequentati e descrivono le circostanze in cui si è sviluppata tale attrazione5. Tuttavia, dalla lettura dei numerosi scritti di Ruskin sulle montagne6 emerge un interesse che va ben oltre il vedutismo e la seduzione estetica7, che rivela un legame molto stretto con il suo modo di vedere l’architettura e concepire il restauro. Ruskin sintetizza nella sua opera due filoni apparentemente divergenti: da un lato l’estetica del pittoresco e del sublime (da cui si differenzia, però, per l’intenso coinvolgimento emotivo che lo porta a respingere il pittoricismo di maniera)8, dall’altro l’osservazione scientifica della natura descritta «con pazienza leonardesca»9. Ma soprattutto, egli esamina l’ambiente montano non limitandosi alla suggestione di particolari vedute; in questo senso, supera decisamente la concezione del paesaggio inteso come scenario (percezione artistica) per coglierne l’essenza studiandone minuziosamente ogni aspetto: le sue descrizioni delle montagne possono definirsi ‘architettoniche’ (fig. 2). Of Mountains Beauty (Modern Painters, IV vol., 1856) è una sorta di trattato sulle montagne in cui alla teoria della rappresentazione pittorica e topografica del paesaggio si affiancano studi di geologia, osservazioni botaniche e meteorologiche, illustrazioni grafiche (disegni al tratto e dipinti), descrizioni letterarie e poetiche di grande suggestione, insieme a considerazioni sull’erosione delle montagne e sui processi di degrado naturale e antropico. Oltre alle raffigurazioni grafiche e letterarie, Ruskin ritrasse le montagne con i suoi dagherrotipi (le prime immagini fotografiche del Cervino e delle Aiguilles di Chamonix), oggi rari documenti di luoghi notevolmente trasformati dall’impatto antropico e dai cambiamenti climatici10.
pittori che amarono le Alpi, «Repubblica», 14-2-2000, <https://ricerca.repubblica. it/repubblica/archivio/ repubblica/2000/02/14/ pittori-che-amarono-le-alpi.html> [19/06/2019]); John Ruskin e la Montagna (2004); Ruskin l’esteta delle Alpi (2013). 5 A. Hélard, John Ruskin et les Cathédrales de la Terre, Chamonix, Editions Guérin 2005; M. Ferrazza, Cattedrali della terra. John Ruskin sulle Alpi, Milano, RCS 2016 (1° ed. Torino, Vivalda 2008). 6 Il quarto volume di Modern Painters è esplicitamente dedicato alla bellezza delle montagne, ma queste compaiono spesso in Poems, Diaries and Note-books, Letters, Deucalion, Praeterita, The Stones of Venice, Fors Clavigera, Lectures on Landscape. 7 Cfr. G. Rocchi, John Ruskin e le origini… cit. (pp. 20, 23, 24) che, in contrapposizione all’analogo interesse di Viollet Le Duc, attribuisce a Ruskin osservazioni «da critico d’arte … e letterato» e, sostanzialmente, un contributo limitato alle opere grafiche e un approccio dilettantesco alla topografia e alla geologia. 8 Vedi la sua critica al dipinto di J. Brett «assolutamente privo di emozioni» (in M. Ferrazza, Cattedrali della terra… cit., pp. 214-216). 9 G. Rocchi, John Ruskin e le origini… cit., p. 23. 10 I dagherrotipi della collezione Ruskin, a cura di P. Costantini, I. Zannier, Firenze, Alinari – Venezia, Arsenale 1986, pp. 117-120. 11 La relazione tra architettura e bellezze naturali compare già nei suoi articoli in «Architectural Magazine» (1837-38). 12 La sua prima visione delle Alpi da Schaffausen è in Praeterita: «None of us seem to have thought the Alps would be visible without profane exertion in climbing hills. […] Sudden-
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RA ly—behold—beyond! There was no thought in any of us for a moment of their being clouds. They were clear as crystal, sharp on the pure horizon sky, and already tinged with rose by the sinking sun. Infinitely beyond all that we had ever thought or dreamed, the seen walls of lost Eden could not have been more beautiful to us» (Works, vol. XXXV, p. 115). 13 Studioso di geologia, botanica e fisica, De Saussure è considerato il promotore della scoperta delle montagne: effettuò diverse salite, con studi e misurazioni, e raggiunse la vetta del Monte Bianco nel 1787 (H. B. De Saussure, Voyages dans les Alpes, 4 vol., Neuchatel, S. Fauche (Père & Fils) Imprimeurs-Libraires du Roi 1779-96). 14 W. Wordsworth, The Excursion, in Poetical Works, V, Oxford 1949, p. 140. Ruskin riprese questa poesia per difendere Turner (ritenuto un modello assoluto per la pittura del paesaggio) dalle critiche che la sua pittura naturalistica non fosse veritiera. 15 «I live not in myself, but I become / Portion of that around me; and to me / High mountains are a feeling» (G.G. Byron, Childe Harold’s Pilgrimage, Canto III, st. 72). 16 «The whole chain of the Alps was visible on one side, and the beautiful city with its dominant frost-crystalline Duomo on the other» (Works, vol. XXXV, p. 118). 17 The Stones of Venice, cap. V, pp. 85-89. Ruskin giustifica la digressione
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La lettura degli scritti sulle montagne evidenzia l’attualità del pensiero di Ruskin anche in questo specifico ambito e, in particolare, le connessioni tra tutela del territorio e cultura del restauro11. Oggi appare necessario considerare l’ambiente montano e le tracce materiali della sua frequentazione storica (percorsi di valico, ospizi e rifugi, fortificazioni e manufatti di guerra) come eredità culturale da difendere e trasmettere al futuro. Ruskin e le montagne, tra curiosità scientifica e attrazione emotiva John Ruskin frequentò assiduamente le montagne per tutta la sua vita, dai primi anni della giovinezza fino in tarda età; compì il suo primo viaggio sulle Alpi nel 1833 (a quattordici anni) rimanendone incantato12. Da allora nei suoi numerosi viaggi verso l’Italia non mancarono lunghi soggiorni montani perlopiù tra la Savoia e la Svizzera, ma ovunque andò fu attratto dalle terre alte (dai valichi alpini alle Alpi Apuane, al Vesuvio e i monti della Costiera Amalfitana, fino all’Etna). I suoi itinerari, ispirati dai «Voyages dans les Alpes» di Horace Benedict De Saussure13, si concentrarono inizialmente intorno al Monte Bianco e al grandioso ghiacciaio della Mer de Glace per poi estendersi ad altri luoghi da lui raffigurati e descritti in numerosi testi. Oltre ai volumi di De Saussure, Ruskin trasse indicazioni per i luoghi da visitare attraverso i dipinti di Turner che confrontò attentamente con la realtà. I suoi riferimenti culturali (William Wordsworth, che citò in apertura al suo Modern Painters14 e George Gordon Byron, di cui probabilmente lesse l’Alpine Journal del 1816) mostrano la sua disposizione emotiva; come Byron affermò «le montagne sono per me un sentimento»15 così sembra affrontarle Ruskin. Egli non fu alpinista nel senso sportivo del termine (anzi criticò aspramente chi era interessato solo alla conquista delle vette) ma esplorò ripetutamente il Monte Bianco, il Cervino e diverse località dell’arco alpino occidentale e centrale (Gran Paradiso, Monte Rosa, Monviso; Oberland bernese, Val d’Ossola e valichi alpini). Nei suoi percorsi di studio dell’arte italiana le montagne sono presenti non solo come sfondo (tornò più volte sulla sommità del Duomo di Milano per osservare la vista delle Alpi)16 ma sono strettamente connesse alle osservazioni dell’architettura e dei ma-
pagina a fronte Fig. 2 J. Ruskin, schizzi con osservazioni ‘architettoniche’ delle montagne, 1856 («Of mountain beauty», pp. 192, 246). Fig. 3 J. Ruskin, Aiguille de Blaitière a Chamonix («Of mountain beauty», tav. 47). Fig. 4 J. Ruskin, il Cervino o Matterhorn definito «the most noble cliff in Europe», 1856 («Of mountain beauty», tav. 38).
teriali di cui è costituita: da Pisa si recò sulle Alpi Apuane per visitare le cave di marmo (fig. 3), nel libro su Venezia dedicò diverse pagine al Cervino (fig. 4) descritto come una vera e propria costruzione17. A Chamonix (ove si sentiva a casa)18 tornò per l’ultima volta nel 1888, durante il suo ultimo viaggio in Europa; presso le montagne visse i suoi ultimi momenti di lucidità e di emozioni positive19. In quei giorni descrisse il valico del Col de la Forclaz come “la più bella strada che io abbia mai percorso nelle Alpi” e al Passo del Sempione (fig. 5) annotò “non ho mai considerato il vecchio Ospizio tanto bello, né niente così bello”20. Sono le ultime frammentarie annotazioni nel suo Diario, che si interruppe poco dopo a Venezia. Le molte pagine che Ruskin dedicò alle montagne studiano gli aspetti naturalistici, morfologici e geologici (a quindici anni pubblicò due articoli scientifici in cui compaiono i suoi primi disegni)21 insieme a quelli estetici e percettivi (costruì un cianome-
con «there are sometimes more valuable lessons to be learned in the school of nature than in that of Vitruvius, and a fragment of building among the Alps is singularly illustrative of […] the perfection of the wall veil». 18 Vedi la lettera al padre del 28 agosto 1849, in M. Ferrazza, Cattedrali della terra… cit., p. 156. 19 Il 23 settembre 1888 annotò da Milano: “pieno di amarezza per lasciare le montagne; e ora molto cupo e indifferente e ansioso” (M. Ferrazza, Cattedrali della terra… cit., p. 276). 20 Ibidem (il corsivo è dell’autrice). 21 Enquires on the causes of the colour of the water pf the Rhine, «Magazine of Natural History», VII, n. 41 (1834), pp. 438-439; Facts and Considerations on the Strata of Mont Blanc, and Some Instances of Twisted Strata Observable in Switzerland, Ivi, pp. 644-645. 22 J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia (Die Kultur der Renaissance in Italien, Basel, Schwabe (1° ed. 1855), Firenze, Sansoni 1952. 23 Ruskin tratta tali argomenti nel terzo volume di Modern Painters (Of many things, 1856).
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RA To what properties in Nature is it owing that the stones in buildings, formed originally of the frailest materials, gradually become indurated by exposure to the atmosphere and by age, and stand the wear and tear of time and weather every bit as well, in some instances much better, than the hardest and most compact limestones and granite?, «Magazine of Natural History», IX, n.65 (1836), pp. 488-490. 25 Vedi Truth and Untruth of Stones, in Of Mountain Beauty, tav. 49. 26 Of the materials of mountains, “Modern Painters”, vol. IV, cap. VIII-XI, pp. 128-173; Of the sculpture of mountains, Ivi, cap. XII-XIII, pp. 174-215. 27 L’associazione tra montagne e rovine, che Ruskin esprime anche graficamente, comparve già in Shelley (G. Rocchi, John Ruskin e le origini… cit., p. 19). 28 «Above me are the Alps, / The Palaces of Nature, whose vast walls / Have pinnacled in clouds their snowy scalps, And throned Eternity in icy halls» (G.G. Byron, The Childe Harold’s Pilgrimage, canto III, st. 72). 29 Qui si prescinde dal considerare l’aspetto ascetico della montagna (F. Dupeyron-Lafay, La Sacralisation littéraire et picturale de la montagne au XIXe siècle: (re)naissances et epiphanies, «Caliban», 23, pp. 2008, 29-36, <https://journals.openedition.org/caliban/1230> [19/06/2019]), di cui si è scritto altrove (C. Bartolomucci, Walking through the Cultural Lanscape: from the pilgrimage to the conquest of the “Cathedrals of the 24
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tro, sul modello di quello utilizzato da De Saussure, per misurare l’azzurro del cielo). Disegnò e dipinse una quantità rilevante di paesaggi montani e di dettagli naturalistici e, contemporaneamente, tratteggiò descrizioni poetiche della loro bellezza. Contribuì notevolmente alla formazione della sensibilità estetica sul paesaggio e alla critica d’arte sul tema, affrontandolo in una prospettiva storiografica (come anche Jacob Burckhardt)22 e rintracciando il modo di percepire le montagne dall’antichità alle epoche successive23. I suoi studi non si limitarono al pittoresco e al sublime delle montagne ma – parallelamente a quanto elaborò per l’architettura – affrontarono anche altri temi, rivelando la sua attenzione sia per gli aspetti materici (a diciassette anni scrisse un articolo sulle pietre da costruzione e gli effetti del tempo su di esse)24, sia per quelli sociali (vedi le narrazioni sulle popolazioni alpine e sull’influenza del vivere in montagna, la sua posizione controversa tra mountain gloom e mountain glory), fino all’attribuzione di valori etici ai luoghi25. Negli scritti di Ruskin si delinea una relazione significativa tra arte, architettura e ambiente montano, attraverso il rapporto tra attrazione estetica e osservazione scientifica. Egli analizza dapprima gli elementi del paesaggio (cielo, acque, vegetazione, luce, colori) per poi addentrarsi nella morfologia delle montagne esaminate come ‘costruzioni’. Come in The Stone of Venice scompone l’architettura in elementi, qui osserva accuratamente le forme (aiguilles, creste, precipizi, banchi e rocce), i materiali (calcari, graniti, marmi), le caratteristiche strutturali (compatti, cristallini, scistosi, conglomerati) e lo stato di conservazione26. Associa i ruderi alle formazioni rocciose27 osservandone ogni dettaglio insieme al loro naturale degrado; definisce le Alpi buttresses. La sua definizione di «Cathedrals of the Earth» (probabilmente ispirata da «The Palace of Nature» di Byron28) indica non solo la sacralità che le montagne ispirano, ma soprattutto la percezione di queste come monumento29. Ruskin espresse concetti molto attuali sulla difesa dell’ambiente e, analogamente alle sue considerazioni sul restauro e sull’alterazione dei contesti monumentali, fu tra i primi a manifestare la preoccupazione per i rischi causati dal turismo montano30. Intuì con straordinaria premonizione i rischi della mercificazione avviata dall’alpinismo di conquista e dal turismo di massa31. Nell’estate del 1860 osservò che «Chamo-
pagina a fronte Fig. 5 Il passo del Sempione con l’Ospizio napoleonico (1831), di cui Ruskin scrisse in Praeterita (Works, XXXV, p. 321): «fra tutti gli scenari montani, non c’è nessun altro posto di tale bellezza e potenza» (foto Bartolomucci 2012). Fig. 6 La ferrovia ChamonixMontenver, realizzata nel 1909 per portare i turisti ai piedi del grandioso ghiacciaio della Mer de Glace (cartolina postale, 1911). Fig. 7 Montenver (Chamonix), la Mer de Glace oggi (cfr. fig. 1). Il suggestivo ghiacciaio è notevolmente ridotto, tanto da presentarsi come un’immensa morena detritica e non più come un mare in tempesta (foto Bartolomucci 2019).
nix e la Svizzera sono completamente devastati da ferrovie, immensi hotel e architetti disoccupati che convincono i consigli municipali ad abbattere le vecchie mura delle città»32 (fig. 6). Oltre che per le nuove costruzioni che sfiguravano il paesaggio, egli manifestò la propria insofferenza verso chi scalava le montagne per velleità atletiche (nel 1851 Albert Smith, medico e showman, scalò il Monte Bianco raccontando la propria impresa in uno spettacolo teatrale di enorme successo e avviando il fenomeno del merchandising)33. Per tali motivi Ruskin rifiutò la sua adesione all’Alpine Club (fondato nel 1857 a Londra), le cui attività furono notevolmente influenzate dai suoi scritti. In seguito, pur avendovi aderito (nel 1869), continuerà a esprimere il suo dissenso verso l’alpinismo
Earth”, in Conservation/ Consumption: preserving the tangible and intangible values, EAAE Thematic Network on Conservation, Roma, «Quasar», 2019, pp. 43-56). Nonostante l’educazione religiosa di Ruskin, la spiritualità non appare determinante nel suo rapporto con le terre alte. 30 Vedi anche G. Rocchi, John Ruskin e le origini… cit., p. 59. 31 A Montenvers, osservando il libro del primo rifugio sorto ai piedi della Mer de Glace, fu stupito da «l’enorme numero di viaggiatori che passa di qui in un anno» (M. Ferrazza, Cattedrali della terra… cit., p. 144). Il Temple de la Nature fu poi surclassato da due alberghi (vedi C. Bartolomucci, Walking through the Cultural Lanscape… cit.; Id., Uso, disuso, abuso: la tutela del paesaggio montano e l’adeguamento dei rifugi alpini, in Il patrimonio culturale in mutamento: le sfide dell’uso, Venezia-Marghera, Arcadia Ricerche 2019, pp. 1017-1026). 32 Lettera a John Brown (Losanna 6/8/1860), in Works, vol. XXXVI, p. 339. 33 M. Ferrazza, Cattedrali della terra… cit., pp.
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Carla Bartolomucci
RA 166-167. Vedi anche <https://www.caitorino. it/news/2018/05/02/ albert-smith-lo-spettacolo-del-monte-bianco-e-altre-avventure-vendita/> [20/06/2019] e cfr. con talune pratiche odierne, dalle conseguenze nefaste sul paesaggio alpino e sull’immaginario collettivo (come il reality show Monte Bianco: sfida verticale trasmesso in tv nel 2015). 34 «Il vostro potere di vedere le montagne non può essere sviluppato a partire dalla vostra vanità […] o dal vostro amore per l’esercizio muscolare. Esso dipende dall’esercizio del senso della vista in sé, e dall’anima che lo usa» (M. Ferrazza, Cattedrali della terra… cit., p. 239). 35 L. Stephen, The playground of Europe, London, Longmans, Green 1871 (ed. 1909 in <https://archive. org/details/playgroundofeur00stepiala/page/n1>) [27/06/2019]. 36 G. Simmel, Saggi sul paesaggio, a cura di Monica Sassatelli, Roma, Armando Ed. 2006, p. 10; e a pp. 8290 le sue riflessioni sulle Alpi. Vedi anche C. Bartolomucci, Uso, disuso, abuso: la tutela… cit., p. 1022. 37 Lectures on Landscape: delivered at Oxford in lent term (1871), in Works, vol. XXII, pp. 1-70. 38 Mountain form in the higher Alps, in Deucalion. Collected Studies of the lapse of waves, and life of stones, in Works, vol. XXVI, pp. 85-370. 39 Cfr. L’analogo interesse di Viollet Le Duc per il
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inteso come conquista di vette34 in aperta polemica con chi definì le Alpi «playground of Europe»35. Si delinea così una profonda divergenza tra l’attrazione intellettuale e altri interessi che inducono a frequentare le montagne (come pure i luoghi d’arte); da questa frattura derivano atteggiamenti e azioni differenti, volte da un lato alla contemplazione riverente, dall’altro allo sfruttamento delle risorse (naturali e culturali). A tal proposito, è già stato richiamato altrove il nesso tra percezione del mondo e azione su di esso, evidenziato da Georg Simmel nei suoi scritti sul paesaggio36. Ruskin anticipa la sensibilità per la tutela del territorio montano, che lui considera nella sua interezza non limitandosi alla suggestione di particolari vedute (né di singoli luoghi, la cui attuale identificazione in “Patrimonio dell’Umanità” incrementa il consumo turistico). A ulteriore conferma del valore monumentale delle montagne, nel 1871 egli dedicò al paesaggio tre delle sue lezioni a Oxford37 e, nel 1874, un corso specifico sulla forma delle montagne38. Conclusioni Al di là del contributo di Ruskin all’estetica del paesaggio montano, attraverso i suoi scritti emerge un’attenta osservazione materiale e una curiosità scientifica (campionatura di rocce e cristalli, rilievi di geometrie e angoli delle stratificazioni, studi e raffigurazioni di nuvole e foglie, prelievi di acqua proveniente dai ghiacciai per misurare la quantità di sedimenti lapidei – da cui il calcolo empirico dell’erosione delle montagne) che preludono al suo modo di guardare e studiare l’architettura39. La sua intuizione del significato delle montagne non solo come patrimonio naturale, ma come vero e proprio ‘monumento’ (portatore di valori estetici, storici, scientifici, emotivi, etici, sociali) appare oggi non pienamente compresa40. Eppure, nel preoccuparsi per lo scioglimento dei ghiacciai (fig. 7) e per il degrado del paesaggio, Ruskin considerò le nevi eterne come un capitale non solo ambientale e paesaggistico, ma anche storico e sociale41. Le sue descrizioni della vista delle Alpi da Milano42 e da Venezia43 ci fanno comprendere quanto fosse preziosa la possibilità di osservare tali orizzonti, oggi invisibili.
Nonostante le sue considerazioni siano straordinariamente vicine all’attenzione per l’arte e i monumenti del passato, la fortuna critica degli scritti di Ruskin sulle montagne appare limitata agli aspetti pittoreschi, trascurando l’essenza monumentale dei luoghi stessi. Invece, appare evidente che questa sua attrazione (avviata in età giovanile e proseguita per tutta la sua vita) anticipò l’interesse per l’arte e il suo particolare modo di osservarla, stimolando l’attenzione per i materiali, le alterazioni nel tempo e quindi le sue riflessioni sul restauro. Lui stesso affermò in Preterita che se non fosse entrato per caso nella Scuola di San Rocco a Venezia «I should to have written The Stones of Chamouni instead of The Stones of Venice […] before beginning to teach in Oxford»44. Nelle pagine di Ruskin c’è una stretta connessione tra il pensiero sull’arte e l’architettura (da un lato) e il valore delle montagne (dall’altro): il paesaggio montano non è un semplice scenario né un luogo di villeggiatura, ma spazio di contemplazione e di studio scrupoloso. Anche in questo senso egli fu precursore di concetti attuali (ecologia, sostenibilità): la percezione delle montagne come monumento della Natura conferma il legame profondo – basato sulla trasmissione al futuro e sui diritti di chi verrà dopo di noi – tra il restauro e la tutela ambientale. Tale connessione, che va oltre il concetto di ‘paesaggio’ (poiché la salvaguardia non può limitarsi a determinate vedute, né a luoghi isolati dal contesto), appare ancora oggi non pienamente esplorata, soprattutto perché le montagne (illusoriamente considerate immutabili) continuano a subire alterazioni e stravolgimenti per lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e ambientali45 (fig. 8). Il tema della loro salvaguardia risulta oggi indifferibile ma, se da un lato è ben identificato il valore ambientale del territorio montano, dall’altro l’essenza ‘monumentale’ stenta ad essere riconosciuta nelle azioni di tutela. Eppure, la storia la letteratura l’arte e la scienza confermano che l’attrazione per le montagne manifestatasi nei secoli è, ancor prima di essere un fenomeno sportivo, una rivelazione intellettuale46.
pagina a fronte Fig. 8 Alpi Apuane (Carrara), le cave di marmo allo stato attuale (da https:// www.gualtierocorsi.it/) [29/06/2019].
Monte Bianco e i suoi ghiacciai (E. E. Viollet le Duc, Le massif du Mont Blanc: étude sur sa constitution geodesique et geologique sur ses transformations et sur l’état ancien et moderne de ses glaciers, Paris, J. Baudry 1876; F. Schepis, Viollet-le-Duc e il ‘restauro’ del Monte Bianco, in Viollet-Le-Duc e l’Ottocento. Contributi a margine di una celebrazione (1814-2014), a cura di A.M. Oteri, «ArcHistoR Extra», 1, 2017, pp. 122-139.). 40 Vedi Opportunité et Conséquences d’une inscription de l’Espace Mont-Blanc dans des dispositifs de protection internationaux, «Nature & Patrimoine», n. 36, 2012, p. 28. 41 Vedi la sua entusiastica descrizione del Monte Bianco nel 1835 come «il re delle montagne» e la sua «società dei ghiacciai che eroga l’acqua a tutto il mondo, gratis» (M. Ferrazza, Cattedrali della terra… cit., p. 42). 42 Nella lettera al padre del 17 luglio 1845 (John Ruskin: Viaggi in Italia. 1840-1845, a cura di A. Brilli, Firenze, Passigli Editori 2018 (1° ed. 1985), p. 199 e in M. Ferrazza, Cattedrali della terra… cit., p. 123). 43 The Stones of Venice, introduction, p. XXVII. Ruskin, osservando un dipinto di Tiziano, cercò lo stesso punto di vista (Of Mountain Beauty, cap. XV, pp. 266-267). 44 Works, XXXV, p. 372. 45 «Se è vero che il problema del nostro secolo è quello della strumentalizzazione degli esseri umani, non meno che del mondo naturale […], Ruskin l’ha intravvisto per primo» (G. Rocchi, John Ruskin e le origini… cit., p. 60). 46 E. Castiglioni, Il giorno delle Mésules. Diari di un alpinista antifascista, Milano, Hoepli 2017 (1° ed. 1993); E. Camanni, Immagine e percezione delle Alpi. Un inquadramento storico, in E. Giordano, L. Delfino, Altrove. La montagna dell’identità e dell’alterità, Torino, Priuli & Verlucca 2009; A. De Rossi, La costruzione delle Alpi. Immagini e scenari del pittoresco alpino (1773-1914), Roma, Donzelli 2014; G. Battimelli, G. Di Vecchia, Tra scienza e montagna, Falcade (BL), Nuovi Sentieri Editore 2016; L. Alessandri, La montagna nella letteratura italiana. Da Petrarca a Cognetti, Roma, Aracne 2018.
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Dalla Lampada della Memoria: valori imperituri e nuove visioni per la tutela del paesaggio antropizzato. Alcuni casi studio Giulia Beltramo | giuliabeltramo@gmail.com Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio Politecnico di Torino
1 I. Calvino, Perché leggere i classici, Oscar Moderni, Mondadori, 20175, p. 7. 2 J. Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, Smith, Elder & Co, Londra 1849. 3 Alcuni dei principali protocolli in cui si sottolinea il fatto che il paesaggio assuma un particolare significato culturale in seguito al compimento di determinate azioni su di esso da parte dell’uomo sono la Convenzione Europea del Paesaggio (2000), nonché la Carta di Cracovia (2000), la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio immateriale (2003), la Convenzione di Faro (2005), la Carta sugli itinerari culturali e quella sui Principi inerenti ai paesaggi rurali intesi come patrimonio (2017). 4 J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, presentazione di Roberto Di Stefano, Jaca Book Reprint, Milano 20198, p. 229. 5 Ivi, p. 26. 6 Giuseppe De Matteis afferma che se si considera l’arco alpino occidentale, gli spazi naturali a non essere ancora stati raggiunti dall’uomo risultano meno del 10% del paesaggio montano, mentre «il resto
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Abstract From the ‘70s, the safeguard of the landscape and intangible heritage become an important topic within the cultural debate due to the problems of historical landscape: the passage of time led to carelessness of certain areas and allowed the development of different forms of degradation. Referring to what is stated at the beginning of the Sixth Lamp, it is spontaneous to wonder what pain our ancestors would have felt if they had known «that all that they had treasured would end in contempt and the places that had offered them refuge and comfort would be dragged into the dust». For this reasons the study of Ruskin is very current and becomes fundamental to read and safeguard the particular memory values of anthropic landscapes. The essay proposed wants to relate the values of ruskinian memory that emerge from the Sixth Lamp to the territory of western south Piedmont, an important area for the richness of intangible heritage and for the variety of landscape that distinguishes it. Parole chiave Cultural landscape, intangible heritage, memory, Piedmont
Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire1
È il 1849 quando a Londra viene pubblicata la prima edizione di The Seven Lamps of Architecture2: sono trascorsi centosettant’anni e nonostante ciò il testo elaborato da Ruskin risulta ancora profondamente calzante rispetto ai temi che oggi definiscono il dibattito culturale internazionale. Infatti, così come l’operato dell’uomo risultava un fattore importante per la caratterizzazione del territorio già nel pensiero ruskiniano, analogamente occupa un ruolo centrale all’interno delle diverse convenzioni che, nel corso degli ultimi anni, si sono concentrate sull’analisi di tematiche inerenti alla tutela del paesaggio culturale e del patrimonio intangibile a esso correlato3. Soprattutto nei passi della Lampada della Memoria, Ruskin si sofferma sull’importante ruolo giocato dall’uomo e dalla società nell’ambito della conservazione dei beni architettonici e paesaggistici e riflette sui primi cambiamenti conseguenti alla Rivolu-
zione industriale. Purtroppo, infatti, essendo concentrati sulle innovazioni tecnologiche e sull’arricchimento personale, i suoi contemporanei non si rendono conto che le architetture, e dunque anche il paesaggio su cui queste sorgono, «appartengono in parte a coloro che li costruirono, e in parte a tutte le generazioni di uomini che dovranno venire dopo di noi. I morti hanno ancora i loro diritti su di essi: […] sono tutte cose che non abbiamo diritto di distruggere»4. In quest’ottica, come già sottolineava Roberto Di Stefano nella prefazione all’edizione italiana5, la conservazione del cultural heritage non può coincidere con la sola tutela dei monumenti, intesa esclusivamente in termini vincolistici, ma deve comprendere tutti i prodotti della civiltà umana, tra i quali occorre considerare anche il territorio antropizzato. Questo, oltre a essere nettamente prevalente rispetto alle aree naturali6, necessita di nuove politiche di valorizzazione, capaci di gestire in maniera attiva e propositiva l’eredità culturale7 delle diverse comunità. Solo in questo modo risulta infatti possibile instaurare uno scambio proattivo tra il patrimonio e le persone: un’ampia fruizione culturale e il turismo sostenibile8 diventano così due elementi fondamentali per la salvaguardia dell’identità e per la riappropriazione del paesaggio9. Volendo analizzare attraverso esempi concreti l’intenzione appena descritta, il contributo qui sviluppato prende in esame una particolare area del Piemonte sud-occidentale, compresa tra i rilievi prealpini e la pianura Padana10. I territori delle valli Chisone, Infernotto, Pellice e Po risultano infatti assai singolari sia per la diversificazione degli
Fig. 1 Particolare scenario paesaggistico, Bagnolo Piemonte (CN) (foto G. Beltramo).
è un impasto di storia e di natura non per questo meno ricco di stimoli». G. De Matteis, La montagna da recuperare, in Studi e ricerche per il sistem a territoriale alpino occidentale, a cura di C. Devoti, M. Naretto, M. Volpiano, Gubbio, ANCSA 2015, p. 31. 7 Riferimento alla Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, Faro 2005, (http://musei. beniculturali.it/wp-content/uploads/2016/01/Convenzione-di-Faro.pdf).
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Bisogna evitare che il turismo di massa si appropri del patrimonio culturale trasformandolo in un semplice scenario per la spettacolarizzazione e per la vendita dell’immagine locale. Troppo spesso, infatti, le comunità autoctone non riescono a comprendere la ricchezza del loro territorio perché il patrimonio «si presenta anzitutto come un oggetto di consumo più o meno decontestualizzato, o come un oggetto il cui vero contesto è il mondo della circolazione planetaria a cui accedono i turisti». In M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri 20172. 9 Cfr. M. Naretto, Il patrimonio architettonico delle Alpi occidentali, in Studi e ricerche per il sistema territoriale alpino occidentale, a cura di C. Devoti, M. Naretto, M. Volpiano, Gubbio, ANCSA 2015. 10 Piano Paesaggistico Regionale del Piemonte (adottato nel 2009 - approvato nel 2017), Relazione. 11 Cfr. G. Beltramo, La Resistenza in valle Infernotto e nella bassa valle Po in Piemonte: territori e insediamenti fra storia e memoria, in “Storia dell’urbanistica”, 2019, in corso di stampa. 8
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scenari paesaggistici sia per il patrimonio intangibile a essi legato, dovuto in primo luogo ai fenomeni di antropizzazione, già molto sviluppati durante il periodo medievale11. Oltre ai suggestivi caratteri geomorfologici, dunque, è proprio il patrimonio intangibile a rendere tale paesaggio unico per valori e vocazione culturale (Fig. 1). Consapevoli di queste istanze, recentemente sono state avviate alcune azioni per opporsi alle differenti forme di degrado e all’abbandono che segnano buona parte di
pagina a fronte Fig. 2 G. Beltramo, Un percorso nel centro storico di Barge alle origini della Resistenza, elaborato grafico di progetto (foto G. Beltramo). Fig. 3 G. Beltramo, Un percorso tra i sentieri di Gabiola e Villar Bagnolo alla scoperta dei rifugi partigiani, elaborato grafico di progetto (foto G. Beltramo). Fig. 4 Le cave di Prai Valin, Bagnolo Piemonte (CN) (foto G. Beltramo).
quel territorio, che «gli uomini probi», di cui parla Ruskin, avevano scelto come «luogo della loro dimora terrena» e che «era sembrato quasi condividere con loro tutti gli onori, le gioie, le sofferenze, custode di tutti i ricordi della loro vita e di tutti i beni materiali che avevano amato e usato a loro discrezione e avevano segnato con la loro impronta»12. A titolo esemplificativo, si riporta l’esempio del comune di Barge, piccolo centro in provincia di Cuneo, dove l’amministrazione locale ha deciso di investire sulle potenzialità storico-culturali del proprio territorio. In questo caso l’area presa in esame risulta singolare poiché, durante la Seconda Guerra Mondiale, ha fatto da sfondo al fenomeno storico della Resistenza, che proprio in queste valli si è diffuso con momenti particolarmente difficili e intensi13: il territorio di Barge, infatti, è noto per essere stato la «culla della Resistenza del Piemonte Occidentale»14, una vera e propria roccaforte rimasta coesa per tutti i venti mesi della Lotta di Liberazione agli uomini del comando partigiano15. Riconosciuta quindi l’importanza delle azioni compiute dalla popolazione tra il 1943 e il 1945, l’amministrazione ha deciso di sostenere un progetto di ricerca16 volto a rendere leggibili e culturalmente fruibili quegli eventi di cui si sta perdendo oggi memoria, ricostruibili attraverso un approfondito studio delle fonti documentarie, iconografiche, visive e audiovisive, in parte ancora inedite. L’obiettivo della valorizzazione è dunque cercare di connettere il patrimonio tangibile, costruito e infrastrutturale, teatro degli eventi appena descritti e ora contraddistinto dal valore particolare di “memoria”, con quello intangibile a esso connesso. In quest’ottica la condivisione, l’organizzazione e la gestione delle fonti è fondamentale sia per recuperare i sentieri e i percorsi storici, oggi in parte latenti, sia per conservare i singoli manufatti, in modo che queste due componenti diventino gli elementi imprescindibili dei percorsi culturali previsti da un “museo diffuso” sul territorio (Fig. 2, 3).
J. Ruskin, Le sette lampad… cit., p. 212. 13 Quella che si è combattuta a Barge dal 10 settembre 1943 è infatti definita dalla bibliografia come «guerra totale», in cui tutta la popolazione viene indistintamente coinvolta nei fatti bellici. G. De Luna, La resistenza perfetta, Milano, Universale economica Feltrinelli 2016. 14 Venti mesi, La guerra partigiana di liberazione tra l’Infernotto e la Val Luserna. Luoghi e memorie, a cura di G. Barbero, D. Ribotta, Savigliano, L’Artistica editrice 2011, p. 14. 15 Cfr. M. Airaudo, Montoso – 45 anni dopo, Il prezzo della libertà e della pace, Comune di Bagnolo Piemonte, Bagnolo Piemonte (CN), Tip. Serena 1990; F. L. Burdino, Diario Partigiano, Pinerolo, Alzani editore 2005; L. D’Isola, I quaderni nascosti, Cronache di una giovane partigiana, saggio introduttivo di Giovanni De Luna, Torino, Società editrice internazionale 2013. 12
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Con il contributo della Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando “Luoghi della Cultura 2018” (Maggior sostenitore) e il coinvolgimento del Politecnico di Torino, DAD, dal 2018 è stato avviato il progetto “Ter.Re Resistenti”, un’iniziativa culturale per la restituzione della memoria della Resistenza a Barge tra patrimonio materiale e immateriale. 17 J. Le Goff, Storia e memoria, Torino, Einaudi 1982. 18 Cfr. Rapporto Cave. I numeri e gli impatti economici e ambientali delle attività estrattive nel territorio italiano. […], Legambiente, 2017. 19 In una lettera destinata a suo padre, l’Autore scrive di essere «tristemente contrariato dal posto. È piccolo, sporco, disordinato e per niente pittoresco, le montagne intorno sono basse», in J. Ruskin, Letters from the Continent, 1858, a cura di G. Leoni, Torino, Einaudi 1998, pp. 141-142; già in M. Ferrazza, Cattedrali della terra. John Ruskin sulle Alpi, prefazione di Enrico Castelnuovo, Torino, CDA Vivalda Editori 2008, p. 250. 20 Cfr. R. Rudiero, Educare al patrimonio, partecipare alla conservazione. I paesaggi delle eresie tra memorie e identità: dall’esperienza delle comunità di eredità a una rinnovata processualità, tesi di dottorato in Beni architettonici e paesaggistici, Tutor prof. Emanuele Romeo, Politecnico di Torino, 2018. 16
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Poco lontano da questo paesaggio ricco di “storia e memoria”17, il territorio si caratterizza non solo per i luoghi legati alla Resistenza, ma anche per la presenza di numerose cave utilizzate per l’estrazione della pietra locale. In particolare, si possono considerare le località di Montoso e Rucas, appartenenti al comune di Bagnolo Piemonte, dove, ancora oggi, si contano 70 delle 473 cave attive piemontesi18. Abbandonando l’insediamento storico del paese e salendo verso la montagna lungo via delle Cave è infatti evidente come il paesaggio muti notevolmente forma e inizi, poco per volta, a essere caratterizzato da grandi slarghi produttivi, che si insinuano tra le alture: l’azione dell’uomo in questo caso è più che evidente e merita di essere sottolineata per le conseguenze che ha prodotto sulla comunità anche da un punto di vista economico. Nonostante l’interessamento delle amministrazioni del luogo, negli ultimi anni l’imprenditoria locale ha ceduto la leadership del settore a imprenditori stranieri, con la conseguente dissipazione di parte dei saperi e delle tradizioni secolari connesse alla attività estrattiva storica. Considerando inoltre che da queste terre è stata ricavata molta della pietra che compone l’architettura storica della tradizione sabauda (quarzite di Barge, pietra grigia di Luserna, Bagnolo e Rorà) l’organizzazione di eventi culturali, l’istituzione di appositi laboratori didattici e l’integrazione tra lavorazioni autoctone e nuove tecnologie potrebbe rappresentare una opportunità sostenibile per mettere in valore il carattere produttivo dell’area considerata (Fig. 4, 5). All’interno dell’ambito territoriale definito inizialmente, è anche possibile considerare a titolo esemplificativo il caso delle valli Valdesi, Pellice e Chisone, che Ruskin ebbe l’occasione di visitare nel 1858, durante uno dei suoi viaggi19. Nello sviluppo di questo contributo, risulta interessante soffermarsi sull’agire della comunità valdese perché questa si è sempre mostrata attenta alla salvaguardia della propria identità, tutelando sia gli edifici simbolici sia più ampie porzioni di territorio. Inoltre, essa ha sempre promosso il dialogo con le istituzioni civili per fare in modo che la memoria e il signi-
pagina a fronte Fig. 5 Veduta di una cava di Bagnolo negli anni Quaranta del XX secolo, Bagnolo Piemonte (CN) (foto G. Di Francesco, La Pietra di Luserna a Bagnolo Piemonte, Collegno, Roberto Chiaramonte Editore 1999, p. 81). Fig. 6 Falò del 17 febbraio 2018 in Piazza Castello, Torino (TO) (foto Riforma.it).
ficato dei luoghi non si assopissero con il passare del tempo. Risultato emblematico di queste operazioni è la notte del 17 febbraio: una festa popolare originariamente dedicata ai credenti, oggi aperta anche a coloro che riconoscono ai Valdesi un fondamentale ruolo nel conseguimento delle libertà civili con la perseveranza di valori etici e morali20 (Fig. 6).
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M. Teresa Campisi
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Il viaggio in Sicilia di John Ruskin. Natura, Immagine, Storia Maria Teresa Campisi | teresa.campisi@unikore.it Facoltà di Ingegneria ed Architettura Università Kore di Enna
Abstract Ruskin also moves in the tradition of traveling in Italy, undertaking, a lot of travels throughout Italy. In the first, in 1840-41, Ruskin from the Côte d’Azur will land in Liguria, then in Tuscany to arrive in Rome, he will continue to Naples, and rise again from Umbria to Tuscany. In the second, in 1845, in Venice, which he will describe in The Stone of Venice. He will complete a next one in Italy in 1858, and one last, in 1874, in Sicily (Evans, Whithouse 1956-59; Clegg 1986). Travel reports give us the a-systematic spirit of the individual, telling us the ability to make rapid associations, readable through broader references to other places, elements and reflections. The aim is to analyze the relationship between writings and drawings, observations and representation, the choice of the subjects and their associations determining the ability of Ruskin to structure, through associative ways, complex thoughts, such as to relate multiple aspects between history, art and nature. Parole chiave Imagination, nature, associative process, drawings, art history
S. Casiello, R. Picone, John Ruskin ed il mezzogiorno d’Italia, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006, pp. 65-82; G. Bologna, Il viaggio di Ruskin in Sicilia, «Kalos», 2, 2010, pp. 12-15; J. Clegg, Circe and Proserpina: John Ruskin to Joan Severn, ten days in Sicily, «Quaderni del Dipartimento di Linguistica», Università della Calabria, letteratura, 2, 1986, pp. 113-138. 1
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Nel 1874 John Ruskin si recherà in viaggio in Sicilia, tappa intermedia di un viaggio in Italia che avrebbe toccato Roma, Napoli, ed Assisi1. Il viaggio era stato sollecitato da un’allieva di Ruskin, Amy Yale, frequentatrice della Winnington Hall, una scuola di perfezionamento per ragazze, in cui Ruskin aveva più volte tenuto delle lezioni di disegno a partire dal 1859, condividendone i metodi educativi. Egli trascorse solo 10 giorni in Sicilia. A Palermo, dove visitò le tombe normanne e di Federico II nella Cattedrale, la chiesa di S. Giovanni degli Eremiti e la sala delle metope selinuntine al Museo Archeologico; nella vicina Monreale, dove si fermò nella cattedrale; a Taormina, dove visitò l’anfiteatro romano e a Messina dove poté vedere il paesaggio dell’Etna e lo stretto con Scilla e Cariddi. Quello in Sicilia è un viaggio quasi privato, in cui, contrariamente agli altri effettuati, non ha incontri con personalità locali. Interessa del viaggio, comprendere più i meccanismi di evocazione dei luoghi, il rapporto conoscitivo di questi attraverso il disegno, l’attenzione al paesaggio e agli elementi naturali, e i meccanismi associativi fra diversi elementi, che definiscono il pensiero di Ruskin. Alcuni appunti del viaggio siciliano, evidenziano molti di tali caratteri, riconducibili al metodo ruskiniano.
L’approccio conoscitivo è esercitato attraverso la conoscenza visiva, come esperienza sensoriale. Racconto e immagini costruiscono una narrazione evocativa, tesa a produrre coinvolgimento emozionale e immaginativo-conoscitiva nel lettore2. La conoscenza dell’arte, è infatti, per Ruskin, esperita attraverso la capacità dell’osservazione della realtà. Ma soprattutto l’azione dell’osservazione diretta è possibilità di conoscenza non mediata. Il disegno è ‘espressione pittorica del pensiero’3. La complessità delle conoscenze e/o degli interessi di Ruskin, da molti critici italiani a lui coevi, interpretate come disordine, divagazione, assenza di struttura logica stringente4, possono essere invece, all’opposto, considerate come un tentativo di costruire una sintesi più ampia, fra natura e storia, immagine e significato, morale e bellezza, opposta al riduzionismo e settorialismo scientifico. L’arte e la sua conoscenza, esperita attraverso il disegno, ossia attraverso la sperimentazione diretta della rappresentazione, diviene strumento democratico di elevazione umana, capacità di comprensione della bellezza, consapevolezza umana del mondo: Ma se tu vuoi imparare il disegno in guisa da poter rendere con chiarezza ed utilità le immagini di quelle cose che non si potrebbero descrivere soltanto con le parole, e ciò sia per aiutare la memoria nel ricordo di esse, sia per parteciparne agli altri l’idea netta; se desideri acquistare una percezione più viva delle bellezze della natura, e conservare come l’immagine fedele delle cose belle e fuggitive o che tu sei costretto ad abbandonare; se, ancora, tu vuoi penetrare nello spirito dei grandi pittori e riuscire ad apprezzar le opere loro sinceramente, scoprendone le bellezze con tuoi propri occhi ed amandole, senza accontentarti di giudicarle col pensiero degli altri5.
Quale forma di conoscenza, il disegno deve catturare la parte resistente, la struttura, degli elementi in movimento: Cerca sempre, ogni volta che stai osservando una forma, di trovarne le linee che possono aver influito sul suo passato e che potranno influire sul suo futuro. Quelle sono le sue linee fatali6.
Tale metodo richiama le teorie empiriste derivanti dal pensiero di Locke, come i lavori di Archibald Alison (Essays on the Nature and Principles of Taste, 1790-1811), o il pensiero di Joseph Addison (Taste and the pleasure of imagination, 1834); o la definizione del sublime di Edmund Burke (A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful 1757), o dalle posizioni, di derivazione neoplatonica del conte di Shaftesbury, di unione di estetica e morale7. Del pensiero estetico del contesto britannico, Ruskin recepisce quindi alcuni aspetti, non rinunciando tuttavia alla possibilità della costruzione di un’estetica che non releghi la percezione del bello ad un’esperienza soggettiva. Egli infatti, nonostante le evidenti relazioni con le teorie derivanti dall’empirismo e dall’estetica anglosassone tardo-settecentesca, tenta di costruire, pur all’interno di un processo induttivo, una teoria estetica dell’arte capace di operare una sintesi fra estetica, morale e religione. L’elemento evocativo è esperito da Ruskin attraverso un uso combinato della descrizione verbale, ossia del racconto complementare dell’esperienza e della evidenza grafica dell’esperienza visiva attraverso la veridicità del disegno. Nel viaggio in Sicilia, durante la visita a Monreale raccoglie un «piccolo iris blu, selvaggio…, a mezzo miglio dai mosaici greci che lo rappresentano», che rievoca in lui sia il mare visibile da Palermo e il mare «color viola di Omero», coincidente ancora, secondo lui, con il creduto crocus viola, rappresentato dai Greci, e ritrovato nelle rappresentazioni dello scettro di Trittolemo nelle figure dei vasi attici, nei mosaici bizantini, nel-
2 G. Leoni, Models of artistic and architectural creativity in the works of John Ruskin, «Archistor», V, 2018, 10, pp. 93-127. 3 J. Ruskin, Gli elementi del disegno, trad. it. di M. G. Bellone, Milano, Adelphi ebook 2014, p. 10. 4 Per una sintesi delle valutazioni critiche della teoria estetica di Ruskin in ambito italiano cfr. P. D’angelo, La presenza di Ruskin nell’estetica italiana, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006, pp. 109-118. 5 J. Ruskin, Gli elementi del disegno… cit., p. 16. 6 Idem, p. 59. 7 Cfr. C. J. Baljon, Interpreting Ruskin: The argument of the Seven Lamps of Architecture and the Stones of Venice, «The journal of aestethics and art criticism», vol. 55, a. 4, 1997, pp. 401-414; C. Brooks, Signs for the Times, Symbolic Realism in the Mid-Victorian World, vol. 4, London e New York, Routledge 20162; G. Dickie, The century of taste: The philosophical odyssey of taste in the Eighteenth, New York,Oxford University Press 1996; G. P. Landow, Aesthetic and Critical Theory of John Ruskin, Princeton, Princeton University press 1971.
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Fig. 1 J. Ruskin, Study of Lions on the Tomb of Frederick II at Palermo. Da collezione Ruskin, Ashmolean Museum, WA.RS.WS.I.49.a.
8 «…, I think I shall be able to show that Homer’s sea colour is derived from the iris, and not from the violet; and this the more that in those precious early Cypriot sculptures the crowns are definitely olive, ivy, and narcissus, but never violet; and in all Byzantine mosaics the iris is used constantly, but the violet never. I gathered my first wild iris on the hill under Monreale; and, a quarter of an hour afterwards, showed it to my companion in the mosaic border of the arches of the Duomo». The Letters of John Ruskin (1827-1889), in E. T. Cook, A. Wedderburn, XXXVI-XXXVII, 1909, p. 100. 9 Il testo è a commento del disegno di Iris della collezione dell’Ashmoleum
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le tarsie marmoree del Duomo di Monreale a Palermo8 e divenuto poi il Fleur de lys simbolo di Firenze. Nel testo a calce di un suo disegno di Iris, commenterà, infatti: I have myself no doubt, though I would not venture yet to ask you to accept my belief, that the iris, not the violet, is the true ίον of Greece; the ίον of Pindar at the infancy of Iamus is the yellow water-flag; and it is the splendid purple of the dark iris, which gives rise to all the expressions respecting the purple of the sea, or of shadows. Note further the relation of Ion himself to the dew, under the rocks of the Acropolis, and to the Earth, throughout the whole drama of Euripides. Triptolemus also, when he is the spirit of Agriculture generally, bears a rod in his hand with the fleurde-lys for its top; and that Greek form of it is the real origin of the conventional types of the Byzantine, Florentine, and French one. I give it to Cora, therefore, rather than the violet and narcissus: and in its pure white Florentine type, (the red fleur-de-lys is given, from the tower of Giotto, further on in the series), it being quite the most lovely expression among plants of the floral power hidden in the grass, and bursting into luxuriance in the spring9.
Colori e forme che congiungono luoghi ed epoche storiche diverse, tradizioni letterarie, natura, ed elementi formali dell’arte, in un sistema di relazioni iconologiche. In questo senso la storia dell’architettura è una storia di relazioni e scambi fra diverse culture e generazioni umane nel tempo. I caratteri principali della storia dell’Italia meridionale, ad esempio, sono rappresentati per Ruskin dall’unione di due temi: il greco (cosiddetto improprio, nella componente bizantina) e la tradizione araba, di cui è esemplificativa la tomba di Federico II, da lui visitata e raffigurata (figg. 1, 2): Then, secondly, the two strands of Southern work are Greek and Arabian. I will detain you from our main subject to-day only by pointing out not a separating, but a common characteristic infallibly distinguishing them from Northern work. Here is the last example I can show you of pure Greek work in Europe, the Emperor Frederick II.’s tomb at Palermo; … is work which though properly Byzantine or impure Greek, is impure by the admixture of the Arabian character, which therefore we can at once distinguish10.
Fig. 2 J. Ruskin, Detail of S. Giovanni Eremita, Palermo. Princeton University. Art Museum. Fig. 3 J. Ruskin, Tomb of Emperor Frederick II in Palermo. Da J. Ruskin, The schools of Florence, in E. T. Cook, A. Wedderburn (a cura di), The Works of John Ruskin, XXXIII, George Allen, London; Longmans, Green, and Co, New York, 1908a. Fig. 4 J. Ruskin, Study for General Chiaroscuro of the Sarcophagus and Canopy of the Tomb of Mastino II della Scala at Verona. Da collezione Ruskin, Ashmolean Museum, WA.RS.REF.058.
Museum. Per il riferimento <http://ruskin.ashmolean. org/collection/8990/9166/9213/13818 >[10.05.2019]. 10 The æsthetic and mathematic schools of art in Florence, in E. T. Cook, A. Wedderburn, XXIII,1906, p. 189.
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Idem, p. 190. J. Ruskin, La natura del gotico, trad. it. del testo inglese, curatela di M. Crippa, Milano, Jaca book 19972, p. 124 e fig. 8a-e. 13 J. Ruskin, The pleasure of England. The pleasure of deed, lecture III (1884), in The Works of John Ruskin, XXXIII, a cura di E. T. Cook, A. Wedderburn, London, George Allen; New York, Longmans, Green, and Co 1908a, p. 477. 14 J. Ruskin, The æsthetic and mathematic schools of art in Florence. Arnolfo, Lecture I (1874), in The Works of John Ruskin, XXXIII, a cura di E. T. Cook, A. Wedderburn, George Allen, London; Longmans, Green, and Co, New York 1906, p. 189. 15 J. Ruskin, La natura del gotico… cit., p. 122. 16 E. T. Cook, A. Wedderburn, Introduction, in The Works of John Ruskin, XXIII, a cura di E. T. Cook, A. Wedderburn, George Allen, London; Longmans, Green, and Co, New York 1906, p. xxxv. 17 J. Ruskin, The æsthetic and mathematic schools… cit., p. 192. 18 J. Ruskin, La natura del gotico… cit., p. 124. 19 R. Di Stefano, John Ruskin. Interprete dell’architettura e del restauro, Napoli, ESI 1969; N. Pevsner, Ruskin 11
La visione del sarcofago di Federico II, di cui rimangono alcuni schizzi, gli suggerisce l’accostamento, dell’elemento orrorifico della testa di Gorgone di derivazione greca e del leone, (a sostegno di alcune tombe normanne) tanto da paragonarne le immagini, come elementi di analoga derivazione: [The] Pure Greek [example shows] entablature, pediment, all severe, and the monsters supporting the sarcophagus, directly and accurately derived from the Attic Gorgon, and decoration restricted to sculpture and mouldings. [The] Arabian [example shows] a bending arch, an entire denial of the severe structural laws of pediment and architrave and external application of fantastic or arabesque colour decoration, with windows of trellis work, leading, as you will find, to the earliest forms of Gothic tracery.11
Così come elementi greci confluivano in alcune forme normanne da essi influenzate, contaminandone il linguaggio, così anche altre morfologie, come le tombe a baldacchino di epoca normanna, trapassano negli analoghi modelli di linguaggio gotico delle tombe veronesi (figg. 3, 4), secondo lo schema del passaggio fra l’elemento triangolare del timpano classico all’arco polilobato già descritto nella ‘natura del gotico’ nel 184112:
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In 1874, I went to see … the tombs of the Norman Kings at Palermo; surprised, as you may imagine, to find that there wasn’t a stroke nor a notion of Norman work in them. They are, every atom, done by Greeks, and are as pure Greek as the temple of Ægina; but more rich and refined. I drew with accurate care, and with measured profile of every moulding, the (afterwards Frederick II. was laid in its dark porphyry). And it is a perfect type of the Greek-Christian form of tomb—temple over sarcophagus, in which the pediments rise gradually, as time goes on, into acute angles—get pierced in the gable with foils, and their sculptures thrown outside on their flanks, and become at last in the fourteenth century, the tombs of Verona13.
Nel delineare una periodizzazione della storia dell’arte, individua quattro matrici dell’arte primitiva (riferita al periodo del 1200), prodromi dell’arte cristiana gotica del 1300: l’arte normanna e lombarda, propria del settentrione; l’arte greca (bizantina) e l’araba propria del meridione: «All the four groups of 1200 have essentially either round arched or low gabled architecture. The Arabian indeed has curves and points and minarets, but enforces the dome as the central type of grand construction»14. L’architettura normanna con influenze arabe sarà definita come una componente del gotico, di area meridionale, perché «ha molte forme gotiche (archi acuti, volte, etc..), ma nello spirito rimane»15 bizantina. La componente araba e normanna, così diffusa nel paesaggio meridionale italiano, è tuttavia per lui una nuova scoperta, come risulta dalle lettere scritte durante il soggiorno a Taormina nel 1874: Fancy, since yesterday morning at five o’clock, I have seen Charybdis, the rock of Scylla, the straits of Messina, Messina itself, now the second city in Sicily, the whole classical range of Panormus on one side, Calabria on the other, and a line of coast unequalled in luxuriance of beauty; every crag of it crested with Moorish or Saracenic or Norman architecture wholly new to me16.
L’importanza dell’arte gotica cristiana settentrionale non consiste, per Ruskin, nel «most telling and characteristic feature … the mere building a pointed for a round arch, but piercing the windowless cavern of the apse into a semicircle of shafted windows – one glow of coloured light»17. Il valore dell’arte gotica non è quindi legato al giudizio rappresentato da una finalistica evoluzione tecnologica, quanto dalla trasformazione dell’architettura scura, caver-
nosa, del periodo pre-gotico, in uno spazio quasi naturale, composto dai fasci dei fusti delle finestre, inondato dalla luce colorata delle vetrate, paradigma della rappresentazione del creato. La caratteristica principale dell’architettura gotica, ossia l’arco acuto, per lui, «non è nata da un …processo razionale, né dall’obbedienza delle leggi costruttive: è semplicemente la particolare applicazione all’arco del grande sistema ornamentale di decorazione vegetale, ossia l’adattamento delle forme del fogliame, …principale caratteristica del naturalismo»18. Il gotico nordico diventa così paradigma della sintesi fra religione, natura, e opera collettiva dell’uomo, più che simbolo dell’evoluzione architettonica e prodromo del linguaggio funzionalista come in Viollet le Duc19. È evidente come a Ruskin non interessi stabilire una gerarchia stilistica fra le architetture del passato, quanto ribadire che l’architettura debba rappresentare l’unità di verità e morale. Essere insieme rivolta a valori spirituali ed estetici nella rappresentazione e conoscenza, e morale nelle forme di produzione. Se l’osservazione del mondo naturale è forma di conoscenza e successiva elaborazione espressivo-conoscitiva della realtà, il rapporto con lo spazio naturale assume anche il valore del rapporto fra l’uo-
Fig. 5 Sunrise on Etna. Vista dell’Etna, all’alba, da Taormina
and Viollet-le-Duc: Englishness and Frenchness in the appreciation of Gothic architecture, London, Thames and Hudson 1969; D. Spurr, Ruskin and Viollet-le-Duc: figures of ruin and restoration, in Chora 5: interval in the philosophy of architecture, a cura di A. Perez Gomez, S. Parcell, Montreal, McGill-Queens University Press 2007, pp. 532-571.
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J. Ruskin, The Letters of John Ruskin (1827-1889), in The Works of John Ruskin, XXXVI-XXXVII, a cura di E. T. Cook, A. Wedderburn, London, George Allen; New York, Longmans, Green, and Co 1909, pp. 94-95. 21 J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, trad. it. del testo inglese, curatela di M. Crippa, Milano, Jaca book 19974, p. 218. 22 J. Ruskin, Final Lectures at Oxford. A Lecture on landscape. Lecture III (1884), in The Works of John Ruskin, XXXIII, a cura di E. T. Cook, A. Wedderburn, London, George Allen; New York, Longmans, Green, and Co 1908b, p. 535. 23 J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p. 230. 24 L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del novecento, a cura di D. Lamberini, Nardini, Firenze 2006; A. Grimoldi, John Ruskin nella cultura tedesca fra Otto e Novecento, «ANANKE», n. s., 86, 2019, pp. 9-13. 20
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mo e l’opera potente della natura, in parte secondo le definizioni della sublimità, come sintesi fra l’infinità dell’elemento naturale della storia umana stratificata, assimilata al primo: […] But my place this morning was the same quiet campo. I told you of the wind and the sea were from the north, …; but the smoke of Etna was drifting in one soft horizontal bar, twenty miles long, eastward from the summit. I know the distance within a mile or two, for Etna summit is ten miles from the shore, and the smoke was like this [sketch] drifted another ten miles out over the sea. But where it rose from the crater, it was in close, pure, thunderous masses of white, which took the rose of sunrise exactly as a thunder-cloud would, a white one, while the rest of the mountain was still dark on the sky; and on the opposite side, the sun rose so as to shine exactly through one of the arches of the Greek theatre, so that on one hand there came Etna in full flush of sunrise on the other, a Greek building standing up against the light, and the Apolline beams piercing it as if with Apollo’s own presence a glory as of a statue of fire beneath the arch20.
La descrizione dell’Etna visto da Taormina, all’alba (fig. 5), sembra realizzare la sintesi fra l’opera pittorica della natura (i colori che descrivono la profondità dell’Etna, il fumo bianco del vulcano e insieme la rovina del teatro romano, in una sintesi ideale) e della rovina antica, accomunate della stessa bellezza della sublimità. In questo senso nella lampada della memoria l’assimilazione alla natura delle opere dell’uomo, che per lo stato di antichità sono a questa accomunate, definiscono una dimensione della bellezza nella categoria del pittoresco, che Ruskin declina quale sublimità parassitaria. Una dimensione di bellezza di potenza superiore, travalicante il tempo contingente tanto da divenire nuova seconda ‘natura’. Tale architettura non è più appartenente alla singola generazione di uomini del presente, quanto piuttosto memoria, travalicante la temporaneità storica del momento, delle molte generazioni di uomini che hanno costruito quelle forme in una temporalità storica paragonabile al tempo geologico di produzione degli elementi naturali. La responsabilità della cura delle opere dell’antichità da parte delle successive generazioni, la necessità del mantenimento di quei caratteri, che ne definiscono la condizione di sublimità, diventano difesa della verità di un modo di costruire e rappresentare l’architettura, costituente un’eredità di riflessione e testimonianza dell’autenticamente spirituale condizione umana. L’analogo rapporto di Ruskin con il paesaggio è quasi precorritore dei moderni concetti di sostenibilità ambientale, nel dichiarare che «la terra l’abbiamo ricevuta in consegna, non è un nostro possesso». E ogni persona ha la responsabilità morale di mantenerne le risorse «per quelli che devono venire dopo di noi…e noi non abbiamo alcun diritto…, di privarli dei vantaggi che era in nostro potere di lasciar loro in eredità»21. Ma il paesaggio incarna per Ruskin altri aspetti: la generazione dell’empatia verso le persone che vivono nei paesi che si visitano; la sua storicità come luogo della memoria dei predecessori, «Its whole force, consists in a dreamy and meditative sense that men were once living there, and that spirits are still moving there –that it was full of traces of the valour of our ancestors»22. Ruskin unisce alla dimensione dell’eternità di un creato, che si pone come opera divina, di carattere oggettivo e metastorico, la significatività e il richiamo ai valori spirituali dell’uomo, contro la frenesia costituita dal «febbrile fervore senza sosta della loro vita»23, contro l’individualismo e la mercificazione capitalistica del lavoro umano, condizionati da una temporaneità immemore e incosciente. Fra le molteplici sollecitazioni alla riflessione che l’operato e il pensiero di Ruskin ha fornito in ogni parte d’Europa24, alcune possono costituire riflessioni utili nell’epoca contemporanea.
In questo senso l’operato di Ruskin ha influenzato la disciplina della conservazione nella necessità di una conoscenza fisica e diretta dell’opera; nell’importanza della condivisione e comunicazione del patrimonio, quale strumento di educazione; nell’idea del patrimonio come opera collettiva di comunità del passato e quindi bene comune da preservare nella massimizzazione dell’autenticità documentale; nel rapporto integrato fra architettura e paesaggio, come rispetto per le qualità estetiche e storiche del contesto; ma soprattutto l’invito alla responsabilità della salvaguardia che ogni singola persona umana del proprio tempo dovrebbe avere verso valori spirituali e collettivi comuni e sovratemporali, come la solidarietà sociale, il rispetto del contesto naturale, la conservazione del patrimonio di memoria. Un impegno che, parafrasando Ruskin «have nothing to do with its possibility, but only with its indispensability»25.
J. Ruskin, The Letters of John Ruskin… cit., p. 537; G. Carbonara, L’eredità smarrita di John Ruskin, «ANANKE», n. s., 86, 2019, pp. 6-8. 25
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Verona, and its rivers. Il paesaggio di Ruskin e la sua tutela Marco Cofani | marco.cofani-01@beniculturali.it Silvia Dandria | silvia.dandria@beniculturali.it Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza (MIBAC)
Abstract «Now, understand that you are seated upon this mountain promontory, which at its base has been the beginning of lovely building, and at its extremity the beginning of accurate science. I want you to look out from it again upon the landscape at its feet»1. With these words John Ruskin introduces the reader into an immersive description of the city of Verona and its territory, enriched by his drawings and watercolors. A territory, that of Verona, shaped by the Adige river, from the wide plain and Lake Garda up to the foothill arch with the alpine crown in the background. These are meaningful observations, so far little investigated, written during his many stays in Verona. Through long walks far beyond the historic center, Ruskin describes the values and the distinctive components of the Verona landscape. A century later, between 1950 and 1970 and after the post-war reconstruction, the same landscape areas will be at the center of the safeguard action by the Soprintendenza ai Monumenti di Verona, in an attempt to preserve, through the new landscape bonds, the face of the city and the territory from an uncontrolled development. Parole chiave Verona, Adige, Garda, Paesaggio, Soprintendenza, Tutela
J. Ruskin, Lettere da Verona: alla madre e alla cugina Joan, 1869, a cura di G. Sandrini, Verona, Alba Pratalia 2013, p. 130. 2 Titolo della conferenza che Ruskin tenne alla Royal Institution di Londra il 4 febbraio 1870, poi raccolto nel volume Verona and other lectures, New York e London, Macmillan and co. 1894. 1
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Durante i suoi soggiorni veronesi, John Ruskin racconta spesso alla madre che soleva concludere le sue intense giornate di studio dei monumenti cittadini con piacevoli gite in carrozza sulle colline a nord della città o verso il Lago di Garda. Nella summa di queste passeggiate, che è la lecture “Verona and its rivers”2, egli trova una roccia ideale su cui sedersi e abbracciare con lo sguardo la città e il suo territorio, sino comprendere in un unico quadro il vasto paesaggio veronese. L’occhio sorvola le mura cittadine e i vicini rilievi per risalire verso i profili montani, toccare le rive del Garda e poi seguire la discesa del fiume Adige, ritornando verso la pianura che si apre ai piedi di Verona. In poche pagine, con brevi ma pregnanti descrizioni, Ruskin intesse magistralmente le componenti distintive del paesaggio, in uno sguardo che sa leggere l’impronta dell’uomo nelle colture di viti e ulivi e nella costruzione del sistema fortificatorio – che modella la collina alimentandosi della sua stessa roccia – unita alla storia geologica dei variegati marmi veronesi, alla morfologia fisica dell’ambiente prealpino e
Fig. 1 F. Naymiller, Provincia di Verona, 1868 ca., Milano, Vallardi editore. In verde, alcuni dei luoghi frequentati da Ruskin.
alla presenza dell’acqua nei riflessi del lago e del fiume. «All this she [Verona] possesses, in the mist of natural scenery such assuredly exists nowhere else in the habitable globe»3. Per la profondità delle sue descrizioni, non sembra inopportuno identificare in Ruskin il primo riconoscitore del paesaggio atesino inteso, in chiave contemporanea, anche come bene complesso da tutelare: Eugenio Turri ne parla come «il vero scopritore del fascino topografico di Verona […] In ciò è modernissimo: è un uomo del nostro tempo grazie alla capacità di cogliere il respiro storico e geografico della città»4. In questo senso, come spiega Amedeo Bellini, la citazione crociana del suo pensiero è estremamente riduttiva, proprio perché il suo contributo alla difesa del paesaggio non si limita a contrastare la meccanizzazione e lo sviluppo industriale, ma si distingue nella capacità di identificare i valori del paesaggio «che documentano la singolarità di un luogo»5. La lettura di Verona, città amatissima, è un esempio indicativo di come Ruskin colga, e rapporti tra loro, le componenti naturali e antropiche del territorio in una visione ampia e composita che si potrà ritrovare in ambito italiano solo molto tempo dopo, durante le riflessioni sul concetto di paesaggio che accompagneranno la stesura delle Legge 1497/1939 per la Protezione delle bellezze naturali, e il suo regolamento. In quel dibattito, che vede tra gli altri protagonisti Marino Lazzari e Gustavo Giovannoni, si rileva la necessità di ampliare su scala territoriale la tutela del paesaggio, leggendone il legame con l’opera dell’uomo attraverso strumenti pianificatori attivi che regolamentino i processi di trasformazione; per sintetizzare con le parole di Giorgio Rosi, il paesaggio viene inteso come opera collettiva in divenire, in cui le bellezze di insieme costituiscono il tessuto connettivo del paesaggio da conservare6. Una grande compo-
J. Ruskin, Lettere da Verona… cit. p.118. 4 E. Turri, L’immagine di Verona nelle guide turistiche, in Medioevo ideale e Medioevo reale nella cultura urbana: Antonio Avena e la Verona del primo Novecento, a cura di P. Marini, Verona, Cierre grafica 2003, pp. 267-268. 5 A. Bellini, Riflessioni sull’attualità di Ruskin, «Restauro», 71-72, 1984, pp. 63-84; S. Casiello R. Picone, John Ruskin e il Mezzogiorno d’Italia, in L’ eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006, p.76. 6 Ci si riferisce ai contenuti della relazione stesa dalla Commissione legislativa nel 1938 per il Ministro Bottai e al testo di G. Rosi, Urbanistica del paesaggio, «Le Arti», a.IV fasc II, dicgen, 1942. 3
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7 Sulla fortuna critica di Ruskin nell’ambito del restauro S. Casiello R. Picone, John Ruskin e il Mezzogiorno d’Italia… cit., pp. 65-82. 8 G. B. Stegagno, La difesa delle bellezze naturali in Verona e provincia e Giovanni Ruskin, «Madonna Verona», n. 51/52, 1919, pp. 37-61 e pp.135-144. 9 Si deve precisare che dopo gli anni Sessanta seguirà un secondo lungo periodo di silenzio nel panorama veronese fino agli studi di Giuseppe Sandrini: J. Ruskin, Lettere da Verona… cit. e G. Sandrini, Per la Verona di Ruskin. Nuove testimonianze dalla Morgan Library, «Verona illustrata: rivista del Museo di Castelvecchio», Verona, fasc. 29, 2016, pp. 103-111. 10 Diario del 3 e 4 giugno 1869 e lettera alla madre del 5 giugno. In J. Ruskin, Lettere da Verona… cit., pp. 34-35. 11 Diario del 10 giugno 1869. In J. Ruskin, Lettere da Verona… cit., p. 42. 12 Conservati al British Museum di Londra, sono riprodotti in J. Ruskin, Lettere da Verona… cit., 4a, 4b. 13 Lettera a Georgiana del 21 maggio 1869. In J. Ruskin, Lettere da Verona… cit., pp. 20-21.
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sizione quindi, come quella che descrive Ruskin, che tuttavia verrà pienamente compresa solo negli anni Sessanta del Novecento7. In precedenza, nel periodo 1914-1922 che condurrà all’approvazione della prima legge di tutela delle bellezze paesaggistiche (Legge “Croce” n. 778/1922), su impulso del Comitato nazionale per la difesa del paesaggio e dei monumenti italici prendono avvio le attività delle sezioni provinciali finalizzate alla compilazione degli inventari delle bellezze a livello territoriale: in tale frangente, a Verona, la lezione ruskiniana fu colta solo in parte, come una delle tante riflessioni all’interno del panorama internazionale. Infatti l’avvocato Stegagno, presidente della sezione locale del Comitato, pubblicò nel 1919 un primo resoconto sullo stato dell’arte in materia di paesaggio con evidenti riferimenti alle iniziative legislative del mondo franco-tedesco, dedicando a Ruskin un veloce cenno in nota senza prendere a riferimento i suoi scritti veronesi per approntare la campagna di difesa delle “bellezze naturali” locali. Un mancato riconoscimento, evidente anche in un secondo articolo dello stesso autore, che celebra la figura dell’inglese nel centenario della sua nascita: pur ricordando, in questo caso, lo sguardo appassionato di Ruskin su Verona, esso è ricondotto sostanzialmente alla sola “ammirazione del bello e del buono”, quindi in chiave pittoresca e spirituale8. Il testo Verona and its rivers non viene letto e diffuso in città per tutta la prima metà del secolo; lo si traduce molto più tardi, nel 1966, quando un filo rosso comincia a intessere una serie di assonanze tra le pregnanti descrizioni del nostro e i temi, i luoghi e i valori dell’azione legislativa messa in atto dalla Soprintendenza ai Monumenti di Verona nel secondo dopoguerra, in particolare dagli anni ‘50 ai ’70 del Novecento, in relazione allo sviluppo economico-edilizio della città e del suo territorio9. Il territorio veronese Volgendo in primis l’attenzione al territorio veronese, appare necessario innanzitutto provare a tracciare una sintetica mappa dei luoghi visitati e descritti da Ruskin nelle sue frequenti escursioni oltre le mura urbane, sinora mai puntualmente indagati. A nord-est di Verona, è la vicina zona di Montorio e della stretta val Squaranto a colpirlo particolarmente, per i suoi precipizi rocciosi e i fitti boschi di castagni. «Their rocks are of the marble of which Verona is built»10 scrive Ruskin. Le stesse rocce, peraltro, di cui è costruito il castello di Montorio, fra i più antichi fortilizi veronesi e sicuramente punto di sosta dell’inglese, sulla cima di una delle propaggini collinari che più si spingono all’interno della grande pianura. I tragitti preferiti da Ruskin, però, sono forse quelli diretti all’ovest, seguendo il calare del sole e, almeno inizialmente, il corso del fiume Adige e le strade prossime alle sue sponde. In riva sinistra, superato l’abitato di Parona, i percorsi permettono a Ruskin di salire sulle prime colline verso Negrar o di raggiunge la zona più a ovest della Valpolicella, presso Sant’Ambrogio, a lui molto cara in quanto dalle sue alture non solo proviene il calcare rosso ammonitico della migliore qualità – quello utilizzato per l’Arena, le Arche Scaligere e le chiese gotiche della città – ma è anche possibile abbracciare con un solo sguardo un paesaggio straordinariamente ricco e complesso. Dalle alture sopra Sant’Ambrogio, Ruskin ammira a sud e a ovest la stony bank11 che segue la “curva” dell’Adige, da Cavaion a Bussolengo, ritratta anche in due suoi magnifici schizzi12. Sullo sfondo, a ovest, «some blue mountains beyond the Lago di Garda, […] they were of a blue exactly like the blue of paint, or of the bloom of a plum»13; a est la Valpolicella e le «loveliest soft mountains I ever saw, undulating themselves like folds of the fairest
purple drapery»14, che incorniciano la città turrita paragonata ad una «fleet of ships on far off sea»15, dove il mare sul retro è rappresentato dalle montagne verdi-azzurre della Lessinia; a sud, infine, l’aperta ed erbosa pianura, «covered with vines and cypresses»16. In riva destra, raggiunta Bussolengo, la strada piega a nord-ovest e lo conduce dapprima a Pastrengo e poi verso il Lago di Garda, nelle profumate colline tra Calmasino e Cavaion, sin forse a raggiungere i borghi lacustri di Lazise, Cisano, Bardolino e Garda. È da queste colline che Ruskin scrive di aver avuto the loveliest view last night of all yet. The weather is setting, and I had a calm sunset over the lago di Garda, its purple mountains relieved against its silver shield – all seen from the sweetest bank of balmy thyme and grass – in a garden of vines17.
Tornando lungo l’Adige e proseguendo a nord, in riva sinistra, la strada conduce finalmente Ruskin alla Chiusa di Ceraino, «the great gate out of Germany into Italy»18. Una porta che, come nelle cattedrali, è preceduta verso l’Italia da un porch, un protiro o forse un portico, rappresentato dalla valle dell’Adige e da quelle della Valpolicella. È questa la descrizione che, forse più di ogni altra, condensa in un’immagine il significato più profondo del paesaggio veronese, in cui Ruskin vede un’armoniosa fusione di valori storici, culturali, naturali e religiosi. È questo, per l’inglese, il punto di contatto tra due mondi, il nord e il sud Europa, ma anche tra due culture, anglosassone e latina, tra due ambiti geografici, montagna e pianura, e forse tra due fedi, cattolicesimo e protestantesimo. Di fronte alla potenza, all’espressività e all’estensione del paesaggio che osserva, tuttavia, ogni divisione e
Fig. 2 A. Guedson, Veduta di Verona a volo d’uccello, 1849 ca.,Verona, collezione privata.
Diario del 9 giungo 1869 e lettera alla madre del 10 giugno. In J. Ruskin, Lettere da Verona… cit., pp. 42-43. 15 Id. 16 Lettera a Georgiana del 21 maggio 1869. In J. Ruskin, Lettere da Verona… cit., pp. 20-21. 17 Diario del 24 giungo 1869 e lettera alla madre del 25 giugno. Lettere da Verona… cit., pp. 66-67. 18 Da Verona and its rivers, in J. Ruskin, Lettere da Verona… cit., pp. 128-129. 14
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ogni contrasto perdono di senso, trovandosi in una continua transizione di luoghi, costruiti e non, materiali e colori strettamente legati gli uni agli altri, diversi ma concatenati. Per Ruskin, il paesaggio veronese è quindi il depositario di una profonda lezione etica che forse solo l’arte, nei suoi più riusciti esempi, ha saputo tenere con altrettanta efficacia. In questo arte e paesaggio paiono unirsi, in un messaggio comune diretto all’uomo contemporaneo. Il tentativo proposto quasi cent’anni dopo dalla Soprintendenza ai Monumenti di Verona per proteggere quello stesso paesaggio dall’incessante avanzata della speculazione e dell’industrializzazione ha molto in comune con il messaggio di Ruskin. Nel documento che, alla fine degli anni ’60, elenca i criteri dettati dal Soprintendente Piero Gazzola per la redazione di un Piano territoriale paesistico del Lago di Garda, si legge che il paesaggio non poteva più essere ancorato al concetto statico di “bellezza naturale” o di “veduta panoramica”, ma doveva essere inteso globalmente, come ambiente in cui si svolge la vita dell’uomo e dal quale quindi risulta in definitiva condizionato. Ne conseguiva la consapevolezza della necessità di considerare il paesaggio in modo più completo e integrale, indagandone cioè i valori non solo estetici ma anche culturali e scientifici19.
Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza (Sabap Vr), Archivio vincoli paesaggistici, fasc. 43. 20 Sabap Vr. Archivio vincoli paesaggistici, fasc. 73. Estratto dal D. M. 2 marzo 1953. 21 Comuni di Sant’Ambrogio, Fumane, Marano, San Pietro in Cariano, Negrar e Sant’Anna d’Alfaedo. 22 Estratto dal D. M. 23 maggio 1957. 23 Nella lettera alla madre del 21 maggio 1869, Ruskin scrive: «I had a sunset last night which convinced me that after all, there is nothing so picture-like as the color of Italian landscape». In J. Ruskin, Lettere da Verona… cit., pp. 20-21. 19
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Una visione moderna e corale del paesaggio, quindi, inteso come bene culturale complesso soggetto ai mutamenti scanditi dalla comunità che lo vive e lo abita. L’avvicinamento al concetto di paesaggio culturale, in senso estensivo e inclusivo, da parte dell’ente di tutela non è comunque immediato: all’inizio degli anni ’50, i primi provvedimenti di vincolo riguardano infatti immobili puntiformi o aree di limitata estensione, quali i principali iconemi del territorio, i belvederi e le aree a più alto rischio speculativo. Fra i primi vanno citati il bosco della Rocca di Garda, nel 1952, e la vasta area della Chiusa dell’Adige, nel 1953, la cui descrizione risulta assai meno evocativa di quella offerta da Ruskin, limitandosi ad affermare il «grande effetto paesistico»20 della zona. Fra le seconde, la costa del lago, compresa tra la riva e una stretta fascia di 100 metri a est della strada gardesana, da Peschiera a Malcesine, che è oggetto di una serie coordinata di provvedimenti di tutela fra il 1952 e il 1956. È invece del 1957 il vincolo per la vastissima zona della Valpolicella21 che, «oltre a formare un quadro naturale di non comune bellezza panoramica, […] costituisce un insieme di grande valore estetico e tradizionale per la spontanea fusione dell’opera della natura con quella dell’uomo»22. Terminata questa prima fase, all’inizio degli anni ’60 se ne inaugura una seconda, in cui la Soprintendenza, per orientare le grandi trasformazioni in corso sui territori, tenta di far leva sia sull’estensione dei vincoli precedenti, sia soprattutto sulla pianificazione territoriale concertata con le amministrazioni comunali. È in questo momento che matura un’azione di tutela più aderente alla visione ruskiniana del paesaggio: nel territorio della provincia a ricevere le maggiori “attenzioni”, in questo periodo, da parte della Soprintendenza sono i versanti collinari e montani dell’entroterra gardesano, la cui tutela è imposta per salvaguardare sia le vedute panoramiche complessive sia gli antichi insediamenti e le coltivazioni tradizionali dell’ulivo e della vite. A ben vedere, si tratta degli stessi territori e delle stesse dolci colline da cui Ruskin soleva affacciarsi per godere dei meravigliosi tramonti gardesani23, nonché degli stessi elementi distintivi e identitari di quel paesaggio da egli indicati un secolo prima.
Fig. 3 Daily Telegraph and Morning Post, edizione del 5/1/1963. Articolo di T. Mullaly. Fig. 4 Mappa di Verona con evidenziate le aree del vincolo paesaggistico sul centro storico (1966), del primo vincolo collina (1956, in verde, più fitto) e del secondo vincolo collina (1966, in verde, più rado). Elaborazione a cura di S. Dandria.
Nell’arco di pochi anni, quindi, l’interesse della tutela non si limita più alle bellezze individue, ai luoghi in “pericolo” o ai belvederi, né più si estende indistintamente a territori troppo vasti e difficilmente controllabili. Al contrario, identifica con precisione, per meglio proteggerli, ambiti caratterizzati da specifiche peculiarità, non più solo estetiche o panoramiche, ma legate anche a valori culturali più ampi, già riconosciuti da Ruskin un secolo prima. Da qui la tutela di aree ancora integre ma segnate dal passaggio di nuove infrastrutture, o di quelle modellate da sistemi insediativi e agricoli tradizionali che rischiavano di essere travolti dallo sviluppo e dalle nuove forme organizzative della produzione: alla metà degli anni ’70, grazie a uno sforzo enorme dell’ente viste anche le scarse risorse disponibili, si conteranno circa 250 dichiarazioni di notevole interesse pubblico per il solo territorio veronese. Da qui, inoltre, la necessità di spostare comunque sulla pianificazione concertata del territorio il principale sforzo propositivo della Soprintendenza, nonostante le fortissime resistenze poste dagli enti locali, e non solo. Pianificazione che ancora oggi, nella perdurante inerzia di molte istituzioni, rimane la sfida da cogliere, magari attraverso una nuova stagione di partecipazione. Verona, la collina e il fiume Tornando idealmente con lo sguardo verso la città, Ruskin scrive Adige [...] stretch itself along among the vines, to Verona lying at your feet: there first it passes the garden walls of the church of St. Zeno, then under the battlements of the great bridge of the Scaligers, then passes away out of sight behind the hill. […] Now, I do not think that there is any other rock in all the world, from which the places, and monuments, of so complex and deep a fragment of the history of its ages can be visible24.
J. Ruskin, Lettere da Verona… cit. p.132. 25 Sulla figura del soprintendente si rimanda a Piero Gazzola. Una strategia per i beni architettonici nel secondo Novecento, a cura di A. Di Lieto, M. Morgante, atti del convegno internazionale di studi (Verona, 28-29 novembre 2008), Verona, 2009 e alla bibliografia ivi contenuta. 24
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26 Verbale di seduta del 15/2/1955 della Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali di Verona, in Sabap Vr, archivio vincoli paesaggistici. Oltre al decreto vengono poi elaborate le prescrizioni sul controllo edilizio da inserire nello strumento di Piano. 27 Gazzola in Commissione spiega: «Monumenti insigni [...] affacciano le loro architetture sul fiume. Fra monumento e monumento, fra ponte e ponte si sviluppa una struttura edilizia minore, contenuta nei volumi e modesta nelle architetture che ha brillantemente risolto ogni necessità estetica ed urbanistica in questo delicato settore cittadino. L’opera dell’uomo non ha turbato la naturale maestosità del fiume né occlusa la visuale delle colline che formano in molti punti lo sfondo naturale» Verbale di seduta del 26/9/1957 della Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali di Verona, in Sabap Vr, archivio vincoli paesaggistici.
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Su questo articolato scenario si focalizza l’operato della Soprintendenza ai Monumenti di Verona negli anni ‘50 e ’60 per contrastare gli effetti nefasti del boom edilizio. Il Soprintendente Piero Gazzola, a fronte dell’inerzia pianificatoria del Comune, si attiva su più fronti contemporaneamente25. Per la difesa della città antica si impegna in un serrato contraddittorio con l’Amministrazione comunale, al fine di contenere le trasformazioni previste dal Piano regolatore in fase di approvazione (anni 1955-57), ricorrendo in più occasioni all’imposizione di vincoli monumentali. Per gli aspetti fisici e orografici del luogo propone due vincoli paesaggistici complementari tra loro: un primo provvedimento rivolto all’arco collinare a nord della città, destinato a diventare zona di espansione residenziale intensiva con la minaccia di «alterare definitivamente il composto equilibrio di un paesaggio noto coronamento del centro di Verona»26. Segue un secondo provvedimento, senza esito perché troppo audace, che mirava a sottoporre a tutela l’intera fascia di sviluppo dei Lungadige nel tratto cittadino, in continuità con quanto si stava elaborando per la costa del Garda. Si tratta di una proposta di estremo interesse perché tiene insieme la complessità dei valori urbani e ambientali sostanziati nel rapporto consolidato tra il fiume, le sponde cittadine e le alternanze panoramiche che si aprono verso la collina. Si tratta degli stessi valori e delle stesse visuali su cui Ruskin torna più volte negli scritti e nel disegno, che nelle parole di Gazzola trovano una trasposizione in termini urbanistici27. Sul finire degli anni ‘50 la Soprintendenza avvia di propria iniziativa lo studio preparatorio del piano collina – così come previsto dalla Legge 1150/1942 – attraverso una campagna fotografica con la quale si acquisiscono una serie di viste panoramiche28, elaborate poi come fotosimulazioni che mostrano gli effetti derivanti dalle urbanizzazioni previste dal Piano regolatore. La ricaduta mediatica di queste immagini è forte e costringe il Comune a farsi carico dell’ormai imprescindibile regolamentazione urbanistica complessiva, includendo il piano collina. L’applicazione di questo strumento pianificatorio riceve apprezzamenti anche sulle pagine del Daily Telegraph in un articolo del 1963 intitolato Italian Lesson in Town Planning che vede pubblicate le vedute e fotomontaggi di Verona. L’autore, Terence Mullaly, elogia lo studio veronese perché controlla efficacemente «the geographical position of the city and its historical development». L’uscita di questo articolo non è casuale perché lo stesso studioso e critico d’arte tre anni prima aveva recensito sul medesimo quotidiano la mostra di architettura su Michele Sanmicheli, curata da Gazzola ospitata anche al RIBA a Londra; tra i due scorreva quindi uno scambio culturale già consolidato. Tra le righe di Mullaly Ruskin, dopo quasi un secolo di silenzio, torna a parlare della speciale posizione della città: «Verona lies on the Adige at the point where the river, touching the gracious final spurs of the monti Lessini, makes a sweeping “U” bend». Le sue descrizioni vengono sicuramente lette, o rilette, con attenzione dal Soprintendente, che ritrova in esse la sintesi letteraria dei temi che hanno permeato il suo operato negli anni precedenti. Se ne ha un riscontro immediato quando, per sbloccare l’impasse in cui versava l’elaborazione del piano paesaggistico e delle varianti al piano regolatore da parte del Comune, Gazzola sostiene come necessario l’ampliamento del vincolo collina del 1956, insieme all’apposizione di un vincolo di paesaggio sull’intero centro storico (anni 1964-1966). Lo scopo è di arrivare finalmente a tutelare «un’unità paesistica e panoramica inscindibile»29. All’inevitabile ricorso del Comune al Consiglio di Stato egli contrappone motivazioni che si arricchiscono rispetto agli anni prece-
denti e attingono direttamente dal lavoro di Ruskin, facendo riferimento alle componenti geologiche, naturali e morfologiche del territorio veronese, alla presenza di insediamenti storici rilevanti e minori, al complesso di torri, forti e bastioni delle mura che cingono la città fin sopra la collina. Sebbene le carte d’archivio non diano riscontro esplicito di questa convergenza di temi, è verosimile pensare ad un confronto intellettuale tra Gazzola e Mullaly, mediato dal comune legame con Licisco Magagnato, che in qualità di Direttore ospiterà la mostra di Ruskin a Castelvecchio nel 1966, curata da Mullaly stesso. Questa è la prima occasione nella quale vengono esposti i disegni dell’autore con le vedute della città, del suo fiume e del suo territorio e, fatto non trascurabile, nel catalogo della mostra viene pubblicata la traduzione in italiano della conferenza di Edimburgo Verona and its rivers30. Il 1966 è pure l’anno in cui vengono decretati definitivamente i due nuovi vincoli, che dovranno quindi essere recepiti senza contraddittorio nella tanto attesa variante del Piano regolatore. Va da sé che ospitare la mostra di Ruskin a Verona nello stesso anno contribuisce strategicamente a mettere in valore la città e il suo territorio, favorendo un certo consenso pubblico rispetto ad un provvedimento osteggiato da più fronti e percepito come un limite agli interessi economici della città. Come la riscoperta, nel 1960, di Michele Sanmicheli – architetto della Serenissima che nel Cinquecento progettò l’allargamento del sistema difensivo e le note porte monumentali, Porta Palio e Porta Nuova – era stata funzionale a dimostrare che la città storica da tutelare si estendeva ben oltre l’ansa di fondazione romana31, la riproposizione dello sguardo di Ruskin, raccontato e dipinto, sostanzia con autorevolezza l’idea che solo la tutela del paesaggio, nella sua estensione geografica e giuridica, può tenere insieme e custodire i complessi valori culturali della città atesina.
28 Esse descrivono «il paesaggio collinare nel suo aspetto più interessante, come quinta a sfondo della città, quasi a completamento della stessa, privilegiando» i punti di vista lungo il percorso del fiume, di modo che «nell’apposizione dei vincoli i criteri risultino più aderenti alla realtà visiva e alle situazioni fisiche del territorio», Unità 184, Archivio Piero Gazzola. 29 Verbale di seduta del 20/10/1964 della Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali di Verona, in Sabap Vr, archivio vincoli paesaggistici. 30 Ruskin a Verona, a cura di T. Mullaly, Verona, Tipografia litografia Cortella 1966. 31 G. Castiglioni, S. Dandria, «Un grande architetto: il Sanmicheli». L’anniversario del 1959 e Piero Gazzola: dalla “riscoperta” storiografica alla prassi operativa, in Itinerari sanmicheliani nella provincia di Verona, a cura di M. Vecchiato, Verona, Editrice La Grafica 2010, pp.11-22.
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Karl Friedrich Schinkel, Mediterraneo come materiale da costruzione Francesco Collotti | francesco.collotti@unifi.it Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
Abstract Ladri di architetture rubate durante i viaggi e fissate nei carnet. Talvolta anche solo la proporzione di un portale ci parla di un grande edificio lontano, ci evoca luoghi trovati altrove, qui e ora riversati nel progetto per metamorfosi o trasfigurazione. I Maestri di buona architettura non cercano di portare a casa dai loro viaggi una lingua o uno stile, bensì traspongono nella propria opera altri mondi e fatti costruiti. Architettura è vedere le cose e trasferirle. Parole chiave Mediterraneo, Potsdam, Karl Friedrich Schinkel, trasposizione, costruzione/ri-costruzione
M. Navarra, Le città di Robert Adam, Siracusa, LetteraVentidue 2018, p. 28. 1
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I viaggi misurano il Mediterraneo. Architetture fatte con altre architetture, interpretate, smontate e rimontate, trasfigurate (mai deformate, come usa ora). Solo chi ha viaggiato ha delle cose da dire? Il palazzo di Diocleziano viene ridisegnato e trasposto a Londra lungo il Tamigi nel disegno del quartiere Adelphi Terrace ad opera di Robert Adam1. L’uso della parola invenzione è qui in riferimento alla radice latina del verbo in-venio, che suggerisce una pratica dell’invenzione come ritrovamento, come processo che porta alla luce ciò che era invisibile. È questo un modo particolare di guardare al disegno come conoscenza, ma è anche un modo particolare di guardare al progetto quasi sempre come ri-costruzione, come se il progetto stesso altro non fosse se non la messa in opera di qualcosa che è già stato o che si assume come riferimento. Un punto di vista non esclusivo probabilmente, ma una versione dei fatti plausibile alla luce della quale poter considerare il nostro mestiere di architetti. Un modo particolare di guardare al costruire come strettamente connesso al ricostruire. Comunque un atteggiamento del tutto differente rispetto a chi si affanna ogni giorno di mettere insieme qualcosa di stupefacente o di nuovo a tutti i costi, cercando di piazzarsi in una casella di Pinterest o in una gallery in rete. Viaggio e trasposizione, allora. Ove con trasposizione ci piace ancora intendere, secondo alcuni dizionari un po’ attempati, quella operazione con la quale si trasferisce un soggetto da riprodurre, dalla matrice originaria a un’altra.
La casa degli antichi rivive per frammenti in Palladio, che – a sua volta – in una sorta di international style, riemerge come un fiume sotterraneo nella campagna inglese. I tipi viaggiano, i luoghi stanno. Risale le valli il Mediterraneo Il bordo settentrionale del Mediterraneo non è tanto una riva, quanto piuttosto una linea molto frastagliata che dice di una continua osmosi. Fronte di casa stretto con corpi laterali asimmetrici, grandi aperture sotto alla capanna del tetto, le sostruzioni di casa a proseguir muri e pergole nel giardino, a dar misura di spazi liberi tutti misurati con l’architettura. Così costruisce Gottfried Semper su quel terrazzo di confine che gli viene messo a disposizione a Castasegna: tra una Svizzera la cui voglia di mare si acquieta da lungi in vista del lago di Como e un annuncio di Potsdam che prende corpo in villa Garbald. Cultura romana e cultura nordica si toccano e giocano a rincorrersi su un confine mobile che muta la propria linea di valle in valle. Bisogna aver lavorato sulle Alpi per comprendere questo continuo scambio tra i mondi di forme. Esemplare figura doppia Villa Garbald, di pietra radicata alla terra e di legno che chiude i volumi verso il cielo e dice di come si costruisce una casa tra le montagne, con il tetto di ardesia e un grande pergolato che si fa muro di contenimento2. Risale le valli il Mediterraneo, e dilaga poi in un’altra geografia di fiumi che cambiano versante e vanno verso nord e verso est, superate le Alpi nei punti di passo, trascolorando di luce più flebile. Dopo il Concilio di Trento, il Rinascimento si fa barocco in Tirolo e si estende all’intera Austria, per dar corpo a facciate corpose e ondulate, per far sentire gli spessori e le pietre, per scavare nicchie profonde, per stendere intonaci grossi e bianchi capaci di prender la poca luce e moltiplicarla. Verso nord, la mancanza del demone meridiano, il suo pallore quasi malato, obbliga a cornici più marcate, bugne più forti, fughe di pietre a costa dritta, chiaroscuri tracciati da robuste nervature. L’Ordine mediterraneo è progetto e trasposizione per Schinkel nella luce rarefatta di Glienicke o – ancora più a settentrione – nella cappella della Resurrezione di Lewerentz. Josef Frank disegna la tesi su Leon Battista Alberti e le sue partiture. Alvar Aalto guarda da lontano le Apuane in una bella fotografia d’antan e porta le lastre di Carrara in Finlandia dove, quasi per alchemica trasformazione nel bianco, le sfoglia e le sfalsa a dar conto di uno spessore, di una increspatura, di un dubbio del paramento murario ad Helsinki3. Mediterraneo allora, ma fino a dove? Andirivieni di figure e forme; come nei rapporti che si ricordano volentieri, si prende e si dà. E questo Mediterraneo, pronto a donare e a ricevere, incontra Taut in Turchia e giunge fino ai colori e alle superfici di Asplund rubate a Tunisi. Alla fine del Settecento per gli uomini di cultura di lingua tedesca la italienische Reise è una tappa obbligata della conoscenza negli anni dell’apprendistato. Goethe porterà di ritorno i disegni di una grotta e di una vasca di pietra, che sarà acqua che scorre e mi calma nel basamento del Römisches Haus (la casa romana di Weimar), in fregio a quel parco lungo la Ilz che dell’Italia e del classico è cosmogonia e messa in opera4. Nel caso degli architetti, e per Karl Friedrich Schinkel in maniera particolarissima, il viaggio in Italia è materiale da costruzione per tutto il lavoro successivo.
Fig. 1 Schinkel_syrakuså.
Si veda il catalogo della mostra tenuta presso il Politecnico di Zurigo ETHZ dal 13 maggio al 22 luglio del 2004: Villa Garbald. Gottfried Semper – Miller & Maranta, a cura di S. Hildebrand, Zürich, gta Verlag 2004. 3 C. De Felice, Paesaggi mediterranei: lo sguardo di Alvar Aalto, in Costruire ri-costruire. Quaderni del Dottorato in Composizione Architettonica, a cura di G. Fornai, V. Moschetti, vol.1, Firenze, DIDApress 2019. 4 A. Jericke, D. Dolgner, Der Klassizismus in der baugeschichte Weimars, Weimar, Deutscher Kunstverlag, Hermann Böhlaus Nachfolger 1975. 2
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G. Peschken, Das Architektonische Lehrbuch, München Berlin, Deutscher Kunstverlag 2001, pp. 11-23. 5
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I viaggi misurano il Mediterraneo La Sicilia è materiale da costruzione per il progetto di Schinkel a Potsdam. Da Roma nel 1804 Schinkel scrive al suo editore per sostenere le ragioni di un piccolo lavoro fatto di frammenti italiani l’opportunità di raccogliere – in una serie elegante e ben disegnata – una certa quantità di opere di architettura che non son state finora considerate né utilizzate. Potrebbe essere la prima idea dello “architektonisches Lehrbuch”, un libro mai stampato, un libro che realmente non esiste, un’impresa forse impossibile per un editore, ma che Schinkel ha costruito fisicamente, per parti, per frammenti, per messa in sistema di impianti planimetrici5. Il libro parrebbe essere il testo nascosto di tutta l’opera progettata e costruita di Schinkel. L’Italia, in generale, è il materiale da costruzione del libro. Schinkel – con noi – è convinto che i frammenti siano in grado di generare progetto, e per frammenti monta un indice del libro che non si farà, dove dopo la villa di campagna di Siracusa, seguono Capri, le chiese del romanico nell’Italia centrale, alcuni temi che definisce piccoli e che sono – nella realtà – tutti esemplari e fecondi. Un racconto delle origini e la descrizione di un luogo mitico del Mediterraneo introduce gli schizzi di Schinkel per il Landhaus bei Syrakus. Il disegno preparatorio per l’incisore è una condizione topografica di pendio, una grotta, una fontana, un terrazzamento, un’acqua che scende per salti, per gradi, per vasche e per canali finalmente poi aprendosi, distesa ai piedi del dirupo. Nello schizzo di rilievo (o di progetto?), un foglio verticale 230x117 millimetri, si ritrova una planimetria generale e una sequenza di sezioni che tenta di tenere insieme la complessità del luogo e che pare anche essere la via dell’acqua, in discesa dalla balza superiore fino alla terrazza inferiore. I loggiati collegano corpi separati, le simmetrie sono sui singoli prospetti, ma non nell’insieme, che sembra invece tener dietro a una topografia complessa. Uno schizzo in sezione usa i gradini come strumento di misura. Pochi centimetri di tratto che tengono dentro tutto il luogo. Il frammento campeggia su un disegno più vasto dove il sito, la casa, i suoi muri – proseguiti a misurar la terra – definiscono l’insieme. Il rilievo è già progetto, gli schizzi confondono ciò che è e ciò che si vorrebbe; guardando con più attenzione ritrovi in questa valletta non distante da Siracusa tutti i temi dei progetti di Schinkel che verranno. Nel tratto che insegue la forma, Schinkel esibisce anche i dubbi, ridisegnando più volte lo stesso edificio fino a rendersi conto di ciò che non tornava ad una prima osservazione. Dunque un procedimento compositivo tipico di chi sta progettando. Nelle piccole piante accompagante dall’alzato si ritrova la casa del Giardiniere di Potsdam, ma anche il Padiglione di Charlottenburg. L’alzato di una piccola casa coincide con la facciata che Schinkel disegna davanti a una cappella in Sicilia, verso l’Etna. Una campata inquadrata da due lesene, a loro volta sovrastate da due semi-capitelli corinzi, sembra anticipare una partitura del piccolo casino di Glienicke, eppure parrebbero un rilievo preso sul posto. Dunque continuo scambio tra rilievo e progetto. Attitudine appartenente al nostro mestiere – come già si è accennato – questo costruire che è ricostruire. Al solito Schinkel disegna tutto.
E per questa via si interroga in maniera critica se e come la simmetria sia la sola via tecnica per una composizione equilibrata, o non sia piuttosto il bilanciamento di un sistema di elementi in sé compiuti tenuti insieme da un impianto non necessariamente simmetrico. L’impianto si misura col sito, con i suoi accidenti, con la sua specifica condizione. Un gran lavoro di ascolto del luogo, ancora una volta letto e interpretato con un disegno che viene via via precisandosi, che viene a sapere sempre più cose e le riordina gerarchicamente. A tratti abbandonando quelle che paiono del tutto secondarie o poco generalizzabili ai fini dell’economia più generale del progetto di architettura. E se i singoli elementi dell’architettura esibiscono appropriatezza e composto gioco di equilibrio, è alla grande pianta cui poi spetterà di esibire adeguatezza verso il luogo. Schinkel ammira Bramante e Palladio, ma disegna in Italia l’architettura della campagna e della città antica, che è innanzitutto una condizione topografica, un pendio, una sezione, un sistema di terrazze che si impara dal lavoro antico dei contadini. Un cipresso a segnare il confine. Ogni volta i disegni del viaggio in Italia sono, nel suo lavoro, usati e trasposti. A Bagheria le torri isolate segnano il territorio, ma le torri definiscono anche il castello, serrano la mole del palazzo. Schinkel insegue quel principio e sembra imparare più dalle grandi dimore o dalle piccole case in campagna che non dal campanile di Giotto: esemplare la cappella sull’Etna che si fa seconda natura che opera a fini civili, pietra di lava che diventa scala, muro, terrazza (più piccola è la casa e più in gande bisogna pensare? sarebbe d’accordo Heinrich Tessenow). Le torri colombaie delle case italiane si fanno belvedere nei lavori di Schinkel, e in quella trasmutazione daranno luogo a un tipo di villa con torre che vivrà una stagione lunga. E proprio le torri di Bagheria, come quelle delle chiese dell’Italia centrale, di volta in volta governano una corte (Klein Glienicke) o serrano un prospetto (Tegel). La torre nel posto giusto a raccogliere le energie di una pianta o a riassumere le tensioni di un prospetto, come Filarete a Palazzo Vecchio. Non le questioni di gusto “all’italiana”, non lo stile, ma l’impianto della casa di campagna di Siracusa rivive nello Hofgärtnerhaus di Potsdam o a Charlottenhof. La lezione compositiva, non distante dal Raffaello tanto ammirato da Schinkel – Palazzo Pandolfini o Villa Madama per tutte – ci dice che talvolta la simmetria dell’intero non è praticabile, ma ha luogo nelle singole parti. Ed è un continuo bilanciamento. Il grande pergolato che Schinkel disegna con lo sfondo del Monte Pellegrino sta dentro la sua frase che definisce l’architettura come messa in opera della natura. La sezione costruisce il pendio, il muro la contiene e organizza il salto di quota, il pergolato è rarefarsi del muro per piedritti puntuali. Le rose o la vigna segnano infine il coronamento. Costruire e coltivare, mai così vicini come nei disegni dei viaggi in Italia. Tutti i basamenti del Mediterraneo, dalla costiera amalfitana ai palazzi di Firenze passando per Casteldellovo e Pirano, ritornano nella voglia di basamenti grossi che son sostruzioni e muri abitati al contempo, esagerati a Berlino, idealizzati nella villa città-mondo per il Principe. Per questa via Schinkel oggi ancora progetta e – ancora – ci consente di conoscere i luoghi col progetto.
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John Ruskin a Milano e il ‘culto’ per Bernardino Luini Laura Facchin | laura.facchin@uninsubria.it Dipartimento di Scienze Umane e dell’Innovazione per il territorio - DiSUIT Università degli Studi dell’Insubria Varese-Como
Abstract The Lombard capital, since XVIIIth century included in the Grand Tour itineraries, was considered of remarkable interest as a visiting stop by the international élites for the whole XIXth century, both for its ancient and modern buildings and both for its art works, first of all the Last supper by Leonardo da Vinci. Together with the town visit, impressive landscape impact tours took place through the territories of North-Western Lombardy, including the Maggiore and Como lakes. John Ruskin visited Milan and the Lombard region thirteen times. The paper likes to focus on the elements of continuity in the selection of visited places and of remarkable sites and to study the interest, emerged during the 1862 and 1869 travels, for the painted works by Bernardino Luini, one of the five artists, together with Tintoretto, Botticelli, Carpaccio and Turner considered at the top of the artistic production in the volumes of Modern Painters. Parole chiave Milan, Leonardo’s Last Supper, Bernardino Luini, Lugano Santa Maria delle Grazie church, Saronno sanctuary of Santa Maria dei Miracoli
Ruskin in Italy: letters to his parents, 1845, a cura di H. J. Shapiro, Oxford, Clarendon Press 1972, p. 151. 2 cfr. Ippolito Pindemonte Lettere a Isabella (17841828), a cura di G. Pizzamiglio, Firenze, Leo S. Olschki Editore 2000, p. XLV. 3 Stendhal a Milano. La grande arte di essere felici, a cura di M. Modenesi, catalogo della mostra (Milano, Biblioteca Comunale Centrale “Palazzo Sormani”, 13 settembre-31 ottobre 2016), Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale 2016, pp. 69, 23 rispettivamente. 1
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Nel luglio del 1845 John Ruskin, in occasione del suo terzo soggiorno in Lombardia, scriveva al padre le sue impressioni su Milano, «an interesting town», di cui aveva apprezzato anche le attitudini degli abitanti e la moda degli abiti e delle acconciature delle eleganti signore del patriziato locale1. La capitale del Regno Lombardo-Veneto offriva ai viaggiatori del Grand Tour dell’Italia pre-unitaria un centro urbano che, pur mantenendo una ricca stratificazione di vestigia della sua storia, dall’epoca romana alla contemporaneità, come testimoniano le vedute pittoriche di Giovanni Migliara e di Luigi Bisi, appariva alla metà del XIX secolo fortemente connotato dalle trasformazioni in stile neoclassico, avviate nell’ultimo quarto del Settecento e proseguite in età napoleonica e con la Restaurazione. Così scriveva a Isabella Teotochi Albrizzi, Ippolito Pindemonte nel 1817, in occasione di un secondo viaggio a Milano, in merito alla sua sorpresa e ai suoi positivi giudizi per le ‘nuove’ fabbriche dell’Arco della Pace, dell’Arena e per le opere pittoriche di Andrea Appiani2. Era un gusto condiviso da Stendhal che sottolineava, insieme all’apprezzamento per La Scala, «il primo teatro del mondo», la qualità dei palazzi milanesi in continuo rinnovamento3.
Sia il governo francese che quello austriaco avevano intrapreso e sostenuto interventi di rilievo culturale che avevano riguardato la musealizzazione delle opere d’arte, con l’apertura della Pinacoteca di Brera tra 1810 e 1812, e la formazione artistica con il potenziamento del ruolo dell’Accademia, fondata nel 1776 nell’ex-complesso gesuitico. Così nel 1818 Giuseppe Acerbi sulla Biblioteca Italiana, sintetizzando lo stato delle arti nella penisola, poteva affermare: «se v’è una città d’Italia che possa oggidì in qualche modo gareggiare con Roma, essa è certamente Milano»4. Un primato nato in età napoleonica, ma mantenuto nei decenni seguenti grazie al magistero indiscusso di personalità di spicco proprio alla direzione dell’Accademia, primo fra tutti Francesco Hayez. Certamente però non era la Milano napoleonica e asburgica ad aver colpito Ruskin, proprio negli anni cruciali della formazione delle sue idee estetiche, ‘antipalladiano’ e ben poco incline ai razionalismi e alle simmetrie delle diverse declinazioni del classicismo. Oggetto catalizzatore dell’attenzione del giovane studioso era stato, sin dalla sua prima visita nel 1833, il duomo di Santa Maria Nascente «l’opera più maestosa del mondo», sebbene col tempo egli avesse preso le distanze da quella esuberanza scultorea che gli era parsa già ‘corruzione’ rispetto alla sua ideale concezione di gotico. Edificio simbolo della città, il cui completamento, da secoli, non mancava di suscitare vivaci dibattiti e polemiche, per la sua centralità aveva assunto un ruolo cardine nel definire l’identità urbana. Carlo Amoretti, poligrafo poliglotta di respiro internazionale, nella sua guida di Milano, più volte ristampata dagli ultimi decenni del XVIII secolo e poi ripresa dalla letteratura odeporica sino alla metà dell’Ottocento, lo aveva ambiziosamente definito «una delle fabbriche più insigni di tutta l’Europa»5. L’ erudito ne aveva colto l’essere emblema di quella «architettura Tedesca volgarmente detta Gottica» tanto amata da Ruskin, inserendolo a pieno titolo nel fenomeno internazionale di riscoperta della cultura figurativa basso medievale che in Milano aveva trovato un precoce interesse, sin dagli anni sessanta del Settecento, quando il governo asburgi-
Fig. 1 Bernardino Luini, Sante Cecilia e Orsola, Milano, chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore. Fig. 2 Bernardino Luini, Sante Caterina e Agata, Milano, chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore.
G. Acerbi, Proemio al terzo anno della Biblioteca italiana ed epitome dei lavori contenuti nel secondo anno con un breve cenno sullo stato attuale delle belle arti in Milano e su tutti i Giornali letterarj in Italia, «Biblioteca Italiana», III, gennaio, febbraio e marzo 1818, p. XXIII. 5 C. Amoretti, Nuova Guida di Milano per gli amanti delle Belle Arti, Milano, Nella Stamperia Sirtori 1795, p. 17. 4
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Fig. 3 Bernardino Luini, Sposalizio della Vergine, Saronno, santuario della Beata Vergine dei Miracoli.
6 D. Trento, Il “Cenacolo” di Bossi protolibro di storia dell’arte lombarda, in Milano, Brera e Giuseppe Bossi nella Repubblica Cisalpina, Milano, Istituto di Scienze e Lettere 1999, pp. 177-206. 7 P. C. Marani, La copia del Cenacolo della Royal Academy di Londra: vicende, fortuna attribuzione, Firenze, LoGisma editore 2016. 8 The correspondence of John Ruskin and Charles Eliot Norton, a cura di J. L. Bradlye e I. Osby, Cambridge, Cambridge University Press 1987, p. 468.
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co aveva incoraggiato la pubblicazione delle Memorie spettanti alla storia, al governo e alla descrizione della città e della campagna di Milano ne’ secoli bassi, compilate dal marchese Giorgio Giulini seguendo il modello muratoriano. Insieme alla cattedrale ambrosiana, rispecchiando interessi e reazioni del tutto consuete tra i viaggiatori sette-ottocenteschi, il giovane Ruskin era rimasto colpito dal Cenacolo di Santa Maria delle Grazie, «l’opera d’arte forse più nota al mondo». La sensibilità dell’inglese nei confronti della conservazione dei manufatti artistici e architettonici, costante in tutto il suo pensiero, doveva essere stata fortemente sollecitata alla vista di una pittura che, sin dalla sua origine, aveva manifestato i segni del suo lento e inesorabile deperimento. La fama dell’Ultima cena aveva subito un ulteriore incremento a partire dagli anni del viceregno napoleonico, grazie ai lavori di ricerca di Giuseppe Bossi, condotti con rigore storicista e lodati da Goethe nel 1817, volti a resituire una replica il più fedele possibile dell’opera vinciana delle origini, ma che avevano suscitato dibattiti e polemiche6. L’attenzione per questo celeberrimo dipinto nel mondo artistico britannico era stata ulteriormente alimentata dall’arrivo nel 1821 di una copia di primo Cinquecento, già nella Certosa di Pavia, acquistata dalla Royal Academy7. Benché l’interesse nei confronti del maestro fiorentino rimanesse in tutta la produzione del critico inglese piuttosto contenuto, scrivendo nel 1883 a Charles Eliot Norton, in viaggio a Milano, Ruskin lo invitava a vedere il Cenacolo delle Grazie, ma gli ricordava che il maestro non andava inteso come un grande pittore: «He was meant for a botanist and engineer, not a painter at all». Erano proprio le sue inclinazioni alla ricerca scientifica a renderlo poco credibile come artista8. John ne criticava in particolare le teste di carattere («depraved his finer instincts by caricature»), che pure tanto dovevano averlo colpito, osservandole nei codici della Biblioteca Ambrosiana, e che tan-
to avevano influenzato gli artisti milanesi: «his caricatures are both foolish and filthy, – filthy from mere ugliness – and he was more or less mad in pursuing minutiae all his days». Ruskin suggeriva al critico d’arte e docente statunitense di recarsi nella chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore, meno nota alla guidistica internazionale, per andare a studiare le opere di Bernardino Luini, artista che egli riteneva «a man ten times greater» rispetto allo stesso Leonardo. Pur riconoscendone la grandezza della figura e il notevole talento di disegnatore, «always decisive and always right’», lo studioso anglosassone osservava che ben poche opere su tela «of importance» erano giunte alla posterità. John tornò a Milano sino alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento. Particolarmente significativi per le sue ricerche artistiche furono i viaggi intrapresi nelle estati del 1862, in compagnia dei coniugi Burne-Jones, e del 1869. Nei confronti della città, divenuta parte dell’Italia unificata dai Savoia, Ruskin esprimeva pareri piuttosto critici: «But this town is now given up to modernism – yet it has a look of prosperity which is better than the frantic desolation of Venice and Verona – who show they are “free” only by throwing stones at the statues of their saints – and screaming blasphemy by the tombs of the knights and kings»9. Baricentro del soggiorno ambrosiano fu lo studio delle opere pittoriche di Luini. L’artista era stato inserito da Ruskin nel ‘pantheon’ dei grandi della storia della pittura europea con Tintoretto, Botticelli e Carpaccio e l’immancabile Turner nel secondo dei cinque volumi di Modern Painters, composto dopo il viaggio italiano del 1845, dove grande attenzione era stata posta, oltre che alla pittura di paesaggio, a quella di soggetto sacro degli Old Masters. Benché largamente apprezzato sin dal Seicento – come ben testimonia il collezionismo del cardinale Federico Borromeo, che riconobbe in lui uno dei migliori interpreti della pittura sacra, paragonabile solamente al prediletto Tiziano10 – l’artista godette di particolare attenzione a partire dall’inizio del XIX secolo. Luini fu riconosciuto quale più significativo esponente della pittura milanese del primo Cinquecento, in quanto capace di combinare l’eredità leonardesca con le componenti di classicismo centro-italiano. Lo aveva già messo in luce Luigi Lanzi durante il soggiorno a Milano del 1793: «più raffaellesco che imitatore di Vinci»11. Gli studi di Bossi, abbinati agli interessi collezionistici promossi dal viceré Eugene de Beauharnais, sostenitore del classicismo accademico e della cultura figurativa leonardesca, e fatti propri da alcuni tra i più significativi esponenti del mecenatismo milanese, come Giuseppe Sommariva, fecero guadagnare una rinomanza internazionale al pittore di Dumenza, accresciuta dalle considerazioni di personalità come Stendhal o Balzac. Articolato e ricco fu l’itinerario luinesco seguito da Ruskin e dai suoi amici, svolto seguendo tappe già percorse da illustri studiosi. Jacob Burckhardt, in viaggio in Italia tra il 1846 e il 1848 alla riscoperta dei centri del Rinascimento italiano, le cui osservazioni erano confluite nel paradigmatico Il Cicerone. Guida al godimento delle opere d’arte in Italia (Basilea, 1855), certamente sfogliato da Ruskin, seppure per molti versi antitetico al suo pensiero. Un decennio più tardi, era stata la volta del mercante e conoscitore Otto Mündler, agente in Italia per incrementare le collezioni della nascente National Gallery di Londra. La visita alla Pinacotea di Brera nel 1862 permise lo studio degli affreschi strappati dalla villa la Pelucca di Sesto San Giovanni, al tempo ritenuta erroneamente un edificio monastico, anziché una residenza di loisir12. Come altri conoscitori, Ruskin rima-
9 The Letters of John Ruskin to Lord and Lady Mount-Temple, a cura di J. L. Bradlye, Ohio State University Press 1964, p. 218, 11 agosto 1869. 10 P. M. Jones, Federico Borromeo e l’Ambrosiana arte e riforma cattolica nel XVII secolo a Milano, Milano, Vita & Pensiero, 1997, pp. 222-223. 11 L. Lanzi, Il taccuino lombardo. Viaggio del 1793 specialmente pel milanese e pel parmigiano, mantovano e veronese, musei quivi veduti: pittori che vi sono vissuti, a cura di P. Pastres, Udine, Forum 2000, p. 141. 12 G. Agosti, J. Stoppa, schede 13-19, in Bernardino Luini e i suoi figli. 1, a cura di G. Agosti, J. Stoppa, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 10 aprile-13 luglio 2014), Milano, Officina Libraria 2014, pp. 102-135; C. Quattrini, Bernardino Luini catalogo generale delle opere, Torino, Allemandi 2017, p. X.
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J. Ruskin, The diaries, a cura di J. Evans e J. H. Whitehouse, 3 voll. Oxofrd, Clarendon Press 1956, II, pp. 561-564, 566, 722. 14 C. Battezzati, 16. Milano San Maurizio al Monastero Maggiore, in Bernardino Luini e i suoi figli. 2. Itinerari, a cura di G. Agosti, R. Sacchi, J. Stoppa, Milano, Officina Libraria 2014, pp. 186-193; C. Quattrini, Bernardino v… cit. 15 Ruskin poté vedere l’edificio di culto prima che le due parti, quella destinata alle religiose e quella per i fedeli, fossero messe in diretto collegamento, attraverso un’apertura nella parete divisoria praticata nel 1864 che in parte danneggiò anche gli affreschi. 16 Jones realizzò gli acquerelli delle sante Apollonia e Agata (Truro, Royal Cornwall Museum). 17 E. Sdegno, Il pittore venuto da un altro pianeta: Tintoretto e la scuola grande di San Rocco, in Tintoretto secondo John Ruskin, un’antologia veneziana, a cura di E. Sdegno, Venezia, Marsilio, 2018, pp. 21-55. 13
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se incantato dal frammento con la Assunzione di santa Caterina d’Alessandria, che egli stesso si impegnò a copiare integralmente e in dettaglio13. Tuttavia, ciò che egli più desiderava vedere in Milano era il ciclo di affreschi realizzato per la chiesa interna ed esterna di San Maurizio, già parte del complesso benedettino femminile del Monastero Maggiore14. La scelta rispondeva sia alle aspettative generate dalla fama di Luini migliore come frescante piuttosto che in opere da cavalletto, sia perché le opere eseguite in questo edificio, ricordato già da Giorgio Vasari, si presentavano ancora in situ nella loro completezza. Urgente, dopo la prima visione, era stata la necessità di poterle riprodurre, possibilmente nella totale integrità, sollecitando in questo impegno l’amico Edward Burne Jones, dal momento che non solo lo stato di conservazione dell’insieme appariva piuttosto precario15, nonostante gli affreschi fossero stati oggetto di vari interventi di restauro, ma soprattutto perché lo stato di oscurità dell’ambiente originario, come ricordato anche da altri visitatori, tra cui Mündler, ne rendeva estremamente difficile una lettura analitica, fosse essa finalizzata allo studio storico o a quello più squisitamente da artista, aspetti, per altro, che nella concezione di Ruskin finivano per essere inseparabili. Anche Burne Jones aveva lamentato l’estrema difficoltà di poter lavorare qui nella pienezza delle sue potenzialità, descrivendo l’impresa di riprodurre l’opera luinesca con toni quasi titanici ed eroici16. La necessità di fissare con il disegno e la pittura una testimonianza il più fedele possibile dello stato degli affreschi di San Maurizio rientrava pienamente nella visione del critico inglese e trovava punti di tangenza con quanto egli aveva andava promuovendo per preservare memoria del ciclo dei teleri con scene della Passione di Cristo dipinti da Tintoretto per la Scuola Grande di San Rocco a Venezia, considerato da Ruskin un vero e proprio scrigno di ‘meraviglie’ che con difficoltà si rivelava al visitatore17.
Egli stesso si era cimentato con notevoli difficoltà nella riproduzione, in scala 1:1, della Santa Caterina d’Alessandria18. Egli considerava questa figura un prototipo di bellezza muliebre, analogamente alle altre sante rappresentate sul lato claustrale di San Maurizio, pochi anni prima già oggetto di copia da parte di Gustave Moreau19. Ruskin ne scriveva all’amico Norton ritenendola paragonabile, nell’espressione della femminilità, alle sole donne ritratte da Tiziano20. L’impressione di questa immagine fu così forte che nelle note di Modern Painters II, pubblicato nel 1883, Ruskin la mise a confronto, giudicandola superiore, alla Santa Caterina di Raffaello della National Gallery di Londra. Il soggiorno milanese del 1862 lo avvicinò anche ad un altro protagonista del Cinquecento lombardo, Gaudenzio Ferrari, apprezzato specialmente nel ciclo di Santa Maria della Pace. Benché egli raccomandasse all’amico Norton di andarne a vedere la Deposizione nella basilica di Sant’Ambrogio21, opera oggi riferita al collaboratore di Gaudenzio Giovanni Battista della Cerva, Ruskin aveva conservato dell’artista valsesiano solamente una impressione superficiale. Scrivendone allo stesso nel giugno del 1867, pur apprezzandone la riproduzione della Madonna in trono col Bambino eseguita da Burne-Jones cinque anni prima, ne aveva persino dimenticato il nome, chiamandolo «the Vercelli man»22. In occasione del viaggio del 1862, Ruskin si spinse anche al di fuori di Milano per poter visionare con cura un altro ciclo pittorico, documentato con certezza a Luini: gli affreschi eseguiti nel presbiterio del santuario di Santa Maria dei Miracoli di Saronno. Considerati uno dei veri e propri capolavori del maestro, tanto che Giuseppe Bossi volle condurre a vederli nel 1810 persino Antonio Canova, furono ripetutamente riprodotti in incisione23. Ruskin, in visita nel luglio del 1862, annotò nel proprio diario poche, laconiche, parole, preferendo la cupola affrescata da Ferrari e il panorama montano che egli poté scorgere durante la gita: «Gaudenzio’s wreath of infant angels, round the wooden relievo of descending Father in the cupola, superb; all angels below fine. Luini in little cloister with stone pine in centre. Monte Rosa against rose twilight, returning»24. La chiusura dedicata alla veduta alpina rispondeva a quell’interesse per il paesaggio che era stato alla base delle ricerche di Ruskin. Sin dal suo primo soggiorno nel Milanese con i genitori nel 1833, che aveva compreso anche le sponde del Lario, il Varesotto e le Isole Borromee, lo studioso aveva ricercato quegli scorci che l’ammirato Turner aveva immortalato, pochi anni prima, in strepitosi acquerelli. Egli stesso si era cimentato in alcuni schizzi durante le ripetute visite alle bellezze naturalistiche del territorio che non aveva mai mancato di rilevare anche nei viaggi successivi. L’occasione del nuovo soggiorno in Lombardia e Svizzera dell’estate 1869 fu determinante per ‘rivelare’ a Ruskin il tramezzo dipinto da Luini nella chiesa francescana di Santa Maria degli Angeli di Lugano25. Nel 1837 il frate Tommaso Mornatti da Casalzuigno, guardiano del convento, distrutto e trasformato nell’Hotel du Parc quando vi giunse Ruskin26, lo aveva definito «gran teatro del suo ingegno» «a cui del continuo accorrono i dilettanti dell’arte, insaziabili di mirar i lavori di quella mano maestra», riconoscendo una specifica ‘reputazione artistica’ dell’edificio di culto, connessa all’impresa ad affresco di Luini, anch’essa oggetto di un restauro nel 1859 da parte di Giuseppe Knoller. Ruskin condivise con Norton l’emozione della visione del ciclo francescano27, le cui cromie gli parevano paragonabili solamente a quelle degli amati veneti, Veronese e Tintoretto. Il cuore della rappresentazione, la scena della Crocifissione, era quella che maggiormente aveva colpito il critico britannico: «Luini can’t do violent passion - As
pagina a fronte Fig. 4 Gaudenzio Ferrari, Angeli musicani, Saronno, santuario della Beata Vergine dei Miracoli.
J. Ruskin, The diaries… cit., II, pp. 560-566; The correspondence of John Ruskin… cit., p. 72. L’opera si conserva a Oxford, Ashmolean Museum. 19 L’artista disegnò a matita le sante Lucia e Apollonia e un dettaglio del Martirio di San Maurizio nel 1858 (Paris, Musée Gustave Moreau). 20 The correspondence of John Ruskin… cit., p. 72. 21 Ivi, p. 468. 22 Ivi, p. 103. 23 T. Tovaglieri, 25. Saronno Santuario della Beata Vergine dei Miracoli, in Bernardino Luini e i suoi figli. 2… cit., pp. 186-202; C. Quattrini, Bernardino Luini… cit. 24 J. Ruskin, The diaries… cit., II, pp. 564-565. 25 Sull’intervento di Luini si vedano i diversi saggi in Santa Maria degli Angeli a Lugano, a cura di G. Mollisi, «Arte e Cultura», anno 1, 1, 2016. 26 Il convento fu soppresso nel 1848; due anni più tardi la proprietà fu acquistata da Giacomo Ciani. I lavori della struttura alberghiera si conclusero nel 1853. 27 The correspondence of John Ruskin and Charles Eliot Norton… cit. pp. 150-151. 18
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M. Romeri, scheda 31, in Bernardino Luini e i suoi figli. 1… cit., p.182; C. Quattrini, Bernardino Luini… cit. 29 John Ruskin’s Correspondence with Joan Severn: Sense and Nonsense Letters, a cura di R. Dickinson, London, Legenda 2009, p. 120. 30 A.-F. Rio, De la poésie chrétienne dans son principe, dans sa matière et dans ses formes, Paris, Olivier-Fulgence 1855, p. 254. 31 J. Ruskin, The complete works, London, Allen, XXI, 1906, p. 125. 32 Cfr. C. Harrison, I Preraffaelliti e l’arte italiana prima e dopo Raffaello, in I Preraffaelliti il sogno del ‘400 italiano da Beato Angelico a Perugino da Rossetti a Burne Jones, a cura di C. Harrison, C. Newall, C. Spadoni, catalogo della mostra (Ravenna, Museo d’Arte della città, 26 febbraio-6 giugno 2001; Oxford, Ashmoelam Museum, 15 settembre-5 dicembre 2010), Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale 2010, pp. 38-45. 28
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deep as you like - but not stormy, -so he is put out by his business here - and not quite up to himself - because he is trying to be more than himself». Ma l’intera concezione del ciclo rappresentava per lui uno dei momenti più alti della «Catholic conception of the Passion existing in the world», arrivando a spingersi a un paragone con il Giudizio di Michelangelo: «nor is there any other single picture in Italy deserving to rank with it except Michael Angelo’s last judgment, –no other contends with it, even, in qualities of drawing and expression – and for my own part – I would give the whole Sistine chapel for the small upper corner of this, with the infidelity of St Thomas and the Ascension». Le indagini sulla pittura del maestro di Dumenza si rivolsero anche al collezionismo privato milanese. Grazie alla mediazione di lady Isola Mount Temple, il conte Giberto Borromeo gli aprì le porte della quadreria dinastica, riallestita da pochi anni nel seicentesco palazzo cittadino. Ruskin potè vedere almeno due opere ritenute di certa mano del maestro, già proposte nel 1863 per Charles Eastlake, primo direttore della National Gallery di Londra, sceso lungo la penisola con l’intenzione di acquisire nuovi tesori per la pinacoteca britannica. La tavola dell’ammiccante Susanna e i vecchioni, di cui il compatriota aveva trattato la vendita, non suscitò in lui particolari emozioni, forse perché l’opera suggeriva un contesto ‘profano’ nell’atto della donna di sfiorare il seno con la mano, mentre quella con l’Adorazione del Bambino fu per il critico britannico una sorta di rivelazione28. Egli vi aveva scorto una serenità, una semplicità e una naturalezza tali da fargli scrivere di aver visto «the loveliest nativity I ever - in all my life»29. Nel «little Luini» ogni cosa appariva «pretty and tender, and gay» «the Virgin is just going to lay the Child into the little crib of the oxen - and it is half full of hay, and two delicious little angels - boy angels, with ruby-coloured wings […] and as full of fun as any mortal boys». Le parole della lettera alla cugina Joan Agnew Ruskin Severn, scritte pochi giorni dopo aver visto l’opera nell’agosto del 1869, mettono in luce, richiamando il pensiero di Alexis-François Rio che aveva paragonato l’Apoteosi di Santa Caterina della Pelucca alle «plus parfaites productions de l’art mystique en Toscane et Ombrie»30, quali erano state le iniziali motivazioni dell’interesse di Ruskin verso Luini. Si trattava di un artista pienamente calato nella temperie figurativa di quel Rinascimento, che pur con ripensamenti e contraddizioni, egli aveva interpretato come l’avvio di una inarrestabile crisi e corruzione dell’arte, dovuta all’eccesso di esattezza scientifica e razionalizzazione nella restituzione del dato naturale, all’opposto di quella idea di gloria e splendore che aveva tradizionalmente pervaso il pensiero critico e la storiografia. Tuttavia, Ruskin leggeva il pittore lombardo, capace di unire «consummate art-power with untainted simplicity of religious imagination»31 in un’ottica non lontana dall’interesse per il Quattrocento ‘primitivo’ dei poco amati pittori Nazareni. Il maestro di Dumenza pienamente incarnava nelle sue opere di soggetto sacro quell’ideale di immediatezza e di spiritualità che per Ruskin era alla base del fare artistico. Era questa stessa interpretazione che aveva condizionato la scelta di riprodurre la Santa Caterina di San Maurizio al Monastero Maggiore, potenziale ‘musa ispiratrice’, nella sua ieraticità e per quella sua espressione enigmatica, delle figure femminili dell’universo preraffaellita32. La stessa chiave di lettura aveva determinato la scelta, l’anno seguente, in occasione di una conferenza tenuta da Ruskin a Londra nel febbraio del 1870, di portare ad esempio la tavola della Adorazione Borromeo, confrontata con l’Arcangelo Raffaele e Tobiolo di Perugino, opera acquistata da Mündler per la Na-
Fig. 5 Bernardino Luini, Crocifissione, Lugano, chiesa di Santa Maria degli Angeli.
tional Gallery da Lodovico Melzi d’Eril nel 1856, ma parte del polittico dipinto dal maestro umbro per la Certosa di Pavia, osservando che l’opera era «a perfect quintessence of innocent luxury»33. Così Luini rimase un ‘campione’ tra i «Master of the religious school», anche, dopo la ‘scoperta’, nell’estate del 1870, di Filippo Lippi, figura che, come Beato Angelico, richiamava l’ideale monastico di vita ascetica, ben lontano dal pittore lombardo: «has brought me into a new world, being a complete monk, yet and entirely noble painter. Luini is lovely, but not monkish. Lippi is Angelico with Luini’s strength, or perhaps more, only of earlier date, and with less knowledge»34. Le capacità tecniche e la grazia immediata di Luini rimanevano ineguagliate agli occhi del critico. L’artista incarnava quella combinazione di ortodossia ed espressione artistica che pienamente rispondeva all’ideale ruskiniano della «suggestiveness», di quella capacità di evocazione propria dell’artista religioso.
J. Ruskin, The complete works… cit., p. 444. 34 The Letters of John Ruskin to Lord… cit., p. 278. 33
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Simone Fagioli
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Un vecchio corso di educazione estetica (ad uso degli inglesi). John Ruskin dentro e fuori Santa Croce (1874-2019) Simone Fagioli | simfagpt@live.com Associazione E.S.T - Economia, Società, Territorio-Venezia
1 J. L. Spear, Ruskin’s Italy, «Browning Institute Studies», 12, 1984, pp. 73-92; J. Clegg, P. Tucker, Ruskin and Tuscany, London, Ruskin Gallery, 1993; F. O’Gorman, Ruskin’s aesthetic of failure in “The Stones of Venice”, «The Review of English Studies», New Series, 55, 220, Jun. 2004, pp. 374-391; M. Marroni, John Ruskin. Ricerca estetica e mito di Venezia, Roma, Aracne 2007; D. Barnes, Historicizing the stones: Ruskin’s “The Stones of Venice” and Italian Nationalism, «Comparative Literature», 62, 3, Summer 2010, pp. 246-261; P. Piredda, Rapporto tra estetismo e cultura di massa fin de siècle: dall’Inghilterra all’Italia, «Italica», 87, 2, Summer 2010, pp. 179193; A. Lyttelton, Sismondi, il mondo britannico e la percezione dell’Italia. Tra passato e presente, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», 5, 2, 2, 2010, L’Unità d’Italia: sguardi stranieri, pp. 403-430; E. Sdegno, Teaching Ruskin in Venice, «Victorian Review», 38, 1, Spring 2012, pp. 25-29. 2 Cfr. E. Sdegno, Saggi su Ruskin. Stile Retorica
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Abstract Odoardo H. Giglioli’s translation of Mornings in Florence, which came out in 1908 – the year in which E. M. Forster published A Room with a View – ushered in a new period in which Ruskin’s work was analysed and “used” with greater awareness of the author’s limitations, even if this awareness was not always clearly expressed. Above all, he was considered too English in an Italy that, from its earliest days as a unified nation, had sought monuments with symbolic values that could illustrate the fathers of the Patria. Ruskin’s first Mattinata takes place in Santa Croce (the subject of Forster’s second chapter) and finds him in search of the purity of Giotto, prevaricating on the façade, the result of financial backing from the protestant Francis J. Sloane and inaugurated in 1863 based on a design by Niccolò Matas. The Basilica, which contains a complex route linking the tombs of illustrious Italians, is today enjoyed hurriedly and roughly by a new wave of tourists, largely distorting Ruskin’s vision, which had already been “corrected” by Giglioli in a translation clarified by notes. Parole chiave Ruskin, Firenze, Santa Croce, Giglioli, turismo / Ruskin, Florence, Santa Croce, Giglioli, sightseeing
Ruskin in italiano, 1895-1908 Se i legami e le influenze tra John Ruskin e l’Italia sono indagati, pur in gran parte in lingua inglese1, manca un quadro puntuale della ricezione dell’autore nella penisola che vada oltre l’elencazione delle traduzioni2. La prima apparizione, presunta, in italiano di Ruskin pare del 1860, quando è pubblicato il volume La guerra in Italia nel 1859. Narrazione descrittiva dall’autore delle lettere al Times, scritte dal campo degli Alleati, versione dall’inglese di G. Calcaterra con note3. Opac Sbn Italia lo attribuisce in originale a Ruskin, tramite A dictionary of anonymous and pseudonymous publications in the English language4. Il Dictionary, che abbiamo consultato sino all’edizione del 1926 (ristampata più volte con aggiunte)5, non riporta in realtà questa indicazione. Ruskin nel 1859 scrive tre lettere sulla Seconda guerra di indipendenza italiana, dopo la battaglia di Magenta (4 giugno), pubblicate su «The Scotsman» il 20 e 23 giugno e il 6 agosto con il titolo complessivo di The italian question, tutte firmate6. Se le confrontiamo con il volume italiano del 1860 vediamo
come il lavoro di Calcaterra non abbia nessuna attinenza con queste, analisi socio-politiche della situazione italiana e non narrazione cronologica degli eventi bellici7. La prima vera traduzione italiana è del 1885, pur pubblicata in Gran Bretagna: La Cappella degli Schiavoni. Tradotto dall’inglese nella Storia di Venezia di Giovanni Ruskin dal Conte Cav. Giuseppe Pasolini Zanelli8. Negli anni successivi traduzioni e inquadramenti critico-biografici si susseguono. Ruskin muore il 20 gennaio 1900: la critica italiana ne dà subito conto9. Da quell’anno interesse e traduzioni aumentano, anche con nuove versioni di opere già tradotte e parafrasi e riduzioni di altri testi10. Si assiste a trasformazioni popolari delle opere, indirizzate a “guide” di viaggio e “turismo”, come Le pietre di Venezia. Capitoli introduttivi ad uso di coloro che visitano Venezia e Verona; versione dall’inglese di Alessandro Tomei11. Nel 1897 era uscita su «Nuova antologia» una lunga recensione al saggio francese Ruskin et la religion de la beauté di Robert de La Sizeranne12. L’articolo, di Ugo Ojetti, intitolato Ruskin e la religione della bellezza13, pur riprendendo il titolo del saggio francese presenta al pubblico italiano una personale interpretazione che sul finire dell’Ottocento inaugura un nuovo interesse per questo autore. Ruskin in italiano nel 1908: Giglioli (e Amendola) In questo quadro di sintesi nel 1908 compaiono due opere di Ruskin che ne offrono in Italia un’ulteriore quanto controversa visione: Mattinate fiorentine, con spigolature da “Val d’Arno”; prima traduzione italiana con note di Odoardo H. Giglioli (Firenze, G. Barbera, 1908)14 e Le fonti della ricchezza. Unto this last, a cura di Giovanni Amendola (Roma, E. Voghera, 1908) 15. Nel 1908, non marginalmente, esce A room with a view16, romanzo di Edward Morgan Forster che nel secondo capitolo della prima parte narra di una movimentata visita in Santa Croce della protagonista, Lucy Honeychurch: In Santa Croce with no Baedeker. L’autore cita Ruskin ironizzando sulle Mornings in Florence e sulla “visione” del predecessore17. Odoardo Hillyer Giglioli (Firenze 1873-1957) – figlio dell’antropologo e zoologo Enrico Hillyer Giglioli – è un “esperto d’arte”, autore di numerose guide sulle città della Toscana, ispettore degli Uffizi: figura appartata di amatore d’arte più che di critico18. Giovanni Amendola (1882 – 1926) è nel 1908 giornalista e scrittore, con interessi in ambito teosofico e psicologico. Negli anni successivi oltre a laurearsi in filosofia e insegnare brevemente, è eletto nel 1919 e nel 1921 alla Camera per la Democrazia Liberale. Muore nel 1926 esule in Francia. Entrambe le pubblicazioni stimolano un significativo dibattito e, della traduzione di Amendola, trattano Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini con posizioni differenti19. Mattinate fiorentine La curatela di Giglioli non soddisfa pienamente la critica. L’attacco si muove su due piani: verso Ruskin che non risponde più al gusto narrativo e estetico italiano, per cui la sua traduzione appare inutile; nel caso sia apprezzato, sui traduttori che “tradiscono” i testi originari con aggiunte e postille per correggere errori, sviste, deboli interpretazioni, indirizzando i libri a un pubblico eterogeneo, ma con opere non più originali. A marzo 1908, un recensore che si firma B. P.20 su «Vita d’Arte»21 attacca Ruskin, elogiando in metodo Giglioli: «Ruskin amava grandemente l’Italia e tutta l’opera sua di scrittore rivela quest’amore ma non bisogna dimenticare che era inglese e che scrive-
Traduzione, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini Firenze, Nardini 2006, pp. 241-246; Idem, 1900-1946: le prime traduzione artistiche, in L’eredità di John Ruskin… cit., pp. 221-246. 3 Novara, Tipografia di P. Rusconi, 1860. Su G. Calcaterra non si hanno informazioni. 4 S. Halkett, J. Laing, Dictionary of anonymous and pseudonymous literature of Great Britain. Including the works of foreigners written in or translated into the English language, Edinburgh, W. Paterson 18821. 5 S. Halkett, J. Laing, Dictionary of anonymous and pseudonymous English literature, new and enl. ed. by J. Kennedy, W. A. Smith, A. F. Johnson, Edinburgh, Oliver & Boyd 1926-1962. 6 In Arrows of the Chace, being a Collection of scattered Letters published chiefly in the Daily Newspapers, 1840-1880 by John Ruskin […]. Volume II. Letters on politics, economy and miscellaneous matters, Orpington, G. Allen 1880, pp. 3-22. 7 Cfr. N. Shrimpton, Italy, in The Cambridge Companion to John Ruskin, a cura di F. O’Gorman, Cambridge, University Printing House 2015, in particolare su questo tema pp. 49-51. A complete bibliography of the writings in prose and verse of John Ruskin, redatta da T. J. Wise & J. P. Smart, London, s. e. 1893 che dà conto anche delle traduzioni, non riporta il volume di Calcaterra. 8 Orpington, G. Allen 1885. Ripubblicata poi da un editore italiano, La Cappella degli Schiavoni in Venezia dipinta dal Carpaccio; descritta da I. Ruskin; traduzione del conte G. Pasolini Zanelli, Roma, Danesi 1895. Ed. or. St. Mark’s Rest. First Supplement. The Shrine of the Slaves. Being a guide to the principal Pictures by
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Simone Fagioli
RA Victor Carpaccio in Venice by John Ruskin, Orpington, G. Allen 1877. 9 Cfr. J. Rusconi, John Ruskin e la sua grande parola, «Rivista politica e letteraria», IV, X, fasc. II, 15 febbraio 1900, pp. 138-146. 10 Cfr. Pensieri di Ruskin scelti e tradotti da Ernesto Setti, Lanciano, Carabba 1915. 11 Roma, Carboni, 1910. 12 Paris, Hachette, 1867. Trad. it. R. de La Sizeranne, Ruskin e la religione della bellezza, Torino, Paravia 1921. L’autore (1866-1932) fu il principale divulgatore dell’opera di Ruskin in Francia. 13 U. Ojetti, Ruskin e la religione della bellezza, «Nuova antologia di scienze, lettere ed arti», s. 4, 70, CLIV, fasc, XIII, 1 luglio 1897, pp. 368376. 14 Ed. or. J. Ruskin, Mornings in Florence. Being simple studies of Christian Art, Orpington, G. Allen 1875-1877. Sul rapporto Firenze e Mornings F. Gurrieri, Mornings in Florence. Una leggenda dal vivo, in L’eredità di John Ruskin… cit., pp. 156-159 e più in generale P. Costantini, I. Zannier, Itinerario fiorentino. Le “mattinate” di John Ruskin nelle fotografie degli Alinari, Firenze, Alinari 1986. 15 Pubblicato in «Cornhill Magazine», agosto-dicembre 1860, poi J. Ruskin, Unto This Last. Four Essays on the First Principles of Political Economy, London, Smith, Elder and Co 1862. 16 E. M. Forster, A room with a view, London, Arnold 1908. 17 Prima trad. it.: E. M. Forster, Camera con vista, Milano, Rizzoli 1958.
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va per gli inglesi»22. Questo aspetto è per il recensore un punto dolente: «Perché affaticarsi a tradurre questo vecchio corso di educazione estetica ad uso degli inglesi?»23 scrive il critico parafrasando la nota Al lettore che apre la traduzione. Risponde, con Giglioli, che è necessario tradurre Ruskin per correggere i suoi errori, per aggiornare il pensiero di un autore che poco capisce dell’arte di Firenze: Credo che gli italiani rileggendo questo libro nella loro lingua troveranno molto più interessanti le note frequenti e dotte del traduttore piuttosto che le lunghe chiacchierate, gli avvertimenti talvolta inutili, le osservazioni non sempre giuste e profonde dell’Autore24.
A fine 1908 sia Ruskin sia i “traduttori” sono bersaglio di un articolo in prima pagina de «La Voce» a firma Aldo De Rinaldis25. Quel che mi secca sono le prefazioni apologetiche dei traduttori e delle traduttrici, le solite recensioni di prammatica tessute sugli entusiasmi disseccati di Robert de La Sizeranne, e l’ammirazione sconfinata che si tributa a quello scrittore per effetto di certe pigrizie e timidità mentali, che spesso fan gli uomini assai simili a un branco di pecore e di tacchini in marcia26.
L’autore non cita né Giglioli né Amendola ma fa intuire che le traduzioni uscite in quell’anno non lo soddisfano, valutando che in qualche modo Ruskin ne ha sì bisogno, dato il «suo inglese, oscuro, irsuto personalissimo»27, ma che necessita anche di una critica più serrata e puntuale, ma definitiva, verso una «adorna lapide tombale»28. Santa Croce. Macchina simbolica La Basilica di Santa Croce (con questa definizione dal 1933), fondata nelle forme attuali il 3 maggio 1294 (dopo una prima edificazione attribuita a san Francesco), è nel 2019 – 147 anni dopo la visita di Ruskin raccontata in Mattinate fiorentine – una complessa struttura simbolica dove si intrecciano su molteplici piani storie variegate. John Ruskin nel settembre 1874 isola nella grande chiesa alcuni aspetti, momenti, temi, del tutto personali, seguendo un suo filo mentale che gli fa osservare solo precisi e univoci temi; Odoardo Hillyer Giglioli nel 1908 traduce, postilla e corregge le parole di Ruskin, in una forzatura critica assente nel testo originale; oggi i 700.000 visitatori annui29 del complesso monumentale ne consumano le pietre alla ricerca di simboli, dati oggi in gran parte dalle sepolture dei padri della patria. Ruskin accenna solo a quella terragna di Galileo de’ Galilei (antenato del matematico) e sulla quale non va dimenticata l’ironia di Forster. Nei tre passaggi accennati è mutato profondamente lo sguardo, con una serie di sfumature e altri modi di descrizione che si collegano tra loro. Della chiesa non è secondaria la facciata: realizzata tra il 1857 e il 1865 (pur inaugurata nel 1863) dall’architetto Niccolò Matas (sepolto sul sagrato della basilica) e finanziata in gran parte da Francis Joseph Sloane (1795-1871) – inglese, protestante, geologo e imprenditore30 – che Ruskin non vede proprio, come le migliaia di turisti oggi e che ancora Forster definisce «surpassing ugliness». La critica a Ruskin di Bargagli Petrucci di essere troppo “inglese” non è neppure originale, è un topos che ritorna, oltre Ruskin, di tanto in tanto nella “divulgazione” anche simbolica di Santa Croce31. A una lettura attenta delle Mattinate si vede come sia Ruskin stesso che ci calca la mano, burlandosi dei suoi conterranei: «Infatti la mattina di domenica 6 settembre 1874, mentre io lavorava qui dentro, due inglesi di buon aspetto, sotto la scorta del loro ci-
cerone, passarono dinanzi alla cappella senza degnarla di uno sguardo all’interno»32. L’autore più in generale non aveva una grande stima di Firenze e già in una lettera al padre del 17 giugno 1845 ne dà giudizi taglienti33. Ci potremmo chiedere in che misura, nel 2019, i visitatori della Basilica di Santa Croce siano ruskiani. La risposta si avvicina, empiricamente, a zero. Frequenti sopralluoghi nella chiesa – condotti tra il 2018 e il 201934 – mi hanno posto in familiarità con le centinaia di visitatori che ogni giorno affollano ogni spazio, per 2/3 non italiani anche a detta dei custodi. La mia osservazione lenta, di natura antropologica, mi ha permesso di incrociare i loro sguardi, rivelatori di una assenza più che di una presenza. Da soli o in gruppo sono sempre frettolosi, alla ricerca di simboli precisi: Dante, Michelangelo, Galileo, più Giorgio Vasari che Giotto. Rari quelli con guide alla mano, tutti scattano foto, quasi solo con i cellulari. I tour guidati appaiono come una caccia al tesoro, con premi molto sfumati, dove la guida sussurra al radiomicrofono informazioni che i suoi turisti fanno fatica a intercettare, nel crepitio delle frequenze che si intrecciano nella Basilica, ma soprattutto in uno schematismo che la seziona in un labirinto percorribile e percorso solo in qualche ramo morto. In una delle mie passeggiate in Santa Croce, nel pomeriggio di giovedì 16 maggio 2019, ho udito una guida volontaria, un anziano signore elegante, italiano, che spiegava a uno sparuto gruppo di suoi conterranei, senza volerlo, l’esatta filosofia di John Ruskin: «Per capire la pittura a Firenze dovete mettere da parte le guide – diceva loro –, venire qui in Santa Croce e usare gli occhi. Dovete guardare, confrontare le pitture, così potete capire come cambia l’arte nei secoli, come si innova». Questa guida sui generis trascinava il gruppetto dalla Tavola Bardi di Coppo di Marcovaldo (1250) alle Storie della vita di San Francesco di Giotto, nella Cappella Bardi (1320), agli affreschi di Taddeo Gaddi (Storie della vita di Maria, 1328), a quelli di Agnolo Gaddi (Leggenda della vera croce, 1380), indicando a braccio teso e con enfasi i grandi cicli pittorici, mostrando, con gli occhi, come muta la pittura, da quella bizantina e dorata di Coppo a quella tridimensionale di Giotto.
18 Rilevante e speculare a Ruskin L’arte nelle Isole britanniche di Sir Walter Armstrong; prima traduzione italiana di Odoardo H. Giglioli, Bergamo, Istituto italiano d’arti grafiche, 1910. 19 G. Prezzolini, La morale e l’economia, «Il divenire sociale», IV, 5, 1 marzo 1908, p. 80; G. Papini, Le fonti della ricchezza, «Il Rinnovamento. Rivista critica di idee e di fatti», II, Fasc. II, 1908, pp. 382-387. 20 Si tratta di Fabio Bargagli Petrucci (1875-1939), fondatore e direttore della rivista - storico, sindaco e podestà di Siena - che in altre recensioni appare con le iniziali F. B. P., mentre il condirettore Pier Ludovico Occhini appare con l’iniziale O. 21 «Vita d’Arte. Rivista mensile d’arte antica e moderna», fondata a Siena nel 1908 da F. Bargagli Petrucci e P. L. Occhini esce sino al 1919, dopo che dal 1914 si era trasferita a Milano, cfr. M. Batazzi, “Vita d’Arte” (1908-1913), in Siena tra purismo e liberty, Milano, Mondadori 1988, pp. 216-223.
B. P., John Ruskin, Mattinate fiorentine - Prima traduzione italiana con note di Odoardo H. Giglioli. Firenze, G. Barbera Editore, 1908, «Vita d’Arte», 1, 3, marzo 1908, p. 201. 23 B. P., John Ruskin, Mattinate fiorentine… cit., p. 201. 24 Idem. 25 (1882-1949). Storico, saggista, curatore di mostre, direttore di musei pubblici. Amico e collaboratore di B. Croce, G. Papini, G. Prezzolini, F. Bargagli Petrucci, P. L. Occhini. Con G. Amendola fonda nel 1907 la rivista «Prose». Cfr. A. Casati, G. Prezzolini, Carteggio 1907-1944, 2 vv., a cura di D. Continati, Roma, Edizioni di storia e letteratura 1990. 26 A. De Rinaldis, Contro Ruskin, «La Voce», 1, 2, 27 dicembre 1908, p. 5. 27 Ibidem, corsivo dell’autore. 28 Idem, p. 6. 29 I dati più recenti fanno riferimento al 2017 con 702.291 visitatori (nel 2016 724.203) tra paganti e a ingresso gratuito, fonte Regione Toscana, Musei della Toscana. Rapporto 2018, Firenze 2019, p. n. n. 30 Per in inquadramento più puntuale degli imprenditori-mecenati a Firenze cfr. Gli anglo-americani a Firenze. Idea e costruzione del Rinascimento, a cura di M. Fantoni, Roma. Bulzoni, 2000. 31 Cfr. M. Monnier, L’Italia è la terra dei morti?, Napoli, Morelli 1860, in particolare pp. 5-7, ed. or. Id., L’Italie est-elle la terre des morts?, Paris, Hachette 1860 e Gli inglesi e l’Italia, a cura di A. Lombardo, Milano, Banco Ambrosiano Veneto 1998. 32 J. Ruskin, Mattinate fiorentine, 1908, cit. p. 53. 33 J. Ruskin, Viaggio in Italia, a cura di A. Brilli, Milano, Mondadori 2002, pp. 88-91. 34 S. Fagioli, “Un genio svolazza sempre su quella beata isola”. Ugo Foscolo da Londra a Firenze nel 1871, «Rassegna Storica Toscana», LXV, 1, Gennaio-Giugno 2019, pp. 81-122. 22
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S. Fineschi, R. Manganelli del FĂ , C. Rininesi
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New perception of human landscape: the case of Memorial Gardens and Avenues Silvia Fineschi | fineschi@icvbc.cnr.it Rachele Manganelli del FĂ , Cristiano Rininesi CNR Institute for the Conservation and Valorization of Cultural Heritage
Abstract After the First World War ended, Memorial Gardens and Avenues were established for honouring human losses in conflict. This way to commemorate fallen soldiers changed the concept of remembrance, which, instead of focusing on the dead, would serve to living populations and give a message to future generations. In Italy, according to a law issued in 1922, Memorial Gardens and Avenues were planned in each township. The goal was to create avenues or parks by planting a tree for each fallen combatant; in this way, the remembrance of dead soldiers was represented by living symbols like trees, instead of stone monuments. Moreover, each tree was supposed to be identified by a plaque commemorating a single fallen soldier, in order to maintain the memory of his sacrifice to the citizenship and particularly to young generations. At present, many of these historical places are neglected and/or ignored by municipalities and require serious restoration intervention. Parole chiave Memorial Gardens and Avenues, First World War, restoration and conservation
K.S. Inglis, War Memorials: Ten questions for historians. Guerres mondiales et conflits contemporains, 167, 1992, pp. 5-21. 1
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Introduction Stone monuments commemorating wars and battles belong to the history of many countries and civilisations. Until the XIX century, such monuments were dedicated to generals and rulers, whereas soldiers and people were completely ignored. In modern times, this perspective changed, as demonstrated in the United States after the Civil War, where soldiers, i.e. ordinary fighting man, were registered on plates and monuments. In England, both officers and soldiers fallen during the war in Russia (18541856) were commemorated in the monument erected in London in 1859. A further step in the transition to a more democratic commemoration of war fallen is represented by the Memorial of South African War (1899-1902). Here soldiers are identified also as citizens belonging to both their counties and regiments. However, even under this new perspective, soldiers were listed in order of rank1. After the First World War ended, the scale of the human loss demanded a different scale and a different type of commemoration. Therefore, some new concepts inspired memorials dedicated to fallen. First, officers and soldiers were regarded at the same
level, names were listed in alphabetical order rather than according to their rank, thus stating equality of people in death and honouring them as citizens. A further change is represented by a completely new way for commemorating human losses in conflict: the realisation of Memorial Roads and Gardens in their honour. This form to commemorate fallen soldiers changed the concept of remembrance, which, instead of focusing on the dead, would serve to living populations and give a message to future generations. This concept originated in Britain thanks to the activism of Ms Millicent Harrington Morris and the Roads of Remembrance Movement, where she was serving as secretary. This British vision quickly reached Canada where both on the Atlantic (Halifax) and the Pacific coast (Victoria) maple avenues were dedicated to Canadian soldiers fallen during the war, some of which were described as ‘Boy Soldiers’ (died before turning 18 years). Memorial Avenues, also called ‘Roads of Remembrance’, were characterised by two lines of trees with each tree dedicated to a specific soldier whose name was written in a small plaqúe2. Following Halifax and Victoria, other Canadian cities realised ‘Roads of Remembrance’, such as Montreal in 1922. The example of Montreal inspired the Italian model for commemorating fallen soldiers. Immediately after the First World War, this topic was considered very relevant; as a result, Roads of Remembrance were realised in each municipality, according to a special law issued in 1923 (R.D. 2747/1923). Dario Lupi, a politician involved in the school reform (called ‘Riforma Gentile’), inspired this law, which considered the engagement of schoolchildren in the initiative of tree planting. This initiative was often ritualised as part of a local commemoration. The involvement of young generations was an instrument of propaganda for the fascist government, by giving youths and children an active role in preparing places of memory, characterised by strong values of identity and patriotic history. On the other hand, this law had also positive outcomes. The choice of public parks, avenues or garden also reflected what was often a lack of open space and outdoor facilities in urban areas or in villages, and ultimately contributed to the improvement of landscape. These gardens, located in urban or peripheral areas, were intended to be places of rest and meditation where natural and anthropic elements coexisted. For their importance, a law issued in Italy in 1926 (L. 559/1926) recognised these places as National Monuments, a recognition that is still working. In 1926 the fascist regime took advantage from the memorialisation of soldiers fallen in the First World War by including fascist victims within Parks and Gardens of Remembrance. Following the catastrophe of the Second World War with its millions of military and civil victims, the meaning of Memorial Gardens and Avenues was partially lost or radically changed, thus transforming their authentic significance. Among possible causes of oblivion, we should also consider that in some cases (e.g. in Italy) they have been regarded as symbols of past governments. Why choosing trees? How trees contribute shaping the landscape of memory? Trees are natural, nonhuman elements that play an important role in restoration and conservation of the environment. However, the fact that trees play a dynamic role in shaping the nature of places has received little attention3. In our culture, trees are strictly unied to symbolism and mythology; this point of view ignores that trees are
2 G.W. Fulton, Canada’s Memorial Avenues of Trees. Roads of Remembrance, in Tree avenues-from war to peace, proceedings of the International Symposium (Liffol le Grand, 12-13 November 2018), pp. 76-78. 3 P. Cloke, E. Pawson, Memorial trees and treescape memories, «Environment and Planning D Society and Space», 26, 2008, pp. 107-122.
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G.W. Fulton, Canada’s Memorial Avenues… cit. 5 P. Cloke, E. Pawson, Memorial trees… cit. 6 Ivi. 7 J. Dargavel, Memorial avenues: A historical perspective, Treenet, Proceedings of the 5th National Street Tree Symposium (2-3 September 2004), Adelaide University, pp. 2-5. 8 P. Cloke, E. Pawson, Memorial trees… cit. 4
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in relationship with the environment where they are placed. This statement helps us understanding the connection between trees (particularly memorial trees) and memorialisation. The choice of living trees instead of stone monuments for commemorating dead soldiers symbolises the victory of life over death4. Roads and Gardens of Remembrance are places where to walk and to rest in meditation and contemplation, as inspired by the tight connection between anthropic space and natural elements. This is a very modern way to celebrate memory and share collective grief. Opposite to that, stone monuments are artistic work to be observed. According to Cloke and Pawson5, there are several reasons that give trees memorial function. Some trees species carry a considerable symbolic freight, e.g. cypress and yew are funerary symbols in Christian tradition. In comparison to stone monuments, trees have the potential for personalisation, such as the plaque with the name of a fallen soldier. On the other hand, symbolism linked to memorial trees is subject to historical fading and may be of lesser significance today. Further, the unruled and individualistic character of trees contributes to disrupt the close order of memorial places and confers a sense of individualism within collective memory. Finally, trees change shape and size over time, thus contributing to changing landscape. However, the development in size can overwhelm the significance that trees had at the time of their planting at the commemorative places. The above mentioned traits identify and characterise the memorial functions of trees, moreover they underline that trees are markers of civic celebration and suitable representative for commemorating human history. However, memorial trees can easily lose their ‘iconic power’ and become ineffective as memorial markers whenever specific inscriptions get lost6. We should further consider that trees are living organisms, like all living organisms trees are subject to be removed from the human landscape following either natural events (environmental stressors caused by abiotic factors; diseases due to biotic agents) or human intervention (e.g. modification of urban organisation, architectural planning, social and political decision). What happens if only few of the original memorial trees or avenues survive? In some cases, there might be management plans or records in registers of the local administration. If memorial trees are still there with no signs to indicate their significance, their function vanishes completely. Dargavel7 poses the question: if the majority of the avenues have simply faded away, like the people who planted them, has grief passed? Or has their grief become our commemoration? We should deal with the fact that living memorial markers like trees can disappear, therefore their commemorative role can be lost. For all these reasons, Cloke and Pawson8 suggest to broaden the concept of memorial trees to that of treescape memories, thus linking tree and memorialisation (individualistic concepts) to a broader perception, that of landscape. What now? The recently celebrated centenary of the First World War was an important occasion to focus the attention on the subject of memorials for the fallen and to bring it to surface. At present, many of these historical places are neglected and/or ignored by municipalities and require serious restoration intervention. In most cases, name plaques have been removed or lost.
In Canada, where Roads of Remembrance were realised in many cities soon after the First World War, some ten years later many trees have been lost, mainly due to public indifference, commercial development and vandalism. In this way, their memorial role has largely been forgotten9. In urbanised environments, trees have to overcome several problems, such as competition for space, both above and below ground level; soil compaction; root zone damage from construction and utilities; total removal for building or road widening, air and soil pollution10. For these reasons, memorial trees require good quality management. Defining best practises for maintaining urban trees is a difficult task that often encounters bureaucratic, economic and administrative barriers. Management strategies should consider that trees require protection, correct and professional pruning practice, and adequate watering at least in their initial growing stage. If necessary, their removal and substitution should be appropriately organised. When memorial trees that approached the end of their life are not replaced, their cultural and historic value can easily be forgotten, causing the complete loss of Roads and Gardens of Remembrance. Replacing memorial tress poses the question of what type of tree to plant. Trees utilised for this purpose often belong to the same species (or even to the same clone) and have been planted at the same time. These criteria are useful for realising uniform landscape, but involve taking difficult decisions whenever either diseases or environmental threats arise and force to replace them. Tree species utilised in many historic avenues are no longer considered appropriate for various reasons: horticultural, aesthetic and cultural11. If the management of single trees is a difficult task, maintaining Roads and Gardens of Remembrance, thus the concept of landscape, is even more complicated. This kind of ‘living memorial monuments’ require to be linked to and appreciated by local communities, and their maintenance strongly depends on the value placed on them by local authorities.
Fig. 1 Park of Remembrance in Florence (2018). Fig. 2 Bronze sculpture (Fante d’Italia) withing the Park of Remembrance in Florence (2018).
9 G. W. Fulton, Canada’s Memorial Avenues… cit. 10 S. Cockerell, Avenues of honour: Location, assessment and management of war memorial tree avenues in Australia, Trenet, Proceedings of the 9th National Street Tree Symposium (4-5 September 2008), Adelaide. 11 Ivi.
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In Italy, the centenary of the Great War (as it is often defined) made several local, cultural and ministerial institutions to deal with the â&#x20AC;&#x2DC;state of the artâ&#x20AC;&#x2122; and promote restoration and valorisation actions. These interventions should encompass several expertise, from archival and historic to landscape and normative, in order to effectively carry out their task, starting from a complete inventory in all cities and townships that hosted Roads and Gardens of Remembrance and a recognition on their present conditions. The final goal of this ambitious proposal is to define guidelines that allow local administrations maintaining and promoting living war memorials that are cultural heritage recognised by law as National Monuments. Unfortunately, some Gardens of Remembrance are still in bad conditions, like that of Florence. This was the first one to be realised in Italy in 1923, in close vicinity to a monumental cemetery (Cimitero delle Porte Sante). Until 1932, more than three thousand cypresses were planted to honour all Florentine fallen soldiers, each cypress carrying a plaque with the warrior name. In 1927, a bronze sculpture, representing a soldier (Fante dâ&#x20AC;&#x2122;Italia) was positioned on top of an altar in the same area. In addition to vandalism, which damaged both the altar and the sculpture, the Florentine park was partially injured by meteorological events during summer 2014 and 2015. Moderate restoration was recently carried out, particularly to remove what was left by vandalistic writers, but the entire area requires a more intensive restoration intervention. Records and deliberations of war memorial deserve further research and rediscovering. In the light of contemporary loss of historical memory, the spirit of Memorial Gardens and Avenues should be revisited as a means for interpreting the value of urban landscape and its transformation.
pagina a fronte Fig. 3 Cemetery in Marina di Campo (Elba Island) with plaques honouring First World War fallen soldiers (2019). Fig. 4 Road of Remembrance at Cemetery in Marciana Marina (Elba Island) with cypresses honouring First World War fallen soldiers. Plaques with name of the soldiers are attached to each tree. (2019).
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Dalle pietre al paesaggio: la città storica per John Ruskin Donatella Fiorani | donatella.fiorani@gmail.com Dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’Architettura Sapienza Università di Roma
Abstract This essay wants to analyse the John Ruskin’s vision of conservation at the urban scale. The English critic lived personally the transition of the town from being a historical settlement, with evident features of long-persistent continuity, to become a composite and diachronic ensemble, defined by a mixture of ancient buildings and urban expansions, demolitions and new edifices, infrastructures and factories. The study is based on sifting through the Ruskin’s papers – books, diaries, letters he wrote in his life –, looking also to the wide bibliography about him and to the representations of European cities he produced during his travels in Europe. The reflections about the historical and modern town came to light from this material allow us to give an answer to a basic question: can we recognise an ‘urban dimension’ of the Ruskin’s conservative commitment or have we to consider this peculiar attitude as a product of the joining of his legacy with a later new cultural approach to the urban issue? Parole chiave Ruskin, conservazione, città, storia del restauro, paesaggio
F. Choay, La città. Utopie e realtà, ed. it. Torino, Einaudi 2000 (1° ed. franc. 1965). 2 A.W.N. Pugin, Contrasts or a Parallel Between the Architecture of the 15th & 19th century, London 1936 (trad. it. a cura di C. Acidini, Firenze, Uniedit 1978). 3 L. Benevolo, Le origini dell’urbanistica moderna, Bari, Laterza 1963 e L. Benevolo, La città nella storia d’Europa, Roma-Bari, Laterza 1993, p. 218. 4 Cfr. P. Geddes, John Ruskin economist, Edinburgh, William Brown 1884 (trad. it. «’Ananke», 65, 2012, 1
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Premessa In un’avvincente ricostruzione delle vicende storiche che hanno portato alla nascita dell’urbanistica moderna proposta nel 1965, François Choay collocava John Ruskin, con William Morris, Patrick Geddes ed Ebenezer Howard fra i sostenitori del modello ‘culturalista’ il quale, assieme alla contrapposta posizione ‘progressista’, avrebbe connotato la fase di riflessione pionieristica sulla città storica nella seconda metà del XIX secolo1. La presenza di Ruskin in questo gruppo di attori veniva motivata dalla sua posizione di rifiuto nei confronti dell’architettura coeva e dei processi d’industrializzazione, nonché dalla sua ‘filosofia sociale’ che, coniugata a un approccio fondamentalmente estetico, sembrava conferire alla questione urbana la giusta complessità. Non sfuggivano comunque alla filosofa francese l’influsso esercitato dalle argomentazioni e dagli strumenti proposti da Augustus Welby N. Pugin e dai suoi Contrasts2 e, soprattutto, gli obiettivi tradizionalisti e conservatori del pensatore inglese.
Due anni prima della stesura del saggio di Choay, nel 1963, anche Leonardo Benevolo proponeva in Italia un quadro ricostruttivo delle ‘origini’ dell’urbanistica moderna, in cui ritenne di non dover collocare John Ruskin; questi fu viceversa citato dallo stesso Benevolo trent’anni dopo, in un libro sulla città europea, in riferimento al richiamo nostalgico del rapporto fra città e campagna, inesorabilmente perduto col nuovo urbanesimo3. Il ruolo tutto sommato marginale comunque assegnato a Ruskin dalla storiografia urbana contrasta con il riecheggiare del nome del ‘profeta di Brantwood’ in alcuni scritti successivi alla sua uscita di scena, a partire da quelli di Patrick Geddes che, nel 1884, dedicava proprio a questi un breve trattato, finalizzato a esaltare la coerenza fra critica estetica e critica economico-sociale del suo pensiero nonché a sottolineare il carattere materiale e al tempo stesso culturale che connota il contesto urbano4. L’appropriazione del pensiero di Ruskin è divenuta comunque significativa nel corso del Novecento, sia nei dibattiti teorici e accademici che nell’agone operativo riguardante l’intervento sui centri storici. Essa, pur avendo accomunato coloro che vi riconducono la responsabilità di un atteggiamento contrario a ogni trasformazione urbana5 e chi vi riconosce l’avvio di un’auspicata modalità conservativa estensiva e indifferenziata6, solleva tuttavia alcuni problemi interpretativi. Soprattutto, risulta difficile distinguere quanto sia espressione diretta delle idee del critico inglese e quanto il prodotto di architetti e urbanisti delle generazioni successive. In altri termini, ci si chiede se e in che modo il contributo di Ruskin sul tema della conservazione della città possa essere scaturito direttamente da sue esplicite valutazioni o se esso derivi piuttosto da una più generale proiezione dell’approccio dell’Antirestoration Movement dalla scala architettonica a quella urbana, perlopiù effettuata dagli esegeti più tardi. Per cercare di fornire una risposta a questa domanda è necessario approfondire la conoscenza sugli studi di e su John Ruskin anche in riferimento alla particolare contestualizzazione storica. La ponderosa letteratura esistente7 ha già da tempo evidenziato i contributi che caratterizzano l’impegno specifico di questi nell’architettura: dallo scritto giovanile The Poetry of Architecture (1837-38), ai volumi di The Seven Lamps of Architecture (1849) e The Stones of Venice (1851-53), fino alle Lectures on Architecture and Paintings (1858). Al ventennio di ricerche e scrittura specificatamente orientate, si aggiungono ulteriori spunti contenuti in alcune raccolte più tarde, nelle prefazioni alle ristampe delle prime opere e l’attenzione di una vita espressa nelle lettere, nei diari e, soprattutto, nell’incessante e preziosa produzione grafica. Numerosi studi hanno ricostruito il profilo di pensatore, artista, teorico dell’architettura e della conservazione del critico inglese lavorando sul materiale da lui prodotto, talvolta lambendo il tema del destino della città storica ma mai trattandolo nella sua specificità come qui si propone. La città come organismo coerente La visione di città di Ruskin appare pienamente concorde con quella degli studiosi e degli architetti del suo tempo8. Anche se non sfugge la natura schiettamente associativa dell’insieme costituito da monumenti, edifici pubblici e tessuto indistinto di edilizia residenziale («la città non è una collezione di unità»)9, quest’ultimo viene raramente descritto nella sua dimensione architettonica e nei caratteri di reciproca connessione costruttiva e figurativa. Il critico inglese ritiene sì che gli edifici domestici, essenzialmente privati, siano fondamentali per definire i caratteri di armonia di un con-
pp. 7-26). Per commento e traduzione in italiano cfr. C. Rostagno, Il ruolo del pensiero di John Ruskin nell’urbanistica italiana tra gli anni venti e quaranta del Novecento, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006, pp. 207155 e C. Rostagno, L’economia romantica di John Ruskin e il ‘drama’ della vita secondo Patrick Geddes, «’Ananke», 65, 2012, pp. 4-6. 5 Posizione ribadita ancora in G. Zucconi, Venezia, prima e dopo Ruskin, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006, pp. 270-282. 6 Nel dibattito parlamentare del 1920 sulla legge di tutela italiana, per esempio, Ruskin fu indicato come l’iniziatore della difesa del paesaggio (A. Bellini, Riflessioni sull’attualità di Ruskin, «Restauro», XIII, 71-72, 1984, pp. 63-84, p. 81) e gran parte della storiografia del restauro novecentesca è costellata da riferimenti all’approccio panconservativo del pensatore inglese. 7 Data l’immensità della bibliografia prodotta e l’impossibilità di darne conto in questa sede si è scelto di limitare i riferimenti ai contributi che sono risultati più utili allo sviluppo dell’argomento trattato, richiamati puntualmente in nota. Limitatamente alla sola produzione italiana, ricordiamo comunque le panoramiche generali offerte in R. Di Stefano, John Ruskin interprete dell’architettura e del restauro, Napoli, ESI 1969; L.C. Forti, John Ruskin: un profeta per l’architettura, Genova, Compagnia dei librai 1983 e G. Leoni, Il pensiero e l’opera di John Ruskin, in J. Ruskin, Opere, a cura di G. Leoni, Roma-Bari, Laterza 1987, pp. 1-144.
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RA Lo studio svolto sui testi di Ruskin si è prevalentemente avvalso dell’opera omnia curata da Eduard Tyas Cook e Alexander Wedderburn (1903-12), per convenzione diffusa citata come Works (J. Ruskin, The works of John Ruskin, a cura di E.T. Cook, A. Wedderburn, London, G. Allen 1903-12, 39 voll.), indicando il numero di volume e delle pagine. 9 J. Ruskin, Lecture on Architecture and Painting. Delivered at Edinburgh in November 1853, London, George Allen 1854, p. 162. 10 The Seven Lamps of Architecture, Works, 8, p. 136. 11 P. Mallet, The «faint image of a lost city»: John Ruskin and the meaning of Venice, in Orizzonti Mediterranei e oltre. Prospettive inglesi e angloamericane, a cura di L. Marchetti, C. Martinez, Milano, LED 2014, p. 17. 12 The Poetry of Architecture, Works, 1 13 The Seven Lamps of Architecture, Works, 8, pp. 140-143. 14 The Seven Lamps of Architecture, Works, 8, p. 8. Cfr. anche le considerazioni in J. Unrau, Looking at architecture with Ruskin, London, Thames and Hudson 1978, passim. 15 Vedi quanto più volte ribadito nei diari e nelle lettere a familiari e conoscenti (Works, 36-37). Sulla specifica volontà di Ruskin di rappresentare l’architettura non come dato limitato e immodificabile ma come fenomeno ottico costantemente variabile vedi le osservazioni in J. Unrau, Looking at architecture… cit., pp. 155-157. 8
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testo urbano, ma non distingue, se non per scala d’importanza estetica, l’architettura monumentale da quella diffusa, accomunate persino dal giudizio d’inferiorità della produzione inglese rispetto alla francese e italiana10. Le qualità dell’edilizia comune vengono quindi essenzialmente ricondotte ai principi generali della ‘differenziazione’ delle componenti costruttive, della varietà e della corrispondenza di materiali, forme e soluzioni tecniche alla natura e alla cultura dei luoghi. La lettura del suo scritto di maggior successo, The Stones of Venice, restituisce in maniera immediata la visione di una città intesa come realtà complessa e stratificata, compresa fra la scala minuta del dettaglio lapideo e quella indefinitamente estesa del paesaggio. Questa realtà viene essenzialmente ricondotta all’assemblaggio di elementi costruttivi differenti (fondazioni, murature in elevato, coperture), articolati in componenti diversi per geometria e concezione strutturale (pilastri, archi, cornici, contrafforti, aperture) e per finalità funzionali (chiusure di vani, portici e balconi, scale) nonché fortemente caratterizzati dalla propria singolarità decorativa. Tali elementi vengono finalmente riletti in unità organiche coerenti costituite da singole architetture monumentali della città lagunare, specie S. Marco e il Palazzo Ducale. Malgrado l’opera costituisca il prodotto di mesi d’intenso lavoro per il rilevamento diretto di numerose fabbriche, la dimensione propriamente urbana di Venezia non scaturisce dall’illustrazione puntuale di sistemi connettivi delle fabbriche lungo i canali, le calli o i campi cittadini, ma piuttosto dalla lettura formale e costruttiva dell’architettura del luogo, associando suggestioni di natura estetica alla disamina della logica realizzativa, in una ricerca che potrebbe sembrare tassonomica se non avesse in realtà alcun intento veramente catalogatore e non fosse più volte smentita e contraddetta al suo interno11. Questa modalità di lettura dell’edificato ribadisce sostanzialmente, pur con maggiore capacità di approfondimento e confronto, quanto già sperimentato nella stesura di The Poetry of Architecture, dove scritti e disegni illustravano le caratteristiche costitutive di cottages e ville isolate al di qua e al di là delle Alpi e in Inghilterra12. Paradossalmente, quindi, ma anche piuttosto in linea con il pensiero generale di Ruskin, la coerenza dell’organismo urbano si fonda proprio nella sua irriducibile differenziazione interna, fondamentale requisito che accosta il prodotto della creazione umana alla natura e, pertanto, ne garantisce l’effettiva qualità estetica e morale13, sia questo una fabbrica isolata o una città. L’analisi delle modalità linguistiche e rappresentative di Ruskin, straordinariamente affini fra loro, offre ulteriori spunti per inquadrarne la specifica concezione di città. In particolare, l’attenzione per gli aspetti proporzionali relativi a masse, linee e decorazioni, richiamata programmaticamente negli scritti ‘ufficiali’14, così come le vibrazioni cromatiche e le mutazioni di luci e di ombre meticolosamente evidenziate nei libri e, soprattutto, nelle lettere e nelle scritture più intime15, costituiscono un corrispettivo importante che lega produzione letteraria e grafico-pittorica ed evidenziano una visione di città come immagine unitaria, coerente e compiuta, di caratura sostanzialmente percettiva ed estetica. Una percezione che, in un certo senso, risolve la dibattuta questione della supposta visione ‘bidimensionale’ dell’architettura di Ruskin16, il quale in realtà descrive sempre la città (letterariamente e graficamente) in riferimento a una successione di forme, edificate o naturali, a profondità diverse. La nota e pressoché totale assenza di piante dei piani terreno nelle sue opere restituisce quindi piuttosto l’idea di una netta sepa-
razione fra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ del contesto urbano, il primo consegnato alla riservatezza del privato e alla cifra inessenziale della funzione, il secondo alla magnificazione del paesaggio. La città storica come paesaggio Sempre in The Stones of Venice, alle precise illustrazioni delle componenti architettoniche si aggiungono alcune brevi ma intense descrizioni paesaggistiche, inserite estemporaneamente in più capitoli. Per esempio, l’assenza di fortificazioni, che differenzia Venezia dalle altre città italiane, viene compensata dalla «foresta» di campanili che punteggiano la laguna e quest’ultima viene considerata, con i «globi dorati sospesi sui gigli delle terrazze», l’espressione di una storia speciale, adeguatamente descrivibile grazie alla critica artistica17. O, ancora, nelle annotazioni puntuali di un viaggio lungo il Brenta, affiorano una veduta della «non vivace» città di Mestre, fatta di strade strette e fossati, chiese solitarie in mattoni, edifici conventuali, e, poco dopo, della laguna con Venezia sullo sfondo: la città appare oltre il ponte della neo-costruita ferrovia come una linea disordinata di edifici bassi e confusi in mattoni [...]. Quattro o cinque cupole, pallide e apparentemente a più grande distanza, salgono verso il centro della linea […con…] un’astiosa nuvola di fumo nero che aleggia sopra la sua metà settentrionale, diffusa dal campanile di una chiesa18.
Non sfugge l’analogia di queste descrizioni, così minutamente attente alla forma e al colore dell’immagine, con quelle in alcune lettere e nei diari di viaggio. Fra le tante, Sanremo, visitata nel viaggio in Italia del 1840-41, appare tutta ammassata su un colle, con vie larghe meno di due metri, le case separate e sorrette da un intrico di archi in muratura e inarcate in basso da portici bui e massicci; il fiume precipitante giù per un alveo roccioso attraverso il centro della città, con frammenti di ponti e acquedotti pericolanti nelle sue acque, le bianche masse di muri levantesi da quelle, terrazza sopra terrazza, archi e nere finestre con architravi affrescati. Cinque o sei chiese, tutte molto simili: bianche, fiorentine, con ricche finestre e voli di lievi trafori di marmo tutt’intorno, ma imbiancate a calce e dipinte fino all’inverosimile19.
La città di Ruskin, quella descritta come quella ritratta in schizzi, acquerelli e dagherrotipi20, è un luogo di scorci, canali visivi preferibilmente rivolti a monumenti (artificiali e naturali), elementi costruttivi sovrapposti, quasi sempre sottratti alla presenza umana, semmai ricondotta ad aneddoti minuti o a piccole sagome e indizi, come i panni stesi dai balconi italiani. Molto spesso è una città innestata nella natura, una massa compatta e frastagliata che popola scenari marini, lacustri, fluviali e soprattutto montani, come per Torino e la collina di Superga, Napoli e il Vesuvio, Ventimiglia e le sue alture21. Nell’intento di stabilire una relazione fra ambito urbano e naturale non pesano tanto le pure esplicite riserve sul carattere artificiale della città, contrapposto alle esigenze umane più profonde22, quanto piuttosto la sensibilità, di matrice estetica, romantica e specificatamente anglosassone, per il paesaggio, di cui Ruskin costituì un potente veicolo23. Egli ha infatti dimostrato una straordinaria capacità nel saper declinare il suo modo di pensare l’architettura «in matita e pennello»24 in termini argomentativi e di riflessione, consegnando a un più ampio pubblico, con la sua minuziosa insistenza descrittiva, una sensibilità già in parte prospettata da Pugin25, nella quale il compiacimento della bellezza dei luoghi si assomma all’ammonizione del rischio connesso alla loro perdita.
L’argomento ha particolarmente stimolato gli studiosi, soprattutto anglosassoni: di contro alle affermazioni in K. Ottesen Garrigan, Ruskin on Architecture: His Thought and Influence, Madison (Wis.), University of Wisconsin Press 1973, in merito alla sostanziale bidimensionalità della visione architettonica di Ruskin (legata, per molti altri, al suo non essere un architetto), in J. Unrau, Looking at architecture… cit. si sottolinea la presenza, nei libri del critico inglese, di alcune raffigurazioni tridimensionali e, soprattutto, di una lettura complessa della realtà architettonica, riconducibile a una sofisticata concezione dell’ornamento, subordinata alla distanza del punto di vista dell’osservatore. Cfr. anche le ulteriori considerazioni in A. Chatterjee, John Ruskin and the fabric of architecture, London-New York, Routledge-Taylor & Francis Group 2018. 17 The Stones of Venice, Works, 9, p. 30. 18 The Stones of Venice, Works, 9, pp. 414-415 (trad. della scrivente). 19 Dal diario di John Ruskin, 27 ottobre 1840, in J. Ruskin, Diario italiano. 1840-1841, trad.it. e introduzione di A. Brilli, Firenze, Mursia 1992, p. 16. 20 Fra i circa 5000 fra schizzi, disegni e acquerelli di John Ruskin alcuni raffigurano città (catalogo in Works, 38). Si tratta soprattutto di abitati italiani (Venezia, naturalmente, ma anche Aosta, Bellinzona, Vercelli, Como, Genova, Verona, Bologna, Firenze, Pisa, Lucca, Viterbo, Roma, Ariccia, Itri, Napoli, Salerno, Amalfi) e svizzeri (Baden, Berna, Bienne, Friburgo, Lucerna, Sangallo, Säckingen, Stein-am-Rhein, Thun, Unterseen, Zug), ma pure francesi (specie Abbeville, ma anche Calais, Rouen, Strasburgo, Nizza), tedeschi 16
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RA (Colonia, Münster, Norimberga, Spira, Stoccarda, Ulm) e britannici (Oxford, York, Carlisle, Edimburgo). Per i dagherrotipi di Ruskin e il loro impiego si rimanda a P. Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in I dagherrotipi della collezione Ruskin, a cura di P. Costantini, I. Zannier, Firenze, Alinari 1986, pp. 9-20. 21 La corrispondenza fra il suo sguardo di pittore e di scrittore nel descrivere il paesaggio è consapevolmente e più volte evidenziata in The Modern Painters, Works, 3-7. 22 Com’è noto, Ruskin espresse in più passi di The Seven Lamps of Architecture e The Stones of Venice le sue riserve nei confronti della città: l’architetto avrebbe dovuto viverci il meno possibile per trovare la giusta ispirazione e la perdita di contatto con la natura annullava il vantaggio nel vivere in compagnia nella città (Works, 8, p. 136; Works 9, p. 411). Sull’antiurbanesimo di Ruskin e le problematiche urbane del suo tempo vedi anche F. La Regina, William Morris e l’Antirestoration Movement, «Restauro», 13-14, 1974, pp. 82-105. 23 G. Chitty, Ruskin’s Architectural Heritage: The Seven Lamps of Architecture. Reception and Legacy, in Ruskin & Architecture, a cura di R. Daniels, G. Brandwood, Oxford, Spire Book-The Victorian Society 2003, pp. 25-54. 24 M. W. Brooks, John Ruskin and Victorian architecture, London, Thames & Hudson 1989, p. 16.
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Occorre infine sottolineare come la città delineata da Ruskin presenti una forte natura dinamica, in quanto la sua realtà muta continuamente al variare della luce e della prospettiva d’osservazione, oltre che, come vedremo più avanti, con il tempo. Il futuro della città storica John Ruskin è stato innanzitutto, per l’architettura, uno straordinario analista: i suoi studi hanno costituito un’incessante sollecitazione d’interesse per le fabbriche e, quindi, anche per le città storiche, una vera e propria opera di valorizzazione di un ambiente costruito che la maggior parte dei politici e degli stessi intellettuali dell’epoca considerava come mero luogo di degrado e insalubrità. Le descrizioni delle città ruskiniane, pur prioritariamente attente al dato estetico, non sono però idealistiche e, specie nelle annotazioni delle lettere, non risparmiano particolari penosi sulla situazione di povertà sociale, sul livello di dissesto fisico, oltre che, naturalmente, sul deprecabile e continuo esercizio di attività demolitive e trasformative nel corpo vivo delle fabbriche. Sebbene completamente opposti nel valutare le qualità dell’edilizia storica, alcuni scorci delle miserie di Roma, Napoli e Londra tratteggiati da Ruskin26 non paiono molto lontani dalle descrizioni con cui Friedrich Engels, nel 1845, denunciava le condizioni di vita della popolazione di Manchester27. Nelle rappresentazioni grafiche, inoltre, l’interesse per la consunzione materiale dell’edificato si affianca alla cura quasi ‘notarile’ per la registrazione delle sovrapposizioni costruttive soprattutto nella raffigurazione di dettagli (come per il veneziano Fondaco dei Turchi, 1845), mentre sembra piuttosto sostituirla nelle visioni d’insieme delle città. Numerosi disegni, come il profilo di Unterseen (1835), Il villaggio italiano, la Piazza S. Maria del Pianto (1840) a Roma, le Streets Scenes (1840-41) napoletane, il Palazzo del Cammello e la Casa Contarini-Fasan (1841) a Venezia o la Piazza del Mercato di Abbeville (1868), illustrano infatti meticolosamente le tracce di dissesto, i distacchi d’intonaco, le cornici lacunose, le murature consunte dai profili incerti, i solai e i tetti in legno deformati, le chiusure sconnesse dei vani, l’inscurimento delle pietre e la presenza aggressiva della vegetazione. Se in Engels la denuncia sociale comporta la negazione della qualità abitativa della città storica, nella prospettiva di una sua sostituzione con nuovi modelli esistenziali e insediativi, in Ruskin la rappresentazione delle condizioni urbane risponde a un’esigenza al tempo stesso conoscitiva (la sua concezione del disegno quale strumento di comprensione della realtà è ben nota)28, documentaria (lui stesso riferisce nelle sue lettere che deve affrettarsi a restituire palazzi destinati ben presto a scomparire) ed estetica, laddove la cifra del pittoresco, come evidenzia lui stesso, non va ricercata «nell’espressione del decadimento universale» ma nei caratteri di «sublimità parassitaria» legati a fattori accidentali, quali l’andamento di linee e ombre29. In The Seven Lamps of Architecture, il critico inglese esprime un’esplicita attenzione per l’edilizia residenziale, ovvero per la «santità della casa degli uomini probi» – che può corrispondere di per sé alla casa rurale e isolata o urbana – sottolineando l’opportunità di costruire e vivere tali fabbriche «come dei templi», con l’obbligo morale di non violarle da parte di coloro che li hanno costruiti e dei loro figli. Ruskin, però, sposta subito dopo lo sguardo sulle precarie edificazioni che dilatavano la periferia londinese dei suoi tempi: gracili e barcollanti gusci senza fondamenta […] disposti in quelle squallide file di una precisione freddamente regolare, senza differenze e senza alcun senso di fratellanza, tutte uguali e tutte isolate in sé stesse30.
Comunica inoltre il suo disgusto di uomo privilegiato31 nei confronti di coloro che non costruivano per edificare una testimonianza permanente ma, nella speranza di compiere una futura ascesa sociale, si limitavano a creare ricoveri provvisori, già pensando al loro futuro abbandono. Il richiamo all’opportunità di trasmettere la residenza da padre in figlio si connette all’esortazione a costruire in maniera durevole e bella senza che ciò si traduca specificatamente in prescrizioni per la conservazione della città: tali prescrizioni, probabilmente, non appaiono necessarie. Piuttosto, Ruskin sostiene che la qualità figurativa e costruttiva della fabbrica originaria e la notifica tramite iscrizioni narranti la vicenda umana ivi ospitata consentono di elevare l’edificio a ‘monumento’, ovvero a strumento di trasmissione della storia, anche individuale, dell’uomo32. In tal modo, le critiche ai restauri e l’esortazione a mantenere l’esistente pietra per pietra sembrano rivolgersi a pieno titolo anche all’edilizia diffusa e, in effetti, le raccomandazioni che costellano il capitolo dedicato alla Lampada della Memoria si riferiscono genericamente a tutti gli edifici storici (‘buildings’), non solo alle fabbriche maggiori. Ma queste ultime rimangono le sole a essere citate come esempi nei vari ragionamenti e non va dimenticato che poche pagine prima, nella Lampada del Sacrificio, l’autore osservava come la creazione di architettura avvenisse aggiungendo alla semplice costruzione «certi caratteri venerabili o belli, ma altrimenti non necessari», fissando un chiaro discrimine estetico nella valutazione degli edifici storici33. Il nesso istituito fra conservazione architettonica e urbana non è quindi privo di ambiguità e non può dirsi definitivo, in quanto esso è desumibile solo indirettamente e non viene chiaramente esplicitato da Ruskin, che pure era abituato a chiosare le sue idee in più scritti. Del tutto espliciti appaiono invece gli obiettivi della stesura del libro che Ruskin dedica a una città, The Stones of Venice. Nelle prefazioni alle edizioni dei volumi del 1851 e del 1874 spiega infatti di voler evidenziare il carattere universale dei principi tratti dallo studio dell’architettura medievale veneziana per offrire agli architetti inglesi spunti utili a realizzare nuovi edifici a schiera, secondo l’esempio offerto dai costruttori medievali; in tal senso, la descrizione delle componenti architettoniche trascende la realtà specifica della città lagunare, cogliendo pure le analogie e le differenze con le soluzioni adottate in altri contesti, specie inglesi e francesi34. Lo studio urbano viene quindi prevalentemente motivato dalle necessità di superare i problemi derivanti dalla scarsa qualità delle nuove costruzioni, com’è ulteriormente sostenuto nel corso delle fortunate conferenze di Edimburgo nel 185435. Certamente, garantire alle città storiche una lunga vita costituisce un importante impegno da perseguire, dato che le architetture, sia ‘alte’ che ‘basse’, sono soprattutto valorizzate dalla loro età veneranda36. Ciò nonostante, il dinamismo temporale al quale esse si trovano sottoposte e che Ruskin non può fare a meno di registrare e trasmettere, genera nello studioso un patimento personale: le città che studia mutano nel tempo, si direbbe che gli sfuggano quasi sotto gli occhi, degradandosi, e lo tradiscano, innovandosi37. Non si tratta solo di Venezia, dalla quale si distaccherà per queste ragioni nei suoi scritti più tardi, ma, più in generale, di tutti gli abitati storici. Davanti ai suoi occhi, città come Beauvais, Tours, Ginevra, Pisa e Firenze hanno trasformato in merce per il turismo ciò che deve essere primariamente colto nella sua appropriata dimensione esistenziale e culturale38. Molti centri visitati nel corso della sua vita, Venezia, Firenze, Genova,
Ruskin sminuì in vita l’influenza su di lui esercitata dal pensiero di Pugin, peraltro comprovata da molti numerosi riscontri concreti (M.W. Brooks, John Ruskin… cit., p. 41). 26 La critica al degrado delle due città italiane, manifestata nelle lettere e nei diari giovanili (J. Ruskin, Diario italiano. 1840-1841… cit. e J. Ruskin, Viaggi in Italia. 18401845, trad.it. e cura di A. Brilli, Firenze, Passigli 1985, pp. 5-13) e segnata da una vaga venatura snobistica, diviene aperta denuncia sociale nella seconda parte della sua vita, caratterizzata dal suo interesse controcorrente per l’economia espresso soprattutto in Unto this last (1862), Munera pulveris (1871), Works, 17. Cfr. G. Guerzoni, La ricezione italiana del social and economic criticism di John Ruskin 18501950, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006, pp. 136-155. 27 L. Benevolo, Le origini dell’urbanistica… cit., pp. 41-53. 28 Ruskin stesso ne fa riferimento in The Modern Painters (1843-56) e nel terzo volume di The Stone of Venice, soffermandosi sul rapporto fra arte e scienza, mentre fra i numerosi approfondimenti sul tema si ricordano P.H. Walton, The drawings of John Ruskin, Oxford, Clarendon 1972 e C. Newall, John Ruskin. Artist and Observer, National Gallery of Canada, Ottawa and Paul Holberton publishing, Ottawa-London 2014 (con la riproduzione e lo studio critico di disegni e acquerelli) e le sintesi in G. Rocchi, John Ruskin e le origini della moderna teoria del restauro, «Restauro», 13-14, 1974. pp. 13-73 e A. Brilli, Dalle pietre pittoresche alle pietre di paragone, in John Ruskin: Viaggi in Italia. 1840-1845, a cura di A. Brilli, Firenze, Passigli 1985, pp. 5-13. 25
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Donatella Fiorani
RA The Seven Lamps of Architecture, Works, 8, p. 236. 30 The Seven Lamps of Architecture, Works, 8, p. 226. 31 La mutazione di atteggiamento dopo il 1860, con il nuovo impegno di Ruskin nel sociale, non comportò comunque modifiche di queste affermazioni nelle riedizioni più tarde dei volumi sull’architettura. 32 The Seven Lamps of Architecture, Works, 8, pp. 228-230. 33 The Seven Lamps of Architecture, Works, 8, p. 28. Sull’argomento, particolarmente controverso e discusso da suoi contemporanei, eredi e studiosi, cfr. M.W. Brooks, John Ruskin and… cit., pp.75-96 e p. 325. 34 The Stones of Venice, Works, 9, pp. 10-13. L’autore lamenta comunque che, nei venti anni abbondanti che separano le due edizioni, gli spunti offerti siano stati solo parzialmente seguiti nella pratica corrente, la quale aveva tradito lo spirito ispiratore originale per assecondare le pressioni legate agli interessi economici. 35 Ruskin, Lecture on Architecture… cit. 36 The Seven Lamps of Architecture, Works, 8, p. 241. 37 In diverse lettere inviate al padre nel 1845, in occasione della sua seconda visita a Venezia, Ruskin stigmatizza le trasformazioni subite in dieci anni riconducendole ai restauri intrapresi, all’inserimento nella laguna della linea ferroviaria, alla sostituzione dei parapetti dei ponti sui canali con elementi in 29
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Lucerna, hanno cambiato aspetto, come a Rouen «la sola città rimasta in Francia in cui l’effetto dell’antica architettura domestica francese possa ancora essere vista nel suo insieme», dove si sostituiscono le coperture e imbiancano gli ornamenti per renderli conformi agli uffici e agli alberghi sulla strada39. Le città esistono, invecchiano e si trasformano: se il trascorrere del tempo passato determina la ricchezza dell’architettura quello del tempo futuro suscita disagio e rifiuto. La risposta a questo disagio che Ruskin comunica nei suoi scritti è duplice: da una parte occorre contrastare la costruzione di piazze regolari, marciapiedi alberati e strade eleganti a spese della demolizione di brani edilizi40, dall’altra è comunque necessario realizzare nuovi edifici consoni alla qualità costitutiva e artigianale della preesistenza41. La visione della passeggiata solitaria, ma densa di consolazione, per Firenze e Verona, in chiusura del capitolo dedicato alla Lampada della Memoria e il richiamo alle «ricche prospettive stradali di Rouen, Anversa, Colonia o Norimberga»42 rimandano a quello che appare l’obiettivo prioritario da garantire in ogni caso: la possibilità di contemplare i monumenti attraverso scorci visivi creati dalle strade frastagliate e mutevoli della città. Ruskin non contempla mai l’ipotesi di una futura estinzione dei nuclei urbani storici né si pone il problema di come presidiarla: non allude agli scenari dei Fori di Roma, da lui tanto vituperati, né di Pompei, imprevedibilmente apprezzata; si scandalizza persino, a Venezia, non tanto che i «due terzi dei palazzi sono in restauro (sappiamo bene con quali conseguenze) ma [che] rischierebbero addirittura di crollare se li lasciassero al loro destino»43. Potrebbe trattarsi di una delle innumerevoli contraddizioni del profeta di Brantwood o di un sintomo di deresponsabilizzazione da parte di chi, comunque, non è né pensa di essere un architetto, ma come escludere la possibilità che, per mantenere quegli scorci così tenacemente amati non avrebbe anche ammesso la costruzione di nuove fabbriche, realizzate con i medesimi criteri di solidità, efficacia figurativa e costruttiva al posto di quelle antiche, ormai esauste e distrutte? Ruskin, naturalmente, non formula mai questo pensiero ma, sebbene suggerisca, in celeberrimi passi44, di operare sugli edifici con semplici e puntuali modalità manutentive, quando si trova a stigmatizzare gli esiti distruttivi degli interventi si riferisce solo ai monumenti, mentre quando ragiona operativamente sulla città si preoccupa soprattutto di sostenere una nuova produzione edilizia ispirata alla linea della tradizione. Non sorprende, quindi, che, dal punto di vista operativo, la Society for the Protection of Ancient Buildings, patrocinata da Ruskin e Morris, sia perlopiù intervenuta per contrastare iniziative di restauro monumentale, come dimostrano le pratiche di denuncia del Foreign Commettee riguardanti in genere singoli edifici o siti archeologici. Fra le rare eccezioni è l’interesse per i ‘Bassi’ minacciati dalla realizzazione del Piano di Risanamento di Napoli, come testimoniato da documenti d’archivio nel convegno annuale della SPAB e dall’intervento Morris nel convegno annuale della SPAB del 188945. Anche accettando l’ipotesi che Ruskin possa aver in qualche modo contribuito a promuovere tale interesse, non si può fare a meno di notare che l’anno in cui il primo centro storico appare come focus conservativo è lo stesso in cui le condizioni di salute del pensatore inglese collassano definitivamente. Conclusione La visione di Ruskin della città quale insieme essenzialmente costituito dall’assemblaggio di edifici diversi, individuali e unici (così come per molti versi le singole archi-
tetture appaiono come palinsesti di componenti diverse, individuali e uniche) rende in parte legittima l’ipotizzata estensione di scala dell’idea di conservazione strettamente materica dalla fabbrica al contesto urbano. Ma ciò non significa che l’uso che i restauratori-urbanisti novecenteschi hanno fatto del pensiero di Ruskin corrisponda esattamente al pensiero di Ruskin stesso: a questo hanno aggiunto, infatti, una concezione di città che il pensatore inglese non possedeva, sia perché distante dal suo approccio asistematico ed estetico, sia perché ancora comunque non culturalmente matura per i suoi tempi46. Occorrevano ancora gli studi di Camillo Sitte sui rapporti reciproci fra edifici, monumenti, reti stradali e piazze e sulle loro logiche organizzative interne, le analisi di Hermann Josef Stübben per la definizione tecnica degli interventi urbani, la costituzione dell’urbanistica come disciplina specialistica alla fine del XIX secolo e il contrasto esercitato dai restauratori nei confronti dei tanti ‘risanamenti’ sulle città storiche europee per conferire all’idea di conservazione urbana il significato che effettivamente oggi le riconosciamo, ovvero di una pratica più orientata al sostegno della preesistenza edilizia nella sua più estesa definizione figurativa, tipologica, costruttiva, strutturale e funzionale che preoccupata della persistenza di prospettive visive da una parte e di principi costitutivi tradizionali dall’altra. La chiave di lettura proposta non toglie nulla, naturalmente, all’importanza della figura di Ruskin come ispiratore della linea di pensiero conservativa anche in ambito urbano; essa vuole, al contrario, raccogliere l’osservazione secondo cui «Leggere i libri su Ruskin […] fa sempre chiedere se qualcuno legge mai, o ha mai letto, i libri stessi di Ruskin. La sua presenza culturale è sempre stata qualcosa in più di quella di un produttore di testi»47, per sottolineare la capacità che il pensiero del maestro ha avuto nel generare ulteriori sviluppi della riflessione, anche pagando il prezzo, in un certo senso previsto48, di un suo ulteriore superamento.
ferro e allo sviluppo dell’Arsenale (J. Ruskin, Viaggi in Italia. 1840-1845… cit.; cfr. le considerazioni in G. Chitty, Ruskin’s Architectural Heritage… cit., p. 31). Lamenta che, come vedrà poi a Venezia, a Firenze «non fanno altro che lastricare, racconciare o installare l’illuminazione a gas» (lettera del 17 giugno 1845, in J. Ruskin, Viaggi in Italia. 1840-1845… cit., p. 148). Una meticolosa ricostruzione dei viaggi del critico inglese, messi in relazione con la sua produzione letteraria e grafica e la tradizione del Gran Tour, è in K. Hanley, C.S. Hull, John Ruskin’s Continental tour 1855. The written records and drawings, Oxford, Legenda 2016. 38 L.C. Forti, John Ruskin… cit., pp. 52-53; M. Pretelli, Il riposo di San Marco. St Mark’s Rest, Bologna, Maggioli 2010, p. 67. 39 The opening of the Crystal Palace, conferenza del 1854, in Lectures on Architecture, Works, 12, p. 427. 40 The Seven Lamps of Architecture, Works, 8, p. 246.
Il valore dell’attività artigianale nella produzione, non solo edilizia, costituisce la cerniera concettuale che lega gli interessi d’arte e d’architettura nella sua fase giovanile con la produzione letteraria e le proposte operative, soprattutto di taglio economico-sociale e modale, della seconda metà del secolo. 42 Vedi rispettivamente, The Seven Lamps of Architecture, Works, 8 p.247 e The Stones of Venice, Works, 11, p. 4. 43 Si tratta sempre della lettera al padre del 10 settembre 1845 (trad. it. in A. Brilli, Dalle pietre pittoresche… cit., pp. 201-204). 44 The Seven Lamps of Architecture, Works, 8, pp. 244-247. 45 Cfr. D. Lamberini, I ‘nobili sdegni’. Le battaglie inglesi della SPAB contro i restauri nel continente e l’influsso sui proseliti europei della conservazione, «Quasar», 20, luglio-dicembre 1998, pp. 7-44; S. Casiello, R. Picone, John Ruskin e il mezzogiorno d’Italia. Gli esiti della conservazione dei beni architettonici nel Novecento, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006, pp. 65-82; R. Picone, John Ruskin e il mezzogiorno d’Italia: gli esiti sulla conservazione, in Saggi in Onore di Gaetano Miarelli Mariani, a cura di M.P. Sette, M. Caperna, M. Docci, M.G. Turco, («Quaderni dell’Istituto di storia dell’architettura», n.s., 44-50), Roma, Bonsignori 2004-2007, pp. 427-432. 46 Non è del resto un caso che, nell’ambito del Manifesto della SPAB, del 1877 (F. La Regina, William Morris… cit.), uno dei punti più ambigui e controversi sia dedicato proprio al trattamento di una fabbrica non monumentale: «se è diventato non conveniente per il suo presente, costruire un altro edificio piuttosto che alterare uno vecchio». In una specifica postilla, aggiunta nel 1924, verranno chiarite le modalità possibili per effettuare aggiunte controllate in questi contesti. 47 L’osservazione, espressa nel 1988 da Brian Maidment, è citata in G. Chitty, Ruskin’s Architectural Heritage… cit., p. 26, trad. della scrivente. 48 Ci si riferisce alle frequenti riflessioni del Maestro sulla natura non dottrinaria e anti-ideologica dei suoi insegnamenti. 41
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F. Fratini, E. Cantisani, E. Pecchioni, S. Rescic, B. Sacchi, S. Vettori
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Geologia, tempo e abito urbano (Imago urbis) Fabio Fratini1 | f.fratini@icvbc.cnr.it Emma Cantisani1, Elena Pecchioni1,2, Silvia Rescic1, Barbara Sacchi1, Silvia Vettori3 Istituto per la Conservazione e Valorizzazione dei Beni Culturali, CNR, Sesto Fiorentino (FI) Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Firenze 3 Istituto per la Conservazione e Valorizzazione dei Beni Culturali, CNR, Milano 1
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Abstract The surfaces identify towns, particularly those with a long history, they talk about their different phases of construction, their relationship with the territory, the passing of time. In fact in the past centuries the materials used to build towns and villages were almost exclusively those found locally. Each territory was characterized by its own building materials, its own techniques for the superficial processing of materials, its own renders and its own painting. In the territory of the Italian peninsula, thanks to the great geological variability and the presence of little states, that lasted until the second half of the XIXth century, these differences are particularly evident and this is why we can speak of the urban habit of every town. In this text we will examine how the nature of the territories influences the urban habit with particular attention to Tuscany. Parole chiave materiali, geologia, territorio, intonaci, materials, geology, territory, surfaces renders
Introduzione Le motivazioni che ci spingono a viaggiare sono innumerevoli e comunque desideriamo conoscere e godere di “paesaggi” diversi da quelli in cui abitualmente viviamo, paesaggi rurali e paesaggi urbani. E cosa caratterizza i paesaggi urbani? Sono le persone che ci vivono, le attività economiche, le forme architettoniche, l’aspetto delle superfici con i loro materiali, i loro colori, le loro finiture, con i segni dello scorrere del tempo. Le superfici identificano i centri abitati, particolarmente quelli con una lunga storia urbana, parlano delle loro diverse fasi di edificazione, del loro rapporto con il territorio. In passato i materiali utilizzati per costruire città e villaggi erano quasi esclusivamente quelli reperibili localmente. Ogni territorio era caratterizzato dai propri materiali da costruzione e dalle proprie tecniche di finitura. Nel territorio della penisola, grazie alla grande variabilità geologica e alla presenza di piccoli stati, che si è protratta fino alla seconda metà del XIX secolo, queste differenze sono particolarmente evidenti. Nondimeno nuovi materiali potevano arrivare da fuori, spinti dalle mode e dall’incremento dei legami con certe località o stati.
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Quindi fino all’inizio del ‘900 il viaggiatore del Grand Tour incontrava lungo la penisola abiti urbani molto diversi. Pensiamo all’ocra degli intonaci bolognesi, al grigio dell’ardesia dei tetti liguri che nelle giornate piovose si confonde con il mare plumbeo, al bianco del travertino di Roma. Molte località della costa adriatica si caratterizzano per le superfici in laterizio che con i loro colori dal giallo all’ocra, nella stagione estiva si confondono con il giallo delle stoppie. Il sud della penisola è invece caratterizzato dal freddo colore bianco della Pietra di Trani, utilizzata nel barese e dal giallo-nocciola dei calcari teneri del Salento e della Sicilia che hanno permesso l’esprimersi del barocco. In Sicilia si trova anche lo scuro basalto dell’Etna che caratterizza l’architettura di Catania e dei villaggi alle pendici del grande vulcano. Le rocce vulcaniche, in particolare le rosse ignimbriti caratterizzano anche tante chiese delle Sardegna mentre nel nord dell’isola, in Gallura, entriamo nel regno del granito con il suo colore grigio e le superfici ruvide, i conci lapidei arrotondati dall’alterazione. Purtroppo il viaggiatore contemporaneo può godere solo in parte delle emozioni provate dal suo antenato perché lo sviluppo edilizio, che si è avvalso e si avvale degli stessi materiali prodotti industrialmente e delle stesse tipologie architettoniche in tutto il territorio, ha portato alla quasi omologazione dell’abito urbano dei nostri centri abitati. A questo proposito John Ruskin1, di cui si ricordano i duecento anni dalla nascita, già criticava nelle sue conferenze, lettere e saggi, la civiltà industriale utilitaristica e omologante. Nel successivo paragrafo prenderemo in esame in particolare la Toscana e come la natura del suo territorio ha influenzato l’aspetto dei suoi centri urbani. Geologia, paesaggio e materiali da costruzione in Toscana In Toscana, regione dell’Italia centrale, si ritrova una grande varietà di paesaggi che sfumano dalle bianche e aguzze vette delle Alpi Apuane fino alle dolci e tondeggianti colline delle crete senesi riflettendo la geologia della regione caratterizzata da una grande varietà di tipi litologici. In questi paesaggi si inserivano in un’armonia perfetta borghi e città, ciascuno caratterizzato da un’identità unica data dall’architettura e dai colori tipici dei materiali costruttivi che come precedentemente ricordato erano strettamente legati alla disponibilità locale2. È per questo che gli abitati che si sono sviluppati ai piedi della catena appenninica (Firenze, Pistoia, Arezzo, Cortona) si caratterizzano per l’uso delle arenarie a eccezione di Prato in cui si è fatto largo uso della Pietra Alberese, un calcare marnoso affiorante nei monti a ridosso della città. Pisa e Lucca invece hanno sfruttato ampliamente i litotipi affioranti nel Monte Pisano, in particolare le quarziti e per Pisa anche le brecce calcaree. I borghi della Toscana centro-meridionale invece sono generalmente più eterogenei per i materiali utilizzati: Siena e San Gimignano si trovano vicino a vasti affioramenti di argille plioceniche e quindi si è fatto ampio uso di laterizi ma questi sono preceduti e affiancati dall’uso del calcare cavernoso (la pietra da torre) e delle arenarie plioceniche e seguiti dall’uso del travertino3. Questi ultimi due materiali caratterizzano anche l’architettura di Volterra, Pienza e Montepulciano. A Massa Marittima è il solo travertino che dà il carattere alla città. Il Rinascimento, nel XV secolo, con il particolare stile architettonico sviluppato a Firenze, caratterizzato dall’uso di blocchi monolitici grigi di arenaria (Pietra Serena) in contrasto con campiture di intonaco bianco, favorì l’utilizzo di questa arenaria anche in tutta la regione. Questo uso è proseguito nell’architettura barocca e neoclassica affiancato da quello del travertino (a eccezione di Firenze) segnando così l’inizio dell’ab-
Cfr. J. Ruskin, Unto this last, saggi pubblicati nel 1860 sul «Cornhill Magazine», ristampato come Unto This Last nel 1862. 2 Cfr. F. Rodolico, Le pietre delle città d’Italia”, Firenze, Le Monnier 19642. 3 Cfr. M. Giamello, G. Guasparri, R. Neri, G. Sabatini, Building materials in Siena architecture: type, distribution and state of conservation, «Science and Technology for Cultural Heritage», 1992, 1, pp. 55-65; A. Gandin, G. Guasparri, S. Mugnaini, G. Sabatini, La pietra da torre nel centro storico di Siena, «Etruria Natura. Accademia dei Fisiocritici», 2008, pp. 82-94. 1
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F. Fratini, E. Cantisani, E. Pecchioni, S. Rescic, B. Sacchi, S. Vettori
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Fig. 1 Pietra Serena, Cortona (foto F. Fratini).
bandono dei materiali tradizionali locali. La successiva architettura del XX secolo, con l’avvento dello stile razionalista, vede l’intensificarsi dell’uso del travertino. Di seguito vengono descritti alcuni centri minori della Toscana, fra quelli che meno hanno subito le trasformazioni del XX secolo, per evidenziare quale segno hanno lasciato i materiali con cui sono stati costruiti. Cortona La città, antica lucumonia etrusca, sorge al margine della Val di Chiana, a mezza costa delle pendici appenniniche dove affiora il Macigno, formazione turbiditica di età oligocenica che qui è costituita da potenti banchi arenacei (Pietra Serena) alternati ad argilliti e pile di sottili straterelli arenacei chiamati lastronaie, da cui si ricavavano lastre per le coperture. Dai banchi di arenaria gli Etruschi ricavarono i grossi blocchi (di dimensioni metriche!) per la possente cinta muraria e l’uso di questa arenaria è proseguito nei secoli. L’attuale carattere della città, in parte medievale ed in parte rinascimentale è segnato dall’uso di questa pietra (Fig.1). Nelle fabbriche medievali monumentali è presente come pietra da taglio accuratamente lavorata e squadrata mentre negli edifici più modesti la Pietra Serena si trova come conci d’angolo e per definire il contorno di porte e finestre. Nel Rinascimento le murature vengono realizzate in pietrame grossolano intonacato e la pietra da taglio resta nei cantonali, nel contorno delle aperture, nelle decorazioni, nelle colonne e pilastri. La Pietra Serena appena cavata ha un colore grigio ceruleo e da qui sembra trarre origine l’aggettivo “serena” in quanto pietra color del cielo. Con l’esposizione agli agenti atmosferici la pietra assume to-
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nalità grigio-brune e purtroppo ha una forte predisposizione al degrado con fenomeni di disgregazione, esfoliazione, formazione di croste che si distaccano e si riformano4. I segni del tempo sono quindi evidenti, a volte impietosi e danno un’impressione di decadenza che in realtà non corrisponde al vero perché gli interventi di conservazione sono continui, ma rispettosi della materia5. Poppi Si erge su un colle isolato nella conca intermontana del Casentino, posizione strategica già in età romana. L’attuale borgo risale al XII secolo quando i conti Guidi vi eressero la loro dimora feudale, una possente struttura fortificata che tuttora domina l’abitato contrapponendosi all’Abbazia di San Fedele, sorta all’estremo nord del borgo, accostata alle mura di difesa. Nel colle affiora esclusivamente la Pietraforte, formazione geologica di età cretacea costituita da un’alternanza di strati arenacei di origine torbiditica e argilliti e questa arenaria è stata utilizzata come materiale da costruzione del borgo. In questo senso è un unicum perché negli altri borghi della valle è utilizzata la Pietra Serena che affiora estesamente nelle montagne circostanti. L’estrazione della Pietraforte è semplice perché gli strati hanno un piccolo spessore (20-50 cm) e inoltre sono attraversati da numerose vene calcitiche. Questo permette di sagomare agevolmente per spacco i conci da utilizzare nella costruzione. L’arenaria, che al taglio fresco presenta una colorazione grigia, subisce facilmente un’alterazione cromatica acquisendo un caldo colore ocraceo che caratterizza l’architettura del borgo (Fig. 2). Volterra “Città di vento e di macigno” come la definiva D’Annunzio, Volterra, antica lucumonia etrusca, domina solitaria dall’alto di un colle un ampio territorio collinare tra le valli dell’Era e del Cecina in cui affiorano le argille plioceniche. Questo rilievo si appoggia proprio su queste argille ed è costituito da coeve sabbie carbonatiche fossilifere grossolane più o meno cementate, la Pietra Panchina, da non confondersi con la coeva panchina livornese di età quaternaria6. La Panchina è la pietra con cui è stata costrui-
Fig.2 Pietraforte, Poppi (foto F. Fratini). Fig. 3 Pietra Panchina, Volterra (foto F. Fratini).
Cfr. F. Fratini, E. Pecchioni, E. Cantisani, S. Rescic, S. Vettori, Pietra Serena: the stone of the Renaissance, in Global Heritage Stone: Towards International Recognition of Building and Ornamental Stones, a cura di D. Pereira, B.R. Marker, S. Kramar, B.J. Cooper, B.E. Schouenborg, London, Geological Society, Special Publications, 407, 2014, pp.173-186. 5 Cfr. E. Cantisani, D. De Luca, P. Frediani, C. A. Garzonio, M. Ricci, F. Stori, Restoration of a sandstone facade: From the project to the monitoring, «International Journal of Architectural Heritage», 6 (3), 2012, pp. 290-301. 6 Cfr. R. Sartori, Panchina: materiale lapideo tipico di Livorno e di Volterra, «Bollettino degli ingegneri», 2004, 11, pp. 13-16. 4
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ta e lastricata la città medievale e ne segna fortemente l’aspetto, rispettato dal successivo inserimento dei palazzi rinascimentali e seicenteschi. Negli edifici più antichi i conci sono rozzamente squadrati mentre successivamente risultano squadrati e appianati a gradina. Il colore della pietra è particolare, variabile entro lo stesso concio dal grigio al giallo arancio e questa policromia conferisce preziosità ai lastricati ed ai paramenti murari (Fig. 3). La durabilità è variabile, in funzione del grado di cementazione ma la città non dà l’impressione di decadenza e incuria, piuttosto di una fortezza isolata, stabile, su un mare di colline che si perdono in lontananza.
7 Cfr. F. Fratini, S. Rescic, The stone materials of the historical architecture of Tuscany, Italy, in Stone in Historic Buildings: Characterization and Performance, a cura di J. Cassar, M. G. Winter, B. R. Marker, N. R. G. Walton, D. C. Entwisle, E. N. Bromhead, J. W. N. Smith, London, Geological Society, Special Publications, 391, 2013, pp. 391.
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Massa Marittima Il borgo domina il paesaggio collinare coperto dalla fitta macchia mediterranea che digrada verso il golfo di Follonica e si perde con il profilo dell’isola d’Elba. L’antica Massa Metallorum deve il suo sviluppo all’intensa attività mineraria per la vicinanza di giacimenti di pirite, ferro, solfuri misti, noti dall’antichità e particolarmente sfruttati nel XII-XIV secolo. È qui che fu redatto il primo codice minerario europeo, la lex mineraria. La città ha un grande interesse urbanistico, oltre che monumentale. Accanto infatti al primitivo nucleo (Massa Vecchia), sede dei poteri vescovile e comunale, nel 1228, con l’affermazione del nuovo ceto imprenditoriale legato all’attività estrattiva, venne pianificata un’espansione urbana nel soprastante pianoro, espansione caratterizzata da un impianto urbano con strade che si incrociano ad angolo retto, caratteristica unica nei centri medievali della penisola. Entrambi questi nuclei si appoggiano su un grande banco di travertino che, come accennato nel paragrafo precedente, è stato utilizzato come unico materiale da costruzione7. È stato impiegato come pietra da
taglio in conci accuratamente squadrati per gli edifici religiosi e per quelli pubblici, nel contorno delle aperture, nelle decorazioni, nelle colonne e pilastri. La pietra ha un colore biancastro, con allineamenti punteggiati di nero (i grossi pori) e questo dà una particolare luminosità a tutta la città che inoltre non mostra i segni del tempo perché il travertino ha un’ottima durabilità (Fig. 4). I paesi del tufo Il territorio della Toscana meridionale, al confine con il Lazio, è caratterizzato dalla presenza di estesi depositi piroclastici legati all’attività del vulcano di Làtera, nel settore occidentale del distretto vulcanico vulsino, sviluppata tra 280-160 milioni di anni fa. Questo territorio, caratterizzato da una morfologia tabulare, nel corso dei millenni è stato inciso da profonde gole fluviali. Alla confluenza dei corsi d’acqua si sono così formati speroni di tufo, delimitati da ripide falesie, su cui sin dal periodo etrusco si sono stabiliti degli insediamenti. Gli attuali centri abitati di Pitigliano, Sorano e So-
pagina a fronte Fig. 4 Pietra Serena, Cortona (foto F. Fratini). Fig. 5 Tufo, Pitigliano (foto F. Fratini).
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vana in Toscana e molti altri nella vicina provincia di Viterbo, si sono sviluppati sin dal medioevo sfruttando questa particolare morfologia per ragioni difensive. Ovviamente questi centri sono stati costruiti con lo stesso tufo su cui sorgono, materiale tenero ma coerente, facilmente estraibile anche con l’ausilio di zappe e seghe e gli edifici non presentano intonaco8. Questo fatto fa sì che non ci sia soluzione di continuità tra substrato roccioso e costruzioni, data la similitudine di colore e tessitura (Fig. 5). Si viene a creare così un paesaggio pittoresco, di equilibrio tra natura e manufatti dell’uomo e sembra di entrare in punta di piedi in un ambiente magico. E questo “entrare” nella natura si può ancora di più vivere percorrendo le “vie cave” rete di percorsi che dagli abitati scendono nelle forre e risalgono nei circostanti pianori coltivati, luoghi di transito ma anche luoghi di culto di Demetra, la madre Terra.
Ibidem. Cfr. D. Pittaluga, F. Fratini, Gli strumenti per affermare che una superficie è nello stato di “quasi-equilibrio” sono sufficienti?, in La conservazione del patrimonio architettonico all’aperto, atti del XXVIII Convegno di Studi su Scienza e Beni Culturali (Bressanone, 10-13 luglio 2012), Arcadia Ricerche 2012, pp. 23-32. 8
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Conclusioni In questo testo abbiamo voluto parlare del legame fra territorio e architettura, legame che nel passato era strettissimo, legame che per i nostri antenati era normale, ovvio, legame che nella civiltà contemporanea si è completamente perso. I viaggiatori del Grand Tour potevano godere dell’esistenza di questo legame perché nel loro viaggio lungo la penisola provavano emozioni sempre diverse, era una continua scoperta. Noi non siamo così fortunati perché con l’uso estensivo degli stessi materiali prodotti industrialmente è avvenuta una completa omologazione a tutti i livelli. Resta qualcosa, ma dobbiamo andare a cercarla, scovarla. E quando l’abbiamo trovata, dobbiamo proteggerla. Ma cosa vuol dire proteggerla? Vuol dire valorizzarla, promuoverla, farla diventare meta del turismo che poi diventa inevitabilmente turismo di massa? Noi non vorremmo che fosse così. Proteggere significa far sì che un luogo continui ad esistere perché gli abitanti lo vivono e sono consapevoli del valore del loro territorio. E nel caso in cui non ne siano consapevoli, bisogna fare in modo che lo diventino. Solo così il luogo può mantenere la sua autenticità e destare meraviglia in chi lo va a cercare o ci ca-
pita per caso. La legge 6 ottobre 2017, n. 158. “Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni”, cerca di contribuire a uno sviluppo economico, sociale, culturale e ambientale sostenibile dei piccoli comuni, favorendo la residenza nei borghi, tutelandone il patrimonio naturale, rurale, storico culturale e architettonico. Le intenzioni sono buone, ma rischi ci sono sempre, basti pensare agli incentivi per rendere efficienti dal punto di vista energetico gli edifici, con interventi che spesso comportano la completa cancellazione delle superfici storiche. Le superfici provocano emozioni, soprattutto quando sono profondamente segnate dal tempo (Fig. 6). Per chi le sa decodificare, mostrano una grande ricchezza di segni e di informazioni. Sono un patrimonio di cultura materiale la cui esistenza è purtroppo ignorata anche da chi nell’amministrazione è preposto alla tutela9. Questo nonostante il fatto che a partire dai grandi maestri del Restauro dell’Ottocento fino alle affermazioni di alcuni teorici del Restauro contemporanei, si è man mano affermata una linea di pensiero secondo cui una superficie che mostri e conservi la patina del tempo è ancora più ricca einteressante: opera della natura che si riappropria di un’opera dell’uomo senza tuttavia danneggiarla. La sfida è preservare senza cancellare, preservare le forme di alterazione, ma con queste anche la materia che porta in sé moltissime informazioni sulla cultura materiale che l’ha prodotta. Un edificio antico con superfici antiche, ma non vecchie ha più valore, è più ricco di un edificio antico con superfici rinnovate.
pagina a fronte Fig. 6 Intonaco con Flos tectorii, chiostro di Sant’Agostino, Pietrasanta (foto F. Fratini).
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‘P. horrid place’. L’Emilia di John Ruskin (1845) Michela Marisa Grisoni | michela.grisoni@polimi.it Dipartimento di Architettura e Studi Urbani - DASTU Politecnico di Milano
Abstract The terse statement which is in the title, attributed to Piacenza by the translator, is impressive for the reader and the traveler. John Ruskin advises against the Emilian territory; although hasty and contemptuous, the passage turns out to be an effective and opportune interlude. It is a well-known fact how important his Italian tours have been for his most famous writings, which are contemporary or slightly subsequent and had an extraordinary dissemination. The heartfelt and short letters to his parents not only favor a rapid and key estimation of the places he quotes but they also link to his manuscripts, diaries, travel notebooks, sketches and watercolors as essential sources for comparisons. It is interesting to grasp the appreciation of these places, as well as the interactions with the resident community and the local culture. It is a sort of introduction to the study of the coeval, or a little later, reception of the reflections found in his most popular written work. Parole chiave Paesaggio, Appennini, Piacenza, Parma, Tutela
A. Brilli, Ruskin. Viaggio In Italia, Milano, Mondadori 2002, p. V. 2 Le lettere ai genitori si citano dalla trascrizione di H.I. Shapiro, Ruskin in Italy. Letters to his parents 1845, Oxford, Clarendon Press 1972. Riservata a quelle di argomento emiliano la verifica degli originali conservate presso la John Ruskin Collection. General Collection, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University. L’autore ringrazia per questo Adrienne Sharpe-Weseman. Per la traduzione italiana cfr. A. Brilli, Ruskin. Viaggio… cit., qui riportata solo in caso di difformità. 1
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Introduzione Dei molti viaggi in Italia di John Ruskin, quello del 1845 è speciale: perché è il primo che affronta senza la scorta dei genitori e perché prelude scritti chiave del suo pensiero sull’arte, il restauro e la società. La lontananza dai genitori è una circostanza favorevole. A fronte di una distanza che inevitabilmente allenta il «cordone ombelicale»1 che lo tratteneva a entrambi i genitori, manterrà con loro un fitto carteggio per mezzo del quale per circa sette mesi (tanto dura il viaggio da aprile a novembre), pressoché quotidianamente (salvo discontinuità motivate), riferirà la cronaca delle sue giornate addensandola di impressioni (di luoghi, cose, persone, incontri) e illustrandola di incisivi pittogrammi quando non veri e propri schizzi a matita e acquerelli. Harold Shapiro che nel 1972 lo trascrive e annota per la pubblicazione già riconosceva però che queste 158 lettere non sono soltanto un documento familiare o un comune taccuino di viaggio ma anche un precoce esercizio di critica2. Di evidente rilevanza, esse non a caso erano già comparse a corredo dell’opera omnia che seguì la morte di Ruskin, se pure non come corpo unitario ma in-
Fig. 1 After William Turner, Piacenza, 1834-6 incisione su carta, cm 8,8 x 14,4 (Londra, Tate Britain https://www.tate.org.uk/art/ artworks/turner-scotts-proseworks-65624/11 già in Scott’s Prose Works, vol X). Fig. 2 J. Ruskin, The Lombard Apennine, Parma, s.d Schizzo per l’incisione di Lupton, in 5 ¼ x 7 ¾ già in Modern Painters III, p. 397 e Cook-Wedderburn, V, tav. 14.
dicizzate e variamente richiamate in nota o ricomposte in appendice a corredo della lettura del suo «artistic and intellectual pilgrimage»3. Richiamarle in effetti è in certi casi dirimente per afferrare l’evoluzione del suo pensiero. Soprattutto se l’intento è di mettere in evidenza, giustificare e valorizzare, talune dirompenti esternazioni o apparenti omissioni; il caso del suo riluttante passaggio in Emilia è tra questi. È stato osservato che sul piano narrativo il carteggio con i familiari rivela la consapevolezza di scrivere rivolgendosi a un pubblico: «You can show my letters to whom you like»4 risponde al padre, il 25 maggio, da Pisa, autorizzandolo a fare delle lettere l’uso che meglio crede. In effetti è l’indizio della divulgazione che il genitore voleva assicu-
3 E.T. Cook, A. Wedderburn, The works of John Ruskin, London-New York, George Allen & Longmans, vol. IV, 1903, pp. 774-810: XXVIII. 4 H.I. Shapiro, Ruskin in Italy… cit., p. 77.
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RA E.T. Cook, A. Wedderburn, The works of John Ruskin… cit., vol. XXXVIII, 1912, p. 204. 6 «I don’t write to anybody else. I haven’t even to Turner yet». Lettera al padre, John James Ruskin, da Firenze il 31 maggio 1845, in H.I. Shapiro, Ruskin in Italy… cit., p. 93; ma l’affermazione maschera che vi furono pochi invece anche altri corrispondenti. 7 E.T. Cook, A. Wedderburn, The works of John Ruskin… cit., vol. IV, 1903, p. XXIV. 8 A. Brilli, Ruskin. Viaggio… cit., p. V. 9 Cfr. A. Bellini, Teorie del restauro e conservazione architettonica, in Tecniche della conservazione, a cura di A. Bellini, Milano, Franco Angeli 1988, pp. 33-35. 10 Cfr. M. Dezzi Bardeschi, Conservare, non restaurare. (Hugo, Ruskin, Boito, Dehio e dintorni). Breve storia e suggerimenti per la conservazione in questo nuovo millennio, «AnaΓkh», 35-36, 2002, p. 3. 11 Cfr. A. Grimoldi, John Ruskin nella cultura tedesca tra otto e novecento, «AnaΓkh», 86, 2019, p. 9 12 Lettera a George Richmond da Parigi il 12 agosto [1844?], in E.T. Cook, A. Wedderburn, The works of John Ruskin… cit., vol. XXXVI, 1909, pp. 38-39. 13 Ivi, vol. IV, 1903, p. XXIII. 14 Come noto lo accompagnano una guida, l’esperto Joseph Marie Couttet, con funzione di vice-padre e un cameriere, l’anziano John Hobbs, familiarmente rinominato George. Si sposta con mezzi riservati («a rented carriage despite a diligence») per concedersi 5
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rare al lavoro del figlio coltivando contatti con il mondo giornalistico e la prova della fiducia che il figlio ripone in lui che ne è il fondamentale veicolo, in Gran Bretagna, della sua avventura italiana e del progredire dei suoi studi. La divulgazione delle lettere, attraverso la trasmissione a terzi, è un elemento distintivo rispetto al suo diario, pure di rilievo anche se riconosciuto non integralmente scritto di suo pugno in quei giorni5. Destinate al lettore più partecipe e bramoso che uno scrittore possa avere (un genitore lontano e apprensivo), le lettere consentono di afferrare in presa tanto frettolosa e asciutta quanto diretta e frizzante, l’emersione del suo interesse per la pittura italiana del Tre e Quattrocento, per l’architettura romanica e gotica ma ancor più per il paesaggio naturale e la nascente tematica della tutela del patrimonio che già esprime avvalendosi della negazione, del rifiuto e del biasimo quale forma di più energica espressione, secondo una cifra che sarà tanto distintiva quanto manipolata dalla storiografia. Soprattutto esse consentono di cogliere l’ambito culturale entro il quale fu possibile la messa a fuoco della relazione esistente tra il prodotto umano e la sensibilità che lo ha realizzato, quest’ultima intesa non solo come espressione individuale ma collettiva. È muovendosi all’interno di questa cultura, indagando questo rapporto, che perfezionerà aforismi incisivi circa l’intangibilità dell’opera di qualsivoglia produttore, divino ma anche umano, singolo ma soprattutto collettivo, che incitano alla riscoperta del lavoro manuale e artigianale, di quello materiale e immateriale con lasciti per certi aspetti più praticabili per la cultura contemporanea di quanto non lo siano stati per i suoi contemporanei, perlopiù impermeabili o indifferenti alle sue intuizioni più profetiche e radicalmente utopiche. Le lettere ai familiari dall’Italia del 1845, ivi comprese le poche indirizzate ad altri6, sono certamente un accattivante e sfruttato esempio di letteratura di viaggio. Ma nella biografia del personaggio coincidono anche con quel «turning point»7, quel «momento cruciale»8 che ha evidenziato la critica e che per quella italiana del restauro, in particolare, alimenta i testi più lucidi e preveggenti9, sostanzialmente i più pungenti e sfruttati10 anche se forse i più reiterati e sclerotizzati11. La sua lunga e feconda produzione di poeta e scrittore, critico d’arte e insegnante, educatore e attivista, che si svolge, come noto, dagli anni Trenta dell’Ottocento fino agli ultimi del secolo, dalle sperimentazioni in versi alle elucubrazioni messianiche, ha tratti intensi e precursori proprio nella parte centrale del secolo quando più stringente potrebbe essere la comparazione tra le sue idee e quelle di alcune personalità italiane coeve. «I want to go to Italy again»12: tra soste e transiti alla ricerca di dati Nel 1845 John Ruskin è un colto scapolo di ventisei anni, un agiato borghese di origini scozzesi, un promettente critico d’arte. Sta raccogliendo gli inaspettati frutti del folgorante successo di Modern Painters I e ne sta curando il seguito. Il viaggio in Italia è strumentale a questo13. Non lo affronta da solo ma è un viaggiatore asociale, esigente e selettivo14. Apparentemente segue l’itinerario canonico del viaggiatore ottocentesco: oltrepassa la Manica, attraversa la Francia, percorre le Riviere e corre lungo il fianco occidentale della Penisola per raggiungere la Toscana dove si fermerà, a lungo, trascurando, in questa circostanza, il Meridione. Più che il solito viaggio in Italia si tratta di una trasferta scandita da lunghe permanenze in località già frequentate da turista, da giovane, con i genitori (1841): Genova, Lucca e Pisa, Firenze, le Alpi delle Valli Anzasca e Formazza, Venezia. Ha mire definite e un obbiettivo preciso: il viaggio sarà un periodo di studio necessario ad affinare le proprie ricerche sulla pittura di paesaggio,
per rintracciare i soggetti più noti di William Turner, che egli al contempo ha rivelato al pubblico ma anche a sé stesso, con ricadute decisive sul suo modo di vedere le cose e quindi di intendere la funzione dell’arte e dell’artista: «Turners and better than Turner, at every step. I never saw anything so wonderful, so finished and refined in vegetable form», scrive infatti mentre si avvicina all’Italia15 (Figg. 1, 2). Giunto nella Penisola italiana approfondirà il rapporto tra la natura e la sua rappresentazione per riconoscere quella bellezza che è nella verità delle cose, per assimilarne il dato sensibile attraverso la materia, la concreta consistenza e ne farà oggetto di una riflessione essenziale per stimolare l’attenzione verso il valore della autenticità, della semplicità, della purezza, della durata e della moralità. Si sta immergendo nella critica d’arte, senza diventare un’esteta; si sta allontanando dalla composizione poetica, senza diventare un razionalista; si sta avvicinando alla tutela, prima di molti altri. Resta vivo l’interesse per la botanica e la geologia; anzi, è essenziale. Gli garantisce quell’approccio sensoriale alla materia, organica e inorganica. Lo obbliga a utilizzare il disegno come strumento di rilievo, spesso attraverso il frottage, il dagherrotipo; strumenti di registrazione del reale, mezzi di studio e, infine, espedienti, estremi quanto disperati, per conservare quanto sta fatalmente scomparendo: I am perpettualy torn to bits by conflicting demands upon me, for everything architectural is tumbling to pieces, and everything artistical dading away, and I want to draw all the houses and study all the pictures, and I Just can’t16.
«I shall miss Bologna»: la scorciatoia attraverso l’Emilia A Bologna arriva da Firenze l’otto luglio del 1845, in serata; il quattordici già oltrepassa il Po in direzione di Pavia: dedica all’Emilia sette giorni in tutto. Due a Bologna, di cui visita «tutte» le chiese. Tre a Parma, che raggiunge scansando Modena. I restanti agli spostamenti, con una breve sosta a Piacenza, il quattordici stesso, non foss’altro che per il cambio dei cavalli: reputa infatti il luogo «orribile… in rovina»; vi trova «sporcizia… miseria»17. Il testo della lettera è telegrafico, quasi stenografico. Ruskin si è avventurato nella pianura padana nella stagione meno favorevole e ne è consapevole. Giunto a Bologna, quella verso Parma e Piacenza non è che una scorciatoia verso il nord dettata da circostanze che aveva previsto e che sconsigliano di raggiungere Venezia: If I find myself getting too hot, and if they tell me Venice is unhealthy in [June] July, I shall miss Bologna, go by Modena and Parma to Milan and Monte Rosa, and [return] go to Venice the first week in September, and then straight home over Splugen or Stelvio18.
È stanco, distratto e insofferente. Ha fretta di raggiungere le Alpi, di ritemprarsi nella natura. Quindi, giunto a Bologna si alza all’alba per girare le chiese prima di colazione. Successivamente si dedica frettolosamente a quel Raffaello di ultimo periodo che non lo convince e, posto a confronto con Perugino, definitivamente declassa ritrattando le sue stesse impressioni e confutando il parere di Shelley19. Alla sosta a Modena rinuncia20, tralasciando la visita suggerita da Rogers21. A Parma invece si ferma qualche giorno per esaminare con cura la pittura di Correggio, nonostante etichetti la città come la più opprimente e infelice. Questa espressione è peraltro ribadita più volte, sebbene mitigata dal raffronto con Modena che ritiene addirittura peggio22, e accompagna-
libertà di sosta e spostamento, alloggia nei migliori alberghi (per assicurarsi comodità di sua abitudine) e cena ritirato nella sua stanza (per evitare spese inutili e incontri indesiderati). Cfr. H.I. Shapiro, Ruskin in Italy… cit., p. XIII. 15 Lettera al padre da Sens s.d. ma il 7 aprile del 1845, Ivi, p. 9. La lettera ovviamente manca nella traduzione italiana limitata a quelle dall’Italia, cfr. A. Brilli, Ruskin. Viaggio… cit. 16 Lettera al padre da Pisa il 21 maggio del 1845, in H.I. Shapiro, Ruskin in Italy… cit., p. 71. 17 Lettera al padre da Pavia del 15 luglio 1845, Ivi, p. 147. In lingua originale: «P. horrid place – ruined – filth – misery». La traduzione italiana scioglie la cifra «P.» del manoscritto con la parola «Piacenza», A. Brilli, Ruskin. Viaggio… cit., p. 107. La lettera è assente in E.T. Cook, A. Wedderburn, The works of John Ruskin… cit. 18 Lettera al padre da Pisa il 25 maggio del 1845, in H. I. Shapiro, Ruskin in Italy… cit., p. 79. 19 Cfr. E.T. Cook, A. Wedderburn, The works of John Ruskin… cit., vol. II, 1903, p. 167. 20 Precisa infatti: «It was so fearfully dull that I harried up. Imagine Stuttgart ruined and you have Modena». Lettera al padre da Parma il 10 luglio 1845, in H.I. Shapiro, Ruskin in Italy… cit., p. 143. 21 Cfr. S. Rogers, Italy. A poem, London, T. Cadell and E. Moxon 1830, pp. 92-96. L’autore suggeriva la visita del palazzo già Orsini per osservarvi il ritratto di Ginevra, nobildonna vittima di una vicenda da tipica eroina romantica. 22 Letteralmente «this is without exception the dullest and ugliest town I have seen except Modena», Lettera al padre da Parma l’11 luglio 1845, in H.I. Shapiro, Ruskin in Italy… cit., p. 144.
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RA Ibidem. L’allusione è, tra le altre, alla celebre Madonna col Bambino e i santi Gerolamo e Maddalena, detta Madonna di san Gerolamo o Il giorno, un olio su tavola che Antonio Allegri detto il Correggio dipinge tra il 1526 e il 1528 ed oggi alla Galleria Nazionale di Parma. 24 Oltre alle più divulgate immagini a soggetto storico ambientate nei dintorni di Piacenza e prese a modello da Ruskin per tratteggiare a sua volta l’anfiteatro dell’Appennino Lombardo, Turner delinea piazze e monumenti e tratteggia, in particolare, le sagome della Cattedrale, della chiesa di S. Francesco e del palazzo pubblico noto come “Il Gotico”. I due taccuini identificati come Rimini to Rome Sketch Book, 1828-29 e Return from Italy, 1819-20 si conservano a Londra alla Print and Drawing Room della Tate Britain. Per il lavoro di Ruskin cfr. J. Ruskin, Turner Sketches and Drawings, «Literary Gazette», 13 novembre 1858; Id., Turner’s Sketch Book, Turner Catalogue, Boston 1874, ora rispettivamente in E.T. Cook, A. Wedderburn, The works of John Ruskin… cit., vol. XIII, 1903, p. 239 e p. 224. 25 Lettere al padre da Parma del 13 luglio 1845, in H.I. Shapiro, Ruskin in Italy… cit., pp. 145-146. 26 «I have had a delicious drive over Apennines, with thermometer at 28 Reaumur, and got two nice sketches while voiturier stopped – one of Cafaggiolo», Ivi pp. 138-139. 27 Cfr. J. Ruskin, Modern Painters, vol II, parte III, sezione I, cap. V ed in 23
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ta da un senso di sconforto per le insolenti profanazioni dei soggetti religiosi del citato pittore che quindi colloca tra i peggiori23. Su di un giudizio tanto negativo grava anche l’assalto dei doganieri. Sedici soste, una media di tre minuti a sosta e un franco o più ogni volta, indispettiscono un tirchio e insofferente Ruskin che si lascia alle spalle l’Emilia dopo un’ultima sosta a Piacenza, ridotta a semplice stazione di posta, incurante di quelle architetture e scenografie urbane che solo pochi anni prima avevano molto interessato il suo pittore preferito, come lui stesso avrà modo di verificare, qualche anno più tardi, catalogandone l’eredità24 (Figg. 3, 4). «Lucky I came here»25: affinamenti Eppure il faticoso e irritante, rapido e selettivo viaggio attraverso l’Emilia in direzione delle Alpi e del desiderato riavvicinamento alla natura, è punteggiato da qualche traguardo. Già la «deliziosa» traversata degli Appennini, resa gradevole dalla temperatura mite, stimola la percezione del paesaggio collinare di cui riesce a fissare, con manifesta soddisfazione, la profondità, nei dintorni della Villa Medici di Cafaggiolo e a comprendere l’importanza degli effetti di luce e ombra per creare quella ‘varietà’ che esprime velocemente nel suo disegno con il chiaro-scuro e le tante tonalità del celeste e dell’ocra26 ma nelle pagine dei Modern Painter è un concetto che sviluppa per intere sezioni27 (Fig. 5). Anche il ritorno a Bologna, città che più volte ammette di non amare, è confortato dal fatto che tutto è rimasto fortunatamente inalterato rispetto ai giorni della visita con i genitori (1841)28. Lo colpisce un’intensità onesta e sincera che a Firenze non ha più ritrovato29. La brevità della sosta bolognese (due giorni) a confronto della lunga permanenza fiorentina (sei settimane), obbliga ad assumerne il giudizio con prudenza; ma è un dato di fatto che sta elaborando una visione meno onirica dell’Italia che trova impoverita sul piano culturale e morale, percorsa da una malintesa idea di progresso e di novità che ha ricadute sulla nuova come sulla vecchia architettura, con grave danno delle città e del paesaggio italiano che ritiene maltrattato. Dal viaggio del 1845 giunge così una delle sue più precoci anche se scarne ed emotive formulazioni sulle insidie del restauro e le finalità della conservazione. Dichiara infatti al padre:
pagina a fronte Fig. 3 W. Turner, Piacenza, Piazza Cavalli con il Palazzo del Comune, ‘il Gotico’, 1810-20 Londra, Tate Britain Return from Italy Sketch Book (Reference D16749 Turner Bequest CXCII 60 a https://www.tate.org.uk/art/ sketchbook/return-fromitaly-sketchbook-65833/124). Fig. 4 W. Turner, La Cattedrale di Piacenza, 1828-9 Londra, Tate Britain Rimini to Rome Sketch Book (Reference D14911 Turner Bequest CLXXVIII 45 https://www.tate.org.uk/art/ sketchbook/rimini-to-romesketchbook-65819/91).
This I would have: Let them take the greatest possible care of all they have got, and when care will preserve it to longer, let it perish inch by inch, rather than retouch it. The Italian system is the direct reverse. They expose their picture to every species of injury – rain, wind, cold, and workmen – and then they paint them over to make them bright again. Now, the neglect is bad enough, but the retouching is of course – finishing the affair at once30.
Si riferisce alle condizioni di alcune pitture ma critica un atteggiamento generale. A Bologna inoltre confronta Raffaello e Perugino stabilendo una graduatoria di merito a favore del secondo nel quale trova quella intensità di sentimento che ne avvalora l’operato quasi fosse una missione di elevazione dello spirito. Questo contribuisce ad affinare la sua classifica dei pittori, «my scale of painters»: quelle 4 classi, dalla prima alla quarta decrescenti per sentimento religioso, dai livelli celestiali di Beato Angelico (quasi santo per questo) a quelli depravati e blasfemi del Correggio che assimila Madonne, Santi e Apostoli all’umanità più bestiale e lasciva; un giudizio che non pare essere solo la conseguenza di una rigida educazione religiosa, se pure rilevante31, ma il tentativo di ricondurre su uno stesso piano etica ed estetica, verità e bellezza, moralità e sentimento. La sosta a Parma, la visita di Galleria, Libreria Palatina e Cattedrale sarà utile a questo e determinante per i futuri affinamenti del suo pensiero32 (Figg. 6, 7, 8). «Nothing that I see ever makes me forget that I am in the 19th century»: prospettive Nel 1845 l’Emilia di Ruskin è dunque un breve passaggio in cui le difficoltà, i disagi, le disavventure incoraggiano perentorie contestazioni (dei piccoli Stati, del Correggio, perfino di Raffaello). L’allentarsi di quella tensione che nei mesi precedenti ne aveva eccitato le giornate toscane e la stessa esperienza del viaggio, concedono una pausa e assecondano una meditazione che egli stesso confesserà determinante per affinare le sue idee (sulla graduatoria dei pittori, sull’abbattimento delle dogane, sulla società). L’esplorazione solitaria è accompagnata dalle letture che hanno ispirato l’itinerario (Scott), prefigurato le vedute (Rogers)33, guidato le analisi (Vasari), temperato il sentimento (la Bibbia) e perfino scandito la giornata (Sismondi, al mattino e Dante alla sera), stimolando quegli interrogativi sulla civiltà, la modernità e la funzione socia-
Fig. 5 J. Ruskin, Cafaggiolo, s.d. [1845]? (Cambridge, Fitzwilliam Museum acquarello, cm 47,5x33,6 già in Shapiro 1972, p. 137, tav. 8, <https:// webapps.fitzmuseum. cam.ac.uk/explorer/index. php?oid=13462>).
particolare The Beauty of gradation, p. 89, ma anche Ivi, vol. III, parte IV ed in particolare, cap. XVII: The moral of landscape, p. 354 e cap. XVIII: The teachers of Turner, p. 388. 28 Afferma infatti «Bologna looks exactly as it did, inn and all», Lettera al padre da Bologna l’8 luglio 1845, H. I. Shapiro, Ruskin in Italy… cit., p. 139. 29 «There is much more feeling in this town than in Florence». Lettera alla madre da Bologna il 9 luglio 1845, Ivi, p. 140. 30 Lettera al padre da Firenze il 17 giugno 1845, Ivi, p. 119. 31 J. Batchelor, John Ruskin. No wealth but life. A biography, London, Pilmico 2001, p. 66. 32 Cfr. Lettere al padre dell’11 e del 13 luglio 1845, in H.I. Shapiro, Ruskin in Italy… cit., pp. 143-146.
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Michela M. Grisoni
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le dell’arte da cui stanno emergendo i primi postulati di un pensiero sempre più autonomo. Affiora infatti già in questa occasione un metodo di lettura diretta dell’opera dell’uomo ma anche della natura, attenta al dato oggettivo, privo di mediazioni imposte dalla critica o dal mezzo di rappresentazione ed è per questa via che arriva a respingere il restauro quando produce alterazione e contraffazione della materia34. Proprio da Parma confida, al padre deluso dalle involuzioni del suo verseggiare, il superamento di quella condizione dell’animo, l’estinguersi di quel «morbid excitement», che aveva sostenuto gli impulsi poetici giovanili e l’affacciarsi di un certo realismo, se pure sensibile: 33 Cui esprime gratitudine, Cfr. Lettera a Samuel Rogers, s.d. ma marzo 1845, in E.T. Cook, A. Wedderburn, The works of John Ruskin… cit., vol. XXXVI, 1909, p. 40. 34 In merito all’autonomia di lettura cfr. S. Kite, Building Ruskin’s Italy. Watching Architecture, London-New York, Routledge Ashgate Publisher 2012, pp. 43-74. 35 Lettera al padre da Parma il 10 luglio 1845, in H.I. Shapiro, Ruskin in Italy… cit., p. 143. 36 Lettera di John James Ruskin al figlio il 26 giugno 1845, Ivi, p. 142n. 37 «I see nothing of human life, but water, doganiere and beggars». Lettera al padre da Parma il 10 luglio 1845, Ivi, p. 142. L’esternazione è tuttavia rafforzativa di un personale sentimento di disagio.
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I perceive several singular changes in the way I now view Italy. […] I read it as a book to be worked through and enjoyed, but not as a dream to be interpreted, all the romance if it is gone, and nothing that I see ever makes me forget that I am in the 19th century35.
Di contro il padre, rassicurato dall’emancipazione e dalla lucidità preveggente di questi assunti, accoglie la trasformazione e sollecita il figlio alla prosa militante tessendo una rete di contatti durevoli (con Murray, Harrison e la Quarterly Review)36. Cerca cioè le opportunità per la divulgazione di un pensiero che ha capito non esaurirsi nella critica d’arte né risolversi sul solo piano estetico. Conclusioni Se è certamente apprezzabile l’impressione che i luoghi italiani esercitarono su Ruskin, compresa l’Emilia e inclusi i casi negativi, più difficile è la lettura inversa, cioè la verifica delle impronte lasciate dal suo passaggio. Non necessariamente si tratta di rintracciare contatti diretti, dichiarati limitatissimi37. Del resto, nel 1845, talune sue soste sono troppo brevi per avvertire i dibattiti locali, pure presenti. In tema di restauri, ad esempio, il suo viaggio è contemporaneo ma impermeabile tanto alla combattuta crociata dei milanesi per la conservazione degli archi di Porta Nuova o al meno discusso restauro della chiesa di S. Fermo a Piacenza, solo per citarne un paio di più immediata memoria o pertinenza, ma anche di evidente diversa impostazione. Per avver-
pagina a fronte Fig. 6 Perugino, Madonna col Bambino in gloria e i Santi Giovanni Evangelista, Apollonia, Caterina d’Alessandria e Michele Arcangelo, 1500 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale olio su tavola, cm 273x211 (<http://www. pinacotecabologna. beniculturali.it/it/ content_page/item/367madonna-col-bambino-ingloria-e-i-santi-giovannievangelista-apolloniacaterina-d-alessandria-emichele-arcangelo-367>9. Fig. 7 Raffaello, Estasi di Santa Cecilia fra i Santi Paolo, Giovanni Evangelista, Agostino e Maria Maddalena, 1518, Bologna, Pinacoteca Nazionale olio su tavola trasportata su tela, cm 236x149 (<http://www. pinacotecabologna. beniculturali.it/it/ content_page/item/291estasi-di-santa-cecilia-frai-santi-paolo-giovannievangelista-agostino-emaria-maddalena>).
Fig. 8 Antonio Allegri detto il Correggio, Madonna col Bambino e i santi Gerolamo e Maddalena, detta Madonna di san Gerolamo o Il giorno, 1526-28, Parma, Galleria Nazionale, olio su tavola, cm 205 x 14,1 (<http:// pilotta.beniculturali.it/ opera/madonna-bambinogerolamo-maddalenagiorno/>).
tire qualche reazione al suo pensiero bisogna attendere che la citata precoce invettiva contro il restauro venga ricomposta nei testi più sfruttati e così divulgata. Solo nel decennio successivo del resto egli si esprimerà con più circostanziate, benché intricate, argomentazioni sulla questione italiana e sulle difficoltà che il paese deve affrontare toccando, probabilmente, il vero cuore del disagio avvertito attraversando la frammentata Emilia38. Più che una rete di relazioni si dovrebbero allora forse cogliere le affinità dettate da orizzonti filosofici comuni, tentare raffronti con figure magari estranee alla cultura architettonica e del restauro ma impegnate nella filosofia della storia e delle dottrine politiche: discipline all’interno delle quali si ritiene di collocare la tutela del patrimonio culturale.
38 Cfr. J. Ruskin, The Italian Question, «Scotsman», 20 luglio, 1859; Id, The Italian Question, «Scotsman», 23 luglio 1859; Id, The Italian Question, «Scotsman», 6 agosto 1859, ora in E.T. Cook, A. Wedderburn, The works of John Ruskin… cit., vol. XVIII, pp. 537-545.
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Patrizia Montuori
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Terre-in-Moto tra bello e sublime. Lettura ruskiniana del paesaggio e dei borghi dell’Abruzzo montano prima e dopo il sisma del 1915 Patrizia Montuori | patrizia.montuori@univaq.it Dipartimento d’Ingegneria Civile, Edile-Architettura e Ambientale Università degli Studi dell’Aquila
1 Nel 1840 John Ruskin compie un viaggio con i genitori che, lungo le classiche tappe del Grand Tour, lo conduce attraverso la Francia e l’Italia fino a Paestum ed è l’occasione per “scoprire” Venezia, dove ritornerà più volte per lunghi periodi. 2 Nel 1886 Ruskin, invitato con altri personaggi illustri dal Pall Mall Gazette di Londra a redigere un “elenco dei migliori cento libri” scrisse nella sua lista «Surely the most beneficent and innocent of all books yet produced for [familiars] is the Book of Nonsense, with its corollary carols?-inimitable and refreshing, and perfect in rhythm. I really don’t know any author to whom I am half so grateful, for my idle self, as Edward Lear. I shall put him first of my hundred authors». In Introduction of: E. Lear, The Complete Nonsense and Other Verse. Compiled and edited with an Introduction and Notes by V. Noakes, London, Penguin Books 2001.
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Abstract January 13, 1915. An fearfull earthquake with its epicenter in the Fucino basin invests Marsica, the area of Abruzzo around the ancient dried-up lake, and its surroundings, with devastating effects on numerous inhabited areas: several of them will be delocalized and rebuilt ex novo, abandoning the original villages that today (2019), in state of ruin for more than a hundred years, are one of the components of the landscape of this area. Examples of the «extreme sublimity of architecture» when cracks, fractures, stains and vegetation assimilate it to the work of nature, described by John Ruskin in The seven lamps of architecture (1849), they will be analysed through the eyes of the travellers who have visited and depicted them in the past centuries and those of Ruskin himself, to understand their role for the landscape context of this territory, in the past and present, and if are appropriate radical reconstruction interventions or adequate conservation and enhancement strategies. Parole chiave Paesaggio, Ruderi, John Ruskin, Borghi abruzzesi, Terremoto
John Ruskin, come altri viaggiatori stranieri, dal 1840 visita più volte l’Italia e anche alcune località del Meridione1, ma non l’Abruzzo che, isolato e impervio, sarà a lungo escluso dal Grand Tour della Penisola. Dalla seconda metà dell’Ottocento, tuttavia, la sua visione sull’architettura, il paesaggio e la loro rappresentazione influenza profondamente il contesto artistico e architettonico anglosassone ed europeo, lasciando traccia evidente anche nelle raffigurazioni e nelle descrizioni di alcuni dei viaggiatori che visiteranno l’Abruzzo tra XIX e XX secolo. In particolare Edward Lear (18121888), scrittore e illustratore inglese già stimato da Ruskin come autore di brevi versi umoristici2 e tra i primi cronisti dell’Abruzzo Pittoresco3, raffigura alcuni dei borghi abruzzesi accogliendo pienamente la visione ruskiniana del paesaggismo, secondo cui «nulla può essere bello che non sia vero», chiaramente espressa nel primo volume del suo trattato sulla pittura, Modern Painters (1842-1860). Per Ruskin, infatti, il minimo dettaglio, la sfumatura del colore di una nube, la venatura di una foglia, la sfaccettatura di una roccia, sono lo specchio della divinità e l’arte deve favorire l’incontro con la natura e, quindi, con Dio, senza artefici o affettazioni; di fatto, egli pren-
Fig. 1 G. H. Busse. Veduta di Alba e del Monte Velino negli Abruzzi (1839).
de decisamente le distanze dagli Old Masters inglesi, come Sir Joshua Reynolds (172392), che nei loro paesaggi imitavano gli elementi naturali invece di commentarli fedelmente, e ammira profondamente William Turner (1775-1851), delle cui opere era un appassionato collezionista. Il paesaggio, d’altra parte, è l’elemento più emozionante che l’Abruzzo montano offre al viaggiatore erudito, italiano o straniero, che inizia a percorrerlo in età moderna, ma solo dal Secolo dei Lumi, quando, accanto ai luoghi della classicità inseriti già dal Seicento nel Grand Tour nel sud dell’Italia, anche l’ex colonia romana di Alba Fucens e la zona del Fucino diventano tappe imprescindibili. Proprio il progetto borbonico volto a ripristinare l’agibilità della galleria claudiana per prosciugare nuovamente il lago Fucino, cuore dell’area marsicana, attira i primi viaggiatori in questo territorio ancora poco conosciuto. Essi, però, non si limitano a ispezionare il bacino lacustre, ma perlustrano anche le aree circostanti, fin verso il Cicolano, restituendo descrizioni e immagini di diversi paesi dell’Abruzzo montano quali compagini urbane, per lo più, umili e di scarso interesse architettonico, ma inseriti in paesaggi di disarmante bellezza4. Il borgo medievale e la rocca di Alba Fucens, ad esempio, totalmente ignorati dai primi viaggiatori, che s’interessano delle mitiche mura pelasgiche circostanti la colonia romana e, al più, della chiesa di San Pietro, sorta sui resti del tempio italico-romano di Apollo (III-II sec. a.C.), nel corso dell’Ottocento sono anch’essi inseriti in raffigurazioni pittoresche, in genere, poco attente alla realtà dei luoghi e focalizzate, principalmente, sui resti antichi e lo scenario naturale che li raccoglie (Fig. 1). L’intima relazione tra il paesaggio e le semplici compagini urbane dei borghi abruzzesi, invece, è perfettamente restituita da Edward Lear, che nelle minuziose raffigurazioni di alcuni di essi, accoglie pienamente gl’insegnamenti di John Ruskin, secondo cui
3 E. Lear, Viaggio attraverso l’Abruzzo pittoresco. Traduzione italiana condotta da Ilio Di Iorio sulla edizione inglese del 1846, Cerchio, Polla 2001. 4 P. F. Pistilli, Viaggiatori ed eruditi in Abruzzo tra Sette e Ottocento, in Voyages et conscience patrimoniale Aubin-Louis Millin (17591818) entre France et Italie, a cura di Anna Maria D’Achille et Al., Roma, Campisano 2011, pp. 443-455.
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Patrizia Montuori
RA J. Ruskin, Pittori Moderni, I, Torino, Giulio Einaudi editore 1998, p. 101. 6 S. Bullocke, Edward Lear and Ideals of Art Theory in the Development of English Landscape Painting, «The British Art Journal. The Research Journal of the British art studies», 5th feb. 2012, < https://www.britishartjournal.co.uk/page10/page10. php>. 7 Vedi in particolare la sezione quarta. La verità della terra. In J. Ruskin, Pittori Moderni… cit., pp.359-401. 8 «[…] ogni volta che mi portavano vicino a delle colline e in spazi e scenari montuosi provavo un piacere, da quando posso ricordare fino a diciotto vent’anni, assolutamente maggiore di qualunque altro provato fino ad allora; un piacere paragonabile solo a quello di un innamorato che si trovi accanto ad una giovane nobile e gentile, ma altrettanto difficile da spiegare o definire. Questo è tutto ciò che ricordo al riguardo ed è importante per il nostro studio». In J. Ruskin, Pittori Moderni, II, Torino, Giulio Einaudi editore 1998, p. 1150. 9 J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, Milano, Jaca book 20167, p. 69. 10 J. Ruskin, Pittori Moderni, II… cit., p. 1231. 11 J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p. 225. 12 J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p. 226. 13 E. Lear, Viaggio attraverso l’Abruzzo pittoresco… cit., pp. 102-103. 14 A. Macdonell, A. Atkinson, In the Abruzzi, London, Chatto & Windus 1908, p. 241. 5
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risulta evidente come il paesaggista debba sempre prefiggersi due grandi scopi ben distinti. Il primo consiste nel proporre all’attenzione dello spettatore un’idea fedele di ogni soggetto presente in natura. Secondo scopo è indirizzare la mente dello spettatore verso i soggetti più meritevoli di contemplazione […]5.
Durante i suoi viaggi in Italia e in Abruzzo, infatti, Lear realizza viste tanto fedeli al contesto naturalistico e alla realtà storica dei soggetti, da essere considerate immagini pre-fotografiche dei luoghi raffigurati di cui, tuttavia, restituiscono anche il colore, la luce, la consistenza percepite dall’artista6. Il borgo medievale di Alba Fucens, a esempio, è rappresentato nei suoi elementi volumetrici essenziali e si staglia sulle retrostanti vette del Velino e del Cafornia, di cui Lear restituisce con precisione il profilo e la forma (Figg. 2-3), come auspicato anche da Ruskin in Modern Painters, in cui egli dedica ampio spazio proprio alle montagne (Fig. 4)7, che ritiene un soggetto essenziale delle raffigurazioni paesaggistiche e che amava profondamente sin dall’infanzia8. D’altra parte sulla pittura di paesaggio intesa come sincero racconto del creato egli tornerà anche nel suo testo più dottrinario, Le sette lampade dell’architettura (1849), affidando l’esemplificazione del concetto proprio alla rappresentazione delle montagne laddove osserva: […] si potrebbe pensare, ed è stato pensato, che l’intera arte della pittura non sia altro che un tentativo d’inganno. Nient’affatto! Essa è, al contrario, l’esposizione di determinati fatti nel modo più chiaro possibile. Per esempio: io desidero offrire descrizione di una montagna o di una roccia: comincio col descriverne la forma. Ma le parole non riescono a farlo con precisione; allora disegno tale forma e dico: “Questa era la sua forma”. E ancora: ci terrei a rappresentare il suo colore, ma le parole non vanno bene neanche per questo; allora coloro il foglio e dico: “Era di questo colore”. Un procedimento del genere può protrarsi finché la scena sembra realmente esistente, e può derivare grande piacere da questa apparente esistenza […]9.
Per Ruskin parte fondamentale del paesaggismo quale raffigurazione del visibile priva di artefici è anche l’ambiente costruito, che ritiene anch’esso magistralmente rappresentato da Turner nel carattere pittoresco, inteso come «sublime non intrinseco alla natura della cosa, ma derivato da un elemento esterno»10 come, a esempio, le tracce del tempo. Nella sesta delle sette lampade, quella della memoria, infatti, egli ragiona proprio sull’effettiva bellezza delle impronte che il tempo infonde all’edificio: sebbene, dunque, in architettura la bellezza aggiuntiva e accidentale, comunemente, sia considerata incompatibile con la conservazione del carattere originario dell’opera e il pittoresco, dunque, identificato con la decadenza, egli osserva che, in realtà «esso consiste semplicemente nella sublimità delle crepe, o delle fratture, o nelle macchie, o nella vegetazione che assimilano l’architettura all’opera della natura, e le conferiscono quelle condizioni di colore e di forma che sono universalmente dilette all’occhio dell’uomo»11, tanto che un edificio «non possa essere considerato nel suo pieno rigoglio prima che gli siano passati sopra quattro o cinque secoli»12. Non cinque secoli ma un devastante sisma e poco più di cento anni trascorsi in totale abbandono hanno donato anche a diversi dei borghi dell’Abruzzo montano colpiti la “sublimità” estrema che, secondo Ruskin, l’architettura possiede quando è assimilata all’opera della natura da crepe, fratture, macchie e vegetazione. L’Abruzzo interno, infatti, è un territorio che, ciclicamente, è stato segnato da eventi sismici, tra cui il terremoto del 13 gennaio 1915 con epicentro nella conca del Fucino, in seguito al quale diversi centri distrutti sono stati abbandonati a causa della delocalizzazione dei nuovi
abitati, ricostruiti in aree ritenute più idonee stabilite nel decreto luogotenenziale n. 1294 del 22 agosto 1915. Oltre alle suggestive vette, dunque, dopo il sisma le aree montane colpite iniziano a essere punteggiate anche da caratteristici borghi diruti: oggi, dunque, i resti dell’abitato medievale e del castello di Alba Fucens, guardano dall’alto le ordinate casette antisismiche, realizzate dopo il terremoto su un leggero rilievo antistante all’ex colonia romana (Fig. 5); le vestigia della settecentesca Frattura Vecchia, piccola e modesta frazione di Scanno, nell’alta valle del Sagittario, traguardano la parte nuova ricostruita negli anni trenta del Novecento (Fig. 6); i lacerti delle porte di accesso, dei palazzi, delle chiese di Morino Vecchio, borgo sorto tra XI e XII su un colle che dominava la valle Roveto, occhieggiano tra la vegetazione l’insediamento moderno più a valle (Fig. 7). Prima della distruzione già i viaggiatori descrivevano questi antichi borghi come insiemi di valore paesaggistico più che architettonico. Lear, a esempio, descriveva l’Alba medievale come «un malinconico paesino» che, però, «per un pittore di paesaggi la sua posizione maestosa, con il monte Velino nello sfondo, è meritevole di molte visite»13 e, poco prima del 1915, anche la scrittrice inglese Anne Macdonell osservava su Scanno «Non è questa o quella gemma architettonica che induce a soffermarti (infatti non ce ne sono), ma è tutto l’insieme»14, evidenziando, principalmente, il valore paesaggistico dell’abitato, restituito, d’altra parte, anche dalla vista della pittrice Amy Atkinson che raffigura per lei alcuni dei luoghi visitati (Fig. 8). Dopo il sisma, poi, essi sono stati completamente integrati nel paesaggio circostante, divenendo dei genuini
Fig. 2 E. Lear, Albe, da Edward Lear, Illustrated excursions in Italy, London, Thomas M’Lean, 1846, tav. 18. Fig. 3 E. Lear, Albe, da Edward Lear, Illustrated excursions in Italy, London, Thomas M’Lean, 1846, tav. 17. Fig. 4 J. Ruskin, La Aiguille Blatière, 1849, da John Ruskin, Pittori Moderni, I, Torino, Giulio Einaudi editore 1998, p. 216. Fig. 5 L’Alba di oggi, Alba Fucens, L’Aquila (per gentile concessione di Paris Ottombrino).
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Patrizia Montuori
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Fig. 6 Rovine di Frattura Vecchia, L’Aquila (www.wikipedia.orgGioachino di Monaco-).
J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p. 106. 16 Ruskin osserva, in particolare, sul rovinismo inglese: «In Inghilterra abbiamo la nostra strada nuova, la nostra taverna nuova, il nostro prato verde ben rasato e, sul prato, la nostra rovina: un semplice specimen di Medioevo in mostra su un tappeto di velluto. Se non fosse per le dimensioni potrebbe essere coperto, in una teca di museo […]». Vedi: J. Ruskin, Pittori Moderni, II… cit., p. 1231. 17 E. Silva, Dell’arte dei giardini inglesi, Milano, Pietro e Giuseppe Vallardi 18132, p. 242. 18 Vedi: G. Pitoni, Alvaro Salvi, Albe medievale, Avezzano, LCL 2002. 19 Vedi: F. Galadini et Al., Ambiente naturale, interventi antropici e modifiche del paesaggio ad Alba Fucens (IV sec. a.C. – XXI secolo d. C.), in Il Fucino e le aree 15
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esempi di «quanto più spesso sia l’uomo a distruggere la sublimità della natura, piuttosto che la natura a insidiare la potenza dell’uomo»15, come Ruskin osserva sull’opera umana nella sua lampada della potenza, con compiacimento misto a rammarico. Non, dunque, l’espressione dell’artefatto rovinismo sette-ottocentesco che egli aborrisce16, per cui «acquistano le ruine maggior naturalezza quando sono frammischiate ad erba ed a boscaglia»17 e che spingeva a ricorrere a finte rovine in parchi o giardini, quando non disponibili quelle originali. Filtrate attraverso una lettura ruskiniana, che contribuisce a comprendere l’attuale e prevalente valore paesaggistico e ambientale dei borghi abruzzesi diruti dal 1915, dunque, ancora più controverse appaiono le ipotesi di ricostruzione «com’erano dov’erano» avanzate per alcuni di essi e, in alcuni casi, già parzialmente operate. Dal 2001, ad esempio, è stato inaugurato e completato un primo lotto funzionale per la realizzazione di un albergo diffuso nel settore settentrionale del borgo di Alba Fucens18, e nel 2005, sono state rimosse le macerie del terremoto nell’area centrale e meridionale, ipotizzando un recupero a scopo abitativo ma, di fatto, lasciando esposti da più di un decennio agli agenti esogeni e al conseguente, ulteriore, degrado i lacerti murari19. Anche i ruderi di Frattura Vecchia sono stati acquistati da un privato, intenzionato a ricostruire il borgo per destinarlo a un albergo diffuso. Se, dunque, per Ruskin «il cosiddetto restauro è la peggiore delle distruzioni»20 e l’edificio deve essere conservato nella sua autenticità grazie a un’accurata manutenzione, accettando che «[…] alla fine anch’esso dovrà vivere il suo giorno estremo»21, pressante è l’interrogativo sollevato da tali artificiose ipotesi di ricostruzione, che rischiano di alterare una realtà storico-paesaggistica molto più complessa. Dopo più di un secolo dalla distruzione, infatti, queste Terre-in-Moto dall’architettura al paesaggio, dal bello al sublime, probabilmente, hanno raggiunto la loro destinazio-
ne e richiederebbero, più che altro, adeguati interventi di manutenzione e conservazione a rudere e strategie complessive di tutela e valorizzazione, anche del cosiddetto ‘terzo paesaggio’ di cui, oramai, sono parte integrante. Ossia di quel contesto paesaggistico che, in aggiunta a quelli con boschi, foreste e coltivazioni agricole, il paesaggista francese Gilles Clément ha identificato con gli spazi prima antropizzati e poi abbandonati dall’uomo e su cui la natura ha ripreso lentamente il controllo22. Non solo, dunque, parchi e riserve naturali volutamente avulse dall’azione antropica, ma spazi dismessi e di margine accomunati dall’essere rifugio di specie vegetali spontanee eliminate dall’uomo con il diserbo; spazi, dunque, estranei al concetto di paesaggio quale prodotto dell’attività umana che, nel loro insieme, sono fondamentali anche per la conservazione della diversità biologica di un territorio.
Fig. 7 Ruderi di Morino Vecchio, L’Aquila (www.wikipedia.org). Fig. 8 A. Atkinson, Scanno, da Anne Macdonell, Amy Atkinson, In the Abruzzi, London, Chatto & Windus 1908, p. 240.
limitrofe nell’antichità. Archeologia e rinascita culturale dopo il sisma del 1915. Atti del IV Convegno di Archeologia (Castello Orsini, Avezzano, 22-23 maggio 2015), a cura di Archeoclub d’Italia-Sezione della Marsica, Avezzano, DVG Studio 2016, pp. 399-411. 20 Vedi: Aforisma 21. In J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p. 221. 21 J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p. 228. 22 G. Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet 2016.
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Emanuele Morezzi
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La percezione del paesaggio attraverso la visione di Turner. Riflessioni sull’idea di Etica e Natura in John Ruskin Emanuele Morezzi | emanuele.morezzi@polito.it Dipartimento Architettura e Design Politecnico di Torino
Abstract The paper proposes to analyze the theories of John Ruskin regarding the observation and understanding of landscape and architecture via Turner’s paintings. Through the study of Ruskin’s work the essay proposes to underline the relevance of Ruskin’s thought and to measure how the ethical, rather than aesthetic, vision of the contemporary heritage is indispensable for the enhancement and protection of cultural heritage. Parole chiave paesaggio, architettura, osservazione, etica, conservazione
1 The works of John Ruskin, London, a cura di E. T. Cook, A. Wedderburn, London, George Allen Charing Cross 1903-1912, vol. I, Introduction, pag. XXXIX. 2 Robert de La Sizeranne, Ruskin e la religion de la Beutè, Hachette, Parigi 1913, p.171. 3 Sulla critica inerente il rapporto fra Ruskin e l’architettura si segnala: C. O. Garrigan, Ruskin on architecture; his thought and influence, Madison, University of Wisconsin press 1973; L. C. Forti, John Ruskin: un profeta per l’architettura, Genova, Compagnia dei Librai 1983; A. Chatterjee, John Ruskin and the fabric of the architecture, London and New York, Routledge 2017; John Ruskin. Opere, a cura di G. Leoni, Bari, Laterza 1987, pp. 77-132. 4 John Ruskin. Opere… cit., pp. 21-49.
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«Ruskin’s mission in life, he used to say, was to teach people to see»1 Alla fine del secolo scorso e quindi solo pochi anni dopo la sua morte, lo spirito di John Ruskin veniva descritto da Robert de la Sizeranne come «un fiume. È come una fiamma. Non si assomiglia mai, si rinnova incessantemente ed è sempre sé stesso»2. La metafora scelta dallo scrittore francese, uno dei primissimi studiosi delle teorie estetiche ed etiche di Ruskin, risulta molto curiosa e tende quasi all’ossimoro: da un lato rimanda alla dinamicità e alla mutevolezza, lasciando quasi ipotizzare un pensiero debole e discontinuo, dall’altro insiste verso il senso opposto, rimarcando come tale apparente mutevolezza sia, in realtà, alla base della componente identitaria, ideologica e, a tratti, dogmatica del pensiero di Ruskin. La citazione iniziale si pone come ottima introduzione a una riflessione che possa coniugare punti apparentemente lontani dell’opera dello studioso inglese, in cui però si cercherà di riconoscere una cifra univoca, una firma, una medesima impostazione di riflessione teorica alle speculazioni inerenti il paesaggio e i beni culturali, in particolare nei confronti dell’architettura3. Tale riflessione può risultare utile non solo per approfondire la metodologia di indagine del mondo esterno e del paesaggio nell’opera di Ruskin4 ma anche per comprendere come la sua impostazione teorica e di analisi dell’esistente dipenda, in sostanza, da alcuni punti fermi di carattere etico e morale che hanno influenzato gli esiti delle sue ricerche. La stessa impostazione metodologica, fortemente basata su di una matrice etica e religiosa, è stata infatti applicata da Ruskin in ognuna delle sue ricerche e dei suoi interessi: dalla geologia, con i primi articoli sulle riviste di Loudon5 allo studio
dell’architettura tradizionale con Poetry of Architecture6; dalla didattica del disegno a mano libera con Elements of Drawing7 alle critiche al sistema economico ed industriale in Unto this Last8 e Fors Clavigera9. Questa rigida impostazione speculativa si basa, in estrema sintesi, su due aspetti fondativi: l’osservazione del fenomeno e l’analisi della dimensione etica ed estetica del soggetto10. Come già ha potuto notare Di Stefano11, la percezione in Ruskin assume un ruolo di primaria importanza e rappresenta l’elemento iniziale di analisi del mondo basata soprattutto sul senso della vista e l’osservazione diretta dei fenomeni. La sequenza Sensazione, Selezione, Percezione (dall’occhio alla mente) già analizzata da Huxley12 richiama in sintesi una caratteristica molto specifica dello studioso inglese che, ancora una volta, evidenzia una sua apparenze contraddizione: sebbene intrisa di spirito romantico, in Ruskin l’osservazione è sempre razionale, attenta al dettaglio e mai incline al trasporto emotivo. Ruskin analizza i fenomeni (geologici, architettonici, sociali, economici) con freddo distacco, guardandoli con minuzia e attenzione13. I suoi occhi sembrano indifferenti al fenomeno osservato e la sua descrizione rimane distaccata sia che si tratti dell’erosione di alcuni tubi in piombo da parte dei topi, come avvenuto nel suo primo arti-
pagina a fronte Fig. 1 J.M.W. Turner, Roma vista dall’Aventino, versione del 1835, collezione privata.
5 Per i testi di Ruskin si farà riferimento a The works of John Ruskin... cit. Gli articoli citati compaiono sul «Magazine of Natural History», 1834-1836 vol. I, pag. 189-212 e su «Architectural Magazine», 1838-1839, vol. I pp. 213-264. 6 The works of John Ruskin…. cit., vol. I, pp. 1-188. 7 Idem, vol. XV, pp. 5-232. La traduzione italiana è: J. Ruskin, Gli elementi del disegno, trad. M. G. Bellone, Milano, Adeplhi 2009. Sull’opera di insegnamento
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RA del disegno e dell’importanza della rappresentazione in Ruskin si segnala: D. Levi, P. Tucker, Ruskin didatta, Venezia, Marsilio 1997 e le note del testo che riportano l’importante lavoro bibliografico e documentario. 8 The works of John Ruskin…. cit., vol. XVII, pp. 5-118. 9 Titolo completo: Fors Clavigera. Letters to the workmen and labourers of Great Britain, Idem, vol. XXVII-XXIX, pp. 5-670. 10 Già Clark, in maniera approfondita, aveva stilato alcuni punti-chiave della metodologia di studio e scrittura su architettura e arte in Ruskin. K. Clark, A note on Ruskin’s writings on art and architecture, in Idem, Ruskin Today, Londra, Murray 1964, pp. 133-34. Del medesimo autore si segnala: K. Clark, Ruskin, in Il revival Gotico, Torino, Einaudi 1970. pp. 187-208. 11 R. Di Stefano, John Ruskin: interprete dell’architettura e del restauro, Napoli, Ed. scientifiche italiane, 1969, p. 53. 12 Il testo rimanda anche a A. Huxley, Letteratura e scienza, Milano, Il Saggiatore 1965. Il testo viene citato anche da Di Stefano vedi nota precedente. 13 Sul Ruskin e il metodo di osservazione: R. Hewison, Ruskin and the argument of the eye, Londra, Thames and Hudson 1976; J. Unrau, Looking at architecture with Ruskin, London, Thames and Hudson 1978; T. Hilton, John Ruskin: the early years 1819-1854, New Haven and London, Yale University Press1985.
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colo scientifico14, sia delle difficili condizioni degli operai nella Londra vittoriana. Tale razionalità dell’occhio viene però miscelata in un secondo momento, con l’emotività della mente. Se l’osservazione non lascia spazio ai sentimenti e alle valutazioni frettolose è nella percezione, e quindi nella comprensione razionale del valore di tale fenomeno, che l’obiettività viene contagiata dal sentimento emotivo. Questa pratica alternativa, che pensa all’occhio come freddo osservatore della realtà e alla mente come propulsione emozionale volta a comprendere il significato più profondo delle cose, è un fenomeno riscontrabile, come detto, in tutta la produzione bibliografica del critico inglese, ma assume un significato ancora più autentico se valutata rispetto agli studi di Ruskin sul paesaggio e la sua rappresentazione. Infatti, l’importanza dell’osservazione del paesaggio e la volontà di ricercarvi la natura delle cose è tale da portare lo stesso Ruskin a scrivere, appena laureatosi a Oxford, la sua opera più ambiziosa, Modern Painters15. Anche se è lo stesso Ruskin a spiegare16 che il desiderio di difendere Turner dalle accuse che gli erano state mosse era stato solo un pretesto per una indagine più profonda che diventerà poi il primo volume dell’opera, Modern Painters nasce dallo sdegno verso alcune recensioni che tre dipinti i Turner17 avevano ricevuto18. La critica che scosse così profondamente Ruskin19 fu quella secondo cui, i dipinti erano stati realizzati con una visione “out of nature”. Tale pensiero risultava inconcepibile al critico inglese20 poichè proprio attraverso la visione e l’osservazione dei dipinti di Turner era stato in grado di comprendere il paesaggio e la sua dimensione formale e psicologica. Come ricorda lui stesso in Praeterita, aveva conosciuto l’Italia, da bambino e prima ancora di visitarla, attraverso le stampe di Italy di Rogers21, così come dall’osservazione dei dipinti di Turner aveva compreso la dimensione emozionale del paesaggio22. L’importanza della visione di Turner in Ruskin pone delle interessanti riflessioni circa quanto affermato in precedenza. Il metodo di cui si è scritto non doveva basarsi necessariamente sull’osservazione diretta di un dato paesaggio o di un dato fenome-
pagina a fronte Fig. 2 John Ruskin, Vista di Amalfi, 1844, matita, acquerello su carta.
Fig. 3 Incisione raffigurante il porto di Scarborough inclusa in Harbours of England.
Si tratta del primo articolo di carattere scientifico di Ruskin basato squisitamente sull’osservazione di un fenomeno e la sua descrizione. The works of John Ruskin…. cit., vol. I, p. 193. 15 Idem, vol. III-VII. 16 J. Ruskin, Prefazione 1843, in J. Ruskin, Pittori Moderni, edizione a cura di Giovanni Leoni, vol. I, Torino, Giulio Einaudi Editore 1998, pp. 3-6. 17 Si tratta di Giulietta e la sua balia, Roma vista dal colle Aventino e Mercurio e Argo. Nella vasta bibliografia che si è occupata del rapporto fra Ruskin e Turner, si ricorda: R. Hewison, Turner Ruskin and the Pre-Raphaelites, Londra, Tate Modern 2000; C. J. Gamble, M. Pinette, S. Wildman, Ruskin-Turner: dessins et voyages an Picardie Romantique, Amiens, Musée de Picardie 2003. Si rimanda poi a The works of John Ruskin…. cit., vol. XIII, che, oltre al saggio Harbours of England, raccoglie le lettere e i molti articoli scritti da Ruskin in merito all’opera di Turner. 18 Il titolo proposto da Ruskin e poi rifiutato dalla casa editrice fu Turner and the Ancients. La casa editrice lo respinse e Ruskin fu costretto, oltre all’introduzione e alla premessa al volume, a destinare il frontespizio alle ragioni iniziali 14
no, ma poteva anche svilupparsi attraverso l’analisi dell’opera di un pittore, a condizione che tale pittore rappresentasse il mondo in maniera autentica, cioè in maniera etica o, ancora meglio, con verità. La verità a cui tende Ruskin significa la rappresentazione delle cose per come sono realmente, con onestà d’animo e senza mistificazioni e formalismi, ma abbandonandosi piuttosto ad una visione pura del mondo, che possa portare ad una rappresentazione reale dei fenomeni. In questo senso, osservare sembra più importante di rappresentare e infatti lo stesso Ruskin ricorda come «gli uomini non sanno guardare [...] l’eterna abitudine dell’uomo è illudersi di vedere ciò che conosce e, viceversa, non vedere ciò che non conosce»23. Questa impostazione di pensiero, quindi, motiva in maniera decisa quanto affermato in precedenza: l’osservazione del paesaggio è un momento fondamentale non solo di analisi ma anche di reale comprensione dei fenomeni naturali e, inoltre, la capacità di restituire quanto si è osservato in maniera idonea non è solo espressione veicolata dalla tecnica e finalizzata all’appagamento estetico, ma piuttosto una reale comunicazione di verità. Mistificare la rappresentazione di un paesaggio, correggendo l’osservazione diretta (aggiungendo formalismi o imitazioni decorative), significa per Ruskin, mentire sul mondo e sulla natura e quindi trasgredire dal rigore etico e religioso che permea tutto il suo lavoro. Questo è vero per i pittori, che «corrono il rischio di cadere, almeno in parte, nell’errore di dipingere ciò che esiste e non ciò che sono capaci di vedere»24 ma è vero anche per lo stesso Ruskin che, nel primo volume di Modern Painters, «guarda i quadri di antichi e moderni e mette i paesaggi dipinti in relazione con quello che è il vero referente di verità, la natura. Il suo occhio decodifica colori e linee
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RA dell’opera che rimane però anonima: Modern Painters: | Their superiority | In the Art of Landscape Painting | to all | The Ancient Masters | Poved by examples of | The True, the Beautiful and the Intellectual | From the | Works of Modern Artists, | especially | Frome those of J.M.W. Turner, Esq., R. A. | By a Graduate of Oxford. 19 In Praeterita lo stesso Ruskin scrive di una “rabbia nera”. 20 Ruskin scriverà, in risposta, A reply to “Blackwood’s” criticism to Turner, in The works of John Ruskin…. cit.,vol. III, p. 640. 21 In Praeterita Ruskin scrive: «L’orientamento della mia vita futura venne determinato dall’Italy di Rogers, libro che mi fu regalato dal socio di mio padre, il signor Telford. Fino ad allora non avevo mai sentito parlare di Turner [...] ma non appena diedi uno sguardo alle illustrazioni le assunsi come miei soli modelli, e mi apprestai ad imitarle, per quanto potessi, con un delicato chiaroscuro a penna». da J. Ruskin, Praeterita (traduzione S. Sciacca), Milano, Edizioni Novecento 1983, p. 26. 22 Ruskin iniziò a collezionare dipinti di Turner in tenera età, il primo gli fu donato dal padre. 23 Citazione tratta da G. Lionelli, Il profeta della modernità, in J. Ruskin, Pittori Moderni, edizione a cura di G. Leoni, John Ruskin… (aggiunto io perché non chiaro, ma non sono sicura) cit., pag. XXIV. 24 The works of John Ruskin…. cit., vol. III, p. 193.
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e li ricompone in parole. Questa è già la tecnica delle equivalenze verbali (verbal account)»25. La dimensione etica rappresenta quindi un elemento di enorme importanza non solo nell’osservazione del paesaggio, ma, ovviamente, anche nella necessaria esigenza di dover trasmettere tale visione con autenticità, o attraverso un dipinto, o attraverso le parole. Questa caratteristica è ribadita, oltre che da buona parte della critica che ha studiato l’opera di Ruskin26, anche dai suoi scritti autografi che riguardano il paesaggio e l’architettura. Oltre alle note Lectures on Architecture and Painting27 del 1853, che raccolgono alcune conferenze tenute nelle università scozzesi in cui il critico si sofferma sull’importanza del paesaggio e della sua contemplazione, anche in scritti meno celebri come Harbours of England28 del 1856, si usa la rappresentazione di Turner come veicolo per la comprensione del reale. In quest’opera, infatti, analizza alcune incisioni dell’artista raffiguranti porti inglesi e di ciascuna lascia un commento critico. I commenti alle tavole sono anticipati però da una introduzione al testo in cui l’autore si sofferma lungamente sull’analisi dell’importanza di una corretta rappresentazione del mare e del porto, come dinamica fra architettura e paesaggio marittimo. Ancora una volta, il commento alle rappresentazioni di Turner non è solo basato su di una analisi descrittiva ed estetizzante, ma, al contrario si fonda su presupposti di matrice etica, di corretta e idonea comunicazione dei valori di un determinato contesto naturale e costruito. Se analizzate in tal senso le idee di Ruskin inerenti la tutela dell’architettura gotica e la necessità di una conservazione degli edifici del passato scevra da ogni mistificazione e aggiunta stilistica, acquistano una nuova dimensione. Come affermato nell’introduzione a questo saggio infatti, l’approccio di Ruskin è sistemico e, anche nei confronti
pagina a fronte Fig. 4 Incipit del capitolo The Nature of Gothic della prima edizione di The Stones of Venice, 1851. Fig. 5 Particolare della Cattedrale di St. Lo, Normandia. Tavola II pubblicata in Seven Lamps of Architecture. Incisore R.P. Cuff. Fig. 6 John Ruskin, The South front of St Mark’s. with the Procuratie and the Clock Tower, 1845-52, dagherrotipo. Fig. 7 John Ruskin, Ca’ D’Oro under restoration, 1845, dagherrotipo.
G. Lionelli, Il profeta della modernità… cit., pag. XXIV. Sul problema della traduzione di Ruskin: E. Sdegno, 1900-1946: le prime traduzioni artistiche, in D. Lamberini, L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, Firenze, Nardini 2006, pp.221-246. 26 Rispetto all’approccio religioso di Ruskin allo studio del paesaggio e dell’architettura: G. Leoni, La religione e la scienza, in John Ruskin. Opere, a cura di G. Leoni, cit., pp. 3-20; K. Clark, Ruskin today, London, J. Murray 1964; M. Dezzi Bardeschi, Vogliamo ravviare queste tremule, smarrite Seven Lamps?, «’ANANKE Quadrimestrale di cultura, storia e tecniche della conservazione per il progetto», n. 86 gennaio 2019, Milano, Altralinea, pp. 2-3. 25
dei beni culturali, si nota la stessa prassi speculativa29. Ruskin chiede il medesimo rigore e la medesima adesione al reale al pittore che rappresenta un paesaggio, a se stesso che scrive un testo critico e alla collettività a cui è affidato il compito di conservare i
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27 The works of John Ruskin…. cit., vol. XII, pp. 5-167. 28 Idem, vol. XIII, pp. 5-79. 29 Sull’eredità di Ruskin nella contemporaneità della disciplina della conservazione: D. Lamberini, L’eredità di John Ruskin… cit. 30 J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, trad. R. M. Pivetti, Firenze, Jaca Book 2018, p. 229. 31 The works of John Ruskin…. cit., vol. IX-XI, pp. 17-416. 32 Sui restauri a Venezia e Ruskin (oltre alle lettere contenute nei Works): A. P. Zorzi, M. Dalla Costa, La Basilica di San Marco e i restauri dell’Ottocento, Venezia, Stamperia di Venezia 1983; M. Pretelli, Imparando, di nuovo, da Venezia. La lezione del crepuscolo, in J. Ruskin, Il riposo di San Marco, a cura di M. Pretelli, Santarcangelo di Romagna, Maggioli editore 2010, pp. 37-72. Sui restauri a Milano: A. Bellini, Giacomo Boni tra John Ruskin e Luca Beltrami. Alcune questioni di restauro architettonico e politica, in D. Lamberini, L’eredità di John Ruskin… cit., pp. 3-30. Nel Mezzogiorno: S. Casiello, R. Picone, John Ruskin e il Mezzogiorno d’Italia, idem, pp. 65-82. 33 Titolo completo dell’opera: Mornigns in Florence: being simple studies of Cristian art for english travellers, idem, vol. XXIII, pp. 285-461.
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beni del passato. Ogni aggiunta, ogni completamento, ogni interpretazione fantasiosa è da considerarsi come “la peggiore delle distruzioni”. La necessità, ancora una volta etica, di conservare gli edifici del passato è una regola a cui Ruskin risponde in maniera religiosa sentenziando come «la decisione di conservare o no gli edifici delle epoche passate non è questione di opportunità o di sentimento: il fatto è che non abbiamo alcun diritto di toccarli. Non sono nostri. Essi appartengono in parte a coloro che li costruirono e in parte a tutte le generazioni di uomini che dovranno venire dopo di noi»30. Allo stesso modo, possiamo ancora meglio comprendere la frenesia che ha accompagnato la stesura di The Stones of Venice31 scritto fra le il 1851 e il 1853, in un momento in cui commentare e descrivere le opere architettoniche di Venezia significava, almeno figurativamente, metterle in salvo dai restauri che erano in corso32. Ancora, nella sua ultima fase di vita e studio, volumi come Mornings in Florence33 del 1875-1877 o St. Mark’s Rest34 del 1877-1884, rappresentano l’esigenza di comunicare con veridicità il valore di un patrimonio che era minacciato dai restauri della seconda metà del XIX secolo e che, pronto a perdere i propri valori architettonici e culturali, non sembrava poter essere difeso da nessuno. L’amaro sottotitolo di St. Mark’s Rest, in tal senso, esprime in maniera efficace lo stato d’animo dell’autore La storia di Venezia scritta a servizio di quei pochi viaggiatori che hanno a cuore i suoi monumenti. Le brevi considerazioni riportate nel presente saggio, lungi dall’essere esaustive, pongono una riflessione profonda sul messaggio che l’attività di Ruskin riveste ancora oggi nella comprensione del paesaggio architettonico e del suo significato. La battaglia,
solo apparentemente ideologica, contro i restauri stilistici e le manomissioni è principalmente una battaglia politica, volta alla salvaguardia del significato più profondo dell’architettura, del paesaggio e dei beni culturali. Tale difesa, per cui Ruskin si impegnò per tutta la sua vita, non rappresenta una decisione ideologica faziosa, ma la naturale propensione a seguire i canoni di matrice etica e morale. Tra l’osservazione del mondo naturale, mediata dallo sguardo, e la sua comunicazione di sintesi, sintetizzata dal testo o dalle immagini, si inserisce il momento della reale comprensione del fenomeno paesaggistico e architettonico e dell’importanza che la conservazione di tale contesto riveste in chiave sociale35. Alle dinamiche speculative, di recupero della capacità edificatoria, di rifunzionalizzazione Ruskin ha saputo anteporre, senza alcuna esitazione, le ragioni della conservazione, della memoria del passato, della salvaguardia delle valenze identitarie, ribadendo il primato delle istanze etiche all’interno di ogni azione di trasformazione del patrimonio. Sembra proprio questa la lezione più preziosa del lavoro di Ruskin e l’eredità che oggi si pone come lascito definitivo, ovvero l’importanza di saper osservare, saper comprendere e, soprattutto, saper comunicare il valore più profondo del patrimonio. Attraverso questo sistema di pensiero, la conservazione dei beni culturali diviene una pratica non solo di carattere progettuale o urbanistico, ma una azione politica di sostenibilità culturale e di eguaglianza sociale.
pagina a fronte Fig. 8 John Ruskin, Ca’ d’Oro, 1845, matita, acquerello, tempera su carta grigia.
Idem, vol. XXIV, pp. 195402. In merito si segnala l’importante l’opera J. Ruskin, Il riposo di San Marco, a cura di M. Pretelli… cit. 35 G. Carbonara, L’eredità smarrita di John Ruskin, «’ANANKE Quadrimestrale di cultura, storia e tecniche della conservazione per il progetto», n. 86 gennaio 2019, Milano, Altralinea, pp. 6-8. 34
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Iole Nocerino
RA
Naturalità del paesaggio toscano nei viaggi di John Ruskin Iole Nocerino | iole.nocerino@gmail.com Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Napoli Federico II
1 Ruskin e la Toscana, a cura di J. Clegg, P. Tucker, Catalogo della mostra (Londra, Sheffield, Lucca, 1993), Sheffield, Ruskin Gallery 1993, pp. 139-152. Sull’argomento si consulti anche C.e W. Morley, John Ruskin. Late work 1870-1890, New York, Garland Publishing 1984. 2 Cfr. John Ruskin. Le Pietre di Venezia, a cura di A. Ottani Cavina, Catalogo della mostra (Palazzo Ducale, Venezia, 2018), Venezia, Marsilio 2018. In riferimento particolare alla flora toscana, invece, si confronti Ruskin e la Toscana, a cura di J. Clegg, P. Tucker, Catalogo della mostra (Londra, Sheffield, Lucca, 1993), Sheffield, Ruskin Gallery 1993. 3 «Piacevole scarrozzata nelle Cascine; sole vivido e mite in mezzo ai trochi selvaggi degli alberi; dolci montagne, armoniose nella forma e spruzzate di neve, al di là dei verdi prati della campagna intorno a Firenze, e molte graziose fiorentine, la splendida carnagione un po’ arrossata dal sole» (Firenze, 25 aprile 1840). J. Ruskin, Diario italiano. 1840-1841, trad. a cura di H. Brinis, Milano, Mursia 1992, p. 119. 4 Attilio Brilli nelle introduzioni a Ruskin, Diario italiano… cit. e J. Ruskin, Viaggi in Italia. 1840-1845, a cura di A. Brilli, trad. a cura di I. Loffredo e P. Sestini, Firenze, Passigli Editori
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Abstract During his travels in Italy, along the routes to reach monumental cities, John Ruskin crossed countryside and rural contexts of Tuscany. Accompanied by his family, students and famous landscape artists, he produced travel diaries, but also sketches and watercolors. His written notes tell with many particular the landscapes, hills and cultivated fields that he visited, while the drawings show the quiet that nature transmitted to him. The places of the Tuscan countryside were also an occasion for Ruskin to deepen his studies in botany and to improve the techniques of drawing. In fact, the chiaroscuro representations of plants and flowers, are reflected in the marble decorations of Florence, Pisa and Lucca monuments. Looking at Ruskin’s Tuscany, through the reading of his travel notes and the observation of the drawings that he produced, the contribution intends to focus on his attention to the landscape, tracing the aspects that influenced his theories. Starting from the drawings of nature and landscape present in the catalogs of some exhibitions, in particular John Ruskin. Le Pietre di Venezia (Venezia, 2018) and Ruskin e la Toscana (Lucca, 1993), the focus is on the idea of “beauty” and spontaneity of the landscapes he portrays, to bring out also the aspects still current today for their conservation. Parole chiave Ruskin, Toscana, paesaggio rurale, natura, botanica
Nei suoi ripetuti viaggi in Italia John Ruskin visitò, tra il 1840 e il 1882, ben sette volte la Toscana. Mornings in Florence, Modern Painters, The Seven Lamps of Architecture e Fors Clavigera sono alcuni tra i suoi testi più celebri in cui sono presenti riferimenti alle tappe toscane dei suoi viaggi. Mentre le città principali rappresentarono per lui un vivido repertorio per lo studio dell’arte e dell’architettura, nei centri minori la sua attenzione si è soffermata e articolata sull’approfondimento delle peculiarità del paesaggio. Tale circostanza si verifica quando nel 1840-1841 attraversa la Toscana in compagnia dei genitori, la cugina e una governante; poi negli anni ‘70, quando vi ritorna come Slade Professor of Art di Oxford, insieme ad artisti paesaggisti, rintracciando nella natura i principi fondamentali dell’arte. Da queste ultime esperienze, in particolare, ha avu-
to origine la struttura concettuale delle lezioni oxfordiane, come Aratra Pentelici, Val d’Arno, Ariadne Florentina e The Aesthetic and Mathematic Schools of Art in Florence1. È oltremodo noto, come pure ben testimoniato dalla rilevante presenza di disegni sulla natura nell’ultima e recentissima mostra dedicata all’inglese2, quanto abbiano significato per la sua formazione le passeggiate in campagna, che solitamente avvenivano lungo i percorsi per raggiungere le grandi città: nei luoghi della Val d’Arno, Val di Nievole, Val d’Orcia e Val di Chiana, il contatto con la semplicità della civiltà contadina e con la natura si rivelò fonte di armonia e benessere3. Il diario e i disegni elaborati tra il 1840 e il 1841 mostrano un diversificato interesse nei confronti di scorci naturali. Il diario, in particolare, descrive i paesaggi visti con entusiasmo ‘impressionista’4, rivelando per l’Italia una forte curiosità di analisi e la spiccata attrattiva per le bellezze naturali, riconducibile alla pittura di Turner5, alla poesia di John Keats, Lord Byron e Percy Bysshe Shelley. Delle campagne racconta l’armoniosità delle forme e le particolari atmosfere: Attilio Brilli, ha definito il suo diario un «réportage turneriano»6, che con il «trascolorare da un’impressione coloristica all’altra»7 supera perfino l’uniformità che si può riscontrare nella sua produzione grafica coeva. Le narrazioni, infatti, comprendono umanità, paesaggi e dettagli della Toscana agreste. Molti e diversi tra loro sono i luoghi che menziona, mettendone in evidenza natura e architettura considerati integrati e fortemente interrelate tra loro. Lungo la strada «acquitrinosa e dall’aspetto disgustoso», percorsa lentamente con i buoi tra Carrara e Massa, Ruskin rileva la maestosità delle montagne che ha di fronte (Fig. 1), oltre alle cave di calcare, che descrive come «grigiastro […], ricoperto da splendide formazioni di manganese arborescente»8. Nel tragitto da Lucca a Firenze, invece, osserva la semplicità di alcune pannocchie di un «autentico giallo aranciato, […] intenso e caldo», che ricoprono per uno spessore di trenta centimetri i muri di alcune case9. Lì vicino, durante una passeggiata ai piedi del Monte Pisano, raccoglie con cura alcune pietre10, apprezzando la vista del golfo di La Spezia, poi Pisa e Lucca, le montagne di Carrara e gli Appennini, fino a Firenze11. Il paesaggio della Val d’Orcia, come quello di Siena e di Radicofani, viene definito «collinoso» e «ondulato», con linee tendenti all’orizzontalità e dotato, in contrasto, di architetture fortificate che gli ricordano quelle del Galles. La descrizione rileva la compartecipazione e la particolare percezione, tutta ruskiniana: «Sulla destra la grigia massa di un monte luccicava di ardesia – o di neve – o di qualcosa che brillava: […] era bello l’effetto di quegli improvvisi sprazzi di luce. […] Tutto il resto di un fiammeggiante color cremisi»12. Le sue impressioni sulla Val di Chiana, invece, si deducono dalle parole dedicate alla città di fondazione etrusca di Cortona. Nella piana cortonese, che si estende a nord-ovest del Trasimeno, Ruskin incontra un «bel tratto di coltivazione all’italiana» con gelsi e viti illuminati dal sole; pernotta in una locanda di Camucia13, di cui apprezza l’operosità della famiglia proprietaria, rivelando la curiosità anche per la componente umana dei luoghi. A tal proposito, è interessante il suo incontro, e la relativa corrispondenza, con l’artista statunitense Francesca Alexander14. Conosciuta nel 1882 a Firenze, comprò per il Guild of St George Museum due suoi manoscritti, The Story of Ida e Roadside Songs of Tuscany. Questi avevano come soggetto la società contadina, con illustrazioni bucoliche,
1985, fa riferimento ad annotazioni e testimonianze “impressionistiche” nel diario di Ruskin. 5 Illuminante fu il libro ricevuto in regalo Italy di Samuel Rogers, con illustrazioni di Turner. Nutriva per quest’ultimo una profonda ammirazione, ritenendolo «l’unico uomo che ci abbia restituito l’immagine di un intero sistema naturale, e sotto questo profilo l’unico perfetto paesaggista che il mondo abbia ammirato». J. Ruskin, Diario italiano… cit., p. 6 (Firenze, 29 aprile 1841). 6 J. Ruskin, Viaggi in Italia… cit., pp. 9-10. 7 Ibidem. 8 Ivi, pp. 25-26 (Lucca, 8 novembre 1840). 9 J. Ruskin, Diario italiano... cit., p. 27 (Lucca, 8 novembre 1840). 10 Le pietre raccolte in quell’occasione sono elencate nel diario sotto il titolo “Pietre della serie toscana”. Lo studio sui materiali naturali lo induce a fare alcune riflessioni sulla scelta e la qualità dei materiali in architettura, tra cui, nell’AFORISMA 14 della “Lampada della verità” così scrive: «I colori propri dell’Architettura sono quelli della pietra naturale». R. Di Stefano, John Ruskin. Un interprete dell’architettura e del restauro, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1983, pp. 134-136; J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, settima ristampa (London, 1849), Milano, Jaka Book 2016. 11 In Ruskin e la Toscana… cit., pp. 120-121, è riportato il testo della lettera indirizzata al padre (27 ottobre 1882). 12 J. Ruskin, Diario italiano… cit., p. 36 (Radicofani, 25 novembre 1840). 13 Camucia, «Camuccio» nel diario, è una frazione che si trova ai piedi della collina sulla quale sorge il centro storico di Cortona. J. Ruskin, Diario italiano… cit., p. 119 (Firenze, 24 aprile 1840).
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RA John Ruskin correspondence with Lucia and Francesca Alexander 18821889, Boston Public Library Archival and Manuscript, MS 5086. Alcune di queste lettere sono state anche pubblicate da Lucia Gray Swett nel 1931, in John Ruskin’s Letters to Francesca and Memoirs of the Alexanders, Lothrop, Lee & Shepard co. 15 F. Alexander, Canti lungo i sentieri di Toscana. Storie di popolo, vol. 2, rielaborazione dagli originali Roadside songs of Tuscany, Tuscan songs, Christs folk on the Appennine, di Francesca Alexander, con commenti di John Ruskin, trad. a cura di G. Pucci, coll. Quaderni d’Ontignano, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina 1980, p. 68; Ruskin e la Toscana… cit., p. 120. 16 Ruskin e la Toscana… cit., p. 73. 17 «La razza si è confermata fino ad oggi; ieri sera mi ha portato in carrozza uno di loro, con occhi neri identici a quelli incastonati nel fonte di Pisa - uno stesso naso affiliato - un torace da Ercole». Ruskin e la Toscana… cit., p. 96; The Correspondance of John Ruskin and Charles Eliot Norton, a cura di J. L. Bradley e I. Ousby, Cambridge University Press, 1987. 18 Scritte nel 1877 e organizzate in dodici punti, sono state tradotte anche in italiano. J. Ruskin, Le leggi di Fiesole. I canoni della bellezza, trad. Francesco Gurrieri, Firenze, Libreria Alfani editrice 2012. La 1° legge, in particolare: «l’arte dell’uomo è espressione del suo piacere, razionale e disciplinato, per le forme e le leggi della creazione di cui egli è parte». 14
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che Ruskin apprezzò particolarmente perché «espressive», concordi con le sue stesse impressioni sui contadini italiani, tanto che ne decise la pubblicazione anche in Inghilterra15. In una edizione del secondo dei due troviamo alcuni commenti di John Ruskin agli stornelli, considerazioni sulla saggezza e pazienza dei contadini e sulla forza d’animo delle donne protagoniste delle storie riportate (Fig. 2). Onestà, gentilezza e serenità é ciò che riscontra anche nella «razza contadina della Val di Nievole»16, dove, sulla collina che guarda il convento di San Cerbone, egli amava particolarmente passeggiare, sia per la natura, che per l’osservazione della particolare fisionomia ‘etrusca’ dei contadini17. Particolare interesse rivestono i disegni ruskiniani dai colli, strategici punti di osservazione, rivelatori del suo approccio alla percezione, e alla conoscenza, di paesaggi. Nella Veduta da San Miniato, la vegetazione avvolge l’architettura (di Firenze), diventando un tutt’uno con le distese vallive e le nuvole del cielo (Fig. 3). Altri «scorci incantevoli di Firenze» si presentavano durante le gite a Bellosguardo e Fiesole. Quest’ultima, ritratta numerose volte (Fig. 4), è stata anche il luogo di gestazione delle Leggi di Fiesole, che riguardano il piacere dell’uomo per il creato, il quale si esprime nell’arte, in particolar modo attraverso il disegno, tra istinto e ragione18. Dalla visione d’insieme, come spesso gli capitava, Ruskin si concentrava anche sui dettagli. Ciò che attirava la sua attenzione, infatti, soprattutto nella fase ‘matura’ dei suoi viaggi in Toscana, erano piante e fiori. Negli anni attorno al 1870, «su una gola di marmo» delle colline lucchesi con i suoi compagni Newman e Collywolly, osservando la piana della città e «uno splendido monastero sul crinale della collina» (Fig. 5), si concentra su castagne, piante di mirtilli, lecci, corbezzoli, ma anche ciclamini e garofani19; probabilmente nel 1882 acquista degli studi di anemoni di Newman, realizzati durante una di queste passeggiate20 (Fig. 6). Ancora nei pressi di Lucca, racconta di aver riposato nei boschi di ulivi e cipressi e aver cercato i non-ti-scordar-di-me tra ciclamini rosa e menta piperita azzurra21.
pagina a fronte Fig. 1 John Ruskin, Le Apuane a Carrara, 1872.
Fig. 2 Francesca Alexander, Illustrazione per “Roadside Songs of Tuscany”, 1883. Fig. 3 John Ruskin, Veduta da San Miniato, 1845. Fig. 4 John Ruskin, San Domenico a Fiesole, 1874.
Ruskin e la Toscana… cit., p. 122. 20 Ivi, p. 125. 21 Ibidem. 22 Effettuati negli anni ‘40 dell’Ottocento, questi studi confluirono in maniera più sistematizzata in Proserpina. Studies of wayside flowers, while the air was yet pure among the Alps, and in the Scotland and England which my Father knew, con esaminazioni botaniche e geometriche di alcune specie di piante, fiori, foglie e considerazioni sulla loro “anima estetica” e struttura fisica. Si confronti anche Ruskin’s flora. The botanical drawings of John Ruskin, a cura di D. Ingram, S. Wildman, Catalogo della mostra (Ruskin Library, Lancaster 2011), Lancaster University, Ruskin Library and Research Centre 2011. 19
L’aspetto ‘itinerante’ degli studi floristici si riproponeva, dunque, anche in Toscana, riecheggiando, seppur con alcune differenze, quelli sui «wayside flowers»22 delle Alpi di Chamonix. L’osservazione e il disegno dei fiori dal vero erano ritenuti da lui necessari, insieme alle conoscenze botaniche, per lo studio dei dipinti dei grandi maestri23, oltre ad essere un esercizio per poter ben rappresentare le decorazioni dei monumenti (Fig. 7). Ma non solo, egli credeva, insegnandolo ai suoi studenti, che saper disegnare è importante per conoscere e dunque ‘amare’ la Natura, piuttosto che essere quest’ultima uno strumento per imparare l’arte del disegno24. A tal proposito, è interessante il raffinato acquerello Iris Fiorentina realizzato per i suoi corsi e il significato che contiene: la disposizione casuale ma «autoritaria» dei petali rappresenta tanto l’esplosione quanto il controllo della forza vegetale; fleur-de-lys era il fiore simbolo dell’eleganza e dell’importanza della cavalleria fiorentina25 (Fig. 8).
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«Ora, ad esempio, andrò a Palazzo Pitti. (…) devo esaminare un certo numero di dipinti, o non avrò più modo di farlo. Traboccano anch’essi di fiori, ma non potrò dire se sono una copia fedele finché non ricorrerò al mio taccuino botanico e non rintraccerò gli originali». J. Ruskin, Viaggi in Italia... cit., p. 160 (Firenze, 26 giugno 1840). 24 «and I would rather teach drawing that my pupils may learn to love Nature, than teach the looking at Nature that they may learn to draw». J. Ruskin, The Elements of Drawing, London, George Allen and sons 1857, preface. 25 Val d’Arno, Lezione X, “Fleur de Lys”; Ruskin e la Toscana... cit., p. 99. 26 C. Rainero, Il pensiero di Ruskin e sua influenza sui contemporanei, prefazione coi giudizi di E. Basile, C. Boito, D. Calandra, E. Ferrari, L. Giunti, Torino, G. B. Paravia 1909, p. 1. 27 Introduzione di R. Di Stefano a J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura… cit. 28 AFORISMA 19 de “La lampada della bellezza”. Ivi, p. 139. 23
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È evidente come i molteplici aspetti del paesaggio toscano abbiano influenzato le teorie di Ruskin sulla Natura. «Cominciamento e meta d’ogni sua aspirazione»26, è attraverso la percezione di quest’ultima che egli comprendeva l’essenza delle cose27: «ogni bellezza è fondata sulle leggi delle forme naturali»28. Una percezione emotiva, quella delle bellezze naturali, riconducibile ad un ‘sentimento estetico’, che crea un legame profondo tra gli esseri umani e le cose29. Faceva riferimento al conforto e alla gioia nell’adorazione della Natura, nonché alla superiorità e al ‘sacrificio’ di essa nei nostri confronti, perché, oltre al suo essere utile, ci regala sensazioni estetiche nel piacere contemplativo della sua osservazione, senza mai ricevere nulla in cambio: è qui che si innestano le ragioni e le primarie esigenze conservative. Di fronte a questa, infatti, afferma che la bellezza della natura deve diventare una «preoccupazione patriottica»30. La centralità della Natura, che comprende anche argomentazioni morali ed economiche, oltre che estetiche, è associata alla vita della comunità. Ruskin afferma che un luogo per essere «bello, placido e fecondo» deve essere abitato da persone operose e serene, dotarsi di trasporti lenti e sicuri, essere ricco di spazi verdi e di campi coltivati, piuttosto che di costruito, nutrirsi di arti, come la musica e la poesia, nonché di scienza, quali la storia e la botanica31. Con molta probabilità, l’esteta inglese deve aver riscontrato simili caratteristiche anche nelle cittadine campestri della Toscana ottocentesca. Se già agli inizi del secolo scorso gli studi di estetica e psicoanalisi hanno cercato di comprendere meglio i significati più reconditi della sua ‘ammirazione’ per la Natura32, è importante oggi tornare a riflettere sul senso del suo lascito, sulla sua «eredità smarrita»33. Essendo il paesaggio «una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni»34, si comprende bene quanto la conservazione della sua naturalità sia
pagina a fronte Fig. 5 John Ruskin, Passeggiata tra i vigneti a Lucca, 1874.
Fig. 6 Henry Hoderick Newman, Anemoni su una collina, 1888. Fig. 7 John Ruskin, Palme decorative di un bassorilievo del Duomo di Lucca. Fig. 8 John Ruskin, Fleur-De-Lys (Iris Fiorentina), 1871.
una problematica rilevante. L’eco delle sue considerazioni è significativa: in molte aree rurali della Val di Chiana, ad esempio, i fenomeni di degrado e abbandono degli storici poderi agricoli, oppure, per contro, il loro riutilizzo indifferente alle vocazioni e in un’ottica meramente economica rappresentano un pericolo concreto della loro definitiva perdita. Potenziale «moltiplicatore di memoria»35, il trascorrere del tempo va visto insieme ai valori storico-culturali come volano di sviluppo armonioso e compatibile, piuttosto che inutilmente contrastato. A tal proposito, vale la pena prendere in considerazione gli elementi identificativi del paesaggio toscano - sui quali anche John Ruskin si è soffermato - e lavorare al fine di orientare la loro trasformazione, in una prospettiva di sviluppo sostenibile e in virtù di un rapporto sinergico, ancora possibile, tra uomo e natura36.
C. Rainero, Il pensiero… cit., pp. 1-9, 24-41. Scalinger, partendo dagli studi di De la Sizeranne (Ruskin e la Religion de la Beauté, Paris, Hachette 1897), aveva sviluppato un interessante paragone sul “sentimento del Bello” tra John Ruskin ed Emmanuel Kant. Facendo riferimento alla “Base di una critica del Gusto” nella Critica del Giudizio del secondo, sottolinea quanto, nonostante la diversità della loro teoria e vitalità intellettiva, essi concordano nel considerare questo sentimento derivante da una soddisfazione immediata, che non risulta dal ragionamento astratto; entrambi conferiscono al piacere intellettuale, che deriva dalla forma, il più alto godimento del bello, piuttosto che quello sensibile, che deriva, invece, dalla materia. G. M. Scalinger, L’estetica di Ruskin, Napoli, Dekken e Rocholl 1900. 30 Questa affermazione, in particolare, riportata da Rainero (Il pensiero… cit., p. 25), si riferisce ad una sua esaltazione della Scozia e della Svizzera, come sedi di grandi bellezze naturali. 31 G. M. Scalinger, L’estetica di Ruskin… cit., pp. 36-37. 32 Si fa riferimento agli studi di Scalinger e Rainero già citati; Cfr. anche P. D’Angelo, La presenza di Ruskin nell’estetica italiana, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini Editore 2006, pp. 109-118. 33 G. Carbonara, L’eredità smarrita di John Ruskin, «’ANAΓKH», n. 86, 2019, pp. 6-8. 34 “Paesaggio”, lettera “a”, articolo 1 della Convenzione europea del Paesaggio, Firenze 2000. 35 M. Dezzi Bardeschi, Vogliamo ravvivare queste tremule, smarrite Seven Lamps?, «’ANAΓKH», n. 86, 2019, pp. 2-3. Nella stessa sede, il saggio L’eredità smarrita di John Ruskin? di Giovanni Carbonara evidenzia quanto sia attuale e ancora meritevole di attenzione da parte della nostra rappresentanza politica l’anelito di Ruskin alla bellezza e alla giustizia, anche se utopistico, anzi, proprio per questo fonte di speranza e progetto - comunque ben radicato nel passato - per l’avvenire. 36 “Gestione dei paesaggi”, lettera “e”, articolo 1 della Convenzione europea del Paesaggio, Firenze 2000. 29
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Il pensiero di Ruskin nella storia del restauro architettonico: quale eredità per il XXI secolo? Serena Pesenti | serena.pesenti@polimi.it Dipartimento di Architettura e Studi urbani Politecnico di Milano
Abstract The contribution intends to focus on influence of Ruskinian thought in the culture of restoration discipline in Italy. From the introduction of his thinking in the field of Italian technical culture, we will consider the connection points with the thought of some so-called “restoration fathers” (Boito, Giovannoni etc.) and the ways in which his critical fortune emerged in the restoration stories published since the mid-twentieth century. Any attention will also be given to those traces of Ruskin’s influence (and relations with the SPAB) with respect to restoration issues, found in episodic debates that took place during interventions on monuments. That make it possible to recognize in Italy the almost constant presence of a line of thought inspired by Ruskin’s vision on monuments conservation, although decidedly minoritarian and karst. Finally, we will consider the aspects of Ruskin’s legacy, especially in relation to the concepts of memory, time, and their variations in the history of restoration to arrive at the problems that the discipline is currently facing today, in the globalized world. Parole chiave Ruskin’s legacy, architectural restoration culture, manuals of history of architectural restoration
Introduzione Senza soffermarsi sulla più ampia fortuna critica di Ruskin storico dell’arte1, interessante è seguire il percorso che l’interpretazione del suo pensiero ha segnato all’interno della cultura del restauro architettonico in Italia. L’attenzione alle sue idee appare presente in modo discontinuo nella letteratura disciplinare: inizialmente con continuità nel dibattito dal secondo Ottocento fino ai primi del Novecento; riappare in modo significativo nella letteratura manualistica pubblicata dopo la Seconda guerra mondiale, e infine riceve un rinnovato interesse nella complessiva riflessione teorica sui “padri” del restauro e sulle nuove istanze metodologiche dell’intervento operativo, a partire dagli anni Settanta-Ottanta del secolo. Da quella che sarebbe la prima apparizione del pensiero ruskiniano sul restauro in Italia avvenuta nel 1861 (in un articolo pubblicato sul Giornale dell’Ingegnere Architetto ed Agronomo)2, alle “riletture” critiche, specie negli anni ‘70 e ‘80 del Novecento, è in effetti da riscontrare come attraverso nuovi tagli di lettura i suoi testi abbiano contri-
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buito alla maturazione non solo di discorsi peculiarmente teorici ma, attraverso questi, in certo modo abbiano anche contribuito al mutare dell’atteggiamento progettuale e dell’approccio metodologico nell’intervento sugli edifici, secondo criteri oggi largamente acquisiti e condivisi, a partire dall’attenzione alla conservazione dei materiali e dalla rilevanza riconosciuta alla manutenzione come prioritaria operazione di cura e di conservazione del costruito. Dalla negazione del “restauro” ai “limiti e modi” della “conservazione” Nella letteratura disciplinare, specie nelle “storie” del restauro, il pensiero Ruskin è sempre introdotto nel quadro delle teorie critiche sviluppatesi nella storia del restauro, in rapporto a un’assenza di esempi di riferimento concreti, diversamente dalle altre teorie. L’esposizione delle sue idee assume pertanto il carattere di una digressione colta che, attraversando le differenti posizioni teoriche susseguitesi nel corso di due secoli, dall’inizio dell’Ottocento, individua in Ruskin il paladino dell’“anti-restauro”, della totale opposizione al “fare”; atteggiamento che culmina nel fatale e romantico abbandono al destino di disfacimento degli edifici. Tale indirizzo di lettura limiterà significativamente la possibilità di attingere al suo pensiero per ispirare possibili atteggiamenti positivi e non rinunciatari nell’intervento sui monumenti. Non a caso, le trattazioni di restauro più strettamente orientate alla discussione delle questioni tecniche del cantiere, piuttosto che quelle teoriche tendono, coerentemente, a ignorare del tutto le tesi rinunciatarie di Ruskin. Fino agli anni Settanta del Novecento la letteratura del restauro più specificamente dedicata alle questioni progettuali e operative non citava nemmeno di sorvolo Ruskin. Ad esempio possiamo notarne l’assenza nei testi di Ambrogio Annoni del 1946 (Scienza e arte del restauro architettonico3), di Carlo Perogalli del 1955 (La progettazione del restauro4), sebbene quest’ultimo ponga nell’esergo del libro proprio le parole dell’Inglese: «Per me le pietre hanno sempre costituito il pane», quasi a monito per una progettazione consapevole. E ancora lo stesso Piero Sanpaolesi5 non parla di Ruskin nel suo importante Discorso sulla metodologia generale del restauro dei monumenti, del 1977, tutto incentrato sulle problematiche tecniche del “fare restauro”. Tuttavia, nelle premesse metodologiche, introduttive alla parte più peculiarmente tecnica del testo, sono notevoli le sue considerazioni sulla necessità di passare dal concetto di “monumento” a quello di “oggetto” e sull’importanza della cura della materia degli edifici, per conservarla in loco e non sostituirla6. Tali premesse appaiono il riflesso di una visione culturale certamente avvertita anche sulle idee ruskiniane, riconoscibile nell’approccio metodologico e tecnico per l’attenzione alla conservazione della materia fisica; cosa questa che sposta il discorso di Sanpaolesi applicato all’intervento ben oltre il celebre assioma di Cesare Brandi «si restaura solo la materia dell’opera d’arte»7. Diversamente rispetto alle trattazioni tecniche, cui si è appena accennato, possiamo invece ripercorrere il discorso su Ruskin in alcuni testi di riferimento, rappresentativi della fortuna critica dell’Inglese nei contributi dei “padri” della disciplina, da una parte; dall’altra, per l’ampia portata nella diffusione della conoscenza di base del pensiero ruskiniano, in tale direzione si esaminano i principali manuali di storia del restauro del Novecento, nei sui quali si sono formate generazioni di architetti8. Come sopra si accennava, nel 1861, nelle pagine del Giornale dell’Ingegnere Architetto e Agronomo è pubblicato un articolo di Edmund Street che illustra il pensiero di Ruskin. Il pezzo è tradotto e presentato dal direttore della rivista, Raffaele Pareto9, illu-
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stre ingegnere idraulico dalla profonda cultura umanistica di respiro europeo, il quale non manca di esprimere una certa perplessità sulla tesi ruskiniana contro il restauro, laddove scrive: [… ] il filosofare dell’architetto inglese […] ci sembrò utile da farsi conoscere ai nostri lettori, sebbene poi, lo ripetiamo, ci sembrino esagerate alcune sue idee, che però hanno il pregio di essere espresse con bello humor inglese»10.
In effetti, il commento di Pareto mette a fuoco il carattere negativo dell’idea di anti-restauro, inteso come totale rinuncia al “fare”: questo aspetto sarà decisivo nel confinare la tesi ruskiniana entro quel significato riduttivo di deliberata inazione associata all’apprezzamento romantico del rudere come momento di perfezione e di fusione con la natura, secondo un paradigma al quale si conformerà molta parte della letteratura del restauro successiva. Una simile opinione è in seguito espressa da Camillo Boito. Egli menziona le argomentazioni contro i restauri distruttivi alla basilica di San Marco a Venezia (che aveva visto il pittore Favretto, insieme a una cinquantina di artisti, sottoscrivere le proteste pubblicate nell’opuscolo ruskiniano Avvenire dei monumenti di Venezia11) e, con l’espediente letterario a lui familiare del dialogo, per definire la teoria di Ruskin Boito fa chiedere al suo ipotetico interlocutore: «Come la chiama ella questa teoria molto semplice?». Egli così può rispondere, chiarendo la propria posizione critica: Non saprei. La direi forse del pittoresco. Ma, data la premessa, è spietatamente logica. Non potendo serbare incolume il monumento, accopparlo, o lasciarlo, senza nessun farmaco spirare di consunzione, di cancrena o di carie. Il busilli sta in questo, che la società civile non si persuaderà mai di farsi complice in simili delitti, come non abolirà mai né i medici né i chirurghi. Ora, l’arte del restauratore somiglia a quella del chirurgo. Sarebbe meglio, chi non lo vede? che il fragile corpo umano non avesse mai bisogno di sonde, di bisturi e di coltello; ma non tutti credono che sia meglio veder morire il parente o l’amico piuttosto che fargli tagliare un dito o portare una gamba di legno12.
Ai commenti di Camillo Boito fanno riscontro, agli inizi del Novecento, le considerazioni di Gustavo Giovannoni sulla conservazione dei monumenti. I suoi riferimenti al discorso ruskiniano prendono le mosse dalla citazione dei principi di cautela nell’intervento espressi dal Didron («meglio consolidare che riparare, meglio riparare che restaurare, meglio restaurare che abbellire, in nessun caso si facciano aggiunte o diminuzioni»). Richiamando il già citato caso della critica ai restauri della basilica di San Marco a Venezia, egli riprende le parole ruskiniane: Non c’illudiamo, è impossibile, come il far rialzare un morto, il restaurare cosa qualsiasi che fu grande e fu bella in Architettura. Ci si opporrà: può venire la necessità di restaurare. Accogliamo. Guardisi bene in faccia a tale necessità e intendasi cosa significhi. È la necessità di distruggere. Accettatela come tale, gettate giù l’edificio, disperdetene le pietre, fate di esse zavorra o calce, se volete; ma fate ciò onestamente e non ponete una menzogna al posto del vero. E John Ruskin [ricorda ancora Giovannoni] dice dei monumenti: “Il giorno fatale verrà purtroppo, ma lasciatelo venire apertamente; non fate che il disonore e le false sostituzioni privino i monumenti dei funerali della memoria”13.
Questa premessa consente di mettere in evidenza come anche per Giovannoni la negazione del restauro di Ruskin non sia conciliabile con il fatto che con la propria azione il restauratore debba adempiere al compito di trasmettere i monumenti alla posterità. Dunque egli conclude:
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Or lasciamo per un momento da parte questi estremi catastrofici che, se non erro, valgono meglio che ogni argomento diretto a dimostrare la necessità in molti casi dei restauri; e, riserbandoci di tornare in modo più concreto sull’argomento, occupiamoci di una terza teoria media tra le due tendenze che porta un concetto più equilibrato del restauro: il concetto di limitarlo ai casi tipici ed anche in quelli ponendo il minimo lavoro di aggiunte e di nuova opera, ponendo la cura massima nel conservare al monumento il suo vecchio aspetto artistico e pittoresco; e di curare che i compimenti e le aggiunte, se non possono evitarsi, non vogliono sembrare di essere opere antiche, ma pur armonizzando con l’antico, onestamente mostrino la loro data recente14.
Anche Carlo Perogalli è tra coloro che relegano il discorso di Ruskin nell’ambito del concetto romantico del rudere come raggiungimento del sublime, e liquida con accenti negativi la sua posizione contro il restauro: Può sembrare una teoria agnostica, rinunciataria: chè escludere ogni intervento del restauratore, cioè passivamente conservare, significa alla fine nemmeno conservare, ed anzi alla fine consentire e sottoscrivere il decadimento e la rovina. E davvero ci troviamo, nel divenire del concetto del restauro architettonico […]. […] più ancora che un desiderio di sincerità può aver influito [in Ruskin] lo spirito del proprio tempo: un amore quasi morboso del monumento antico nella sua integrità, un’innata antipatia per l’intervento “chirurgico” cui il restauratore è spesso costretto; una fatale rinuncia che doveva sembrare in quel clima romantico tanto più naturale e forse più bella, un complesso di sentimenti sottili che oggi peraltro ci è forse difficile intendere, ma anche equamente giudicare15.
Interessante peraltro come egli tenti di stabilire un collegamento tra l’idea ruskiniana del non intervento e la conservazione archeologica di monumenti “morti”, secondo un’accezione più ampia di quella della categoria “filologica” di Giovannoni, che arriva a comprendere, oltre ai resti dell’antichità, anche i ruderi di monumenti medievali. In questo passaggio Perogalli, come ipotizzando a ritroso una possibile influenza ruskiniana, pare quasi riconoscere una sorta di eredità sviluppata in termini positivi sia pure in un ambito operativo molto circoscritto: Principi che si riallacciano a quelli del Ruskin furono seguiti per casi del tutto particolari (e non solo per i monumenti greci e romani) anche nella nostra epoca. Ad esempio a S. Galgano, ove Gino Chierici a ragione scartò la soluzione di un pur possibile completamento limitando il restauro a un riordino che conservasse l’abbazia allo stato imponente e suggestivo di rudere (1923). A Pomposa, ove la sistemazione a rudere della facciata del Palazzo della Ragione era stata decisa, con appropriati accorgimenti tecnici, da Ambrogio Annoni (1922), dato lo stato in cui si trovava il palazzo. Analoga – ma meno giustificata – la recentissima decisione per l’abside del S. Giovanni in Conca a Milano16.
Lo stesso Alfredo Barbacci, a proposito di Ruskin, nella sua ampia trattazione del restauro cita alcuni passi particolarmente noti, ripresi ancora una volta dall’opuscolo Avvenire dei monumenti di Venezia sui restauri della basilica di S. Marco. Ma, nel contempo, egli sembra voler ridimensionare l’avversione al restauro quale distruzione dei monumenti espressa dall’Inglese, motivandola con le condizioni storiche del tempo nel quale Ruskin si trova ad esprimere le proprie idee, «cioè quando i restauri consistevano in più o meno estesi e perfino totali rifacimenti»17. Pure Luigi Crema, archeologo, si dissocia dall’“anti-restauro” di Ruskin, ma, sia pure indirettamente, sembra riferirsi ancora alle indicazioni dell’Inglese per evitare il restauro con la cura quotidiana e, su questa linea approfondisce il concetto di manutenzione in termini assai raffinati18.
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Evidentemente già con questi lavori [di manutenzione] il monumento viene in qualche modo manomesso, anche quando essi vengano eseguiti con discrezione, con scrupolo, con garbo. Ma non di abbandonare gli edifici a una rapida rovina, non vedo come si possa condannarli, come un Ruskin o un Bourget hanno condannato non solo, e non senza motivo, i restauri più estesi e più drastici del loro tempo, ma anche i restauri in genere19.
Anche Liliana Grassi, in particolare evidenzia la contraddizione insita nella avversione ruskiniana al restauro, a suo avviso da intendersi non tanto come raffinata attenzione archeologica quanto come mero rifiuto della conservazione: Ogni segno di sfacelo aumenta questo sentimento [di identificazione del rudere con la natura], mentre tutti questi segni (fenditure della pietra, licheni sulle mura che si vanno sfasciando e le linee piene di grazia del tetto che sprofonda) sono tutte deliziose in se stesse. Esse in sostanza, appartengono al “sublime”. Si comprende come, entro questo ordine di idee, per i monumenti antichi non altro poteva essere che la lenta aspettazione di una lenta morte; poiché ogni falsa sostituzione li avrebbe privati dei suoi “funerari uffici”. Si trattò in altri termini di una teoria portata al limite, cioè alla rinuncia. Ma non per quello scrupolo cui può condurre una fin troppo affinata coscienza archeologica ma per una impostazione critica del tutto contraria, cioè non conservatrice20.
Lo stereotipo cui si è già sopra accennato, secondo il quale diversi autori (anche per meglio chiarirne le posizioni), pongono il restauro “filologico” di Boito21 come “mediazione” tra la tesi dell’“anti-restauro” di Ruskin e l’opposta idea di restauro “stilistico” di Viollet-le-Duc, è riproposto ancora una volta da Carlo Ceschi, che nel testo del 1970 riporta anche un’ampia selezione antologica di passi tratti da The seven lamps. Egli [Boito] prese infatti una posizione intermedia tra quella fatalistica del Ruskin, che stava diventando di moda, e quella che passava ormai sotto il nome di Viollet-le-Duc. Egli reagisce alla prima rifiutandosi di accettare la fine di un monumento così come non accetta la fine di un uomo senza prima aver tentato ogni cura per salvarlo. Condanna la seconda per aver portato i restauratori sulla via della falsificazione e della menzogna22.
Di lì a poco si determinerà una nuova stagione culturale che, come accennato più sopra, porterà a un nuovo taglio di lettura del pensiero di Ruskin, e più in generale, alla fioritura di molti contributi sulla storia, sulle teorie, e sulla progettazione del restauro architettonico, come pure, attraverso un’attenta disamina dei testi, anche a una rigorosa revisione critica di taluni stereotipi tramandati da decenni, quali ad esempio quello della “posizione intermedia” di Boito tra Ruskin e Viollet, appena sopra ricordata23. È interessante ricordare come nel 1977 al Politecnico di Milano, per iniziativa di Marco Dezzi Bardeschi, si tenne un seminario sul restauro dedicato al centenario della fondazione della SPAB, la Society for the protection of ancient monuments fondata da Ruskin, Morris e altri per sorvegliare i restauri che si andavano facendo in Europa in quel momento. Di questa iniziativa rimane traccia nelle due pagine ciclostilate che furono distribuite in quell’occasione24. Il percorso di “rilettura” dei testi di Ruskin iniziato forse proprio in quel momento25, apre la strada a una nuova interpretazione critica del suo pensiero sul restauro che, dal piano più squisitamente teorico, nel quale fino a quel momento era stato confinato, mostra nuove potenzialità nella capacità di ispirare nel campo applicativo nuove istanze del progetto di intervento, che si orienta verso la ricerca di nuovi metodi e strumenti per un’opera di “conservazione” anziché di “restauro”26.
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Il nuovo approccio peraltro non è condiviso da alcuni che, all’interno del dibattito culturale, ribadiscono la peculiare concretezza del restauro inteso come operatività sul costruito, cui la figura di Ruskin risulta estranea. Tra questi, tranchant è il giudizio di Francesco Gurrieri: Ruskin è una delle figure di maggior interesse della cultura del restauro non solo per il secolo XIX, ma anche per i nostri problemi contemporanei. Va però subito sgomberato il campo da un equivoco: che Ruskin sia stato un responsabile teorico del restauro in senso moderno, ove cioè l’atteggiamento metodologico discende direttamente dall’informazione storica dell’operatore, Ruskin cioè, non è un teorico né un metodologo, come vorrebbe qualche cultore di restauro un po’ affrettato. Anche se alcune delle sue intuizioni-indicazioni rimangono di calzante attualità, esse sono spesso contraddittorie e talvolta vanificate dalla sua modesta preparazione storico-architettonica e dalle ancor scarsa informazione sugli aspetti tecnici e strutturali degli edifici27.
Pur riconoscendogli un ruolo di anticipatore rispetto alla discussione sui beni culturali del momento in cui scrive (alludendo a documenti formulati negli anni Sessanta-Settanta del Novecento dall’UNESCO e da varie commissioni ministeriali incaricate di proporre progetti di leggi per la tutela), Gurrieri severamente avverte che il limite imprescindibile dal quale è opportuno non sviare, risiede nella dimensione squisitamente teorica delle asserzioni di Ruskin, il quale «non diresse né progettò alcun intervento diretto a qualche monumento»28. Resta il fatto che da quel momento, nuovi studi hanno messo in rilievo anche gli aspetti propositivi del suo pensiero, come il riconoscimento dell’importanza della manutenzione come cura e non come sostituzione (e la successiva declinazione rappresentata poi dalla “manutenzione programmata”29), e in generale, una nuova e progressiva attenzione alla analisi materiale della fabbrica, come raccolta di “dati” e non individuazione pregiudiziale di “valori”, al ruolo riconosciuto alle “analitiche” per le conoscenze preliminari al progetto. Numerosi sono i contributi apparsi nello scorcio del secolo in concomitanza con la “rilettura” dei testi dei “padri” del restauro all’interno di più articolate “storie” della disciplina30, contemporanee o conseguenti a un progressivo mutamento anche nell’approccio metodologico e operativo che si apre alla pratica della “conservazione”. Si potrebbe affermare che in tale contesto temporale, riemerge e prende forma sistematizzata, proattiva per la conservazione del patrimonio costruito, la presenza di un minoritario, sottile ma persistente filone di pensiero ancorato alle idee di Ruskin, diffuse anche dall’attività della SPAB31. Attraverso i suoi corrispondenti, anche in Italia la Società interviene a proposito di restauri “stilistici” o comunque distruttivi. Già più volte ricordato negli autori qui esaminati, il caso veneziano dei restauri a San Marco, o ancora, ad esempio interventi su monumenti a Milano o a Firenze, segnalati dai referenti locali della SPAB come Tito Vespasiano Paravicini o Emilio Marcucci32, personaggi di secondo piano rispetto al panorama nazionale, ma che pure ispirati al pensiero di Ruskin si batterono con ferma convinzione per salvare i monumenti dai cattivi restauri. Conclusioni In una prospettiva, come l’attuale, che vede a livello globale l’esigenza di ripensare i modi dell’economia di produzione e di consumo in rapporto a una visione etica ed
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ecologica dell’abitare il pianeta (temi sui quali Ruskin ha avuto intuizioni precorritrici), la riflessione sul ruolo dell’uso, delle abitudini, dei modi di apprezzamento e, più ampiamente, delle responsabilità dello stesso fruitore, potrebbe trarre nuovi spunti per una rilettura del rapporto tra gli uomini e le “cose” come Ruskin stesso ci suggerisce. Il valore della memoria, come veicolo per la conoscenza delle cose, come mezzo per stabilire una continuità di relazioni nel tempo presente, non solo verso il passato, ma anche per il futuro, non può non far riconoscere nel metodo comparativo che Ruskin adotta33, al di fuori di schemi gerarchici razionalizzati, una possibile fonte di ispirazione per nuove modalità di approccio utili per la conservazione del patrimonio costruito, specie se rapportata alle “intermittenze del cuore” che Proust, nel raccogliere l’eredità di Ruskin, ci propone quando parla del tempo e della memoria. La sussistenza di valori della memoria nelle tracce materiali e immateriali del passato, consegna alla capacità dell’individuo e della collettività la possibilità di stabilire infinite relazioni di empatia con i luoghi, gli edifici, i territori che attraversa, e può consentire di aprire nuove possibilità all’abitare dell’uomo in un contesto di “beni comuni”, «contro l’alienazione e l’affievolimento dei legami della città e dell’abitare contemporaneo»34. Forse vale la pena di raccogliere l’invito che Marco Dezzi Bardeschi ha lanciato in uno dei suoi ultimi scritti: Vogliamo ravvivare queste tremule, smarrite “Seven Lamps”?35.
Cfr. E. Sdegno, 1900-1946: le prime traduzioni artistiche, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006, pp. 221-240. Estremamente interessante in relazione alle stagioni della fortuna critica di Ruskin nelle traduzioni e pubblicazioni in Italia è, della medesima autrice l’appendice bibliografica, Ruskin in italiano: uno sguardo d’insieme, Ivi, pp. 241-242. Qui, l’autrice evidenzia un risveglio di interesse per Ruskin negli anni Ottanta del Novecento e la sua conseguente promozione nell’ambito degli studi universitari di diverso genere, di anglistica, di italianistica, di storia dell’architettura, di storia della critica d’arte, con riedizioni e nuove traduzioni, dove «Ruskin veniva presentato come una delle figure della cultura ottocentesca e moderna, e dunque liberato dell’etichetta di eccentricità e di marginalità che gli era stata attribuita dalle versioni precedenti», p. 242. 2 R. Pareto, Sul ristauro degli antichi fabbricati, «Giornale dell’ingegnere architetto agronomo», vol. IX, 1861-62, fasc. sett. 1961, pp. 626-635. 3 A. Annoni, Scienza e arte del restauro architettonico, Milano, ed. Framar 1946. 4 C. Perogalli, La progettazione del restauro, Milano, Libreria editrice Tamburini 1955. 5 Cfr. P. Sanpaolesi, Discorso sulla metodologia generale del restauro dei monumenti, Firenze, Edam 1977. 6 Basti pensare alla tecnica di “indurimento” della pietra con i fluosilicati, da lui utilizzata in diversi edifici monumentali. 7 C. Brandi, Teoria del restauro, Torino, Einaudi 1977. 8 Per motivi di spazio il presente saggio non si sofferma sul più ampio panorama di saggi su temi ruskiniani pertinenti al restauro, all’economia dell’arte e al paesaggio, come ad esempio il testo antologico di R. Di Stefano, John Ruskin interprete dell’architettura e del restauro, Napoli, ESI 1983. Analogamente non ci si addentra nel campo specifico della storia del restauro archeologico, dove la figura di Giacomo Boni per primo in Italia, come noto, introduce temi ruskiniani, sia pure interpretati con una visione del restauro non indenne da suggestioni stilistiche, cfr. A. Bellini, Giacomo Boni e il restauro architettonico, Roma, Ginevra Bentivoglio EditoriA 2013. 9 Cfr. S. Pesenti, Raffaele Pareto (1812- 1882). Il contributo al dibattito sull’arte e il restauro nella cultura italiana del secondo Ottocento, Atti del II convegno nazionale di Storia dell’Ingegneria (Napoli, 7-9 marzo 2008), a cura di S. D’Agostino, vol. II, Napoli, Cuzzolin 2008, pp.1155-1164. 10 R. Pareto, Sul ristauro… cit., p. 635. 1
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J. Ruskin, Avvenire dei monumenti di Venezia, Venezia, Arti grafiche di M. Fontana 1882. C. Boito, I restauri in architettura. Dialogo primo, in Id, Questioni pratiche di Belle Arti, Milano, Hoepli 1893, pp. 10-11. 13 G. Giovannoni, Restauri di monumenti, «Bollettino d’arte del Ministero della pubblica Istruzione», a. VII, n. 1-2, gen-feb, 1913, pp.10-11. 14 Ivi, p. 11. 15 C. Perogalli, Monumenti e metodi di valorizzazione, Milano, Guerini 1991 (I ed. 1954), pp. 48-49. 16 Ivi, p. 49. 17 Ivi, p. 57. 18 Ivi, p. 34. 19 Ivi, pp. 34-35 20 L. Grassi, Storia e cultura dei monumenti, Milano, Società editrice Libraria 1960. p. 422. 21 Cfr. G. Giovannoni, Restauri di monumenti… cit. 22 C. Ceschi, Teoria e storia del restauro, Roma, Bulzoni 1970, p.108. Cfr. anche le pagine dedicate specificamente a Ruskin con ricco corredo antologico tratto da Le sette lampade dell’architettura, pp. 87-92. 23 Tra le più profonde e illuminanti riletture cfr. A. Bellini, Riflessioni sull’attualità di Ruskin, «Restauro», XIII, n. 71-72, gen- apr, 1984, pp.63-84. 24 Cfr. M. Dezzi Bardeschi, L’attività della S.P.A.B. fra «manifesto» e «manuale» (relazione introduttiva), in Antiscrape: polemiche, denunzi e, processi contro i restauri, giornata di studio su William Morris e i cento anni della SPAB (Society of Protection on Ancient Build-Buildings) 1877-1977, Politecnico di Milano, 22 marzo 1977. 25 Insieme alla rilettura di altri autori sopra citati, come Alois Riegl e Max Dvorák, ma anche alla ricezione di altri approcci alla conoscenza storica, dalla Scuola delle Annale ai portati dell’Accademia di cultura materiale sovietica. 26 Cfr. A. Bellini, Riflessioni… cit. 27 F. Gurrieri, Lezioni di restauro dei monumenti, Firenze, CLUSF 1978, pp.73-92, cit. pp. 73-74. 28 Ivi, p.74. 29 Cfr. S. Della Torre, “Manutenzione” o “Conservazione”? La sfida del passaggio dall’equilibrio al divenire, in Ripensare alla manutenzione. Ricerche, progettazione, materiali, tecniche per la cura del costruito, a cura di G. Biscontin, G. Driussi, Atti del convegno di studi Scienza e beni culturali (Bressanone, 29 giugno-2 luglio), Venezia, Arcadia ricerche 1999, pp. 71-80; La Conservazione Programmata del Patrimonio Storico Architettonico: linee guida per il piano di conservazione e consuntivo scientifico, a cura di S. Della Torre, Milano, Guerini 2003 e tra i più recenti contributi del medesimo autore Proceedings of the international conference Preventive and planned conservation (Monza, Mantova, 5-9 maggio 2014), a cura di S. Della Torre, Firenze, Nardini 2014; Id., Dall’equilibrio al divenire. Strumenti e tecniche per il coordinamento e la programmazione delle attività conservative, in Tecniche di Restauro. Aggiornamento, a cura di S. F. Musso, Torino, Utet giuridica 2013, pp. 303-317. 30 Cfr. alcuni dei principali: M. Dezzi Bardeschi, La conservazione del costruito, i materiali e le tecniche, presentazione a La conservazione del costruito, i materiali e le tecniche, a cura di M. Dezzi Bardeschi, C. Sorlini, Milano, Clup 1981; A. Bellini, Tecniche della conservazione (1986), Milano, Franco Angeli 20187; B. P. Torsello, Restauro architettonico. Padri, teorie, immagini, Milano, Franco Angeli 1984; M. Dezzi Bardeschi, Limiti e modi della conservazione (relazione introduttiva), in Riuso e riqualificazione edilizia negli anni ‘80, Atti del convegno nazionale sul tema “Riuso e ‘dintorni’ – politica della casa della città, riuso edilizio e intervento pubblico” (Milano, Palazzo Dugnani, 16-18 aprile 1980), a cura di C. Di Biase, C. Fontana, P. L. Paolillo, Milano,Franco Angeli 1981; M. Dezzi Bardeschi, Restauro: punto e da capo, Milano, Franco Angeli 1991; F. La Regina, Come un ferro rovente, Napoli, Clean 1996; G. Carbonara, Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti, Napoli, Liguori 1997; M. P. Sette, Il restauro architettonico, Torino, Utet 2001 anche in G. Carbonara, Trattato di restauro architettonico, Torino, Utet 1996; S. F. Musso, La nascita del restauro. Storia, imitazione, stile, in Storia dell’architettura moderna, imitazione e invenzione tra XV e XX secolo, a cura di G. Pigafetta, vol. 2, Torino, Bollati Boringhieri 2007, pp.792-801; S. Casiello, La cultura del restauro. Teorie e fondatori, Venezia, Marsilio 2009. 31 Cfr. D. Lamberini, I nobili sdegni: le battaglie inglesi della SPAB contro il restauro nel Continente, «Quasar», serie Restauro, n. 19, 1997. 32 Cfr. ad esempio le figura di Tito Vespasiano Paravicini, in A. Bellini, Tito Vespasiano Paravicini, Milano, Guerini Associati 2000, o di Emilio Marcucci in S. Pesenti, La tutela dei monumenti a Firenze. Le ‘Commissioni conservatrici’ (1860-1891), Milano, Guerini edizioni 1996. 33 «L’influenza che Ruskin esercita ancora oggi passa attraverso il suo metodo di studio. […] il ritorno alla lettura del pensiero ruskiniano e l’influenza su numerosi studiosi sono dovuti al suo metodo comparativo. La cultura non è la somma di componenti, bensì un’interazione dove ogni aspetto assume il carattere della funzione. L’arte è una “funzione” della cultura, non semplicemente un addendo» A. Maramotti, Ruskin fra architettura e restauro, in La cultura del restauro… cit., p.124. 34 M. Dezzi Bardeschi, Vogliamo ravvivare queste tremule, smarrite ‘Seven Lamps’?, «Ananke», XXVI, n.s., n. 86, gen, 2019, p. 3. 35 Ibidem. 11
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La Venezia analogica di Ruskin. Osservazioni intorno a I caratteri urbani delle città venete Alberto Pireddu | alberto.pireddu@unifi.it Dipartimento Architettura Università degli Studi di Firenze
Abstract Nell’analisi de I caratteri urbani delle città venete, Aldo Rossi ricostruisce la genesi di un territorio che dalla Lombardia giunge al Friuli, ma che potrebbe estendersi fino a comprendere altre città dell’Oriente. La sua ricerca parte da una lettura dell’organizzazione romana del territorio per soffermarsi sulle mura come fatto urbano e approfondire i caratteri delle città venete, con un particolare riguardo alla tipologia e all’edilizia gotiche. Essa giunge, infine, all’architettura palladiana, alla città neoclassica e romantica e alla sospensione della stessa tra realtà e mito tipica dell’Ottocento. John Ruskin è l’autore che forse più di tutti ha contribuito ad alimentare il mito di una Venezia romantica e decadente. Il presente contributo intende tentare di ricostruire quella che Rossi definisce «la Venezia analogica di Ruskin», con il duplice scopo di indagare il ruolo svolto da The Stones of Venice nella creazione di una certa idea/immagine della città e nella più concreta definizione dei caratteri gotici della sua architettura e della sua forma urbis. Parole chiave Aldo Rossi, John Ruskin, Venezia, Territorio, Architettura
Se, come è stato scritto, l’ultima e più grande critica che ci è dato di muovere nei confronti del Romanticismo è che esso «rappresenti la verità interiore della natura umana»1, occorre esplorare la sua straordinaria capacità di figurare ciò che di più intimo, di più concreto, visualizzato e possibile vi sia nel nostro animo2. Non è pertanto un caso che Aldo Rossi, nel suo saggio su I caratteri urbani delle città venete3, parta proprio dal Romanticismo, o meglio dal mito che esso creò intorno alle città italiane, per costruire una Venezia analoga e ricondurre i suoi studi morfologici e tipologici nell’alveo della progettazione. In quell’inscindibile, biunivoco, e a tratti insondabile insieme di rapporti tra analisi e progetto che anima il pensiero rossiano, infatti, i caratteri urbani4 «costituiscono la condizione di un’educazione all’architettura basata sul significato»5 al cui interno il momento della ricerca è particolarmente fecondo. Al punto da acquisire un’autonomia di immagine che lo individua come fatto analogo in cui è possibile far confluire gli elementi più differenti, dalla realtà al mito, poiché collegati tra loro dalla comune appartenenza ad un contesto urbano e territoriale6.
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Il suo fine, tuttavia, è e resta il progetto. La Venezia analoga di Rossi potrebbe essere, così, l’intero territorio dello Stato Veneziano indagato nelle sue forme costitutive più antiche – quella centuriatio romana le cui tracce sono ancora visibili nelle campagne italiane e quelle mura urbane che solo in anni recenti sono state inserite dall’Unesco nella lista del Patrimonio Mondiale7 – oltre che nei rapporti tutt’altro che facili tra le città-stato e la loro singolare capitale. O forse, come lui stesso ebbe a suggerire nello scritto che descrive la Tavola La città analoga esposta alla Biennale del 1976, Venezia potrebbe porsi come la città analoga della Repubblica Veneta, la capitale a cui guardare in quanto sintesi della propria immagine e del proprio destino8. Ma le due definizioni non si elidono, anzi si rafforzano a vicenda. I caratteri urbani delle città venete Tra le pagine del saggio, l’analisi delle trasformazioni romane del territorio ci rende innanzitutto edotti sugli originali cardini dell’insieme geografico veneto, sul ruolo di Padova quale centro nevralgico delle comunicazioni e su quello di Verona quale custode di una eroica romanità dopo la scomparsa di Aquileia. Verona è per Rossi paradigmatica di un rapporto singolare tra architettura e natura che è possibile ritrovare solo in Provenza e di una sovrascrittura dell’antica maglia centuriale che ha portato «i volumi staccati del medioevo»9 a convivere con i monumenti romani10. Il successivo approfondimento su Le mura come fatto urbano si avvale di una serie di riflessioni sui meccanismi di parcellizzazione dell’insula romana, da cui nacque finalmente il lotto gotico, per descrivere le stesse mura come «la forma fisica, l’architettura per antonomasia di una città collettiva»11, in cui restano indistinti il centro e la periferia e in cui la norma (o meglio le norme d’uso del suolo) coincide con la forma. La stampa del Portenari (1613) delle mura innalzate dalla Repubblica di Padova fissa nel ragionare rossiano l’icastica immagine di una «città per parti, fatta di cose naturali e costruite»12 in cui il perimetro fortificato, nel proprio aderire all’orografia e ai «fatti urbani» della città, la definisce e la costituisce. Essa aiuta a comprendere, inoltre, il segreto delle mura veneziane rinascimentali: razionalizzare il disegno esistente sulla base del progresso delle scienze delle fortificazioni e eliminare con il «guasto» ogni possibile futuro ampliamento, definendo per sempre la forma finale della città13. Ma, forse, è il capitolo Venezia come modello14 la parte più interessante e originale dello scritto. Vi si distingue il rapporto tra Venezia e il suo immediato entroterra, basato sulla necessità di preservare la laguna dai pericoli di un interramento, da quello tra la stessa e le altre città dello Stato Veneto, improntato ad un certo «empirismo senza preconcetti»15 che per secoli ha garantito la con-vivenza all’interno di un sistema federale: Venezia fu per tutte un modello artistico prima che politico, una «città tipo» capace di conferire caratteri di unitarietà. Sui territori del Veneto Rossi documenta, inoltre, la tensione generata dall’incontro tra Oriente e Occidente, tra la cultura romano-barbarica (che ebbe in Cividale e Verona i suoi centri principali) e la cultura dell’impero romano d’Oriente che da Ravenna giunse fino a Venezia. Una tensione che ha certamente segnato l’architettura medievale e quella gotica in particolare, conferendo a quest’ultima un carattere politico progressivo. Segue un’attenta indagine sulla Tipologia residenziale a Venezia e sui Caratteri dell’edilizia gotica16, che rimanda agli Studi per una operante storia urbana di Venezia di Saverio Muratori, dalla quale emerge l’individuazione di una certa serialità dell’edilizia
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gotica lagunare affine a molte città della Mitteleuropa e del Nord Europa. L’indagine si estende alla vicina città di Padova, che Rossi descrive nel suo crescere sui frammenti di una trama perduta, quella dell’impianto romano sovrascritto dalla storia. Una città per parti, dunque, come sopra si è detto, nella quale l’inserimento dei monumenti è tuttavia «singolarmente ricavato nella realtà urbana»17 al punto che lo stesso Palazzo della Ragione è divenuto una «parte di città con funzioni diverse»18. Il rapporto con la romanità è anche alla base delle riflessioni sul Palladio19, colto nell’inscindibile rapporto tra architettura e natura delle sue ville e nell’annullamento delle differenze tra architetture civili e religiose dietro l’apparente neutralità delle forme classiche: la straordinaria invenzione che introdusse a Venezia la necessità di un simbolo (architettonico) e diede vita a una inedita e moderna idea di monumento. Ma, soprattutto, nel ricorso alla citazione come meccanismo compositivo che trova la propria giustificazione nella forma stessa della città: In queste città venete e provenzali – si legge nel testo – i monumenti romani si ponevano in ultima analisi in modo differente e forse più importante che la stessa Roma; perché perso il riferimento al sistema urbano che li comprendeva erano – come sono – esempi di una costituzione della città attraverso pezzi il cui nesso reciproco non si poteva facilmente cogliere o era andato da troppo tempo perduto […] Il Palladio nella sua architettura, e nelle sue citazioni, ha dato in modo autentico questa lettura della città; che qui ha un significato concreto perché si riferisce alla costruzione della città20.
Secondo Rossi quest’ultimo aspetto dell’opera del Palladio affascinò i romantici, che tuttavia lo fraintesero non sapendolo ricondurre nel quadro di un principio logico compositivo e ne colsero solo gli elementi descrittivi, traducendo in mito il significato di Venezia e della città antica. Proprio al Romanticismo, a Venezia e le città venete: realtà e mito nell’800 è dedicato l’ultimo capitolo del saggio21. Vi si avverte la consapevolezza di una modifica irreversibile del generale equilibrio delle città venete nel corso dell’Ottocento: un inedito rapporto tra il centro compreso nelle antiche mura e le nuove espansioni e una certa eteronimia nei confronti dei modelli mitteleuropei e viennesi in particolare. Ma anche la certezza che l’analisi dei caratteri urbani condotta mantenga inalterato il proprio valore e possa essere utile per la progettazione della città moderna. Queste note conclusive ci aiutano a comprendere meglio l’interesse di Rossi per John Ruskin, l’autore che forse più di tutti contribuì ad alimentare il mito di una Venezia romantica e decadente: […] il libro di Ruskin – si legge nella parte introduttiva del testo – è un libro di architettura e di invenzione pur nel rigore della ricerca; la Venezia analogica di John Ruskin ha certamente avuto un effetto decisivo sull’architettura romantica e in ultima analisi sulla stessa Venezia. Ma è certo che le pietre di Venezia restano valide per più di una costruzione22.
Ma anche colui che, intuendo «la questione del rapporto tra la visione politica della città, la sua struttura urbana e i suoi valori artistici»23, seppe cogliere il ruolo progressivo del gotico cui sopra si è per sommi capi accennato: […] la tesi di Ruskin sul gotico come fatto costitutivo, oltre l’accezione stilistica, della storia di Venezia esprime una notevole complessità di giudizio; il gotico è certamente il termine di riferimento di Venezia e delle città venete in quanto rappresenta l’elemento politico progressivo di queste città24.
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Le pietre di Venezia25. La città come mito tra gotico e rinascimento, splendore e decadenza Se torniamo anche solo per un attimo a quella iniziale definizione di Romanticismo che si deve al genio di Fernando Pessoa, non possiamo non cogliere nel capolavoro ruskiniano, oltre la grazia della descrizione di una Venezia come «uno spettro sulle sabbie del mare»26, una esemplare ricostruzione della sua storia millenaria, con la Serrata del Maggior Consiglio (1297) quale fondamentale spartiacque tra un periodo di ascesa e splendore e uno di inesorabile declino. Venezia è una «statua mascherata»27, la cui unica fede è l’interesse commerciale, e ai destini politici e religiosi del suo popolo sono indissolubilmente legati quelli della sua arte e della sua architettura. Parlando di quest’ultima Ruskin ripercorre le vicende dell’architettura d’Occidente, dalle origini greche fino al rinnovamento delle forme nel gotico e nell’arabo. Egli ritrova a Venezia il loro incontro più singolare – «Il palazzo ducale di Venezia contiene esattamente in egual misura i tre elementi: romano, lombardo, arabo. È l’edificio centrale del mondo»28, afferma – e rivela al lettore uno degli intenti a fondamento della propria ricerca: «indicare i vari modi in cui le architetture del Nord e del Sud si svilupparono dalla romana»29. Così, tra le pagine del libro quest’ultimo ritroverà la genesi del gotico veneziano e la sua rara mutazione sotto l’influenza dell’arabo, in modo particolare nell’architettura civile. Poi la sua decadenza, cui corrispose una Rinascenza «segnata da un ritorno ai sistemi pagani»30 e dalle figure di Jacopo Sansovino e Andrea Palladio. L’affermazione della supremazia morale e formale del Gotico sul Rinascimento pare essere la tesi principale dello scritto, come si può evincere da un passo dello stesso: È dunque a Venezia, ed a Venezia soltanto, che può essere realmente colpita questa pestifera arte del Rinascimento. Distruggete qui i suoi diritti all’ammirazione ed essa non potrà più affermarli in nessun altro luogo. Questo sarà dunque il mio intento. Io non dedicherò una sezione speciale al Palladio, né tedierò il lettore con successivi capitoli di vituperazione; ma nel render conto del valore dell’architettura primitiva, paragonerò le forme di tutti i suoi tratti principali con quelle in cui essi furono corrotti dai classicisti; e m’arresterò, infine, sull’orlo del precipizio e della decadenza, non appena ne avrò reso visibile la profondità31.
Le pietre di Venezia come «pietre di paragone»32, quindi, alla ricerca di una legge che consentisse di discernere «le cose buone dalle cattive»33. Tuttavia lo stesso Ruskin, consapevole della portata rivoluzionaria di una simile affermazione, invita il lettore a seguire con attenzione i passi della sua ricerca, da cui egli avrebbe tratto, solo alla fine, le conseguenze più estreme, come in una fatale retrospettiva. Ed è proprio il rigore di tale ricerca a conservare per noi una atemporale validità. Quello dell’autore è un progressivo avvicinamento alla città, di cui egli coglie il rapporto indissolubile con una laguna piatta e inospitale, trasformata in Trono per mano dell’uomo. La sua descrizione è fondamentale per comprendere la forma urbis veneziana: Il flusso e il riflusso della marea – scrive – è in media tre piedi: ma questa marea, su di una spiaggia così piatta è sufficiente per generare un movimento continuo nelle acque e per produrre nei canali principali un riflusso che spesso scorre come un ruscello di mulino […] Se correnti più profonde avessero diviso le sue isole, navi nemiche avrebbero a più riprese ridotto in schiavitù la
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pagina a fronte Fig. 1 Da una idea di Maria Grazia Eccheli, l’immagine di Umberto Ferro documenta la mostra di Aldo Rossi tenutasi alla Fondazione Masieri (dicembre 1990-febbraio 1991) diretta da Luciano Semerani.
città nascente; se marosi più forti avessero flagellato le sue rive, tutta la ricchezza e la raffinatezza dell’architettura veneta avrebbe dovuto essere cambiata colle mura e i baluardi di un normale porto marittimo. Se non ci fosse stata la marea, come in altre parti del Mediterraneo, gli angusti canali della città sarebbero divenuti malsani e la palude in cui essa fu costretta pestilenziale34.
Ma è San Marco la prima architettura cui Ruskin dedica un ampio capitolo, dopo una breve seppur necessaria digressione sull’isola di Torcello35. Egli vi accede dal battistero, presentandola come «una grotta, tagliata in forma di croce»36 e ammirando quella «incrostazione» che la pervade per ragioni estetiche non meno che costruttive: un uso parco della pietra, materiale tanto prezioso quanto raro sulle isole della Laguna, e una secolare poetica del frammento, un ri-costruire cioè attraverso le rovine «non meno per amore che per ammirazione»37. Di questo corpo di mattoni protetto e decorato di marmi luminosi egli cercherà poi di rivelare le attitudini e le (segrete) leggi della struttura38 oltre che il significato della sua ornamentazione, per consentire al lettore di esprimere un proprio autonomo giudizio sull’architettura. Dopo la Basilica, l’attenzione dello scrittore si rivolge al contiguo Palazzo Ducale, l’edificio che con la sua maestà «ebbe il potere di fermare l’immaginazione gotica nel culmine della sua carriera»39. L’indagine sulla storia del Palazzo è quanto mai approfondita e documentata, come pure la descrizione della sua topografia, dalla relazione con la piazzetta di San Marco e la Riva degli Schiavoni alla singolare disposizione della Sala del Gran Consiglio, disvelata dal disallineamento delle finestre della «Facciata sul mare». Tra le pagine di questo capitolo è possibile leggere dell’obliterazione del Palazzo Bizantino, della sua sostituzione con quello Gotico e della parziale trasformazione di quest’ultimo durante il Rinascimento. E proprio al Rinascimento è dedicata l’intera seconda parte del volume. Ruskin vi descrive il graduale passaggio dalle forme gotiche, ormai prive della loro forza iniziale, a quelle del rinnovato sguardo verso l’Antico, precisando sin da subito la sua posizione nei confronti della Rinascenza in architettura: […] sopra tutta l’Italia, sorse uno stile, noto generalmente come “Cinquecento”, in cui la scultura e la pittura […] produssero i più nobili maestri che mai abbia veduto il mondo […]; ma che non riuscì ad avere lo stesso effetto nell’architettura perché, come abbiamo visto sopra, non vi è possibile la perfezione, e fallì più completamente di quello che avrebbe fatto altrimenti, perché l’entusiasmo classico aveva distrutto i migliori tipi della forma architettonica40.
Come non leggere tra le righe di tale passo una affermazione della natura collettiva del gotico e quindi dell’architettura? Come non notare nello stesso un ragionamento che antepone il tipo alla forma, l’universale al particolare? L’argomentazione prosegue nel capitolo Il disprezzo dell’orgoglioso, dedicato al Rinascimento maturo, fondato, secondo l’autore, su due elementi «morali o immorali»41 ugualmente contestati: l’Orgoglio e l’Infedeltà. Un Orgoglio di Scienza, che confonde la scienza con l’arte mentre queste dovrebbero essere chiaramente «distinte dalla natura delle loro azioni»42 (Ruskin pare non condividere l’unità di scienza e arte di cui dobbiamo ai greci la più eloquente espressione nell’etimo téchne); un Orgoglio di Stato, un certo suo carattere di raffinatezza, preziosità ed erudizione, che non sarebbe stato facilmente compreso dal popolo, a differenza dell’universalità del (religiosissimo) messaggio del Gotico43. E una Infidelitas in cui un certo interesse per la Roma classica e il suo paganesimo si intreccia e confonde con le vicende della Riforma e della Controriforma44.
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L’Orgoglio e l’Infedeltà sono la causa della decadenza veneziana. Con questa affermazione si conclude il libro Le pietre di Venezia, una storia della città scritta sulle sue rovine. La Venezia analogica di Ruskin Vi è un passo del primo capitolo del libro in cui Ruskin pare confondere, riguardando il pallido riflesso di Venezia nella laguna, la città reale e la sua ombra45, ma è certo che egli abbia contribuito con la propria opera a chiarire molti aspetti dell’architettura della prima e a creare letteralmente la seconda. L’impossibilità di un chiaro discernimento tra le pietre e il loro doppio sempre più evanescente è forse l’aspetto della ricerca ruskiniana che affascinò maggiormente Aldo Rossi il quale, per mezzo dell’analogia, conferì ad entrambe un ruolo attivo nel progetto di architettura. L’immagine di una «città d’oro, lastricata di smeraldi»46, di un «meraviglioso frammento di mondo»47, con cui si conclude il volume non è men vera della Venezia del Canaletto48, dove alcune architetture palladiane (la Basilica di Vicenza, il Palazzo Chiericati e il progetto per il Ponte di Rialto) sono riunite in una magica finzione che le rende ai nostri occhi una città conosciuta «pur costituendosi come luogo dei puri valori architettonici». O della fotografia che ritrae il modello ligneo della facciata dell’Hotel Il Palazzo a Fukuoka come se lo stesso appartenesse da sempre a «quella intenzione scenografica che è sostanza e tema del Canal Grande»49: uno scatto nato da una idea di Maria Grazia Eccheli in occasione della mostra di Aldo Rossi alla Fondazione Masieri (diretta da Luciano Semerani)50 e dallo sguardo attento di Umberto Ferro, nel quale, ancora una volta, è impossibile distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. La «Venezia analogica» di Ruskin è questa: una ineffabile capitale che ancora oggi può costituire una lezione – tra realtà e mito, memoria e invenzione, pietre e parole – per chi crede con Rossi che l’immaginazione nasca dal concreto51 e il senso autentico della composizione risieda comunque nella ricerca.
1 F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, traduzione di Piero Ceccucci e Orietta Abbati, Roma, Newton Compton 2006, n. 51. 2 Cfr. Ibid. 3 A. Rossi, I caratteri urbani delle città venete, in C. Aymonino, M. Brusatin, G. Fabbri, M. Lena, P. Lovero, S. Lucianetti, A. Rossi, La città di Padova. Saggio di analisi urbana, Roma, Officina 1970, pp. 419-490; poi in A. Rossi, Scritti scelti sull’architettura e la città 1956-1972, Milano, Clup 1975, pp. 379-433. 4 «I caratteri urbani indicano qui in modo sintetico tutti quegli elementi che sono oggetto dell’analisi formale e che costituiscono la città». A. Rossi, I caratteri urbani… cit., p. 379. 5 Ibid., p. 383. 6 Cfr. Ibid. pp. 382-384. 7 Le Opere di difesa veneziane tra il XVI e XVII secolo: Stato da Terra – Stato da Mar Occidentale sono state inserite dall’Unesco nella lista del Patrimonio Mondiale il 9 luglio 2017. Il sito seriale transnazionale (Italia, Croazia, Montenegro) comprende: la Città fortificata di Bergamo, la Città fortificata di Peschiera del Garda Città-fortezza di Palmanova, il Sistema difensivo di Zara, la Fortezza di San Nicolò (Sebenico), la Città fortificata di Cattaro.
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Cfr. A. Rossi, La città analoga: tavola, «Lotus», vol. XIII, 1976, pp. 4-7. A. Rossi, I caratteri urbani… cit., p. 388. 10 Organizzazione romana del territorio, Ibid., pp. 384-388. 11 Ibid., p. 390. 12 Ibid., p. 395. 13 Le mura come fatto urbano, Ibid., pp. 389-402. 14 Venezia come modello. Caratteri delle città venete. Tipologia gotica, Ibid., pp. 403-408. 15 Ibid., p. 404. 16 Tipologia residenziale a Venezia. Caratteri dell’edilizia gotica. Tipologia e lottizzazioni medievali a Padova. Caratteri dei monumenti padovani, Ibid., pp. 408-417. Padova. Tipologia e lottizzazioni medievali, la città antica, Ibid., pp. 417-421. 17 Ibid., p. 420. 18 Ibid., p. 420. 19 Le città venete e l’architettura palladiana, memoria e politica. Empirismo e monumentalità veneziana, Ibid., pp. 421-427. 20 Ibid., p. 423. 21 Prato della Valle a Padova. Architettura della città neoclassica. La città romantica. Venezia e le città venete: realtà e mito nell’800, Ibid., pp. 428-433. 22 Ibid., pp. 383-384. 23 Ibid., p. 406. 24 Ibid., p. 407. 25 J. Ruskin, The Stones of Venice. Volume the First. The Foundations, London, Smith, Elder & Co. 1851. J. Ruskin, The Stones of Venice. Volume the Second. The Sea-stories, Smith, Elder & Co., London 1853. J. Ruskin, The Stones of Venice. Volume the Third. The Fall, London, Smith, Elder & Co. 1853. Prima traduzione italiana: J. Ruskin, Le pietre di Venezia, traduzione di Alessandro Tomei, Ulisse Carboni, Roma, Libraio Editore 1910. 26 J. Ruskin, Le pietre di Venezia, a cura di Augusta Guidetti, Torino, UTET 1932, p. 22. 27 Ibid., p. 28. 28 Ibid., p. 40. 29 Ibid., p. 40. 30 Ibid., p. 47. 31 Ibid., p. 50. 32 Ibid., p. 57. 33 Ibid., p. 56. 34 Ibid., pp. 63-64. 35 Per un approfondimento sull’Isola di Torcello cfr. Torcello, Ibid., pp. 67-76. 36 Ibid., p. 83. 37 Ibid., p. 88. 38 Ruskin individua sette leggi dell’architettura nella Basilica di San Marco. Cfr. Ibid., pp. 90-100. 39 Ibid., p. 120. 40 Ibid., p. 159. 41 Ibid., p. 183. 42 Ibid., p. 185. 43 Cfr. Ibid., pp. 180-197. 44 Cfr. Ibid., pp. 216-223. 45 Cfr. Ibid., p. 22. 46 Ibid., p. 235. 47 Ibid., p. 235. 48 Segue la prima definizione di architettura analoga contenuta nella Prefazione alla seconda edizione del volume L’architettura della città: «Riferendomi a tali concetti ho avanzato, dopo questo libro, la ipotesi della città analoga con cui intendevo riferirmi alle questioni teoriche della progettazione in architettura; cioè a un procedimento compositivo che è imperniato su alcuni tratti fondamentali della realtà urbana e intorno a cui costituisce altri fatti fondamentali nel quadro di un sistema analogico. Per illustrare questo concetto ho fatto alcune considerazioni sulla prospettiva di Venezia del Canaletto, conservata al Museo di Parma, dove il Ponte di Rialto del progetto palladiano, la Basilica, Palazzo Chiericati vengono accostati e descritti come se il pittore rendesse un ambiente urbano da lui osservato. I tre monumenti palladiani, di cui uno è un progetto, costituiscono così una Venezia analoga la cui formazione è compiuta con elementi certi legati alla storia dell’architettura della città. La trasposizione geografica dei monumenti attorno al progetto costituisce una città che conosciamo pur costituendosi come luogo dei puri valori architettonici». A. Rossi, L’architettura della città, Padova, Marsilio Editori 19702, p. 5. 49 M. G. Eccheli, Aldo Rossi e Venezia, «Firenze Architettura» II, 2001, pp. 42-57. 50 La mostra ebbe luogo tra il dicembre 1990 e il febbraio 1991. 51 Cfr. A. Rossi, La città analoga… cit., p. 6. 8
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Cristian Prati
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«Piacenza è un luogo orribile…». John Ruskin e la visita nel ducato farnesiano Cristian Prati | cristian.prati@beniculturali.it Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Parma e Piacenza
Abstract «Piacenza horrid place… ruined… filth… misery…», this is the lapidary note by John Ruskin about the city of Farnese, pinned in a letter sent to his father on July 15, 1845, which often and ungenerously still cloaks the Primogenita of the Unity of Italy. What was the context that the English critic perceived before leaving in his coach to Pavia? This contribution intends to reconstruct, through the analysis of the guides published in the mid-nineteenth century too, places and economic and social components characterizing the city, and more generally the Farnese duchy, during the Restoration period. Parole chiave Ruskin, Piacenza, Ottocento, Restaurazione, Ducato farnesiano
«Piacenza horrid place… ruined… filth… misery…» in: Ruskin in Italy, letters to his parents, 1845, a cura di H. I. Shapiro, Oxford, Clarendon press 1972; trad.: J. RUSKIN, Viaggi in Italia, a cura di A. Brilli, Firenze, Passigli editori 20182 (ed. aggiornata), p. 192. 2 Cfr. Storia di Piacenza. L’Ottocento, V, Piacenza, Cassa di Risparmio di Piacenza 1980; Premio “Piero Gazzola” per il restauro del patrimonio monumentale piacentino 2006-2015, a cura di L. Serchia, A. Còccioli Mastroviti, Piacenza, Ticom 2015. 1
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«Piacenza è un luogo orribile… in rovina… sporcizia… miseria…»1, questo il lapidario commento di John Ruskin sulla città farnesiana, appuntato in una telegrafica lettera inviata al padre il 15 luglio 1845, che non di rado e ingenerosamente ammanta ancora oggi la Primogenita dell’Unità d’Italia. Quale fu il contesto che percepì il critico inglese, allora ventiseienne, prima di ripartire in carrozza per Pavia? Il contributo intende ricostruire, anche attraverso l’analisi delle guide pubblicate a metà Ottocento, i luoghi e le componenti economiche e sociali che caratterizzarono la città, e più in generale il ducato farnesiano, nel periodo della Restaurazione, sino all’annessione plebiscitaria al Piemonte nel 1848. Con il trattato di Fontainebleau dell’11 aprile 1814 i territori dell’ex Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla furono assegnati a Maria Luigia d’Asburgo, trasformando il centro sul Po in un importante presidio e avamposto difensivo dell’Impero austriaco in chiave antipiemontese. Numerosi conventi, ma anche Palazzo Farnese, furono trasformati in caserme già sotto il dominio francese e tali resteranno anche in seguito. I collegamenti ferroviari con l’Oltrepò avviati dal 1842 vissero una lunga stagione di difficoltà, così come il rinnovamento viabilistico si limitò a pochi interventi2, tra cui l’ampliamento dal 1856 dell’attuale Corso Vittorio Emanuele II. Una città confinata all’interno delle proprie mura, che non vedrà rilevanti trasformazioni urbanistiche sino a dopo l’Unità d’Italia, soprattutto dopo la costruzione della stazione ferroviaria nel 1860, segnata inoltre da un tardivo decollo del tessuto industriale.
Dal locale Pietro Salvatico ai più internazionali René de Chateaubriand e Charles Dickens, il resoconto su Piacenza è più che sconfortante, anche a fronte di un innegabile ricco patrimonio di palazzi nobiliari, ancora oggi in gran parte conservati nella loro integrità. Con una popolazione di circa 30.000 abitanti, un’economia stagnante ancora fortemente legata alla proprietà terriera e un preoccupante stato di degrado di taluni quartieri, soprattutto a nord, con frequenti epidemie di colera, Piacenza a metà ‘800 era un capoluogo che con ogni evidenza non riuscì a catturare la curiosità di un viaggiatore letterato quale era Ruskin, che sebbene ancora giovane, non poteva certo essere tacciato di insensibilità culturale. È noto come il soggiorno di Ruskin nell’ex Ducato farnesiano, escluso dal suo precedente viaggio in Italia del 1840-41, prese avvio il 10 luglio 1845 con l’arrivo a Parma da Bologna, per poi terminare qualche giorno più tardi, il 15 luglio, con la frettolosa fuga da Piacenza, destinazione Pavia. Dalla lettura della puntuale corrispondenza destinata al padre, in maniera quasi ossessiva trattandosi del primo viaggio senza la protezione dei genitori, si comprende come gli spunti d’interesse meritevoli di essere annotati dal critico londinese, per altro prolifico disegnatore, si limitassero alle sole opere di Correggio presenti nella Galleria e nella Biblioteca Palatina. Se è certo che ebbe modo di visitare anche la Cattedrale di Parma, nella vana speranza di poter scorgere le amate Alpi dalla sua cima, nulla sappiamo di cosa vide nell’orribile Piacenza. La città che fu governata da Maria Luigia sino alla sua morte nel 1847, era tuttavia in buona compagnia stando ai giudizi di Ruskin, perlomeno asimmetrici rispetto ai diversi cicli artistici: Mantova una delle città più insignificanti che avesse mai visitato, Cremona una città scialba, Modena una sorta di Stoccarda in rovina, mentre Firenze era altrettanto orrenda, rea di essersi piegata alla modernità, come ha notato anche lo storico Henry James3, permettendo la sosta di numerose carrozze e omnibus proprio nella piazzetta di fronte alla porta del Campanile di Giotto. Trasformazioni che, stando anche alla denuncia di Lev Tolstoj4, erano dettate dalle neonate necessità imposte dallo status di capitale d’Italia, che portarono a significative alterazioni dell’antico tessuto urbano di Firenze, viste e vissute in maniera traumatica dall’autore di The seven lamps of architecture. Non mancavano emuli inglesi di Ruskin nel disprezzare la città farnesiana, che con ogni evidenza non presentava ai loro occhi consistenti architetture medievali, oggetto della rivalutazione romantica dell’epoca. Charles Dickens, che soggiornò brevemente a Piacenza nel 1844, proveniente curiosamente da Pavia, percorrendo così a ritroso il viaggio del suo conterraneo, la definì «[…] una città buia, vecchia e decadente. Un luogo deserto, solitario, di erbacce e bastioni rovinati […]. Un palazzo solenne e misterioso, vigilato da una coppia di statue gigantesche, geni gemelli del luogo, si leva con gravità nel mezzo della città morta»5. Immagine resa ancora più mesta dalla presenza di truppe per le strade. Allo stesso periodo risalgono le prime edizioni degli Handbook dedicati all’Italia settentrionale curati da John Murray. Nella terza edizione uscita nel 1847, seguente la prima del 1842 di sir Francis Palgrave, Piacenza era descritta come «Once a most opulent and splendid city, it now has a deserted aspect»6. Un centro dunque dall’aspetto deserto, che contava circa 32.000 abitanti, ma che era caratterizzata da una bassa densità abitativa rispetto alla sua estensione7. È tuttavia singolare il fatto che l’editore britannico, nella decima edizione aggiornata dell’Handbook del 18668, depennò la chiosa ne-
H. James, Italian hours, Boston and New Yor, Hougton Mifflin Company 1909, p. 177. L’appunto su Firenze si riferisce al viaggio effettuato da Ruskin nel 1872. 4 A. Brilli, Il viaggio della capitale: Torino, Firenze e Roma dopo l’Unità d’Italia, Torino, UTET 2010, p. 3. 5 C. Dickens, Pictures from Italy, London, Bradbury & Evans 1846, pp. 88-89. 6 J. Murray, Handbook for travellers in Northern Italy: embracing the continental states of Sardinia, Lombardy and Venice, Parma and Piacenza, Modena, Lucca, and Tuscany as far as the Val d’Arno, London, John Murray 1847, p. 370. 7 Analogo commento si trova nella Nuovissima guida dei viaggiatori in Italia, Edizione Artaria, 1842, p. 164: «Bella ed estesa città è Piacenza, ma al par di Cremona non popolata in proporzione della grandezza; perocchè ciascuna d’esse, capace di cento mila abitanti, appena ne conta trenta mila o poco più, compresi i sobborghi esterni». Mentre nella Guida Vallardi, risultava «celebre per la sua antichità, della quale però non conserva monumento alcuno», G. Vallardi, Itinerari d’Italia, Milano, Vallardi 1839, p. 49. 8 J. Murray, Handbook for travelers… cit., 1866, p. 431. 3
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Cristian Prati
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9 M. Valery, Bologne, Ferrare, Modene, Reggio, Parme, Plaisance et leurs environs, Bruxelles, Société Belge de Librairie Hauman et C. 1842, pp. 273-277. 10 L. S. Morgan, L’Italie, vol. I, Londra, Henry Colburn & Co. 1821, pp. 256-262. 11 C. Carasi, Le pubbliche pitture di Piacenza, Piacenza, Giuseppe Tedeschi 1780. 12 C. Cattanei, Descrizione dei monumenti e delle pitture di Piacenza corredata di notizie istoriche, Parma, Stamperia Carmignani 1828, pp. 3-4. 13 L. Scarabelli, Guida ai monumenti storici ed artistici della città di Piacenza, Lodi, Tipografia di C. Wilmant e figli 1841, pp. 1-4. 14 Buttafuoco (cfr. nota 15) preciserà come i restauri furono eseguiti quando era Podestà il Cavaliere Luigi Guarnaschelli (1830-1836). La successiva e consistente fase di lavori prese avvio solo dal 1856. Sui restauri in città cfr.: Gotico, Neogotico, Ipergotico. Architettura e arti decorative a Piacenza, 1856-1915, a cura di M. Dezzi Bardeschi, Bologna, Grafis edizioni [1984]. 15 G. Buttafuoco, Nuovissima guida della città di Piacenza con alquanti cenni topografici, statistici e storici, Piacenza, Tipografia di Domenico Tagliaferri 1842.
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gativa, forse inopportuna per una città nel frattempo divenuta Primogenita dell’Unità d’Italia, lasciando inalterate le altre notizie. Le guide di Murray erano le stesse in merito alle quali Ruskin non lesinò commenti ironici e talvolta sprezzanti, così come traspare da alcune delle lettere Mornings in Florence, pubblicate sciolte tra il 1875 e il 1877 quale vademecum per il turista inglese, con cui si proponeva senza mezzi termini di soppiantare proprio le opere del suo rivale. Un altro visitatore foresto, questa volta francese, Antoine-Claude Pasquin in arte Monsieur Valery, rilevò al pari di Murray, come Piacenza nel 1842 fosse “grande e déserte” e come a suo avviso non seppe risollevarsi dal saccheggio operato da Francesco Sforza sul finire del 1447. Pur essendo intrisa di desolazione, non mancavano elementi di splendore, tra cui le statue equestri del Mochi o il maestoso e pittoresco stile gotico del Palazzo comunale, mentre Palazzo Farnese appariva incompiuto, abbandonato e degradato9. Rilievi che, al netto delle esuberanze di carattere romantico, ricalcavano sostanzialmente quanto già registrato anche da altri viaggiatori del grand tour, fra gli altri Lady Morgan10, ma che nello specifico, non forniscono nuovi elementi, ad esempio urbanistici, a supporto del giudizio di Ruskin. Certo la città subì alcune distruzioni, soprattutto per quanto concerne il patrimonio ecclesiastico. Se ne trova testimonianza nella Descrizione di Cristoforo Cattanei, il quale sentì l’esigenza di aggiornare l’opera scritta sul finire del ‘700 da Carlo Carasi11, «attesochè per gli ultimi avvenimenti una gran parte delle chiese, di cui quelle facevano il più bell’ornamento, o non esistono o son volte ad altr’uso»12. Gli avvenimenti cui si riferisce il Cattanei sono da ricondursi alle soppressioni napoleoniche, che coinvolsero, tra le tante, le chiese di Santa Maria del Carmine, San Lorenzo, Sant’Agostino, San Vincenzo e ancora quella delle Benedettine, con conseguente dispersione del relativo patrimonio storico-artistico. Uno sguardo patriottico su Piacenza, non privo di divagazioni polemiche, è offerto da Luciano Scarabelli, letterato e uomo politico piacentino, che nel 1841 intese «comporre un librettino di storia patria a vera istruzione dei piacentini»13, riprendendo gli scritti settecenteschi di Cristoforo Poggiali, prevosto e conservatore della Biblioteca Reale di Piacenza. Egli tratteggiava una città cinta da mura, vale la pena ricordare che il grande castello già di Pier Luigi Farnese fu demolito solo nel 1848, costituita da 4.200 case per circa 28.700 abitanti, illuminata di notte sin dal 1807 da “fanali a riverbero”. I terreni coltivati, da sempre fonte di ricchezza per la nobiltà piacentina, erano particolarmente fertili, anche se non mancavano problemi per la raccolta delle acque, in parte dovuti all’assenza di «spirito di associazione». Sono segnalati cantieri a lui contemporanei, ad esempio la sistemazione di Piazza Duomo per mano dell’architetto Giovanni Antonio Perreau nel 1835, i lavori sugli interni e sulla facciata del Teatro municipale curati da Alessandro Sanquirico, la demolizione della chiesa di S. Siro un tempo officiata dai canonici di S. Antonino o ancora i non meglio precisati restauri, da poco conclusi14, dei fronti di Palazzo Gotico. Al 1842 risale la Nuovissima Guida della Città di Piacenza15, il cui autore, Gaetano Buttafuoco, non lesinò critiche e commenti sarcastici all’opera di poco antecedente dello Scarabelli, ricalcandone però la struttura e i contenuti, sebbene corretti e aggiornati. Piacenza è rappresentata come un centro con numerosi uffici pubblici, inclusi quelli per la guarnigione austriaca e il primo asilo per l’infanzia nell’ex convento di S. Agostino (1841), animata da commerci specialmente in ambito agricolo. Tre sono le piazze principali, collegate da strade acciottolate abbastanza spaziose e regolari, con marcia-
piedi in mattoni posti di coltello, precisando, rispetto a chi lo aveva preceduto, come fossero illuminate di notte da 292 lampioni, a ben vedere un numero non molto consistente, data l’estensione della rete stradale. Queste guide, non scevre da errori, come ebbe ad appuntare il futuro senatore Pietro Salvatico16, sono debitrici dell’opera del Molossi, il quale fornì una puntuale descrizione dell’ex ducato già qualche anno prima, nel 1832-34. Per quanto non ci si possa attendere una critica obiettiva dal colto economista, incaricato di redigere il Vocabolario dalla stessa Maria Luigia, trapela un’immagine di Piacenza di ben altra natura. Se si eccettua la critica alle fitte nebbie padane, alle frequenti inondazioni del Po e alle strade «mediocremente ampie e spesso non proporzionate agli edifici», è la magnificenza di questi ultimi «tanto civili che religiosi» ad affiorare, tanto da essere «degni di una città di primo ordine»17. Dai racconti locali emerge dunque una città ordinata, ricca di palazzi, oggetto di alcuni rilevanti lavori di riqualificazione e che senz’altro, all’epoca della visita di Ruskin, non era ancora stata interessata dall’avanzare della modernità delle nuove infrastrutture che si andavano costruendo in Italia, seppure con i limiti imposti dai confini dagli stati preunitari. Fatta eccezione per i ponti voluti da Maria Luigia sul Trebbia e sul Nure, opere degli anni ’20 del XIX secolo, il primo ponte di legno sul Po sarà costruito solo nel 1861, così come i collegamenti ferroviari con Milano e Bologna saranno ultimati nel medesimo periodo. La rappresentazione tratteggiata da Ruskin, espressione della cultura del suo tempo, non scoraggiò tuttavia altri viaggiatori, che in continuità con il secolo precedente18, seguitavano a includere Piacenza – quasi obbligatoriamente trattandosi di un crocevia più che strategico – fra le tappe dei loro voyages e dei relativi resoconti, arricchendo così l’immagine di una città che, con buona pace di Ruskin, è niente affatto orribile.
A. Rapetti, Le guide di Piacenza, «Bollettino Storico Piacentino», 42, 1947, pp. 40-44. Salvatico fu autore a sua volta di: Notizie statistiche intorno la città e il comune di Piacenza, Piacenza, Del Maino 1857. 17 L. Molossi, Vocabolario topografico dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla, Parma, Tipografia Ducale 1832-34, pp. 362-408. Piacenza era costellata da 56 chiese e oratori, oltre ad altri 29 edifici religiosi soppressi, convertiti in caserme o destinati ad altri usi pubblici. 18 Cfr. E. Nasalli Rocca, Piacenza vista da altri, «Placentia Floret», I, 1956 e IV, 1959, anast.: E. Nasalli Rocca, Piacenza dal medioevo all’età moderna studi storici, Piacenza, Deputazione di Storia Patria 1983; S. Soster, Il museo negato. Problemi museografici e proposte di piano per Piacenza e per il suo comprensorio, Bologna, Edizioni Alfa 1978, pp. 11-32; Il viaggio a Parma: visitatori stranieri in età farnesiana e borbonica, a cura di G. Cusatelli e F. Razzetti, Parma, Guanda 1990; G. Bertrand, Piacenza e il viaggio in Italia: itinerari di francesi e di piacentini all’epoca dei Lumi, in Il Collegio Alberoni nella Piacenza tra Ancien Régime e Restaurazione, a cura di G. Cattanei, Piacenza, Tip.Le.Co. 2009, pp. 203-234. 16
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Emanuele Romeo
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John Ruskin e l’architettura classica. La rovina nei contesti medievali come accumulazione della memoria Emanuele Romeo | emanuele.romeo@polito.it Dipartimento Architettura e Design Politecnico di Torino
Abstract The reading of the travel reports and the analysis of the most famous texts highlight the relationship between Roman antiquities and medieval cities in which, according to Ruskin, the value of the former is enhanced thanks to the multi-layered contexts in which they are preserved. Based on these premises and through an examination of the writings and drawings, the contribution aims at bringing out Ruskin’s different perception of the classical heritage when he visits archaeological sites, such as Pompeii, or when he admires ruins such as the Verona amphitheater, to which he attributes more expressive and evocative strength compared to the monuments of Rome precisely because it is flanked by extraordinary examples of that great Lombard architecture of the 12th century. From Ruskin’s point of view the ruins, urban sites and landscapes transformed in the past and in continuous evolution, thanks to the human action, are the essential elements of that process of “accumulation” of art and history of which classical architecture is the principle. Parole chiave Architettura classica, Città medievali, Ruderi, Memoria, Accumulazione
Rovine classiche, siti archeologici, contesti urbani «Il mondo vagheggiato da John Ruskin è quello che egli immagina sia stato il Medioevo», ed è nelle città medievali che egli, principalmente, descrive le architetture di età classica alle quali assegna qualità compositiva perché “contaminate” da una società che ha attribuito valore d’uso, valore simbolico, valore di memoria alle rovine1. Dalla lettura delle relazioni di viaggio e dall’analisi dei testi più noti, emerge, infatti, il continuo rapporto tra antichità romane e città medievali in cui, per Ruskin, le prime assumono valore proprio grazie ai contesti pluristratificati nei quali sono conservate. Sulla base di tali premesse e attraverso un esame degli scritti e dei disegni, il contributo si propone di far emergere la differente percezione, da parte di Ruskin, del patrimonio classico quando visita i siti archeologici, come per esempio Pompei, o quando ammira ruderi urbani, come nel caso dell’anfiteatro di Verona, a cui conferisce «forza espressiva ed evocativa» rispetto ai monumenti di Roma proprio perché affiancato da «straordinari esempi di quella grande architettura lombarda del secolo XII»2. In tal senso emergono aspetti che differenziano la letteratura di viaggio del Nostro ri-
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spetto alle consuete descrizioni e rappresentazioni di altri colti viaggiatori i quali, prevalentemente, accentuarono il valore dei ruderi considerando solo marginalmente il contesto in cui erano inseriti. Per Ruskin, infatti, le rovine, i siti urbani e i paesaggi trasformati in passato e in continuo divenire, grazie all’azione dell’uomo, sono gli elementi essenziali di quel processo di “accumulazione” dell’arte e della storia di cui l’architettura classica è il principio. Analizzando molte delle descrizioni di viaggio, i suoi scritti e i disegni prodotti durante le peregrinazioni presso siti archeologici e città di origine romana, emergono alcuni caratteri distintivi riguardo al suo modo di percepire un’architettura che non è medievale, ma che con l’arte medievale spesso convive. In primo luogo si individuano taluni elementi ritenuti da Ruskin di disturbo che, a parer mio, impediscono al Nostro di avere una lettura obiettiva di ciò che visita: l’architettura come prodotto della cultura pagana; la presenza di architetture moderne e incongrue che modificano il valore d’uso delle rovine; la desolazione dei siti archeologici, dei contesti urbani e del paesaggio, definito «inospitale» a causa del degrado e dell’incuria; l’ignoranza e la superficialità dei visitatori che non apprezzano le rovine; la difficile accessibilità dei luoghi; la mancanza di appropriate descrizioni dei siti e dei monumenti (in alcuni casi troppo enfatizzati dalle colte descrizioni di viaggio). Di contro si ritrovano aspetti quali la corrispondenza tra la realtà e le narrazioni dei più noti viaggiatori; il paesaggio e il contesto naturale immacolato; le stratificazioni storiche e il riuso nei secoli delle rovine come espressione della società e della cultura della popolazione autoctona. Tuttavia non è facile rintracciare tali caratteri poiché alcuni di essi sono leggibili all’interno dei diari di viaggio, altri, invece, sono considerazioni inserite nelle opere della maturità. In quest’ultime si colgono maggiormente gli aspetti positivi, dovuti a un rinnovato interesse per i temi: dell’istruzione di massa, in cui l’arte classica e medievale giocano il ruolo di magister gentibus; dell’antropologia culturale come disciplina che aiuta a comprendere il rapporto tra società e espressioni artistiche, tra memoria tangibile delle rovine e necessità della vita quotidiana; del paesaggio quale scenario di fatti storici, riti, miti e leggende non appartenenti solo al mondo cristiano ma anche alle culture pagane, in cui la natura, creata a immagine e somiglianza di Dio (o della divinità), acquista valore anche grazie alle rovine. Nel primo viaggio in Italia tra il 1840 e il 18413, infatti, per le ben note condizioni fisiche e psichiche, emergono con chiarezza, le sensazioni negative nei confronti dell’architettura classica a tal punto che “la città eterna” lo disorienta così tanto da affermare di essere stanco di Roma4. Inizialmente le architetture classiche lo deludono preferendo attribuire maggiore espressività alle vedute romane di Turner, o alle riproduzioni di altri viaggiatori, piuttosto che alle rovine alle quali non conferisce quel valore di antichità che, in seguito, caratterizzerà tutta la sua opera: «La piramide Cestia, a causa della sua vetustà, ha perduto tutto il suo rivestimento marmoreo; somiglia abbastanza ad una piramide, ma l’illustrazione di Turner ne vale mille di piramidi come questa»5. Tuttavia è evidente, sin dal suo primo viaggio romano, la passione per l’ambiente se arricchito da elementi naturali, il Tevere, gli Appennini, il contesto con le strade e le architetture che già classifica come pittoresco e in cui i frammenti delle antichità giocano un ruolo secondario, quasi di completamento, rispetto alle peculiarità dei particolari appartenenti alla vita quotidiana:
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Ho fatto quindi una passeggiata esplorativa nei pressi del Tevere, iniziando dal tempio di Vesta […]. Durante tutto il cammino non ho trovato un solo soggetto che, disegnato con cura od anche in fretta, sarebbe stato da buttar via, e non un solo angolo di strada che, studiato da vicino e con attenzione, non sarebbe stato interessante. Questo luogo è davvero pittoresco, sino ai battenti dei portoni, e riesce in modo eccellente a far dipendere questa sua peculiarità non solo da strutture importanti o da reali bellezze, ma da piccoli contrasti, come vecchi abiti che pendono da un architrave di marmo ricavato da un fregio romano che un momento dopo si sgretola in un ammasso di mura in mattoni sporgenti su di una finestra di legno cadente, che a sua volta si sostiene su un frammento di trabeazione grigia recante tracce di una iscrizione6.
La stessa passione per i particolari e per il paesaggio per cui apprezza le rovine degli acquedotti considerati una delle cose più interessanti della città: Sono risalito verso San Giovanni in Laterano, da dove si godeva la vista di una delle cose più notevoli, o forse la più notevole, che ho finora veduto a Roma: acquedotti lunghissimi frammisti ad antiche mura, il tutto diroccato; un convento candido, dalla struttura armoniosa, si interpone fra di loro; in lontananza la sagoma perfetta degli azzurri Appennini;
ma anche a disprezzare le rovine tra il circo Massimo e le terme di Caracalla, considerate addirittura “abominî”7 oppure ad attribuire valore al tempio della Pace, al Colosseo o al Foro per il gioco di luci che si crea rispetto all’azzurro del cielo: Sono ridisceso verso il Tempio della Pace […] Non avevo idea delle sue dimensioni e l’azzurro che si intravedeva tra le sue ampie aperture contrastava in modo squisito con alcuni squarci del sottostante Colosseo. Sono risalito per il Foro che appariva migliore di quanto lo avessi mai veduto prima, ed ho buttato giù degli schizzi in piazza Campitelli8.
Le condizioni di luce favorevoli al tramonto e il contesto pittoresco dell’area nei pressi del Ghetto lo spingono a disegnare sia il Campidoglio e il Foro sia Piazza S. Maria del Pianto e ad apprezzare il paesaggio comprese le rovine, sebbene queste ultime siano di cattiva qualità ed erette da una civiltà pagana: Sono risalito verso il Campidoglio, mentre il Foro si arrossava nel tramonto. Gli Appennini erano ben visibili, e così i gruppi di rovine presso il Colosseo, purpuree e splendide in quella luce. Mi sembrava di essere su di un suolo sacro, come mai prima mi era accaduto. Sacro! – Costruito con grandi quantità di cattivi mattoni da uomini brutali e sensuali9.
Quest’ultima dichiarazione fa emergere la repulsione di Ruskin nei confronti dell’architettura classica come prodotto del paganesimo a tal punto che si potrebbe pensare che nei suoi disegni giovanili le rovine abbiano il compito di ricordarne la caduta e la conseguente supremazia del cristianesimo. Quella cultura cristiana che emerge prepotentemente nella vita di ogni giorno tra chiese, cappelle, edicole sacre in una continua peregrinazione tra edifici cristiani, protestanti, anglicani; nelle strade e nelle case in cui le lapidi, le iscrizioni romane e i frammenti del portico di Ottavia appaiono marginali rispetto all’intera composizione come nel disegno dedicato alla Piazza S. Maria del Pianto. Posizione che egli rivede negli scritti della maturità quando attribuisce alla furia dell’uomo la distruzione delle opere d’arte e delle architetture antiche poiché il marmo avrebbe resistito duemila anni sia nelle forme tornite delle statue sia nelle formazioni rocciose di Paro se non fosse stato l’uomo […] a ridurlo in polvere, a mescolarlo alle nostre stesse ceneri. Le mura e le strade avrebbero resistito, non fossimo stati noi a demolirle pietra su pietra e a restituire al deserto la sua desolazione; le grandi cattedrali della vecchia religione [pagana] avrebbero resistito, non fossimo stati noi a di-
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struggere con asce e martelli ogni scultura, a invitare l’erba di montagna a invadere i selciati, e i venti di mare a salmodiare nelle logge10.
Oppure quando afferma di non aver mai avuto pregiudizi nei confronti della religione greca e romana: Io non disprezzo la letteratura profana. Questo atteggiamento mi è estraneo al punto che, credo, nessuna interpretazione della religione greca è mai stata così affettuosa, nessuna interpretazione della religione romana così riverente come quelle che si trovano alla base del mio insegnamento dell’arte e che ricorrono in tutto il corpus delle mie opere11.
Di fatto, la produzione dei poeti classici lo commuove, ne giustifica le matrici pagane (cita spesso i poemi omerici o l’Eneide di Virgilio) ne apprezza le descrizioni naturali12, sebbene non consideri la Periegesi di Pausania in cui, come è noto, il rapporto tra natura, architettura e rovine rappresenta il filo conduttore di tutta la narrazione13. La prima esperienza romana si conclude, alla fine dell’anno 1840, con una serie di descrizioni della città dal Gianicolo che annunciano la sua preferenza per il paesaggio all’interno del quale iniziano ad avere un ruolo specifico le rovine, rese ancor più attraenti dalla presenza della vegetazione. Prevale, però, la predilezione per alcuni soggetti urbani in cui si evidenzia il contrasto tra frammenti classici ed elementi di quotidianità e degrado e in cui l’accento è posto sugli effetti cromatici o sui giochi di luce ed ombra14. In effetti, il Colosseo – esaltato e raffigurato dai viaggiatori colti di cui Ruskin conosce le descrizioni – lo colpisce per la sua grandiosità ma soprattutto per i riflessi di luce che emana e per le cime innevate degli Appennini che si intravedono attraverso le sue arcate: L’escursione sulla collina assolata è stata deliziosa, tra le mura dirute cosparse di vegetazione che si ergevano come immensi contrafforti verso gruppi di costruzioni imponenti; convento, cipressi, cedri e ogni cosa immaginabile negli elementi di un paesaggio apparivano privi di qualunque rigidità. La città si estendeva ai miei piedi ben visibile, in cielo non una nube, e si scorgevano sprazzi di neve scintillanti sulle montagne in fondo. Il Colosseo si mostrava in tutta la sua mole poderosa, così pure la piramide; le pietre sepolcrali rilucevano all’ombra delle mura; verso sud un tratto del Tevere riverberava la luce solare. Avrei potuto restare in quel luogo per sempre, tanto era il desiderio e l’amore per tale bellezza15.
Tuttavia, quella concezione aulica del paesaggio, costellato di ruderi che timidamente si intravede nei giorni trascorsi a Roma, cede il passo a un’altra visione di paesaggio di rovine – ai margini della città – caratterizzato dal degrado e dall’abbandono, non più pittoresco ma selvaggio, nell’accezione negativa del termine: Ha inizio la Campagna romana. Le rovine lungo la via Appia e la tomba di Metella sulla destra, addossate le une all’altra come una città desolata, e infine frammenti di altri ruderi, si ergevano dai tumuli sepolcrali e dai mucchi di macerie sparse ovunque nella pianura. […] Uno stormo di storni si levò da quella pianura selvaggia e si dispose sul fregio di un grande arco che ancora si ergeva più alto, contro il cielo, con un gruppo di altre rovine minori. Seguiva poi un antico acquedotto davvero notevole per colore e struttura, in buona parte diroccato, sebbene mantenesse ancora in direzione delle montagne la sua linea ininterrotta16.
La stessa sensazione di desolazione che percepirà visitando, nei mesi successivi, i siti di Pozzuoli, Pompei e Paestum17. Il disagio è accentuato anche dalle condizioni climatiche che spesso non favoriscono la visita delle rovine archeologiche e dalla presenza di una popolazione autoctona inconsapevole del valore di memoria dei monumenti antichi.
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A Pozzuoli il Serapeo lo colpisce per la qualità dei marmi e per le patine biologiche depositate sulle superfici dei frammenti antichi, mentre dell’anfiteatro denuncia lo stato di degrado e la ripetitività degli elementi architettonici che lo compongono: Il tempio di Serapide è la rovina più pittoresca che abbia mai veduto, ma ho avuto timore a fermarmi a disegnarla, poiché l’acqua salmastra che conferiva alle colonne diroccate riflessi deliziosi, rendeva umida l’aria, mentre il sole caldo peggiorava la situazione. […] Non ho mai veduto dei grigi più belli su delle pietre. Tutti i frammenti caduti erano forati dai molluschi. Marmi di color rosso erano in frantumi.
E ancora a proposito dell’anfiteatro afferma che esso è: molto vasto, ma singolarmente soffocato dal terreno. Le gradinate erano regolari, profonde circa tre piedi, con la terra che formava in basso un terrapieno levigato. L’arena aveva una profondità di dodici piedi; ovunque archi a losanghe e in un punto resti di decorazioni a pannelli. Tutto l’insieme mi è parso assai malinconico o, piuttosto, tedioso18.
Il primo impatto alla vista di Pompei lo delude per il paesaggio monotono e per l’indifferenza dei visitatori: Le colline sotto le quali sorge sono piatte e sgradevoli, simili a fortificazioni diroccate […]. Il paese offriva uno spettacolo inusitato, in parte offuscato dal fatto che la gente, pur camminando fra la desolazione dei loro antichi focolari e sulle spoglie degli antenati, si divertiva mentre le guide indicavano i luoghi principali colpiti dalla calamità, ed i bambini giocavano e si rincorrevano fra le rovine19.
mentre dopo aver visitato con più attenzione il sito archeologico conferma le sensazioni positive ricevute leggendo le descrizioni e analizzando le raffigurazioni dei viaggiatori colti: Pompei mi è sembrata più bella ed emozionante di quanto avessi supposto. La città era così estesa che prima che potessi esplorarne una sola metà, mi ero già stancato sebbene ogni cosa mi entusiasmasse; il sole era caldo senza essere opprimente, e conferiva luminosità alle sculture candide della strada delle tombe, irradiando luce sui vividi azzurri dei mosaici delle fontane […]. I colli di Sorrento creavano un effetto incantevole lungo le strade deserte. Ho abbozzato un disegno e mi sono sentito felice come mai mi era capitato di essere in quest’ultimo anno20.
Al contrario il sito di Paestum lo delude molto a conferma di come, in certi casi, la conoscenza della letteratura e dell’iconografia storica predispongano l’animo a percepire una realtà che spesso, secondo il Nostro, non corrisponde a verità: Alle cinque e mezzo siamo partiti per Paestum, ove ho subito una delle più cocenti delusioni. Come accade nella maggior parte dei luoghi l’idea che uno se ne fa è così diversa dalla realtà da non ammettere un confronto. […] ma sapevo molto bene che cos’era Paestum, un semplice agglomerato di colori e di forme, cosicché la realtà fu un completamento dell’idea, quantunque l’insieme fosse di dimensioni sensibilmente più piccole e deturpato da costruzioni sgradevoli ed inappropriate. Le proporzioni semplici ed ampie dei grezzi ruderi si allontanano di molto dalle dimensioni immaginate da lontano, e le reali non hanno nulla di straordinario. Guardando più da presso si rileva una notevole compattezza di linee, non idonea però a creare un’idea di vigore, non essendovi altre costruzioni di una qualche pretesa a cui raffrontarle. Il terreno attorno alle rovine mal si adatta ad evidenziarle. Essendo cosparso di rovi, incolto e accidentato, distrugge ogni effetto di uniformità, e per di più è privo di macchie scure di vegetazione, capaci di mettere in risalto le vestigia. Inoltre sei o sette abitazioni moderne, di colore chiaro, dalla struttura brutta ed invadente, distruggono del tutto ogni senso di solitudine21.
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L’apprezzamento per la “composizione di rovine” creata dai templi maggiori e per il paesaggio che si percepisce in lontananza, cede subito il posto alla delusione provata nel constatare la presenza sia di un territorio incolto sia di brutti edifici moderni che deturpavano il sito archeologico: L’interno del tempio maggiore è molto gradevole, ed è un perfetto esempio di ‘composizione di rovine’. Il cielo azzurro, le pietre calde, le ombre stagliate, insieme ad una fila di monti, ben visibile fra le colonne, avrebbero costituito un buon soggetto di studio […]; ma ero stanco e tediato, oltre che irritato da questo luogo deludente. Come debbono essere stolti coloro che percorrono ben quaranta miglia da Napoli per venire a vedere tutto questo! Il luogo può soddisfare un archeologo o un sentimentale, ma non vi è nulla che sia degno di far deviare neppure di cinque miglia dal proprio itinerario. […] Sono rimasto seduto, da solo, per un quarto d’ora, sui gradini del tempio di Cerere ed ho cercato di trarre qualche seria considerazione da quello che vedevo, ma invano. Fino a che il mio sguardo spaziava sul basamento dell’edificio, massiccio e qua e là in frantumi, con le erbe selvatiche ondeggianti e le lucertole che sfioravano le pietre, andava tutto bene; ma uno sguardo alla pianura brutta, disuguale, ed alle abitazioni misere, imbiancate a calcina, distruggeva l’impressione positiva22.
È proprio a Paestum, a parer mio, che si fa strada la consapevolezza di una serie di elementi negativi che Ruskin registra e che saranno oggetto di successive riflessioni nelle sue opere mature: le architetture moderne e incongrue che modificano radicalmente il valore d’uso delle rovine; la desolazione che caratterizza i siti archeologici; il degrado, l’incuria e l’abbandono; l’ignoranza e la superficialità della popolazione autoctona e dei visitatori che generalmente non apprezzano le rovine. Un ultimo accenno merita il viaggio in Sicilia, compiuto nel 1874, che lo riconcilia con le antichità greco-romane presenti sul suolo italiano e la descrizione del teatro di Taormina dimostra, senza ombra di dubbio, il suo ideale di rovina in rapporto al contesto paesaggistico: il sole, il mare, l’Etna, sono elementi inscindibili di un paesaggio in cui l’architettura classica in origine si inseriva. Elementi che ancora oggi sono percepibili e che aggiungono valore di memoria alle rovine poiché: il sole sorge in modo da splendere esattamente attraverso uno degli archi del teatro greco-romano […] Così da un lato veniva l’Etna nella piena luce rosea dell’alba, dall’altro l’edificio greco si ergeva opposto alla luce e i raggi Apollinei lo penetravano23.
La vista del teatro, di cui l’artista nota la successiva contaminazione di stili e materiali lo trasportano – assieme ad altri monumenti magnogreci siciliani – direttamente in Grecia poiché dirà che «a tutti gli effetti sono stato in Grecia e ho visto il mare greco e, per un miracolo, sono stato vicino al suo colore»24. Conclusioni I viaggi in Italia, in visita ai maggiori centri urbani e ai siti archeologici rappresentano per Ruskin esperienze percettive, che registrano sensazioni, che descrivono lo stato di conservazione dei ruderi e la condizione delle popolazioni autoctone; riflessioni presenti nei successivi scritti di carattere sociologico e antropologico, in quelli sul paesaggio o negli studi sul ruolo sociale dell’arte quando, tra gli obiettivi dell’economia politica, chiarisce il concetto di “accumulazione” poiché: […] l’obiettivo dell’accumulazione cui stiamo ora puntando, il terzo dell’economia politica, è portare la grande arte in qualche misura alla portata delle masse e rendere l’influenza dell’arte in qualche modo corrispondente a quella della letteratura25.
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L’accumulazione che, oltre ad avere un ruolo fondamentale nella formazione delle masse, rappresenta il massimo valore rintracciabile in un contesto archeologico greco o romano fortemente stratificato; un valore spesso compromesso dalle distruzioni dell’uomo che fanno immaginare al Nostro […] cosa sarebbe oggi l’Europa se le delicate statue e i templi dei Greci, se le ampie strade e le solide mura dei Romani, se la nobile e commovente architettura del medioevo non fossero stati ridotti in polvere dalla nuda furia umana […]. Siamo noi a distruggere, noi a logorare. Noi la ruggine e la vampa. Verso la propria stessa opera l’anima dell’uomo è come la tarma, che rode quando non può volare, e come la fiamma nascosta, che distrugge quando non può illuminare. È stata l’azione devastatrice dell’uomo ad annientare tutti questi tesori perduti dell’intelletto umano26.
La stessa accumulazione derivante dalla presenza dell’architettura medievale – di quella gotica in particolar modo – accanto alle rovine dei monumenti classici di cui Verona offre i migliori esempi poiché […] possiede, in primo luogo, se non il più ampio, almeno il più perfetto e armonico anfiteatro romano che esista al mondo, ancora intatto nel suo cerchio di gradinate, e saldo nella successione delle volte e degli archi. Possiede, inoltre, monumenti romani minori, vie, terme, rovine di templi, che danno alle strade dei suoi sobborghi un’impronta di antichità senza eguali altrove, se non nella stessa Roma. Ma Verona possiede, in secondo luogo, ciò che Roma non ha: straordinari esempi di quella grande architettura lombarda del secolo XII, che si colloca alla radice di tutta l’arte medievale in Italia senza la quale nessun Giotto, nessun Beato Angelico, nessun Raffaello sarebbe stato possibile. […] Accanto a queste, vi si trovano esempi non soltanto purissimi, ma ineguagliati altrove, del grande gotico italiano dei secoli XIII e XIV27.
Tutto ciò nel bel mezzo di uno scenario naturale insuperabile per estensione e bellezza […]che sicuramente non ha confronti in nessun’altra parte abitabile del globo: le spumeggia ai piedi un impetuoso fiume alpino, dalle cui sponde le rocce salgono allargandosi in un grande semicerchio, bruno di cipressi e velato di olivi, a perdita d’occhio, oltre le sue porte meridionali, si estendono e si dissolvono nella luce dorata le molli pianure d’Italia; attorno ad essa, a nord e a ovest, le Alpi si affacciano in schiere crestate, mentre i venti di Becano le recano la freschezza delle loro nevi28.
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J. Ruskin, The Political Economy of Art (raccolta di conferenze tenute a Manchester nel 1857) pubblicato nel 1880 con il titolo A Joy for Even riportato in: J. Ruskin, The Political Economy of Art, con introduzione di G. Lunghini, Torino, Bollati Boringhieri 1991, p. VIII. 2 J. Ruskin, Lettere da Verona, a cura di G. Sandrini, Verona, Alba Pratalia 2013, p. 119. 3 Per approfondimenti cfr. J. Ruskin. Viaggi in Italia (1840-1845) a cura di A. Brilli, Firenze, Passigli Editori 1985. 4 Ivi, p.54: «Sono stanco di Roma […] quando sarò a casa vorrò tornare a Roma». Lettera del 17 dicembre1840. 5 Ivi, p.39, lettera del 1 dicembre 1840. 6 Ivi, p.40, lettera del 1 dicembre 1840. 7 Ivi, p.46, lettera del 9 dicembre 1840: «Ho poi fatto una spiacevole escursione nella zona dei ruderi, le terme di Caracalla e abominî simili, un palazzo vetusto e desolato, Farnese mi pare, che mi ha reso ancora più freddo, non tornerò più in questa zona». 8 Ivi, p.47, lettera del 10 dicembre. 9 Ibidem. 10 J. Ruskin, The Political Economy… cit., p. 60. 11 J. Ruskin, The Bible of Amiens, Works, XXXIII 108-19, riportato in J. Ruskin. Opere, a cura di G. Leoni, Roma-Bari, Editori Laterza 1987, p. 156. 12 J. Ruskin, Modern Painters, a cura di G. Leoni, con la collaborazione di A. Guazzi, Vol. II, parte IV, cap. XIII, Il paesaggio classico, Torino, Einaudi Editore 1998, pp. 1019-1042. 13 E. Romeo, Instaurare, reficere, renovare. Tutela, conservazione, restauro e riuso prima delle codificazioni ottocentesche, Torino, Celid 2007, pp. 18-24. 14 D. Levi, P. Tucker, Ruskin didatta. Il disegno tra disciplina e diletto, Venezia, Marsilio 1997, p.62. 15 J. Ruskin. Viaggi in Italia… cit., p.56, lettera del 28 dicembre. 16 Ivi, pp.58-59, lettera del 06 gennaio 1841 (Viaggio verso Cisterna e Itri). 17 S. Casiello, R. Picone, John Ruskin e il Mezzogiorno d’Italia. Gli esiti sulla conservazione dei beni architettonici nel Novecento, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini Editore 2006, pp.65-82. 18 Ivi, pp.70-71, lettera del 15 gennaio 1841. 19 Ivi, p.77, lettera del 6 febbraio 1841. 20 Ivi, p.78, lettera del 12 febbraio 1841. 21 Ivi, p.85, lettera del 3 marzo 1841. 22 Ivi, p.87, lettera del 3 marzo 1841. 23 G. Bologna, Il viaggio di John Ruskin in Sicilia, «Kalòs», anno XII, 2, aprile/giugno 2010, p.15. 24 Ivi, in particolare si veda la lettera scritta a Joan Severn il 28 aprile 1874 riportata a p.16. 25 J. Ruskin, The Political Economy… cit., p.56. 26 Ivi, p.60. 27 Ivi, p.61. 28 J. Ruskin, Lettere da Verona… cit., p. 119. 1
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La città di John Ruskin. Dalla descrizione del paesaggio di Dio alla natura morale degli uomini Maddalena Rossi | maddalena.rossi@unifi.it Iacopo Zetti | iacopo.zetti@unifi.it Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
Abstract The text investigates the actuality of John Ruskin’s thought and its expressive actuality about the topic of the city as a social product. Stimulated by some trace in the work of Ruskin, the paper finds a connection with some basic questions for the present planning practice, as: the relationship between built environment and natural environment articulated around the idea of architecture as interpretation of eternal laws and the idea of beauty as representation of harmonic structures; the questioning of rational behavior as driving force of human evolution and consequently the idea of the city as product of a coral work, as a needed precondition of collective happiness. The text deals with the parts of Ruskin’s work usable in the present urban planning debate, building an unusual portrait of him, that we declare as not defined through bibliography or the exegesis of his writings, but built on the base of one of the possible (and fruitful for urban studies) interpretation of his legacies. Parole chiave Città, natura, bellezza, felicità, azione
Riletture Under the term “skill” I mean to include the united force of experience, intellect, and passion in their operation on manual labour: and under the term “passion,” to include the entire range and agency of the moral feelings; from the simple patience and gentleness of mind which will give continuity and fineness to the touch, or enable one person to work without fatigue, and with good effect, twice as long as another, up to the qualities of character which render science possible—(the retardation of science by envy is one of the most tremendous losses in the economy of the present century)—and to the incommunicable emotion and imagination which are the first and mightiest sources of all value in art. (Unto This Last, 1860)
Apparirà forse strano un testo che ha come soggetto John Ruskin e che vuole argomentare su una sua possibile visione di città si apra con una citazione che proviene non da uno dei numerosissimi saggi e testi su arte, architettura e paesaggio, ma con una frase tratta da un lavoro del periodo che Ruskin dedicò alla speculazione sull’economia politica e per altro non da una enunciazione posta in forte evidenza nel testo, bensì da una semplice nota. Eppure in questa definizione di skill è possibile trova-
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re una chiave di lettura del rapporto fra l’idea di estetica, di morale e di lavoro che vorremmo proporre come codice di decodifica per una interpretazione operante dell’idea di città che Ruskin, pur non definendo mai esplicitamente, traccia lungo il filo logico ed il costrutto filosofico dei suoi numerosi lavori. A partire dagli anni in cui il saggio fu scritto Ruskin, richiamando il ruolo di giudice, artefice di giudizio, che l’uomo ha sulla terra (l’articolo da cui la citazione è tratta si intitola significativamente “qui iudicatis terram”), sollecita i suoi contemporanei ad una azione politica che si occupa, olisticamente, di ogni individuo1. Nel momento in cui Ruskin scrive Charles Darwin ha appena pubblicato la sua teoria sull’evoluzione della specie (il volume è edito nel 1959) seguendo un ben noto schema di ragionamento che Ruskin criticherà per il suo atteggiamento, o conseguenza, che sposta cultura e scienza verso il materialismo. Il nuovo contesto della produzione industriale e dell’economia di mercato trasforma il mondo, creando il proprio in sostituzione di quello fatto ad immagine divina che Ruskin ha fin lì descritto ed il Dio creatore, che è fondamento etico di bellezza e fonte di comportamento morale, viene sostituito da una razionalità organizzativa che coinvolge il lavoro, ma che si estende, anche attraverso la scienza, a tutti gli aspetti della vita. Così Ruskin deve recuperare il suo senso morale, attraverso il giudizio, legando il peccato ad un ruvido individualismo nei rapporti economici e sociali e lo stato di grazia (che lo si ricordi è l’opposto cristiano del peccato) ad un atteggiamento antitetico. Ruskin è dunque anti-individualista, retoricamente pre-industrialista, ma anche scientifico nelle sue argomentazioni (in economia politica in maniera più evidente) ed in questo senso è un comunitarista, (anche se non esplicita il concetto). Lungo questo sottile filo logico, pensiamo, si possa trovare una strategia interpretativa di molti elementi del pensiero di Ruskin che, magari implicitamente, ci forniscono a posteriori non solo una chiave di lettura storica (che appartiene poco a chi scrive), ma la possibilità di una ri-lettura alla ricerca di un usable past2 nella grande produzione ruskiniana. Una ricerca che molti degli esegeti di Ruskin hanno fatto nel tempo, forse3, andando oltre le sue intenzioni, ma costruendone l’eredita intellettuale. Una eredità che magari non si appoggia su elementi di assoluta innovatività, ma che grazie alla «ampiezza del suo orizzonte culturale gli permette di percepire alcune relazioni tra un campo e l’altro, che rimangono celate ai rispettivi competenti» e che per questo ha una efficacia straordinaria4. Città: struttura e bellezza Celebrando il centenario della morte di Ruskin, lo scrittore Franco Marcoaldi5 si chiede come possiamo definirlo, non essendo lui solo un poeta, pittore, critico, scienziato. Conclude con un semplice “saggio vittoriano”, ma anche, “umanista folle”. Ebbene Ruskin passa, nella sua produzione politica da un umanesimo artistico ad uno sociale6, spostando la sua visione, fortemente influenzata dalle origini protestanti evangeliche della sua famiglia (e della sua fede), dal mondo dell’arte a quello della società. In questo passaggio troviamo, o azzardiamo nella nostra analisi si possa trovare, la costruzione di un legame fra l’osservazione della natura e delle sue leggi, la concezione dell’architettura e la missione di quest’ultima che altro non è se non traduzione in opera umana dell’armonia divina, espressa dalle cose del creato: «tutto ciò che in architettura è bello, è una imitazione di forme naturali»7. Il paesaggio è nella lettura di Ruskin la partitura in cui è possibile cogliere la verità della natura e che ha dunque de-
H.C.M. Scott, Industrial Souls: Climate Change, Immorality, and Victorian Anticipations of the Good Anthropocene, «Victorian Studies», LX, n. 4, 2018, pp.588-610. 2 G. Paba, Movimenti Urbani: pratiche di costruzione sociale della città, Milano, Franco Angeli 2003. 3 come sostiene H.C.M. Scott, Industrial Souls… cit. 4 L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, Bari, Laterza 1987 (prima edizione 1960), p. 191. 5 F. Marcoaldi, Ruskin l’umanista folle, «Repubblica», 25 aprile 2000. 6 V. Olaru, John Ruskin-Between Art and Social Justice, «Revista de Stiinte Politice», n. 43, 2014, pp. 116-124. 1
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J. Ruskin, Works VIII. The Seven Lamps of Architecture, London, George Allen 1903, p. 101. 8 G. Leoni, Il pensiero e l’opera di Ruskin, in J. Ruskin, Opere, Bari, Laterza 1987, p. 25. 9 G. Leoni, Il pensiero e l’opera… cit. 10 J. Ruskin, Unto This Last: Four Essays on the First Principles of Political Economy. London, Smith, Elder 1862. Trad. it. 2014. 11 J. Ruskin, Works VIII. The Seven Lamps… cit., p. 20. 12 V. Olaru, John Ruskin-Between Art… cit. 13 J. Ruskin, Works VIII. The Seven Lamps … cit., p. 138. 14 I. Prigogine, Le leggi del caos, Bari, Laterza 2008 (prima edizione1993), p. 28. 15 J. Ruskin, Works IX-XI. The Stones of Venice and Examples of the Architecture of Venice, London, George Allen 1903, p.48 nota. 16 J. Ruskin, Modern Painters vol. V, London, Smith, Elder and Co. 1873, p.351. 17 G. Leoni, Il pensiero e l’opera… cit., p.106. 18 J. Ruskin, Works XVIII. Sesame and Lilies, The Ethics of the Dust, the Crown of Wild Olive, London, George Allen 1905, p. 425. 7
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rivazione assoluta. Da qui il suo interesse per la pittura in quanto questa rivela la «verità di forma»8, ma l’architettura rimane la massima espressione di questo rapporto fra ingegno umano e armonia universale. In essa la storia ed il futuro si collegano escludendo la possibilità del caso e facendo sì che l’architettura diventi l’arte che meglio di ogni altra interpreta leggi eterne. L’architettura, almeno in alcune fasi del pensiero di Ruskin, è il testo più espressivo di tale interpretazione proprio perché è lavoro collettivo9, frutto di skill e passion, come definiti dalla citazione di apertura, dove l’individualismo deve cedere il passo ad una concezione di comunità in cui la ricchezza dipende dal segno morale delle cose10, poiché l’architettura è “arte eminentemente politica”11. Ruskin costruisce dunque, magari senza esplicitarlo del tutto, un legame fra arte e morale sociale12, dove la bellezza stessa è manifestazione di tale morale. Questi due concetti, bellezza e morale, stanno insieme a partire dalla formazione giovanile dell’autore e, collegati, definiscono un compito per lo spazio costruito dagli uomini che ha a che vedere con la conoscenza, che è, ricordiamolo, principalmente percezione della forma della natura (e ancora «il valore dell’architettura dipende da due caratteri distinti: il primo è l’impronta che riceve dalla potenza dell’uomo, il secondo è l’immagine che offre della creazione naturale»13 per cui i pittori sanno comprendere la realtà più degli uomini di scienza. Naturalmente il problema della comprensione ha conseguenze importanti che egli conosce anche a partire dalla parte scientifica della sua formazione (ricordiamo che da giovane il primo impulso intellettuale fu per la geologia e la botanica), ma intuendo che il dinamismo dei sistemi viventi mette in crisi il determinismo. Ruskin non arriva a comprendere che«il determinismo [che] è stato il simbolo stesso dell’intelligenza scientifica, […] oggi non è altro che una proprietà valida solo in casi limite» (Prigogine scrive questa frase negli anni ‘90 del Novecento)14, ma comprende che «la scienza ha a che fare con i fatti, l’arte con i fenomeni. Per la scienza i fenomeni sono utili solo in quanto conducono ai fatti, mentre per l’arte i fatti sono utili solo in quanto conducono ai fenomeni»15. In Modern Painters scrive «The system of the world is entirely one; small things and great are alike part of one mighty whole»16. L’ambiente costruito dunque è un lavoro collettivo che deve cristallizzare un’armonia universale dove, per conseguenza, l’architetto «assume un determinato ordine della materia e lo conduce ad uno differente, mantenendosi sempre all’interno di un complessivo sistema di rapporti armonici»17. Ordine, rapporti armonici, bellezza e una idea dell’arte che fa riferimento alla rappresentazione dei fenomeni più che dei fatti, che non spiega semplicemente il perché di una cosa osservata, ma interpreta la struttura complessiva delle cose (rivela appunto leggi). In uno dei suoi tanti scritti Ruskin esprime un’idea che chiarisce la sua immagine di ordine: the real ‘good work’ is, with respect to men, to enforce justice, and with respect to things, to enforce tidiness, and fruitfulness. And against these two great human deeds, justice and order, there are perpetually two great demons contending, - the devil of iniquity, or inequity, and the devil of disorder, or of death; for death is only consummation of disorder18. Naturalmente non sappiamo fino a che punto Ruskin fosse cosciente della portata della connessione fra il concetto di ordine, di struttura del vivente e di bellezza e pro-
babilmente poco importa dato che, come già accennato, il suo ruolo più attivo sta nelle riletture postume ancor più che nell’uso che lui stesso fa dei suoi testi. Ma se colleghiamo l’idea di bellezza all’idea di ordine, entrambe ad una concezione strutturale della natura e contemporaneamente a una idea di architettura che deve nascere da una comunità coesa, possiamo dedurre che ordine non è parola che implica rigidità, predeterminatezza dei processi e, nel campo dell’architettura, degli spazi e delle funzioni che in essi si possono/devono svolgere, individua bensì la capacità, tipica dei viventi, di costruire strutture a partire dalla materia indifferenziata, la capacità dei processi mentali e biologici di produrre «ordine dal rumore» secondo una nota frase che molti anni dopo scriverà Heinz von Foerster19 (si noti anche che il concetto di entropia era già noto nel periodo delle maggiori opere di Ruskin anche se la parola fu usata per la prima volta da Clausius nel 1864). Per Ruskin difatti il bello in architettura ha carattere strutturale, dove la struttura che ne è la base è appunto la rivelazione del legame fra small things and great, in uno schema interpretativo dove la forma delle cose ne rivela le leggi di esistenza. In questo anticipa la stessa formalizzazione del problema della bellezza che nella seconda metà del Novecento gli antropologi e i biologi porranno alla base della comprensione delle strutture del pensiero, della «struttura che connette» come scriverà Gregory Bateson20 e che perfino i matematici legheranno con lo studio delle forme viventi: «la sensibilità estetica, insomma, sarebbe un ‘rivelatore di leggi’»21 e l’arte, che rappresenta «delle forze mediante delle forme» (la frase sembra scritta dallo stesso Ruskin) «poiché è capace di svelare dinamismi originari, è davvero uno strumento di conoscenza»22. Ruskin, è noto, ha una consuetudine nel frequentare Charles Lutwidge Dodgson, matematico, logico e scrittore con il nome di Lewis Carroll. Non sappiamo quanto quest’ultimo influisca su questa concezione strutturale dell’estetica, ma Carroll, giova ricordarlo, non è solo l’autore di un racconto infantile, bensì il precursore di una teoria raffinata che connette una lettura della forma delle cose e della struttura del pensiero che il Novecento saprà sviluppare in una teoria della complessità e che solo in tempi recenti collega in una relazione stretta la forma dell’ambiente costruito, il legame con una comunità e la capacità di coevoluzione di un sistema naturale e di uno antropico, secondo uno schema che legge la città, geddesianamento, come il prodotto di una regione naturale. In premessa abbiamo sottolineato la critica di Ruskin al materialismo darwiniano ed infatti l’immagine di città che emerge dalla nostra ricostruzione è, ci si passi il termine, lamarkiana, dove la sua essenza è nell’organizzazione di «una comunità che esplica necessità armonicamente equilibrate»23 con il fine causale dell’incremento di complessità24. Una città aperta che mette in relazione pratiche di vita plurime e che marca attraverso la memoria gli spazi che così diventano luoghi, poiché la città è un luogo che, oltre a renderci possibile vivere ci permette di ricordare25. Ruskin, l’agire razionale e la felicità Una rilettura del Ruskin ‘economista’, mette in evidenza delle note di modernità e originalità del suo pensiero, attualizzabili e ‘usabili’ nel dibattito sulla città contemporanea come costrutto sociale. Le idee utopiche di Ruskin, impregnate di una visione cristiana e socialista, che avevano nel capitalismo selvaggio dell’Inghilterra vittoriana il loro nemico principale, sembrano, infatti, ‘utilizzabili’ all’interno dell’attuale riflessione urbanistica almeno da due punti di vista particolarmente rilevanti e significativi e tra loro intimamente interconnessi: quello dell’agire razionale e quello della felicità.
Principles of Self-Organisation, Pergamoin, a cura di H. von Foerster, G. W. Zopf, New York, Pergamon Press 1962. 20 G. Bateson, Mente e natura. Una unità necessaria, Milano, Adelphi 1989 (prima edizione 1984), p. 21. 21 R. Thom, Arte e morfologia. Saggi di semiotica, Milano, Mimesis 1982 (prima edizione del saggio 1992), p. 103. 22 Ivi, p.115. 23 G. Leoni, Il pensiero e l’opera… cit., pp.120-121. 24 Dobbiamo l’idea alla tesi di laurea di Assunta Agostino, non ancora discussa. 25 J. Ruskin, Works VIII. The Seven Lamps… cit. 19
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Maddalena Rossi, Iacopo Zetti
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Ivi, p. 31. Ivi, p. 36. 28 Ivi, p. 37. 29 H. A. Simon, Il comportamento amministrativo, Bologna, il Mulino 1967. 30 C. Lindblom, The Intelligence of Democracy. Decision Making Throught Mutual Adjustment, New York, Free Press 1965. 31 F. Fischer, J. Foster, The Argumentative Turn in Policy Analysis and Planning, London, Duke University press, 1993. 32 P. Fareri, Rallentare. Il disegno delle politiche urbane, Milano, Franco Angeli 2009. 33 C. Calvaresi, Reset participation!, «Sentieri Urbani», n. 21, 2016, pp. 32-35. 34 A. Balducci, Come cambiano i mestieri dell’urbanista in Italia, «Territorio», n. 7, 1998, pp. 7-12. 35 R. Sennet, Il declino dell’uomo pubblico, Milano, Mondadori 1982, p. 316. 36 G. Pasqui, La città, i saperi, le pratiche, Roma, Donzelli 2018. 26 27
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Nel suo saggio Le radici dell’onore, contenuto nella raccolta Unto This Last, Ruskin apre la sua riflessione intorno a ciò che muove il lavoratore verso la perfezione della sua opera, articolando la riflessione attraverso una critica ad «una sedicente moderna scienza dell’economia politica basata sull’idea che un sistema di regole favorevole per l’agire comune possa essere determinato senza tenere in considerazione l’influenza dei sentimenti sociali»26. Tali considerazioni sollecitano un primo ragionamento che concerne il limite dell’agire razionale che spingerebbe l’uomo alla competizione antagonista, verso una rivalutazione, via sentimenti, di un agire improntato alla collaborazione: «il maggior risultato possibile sarà raggiunto non grazie all’antagonismo, ma per l’affetto di uno per l’altro»27. In tal senso, in vari scritti, Ruskin contrappone il lavoro in fabbrica della società industriale, che vede negativamente, alla coralità delle opere gotiche. In The Stones of Venice, ad esempio, nel grande capitolo centrale sulla natura del Gotico, egli accusa la disumanizzazione del lavoro industriale, nella quale l’operaio è ridotto a un mero attrezzo animato, contrapponendo ad essa il carattere corale della produzione artistica ed architettonica gotica, in cui l’operaio ha un ampio margine di creatività, consentito dall’irregolarità dell’opera complessiva. Con tale considerazione Ruskin fa vacillare, mettendolo in discussione, il modello razional-comprensivo come metodo prevalente con cui gli individui prendono le loro decisioni, poiché, come egli stesso afferma, i sentimenti sono la vera forza motrice dell’agire umano «che rende inutili tutti i calcoli dell’economista»28. In sintesi egli sembra sostenere che non può esistere una razionalità economica che sia solo egoista, perché la vita è molto più ricca, complessa ed eccedente rispetto a questa visione riduzionista e che quindi la razionalità non è l’unico meccanismo che l’uomo mette in atto quando si trova a dover fare una scelta. In tale riflessione sembra possibile (forse solo in ambrione) ritrovare il superamento del modello razional-comprensivo verso altri modelli di lettura e comprensione delle forme dell’agire umano in relazione all’atto del decidere. Se in Ruskin il superamento di tale modello si orienta verso la rivalutazione della parte emotiva dell’essere umano, che, a suo avviso, interviene nell’atto stesso del de-cidere, è inevitabile, per chi, come chi scrive, pratica una costante attività di ricerca sulla città come costrutto sociale, il collegamento tra tali considerazioni dell’autore e alcune teorie, interne ai campi della psicologia cognitiva e delle scienze politiche e amministrative, che sono state pionieristiche nel campo della progettazione partecipata. Ci riferiamo in particolar modo al modello cognitivo dell’administrative man di Harbert A. Simon29 o il modello incrementalista di Charles Lindblom30. L’importanza di tali riferimenti per la ricerca urbanistica rimanda con evidenza al contributo che gli stessi hanno dato alla ‘svolta argomentativa’31 nella planning theory degli anni Novanta32, la quale, a sua volta, ha segnato una correzione di rotta rispetto al modello di pianificazione razional-complessivo33, aprendo una praticabile opportunità in termini di reinvenzione del ruolo del planner34, dando il via, di fatto, ad una fase espansiva delle pratiche partecipative e di coinvolgimento degli abitanti nel progetto. Per questa strada la città diviene opera d’arte corale e collettiva, proprio come le cattedrali gotiche citate da Ruskin, intesa quale occasione per ripensare la dimensione spaziale di autogoverno delle comunità locali, e per valorizzare «l’essenza della cultura urbana, cioè la possibilità di agire insieme senza dover essere necessariamente identici»35, in una prospettiva di pluralismo radicale36. Il secondo blocco di riflessioni che emerge dalla rilettura della seconda parte del testo Unto This Last, profondamente connesso con il primo, riguarda la ricchezza. Qui l’au-
tore mette in discussione che la ricchezza sia un concetto primitivo e facile da definire e che la stessa, da sola, poco ci racconta sulla vita buona della gente e sulla sua felicità. Innanzitutto egli sostiene che la ricchezza è desiderata quando può comandare il lavoro di persone che non ce l’hanno, o ne hanno di meno, pertanto, la stessa ha bisogno della diseguaglianza ai fini della propria riproduzione. In secondo luogo egli sferra una profonda e originale critica alla natura della ricchezza in termini di moralità della sua provenienza, con ciò sostenendo che gli uomini possono essere felici solo se obbediscono alla legge morale. Guardando questa parte di pensiero ruskiniano con la lente dell’urbanista contemporaneo e innestandolo sulle considerazioni di cui al concetto di città come opera d’arte collettiva sopra esposto, sembrasi poter delineare un invito ad una riflessione sull’attuale dibattito internazionale sul «diritto alla città»37, sulla giustizia spaziale e su ciò che determina, in sintesi, condizioni di felicità del vivere nei contesti urbani. Dibattito che vede da un lato, il riaffermarsi di un concetto di giustizia spaziale come «potente discorso in grado di mobilitare l’azione politica»38 e di rappresentare una discontinuità nel quadro delle politiche territoriali neoliberiste ispirate alla competitività dei territori e delle città; dall’altro, la necessità di riallacciarsi all’analisi teorica di Henri Lefebvre, per assumere una concettualizzazione dello spazio che vada oltre quella statica e fissa della tradizione geografica positivista per riaffermarsi, sulla scia della trialettica lefebvriana (spazi percepiti, spazi concepiti e spazi vissuti)39, come spazio di relazioni. E in questo senso si può forse pensare il diritto alla città come riflessione sulla città storica e al contempo vivo scenario di una democrazia futura nella quale realizzare quella rigenerazione urbana legata a filo doppio alla «rigenerazione umana»40, in quanto solo esaminando la città nel suo essere sintesi di questi due aspetti (territorio e organizzazione umana), che la felicità urbana diventa infine ipotizzabile. La città di Ruskin è dunque un organismo che ha nella collettività la sua ragione di esistere, che è complesso e dinamicamente equilibrato, che ospita una pluralità di soggetti e che, anche grazie a luoghi che sono essi stessi il racconto di una storia comune, hanno una memoria condivisa e che necessitano di uno spazio di giustizia. Illich la definirà molto tempo dopo la città conspirativa41 (2002), la città della con-spiratio, ovvero del respiro condiviso. H. Lefebvre, Il diritto alla città, Venezia, Marsilio 1970. 38 D. Harvey, Justice, Nature and the Geography of Difference, New Jersey, Wiley-blackwell 1997, p. 38. 39 H. Lefebvre, La produzione dello spazio, Milano, Moizzi 1978. 40 S. Settis, Come è bella la città di qualità, «Il Sole 24 ore», domenica 3 giugno 2018. 41 I. Illich, The Cultivation of Conspiracy, in The Challenges of Ivan Illich. A Collective Reflection, a cura di Lee Hoinacki, Carl Mitcham, Albany, Sunny Press, 2002. 37
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Una nuova idea di paesaggio. William Turner e l’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere Luigi Veronese | luigi.veronese2@unina.it Dipartimento di Architettura Università di Napoli Federico II
Abstract The present paper aims to focus a particular phase in the life of the Anfiteatro Campano in Santa Maria Capua Vetere in which the building became the protagonist of a renewed interest by the Grand Tourists in Italy. This phase coincides with the birth in England of a new conception of landscape painting that saw William Turner as his greatest interpreter. John Ruskin was one of the first art critics to understand the power of the new romantic painting since his first piece in 1936 in defense of Turner’s paintings. We have no evidence of a visit to the Anfiteatro Campano of either Turner or Ruskin. Turner’s two watercolors depicting the amphitheater were painted between 1794 and 1798, when he had not yet visited Italy. Ruskin, who ran away from Capua in a rainy day during his travel from Rome to Naples, knew these drawings during his personal friendship with Turner. But in Turner’s watercolors of the Anfiteatro Campano is already evident the prelude to the successful season of English romantic landscape painting in which the built elements are rendered with a technique of luminous finesse, particularly suitable to bring out the effects of the atmosphere. Parole chiave Turner, Ruskin, Paesaggio, Anfiteatro Campano, Capua
Turner, Ruskin e l’Italia Il ruolo dell’Italia nella formazione artistica di Joseph Mallord William Turner (17751851) appare determinante. Il pittore inglese è attratto dai paesaggi e dalla tradizione artistica della Penisola, fin dai suoi esordi nel mondo dell’arte e ancora prima di visitarla. Formatosi alla fine del XVIII secolo, in un contesto pervaso dal culto del Grand Tour, Turner studia le opere ‘italiane’ dei paesaggisti inglesi William Pars, John ‘Warwick’ Smith, Francis Towne e John Robert Cozens e ne riproduce i soggetti1. Presso il cenacolo di artisti che si riuniscono allo studio di Thomas Monroe a Londra, con il coetaneo Thomas Girtin (1775-1802), Turner, tra il 1794 e il 1798, guarda l’Italia attraverso gli occhi dei pittori viaggiatori e tramite i loro dipinti ne riproduce il paesaggio, l’architettura, ma soprattutto la luce, sperimentando attraverso il colore gli esiti di quella pittura ‘romantica’ di cui sarà considerato il maggiore esponente. Tra i dipinti risalenti a questo periodo, sono noti due acquerelli aventi ad oggetto l’Anfiteatro Campano di Santa Maria Capua Vetere, raffigurato alla fine del Settecento, in
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Fig. 1 Santa Maria Capua Vetere. L’anfiteatro campano (Luigi Veronese 2019).
un momento in cui la cultura antiquaria e l’interesse dei governanti non ritenevano indispensabile lo scavo e il restauro dell’edificio (Fig.1). I due disegni costituiscono una tappa importante del corredo iconografico dell’anfiteatro di Capua poiché testimoniano il passaggio di stile dalla pittura classica a quella romantica, dalla particolare prospettiva di un sito archeologico, tanto raffigurato da permettere un confronto tra il prima e il dopo. Turner non ebbe mai l’occasione di immortalare l’Anfiteatro Campano dal vero. Nella copiosa produzione di acquerelli e schizzi del pittore inglese effettuati durante i suoi soggiorni italiani, non risultano dipinti aventi come oggetto l’edificio capuano. A seguito del primo viaggio nel 1802, infatti, nel quale Turner si limitò a valicare le Alpi, nel 1819 il pittore inglese visitò l’Italia a lungo, documentando nei suoi taccuini non solo i monumenti delle grandi città, ma soprattutto i paesaggi e i piccoli borghi2. In quell’occasione visitò anche Capua dove realizzò diversi schizzi dettagliati tra i quali una vista dal punto di ingresso settentrionale della città, con il Ponte Romano, la torre, la cupola della Chiesa dell’Annunziata e la cima del Monte Tifata in lontananza3 (Fig.2). Non esiste alcuna traccia, invece, del passaggio di Turner a Santa Maria Capua Vetere, che pure dovette attraversare nel viaggio da Roma a Napoli e dove avrebbe potuto riprodurre, dopo trent’anni l’anfiteatro, già trasformato dai primi scavi e restauri condotti a partire dal 1811 dal governo francese. Gli acquerelli relativi all’Anfiteatro Capuano furono certamente noti a John Ruskin che diventerà nel tempo un profondo sostenitore del pittore inglese, nonché il maggiore collezionista delle sue opere e, nel 1851, anno della morte di Turner, il suo esecutore testamentario. La pittura di Turner costituisce l’oggetto centrale dell’esperienza artistica di John Ruskin, fin dagli esordi, quando nel 1836, l’allora diciassettenne critico scriverà al Times una lettera in difesa della nuova ‘maniera’ dei paesaggisti inglesi in aperta antitesi con i modelli accademici allora dominanti quali Claude Lorrain, Salvatore Rosa e Nicolas Poussin.
Cfr. Turner e l’Italia Ferrara, a cura di J. Hamilton, Ferrara, Arte Editore 2008. 2 Ibidem. 3 Gli sketchbooks di Turner, con la serie di schizzi disegnati a Capua sono conservati presso la Tate Gallery di Londra. Essi presentano annotazioni e numeri di catalogo trascritti con una penna blu da John Ruskin. 1
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J. Ruskin, Praeterita, Oxford University press, Oxford 2012 p. 287; Id., Viaggi in Italia 194045, Firenze, Passigli 1985; R. Picone, John Ruskin e il Mezzogiorno d’Italia. Gli esiti sulla conservazione dei beni architettonici nel Novecento, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006, pp. 65-82; R. Picone, John Ruskin e il Mezzogiorno d’Italia: gli esiti sulla conservazione dei beni architettonici nel Novecento, in Saggi in onore di Gaetano Miarelli Mariani, a cura di M. P. Sette, M. Caperna, M. Docci, M. G. Turco, Roma, Bonsignori 2007, pp. 427-432. 5 J. Ruskin, Modern Painters, volume 1, New York, J. Wiley & sons 1886, p. 133. 6 I. Gennarelli, L’Anfiteatro Campano di Santa Maria Capua Vetere: immagine storica e nuova fruizione, «Confronti», 6-7, Il restauro delle architetture per lo spettacolo, Napoli, Arte’m 2015. 4
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Curiosamente, anche Ruskin, a sua volta autore, nei suoi viaggi italiani, di eloquenti acquerelli, non ebbe mai modo di visitare Santa Maria Capua Vetere e l’anfiteatro, essendo colto, come scrive nei suoi diari, da un intenso temporale che lo porterà ad attraversare velocemente l’Appia per raggiungere Napoli4. Nella sua personale percezione della Penisola, Ruskin, nonostante l’incondizionata attrazione per Turner, troverà le ragioni per affermare che questi «nelle sue reali vedute sull’Italia, non ha mai colto il suo vero spirito», reo di aver voluto rappresentare con «gioia e lucentezza» un Paese fatto di scene «eminentemente pensose» e «punteggiato da campanili e conventi quadrati, irto di cipressi, divisi da mura e gradinate» 5. L’Anfiteatro romano di Santa Maria Capua Vetere tra scavo e restauro L’Anfiteatro Campano di Santa Maria Capua Vetere fu costruito in età flavia (I-II sec. d.C.) su modello del Colosseo romano, di pochi anni precedente. La nuova arena sostituì l’anfiteatro repubblicano (130-90 a.C.) della Capua antica, celebre per la rivolta di Spartaco del 73 a.C., costruito a soli 25 metri più a sud e demolito in un momento di rinnovamento urbanistico della città. Restaurato e decorato in età adrianea (117-138 d.C.), il nuovo anfiteatro fu inaugurato in età antonina (138-161 d.C.), come si deduce dall’iscrizione dedicatoria rinvenuta nel 17266. Il monumento, capace di ospitare circa 60.000 spettatori, si sviluppava, come il Colosseo, su un portico di 80 arcate poggiate, nei primi tre piani, su pilastri decorati con semicolonne dorico-tuscaniche mentre il quarto e ultimo livello era chiuso da un attico finestrato, scandito da lesene. I quattro ingressi alla struttura, preceduti da protiri, conducevano a due portici esterni e tre ambulacri concentrici dai quali si raggiungevano le scale e gli 80 vomitoria per l’accesso alla cavea. Il piano dell’arena (circa 76 x 45 metri), al quale si accedeva dalla porta Triumphalis o Iovia a sud e dalla porta Libitina a nord, era coperto con botole e tavolati lignei comunicanti con i carceres, i sotterranei, posti a circa 5,5 metri al di sotto di essa, ove si svol-
pagina a fronte Fig. 2 J.M. William Turner, Capua from the Ponte Romano, 1819 (Londra, Tate Gallery).
Fig. 3 John Robert Cozens, The Amphitheatre of Ancient Capua, Manchester, The Whitworth, The University of Manchester. Fig. 4 J.M. William Turner, Thomas Girtin da John Robert Cozens, The Amphitheatre of Ancient Capua, Londra, Tate.
F. Alvino, Anfiteatro Campano, restaurato ed illustrato dall’architetto Francesco Alvino, Napoli, 1833 (III ed. col paragone di tutti gli anfiteatri d’Italia ed un cenno sugli antichi monumenti di Capua, Napoli: Dallo stabilimento tipografico di Partenope, 1842); G. Tosi, Gli edifici per spettacoli nell’Italia Romana, vol. I, Roma 2003, pp. 130-138. 7
gevano i preparativi per gli spettacoli. Appositi macchinari permettevano, con l’ausilio di montacarichi connessi alle botole, di sorprendere il pubblico con improvvisi e scenografici ingressi nell’arena, mentre l’ingresso di fiere e dispositivi scenici era consentito da una rampa posta sul lato occidentale del piazzale7. Costruito con diverse tecniche murarie, l’anfiteatro presentava le arcate del doppio portico perimetrale in opus quadratum con calcare proveniente dalle cave del vicino monte Tifata, le parti strutturali in opus quadratum e in opus caementicium per le volte, mentre i paramenti murari erano in opus latericium e in lastre di travertino.
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I. Gennarelli, L’Anfiteatro Campano... cit., p. 111. 9 F. Giuliani Cairoli, Alcune osservazioni in margine all’Anfiteatro Campano, in Beni culturali in Terra di Lavoro. Prospettive di ricerca e metodi di valorizzazione, Atti del Convegno (S. Maria Capua Vetere, 9-10 dicembre 1998), Formia 2001, pp. 33-40. 10 I. Gennarelli, L’Anfiteatro Campano... cit., p. 113. 8
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Tracce di intonaco dipinto e di decorazioni a stucco sono ancora presenti su pareti e volte del monumento, ma notevole è stata la perdita delle sculture e delle decorazioni marmoree, alcune delle quali si conservano ancora in situ. La destinazione d’uso dell’anfiteatro venne mutando dopo l’abolizione dei giochi gladiatori voluta dall’Imperatore Onorio nel 404 d.C. Alla perdita delle funzioni corrispose una trasformazione di una parte dei carceres, testimoniata dalla presenza di un piccolo luogo di culto nella zona nord-occidentale dei sotterranei. Dopo i danni subiti dalle invasioni di Genserico (456 d.C.), l’anfiteatro, come attesta una iscrizione rinvenuta nel 1846, fu restaurato dal console campano Postumo Lampadio, nel 530 d.C. e nell’arena continuarono a svolgersi spettacoli fino al saccheggio e l’incendio provocati nell’841 dall’incursione dei saraceni di Halfun. Questi provocò l’abbandono della città da parte della popolazione, che si rifugiò, nell’856, nell’ansa del Volturno, sede dell’antico porto di Casilinum, dove in età normanna fu costruita la nuova Capua8. La Capua romana si sfaldò in tre borghi distinti dal nome delle chiese di Sant’Erasmo, San Pietro e Santa Maria Maggiore; da quest’ultimo a partire dal XVIII secolo si svilupperà l’attuale Santa Maria, che imprime nella denominazione di Capua Vetere la propria identità storica. L’imponente struttura dell’anfiteatro fu progressivamente distrutta a partire dall’età normanna, quando furono tagliate in maniera sistematica le murature radiali per provocare il crollo della struttura. Materiali nobili e decorazioni furono asportati per lungo tempo per costruire la Capua medievale, fin quando il consiglio di Capua, con un editto del 1514, vietò di estrarre blocchi dall’edificio9. Solo dal 1811, in rapporto alla politica di recupero dei siti antichi di Carolina Murat, si diede inizio allo scavo del sito, con le prime campagne, che proseguirono anche in età Borbonica. In quell’anno furono eseguiti interventi di diserbo e sterro dell’area, e le prime opere di restauro e consolidamento delle arcate dell’anfiteatro. Successivamente, nel 1826, furono liberati i sotterranei e il piazzale in lastricato lapideo. A Carlo Bonucci (1799-1870) si deve il consolidamento di un arco del portico esterno, mentre nuovi lavori, effettuati sotto la direzione di Ulisse Rizzi tra il 1852 e il 1861 permisero il consolidamento di alcuni degli archi in pietra calcarea, realizzati mediante sostegni in muratura ordita con due ricorsi di mattoni alternati ad una fila di conci di tufo e la ricostruzione di pilastri e tratti di muratura con mattoni di tufo e laterizi. Dopo una nuova campagna di scavo iniziata nel 1858, che proseguì nel successivo decennio con i dovuti interventi di consolidamento i lavori rimasero fermi fino al 1927, quando sotto la direzione di Amedeo Maiuri fu ripreso lo sterro del cumulo di terra che gravava sulle rovine dal lato Est. L’opera di consolidamento parallelamente attuata riguardò la ricostruzione in mattoni delle arcate longitudinali dei sotterranei e delle volte del retropodio, nonché la sostituzione con muratura in mattoni degli elementi murari in blocchi di tufo realizzati nel corso di precedenti restauri ma già lesionati. Nel 1936 si provvide a ricollegare all’appoggio in fondazione, mediante muratura in mattoni e cemento, quei setti murari radiali che presentavano i tagli alla base praticati presumibilmente nell’Alto Medioevo al fine di accelerare il crollo della struttura10. Nuovi lavori furono condotti a partire dal 1950, sotto la direzione di Alfonso de Franciscis e dopo il terremoto del 1980, quando sono stati inseriti perni e tirantature in acciaio inox all’interno delle murature e dei blocchi di pietra calcarea. L’ intervento più significativo ha interessato il gruppo di tre arcate, unico elemento della facciata esterna in cui si conservano in situ le protomi di divinità nelle chiavi d’arco del portico
esterno, il consolidamento ha consentito l’eliminazione della tamponatura in mattoni realizzata in un precedente restauro. L’ anfiteatro, dichiarato Monumento Nazionale nel 1822, fu aperto alle visite dal 1913.
Fig. 5 J.M. William Turner, Entrance to the Amphitheatre at Capua, 1794-7, (Londra, Tate Gallery).
L’Anfiteatro campano nell’iconografia storica La grande fortuna iconografica dell’anfiteatro di Capua ne fa uno dei monumenti archeologici campani maggiormente rappresentati. La sua fama è dovuta a diversi fattori legati principalmente alla maestosità dei resti, alla loro forza evocativa, ma soprattutto alla felice posizione a nord ovest della cinta muraria della città antica, in stretta relazione con l’Arco di Adriano, sotto i cui fornici passava la via Appia, il principale asse viario tra Roma e il Meridione d’Italia. L’edificio viene osservato, studiato e rilevato dagli intellettuali che giungono a Capua a partire dal Quattrocento, tra i quali vi è Flavio Biondo, che tra il 1448 e il 1458 testimonia come «i fondamenti dell’antica città, e le porte, e i teatri, e i templi, e i molti altri edifici si veggono e si conoscono bene presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie»11. Furono però i “pittori viaggianti” lungo gli itinerari del Grand Tour, spesso al seguito di facoltosi committenti di diverse nazionalità, a rendere il più importante monumento dell’Altera Roma – come Cicerone definì Capua romana – uno dei topoi del repertorio visivo e letterario del viaggio in Italia12. Nelle numerose raffigurazioni dell’anfiteatro che si susseguono dal XVIII secolo in poi si può leggere, oltre allo stato di conservazione del ‘colosso’ capuano, l’evoluzione della pittura del paesaggio che dalle prime raffigurazioni settecentesche, fedeli alla realtà e ligie nel riportare finiture e particolari architettonici, giungono ad una visione maggiormente soggettiva e intimistica, a cavallo del passaggio del secolo. Tra le prime testimonianze che attestano il precoce interesse degli artisti in viaggio per l’antica Capua, figura uno schizzo di Richard Wilson, conservato presso il British Museum, che offre una visione lucida dei resti dell’anfiteatro, inquadrati da una prospettiva, quella da nord, destinata a una scarsa fortuna. Ancora quasi del tutto interrato, l’edificio rivela un sentimento profondo e meditativo, che anticipa alcune vedute dei pittori paesaggisti inglesi di fine secolo13. Agli inizi degli anni Sessanta risale l’incisione di Domenico Cunego realizzata su disegno di Charles-Louis Clérisseau (1721-1820), che sancì la fortuna iconografica della
Fig. 6 Santa Maria Capua Vetere. Gli archi superstiti dell’anello esterno (Amalia Piscitelli 2019).
F. Biondo, Italia Illustrata, Bononia 1474. 12 I. Cecere, G. Renda, Immagini dell’anfiteatro campano fra arte e archeologia: disegni, vedute e incisioni del Settecento e dell’Ottocento, «Orizzonti», 12, 2012, pp. 83-100; I. Cecere, Artisti in viaggio nell’Altera Roma. L’anfiteatro di Capua antica nelle immagini del Grand Tour, «Il Capitale culturale, Studies on the Value of Cultural Heritage», n.11, eum 2015, pp. 123-147. 13 R. Causa, Vedutisti stranieri a Napoli, in Civiltà del ’700 a Napoli. 1734-1799, catalogo della mostra (Napoli, dicembre 1979-ottobre 1980), Firenze 1979, pp. 330-337. 11
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14 I. Cecere, Artisti in viaggio… cit., p. 15 Ibidem. 16 S. Quilici Gigli, Carlo Labruzzi e i monumenti di Capua: letture di un archeologo in La Campania e il Grand Tour. Immagini, luoghi e racconti di viaggio tra Settecento e Ottocento, a cura di R. Cioffi, S. Martelli, I. Cecere, G. Brevetti, Roma, L’Erma di Bretschneider 2015, pp. 237-248. 17 The Drawings and Sketches of John Robert Cozens, a cura di C.F. Bell, Thomas Girtin, London, Oxford University Press 1935.
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prospettiva del monumento da Sud-Est, un punto di vista adottato poi da quasi tutti i successivi pittori e incisori, perchè capace di cogliere contemporaneamente l’arena, la cavea e i due archi superstiti dell’anello esterno. L’importanza dell’anfiteatro capuano non sfuggì, quasi vent’anni più tardi, anche agli artisti ingaggiati da Jean-Claude Richard, Abbé de Saint-Non (1727-1791), per il suo ambizioso Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicile, che vide la luce a Parigi tra il 1781 e il 1786. Con Dominique Vivant Denon, nella primavera del 1778, Jean-Augustin Renard, Claude-Louis Châtelet e Louis-Jean Desprez tracciarono alcuni disegni, dei resti maestosi dell’anfiteatro, tradotti poi in incisioni all’acquaforte, ancora prediligendo la vista da Sud-Est14. Lontana dagli esiti scenografici dei francesi è, invece, la veduta dipinta da Jacob Philipp Hackert nel 1792, dispersa durante il secondo conflitto mondiale e oggi nota attraverso un’incisione di Vincenzo Aloja e Georg Hackert. Il paesaggista prussiano, all’epoca pittore della corte borbonica di Ferdinando IV e Maria Carolina, raffigurò, infatti, l’anfiteatro non più isolato nella sua monumentalità, ma immerso nell’aria tersa e serena, armoniosamente integrato nel paesaggio naturale circostante15. Le medesime istanze di precisione topografica e di fedeltà ottica ispirarono il romano Carlo Labruzzi (1748-1817), paesaggista che condivise con Hackert l’attenzione ai dettagli strutturali e la cura nella descrizione della vegetazione. Tuttavia, dalle sue immagini affiora anche un sentimento poetico delle rovine, raffigurate nella quiete della campagna assolata, ritratta con spontanea immediatezza e pullulante di pittoreschi contadini16. Prelude, invece, alla fortunata stagione del paesaggismo inglese l’intenso acquerello del 1782 di John Robert Cozens (1752-1797), originale interprete di temi campani. Cozens fu in Italia, per la seconda volta, tra il 1782 e il 1783, dove eseguì disegni per il suo committente, William Beckford di Fonthill17. Per la più celebre delle antichità capuane, Cozens realizzò un acquerello da una visuale interna inedita, con velature in toni di grigio, dove i dettagli topografici risultano ridotti al minimo e quelli archeologici appena accennati (Fig.3). Già espressione di un nuovo sentimento della natura e del paesaggio – prevalentemente basato sulla percezione emotiva dell’artista, e dunque in antitesi con le esigenze scientifiche, topografiche e conoscitive delle vedute alla Hackert – l’immagine dall’alto dell’anfiteatro rifugge dalla ricerca di effetti di inquietudine o di sgomento talvolta generati da simili scelte prospettiche, secondo i canoni dell’estetica del sublime, per rasserenarsi in un inatteso scorcio di vita agreste, in cui un contadino ara i “corn fields” all’interno dell’arena, come l’autore stesso annota. È proprio la veduta di Cozens del 1782 a ispirare l’acquerello di Turner e Girtin, conservato presso la Tate Gallery di Londra, nel quale gli elementi architettonici e archeologici dell’anfiteatro sono resi mediante una tecnica di luminosa finezza, particolarmente adatta far risaltare gli effetti d’atmosfera. L’opera, dipinta presumibilmente tra il 1794 e il 1798, è pervasa di un lirismo ancora sconosciuto ai pittori continentali del tempo, e nonostante sia una copia si discosta sostanzialmente dal modello di Cozens. L’architettura dell’anfiteatro, infatti, appare maggiormente definita grazie alla luce diffusa che permette di leggere l’inclinazione della cavea e la tridimensionalità degli elementi superstiti dell’anfiteatro e il paesaggio circostante diviene più presente, sebbene maggiormente morbido e accogliente (Fig. 4). Coevo a questo primo acquerello è il meno noto Entrance to the Amphitheatre at Capua, conservato presso l’Ashmolean Museum di Oxford (Fig.5). Non è certa, in questo caso, la fonte alla quale Turner si sia ispirato, anche perché, la prospettiva dalla quale il
pittore inglese guarda gli archi esterni del portico è da nord-est, un punto inedito nella produzione iconografica dell’anfiteatro (Fig.6). Senza dubbio quella parte dell’edificio era già stata ben documentata da John “Warwich” Smith, che nel suo Select views of Italy del 1792, raffigura gli archi del deambulatorio esterno dell’anfiteatro da una prospettiva quasi frontale (Fig. 7). Un riferimento sicuramente noto a Turner che lo riprodurrà in uno schizzo del 1819, anch’esso conservato presso la Tate Gallery di Londra, contenuto in una pagina del suo taccuino con la raffigurazione, in piccoli riquadri, di tutte le stampe contenute nell’opera di Smith18 (Fig. 8). Anche in questo secondo acquerello gli effetti della luce sull’architettura ne definiscono l’essenza. I particolari architettonici, come le protomi nei conci di chiave, sono ben definiti e leggibili, si distinguono i giunti dei blocchi lapidei, i capitelli e le lesioni; il tutto però è ancora avvolto in una luce crepuscolare che ammorbidisce i contorni architettonici dei resti dell’anfiteatro; un’atmosfera onirica, resa lugubre da un accenno di paesaggio spoglio e tetro. Le due rappresentazioni dell’Anfiteatro campano di Turner costituiscono, dunque, un momento importante nella produzione artistica del pittore inglese, perché testimoniano come già in fase formativa Turner stesse sperimentando le rese cromatiche e luministiche che caratterizzeranno la sua produzione successiva e che lo renderanno un imprescindibile punto di riferimento per le generazioni di pittori successive. La nuova ‘maniera’ di raffigurare il paesaggio e la natura risultano evidenti laddove, come nell’anfiteatro di Capua, è possibile un confronto tra tipologie di letture differenti che nel volgere di pochi decenni interessano lo stesso edificio. In questo caso risulta ancora più tangibile come la personale visione del paesaggio di Turner costituisca un’autentica rottura rispetto ai precedenti, introducendo finanche in un soggetto trasposto dalla visione di un altro pittore, un nuovo modo di rappresentare la luce e la natura. Non è un caso infatti che nella sua personale visione dell’arte John Ruskin in Modern Painters affermi che «Turner è come la natura e dipinge più natura di qualsiasi uomo che abbia mai vissuto»19.
Fig. 7 John ‘Warwich’ Smith, Amphitheatre at Capua, in Select Views in Italy, 1792-99. Fig. 8 J.M. William Turner, Twelve Copies of Engravings after John ‘Warwick’ Smith from Select Views in Italy, 1819, (Londra, Tate Gallery).
18 P. Argenziano, Disegni di paesaggi fortificati nei sketchbooks di JMW Turner, in Disegni e progetti di città e paesaggi fortificati, a cura di C. Robotti, P. Argenziano, Lecce, Edizioni Del Grifo 2005. 19 J. Ruskin, Modern Painters… cit., p. XLVII.
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Lontano dalle capitali. Il viaggio di Ruskin in Sicilia: una lettura comparata Maria Rosaria Vitale | mvitale@unict.it Paola Barbera | paola.barbera@unict.it Dipartimento di ingegneria civile e architettura Università degli Studi di Catania
Abstract On April 21, 1874 John Ruskin arrived in Palermo and began a short tour in Sicily, lasting only ten days. Sicily is a “peripheral” area if compared to the more well-known Ruskin’s places and indeed the tour in the island is very different from the itineraries of most of the travelers who preceded him. The decision to move by boat from Palermo to Messina and the exclusion of the archaeological sites (Agrigento, Segesta, Selinunte, Siracusa) from the visit are a prelude to shorter and more selective travels, which became more common between the end of the nineteenth and the beginning of the twentieth century. On the basis of a comparative analysis, the paper aims to identify the heterodox elements of Ruskin’s trip with respect to a canon that by 1874 is more than consolidated. Parole chiave Sicilia, viaggio, medioevo, mito, Etna
Il 21 aprile del 1874 John Ruskin approda a Palermo e inizia da qui un viaggio in Sicilia, della durata di soli dieci giorni, in compagnia di Amy Yule, allieva e amica, che già da alcuni anni risiedeva nell’isola. Si tratta certamente di un viaggio “periferico” rispetto ai più noti luoghi ruskiniani. È proprio la presenza di Amy a spingere Ruskin a inserire la Sicilia tra le tappe del suo viaggio in Italia, e in effetti il tour nell’isola è assai diverso dagli itinerari della maggior parte dei viaggiatori che lo hanno preceduto. La scelta di spostarsi via mare da Palermo a Messina e l’esclusione del consueto itinerario archeologico (Agrigento, Segesta, Selinunte, Siracusa) preludono a una modalità di viaggio, più breve e selettivo, che si diffonderà negli anni tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Il contributo che qui si propone prende le mosse da un progetto di ricerca di un gruppo di docenti dell’Università di Catania volto alla realizzazione di un archivio informatizzato su piattaforma WebGIS, che raccoglie e ordina informazioni sui viaggi degli architetti in Sicilia, consentendo confronti diacronici e sincronici. Sulla base di una lettura comparata, l’intervento si propone di individuare gli elementi eterodossi del viaggio (e le loro ragioni) rispetto a un canone che nel 1874 ormai è più che consolidato.
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Ipotesi per una lettura comparata Il progetto di ricerca Sicily through foreign eyes: travelling architects, nell’ambito del quale il breve tour di John Ruskin è stato preso in esame, è finalizzato allo studio del viaggio in Sicilia di architetti europei tra XIX e inizio del XX secolo1. Le ragioni per cui, all’interno della specifica categoria dell’architetto in viaggio, si sia scelto di inserire – oltre a poche altre eccezioni – anche Ruskin sono facilmente comprensibili. Il suo ascendente sugli architetti contemporanei può essere sintetizzato ricordando il riconoscimento tributatogli dal British Architect che nel 1874 lo ritiene il «foster-father of one half of our younger architects»2, ma la sua influenza sulle generazioni successive (esplicitamente rivendicata ad esempio da Frank Lloyd Wright) è stata oggetto di approfondimenti su molteplici versanti a partire dall’incipit del celebre Pioneers di Nikolaus Pevsner che proprio con una citazione di Ruskin apre il suo volume inanellando – come è noto – una genealogia che giunge fino a Gropius. L’ipotesi di ricerca di rileggere dunque il viaggio siciliano di Ruskin all’interno di una sequenza di viaggi di architetti provenienti dalla Gran Bretagna – contemporanei, di poco precedenti o successivi – è volta dunque alla individuazione di legami, tangenze e connessioni che possano spiegare alcune scelte negli itinerari, la preferenza per determinate epoche e linguaggi, il ricorrere di interessi specifici per le arti decorative. Tale ipotesi appare percorribile osservando alcuni dei nomi degli architetti in viaggio nell’isola che compaiono proprio tra i “pionieri” di Pevsner e che in qualche modo risultano legati a Ruskin e alla sua eredità: da Matthew Digby Wyatt, nell’isola alla metà del XIX secolo, a Charles Rennie Mackintosh, a Palermo nel 1891, fino a Charles Robert Ashbee – che a Taormina tra il 1904 e il 1907 riceve anche l’incarico professionale per una villa – e a William Richard Lethaby. Alla lista degli architetti si potrebbe aggiungere anche il nome dell’artista Walter Crane che in Sicilia arrivò solo nel 1904, ma che aveva già realizzato a Londra, sulla base dei repertori iconografici, i mosaici della Arab Hall di Leighton House, ispirati alla Zisa di Palermo; così come aveva fatto William Burges nella spettacolare Arab Room del castello di Cardiff, con un soffitto che rievocava la cappella palatina di Palermo. Una schiera di architetti e artisti profondamente legati agli ideali delle Arts and Crafts e all’insegnamento di Ruskin trovano in Sicilia materiale utile al proprio lavoro non solo in relazione all’architettura ma anche e soprattutto alle arti applicate: ai loro occhi la Sicilia esprime la continuità di una tradizione artigianale di lunga durata capace di connettere passato e presente3. D’altro canto la circolazione internazionale di immagini e notizie sull’isola e sulle sue architetture negli anni era cresciuta esponenzialmente. Le prime generazioni del Grand Tour, già dalla fine del Settecento e all’inizio dell’Ottocento, avevano viaggiato prevalentemente alla ricerca della classicità, scoprendo poi nell’isola con sorpresa (ma talvolta anche con fastidio) un medioevo dai volti molteplici, venato di esotismo (si pensi, limitando il campo alla Gran Bretagna, ai viaggi di Robert Mylne nel 1757, John Soane nel 1779, Robert Smirke nel 1801, Charles Cockerell nel 1814, John Goldicutt nel 1817, Henry Parke tra il 1820 e il 1824). Architetti, artisti e letterati alla metà del secolo avevano poi posto al centro dei propri interessi il passato normanno dell’isola i cui caratteri erano stati già delineati nell’opera di Henry Gally Knight The Normans in Siciliy, pubblicata nel 1838 e completata nel 1840 dai due volumi Saracenic and Norman Remains, to illustrate the Normans in Sicily, con le tavole disegnate da George Moore. La generazione che viaggia nella seconda metà dell’Ottocento si muove conoscendo già da libri e incisioni paesaggi e architetture dell’isola; lo sguardo degli architetti adesso
Architetti in viaggio. La Sicilia nello sguardo degli altri, a cura di Paola Barbera, Maria Rosaria Vitale, Siracusa, LetteraVentidue 2017. 2 M. Brooks, Introduction: Ruskinism, in Ruskin & Architecture, a cura di R. Daniels, G. Brandwood, Reading, Spire Books and The Victorian Society 2003, p. 13. 3 Cfr. F. Mangone, Lo sguardo del filologo, lo sguardo dell’architetto, lo sguardo del poeta. Arata, la cultura Arts and Crafts e l’architettura arabo-normanna, in Architetti in viaggio... cit., pp. 209-223. Si veda anche il sito The Medieval Kingdom of Sicily Image Database (<http:// kos.aahvs.duke. edu>). 1
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Per tutte le citazioni si utilizzerà la versione Library Edition, The works of John Ruskin, a cura di E. T. Cook, A. Wedderburn, 39 vols., London, George Allen; New York, Longmans-Green 1903-12, d’ora in avanti citata come Works, seguita dal numero del volume. J. Ruskin, The pleasures of England. Lectures given in Oxford, during the second tenure of the Slade professorship (1884-85), ora in Works, XXXIII, p. 476. 5 J. Clegg, Circe and Proserpina: John Ruskin to Joan Severn, ten days in Sicily, 1874, «Quaderni del Dipartimento di Linguistica», Università della Calabria, 3, 1986, pp. 113-128. 6 G. Bologna, Il viaggio di John Ruskin in Sicilia, «Kalós», a. XXII, n. 2, 2010, pp. 12-15. 7 Lettera a Mr. Toynbee, Napoli, 2 maggio 1874, in Works, XXXVIII, p. 345. 8 Cfr. Works, XXI, Ref. 172 e 84 e W.S. 49. 9 Lettera a Susan Beever, Assisi, 10 aprile 1874, in Works, XXXVI-XXXVII, p. 94. 10 Lettera a Joan Severn, Palermo, 22 aprile 1874, in J. Clegg, Circe and Proserpina… cit., p. 125, 4
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appare più rivolto a impossessarsi di un bagaglio utile alla professione e in quest’alveo si collocano sicuramente i viaggi di Lethaby, Mackintosh e Ashbee e il loro sguardo concentrato su dettagli decorativi e arti applicate. Il viaggio in Sicilia di Ruskin contiene elementi che possano essere riconnessi all’attività di coloro che poi operarono nel solco della sua lezione? L’isola lascia una traccia nelle lezioni tenute poi in Inghilterra? Da queste domande è partita la ricerca e l’osservazione comparata del viaggio ruskiniano. È bene precisare sin d’ora che l’analisi ha messo in luce alcuni aspetti che, come vedremo, sembrano con tutta evidenza eccettuare l’esperienza di Ruskin dalla cornice sopra delineata, discostandolo nettamente da quel viaggio degli architetti a cui si era ritenuto legittimo associarlo e recidendo il legame di un’eredità che non può essere cercata nel viaggio in Sicilia. A hurried run to Sicily «In 1874 I went to see Etna, Scylla, Charibdis, and the tombs of the Norman Kings at Palermo»4. È con la sintesi di queste quattro istantanee che, nella sua lezione a Oxford del novembre del 1884, John Ruskin fotografa la sua visita in Sicilia. Il viaggio si colloca a margine di una più lunga permanenza italiana di sette mesi, durante la quale egli soggiorna prevalentemente in Italia centrale e sovrintende ad Assisi alla copia degli affreschi di Giotto commissionata dalla Arundel Society. La decisione di spingersi più a sud di quanto fosse mai arrivato nei precedenti viaggi, giungendo a toccare per la prima volta la Sicilia, è conseguente all’invito formulato dalla giovane Amy Yule, la cui famiglia si è stabilita a Palermo. Il breve tour si concentra nell’area del capoluogo, con l’intermezzo di una puntata sul versante orientale dell’isola. Le lettere, i diari e i disegni che talvolta corredano anche gli scritti sono stati già oggetto di esame, tanto da un punto di vista più strettamente letterario e biografico5, quanto dal punto di vista dell’odeporica6. Tuttavia, l’analisi dei disegni (non numerosi) di varia natura (vedute panoramiche, architetture, opere d’arte, soggetti botanici), associata alle osservazioni rintracciabili nelle lettere o nei diari, lascia chiaramente trasparire in filigrana un viaggio tutt’altro che canonico. Il primo dato che emerge inconfutabilmente, e che Ruskin stesso confessa, è quello di un viaggio affrettato: in una lettera del 2 maggio, appena rientrato a Napoli, egli accenna al suo «hurried run to Sicily (and the work it required to make it useful)»7 che lo hanno costretto a differire altri importanti impegni. I primi cinque giorni sono dedicati a Palermo, con brevi escursioni nei dintorni che lo conducono a Monreale e Monte Pellegrino. Tanto dai diari, quanto dalla documentazione grafica emerge chiaramente come l’attenzione di Ruskin sia catalizzata dalle tombe dei re normanni in cattedrale, alle quali dedica gran parte dei disegni: cinque pagine di un taccuino con schizzi di modanature e capitelli, un acquerello della tomba di Federico II (Fig. 1) e due studi ad acquerello dei leoni che sorreggono il sarcofago8. Il secondo aspetto che colpisce è l’assoluta mancanza di un programma di viaggio. La partenza, la sera del 24 aprile, alla volta di Messina sembra decisa da Amy già prima dell’arrivo di Ruskin, il quale nella sua corrispondenza accenna ad escursioni distanti trenta miglia9, che lo affaticheranno e finiranno col distrarlo dal suo lavoro10. Il viaggio via mare che lo conduce a Messina è l’occasione per vedere lo stretto, Scilla e Cariddi, visitare Taormina e soprattutto vedere l’Etna che occupa diverse pagine dei diari e del-
le lettere. Superata l’iniziale riluttanza, alla fine del tour egli stesso si rallegrerà di aver avuto, grazie all’amica, la possibilità di vedere il vulcano e la parte orientale, dove da solo non si sarebbe certamente recato. Difficile ipotizzare quali avrebbero potuto essere le mete alternative di un viaggio che non sembra in alcun modo pianificato o preparato e che Ruskin tenta di rendere in qualche modo «utile» attraverso il disegno e la registrazione di impressioni e osservazioni. È ancora la corrispondenza a illuminarci per un verso sul metodo di tale lavoro e per l’altro sulla stanchezza di Ruskin in questo tormentato momento della sua vita: You can have no idea – scrive a Susan Beever al rientro a Napoli – how impossible it is for me to do all the work necessary even for memory of the things I came here to see; how much escapes me, how much is done in a broken and weary way11.
Fig. 1 J. Ruskin, Tomba di Federico II, acquerello su carta, 1874 (University of Oxford Ashmolean Museum). Fig. 2 J. Ruskin, Iris, matita su carta, 1874 (Ruskin Foundation). Fig. 3 J. Ruskin, Etna, acquerello su carta, lettera a J. Severn del 26 aprile 1874 (da G. Bologna, 2010).
Dieci anni più tardi, nella sua lezione a Oxford la Sicilia si materializzerà nella rievocazione delle immagini che più nettamente sono rimaste incise nelle carte e nella sua memoria personale: la “scoperta” della tomba di Federico II e tre luoghi geografici che – tanto per notorietà, quanto per le modalità con cui egli stesso li descrive – non esitiamo a definire tre topoi. Brilla per assenza l’architettura. I filtri dello sguardo Quando Ruskin arriva a Palermo la città è segnata da cantieri e trasformazioni urbane recenti: una nuova strada rettilinea parte dalla piazza del nuovo teatro ancora incompiuto e conduce al Giardino Inglese da poco realizzato. La vita economica e sociale è caratterizzata dalla presenza di famiglie inglesi, tra le quali i Whitaker e gli Igham, che in Sicilia avevano costruito la propria fortuna e che avevano da poco finanziato la costruzione di una nuova chiesa anglicana, seguendo programmaticamente l’ideale unità tra le arti professata dal movimento delle Arts and Crafts sulla scorta dell’insegnamento ruskiniano, servendosi quasi esclusivamente di ditte inglesi per la for-
11 Lettera a Susan Beever, Napoli, 2 maggio 1874, in Works, XXXVI-XXXVII, p. 97.
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12 Lettera a Joan Severn, Palermo, 21 aprile 1874, in J. Clegg, Circe and Proserpina… cit., p. 122. 13 Ivi, p. 121 e Works, XXIII, p. xxxii. 14 Diario del 24 aprile, in The diaries of John Ruskin, vol 3, 1874-1889, a cura di J. Evans e J. H. Whitehouse, Oxford, Clarendon Press 1959, p. 785. 15 Lettera a Joan Severn, Palermo, 26 aprile 1874, in J. Clegg, Circe and Proserpina… cit., p. 131 e in Works, XXIII, p. xxxv.
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niture gli arredi e di architetti e artisti inglesi per il progetto realizzato tra il 1872 e il 1875. Durante la visita di Ruskin è probabilmente già in fase di realizzazione il ciclo dei mosaici dell’abside disegnato dall’architetto Francis Cramer Penrose (che in Sicilia era stato nel 1845). Va inoltre segnalato che a sovrintendere alla costruzione della chiesa è proprio Sir Henry Yule, padre di Amy. Tuttavia, neanche un accenno alla chiesa compare tra gli appunti e le lettere di Ruskin, dalle quali è parimenti assente la comunità inglese che pure dovette frequentare nei pochi giorni siciliani. Unica eccezione è un accenno all’«English Garden», visitato un pomeriggio, ma con un occhio non troppo attento se la dimensione viene paragonata a quella di Hyde Park (incorrendo in un errore di non poco conto) e non senza ironia nell’annotare la presenza di «peculiarly Anglican vegitation»12, fatta di palme, aranci, limoni, pini e altre essenze arboree chiaramente mediterranee. Alla città e alle sue architetture Ruskin dedica solo poche righe (ma quasi nessun disegno), appuntando in una lettera il dettaglio delle ringhiere ricurve, la biancheria stesa ad asciugare e il color fango della pietra che contraddistingue anche la cattedrale13. E per quanto disegni e riflessioni possano nel loro insieme essere ricomposti nel quadro di un viaggio canonico, simile a tanti altri nell’attenzione dedicata ai diversi aspetti del contesto naturale, artistico e culturale, una disamina più attenta rivela le assenze – spesso clamorose – e fa emergere con nettezza i filtri che si frappongono fra l’osservatore e l’isola. Il primo filtro che riusciamo a individuare è quello della distanza. È un ritratto a distanza, da Monte Grifone, l’unico disegno che Ruskin dedica a Palermo, una «gloriosa veduta» serale guadagnata dopo una scalata nel vento freddo14. È una distanza geografica quella da cui il suo sguardo abbraccia la costa settentrionale «unequalled in luxuriance of beauty»15 e punteggiata da torri Moresche o Saracene o da architetture Normanne che coronano ogni altura, durante la traversata in barca alla volta di Messina. Ed è ancora a distanza – e a dispetto dei suoi precoci interessi per la geologia e la mineralogia – che si limita a osservare lo «spaventoso» spettacolo dell’Etna, ritraendone le mutevoli evoluzioni della colonna di fumo che si innalza dal cratere e sembra assorbire le sue osservazioni e le istintive associazioni della sua memoria. Ma quasi in un gioco di opposizioni, questo filtro della distanza si restringe vertiginosamente nello sguardo ravvicinato che coglie quasi solo i dettagli delle cattedrali di Palermo e Monreale, di nuovo senza una parola (né un disegno) sulle architetture o sul loro contesto urbano. La cattedrale del capoluogo isolano nella sua veste riformata di età settecentesca non può certamente suscitare l’interesse di Ruskin che, tuttavia, non degna di attenzione nemmeno il portico meridionale su cui, diversamente, si era appuntata l’attenzione di molti altri visitatori, non ultimo il giovane Viollet-le-Duc; al rientro da Messina, Ruskin torna a concentrarsi unicamente sulla tomba di Federico II, che rimane al centro dei suoi interessi per tutta la durata del soggiorno. Allo stesso modo a Monreale è una distanza ravvicinata quella che lo porta a registrare solo il dettaglio della donazione dell’edificio alla Vergine da parte di Guglielmo II, insieme al motivo decorativo dell’iris blu che ricorre nei mosaici intorno alle arcate e che, nella stessa escursione, scopre e raccoglie negli immediati dintorni. Ed è ancora uno sguardo di esasperato dettaglio quello che lo porta alla minuziosa descrizione di una farmacia a Messina, senza nemmeno un cenno alla seconda città dell’isola. Ma questi oggetti su cui il suo sguardo si posa ci svelano un altro filtro attraverso cui l’immagine della Sicilia prende forma nelle annotazioni scritte e grafiche: «to all in-
tents and purposes – scrive quando il soggiorno volge ormai al termine – I have been in Greece»16. La Sicilia è greca, greche sono le sue rosee aurore, come greco è quell’iris blu che, dopo Monreale, Ruskin ritrova a Taormina e identifica con l’ίον greco (Fig. 2), associandone istintivamente la tinta a quella dell’omerico mare colore del vino. «Pura opera greca» è la tomba di Federico II, davanti alla quale egli si inginocchia.17 La “grecità” del Normanno di Sicilia è un tassello fondamentale nella costruzione chiastica che, di lì a poco, lo porterà a identificare nel carattere «Fiorentino» la convergenza fra «Normanno» e «Lombardo» da nord e di «Greco» e «Arabo» da sud18. Non uno “stile”, dunque, o l’effetto di influenze veicolate dalle maestranze, ma un carattere permanente che si rivela attraverso il filtro di una visione mitica dell’isola, quasi disgiunta dalle tante evidenze dell’antico che la popolano. Non altrimenti sapremmo spiegare la clamorosa assenza di tappe archeologiche programmate, il rapido commento dedicato alle metope di Selinunte e il lapidario cenno al teatro di Taormina, «il più perfetto in Europa», di fronte al letterario entusiasmo per la visione di Scilla e Cariddi, all’istintiva associazione del tramonto a Lipari con la scena dell’Ulysses Deriding Polyphemus dipinto da Turner – pittore “greco” per eccellenza, e persino alla stessa visione dell’Etna, immobile testimone della storia mitica dell’isola: [I] think that from the earliest dawn of Greek life – that cone has been the centre of tradition & passion as relating to the Gods of strength & darkness (Prosperpines city is in the mid-island – but in full sight of Etna) – and you may fancy what a wild dream of incredible, labyrinthine wonder, it is to me19.
C’è, infine, un’altra peculiarità dello sguardo che impregna le lettere, i disegni e le riflessioni di Ruskin: quello della Sicilia è indiscutibilmente un ritratto a colori. Dalle prime impressioni di una Palermo colore del fango, al ritratto dello stretto di Messina «in Iris-blue, bordered by golden beach», alle bicromie del teatro di Taormina, fino al congedo dall’isola con «Ustica blue in the west, and Alicudi rosie in the east», Ruskin sostituisce quasi sistematicamente la descrizione fisica dei luoghi e delle architetture con la loro cangiante immagine coloristica, riassumibile «better than a volume of words» nello schizzo dell’Etna (Fig. 3): Look here, the sky was green & pure; the smoke column, where it was dense, caught the rose-light of sunrise like a white cloud, but when it became thin, came dark on the sky, slowly drifting away and returning in a nearer line, across the pillar of fire, which glowed through it. All in the most tender hues, but with the bloomy Italian depth in them20.
Lettera a Joan Severn, Palermo, 29 aprile 1974, in J. Clegg, Circe and Proserpina… cit., p. 133. 17 J. Clegg (Circe and Proserpina… cit., p. 124) ricorda il significato che Ruskin attribuisce ai Federico II come simbolo della lotta fra la “solida” e “razionale” autorità del re e dello Stato e quella “spettrale” e “nubiforme” del Papa e della Chiesa. 18 The æsthetic and mathematic schools of art in Florence, in Works, XXIII, p. 190. 19 Lettera a Joan Severn, Palermo, 29 aprile 1974, in J. Clegg, op. cit., p. 131 e in Works, XXIII, p. xxxv. 20 Lettera a Joan Severn, Palermo, 26 aprile 1974, in J. Clegg, op. cit., p. 129 e in Works, XXIII, p. xxxiv. 16
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Claudio Zanirato
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Le periferie della storia Claudio Zanirato | claudio.zanirato@unifi.it Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
Abstract In the Ruskian era the suburbs were an inevitable boundary to the urban centers but they still could not get the upper hand: they have always existed in the cities, with the only difference that in the last century the dimensional relationship was decidedly reversed. In the peripheral belts that take shape from the end of the 1800s there are also liberty constructions that, after a first moment of indifference, will also become object of careful restoration, perhaps the last ones in which it is still possible to recognize the application of an artistic handicraft dear to Ruskin. Growing further, the suburbs will become a place of establishment for so much modern architecture that today has also become an object of restoration, in spite of the “utilitarian” theories. In the first suburbs the factories of the proto-industrialism (opposed by Ruskin) also settled which after a century have found themselves imprisoned by urban growth and abandoned but they have given birth to the discipline of industrial archeology. It is thus possible to see incredibly applied the most radical Ruskinian theories on the inevitable end and death of the architectural artifact, no longer useful for the purpose for which it was born. In this parable of the suburbs and their architectural values it is possible to glimpse both contradictions and unsuspected claims of Ruskin’s conservative theories (Fig.1). Parole chiave Centro, Periferia, Patrimonio Storico, Modernismo, Trasformazione
D. De Masi, L’età dell’erranza. Il turismo del prossimo decennio, Venezia, Marsilio 2018. 1
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Centri, Conservazione e Periferizzazione Il luogo fondamentale di una città è il suo centro, lo spazio del commercio, della cultura, della rappresentanza... quindi è uno spazio limitato, quello attorno a cui è cresciuta e prosperata. La presa di coscienza del valore del patrimonio storico induce a preservare le differenze come immutabili, e allo stesso tempo si incentivano le infiltrazioni economiche del consumismo globale, che tende a rendere comunque tutto uguale. È diffusa la sensazione, tra i cittadini dei centri storici, di trasformarsi in turisti della propria città, che vedono attenuarsi come singolarità, aggredita dal consumismo e dal turismo1.
È una condizione di marginalità anche stare al centro senza appartenervi, schiacciati dall’utilitarismo dello spazio: tanto che il turista è diventato uno dei soggetti prediletti dall’architettura urbana. È stato così anche in tempi lontani, se si pensa che la Roma del fine ‘400 subisce quello che può essere definito il “primo sventramento pianificato della storia dell’urbanistica moderna”, motivato come insieme congegnato di opere che avrebbero reso la città soprattutto più accessibile ai pellegrini. Anche la maggior parte delle grandi trasformazioni urbane del ‘500-’600, con la creazione di grandi piazze, strade rettilinee e fontane monumentali, sono servite assai poco ai cittadini e molto più per rendere la città più spettacolare. La Roma barocca diventa sempre più un allestimento, avviandosi a diventare anzitempo una città-museo, non a caso la prima città a subire anche gli effetti falsanti della pressione turistica2. Così la funzione turistica sta diventando uno dei pochi usi legittimi dello spazio urbano3. I centri storici sono perciò sempre più paesaggi della conservazione per inerzia, dove l’apparente fissità stride con le incostanti del territorio che li circondano, per cui risultano falsamente conservati. Il turismo di massa induce alla conservazione dei luoghi turistici secondo forme idealizzate che arrestano il coinvolgimento di quei luoghi con la storia, oltre che l’inserimento produttivo di un rapporto parassitario tra visitatori e residenti4.
La «concentrazione di forti attenzioni sul centro, come nucleo di valore e di senso, dovrebbe comportare una pratica di continua manutenzione dello stesso (lo sosteneva pure Ruskin), e cioè una propensione alla modernizzazione. Invece striscia verso la falsificazione, in quanto luogo principale, deve essere paradossalmente allo stesso tempo il più vecchio ed il più nuovo, il più stabile e il più dinamico»5 (Fig.2). «È più facile progettare la città del futuro che quelle del passato. Roma è una città interrotta perché si è cessato di immaginarla e si è cominciato a progettarla (male)»6, e così molti altri centri storici hanno da tempo sospeso la creatività a favore della “progettualità” analogica. Per cui, nelle aree metropolitane, la città consolidata si va contraendo, cede il passo all’assenza di continuità storica, palesando l’esistenza di confini culturali attorno alla città storica, come l’estraneità, il vandalismo, la reverenza7. Succede così che alcune città che si sono “dimenticate” dei propri centri storici ne hanno pure smarrito il valore sociale8. La conservazione della testimonianza materiale e di quella spirituale sono viste da Ruskin come segno di civiltà. «Così come la natura non dimenticando se stessa nella memoria genetica si riproduce, così l’uomo con attenzione al suo passato mantiene la sua fonte di civiltà» (Modern painters, 1843-60). Tale attenzione altro non è che la conservazione e per Ruskin quella per la storia coincide con il rispetto dell’uomo che di essa è custode, tanto che una Nazione che non rispetta il suo passato è destinata per lui alla decadenza. Il titolo Le pietre di Venezia è in realtà un’allegoria: le pietre di Venezia sono sì le parti che compongono l’architettura della città, ma rappresentano anche i valori su cui si fondava la Repubblica: il valore dei suoi cittadini, la capacità lavorativa dei mercanti, la bontà delle leggi che erano entrate in un ciclo di decadenza che ancora oggi non si è arrestato. C’è da chiedersi allora, al di là delle prassi di restauro oramai praticate in tutti i centri storici e nelle città d’arte, se queste pratiche si sono sostituite alle sincere manuten-
2 Alcune tra le città d’arte maggiormente interessate dai circuiti turistici stanno pensando sempre più concretamente all’istituzione di un “biglietto d’ingresso” per l’intero centro storico, a numeri contingentati, sancendo così palesemente la loro essenza di città-museo. 3 L. Ruggiero, Luigi Scrofani, Turismo e competitività urbana, Milano, Franco Angeli 2012. 4 R. Ingersoll, L’internazionale del turista, «Casabella», n.630, 1996, pp. 118-127. 5 R. Koolhaas, La città generica, «Domus», n.791, 1997, pp. 3-7. 6 G.C. Argan, Storia dell’arte come storia di città, Roma, Ed. Riuniti 1984. 7 G. Michelucci, Dalla cupola alla periferia, «La Nuova Città», n.2, 1987, pp. 3-4; 8 Tanto che Detroit ha raso al suolo il suo centro per paura di abitarvi, riedificandolo radicalmente come luogo di rappresentanza e fatto di grattacieli.
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Claudio Zanirato
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Fig. 1 Euralille, Lille. Fig. 2 Piazzale Michelangelo, Firenze.
9 A. Rossi, L’architettura della città, Milano, Città studi 1966-95.
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zioni delle parti urbane o se stanno invece uccidendo gli stessi manufatti (la “città è un manufatto” essa stessa per A. Rossi9) per mano di un turismo incontrollato. Questo pericolo non più latente veniva sostenuto anche da Ruskin, in quanto affermava che l’architettura non era un’isola ma viveva in un contesto e doveva rispettare la sua unità. Il monumento viveva quindi nel proprio ecosistema ed il contesto urbano formava parte della vita di un edificio: ma se il contesto urbano è svuotato dal suo originario valore socio-culturale dal consumismo, che cosa ne rimane anche dei suoi monumenti (Fig.3)? La cessazione della prassi evolutiva dei centri storici ha coinciso con la diffusione della città nel territorio, come se un discorso urbanistico-architettonico, durato per secoli, si fosse di colpo arrestato per riprendere altrove, su ben altri presupposti. Uno dei modi tradizionali attraverso cui viene interpretata la città moderna è la dialettica tra centro e periferia, ossia tramite il rapporto tra un luogo egemone e depositario della storia, paradigma dell’urbano, e un esterno espresso come negazione del centro stesso, la cui aspirazione improbabile sembrerebbe diventare una emulazione della città antica. Il centro storico, bloccato in condizioni di congelamento, fa sì che la città nuova possa svilupparsi solo ai margini del centro stesso, per cui la città contemporanea subisce un processo di moltiplicazione di centri. Allo stesso tempo, anche nell’antico centro urbano continuano ad addensarsi molte richieste di servizi, che la crescita delle peri-
ferie residenziali e produttive in modo incontrollato hanno incentivato, producendo l’espulsione dei già pochi residenti residui, sostituiti da una crescente congestione dovuta alla difficoltà di accesso. La moderna industrializzazione ha stimolato lo sviluppo per concentrazione attorno alle principali città del sistema, installando gli apparati produttivi in stretta prossimità dei centri, i quali a loro volta si sono ingranditi a dismisura per dover fornire mano d’opera, distinguendo nettamente questa fascia di nuovi insediamenti, realizzando una sorta di città anulare. Si distinguono periodicamente la “prima corona” della periferia storica, la “seconda corona” della periferia recente e la “terza corona” dell’attuale peri-urbanizzazione o rurbanizzazione. Generalizzata è la perdita di popolazione dei centri storici di questi anni: in Italia, da più di un secolo in crescita, si assiste al primo decremento urbano dalla fine del secolo scorso, tutte le principali città si stanno spopolando, a favore dei comuni limitrofi10. Con questo, anche molte funzioni vanno in periferia seguendo la migrazione dei suoi abitanti, ribaltando la centralità di molte città. Il peso della periferia rischia quindi di soffocare i centri storici, ma non è possibile il recupero di questi senza la bonifica delle prime11. Nella città frammentata e segregata, con residenza e lavoro distanti tra loro, la disgregazione sociale conseguente alla diffusione, implica la fine di una identità comunitaria legata al luogo urbano, per cui ci si riversa nel centro anche perché le periferie sono senza identità. “Andare al centro” è per chi abita in periferia com’era un tempo “andare in città” per la gente di contado, con la differenza che si abita pur sempre in città!
Fig. 3 OMA, Fondaco dei Tedeschi, Venezia. Fig. 4 Area culturale, Helsinki. Fig. 5 G. Brega, Villino Ruggeri, Pesaro. Fig. 6 A. Oliva, Tecnopolo, Reggio Emilia,
10 Solo il 12% dei suoi abitanti di Roma vive nel centro ottocentesco. 11 M. Augè, Periferie al centro, Milano, Jaca Book 2017.
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F. Indovina, Ordine e disordine nella città contemporanea, Milano, Franco Angeli 2017. 13 La pietra di Portland viene imitata da un suo surrogato molto più economico, il calcestruzzo, che proprio in quegli anni viene inventato; la ghisa, colata all’interno di stampi che imitano gli ordini classici, viene impiegata regolarmente nelle nuove architetture in elementi che possono essere acquistati su cataloghi. 14 L. M. Fabris, Iba Emscher Park 1989-1999, Roma, Testo&Immagine 2004. 12
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Paradossalmente, sui margini urbani si sfumano e dissolvono identità e contenuti delle forme della città tradizionale, in parte sovvertita12. Senza centro non c’è periferia, e viceversa: la forte concentrazione del primo forse serve a compensare la grande vacuità della seconda. Pertanto, le periferie sono sempre esistite, la novità contemporanea è solo nel rapporto dimensionale con il centro. D’altronde, il problema della periferia esiste solo nella città moderna come sua perimetrazione, come espressione urbanistica del sopravvento del privato sulla città, la dispersione in luogo della condensazione del pubblico, sempre in ambiti ben definiti propri della tradizione (Fig.4). Il restauro dei Moderni Ruskin ha assistito alla formazione delle prime periferie (proto-industriali) delle città moderne vedendo in queste un chiaro pericolo per i nuclei storici “aggrediti”. Questa forte avversione s’inscrive nei confronti del sistema di produzione meccanizzato che pensava potesse rendere schiavi gli operai. Quindi, contrarietà espressa anche verso il prodotto di tale sistema e i nuovi materiali impiegati, da cui il rifiuto per il progresso e le nuove tecnologie, a favore invece per la rinascita dell’artigianato, considerato al pari dell’arte. Nel grande capitolo centrale de Le pietre di Venezia, “Sulla natura del Gotico”, aveva infatti accusato la disumanizzazione del lavoro industriale, contrapponendo a essa il carattere corale della produzione artistica e architettonica gotica, nella quale l’operaio ha un ampio margine di creatività, consentito dall’irregolarità dell’opera complessiva che poteva essere interpretata dagli artigiani costruttori. E proprio nei primi anelli e propaggini espansive delle città europee, tra la fine e l’inizio del nuovo secolo, prenderà corpo l’edificazione di molta architettura Liberty, con la riscoperta delle arti applicate. Il movimento dell’arte nuova traeva le sue origini dall’ideologia estetica e umanitaria anglosassone delle Arts and Crafts, che annoverava tra i suoi massimi esponenti proprio William Morris, l’allievo più famoso di Ruskin, che aveva posto l’accento sulla libera creazione dell’artigiano come unica alternativa alla meccanizzazione e alla produzione seriale di oggetti considerati di dubbio valore estetico. Il movimento reazionario, rielaborando questi assunti dai toni socialisti utopisti, aprì la strada a quello che diventerà il design e l’architettura moderna (Fig.5). In un primo momento, queste opere architettoniche vennero definite troppo eclettiche e licenziose, troppo decorative le prime e troppo spoglie le seconde, per cui non ottennero alcuna attenzione conservativa, anzi venivano denigrate. Solo a distanza di decenni se ne è riconosciuto il vero valore culturale e le opere superstiti sono diventate a loro volta oggetto di tutela e attento restauro, spesso rimaste inglobate nelle tante prime periferie urbane. La nascita della disciplina del “restauro del moderno” ha cercato di applicare le stesse metodiche alle opere del Movimento, per conservarne l’autenticità realizzativa e dei materiali impiegati. Nella pubblicazione di Le sette lampade dell’architettura, viene introdotto il problema del restauro e il legame che esso ha con l’architettura, la civiltà e l’estetica, gli elementi che concorrono a definire il termine “verità”, che è per Ruskin necessario in architettura. Necessità di impiegare materiali autentici, quali il marmo e la pietra, e non materiali che li imitano, come quelli di produzione industriale, all’epoca molto in voga. L’autore si scaglia contro l’architettura falsa e industrializzata dell’Ottocento inglese, che impiegava elementi prodotti in serie industriale13. La riscoperta dei materiali au-
tentici sarà in seguito uno dei cardini su cui si baserà tutta l’architettura moderna, soprattutto nella sua visione organicista. È fondamentale l’attribuzione che Ruskin dà all’architettura di una dimensione temporale: per l’autore, la progettazione non riguarda solo l’edificazione ma anche la vita e la manutenzione dell’edificio, pertanto il restauro è strettamente connesso al fattore tempo. Un intervento di restauro è per lui un’azione di manomissione, un intervento menzognero, poiché compie, con l’inganno, una reintegrazione dell’immagine dell’opera architettonica, forse mai esistita, annullando il suo aspetto antico, che permetteva di immaginare quello che non esiste sapendo appunto che si è perduto (si spaccerebbe per antico l’intervento che dovrà sempre essere distinguibile, ammettendo pure puntellature se necessarie). A esso propone, in alternativa, una soluzione, forse contraddittoria con le sue stesse tesi anti-restaurative, ma senza dubbio modernissima nella concezione e improntata alla massima onestà, ovvero quella basata sulla necessità della manutenzione costante e programmata, che non escluderà, anzi ammetterà la morte del monumento quando arrivato a “fine ciclo”. Il valore di antichità e di autenticità di un’opera era data da Ruskin tramite la “patina” che la ricopriva, segno del tempo che testimoniava la sua vita e la sua individualità materiale, legate agli usi originari. Questa interpretazione del restauro non ha trovato di fatto molte applicazioni significative e intenzionali riguardo monumenti antichi, mentre invece ha trovato un inaspettato riscontro nei confronti di interventi conservativi di edifici proto-industriali, associata alle pratiche di “archeologia industriale”. È sorprendente che proprio nei confronti degli edifici industriali, che hanno segnato una svolta fondamentale della civiltà urbana, le ideologie che Ruskin aveva messo a punto per il patrimonio architettonico storico delle città abbiano trovato un terreno fertile di applicazione, nella conservazione del patrimonio costruttivo industriale tanto avversato. Significativo di questo approccio integralista è stato senza dubbio il progetto per l’insediamento produttivo della Ruhr, in Germania, realizzando nell’ultimo decennio del secolo scorso l’Emscher Landschaftspark, nel quale i monumenti industriali sono considerati testimonianze storiche di un’epoca superata (dopo la de-industrializzazione e la riconversione ambientale dell’intera vallata) e come tali in buona parte salvaguardati e non manomessi, forse destinati alla rovina totale, altri invece sono stati rifunzionalizzati e ibridati con nuovi linguaggi14. Quest’anno è stato ultimato un secondo intervento di recupero delle acciaierie Reggiane di Reggio Emilia: negli interventi per realizzare il Tecnopolo, le costruzioni originarie e selezionate rimangono pressoché intonse, come grandi contenitori “aperti” di muratura e acciaio, all’interno dei quali sono state realizzate nuove costruzioni in legno, autoportanti e reversibili, indipendenti, per le nuove attività. La lettura del tempo consente così di leggere distintamente più momenti di vita degli edifici, compreso le tracce del periodo recente, fatto di abbandono, incuria, conservando le tracce delle “occupazioni” improprie con i murales dei “graffitari”. Questi interventi sono forse il risultato attuale inaspettato di un pensiero oramai secolare di un personaggio che è riuscito a collocarsi al di fuori del proprio tempo e, proprio per questo, alcune sue teorie possono trovare efficacia in altri tempi, come solo i sognatori sanno fare (Fig. 6).
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Tutela e Conservazione
Raffaele Amore
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La diffusione del pensiero di John Ruskin in Italia attraverso il contributo di Roberto Di Stefano Raffaele Amore | raffaele.amore@unina.it Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Napoli Federico II
Abstract This contribution offers a series of reflections on the influence that Roberto Di Stefano’s writings dedicated to John Ruskin in spreading the ideas of the Victorian writer in the field of conservation have had. As has been pointed out, Ruskin’s works have enjoyed good spread throughout Europe until the first half of the 20th century. After a brief period of oblivion, in the second half of the 1960s, they were the subject of renewed interest. The book of Roberto Di Stefano John Ruskin. Interprete dell’architettura e del restauro published in 1969, it is the first essay entirely dedicated to analysing Ruskin’s contribution to the definition of modern conservation. Its publication is part of research and events of extraordinary importance that well illustrate the study activity that characterized the end of the sixties and the beginning of the seventies, and represents the start of further studies and research that will contribute significantly to the dissemination and analysis of Ruskin’s writings in the field of architecture and conservation. Parole chiave Ruskin, Di Stefano, conservazione integrata, benessere umano
Su Roberto di Stefano vedasi Roberto di Stefano. Filosofia della conservazione e prassi del restauro, a cura di A. Aveta e M. Di Stefano, Napoli, Arte Tipografica 2013. 2 Vedasi, tra gli altri, E. Sdegno, 1900-1946: Le prime traduzioni artistiche, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini editore 2006, pp. 221-246; Postérité de John Ruskin. L’héritage ruskinien dans 1
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Il presente contributo propone una serie di riflessioni sull’influenza che hanno avuto gli scritti di Roberto Di Stefano1 dedicati a John Ruskin nella diffusione delle idee dello scrittore vittoriano nel campo della conservazione. Come è stato evidenziato le opere di Ruskin hanno goduto di una buona diffusione in tutta Europa2 fino alla prima metà del Novecento. Dopo un breve periodo di oblio, nella seconda metà degli anni Sessanta3, sono state oggetto di un rinnovato interesse. Il volume di Di Stefano John Ruskin. Interprete dell’architettura e del restauro4 del 1969 (fig. 1) rappresenta il primo saggio interamente dedicato ad analizzare il contributo di Ruskin alla definizione della moderna disciplina della conservazione. La sua pubblicazione si inserisce nell’ambito di ricerche e manifestazioni di straordinaria importanza che ben illustrano l’attività di studio che caratterizzò la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, tutta rivolta alla affermazione di una specificità e una autonomia disciplinare. A Napoli, in particolare, nello stesso anno fu fondata da Roberto Pane
l’attuale “Scuola di Specializzazione in Restauro dei Beni Architettonici e del Paesaggio”5; tre anni dopo Di Stefano iniziò la pubblicazione della rivista Restauro, Quaderni di restauro dei monumenti e di urbanistica dei centri antichi. Il citato volume di Di Stefano si articola in quattro capitoli seguiti da una serie di passi scelti dagli scritti di Ruskin6, oltre ad un’interessante prefazione di Roberto Pane7. Il primo capitolo è dedicato al racconto di quelli che per Di Stefano rappresentano i cinque periodi significativi della vita di Ruskin. La scelta di associare ai suoi interessi speculativi le vicende della sua tormentata vita affettiva trova giustificazione nella tesi proposta nel secondo capitolo, Infermità e percezione visiva, con la quale Di Stefano, rifacendosi alle teorie di Huxley8, propone una lettura della produzione ruskiniana basata sulla psicologia della visione. Gli stimoli visivi che ci provengono dalla realtà fenomenologica che ci circonda sono percepiti da ognuno di noi in modo totalmente personale, secondo meccanismi che attengono alla sfera psicologica. In particolare, Di Stefano scandaglia, evidenziandole, le ‘variabili personali’ di Ruskin, per spiegare come queste abbiano influenzato la sua percezione della natura e delle cose9. Esaminati tali aspetti, Di Stefano passa a descrivere le caratteristiche socio-economiche, politiche e culturali dell’Inghilterra vittoriana10, evidenziando come Ruskin11 sia stato tra i primi a rendersi conto delle condizioni di alienazione nelle quali l’uomo si sarebbe venuto a trovare a seguito dell’industrializzazione. La raccolta di saggi economico-politici Unto This Last (1860) ben testimonia le sue tesi sull’argomento e la lucidità della sua analisi12. Come è stato osservato da molti Autori, però, la giusta opposizione ai tanti fenomeni negativi dell’industrialismo e la profonda insofferenza verso le ingiustizie sociali, lo portò a proporre come alternativa l’‘anacronistico’ modello della società medievale13. All’esame parallelo del contributo alle teorie del restauro di Viollet-le-Duc14 e di Ruskin è dedicato l’ultimo capitolo del volume in esame, nel quale l’autore mette a confronto le differenze esistenti tra i due personaggi, a cominciare dal modo con il quale entrambi guardavano al medioevo, per evidenziare, poi, il diverso atteggiamento nei confronti del restauro. Di Stefano sottolinea che per Ruskin la riflessione sul restauro trascende gli aspetti tecnici: il suo oggetto è la conservazione dei monumenti in quanto documenti della civiltà del passato, testimonianza viva di tutti gli uomini e delle collettività che li hanno costruiti, utilizzati e trasformati, memoria del passato indispensabile «alla formazione di una società migliore»15 e, in generale, al benessere dell’uomo. Si tratta di un’interpretazione di straordinario interesse, in continuità con il dibattito che precedette e seguì la redazione della Carta di Venezia del 1964 e i due convegni Gli architetti moderni e l’incontro tra antico e nuovo, svoltisi rispettivamente a Venezia e Firenze nel 1965 e 1966, che videro Roberto Pane – e il suo allievo Di Stefano – in prima linea nella definizione di un nuovo modo di intendere la disciplina del restauro. Sul finire degli anni Sessanta del Novecento, infatti, i contrasti e le negative conseguenze generate dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse, dall’inquinamento, dalle disuguaglianze sociali, ecc., erano già divenuti una realtà con cui fare i conti per molti dei paesi occidentali. A fronte di ciò, cominciò a maturare la consapevolezza che alla complessità dei fenomeni economici, politici e culturali della società contemporanea non si poteva fornire risposte parziali, ma che, viceversa, occorreva affrontare le diverse questioni del vivere umano in una logica di sistema16. Una consapevolez-
les textes littéraires et les écrits esthétiques, a cura di I. Enaud-Lechien, J. Prungnaud, Rencontres, Classiques, Paris, Garnier 2011; A. Grimoldi, John Ruskin nella cultura tedesca tra Otto e Novecento, «ANANKE», 2, 86, gennaio 2019, pp. 6-13. 3 In particolare, si fa riferimento al volume di Clark più volte citato dal Di Stefano: K. Clark, Ruskin today, New York, Holt, Rinehart and Winston 1964. 4 R. Di Stefano, John Ruskin. Interprete dell’architettura e del restauro, Napoli, ESI 1969. Il volume di Di Stefano è citato da quasi tutti gli Autori che si sono interessati al contributo di Ruskin alla definizione della moderna teoria della conservazione. Non mancano, però, giudizi negativi, come quello espresso da Leone, cfr. G. Leone, Il pensiero e l’opera di John Ruskin, Roma-Bari, Laterza 1987, p. 85, n. 24. 5 A. Pane, Le origini della ‘Scuola di Perfezionamento in Restauro dei Monumenti’ dell’Università degli Studi di Napoli, 1969-1988, in Roberto di Stefano… cit., pp.113118. Di stefano fu Direttore della citata scuola dal 1976 al 2000. 6 Nel volume sono pubblicati passi scelti estratti da diverse opere di Ruskin, in taluni casi tradotte in italiano per la prima volta. 7 S. Casiello, R. Picone, John Ruskin e il mezzogiorno d’Italia. Gli esiti sulla conservazione dei beni architettonici nel Novecento, in L’eredità di John Ruskin… cit., pp. 65-82. 8 Di Stefano fa esplicito riferimento al volume A. Huxley, Letteratura e scienza, Milano, Il Saggiatore 1965. Probabilmente l’interesse di Di Stefano per tali tematiche si deve alle ricerche sull’argomento portate avanti in quegli stessi anni da Roberto Pane: A. Pane, Da Croce a Jung: Roberto Pane tra estetica, psiche e memo-
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za che rappresenta probabilmente il messaggio più alto della produzione ruskiniana, così come ben ha sottolineato Renato De Fusco. Secondo lo storico napoletano, infatti, le considerazioni di Ruskin insegnano che «non è possibile modificare alcun settore della vita associata, arte compresa, se non si modificano in pari tempo tutti gli altri»17 e che, dunque, occorre l’«integrazione di tutti i problemi che si intendono risolvere»18. Di Stefano nel far proprie tali riflessioni conclude il suo volume segnalando che: Una visione così ampia dei valori e dei significati dei problemi teoretici della conservazione dei beni culturali, che abbraccia, in un discorso solo, tutti i molteplici aspetti della questione, da quello sociale ed educativo, a quello storico ed a quello etico ed estetico, qualifica John Ruskin quale vero fondatore e precursore delle moderne teorie in materia19.
ria, in Memoria, Bellezza e Transdisciplinarità, riflessioni sull’attualità di Roberto Pane, a cura di A. Anzani, E. Guglielmi, Santarcangelo di Romagna, Maggioli 2017, pp. 29-58. 9 R. Di Stefano, John Ruskin… cit., p. 54; A. Aveta, Roberto Di Stefano: un protagonista nello sviluppo del restauro e della conservazione, in Roberto di Stefano… cit., pp. 55-62; B. G. Marino, Attualità di un percorso per la conservazione: l’immanenza dei valori nella ricerca di Roberto Di Stefano, in Roberto di Stefano… cit., pp. 85-88. 10 L’Inghilterra in epoca vittoriana fu interessata da velocissimi processi di trasformazione economica, sociale e urbana, che la collocarono in una posizione avanzata rispetto agli altri paesi europei: per tale ragione dovette per prima affrontare i problemi propri dell’era industriale come la crescita incontrollata delle città e le diseguaglianze sociali. L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, 1. La città industriale, Roma-Bari, Laterza 1992 (prima edizione 1960), pp. 149-206; C. Dickens, Hard times, London, Bradbury &Evans 1854 (ed. italiana consultata Einaudi, Torino 2006, trad. di M.R. Cifarelli).
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Negli anni successivi all’uscita del volume di Di Stefano furono pubblicate nuove traduzioni delle opere di Ruskin20, arricchite da interessanti saggi introduttivi. Tra queste spicca quella de Le sette lampade dell’Architettura, del 1981 ad opera di R. M. Pivetti, con la presentazione di Di Stefano (fig. 2, 3). Le sette lampade dell’Architettura pubblicato nel 1849 e, poi, ristampato nel 1880, è tra tutti i volumi di Ruskin quello che più specificatamente affronta il tema dell’architettura e del rapporto che si determina tra questa e l’uomo. Di Stefano evidenzia alcune questioni di grande interesse dibattute nello scritto, a cominciare dai concetti di conservazione e di restauro: il dovere della “conservazione dell’architettura che già possediamo”, […] non consiste affatto nel restaurare […]. Anzi, deve essere ben chiaro, afferma Ruskin, che “il restauro è distruzione” (Aforisma 31); il nostro dovere è, appunto, di impedire il restauro, abbiatene cura e “non avrete alcun bisogno di restaurarli”21.
Benvero, aggiunge Di Stefano «per lo stesso Viollet-le-Duc il restauro era da considerarsi una distruzione dell’opera d’arte […] “Gli architetti (scrive Viollet-le-Duc) non devono mai perdere di vista il fatto che lo scopo dei loro sforzi è la conservazione di questi immobili e che la via per raggiungere tale fine è la cura messa nella loro manutenzione […] il restauro di un edificio resta […] una necessità spiacevole”»22 ma, comunque, una possibilità. Per Ruskin no, si tratta di una possibilità che non esiste: “È una necessità di distruzione. Accettatela come tale; e allora demolite tutto l’edificio [...], ma fatelo onestamente e non elevate un monumento alla menzogna, al loro posto”. La verità è ben altra, afferma Ruskin, riferendosi esplicitamente all’esperienza francese, è che “il principio che vige oggi consiste, prima, nel trascurare gli edifici per procedere, poi, al loro restauro”23.
Il rinnovato interesse per l’opera di Ruskin registratosi a partire dalla fine degli anni Sessanta ha influenzato positivamente l’evoluzione del dibattito disciplinare nei decenni successivi sotto molteplici punti di vista. Tra questi, la presa di coscienza che per sviluppare idonee politiche di conservazione a livello urbano occorre valutare e incidere anche su altri aspetti della vita sociale ed economica. La ‘Carta Europea del Patrimonio architettonico’24 rappresenta, in tal senso, un documento di straordinario interesse. Affermazioni quali L’incarnazione del passato nel patrimonio architettonico costituisce un ambiente che è indispensabile all’equilibrio ed alla completezza dell’uomo […] Il patrimonio architettonico è un capitale spirituale, culturale, economico e sociale di insostituibile valore […] Le strutture degli insiemi storici favoriscono l’equilibrio armonico della società […] Il patrimonio architettonico ha un valore educativo determinante25
Fig. 1 Copertina del volume J. Ruskin, Interprete dell’architettura e del restauro a cura di Roberto Di Stefano, Napoli, ESI 1969. Fig. 2 Copertina del volume Le sette lampade dell’Architettura di John Ruskin, Milano, Jaca Book 1981. Fig. 3 Pagina pubblicitaria dei volumi di Ruskin editi dalla casa Editrice Smith, Elder and Co, pubblicata alla fine dell’edizione del 1849 de The seven lamps of architecture.
rappresentano l’evoluzione contemporanea del pensiero di Ruskin ed evidenziano il delicato rapporto tra il benessere umano e le trasformazioni dell’ambiente26, nel senso più ampio del termine. Purtroppo, a distanza di quasi cinquant’anni dalla redazione di tale Carta e nonostante il vivace dibattito che ne è seguito e lo sviluppo di studi e ricerche nel campo dell’economia applicata ai beni culturali ed alle trasformazioni urbane27, va preso atto che nulla o quasi di quanto auspicato dalla stessa ha trovato applicazione, né la «messa a punto di idonei mezzi giuridici, amministrativi, finanziari e tecnici», né la definizione di modalità partecipative della popolazione interessata, tanto che si può tranquillamente affermare che i principi della Conservazione integrata sono stati più dibattuti che applicati e che problematiche come i cambiamenti climatici e l’inquinamento – strettamente collegati al modello industriale tanto avversato da Ruskin – rappresentano oggi più che mai la vera sfida che l’umanità deve affrontare. Non sono mancati, poi, sviluppi relativi alla effettiva influenza del pensiero di Ruskin nella prassi operativa del restauro. Di Stefano sulla questione sottolinea, come molti altri Autori, l’ortodossia ruskiniana per la quale nessun intervento di restauro è possibile. Amedeo Bellini è tra coloro, invece, che cominciarono a chiedersi se fosse possibile individuare nuove prassi operative partendo proprio dalle idee di Ruskin. In particolare, egli nel 1984 dalle pagine delle rivista «Restauro»28, affermava ch Non è possibile considerare assorbite le istanze ruskiniane nelle tesi boitiane del 1883, e tanto meno nella contraddittoria pubblicistica del fondatore del restauro filologico o nei successivi svolgimenti della cultura del restauro, da quello scientifico a quello critico», evidenziando che «Soltanto la difesa dell’integrità di ogni documento materiale, in qualunque contesto, il riconoscimento della inseparabilità sostanziale dei valori spirituali dalla materia in cui si sono concretizzati, può consentire il superamento della situazione attuale.
Basandosi su un modello storiografico che presuppone la relatività e la provvisorietà di ogni giudizio storico, dunque, Bellini e con lui molti altri Autori – si attesta su posizioni di totale rispetto del documento materiale, considerato fonte di informazione autentica, che deve essere conservato nella consistenza fisica in cui è giunto fino all’at-
G. Rocchi, John Ruskin e l’origine della moderna teoria del restauro, «Restauro», 13-14, 1974, pp.13-73. Per i legami della figura di Ruskin con quella di W. Morris, vedasi anche: F. La Regina, William Morris e l’Anti-Restoration Movement, «Restauro», 13-14, 1974, pp. 77-149; B. G. Marino, William Morris. La tutela dei monumenti come valore sociale, Napoli, ESI 1993. Si tratta di studi e ricerche sviluppatesi sotto la guida di Di Stefano nell’ambito dell’attività della citata Scuola e della rivista «Restauro». 11
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tualità, negando ogni possibilità di selezione fra le testimonianze. Ne consegue che, come ha osservato Marco Dezzi Bardeschi, il restauro è […] da intendersi come tempestiva manutenzione e rigorosa garanzia di conservazione […]»29 e, dunque, deve tendere «ad acquistare la completa padronanza dei processi di degradazione […] e delle tecniche specifiche di conservazione30.
Il richiamo alla conservazione in contrapposizione al restauro, osserva Carbonara, si è «sviluppato secondo due linee antitetiche, quella della pura conservazione e quella […] della manutenzione ripristino»31. Il ricorso alla manutenzione intesa come unica forma possibile di restauro e volontà di ampliare il campo di azione disciplinare anche alle più modeste testimonianze del passato, rappresentano i presupposti comuni ai due citati orientamenti che, però, si attesteranno su posizioni diametralmente opposte dal punto di vista operativo. Da un lato chi, in nome della conoscenza delle antiche tecniche, proporrà un concetto di manutenzione come ripristino32, filologicamente e documentariamente fondato, dall’altro chi perseguirà la cura e la conservazione integrale del documento, rinunciando a procedere ad ogni valutazione selettiva dell’opera del passato. Nell’ambito di tale contrapposizione dialettica e di una possibile terza via che Carbonara ha definito critico-conservativa – e che probabilmente meglio riesce ad intercettare le istanze di conservazione della preesistenza e di trasmissione dei relativi valori alle future generazioni – negli ultimi venti anni si sono sviluppati una serie di studi e ricerche che testimoniano la vitalità della disciplina del restauro architettonico e la ricchezza del suo apparato metodologico e critico, a cui, purtroppo, mediamente non corrisponde una prassi operativa così articolata e di qualità. Ripensare oggi al contributo di Ruskin alle moderne teorie del restauro rappresenta l’occasione per ribadire la necessità che efficaci politiche di conservazione e salvaguardia del patrimonio storico devono svilupparsi nell’ambito di processi di pianificazione più ampi e che, a livello di singolo intervento, occorre superare il divario creatosi tra le teorie e la prassi operativa, mirando ad elevare la qualità della progettazione e dell’esecuzione degli interventi di restauro.
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Tale aspetto è evidenziato anche da Roberto Pane nella prefazione al volume di Di Stefano (p.12): «la capacità (di Ruskin) di cogliere il centro delle situazioni sociali e di demistificare […] le ideologie del mondo borghese, è tanto straordinaria da reggere a qualsiasi confronto». Per le traduzioni di Unto This Last in italiano vedasi: E. Sdegno, 1900-1946… cit.; G.Rocchi, John Ruskin… cit., pp.48-58. A. Petrella, John Ruskin e l’economia politica dell’arte, «Restauro», n. 91-92, 1987, pp.7-88. 13 R. Di Stefano, John Ruskin… cit., pp.62-63. In particolare, si fa riferimento all’esperienza della Guild of St. George che Ruskin fondò nel 1871. <https://www.guildofstgeorge.org.uk/> (8 luglio 2019). 14 Le osservazioni Di Stefano dedicate a Viollet-le-Duc sono di grande interesse e saranno integrate ed aggiornate da altri studi sull’architetto francese pubblicati sulla rivista «Restauro» sotto l’egida di Di Stefano: Viollet-le-Duc e il restauro dei monumenti, «Restauro», 47-49, 1980, pp. 5-291; A. M. Di Stefano, Eugène Viollet le Duc. Un architetto nuovo per conservare l’antico, Napoli, ESI 1994. 15 R. Di Stefano, John Ruskin… cit., p. 84. 16 T. H. Eriksen, Fuori controllo. Un’antropologia del cambiamento accelerato, Torino, Einaudi 2017. 17 R. De Fusco, L’idea di architettura. Storia della critica da Viollet-le-Duc a Persico, Milano, ETAS KOMPASS 1961, p. 21. Il passo è citato da Di Stefano a p. 74 del suo volume. 18 Id. 19 R. Di Stefano, John Ruskin… cit., p. 54; G. Carbonara, L’eredità smarrita di John Ruskin, «ANANKE», 86, gennaio 2019, pp. 6-9; A. L. Maramotti Politi, Ruskin fra architettura e restauro, in La cultura del restauro. Teorie e fondatori, a cura di S. Casiello, Venezia, Marsilio 1996, pp.121-144. 20 In particolare, R. Monti, Introduzione a “John Ruskin, Le pietre di Venezia e Mattinate fiorentine”, Firenze, Vallecchi 1974; F. Gazzoni Pisani, Introduzione a “John Ruskin, The stones of Venice”, Roma 1981; F. Bernabei, Introduzione a “John Ruskin, La natura del gotico”, Milano, Jaka book 1981. 21 R. Di Stefano, Presentazione a Le sette Lampade dell’architettura, Milano, Jaca Book 1981, p. 21. 22 Ibidem. 23 Id. 24 Fu adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 26 settembre 1975 e promulgata al Congresso sul Patrimonio architettonico europeo (Amsterdam, 21-25 ottobre 1975). M. A. Oteri, Ruskin, Di Stefano e le virtù spirituali della conservazione, in Roberto di Stefano… cit., pp. 108-112. 25 Ibidem. 26 P. D’Angelo, La presenza di Ruskin nell’estetica italiana, in L’eredità di John Ruskin… cit., pp.109-118. D’Angelo sottolinea il legame tra le idee di Ruskine quelle di Rosario Assunto, autore studiato e citato da Di Stefano, soprattutto in relazione al rapporto tra le città antiche e le addizioni moderne. 27 Al riguardo si rimanda ai tanti saggi pubblicati sull’argomento sulla rivista Restauro ed alla produzione di autori come Francesco Forte e Luigi Fusco Girard. 28 A. Bellini, Riflessioni sull’attualità di Ruskin, «Restauro», 71-72, 1984, pp. 63-84. 29 M. Dezzi Bardeschi, Restauro: costruire, distruggere, conservare, «Rinascita», 39, ottobre 1976. Ripubblicato in M. Dezzi Bardeschi, Restauro: punto e da capo. Frammenti per una (impossibile) teoria, a cura di V. Locatelli, Milano, Franco Angeli 1991, p. 44. Dezzi Bardeschi è stato uno degli artefici della pura conservazione e, dunque, si rimanda alla sua vasta bibliografia ed al suo ultimo volume M. Dezzi Bardeschi, La conservazione accende il progetto, Napoli, artstudio Paparo 2018, con un saggio di B. G. Marino. 30 Ibidem. 31 G. Carbonara, Gli orientamenti del restauro architettonico, in Restauro dalla teoria alla prassi, a cura di S. Casiello, Napoli, Electa Napoli 2000, pp. 9-26. 32 Sulla questione si rimanda alla vasta produzione bibliografica di Paolo Marconi. 12
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J. Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, Londra 1849, ed. it. Milano 1982, af. 31, p. 226. 2 Matias Laviña è nato a Zaragoza il 24 febbraio del 1796, figlio di D. Felix, di Zaragoza, e di Maria Blasco, di Daroca. Da giovane studia all’interno del Colegio Escolapios, a Zaragoza, ed anche all’Academia de Nobles Artes de San Luis, in questa sede dimostra una naturale sensibilità al disegno. Il giovane risulta molto abile anche per il canto, e il padre decide di inviarlo a Roma, per offrirgli una buona formazione; vi giunge all’inizio del 1817. 3 La Academia de Bellas Artes de San Fernando è creata ufficialmente il 12 aprile del 1752, dipendente direttamente dalla Corona di Fernando VI, con il nome di Real Academia de las 3 Nobles Artes de San Fernando. Possibilmente c’è stato un impulso per la sua creazione dopo l’incendio dell’Alcazar di Madrid del 1734; con le deliberazioni tra il Marques di Villarias, Secretario del Despacho del Estado e lo scultore della Casa Reale Juan Domingo Olivieri. Nel 1744 nasce la Junta Prepa1
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L’eredità di John Ruskin in Spagna tra la seconda metà del XIX secolo e gli inizi del XX secolo Calogero Bellanca | calogero.bellanca@uniroma1.it Sapienza Università di Roma
Susana Mora | susana.mora@upm.es Universidad Politécnica de Madrid
Abstract From the well-known axiom contained in the Lamp of Memory published in 1849 it is believed, among other things, to remember: «[...] where the wall structure shows stretch marks, keep it compact using iron; and where it yields, prop up it with beams; and don’t worry about the ugliness of these support interventions: better to have a crutch than to remain without a leg»1. From this assertion by John Ruskin, clear receptions can be found in Spain that are still little known. A first echo is found in Matias Laviña, a Spanish architect2 cwith Roman training, who designs and tries to implement in 1860 at the cathedral of Leon, a “restoration” intervention. He presents a solution to support the pre-existence with all its constructive defects, for which he proposes tie rods that cross the aisles of the church and inserts them in the pillars and walls to avoid subsequent deformations. But the San Fernando Academy3 does not accept this project. A second cultural legacy can be found in the Marquis of Vega Inclan4, who takes up and continues on this reflective line with some ideas. «The ruin that is visible, degraded and deformed by the action of many centuries, cannot withstand the confrontation with the remakes, so the restorer continues to improve everything, and causes ruin to disappear, while this was the precise goal that one had to preserve »5 (1914). He insists, among other things, on a consolidation without disturbing, without replacing, without many new elements, and these theories make them effective in 1915 at the Patio del Yeso in Seville. This solution will be what Vicente Lamperez y Romea6 defines as «constructive orthopedics without aesthetic garments» With these first claims it seems that Ruskin’s presence in Spain has been accepted. Parole chiave Conservazione, consolidamento, manutenzione, tiranti
Matias Laviña architetto restauratore della Cattedrale di León Matías Laviña giunge a Roma nel 1817; lui inizialmente voleva studiare canto, ma viene folgorato dai monumenti romani e all’Accademia di San Luca studia disegno, anatomia, prospettiva e ancora matematica, fisica, chimica, storia, antichitá, ornamentazione architettonica, composizione e costruzione; quindi decide di formarsi come architetto.
Laviña si trova a Roma proprio negli anni nei quali si avviano gli importanti interventi di restauro con l’inserzione dello sperone orientale al Colosseo nel 1806-1807, ad opera di Raffaele Stern, e quelli in fase di attuazione all’Arco di Tito dal 1818 al 1824, ad opera di Stern e Valadier. Si ricordi inoltre che il 18 settembre 1825 Papa Leone XII Della Genga fissava nel famoso chirografo ispirato da Carlo Fea i criteri per la ricostruzione della Basilica di San Paolo Fuori le Mura, andata a fuoco tra il 15 e il 16 luglio del 18237. Egli ottiene il titolo di architetto dell’Accademia di San Luca, il 20 dicembre 1830, previo esame e pratica8; quindi ritorna in Spagna, dopo un soggiorno di tredici anni a Roma. Si ritiene inoltre rammentare che egli era stato protetto dal prelato degli spagnoli (il cardinale J. Francisco Marco y Catalán) che lo aveva incaricato del restauro e della manutenzione degli edifici di proprietà dello Stato spagnolo a Roma, come la Chiesa nazionale di Monserrato (ove sembra che abbia avviato lavori di consolidamento, come scrive nella biografia dopo la sua morte D. Manuel Fernandez y Gonzalez)9. Laviña convalida il suo titolo di architetto presso l’Accademia di Belle Arti di San Fernando a Madrid. Egli inizia a lavorare a Zaragoza, dove progetta il Palazzo con giardino per il Duca di Villahermosa, progetta una decorazione per la scena del Teatro della città, e ancora degli apparati effimeri, quindi l’edificio della Dogana di Canfranc ed insegna alla Escuela Normal. Dopo si reca a Logroño, dove sposa Maria Sinforosa Martinez ed esegue il progetto del Paseo del Siete e l’adattamento del Convento del Carmen come Istituto. Egli viene nominato Segretario del Comitato per la Conservazione dei Monumenti storico-artistici a Zaragoza.
Fig. 1 Matías Laviña, studio della verticalità dei pilastri fondamentali. Catedral de León. Mayo 1860. di “La Casona de la Cat. de León”. Fig. 2 Matías Laviña, progetto di rinforzo con il ferro. Catedral de León. 22 dicembre 1860. di “La Casona de Cat. León”. Fig. 3 Matías Laviña, progetto di rinforzo con il ferro. Catedral de León. 22 dicembre 1860. di “La Casona di Cat. León”.
ratoria, e primi statuti del 1747. Nello stesso anno il re Fernando VI nomina il suo scultore personale Felipe de Castro (tornato dall’Italia) Maestro director de escultura de la Academia. Cosí nasce la Real Academia de las 3 Nobles Artes de San Fernando. Dal 1757 si insegna e si rilascia il titolo
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di architetto, che nel 1847 va al Estudio Especial de Arquitectura, con i nuovi statuti, e che successivamente diventerà la attuale ETSAM (Escuela Tecnica Superior de Arquitectura de Madrid). La sua sede è al Palazzo de Goyeneche alla strada Alcalá de Madrid. 4 Il Marques de Vega Inclán aveva scritto sul restauro dell’Alcazar de Segovia. Egli aveva diretto il restauro de la Casa del Greco a Toledo e la creazione del Museo. Nel 1911 è nominato come primo Commisario Regio de Turismo e dirige il restauro della Sinagoga del Transito a Toledo. 5 Presidencia del Consejo de Ministros. Comisaría Regia del Turismo y Cultura Artistica, La Comisaría Regia de Turismo en La Alhambra de Granada, Madrid, Edit Mateu 1915, pp. 6 e seg. 6 Vicente Lamperez y Romea è un architetto spagnolo che ha scritto molti articoli relativi al restauro dei monumenti. Il suo intervento più importante si trova alla Catedral de Burgos, dove sta lavorando quando il Marques di Vega Inclán scrive sulla Alhambra e fa il restauro del Patio del Yeso dell’Alcazar de Sevilla. Cfr. S. Mora, La Restauracion Arquitectonica en Espana, 1836-1936, Madrid, Kaher 2002.
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Nel 1844 a Madrid è designato accademico di merito dell’Accademia di Belle Arti di San Fernando. Nel febbraio del 1847 vince la Cattedra di Disegno e diventa Ordinario presso l’Accademia di Belle Arti di San Fernando. Egli progetta il Palazzo dei Duchi di Granada di Ega a Madrid ove utilizza per prima volta il “cemento romano”, che impiega anche nelle chiese delle Calatravas e di San Jeronimo il Real sempre a Madrid. La Cattedrale di Leon La Cattedrale di Leon è il primo monumento spagnolo che viene inserito all’interno dell’elenco della tutela e protezione della nazione nel 1844. Il vescovo Barbagero e il Capitolo della Cattedrale scrivono al Governo che la chiesa minacciava rovina e chiedono questo riconoscimento. Il 6 di luglio del 1858 l’architetto e accademico Narciso Pascual y Colomer visita la Cattedrale e la descrive nel suo stato: de la necesidad de contener, apeando, las bóvedas del coro y presbiterio contiguas a los respectivos arcos torales y de preparar un estudio minucioso de levantamiento de planos a diferentes alturas y en secciones horizontales y verticales a fin de hallar los puntos en que hayan de estribar los apoyos que se juzguen necesarios10.
Con un Real Orden del Governo di Sua Maestà, il 3 maggio 1859, Matias Laviña è nominato architetto restauratore della Cattedrale di León. Laviña giunge in città il 28 dello stesso mese, e comincia a lavorarvi, effettua le prime verifiche nella verticalità dei principali pilastri, li disegna e prepara dei documenti che presenta nel 1860. Da questi elaborati si evince che la parte più alta dei pilastri poggiava solo tre piedi nella parte bassa invece di dieci; e anche si notavano delle lesioni verticali nei pilastri principali; per questa ragione insiste che i pilastri superiori costruiti nel 1710 dovevano essere smontati. Laviña compie uno studio del «estilo primordial del templo y de los defectos de su construcción»11, quindi presenta al Governo de S.M. due progetti il 22 dicembre del 186012. Il primo, che si può definire di restauración, elimina la parte pericolante e propone una ricostruzione, rimuovendo tutte le aggiunte improprie del suo carattere original. Ma allo stesso tempo prepara un secondo progetto, (quello che più interessa e attira) con «tiranti di ferro che si inseriscono attraverso le murature e i pilastri per offrire alla preesistenza il rinforzo necessario e impedire le successive deformazioni».13 In sostanza si ritrova un minimo intervento e ancora una idea a noi vicina. Infatti in questo progetto gli elementi necessari per il consolidamento non si nascondono, ma si lasciano in evidenza. (Figg. 1-3). I due progetti vengono inviati all’Accademia di San Fernando di Madrid. Ma la suddetta istituzione preposta a fornire l’approvazione non si esprime a favore del progetto che prevedeva il rinforzo con il ferro. La dichiarazione afferma che: «no sería una restauración propiamente dicha y si solo un recurso para prolongar por unos cuantos años más la existencia de un edificio herido de muerte»14. L’Accademia di San Fernando propone pertanto di eseguire la demolizione della facciata, della cupola e delle volte e ricostruire il tutto nello stesso stile che si pensasse fosse original. Come la si vede oggi, dopo la realizzazione dei complessi interventi. Un altro episodio di interesse si trova a La Alhambra di Granada. Il Marques de Vega Inclan visita La Alhambra di Granada, nel 1913, mentre l’architetto Modesto Cendoya Busquet era il Direttore dei lavori di restauro dal 1 maggio 1907.
Dalle complesse vicende della storia dei restauri si evince che dal 1890, il restauro era stato diretto dall’ architetto Mariano Contreras, che aveva, in un certo senso, il potere decisionale degli antichi governatori. Anche la Alhambra dal 1870, era sotto il controllo della Comisión Provincial de Monumentos, presieduta dall’archeologo Manuel Gomez Moreno15. Contreras si era dimesso nello stesso maggio del 1907, dopo avere avuto alcuni problemi, specialmente con il restauro della Sala della Barca. I lavori di Cendoya sono stati accettati fino al 1911, ma i problemi cominciano con il restauro della Torre de las Damas. In particolare quando si propone la demolizione delle stanze dello scrittore romantico Washington Irving, e del cortile del convento di San Francisco, con il desiderio di volere ricercare la Alhambra nazarí. In questo periodo si realizzano diversi completamenti di ornamentazioni, in particolare all’Oratorio del Partal e similmente al cortile degli Arrayanes. La Commissione dei Monumenti non lo approva e anche il Patronato de Amigos de la Alhambra esprime un parere negativo (un nuovo organismo nato dal Real Decreto 14 marzo 1913 e presieduto dal Duque de Alba nel quale il Marques de Vega Inclan figura come membro)16. Il Marques scrive una relazione che invia al Ministro de Istruzione Publica il 2 maggio 1913 che viene pubblicata da La Comisaria Regia de Turismo nel 1915. In questa relazione egli non si mostra in pieno accordo alla conduzione dei lavori. Infatti egli scrive che l’architetto deve limitarsi a consolidare, senza perturbare, né sostituire, né aggiungere elementi estranei a quelli che ancora si conservano, perché il restauro non è per niente: «una construcción de una fábrica de remolacha, de un restaurant, o de una sala de fiestas estilo morisco»17. Egli definisce le sue idee come delle proposte teoriche. Queste saranno fondamentali per i futuri criteri metodologici del restauro architettonico in Spagna. Vega Inclan riflette ancora criticamente sul completamento dei frammenti che erano spariti dagli antichi addobbi e dagli intonaci di ataurique e di alizares che costituivano la figuratività fondamentale dei monumenti arabi come La Alhambra di Granada, ma anche una vez sacados y vaciados en los talleres, se repasan, se liman, se atormentan, se afilan sus aristas y luego se colocan “plus beau que nature”18.
Fig. 4 L’intervento del Marques de Vega Inclán con José Gómez Millán al Patio del Yeso, Sevilla, 1914 in “La Comisaria Regia de Turismo en la Alhambra de Granada” Madrid 1915. Fig. 5 L’intervento del Marques de Vega Inclán con José Gómez Millán al Patio del Yeso, Sevilla, 1914 in “La Comisaria Regia de Turismo en la Alhambra de Granada” Madrid 1915.
In definitiva si desidera trovare un’immagine unitaria; ma non è possibile leggere nel mosaico la parte antica differenziata dalla parte nuova inserita. Quindi si scrive la ruina visible, carcomida y redondeada en su forma por el sol y la acción de muchos siglos no puede resistir la comparación de los flamantes trozos que la rodean. El restaurador encariñado con su obra, continua mejorandolo todo y fatalmente hace desaparecer la ruina, que es precisamente lo único que debía conservar19.
Il Marques de Vega Inclán ritiene di mettere in pratica le sue idee; quindi cerca di attuarle quando si cominciano i lavori al Patio del Yeso de los Reales Alcazares de Sevilla, che definisce di indagine e consolidamento, insieme all’architetto Jose Gomez Millan. La sua proposta consiste fondamentalmente nel creare strutture che servano di appoggio e sostegno ai frammenti esistenti, in modo che ogni elemento architettonico si possa comprendere ad esempio gli archi, le colonne, i muri, e le ornamentazioni insieme alle inserzioni di rinforzo che si devono leggere come essi sono realmente. I tiranti devono rimanere a vista e le decorazioni si reintegrano con un materiale totalmente diverso e semplice, laddove è necessario per sostenere il tutto. Si può reintegra-
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Calogero Bellanca, Susana Mora
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re la struttura, ma non l’aspetto. Per il Marqués il rispetto dell’autenticità è importantissimo. L’architetto Vicente Lamperez, come già detto, poco dopo lo chiamerà «ortopedia constructiva sin vestidura estetica»20 (Figg. 4-5). La teoria del Marques orienterà le future riflessioni metodologiche dei successori come Leopoldo Torres Balbas e i suoi interventi nel Patio dell’Harem della Alhambra. Ma queste asserzioni saranno anche vicine a quelle di Camillo Boito, Gustavo Giovannoni e altri ancora come Jeronimo Martorell, che sarà il primo architetto del Servei dei Monumenti de Barcelona creato nel 1914. Conclusioni In definitiva le soluzioni del Marques al Patio del Yeso de los Reales Alcazares de Sevilla sembrano seguire le asserzioni di John Ruskin: […] non parliamo dunque di restauro. Si tratta di una menzogna dal principio alla fine. Si può fare la copia di un edificio come la si può fare di un cadavere. Prendetevi cura solerte dei vostri monumenti e non avrete alcun bisogno di restaurarli. Poche lastre di piombo collocate a tempo debito su un tetto, poche foglie secche e sterpi spazzate via in tempo da uno scroscio d’acqua, salveranno sia il soffitto che i muri dalla rovina. Vigilate su un vecchio edificio con attenzione premurosa; proteggetelo meglio che potete e ad ogni costo, da ogni accenno di deterioramento. Dove la struttura muraria mostra delle smagliature, tenetela compatta usando il ferro; e dove essa cede, puntellatela con travi; e non preoccupatevi per la bruttezza di questi interventi di sostegno: meglio avere una stampella che restare senza una gamba21.
Si continua quel sottile e colto atteggiamento culturale in linea con le prime timide, ma valide proposte molti anni prima di Matias Laviña alla Cattedrale di Leon. Laviña aveva avuto una grandissima sensibilità e intuizione derivata dai suoi studi romani che rammenta nella sua seconda proposta operativa per León. Tutto questo molti anni prima che in Spagna si recepissero gli scritti di Ruskin, prima attraverso le traduzioni di Edmundo Gonzalez Blanco, della opera The works of John Ruskin, edita da España Moderna, solamente nel 1906. E ancora dalle edizioni curate da Marcel Proust, e sua Albertine disparue e le descrizioni di Venezia.
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Per l’insieme degli interventi a Roma nei primi anni dell’Ottocento si rinvia a: S. Casiello, Aspetti della tutela dei beni culturali nell’Ottocento e il restauro di Valadier per l’Arco di Tito, «Restauro», II, 5, 1973, pp. 87-91; P. Marconi, Roma 1806-1829: un momento critico per la formazione della metodologia del restauro architettonico, «Ricerche di storia dell’arte», 8, 1978-79, pp. 63-65; M. Jonsson, La cura dei monumenti alle origini, restauro e scavo di monumenti antichi a Roma 1800-1830, Stockholm, Svenska Institutet i Rom 1986; S. Casiello, Problemi di conservazione e restauro nei primi decenni dell’Ottocento a Roma, in Restauro tra metamorfosi e teoria, a cura di S. Casiello, Napoli, Electa 1992, pp. 26-30; G. Carbonara, Restauro archeologico e neoclassicismo, in Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti, a cura di G. Carbonara, Napoli, Liguori editore 1997, pp. 75-100; Restauro architettonico a Roma nell’Ottocento, a cura di M. P. Sette, Roma, Bonsignori 2007. 8 La patente di architetto è unanime e fa menzione dei differenti premi ottenuti alla Pontificia Escuela, ed alle sue opere come Neografia dei Lacunari. Cfr. M. M. Fernandez y Gonzalez, Prologo, in M. Laviña, La Catedral de León. Memoria sobre su origen, instalación, nueva edificación, vicisitudesy obras de restauración, Madrid, Eduardo de Medina editor 1876, pp. 58 e seg. 9 Cfr. M. M. Fernandez y Gonzalez, Biografia, in M. Laviña, La Catedral de León. Memoria…cit., pp. 62 e seg. 10 Narciso Pascual y Colomer (Valencia 1808-Madrid 1870) architetto, è nominato accademico per la Academia de Bellas Artes de San Fernando nel 1833. Sarà anche il primo architetto a dirigere la Escuela Tecnica Superior de Arquitectura de Madrid nel 1864. Per i suoi itinerari e riflessioni rivolti alla tutela dei monumenti spagnoli si può paragonare a Ludovic Vitet e Prospero Merimèe. Egli ha disegnato il Palacio de las Cortes, l’intorno del Palacio Real de Madrid. Inoltre aveva effettuato il restauro della chiesa di San Jeronimo el Real de Madrid. Il Ministro de Gracia y Justicia gli conferisce l’incarico di vedere come è la realtà della Cattedrale e quali sono le necessità per la conservazione. M. Laviña, La Catedral de León. Memoria… cit. 11 M. Laviña, La Catedral de León. Memoria… cit. 12 M. Laviña, La Catedral de León. Memoria… cit. 13 A.G.A. (Archivo general de la Administración) Leg. 24-328A. 14 Academia de Bellas Artes de San Fernando, Informe, 26 giugno 1861. 15 D. Manuel Gomez Moreno era Ordinario di Archeologia Araba presso l’Università Centrale di Madrid e anche pittore e autore della Guida de Granada. 16 Il 29 maggio 1905 era stata creata per Real Decreto, una “Commissione speciale per la Alhambra di Granada”. Archivio Alhambra, legajo 366. 17 El Patronato de la Alhambra è creato per Real Decreto del 16 gennaio 1914. 18 Presidencia del Consejo de Ministros. Comisaría Regia del Turismo y Cultura Artistica, La Comisaría Regia de Turismo... cit., pp. 6 e seg. 19 Ibidem, p. 5. 20 Ibidem, pp. 7 e seg. 21 J. Ruskin, Le Sette Lampade dell’Architettura, Milano, Jaca Book 1982 (Ed. orig. The Seven Lamps of Architecture, Londra 1849), aforisma 31, pp. 226-228. Per tutte le opere di John Ruskin si veda: The complete work of John Ruskin, voll. 1-39, London, George Allen 1903-1912. La bibliografia su John Ruskin è sconfinata, ci si scusa per gli autori non citati, tuttavia si rimanda a: R. Di Stefano, John Ruskin interprete dell’architettura e del restauro, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1969; G. Rocchi, John Ruskin e le origini della moderna teoria del restauro, «Restauro», III, 13-14, 1974, pp. 11-73; S. Tschudi-Madsen, Restoration and Anti-Restoration, a study in English restoration philosophy, Oslo-Bergen-Tromsø, Universitetsforl 1976; A. Bellini, Riflessioni sull’attualità di Ruskin, «Restauro», XIII, 71-72, 1984, pp. 63-84; G. Carbonara, Restauro, Anti-Restauro e Romanticismo in Avvicinamento al restauro…cit., pp. 160-178. 7
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Susanna Caccia Gherardini, Carlo Olmo
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1 C. L.V. Meeks, Books and Buildings 1449-1949. One Hundred Great Architectural Books most influential in Shapimg the Architecture of Western World in «JSAH», 17.2.1949, pp.55-67. 2 L’obituary di Meeks, compare sul numero 4 del 1955 di «JSAH». 3 J. Starobinski, Préface a Hans Robert Jauss, Pour un esthétique de la réception, Paris, Gallimard 1970, pp.9 e sgg. 4 S. Wildman, A Ruskin Bibliography, Lancaster, Ruskin Library and Research Centre, Lancaster University 2004-17. 5 F. Hartog, Régimes d’historicité. Présentisme et expérience du temps, Paris, Le Seuil 2003. 6 J.Ruskin, The opening of the Crystal Palace: considered in some of its relations to the prospects of art, London, Smith, Elder, and co., Cornhill 1854. Sulle diverse edizioni del testo e le modifiche, cfr. E.T. Cook, A. Wedderburn, Library Edition of the Works of John Ruskin, London, 1903-1912, XII, p.416. Tutti i riferimenti alle opere di Ruskin in questo saggio fanno riferimento a questa raccolta, in particolare per il testo del 1854, cfr. Works XII, pp. 417-432.
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Ruskin, il restauro e l’invenzione del nemico. Figure retoriche nel pamphlet sul Crystal Palace del 1854 Susanna Caccia Gherardini | susanna.cacciagherardini@unifi.it Dipartimento di Architettura Università Di Firenze
Carlo Olmo | carlo.olmo@polito.it Dipartimento di Architettura e Design Politecnico di Torino
Abstract «The opening of the Crystal Palace: considered in some of its relations to the prospects of art» was written by John Ruskin in 1854. The Crystal Palace was the first large prefabricated building as a symbol of progress. Ruskin chose a title that was inconsistent with the content, the pamphlet was the occasion for criticise the new style and mainly restoration. The text is a plea for the preservation of ancient monuments and a claim to prevent the destruction of Gothic architecture in the name of restoration occurring all over Europe and especially in France. Parole chiave Restoration, Ruskin, Crystal Palace, exhibition
Sul numero 1/ 2 del 1949 il Journal of the Society of Architectural Historians pubblica una lista di cento books most influential in shaping the Architecture of Western World 1. È un incipit oggi dimenticato di un legame tra scrittura e architettura che sarà poi declinato non con la stessa semplicità di un personaggio autorevole come Meeks, che l’anno dopo, il 1950, sarebbe divenuto Direttore della rivista e poi professore di Architecture and Art History a Yale2. Quella lista non offre solo lo spunto per un ragionamento che la teoria della ricezione solamente negli anni sessanta porterà a una teoresi ben più allargata3, ma consente di avviare un’analisi meno vaga sulla reputazione di John Ruskin. In quella lista di soli cento libri in 500 anni compaiono, con il numero 73 e 74, due testi: The Seven Lamps of Architecture e The Stones of Venice. Il riconoscimento che più interessa è però quello di most influential nel dar forma all’architettura. Una letteratura davvero sconfinata ha trattato Ruskin come letterato, viaggiatore, teorico, filosofo moralista, seguendo oseremmo dire infiniti punti di vista. Come evidenzia la vasta bibliografia redatta da Stephen Wildman nel 2017, quindi ben prima dell’intensificarsi della produzione a ridosso del bicentenario, che riesce a specificare la varietà degli interessi nella singolarità dei volumi4.
Ma se si vuole cercar di misurare l’influenza dello scrittore e della sua scrittura nel dar forma o meno a un’architettura, si è stati quasi obbligati a scegliere un testo. La scelta è caduta su uno saggio considerato in qualche modo minore di John Ruskin, che per di più riguarda la sua storia del tempo presente5 e il suo rapporto con la modernità: The opening of the Crystal Palace: considered in some of its relations to the prospects of art6. Una scelta che è rafforzata nel suo poter essere misura di un “presentismo” inaspettato in Ruskin e declinato in una delle figure retoriche più care alla letteratura romantica: il ritorno. Il Here we are again, pronunziato all’inaugurazione del Sydenham è insieme l’espressione di una fantasia di una possibile longue durèe del programma che sta dietro il nuovo Crystal Palace e di una mise en scéne che si voleva effimera (legata a quella riproducibilità che avrebbe ossessionato quasi tutti sino a Walter Benjamin), e riguarda, non solo come allegoria, lo stesso Ruskin, come ricostruisce Jonah Siegel7. Ma davvero un testo di poco più di venti pagine, riesce ad aiutar a capire i possibili significati di tre parole chiave nella seconda metà dell’Ottocento (allegoria, messa in scena e riproducibilità), non solo per Ruskin, e l’influenza di un testo nella ricezione delle “cose”8 di un’èlite londinese che almeno già dal 1924 viene attentamente studiata9? La prima, possibile conferma viene da una storia che si vuole croisée10, dai testi di Joseph Paxton11 e di Digby Wyat12, due tra i protagonisti di Hyde Park, da una letteratura sterminata che mostra l’esposizione nello specchio delle esposizioni13, inizialmente quella del 1851, poi via via le altre che si realizzano almeno sino a fine Ottocento. In realtà Sydenham rispetto alle altre Esposizioni non solo cambia soggetto – il Commonwealth e non l’universalismo14 –, ma è una ri-costruzione15, ironicamente, pensando a quel che la Gran Bretagna stava ormai discutendo da decenni16, se si vuole un revival. È insieme una copia ingigantita, la stabilizzazione di un’icona, una legacy trovata una volta ancora in quella lingua, metaforica e letteraria, che unisce dalla ricostruzione del tempio di Gerusalemme, rinascita e riforma17, sottofondo essenziale per approcciare la prosa di Ruskin. Il titolo del pamphlet del 1854, cosa piuttosto comune a molti degli scritti ruskiniani, non è altro che un “springboard”, come scrive Cynthia Gamble18, ovvero un punto di partenza dal quale con una virata piuttosto rapida l’autore declina come già detto alcune parole chiave. Un testo che non si discosta dalla tradizionale contraddittorietà delle riflessioni di Ruskin, che tornerà a più riprese a esprimersi sul Crystal Palace19, anche quando ormai avanti con gli anni nell’incompiuto volume Praeterita si lamenterà di come quel gigantesco cucumber abbia stravolto il bucolico paesaggio di Herne Hill20. Con una notazione di non poco conto: l’edificio di cui tratta non è quello ospitato a Hyde Park tra il 1 maggio e il 15 ottobre del 1851, ma la sua ricostruzione-copia-ampliamento-simulacro a Sydenham. Non è certo questa la sede per disquisire delle complesse e già trattate vicende che hanno portato alla realizzazione della “grande serra” a pianta basilicale di Paxton per l’Esposizione Universale, come neppure del fatto che questo edificio in ferro e vetro sia da alcuni considerato incipit e icona della modernità – dall’omonima tela di Pissaro (1871) alla Storia dell’architettura moderna (1950) di Zevi21. Un’architettura per educare, esporre, ma anche come osserva Auerbach, per esibire merci che “dovevano non solo soddisfare il gusto della classe media, ma contribuire a formare quel gusto; non solo educare le persone a cosa consumare, ma consumare in primo luogo”22. Un palazzo che, tra le immagini più consolidate in letteratura da Richards, Hobhouse e dallo stesso Auerbach, rappresenterà a turno “the apotheosis of
J. Siegel, Display Time: Art, Disgust.,and the Returns of the Crystal Palace, in The Yearbook of English Studies, 172010, pp.33-60. 8 C. Olmo, Mots et choses en architecture, Lécon au Collège de France du 24 juin 2014. 9 A. R. Bennet London and Londoners in the Eighteen-Fifties ans Sixties, London 1924 10 Sull’histoire croisée, M. Werner et B. Zimmermann, Penseer l’histoire croisée: entre empirie et réflexivité, in «Annnales HSS», 1, 2003, pp. 7-36. 11 J. Paxton, What is to Become of the Crystal Palace? London. Simpkin, Marshall and Co, 1852, p.4. Cfr al proposito Builder, 21 June 1856, pp.337-8; G.F.Chadwick, Paxton and the Sydenham Park, in «Architectural Review», Vol.129 (February 1961), pp.122-27; Alan Baxter and Associates, The Michel Werner e Crystal Palace Terraces. A Conservation Strategy (February 1995). 12 D. Wyatt, Views of the Crystal Palace and Park in Sydenham, London, Day and Son 1854. 13 L. Aimone, Le Esposizioni nello specchio delle Esposizioni, in C. Olmo. L. Aimone, Le Esposizioni Universali, 1851-1900, Torino, Allemandi 1990, pp.13-49. 14 E. S. De Beer, Gothic: origin and diffusion of the term; the idea of style in architecture, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1948, pp. 143-162. 7
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15 R. Thorne, The Rebuilding of Crystal palace 1851-54: permanent and Better, in «Construction History», 1/2015, pp. 43-62. 16 Nel richiamare sempre l’analogia con il Gotico, lo fa anche se per contrapposizione, lo stesso Ruskin, a volte si dimentica che si è in pieno Gothic Revival. 17 C. Olmo, Testimonianza vs verità: la ricostruzione come paradigma di discontinuità, in C. Olmo, Architettura e Storia, Roma, Donzelli 2013, pp.87-103. 18 C. Gamble, John Ruskin: conflicting responses to Crystal Palace, in F. Dassy, C. Hajdenko-Marshall (sous la direction de), Sociétés et conflit: enjeux et représentation, Paris, L’Harmattan et l’Université de Cergy-Pontoise 2006, pp. 135-149. 19 L’edificio viene battezzato ancor prima della apertura Crystal Palace da Douglas Jerrold sul «Punch». Cfr., L. Pontrandolfo, Londra 1851. Trasparenze e ombre del Crystal Palace in Mayhew e Dickens, in M. Trulli, L. Pontrandolfo, Londra tra memoria letteraria e modernità. Dal Seicento ai nostri giorni, Venezia, Marsilio 2006, pp.165-184.
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commodity fetishism”, “the triumph of Victorian Industry” e “the glorification of the project of Empire”. Trascorsi i sei mesi di apertura, la struttura, nata temporanea – e anche sul passaggio da effimero a permanente molto ci sarebbe da dire23 – diviene immediatamente oggetto di dibattito tra fautori della conservazione della “England’s doom” e i suoi detrattori24. Le proposte sul cosa e come fare dei resti del People Palace arrivano da ogni dove: dal sanatorio, al circo equestre, agli Olympic Games, fino all’idea del ritrattista Spiridone Gambardella di convertirlo in un “Temple of Art”25. Sarà Paxton con altri ad acquistarlo per ricostruirlo, più spettacolare, più grande, con funzioni e mission amplificate, in un mix tra i propositi educativi delle Fine Arts Courts e il divertimento di massa26, sulle colline di Sydenham a sud di Londra, dove rimarrà fino all’incendio degli anni trenta ormai divenuto «a pemanent shrine to the British Empire»27. Ruskin non visita l’Esposizione del 1851, “the great bazaar of Kensington”, dove ci si può perdere tra «plastry arts of our fashionable luxury – the carved bedsteads of Vienna, and glued toys of Switzerland, and gay jewellery of France»28. Un’ostentazione di cianfrusaglie che attirano migliaia di visitatori, che con guida alla mano, si muovono come ipnotizzati racconta Emily Brontë29, tra i tanti scrittori, poeti e viaggiatori che nei decenni hanno lasciato testimonianze più o meno accorate del gigantesco conservatory30. Nel XXI capitolo del primo dei suoi quattro volumi, Alphonse Esquiros, politico, scrittore in esilio a Londra durante l’impero di Napoleone III, ci offre in anni molto vicini31 non solo una delle descrizioni più analitiche di Sydenham, ma lo fa confrontando il nuovo Crystal Palace con “les palais du peuple”. Quella di Esquiros è una lettura comparativa che aiuta a collocare il punto di vista di Ruskin, anche rispetto al costruirsi, davvero complesso, dell’immagine storiografica del Sydenham, persino in ambienti culturalmente vicini al suo. Gli anni cinquanta dell’Ottocento sono anche il momento in cui iniziano a uscire quelle che, forse un po’ impropriamente, si possono chiamare Storie dell’Architettura. Due in particolare escono quasi contemporaneamente al testo sul Sydenham: The Illustrated Handbook of Architecture di James Fergusson32 e Geshichte der Architektur di Wilhelnm Lubke33, entrambe nel 1855. La lingua in cui sono scritte ha un pre-giudizio comune34: ogni stile è storico e deve essere descritto in termini di carattere (vocabolo fondamentale per tutta la teoria e la storiografia artistica francese35), linguaggio, proporzioni e decorazioni territorialmente definite. Le introduzioni ai due volumi non possono qui essere approfondite, ma costituiscono un’autentica dichiarazione di autonomia della scrittura storica da quella letteraria, della fondazione di un genere – la storia comparata – che troverà in Bannister Fletcher il suo punto di arrivo nel 190536 (il tutto inoltre come contributo a una teoria di una possibile Kunstlehre37). Quel che in questa sede interessa è quanto il testo, la scrittura, le temporalità di Ruskin, siano proprio in quegli anni distanti anche dall’iniziale riflessione storiografica sull’architettura e che quindi non possano che esser letti come testi letterari38. Ed è dalle Alpi Svizzere che il teorico inglese scrive scatenandosi contro l’inneggiare di Samuel Laing, chairman della Crystal Palace Company, alla nascita di «an entirely novel order of architecture». All’idea che una struttura in ferro e vetro, un “grosso cetriolo”, possa essere definita architettura, Ruskin si infiamma – e per di più si sperpera denaro per ricoverare copie in gesso mentre le opere d’arte italiane si abbandonano all’incuria e i capolavori di Turner non trovano la meritata collocazione39:
I would depreciate (were it possible to depreciate) the mechanical ingenuity which has been displayed in the erection of the Crystal Palace, or that I underrate the effect which its vastness may continue to produce on the popular imagination. But mechanical ingenuity is not the essence either of painting or architecture, and largeness of dimension does not necessarily involve nobleness of design40.
L’edificio, perché di building si tratta e non di architecture41, rimarrà ai suoi occhi sempre una serra, come ribadirà ancora in appendice a The Stones of Venice, per quanto «larger than every greenhouse was built before»42. Ma l’affaire Crystal Palace – «as the poetical public insist upon calling it, though it is neither a palace nor of crystal»43 – è posto subito sullo sfondo della ben più accalorata questione della distruzione del patrimonio dell’architettura Gotica in Francia in nome del restauro44. Un’operazione che si rivela «more fatal to the monuments they are intended to preserve, than fire, war, or revolution»45e che accompagnerà Ruskin e i numerosi teorici – o pseudo tali – della conservazione lungo tutta la sua vita. È urgente allora, sostiene Ruskin che si dia vita a una società per la protezione dei monumenti (creata con Morris una ventina di anni più tardi) e si predisponga una lista di «every monument of interest»46. Una questione che da sola avrebbe bisogno di una storia comparata almeno con i principali paesi europei, come già parzialmente avviata da recenti ricerche47. Ma forse solo la lettura, sia pur per necessità qui accennata, può essere in grado di restituirci il rapporto argomentazione/prova, e come soprattutto prende forma l’influenza di Ruskin. Quella che segue è una suggestione che viene dall’analisi narratologica di Genette48 e che andrà ripresa. Come costruisce Ruskin il suo enunziato narrativo, la relazione tra quell’avvenimento e le figure retoriche che lo sostanziano? Attraverso alcuni termini chiave. Taste: Our taste, thus exalted and disciplined, is dazzled by the lustre of a few rows of panes of glass; and the first principles of architectural sublimity, so far are found all the while to have consisted sought, merely in sparkling and in space49.
Ingenuity: But mechanical ingenuity is not the essence either of painting or architecture: and largeness of dimension does not necessarily involve nobleness of design50.
E un sintagma, Cast and Copies: Dying, he bequeathed to the nation the whole mass of his most cherished works : and for these three years, while we have been building this colossal receptacle for casts and copies of the art of other nations, these works of our own retest painter have been left to decay in a dark room near Cavendish Square, under the custody of an aged servant51.
Sono queste le parole che consentono a Ruskin di connettere le vicende che si realizzano in quello spazio. Sarebbe davvero interessante provare a ragionare sull’unità di spazio e tempo che il Sydenham offre agli avvenimenti che trovano ospitalità nel nuovo Crystal Palace: dall’Hero of Niagara (1861), al Festival of Empire and Imperial Exhibition (1911). Ma possiamo solo suggerire questo piano di lettura. Se il racconto è la messa in relazione di tre figure retoriche, qual’è il suo tempo? Ruskin lo definisce con ferocia e ricorrendo (in maniera sarcastica) a un altro termine fondamentale per quegli anni in Europa, style:
«Fellowship now inconceivable, for the Crystal Palace, without ever itself attaining any true aspect of size, and possessing no more sublimity than a cucumber frame between two chimneys, yet by its stupidity of hollow bulk dwarfs the hills at once; so that now one thinks of them no more but as three long lumps of clay, on lease for building» J. Ruskin, Praeterita (1889), cfr. Works XXV p. 47. 21 Per una bibliografia aggiornata sulle Esposizioni Universali e quindi su quella di Londra, crf. C. Olmo, Ritornare sulle Esposizioni Universali, in C. Olmo. L. Aimone, Le Esposizioni Universali..., cit., edizione rivista e aggiornata del 2012. 22 J. Auerbach, The Great Exhibition of 1851: A Nation on Display, New Haven, CT, Yale University 1999, p.121. 23 S. Caccia Gherardini, “A careful, museum quality restoration” Il padiglione del Canada a Venezia: il progetto di restauro/ The Canada Pavilion in Venice: the Restoration Program, in L. Régault, Canada Builds/ Rebuilds a Pavilion in Venice, Montreal, National Gallery of Canada Publisher, in corso di stampa. 24 Sul dibattito fra tutti per un rapido excursus, cfr. A. Chase-Levenson, Ecletism and virtual Tourism at the SYdenham Crystal Palace, in «Nineteehnt Century Contexts», vo. 34, n.5, December 2012, pp. 461-475. 25 A. Chase-Levenson, Ecletism and virtual Tourism.., cit., p.464. 20
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Sul “post 1851” e più in generale sulle vicende del secondo Crystal Palace fa luce il recente lavoro di K. Nichols, S. V. Turner, What is to become of the Crystal Palace? The Crystal Palace after 1851, in K. Nichols, S. V. Turner, After 1852. The material and visual cultures of the Crystal Palace at Sydenham, Manchester, Manchester University Press 2017, pp.1-23. Nell’introduzione infatti le curatrici chiariscono come i due Crystal Palace, spesso confusi, siano due oggetti collegati e al contempo distinti: «Sydenham Palace displayed entirely different material on different organising principles, was larger, and had additional architectural features such as the highly visible water towers». 27 W. Bayts, Empire Bridge and World Approach: in Lieu of War, London, Forsaith 1935. 28 Works XXII, p.420. 29 R. Donati, Critica alla trasparenza. Letteratura e mito architettonico, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016, p. 31. 26
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namely, that at the very period when Europe is congratulated on the invention of a new style of architecture, because fourteen acres of ground have been covered with glass, the greatest examples in existence of true and noble Christian architecture were being resolutely destroyed; and destroyed by the effects of the very interest which was slowly beginning to be ex-cited by them52.
Non è certo isolata la negazione che non possa esistere a new style of architecture, soprattutto quando la scrittura è letteraria53. Ma Ruskin radicalizza la sua posizione attraverso l’analessi. Il racconto torna indietro nel tempo e fissa una stagione – un gotico dai confini molto elastici – che opera un distinguo tra gli avvenimenti. E lo fa da una parte seguendo una storiografia che aveva precedenti54 (e avrà, purtroppo, infiniti seguaci)55 e dall’altra condividendo una figura retorica comune non solo della storia dell’arte: l’individuazione del nemico. Il modo con cui Ruskin connette il nuovo e l’ordine (altro vocabolo che l’architettura moderna si porterà dietro come una litania), è quasi di conseguenza la catastrofe insieme della conservazione per come si pratica specie in Francia e ancora il suo responsabile: il restauro di Viollet-le-Duc56. Ruskin in questo brevissimo testo ci offre inoltre forse lo spunto più chiaro del suo pensiero sul dilagante positivismo. Il nemico non è solo la copia, è, quasi ontologicamente il “reproduire avec une exactitude mathematique” 57. È a questo punto che la voce del narratore e l’avvenimento, il rapporto tra storia e narrazione, per riprendere sempre Genette, si distinguono definitivamente. Il racconto diventa duramente predittivo, con un’attenzione di Ruskin a temi come la fama e l’autorità che diventeranno oggetto storiografico ben più tardi. E la parola che unifica questo che progressivamente diventa un altro genere letterario, l’invettiva (che da metà Settecento conosce molti adepti), si concentra sul “restauro”. Il restauro, accompagnato da un tagliente “so-called”, si fa “cruel temptation” agli occhi dell’architetto accecato dal desiderio di fama rispetto a misere operazioni di riparazione58. Interventi non necessari, ingannevoli, incapaci di garantire la trasmissione dei monumenti, che potranno essere «restored when the dead can be raised, and not till them»59. Così Ruskin lega prima fama e restauro: But let an architect declare that the existing fabric stands in need of repairs, and offer to restore it to its original beauty, and lie is instantly regarded as a lover of his country, and has a chance of obtaining a commission which will furnish him with a large and steady income, and enormous patronage, for twenty or thirty years to come60.
Poi connette distruzione e restauro: when repairs are once permitted to be undertaken, a fabric is likely to be spared from mere interest in its beauty, when its destruction, under the name of restoration, has become permanently remunerative to a large body of workmen61.
È a questo punto che i livelli narrativi, quello primario e quello secondario (Genette lo chiama metadiegetico), scompaiono nella scrittura di Ruskin che diventa un histoire de second degré62. E non è certo a caso che il teorico distingua tra civilizzazione e progresso63. E poi, negando ontologicamente il progresso, offre forse lo spunto più innovativo del testo. Siccome civilizzazione e progresso non sono più integrabili, anche il passaggio narrativo che reggeva quella fragile alleanza viene meno: l’educazione. E la ragione è radicale. Nell’epoca che si chiamerà della riproduzione tecnica, dell’invenzione del nuovo, della copia, dello standard, della ripetizione, la formazione non potrà
rimediare alla perdita di memoria, che è la sostanza per Ruskin del nuovo ordine sociale e artistico: We must answer these questions speedily, or were answer them in vain. The peculiar character of the evil which is being wrought by this age is its utter irreparableness. Its newly formed schools of art, its extending galleries, and well-ordered museums will assuredly bear some fruit in time, and give once more to the popular mind the power to discern what is great, and the disposition to protect what is precious. But it will be too late. We shall wander through our palaces of crystal, gazing sadly on copies of pictures torn by cannon-shot, and on casts of sculpture dashed to pieces long ago64.
Ma non solo. Quel che colpisce nel testo è anche la polemica sull’assenza di un qualsiasi rapporto tra stile, materiali, forma, carattere dell’architettura e funzione sociale, un tema già discusso vent’anni prima da Victor Hugo in Notre-Dame de Paris. Edifici come il Crystal Palace possono essere adibiti indifferentemente a qualsiasi uso. Edifici anonimi, riproducibili all’infinito, che possono diventare ogni cosa, presagio di una «new-born population of a world without a record and without a ruin»65. E per paradosso, era stato in parte anche attraverso la metafora della rovina, la rovina classica, che il Crystal Palace alle soglie della demolizione aveva guadagnato la sua salvezza: «the Coliseum itself by moonlight is not so grand a sight»66. Quella stessa “cattedrale metropolitana”, simbolo evidente della crisi della memoria, che Ruskin provocatoriamente assocerà in Aratra Pentelici (1880) alla cattedrale di Pisa67. Lo scarto tra i tempi della narrazione – in questo caso quello storico e quello “profetico”– ha come sempre un’obbligatoria conclusione che non può che partire dal nemico che si è individuato, il restauro, aprendo tuttavia la strada a una possibile via di uscita: The restorations have actually begun like cancers on every important piece of Gothic architecture in Christendom the question only how much can yet be saved. All projects, all pursuits, having reference to art, are at this moment of less importance than those which are simply protective. There time enough for everything else. Time enough for teaching — time enough for criticising — time enough for inventing. But time little enough for saving68.
La lettura narratologica non ci offre, ovviamente, una chiave interpretativa contenutistica, ci aiuta a ricostruire come Ruskin, in un testo che ha la natura di pamphlet o di libello (dove si trova costretto a radicalizzare una prosa per altro quasi sempre torrenziale), articoli la sua argomentazione, la sua concezione del tempo, ponendoci di fronte a due temi centrali: il possibile stile nuovo dell’architettura e il restauro69. Ma per tornare alla tesi inziale di Meeks, l’analisi del testo che si è tentata aiuta anche a comprendere come Ruskin influenzi “il dar forma” all’architettura. L’analisi del libello consente spunti che necessiterebbero di uno sviluppo assai più ampio di quanto qui possibile e richiederebbero di partire almeno dalle suggestioni di Paul Ricoeur su Architecture et narrativité70, perché sono proprio le indicazioni del filosofo francese a fornire strumenti per indagare la sua “trascrizione”71 e la rilevanza di Ruskin, a questo punto come letterato. Il ragionamento costruito usando come pretesto il secondo Crystal Palace non fa altro che ribadire posizioni sul restauro già ampiamente attribuite al pensatore inglese dalla critica, e consolidate prima dall’operato dei suoi seguaci (anche in Italia)72, soprattutto da una ormai più che nota letteratura sull’argomento che in gran parte si basa su fonti secondarie.
Fra tutti, cfr. P. Landon, Great Exhibitions: representations of the crystal palace in Mayhew, Dickens, and Dostoevsky, Nineteenth-Century Contexts, 20:1, pp.27-59, 1997. 31 A. Esquiros, L’Angleterre et la vie Anglaise, Paris, Hachette 1859. 32 A ribadire l’importanza di alcune parole chiave che Ruskin usa, il sottotitolo del testo è «a concise and popular account of different styles of architecture prevailing in all ages and countries», J. Fergusson, The Illustrated Handbook of Architecture: Being a Concise and Popular Account of Different Styles of Architecture Prevailing in All Ages and Countries, London, John Murray 1855. 33 W. Lubke, Geschichte der Architektur von den Alteten Zeiten bis auf die Geegnwart, Leipzig 1855. 34 D. Karlholm, Art of Illusion. The Representation of Art History in Nineteenth-Century Germany and Beyond, Bern. P. Lang 2004. 35 K. Salom, L’architecture du Discours. Du caractère au type. Quatrèere de Quincy at l’inversion des valeurs de l’architecte ò la fin de l’age classique, these de doctorat, 6/12/2013, Paris Est. 36 B. Fletcher, A History of Architecture on the Comparative Method, London 1905. 37 P. Brouwer, The pioneering Architectural History Books of Fergusson, Kugler, and Lubke, in «Getty Research Journal», 10, 2018, p.105120. 30
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Un tentativo di confrontare Ruskin e Fergussson è in P. Kohane, Architecture, Labor and the Human Body: Fergusson, Cockerell and Ruskin”, PhD diss., University of Pennsylvania, 1993. 39 Il testo riporta la menzione della recente scomparsa di William Turner: «in the year in which the first Crystal Palace was built, there died among us a man whose name, in after-ages, will stand with those of the great of all time. Dying, he bequeathed to the nation the whole mass of his most cherished works; and for these three years, while we have been building this colossal receptacle for casts and copies of the art of other nations, these works of our own greatest painter have been left to decay in a dark room near Cavendish Square,under the custody of an aged servant». Cfr, Works XXII, p.420. 40 Works XXII, p.419. 41 Come ribadisce ancora in The Seven Lamps of Architecture, cfr, Works. VIII, pp.27-28. 42 Works IX, p.456. 43 Insiste ancora in The Stones of Venice, cfr. Works X, p.114. 44 A questo proposito può essere utile ricordare il testo di N. Pevsner, Ruskin and Viollet-Le-Duc, London, Thames and Hudson 1969. 45 Works XXII, p.422. 46 «An association might be formed, thoroughtly organized so as to maintain active watchers and agents in every town of importance, who, in the first place, should furnish the society with a perfect account of every monument of interest in its neighbourhood, and then with a yearly or half-yearly report of the state of such monuments, and of the changes proposed to be made upon them; the society then furnishing funds, either to buy, freehold, such buildings or other works of untransferable art as at any time might be offered for sale, or to assist their proprietors, whether private individuals or public bodies, in the maintenance of such guardianship as was really necessary for their safety; and exerting itself, with all the influence which such an association would rapidly command, to prevent unwise restoration and unnecessary destruction». Works XII, p.431. Nella sconfinata letteratura sulla Society for Protection of Ancient Buildings ci preme qui ancora una volta ricordare, oltre ai noti volumi di Stephan Tschudi Madsen del 1976, Restoration and Anti-Restoration: a study in English restoration philosophy, due episodi tutti italiani: la giornata di studi organizzata da Marco Dezzi Bardeschi alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, Antiscrape: polemiche, denunce, processi contro i restauri (si veda «PSICON», 10, 1977) e gli studi di Daniela Lamberini (tra cui I Nobili sdegni: le battaglie inglesi della SPBA contro I restauri nel continente, in «Quasar», n.19, 1977). 47 Per un confronto sulle questioni della protezione del patrimonio culturale e un interessante raffronto tra i diversi sistemi normativi, cfr. Dictionnaire comparé du droit di patrimoine culturel, Paris, CNRS éditions 2012. 48 A partire da Gérard Genette, Figures I, Paris 1966. 49 Works XXII, p.419. 50 Ivi. 51 Works XXII, p.420. 52 Ivi. 53 W. Anne-Gaëlle, Usages savants du littéraire dans les sciences de la nature au tournant des XVIIIe et XIXe siècles , in «Romantisme», 1/2019/1, pp. 91-100. 54 Come ricostruisce già nel 1928 Kenneth Clark nel suo The gotiic Revival. 55 M.L. Scalvini, L’immagine storiografica dell’architettura moderna, in M.L.Scalvini Sandri, L’immagine storiografica dell’architettura moderna da Platz a Giedion, Roma, Officina 1984, pp. 25sgg. 56 «Under the firm and wise government of the third Napoleon, France has entered on a new epoch of prosperity, one of the signs of which is a zealous care for the preservation of her noble public buildings. Under the influence of this healthy impulse, repairs of the most extensive kind are at this monumental cathedrals of Rheims, Amiens, Rouen, Chartres, and Paris (probably also in many other instances unknown to me). These repairs were, in many cases, necessary up to a certain point; and they have been executed by architects as skillful and learned as at present exist, — executed with noble disregard of expense, and sincere desire on the part of their superintendents that they should be completed in a manner honorable to the country». 57 «By all means, if you can, reproduce mathematically, elsewhere, the group of the Fates, and the Abbey of Melrose. But leave un- harmed the original fragment, and the ruin». Works XXII, p.423. 38
Works XXII, p.424. Works XXII, p.429. 60 Ivi. 61 Works XXII, p.424.. E ancora un paio di pagine dopo: «This restoration, so far as it has gone, has been executed by peculiarly skilful workmen; it is an un- usually favourable example of restoration, especially in the care which has been taken to preserve intact the exquisite, and hitherto almost uninjured sculptures which fill the quatrefoils of the tracery above the arch. But I happened myself to have made, five years ago, detailed drawings of the buttress decorations on the right and left of this tracery, which are part of the work that has been completely restored. And I found the restorations as inaccurate as they were unnecessary». 62 F. Brandi, L’avènement d’une «histoire au second degré», in «L’Atelier du centre de recherches historiques», revue électronique de CRGH, 30 avril 2011. 63 «For the most part, are the of the remnants of elder time, shall be scattered by the advance of civilisation — when all the monuments, preserved only because it was so costly to destroy them, shall have been crushed by the energies of the new world, will the proud nations of the twentieth century, looking round on the plains of Europe, disencumbered of their memorial marbles, — will those nations indeed stand up with no other feeling than one of triumph, freed from the paralysis of precedent and the entanglement of memory, to thank us, the fathers of progress, that no saddening shadows can any more trouble the enjoyments of the future, — no moments of reflection retard its activities», Works XXII, p.428. 64 Works XXII, pp.429-430. 65 Works XXII, pp.428. 66 The Old Crystal Palace: By the Ghost of the Exhibition of 1851, 14 august 1852, cfr. J. Siegel, Display Time: Art, Disgust…, cit., p.41. 67 «I want you to compare the main purpose of the Cathedral of Pisa, and its associated Bell Tower, Baptistery, and Holy Field, with the main purpose of the principal building lately raised for the people of London. In these days, we indeed desire no cathedrals; but we have constructed an enormous and costly edifice, which, in claiming educational influence over the whole London populace, and middle class, is verily the Metropolitan cathedral of this century, the Crystal Palace». Works, XX, p.235. Un paragone che ricorre altrove, cfr. Works, XIX, p.216. 68 Works XXII, pp.432. 69 I testi di riferimento per andar oltre questo primo approccio sono G. Prince, A. Noble. Narratology, Narrative, and Meaning, in «Poetics Today», 3,1991, pp. 543–552; F. Herzog, Régimes d’historicité. Présentisme et expérience du temps, Paris, Seuil 2003. 70 Il testo è la ripresa di un intervento, dal titolo De la Mémoire, presentato a un Groupe de réfflexion des architectes organizzato dalla Direction de l’Architecture et du patrimoine a Parigi nel 1966 e parzialmente pubbilcato in «Urbanisme» nel 1998, nel catalogo della Triennale di Milano del 1996, e nella rivista «Architectonics» nel 2004. IL testo integrale è preso l’Archivio Ricoeur di Parigi. 71 Cfr A. Locatelli, Considerazioni sulla letterarietà della storia e la storicità della letteratura, in «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», 11/ 2019, pp.363-377. 72 D. Lamberini, L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, Firenze, Nardini Editore 2006. 58
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Il “gotico suo proprio” nel Regno di Napoli: problemi di stile e modelli medioevali. La didattica dell’architettura nel Reale Collegio Militare della Nunziatella Maria Carolina Campone | carolina.campone@gmail.com Scuola Militare “Nunziatella”, Napoli
Abstract In the second half of the nineteenth century, leading exponents of the architectural culture of the Kingdom of Naples, such as Giacomo Guarinelli (1810-1880) and Enrico Alvino (18091876), are protagonists of the landscape transformation of the capital or of the symbolic cities of the Bourbons. A key role in their training is played by attending the historic Royal Military Academy of the “Nunziatella”. In the didactic offer of the prestigious School, a leading role was played by design and architectural composition, in a vision that made art an explicit tool for education and political propaganda. Both designers demonstrate, over the course of their careers, on the one hand, to incorporate the effects of the contemporary “style” debate; from another, the dominant tendency in the Neapolitan Military School of a multidisciplinary approach and deeply historicized in the knowledge of history. Parole chiave Giacomo Guarinelli, Enrico Alvino, neogotico, stile, Nunziatella
Nella seconda metà dell’Ottocento, esponenti di spicco della cultura architettonica del Regno di Napoli, quali Giacomo Guarinelli (1810-1880) ed Enrico Alvino (18091876), si trovano ad incarnare, da protagonisti, la trasformazione urbanistica della capitale o a segnare, con loro opere, in maniera determinante, l’immagine di alcune città-simbolo del territorio amministrato dalla dinastia Borbone. Il caso dello skyline di Gaeta con l’inserzione del nuovo volume della chiesa di San Francesco e il nuovo assetto della facciata della cattedrale di Amalfi documentano come i due professionisti, utilizzando il linguaggio neomedievale del proprio tempo, abbiano profondamente segnato il carattere iconografico di luoghi assai cospicui della realtà meridionale. Il prospetto della chiesa di Santa Maria di Piedigrotta, quello del duomo di Napoli, l’intervento in San Giovanni Battista delle Monache così come i progetti urbanistici in cui Alvino è coinvolto sono accomunati da uno scrupoloso studio d’indagine sulle preesistenze, mediante l’attento rilievo dell’organismo architettonico, rilievo che costituisce uno degli strumenti didattici di maggiore impegno a cui l’architetto partenopeo, nel suo ruolo di docente di disegno presso la Scuola Militare Nunziatella non rinuncia in maniera categorica.
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Fig. 1 G. Guarinelli, Progetto della chiesa di San Francesco a Gaeta. Prospetto, 1850-1853. Capua, Biblioteca del Museo Campano. Fig. 2 G. Guarinelli, Disegno del pavimento per la chiesa di San Francesco a Gaeta, 18501853. Capua, Biblioteca del Museo Campano.
Cfr. G. Catenacci, La Nunziatella, Napoli, Fausto Fiorentino 1993. 2 Cfr. J. Ruskin, Gli elementi del disegno, a cura di M. G. Bellone, Milano, Adelphi 2014. 3 Cfr. P. Perfido, Attuali orizzonti del Rilievo e della Rappresentazione/Current Horizons of Surveying and Representation, in Le ragioni del disegno/The reasons of drawing, 38° Convegno Internazionale dei docenti delle discipline della rappresentazione, a cura di S. Bertocci, M. Bini, Roma, Gangemi Editore 2017, pp. 557-562. 4 Fra le sue opere, ricordiamo Euclidis elementa (1750) e gli Archimedis theoremata de circuli dimensione, sphoera et cylindro. 5 Archivio Storico, Scuola Militare Nunziatella, a. 1821, fasc. I. 6 Cfr. G. Ferrarelli, Il collegio Militare di Napoli, «Rivista militare italiana», Roma, 1887, pp. 199-264; G. Pugliano, Errico Alvino e il restauro dei monumenti, «Quaderni dell’Accademia Pontaniana», Napoli 2004, p. 14. Sulla formazione di Alvino, cfr. F. Mangone, Il pensionato napoletano di 1
Ha interesse rilevare il dato della formazione impartita dalla Scuola Militare, vanto della città partenopea, per le strette connessioni tra Giacomo Guarinelli allievo dell’Istituzione militare, e Errico Alvino, docente, alcuni decenni dopo, presso la prestigiosa summenzionata Accademia. Nell’offerta didattica dell’Istituto di formazione della Difesa, fondato nel 1787 con decreto di Ferdinando IV1, un ruolo di primo piano veniva svolto dalle discipline della rappresentazione e del disegno che, con la composizione architettonica, favorivano un approccio e una visione del valore dell’arte tale da individuarla come strumento esplicito di educazione e di propaganda politica, secondo una modalità didattica che per certi versi anticipa il compito stesso assegnato da John Ruskin al disegno2, che affiderà a questo e poi alla fotografia quasi un ruolo sostitutivo del contesto del reale3. Tale condizione caratterizza in maniera evidente la vicenda di Giacomo Guarinelli, il quale, entrato nella Scuola a soli undici anni, vive uno dei periodi più intensi, dal punto di vista culturale, dell’Istituzione stessa. Questa, infatti, si era vista riconoscere, nel 1804, grazie all’intervento di Giuseppe Saverio Poli (1746-1825), lo status di “Università degli Studi” con la possibilità di accogliere studenti esterni e, nel 1806, era divenuto esecutivo un progetto di riordino degli studi, presentato da Vito Caravelli (1724-1800), che rendeva centrali e altamente qualificanti nel curriculum scolastico i programmi di scienze, disegno, italiano, francese, inglese e delle campagne d’istruzione.
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architettura 1813-1875, in Civiltà dell’Ottocento. Architettura e urbanistica, a cura di G. Alisio, Napoli, Electa 1997, pp. 35-36; F. Mangone, R. Telese, Dall’Accademia alla Facoltà. L’insegnamento dell’architettura a Napoli 1802-1941, Benevento, Hevelius 2001. 7 Cfr. G. Ferrarelli, Il collegio Militare… cit., pp. 20-21. 8 Ivi, pp. 19-20. Sull’attività di Alvino, cfr. G. Bruno, R. De Fusco, Errico Alvino architetto e urbanista napoletano dell’800, Napoli, L’Arte Tipografica 1962; M. L. Scalvini, La facciata neogotica per il Duomo di Napoli nell’itinerario eclettico di Enrico Alvino, in Il neogotico nel XIX e XX secolo II, Atti del convegno (Pavia, 25-28 settembre 1985), a cura di R. Bossaglia, V. Terraroli, Milano, Mazzotta 1989, pp. 383-397; Eadem, La scuola di architettura dell’Accademia Napoletana e i suoi responsabili, in L’architettura nelle accademie riformate. Insegnamento, dibattito culturale, interventi pubblici, a cura di G. Ricci, Milano, Guerini 1992, pp. 237-252. 9 Cfr. G. Fiengo, A. Bellini, S. Della Torre, La parabola del restauro stilistico nella rilettura di sette casi emblematici, Milano, Guerini Studio 1994; R. Picone, Il restauro e la questione dello ‘stile’. Il secondo Ottocento nel Mezzogiorno d’Italia, Napoli, Editrice Politecnica 2012. 10 Cfr. E. Lanzillotta, V. Costa, La riscoperta di Tucidide presso la scuola romana tra Otto e Novecento, in Ombres de Thucydide. La
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Tale articolata riconfigurazione della didattica militare andava inquadrata in un contesto che, a partire già dal XVIII secolo, aveva considerato i processi di formazione militari come proficua occasione per aggredire il sistema dell’educazione etica e civile, in un primo tempo, del soldato-suddito, in seguito, del soldato-cittadino. Il Caravelli, matematico, erudito e trattatista4, docente della Nunziatella sin dal 1787, aveva concepito un metodo di semplificazione concettuale ed espositiva che aveva applicato a vasta parte della cultura matematica del tempo e che, esteso a tutte le materie concorrenti alla formazione dell’allievo, ne faceva un insieme interconnesso legato a finalità eminentemente pratiche. Al riguardo, egli aveva previsto anche l’allestimento di una specifica aula di disegno, con banchi predisposti ad hoc e con congrue attrezzature, onde permettere ai discenti di lavorare con più agevole condizione anche per seguire le lezioni di geometria descrittiva. Tale impronta multidisciplinare, che caratterizza negli anni a venire l’insegnamento nella Scuola, si riflette chiaramente nelle opere teoriche di Giacomo Guarinelli, che, nato da una modesta famiglia, tanto che la sua retta di iscrizione al Reale Collegio risulta regolarmente pagata dal sovrano5, nelle sue Considerazioni sullo stato attuale dei recinti bastionati (1848) dimostra di aver fatto proprio l’insegnamento del Caravelli. Ciò non solo accade perché l’architettura militare ben si prestava a essere palestra applicativa della matematica, ma anche perché, rielaborando la formazione ricevuta, egli sviluppa gli studi matematici nella direzione della ricerca e successiva applicazione della scienza dei numeri anche a campi diversi del sapere. Sin dal 1806, in effetti, la Scuola prevedeva, sulla base del programma di Caravelli, una didattica basata su esempi concreti, al fine di favorire, negli studenti, lo sviluppo di un’attitudine a ricercare e portare avanti le possibili ricadute pratiche delle teorie apprese, senza tralasciare le discipline umanistiche. Su queste premesse teoretiche, volte a definire anche modalità applicative dello studio, soprattutto in vista delle ‘esigenze difensive’ implicite all’impegno militare, si affianca, nel corso del XIX secolo, anche un segmento di formazione incentrato sul rapporto dialettico con la cultura delle lettere. La visione “pragmatica” sostenuta dal percorso didattico intrapreso dalla Scuola costituisce il trait d’union tra l’attività di Giacomo Guarinelli e quella di Enrico Alvino, docente di Principi di architettura e disegno presso la Nunziatella a partire dal 1835 e collega di Francesco De Sanctis, con il quale fu espulso dalla Scuola a seguito dei moti del 18486. Nei presupposti della formazione culturale mutuata dall’azione didattica di Alvino, è stata evidenziata l’influenza del De Sanctis, che ne avrebbe sollecitato l’adesione ai canoni dell’estetica idealista7, anche se occorre rilevare come entrambi lavorino nel medesimo ambiente in cui ancora era fortemente operativo il sistema di insegnamento di Caravelli e in cui erano cogenti le istanze di “chiarezza” e “ordine” – due concetti-chiave negli scritti del matematico – che ne avevano ispirato l’attività e di cui si percepiscono ancora gli echi nella prassi di Alvino8. Il legame e la frequentazione, entro le mura della Scuola, con il filosofo irpino, influì notevolmente sulla preparazione e l’attività dell’architetto, la cui attenta formazione storico-critica era destinata a influenzarne l’approccio progettuale nei confronti delle preesistenze. Non è un caso, dunque, che, proprio in occasione della partecipazione attiva ai fermenti politici contro i Borbone, che scontarono con l’esilio e la destituzione dai rispet-
tivi incarichi, entrambi abbiano frequentato Giuseppe Fiorelli, intimo amico dell’architetto partenopeo e futuro Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti. Ricongiungere storia e teoria implicava rendere strumento di ragionamento teorico la storia stessa, intesa come una vera e propria guida per la progettazione e stabilire uno stretto nesso consequenziale tra la sua funzione didattica e l’autenticità delle sue testimonianze, secondo una visione tesa all’affermazione di uno “stile” volto a rafforzare gli ideali risorgimentali del nuovo stato unitario9. A tale concetto non è estranea la rilettura dell’opera di Tucidide operata dalla scuola romana10, il cui influsso si avverte sulla cultura positivista e sul concetto di “unità” a cui fa riferimento Semper, vicina all’estetica idealista e all’unità organica hegeliana di cui era debitore De Sanctis, concetto caro allo stesso Alvino, che più volte vi ritorna11. Tali esigenze, sviluppatesi in uno dei centri-chiave dell’Illuminismo europeo, avevano portato ad ampie riforme sia nel campo dell’istruzione sia in quello militare, che, nel clima della Nunziatella, avevano trovato ampio spazio. Non a caso, l’insegnamento della matematica prevedeva la geometria analitica, la geometria descrittiva e la meccanica12, essendo quest’ultima, dunque, considerata non solo una branca della fisica, ma un aspetto eminentemente pratico della disciplina matematica. In particolare, il testo di Guarinelli sembra risentire l’influenza di alcuni saggi, quali il primo volume di Meccanica di Nicola Massa (Statica e Dinamica, Napoli, 1813), il Calcolo differenziale e integrale di O. Colecchi, edito a Napoli nel 1814, e la Planometria di Ferdinando De Luca (Napoli, 1815). La stessa dedica che Guarinelli prepone al suo saggio rivela quest’attitudine alla pratica, laddove l’autore ricorda che quanti lo hanno preceduto hanno elaborato teorie poco applicabili alla situazione delle fortificazioni esistenti. Dopo aver velocemente pas-
Fig. 3 G. Guarinelli, Progetto della chiesa di San Francesco a Gaeta. Sezione, 1850-1853. Capua, Biblioteca del Museo Campano. Fig. 4 G. Guarinelli, Progetto della chiesa di San Francesco a Gaeta. Particolare del partito decorativo, 1850-1853. Capua, Biblioteca del Museo Campano.
réception de l’historien depuis l’Antiquité jusqu’au début du xxe siècle, a cura di V. Fromentin, S. Gotteland, P. Payen, Pessac, Ausonius Éditions 2010, pp. 551-570. 11 Cfr. Memoria illustrativa del Progetto per la facciata della cattedrale di Firenze ideato dall’architetto Errico Alvino di Napoli, Firenze, M. Cellini 1864, pp. 23 e 24. 12 Cfr. F. Amodeo, Vita matematica napoletana, Napoli, Tip. F. Giannini e Figli 1905, p. 261.
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Fig. 5 G. Guarinelli, Progetto della chiesa di San Francesco a Gaeta. Altare maggiore, 18501853. Capua, Biblioteca del Museo Campano. Fig. 6 Chiesa di San Francesco,Gaeta. Prospetto.
G. Guarinelli, Considerazioni sullo stato attuale dei recinti bastionati, Napoli, Stamperia dell’Iride 1848, p. 7. 14 Cfr. M. C. Campone, Architettura sacra alla corte dei Borbone, «Arte cristiana», 851/XCVII (2009), p. 134. 15 Cfr. Eadem, Architettura sacra alla corte dei Borbone, «Arte cristiana», 851/XCVII (2009), pp. 134-145; Eadem, “Finis Regni”: la Chiesa di San Francesco a Gaeta, in Casa di Re. La Reggia di Caserta fra storia e tutela, a cura di R. Cioffi, G. Petrenga, Milano, Skira 2005, pp. 145151, 167. 13
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sato in rassegna le posizioni teoriche dei trattatisti militari francesi, egli entra nel vivo dell’opera, iniziando con l’elencare i nodi ineludibili del concetto di “fortificazione”, tutti inerenti lo specimen geometrico del tema, declinato, nello specifico, attraverso la descrizione realistica della situazione di Gaeta. Rispetto ai trattatisti precedenti, che pure costituivano i modelli imprescindibili nel genere teorico-militare, Guarinelli rivela una predisposizione a rendere concreti da subito gli elementi del suo operare. Così, nell’incipit, dichiara di voler rispondere a tre problemi molto pratici: «Trovare come dovrebbe modificarsi il parapetto dei bastioni onde annullare l’azione dei rimbalzi», «Trovare quali cambiamenti dovrebbe subire il tracciato del parapetto del rivellino e quello del suo ridotto», «Trovare in qual modo più convenga disporre il ciglio dello spalto e quai cambiamenti converrebbero praticarsi nel ridotto delle piazze d’armi»13. A ognuno dei tre problemi l’ingegnere offre una risposta concreta a partire da solide basi geometriche, secondo uno spirito eminentemente pratico e concreto che caratterizza anche l’Appendice, il cui titolo Considerazioni sugli ultimi periodi della difesa delle piazze esistenti, si muove sullo stesso piano, funzionale e pratico del resto dell’opera. D’altro canto, la stessa attenzione al contesto, inteso stavolta in senso più vasto, aveva spinto Ferdinando II a finanziare un viaggio di Guarinelli nelle capitali europee, perché potesse studiare da vicino «i più cospicui monumenti gotici»14, prima che questi si accingesse alla sua opera più importante, il restauro della chiesa di San Francesco a Gaeta15. L’intervento sul complesso medievale dedicato al santo di Assisi consente sia di cogliere chiaramente i legami fra il contesto partenopeo di metà Ottocento e quello europeo anche in campo architettonico sia di leggere, nella scelta del neogotico, una serie di motivazioni atte a coniugare tanto le istanze patriottico-risorgimentali comuni anche al mondo tedesco quanto la speculazione anglosassone.
Nell’attività di Guarinelli e Alvino, dunque, si configura il risultato di quel processo di fusione fra istanze civili e militari iniziato nel Settecento e giunto a maturazione grazie al clima culturale di pieno Ottocento e ai continui contatti con un’Europa sempre più vicina alla capitale del Regno. Nel contempo, la loro formazione nell’ambito della scuola militare andrebbe considerata e riletta in parallelo con simili esperienze europee, come quella di William Morris (1834-1896), che aveva il proprio modello d’origine nella riscoperta della vocazione monastica ben rappresentato dal termine “abnegazione”, sintetizzato in maniera efficace, con gli inizi della seconda metà del XIX secolo, dal raffinatissimo testo di Luigi Tosti, La contessa Matilde e i romani pontefici, vocazione che, mutatis mutandis, essi vivono in un contesto diverso, ma non meno significativo, per gli esiti culturali che doveva produrre.
Fig. 7 E. Alvino, Progetto per il duomo di Napoli. Prospetto (da Scalvini 1989). Fig. 8 E. Alvino, Duomo, Amalfi (da Le Cento città d’Italia, Supplemento illustrato al secolo, 25 settembre 1890).
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La religione del suo tempo. L’Ottocento, Ruskin e le utopie profetiche Saverio Carillo | saverio.carillo@unicampania.it Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”
Abstract The nineteenth century, century of expectations and the birth of industrial modernity, records contradictory aspirations for progress and resistance to abandonment of the ancient. Religious and ideological values condition and formulate interpretative keys of the time. Ruskin remains as a singular interpreter of the religious expectations of the European West leaning towards the dynamics of capitalism but still fascinated by the condition promised by the biblical narration of the Garden of Eden. Non-places and utopian sites to born even on the basis of the religion teacher John Riskin. Parole chiave memoria, nazionalismi, arte come redenzione sociale
Arte come ancella di religione
J. Ruskin, Mornings in Florence, Boston, Dana Estes & Company 1890, p. 99; ed it: Mattinate fiorentine (trad O.H. Giglioli), Firenze, G. Barbera Editore 1908, pp. 230-231; Mattinate fiorentine (a cura di A. Billi), Milano, Arnoldo Mondadori Editore 2001, p. 160. Le versioni italiane sono dello scrivente. 2 F. W. Farrar, Ruskin As A Religious Teacher, «Saint George. The Journal of the Ruskin Society, Birmingham», V. II, 1899, p. 4. 1
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C’è un tipo di conoscenza delle immagini che è dell’artista, ve ne è un altro che è dell’antiquario e del gallerista che vende quadri. Quest’ultimo è fondato sulla conoscenza tecnica dei materiali, dalla tela al pigmento di colore, con gli annessi trucchi del mestiere, è, dunque, molto affidabile sullo stato dell’oggetto, ciò non significa affatto che tale conoscenza determini la capacità di comprendere la qualità dell’arte di cui il dipinto è epifania. I galleristi europei dotati di competenza tecnica sono pochi e, se si riesce ad avere la loro opinione sincera sull’oggetto, essa sarà più attendibile della mia, tuttavia, quest’opinione tecnica non è di aiuto sostanziale alla comprensione dell’opera. Mi è capitato di attribuire a Turner disegni di Valery e Cousin: i mercanti d’arte, argomentando, mi hanno convinto che avevo preso un abbaglio, tuttavia, l’attività di Turner così come io l’ho illustrata non perde nessuno dei suoi significati intrinseci. Potrebbe capitare che circa l’esperienza delle scuole giottesche delle origini io abbia commesso qualche errore per le attribuzioni tecniche o il nome dell’autore, ma vi convincerete (sia detto senza falsa modestia) che l’esegesi che vi propongo, effettivamente coglie il nodo sostanziale dell’impegno artistico e ne evidenzi il vero valore. Capiterà, dunque, che se suggerisco di prestare attenzione al carattere di un autore, indipendentemente dalle attribuzioni alla mano che ha eseguito l’opera, varrà la pena andare a contemplare il dipinto proposto. Ritornando al mio abbaglio nello scambiare Cousin con Tuner confesserò che avevo prestata molta attenzione alla realizzazione del cielo che è veramente turneriano, mentre il gallerista che mi obiettava l’attribuzione argomentava che la carta sulla quale era realizzata l’opera era prodotta dall’azienda Whatman supporto che Turner non utilizzava1.
Il presente passo, citato da Mornings in Florence, appare come interessante sintesi di un pensiero, quello di Ruskin, nel quale si fonde un impegno di colto esegeta della realtà artistica con una più convinta necessità di educazione al bello attraverso un oculato discernimento di selezionate opere d’arte da sottoporre all’attenzione del proprio lettore. È stato osservato che nell’impegno didascalico ed educativo dello scrittore inglese vi fosse un sostanziale approccio spirituale tanto da corredare il carattere dei suoi scritti quale processo se non di testimonianza religiosa, quanto meno di educazione alla dimensione di un credo spirituale condiviso.
Fig. 1 La torre del pastore (da J. Ruskin, The seven Lamps of Architecture, Boston, Dana Ester & Company Publishers, sd). Fig. 2 Lourdes, pianta Chiesa del Rosario (da A. Fabre, Pages d’art Cretien, Paris, Bonne Presse, 1927).
Il carattere religioso della mente del signor Ruskin è uno dei suoi tratti distintivi; ed è stato un implicito componente della sua persuasiva influenza culturale. Tutto intorno a noi – tutta la gloria del cielo e tutti gli oggetti della terra – sono per lui un grande rotolo, su cui leggere – celato, come in un palinsesto, ma in lettere luminose e persistenti – in una parola Dio. Per lui tutto è un messaggio di rivelazione pronunciato alle nostre anime da Colui che è la Parola di Dio. Cerchiamo di illustrare questo punto, in primo luogo, mostrando come egli ci esponga la Rivelazione di Dio attraverso la Natura. Nessun vero lettore supporrà, per un momento, che sia stato l’oggetto principale del signor Ruskin a stupirci con pagine e pagine di splendida descrizione, a mo’ di semplice pittura di parole. Si sforza costantemente di sollevare il velo accompagnandoci nella misteriosa esegesi del Tempio2.
Il ruolo di maestro di religione compare anche nel citato brano del sopralluogo fiorentino del quale poi un interprete italiano del pensiero contemporaneo, agli inizi del Novecento, sottolineò anche l’ulteriore aspetto della versatilità delle arti di cui il monumento si rendeva esegesi e testimonianza. Questi sottolineava anche come l’educazione all’arte dei secoli pregressi trovava l’artiere perito nelle differenti forme espres-
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sive e che dunque l’arte avesse una connotazione educativa di notevole caratura, cosa, in realtà, già abbastanza latitante all’interno della cultura degli inizi del Novecento. La meravigliosa torre di Giotto che il Ruskin chiamò la torre del pastore, meglio si direbbe la torre del pittore, tanta è la sapiente combinazione multicolore dei marmi; e in quel suo meraviglioso basamento stanno iscritte le sculture allegoriche, gemme incastonate nell’oro, alcune delle quali sculte dalla mano dell’architetto-pittore. Gli artefici fiorentini dettero, su tutti gli altri, esempio luminoso di questo agevole trascorrere dall’una arte all’altra; e la pratica dell’oreficeria, scuola iniziale e palestra a tutti costoro, congiungeva le manifestazioni superiori dell’arte alla vita e al lavoro. Ogni artefice era un operaio, e nelle corporazioni delle arti si trovava affratellato ai minori artieri. Oggi l’artista che tratta il pennello nel silenzio del suo studio, rado sa l’uso dello scalpello o della squadra. Che anzi lo snobismo del nostro tempo lo spinge sovente a chiudersi in un genere e in un soggetto speciale, indulgendo così, certamente, alle tentazioni commerciali, ma anche diminuendo la dignità dell’arte vera e spingendo all’estremo la specificazione in un campo ove l’unione è sostanza di vita. Onde all’opera sua, divenuta come disdegnosa delle arti sorelle, e ignara delle minori e solitaria, vien meno quel pulsare della vita che circola nell’organismo delle arti, in quella concordia felice che fu condizione dell’antica grandezza – nell’arte greca come nell’italica del Rinascimento – e di quel suo ripercuotersi in una infinita moltitudine d’anime, come il suono d’una cetra dalle molte corde3.
Ruskin nella sua sesta mattinata di visita alla città di Firenze, accompagnando il suo interlocutore alla comprensione, quasi didascalica, del Campanile di Giotto, propone una puntuale disamina della storia ed evoluzione della cultura occidentale nello stretto rapporto tra religione ed esistenza dell’uomo. Antico e nuovo. Itinerario di moralità dell’Europa del XIX secolo Insieme al percorso educativo e di iniziazione all’arte appare evidente in Ruskin il ruolo utopico di modifica e di trasformazione fattiva della sua realtà contemporanea. Ruskin si trasferisce in campagna, trova i capitali, costruisce un mulino a Laxey, e con il suo luogotenente, il signor Rydings, sistema macchinari per cardare la lana e sbiancare le stoffe. Macchine, diciamo, ma macchine animate da una forza diretta della natura, non da una forza artificiale, macchine in cui il motore è estetico e immortalato da Claude Lorrain nel suo Molino. “Perché la macchina è vietata dalla Gilda solo se sostituisce un esercizio del corpo che è sano, o l’arte e la precisione della mano che sono necessari in un lavoro decorativo. L’unico motore ammesso è una forza naturale, vento o acqua (l’elettricità, in futuro, potrebbe essere tollerata), ma il vapore è assolutamente proibito, come un enorme e furioso spreco di carburante per fare quello che ogni fiume o brezza fa senza spesa”. E dal momento che non abbiamo più monete estetiche, come il bellissimo fiorino di Firenze, non useremo soldi. I contadini porteranno la loro lana, che sarà immagazzinata nel mulino, e torneranno in stoffa o in filo per le maglie che saranno fatte a casa o in lana preparata per girare sulla ruota. Queste concezioni audacemente reazionarie non hanno mandato in frantumi l’industria di Laxey homespun. Sono, inoltre, retrogradi solo al primo aspetto. Si aprono spiragli profetici sul futuro. E quando Ruskin ci dice che qualsiasi industria dovrà prendere la sua energia dalle forze della natura: dai venti, dai fiumi, non possiamo non domandarci se questo esteta non abbia già trovato nei suoi sogni la formula affinché tutta l’energia della natura, oggi non utilizzata, un domani venga impiegata a servito di tutti e non di pochi soltanto4. A. Chiapparelli, L’arte e la sua azione sociale, in Il Pensiero Moderno nella scienza, nella letteratura e nell’arte, Conferenze fiorentine, a cura di G. Biagi e G. Fano, Milano, Fratelli Treves Editori 1907, p. 63. 3
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Lo stesso titolo, già ricordato, della visita dato per la mattinata fiorentina La torre del pastore implicitamente appare evocare del linguaggio spirituale, quasi evangelico, attraverso il quale l’autore si inoltra nel cammino di lettura delle opere, soprattutto sculture, che il proprio riguardante incontrerà nell’itinerario di approccio all’edificio nolare. Il plot narrativo adoperato, la guida appunto, mantiene un intrinseco impegno etico da parte dell’autore che molto probabilmente intende fornire un metodo
Fig. 3 Pompei, vista dell’Anfiteatro (da M. Monnier, Pompéi et les pompéiens, Paris, Librairie de L. Hachette et C., 1867).
piuttosto che offrire nozioni tipiche di un manuale di storia dell’arte. Infatti un libro di quest’ultimo tipo, avrebbe dovuto avere, per intere, le coordinate antologiche e cronologiche circa le figure autorali affrontate nel testo per le quali, preliminarmente, lo stesso Ruskin chiedeva venia laddove potevano prospettarsi attribuzioni non perfettamente collimanti con le esegesi che avrebbe potuto fare la ‘storiografia’ attestata su ‘coordinate tecniche’. È, da questo punto di vista, assai interessante la considerazione per la quale, nella prospettiva dell’arte, anche il valore delle cose possa essere comunicato nell’impegno etico che l’autore ha voluto evidenziare. Ruskin prima di tutto non sembra volersi qualificare come uno storico dell’arte ma appare gli prema rappresentarsi come interprete della società e dei suoi atteggiamenti morali. Ancora nell’indirizzo di lettura dell’esperienza d’arte quale ambito privilegiato per l’educazione alla piena consapevolezza dell’uomo – del suo compito storico, ma anche metafisico –, l’intellettuale inglese propugna il forte valore di connessione con la natura. Uno degli intellettuali italiani più acuti degli inizi del Novecento, Ugo Ojetti, nella recensione al citato uno studio di Robert De La Sizeranne dedicato al valore religioso dell’impegno di Ruskin per la bellezza esplicita come il percorso del pensatore inglese sia, in prospettiva, ancora più ampio. Ma insegnar l’arte è poco; anche la vita egli vuole trasformare in stile di bellezza, e nel maggio 1871 – mentre Parigi sanguina la Comune-, istituisce presso Mikley la Saint George’s Guild dove in una grande fattoria alcuni uomini coltivino la terra e cerchino la felicità senza macchine a vapore e senza ferrovie, sviluppando soltanto la loro volontà e il loro pensiero. Poco dopo a Brantwood, a casa sua, presso il lago Coniston egli stesso lavora da muratore, accentuando la sua rassomiglianza con Tolstoi di cui egli ha detto: “Sarà il mio successore” e che ha detto di lui: “È uno dei più grandi uomini del secolo”. Nel 1854 crea una Società per la conservazione dei monumenti di pietra, in odio ai nuovi edifici di ferro e di vetro che egli chiama gabbie da uccelli o serre da cucurbitacee. Se i suoi discepoli vanno in pellegrinaggio verso le divinità della bellezza, egli li accompagna fino ad Amiens, a Venezia, a Firenze per salvarli dalle eresie delle guide Murray o Baedeker. Nessun missionario santificato mai si agitò e operò tanto per difendere ed esaltare il suo Dio5.
R. De La Sizeranne, Ruskin et la Religion de la Beauté, Paris, Librarie Hachette et C. 1897, pp. 44-45. 5 U. Ojetti, Notizia letteraria. Ruskin e la religione della bellezza, «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti», quarta serie, v. LXX (CLIV della raccolta), Roma, Direzione della Nuova Antologia 1897, p. 370. 4
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6 Cfr O. T. Smallwood, John Ruskin and the Oxford Movement, «CLA Journal», Vol. 3, No. 2 (Dicembre 1959), pp. 114-118; C. Lovera di Castiglione, Il Movimento di Oxford, Brescia, Morcelliana 1935. 7 A. Chiapparelli, L’arte e la sua azione sociale… cit., p.44. 8 Cfr E. Zola, Le Tre Città. Lourdes (traduzione Giorgio Palma – pseudonimo di Emma Luzzatto), Roma, Stabilimento tipografico della “Tribuna”,1895. 9 M. Augé, Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, (traduzione D. Rolland), Milano, Elèuthera edizioni 2009; M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano (trad. Mario Baccianini), Roma, Edizioni Lavoro 2001, n.e. 2010.
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Il XIX secolo di Ruskin si staglia in uno scenario nuovo ed inedito sia nelle condizioni culturali della nascita dei tanti nazionalismi europei sia in quella contraddittoria stagione spirituale dove i percorsi religiosi di antico regime vanno evolvendosi anche sotto l’incalzare di nuove emergenze sociali e con l’irruzione di fenomeni eccezionali nella quotidianità dell’esistenza data la cogente richiesta di riconoscimenti sociali per le classi meno abbienti. Se l’utopica vicenda della Gilda di San Giorgio documenta il coinvolgimento di Ruskin nella creazione di un’esperienza che oggi potremmo connotare come non-luogo, insieme anche ad un’azione di influenza dello studioso inglese sul mondo religioso Anglicano contemporaneo nella sua Oxford6, non diversamente altre esperienze europee documentano, attraverso altri non-luoghi, la medesima attesa spirituale e religiosa che emerge dal secolo. Nel secolo, dunque, dove la modernità sviluppa ed esplicita la nuova positiva fiducia dell’uomo nelle sue capacità tecniche Ruskin pare puntare, almeno secondo le interpretazioni del suo pensiero che ne fanno i suoi contemporanei su un rinnovato e religioso rapporto con la natura e con l’ambiente. Il rapporto religioso, o di richiamata armonia con le energie naturali e il loro impiego nella dimensione di una più florida esperienza di crescita condivisa della civiltà deve fare i conti con l’energia del profitto che, in chiave antiutopica, vuole provvedere esclusivamente alla propria definizione di sussistenza ed, insieme ad essa, alla legittimazione del proprio potere. Ed ecco dopo questa folata di inani lamenti contro la scienza, oramai trascorsa sui campi della cultura moderna, levarsene un’altra di più larga ala e d’impeto maggiore. L’invasione della industria meccanica e tecnica e lo spirito animatore di codesta grande produttrice della ricchezza, l’utilismo pratico del capitalismo speculatore, che dalle grandi officine urbane, per opera dell’industria agricola, dilata l’azione sua fino nelle campagne, trasfigurandone in linee uniformi l’aspetto un dì così pittoresco, suscitò questo doloroso stato d’animo, che ebbe la sua più alta espressione nel Ruskin e nei seguaci suoi, ed echeggiò fino nelle ultime pagine dello Spencer,[…] Come l’epopea eroica, secondo disse argutamente il Renan, non è più possibile coll’artiglieria, così l’idillio dei campi parve violato dalla applicazione delle macchine alla industria agricola e dal moltiplicarsi delle reti ferroviarie7.
Non-luogo religioso e non-luogo produttivo La stessa fede religiosa viaggia su rotaie, almeno quella rappresentata nel non-luogo del romanzo di Zola dedicata alla città delle apparizioni mariane ai piedi dei Pirenei8. La nota esortazione di Ruskin ad avere gli spazi delle stazioni ferroviarie privi di decorazione oggi suggerirebbe di cogliere, in quell’invito, la ‘profetica’ definizione dei cosiddetti non-luoghi così come la letteratura antropologica, da De Certeau ad Augé9, ne ha prospettato l’esistenza. Similmente a Ruskin, la connotazione dei non-luoghi contemporanei fa riferimento alle funzioni di transito ospitate da tali attrezzature, trovando, ancora nell’approccio dello studioso inglese, una prospettiva di lettura degli spazi della odierna contemporaneità. Non diversamente, inoltre, la globalizzata dimensione delle comunicazioni, sostenuta da certi moderni atteggiamenti, permetterebbe di cogliere, in alcune intuizioni ruskiniane anticipazioni di notevole livello. Colpisce, tuttavia, il riscontro quasi contemporaneo, all’interno della cultura dell’Ottocento, del valore educativo e di metodo che viene riconosciuto ai testi dell’inglese. Robert de la Sizeranne, come richiamato, nell’introduzione al suo Ruskin et la religion de la beauté, spiega il carattere utopico e la dirompente posizione dell’intellettuale sia
nel leggere l’arte del passato, sia nel contributo di coinvolgimento alla modifica delle sorti della civiltà del suo tempo con l’esperienza della Gilda di San Giorgio. La connotazione di lettura ‘religiosa’ dell’impegno e delle utopie ruskiniane –almeno come vengono percepite in alcuni ambiti europei, francesi in particolare – si innesta nel contesto di un secolo, l’Ottocento, che ha vissuto il proprio tempo tra spinte nazionalistiche e mistiche epochai, dove il cristianesimo delle origini diventa sostrato, insieme al socialismo, per una più estesa ‘redenzione’ delle masse subalterne. Il caso francese della cittadella religiosa di Lourdes che dal 1858, a seguito dei prodigiosi eventi narrati dalla figlia di un mugnaio si configura perspicuamente collimante con le attese del maestro di religione che è Ruskin. In realtà si perora un rinnovato rapporto umano-divino in chiave di redenzione sociale, soprattutto per brani di umanità lasciati nel degrado e affiliati alle categorie sociali subalterne, quelle neglette degli ammalati e dei reietti. L’utopica redenzione degli ultimi e degli emarginati andrebbe colta come connotazione puntuale della particolare creazione del non-luogo ai piedi dei Pirenei anche attraverso il segno metastorico dell’acqua scaturita dalla roccia di Massabielle. Non diversamente, in Italia, su coordinate anch’esse afferenti alle categorie dei non-luoghi, ai margini del sito dell’antica città di Pompei, dove l’archeologo Giuseppe
Fig. 4 Francesco Venezia, esterno del Padiglione temporaneo, nell’Anfiteatro di Pompei, per la Mostra Pompei e l’Europa, Napoli-Pompei 2015 (foto S. Carillo).
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Fiorelli restituiva i corpi-reliquie degli antichi abitanti periti sotto l’eruzione vesuviana del 79 dC, dal 1876 nasceva una città, la Nuova Pompei che, sotto l’egida della devozione alla Vergine del Rosario aveva come scopo prioritario il recupero della bellezza della vita attraverso la riscoperta del contenuto religioso dell’esistenza. In una prospettiva di un futuro dato come ineludibilmente soggetto allo strapotere della tecnica la modifica e la trasformazione del territorio e del paesaggio appaiono come iniziale invenzione di nuove dimensioni della realtà e del tempo: inizia a nascere il non luogo ‘diffuso’ del Novecento. Un ambiente che, inevitabilmente poteva subire trasformazioni straordinarie e delle quali, in futuro si sarebbe dovuto tener conto fosse solo perché tutta la utopica modernità scientista, nel modificare il paesaggio avrebbe lasciato i suoi segni concreti nel più lato aspetto dei valori d’ambiente e, dunque, dell’uso della risorsa più cospicua dei territori. Nel 1907 Alessandro Chiapparelli scriveva: Oggi nella aprica baia di Pozzuoli, sulle ruine marmoree delle terme antiche, si stende l’uniforme linea del cantiere Armstrong, e là dove Cicerone meditava serenamente le eleganze delle sue Accademiche, leva la sua nuda ossatura metallica una gigantesca grue di ferro a servizio degli armamenti navali. Non è meraviglia che nel primo irrompere della meccanica industriale colla borghesia sembrasse spegnersi ogni lume di poesia ed esulare dal mondo ogni forma di bellezza. Isterilito dissero ogni ideale fra le anguste e sterili consuetudini nuove; ogni nobile e classico stile invilito dinanzi al realismo brutale di una vita tutta volta all’utile e al tornaconto. E col declinare dell’arte, parve esalasse anche dall’anima umana quell’essenza sottile e imponderabile che costituisce la felicità. Era il tempo in cui il positivismo intendeva contenere l’ala del pensiero idealistico in
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nome della esperienza; e fra i classici e i romantici che si contendevano il campo dell’arte, s’assideva arbitro il verismo. Vinta la prima ripugnanza, gli artisti, questi sacerdoti dell’ideale, s’acconciarono a ritrarre le inferiori forme della vita; ed avemmo il romanzo sperimentale, la celebrazione poetica di Afrodite pandemia, e un’arte figurativa non più figlia, sì ancella della natura. Se non che da queste strette, prima ancora del pensiero, l’arte anelava a svincolarsi. E quando appena s’intravedeva che il positivismo angusto non poteva bastare più all’intelletto e meno ancora all’anima, l’arte fu, specie nell’ultimo quarto del secolo, uno dei più efficaci strumenti di codesta liberazione e della nuova rivelazione dell’ideale10.
pagina a fronte Fig. 5 Francesco Venezia, interno del Padiglione per la Mostra Pompei e l’Europa, con l’esposizione dei calchireliquia degli antichi pompeiani soffocati dall’eruzione vesuviana del 79 dC (foto S. Carillo).
L’intellettuale inglese per parte sua, nel suo ruolo di maestro di religione sottolinea la dimensione dell’armonia con il sito il cui l’uomo era stato collocato dal Creatore. Egli così raccomanda: Quando la vita attiva è nobilmente adempiuta”, dice Ruskin, “e la mente viene poi sollevata al di là di essa in una visione chiara e calma del mondo che ci circonda, le forme più semplici della Natura sono soprendentemente animate dal senso della Presenza Divina; gli alberi e i fiori sembrano tutti d’un tratto figli di Dio; e noi stessi, i loro simili, fatti dalla medesima polvere ma più grandi di loro solo nell’avere una potenziale consapevolezza della Potenza Divina presente nelle nostre opere: allora tutti gli usi comuni, e le forme palpabili visibili delle cose, diventano subordinati nelle nostre concezioni alla gloria interiore; – ai richiami che ci parlano di Dio e agli aspetti mutevoli e tipici con cui, ubbidendo alla nostra coscienza, testimoniano grati la verità della vita11.
A. Chiapparelli, L’arte e la sua azione sociale… cit., pp. 45-46. 11 F. W. Farrar, Ruskin As A Religious… cit., p. 4. 10
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Francesco La Vega, le intuizioni pioneristiche per la cura e la conservazione dei monumenti archeologici di Pompei Valeria Carreras | valeria28@fastwebnet.it PhD lectures Università degli Studi di Napoli Federico II
Abstract The Vega provided pioneering and far-sighted conceptual insights that concerned the conservation and care of archaeological monuments, such as to be able to compare them with those of modern restoration theory. The affinities of thought that we find with some passages of the Ruskinian The Seven Lamps of Architecture, the backbone of the historicist culture of modern restoration, anticipate the times, providing those principles of nineteenth-century treatises characterized by wide disputes between the supporters of J. Ruskin and Viollet Le Duc. The architect of the royal excavations, F. La Vega, with the role of custodian of the Portici Museum, presented to the Cavalier Macedonio, the Intendant of the Real Museum of Portici, a document that provided modern suggestions for the preservation of archaeological monuments and guidelines for their maintenance. Parole chiave Pompei, apparati decorativi, didattica, conservazione, Francesco La Vega AS-MANN, VII A 3, 1, Memoria nella quale si cerca di provare che convenga aversi ogni cura dei monumenti che si trovano nei Reali Scavi: e specialmente di quelli di Bronzo come in conseguenza convenga di ristaurarsi questi. Della pratica e abilità che deve dagli artefici destinati a simile lavoro quali sono quelli che vi restano destinati. E che non convenga impiegarsi i medesimi che non pagarli a giornate, edita in V. Papaccio, Una memoria di Francesco La Vega sul restauro, «Cronache Ercolanesi. Bollettino del Centro Internazionale per lo studio dei papiri ercolanesi», vol. 23, 1993, pp. 157-160. 1
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La Vega fornì intuizioni concettuali pioneristiche e lungimiranti che riguardavano la conservazione e la cura dei monumenti archeologici, tali da poterle paragonare a quelle della moderna teoria del restauro. L’architetto dei reali scavi, F. La Vega, custode del Museo di Portici, presentò al Cavalier Macedonio, intendente del Real Museo di Portici, un documento1 che forniva suggerimenti moderni per la conservazione dei monumenti archeologici e linee guida per la loro manutenzione. Con La Vega nasceva l’idea di bene con fini didattici, un concetto estremamente pioneristico, secondo cui bisognava aver cura di educare altri studiosi agli scavi e ai musei «mediante alcune riparazioni possono sussistere per comune istruzione o diletto». Lo studio e l’applicazione della metodologia conservativa a Pompei sono espressione di una sensibilità romantica, che caratterizzerà la moderna teoria del restauro. Alla fine degli anni ‘80 del Settecento ebbe inizio l’adozione di una nuova metodologia di scavo, in apricum (Fig. 1), dove la scoperta del sito diventa una realtà tangibile, percorribile e visitabile, meta di letterati, filosofi e antiquari consapevoli di trovarsi di fronte a un documento inteso
Fig. 1 F. Fabris, Lo scavo del tempio d’Iside, in W. Hamilton, Campi Phlegreaei, 1776.
Fig. 2 J. L. Desprez, Porta Ercolano, Necropoli di Porta Ercolano, Tombe Monumentali, Veduta della porta antica della città di Pompei, Incisore F. Piranesi, 1789, in F. Piranesi, Topografia delle fabbriche scoperte nella città di Pompei, tav. 2, 1836, Acquaforte. Collezione m.a.x. Chiasso.
come memoria di eccezionale valore. Ciò che fu complesso e rischioso a Ercolano, come l’esproprio a cielo aperto, a Pompei si praticò in maniera immediata e meno onerosa2 (Fig. 2), ciò che non si poteva a soddisfare ad Ercolano in termini di curiosità da parte di viaggiatori ed eruditi, trovava risposta a Pompei grazie alle migliori condizioni di disseppellimento. Si delineava la consapevolezza della necessità di una cura maggiore e un’attenta manutenzione del sito di Pompei con la sistemazione delle aree scavate, per consentire un’adeguata fruizione degli spazi nel rispetto della salvaguardia del bene. La didattica assumeva un ruolo rilevante, infatti, il visitatore, doveva poter visitare le rovine in maniera agevole e usufruire di strumenti e sussidi che lo possano mettere in condizione di comprendere meglio3.
2 Cfr. E. Sorbo, Tra materia e memorie Ercolano (17111961), Milano, Ed. Maggioli 2014, p. 45. 3 F. Zevi, La storia degli scavi e della documentazione, in Pompei 1748-1980. I tempi della documentazione, a cura dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione in collaborazione con la Soprintendenza archeologica delle province di Napoli e Caserta e della Soprintendenza Archeologica di Roma, Roma, Ed. Multigrafica 1981, p. 13.
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4 E. Sorbo, Tra Materia e Memorie… cit., p. 168. 5 Cfr. Ibidem. 6 V. Pappaccio, Una memoria di Francesco La Vega… cit., pp. 157-160. 7 Cfr. V. Papaccio, Una memoria di Francesco La Vega… cit., p. 157.
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La visita agli scavi di Pompei consentiva l’esperienza unica di camminare in una città antica a cielo aperto4, una visione più autentica, pratica e diretta. L’idea di conservare i reperti in situ nasceva proprio dal desiderio di soddisfar i curiosi5 e dall’idea di collegarsi ad una nuova idea di visita. A Pompei, come ad Ercolano, ebbe inizio una ricerca incessante di tesori da disseppellire, scavando dove il terreno meglio permetteva la spoliazione di tutto ciò che poteva essere di interesse e riseppellendo, senza annotare l’esatta ubicazione dello scavo. Secondo queste modalità furono portati avanti gli scavi del predio di «Giulia Predia Felice», delle varie case «dell’insula occidentale» e alcune «Case nella Regione VIII». Nel 1764 subentra Francesco La Vega che, alla morte di Alcubierre, assumerà la direzione degli scavi. Il più illuminato tra gli scavatori di Pompei, diede vita a quella che viene definita la seconda ‘generazione degli scavi’. La città seppellita dalla lava e dai lapilli, da appendice marginale dell’impresa ercolanese, assume un ruolo prioritario dell’attività archeologica del regno borbonico. Viene incrementato il numero degli operai e prende corpo una metodologia di base per la conduzione dei lavori. Inizialmente, infatti, gli scavi si concentravano per nuclei organici da espandersi gradualmente in modo da collegare le diverse zone, e successivamente si lasciavano a vista gli edifici scavati. La Vega diede inizio ad una nuova metodologia di scavo allontanando le terre di risulta per rendere visitabili gli edifici, intensificando le cure per sistemare le aree già scavate e presentarle nel miglior modo al pubblico. Questi tento di fornire una visione urbana e completa, elaborando un progetto organico di rilevazione dell’antica cerchia muraria adottando una nuova impostazione metodologica dello scavo, passando, quindi, dall’interesse per le anticaglie a quello per il documento materiale. Cosi Pompei diventa una città-museo, una realtà tangibile, percorribile e visitabile, affrontata con sentimenti contrastanti da letterati, antiquari, e archeologi con la coscienza di trovarsi di fronte a un documento unico. Il desiderio di «soddisfare i curiosi»6 con una visita in situ di un’architettura archeologica con annessi gli apparati decorativi, richiede interventi di carattere storico–conservativo portando ad intensificare la manutenzione e il consolidamento strutturale. La manutenzione acquistava un ruolo preminente: si sfrattavano le rovine, si riparavano le ripe, si provvedeva allo scolo delle acque e si coprivano i pavimenti per ripararli dalle gelate. La Vega mostra una sensibilità e una perspicacia nella cura conservativa delle antichità, esprimendo criteri da seguire per la conservazione dei monumenti antichi, oggi confluiti e perfezionati nelle attuali ‘carte del restauro’. Fu un precursore del pensiero moderno sul restauro e sulla conservazione, anticipando quelli che saranno i futuri fondamenti della disciplina, come il concetto di monumento esteso all’intero corredo decorativo dei partiti architettonici, l’importanza della conservazione di tutte le testimonianze antiche, il rispetto dell’istanza storica che non deve concedere prevaricazioni in sede di ricomposizioni mancanti e stilistiche7. L’architetto degli scavi reali, nei primi di giugno del 1782, presentò al Cavalier Macedonio, Intendente del Real Museo di Portici, un documento sotto forma di memoria che racchiude tutte le intuizioni concettuali che riguardano la cura e la conservazione dei monumenti, mostrando una sensibilità storica e artistica per gli apparati decorativi e il loro contesto, definendoli monumenti ‘stabili’. Un’affermazione rivoluzionaria per quel tempo se si considera che fino a quel momento gli intonaci dipinti venivano estratti dal loro contesto per la mensualizzazione, si legge, infatti, che
per i monumenti stabili io considero non solo gli edifici in quanto alle fabbriche che li compongono ma benanche gli ornati che sono alle medesime fabbriche unite, come gli intonaci dipinti, pavimenti, iscrizioni, labi, pozzi. Per quanto agli edifici si deve procurare di conservarli per quanto sia possibile diroccati in parte come si trovano ma procurando che vadano all’intera loro distruzione più tardi possibile e però si devono rinforzare alcune delle mura più patite e quelle specialmente che sopportano l’urto di altri edifici soprapposti [...]. Come è desiderabile di conservarsi le fabbriche cosi ugualmente piacevole si rende ed istruttivo l’osservare queste abbellite degli intonaci dipinti, dei pavimenti e di tutt’ altro che gli resta annesso, cosa benanche che accade da più anni a questa si è procurato fare in Pompei. Dico di esserci procurato di fare poiché accade più volte che se sen’abbiamo assolutamente da levare e delle pitture e dei pavimenti. Primo poiché i pezzi molto singolari meritano maggiori cautele per conservarli di quelli che si possono usare in Pompei ove sarebbe facile che mancassero o per l’ingiuria delle stagioni o per l’avidità delle persone amanti delle antichità. In secondo luogo occorre altre volte di doversi levare qualche pavimento o qualche pittura quando per sua natura non può sussistere la fabbrica sulla quale si trova adattata nell’atto che si va scoprendo poiché sarebbe cosa berbera in tal caso di perdersi il pavimento o l’intonaco in un istante senza lasciar quasi memoria. Sicché ripeto che non ostante si ammetta conveniente di non levarsi alcun pavimento o pittura pure ci sono molti casi nei quali è assolutamente necessario di farlo [...] uno solo dei quali farebbe l’ornamento più ricercato di un gabinetto di Inghilterra e Francia8.
La Vega forniva una moderna visione della tecnica del distacco parietale, affrontata soltanto in condizioni estreme per salvaguardare l’unicità del reperto. Il principio dell’indissolubilità delle parti che compongono un monumento è una reale anticipazione della necessità di attribuire un valore all’integrità architettonica nei suoi aspetti materici, statici e figurativi, non ammettendo smembramenti. Fu proprio La Vega, nel 1771, a proporre una visione estremamente attuale del significato e del valore di queste pitture, affermando che la pittura romana era una pittura essenzialmente decorativa, una pittura parietale, appunto, e come tale non va vista isolata ma deve essere inserita nel contesto architettonico di cui era parte integrante, di conseguenza il valore di questa si perde nel momento in cui l’insieme del dipinto veniva smembrato dal suo contesto. È con questo spirito che ebbero inizio gli scavi della Casa del Chirurgo nel 1771. Secondo la proposta di Francesco de La Vega, un ambiente con molte pitture doveva essere lasciato interamente come era stato ritrovato, cercando di coprirlo e proteggerlo sia dagli agenti atmosferici (Fig. 3), attraverso la realizzazione di un tetto, sia «per soddisfare il pubblico, affinché le pitture di altro pregio non avevano che quello della combinazione, la quale veniva a mancare nel tagliarsi in pezzi»9. Si tratta di una serie di idee organizzative e metodologiche che La Vega cercherà di attuare quando gli sarà consentito. In una logica estetica di conservazione, introdusse un’istanza innovativa, secondo cui l’arte doveva essere intesa come attività didattica per tramandarne la storia e il valore documentario dei reperti, ritenendo assolutamente indispensabile per la loro conservazione e per la trasmissione futura, la riproduzione in immagine. Nasce la consapevolezza quanto mai attuale del legame tra ambiente e sua decorazione e la conduzione illuminata di La Vega, direttore degli scavi assunto alla morte di Alcubierre, poneva questioni legate alla rappresentazione e alla conservazione degli affreschi e le relative architetture e in generale sull’idea di «riattare»10 il sito stesso. Già nel 1781 ordinò di «far lacertare tutte le tonache». Il 20 ottobre del 1787, inoltre, scriveva nei giornali di scavo che il pregio di alcune pitture consisteva proprio nella veduta d’insieme, peculiarità che si perdeva con le operazioni di distacco11. In un documento datato Portici, 20 ottobre del 1787 a tal proposito si legge che
8 Ibidem, p. 157, Titolo del documento: Memoria nella quale si cerca di provare che convenga aversi ogni cura dei Monumenti che si trovano nei Reali Scavi: e specialmente di quelli di bronzo come in conseguenza convenga di ristaurarsi questi… cit. 9 P. Panza, Antichità e restauro nell’Italia del Settecento. Dal ripristino alla conservazione delle opere d’arte, Milano, Franco Angeli 1990, p. 53. 10 E. Sorbo, Immaginare, rappresentare, progettare, Ercolano. Dalle “Antichità di Ercolano Esposte” alla “Storia di Ercolano” di Michele Ruggiero, in Id., Tra Materia e Memorie… cit., p. 112. 11 M. Pagano, I Diari di scavo di Pompei, Ercolano e Stabia di Francesco e Pietro La Vega (1764-1810). Raccolta di studio di documenti inediti, Roma, L’Erma di Bretschneider 1997, pp. 92-93.
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Ibidem. Ivi, pp. 92-93. 14 Ibidem. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 G. Fiorelli, Pompianarum Antiquitatem Historia, «addenda», vol. 1, 2 Giugno e 3 Luglio del 1788, p. 168. La cronologia di questa corrispondenza è la seguente: al 20 Ottobre del 1787 La Vega scrive la nota in cui consiglia di disporre una campagna di documentazione delle pitture; il 13 Dicembre 1787 l’Accademia propone al Re che vengono eseguiti i disegni delle pitture che non si possono distaccare; 14 Gennaio del 1787 il Re approva approva l’istanza dei disegni, il 2 Giugno del 1788 viene prescelto G. Lo Manto per disegnate le dette pitture. Il 3 Luglio del 1788 Lo Manto copia a colori le pitture di Pompei al fine di preservarne la memoria dalle ingiurie del tempo insieme ad altro regio disegnatore G. Casanova. 18 Cfr. M. P. Rossignani, Saggio sui restauri settecenteschi ai dipinti di Ercolano e Pompei, «Contributi dell’Istituto di Archeologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore», vol. I, serie 3, Milano 1967, pp. 27-28. 19 Cfr. P. D’Alconzo, Carlo di Borbone a Napoli: passioni archeologiche e immagine della monarchia, in Cerimoniale dei Borbone di Napoli 1734-1801, a cura di A. Antonelli, Napoli, Ed. Arte’m 2017, pp. 127-145. 12 13
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in Pompei trovansi scoperti più siti con pareti abbellite di pitture il pregio delle quali consiste nell’assieme delle varie parti, cosa ch’interamente viene a perdersi quando si vogliono tagliare in pezzi; ma tali pitture coll’andare del tempo mancheranno specialmente restando esposte alle ingiurie delle stagioni. A conservarne però la memoria, ed a farle conoscerle di presente a quelli che non possono andare sul luogo, altro mezzo non vi è che di fare copiare con colori, se fosse possibile le intere pareti dipinte nello stato che si trovano, o alla meno disegnarle in maniera da potere essere incise. La pubblicazione di queste pitture unite alla pianta delle case che si sono già in parte disegnate cosi da me che dal mio fratello, darebbe ai dilettanti delle Belle Arti non meno che alli studiosi dei costumi antichi, una completa soddisfazione, che dalle semplici descrizioni non può giammai sperarsi di ottenere, nè dalla pubblicazione dei pezzi di pitture che trovansi raccolte nelle stanze addette al R(ea)le Museo. Propongo pertanto all’E. V. in vista delle ragioni esposte, di volere ordinare ch’s’impiegasse in formare tali disegni il Disegnatore dell’opera di Ercolano D(o)n Gio(vanni) Casanova, come quelli che può eseguirli con ogni precisione e grazia conveniente; e se cosi stima, determinare che tali disegni si facessero colla mia intelligenza, cosi per la scelta come pella maniera da disegnarsi; poiché ardisco dire, che senza tale determinazione si aggiungerebbe all’Opera di Ercolano molt’altro d’inutile12.
La Vega suggeriva che per conservarne la memoria e diffondere la loro conoscenza a chi non poteva visitare il sito «altro mezzo non vi è che di far copiare con colori»13 e aggiunge «se fosse possibile le pareti intere dipinte nello stato o cui si trovano»14, inoltre sosteneva di voler supervisionare al lavoro di documentazione/riproduzione affinché fosse eseguito con «precisione e grazia»15 altrimenti «senza tale determinazione si aggiungerebbe all’Opera di Ercolano molt’altro d’inutile»16. Le idee di La Vega vennero approvate a seguito della richiesta fatta dagli Accademici Ercolanesi al Re «di far copiare in colori tutte quelle pitture di Pompei che non si potevano staccare»17, in linea con le esperienze romane dei decenni precedenti. La riproduzione a colori delle pitture si presentava, dunque, come scelta conservativa che si faceva portavoce di un interesse non solo meramente iconografico, rivolto al solo quadro figurato, ma anche alla volontà di conservare l’aspetto decorativo dell’insieme18. La diffusione delle immagini di questi anni costituiscono una preziosa testimonianza della condizione di frammentarietà e di mutilazione in cui riversavano i reperti. Il disegno assumeva, così, il ruolo di strumento di conoscenza delle tecniche esecutive, dei materiali, la rappresentazione dello stato dei luoghi, arricchito con descrizioni del degrado delle strutture e degli apparati decorativi (Fig. 4), testimonia un’evoluzione dell’approccio archeologico che supera le mere operazioni di scavo eseguite fino a quel momento. L’evoluzione in senso conservativo risiedeva nel valore documentario di ogni oggetto, un valore non più attribuito al suo trasferimento in Museo dei reperti, ma reso tangibile dalla sussistenza stessa nel sito, in una consapevolezza del valore ambientale degli elementi. La riproduzione andava, così, a costituire il veicolo per una didattica che rispondesse all’interesse dei dilettanti, dei collezionisti, dei grandtouristi, degli architetti e degli artisti, ansiosi di poter studiare la città romana e trarne ispirazione per le loro creazioni19. Con il passare degli anni le teorie di La Vega si arricchivano di problematiche legate allo scavo, alla fruizione e alla conservazione del sito, iniziando un percorso complesso che avrebbe accompagnato l’evoluzione della storia della scoperta delle pitture di Pompei, destinata a soddisfare necessariamente l’esigenza di lasciarle in situ. Un mutato atteggiamento nei confronti dell’esplorazione archeologica considerata non più una pratica antiquaria predatoria ma una disciplina dove i beni archeologici identificano e rappresentato la storia del territorio, una sensibilità che non è frequentemente ravvisabile storicamente in quegli anni nella conservazione dei monumenti
archeologici. Pertanto la Vega delinea quei criteri e quei principi pioneristici che precorrono la moderna teoria del restauro e la sua nascita come disciplina. L’architetto forniva un moderno concetto di conservazione secondo cui «per quanto agli edifici si deve procurare di conservarli per quanto sia possibile diroccati in parte come si trovano ma procurando che vadono all’intera loro distruzione quanto più tardi possibile»20. È evidente l’affinità di pensiero con John Ruskin che, circa un secolo più tardi, affermava che non avrete alcun bisogno di restaurare […] vegliate con occhio vigile su un vecchio edificio, conservatelo facendo del vostro meglio e con tutti i mezzi la sua ultima ora infine suonerà: ma che suoni apertamente e che nessuna sostituzione dissonante e falsa lo privi dei doveri funebri del ricordo21.
Tali affinità che si riscontrano con alcuni passi del ruskiniano The seven lamps of architecture fondamento posteriore della cultura storicista del restauro moderno, anticipano i tempi, fornendo quei principi della trattatistica ottocentesca che porteranno alle prime elaborazioni teoretiche della disciplina sul finire del XVIII secolo.
Fig. 3 J. L. Desprez, incisione raffigurante Le coperture straminee poste a riparo della cella e del purgatorium del tempio di Iside, Stoccolma, National Museum. (da Tempel, i kork. Modeller av antika byggnader ur Gustav III: samlinger, Goteborg 1992, p. 37, Fig.9). Fig. 4 V. Campana, Rami Inediti delle Antichità di Ercolano con gli affreschi dei paradoi est, 1772. Nel 1772 F. La Vega chiama a Ercolano V. Campana per disegnare alcuni particolari del Teatro con l’obiettivo di documentare gli affreschi. (Biblioteca Museo Archeologico Nazionale di Napoli).
V. Pappaccio, Una memoria di Francesco La Vega… cit., pp. 156-157. 21 J. Ruskin, The seven lamps of architecture, London, Smith, Elder & Co 1849, Cap XIX. 20
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Francesca Castanò
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«Sono felice di parlarti di un architetto, Mr. Philip Webb» Francesca Castanò | francesca.castano@unicampania.it Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”
W. R. Lethaby, Philip Webb and his work, Oxford, Oxford University 1935, nuova edizione a cura di G. Rubens, Londra, Raven Oak 1979, pp. 29-30. Fu sempre la solidità del progettista che lo portò, più tardi, ad assumere un ruolo centrale nell’organizzazione della S.P.A.B. 2 N. Pevsner, I pionieri del Movimento Moderno da William Morris a Walter Gropius, Milano, Rosa Ballo Editori 1945, p. 65. 3 K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, Bologna, Zanichelli 19862, p. 40. 4 S. Kirk, Philip Webb pioneer of Arts and Crafts Architecture, Chichester, Wiley-Academy 2005, pp. 20-35 e riferimenti bibliografici. R. Gorjux, La Red house, Bari, Dedalo 1983. 5 G. Naylor, The Arts and Crafts Movement. A study of its Sources, Ideals and Influence on Design Theory, London, Studio Vista and Cambridge, Massachusetts Institute of Technology Press 1971. William Morris. Opere, a cura di M. Manieri Elia, Roma-Bari, Laterza 1985. 6 C. Miele, Introduction, in William Morris on Architecture, a cura di C. Miele, Sheffield, Sheffield Academic Press 1996, pp. 6-15. 1
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Abstract The possibility of reading the ruskinian heritage through Webb’s work in the fields of interior design and furnishing systems opens up new reflections and allows us to bring the beginnings of modern design back into the conservative sensibility of the second half of the nineteenth century, which also consolidates the close collaboration with William Morris. The intervention aims to investigate Webb’s contribution to design culture and his productions in the fields of furniture products and artistic industries. The continuous dialogue between tradition and innovation changed in the course of his professional life, between Oxford and London. The Red House, the first major architectural synthesis, has shown the traces of this progressive vision of the future. From the lesson of Ruskin, Webb would have taken on the attention to detail even before the whole, a rare sensitivity for the design and use of color, the full knowledge of materials, from stone, brick, wood, glass. Parole chiave Storia, design, interior, industria artistica
Introduzione L’interesse mai sopito a riesaminare l’attività e il contributo dei momenti mitici della cultura progettuale britannica, cui le storie dell’architettura e del design sono fortemente debitrici per averne ancorato il principio pioneristico di modernità, anima anche le riflessioni a seguire sulla figura di Philpp S. Webb (1831-1915). Tra gli interpreti di questo tempo eroico, l’architetto di Oxford, è stato un protagonista esemplare, per la capacità di inverare il messaggio morrisiano con un approccio contemporaneo tale da consentirgli di influenzare le generazioni di progettisti a seguire e di perdurare nel tempo e nello spazio critico con eccezionale continuità. Autore con la Red House di un’originale opera di architettura, Webb avrebbe dato alla casa una nuova consistenza, giungendo a porre in discussione a metà Ottocento i fondamenti del sistema domestico, dai suoi codici esteriori fino alla più intima internità. Non a caso Ruskin, nel presentare Webb allo scrittore inglese William Hale White, in una lettera del 1867, così sottolinea, forse in modo troppo sintetico, le qualità dell’ar-
chitetto: «sono felice di parlarti di un architetto, Mr. Philip Webb di 7 Grat Ormond Street, che farà per voi un solido lavoro e a un giusto prezzo»1. Quel “solido lavoro” sarà quello che farà sottolineare a Nikolaus Pevsner, oltre 70 anni più tardi, nel celebre Pioneers of the Modern Design, la forza innovante della sua opera marcata dall’indifferenza alla regolarità, dal rifiuto all’adozione di modelli2. A cavallo tra i due secoli Webb diede alla cultura progettuale una nuova consistenza, intendendola come costruzione funzionale in cui anche la bellezza data dalle giuste proporzioni, i buoni materiali e i colori appropriati e descritta fin nel più piccolo dettaglio, rispondesse a uno scopo preordinato. Come Morris, amico cliente e collega di una vita, egli con le parole di Frampton «nutrì un rispetto quasi mistico per la sacralità dell’artigianato e per la terra su cui vita e architettura in definitiva si fondavano»3. L’inclinazione alla onestà strutturale e il rispetto per la cultura locale si tradussero nella Red House in una progettazione funzionale in cui prevalsero l’ispirazione alla natura e l’ambientamento4. A questa prima collaborazione tra Morris e Webb si possono far risalire la propensione al design dell’uno e l’idealismo Arts and Crafts dell’altro5. Per entrambi essa costituì, pertanto, il luogo d’origine del rinvigorito vocabolario ispirato al Medioevo eretto a emblema di semplicità e moralità e a manifesto di una concezione estetica unificata, in cui l’arte potesse procedere senza esitazioni dalla grande alla piccola scala6. Il concetto che nell’architettura domestica anche i sistemi di arredo dovessero essere progettati con cura e attenzione animò le intenzioni progettuali di Webb7. Le soluzioni degli interni rispondevano coerentemente alla forma complessiva dell’edificio nella sua totalità. Una serie di spazi e di mobili sottoposti a un costante processo di unificazione, distante dall’uso eccessivo dell’ornamento, derivato piuttosto dalla modellazione dei materiali, dalla loro essenzialità, dall’assonanza consapevole di elementi diversi8. Alla concretezza e alla solidità di stampo medievale egli accostò senza conflitti parti improntate ad altri stili, generando arredi eclettici non riducibili a una prassi imitativa e assertiva della storia. L’adesione a un’arte sobria, raffinata e semplice al contempo investì anche la categoria degli useful objects, piccoli oggetti d’uso quotidiano, attraverso i quali egli sperimentò con maggiore libertà l’innovazione formale e la conoscenza di materiali e processi produttivi. Pur vicino agli ideali di purezza e spiritualità di Morris e dei preraffaeliti, fu in questo campo specifico della sua produzione che la lezione di Ruskin lo indusse a interpretare tutti i risvolti di quelle implicazioni economiche, umane e sociali racchiuse nell’opera d’arte. Il design degli oggetti e degli arredi rendeva possibile a Webb realizzare compiutamente il progetto etico-estetico-politico difeso dal teorico britannico volto a definire significati e finalità di una nuova cultura del vivere e dell’abitare. Nel mondo delle piccole cose, più ancora che in quelle grandi, nel senso del lavoro impiegato per realizzarle, nel loro farsi artigianale, nella disponibilità all’uso, nella loro stessa deperibilità, si sarebbero ritrovate la trasparenza e la verità rivelatorie di una nuova e più utile bellezza, come declinata da Ruskin9. P.W. e il design: note per un profilo storiografico Tra i testimoni dell’epoca vittoriana è William Richard Lethaby a presentare il più completo affresco di Philip Webb and His Work negli anni immediatamente successivi alla sua morte10. Il libro, pubblicato in forma completa nel 1935, raccoglie memorie, racconti e resoconti apparsi in precedenza su «The Builder» riferiti alla vita di Webb trascorsa tra Oxford e Londra, a partire dalla sua formazione presso John Billing e poi
Fig. 1 C. Fairfaix Murray, Philip Webb, 1873 (S. Kirk, Philip Webb…, p. 7).
M. Morris, William Morris. Artist, Writer, Socialist, vol. II, ristampa anastatica (ed. Oxford, Blackwell 1936), Cambridge, Cambridge University Press 2012, pp. 10-13. 8 E. Hollamby, Red House: Philip Webb, London, Phaidon 1991; J. Marsh, William Morris Red House: A Collaboration Between Architect and Owner, London, National Trust Books 2005. 9 M. Swenarton, Artisans and Architects: the Ruskinian Tradition in Architectural Thought, London, Macmillan 1989, pp. 32 e sgg. 10 W.R. Lethaby, Philip Webb… cit.; The late Philip Webb, «Journal of the Royal Institute of British Architects», 22, s. III, 8 maggio 1915, p. 339. Cfr. inoltre: E. L. Lutyens, The work of the late Philip Webb, «Country Life», 37, 8 Maggio 1915, p. 618; A. Keen, The late Mr. Philip Webb, «Journal of the Royal Institute of British Architects», 22, s. III, 12 giugno 1915, p. 395; G. Jack, Philip Webb, «Journal of the Royal Institute of British Architects», 22, s. III, 12 giugno 1915, pp. 369-371; M. Morris, ‘Philip Speakman Webb’, in The Dictionary of National Biography 1912-1921, a cura di H.W.C. Davis, J.R.H. Weaver, Oxford University Press, H. Milford 1927, pp. 560-562. 7
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RA 11 Un architetto non a caso estremamente apprezzato da John Ruskin. Cfr. la lettera al «Pall Mall Gazette», 16 marzo 1872, in The Work of John Ruskin, a cura di E.T. Cook, A. Wedderburn, vol. X, Library Edition, p. 459. 12 W.R. Lethaby, Philip Webb … cit., pp. 18-19. La biografia apparve per la prima volta nel 1925, come una serie di articoli redatti da Lethaby per il magazine di architettura «Builder», che solo dopo la morte di Lethaby furono raccolti dalla Oxford University Press in forma di libro. L’edizione del 1979 include un elenco di correzioni che Lethaby stesso aveva intenzione di inserire in vista della stesura finale del libro, curato successivamente da Rubens; S. Kirk, Philip Webb pioneer… cit., p. 303. 13 Ivi, p. 188. 14 Ibidem. 15 T. Rooke, The work of Lethaby, Webb and Morris, «Journal of the Royal Institute of British Architects», 57, marzo 1950, pp. 167-175; H.R. Hitchcock, Early victorian architecture in Britain, New Haven, Yale University Press 1954. 16 H. Honour, Cabinet Makers and Furniture Designers, London, Putnam 1969, p. 250. 17 J. Cooper, Victorian and Edwardian furniture and interiors: from Gothic Revival to Art Nouveau, London, Thames & Hudson 1987, pp. 154-176. 18 G. D’Amato, Storia dell’arredamento: dal 1750 a oggi, Roma-Bari, Laterza 1992; Eadem, L’arte di arredare,
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George Edmund Street11, fino alle ricerche e all’attività scaturite dall’incontro con Morris in percorsi «così intrecciati che spesso non si capisce quado finisce il lavoro di uno e inizia quello dell’altro»12. Lethaby descrive Webb come un progettista onesto, con una fertile inventiva e una forza austera, caratteri riscontrati anche da Ruskin. Nei lineamenti del profilo di abile e attento costruttore di edifici e di case un’attenzione particolare è data anche ai molti oggetti che le abitano e a tutte «le invenzioni, per la maggior parte arti ornamentali» delle quali Lethaby sottolinea la grande importanza anche a fronte delle architetture stesse e che, a suo parere, «dovrebbero essere più note alle persone degli edifici»13. Tuttavia a rendere preziosa la sua ricostruzione, più ancora di una analisi del catalogo webbiano, è il tono rivelatorio con cui viene messa in luce l’indole più intima e segreta dell’architetto scomparso, che era stato invece così schivo e tranquillo in vita. Lethaby coglie l’importanza culturale della sua opera realizzata con la costanza minuziosa e la sapienza artigianale dei maestri di un tempo passato: «Prima che nel costruire si è artigiani del disegno, si deve pensare alla struttura e non allo stile, si deve disegnare la casa adatta alla vita moderna, anche il lavoro decorativo deve essere messo nelle mani di artigiani»14. Nel clima londinese della fine degli anni Cinquanta il revival gotico offriva una promessa per la rigenerazione delle arti, con effetti moralizzatori sull’umanità del futuro15. La casa sarebbe stata lo sfondo ideale attraverso cui interpretare tale palingenesi e lo spazio domestico il luogo d’elezione per incorporare il senso di microcomunità espresso dalla famiglia. Il camino ne diventava il cuore pulsante, assumendo anche nelle letture specifiche della produzione di Webb un riferimento narrativo costante, con un’attenzione specifica per le soluzioni degli interni e i sistemi di arredo, in particolare nelle storie del secondo Novecento, quando maggiore è l’attenzione per questo campo di interessi. Inserito da Hugh Honour tra Cabinet makers, testo del 1969, le sue serie colpiscono per l’originale affrancamento dal puro eclettismo e dall’uso mediato del linguaggio gotico e per un’inedita capacità interpretativa dell’armonia e della semplicità medievali attraverso i caratteri di robustezza e solidità, senza celare i dettagli funzionali delle falegnamerie in rovere di notevole sezione e resistenza16. Lo spostamento verso le storie del design è utile a condurre il contributo di Webb oltre le speciali narrative del fenomeno morrisiano, a partire dai palinsesti di Pevsner, e a estendere il suo catalogo di opere. Nel 1987 Jeremy Cooper in Victorian and Edwardian furniture presenta Webb come la figura centrale della ditta Morris & co, a cui fornisce disegni originali e prototipi di oggetti17. Dal disegno dei mobili, fino ai vetri colorati, ogni cosa è progettata e disegnata in dettaglio da Webb. Gli album di schizzi, dedotti dalle sue osservazioni di natura, animati di alberi, uccelli in volo, gatti che giocano, scafi di barche abbandonate, estremamente particolareggiati, forniscono a ebanisti e argentieri le istruzioni necessarie all’esecuzione dell’opera. Le serie degli arredi, estratti dal catalogo delle architetture, rappresentano ora un nucleo importante del suo pensiero compositivo, la testimonianza plastica dell’immaginario estetico Arts and crafts18. Per la capacità di spaziare nella biografia culturale di Webb e nelle opere alla grande e, in particolare, alla piccola scala, il testo più generoso e completo è la monografia di Sheila Kirk, pubblicata nel 2005 dalla Wiley-Academy19. La ricchezza del materiale documentario, l’uso delle fonti, la chiarezza espositiva nel ricostruire la sua carriera sotto ogni aspetto sono alla base di questo poderoso volume, corredato di un’ampia iconografia e una accurata selezione bibliografica. L’efficace distribuzione tematica se-
condo un’impostazione biografica, dall’amore per il mondo naturale ereditato dal padre, a un approccio simpatetico e rigoroso al lavoro di influenza materna, dal rifiuto del revivalismo, all’involontario avvio dell’urban eclectic-style cosiddetto Queen Anne, ne fanno la rassegna più aggiornata e accurata della materia webbiana. Il costruttore di oggetti L’attività di designer di Webb ebbe inizio a Red Lion Square, dove alla fine degli anni Cinquanta, progettò per Morris complementi d’arredo in un solido stile gotico semplificato. Credenze, armadi, cassapanche, piccoli mobili in cui alla parte portante, decisamente poco articolata, facevano da controcanto gli apparati decorativi preraffaeliti molto più ricchi e complessi20. L’armadio Prioress’s Tale realizzato da Webb come dono di nozze per William e Jane, fu da lui concepito come un massiccio e solido contenitore squadrato completamente rivestito dai dipinti di Edward Burne-Jones. I mobili di questo primo periodo, in legno di quercia, con pannelli di cuoi sovrapposti laccati e dipinti, o anche tinti in nero e oro, si ispiravano al secolo XVII e al periodo elisabettiano21. Webb, infatti, pur riconoscendo al Gotico l’esclusiva e inattaccabile bellezza, studiava e apprezzava le buone proporzioni, l’impiego coerente di materiali e l’elevato valore artigianale di ogni altra epoca. Nel 1888 avrebbe confidato all’amico Hale White, presentatogli vent’anni prima da Ruskin, di avere «quarrelled and rejoiced» con Morris per l’indulgenza e l’apertura verso altri stili, differenti da quello medievale22. Ispirato a fonti differenti per la progettazione di mobili, egli in ogni caso non ripropose mai dettagli e soluzioni tratti dal repertorio passato, ma operò sempre per progressive rielaborazioni. All’inizio degli anni Sessanta realizzò alcuni mobiletti da appoggiare su strutture portanti per alleggerire la forma complessiva dell’insieme. Ne è un esempio il St. George Cabinet, in mogano, quercia, pino e rame completato da Morris nel dettato ornamentale dei tre pannelli frontali della parte alta, ma che introduce nel sostegno realizzato da Webb gli elementi più significativi. Qui quattro appoggi torniti, collegati tra loro alla base in entrambe le direzioni, sono poi raccordati al piano della cassa sovrastante aggettante da due eleganti elementi ricurvi23.
Fig. 2 P. Webb, W. Morris, Red House, Bexleyheat, Londra. Fig. 3 Red House, vista interna.
Milano, Mondadori 2001; R. De Fusco, Storia dell’arredamento dal ‘400 al ‘900, Milano, Franco Angeli 2004. 19 S. Kirk, Philip Webb pioneer… cit., p. 6. 20 Encyclopedia of interior design, a cura di J. Banham, London-Chicago, Fitzroy Dearborn Publishers 1997, pp. 1374-1376. 21 S. Kirk, Philip Webb pioneer… cit., p. 15. 22 Ivi, p. 83. 23 H. Honour, Cabinet Makers… cit., p. 213.
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H.R. Hitchcock, Early Victorian Architecture in Britain, 2 voll., New Haven, Yale University Press 1954. 25 N. Cooper, The Opulent Eye. Late Victorian and Edwardian Taste in Interior Design, London, Architectural Press 1976. 24
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La realizzazione della Red House segnò un punto di svolta anche nell’evoluzione dei suoi arredi che riportarono il revivalismo gotico a un più sobrio stile romantico24. La massiccia credenza in rovere della sala da pranzo esibisce inattesi caratteri funzionali e pratici, in totale assenza di impressioni decorative demandate esclusivamente al colore rosso scuro del legno tinto. Analogamente alla cassa in pino nella stanza da disegno, dal profilo regolare e la sagoma stilizzata. Alla soglia dagli anni Settanta il design degli arredi andava ulteriormente semplificandosi, con l’abbandono delle tecniche di laccatura e di tintura, per lasciare a vista le venature naturali del legno e con la rinuncia a ogni altro apparato decorativo circoscrivibile ai dettagli delle maniglie, degli agganci e delle serrature25.
pagina a fronte Fig. 4 P. Webb, St. George Cabinet, per la Morris, Marshall, Faulkner & Co., 1861.
Fig. 5 P. Webb, Credenza in rovere con cerniere e serrature in metallo, dipinta nel colore rosso chiamato Morris Dragon’s Bloody, Red House, 1859. Fig. 6 P. Webb, W. Morris, Credenza in rovere, Red House, 1859.
Per l’arredamento di Standen, Webb si espresse con la misura e il controllo propri di coloro che sanno coniugare in maniera equilibrata le istanze funzionali e formali di un tempo nuovo. È più evidente in questi esemplari l’atteggiamento a evitare quelle citazioni arcaiche e severe desunte dal vocabolario eclettico codificato, come se il progettista volesse liberare l’opera da ogni traccia, citazione o rinvio storico. Le linee sono semplicissime e l’uso della geometria ancora più regolato e marcatamente sobrio. Seguendo la lezione di Pugin, Webb evocò l’estetismo medievale non negli ornamenti scolpiti e dipinti ma «nella semplice e vigorosa costruzione, nello schietto uso del materiale, in una generale impressione di solidità»26. Nei mobili sostenitori, più ancora che il quelli contenitori, tali obiettivi furono pienamente raggiunti. Nel tavolo in quercia del 1860 Webb controbilanciò il piano circolare privo di decorazioni, con montanti in legno a sezione quadrata lievemente inclinati verso l’interno a mo’ di piccole torri capovolte. Una soluzione strutturale che adottò anche per il modello rettangolare allungato del 1865, rinforzato con archetti pensili intagliati lungo l’alta fascia in legno posta al di sotto del piano di appoggio. Sul finire degli anni Sessanta, influenzato dal gusto Japanisme, Webb ridusse ulteriormente i profili degli elementi, alleggerendo ogni parte. Nel tavolo per il colonnello Gillum tanta snellezza si tradusse in chiarezza costruttiva e massima espressività27. Sussex chair e altre cose Una parte rilevante della produzione di Philip Webb è riservata alla progettazione di sedie. I modelli da lui elaborati potrebbero essere suddivisi tra quelli prodotti prima e dopo la Morris chair del 1866, la famosa poltrona in legno di quercia con schienale regolabile, rivestita con cuscini in velluto a motivi floreali. Il modello originale fu scoperto presso una bottega di falegnameria del Sussex da George Warington Taylor, l’allora direttore della Morris, Marshall, Faulkner & Co, che, colpito dalla leggera rotazione del sistema sedile e schienale, e dal movimento a scatto, inviò il bozzetto a Webb, affinchè lo rielaborasse28. Dal successo della nuova poltrona furono rinominate con Sussex tutte le serie di sedute messe in produzione dalla ditta, tratte dalla selezione dei migliori oggetti della tradizione inglese, anche quelle che riproponevano l’uso della paglia e un sistema di incastri elementari. In base a tale processo creativo, il progettista chiamava a raccolta i reperti del passato, li analizzava con cura, li studiava nel minimo dettaglio, per poi portarli a un livello di perfezione formale, ai limiti della serialità
R. De Fusco, Storia dell’arredamento… cit., p. 214. 27 N. Pevsner, Colonel Gillum and the Pre-Raphaelites, «Burlington Magazine», 95, 1953, pp. 27-81. 28 G. D’Amato, L’arte di arredare… cit., p. 370. 29 J. Andrews, Arts and Crafts Furniture, Hardback, Antique Collectors’ Club 20152, pp. 44-57. 30 Webb aveva avuto modo di conoscere e osservare direttamente le preziose serie in vetro conservate presso il Manufactures Museum, fondato a Londra da Henry Cole nel 1852, all’indomani della Great Exhibition. Rinominato a distanza di due anni South Kensington Museum e aperto ufficialmente al pubblico nel 1857, solo a seguito del trasferimento nel 1909 nella Cromwell Road acquisì il nome di Victoria and Albert Museum, esibendo la collezione più vasta di opere di arte visiva e applicate, tra cui molti esemplari dello stesso Webb (<https://collections.vam.ac.uk>, ultima consultazione giugno 2019) e (<https://www.vam.ac.uk/ articles/philip-webb-a-newvision-for-domestic-space>, ultima consultazione aprile 2019). 26
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Fig. 7 P. Webb, Tavolo in rovere, Red House, 1865. Fig. 8 P. Webb, Morris Chair, Sedia in ebano, ottone e velluto con schienale regolabile, Morris, Marshall, Faulkner & Co, 1866. Fig. 9 P. Webb, Sussex chair, Sedia in rovere, Morris, Marshall, Faulkner & Co, [1860].
31 W. Kaplan, The arts & crafts movement in Europe & America: design for the modern world, Catalogo della Mostra tenuta a Los Angeles, Wilmington e Cleveland nel 2004-2006, New York, Hames & Hudson 2004. 32 W. J.R. Curtis, L’ architettura moderna del Novecento, edizione italiana a cura di A. Barbara, C. Rodriquez, Milano, Bruno Mondadori 1999, pp. 36-37. Sulla figura di Ruskin riformatore M. Pretelli, Imparando di nuovo da Venezia. La lezione del crepuscolo, in J. Ruskin, Il riposo di San Marco: la storia di Venezia, scritta a servizio di quei pochi viaggiatori che hanno a cuore i suoi
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tecnica. Intrecci, meccanismi, accordi, capaci di rivelare la funzionalità e l’essenzialità degli oggetti d’uso popolari e del lavoro artigianale, che intenzionalmente mostravano i segni del tempo pur allontanandosi dall’orizzonte della storia29. La produzione dei più minuti oggetti d’uso, nel milieu culturale delle Arts and Crafts, avrebbe aggiunto un capitolo importante e poco noto alla sperimentazione colta di Webb nel campo del design. Tra gli incarichi svolti personalmente all’interno delle ditte morrisiane c’erano i progetti per le vetrate colorate, eseguiti fin dai tempi dell’apprendistato da Billing, i servizi di bicchieri da tavola ideati già per la Red House, i piccoli lavori in metallo, quali serramenti, candelabri, e anche gioielli, i corpi illuminanti, le piastrelle in ceramica, le carte e i tessuti da parato. Tutti questi differenti segmenti del catalogo webbiano, ancora molto frammentario, rimarcano il suo interesse rivolto al progetto di design, costituendo nel loro insieme una parte sostanziale della sua visione estetica. Le serie di bicchieri da tavola realizzati tra il 1862 e il 1863 dalla Powell
& Sons, ne sono la prova più tangibile. Egli utilizzò le tecniche della soffiatura per eliminare pressoché completamente il motivo decorativo e giungere a plasmare il vetro con esiti formali di rara eleganza. Per questi modelli Webb si ispirò direttamente ai vetri italiani e alle lavorazioni artistiche veneziane. La materia si piega, si rigonfia, si distende in una plasticità che sembra anticipare motivi e forme del secolo successivo, con un’assonanza profetica alle istanze del razionalismo30. La comunità ideale delle Arts and Crafts Negli anni che seguirono la Great Exhibition, ovvero il luogo d’elezione dell’emergente design artistico, le pressioni sul destino della cultura progettuale si erano fatte sempre più incombenti31. Su di essa gravavano i giudizi di Semper che deplorava la volgarità delle produzioni dell’epoca e gli ammonimenti di Ruskin per il quale la standardizzazione tanto degli oggetti in mostra quanto dello stesso Crystal Palace sancivano la morte dell’artigianato e il disumano materialismo della produzione manifatturiera capitalistica32. Da sincero ammiratore dei suoi scritti, Webb bene conosceva le visioni moralizzatrici del pensiero dell’inglese e la sua appassionata critica alla civiltà del vapore per il riscatto delle classi più deboli. Un’inquietudine intellettuale condivisa che costituiva uno dei tratti peculiari dell’opera riformatrice comune a entrambi e faceva si che, lungo strade diverse, l’armonia e la bellezza sovrane si instillassero nella società del futuro. L’attesa di questa nuova comunità si trasformò, tuttavia, per Webb nella ricerca di un’arte semplice, misurata, onesta e soprattutto utile a migliorarne ogni aspetto della vita, dalla domesticità, scandita da cose e oggetti, alle categorie più elevate dello spirito. Il design, nella sua accezione più ampia, costituì il campo di lavoro più fertile su cui innestare i semi per una rifondazione delle industrie artistiche e una efficacia educazione al gusto delle classi medie, alle quali le ditte morrisiane in particolare si rivolgevano. A differenza dei suoi contemporanei Webb non ignorò i progressi dell’epoca e non si espresse contro i macchinari, a meno di quelli che avevano un effetto negativo sulla natura e sull’opera dell’uomo33. Con sguardo attento puntato sui nuovi scenari progettuali, egli intuì i modi per coniugare l’invenzione d’arte con la praticità funzionale, preconizzando l’orizzonte domestico che gli uomini del ventesimo secolo avrebbero abitato, in un flusso di segnali e azioni tuttora aperto ad analisi storiche e interpretazioni critiche.
Fig. 10 P. Webb, Bicchiere in vetro soffiato a mano, 1862-1863, Powell & Sons. Disegno preparatorio e bicchiere. Fig. 11 P. Webb, Bicchiere in vetro soffiato a mano ispirato alle serie dei vetri veneziani, 1863, Powell & Sons. Disegno preparatorio e bicchiere.
monumenti, trad. e saggio introduttivo di M. Pretelli, Santarcangelo di Romagna, Maggioli 2010, pp. 39-45. 33 S. Kirk, Philip Webb pioneer… cit., p. 98. La grande mostra per il centenario della nascita di Philip Webb ha raccolto un ampio repertorio di progetti nel campo dell’architettura e in quello del design, attinti dalla ricca collezione di disegni e archivi del Victoria & Albert Museum e del Royal Institute of British Architects (Londra 7 novembre 2015 – 24 aprile 2016). Cfr. anche Philip Webb celebreting his Centenary, «Victorian», July 2015.
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I disegni di architettura di John Ruskin in Italia: un percorso verso la definizione di un lessico per il restauro Silvia Crialesi | s.crialesi@tin.it Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma
Ruskin era già venuto in Italia due volte con la famiglia, la prima nel 1833 (visitando Como, Pavia, Milano, Genova e Torino) e nel 1835 (a Milano, Verona e Venezia). Il terzo viaggio in Italia, sempre con la famiglia, si svolge tra l’autunno del 1840 e la primavera dei 1841, secondo l’itinerario tipico del Grand Tour che arriva fino al golfo di Napoli. Successivamente torna in Italia nel 1845, limitando il suo itinerario alle regioni del nord e centro della penisola. Nel 1846, nuovamente con la famiglia, ripete più o meno lo stesso itinerario dell’anno precedente, concentrando la sua attenzione sull’architettura. Una volta sposato, soggiorna a lungo con la moglie a Venezia nel 1849-50 e nel 1851-52, visitando anche altre città del Veneto, sempre focalizzando i suoi studi sull’architettura. Successivamente, tornerà in Italia, seguendo diversi itinerari, nel 1858, 1869, 1870, 1872, 1874, 1876-77, 1882 e l’ultima volta nel 1888. 2 Sul tema, in questo volume si veda B. Tetti, Il lessico di John Ruskin per il restauro d’architettura: termini, significati e concetti. 3 J. Ruskin, Viaggi in Italia. 1840-1845, a cura di A. Brilli, Bagno a Ripoli, Passigli 1985, pp. 21-130. 1
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Abstract The present contribution intends to trace in the graphic work produced by Jonh Ruskin during his travels in Italy in the 1940s and the beginning of the 1950s – which accompanies his reflections in the form of diaries and letters – the turning point towards the development of his peculiar thought on restoration, witnessed by the choice of the vocabulary used in his writings related to the subject. In this perspective, the difference between the drawings elaborated during the journey of 1840-41, in which the landscape description of the whole prevails, and those of the second half of the Forties, focalized on a careful work of observation of the reality, indicates the beginning of a peculiar way of understanding architecture in its urban contextuality, but above all in its details. Parole chiave John Ruskin, Italia, disegni di architettura, lessico, restauro
Il presente contributo intende rintracciare nel lavoro grafico prodotto da John Ruskin durante i viaggi in Italia degli anni Quaranta e dell’inizio degli anni Cinquanta1, che accompagna le sue riflessioni in forma di diari o di lettere, il punto di svolta verso la definizione del suo peculiare pensiero sul restauro, testimoniato dalla scelta del lessico usato nei suoi scritti legati all’argomento2. In quest’ottica, la differenza tra i disegni elaborati durante il viaggio del 1840-41, in cui prevale la descrizione paesaggistica dell’insieme, e quelli della seconda metà degli anni Quaranta, in cui è evidente una attenta opera di minuta osservazione della realtà, segna l’inizio di un peculiare modo di intendere l’architettura nella sua contestualità urbana, ma soprattutto nei suoi dettagli. Come è noto Ruskin intraprende un lungo viaggio in Italia, sotto l’attenta supervisione dei genitori, tra l’autunno del 1840 e la primavera del 1841, in seguito al manifestarsi di alcuni disturbi di salute. L’itinerario seguito è quello classico del Grand Tour che, partendo dal nord Italia, attraversa la Liguria, la Toscana, il Lazio, la Campania per poi risalire, dopo una seconda sosta a Roma, per l’Umbria, la Romagna e il Veneto e poi ritornare verso la Francia passando per Milano3.
Il ventunenne inglese che parte per l’Italia appare ancora profondamente influenzato dalla tradizione grafica del genere “pittoresco”, con i cui esponenti di spicco aveva studiato durante gli anni della formazione, apprendendone le tecniche e i segreti. Questo tipo di formazione artistica, lo stato di salute malfermo e la malinconica disposizione d’animo con cui il giovane si appresta al viaggio si ripercuotono inevitabilmente sulle sue esperienze in Italia, documentate dai diari che tiene costantemente e soprattutto dai suoi numerosi disegni e schizzi4. Durante il viaggio Ruskin esegue molti elaborati grafici di dimensioni relativamente grandi realizzati ad acquarello su carta azzurra o grigia, sottolineando alcuni particolari con l’inchiostro nero e con la tempera gialla. Si tratta prevalentemente di vedute in cui la componente naturale domina la composizione, oppure di scorci urbani o di monumenti. Nella loro impostazione Ruskin si inserisce nei ben collaudati canoni del genere pittoresco, sia nella scelta dei soggetti e delle inquadrature, sia nell’uso di effetti grafici. Così come nei diari descrive le località visitate privilegiando l’aspetto unitario dell’insieme e accentuando la stretta interconnessione tra edifici e vita che vi si svolge, peculiarità topografiche del sito, effetti luministici e impressioni che suscita in lui quel particolare luogo, anche nei disegni è immediatamente percepibile questa visione globale fatta di descrizione, effetti atmosferici ed emozioni. Tra le opere che meglio esemplificano questa fase possiamo annoverare il nutrito gruppo di disegni romani5, quelli eseguiti a Napoli6, le vedute della chiesa di S. Maria della Spina a Pisa, di Palazzo Contarini Fasan e della Corte del Palazzo Ducale a Venezia, di Piazza delle Erbe a Verona e di Palazzo della Ragione e piazza delle Erbe a Padova. Si tratta di disegni a medio campo, in cui un gruppo di edifici e monumenti definisce lo spazio urbano; i palazzi oggetto del disegno sono descritti nel loro volume e nella loro articolazione generale, con i dettagli (spesso aggiunti a penna con un tratto più sottile e definito) schizzati in modo rapido ma accurato ed efficace, mentre altri elementi della veduta appaiono appena abbozzati. Con pochi tratti, caratterizzati con la tempera gialla, vengono accennati gli effetti atmosferici, mentre alcuni particolari descrivono il minuto mondo che caratterizza questi spazi urbani (gli ombrelloni, le tende e i banchetti del mercato nelle vedute delle piazze di Padova e Verona; una gondola, un battello e dei drappi appesi alla facciata nel disegno del palazzo Contarini Fasan; il carro, le persone sedute sulla fontana e i panni stesi nella piazza di Santa Maria del Pianto; ancora panni stesi, attrezzi da lavoro e vasi di fiori nelle vedute di Napoli…). Appare qui in nuce l’attenzione per i dettagli dell’architettura, che però sono ancora solo uno strumento per definire le linee generali di un edificio o di uno spazio. Nei successivi viaggi in Italia Ruskin sarà invece interessato soprattutto alla definizione dei particolari architettonici e decorativi, spesso riprendendo gli stessi soggetti del 1840-41 in un’ottica completamente diversa, testimoniata anche nei carteggi con la famiglia. In questa fase giovanile, dunque, quello che più interessa allo studioso inglese è riuscire a catturare l’essenza dei luoghi. Esemplificative in tal senso sono le annotazioni riportate nel diario nei giorni in cui esegue il disegno della piazza di Santa Maria del Pianto a Roma, che testimoniano il gusto per un’architettura costituita non solo dalla purezza dei volumi e delle linee, ma soprattutto animata dai contrasti delle sue stratificazioni e dalla vita che vi si svolge7. Ruskin torna in Italia nel 1845, questa volta senza genitori ma accompagnato da due servitori. Nel frattempo ha pubblicato, nel 1843, il primo volume della sua opera fon-
Una lista completa dei disegni di Ruskin è pubblicata in: E. T. Cook, A. Wedderburn, The complete works of John Ruskin, vol. XXXVIII, London, George Allen 1912, pp. 221-306. 5 Nelle due tappe romane del 1840 e 1841 esegue 10 disegni: Aqueducts of the Campagna; Aventine; Capitol, from the Forum; Fountain of Trevi; Fountain; Piazza di Santa Maria del Pianto; Quattro Fontane; Sistine Chapel; Street in Rome, with Religious Procession; Via Sistin, View, in E. T. Cook, A. Wedderburn, The complete works of John Ruskin, vol. XXXVIII, London, George Allen 1912, p. 277. 6 Tra i disegni eseguiti durante il soggiorno a Napoli nei primi mesi del 1841, oltre ad alcune vedute del golfo di Napoli con il Vesuvio, di Capri, di Amalfi e di Pompei, si segnalano: Castel del Uovo; Street in Naples; Windows at Naples. E. T. Cook, A. Wedderburn, The complete works of John Ruskin, vol. XXXVIII, London, George Allen 1912, pp. 269, 275, 304. 7 Cfr. Diario del 1 e 2 dicembre 1840, Roma. The diaries of John Ruskin, a cura di J. Evans, J. H. Whitehouse, vol. I, 1835-1847, Oxford, Clarendon Press 1956, p. 118. 4
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RA 8 Lettera al padre da Parma, 10 luglio 1845. «Noto diversi cambiamenti, alquanto singolari, nel modo in cui considero ora l’Italia. Provo un interesse assai più reale: non sbriglio la fantasia, né vado in estasi. Mi appare adesso come un libro da cui trar profitto e diletto dal principio alla fine, anziché come un sogno da interpretare. Si è ormai dissolta l’aura poetica, e niente di ciò che vedo mi fa dimenticare che vivo nel XIX secolo». Cfr. J. Ruskin. Viaggio in Italia, a cura di A. Brilli, Milano, Mondadori 2002, p. 101. 9 Le idee sulla “verità” sono esposte nel Capitolo V del primo volume di Modern Painters, in E. T. Cook, A. Wedderburn, The complete works of John Ruskin, vol.III, London, George Allen 1903, pp. 104-108. 10 Part of the Façade before restoration; Part of the same Façade, sketched in colour; Lateral view of the same Façade, tutti e tre conservati ad Oxford, presso l’Ashmoelan Museum. 11 Alcune riflessioni sui fenomeni di degrado osservati nella chiesa di S. Michele in Foro sono riportati nella lettera al padre del 6 maggio 1845. cfr. J. Ruskin, Viaggio in Italia… cit., pp. 31-33. 12 S. Wildman, Ruskin e il lavoro preparatorio per The Stones of Venice, in John Ruskin. Le pietre di Venezia, Catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale, 10 marzo-10 giugno 2018), Venezia, Marsilio 2018, pp. 182-184.
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damentale Modern Painters e sta lavorando al secondo volume, che uscirà nel 1846. Questo viaggio, benché affrontato in condizioni fisiche e disposizione di spirito migliori del precedente, consolida in lui un rapporto di amore-odio per l’Italia, di cui vede le contraddizioni tra lo splendore delle opere d’arte e il disinteresse per la loro conservazione, oltre a provare una generale impressione di decadenza e incuria. Tuttavia, ora la sua attenzione è puntata sullo studio dell’arte e dell’architettura più che su un generico effetto pittoresco dei luoghi e guarda alla penisola come ad un grande libro da cui imparare8. Molte delle riflessioni maturate in occasione della stesura di Modern Painters ruotano intorno al tema della “verità” dell’espressione artistica, intesa sia in senso materiale sia in senso morale legato alle impressioni, alle emozioni e ai pensieri9. In quest’ottica il nuovo viaggio in Italia è affrontato alla ricerca di questa “verità”, come emerge chiaramente nelle sue lettere e, soprattutto, nella scelta dei soggetti e nella nuova concezione dei suoi disegni. Meno vedute, dunque, sostituite dai numerosi disegni di particolari architettonici e di pitture. Gli schizzi diventano sempre più dettagliati e analitici, strumento per individuare nei particolari l’essenza dell’architettura, indagata nella sua struttura, nei suoi materiali costitutivi, nelle decorazioni e nella loro resa cromatica. Il punto di svolta avviene a Lucca, dove Ruskin si ferma dieci giorni. Si attarda a studiare alcune chiese e il suo approccio si fa via via più analitico, ritornandovi più volte per eseguire dei disegni. Particolarmente significativa appare la serie di tre disegni della chiesa di San Michele in Foro10. La scelta di focalizzare l’attenzione su una porzione della parte sommitale della facciata gli consente di essere estremamente dettagliato nella resa delle decorazioni marmoree, della caratterizzazione cromatica e del sistema costruttivo. I blocchi di pietra sono delineati minuziosamente, riportandone financo gli slittamenti, le sconnessioni e le mancanze del materiale11. Il primo disegno, nel quale si nota la presenza di alcune linee di costruzione, è completato da alcune annotazioni e dai particolari degli intarsi marmorei che caratterizzano altre colonne della chiesa. Questo elaborato grafico verrà ripreso, rendendolo ancora più chiaro e dettagliato, nella VI tavola delle Sette lampade dell’architettura, del 1849, di cui l’autore esegue personalmente le lastre per le incisioni. Ruskin fissa le sue riflessioni e impressioni, oltre che nelle lettere e nei diari, lavorando contestualmente con diversi mezzi, spesso sullo stesso soggetto su cui torna freneticamente più volte12: acquerelli eseguiti dal vero, rapidi schizzi inseriti in una serie di quaderni divisi per tematiche, disegni preparatori ricchi di annotazioni e infine dagherrotipi eseguiti personalmente o acquistati13, dai quali trae alcuni dei disegni. Significativi della differenza dell’approccio rispetto al viaggio del 1840-41 sono i disegni eseguiti a S. Maria della Spina a Pisa. Nel 1841 Ruskin elabora una veduta di scorcio della chiesa, delineandone le complesse ornamentazioni gotiche in modo rapido e preciso, ma focalizzando l’attenzione sull’articolazione dell’edificio, la sua relazione col fiume, le strade e gli edifici circostanti. Quattro anni dopo produce una vista ravvicinata dell’angolo est, estremamente dettagliata nelle proporzioni e nella resa degli elementi architettonici. Del soggetto esegue o acquista almeno due dagherrotipi, che usa nella stesura del disegno. L’urgenza di documentare accuratamente questa architettura, come testimoniano le lettere, è dato anche dall’apprendere che la città progettava di demolire la chiesa per ampliare l’argine dell’Arno14.
Nel corso di questo viaggio Ruskin viene quasi sopraffatto dalla dolorosa percezione della caducità dell’architettura, dovuta al trascorrere del tempo, all’incuria e soprattutto all’opera dell’uomo che, credendo di rinnovarla, la distrugge definitivamente. A questo punto intraprende una personale corsa contro il tempo per documentare, attraverso il disegno, lo stato dei monumenti prima della loro completa rovina, sempre più consapevole che ogni loro alterazione comporta un allontanamento dalla loro concezione originaria e li rende sempre più distanti dalla “verità” di cui è in cerca nei suoi studi sull’arte italiana. Il 21 maggio scrive al padre da Pisa: Sono di continuo lacerato da esigenze contrastanti: poiché gli edifici fatiscenti non si contano più e il patrimonio artistico se ne sta andando in rovina, vorrei disegnare tutte le costruzioni possibili e studiare ogni singolo disegno, ma è un sogno irrealizzabile15.
Scorrendo il carteggio con la famiglia, l’esigenza di documentare minutamente gli edifici prima della loro definitiva rovina è sempre più pressante, al punto che, per sfruttare il poco tempo che ha a disposizione a Venezia, cerca aiuto per documentare i capitelli tutti diversi delle colonne di San Marco: Domani vedrò di trovare un giovane e valente disegnatore tedesco. Gli affiderò l’incarico di disegnare tutti questi capitelli con linee rigorose ed esatte, sotto la mia sorveglianza, poi prenderò il suo bozzetto e provvederò di persona a inserirvi in fretta luci e ombre16.
Durante la permanenza a Venezia si concentra prevalentemente sulla basilica di S. Marco, sul Palazzo Ducale e su alcuni palazzi, eseguendo alternativamente disegni generali delle facciate e singoli particolari. Estremamente interessante è l’acquerello della facciata di Ca’ d’Oro, oggi nella collezione della Ruskin Foundation presso la Lancaster University, in cui solo alcune parti vengono completamente definite, altre schizzate sommariamente per definire l’articolazione dell’architettura e la restante parte lasciata allo stato di abbozzo17. Altro disegno importante della produzione grafica del soggiorno veneziano del 1845 è lo Studio degli intarsi marmorei di Ca’ Loredan18, in cui usa il colore per rendere le decorazioni marmoree e gli effetti cromatici dell’insieme, senza però raggiungere il livello di analisi dei disegni di S. Michele in Foro di Lucca. È infatti durante il soggiorno nella città lagunare, particolarmente cara a Ruskin, che si consolida un metodo di studio che affida l’analisi dettagliata di stilemi, materiali, particolari decorativi e sistemi costruttivi agli schizzi eseguiti su taccuini tematici e fogli di lavoro preparatori, sempre più fittamente annotati, mentre riserva agli acquerelli di maggiore dimensione e respiro la rappresentazione di edifici e scorci il cui carattere va rapidamente modificandosi durante il XIX secolo. La rielaborazione successiva dell’enorme quantità di materiale raccolta, favorita anche dall’intenso uso del dagherrotipo per la preparazione dei disegni, sfocia nella pubblicazione delle Sette lampade dell’architettura (1849) e delle Pietre di Venezia (1851-53), che segnano una interruzione nelle sue ricerche sull’arte e un approccio più analitico nei confronti dell’architettura, sia nello studio del suo linguaggio e della sua consistenza, sia nell’analisi dell’inarrestabile decadimento materico, in un percorso di definizione di alcuni principi che si riveleranno essenziali nella definizione del moderno pensiero sul restauro.
Sull’uso di Ruskin dei nascenti mezzi fotografici si veda: K. Jacobson, J. Jacobson, Carrying off the palaces: John Ruskin’s Lost Daguerrotypes, London, Bernard Quaritch 2015; S. Quill, Ruskin: i dagherrotipi, l’uso della fotografia, in John Ruskin. Le pietre di Venezia… cit., pp. 145-147. 14 Lettere al padre del 13 e 15 maggio 1845. cfr. J. Ruskin. Viaggio in Italia… cit., pp. 43, 48. 15 J. Ruskin, Viaggio in Italia… cit., p. 54. 16 Lettera al padre del 14 settembre 1845. cfr. J. Ruskin, Viaggio in Italia… cit., p. 157. 17 Ruskin esegue il disegno durante i restauri che proprio in quel momento sono in corso nell’edificio, come riporta addolorato in una lettera del 23 settembre 1845. John Ruskin. Le pietre di Venezia… cit., pp. 151. 18 Il disegno è conservato all’Ashmolean Museum di Oxford. 13
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Una riflessione sul restauro: Melchiorre Minutilla e il dovere di «conservare e non alterare i monumenti» Lorenzo de Stefani | lorenzo.destefani@polimi.it Dipartimento di Architettura e Studi Urbani Politecnico di Milano
Abstract The debate on the restoration of monuments in Italy in the second half of the nineteenth century appears to be scattered in a multiplicity of reflections attested to the various periodicals. From the advertising point of view, the role of professional firms is particularly relevant, in particular the various colleges of engineers and architects present in the main Italian cities. In the context story, the engineer and architect Melchiorre Minutilla, author of restoration work on the cathedral of Monreale, entrusts his reflections on antiquity and restoration to the “Acts of the College of Engineers and Architects in Palermo”. It is a writing from 1878 that is noted for some hints of undoubted originality. He insists on the necessary literary cultural preparation, in particular for restorers, and lucidly sustained the impossibility of reproducing “the antique” with the copy, however accurate and scientifically documented. Parole chiave Storia, restauro, antichità, copia
Un frammento nel dibattito La ricostruzione del dibattito sulla tutela nell’Italia del XIX secolo non può prescindere dall’analisi di una pluralità di interventi apparsi sulla stampa periodica, non solamente di carattere specialistico, tecnico e professionale, ma anche su riviste non strettamente settoriali i cui campi d’interesse variano dall’archeologia, alla letteratura, alla storia dell’arte, a quella che oggi definiremmo la storia locale1. Il Collegio degli ingegneri ed architetti di Palermo2 pubblica una memoria di Melchiorre Minutilla3 «ingegnere architetto» dal titolo «Riflessioni sulle antichità e ristauri». Si tratta di uno dei pochi scritti, fra gli innumerevoli apparsi sulla pubblicistica di settore, che tenta un approccio teorico, se non sistematico, alla questione dei restauri; Minutilla esordisce con una citazione da «Notre Dame de Paris» di Victor Hugo «Trattandosi di monumenti, la vecchiezza è la stagione di loro beltà». La citazione è funzionale all’argomentazione condivisa da Minutilla circa l’importanza essenziale degli «studj estetico letterari» indispensabili al giudizio sulle arti belle, non potendosi affidare al solo disegno. Il desiderio «di vedere ritornata alla pristina bellezza l’opera che porta i segni del tempo è pure un sentimento lodevole, ma diventa degno di biasi-
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mo allorché si allontana dalle tracce e dagli scopi storici»4. Il restauro dovrà corrispondere al «dovere di conservare e non alterare i monumenti». Introduce una distinzione: restaurare in senso stretto vuol dire «rifare le parti rovinate d’un fabbricato o dei suoi accessori, in modo che non si alteri lo stato delle parti sopravvissute alle vicende del tempo» mentre in senso più generale «da pochi frammenti ritrovare la forma primitiva»5. Si tratta di una distinzione che riprende l’idea, presente nel dibattito coevo e nella stessa prassi amministrativa della tutela, della ripartizione fra conservazione, intesa sostanzialmente come manutenzione presupposta al restauro, e restauro stesso, finalizzato invece al recupero dell’unità stilistica del monumento. Tuttavia vi sono osservazioni non prive di interesse. In primo luogo insiste sulla necessità degli «studj estetici e letterari», senza i quali non c’è reale comprensione «di ogni ramo delle arti», comprensione che richiede una speciale attitudine dello spirito; in secondo luogo denuncia la «poca conoscenza della storia», la quale solamente è in grado di far apprezzare i monumenti nel loro ruolo di «resti ancor parlanti della passata civiltà»; ed infine mette in guardia dalla pratica indiscriminata volta a «studiare e rintracciare il primitivo concetto dei monumenti e ridurli possibilmente a quello»6. Riguardo la prima causa Minutilla ribadisce ancora la necessità della cultura umanistica per il restauratore; l’esclusiva formazione artistica, rivolta agli aspetti rappresentativi dell’architettura non è sufficiente, perché la riproduzione grafica di una architettura è cosa ben diversa dall’ideare «un edificio e tanto meno ristaurarlo, senza gli studii all’uopo adatti». Un brillante disegnatore privo di una completa preparazione storico-artistica potrebbe causare anche involontariamente gravi danni, ottenendo una non meditata approvazione per i suoi efficaci disegni, laddove si deve seguire «la guida della storia anzicché quella della matita». Il restauratore ideale sarà colui il quale assommerà le qualità di disegnatore, di letterato, e sarà dotato di «coscienza» storica, intesa come capacità di «discernimento delle epoche». Circa la seconda causa distingue fra monumento «integro [e monumento] modificato. Per “integro” intendo che nei suoi resti si veda l’impronta di un’epoca sola. Per “modificato” intendo i restauri, le innovazioni e i capricci di tempi posteriori» 7. Il monumento, così come è pervenuto «appartiene già al dominio della storia; l’artista deve prenderlo per quel che è, deve rispettare in esso tutto ciò che rammenta il fare i costumi i bisogni di una civiltà passata». La compresenza di forme diverse, o come potremmo dire oggi, di differenti fasi costruttive, rappresenta un pregio, in quanto testimonianza dell’evoluzione da una forma all’altra; i restauratori non devono formulare giudizi, «debbono essere conservatori, non modificatori [...]»8. Il problema però deve essere ricondotto al concetto di storia; nei monumenti integri il restauratore dovrà attenersi «nei limiti di pura e semplice conservazione; qualunque aggiunzione non sarebbe antica, qualunque modificazione sarebbe un errore e potrebbe chiamarsi delitto ogni parte remossa»; però nel caso di monumenti «che si addicono agli usi della moderna società, come sono i templi, è lecito continuare l’opera degli antichi, principiando dal punto dove essi finirono», a patto di non intervenire sulla parte rimasta, limitandosi a sviluppare con rigore notarile «le stesse orme, la stessa costruzione, i medesimi disegni» e ciò solamente laddove si raggiunga la certezza di «eseguire quanto gli antichi avrebbero fatto, poiché diversamente sarebbero membri appiccati ad un corpo antico». Viceversa, un completamento non fondato da elementi oggettivi sarebbe dannoso, in quanto «le antichità rifatte non hanno significato, solo potrebbero dimostrare la potenza imitativa dei moderni la qual potenza
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sarebbe desiderabile che si esercitasse sulla carta o in edifici novelli»9. Il monumento integro può anche essere un monumento incompleto, purché la parte esistente sia di un’unica epoca per cui il suo proseguimento rappresenti il logico sviluppo del concetto presente nella parte realizzata. Il concetto è ulteriormente chiarito nel successivo passaggio; il restauro sarà legittimo quando le sue ipotesi saranno verificate, e «per aver questa certezza non vi ha che la tradizione storica». Per i monumenti modificati il discorso è più difficile; le alterazioni di monumenti antichi di secoli, se non di millenni, anche se condannabili, sono da rispettare, in quanto «gli errori di dieci secoli addietro non appartengono più al presente, appartengono alla storia, che nel farne rivelazione si avvalse degli esempi, e gli esempi non devono distruggersi»10. Anche gli errori contribuiscono alla rivelazione della storia dell’umanità, così come la conoscenza dei vizi è complementare a quella delle virtù al fine di restituire una visione oggettiva del passato. «A nessuno è lecito di interrompere quella lunga catena di fatti e di opere che formano la vita dei popoli; ove incomincia il dominio storico ogni volontà innovatrice sulle opere esistenti è finita, e resta lo stretto dovere della più scrupolosa conservazione»11. Ma ancora una volta il principio può essere derogato; infatti «fra modifica e modifica bisogna fare distinzione. Non tutti gli errori sono ugualmente rispettabili nel senso storico, ve ne sono di quelli che deturpano senza giovare, ed alcuni rimontano ad un’epoca così recente che è bene farli scomparire. In ciò appunto consiste la vera difficoltà del restauratore»12. La rinuncia ad ogni ipotesi di restituzione del monumento all’unità di stile è in realtà lasciata al discernimento del restauratore, che dovrà mediare fra varie condizioni; tipo di monumento, entità della materia della fase originale ed entità della materia aggiunta, possibilità di documentare la forma preesistente, epoca delle modificazioni. Tutto ciò comporta una valutazione selettiva che è comunque valutazione storica, dalla quale deriva la possibilità di completamento corrispondente alla vera forma. Coerentemente con il concetto mediato di arte, di cui si è detto, l’unicità dell’oggetto è relativa, dipende in sostanza dall’eventuale irripetibilità delle condizioni che lo hanno generato; il restauro è possibile proprio in quanto si pensa ai monumenti come «materiali della storia». Diffondendosi infine sulla terza questione, ovvero «l’abuso di voler ridurre i monumenti alla forma primitiva», Minutilla assimila il divenire storico alle leggi dell’evoluzione naturale, contestando l’idea del restauratore paleontologo «che dallo studio di un osso fossile era guidato a riconoscere la forma di una specie perduta»; ciò non corrisponde affatto a quello che si deve tendere in un restauro in quanto «l’opera imitativa dei moderni non ha nulla a che fare con l’antichità, e vale molto più la maestosa rovina di un tempio nella sua nuda bellezza, che le mille rifazioni del presente»13. Tuttavia la possibilità dell’intervento è ammissibile in ragione della entità, e della qualità del “deturpamento”; se il ripristino della forma primitiva è impossibile (se non con un complessivo rifacimento) è preferibile «lasciare il monumento come si trova, anziché demolire le aggiunzioni per creare una nuova opera sia, se si voglia, in carattere». Nel caso invece sia possibile rimuovere i «piccoli deturpamenti» e reintegrare le mancanze, sarà opera di «vero e lodevole ristauro»14. Illustra l’esempio dell’interno del duomo di Palermo, «mutato da barbaro architetto»; un ripristino corrisponderebbe ad «un’opera tutta moderna [...] ma qual merito ne avrebbe l’artista come restauratore? [La capacità di] ben trovare le forme antiche e ben imitare il carattere del tempio [qualificano] il valente artista e [non il] buon restauratore»; infatti, l’esercitazione composi-
tiva sui modelli formali del passato qualifica la ricerca architettonica secondo i criteri dell’epoca, il restauro deve limitarsi a riprodurre ciò che è sicuramente o probabilmente esistito. Ripristinare l’autentico, inteso dal punto di vista dell’estrinsecazione formale, consente di considerare il monumento come un processo storico in sé concluso, ed in certo modo, autosufficiente. Il metodo di individuazione e restituzione della forma autentica delle architetture di una certa epoca, regione e stile, riferito alla valutazione sintomatica di ogni caso specifico, non invalida l’idea di una concezione della storia che giudica, discrimina e seleziona; ci sono errori utili, che illustrano la totalità del processo storico, ed altri dannosi; ci sono deturpamenti avvenuti per «avarizia ed ignoranza» non meritevoli di attenzione, in quanto documenti non funzionali alla restituzione dell’autentico percorso storico. L’esemplificazione addotta per indirizzare il restauratore di fronte a «piccoli deturpamenti» riguarda la cattedrale di Monreale, di cui Minutilla si era occupato15; a proposito degli interventi al presbiterio, che si erano protratti per decenni dopo l’incendio del 1811, affronta il tema delle aggiunte di epoca barocca, ipotizzando una sorta di rimozione selettiva tale da consentire il recupero dell’unità stilistica, considerato che «esiste la massima parte del musaico nelle pareti e nella conca; sono intatte le figure; vi si osservano tagliati in parte negli spigoli gli stipiti delle finestre, ove s’incastrarono colonnine e cartocci». Propone di rimuovere «tutto quel che vi è di appicicaticcio per rimpiazzarvi le porzioni di musaico mancanti. Il deturpamento non è in larga scala, i restauri bisognevoli son parziali, l’antico esiste in massima parte»16. Il restauratore dovrà esercitarsi nel riconoscimento delle diverse fasi storiche che possono ritrovarsi in un monumento, analisi non agevole laddove, come a Monreale, vi sia il reimpiego di frammenti più antichi nella costruzione. Minutilla raccomanda ai restauratori di «porre molto studio, dovendo riprodurre alcuni pezzi, a saper discernere le opere contemporanee alla costruzione del tempio […] e quei pezzi di cui si servirono in quell’epoca per adattamento. Bisogna anche avere molto discernimento per distinguere il restauro dall’opera primitiva»17. Si propone una visione del restauro architettonico legata all’indagine storica sul monumento, con lo scopo di evidenziare le fasi costruttive al fine di selezionare le parti da conservare, da aggiungere, da eliminare nell’ambito della cultura dell’imitazione stilistica, sia pure con una attenzione sicuramente non comune circa l’esigenza di uno studio serio e documentato e di un tendenziale rispetto delle “aggiunte e modificazioni” anticipando un significativo punto del documento proposto da Camillo Boito al quarto Congresso degli ingegneri ed architetti italiani tenutosi a Roma del 1883, comunemente noto come prima carta del restauro. Conclusioni. Il pensiero di Minutilla nel contesto del dibattito coevo in Italia Il saggio che si è commentato appare in un momento significativo dello sviluppo del dibattito sul restauro in Italia. Sempre nel 1878 Giuseppe Mongeri pubblica18 le sue considerazioni sui «ristauri nell’arte» cui fanno seguito nel 1880 le riflessioni di Tito Vespasiano Paravicini19. Si deve ricordare che a partire dal 1876 vengono attivate le commissioni conservatrici su tutte le province del regno20, mentre prosegue, senza fortuna, l’iter parlamentare della legge organica sulla tutela del patrimonio storico-artistico21. Si procede faticosamente ad un ridisegno delle istituzioni preposte alla tutela, con una netta scelta a favore del decentramento, sia pure all’insegna del verticismo burocratico e amministrativo. La pubblicazione di contributi riferiti alle questioni della tutela e del restauro conferma una (faticosa) presa di coscienza della matura-
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zione di questi temi nella parte più attenta e sensibile dell’élite culturale della nazione. Appare significativo in tal senso rilevare come sia Mongeri che Minutilla concordino sostanzialmente su alcuni punti essenziali, ossia la necessità di porre dei limiti all’attività dei restauratori, di far precedere l’intervento sul monumento da studi rigorosi, la distinzione fra piccolo e grande restauro, l’astensione dai rifacimenti generalizzati. Nello scritto di Minutilla le affermazioni in tal senso appaiono ancora più decise e perentorie: le antichità rifatte non hanno significato; i restauratori devono essere conservatori e non modificatori; nei monumenti modificati le trasformazioni (anche se non condivisibili) appartengono alla storia, divengono a loro volta documenti e quindi non si possono distruggere. Sembrano quasi degli slogan che rasentano le idee ruskiniane circa l’impossibilità di riprodurre ciò che è andato perduto; in realtà il punto dirimente sta nell’adesione acritica allo storicismo. Il restauro rappresenta una delle forme mediante le quali si attua il metodo storiografico; si è consapevoli che il metodo è suscettibile di evoluzione e perfezionamenti, che l’applicazione meccanica al monumento-documento implica il rischio di alterazioni errate, si propone di disinnescare il rischio con la riduzione dell’intervento ai piccoli restauri, peraltro di difficile delimitazione nei casi concreti. Minutilla afferma che il restauratore deve possedere coscienza storica, confermando un’idea della conoscenza del monumento di tipo razionale e specialistico. Nulla di più lontano da Ruskin, estraneo a qualunque storicismo.
1 Sulle riviste del secolo XIX in ambito artistico si vedano: G. C. Sciolla, Riviste d’arte fra Ottocento ed Età contemporanea. Forme modelli e funzioni, Ginevra-Milano, Skira 2003; Percorsi di critica: un archivio per le riviste d’arte in Italia dell’Ottocento e del Novecento, atti del Convegno (Milano, 30 novembre-1 dicembre 2006), a cura di R. Cioffi, A. Rovetta, Milano, Vita e Pensiero 2007; L. de Stefani, Il dibattito sui monumenti nelle riviste tecniche e professionali italiane (1850-1915), tesi di dottorato, Politecnico di Milano, Dottorato di ricerca in conservazione dei beni architettonici, Milano, 1997. 2 Sulla storia del Collegio degli ingegneri ed architetti in Palermo cfr. A. Coppola, Cenni storici sulla istituzione del collegio e suoi atti, «Atti del Collegio degli ingegneri ed architetti in Palermo», fasc. I, 1878, pp. 14-16. 3 Melchiorre Minutilla si diploma in architettura nel novembre 1865 presso la scuola di architettura dell’Accademia di belle arti di Palermo con Carlo Giachery presentando un progetto di una borsa di commercio. Cfr. G. Di Benedetto, La scuola di architettura di Palermo 1779-1865, in Per una storia delle facoltà di architettura di Palermo, a cura di C. Ajroldi, Roma, Officina 2007, pp. 43-126; G. Di Benedetto, Carlo Giachery 1812-1865. Un architetto “borghese” a Palermo tra didattica, istituzioni e professione, Palermo, Flaccovio 2011; G. Di Benedetto, La stereotomia nella cattedra di Architettura statica di Carlo Giachery, «Lexicon. Storie e architettura in Sicilia e nel Mediterraneo. Rivista semestrale di Storia dell’Architettura», n. 18, 2014, pp. 65-74. Minutilla realizza la villa Gallidoro a Palermo, la cappella La Tremoille Castelli di Torremuzza presso il cimitero palermitano dei Rotoli. Partecipa al concorso per la nuova sede della Camera dei deputati (1889). È incaricato di lavori di restauro al Duomo di Monreale, in particolare nel presbiterio; di cui progetta il cancello di bronzo a separazione dalla navata maggiore. Cfr. M. Minutilla, Cancello in Bronzo nello stile del XII secolo, «Atti del Collegio degli ingegneri ed architetti in Palermo», vol. I, 1878, pp. 132-136; M. Minutilla, Concorso pel palazzo del Parlamento italiano: memoria alligata al progetto dell’architetto Melchiorre Minutilla da Palermo, Palermo, Tipografia Vittorio Giliberti 1889. 4 M. Minutilla, Riflessioni sulle antichità e ristauri, «Atti del Collegio degli ingegneri ed architetti in Palermo», I, fasc. II, Palermo, nov.-dic. 1878, pp. 35-44. 5 Ivi, p. 36. 6 Ivi, p. 36. 7 Ivi, p. 37. 8 Ivi, p. 37. 9 Ivi, pp. 37-38. 10 Ivi, pp. 38-39. 11 Ivi, p. 39. 12 Ivi, p. 39. 13 Ivi, p. 40. 14 Ivi, p. 40. 15 In qualità di architetto della Deputazione dei restauri (della cattedrale) istituita dal governo borbonico nel 1817. Cfr. C. Lomonte, La cattedrale di Monreale e le sue trasformazioni lungo i secoli: un’indagine architettonica (<https://www.culturelite.com/categorie/arte-e-spettacolo/la-cattedrale-di-monreale-e-le-sue-trasformazioni-lungo-i-secoli-un-indagine-architettonica-di-ciro-lomonte.html>). Sul ruolo di Minutilla a Monreale cfr. nota 3. 16 Ivi, p. 41 17 Ivi, p. 41. 18 G. Mongeri, La quistione dei restauri nell’arte, «Rendiconti del Reale istituto di scienze e lettere», vol. II, 1878, pp. 105-108; 260-269. 19 T. V. Paravicini, Considerazioni sul restauro dei monumenti architettonici, «Il Politecnico Giornale dell’ingegnere, architetto civile ed industriale», fasc. I-II, feb. 1880, pp. 73-79. Su Paravicini cfr. A. Bellini, Tito Vespasiano Paravicini, Milano, Guerini 2000. 20 Con Regio decreto n. 2032 del 7 agosto 1874. Cfr. P. Grifoni, La fase di decollo del servizio di tutela: dall’eredità preunitaria alle commissioni conservatrici (1860-1880), in Alfonso Rubbiani e la cultura del restauro nel suo tempo (1880-1915), a cura di L. Bertelli, O. Mazzei, Milano, Franco Angeli 1986, pp. 187-198. 21 Si tratta del progetto di legge presentato nel 1877 dal ministro della pubblica istruzione Michele Coppino, a seguito di precedenti tentativi infruttuosi, che si arenò alla Camera l’anno successivo. Cfr. E. Fusar Poli «La causa della conservazione del bello». Modelli teorici e statuti giuridici per il patrimonio storico artistico italiano nel secondo ottocento, Milano, Giuffrè 2006, pp. 21-25.
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Quale lampada per il futuro? Restauro e creatività per la tutela del patrimonio Giulia Favaretto | giulia.favaretto2@unibo.it Dipartimento di Architettura Università di Bologna
Abstract John Ruskin, a multifaceted figure of the 19th century, provided an essential contribution to preservation. He dedicated a chapter to the theme of memory in The Seven Lamps of Architecture, highlighting issues that mark their topicality. Especially, the task «to preserve, as the most precious of inheritances, that of past ages», guaranteeing at the same time «the luxury of change», makes clear a theoretical-operational node which allows to open a reflection on his valuable contribution. As a matter of fact, the abovementioned argumentation finds a significant reverberation in restoration. The encounter between the needs for preservation and reuse is part of a metamorphosis process which, through careful additions, can introduce symbolic references to highlight the semantic content of a work, as well as to add new meanings to it. From this perspective, the relationship between restoration and contemporary art constitutes a possible means of achieving this objective. Through an interweaving of theory and examples of works of art and architecture, this paper aims to provide a contribution to underline Ruskin’s legacy as a solid foundation for a restoration project that is respectful of the past and, with the help of creativity, projected into the future. Parole chiave John Ruskin, conservazione, restauro, creatività, arte contemporanea
Perché, invero, la gloria più grande di un edificio non risiede né nelle pietre né nell’oro di cui è fatto. La sua gloria risiede nella sua età, e in quel senso di larga risonanza, di severa vigilanza, di misteriosa partecipazione, perfino di approvazione o di condanna, che noi sentiamo presenti nei muri che a lungo sono stati lambiti dagli effimeri flutti della storia degli uomini1 J. Ruskin
J. Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, New York, John Wiley 1849; ed. it. Le sette lampade dell’architettura, Milano, Jaca Book 1982, p. 219. 1
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Figura poliedrica del XIX secolo, John Ruskin ha offerto un apporto essenziale per la tutela e la conservazione. Al tema della memoria egli ha dedicato un capitolo in The Seven Lamps of Architecture, enucleando questioni marcanti la propria attualità. In particolare, il compito di «conservare quella delle epoche passate come la più prezio-
sa delle eredità»2, pur garantendo «il privilegio del cambiamento»3, rende evidente un nodo teorico-operativo che consente di avviare una riflessione sul prezioso contributo ruskiniano. In occasione del bicentenario dalla nascita di Ruskin, risulta doveroso ribadire la portata teorica del suo pensiero: circa il restauro, esso può incidere fortemente – nonché felicemente – sull’orientamento di metodo e, dunque, sulla prassi operativa. La mostra recentemente tenutasi a Venezia, nel Palazzo Ducale, per l’apertura delle celebrazioni del suddetto evento4 e le successive iniziative culturali testimoniano la ricchezza del contributo dell’autore inglese, divenuto un indiscutibile protagonista delle teorie per la trasmissione al futuro del patrimonio esistente: Ruskin è «una figura con cui è necessario ed inevitabile confrontarsi»5 per cogliere sollecitazioni da un pensiero che è «un “testo” nel senso più forte del termine»6. Al di là dell’influsso da egli esercitato sulle teorie della conservazione, il tema della creatività risulta ancora poco studiato in relazione al pensiero ruskiniano7. A tal proposito, sembra possibile sottolineare come tale aspetto riguardi non solo la figura dell’artista, ma anche il progetto del nuovo per il costruito esistente. Se da un lato, infatti, Ruskin ha offerto un fondamentale apporto per la permanenza in essere del patrimonio edificato, dall’altro lato ciò invita ad accogliere la creatività attraverso un ampliamento dell’attenzione sugli aspetti immateriali insiti in ogni opera. Il presente studio si inserisce in tale contesto e mira a dimostrare quanto appena asserito, affrontando e approfondendo gli aspetti sopra enunciati attraverso riferimenti ad apporti teorici, nonché a casi applicativi. Nel farlo, esso si propone di indagare l’eredità di Ruskin come solida base di un progetto di restauro rispettoso verso il passato e, con l’aiuto della creatività, proiettato verso il futuro. Per la conservazione e oltre essa Un primo aspetto rilevante desumibile dall’opera ruskiniana risiede nell’accettazione del fisiologico invecchiamento insito in ogni manufatto. Del resto, «l’incontro con l’architettura è, per Ruskin, l’incontro con la imperfezione, la fragilità, la non durabilità dell’opera umana»8. Nel progetto di restauro, la consapevolezza di tale condizione costituisce il presupposto per intervenire mediante un approccio che rallenta, ma non rifiuta, un processo esistenziale. Da qui, vi è una seconda essenziale questione da porre in risalto: l’esistenza di un’effettiva bellezza nelle impronte che il tempo lascia sull’opera impone di associare al contrasto delle cause del degrado il rispetto per la «dorata patina del tempo»9. In questo senso, il transitorio amplifica i termini della propria durata: non solo l’intervento contemporaneo può prolungare la permanenza in opera del patrimonio esistente, ma il costruito diviene detentore di una bellezza ascrivibile a un lasso di tempo non limitato bensì insormontabile che «congiunge epoche dimenticate alle epoche che seguono, e quasi costituisce l’identità delle nazioni»10. La linearità, con un verso, del vettore temporale accompagna pertanto trasformazioni che conferiscono valore al costruito esistente: i segni dovuti al trascorrere del tempo e all’azione dell’uomo rendono il patrimonio una testimonianza unica e irripetibile. Custodi di memorie, le architetture possiedono una autentica e irriducibile individualità che il progetto di restauro dovrebbe rispettare mediante una visione delle tracce sul palinsesto come «un arricchimento di cultura depositata, per cui la materia diventa il senso che si arricchisce più si priva della forma»11. In quest’ottica, se il proget-
Ivi, p. 211. Ivi, p. 213. 4 Cfr. John Ruskin. Le pietre di Venezia. Catalogo della mostra (Venezia, 10 marzo-10 giugno 2018), a cura di A. Ottani Cavina, Venezia, Marsilio 2018. 5 G. Leoni, Prefazione, in John Ruskin. Opere, a cura di G. Leoni, Roma-Bari, Laterza 1987, p. VI. 6 Ivi, p. VII. 7 Cfr. G. Leoni, Models of Artistic and Architectural Creativity in the Works of John Ruskin, «ArcHistoR», 10, 2018, p. 92. 8 G. Leoni, Il comandamento scritto nelle cose. Sul problema del restauro in John Ruskin, in J. Ruskin, St. Mark’s Rest. The History of Venice, Written for the Help of the Few Travellers who still Care for her Monuments, Sunnyside, Allen 1877-1884; ed. it. Il riposo di San Marco. La storia di Venezia, scritta a servizio di quei pochi viaggiatori che hanno a cuore i suoi monumenti, Santarcangelo di Romagna, Maggioli 2010, p. 19. 9 J. Ruskin, The Seven Lamps… cit., p. 220. 10 Ibidem. 11 M. Dezzi Bardeschi, in Materia signata-haecceitas tra restauro e conservazione, a cura di R. Masiero, R. Codello, Milano, Franco Angeli 1990, p. 94. 2 3
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RA M. Dezzi Bardeschi, La conservazione accende il progetto, Napoli, Artstudiopaparo 2018, p. 11. 13 Cfr. M. Dezzi Bardeschi, Oltre la conservazione: il progetto del nuovo per il costruito, «‘ANAΓKH», 42, 2004, pp. 82-85. 14 Cfr. J. Ruskin, The Seven Lamps… cit., p. 228. 15 M. Dezzi Bardeschi, Saper conservare per poter innovare, «Recuperare», 2, 1982, pp. 130-139. 16 Cfr. M. Dezzi Bardeschi, La materia e il tempo, ovvero: la permanenza e la mutazione, «Recuperare», 2, 1982, pp. 90-99. 17 M. Dezzi Bardeschi in Saper credere in architettura: cinquanta domande a Marco Dezzi Bardeschi, a cura di A. Iacomoni, Napoli, Clean 2013, p. 27. 18 M. Dezzi Bardeschi, La conservazione accende… cit., p. 11. 19 J. Ruskin, The Seven Lamps… cit., p. 211. 20 E. Vassallo, Architettura e architetture, in Antico e Nuovo. Architetture e architettura, a cura di A. Ferlenga, E. Vassallo, F. Schellino, Padova, Il Poligrafo 2007, p. 23. 21 Cfr. Antico e Nuovo… cit. Si veda inoltre: A. Pezzola, Dialogo con le pietre, Rudiano, Gam 2011. 22 M. Dezzi Bardeschi, La conservazione accende… cit., p. 11. 23 Cfr. L. Febvre, Problemi di metodo storico, Torino, Einaudi 1966, p. 177. 24 B. G. Marino, Sugli impossibili margini della conservazione, in M. Dezzi Bardeschi, La conservazione accende… cit., p. 128. 12
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to di cura dell’esistente è componente essenziale dell’intervento finalizzato alla concreta tutela del patrimonio, la responsabilità progettuale ed operativa di conferire la medesima dignità di conservazione ai molteplici contributi sul manufatto impone di limitare sottrazioni arbitrarie e selettive al fine di massimizzare la permanenza in essere del costruito ricevuto «in temporanea eredità e gestione»12. L’haecceitas costituisce il risultato di una storia non ripetibile che, nel tempo presente, si manifesta nel suo hic et nunc, a sua volta destinato a mutare mediante successive riscritture. A riguardo, l’essenziale apporto ruskiniano orienta il progetto di restauro verso la concreta protezione dell’eredità materiale trasmessaci dal passato ma, al contempo, invita ad andare “oltre” la conservazione13: Ruskin non solo ha offerto un essenziale contributo per l’effettiva permanenza in essere del patrimonio, ma ha suggerito – con grande chiarezza – la necessità di ricorrere ad apporti esterni per aiutarlo, proteggerlo e accompagnarlo nel cammino nel tempo14. Da qui, il progetto del nuovo su e per il costruito esistente. Cogliendo la motivante sfida del «saper conservare per poter innovare»15, l’intervento contemporaneo può garantire permanenza e mutazione16, guardando in avanti pur preservando il passato: «questo patrimonio abbiamo il dovere di portarlo con noi stessi, senza tradimenti, nel futuro con la minima perdita possibile. Ma abbiamo parimenti il diritto-dovere di farlo crescere, proprio come bene collettivo comune»17. E se da un lato vi è il compito di conservare, dall’altro c’è quello di perseguire l’obiettivo del riuso finalizzato alla protezione del patrimonio. Ecco allora l’esigenza di innestare consapevolmente «nuova materia aggiunta di necessità, legata all’uso stesso della fabbrica […], che dovrebbe costituire quell’ulteriore plus-valore patrimoniale qualitativo che si aggiunge sommandosi al precedente»18. Essa non nega successive aggiunte e interpreta il restauro come intervento su un bene inevitabilmente mutevole, prezioso in virtù della propria unicità. In un processo di metamorfosi continua, il monito ruskiniano secondo cui vi è il bisogno di «conferire una dimensione storica all’architettura di oggi»19 lega indissolubilmente il tempo alla materia. In quest’ottica, le addizioni introdotte dal programma progettuale dovrebbero non solo essere espressione dell’epoca in cui si interviene, ma inserirsi in un insieme di «relazioni create nel tempo»20. Si fa allora essenziale il tema della dialettica tra Antico e Nuovo: l’incontro fra le necessità della conservazione e del riuso richiede di innescare un dialogo con la preesistenza21. Gli apporti esterni, circoscritti a tali esigenze, si inseriscono così in un processo che si pone in relazione tanto con il passato quanto con il futuro. Proprio in relazione a ciò, la conservazione insegnataci da Ruskin «apre, felicemente, alla necessità del progetto del nuovo come presenza testimoniale di nuova materia e al suo eloquente e vivace dialogo parlante con il contesto»22. Il saper ascoltare l’esistente in tutta la sua stratificazione parlante e l’aiutarlo a parlare alla collettività23 pone quindi in evidenza un duplice aspetto: da un lato, vi è l’esigenza di massimizzare la permanenza dell’esistente; dall’altro, è partendo dalle ragioni insite nella materia del manufatto che «trova origine una proiezione in avanti, intimamente progettuale; un progetto di conservazione inteso in senso dinamico»24. Interpretazione e creatività Quanto sopra riportato consente di introdurre un argomento di grande rilevanza: quello della dimensione intangibile del patrimonio esistente. A riguardo, interpretazione e creatività costituiscono componenti essenziali del progetto di restauro.
Interessante è notare come, ancora una volta, il pensiero ruskiniano evidenzi la propria attualità. In questo caso, però, con riferimento a un aspetto fino adesso poco indagato. Se l’influenza di Ruskin sulla sfera del restauro è infatti nota a tutti, minore attenzione è stata sinora data – come inizialmente anticipato – al tema della creatività artistica e architettonica in relazione all’opera del celebre autore inglese. Circa l’intervento sul costruito esistente, ciò che non raramente si tende a sottovalutare è che «la frammentazione […], esito della sedimentazione di significati» è non solo un arricchimento, ma una «fonte di creatività»25. Un tema significativo su cui appare ora opportuno catalizzare l’attenzione è quindi il rapporto tra soggetto e oggetto o, in altre parole, tra interprete e realtà circostante:
Fig. 1 M. Dezzi Bardeschi, schizzo per Certaldo, da A. Iacomoni, op. cit., p. 102.
Il tratto dominante della figura dell’artista tracciata da Ruskin è la facoltà di oscillare tra passività e creatività. Da un lato egli deve guardarsi da ogni volontà di decisione, deve sapersi porre in ascolto e registrare passivamente quanto gli viene rivelato. Dall’altro lato, proprio tramite l’annullamento di sé egli arriva a conoscere il disegno divino nel suo complesso, e, raggiuntone l’autore, ottiene il potere di ricreare armonicamente ad esso nuovi ordini26.
E. Vassallo, Architettura e architetture… cit., p. 23. 26 G. Leoni, Potenza dell’artista, in John Ruskin. Opere… cit., p. 50. 27 Cfr. J. Ruskin, The Stones of Venice, London, Smith, Elder and Co. 1851-1853; ed. it. Le pietre di Venezia, Milano, Mondadori 1982. Si veda inoltre: R. Di Stefano, John Ruskin, interprete dell’architettura e del restauro, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 19832. 28 M. Pretelli, Imparando, di nuovo, da Venezia. La lezione del crepuscolo, in J. Ruskin, Il riposo di San Marco…, cit., p. 63.
Se un cruciale aspetto riguarda dunque l’ascolto associato all’atto creativo, un ulteriore tema concerne l’essenza profonda di ogni architettura. A tal proposito, è lo stesso Ruskin a invitare a interpretare solo attraverso l’immediata vicinanza alle cose27, insegnando che l’avvicinamento al patrimonio è operazione complessa e articolata, che richiede predisposizione, sensibilità e interesse. L’attenzione non deve mai essere distolta neppure dai particolari apparentemente più insignificanti, proprio perché essi sono tali solo per coloro che non ne sanno comprendere il vero, spesso non evidente, significato28.
Fig. 2 Intervento di M. Dezzi Bardeschi nel centro storico di Certaldo Alto, Comune di Certaldo, Firenze, da M. De Vita, Architetture nel tempo. Dialoghi della materia, nel restauro, Firenze, Firenze University Press 2015, p. 67. 25
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Fig. 3 Intervento di M. Dezzi Bardeschi per l’ampliamento di un albergo a Le Vertighe, Comune di Monte San Savino, Arezzo, da M. Dezzi Bardeschi, La conservazione accende… cit., p. 73.
29 M. Dezzi Bardeschi, La conservazione accende… cit., p. 10. 30 M. Dezzi Bardeschi in Saper credere… cit., p. 37. 31 E. Vassallo, Architettura e architetture… cit., p. 23. 32 Ibidem. 33 Cfr. M. L. Scalvini, Architettura di cristallo (Marco Dezzi Bardeschi), «Domus», 617, 1981, pp. 18-21. 34 D. Fiorani, Arte contemporanea e restauro a confronto: alcune riflessioni, «Materiali e Strutture. Problemi di conservazione», 14, 2018, p. 12.
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La sfera dell’immateriale apre, dunque, al processo necessariamente soggettivo dell’interpretazione, evidenziando la necessità di «penetrare oltre la superficie apparente del visibile per tener conto di tutti quei sottesi fermenti immateriali che si affollano dentro e dietro l’immagine e la ricezione del suo messaggio»29. È così che alla necessità di cogliere i significati dell’edificio oggetto dell’intervento, si accosta la possibilità di aggiungere nuovi significati, provenienti dall’epoca in cui si opera. In quest’ottica, l’incontro fra istanze della conservazione e necessità del riuso è parte integrante di un processo di mutamento che, attraverso oculate aggiunte, può introdurre «citazioni e ammiccamenti allegorici e simbolici per evidenziare il contenuto e lo spessore semantico dell’opera»30. A riguardo, l’introduzione di nuovi elementi, anche inattesi, può avvalersi della creatività per enfatizzare il portato semantico dell’architettura e arricchirla mediante l’attribuzione di ulteriori significati. In questo senso e in sintonia con il pensiero ruskiniano, è possibile evidenziare un duplice aspetto: da un lato vi è la necessità di governare il mutamento «massimizzando la permanenza, facendo emergere le stratificazioni di cui ogni architettura è ricca, reinterpretando senza distruggere, accogliendo la modernità, avendo coscienza dell’irriproducibile singolarità di ogni testimonianza»31; dall’altro lato c’è l’esigenza di riconoscere nella creatività un «presupposto del continuo divenire»32. Emblematico esempio di quanto appena espresso è l’intervento condotto da Marco Dezzi Bardeschi nel centro storico di Certaldo Alto. Attivo tra gli anni Settanta e Ottanta, il cantiere ha dato forma a un progetto che ha tratto spunto dalla sfera celeste. Fin dall’antichità, l’armatura stellata ha costituito un aggancio con il tempo futuro, da molteplici punti di vista. Analogamente, la copertura in ferro e vetro al di sopra del nuovo sistema di scale indica il cielo e, nel farlo, segnala un contatto con la dimensione immateriale del contesto, nonché la ricerca di una proiezione in avanti (Figg. 1-2). Ed è proprio la dialettica con il disegno del cielo ad essere stata una dominante di altri interventi condotti sull’esistente: nel medesimo segmento cronologico della sopracitata operazione, l’ampliamento di un albergo a Le Vertighe, nel Comune di Monte San Savino33, ha recuperato il tema celeste, ribadendo l’importanza della creatività come strumento dialogante in grado di elevare la qualità del progetto (Fig. 3).
Da qui, è possibile effettuare un ultimo passaggio dalla sfera della creatività al mondo dell’arte contemporanea: se l’intreccio fra momento ideativo e pratica creativa fa ricorso all’esperienza figurativa propria della contemporaneità, il rapporto fra restauro e arte contemporanea costituisce un possibile mezzo per il raggiungimento dell’obiettivo della tutela dell’esistente. «L’importanza del dialogo istituito fra istanze del restauro e spinte creative nel mondo dell’arte contemporanea»34 è infatti confermata dalla possibilità di intercalare una dialettica creativa e consapevole, in grado di accogliere il pensiero ruskiniano, di calarlo nel tempo presente e di arricchire l’architettura guardando verso il futuro. La grande sfida progettuale della conservazione e del riuso può così recepire gli orientamenti teorici propri del restauro, ma confrontarsi altresì con campi disciplinari contermini: «è anche necessaria la presa in considerazione, da parte della cultura del progetto (sia del “nuovo” che nella preesistenza) di fattori eteronimi, ma solo apparentemente, all’architettura»35. In relazione a ciò, almeno due sono gli aspetti da sottolineare. Il primo riguarda specificatamente il rapporto tra preesistenza e intervento artistico: la produzione di diversi autori nel mondo dell’arte contemporanea non va in questo caso guardata «nell’ottica della critica d’arte, che non rientra nelle nostre competenze, ma proprio in relazione alle modalità e ai significati che hanno caratterizzato il rapporto fra nuova creatività e antica costruzione»36. Il secondo aspetto è relativo agli spunti derivanti dalla creazione artistica in sé: interventi di street art, installazioni e opere d’arte, nelle loro molteplici declinazioni, possono ammiccare a contenuti semantici che il progetto di architettura può trarre. E ciò, come anticipato, vale tanto per il progetto del nuovo quanto per quello nell’esistente. Il richiamo alla soavità della danza e la proiezione verso un futuro migliore sembrano unire La passeggiata, opera di Marc Chagall del primo Novecento, all’edificio per uffici della Nationale-Nederlanden a Praga, progettato da Frank O. Gehry e realizzato negli anni Novanta (Figg. 4-5). Nel caso dell’opera d’arte, è durante il Primo conflitto mondiale che Chagall si ritrae assieme a Bella, con cui convola a nozze; nel caso dell’edificio divenuto il Dancing House Hotel, è dopo la Rivoluzione di Velluto che la strada verso le riforme viene reinterpretata dalla non staticità della cosiddetta Casa Danzante.
Fig. 4 M. Chagall, La passeggiata, 1917-1918 (San Pietroburgo, Museo di Stato Russo), da Marc Chagall. Una retrospettiva 1908-1985; Catalogo della mostra (Milano, 17 settembre 2014-1 febbraio 2015), a cura di C. Beltramo Ceppi Zevi, Firenze, Giunti 2014, p. 107. Fig. 5 F. O. Gehry, edificio per uffici della Nationale-Nederlanden, 1992-1996, Praga, da Francesco Dal Co et alii, Frank O. Gehry. Tutte le opere, Milano, Electa 1998, p. 506.
B. G. Marino, Sugli impossibili margini… cit., p. 133. 36 D. Fiorani, Arte contemporanea e restauro… cit., p. 6. 35
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Fig. 6 L. Quinn, installazione per la Biennale Arte 2017, Venezia, foto G. Favaretto, 2017.
Le due torri del manufatto nella capitale della Repubblica Ceca simboleggiano infatti una danza tra le icone Fred Astaire e Ginger Rogers. Da un lato, dunque, una leggiadra coppia di amanti; dall’altro, una famosa coppia del ballo. Ricercato o meno, il legame tra queste due opere chiarifica la possibilità di trarre ispirazione dall’arte e di arricchire l’architettura attraverso richiami immateriali che – nel caso dei nuovi innesti inseriti dal restauro – non solo sottolineano l’innata vitalità della preesistenza, ma comunicano un messaggio.
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Infine, a conferma del valore aggiunto che l’apertura degli orizzonti disciplinari è in grado di offrire, vi è un recente intervento in ambito veneziano. Ancora una volta, la relazione riguarda il restauro e le espressioni artistiche contemporanee. In questo caso, tuttavia, il binomio risulta invertito: pare sia stato il mondo dell’arte contemporanea ad aver preso spunto dalle teorie della conservazione. Nel 1849, John Ruskin avrebbe infatti sentenziato uno dei passaggi più significativi del suo pensiero: Prendetevi cura solerte dei vostri monumenti, e non avrete alcun bisogno di restaurarli. […] Vigilate su un vecchio edificio con attenzione premurosa; proteggetelo meglio che potete e ad ogni costo, da ogni accenno di deterioramento. Contate quelle pietre come contereste le gemme di una corona; mettetegli attorno dei sorveglianti come se si trattasse delle porte di una città assediata; dove la struttura muraria mostra delle smagliature, tenetela compatta usando il ferro; e dove essa cede, puntellatela con travi; e non preoccupatevi per la bruttezza di questi interventi di sostegno: meglio avere una stampella che restare senza una gamba37.
Nel 2017, in occasione della Biennale Arte, Lorenzo Quinn sarebbe intervenuto a Venezia installando due grandi mani a “sostegno” di Ca’ Sagredo. La potenza del messaggio dell’opera temporanea situata lungo il Canal Grande ricorda la stampella di ruskiniana memoria e, nel farlo, invita a intervenire per aggiunta, scongiurando il rischio di perdita di materia derivante da altri approcci (Fig. 6). Figura essenziale per «il futuro della memoria»38, Ruskin ha gettato le basi di un operare facente riferimento a una triplice dimensione temporale: «una compresenza di passato, presente e futuro che trasforma il tempo […] in un tempo eterno: eterno perché formato da tutti i tempi»39. All’interno di tale legame, il restauro si sostanzia dell’apporto teorico alla conservazione ricevuto da Ruskin che, a sua volta, accende il progetto40. Come si è tentato di enucleare nelle pagine che precedono, l’autore inglese ha infatti fornito un contributo essenziale non solo alla permanenza in essere del patrimonio esistente, ma alla «costruzione di un Uomo e un Futuro nuovi e migliori»41. L’intreccio fra teoria, scritti di Ruskin ed esempi di opere d’arte e d’architettura ha ambito, in quest’ottica, a marcare la portata del pensiero ruskiniano ampliando l’attenzione su un legame spesso sottovalutato: non raramente il progetto del nuovo per il costruito trascura il fruttuoso rapporto che sussiste tra conservazione e creatività. Chiarire questo aspetto significa includere nel ragionamento progettuale gli aspetti immateriali insiti in ogni opera. Al di là della effettiva conservazione della materia del manufatto, l’intervento può infatti preservare i significati racchiusi dalle stratificazioni dell’architettura. Il ricorso all’interpretazione diviene così essenziale non solo per enfatizzare la dimensione immateriale dell’opera, aiutandola a narrare molteplici storie, ma per aggiungere nuovi significati provenienti dall’attualità. A riguardo, l’esperienza figurativa contemporanea può aiutare a dar forma a «un’architettura che, sia pure per frammenti significativi, si intercali e dialoghi creativamente con l’incredibile ricchezza dell’eredità materiale arrivata fino a noi e che abbiamo il compito di custodire, curare e proiettare (con noi stessi) nel futuro»42. L’eredità di Ruskin risulta dunque quanto mai attuale43. Gli influssi del suo pensiero nell’intervento per la tutela del patrimonio esistente orientano verso una “lampada per il futuro” che sottende un approccio favorevole alla massimizzazione della permanenza in essere, all’introduzione di puntuali apporti esterni e all’apertura dialogante con l’arte e la creatività.
J. Ruskin, The Seven Lamps… cit., p. 228. 38 M. Dezzi Bardeschi, G. B. Bassi, Il futuro della memoria. Testimonianze sulla ricerca architettonica contemporanea al Castello Malaspina di Massa-1972, La Spezia, Tipografia Moderna 1972. Si veda inoltre: D. Borsa et alii, Memoria Identità Luogo. Il progetto della memoria, Santarcangelo di Romagna, Maggioli 2012. 39 G. Leoni, Il comandamento scritto… cit., p. 21. 40 Cfr. M. Dezzi Bardeschi, La conservazione accende… cit. 41 M. Pretelli, Ruskin e la basilica di San Marco (1845-1877). Studiare per costruire un nuovo futuro, in San Marco. La Basilica di Venezia: arte, storia, conservazione, a cura di E. Vio, vol. II, Venezia, Marsilio 2019, p. 168. 42 M. Dezzi Bardeschi in Saper credere in architettura… cit., p. 45. 43 In questo senso, Ruskin può dirsi «un profeta per l’architettura». L. C. Forti, John Ruskin: un profeta per l’architettura, Genova, Compagnia dei Librai 1983. 37
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La conservazione come atto progettuale di tutela Stefania Franceschi | st.franceschi@awn.it Leonardo Germani | le.germani@awn.it Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
Abstract According to Ruskin, conservation is an operational tool capable of showing the declared attention to the sense of belonging of a people and so it does not identify the moment that precedes the last phase of life of the building but on the contrary identifies a structural aspect, essential to its very existence. The architect will therefore have to address the problem of the entire life of the building and protect it through maintenance operations aimed at preventing loss or damage. Conservation understood as one of the basic principles of the recognition of identity, especially if practiced as a radical project aimed at curbing and reconverting the decays that intervene in the aesthetic and ecological conformation of the landscape. The reconversion can take place by providing for damage in the phase of breaking the internal equilibrium of the relationships of identity of places and prevention is inevitably a measure of control that can be carried out with constant maintenance on the subject of architecture and its landscape. Parole chiave tutela, manutenzione, memoria
Crediamo sia necessario applicare alla visione di Ruskin una “messa a fuoco” interpretativa che ci aiuti ad evincere i termini di una conoscenza aperta, rivolta all’architettura come “racconto” e alla natura come “testo”, come “libro”. La conoscenza è quella che Ruskin affina nel principio che il “testo” altro non è che il “sapersi porre in ascolto” al fine di capire, nel profondo, gli equilibri che regolano l’insieme e lo rendono unico ed inimitabile; ossia la capacità di conseguire una competenza irrinunciabile per la comprensione dei monumenti. Il costruito del passato ci parla, ci fa udire delle voci che ci coinvolgono in uno scambio di opinioni. Il suo concetto di autenticità non è sicuramente da interpretare nel senso di “authenticitè formel” così come la definisce, ad esempio, Raymond Lemaire1, né come aggiunte evolutive di più authenticitès, indotte da momenti diversificati di rapporto con le cose riconoscendo nella storia la possibile presenza di tante legittime forme di autenticità successive (“ne s’agit-il pas de trois authenticitiés successives?”) tanto da poter individuare, alla fine, un’autenticità globale (“autenticité total”) del messaggio che ne incorpora anche il significato sociale2.
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Fig. 1 J. Ruskin, Torre del palazzo Guinigi, Lucca, 1845, da J. Ruskin, Mattinate fiorentine, a cura di A. Brilli, Milano, Mondadori,1984.
Fig. 2 J. Ruskin, San Domenico, Fiesole, 1874, da J. Ruskin, Mattinate fiorentine, a cura di A. Brilli, Milano, Mondadori,1984.
L’autenticità concepita da Ruskin è un insieme di elementi nel quale coesistono, in modo tanto armonico quanto inscindibile, valori come la forma, il colore, lo stile. L’autenticità si rileva tendenzialmente di tipo fenomenologico, ossia rivelazione di questi stessi valori e come tale appare interna ad una visione dell’unicità: ovverosia, della “particolarità e irripetibilità” del documento materiale nei segni propri del tempo che
1 R. Lemaire, Authenticitès et patrimoine monumental, «Restauro» CXXIX, 1994, pp.7-24. 2 M. Dezzi Bardeschi, Autenticità, «ANATKH» VII, 1994 p.3.
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3 J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, Milano, Jacca Book 1982, p.213. 4 J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p.214. 5 Ibidem. 6 G. Giovannoni, Vecchie città ed edilizia nuova, Torino, UTET 1931, p.113. 7 Vari autori hanno avuto modo di riprendere e mettere in luce questa anticipazione, uno fra tutti Salvatore Settis: «il nostro bene culturale più prezioso è il contesto, il continuum fra i monumenti, le città, i cittadini; e del contesto fanno parte non solo musei e monumenti, ma anche la cultura della conservazione che li ha fatti arrivare fino a noi» S. Settis, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi 2002, p.11. 8 J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p.211. 9 Ibidem. 10 Ruskin ci ricorda che «il luogo della dimora terrena che aveva visto, ed era sembrato quasi condividere con loro, tutti gli onori, le gioie, le sofferenze, questo luogo, custode di tutti i ricordi della loro vita e di tutti i beni materiali che avevano amato e usato a loro discrezione […] dovesse finire spazzato via non appena avessero trovato posto nella tomba. Quale cruccio pensare che non si sarebbe mostrato alcun rispetto per quel luogo, non si sarebbe provato alcun affetto nei
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lo traghetta e lo usura, inteso nella sua natura storica nella quale risulta la conseguenza della sua bellezza. In altre parole, per l’autore de Le sette lampade dell’architettura, lo schizzo di una foglia di acanto o l’acquarello di un fiore, presentano la medesima autenticità e la medesima parità di bellezza di un frammento di una bifora o di un pennacchio così come quello di uno veduta costiera o di una pieve, la stessa di una fortificazione o di una casa domestica; questa “parità di bellezza” assume ancor più forza se guardata nel segno dell’imperfezione, essendo questa radicata all’esistenza, al suo dipanarsi in un costante ma lineare mutamento. È per tale ragione che nell’atto restaurativo, inteso come azione operativa volta a ri-dare vita, “ri-animare” ciò che ha perso la sua identità, si cela il fallimento del mantenimento dell’architettura. Restaurare inteso come azione materiale che implica la scelta di cosa mantenere a discapito di ciò che andrà irrimediabilmente perso porta con se l’inevitabile interruzione del racconto della memoria; una memoria che per Ruskin deve mantenere inalterata la sua sincerità e perché ciò accada non deve essere “ridicolizzata” reinterpretando, copiando o ripristinando ciò che l’incuria ha cancellato. L’autenticità d’animo e di azione è il valore assoluto, un’autenticità che guida l’esistenza in contrapposizione all’inganno che non è ovviamente azione perseguibile. L’illusione di ripristinare stilisticamente ciò che non c’è più altera la storia creando confusione e mortificando la dignità del costruito. Un costruito inteso nel suo insieme più totalizzante poiché è proprio con Ruskin che per la prima volta non si fa un distinguo di atteggiamento tra l’architettura privata e pubblica, tra il monumento e la dimora del popolo: […] oppure la consapevolezza che la nostra vita non è tale da render sacra la nostra dimora agli occhi dei nostri figli, quella che induce ciascuno di noi a desiderare di costruire per se stesso, e a costruire soltanto per la piccola rivoluzione della propria vita personale3.
È l’insieme del costruito che viene concepito come parte integrante e permanente della memoria, fedele custode dei tanti stati d’animo che l’uomo attraversa durante la sua permanenza terrena, ed è questo ruolo sociale che rende esclusiva l’architettura. Ruskin implementa il contenuto tipologico del concetto di monumento storico facendovi entrare con pieno diritto l’architettura “domestica” criticando coloro che vengono attirati unicamente dalla «ricchezza dei grandi palazzi isolati»4, ed esaltando il «culto raffinato della decorazione che si vede anche nelle case più piccole»5 ovvero la continuità del tessuto urbano costituito da dimore più umili. È il tessuto connettivo costituito da dimore modeste, vernaculari ai bordi dei canali e delle strade che rendono Venezia, Firenze, Rouen ed Oxford uniche alla stregua dei loro grandi complessi religiosi e civili, dei loro palazzi e dei loro monumenti, facendo di questi insediamenti urbani delle entità specifiche. L’autore de Le pietre di Venezia è sicuramente il primo ad immettere gli “insiemi urbani” (ossia quello che più di cinquant’anni dopo Gustavo Giovannoni chiamerà “patrimonio urbano“6) allo stesso livello delle “emergenze architettoniche” nel campo dell’eredità storica da salvaguardare7. Noi dobbiamo guardare all’Architettura nel modo più serio come all’elemento centrale garante di questa influenza d’ordine superiore della natura sulle opere dell’uomo. Senza di essa si può vivere, e anche pregare, ma non si può ricordare […]8.
La conservazione programmata La conservazione diviene così strumento operativo capace di manifestare la conclamata attenzione verso il senso di appartenenza di un popolo e come tale non identifica il momento che precede l’ultima fase di vita della fabbrica ma al contrario identifica un aspetto strutturale, indispensabile alla sua stessa esistenza. L’architetto dovrà, pertanto, porsi il problema dell’intera vita dell’edificio, da qui la necessità di tutelare le fabbriche con operazioni di manutenzione al fine di scongiurare di perderle o di “danneggiarle” con interventi non tempestivi: […] vi sono due compiti – afferma Ruskin – che incombono su di noi nei confronti dell’architettura del nostro paese […] il primo consiste nel conferire una dimensione storica all’architettura di oggi, il secondo nel conservare quella delle epoche passate come la più preziosa delle eredità9.
La conservazione è uno dei principi basilari del riconoscimento dell’identità ed è per questo che la sua pratica deve concretizzarsi in un progetto attento che, partendo dalla profonda conoscenza del manufatto risulti capace di individuare ed arrestare i “dissesti” che intervengono nella conformazione estetico-ecologica del paesaggio. Ma ancor di più l’atto conservativo risulta più efficace laddove sia in grado di identificare i possibili “dissesti” nella fase di rottura degli equilibri interni ai rapporti d’identità dei luoghi10. In questa logica la prevenzione diviene atto pratico di attenzione e di controllo eseguibile con provvedimenti a ciclo manutentivo sulla materia dell’architettura e contestualmente del suo paesaggio. Così come l’uomo non può cambiare gli eventi accaduti prima del suo passaggio terreno, alla stessa stregua l’architettura, in quanto memoria storica, non può essere rein-
Fig. 3 J. Ruskin, Ponte Vecchio con l’Arno in piena, Firenze da J. Ruskin, Mattinate fiorentine, a cura di A. Brilli, Milano, Mondadori,1984. Fig. 4 J. Ruskin, Elementi architettonici, incisione per il volume The Seven Lamps of Architecture da J. Ruskin, Mattinate fiorentine, a cura di A. Brilli, Milano, Mondadori,1984. Fig. 5 J. Ruskin, Arcatella di San Michele, Lucca, incisione per il volume The Seven Lamps of Architecture da J. Ruskin, Mattinate fiorentine, a cura di A. Brilli, Milano, Mondadori,1984.
suoi confronti […] non vi sarebbe stato per questi figli alcun caldo monumento nel focolare e nella casa» J. Ruskin Le sette lampade… cit., p.212.
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Stefania Franceschi, Leonardo Germani
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Fig. 6 J. Ruskin, Villaggio Italiano, Chiavenna, 1845 da I. Warrell, S. Wildman, R. Hewison, Ruskin, Turner, and the PreRaphaelites, London 2000.
terpretata; la conservazione programmata diviene così il mezzo per poter custodire la memoria, unico atto operativo capace di mantenere la storia materiale manifesta nel costruito. Il principio che vige oggi – scrive Ruskin nel capo XIX della “lampada della memoria” […] consiste prima di trascurare gli edifici per procedere poi al restauro. Prendetevi cura solerte dei vostri monumenti, e non avrete alcun bisogno di restaurarli. Poche lastre di piombo collocate a tempo debito su un tetto, poche foglie secche e sterpi spazzati via in tempo da uno scroscio d’acqua, salveranno sia il soffitto che i muri in rovina. Vigilate su un vecchio edifico con attenzione premurosa; proteggetelo meglio che potete e ad ogni costo, da ogni accenno di deterioramento […]; dove la struttura muraria mostra delle smagliature, tenetela compatta usando il ferro; e dove essa cede, puntellatela con travi; e non preoccupatevi per la bruttezza di questi interventi di sostegno; meglio avere una stampella che restare senza una gamba. E tutto questo, fatelo ammirevolmente, con reverenza e continuità […]. Alla fine anch’esso dovrà vivere il suo giorno estremo; ma lasciamo che quel giorno venga apertamente e senza inganni, e non consentiamo che alcun sostituto falso e disonorevole lo privi degli uffici funebri della memoria11. J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p.228 (corsivo dell’autore). 12 Cfr. A. L. Maremotti Politi, Ruskin fra architettura e restauro, in La cultura del restauro. Teorie e fondatori, a cura di S. Casiello, Venezia, Marsilio editore 2005, pp.117-139. 13 Consiglio d’Europa, (CETS n.199) Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, FARO, 27. X. 2005. 11
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Questo enunciato esemplifica come la pratica della conservazione programmata sia guidata dal nobile sentimento di far “resistere” la dimora dell’uomo al meglio della sua “robustezza” così da poter ricordare a chi verrà dopo cosa è esistito un tempo, ma soprattutto segnare il punto di partenza e il punto di arrivo di una parentesi storica. Un’architettura che sia sempre al servizio dell’uomo e come tale capace di accompagnarlo e sostenerlo nelle diverse tappe della vita. Il lascito di Ruskin È necessario, nell’epoca che stiamo vivendo, rileggere con spirito critico il “testamento” che l’autore delle Mattinate Fiorentine ci ha lasciato; una lettura laica, libera dai preconcetti che spesso hanno indotto a malintendere i suoi insegnamenti in modo da poter definire le condizioni per attuarlo.
Ruskin tratteggiando i caratteri nazionali, espressi attraverso la costruzione, delinea gli aspetti individuanti il “carattere” di ciascun popolo. Tra costruito e vita di chi l’abita vi sussiste una relazione, la fabbrica non adempie esclusivamente la funzione di riparo è identificativa del modo di concepire la vita di un’epoca pertanto, tale testimonianza necessita di essere conservata nel tempo così da documentare la peculiarità di ogni civiltà nonché i valori vitali che ne hanno segnato e ne segnano il cammino storico. Risulta fondamentale salvaguardare questo patrimonio, frutto della capacità dell’uomo di inserirsi nel piano creazionale e di manifestarsi nella propria personalità civile e storica. Nel salvaguardare il manufatto l’uomo salva in prima istanza la memoria della propria esistenza, se nulla può aggiungere ad essa non gli resta che conservare, come memoria di sé, l’opera che fornisce traccia della sua presenza sulla terra. In questo modo il manufatto diviene segnale della vita umana, l’onestà verso l’oggetto conduce a non ingannare l’autenticità della sua natura12. Questi concetti espressi dal pensatore inglese anticipano di oltre centocinquanta anni il concetto innovativo, affermato dalla Convenzione di Faro13 di “[eredità]-patrimonio culturale”14, considerato «un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione»15. Nella Convenzione di Faro si anticipa un’altra importante intuizione che vede ampliare il concetto di patrimonio culturale anche a «tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi»16 imponendo la salvaguardia e la tutela del patrimonio non solo per il suo valore proprio ma in quanto risorsa per la crescita culturale e socio-economica, attuando per questo mirate politiche di valorizzazione che coinvolgano tutti i soggetti considerati parte delle “comunità di patrimonio”. Non possiamo, perciò, che trovarsi, in sintonia con chi ha evidenziato il rilievo “progressista” di Faro rispetto alla tradizionale idea di tutela: «un profondo rovesciamento complessivo: dell’autorità, spostata dal vertice alla base; dell’oggetto, dall’eccezionale al tutto; del valore, dal valore in sé al valore d’uso e, dunque, dei fini: dalla musealizzazione alla valorizzazione»17.
In accordo con quanto indicato da Giuliano Volpe (cfr. G. Volpe, Un Patrimonio Italiano. Beni culturali, paesaggio e cittadini, Torino, UTET 2016) preferiamo utilizzare “patrimonio culturale” come traduzione di “cultural heritage” in luogo di “eredità culturale” impiegata nella traduzione non ufficiale presente sul sito del ministero [online], disponibile: <http://musei. beniculturali.it/wp-content/uploads/2016/01/ Convenzione-di-Faro.pdf> (05.06.2019). 15 Consiglio d’Europa, (CETS n.199) Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società, FARO, 27. X. 2005, traduzione non ufficiale art.2 – Definizioni comma a. 16 Ibidem. 17 M. Montella, La “Convenzione di Faro” e la tradizione culturale italiana, in La valorizzazione dell’eredità culturale in Italia, Atti del convegno di studi in occasione del 5°anno della rivista «Il Capitale Culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage», a cura di P. Feliciati, Supplementi 05, 2016, p.14. 14
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L. Litvak, Ruskin y el sentimiento de la naturaleza en las obras de Unamuno, «Cuadernos de la Cátedra Miguel de Unamuno», 23, 1973, pp. 211-220. 2 J. Ruskin, Las Siete Lámparas de la Arquitectura, Madrid, La España Moderna 1900. 3 A. Fillier, La Belleza que vive, Barcelona, Anuario de la Exportación 1987; C. De Montoliu, Fragments de John Ruskin traduits de l’inglès amb un assaig introductori, Barcelona, L´Avenc 1901; P. Corominas, Los Jardines de las Reinas, Madrid, B. Rodríguez Serra 1901; E. González, John Ruskin. Obras escogidas, Madrid, La España Moderna 1906; J. Ruskin, La Biblia de Amiens translation by M. Cigés, Madrid, Daniel Jorro 1907; J. Ruskin, Sésamo y Azucenas: tres lecciones, translation by M. Montoliu, Madrid, Daniel Jorro 1907; E. González, Obras escogidas de John Ruskin, Madrid, La España Moderna 1906; M. Montoliu, Els Lliris del Jardí de la Reina, Barcelona, L´Avenc 1909. 4 J. Ruskin, Las Siete Lámparas de la Arquitectura, Valencia, F. Sempere y Cía 1912. 1
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John Ruskin’s legacy in the debate on monument restoration in Spain María Pilar García Cuetos | gcuetos@uniovi.es University of Oviedo, Spain
Abstract The dissemination of John Ruskin’s theories had an obvious impact on the rejection to restorations in style. The first editions of John Ruskin’s work in Spanish saw the light in the early 20th century, translated by the journalist and writer Carmen de Burgos (1876-1932). Ruskin’s influence can be detected in the texts and proposals by Benigno de la Vega Inclán, José Puig i Cadafalch, Fortunato de Selgas, and Leopoldo Torres Balbás. Two specific examples highlight the legacy of John Ruskin’s ideas and the influence exerted by the Ruinist aesthetics: the intervention fostered by Benigno de la Vega Inclán in the Patio del Yeso courtyard inside the Reales Alcázares in Seville (1915) as well as the restoration of San Julián de los Prados, a Pre-Romanesque church in Oviedo, carried out by Fortunato de Selgas (1912-15). Both instances are open to an innovative interpretation by considering the importance of the Ruinist aesthetics and the influence of John Ruskin’s ideas Parole chiave Restoration theory, ruinism
John Ruskin’s influence in Spain Ruskin’s influence was felt in Spain in the late 19th and early 20th centuries1. The Seven Lamps of Architecture was translated into Spanish in 19002 together with several editions of his works in Spanish and Catalan3. Carmen de Burgos (1867-1932) was foremost among Ruskin translators. She was an intellectual, the first woman journalist and war correspondent in Spain, as well as a feminist and human rights advocate. In 1912, she translated The Seven Lamps of Architecture4. John Ruskin’s works spread among progressivist thinkers and impacted literature, painting and archaeology. His appreciation of landscapes and ruins was matched with his interest on civilizations of the past and their remains. In late 19th century Spain, archaeological exoticism5, an aesthetic movement favouring the cult to ruins, was developed. The mesmerizing appeal of decadence left its imprint in the Spanish culture at the time, as well as in the Spanish Modernists and their literature6. William Morris and John Ruskin had an influence in the development of Modernism in Catalonia7. John Ruskin’s ideas mirrored in Spanish restorers The Ruinist aesthetics, the dissemination of Ruskin and William Morris’ ideas, and the SPAB Manifesto boosted the opposition to restorations meant to return buildings to
Fig. 1 Patio del Yeso, Reales Alcázares of Seville, B. de la Vega Inclán, 1915.
L. Litvak, Exotismo arqueológico en la literatura española de finales del siglo XIX. 1880-1895, «Anales de Literatura Española», 1985, pp. 183-196. 6 L. Litvak, Temática de la decadencia en la literatura española de fines del siglo XIX: 1880-1913, in Id., España 1900. Modernismo, anarquismo y fin de siglo, Madrid, Anthropos 1990, pp. 245-257. 7 A. Calvera, Acerca de la influencia de William Morris y el movimiento Arts & Crafts en Cataluña. Primeros apuntes y algunas puntualizaciones, «D´Art», 23, 1997, pp. 231-252. 8 M. P. García Cuetos, El Lenguaje de las Bellas Construcciones. Reflexiones sobre la recepción y la restauración de la Arquitectura andalusí, Granada, Universidad de Granada. 9 J. Rivera Blanco, El Marqués de la Vega Inclán (18581942): Protector y restaurador de monumentos. In memorian en el L aniversario de su fallecimiento, «Boletín de la Real Academia de la Purísima Concepción de Valladolid», 1992, p. 53. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 G. Ashworth, P. Howard, European Heritage, Planning and Management, Exeter, Intellect Books 1999, p. 144. 13 M. P. García Cuetos, El Lenguaje… cit., pp. 77-81. 5
their idealized self in the past. Benigno de la Vega Inclán y Flaquer (1858-1942), Marquis of la Vega Inclán and Royal Commissioner of Tourism under Alfonso XIII8 was the public figure closest to John Ruskin’s theories. Vega Inclán attacked the Alhambra restorations being carried out in Granada. He defended the persistence of ruins: […] the visible, decaying ruin, rounded up by the action of the sun and countless years cannot “compare with the shiny fragments around it.” The restorer, fond of his work, keeps on improving everything and, regrettably, does away with the ruin, which is just the one thing he should have preserved9.
He asserted that one should secure and preserve: […] everything our sight regards, our soul is delighted by and our heart moved by; in short, everything that clothes and dignifies the richest among our national ruins, the isolation which is Nature’s contribution to embellish and provide it with an austerity, prominence and charm unique in the world, that’s the one thing that cannot vanish, and […] must restrict oneself to strengthening10.
Vega Inclán’s ideas are close to those theses against restorations. It has been pointed out that he is in debt with Ruskin11 and has been considered his disciple12. Vega Inclán expresses a cult to ruins and Nature which, very much like in Ruskin, is presented almost as a divinity. He considered La Alhambra to be a unique piece of art with an imprint by time which should not be altered13. John Ruskin’s ideas had also an influence on Josep Puig i Cadaflach (1867-1956), a restorer architect and a researcher on Catalan architecture. On the restoration of the Seu D´Urgell Cathedral, he wrote: First let’s shed from our minds the idea of finishing the work, of building today what has never existed. The result of those restorations is traditionally notorious. Dozens of monuments restored throughout Europe by men of the highest intelligence, architects in possession of a huge archaeological wisdom, prove that times past, same as the dead, do not come back to life, and works performed under such premises are new works with little connection to the old work which was intended to have been restored. Such a monument is deprived of its historic value and is rendered
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Fig. 2 Patio del Yeso, Reales Alcázares of Seville, (IPCE). Fig. 3 Patio del Yeso,B. de la Vega Inclán, 1915.
useless for science, having lost its value as an archaeological document. The solution agreed upon nowadays by architects and archaeologists is not to rebuild but to clean and repair14.
Puig i Cadafalch echoes Ruskin’s ideas: a monument, same as the dead, cannot be resurrected, and with restoration a new work is created. But at the same time, he advanced removing the cathedral’s Baroque coverings, moving the choir to the altar end of the nave, and reopening the galleries. This seeming contradiction by Puig i Cadafalch, who advocates the smallest possible intervention in cleaning and repair but, on the other hand, advances restoration actions, stems from our current understanding of the term “repair.” In the context of early 19th century Spain, those who opposed restoration defended repair. Leopoldo Torres Balbás, a Spanish architect restorer, explained what makes restoration different from repair: Restoring an ancient monument is recovering whatever part was destroyed or is in bad shape according to the form it had or must have had at first, as construed from other similar parts in the same building or in other buildings, or from archaeological research. Repairing, on the other hand, is preserving it as it is nowadays and just replacing, whenever necessary for its stability or better aspect, the missing parts with others which do not mean to imitate or be mistaken with the original ones15.
J. Puig I Cadaflach, Santa Maria de la Seu d’Urgell: estudi monogràfic, Barcelona, Taller d’arts gràfiques Henrich i Cª 1918, p.105. 15 L. Torres Balbás, La reparación de los monumentos antiguos en España, «Arquitectura», XV, 1933, pp. 269-281. 16 Ibidem. 14
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Torres Balbás pointed out in his reasoning that those same concepts of preservation and restoration were accepted by the SPAB in London16. He merged John Ruskin’s legacy, as transmitted via William Morris and the SPAB, with his rejection of restoration in style. Ruskin’s ideas contributed to develop an opposition to recreating monuments. This new perspective merged with the ideas of Camilo Boito and Gustavo Giovannoni. The replacement of items in a language or material that could be identified as produced by restoration was accepted. This principle was the foundation upon which a new theory of restoration, as ratified in the 1931 Athens Charter and later reflected in the Spanish legislation in 1933, was based. John Ruskin’s legacy in two Spanish restoration works The new methodology for restoration defended by Benigno de la Vega Inclán was applied to the Patio del Yeso courtyard in the Reales Alcázares in Seville, a space where
Fig. 4 Patio del Yeso, Reales Alcázares of Seville (IPCE).
prominent remains of the Almohad period had been preserved. In 1918-20, the plasterworks were consolidated and the vanished areas were filled up with brick. This decor could have been easily reproduced, but the decision was not to do it. In 1915, Vega Inclán published a review on his intervention together with a series of photographs17. The state of the Almohad arches embedded in the blocks that had blinded them (fig. 1) is apparent. Those blocks were pulled down in order to free the arches, while the plasterworks were filled up with brick (fig. 2). The various textures, which stress the Romantic and quaint nature added by antiquity to architecture, were kept. The fondness of patina, as defended by 18th century antiquarians John Ruskin y Alois Rïelg, is captured. The footprints of the passing of time, as well as the various stratifications, were respected. The collapses and distortions (fig. 3) endured by the arches were kept, and the final result resembles Stern y Valadier’s interventions in the Roman Coliseum. Vega Inclán understood the Patio del Yeso courtyard as a ruin, not as an architectonic structure. But in doing so, he was also transforming its look with his cult to ruins. The marquis blended in various European experiences, but based them all on Ruinist aesthetics. Vicente Lampérez, Spanish architect who followed Viollet-leDuc’s thesis, attacked the intervention on the Patio del Yeso courtyard and condemned its orthopaedic18 nature. This term reminds us of the theses held by John Ruskin, who defended the need to use elements in order to keep the ruins in place provided that they were apparent and served a purpose as crutches. Even though the intervention on the Patio del Yeso courtyard has been deemed conservative, its intention to recreate cannot be denied. Ivy was planted to cover and disguise the newly discovered wall facings, as well as to stress the ruin-ish kind of look (fig. 4). The spell cast by the image of decadence is here affirmed. The recreation of a ruin, not a conservationist intervention, was carried out here19.
17 B. De La Vega Inclán, La Comisaría Regia de Turismo en la Alhambra, Madrid, Comisaría Regia del Turismo y Cultura Artística 1915. 18 J. Rivera Blanco, El Marqués de la Vega Inclán… cit., pp. 59-61. 19 M. P. García Cuetos, El Lenguaje… cit., p.160.
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Fig. 5 J. María Florez y González, san Julián de los Prados. Fig. 6 F. de Selgas Albuerne, san Julián de los Prados before the restoration.
20 M. P. García Cuetos, El Prerrománico Asturiano de arquitectura emblemática a Patrimonio Mundial. Recepción y restauración de un patrimonio singular, in Imaginarios en conflicto: lo español en los Siglos XIX y XX, Madrid, CSIC 2017, pp. 325-344. 21 Ibidem.
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Around that time, Fortunato de Selgas intervened in the Pre-Romanesque church of San Julián de los Prados (Santuyano, Uviéu/Oviedo), built in the 9th century. John Ruskin’s influence entered Asturias via Adolfo Álvarez Buylla, Adolfo Posada, and Leopoldo Alas “Clarín”. Buylla and Posada belonged to the Grupo de Oviedo, an association of Asturian university professors devoted to the educational, cultural and social renovation. In this Grupo de Oviedo was Fermín Canella Secades, University of Oviedo chancellor and member of Academia de la Quintana, an institution that promoted the recovery of the Asturian language and culture. Selgas joined the Academia de la Quintana20. Selgas studied law and was a self-taught scholar. The influences that guided his ideas on restoration are apparent in his library. He was aware of Viollet-le-Duc and Vicente Lampérez’s theses. He exchanged letters with the French archaeologist Auguste Brutails, opposed to Viollet. He also kept books by Auguste Choisy, José Amador de los Ríos, and Hippolyte Taine, a writer who drew Unamuno to the work of John Ruskin. He travelled several times to Italy where he saw the early implementations of the archaeological restoration and got in contact with the ideas of Camilo Boito. He was connected to the Asturianism, a movement with the restoration of Asturian Pre-Romanesque buildings as its main priority21. One of those buildings was the San Julián de los Prados church, a basilica-like church with three naves, three apses, a transept floor with two side rooms and a portico. It was reformed in the 18th century. Some vaults, a vestry built on top of one of the old side rooms and an ante-portico (fig. 5) were added. Selgas intervened in Santuyano in 1912-15. He did away with everything added after the early Middle Ages. He felt they lacked quality and obscured what was really essential in that church. When de-liming the walls, he uncovered the Pre-Romanesque frescoes that had been damaged when the 18th century vaults were put in place. He enforced some principles of the methodology defended by Camillo Boito: historical research, cleaning wall surfaces, digging, hypothesis on the original state of the monument, recovering mediaeval elements, documenting everything with photographs and publishing a monograph explaining the actions taken. But a clear influence of the Ruinist aesthetics, a final result highlighting the impact of the passing of time and the appeal of decadence can also be observed. After taking the vaults down and de-lim-
ing the walls, Selgas kept the impact both of time – with the gaps, tear and wear – and of taking the vaults down. After reading the inner parts of the church, it was evident from the now visible scars left by the pulled down coverings that one of the historic strata had been eliminated. The Ruinist aesthetics and the archaeological sincerity prevailed. This result is visible in some unpublished photographs from the 1930’s (figg. 6-8) which are previous to the last restorations in the church, where some elements in the Selgas effort were eliminated.
Fig. 7 San Julián de los Prados, Oviedo, Asturias after the restoration (Bildarchiv Foto Marburg). Fig. 8 Church of san Julián de los Prados (Bildarchiv Foto Marburg).
Conclusions John Ruskin’s work was translated into Spanish and Catalan starting in 1900. His theses had a great impact on progressivist thinkers, the development of Modernism, the onset of the archaeological sincerity aesthetics movement, and the dissemination of the Ruinist aesthetics, a cult to ruins. In the restoration of monuments, his ideas contributed to providing the arguments against restorations in style which were meant to recreate, and the development of the conservative school. They also materialized in restorations where the experiences and ideas of the Italian restoration are merged with the Ruinist aesthetics and the archaeological sincerity.
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Carmen Genovese
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L’influenza delle teorie ruskiniane nel dibattito sul restauro dei monumenti a Palermo del primo Novecento Carmen Genovese | mariacarmen.genovese@beniculturali.it Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MIBAC)
1 Sul viaggio di Ruskin in Sicilia cfr. S. Casiello, R. Picone, John Ruskin e il Mezzogiorno d’Italia. Gli esiti sulla conservazione dei beni architettonici nel Novecento, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini editore 2007, pp. 65-82 e G. Bologna, Il viaggio di John Ruskin in Sicilia, «Kalòs», n. II, 2010, pp. 12-15. 2 Nel 1874 a Palermo Giuseppe Patricolo restaurava la chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, di cui solo l’anno seguente Ernest Renan, viaggiatore francese, avrebbe difeso le stratificazioni barocche; inoltre si svolgevano dibattiti sui restauri da farsi – come quello del Palazzo Chiaramonte e della chiesa di San Cataldo – e sull’origine dell’architettura normanna, mentre erano attivi personaggi come Michele Amari, Saverio Cavallari e i più giovani Antonino Salinas e Giuseppe Patricolo; cfr. F. Tomaselli, Il ritorno dei Normanni, Roma, Officina Edizioni 1994. 3 U. Fleres, John Ruskin, «Nuova Antologia», LXXXV, s. IV, fasc. 675, 1 febbraio 1900, p. 504. 4 Pane elogia «questo scrittore che, malgrado l’attuale impopolarità, sarà ricordato fino a quando la bellezza del patrimonio
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Abstract The essay investigates the Ruskin influence in the restoration culture of the early twentieth century in Palermo. In fact he was not linked to Sicily, except for his only trip to the island in 1874. The “religion for the stones” of Ruskin, in contrast to the ideology of Viollet-le-Duc, becomes on one hand a reference for the defenders of the preservation of monuments against the restorations that were perpetuated in Palermo; on the other hand, however, it was instrumentalized in favor of a moralism that in the Fascist era was also associated with restoration. Ruskin is often mentioned in the debates between Francesco Valenti, Sicilian Superintendent from 1924 to 1935, and the local history lover Nino Basile, author in 1932, of the work “Palermo Felicissima”. The debates were about the restoration of the main Norman monuments of the city, such as the Scibene, Palazzo Termini, the Chapel of the Incoronata. Parole chiave Palermo, Ruskin, restauro, consolidamento
Resta ancora da indagare l’influenza di Ruskin in Sicilia, che fu assente nella sua opera critica e letteraria. Il suo unico viaggio nell’isola del 1874 – solo recentemente riscoperto1 – può dirsi l’unico vero momento di contatto con questa terra (fig. 1) e per quanto l’idea del Medioevo di Ruskin fosse in accordo col culto normanno diffuso in Sicilia, nelle memorie del suo viaggio non accennò a restauri e dibattiti in corso in quegli anni2. In generale, se da una parte le critiche di Ruskin ai restauri veneziani lo avrebbero reso noto in Italia – unitamente alla traduzione, a partire dal 1900, delle principali opere – dall’altra egli, contrario ai restauri e anche per questo definito «il più strenuo campione dei reazionari»3, pagò una impopolarità diffusa e duratura, come rilevava nel 1969 Roberto Pane4. In generale, non sempre il recepimento delle idee di Ruskin fu chiaro ed univoco, specie nel primo Novecento; a Palermo i dibattiti intorno ad alcuni restauri ne sono una prova. In questo quadro sono stati individuati, in particolare, due ambiti tematici: il “moralismo” nel restauro ed al consolidamento dei monumenti col cemento armato.
Difesa dei monumenti e “moralismo” Nel primo Novecento Palermo fu teatro di una intensa campagna di restauri che privilegiarono l’immagine normanna di molti monumenti sulla spinta delle coeve istanze nazionaliste. Il mito normanno in Sicilia – che trova molte analogie con altri contesti regionali – non può definirsi solo culto architettonico, ma di un’idea totalizzante che include l’architettura come la realtà sociale e politica, rievocando la nota concezione di Ruskin del Medioevo. Si istituiva così una stretta relazione tra la storia di una Nazione ed i suoi monumenti, tanto che negae l’architettura nazionale diventava atto di “vanità”5 e segno di declino6. È già stata rilevata da Amedeo Bellini la contraddizione tra le istanze ruskiniane e certi esiti del nazionalismo, soprattutto negli anni del fascismo in cui si assiste alla “moralizzazione” di molti aspetti della vita pubblica7. Anche le idee ruskiniane vengono deformate in modo che l’esigenza di tutela e di valorizzazione del bene culturale, architettonico o archeologico, non sembra avere la dimensione universale che è una delle più forti posizioni di Ruskin, ma è invece al servizio della storia patria, del nazionalismo culturale, e di fatto della strumentalizzazione politica che di esso farà il regime8.
Assistiamo anche nella Palermo del primo Novecento agli «utilizzi fascisti di Ruskin»9 e quella sua «predicazione moralistica»10, rielaborata e per certi versi travisata, diventa retorica formale e politica. Tale atteggiamento caratterizza anche le istituzioni preposte alla tutela; Francesco Valenti, Soprintendente siciliano dal 1924 al 193511, più volte sottolineò la valenza morale dei suoi interventi, spesso attuati per mezzo del piccone […] fatale strumento di demolizione e di rovina in certe epoche nefaste per la civiltà, e bisturj sapiente e rivelatore in certe altre di resipiscente ammenda e di spirituale rinascita dei popoli […] contro la lotta eterna tra civiltà ed oscurantismo12.
Fig. 1 J. Ruskin, Acquerello raffigurante la tomba di Federico II nella Cattedrale di Palermo realizzato durante il l suo viaggio del 1874 (G. Bologna, Il viaggio di John Ruskin in Sicilia, «Kalòs», n. II, 2010, pp. 12). Fig. 2 Scibene, Palermo. Prospetto meridionale dopo l’intervento di Valenti (L. Anastasi, L’arte nel Parco Reale Normanno di Palermo, Palermo 1935, p.101, ripubblicato in Z. Barone, Lo Scibene di Palermo: un monumento da restaurare, Roma, Aracne Editrice 2018, p. 107).
d’arte e di natura del nostro paese continuerà ad avere un grande significato per il mondo civile», in R. Pane, Prefazione a R. Di Stefano, John Ruskin interprete dell’architettura e del restauro, Napoli, ESI 1969, p. 15. 5 «Throughout, we have endeavored to direct attention to the spirit, rather than to the letter, […] of be-
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ing satisfied with national and natural forms, and not endeavoring to introduce the imaginations, or imitate the customs, of foreign nations, or of former times. All imitation has its origin in vanity, and vanity is the bane of architecture», J. Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, Boston, Dana Estes & Company Publishers 1900, pp. 171-172. 6 «Looking back to the history of nations, we may date the beginning of their decline from the moment when they ceased to be reverent in heart, and accumulative in hand and brain», J. Ruskin, Modern painters, Vol. V, London, G. Hallen 1906, p. 84. 7 Bellini, nell’individuare «l’adesione al fascismo di Boni, chiara e ben connessa con alcune posizioni culturali che in buona parte hanno origine proprio in Ruskin e nel sociologismo di Morris», rileva «un inevitabile scarto tra impostazioni teoriche e risultanze pratiche quando ci si muova in un ambito ideologico», A. Bellini, Giacomo Boni tra John Ruskin e Luca Beltrami, in L’eredità di John Ruskin… cit., pp. 16, 19. 8 Ivi, p. 17. 9 J. Clegg, La presenza di Ruskin in Italia cento anni fa, in L’eredità di John Ruskin… cit., p. 101. 10 R. Pane, Prefazione… cit., p. 11. 11 Cfr. C. Genovese, Francesco Valenti. Restauro dei monumenti nella Sicilia del primo Novecento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 2010.
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Al contempo, seppur possa apparire contraddittorio rispetto a quanto prima sostenuto, Ruskin diventò – nella sua veste peraltro più usuale – un riferimento per gli oppositori al ripristino dei monumenti normanni, primo tra tutti il cultore di storia locale Nino Basile13. Egli fece propria la «religione, che Ruskin aveva per le pietre»14, opponendosi ai restauri di Valenti con articoli nei giornali locali e lettere agli organi ministeriali. A Ruskin, di cui Basile mostrò di conoscere gli scritti, lo accomunò infatti la difesa dei monumenti come imperativo morale, pur non avendo una specifica formazione architettonica15. Ciò non deve far pensare che Basile criticasse, insieme ai restauri della Soprintendenza, il regime; argomentando ad esempio gli errori commessi nel restauro dello Scibene16 (fig. 2) dal Soprintendente Valenti, egli ribadì: «S. E. Benito Mussolini detta una norma chiara e sicura: ogni rifacimento di monumenti augusti della antichità è una stolta profanazione»17. Basile si espresse in toni simili anche sulla facciata del Palazzo Arcivescovile di Palermo, intonacata nella metà dell’Ottocento, deplorando «il sistema ancora in uso di intonacare le antiche pietre degli antichi edificii, che offese la squisita sensibilità dell’esteta Ruskin, che l’ebbe a dispregio, come ignobile mensogna»18. In effetti Ruskin fu contro l’uso di rivestire i materiali da costruzione: «the true colors of architecture are those of natural stone, and I would fain see these taken advantage of to the full»19. Tale posizione ci introduce al successivo tema di riflessione. Sulla “sincerità” dei consolidamenti Sin dalla fine dell’Ottocento il cemento armato si diffuse fino a diventare il materiale più usato anche nel consolidamento; come è noto, nella Carta di Atene del 1931 se ne sarebbe ratificato l’uso in forma totalmente dissimulata, sotto intonaci o finte cortine murarie. Nel generale apprezzamento di questo moderno materiale si levò nel primo Novecento un dibattito sui rapporti tra struttura e aspetto e sulla liceità di sostituire la struttura portante di un’architettura storica dissimulando le aggiunte.
pagina a fronte Fig. 3 Loggia e Cappella dell’Incoronazione, Palermo, dopo il restauro di Valenti (G. Di Stefano, Monumenti della Sicilia normanna, Palermo, Società siciliana per la Storia Patria 1955, p. 93). Fig. 4 Palazzo Termini Pietratagliata, Palermo, durante i restauri, 1930 (C. Genovese, Francesco Valenti. Restauro dei monumenti nella Sicilia del primo Novecento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 2010, p. 179).
Fig. 5 Palazzo Termini Pietratagliata, Palermo. Particolare della finestra angolare e del paramento murario rivestito a finta pietra.
F. Valenti, S. Maria l’Incoronata. Note d’arte, 1922, Archivio Storico Comunale di Palermo, 5 Qq E 145 n. 17. 13 Nino Basile è autore dell’opera Palermo Felicissima, edita in tre volumi a partire dal 1929. 14 N. Basile, Lettera a S.E. il Ministro della P.I., 10 dicembre 1927, Archivio Centrale dello Stato, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, Div. II, 1925-1928, b.n. 126. 6. Palermo. Probabilmente «la religione per le pietre» è espressione che rievoca l’opera di R. de La Sizeranne, Ruskin et la religion de la beauté, Paris, Edition Hachette 1897, che Basile doveva conoscere. 12
Questi principi erano già stati affrontati sia da Viollet-le-Duc sia da Ruskin: se il primo distingueva tra struttura e decorazione dell’architettura20, come è noto Ruskin avrebbe assunto una diversa posizione, contraria agli «structural deceits»21, per cui: «apparirà giusto conservare, per quanto è possibile, anche in periodi di scienza più avanzata, i materiali e i principi delle epoche precedenti»22. Seppure Ruskin si riferisse alle opere in ferro del suo secolo, anticipò il dibattito novecentesco. A favore del cemento armato, Giovannoni avrebbe criticato le «esagerazioni teoriche» ed in particolare le «teorie ruskyniane unite in questo alle tendenze moderniste»23 che, propugnando l’uso delle “grucce” o “stampelle”24 andava «contro il concetto di integrità architettonica […] che si collega alla funzione viva del monumento non solo come elemento di studio, ma come opera d’arte, fatta non solamente per gli eruditi, ma anche per il popolo»25. Sul tema sono significativi i dibattiti sul consolidamento dei monumenti con cemento armato, molto praticato dal soprintendente Valenti sui principali monumenti normanni della città.
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Se, da una parte, il noto invito di Ruskin all’uso di “stampelle” venne associato dai sostenitori del cemento – per citare lo stesso Giovannoni che pure prese parte ai dibattiti siciliani – ad una «negativa tendenza archeologica»26, di contro gli oppositori trovarono in Ruskin un chiaro riferimento in nome di quella onestà costruttiva da lui più volte invocata. Ancora una volta fu Nino Basile a denunciare l’inserimento di una trave cementizia nella Loggia dell’Incoronata (fig. 3), liberata da Valenti nel 1920: il restauro non è una imitazione, non è un trucco. Non occorre la squisita sensibilità estetica, la religione, che Ruskin aveva per le pietre […]. Io penso che se il comm. Valenti avesse avuta siffatta coscienza avrebbe risparmiato alla mia città l’onta di offrire all’ammirazione dei forestieri un monumento del XI secolo costruito in cemento armato patinato e truccato27.
Il restauro del Palazzo Termini Pietratagliata degli anni Venti (figg. 4-5) sortì molte critiche per l’introduzione di una finestra angolare neogotica e, appunto, per l’uso del cemento armato: Se fosse stato in vita ed incaricato di restaurare quel fortilizio da lui costruito nel 1573 in via Bandiera, non avrebbe adoperato il cemento armato, né avrebbe coperto uno dei muri esterni di uno strato d’ignobile intonaco truccato a conci antichi, né avrebbe steso il colore sulle antiche e sulle nuove pietre per ridurle allo stesso comune denominatore, sopprimendo le testimonianze storiche del monumento28.
Ruskin in effetti deplorò l’uso delle pietre artificiali in architettura: «to cover brick with cement, and to divide this cement with joints that it may look like stone, is to tell a falsehood»29. Le riflessioni sin qui condotte rivelano uno sfaccettato recepimento delle idee ruskiniane nella Palermo del primo Novecento, dovute dalla parziale diffusione e dalla mancata sistematicità delle sue posizioni; tuttavia si ritrova anche qui, seppur con alterni esiti, quella «inseparabilità da lui predicata dell’esperienza morale da quella estetica»30 che costituisce forse il tratto principale della sua opera.
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Secondo una descrizione dai tratti quasi ruskiniani, Nino Basile, «diligentissimo e paziente ricercatore […], proteso l’animo al passato, scendeva in campo con una inesorabile forza combattiva che traeva vigore dalla formidabile preparazione storica, dall’ardore di difesa del patrimonio artistico», M. Accascina, Nino Basile e la sua opera, in N. Basile, Palermo Felicissima, Serie III, a cura di S. Cardella, Palermo, F. Sanzo & Co. 1929, p. XII. 16 Cfr. Z. Barone, Lo Scibene di Palermo: un monumento da restaurare, Roma, Aracne Editrice 2018. 17 N. Basile, Palermo Felicissima, Serie I, Palermo, F. Sanzo & Co. 1929, p. 124. 18 N. Basile, Palermo Felicissima, Serie III, a cura di S. Cardella, Palermo, F. Sanzo & Co. 1929, p. 43. La definizione di “esteta” ci rimanda all’Estetica di Ruskin, tradotta e pubblicata nel 1900 dal napoletano Scalinger e, presumibilmente, nota a Basile. Sulla diffusione nel sud Italia delle opere ruskiniane si veda S. Casiello, R. Picone, John Ruskin… cit. 19 J. Ruskin, The Seven Lamps… cit., p. 55; «to cover brick with cement, and to divide this cement with joints that it may look like stone, is to tell a falsehood J. Ruskin, The Seven Lamps… cit., p. 49. 20 «Habituellement, dans nos édifices, toute forme apparente est inutile et ne sert que d’ornement, tout moyen nécessaire est soigneusement dissimulé sous une apparence souvent contraire à ce moyen. […] de chacun de nos édifices extraire deux œuvres, l’une vraie, la structure; l’autre, qui se manifeste aux regards, l’apparence», E. E. Viollet-le-Duc, Entretiens sur l’architecture, Vol. 2, Paris, A. Morel 1872, p. 120. 21 «The architect is not bound to exhibit structure; nor are we to complain of him for concealing it […]; nevertheless, that building will generally be the noblest, which to an intelligent eye discovers the great secrets of its structure […]. In the vaulting of a Gothic roof it is no deceit to throw the strength into the ribs of it, and make the intermediate vault a mere shell. […] If, however, the intermediate shell were made of wood instead of stone, and whitewashed to look like the rest, – this would, of course, be direct deceit, and altogether unpardonable», J. Ruskin, The Seven Lamps… cit., p. 40. 22 Secondo Ruskin costituivano falsità «l’apparenza di un tipo di struttura o di sostegno diverso da quello vero; […] la pittura di superfici allo scopo di rappresentare materiali diversi da quelli realmente impiegati (come la marmorizzazione del legno)», J. Ruskin, The Seven Lamps… cit., traduzione in R. Di Stefano, John Ruskin interprete… cit., pp. 114-115. 23 G. Giovannoni, La conferenza internazionale di Atene pel restauro dei monumenti, «Bollettino d’Arte del Ministero dell’Educazione Nazionale», IX, marzo, anno XXV, 1932, p. 414. 24 Secondo un’espressione che doveva essere molto nota anche nel primo Novecento, «better a crutch than a lost limb», J. Ruskin, The Seven Lamps… cit., p. 186. 25 G. Giovannoni, Sull’applicazione dei mezzi costruttivi moderni ed in particolare del cemento armato, nel restauro dei monumenti, «L’industria italiana del cemento», XII, dicembre 1931, p. 363. 26 G. Giovannoni, Questioni di architettura nella storia e nella vita, Roma, Soc. ed. d’arte illustrata 1925, p. 121. 27 N. Basile, Lettera… cit. Probabilmente «la religione per le pietre» è espressione che rievoca l’opera di R. de La Sizeranne, Ruskin et la religion de la beauté, Paris, Edition Hachette 1897, che Basile doveva conoscere. 28 N. Basile, Palermo Felicissima… cit., Serie I, p. 249. 29 J. Ruskin, The Seven Lamps… cit., p. 49. 30 R. Pane, Prefazione… cit., p. 11. 15
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Le radici filosofiche del pensiero di John Ruskin sulla conservazione dell’architettura Laura Gioeni | laura.gioeni@libero.it Ricercatore indipendente
Abstract Ruskin’s crusade against restoration represents the tip of the iceberg of a real philosophy of architecture which, rooted in movements and themes of the medieval philosophy, incorporates elements of the aesthetic discussion of his age. These elements constitute the ethical foundation of a coherent philosophy of art and the main motivation of Ruskin’s engagement in architectural conservation. Parole chiave Filosofia dell’architettura, Seven Lamps, fondamenti di conservazione dell’architettura, teoria del restauro
Durante la stesura della mia tesi di laurea in filosofia, dedicata ad un lavoro di scandaglio genealogico e archeologico sulla questione del restauro1, mi ero interessata alla figura e agli scritti di John Ruskin. Trascurando l’indisponente tono da catechesi delle sue Seven Lamps e andando oltre la facile vulgata degli slogan dell’antirestauro, nella sua battaglia contro i restauri avevo intravvisto solo la punta dell’iceberg di una vera e propria filosofia dell’architettura che, radicata nei movimenti e temi della filosofia medioevale, si apre ad accogliere le tematiche della riflessione estetica del suo tempo: dottrine neoplatoniche ed elementi di francescanesimo, caratteristici della scuola oxoniense medievale, e le più aggiornate riflessioni sulla categoria estetica del sublime, vengono a fondersi in modo originale nel pensiero Ruskin, a costituire, nel loro complesso, il fondamento etico di una coerente filosofia dell’arte e la motivazione prima della sua professione conservativa. Tre sono i temi principali che avevo individuato e che vorrei qui riprendere: il primo tema è costituito dai riferimenti al neoplatonismo e alle dottrine dell’illuminazione, con la conseguente identificazione del vero con il bello e il bene, e della verità con la luce; il secondo tema è la definizione di pittoresco come «parasistical sublimity» (sublime parassitario) reinterpretato alla luce delle dispute medioevali tra domenicani e francescani sul rapporto tra sostanza e accidente; infine, il terzo tema è rappresentato dalla distinzione tra possesso e uso, cardine dell’Apologia Pauperum di Bonaventura da Bagnoregio, che risulta implicita nella definizione ruskiniana della Terra come entail contenuta nell’Aforisma 29.
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Lo scopo dichiarato del volume delle Seven Lamps è di definire per «quell’arte eminentemente politica che è l’architettura», alcune leggi di diritto, generali e irrefragabili, fondate sull’immutabile natura dell’uomo piuttosto che sul suo mutevole sapere, in grado di servire come «presidio contro ogni forma di errore» e «fonte di ogni misura di successo»2. Tali costanti di ordine morale sono identificati nella luce delle sette lanterne che traggono la loro fiamma – così scrive Ruskin nelle pagine nell’introduzione – dal «riconoscimento dei principi della fede, della verità e dell’obbedienza». Questa analogia, sigillata dal richiamo in nota, ai versi dei Proverbi e dei Salmi, – «La Legge è luce» (Proverbi 6.23) e «La tua parola è una lampada ai miei piedi» (Salmi 119.105) – rivela il riferimento ad una certa mistica della luce di ascendenza agostiniana e ricorda molto da vicino gli argomenti dibattuti nelle scuole di pensiero del medioevo. Attorno al tema della luce, infatti, gravitavano le teorie medievali nei campi della fisica, della psicologia, della gnoseologia e della teologia, tanto che nel 1916 lo studioso tedesco Clemens Baeumker aveva coniato la definizione di «metafisica della luce» proprio per render conto dell’importanza del suo ruolo nella speculazione dei filosofi dell’età media. Dalla dottrina agostiniana dell’illuminazione divina dell’intelletto come fonte di verità e conoscenza, alla dottrina dell’ilemorfismo universale sviluppata dall’arabo andaluso Avicebron (1021-1054), poi ripresa, nell’ambito della cosiddetta scuola di Oxford, da Roberto Grossatesta (1175-1253) e dalla tradizione dell’agostinismo francescano con Bonaventura di Bagnoregio (1217-1274), la luce è considerata come prima forma di ogni realtà, come forma comune motrice, regolatrice e conservatrice dei corpi, come origine e fonte della conoscenza. Così Agostino, nel capitolo X del libro VII delle Confessioni, descrive la sua esperienza mistica: vidi sopra il medesimo occhio dell’anima mia, sopra la mia intelligenza, la luce immutabile […] una luce di gran lunga più intensa e luminosa […] perché sono stato creato da essa. Chi conosce la verità conosce quella luce e chi conosce quella luce conosce l’eternità.
Il tema dell’illuminazione svolge poi un ruolo cardine sia nella metafisica che nella gnoseologia di Bonaventura da Bagnoregio che utilizza la luce come costante riferimento del suo argomentare analogico. Bonaventura afferma infatti che la materia, all’atto della creazione, è unita alla luce, la quale, posta in una posizione intermedia tra forme corporee e spirituali, rappresenta la prima forma che attualizza i corpi; corpi che, a loro volta, posseggono l’essere in modo più vero e più degno in funzione della loro maggiore o minore partecipazione alla luce. Così pure, Bonaventura, innestando la sua riflessione su quella di Agostino, sentenzia che la verità è la luce dell’anima che emette tre raggi, i quali illuminano i tre ambiti della verità delle cose, quello della verità del linguaggio ed infine, quello della verità dei costumi, vale a dire dell’etica. Ancora in analogia con la luce, Bonaventura descrive il percorso di ascensione a Dio come processo che dalla conoscenza perviene alla pura contemplazione. Ruskin sembra dunque riallacciarsi a questa tradizione di pensiero che certo doveva aleggiare nell’ambiente oxoniense dove egli si forma e insegnerà come Slade Professor of Fine Arts. Calandoci in questo contesto speculativo, possiamo meglio comprendere, ad esempio, l’analogia che Ruskin stabilisce tra le virtù dell’uomo e l’illuminazione del globo terrestre all’inizio del capitolo intitolato alla Lampada della verità, quando scrive che
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vi è una marcata somiglianza tra la virtù dell’uomo e l’illuminazione del globo che egli abita: la stessa graduale diminuzione di vigore man mano che ci si avvicina ai limiti dei loro ambiti, la stessa netta separazione dai loro contrari; e la stessa zona d’ombra all’incontro dei due […] quella strana zona d’ombra della virtù […]; eccetto che per una sola, la linea dell’orizzonte è irregolare e indefinita, ed è proprio questa la linea equatoriale e il vero spartiacque di tutte le altre: la Verità; quell’unica virtù di cui non sono ammesse gradazioni […]; la Verità non perdona nessun oltraggio, non tollera nessuno sfregio3.
Dunque, se per un verso, attraverso la metafora della luce, Ruskin introduce la verità come suprema virtù e principio sommo dell’etica, d’altra parte da essa fa discendere anche il valore regolatore dell’estetica: la verità è infatti per Ruskin un universale principio guida di tutte le azioni pratiche, ivi comprese le produzioni artistiche. Cosicché, esprimendo il desiderio di far risplendere la luce della verità nel cuore degli artisti e artigiani, egli scrive: è davvero meraviglioso vedere quale forza e quale universalità vi sia in questo singolo principio, e come nel tenerne conto o nel dimenticarsene risieda per metà lo splendore o il declino di ogni arte e di ogni atto dell’uomo4.
Accanto alle «violazioni della verità che disonorano la poesia e la pittura», Ruskin ne enumera tre che pertengono all’architettura: le falsificazioni strutturali, che «mirano a suggerire l’effetto di un sistema di sostegno diverso da quello reale»; la pittura delle superfici volta a ingannare sulla natura del materiale realmente impiegato; l’esecuzione a stampo e a macchina degli elementi decorativi, con la sostituzione del lavoro manuale con quello meccanico5. A questo elenco di falsificazioni dobbiamo tuttavia aggiungerne una ulteriore, quella forse ai nostri occhi più rilevante: la menzogna prodotta dai restauri. Come è noto, il capitolo della Lampada della memoria si chiude con la discussione dell’aforisma 31 – «il cosiddetto restauro è la peggiore delle distruzioni» – in cui Ruskin argomenta l’impossibilità del restauro che rappresenta «una distruzione accompagnata dalla falsa descrizione della cosa che abbiamo distrutto»6. Il restauro, mettendo in opera «la più economica e meschina imitazione che possa sfuggire al riconoscimento», è solo parodia e falsità e può essere annoverato quindi tra quelle azioni pratiche contrarie al principio della verità e considerato, in sostanza, una violazione di ordine etico. Contro l’autoinganno del restauratore, Ruskin reclama l’onestà morale della conservazione; contro l’assioma «dei tempi moderni», per cui prima si trascurano gli edifici e poi si restaurano, Ruskin invoca il principio del prendersi cura dei monumenti, finché sia possibile, finché non giunga, anche per l’edificio, l’ineludibile momento della fine: a quel punto, anch’esso dovrà vivere il suo giorno estremo; ma lasciamo che quel giorno venga apertamente e senza inganni, e non consentiamo che alcun sostituto falso e disonorevole lo privi degli uffici funebri della memoria7.
Su considerazioni di ordine etico-morale si fonda anche l’ideale estetico di Ruskin, che può essere sintetizzato nella definizione di «pittoresco» come «sublime parassitario» (Parasistical Sublimity). Il pittoresco ruskiniano è un tipo di bellezza che, contrapponendosi all’ideale classico di bello, fondato sulla linea di contorno delle figure e «sulla forma essenziale delle cose», è caratterizzato come una «bellezza aggiun-
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tiva e accidentale», prodotta dagli effetti del trascorrere del tempo e che risiede nella patina dorata del tempo, nei segni del degrado, testimoni dell’età e della gloria di un edificio. Il primo dei due termini coinvolti nella definizione di Ruskin – il sublime – è uno dei cardini della filosofia estetica del Romanticismo ed ha la sua origine nel trattato sull’arte retorica attribuito a Dionigi Longino, retore del I secolo, che era stato tradotto in francese da Nicolas Boileau nel 1674 e poi ripreso in ambito anglosassone da Joseph Addison all’inizio del XVIII secolo. Fu successivamente Edmund Burke, nell’Indagine filosofica sull’origine delle idee di bello e di sublime del 1756, a teorizzare il sublime come ciò che suscita un «dilettoso orrore» cioè un apprezzamento estetico legato alla percezione di una situazione di pericolo e di terrore, che, coinvolgendo la dimensione del dolore, della lacerazione e del conflitto, produce una emozione più forte dello stesso piacere. Per Ruskin il pittoresco è prodotto dalle linee spigolose e spezzate, dalle contrapposizioni di luci ed ombre, dai colori cupi, intensi e in contrasto, che possono essere rinvenuti negli edifici in rovina: esso consiste semplicemente nella sublimità delle crepe, o delle fratture, o nelle macchie, o nella vegetazione che assimilano l’architettura all’opera della natura e conferisce ad essa quelle circostanze di colore e forma che sono universalmente dilette all’occhio dell’uomo8.
Il pittoresco è quindi quella peculiare forma di bellezza che il trascorrere del tempo imprime sull’edificio ed è identificabile con tutti quei caratteri che rendono testimonianza dell’età di un edificio e che ne costituiscono la più grande ricchezza e preziosità poiché lo dotano di linguaggio e di vita. Nel definire poi il carattere parassitario del pittoresco, Ruskin chiarisce che si tratta di un sublime «parassitario», che dipende cioè da fattori accidentali, presenti, non nella forma sostanziale della cosa, ma in qualità accidentali ed esteriori che, tuttavia, possono essere considerati aventi «grado fra i suoi caratteri perfetti ed essenziali». Nella terminologia utilizzata e nell’opposizione stabilita tra forme sostanziali e qualità accidentali ci sembra di poter rinvenire il riverbero delle subtilitates anglicanae che avevano caratterizzato le dispute filosofiche tra domenicani e francescani sull’interpretazione del rapporto tra forma ed essere. Se i primi, con Tommaso d’Aquino, asseriscono l’assoluta unicità della forma sostanziale in ogni composto materiale (forma dat esse), i secondi, con Bonaventura, sostengono che non vi è una unica forma sostanziale che determini la perfezione e completezza di una sostanza, ma, piuttosto, un processo di sviluppo di una pluralità di forme, attivato da cause naturali che portano le forme, presenti in potenza nella materia, ad attualizzarsi in una successione di composti tendenti ad una sempre maggiore perfezione. Ne discende che il pittoresco ruskiniano, in quanto sublime parassitario, è si una qualità sovrindotta e accidentale, ma non priva il monumento della sua forma sostanziale: al contrario, conduce la prima forma ad una perfezione maggiore. Cosicché Ruskin può affermare che «un edificio non può esser considerato nella sua più alta perfezione prima che quattro o cinque secoli non gli siano passati sopra»9. Il restauro, mirando all’eliminazione dei segni del tempo, conduce in fin dei conti alla cancellazione della forma più perfetta del monumento e alla sua sostituzione con una falsa copia: il restauro quindi rappresenta un errore sia di ordine estetico, poiché priva l’edificio del carattere sublime del pittoresco, sia di ordine etico, poiché contravviene al supremo principio morale della verità.
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Ruskin adduce una ulteriore motivazione alla sua posizione contro i restauri e a favore della conservazione e della cura, cioè il fatto che noi non abbiamo alcun tipo di diritto sui nostri monumenti, che appartengono a noi non più di quanto non siano appartenuti alle generazioni che ci hanno preceduto e non più di quanto apparterranno alle generazioni che verranno dopo di noi, alle quali abbiamo il dovere di trasmetterli nelle condizioni in cui noi, a nostra volta, li abbiamo ereditati: «We have no right to touch them», sottolinea Ruskin anche con il corsivo tipografico: non è questione di opportunità o di sensibilità se noi conserviamo o no gli edifici delle epoche passate. Noi non abbiamo alcun diritto di toccarli. Non sono nostri. Essi appartengono in parte a chi li ha costruiti e in parte a tutte le generazioni di umanità che devono venire dopo di noi10.
Una delle ragioni remote della conservazione risiede dunque nel fatto che la terra non è un nostro possesso ma un entail, un lascito vincolato alle generazioni future. La Terra, chiarisce Ruskin, non è che un prestito: Dio ci ha prestato la Terra per la nostra vita; ce l’ha data in consegna ma essa non ci appartiene. Essa appartiene allo stesso modo a quelli che devono venire dopo di noi e i cui nomi sono già scritti nel libro della creazione11.
Ancora una volta, in questi passi Ruskin sembra fare esplicito riferimento ai principi della dottrina francescana: la rinuncia al possesso dei beni costituisce infatti il cardine della Regola stabilita da Francesco d’Assisi. Tuttavia questo ideale della povertà assoluta fu accolto tra polemiche e contrasti nel periodo tra Duecento e Trecento perché poneva la questione della gestione dei beni ecclesiastici, oltre che rappresentare una diretta denuncia della corruzione e delle ricchezze accumulate dalla chiesa. Nel cercare di risolvere de jure la disputa sul modo di intendere la povertà, Bonaventura da Bagnoregio, nell’Apologia pauperum, stabilisce una distinzione tra i concetti di uso, proprietà, possesso e usufrutto. Esercitare la povertà come virtù etica significa rinunciare alla proprietà e al possesso dei beni, restando ammessa però la possibilità di un loro «uso di fatto», necessario al sostentamento e alla vita. In questo dibattito si inserisce anche il domenicano Giovanni di Parigi, il quale sostiene che i beni donati alla chiesa non trasmettono possesso poiché tali beni appartengono a Dio in quanto creatore di ogni cosa. Questi temi vengono ripresi negli anni trenta del Trecento anche da Guglielmo da Ockham, che distingue tra l’ambito del diritto naturale, nel quale è definito un diritto non esclusivo e comunitario ai beni, che non esclude cioè il diritto degli altri soggetti, e l’ambito del diritto civile, nel quale ricade la definizione della proprietà privata, come possesso esclusivo di un bene che non può appartenere ad altri. In base a ciò Ockham conclude che i francescani non possiedono nulla, ma si limitano ad usare ciò che gli viene donato, esercitando un uso di fatto che non determina diritti legali di proprietà sul bene impiegato12. Credo che questo dibattito medievale su povertà e proprietà abbia influito sull’elaborazione teorica di Ruskin in campo economico e politico, come pure sulla sua presa di posizione contro il restauro. Per Ruskin infatti noi non abbiamo il diritto di privare, attraverso restauri falsificanti, le generazioni future del patrimonio monumentale che abbiamo ereditato semplicemente perché esso non costituisce una proprietà sulla quale possiamo vantare diritti. È nuovamente un imperativo morale, dunque, e non questione di gusto o op-
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portunità, a motivare la decisione della conservazione: gli edifici delle epoche passate non sono nostri, ma sono, come la Terra, un prestito da parte di Dio e un lascito di coloro che li hanno costruiti, venendo a costituire un patrimonio che, per diritto naturale e divino, appartiene e spetta anche a coloro che verranno dopo di noi. Ritengo che, riletti alla luce della prospettiva filosofica che ho suggerito, alcuni degli aforismi della Lampada della memoria, tutta animata dalla polemica contro i restauri, acquisiscano così un’inedita rilevanza e un più profondo significato etico.
1 Si veda L. Gioeni, Genealogia e progetto. Per una riflessione filosofica sul problema del restauro, Milano, Franco Angeli 2006. 2 J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, Milano, Jaka Book 1982, pp.40-41. Dove il testo si discosta dall’edizione citata è stato condotto direttamente sull’edizione originale. 3 Ivi, pp.65-66. 4 Ivi, p.68. 5 Ivi, p.69. 6 Ivi, p.226. 7 Ivi, p.228. 8 Ivi, p.225. 9 Ivi pp.225-226. 10 Ivi, p.229. 11 Ivi, p.218. 12 Si veda su questo tema R. Limonta, Il dibattito sulla povertà tra Duecento e Trecento, in La filosofia e le sue storie. L’antichità e il medioevo, a cura di U. Eco e R. Fedriga, Bari, Laterza 2017.
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Laura Gioeni
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Marco Dezzi Bardeschi, ruskiniano eretico Laura Gioeni | laura.gioeni@libero.it Ricercatore indipendente
Abstract Approaching the year of the bicentenary of the birth of John Ruskin, Marco Dezzi Bardeschi expressed and confirmed his commitment in keeping the flame of Ruskin’s lamps alive. Dezzi Bardeschi shares with John Ruskin an engagement against the restoration of architecture, which both consider the worst and «the most total destruction which a building can suffer, accompanied with the false description of the thing destroyed». Dezzi Bardeschi interprets Ruskin’s theoretical position as an invitation to learn to read in depth and come to terms with that stratified material culture that history delivered to us. Far from considering conservation as a fatalistic surrender to the triumph of the decay, Dezzi Bardeschi maintains a hermeneutical perspective towards the history and a genealogical aptitude towards the past, able to transform the restoration practice into a genealogical practice of preservation and an ethic of project. Parole chiave Marco Dezzi Bardeschi, The Seven Lamps of Architecture, fondamenti di conservazione dell’architettura, teoria del restauro
«Vogliamo ravvivare queste tremule, smarrite Seven Lamps?»: approssimandosi l’anno delle celebrazioni ruskiniane, Dezzi Bardeschi aveva così espresso l’intenzione di mobilitarsi nuovamente per promuovere la battaglia dell’antirestauro di John Ruskin, a cui da sempre aveva aderito, anche a costo di essere equivocato come un «integralista della conservazione». Certamente la pietra miliare del volume de The Seven Lamps of Architecture ha costituito una delle sue letture di riferimento: Dezzi Bardeschi condivide con Ruskin l’idea della non legittimità del restauro, che rimane un atto di menzognera falsificazione e – così a memoria citava dalla Lampada della memoria – quella «peggior forma di distruzione, accompagnata dalla falsa descrizione della cosa distrutta»; come pure condivide il convincimento che il valore dell’edificio, o meglio della fabbrica, risieda non tanto nel momento aurorale della sua origine, quanto piuttosto nel suo valore propriamente monumentale di memoria e testimonianza materiale, irriproducibile e autografa, della storia che vi è passata sopra, cosicché anche le stratificazioni e i segni del degrado, la dorata patina del tempo, rappresentano un irrinunciabile valore storico aggiunto.
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In apertura di un articolo apparso su Rinascita nel 1976, destinato a sferrare una critica alle disinvolte pratiche di ripristino che troppo spesso fanno seguito alle legittime istanze di tutela, Dezzi Bardeschi ricorda come il «drastico rappel» di Ruskin fosse stato accolto dagli intellettuali del suo tempo con una certa simpatia, accompagnata tuttavia da una malcelata ambiguità, quella «solidarietà a distanza» – scrive Dezzi Bardeschi, lasciando trasparire tra le righe un sentimento di identificazione autobiografica – «velata di un perfido sorriso, che si dà all’eccentrico il quale, muovendosi a schema libero al di fuori delle convenzioni correnti può dire, ma solo suggerendolo in un orecchio, una verità spiacevole»1. È per Dezzi Bardeschi l’occasione per chiarire che l’adesione alle tesi ruskiniane non rappresenta una via di comodo per eludere le questioni teoriche e pratiche poste in campo dal restauro e abbracciare, con gusto fatalista, la visione estetizzante del non intervento. Dezzi Bardeschi ci invita infatti a disfarci del fazioso giudizio che vede in Ruskin un «dandy sottilmente malinconico e decadente» in preda alla fascinazione della «bella rovina», profeta di un atteggiamento di «fatalistica attesa del decadimento e della ruderizzazione finale del monumento» e compiaciuto sostenitore di un estetismo raffinato e fine a se stesso. Dezzi Bardeschi ci avverte che critici e studiosi avvezzi a porre la loro attenzione «più sull’immagine estrinseca che sulla cultura materiale che tale immagine ha prodotto», hanno finito per alimentare un fraintendimento di fondo che riduce Ruskin alla caricatura di un sentimentale nostalgico. Il «rappel» ruskiniano è invece da intendere non sul piano di un frivolo decadentismo, ma come ineludibile richiamo alla cultura materiale, come via d’accesso alla considerazione dei «valori materici, struttivi, che costituiscono quell’unicum non riproducibile che è l’essenza stessa dell’opera architettonica»2. Il messaggio di rifiuto del restauro di rifazione, che si farà crociata con la fondazione della SPAB, presuppone l’attribuzione di un superiore valore alla materia segnata della fabbrica, in cui consiste il suo «principium individuationis, la sua storicizzata specificità». Insomma, Dezzi Bardeschi interpreta la posizione teorica di Ruskin come un invito a «imparare a leggere in profondità e fare i conti con quella cultura materiale stratificata che la storia ci ha conservato in uso» e, insieme, come la rivendicazione della «consapevolezza della singolarità, specificità e irriproducibilità di ogni segno del tempo e dell’uomo»3. La filosofia della conservazione che dobbiamo trarre dalla lezione ruskiniana è quindi assai distante dall’imbalsamante celebrazione del feticismo, ma, come chiarisce Dezzi Bardeschi, è fondata «sull’esigenza di garantire comunque la sopravvivenza dell’autenticità dei singoli elementi materici costituenti la fabbrica» e sulla considerazione della loro «naturale processualità materica»4. Introducendo un volume dedicato alla Venezia restaurata, Dezzi Bardeschi ricorda che Ruskin matura la presa di distanza dal restauro anche in conseguenza della penosa esperienza dei suoi ripetuti viaggi nell’adorata città lagunare, durante i quali non può far altro che constatare il progressivo ed irrefrenabile processo di manomissione dei suoi monumenti più rappresentativi. Nel settembre del 1845, da una irriconoscibile Venezia che all’approdo della ferrovia «pare Liverpool», Ruskin scrive al padre un dettagliato resoconto dei saccheggi compiuti in nome della «piaga delle invenzioni moderne» e del ripristino: la facciata di «prezioso marmo rosso» del Danieli rivestita di «uno stucco bianco, liscio e pulito, lucente come uno specchio (…) persino verni-
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ciato a strisce per imitare il marmo»; Palazzo Ducale imbiancato a calce e la facciata di San Marco raschiata e tirata a lucido con «scempio dei mosaici che la decorano», cosicché – così prosegue nella citazione del testo ruskiniano – scompaiono tutti gli antichi e gloriosi segni del tempo [...] nonché i ricchi colori che la natura, malgrado la sua potenza, ha impiegato dieci secoli a conferire al marmo; ormai il maestoso angolo che più dista dal mare, quello ove la sesta età dell’uomo era tinteggiata d’oro, ha assunto il colore della magnesia; gli antichi marmi sono stati rimossi e tirati giù […]: chissà che cosa metteranno al loro posto»5. La toccante testimonianza di Ruskin sull’agonia della città a cui dedicherà, come è noto, l’intero volume de The Stones of Venice, rappresenta per Dezzi Bardeschi, un’inderogabile imperativo alla conservazione del palinsesto materiale stratificato degli «apporti sedimentati di tante culture ed i fragili segni di tante generazioni che hanno costruito e vissuto la città e le sue stesse contraddizioni6.
Di fronte ai disinvolti interventi contemporanei sui monumenti veneziani che, distruggendo l’originale, ne fabbricano un simulacro, un corpo doppio da offrire alla devozione popolare, Dezzi Bardeschi partecipa dello struggente dramma di Ruskin, condividendo l’impegno morale e civile che anima la sua crociata per la conservazione: la tutela di Venezia rappresenta per entrambi il paradigma esemplare del dovere morale della conservazione e, insieme, del suo tradimento. «Forse è proprio lì» – scrive Dezzi Bardeschi facendo risuonare nelle proprie parole quelle dello scrittore inglese – «in quell’estenuante, esibita agonia senza fine, il segreto sfuggente di questa irripetibile città d’Arte di Monumenti che è Venezia, arabesco cifrato e come alla deriva dei tempi sul vibratile specchio d’acqua in cui si riflette»7. A mo’ di antidoto ai «fantasmi del ripristino», Dezzi Bardeschi tornava a leggere il trattatello di Alvise Zorzi contro i restauri a San Marco (1877) e, in esso, la lettera di Ruskin che ne costituiva il prologo. La citazione che Dezzi Bardeschi ne trae ci aiuta a comprendere la priorità che Ruskin attribuisce al corpo materiale delle pietre come irriproducibile testimonianza, insostituibile, originale ed autentico documento della memoria. Scrive Ruskin: non è possibile trovare in alcuna miniera conosciuta marmi uguali agli antichi; al punto che l’anno passato nelle mie conferenze sopra la Geologia dell’architettura alla scuola di Oxford, ho preso per i principali modelli gl’istessi marmi di san Marco; ed ebbi l’amara afflizione di tenere nelle mie mani e mostrare ai miei allievi dei pezzi di alabastro a vena porporina e bianca, più grandi di un piede quadrato, comprati qui a Venezia dalle macerie della ristaurazione8.
In questa rievocazione delle lezioni di geologia di Ruskin, Dezzi Bardeschi certamente riviveva il ricordo personale delle lezioni di litologia di Francesco Rodolico alla facoltà di architettura di Firenze: insegnamento che aveva condotto Dezzi Bardeschi a riconoscere nelle pietre quello stesso processo di trasformazione che, «da iniziale prodotto inanimato della “natura inconsolabile”» le nobilita, mutandole «in prodotto animato, parlante, della intensa vicenda febbrile dell’uomo, segno tangibile e non surrogabile» – continua Dezzi Bardeschi, citando le parole stesse di Rodolico – «della cosciente attività umana, specie nella duplice prospettiva storica e geografica»9. Ruskin e Rodolico convergono insomma nel pensiero di Dezzi Bardeschi a formare quell’intimo convincimento che «nella storia di una pietra è anche compresa quella stessa del degrado» e «delle sovrascritture più invisibili, singolari microstorie appena percepibili che contribuiscono a rendere unico e dunque irriproducibile e insostituibile quel prezioso palinsesto»10.
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Da ciò Dezzi Bardeschi mutua la necessità di una mappatura «ad unguem» dell’edificio, che supporti un intervento di conservazione rispettoso delle tracce del tempo; ma anche, e qui sta il risvolto e, in un certo senso, l’eresia rispetto a Ruskin, Dezzi Bardeschi non si rassegna all’impotente accettazione dell’arrivo del giorno funesto, la fine dell’edificio, ed è convinto che le tremule fiammelle della conservazione debbano essere ravvivate da un narrativo, sensibile e poetico progetto del nuovo, quale migliore dei possibili «uffici funebri della memoria». Del resto, l’approdo a questa visione non deve stupire e appare coerente alla luce dell’orizzonte di pensiero in cui avviene il fecondo incontro di Dezzi Bardeschi con le teorie ruskiniane. Già in un testo militante apparso su L’Architettura nel 197111, Dezzi Bardeschi prende di petto la condanna, da parte del tribunale del Movimento Moderno, delle ingerenze della Storia in campo progettuale: la Storia è giudicata alla stregua di una sovrastruttura che condiziona il libero processo progettuale, vincolandolo alle invarianti tipologiche e formali. Contro questa inappellabile sentenza, Dezzi Bardeschi rivendica il ruolo della Storia come efficace strumento di «rinsanguamento ideologico» di una prassi progettuale «ormai professionalmente infiacchita». D’altra parte, Dezzi Bardeschi si mostra critico anche nei confronti di quella visione della storia che – scrive – «pensa di inquadrare in modo univoco con una esatta formula risolutiva l’oggettività dei fatti», prendendo le distanze sia dalla concezione che assume il restauro come presunto braccio secolare della storia dell’arte, sia da quella visione strumentale che utilizza la storia, «ancilla docile della trasformazione», come copertura colta e alibi di comodo per indorare brutali interventi progettuali. «La storia fatta» – rileva con accenti ermeneutico-fenomenologici – «è sempre interpretazione, relazione di fatti accaduti a noi, e come tale è continuo progetto». In questa visione, la Storia non è dunque ripetizione, cristallizzazione e imbalsamazione del passato, ma si configura come continuo progetto in situazione. «Comprendere la storia per fare continuamente la storia»: questo è il compito che Dezzi Bardeschi attribuisce alla critica operativa e che vuole incarnare attraverso la sua prassi: «la storia appare dunque come lo strumento irrenunziabile per un corretto esercizio critico progettuale immerso nella realtà e, perciò stesso, la storia fatta resta sempre aperta al fare, all’intervento critico che quotidianamente la riprogetta e la realizza nel futuro che si fa presente». In questo modo di guardare alla storia possiamo riconoscere un habitus genealogico, nel senso che viene delineato dal pensiero filosofico di Nietzsche e Foucault: habitus genealogico che informa l’approccio di Dezzi Bardeschi al progetto d’architettura, ma anche, in modo simmetrico, la pratica del restauro, nella quale è messa in atto, in una formula risolutiva, una esperienza progettante della domanda in-cidente e pro-cedente sulla verità della storia. Alla fine, la prassi progettuale che struttura l’approccio di Dezzi Bardeschi alla conservazione, contempera e assolve appieno i due compiti che, così come espressi nell’aforisma 27 della Lampada della Memoria, a detta di Ruskin attendono il soggetto moderno: primo, «rendere storica l’architettura d’oggi»; secondo, «conservare l’architettura delle epoche passate come la più preziosa delle eredità»12. La battaglia per la conservazione, insomma, coincide con una battaglia per un progetto d’architettura come processo dialettico in atto tra permanenza della memoria ed emergenza di un futuro in divenire: «mi batto – dice Dezzi Bardeschi rispondendo alla domanda di un giovane intervistatore – per un’architettura che, sia pure per frammenti significativi, si intercali e dialoghi creativamente con l’incredibile ricchez-
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za dell’eredità materiale arrivata fino a noi e che abbiamo il compito di custodire, curare e proiettare (con noi stessi) nel futuro»13. Per Dezzi Bardeschi, dunque, il senso autentico del progetto è quello di una metamorfosi nella permanenza: progetto e conservazione si collocano sulla stessa soglia che, nello stesso tempo, separa ed unisce passato e futuro e costituiscono l’esercizio di una memoria che ha carattere dinamico e progettuale. In tal senso, l’Etica della conservazione di Ruskin rappresenta per Dezzi Bardeschi il fondamento costitutivo di una rinnovata Etica del progetto. Il ruolo dell’architetto sia dunque quello di raccogliere e proiettare nel futuro una voce che viene dal passato e fornire un suggerimento per un ulteriore sviluppo. Si tratta di un progetto narrativo e poetico, quello di Dezzi Bardeschi, che mira a suscitare, come affermava Giovanni Michelucci, quella partecipazione ed emozione che rappresentano lo scopo e la felicità dell’architetto. Come ci ammaestra Ruskin in un passo della Lampada della vita che Dezzi Bardeschi aveva sottolineato e chiosato su una copia del volume de Le sette lampade dell’architettura, «nessuna delle cose che siamo stati mandati a realizzare in questo mondo può essere fatta senza il cuore (…) e dal momento che la nostra vita, nel migliore dei casi non è che un’apparizione evanescente che dura per breve tempo e poi si dilegua, che almeno appaia come una nuvola nell’alto dei cieli»14. A quella nuvola va, riconoscente, il mio pensiero.
M. Dezzi Bardeschi, Restauro: punto e da capo, a cura di V. Locatelli, Milano, Franco Angeli 1991, p.40. Ivi, p. 43. 3 Ivi, pp. 205 e 207. 4 Ivi, p. 101. 5 J. Ruskin, Lettere al padre del settembre 1845, cit. in M. Dezzi Bardeschi, Restauro: punto e da capo… cit., pp. 140-141. 6 M. Dezzi Bardeschi, Restauro: punto e da capo… cit., p. 140. 7 Ivi, p. 138. 8 J. Ruskin, Lettera ad Alvise Zorzi sui restauri a Venezia, cit. in M. Dezzi Bardeschi, Restauro: due punti e da capo, a cura di L. Gioeni, Milano, FrancoAngeli 2004, p. 304. 9 M. Dezzi Bardeschi, Restauro: due punti e da capo… cit., p. 261. 10 Ivi, p. 264. 11 M. Dezzi Bardeschi, Storia come continuo progetto in situazione, «l’Architettura», 186, aprile 1971, ripubblicato in M. Dezzi Bardeschi, G. Battista Bassi, Il futuro della memoria, La Spezia, Tipografia Moderna 1972. 12 J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, Milano, Jaka Book 1982, p. 71. 13 M. Dezzi Bardeschi, Saper credere in architettura. Cinquanta domande a Marco Dezzi Bardeschi, a cura di A. Iacomoni, Napoli, CLEAN 2013, p. 45. 14 J. Ruskin, Le sette lampade… cit., pp. 206-207. 1
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Prossemica Architettonica. Riflessioni sulla socialità dell’Architettura Silvia La Placa | silvia.laplaca@stud.unifi.it Marco Ricciarini | marco.ricciarini@unifi.it Dipartimento di Architettura (DIDA) Università degli Studi di Firenze
Abstract The paper aims to tackle the thought of J. Ruskin on the issues of educational value and sociality related to architectural discipline. Particular interest is given to the concepts of architectural sincerity, authenticity and public domain of the work. Architecture, as a participant in the flow of time, is a tangible memory for man and therefore its protection appears to be fundamental, both from an educational-cultural point of view and a strictly social one. The path opened by Ruskin on heritage conservation thus becomes a debated and complex argument, characterized by scientific and technological implications and linked to the progress of research. It is necessary to investigate the developments connected with the restoration, analyzing them and also taking into consideration the built human-environment dualism, in accordance with Ruskin’s conception that art is not such if it is not inserted in a social order. Parole chiave Luoghi, autenticità, linguaggio, sviluppo
Sincerità Architettonica L’intervento di restauro ha in tutte le sue declinazioni il fine di garantire la permanenza nel tempo dell’oggetto architettonico; ad assumere differente valenza sono di volta in volta la geometria originaria, piuttosto che il disegno o la presenza di elementi peculiari. Il solo termine restauro si presenta ambiguo e impone che sia specificato l’orientamento perseguito: la dizione restauro conservativo vuole sottolineare l’importanza del recupero completo dell’eredità culturale. Affiancando alla disciplina il termine conservativo nessun elemento predomina sull’altro, ognuno è considerato parte fondativa della complessità dell’oggetto architettonico, da valutarsi per la sua unicità. La scelta di una salvaguardia e di un recupero totale delle architetture deriva dalla concezione che queste siano documentazione storica a prescindere dal perpetuo mutamento del gusto critico. Ogni architettura è dunque testimonianza del vero ed è per questo motivo irriducibile durante gli interventi su di essa attuabili. John Ruskin (1819- 1900), scrittore, sociologo, critico d’arte che trattò le tematiche del restauro teorico a partire dal recupero e dalla valorizzazione della architettura medioevale, è una figura cardine in questo ambito. I suoi studi precorrono Adolf Loos1 nello stima-
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Fig. 1 L’espressività del disegno di John Ruskin. «Ca’ d’Oro» 1845. Matita, acquerello, tempera su carta grigia. E gli Archi della Torre di Pisa (Campanile della Cattedrale di Santa Maria Assunta).
Fig. 2 Immagini della Torre di Pisa nelle fasi precedenti e successive al restauro.
re e difendere l’artigianato, attività basata sull’unicità e sull’irripetibilità dei prodotti, e nell’opporsi alle modalità della riproduzione industriale. Ruskin guarda alla sincerità dell’elemento, sia esso architettonico o meno, e si allontana da tutto quello che può essere definito contaminazione o modifica. In quest’ottica l’opera d’arte del passato può essere, a suo dire, solamente manutenuta e studiata per decelerarne la rovina, in quanto l’architettura è una traccia della storia e per la storia, da osservare per conoscere e ricostruire i cambiamenti societari e urbani dell’umanità. Ruskin preferisce l’imperfezione dell’architettura storica incompleta che il restauro integrativo di questa, che ritiene non essenziale ma anzi addirittura falsante (Fig. 1). Cfr. A. Loos, Ornamento e delitto, (1908), in Id., Parole nel vuoto, trad. a cura di S. Gessner, Adelphi, Milano 1972, pp. 217-228.
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Il Tempo e l’identità L’architettura assume in sé duplice funzione: da un lato risponde a esigenze e bisogni quotidiani dell’uomo, dall’altro, in quanto forma d’arte, è espressione di una si-
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Fig. 3 Confronto del tratto fra i primi teorici del restauro John Ruskin e Eugene Violletle-Duc.
tuazione, di un contesto e di un sentimento modulati dalle circostanze storico-economiche della società. In aperta contrapposizione al restauro stilistico, la concezione promossa da J. Ruskin è di rispetto totale ed assoluto per il monumento. Ruskin non fu mai un restauratore, ma il suo pensiero di natura estremamente rigorosa e moralistica segnò in modo decisivo il suo tempo e influenzò quelli a venire. Anche del disegno, di cui era appassionato e al quale si dedicava, aveva considerazione didattica più che artistica: l’interesse per il segno grafico sussisteva in quanto era visto come linguaggio e strumento capace di ricordare il passato. In quest’ottica non si hanno divergenze, ma anzi una perfetta corrispondenza tra la figura del Ruskin insegnante e quella del Ruskin padre del restauro conservativo: in entrambi i ruoli egli si adopera per la ricerca della realtà con l’intento di mantenerla viva negli anni attraverso la memoria, scritta e dipinta. Manutenere e conservare si configurano allora come le uniche due modalità di azione consentite nell’intervento architettonico, perché proteggono la memoria storica, valorizzando l’opera umana. Ne Le sette lampade dell’architettura (1849-1855) l’autore affronta le difficoltà del restauro, legandolo ai temi dell’architettura, della civiltà e dell’estetica. La lampada della verità tratta l’aspetto sociale connesso al restauro: Ruskin sostiene che l’architettura abbia necessariamente bisogno della verità e che questa sia definita da etica, logica, estetica politica e storia, quindi dalla civiltà umana. Traduce questa esigenza nella richiesta dell’impiego di materiali autentici per la costruzione e non di blocchi e stampi di produzione industriale e seriale. Sostiene inoltre, pensiero ancora oggi di grande attualità, che la conservazione sia indissolubilmente legata all’atto progettuale e che sia quindi responsabilità dell’architetto progettare quanto predisporre l’idonea custodia dell’opera. L’autore dedica alla dimensione temporale dell’architettura La lampada della memoria: la progettazione non termina con l’effettiva edificazione ma riguarda necessariamente anche la possibilità di manutenere l’architettura nel tempo. Il tema, se letto in chiave moderna e
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rapportato non solamente ai monumenti storici ma a tutto il costruito, alla luce dell’esponenziale crescita urbana dei decenni appena trascorsi, dei troppi edifici in stato di abbandono e dei conseguenti costi di gestione o demolizione di questi, è oggi quanto mai significativo. L’autenticità è il valore principe di ogni manufatto, ciò che lo rende degno di interesse e salvaguardia, poiché porta con sé la memoria storica degli individui tramandandola nel tempo (Fig. 2). Ruskin è conosciuto in particolar modo per i suoi studi di architettura, ma permangono anche numerosi suoi scritti2 che ruotano attorno alla necessità di modificare la società in cui viveva. L’esaltazione dell’artigianato, della produzione manuale e dell’unicità del prodotto erano in aperta opposizione col nascente impianto sociale del capitalismo inglese. Sebbene all’apparenza i concetti sembrino assai distanti, le opinioni di carattere economico e architettonico del Nostro si intrecciano tra loro finendo per dipendere le une dalle altre: l’attaccamento all’origine, la necessità di guardare agli insegnamenti del passato, la ricerca sul gotico medievale e la volontà di farne modello per l’architettura aprivano necessariamente la strada a spunti di carattere estetico, spingendo verso un recupero delle antiche tecniche produttive. Quel che muoveva Ruskin non era però un vacuo anacronismo, quanto piuttosto un’esigenza che precorreva i tempi: la volontà di restituire dignità al lavoro umano in un momento in cui le capacità manuali dell’individuo cominciavano ad essere messe all’angolo dalla velocità e dalla quantità. Trasmettere il Patrimonio Intervenire su un’architettura può talvolta essere inteso come l’imposizione di una modifica studiata dall’architetto ma allo stesso tempo espressione della sua volontà e non dell’effettivo stato dell’arte dell’originale esistito. Il restauro si configura così quale mezzo esclusivo quanto personale di cambiamento, rendendo noto il suo carattere traditorio: secondo Ruskin esso non rispetta il monumento, facendogli di fatto perdere dimensione storica e mnemonica. La concezione di Viollet Le Duc (1814 -1879)3, per cui restaurare significa imprimere al manufatto le necessarie modifiche al fine di renderlo fruibile e adattabile di momento in momento alle esigenze dell’uomo contemporaneo4, è per Ruskin la prova di come il restauro sia in realtà una menzogna. Ciò che ha valore sono invece per lui le rovine, rappresentanti indiscusse dell’antichità, simbolo dell’accezione della caducità e della commistione tra l’uomo e il tempo della natura5 (Fig. 3). L’autenticità o specificità dell’opera architettonica è ciò che la rende patrimonio di pubblico dominio: ne fa contenitore e racconto storico, valido per l’intera umanità. Il bisogno di trasmettere questo patrimonio conduce al restauro conservativo: manutenzione del costruito nelle sue diverse declinazioni, materica, spaziale e funzionale. In questo scenario nei secoli prende corpo la procedura della conservazione programmata, una sorta di passaggio dal restauro puntuale alla conservazione estesa nel tempo e per il tempo futuro. Il processo si articola nelle fasi di monitoraggio e manutenzione del bene, aprendo la strada ad una nuova metodologia che prende in considerazione parimenti le strategie conservative e quelle di sviluppo sociale. Conservare in modo programmato permette di accrescere le opportunità culturali ed intellettuali in potenza in un dato monumento per una data società. L’attività non è più limitata
2 Cfr. J. Ruskin, The stones of Venice, London, Smith, Elder & Co. 1851-1853 (trad. it. Le pietre di Venezia; Milano, Rizzoli 1987); Id, Cominciando dagli ultimi, Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni 2014. 3 Viollet-le-Duc è stato tra i maggiori esponenti del restauro stilistico, le sue concezioni erano in aperta opposizione a quelle sostenute dal conservatore John Ruskin. Viollet-le-Duc riteneva che il restauratore dovesse conoscere e studiare l’opera per riportarla a completezza, anche integrandola. 4 Cfr. E. E. Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonnè d’architecture, Parigi, B. Bance 1866. 5 Cfr. I. González-Varas, Conservación de bienes culturales. Madrid, Cátedra 1999.
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Silvia La Placa, Marco Ricciarini
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al restauro e alla successiva promozione del bene, ma viene estesa perché il bene possa essere controllato e accompagnato nei decenni, senza che si debba più ricorrere ad un restauro di salvataggio. L’importanza culturale e storica, oggi universalmente riconosciuta all’arte e alle architetture, fa sì che i concetti di valore educativo e di socialità dell’architettura di cui Ruskin fu precursore divengano basilari, specialmente perché posti a confronto con le odierne problematiche ambientali, sociali e di gestione dello spazio cittadino. Il rilievo integrato, con l’utilizzo delle odierne tecnologie, consente di attivare processi di conoscenza sulla struttura volumetrica delle architetture e dei luoghi, garantendoci la possibilità di visualizzare, attraverso l’immagine tridimensionale, connessioni di contesti ambientale o territoriali ben dettagliati e di ottenere con chiarezza i rapporti spaziali dei luoghi delle città. Tali luoghi influenzano il comportamento dell’uomo generando un binomio uomo-ambiente che si sviluppa allo stesso modo di un organismo naturale. Infatti, l’uomo, “animale naturalmente sociale” (zòonphyseipolitikon), tende per natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società6 secondo un processo in scala progressiva: dalla famiglia, al villaggio (o raggruppamento di nuclei familiari affini) per giungere alla polis, la forma più compiuta di associazione, che permette al cittadino non solo di vivere, ma anche di vivere bene, cioè di condurre una vita virtuosa e felice. Risulta necessario pertanto valutare e analizzare i comportamenti sempre più complessi della società, aspetti necessari a qualificare luoghi e spazi costruiti.
Cfr. I. Di Terence, G. Reale, R. Davies, I princìpi primi di Aristotele, I princìpi primi di Aristotele, introduzione di R. Davies, presentazione di G. Reale, Milano, Vita e Pensiero, 1996. 6
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Metodologie per la Conservazione Programmata La conservazione programmata prende avvio dal rilievo digitale del bene in oggetto e prevede l’utilizzo di un’adeguata strumentazione. Il lavoro viene suddiviso per fasi e, a fronte di una spesa iniziale in termini di tempi e costi, produce effetti positivi a breve termine (gli elaborati del rilievo possono essere impiegati per una musealizzazione e per il riconoscimento e l’accrescimento del valore educativo e culturale) e a lungo termine (disponendo dei risultati scientifici di elevata precisione è possibile monitorare
il bene, intervenire in modo mirato e godere dunque di vantaggio economico). Ad oggi la tecnologia mette a disposizione una vasta gamma di prodotti, dai laser scanner 3D, alle strumentazioni fotografiche, ai droni, in grado di restituire dati metrici estremamente precisi sulle architetture e sui paesaggi. L’indagine cognitiva sul costruito e sulle trasformazioni ha trovato ampio sviluppo negli ultimi decenni, aprendo la strada a un rinnovato dialogo tra uomo e ambiente e dando credito all’innata curiosità che spinge l’uomo a conoscere. La meccanica del laser scanner consente di materializzare una direzione di acquisizione misurando la distanza lungo la direzione stessa (Fig. 4). Il risultato, diverso a seconda delle caratteristiche dello strumento (principio e velocità di acquisizione, precisione, e portata) è un insieme di punti distribuiti nello spazio (nuvola) che ripropone in 3D l’oggetto di studio, permettendo di fruirne con differenti declinazioni. L’unione della nuvola alle elaborazioni derivate dalla fotogrammetria architettonica – che coglie forma, dimensioni e posizione di un elemento attraverso una serie di fotografie sovrapposte – arricchisce il modello digitale permettendo lo studio della texture materica. L’impiego dei SAPR (Sistemi Aeromobili a Pilotaggio Remoto) apporta una serie di ulteriori vantaggi, dall’economicità di acquisizione dei dati alla velocità e miglior risoluzione di rilevamento. In una seconda fase, passando attraverso le necessarie elaborazioni di IBM (Image-Based Modeling), è possibile ottenere diverse tipologie di prodotti.
pagina a fronte Fig. 4 Nell’immagine di destra nel 2015 il Prof. Andrew Tallon ha realizzato una nuvola di punti estremamente accurata della Cattedrale di Notre Dame attraverso l’utilizzo di un laser scanner. Nelle Immagini a sinistra si evince la digitalizzazione della cattedrale attraverso la realizzazione di modelli 3D, utilizzati anche per la creazione di un noto videogioco.
Conclusioni Le possibilità sempre in crescita offerte dalla ricerca tecnologica consentono di avvicinarsi in maniera del tutto innovativa al restauro: la creazione di modelli tridimensionali del tipo HBIM permette un’analisi completa delle architetture, prevenendo, indirizzando e contenendo gli interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria. Il rilievo integrato produce elaborati digitali di qualità e dettaglio necessari per un migliorato approccio al restauro, ma anche impiegabili con fini didattici, educativi e culturali. La correttezza del modello tridimensionale e i molteplici dati da questo ottenibili permettono di leggere le fasi costruttive dell’architettura e quindi di conoscere i diversi cambiamenti da questa subiti a partire dal costruito originario per giungere alla forma attuale. È quindi svelata la sincerità architettonica di cui parlava Ruskin, ma facendo uso di strumentazioni non invasive, nel rispetto del patrimonio architettonico e del suo pubblico dominio. La capacità tecnologica di osservare un’architettura nei suoi differenti stadi rende possibile l’intervento senza che si perda concezione dell’originale, anzi potendolo rendere visibile ed apprezzabile ai più.
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Bianca Gioia Marino
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«Every chip of stone and stain is there». L’hic et nunc dei dagherrotipi di John Ruskin e la conservazione dell’autenticità Bianca Gioia Marino | bianca.marino@unina.it Dipartimento di Architettura (DiARC) Università degli Studi di Napoli Federico II
Cfr. J. Ruskin, Introduction a The Poetry of Architecture (1837-1838), in The Complete Works of John Ruskin, vol. I, New York Chicago, National Library Association p. 1. Una prima versione fu pubblicata in «Architectural Magazine», nov.-dec. 1937, poi nella stessa rivista, in altri numeri del 1838. E continua: «If we consider how much less the beauty and majesty of a building depend upon its pleasing certain prejudices of the eye, than upon its rousing certain trains of meditation in the mind, it will show in a moment how many intricate questions of feeling are involved in the raising of an edifice; it will convince us of the truth of a proposition, which might at first have appeared startling, that no man can be an architect, who is not a metaphysician». 2 Tra le tante iniziative e gli studi che hanno riguardato il complesso quanto ricco contributo di J. Ruskin al mondo dell’arte si segnalano, tra i più recenti, la mostra del 2018 a Venezia con il catalogo John Ruskin. Le Pietre di Venezia, Catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale, 10 marzo-10 giugno 2018), a cura di A. Ottani Cavina, Venezia, Marsilio 2018; John 1
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Abstract Memory is the main focal point of Ruskin’s thought on conservation. Nevertheless, the comparison among some of his works on the issue of representation of the architecture and of nature enables us to deeply understand the Ruskinian approach to the historic reality of architecture/nature and, consequently to restoration. In particular, Ruskin’s enthusiasm for the daguerreotypes shows his attitude to the closed observation of all things showing traces of the time. The «noble invention» of photography, firstly experimented with the daguerreotypes, constituted the best way to represent the “truth” of architecture, with all the multitude of its minute details, its surface impressed by the effects of time and weather, the abraded state of the stone. All this revealed, for Ruskin, the character of authenticity. The path of reflection hereby proposed aims to underline in Ruskin’s thought the connection between the issue of the representation of architecture/landscape and the heritage conservation one. This is of particular relevance: the inheritance of the Victorian thinker confirms the need to look at the representation techniques applied to the architectural materiality in a targeted way. They, even if the most innovative and sophisticated are considered bearers of objective “truth”, must be submitted to a critical-theoretic filter in connection with the conservative purposes. Parole chiave John Ruskin, hic et nunc, dagherrotipi, conservazione, autenticità
La Lampada della Memoria, si sa, costituisce il punto intorno al quale ruotano le ragioni con cui, sotto forma di aforismi John Ruskin, rintracciando e argomentando alcuni tra i valori dell’architettura, sostanzia il dovere della conservazione, contro la menzogna dell’illegittimo restauro. Ma a delineare il solco entro il quale si articola il contributo dell’inglese alla tutela degli edifici storici è la sua concezione dell’architettura. Questa, per Ruskin, «is not merely a science of the rule and compass, it does not consist only in the observation of just rule, or of fair proportion: it is, or ought to be, a science of feeling more than of rule, a ministry to the mind, more than to the eye»1. La definizione, dunque, nella sua introduzione a The Poetry of architecture e agli esordi dei suoi scritti sul tema dell’architettura, dichiara la supremazia del sentimento sulla regola, della mente sull’occhio, del-
Fig. 1 J.Ruskin, acquerello (1851 circa) delPalazzo Ducale a Venezia (da A. Ottani Cavina (a cura di), Catalogo della mostra John Ruskin. Le Pietre di Venezia, 2018). Fig. 2 J.Ruskin, Aiguille du Plan, acquerello del massiccio del Monte Bianco (da A. Ottani Cavina (a cura di), Catalogo della mostra John Ruskin. Le Pietre di Venezia).
la percezione sulla mera osservazione, possiamo dire del processo cognitivo sulla mera conoscenza. Ciò, com’è noto, costituisce anche lo sfondo, e l’essenza, della sua idea, tutta negativa, del ‘restauro’. Sono proprio i disegni a bene esplicitare la lettura di Ruskin della sfera del sensibile, dalla natura all’architettura. Numerosi sono stati gli studi che ne hanno analizzato l’ampia raccolta, sotto angolazioni e tagli differenziati2. Infatti, un elemento costante della ricerca ruskiniana e che concorre pure a mettere a fuoco la relazione tra la veridicità della rappresentazione e il ‘gradiente’ di percezione dell’oggetto, è sicuramente il suo personale approccio al disegno. Il vasto repertorio degli acquerelli, delle incisioni e dei numerosi sketches – che lui definisce appunti – veicola la sua filosofia, esprime la sua interpretazione degli edifici i quali, specialmente in Italia, trasmettevano valori di bellezza nel loro silenzioso dialogo con la natura; una natura/storia, e una natura che dunque si inverava nel molteplice mondo delle ‘cose’3. In tal senso, particolare interesse riveste il legame, ma diremmo meglio l’interazione, tra le modalità di rappresentazione utilizzate dal vittoriano e la sua idea di conservazione. La sua interpretazione ‘organica’ dell’architettura è parallela, trovando in tal caso anche le intrinseche ragioni, a quella della percezione degli elementi naturali. La predilezione per le montagne – definite tra l’altro, con particolare acume, le “cattedrali della terra” da A. Hélard4 – e che si evince in maniera singolare in Modern Painters5, non dà solo conto del legame tra estetica, geologia e arte6, ma fa anche riferimento a quella “vital truth”, sottolineata anche da L. Roussillon-Constanty, che è di per sé rivelatrice di altre dimensioni. Dimensioni riconducibili alla vita, una vita che non si dà solamente nella percezione della sua processualità, del suo svolgimento ‘in atto’, ma che è anche riconducibile ad una esistenza delle cose nel tempo. Proprio in tale circostanza possiamo individuare un punto cruciale, anche perché viene messo in campo ciò che riguarda l’approccio cognitivo dell’architettura e dei suoi significati. Per Ruskin infatti la ‘vera’ rappresentazione mostra gli oggetti naturali non soltanto come essi appaiono nel loro dispiegarsi nel presente, ma anche come essi stessi sono stati in passato e, infine, come essi, potenzialmente, saranno in futuro: «try always – asseriva in Elements of Drawings –, whenever you look at a form, to see the lines in it which had power over its past fate and will have power over its future»7. Se queste sono alcune delle tracce del pensiero di Ruskin – tra l’altro con affinità con ciò che sarà il contributo di A. Riegl – che conducono a mettere a fuoco la relazione tra rappresentazione e il senso conservativo delle testimonianze storico-architettoniche,
Ruskin. The power of seeing (Londra, 26 Gennaio-22 Aprile 2019); Ruskin’s flora. The botanical drawings of John Ruskin, Catalogo della mostra (Ruskin Library, Lancaster 2011), a cura di D. Ingram, S. Wildman, Lancaster, Lancaster University, Ruskin Library and Research Centre 2011; L’eredità italiana di John Ruskin, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2002. 3 Cfr. Si veda pure J. Ruskin, Il riposo di S. Marco/St. Mark’s Rest, a cura di M. Pretelli, S. Arcangelo di Romagna, Maggioli Editre 2010; G. Leoni, Il comandamento scritto nelle cose. Sul problema del restauro in J. Ruskin/The Commandment Written within the Things. John Ruskin and the Issue of Restoration, in Il riposo di S. Marco… cit., pp. 17-36. 4 La definizione si riferisce al titolo del volume di A. Hélard, J. Ruskin et les Cathédrales de Terre, Chamonix, éditions Guérin 2005. 5 Per questa lettura si veda L. Roussillon-Constanty, Of Ruskinian Topography: Visible and Legible salience in Modern Painters, «Journal of Alpine Research | Revue de géographie alpine», fasc. 104-2, 2016. 6 Cfr. A. Ozturk, Geo-Aesthetics: Venice and the Architecture of the Alps, in Venice and Ninetheenth-Century Cultural Travel, a cura di K. Hanley, E. Sdegno, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina 2010, pp. 187-211.
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Bianca Gioia Marino
RA J. Ruskin, The Elements of Drawing and the Elements of Perspective, Londra, J. M. Dents & Sons 1912. 8 Cfr. K. Jacobson, J. Jacobson, Carrying Off the Palace: John Ruskin’s Lost Daguerreotypes, Londra, Bernard Quarith Ltd, 2015; P. Costantini, Ruskin e il dagherrotipo, in I dagherrotipi della collezione Ruskin, a cura di P. Costantini, I. Zannier, Venezia-Firenze, Arsenale Editrice 1986, pp. 11-20. B. Hanson, Carrying Off the Grand Canal: Ruskin’s architectural Drawings and the Daguerreotypes, «The Architectural Review», 169, February 1981, pp. 104-109. E più in generale Cfr. G. Fanelli, Storia della fotografia di architettura, Roma-Bari, Editori Laterza 2009. 9 L. Roussillon-Constanty, Of Ruskinian Topography… cit. 10 J. Ruskin, Praeterita, in The Works of John Ruskin, a cura di E. T. Cook, A. Wedderburn, London, George Allen 1908, vol. II, p. 373. 11 Nel 1839 fu annunciata l’invenzione della dagherrotipia, tecnica messa a punto per la prima volta nel 1937. Si tratta della prima immagine fotografica, non riproducibile, ottenuta attraverso l’impressione di vapori di iodio su lastre d’argento o di rame argentato. 12 G. Bachen, Burning with Desire: the Conception of Photography, Cambridge, MIT press 1997. 13 L. J. M. Daguerre, Daguerreotype, in Classic Essays on Photography, a cura di A. Trachtenberg, New Haven, Leete’s Island Book 1980, cit. in T. Arrhenius, John 7
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alcune specifiche modalità di rappresentazione e gli strumenti con i quali egli ha interagito ci permettono di meglio inquadrare il suo apprezzamento della ‘qualità’ della restituzione in rapporto ai significati che egli coglieva nell’oggetto rappresentato. Diversi sono stati gli studi che, nel campo della storia della fotografia e della rappresentazione, si sono succeduti in relazione ai dagherrotipi e ai disegni dell’inglese8: questi ne hanno evidenziato, in particolare, sotto il profilo del processo creativo, le connessioni tra disegni da lui eseguiti e la relativa rappresentazione strumentale, talvolta utilizzando la stessa prospettiva e inquadratura con le quali il paesaggio veniva ripreso, con un intento significativamente comparativo9. In ordine, poi, al dagherrotipo, è in un passo di Praeterita che Ruskin riporta il suo ‘incontro’ con la nuova tecnica10. La dagherrotipia, legata al nome del francese Louis-Jacques-Mandes Daguerre11, diventò infatti per il vittoriano uno speciale strumento di conoscenza, di analisi, e di figurazione, sia dell’architettura che dei paesaggi. Ruskin, pur essendo uno noto e strenuo oppositore delle nuove tecnologie in tutte le loro espressioni, del nuovo mezzo fotografico fu un appassionato utilizzatore. Tuttavia, per comprendere l’impatto ed il significato della fotografia/dagherrotipia sulla sua visione del restauro – anzi dell’anti-restauro – è utile tener presente i principali caratteri dell’evoluzione della tecnica fotografica, e delle sue applicazioni, a partire dal suo avvento, nei primi decenni dell’Ottocento, fino agli ultimi del secolo. I proto-fotografi (come Geoffrey Bachen definisce F. Talbot, N. Niépce e lo stesso Daguerre)12 proprio per il processo di formazione dell’immagine sulla lastra, vedevano nel procedimento l’attuazione di un processo naturale: la Natura (la realtà) viene impressionata a seguito di un fenomeno naturale, di un processo chimico, non riproducibile. Si tratta insomma, come Daguerre afferma, di un «chemical and physical process which gives her [alla Natura] the power to reproduce herself»13. Fox Talbot, dal canto suo, definisce la nuova invenzione come «Photogenic Drawing», come «Photographic Art» e, nel suo The Pencil of Nature, nel 1844, la descrive come il risultato della «mere action of Light upon sensitive paper», tenendo a sottolineare, per l’ottenimento dell’immagine, la completa assenza della mano dell’artista14. Le rappresentazioni «are impressed by Nature’s hand»15 e il vantaggio della promettente «Photographic Art will be that it will enable us to introduce into our pictures a multitude of minute details which add to the truth and reality of the representation, but which no artist would take the trouble to copy faithfully from nature»16. Si parla dunque di «minute details»; e verità e realtà erano degli obiettivi sensibili per il giovane Ruskin che si dedicò al disegno, come emerge da Praeterita, già dal 1829 parallelamente ai suoi studi sui minerali, acquisendo, mano a mano, «the habit of looking for the essential points in the things drawn, so as to abstract them decisevely»17. Il suo sketch-book di questi anni fa registrare disegni in cui egli rileva «a native architecural instinct»18 e la sua predilezione per scorci ed elementi naturali; fino a quando il libro Italy di Samuel Roger – il cui contenuto intrecciava luoghi e storie – non determinò la «main tenor», cioè il senso, il criterio principale della sua vita19. Sembra quasi che l’insieme di questi elementi e le sue prime esperienze, qui sinteticamente riportate, abbiano comportato la predisposizione alla piena accoglienza della nuova scoperta, in specie in relazione a quanto lo stesso Fox Talbot notava, per il ‘ritratto’ dell’edificio del Queens College di Oxford: «This building presents on its surface the most evident marks of the injuries of time and weather, in the abraded state of the stone»20.
Fig. 3 Incisione su disegno di J.Ruskin, La corona della driade (1860). Fig. 4 J.Ruskin, acquerello L’indocilità della driade, ramo di quercia in inverno (18581860) (da A. Ottani Cavina (a cura di), Catalogo della mostra John Ruskin. Le Pietre di Venezia). Fig. 5 Natura e architettura, fotografia di Valentina Strobl (Workshop/Seminar Across the Stones. The Interdisciplinary Knowledge for the conservation and enhancement of Girifalco’s fortress, Cortona 17-22 settembre 2017).
Così, dopo aver richiesto l’invio dalla Francia di ciò che lui definisce i «sun’s drawings», Ruskin, in una lettera al padre del 1845, parla dei dagherrotipi in modo entusiasta e di come essi fossero «a noble invention». Molti di questi dagherrotipi infatti mostrano e restituiscono, come un autentico transfert della realtà e in particolare, quella dell’architettura, i più microscopici particolari nella pienezza della loro materialità. Del 1845 è infatti il suo importante viaggio a Venezia, perlomeno, quello che lo conduce ad una conoscenza approfondita della città e dei suoi edifici. Com’è stato osservato, infatti, quest’anno corrisponde a quello in cui Ruskin si dedicherà sempre più allo studio specifico sull’architettura. Lucca e altre città italiane diventano per lui una meta privilegiata per penetrare le ragioni e le forme del gotico italiano, oggetto dei suoi noti scritti. E proprio il problema della rappresentazione ci fornisce un codice di lettura, tutta ruskiniana, della bipolarità, ma anche della interconnessione, tra architettura e conservazione, tutta innestata sulla capacità di registrazione dell’autenticità del fenomeno visibile. Intanto, per comprendere a fondo un aspetto della riflessione dell’inglese sulla possibilità della fotografia di restituire la realtà/natura nella sua flagranza, possiamo anche riferirci, come evidenziato da T. Arrhenius21, a ciò che è stata la relazione tra la nascita della fotografia e il cambiamento di visione della natura, a partire dagli ultimi anni del XVIII secolo. La natura, parallelamente all’avanzamento degli studi scientifici e al cambiamento del paradigma estetico22, si è trasformata progressivamente in un’entità che ha assunto e manifesta il lavoro storico dell’uomo, cambiando perciò le aspettative e gli obiettivi figurativi e di restituzione della sua immagine, come testimoniato dalla pittura di paesaggio che sempre più ha assunto i caratteri di ‘pittura di storia’. La natura, in altre parole, oltre ad essere un’entità in trasformazione, è espressione di una storia/evento che si percepisce andando oltre la semplice contemplazione, al di là degli aspetti visibili di essa23 e rimandando a storie fatte di trascorsi e di vissuti. La rappresentazione del dagherrotipo, come lo stesso Daguerre sosteneva, riusciva a fermare la natura in un’immagine (un «imprint of nature»), ma soprattutto, tutto il processo di fissazione dell’immagine nella camera oscura verrà visto come uno “spon-
Ruskin’s Daguerreotypes of Venice, articolo presentato al convegno Kulturstudier i Sverige. Nationell forskarkonferens, (Norrköping, 1315 giugno 2005), Linköping University Electronic Press, Linköpings universitet 2005, (<www.ep.liu.se/ ecp/015/>, consultato il 18 giugno 2019), p. 99. 14 Cfr. Introductory Remarks, in H. Fox Talbot, The Pencil of Nature, London, Longman, Brown, Green and Longmans 1844. «They have been formed or depicted – continua – by optical and chemical means alone, and without the aid of any one acquainted with the art of drawing. It is needless, therefore, to say that they differ in all respects, and as widely as possible, in their origin, from plates of the ordinary kind, which owe their existence to the united skill of the Artist and the Engraver». Fox Talbot inoltre fa risalire l’invenzione a degli esperimenti del 1833 in Italia dopo alcuni tentativi nel 1823 e nel 1824 e fa riferimento ad alcune ricerche del 1802 di Wedgwood e H. Davy.
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RA Ivi, p. 33. E aggiunge: «what they want as yet of delicacy and finish of execution arises chiefly from our want of sufficient knowledge of her laws. When we have learnt more, by experience, respecting the formation of such pictures, they will doubtless be much nearer to perfection; and though we may not be able to conjecture with any certainty what rank they may hereafter attain to as pictorial productions, they will surely find their own sphere of utility, both for completeness of detail and correctness of perspective». 16 Ivi, p. 33. 17 J. Ruskin, Praeterita… cit., vol. XXV, p. 77. 18 È quanto Ruskin sostiene riferendosi al Tunbridge Castles e alla torre principale della Cattedrale di Canterbury. Cfr. ivi, p. 77-78. 19 Ivi, p. 79. Si riferisce a S. Roger, Italy, a poem, London, John Murray 1823. 20 H. Fox Talbot, The Pencil… cit. 21 T. Arrhenius, John Ruskin’s Daguerreotype… cit., p. 99. 22 P. D’Angelo, Estetica della natura, Roma-Bari, Laterza 2010. 23 A. Ottani Cavina, John Ruskin. Ritratto d’artista, in John Ruskin. Le Pietre di Venezia… cit., p.29. 24 È tuttavia evidente la doppia natura del nuovo media: la sua rappresentazione è di tipo meccanico, grazie allo strumento, ma anche di tipo naturale, rendendo sottile la linea di confine tra le due modalità e ambigua la duplicità della natura della fotografia. Su tale argomento cfr. T. Arrhe15
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taneous reproduction of image of nature”. Perciò il prodotto, il dagherrotipo, in particolare, non era un semplice ‘disegno’ della realtà ma un processo che si avvaleva di fenomeni naturali attraverso i quali la natura stessa veniva ‘trasferita’ sulle lastre. Ciò rivelava un carattere di autenticità24. Tale aspetto non è irrilevante e mostra vieppiù significativi intrecci con la visione di Ruskin della rappresentazione e dell’architettura come natura ‘in atto’. Ciò, in particolare, conduce a chiarire il rapporto del vittoriano con i mezzi di riproduzione della realtà e di cognizione dell’oggetto, oltre che del dovere della conservazione. Le lettere inviate alla famiglia da Venezia, dove si recò accompagnato dalla guida Joseph Marie Couttet e da George Hobbes25 e dopo aver già pubblicato il primo volume di Modern Painters – in cui tra l’altro celebra la pittura di Turner –, dànno conto dell’approccio percettivo e cognitivo all’architettura. Nella sua attività di studio degli edifici italiani, Ruskin non poteva non riconoscere la straordinaria utilità delle riproduzioni dagherrotipiche, che già conosceva, e che si era fatto inviare ad Oxford da amici francesi. I dagherrotipi, sostiene, risultato «by this vivid sunlight are glorious things. It is very nearly the same thing as carrying off the palace itself: every chip of stone and stain is there, and of course there is no mistake about proportions (…) »26. L’approccio perciò di tipo ‘immersivo’ nella realtà dell’architettura appare a Ruskin possibile attraverso tale tecnica. Questa apre nuove possibilità recettive e restituisce elementi dell’architettura che addirittura sfuggono – come egli asserirà – all’osservazione dell’uomo, in virtù dell’‘assenza’ di selezione. E ciò, per l’inglese, intento alla registrazione microscopica della materia architettonica, non a caso affine alla sensibilità preraffaellita, doveva sembrare di capitale importanza. L’oggettività del dagherrotipo superava la più profonda capacità percettiva, funzionando alla stregua di un blow-up dei più reconditi particolari. Nel corso delle sue numerose visite veneziane, infatti, in particolare in piazza S. Marco, Ruskin poteva rilevare che aveva trovato a lot of things in the Daguerreotype that I never had notice in the place itself. It is such a happy thing to be able to depend on everything – to be sure not only that the painter is perfectly honest, but that he can’t make a mistake»27. Ancora a proposito dei dagherrotipi, egli asserisce che «among all the mechanical poison that this terrible 19th century has poured upon men it has given us at any rate one antidote – the daguerreotipe. It’s a most blessed invention, that’s what it is28.
Ruskin insomma sembra partecipare in pieno a quella verifica dei parametri percettivi della visione che contraddistingue l’epoca vittoriana. La stessa invenzione della fotografia fornisce infatti l’occasione di esperire la varietà dei punti di vista: la velocità di inquadramento e della conseguente, immediata ‘cattura’ dell’immagine, prodotta tra l’altro fedelmente, apre nuove possibilità percettive e di interpretazione del reale che mettono tra l’altro il tradizionale ruolo del sistema prospettico in una posizione di retroguardia, chiamando in causa l’interpretazione critica del soggetto. La forza del nuovo mezzo di rappresentazione è dunque nella documentalità di quell’entità che si presenta come materializzazione dell’hic et nunc di un fenomeno, in tal caso l’architettura, che si trasforma alla stessa stregua delle foglie, delle nuvole e delle montagne, che Ruskin ritraeva di continuo, e la cui mutevolezza e la ragione del tempo si esprimono attraverso la filigrana dei suoi infiniti elementi definendone, insieme e dialogicamente, le loro forme. Ma, soprattutto, dove si realizza una simbiosi tra Natura e Tempo, in cui temporalità e atemporalità sembrano sovrapporsi29, por-
Fig. 6 J.Ruskin, Case a Napoli, inchiostro acquarellato (1841) (da A. Ottani Cavina (a cura di), Catalogo della mostra John Ruskin. Le Pietre di Venezia).
nius,
tandoci ad incontrare il tema della conservazione del patrimonio architettonico. Il rapporto tra la fotografia e la conservazione – su cui si è in particolare soffermato uno studio che ha indagato il legame di Ruskin con la città lagunare30 – si mostra ordito a doppio filo e arricchito da una folta serie di elementi. Su questo convergono, influenzandosi reciprocamente, altre componenti tipiche del pensiero e della teoria della conservazione del vittoriano: l’architettura come testimonianza di civiltà, come elemento ineludibile del ricordo, la flagranza dei valori atmosferici, il differenziato effetto del tempo, la valenza estetica della materia e della patina, la ‘verità’ dell’architettura nel suo apparire fenomenologico, e così via, fino all’aspetto etico della documentazione (e della conservazione) di un documento storico artistico fragile e ritenuto, a ragione, in grande pericolo di dissolvenza. Il ‘vandalismo’ degli interventi sugli edifici veneziani era davanti ai suoi occhi e il valore testimoniale della documentazione, attraverso i disegni e tramite i dagherrotipi appare di vitale importanza: «what unhappy day – scrive in una lettera del 1845 – I spent yesterday before the Casa d’Oro, vainly attempting to draw it while the workmen were hammering it down before my face»31. E poi: «The beauty of the fragments left is beyond all I conceived, & just as I am becoming able to appreciate it, & able to do something that would have kept record of it, to have it destroyed before my face». Tuttavia, se è stato opportunamente sottolineato l’aspetto ‘conservativo’ della registrazione grafica e il valore documentale del dagherrotipo, la componente soggettiva ed artistica della rappresentazione emerge quando sia per Stones of Venice che per The Seven Lamps of Architecture Ruskin, a corredo grafico dei testi, utilizzò, anzi ‘perfezionò’, trattandola, la restituzione dagherrotipica. Come è affermato da Ruskin stesso nella sua prefazione32 e preannunciato dall’editore, il volume in preparazione per le tavole illustrative di The Stones of Venice prevederà dei disegni originali dell’autore «but of mixed character: some will be finished mezzotints; some, tinted lithographis; and some mere wood-cuts, or line engravins»33.
John Ruskin’s Daguerreotype… cit., pp. 99-100. 25 Il primo, soprannominato “il capitano del Monte Bianco”, era una guida francese con cui Ruskin ha condiviso molte visite. George Hobbes era il servitore di casa Ruskin dal 1842 e il cui nome, in realtà, era John; il nome George fu dato per evitare confusione di nomi di casa Ruskin. Cfr. J. Ruskin, Praeterita… cit., p. 343. 26 Ruskin in Italy: Letters to his Parents. 1845, a cura di H. L. Shapiro, Oxford, Clarendon Press 1972, Letter n. 142, pp. 220. 27 Ruskin in Italy: Letters… cit., Letter n. 159, pp. 224225, cit. in T. Arrhenius, John Ruskin’s Daguerreotype… cit., p. 103. 28 Si tratta di una lettera del 15 ottobre del 1845. Cit. in M. Harvey, Ruskin and Photography, «Oxford Art Journal», vol. 7, n. 2, Photography (1984), p. 25 (25-33). 29 Cfr. G. Leoni, Models of Artistic and Architectural Creativity in the Works of John Ruskin, «ArcHistoR», anno V, 10, 2018, p. 116. 30 Cfr. T. Arrhenius, John Ruskin’s Daguerreotype… cit., pp. 97-108. 31 Ruskin in Italy: Letters… cit., Letter n. 130, p. 209. 32 J. Ruskin, The Stones of Venice, 1st vol., London, Smith, Elder and Co 1851, pp. V-XII. 33 Cfr. la parte finale (Examples of the Architecture of Venice, selected and drawn to measurement from the edifices), dopo le appendici di The Stones of Venice… cit.
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Bianca Gioia Marino
RA M. Harvey, Ruskin and Photography, «Oxford Art Journal», vol. 7, 2, 1984, p. 77 (pp. 25-33). In più, a seguito di una vendita all’asta, sono stati individuati numerosissimi dagherrotipi appartenuti a Ruskin. Si tratta di un estratto del saggio di Ruskin, The Art of Engraving, del 1865. 35 L. Smith, Victorian Photography, Painting, and Poetry. The Enigma of the Visibility in Ruskin, Morris and the Pre-Raphaelites, Cambridge, Cambridge University Press 1995. 36 J. Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, Kent, G. Allen 18802, Appendice 1. Si veda pure J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, con una Presentazione di R. Di Stefano, Milano, Jaka Book 2001 (1° ed. 1981), p. 253. 37 Aforisma 30, Ivi, p. 219. 38 Ruskin individua: quella sentimentale, compiaciuta, di ordine tecnico e infine artistica e razionale. La prima è quella relativa al piacere di tipo emotivo; la seconda è quella riconducibile all’erudito e, per questo deprecabile, perché se vi è un’architettura che non è compresa dal povero, non può chiamarsi tale; la terza, di ordine tecnico è «completamente priva di valore critico». Ivi, p. 249-253. 39 B. G. Marino, La complessità della rappresentazione come potenzialità della conservazione, «‘ANANKH», numero speciale GeoRes, novembre 2017, pp. 11-12; A. Aveta, B. G. Marino, R. Amore, Materia e realtà storica. Catturare la trasformazione: un approccio trans-disciplinare alla conservazione, Ivi, pp. 30-36. 34
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Siamo dunque di fronte ad una presa di posizione di Ruskin di fronte proprio alla capacità della fotografia di restituire la realtà in maniera autentica. Se in un primo momento, la nuova tecnica di rappresentazione gli era parsa rivelatrice di una ‘verità’ del reale, anni più tardi, scriverà: Photographs have an imitable mechanical refinement and their legal evidence is of a great use if you know how to cross-examine them. They are popularly supposed to be ‘true’, and, at the worst, they are so, in the sense in which an echo is true to a conversation of which it omits the most important syllabes and re-duplicates the rest. But this truth of mere transcript has nothing to do with Art, popularly so called, and will never supersede it34.
La revisione ‘critica’ dello strumento che lo aveva affascinato per la sua oggettività, come è stato sottolineato35, va di pari passo con l’evoluzione della tecnica: Fox Talbot con la messa a punto, con la calotipia e con l’ottenimento del negativo rese riproducibili le immagini fotografate, con la contropartita di una minore resa dei dettagli. In tal senso dunque potrebbe essere inquadrato il ridimensionamento ruskiniano delle possibilità di utilizzo della fotografia per rappresentare la realtà dell’architettura: se da una parte la tecnica lo conduce verso un orizzonte di esperienza cognitiva che diventa, come abbiamo visto, anche esperienza estetica, dall’altra, essa gli mostra i propri limiti ‘meccanici’. In Seven Lamps ammoniva i fotografi sul significato della fotografia dell’architettura: essa non doveva curarsi di eventuali deformazioni prospettiche dell’edificio o di restituire semplicemente la sua forma, ma i suoi particolari, perché l’architettura «is a precious historical document; and that this architecture should be taken, not merely when it is present itself under picturesque general forms but stone by stone»36. L’apparecchio deve restituire oltre al dettaglio decorativo, il degrado, le fessure dei muri, le modulazioni dell’intonaco; una quasi verità che, per l’inglese, lascia percepire con immediatezza ciò che lui poi definirà la «gloria dell’edificio». L’approccio interpretativo del costruito si arricchisce perciò anche della componente etica rintracciabile nel dovere della conservazione della memoria che è preservata solo se si rinuncia al restauro. Nell’arco degli anni che vanno dal 1840 agli anni sessanta del secolo, Ruskin pubblica oltre le Seven Lamps e The Stones of Venice, i quattro volumi di Modern Painters (18421852), The Elements of Drawing (1856), Unto this Last (1860) e un piccolo scritto The Ethics of the Dust, in cui sotto forma di dialogo si sofferma sul lento processo naturale di stratificazioni successive esplorando il mondo della formazione dei cristalli e delle montagne. E se, senza dubbio, la nuova tecnica della dagherrotipia ha portato Ruskin ad ampliare lo spettro dei significati dell’architettura del passato, bisogna dire che i rilievi diretti, gli schizzi, gli appunti, le riprese fotografiche, un metodo di conoscenza dunque di tipo induttivo e il contatto con la flagranza della materia storica lo hanno condotto sul sentiero della preservazione dei valori, considerando l’architettura, in sé e di per sé, il medium materiale del trascorso vissuto ed espressione delle «effimeri flutti della storia degli uomini»37. Lasciando da parte l’interrogativo se sia stata più la fotografia ad incidere sull’estetica ruskiniana – o l’inverso –, dobbiamo invece evidenziare quanto i processi cognitivi legati all’apprezzamento dell’autenticità del reale nella sua trasformazione e la conservazione dell’architettura come riconoscimento del valore della materia-tempo costituiscano le principali coordinate che mettono il pensiero in una posizione critica ri-
spetto alla tecnica; nonché rispetto al pericolo che sia quest’ultima a condizionare il trattamento delle testimonianze del passato. Non a caso le raccomandazioni che Ruskin dà ai fotografi di architettura costituiscono la parte finale dell’appendice alle Sette Lampade, quando parla dei quattro modi dell’ammirazione degli edifici, tra i quali quello da lui additata – di tipo artistico e razionale «l’unica ammirazione che val la pena di nutrire»38 – è basata sulla osservazione della moltitudine degli elementi che costituiscono la ricchezza dell’architettura, soprattutto i decori, il colore, i particolari scultorei che ‘fanno’ l’architettura e che dànno il segno, in specie per i monumenti medievali, della mano dell’uomo. «Unto this last»: considerando la relazione tra le attuali tecniche di rappresentazione dell’architettura e il restauro il contributo di John Ruskin sembra confermare la necessità di guardare alle tecniche di restituzione della materia architettonica39, anche le più sofisticate e innovative, presunte latrici di ‘verità oggettive’, con lo sguardo critico. Il dilagare della riproduzione delle immagini sta comportando rilevanti impatti sulla percezione dell’architettura storica e cogliendo le riflessioni che hanno visto in tale globale diffusione un aspetto importante che spiega lo snaturamento della percezione della natura stessa40, quella di Ruskin può essere un percorso da riprendere per riconsiderare la ricca complessità della materia architettonica. Di quella «enchanted land»41 dove, oltre a fattori di natura fisica legati alle trasformazioni di cose e luoghi, si percepiscono quelli di natura intangibile; accadimenti, associazioni e processi dinamici mnemonici collettivi ed individuali e che solo con una conservazione che preservi il valore della memoria e dell’immaginale possiamo ancora pensare di frequentare autenticamente.
Fig. 7 (7a+7b) J.Ruskin, Dagherrotipo della Ca’ D’Oro (da A. Ottani Cavina (a cura di), Catalogo della mostra John Ruskin. Le Pietre di Venezia). Fig. 8 Dagherrotipo di Venezia della collezione di J.Ruskin (https://secure.i.telegraph. co.uk/multimedia/ archive/03237/5Fig_3237092b.jpg).
40 Il riferimento è a P. D’Angelo, Immagine contro natura, «Rivista di Estetica», anno XLV, 2, 2005, pp. 79-89. Qui si sottolinea, riportando quanto afferma Robert Smithson in Sites/Non sites, come, con la fotografia, la natura è diventata un concetto impossibile (p.88). Sul pensiero di Ruskin sull’«uso e l’abuso» delle immagini si veda P. Tucker, Ruskin and the daguerreotypes: a “ziggy-zaggy” path between learning and mislearning. Recensione a K. Jacobson, J. Jacobson, Carrying Off the Palace… cit., «Rivista di studi di fotografia», 1/2, 2015. Riguardo all’impatto e alla relazione tra immagini e sensibilità conservativa delle tracce del passato mi permetto di rimandare a B. G. Marino, Iconografia del vissuto e dell’imperfezione. Media e interpretazione dei paesaggi storici per la conservazione del patrimonio e la comunicazione della memoria, in Delli Aspetti de Paesi. Vecchi e nuovi Media per l’Immagine del Paesaggio, Rappresentazione, memoria, conservazione, a cura di F. Capano, M. I. Pascariello, M. Visone, tomo II, Napoli, CIRICE 2016, pp. 615-627; e al recente B. G. Marino, Architettura, Fotografia e Conservazione: un rapporto dialogico e una prospettiva transdisciplinare, in Across the Stones. Immagini, paesaggi e memoria. La conoscenza interdisciplinare per la conservazione e la valorizzazione della Fortezza del Girifalco, a cura di B. G. Marino, Roma, Edizioni Paparo 2019, pp. 23-39. 41 J. Ruskin, Praeterita… cit., p. 373. Ruskin si riferisce a quel paesaggio che ‘magicamente’ un artista francese aveva trasferito nelle «bright small plates» che riproducevano il Canal Grande e piazza San Marco.
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Imagination & deception. Le Lampade sull’opera di Alfredo d’Andrade e Alfonso Rubbiani Chiara Mariotti | chiara.mariotti7@unibo.it Dipartimento di Architettura Università di Bologna
Elena Pozzi | elena.pozzi@beniculturali.it Gallerie degli Uffizi, MiBAC, Firenze
Abstract Historiography ranks Alfredo d’Andrade and Alfonso Rubbiani as opposites to John Ruskin on protection of our architectural cultural heritage. Ruskin supported the idea of conservation instead of restoration, in stark contrast with the practice of staging and reinventing the past, of which d’Andrade and Rubbiani are some of the major proponents in Italy. Although irreconcilable, the work of the latter does not appear to be totally indifferent to Ruskin’s assumptions. Starting from a critical selection of writings and restoration works, this paper offers a crosscutting analysis of these three scholars, focussing and interpreting the results of The Seven Lamps of Architecture. This is the opportunity to investigate the influence of Ruskin’s theories on d’Andrade and Rubbiani, to reflect on the dualism between imagination and deception in restoration and, finally, to revitalize the legacy of an influential scholar and one of the forefathers of European conservation culture. Parole chiave John Ruskin, Alfredo d’Andrade, Alfonso Rubbiani, imagination, deception
Introduzione Un consolidato giudizio storiografico pone Alfredo d’Andrade e Alfonso Rubbiani su posizioni diametralmente opposte rispetto a quelle sostenute da John Ruskin in materia di tutela del patrimonio: il tentativo ruskiniano di inversione di un processo che tende a restaurare piuttosto che conservare l’architettura storica si afferma come reazione a una prassi di reinvenzione scenografica del passato di cui d’Andrade e Rubbiani sono alcuni dei più noti rappresentanti in Italia. In compagnia dei padri della conservazione – Quatremère de Quincy, Hugo, Morris, Boito, Riegl, Dehio, Dvorak –, Ruskin sostiene la pratica virtuosa della cura del monumento, scardina i presupposti della vastissima campagna di restauri condotta in Francia dal contemporaneo Violletle-Duc, offrendo, di fatto, alla critica l’opportunità di stabilire una linea di demarcazione tra conservatori e non, e quindi di associare rispettivamente all’inglese o al francese una fitta schiera di discepoli, operazione compiuta talvolta con eccessiva semplicità. A militare nelle fila di Viollet-le-Duc finiscono così anche d’Andrade e Rubbiani. L’opera di questi ultimi, pur non del tutto aderente alle inclinazioni del francese, non appare
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però neppure impermeabile alla ricezione degli assunti di cui l’inglese si fa portavoce. Il contributo coglie l’occasione dei duecento anni dalla nascita di uno degli intellettuali più rappresentativi del XIX secolo per proporre, contro i luoghi comuni convalidati dalla critica, due accostamenti inediti: Ruskin/d’Andrade e Ruskin/Rubbiani (Fig. 1). Ne scaturisce una riflessione trasversale che indaga l’incidenza, indiretta o diretta, deducibile o dichiarata, del pensiero di Ruskin su d’Andrade e Rubbiani. Dal punto di vista metodologico, due vicende in particolare sono poste sotto la luce delle Seven Lamps of Architecture (Fig. 2), rispetto alle quali si approfondisce quel labile confine che, ruskinianamente, separa imagination e deception, ovvero immaginazione e inganno, nel restauro:
Fig. 1 Da sinistra: Alfredo d’Andrade (1839-1915), John Ruskin (1819-1900) e Alfonso Rubbiani (1848-1913) [in Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, a cura di M.G. Cerri, D. Biancolini Fea, L. Pittarello Firenze, Vallecchi Editore 1981; R. Hewison, I. Warrell, S. Wildman, Ruskin, Turner and the Pre-Raphaelites, London, Tate Gallery 2000; <http:// www.comitatobsa.it>].
Si potrebbe pensare, a tutta prima, che l’intero regno dell’immaginazione fosse anche il regno dell’inganno. Nient’affatto: l’azione dell’immaginare è un volontario fare appello alla concezione di cose che sono assenti o impossibili: e il piacere e la nobiltà dell’immaginazione consistono, in parte, nel fatto che essa le conosce e le contempla come tali, che è a dire, nel riconoscimento della loro effettiva assenza o della loro impossibilità, nel momento stesso della loro presenza o realtà apparente. Quando l’immaginazione inganna, essa diventa follia. È una nobile facoltà, finché essa ammette la propria realtà ideale; quando non l’ammette più, è dissennatezza. Tutta la differenza sta in quest’ammissione, nel fatto che in essa non vi è inganno. È necessario alla nostra dignità di creature spirituali che siamo in grado di scoprire e discernere che cosa non esiste, e alla nostra dignità di creature morali di sapere e ammettere contemporaneamente che essa non esiste1.
Essenza dell’Aforisma 9, il binomio imagination/deception introduce la riflessione sulla Lampada della Verità e se da un lato fissa uno dei principi cardini del sistema ruskiniano, dall’altro pone un tema cruciale per il dibattito disciplinare sul restauro architettonico, le cui ricadute si rintracciano ad esempio nel concetto di autenticità, o più semplicemente di onestà. Quello di Ruskin, del resto, è anche e soprattutto un invito all’onestà: «Può darsi che non siamo capaci di far nascere a comando una architettura buona, o bella, o inventiva; ma possiamo imporre un’architettura onesta»2. Di questo e altro si parlerà dunque nelle pagine che seguono. [CM; EP]
Nel testo originale, i termini del binomio ruskiniano sono imagination e deception: «For it might be at first thought that the whole kingdom of imagination was one of deception also» (The Lamp of Truth, III). J. Ruskin, Le Sette Lampade dell’Architettura, traduzione di R. M. Pivetti, Milano, Jaca Book 1982 (I ed. 1849; I ed. italiana 1981), pp. 68-69. 1
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Ivi, p. 70. Cfr. Alfredo d’Andrade. Tutela e restauro, a cura di M. G. Cerri, D. Biancolini Fea, L. Pittarello, Firenze, Vallecchi Editore 1981; in particolare i contributi di M. G. Cerri, Alfredo d’Andrade: dottrina e prassi nella disciplina del restauro, Ivi, p. 15 e R. Maggio Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medioevale del Valentino, Ivi, p. 34. Si veda anche M. L Luparini, Alfredo D’Andrade: una metodologia di restauro nella difesa del patrimonio storico-artistico della Valle d’Aosta, in Regione Autonoma Valle d’Aosta, Alfredo D’Andrade. L’opera dipinta e il restauro architettonico in Valle d’Aosta tra XIX e XX secolo, Quart, Musmeci Editore 1999, p. 24. 4 G. Giacosa, Introduzione, in Esposizione generale italiana, Torino 1884, Catalogo ufficiale della Sezione Storia dell’Arte: Guida Illustrata al castello feudale del secolo XV, Torino, Vincenzo Bona Tipografo di S.M. 1884, p. 17. 5 Ivi, p. 2. 6 G. Zucconi, Torino 1885. La questione dei monumenti tra archeologia e invenzione, in G. Zucconi, L’invenzione del passato. Camillo Boito e l’architettura neomedievale, Venezia, Marsilio 1997, p. 204. 2 3
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Ruskin/d’Andrade. Il Borgo Medievale di Torino: «un legittimo appello dell’immaginazione»? Insolita, se non azzardata, la coppia Ruskin/d’Andrade introduce il primo parallelismo che rivela non pochi legami culturali e generazionali. Coevi – l’uno del 1819 l’altro del 1839 –, entrambi studiosi delle rispettive tradizioni locali inglesi e portoghesi, sensibilmente attratti dall’Italia, accomunati dal culto del disegno e votati dapprima alla pittura, affascinati dal Medioevo, critici tanto nei confronti dell’accademia quanto dell’industrializzazione, e ancora entrambi convinti sostenitori delle implicazioni politiche, economiche, sociali e umane dell’architettura. L’influenza di Ruskin su d’Andrade non è ufficialmente documentata, ma nella biblioteca di Castel Pavone tra i trattati di Francesco di Giorgio Martini, Vasari, Scamozzi e le opere di De Dartein, Lenoir, Lacroix e Seré, Vitet, Proudhon, De Caumont e naturalmente Viollet-le-Duc, compare anche L’esthétique anglaise. Etude sur M. John Ruskin di Milsand3. Non è da escludere che d’Andrade possedesse anche scritti autografi di Ruskin – del resto conosceva bene l’inglese, il che gli avrebbe permesso di leggerli con facilità –; in questo però non dà supporto la limitata produzione letteraria del lusitano che, anche in questa sede, rende piuttosto necessaria un’analisi deduttiva che dalla prassi risalga alle premesse e ai riferimenti teorici. L’opera scelta per una simile anamnesi è il Borgo Medievale di Torino, quel «saggio intorno la vita civile e militare del Piemonte nel secolo XV»4 che per più di una ragione si distingue nell’attività di d’Andrade (Fig. 3). Ideato dalla Commissione preposta alla Sezione Storia dell’Arte in occasione dell’Esposizione Nazionale del 1884, l’intervento – di cui si tralasciano gli aspetti più noti – segna una svolta nella storia delle esposizioni ancora basate sul modello della «ricca bottega di antiquario»5 e assicura al suo principale artefice i futuri incarichi ufficiali di tutela. Al momento della realizzazione del Borgo, d’Andrade ha 45 anni e The Seven Lamps of Architecture è già stato pubblicato da 35 (1849): se dunque per ovvie ragioni nel testo di Ruskin non è possibile trovarvi alcun riferimento, nell’antologia tridimensionale eretta sulle rive del Po non mancano, seppur taciuti, i rimandi ad alcune delle sue Lampade. Definita da Guido Zucconi «fiaba realizzata»6, da Marco Dezzi Bardeschi «il punto più delirante» della «grande festa popolare del revival medievale in Italia»7, quando non letta in chiave banalmente folcloristica, l’operazione messa in atto a Torino potrebbe
pagina a fronte Fig. 2 J. Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, London – New York, J.M Dent & sons – E.P. Dutton & Co. 1913 (I ed. 1849). Fig. 3 Torino, Borgo Medievale del Valentino. Planimetria generale [in A. Frizzi Borgo e castello medioevali in Torino, Torino, Tip. Lit. Camilla e Bertolero 1894].
Fig. 4 Torino, Borgo Medievale del Valentino. Da sinistra: primi schizzi di Alfredo d’Andrade (1882), veduta del complesso in costruzione dalla sponda destra del Po (1883) [in Il Borgo Medievale. Nuovi studi, a cura di E. Pagella,«Quaderni del Borgo», 6, Torino, Edizione Fondazione Torino Musei 2011].
sembrare la più lontana dal pensiero di Ruskin, luogo nel quale arte e architettura, storia e memoria, verità e immaginazione si fondono senza soluzione di continuità, condizione che per altro l’ha resa uno dei santuari più interessati dal turismo di massa (Fig. 4). All’indomani dell’inaugurazione, Camillo Boito si esprimeva sull’argomento con positivo consenso: «la compiuta finzione aiuta la fantasia: siamo innanzi ad una scena, anzi a mille scene da teatro»8. Sì, perché per esplicita volontà dei suoi ideatori «l’insieme del castello non riproduce nessuno dei castelli esistenti, ogni particolare e l’ordine in cui questi sono disposti discendono direttamente da tutti e ne danno intera conoscenza»9. Puntualizzato da Giuseppe Giacosa nell’Introduzione alla Guida illustrata, «lo speciale intento di utilità pratica, di modo che ne derivassero al visitatore, nozioni determinate e precise intorno ad uno o più periodi della storia dell’arte»10 non sfuggiva neppure a Boito che ne riconosceva il carattere didascalico e la valenza didattica. D’altra parte, l’intera operazione si caricava sin da subito di una forte missione pedagogica, in forza della quale il Borgo può e dovrebbe essere letto, ancora oggi, come grande museo en plein air. Ciò che prendeva forma a Torino era invero il risultato di più di vent’anni di ricerche e rilievi compiuti da d’Andrade sull’architettura tardo-medievale, un vero e proprio Dictionnaire raisonnée de l’architecture piémontaise, come lo definisce il suo stesso autore11. E se il richiamo al ben più noto Dictionnaire, opera principale del restauratore francese, appare voluto e immediato così come il nesso d’Andrade/Viollet-le-Duc che la critica ha più volte sottolineato, meno esplicito ma
Fig. 5 Torino, Borgo Medievale del Valentino. Da sinistra: ingresso al Borgo con figuranti in costume (1884), ingresso al Borgo allo stato attuale (2015) [in Il Borgo Medievale... cit.; Foto: © Chiara Mariotti].
M. Dezzi Bardeschi, Neogotico, una questione di stile, in Il neogotico nel XIX e XX secolo, a cura di R. Bossaglia, V. Terraroli, Milano, Mazzotta 1989, vol. I, p. 423. 8 C. Boito, Il Castello medievale all’Esposizione di Torino, «Nuova Antologia», a. XIX, fasc. XVIII, 15 settembre 1884. 9 G. Giacosa, Introduzione… cit., p. 21. 10 Ivi, p. 2. 11 Cfr. T. Cunha Ferreira, Il Portogallo di Alfredo de Andrade. Città, Architettura, Patrimonio, Santarcangelo di Romagna (RN), Maggioli Editore 2014, p. 222 e G. Zucconi, Torino 1885… cit., p. 204. 7
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M. Dezzi Bardeschi, Françoise Choay e una lettera inedita di Ruskin del 1887, «Ananke», 56, 2009, p. 2. 13 J. Ruskin, Le Sette Lampade… cit., p. 69. 14 Verbale della Commissione, seduta del 26 novembre 1882, citato in C. Bartolozzi, C. Daprá, La Rocca e il Borgo Medioevale di Torino (1882-84). Dibattito di idee e metodo di lavoro, in Alfredo d’Andrade. Tutela… cit., p. 190. 15 L’espressione autografa di A. d’Andrade, datata 1883, è citata in T. Cunha Ferreira, Il Portogallo di… cit., p. 223. 16 Cfr. J. Ruskin, Le Sette Lampade… cit., p. 70 e sgg. 17 Cfr. C. Bartolozzi, C. Daprá, La Rocca e il Borgo… cit., p. 191. 18 J. Ruskin, Le Sette Lampade… cit., p. 72. 19 G. Giacosa, Introduzione… cit., p. 22. 20 G. Zucconi, Torino 1885… cit., p. 210. 21 J. Ruskin, Le Sette Lampade… cit., p. 72. 22 A. Rubbiani, Di una via fra le piazze centrali e le due torri e di un’altra fra le due torri la stazione: progetto di Alfonso Rubbiani e Gualtiero Pontoni presentato al Municipio di Bologna per voto di un’adunanza di artisti tenuta il 6 giugno 1909, Bologna, Tip. Neri 1909, p. 14. 23 Cfr. A. Rubbiani, La Chiesa di S. Francesco in Bologna, Bologna, Nicola Zanichelli 1886. 12
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non assente risulta il collegamento tra questi ultimi e Ruskin proprio in relazione alla vicenda torinese. Il ritrovamento di una lettera indirizzata da Ruskin al giovane Percy Morley-Horder, rivoltosi al critico inglese per ottenere indicazioni sul proprio percorso di formazione, scioglie ogni dubbio in proposito: «c’è solo un libro di valore sull’Architettura» scrive Ruskin «che contiene tutto ciò che c’è da sapere, espresso correttamente, ed è il Dizionario del signor Viollet-le-Duc»12. L’omaggio al “rivale” – al momento della scrittura della lettera scomparso già da otto anni – di certo non annulla la distanza che separa i due sul fronte del restauro, ma può essere qui utile a desumere, per trasposizione, un eventuale posizione ruskiniana sul valore culturale e didattico del Borgo del Valentino. La scena, costruita per l’Esposizione Nazionale, sembra allora poter rispondere a quella condizione di «apparente esistenza»13 di cui parla Ruskin, frutto di un atto di immaginazione che arricchisce la mente e testimonia il ruolo essenziale di una società che educa e insegna. Il ruolo didattico dell’architettura stabilisce pertanto il primo possibile punto di contatto con Ruskin. Collegato al primo, l’ulteriore scopo didattico del Borgo, ovvero far riscoprire il valore dell’artigianato, crea un secondo ponte con la dialettica ruskiniana e in particolare con la Lampada della Vita. Ma se l’interesse per i prodotti della manualità è per Ruskin leva essenziale alla rinascita della società, svilita dalla sostituzione del lavoro dell’uomo con quello della macchina, per d’Andrade è occasione per recuperare i temi dell’istruzione artistica e della relazione tra arte e industria e per contribuire, anche con il cantiere del Valentino, alla formazione di manodopera specializzata. Questa tensione si riflette nella scelta «di animare il costrutto villaggio colla reale attività di artefici»14, una sorta di materializzazione degli ideali sottesi al movimento dell’Arts and Crafts promosso da William Morris, condiviso da Ruskin e specchio di una dimensione antropocentrica comune ai tre (Fig. 5). Nella vicenda del Borgo Medievale però la tangenza più forte tra Ruskin e d’Andrade risiede forse nella dichiarata «speranza di contribuire ad ispirare e diffondere il rispetto dei monumenti»15, che per certi aspetti costituisce anche il punto di maggior frizione tra i due. Supportato dall’applicazione di un metodo rigoroso di ricerca archeologica, d’Andrade sceglie di dare forma a un progetto culturale che unisce razionalità costruttiva e immaginazione, ma senza inganno. Secondo Ruskin infatti la menzogna architettonica può manifestarsi in tre modi: attraverso la sostituzione del lavoro umano con quello meccanico, attraverso la frode strutturale e, infine, attraverso la violazione delle caratteristiche proprie dei materiali16. Nessuna di queste declinazioni, puntualmente elencate nella Lampada della Verità, vi trova riscontro: la posizione del lusitano è infatti rimasta ferma sull’uso dei materiali originari, sul recupero delle tradizioni costruttive e sull’impiego di strumenti manuali analoghi a quelli del tempo realizzati ad hoc17. Inoltre, il «sottile problema di coscienza»18 posto da Ruskin legato alla necessità di tenere la mente sempre informata sulla vera natura delle cose pare risolto a Torino: «obbligo solo e strettissimo, l’autenticità, perché su questa non possa cadere alcun dubbio, il citare le fonti, alle quali ognuno […] può facilmente ricorrere per riscontro»19. I riferimenti sono dunque esplicitamente dichiarati nei nomi e nella toponomastica, anche a questo serve la Guida illustrata. Non ultimo, l’assenza della preesistenza isola l’esperienza richiamata rispetto a tutte le altre in cui d’Andrade finisce invece per incidere concretamente sulla materia storica. Merita infine ricordare come molte delle architetture riprodotte nel Borgo fossero, nel 1884, poco più che ruderi – tra questi i Castelli di Fénis e Pavone e la Casa Serraluna
di Alba – di cui si elogiava la forza evocatrice; il peggio, non serve negarlo, è venuto dopo quando «una volta disegnata in bella la “copia”»20 si è messo mano all’originale. Ma questa è un’altra storia. Alla luce di quanto emerso, resta da chiedersi se l’operazione colossale compiuta con la costruzione del Borgo del Valentino possa essere definita, ruskinianamente, «un legittimo appello dell’immaginazione»21. [CM] Ruskin/Rubbiani. La Chiesa di S. Francesco a Bologna: la suggestione del «patriarca dell’arte floreale-simbolica» Il secondo inedito parallelismo indaga la declinazione del pensiero di Ruskin nell’attività di Alfonso Rubbiani (Bologna 1848-1913). Egli a differenza di d’Andrade conosce approfonditamente ben più di uno scritto del «maestro d’estetica dell’epoca moderna»22, come lui stesso lo definisce. Analogamente all’inglese, Rubbiani non ha una formazione tecnica, subisce il fascino del Medioevo e della sua produzione artistica; a differenza di Ruskin, lasciati alle spalle gli anni della militanza politica tra le schiere dei conservatori cattolici e della polemica contro l’alienante meccanizzazione della società, decide di intraprendere la carriera di restauratore. Il cantiere della chiesa di S. Francesco ricopre un’estensione temporale che coincide quasi con l’intera attività di Rubbiani, consentendo di evidenziare l’evoluzione della ricezione del pensiero ruskiniano, che il bolognese esplicita per la prima volta proprio negli scritti che dedica ai lavori. Questi hanno inizio nel 1886, dopo la pubblicazione de La Chiesa di S. Francesco in Bologna23, testo in cui Rubbiani ricostruisce le vicende storico-costruttive della fabbrica e dichiara il suo obiettivo programmatico: restituirne l’immagine «primitiva»24, allineandosi metodologicamente alla coeva pratica diffusasi nel solco dell’esperienza di Viollet-Le-Duc. Come è noto, il bolognese pianifica la liberazione dell’edificio dalle superfetazioni rinascimentali e barocche, e, la riconfigurazione delle forme architettoniche primitive, che ricostruisce sulla base di una scrupolosa analisi documentale e di numerosi “assaggi” sul monumento, eccezion fatta per le situazioni prive di riferimento per cui legittima il ricorso all’analogia25. È però negli interventi interni alla chiesa che Rubbiani sperimenta la “sua” lezione ruskiniana. Qui, ipotizzando di lasciare lo scheletro murario a vista, dà avvio alla rimozione del sistema decorativo realizzato solo pochi decenni prima da Francesco Cocchi in occasione del primo restauro del complesso (1845)26. Durante la campagna di indagini stratigrafiche (1890) riaffiorano però tracce, «diligentemente rilevate»27, di decorazioni pittoriche a motivi geometrici o floreali su pilastri, imbotti delle aperture, arcate e vele, che lo convincono a «ripristinare, la decorazione murale primitiva, qual è suggerita dagli avanzi, completandola, dove gli avanzi non bastino, con motivi tratti da monumenti sincroni»28, cioè con la medesima prassi applicata all’architettura. A partire dal 1895 prendono così forma i primi interventi entro il corpo della chiesa: i costoloni delle volte, le cornici delle aperture, i fusti delle colonne polìstili, i relativi capitelli antropomorfi e l’ornato delle arcate absidali sono decorati replicando sistematicamente quanto rivenuto (Fig. 6). Ma un riesame delle decorazioni realizzate dal 1897, cioè da quando Rubbiani legge il saggio di Robert de La Sizeranne edito in quell’anno, Ruskin et la religion de la Beauté – il bolognese non conosceva l’inglese29 –, permette di osservare come queste inizino ad arricchirsi di rappresentazioni allegorico-simboliche che richiamano le forme del
Ivi, p. IX. Cfr. Alfonso Rubbiani: i veri e i falsi storici. Catalogo della mostra (Bologna, febbraio-marzo 1981), a cura di F. Solmi, M. Dezzi Bardeschi, Casalecchio di Reno (BO), Grafis 1881; Alfonso Rubbiani e la cultura del restauro nel suo tempo (1880-1915). Atti delle giornate di studio (Bologna, 12-14 novembre 1981), a cura di L. Bertelli, O. Mazzei, Milano, Franco Angeli 1986; Giornate di studio su Alfonso Rubbiani. Atti del Convegno (Bologna, 22 ottobre-28 novembre), a cura di P. Monari, Bologna, BUP 2015. 26 Cfr. E. Pozzi, Prima del Restauro: “la conservatezza ed integrità di quelle Opere di Belle Arti pregievoli e distinte per merito, ovvero che servono alla Storia, è di somma necessità ed importanza”, in Ricerca in-formazione, VI sezione di RICerca/REStauro, a cura di F. Mariano, M. P. Sette, E. Vassallo, (coord. D. Fiorani), Roma, Quasar 2017, pp. 997-1005. 27 A. Rubbiani, La chiesa di S. Francesco e le tombe dei glossatori in Bologna. Ristauri dall’anno 1886 al 1899. Note storiche ed illustrative di Alfonso Rubbiani, dal collegio degli ingegneri ed architetti bolognesi dedicate al IX Congresso nazionale degli ingegneri ed architetti italiani, Bologna, Zamorani e Albertazzi 1899, p. 23. 28 A. Rubbiani, Primitiva dipintura murale nella chiesa di S. Francesco in Bologna. Relazione intorno ad un saggio di dipintura dell’abside in detta chiesa; che, corredata di tavole illustrative, fu esibita dalla Commissione per la Fabbrica di S. Francesco alla R. Commissione Conservatrice dei monumenti, nel dicembre 1895, Bologna, Zanichelli 1895, p. 12. 29 Non è documentato che Rubbiani conoscesse la 24 25
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RA lingua inglese; per questo si ritiene che sia venuto al corrente della produzione ruskiniana attraverso le edizioni francesi, lingua che invece parlava fluentemente. Non si esclude però l’ipotesi che, prima del 1887, ne sia venuto a conoscenza in altro modo. 30 A. Rubbiani, Cronaca dei lavori di ristauro alla chiesa monumentale di S. Francesco in Bologna, illustrata con notizie storiche, archeologiche, fotografiche, disegni; per Alfonso Rubbiani e d’incarico della Commissione per la Fabbrica. Lavori dal 3 gennaio 1896 al 31 dicembre 1897, Bologna, Zanichelli 1898, p. 25. 31 Cfr. Aemilia Ars 1898-1903. Arts&Crafts a Bologna. Catalogo della mostra, (Bologna, Collezioni comunali d’arte, 9 marzo-6 maggio 2001), a cura di C. Bernardini, D. Davanzo Poli, O. Ghetti Baldi, Milano, A+G 2001. 32 A. Rubbiani, Alfredo Tartarini, in Scritti vari editi e inediti, a cura di C. Ricci, Bologna, Cappelli 1925, p. 156. 33 J. Ruskin, La Bible d’Amiens, traduzione note et prefazione di M. Proust, Parigi, Société du Mercure de France 1904 ; J. Ruskin, Les Sept Lampes de l’Architecture, trad. di G. Elwall, Parigi, Société d’édition artistique 1900. 34 J. Ruskin, Le Sette Lampade… cit., p. 226. 35 Al momento, non sono stati ritrovati testi autografi di Ruskin nella biblioteca di d’Andrade a Castel Pavone. 36 J. Ruskin, Le Sette Lampade… cit., p. 41.
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dettato naturalistico (cipressi, melograni, …) ed echeggiano direttamente o indirettamente quelle tardo gotico-rinascimentali, come da tradizione simbolista-preraffaelita, allo scopo di rappresentare valori universali e sovrastorici. Lungo le cappelle radiali e le navate laterali affiora un nuovo approccio operativo, dove le componenti ideologica ed emotiva prendono il sopravvento sul rigore metodologico che guida le scelte architettoniche, da cui quindi l’arte decorativa sembra sottrarsi. Rubbiani esplicita il riferimento teorico di questa «giovanissima arte dell’abbellimento, piena di idee, di simboli, di allegorie, in veste semplice e naturale, umile ammiratrice della natura [quando ne tenta una definizione] alcuni dicono “lo stile floreale”, altri l’arte simbolica; altri veggono in alto, al di sopra come un patriarca: Ruskin»30. Il riferimento a Ruskin è esplicitato tanto negli scritti che documentano il cantiere, quanto negli apparati decorativi realizzati che richiamano le raffigurazioni delle Lampade, rintracciabili ad esempio nella parete della cappella Santi (1898) (Fig. 7) e nella lampada votiva della cappella per la Pace tra i Popoli (1899). Nel 1898 la partecipazione di Rubbiani alla fondazione della società per azioni Æmilia Ars31, nata nel solco dell’esperienza dell’Arts and Crafts di William Morris, ne rimarca l’adesione alla teoria estetica ruskiniana e la convinzione, condivisa da artisti e intellettuali coinvolti, della funzione sociale dell’arte. Scopo di Æmilia Ars è infatti creare opere d’arte pittoriche e oggetti d’uso quotidiano a cui conferire un valore etico-sociale. Nel cantiere francescano, grazie alla direzione del bolognese, la produzione degli artisti di Æmilia Ars (tanto degli apparati pittorici, quanto di lampade, sedute, cibori, …) ricalca il dettato estetico mistico-naturalistico in cui coincidono etico ed estetico, umano e divino, imagined – in senso ruskiniano – da Rubbiani. Qui cioè il bolognese traspone il suo manifesto ideologico ispirato al «vangelo Ruskiniano “dell’umile adorazione della natura”»32; offre al visitatore l’esperienza estetica di un luogo mistico ideale che lui conosce, benché non esista nella realtà, e senza ingannare, perché non priva della possibilità di immaginare, ma al contrario la sollecita. Rubbiani avrà modo di consultare anche la versione de La Bible d’Amiens curata da Marcel Proust (1904) e prima, nel 1900, l’edizione francese di Les Sept Lampes de l’Architecture 33; a quest’ultimo testo riserverà uno spazio particolare all’Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902, quello tra i patriarchi dell’attività artistica promossa dalla società di intellettuali e artisti bolognesi. Qui infatti il “vangelo Ruskiniano” del vincolo tra arte e società e tra uomo e natura sarà esposto con una copertina appositamente disegnata e rilegata dagli artisti di Æmilia Ars (Fig. 8). [EP] Conclusioni Sebbene la critica associ generalmente le figure di d’Andrade e Rubbiani al nome di Viollet-Le-Duc nella pratica del «cosiddetto restauro»34 – non a torto, poiché il francese è stato per entrambi un fondamentale riferimento operativo –, in questa sede si sono verificati possibili punti di tangenza con il pensiero di Ruskin. Pur confermando la distanza teorico-pratica che separa le coppie Ruskin/d’Andrade e Ruskin/Rubbiani, la lettura restituisce una convergenza rispetto ad alcuni temi chiave, raccolti sapientemente in The Seven Lamps of Architecture. Occorre da subito precisare che le vicende prese in esame sono tra loro senz’altro differenti. A questo proposito, un primo dato sul quale merita soffermarsi riguarda la ri-
cezione della dottrina ruskiniana: diretta, ovvero derivata dalla lettura dei testi autografi ma filtrata dalla traduzione in lingua francese, per Rubbiani; indiretta, dunque mediata da rielaborazioni critiche degli originali e sempre in francese, per d’Andrade35. Una simile condizione se da un lato espone al rischio di eventuali distorsioni linguistiche, dall’altro attesta la permeabilità capillare degli assunti dell’inglese anche laddove sussistono difficoltà di comunicazione. La stessa dichiarazione della rispettiva influenza appare differente: se nell’episodio bolognese Rubbiani esplicita, sia nei diari di cantiere che nelle ricreate decorazioni, il riferimento a Ruskin, nella vicenda di Torino d’Andrade ne omette ogni rimando. Non ultimo, la costruzione ex novo del Borgo Medievale svincola il lusitano dalle responsabilità dell’azione sull’esistente e rende automaticamente l’intervento alla Chiesa di S. Francesco ben più vulnerabile al giudizio critico, benché gli apparati decorativi si stratifichino in zone prive di tracce di decorazione poiché in gran parte ricostruite, conducendo Rubbiani a realizzare di fatto ex novo – anche in questo caso – gli ornati. Al di là delle differenze, il fil rouge che collega i casi richiamati al sistema teorico ruskiniano è l’attenzione per l’Architettura, «la prima delle arti»36, per il suo ruolo sociale-morale e per la sua funzione etico-estetica; oltre a questo li accomuna anche la volontà di sperimentare la «dimensione storica dell’architettura di oggi»37. Entrambi gli interventi, alla luce della Lampada della Verità, non generano inganno, così come inteso da Ruskin, e lasciano spazio a quell’immaginazione, la quale, come ricordato in apertura la testo, è necessaria «alla nostra dignità di creature spirituali, che siamo in grado di scoprire e discernere che cosa non esiste, e alla nostra dignità di creature morali, di sapere e ammettere contemporaneamente che essa non esiste». I due episodi richiamati, due unicum per le carriere dei rispettivi restauratori, risultano necessariamente mediati dal filtro del gusto eclettico; ciò genera in ultima analisi un cortocircuito che da un lato fa emergere il parziale fraintendimento della lezione ruskiniana da parte dei due e, dell’altro, incoraggia la critica a classificarli come “falsi”. In conclusione, quel libro che nel 1880 Ruskin definisce «il più inutile che io abbia mai scritto»38 si rivela, oggi come nei duecento anni trascorsi, rinnovata occasione d’interpretazione critica, riflessione e dibattito. [CM; EP]
Fig. 6 Bologna, Chiesa di S. Francesco. Rilievo delle decorazioni rinvenute attorno a parte dell’oculo del transetto laterale. Il rilievo integra anche il progetto che sperimenta virtualmente il completamento della decorazione lungo la cortina muraria a risarcimento del vuoto lasciato dalla demolizione di una cappella secentesca [in: Rubbiani 1895, tav. 4]. Fig. 7 Bologna, Chiesa di S. Francesco. Achille Casanova (?), Progetto della decorazione parietale della Cappella Santi [in: Rubbiani 1902, tav. 1]. Fig. 8 Æmilia Ars, Rilegatura del libro The Seven Lamps of Architecture, 1902 [in: Bernardini, Davanzo Poli, Ghetti baldi 2001].
Ivi, p. 211. L’affermazione è contenuta nella Prefazione all’edizione del 1880. Ivi, p. 31. 37
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1 Sulla figura di Sedad H. Eldem cfr.: S. Acciai, Sedad Hakki Eldem. An aristocratic architect and more, Firenze, Firenze University Press 2018; S. Bozdogan, S. Özkan, E. Yenal, Sedad Eldem. Architect in Turkey, Singapore, Concept Media 1987. 2 I seminari si terranno fino al 1952 e daranno luogo alla pubblicazione di molti volumi che raccolgono gli esempi architettonici catalogati. Tra questi, la pubblicazione più nota è: S. H. Eldem, Türk Evi: Osmanlı dönemi / Turkish houses: Ottoman period I, II, III, Istanbul, Türkiye Anıt Çevre Turizm Değerlerini Koruma Vakfı 1984-1986-1987. 3 A questo proposito, sono da ricordare le attività progettuali promosse dall’architetto Nezih Eldem
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Educazione e conservazione architettonica in Turchia: Cansever e Ruskin en regard Eliana Martinelli | eliana.martinelli@unifi.it Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
Abstract The National Architectural Seminars, established by Sedad Eldem in 1932, represented the beginning of a new era in teaching architecture in Turkey, influencing other parts of the Islamic world too: instead of looking at Western spatial models to emulate, the aim is to constitute a specific Turkish architectural vocabulary. After the Second World War, this experience gave rise to the Department for Conservation of Architectural Heritage, created by the combined efforts of several schools. The generation of architects of that time, including Turgut Cansever, encouraged new politics on conservation and rehabilitation. In the last decades, architectural teaching in Turkey turned to Western models, losing its specificity. At this moment, it becomes more urgent to wonder: is architectural education value-free or, as Spiro Kostof wrote, “to be a good architect is like being a good citizen”? Starting from this question, the essay aims to compare Cansever’s Islamic approach with Ruskin’s theoretical contribution, focusing on the issue of ethics and the moral implication of art, in relation to the notion of nature. In Cansever’s thought, the architect’s responsibility in educating the next generations and conserving the ancient city and architecture through the design process, is pointed out. Parole chiave Architectural education, conservation, architectural heritage, Turkish architecture, Turgut Cansever
Il contesto di riferimento Nel corso dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento, l’insegnamento di architettura in Turchia avveniva perlopiù attraverso l’imitazione acritica di modelli formali occidentali, o mediante una contestualizzazione degli stessi, che venivano riproposti in stile ottomano. Nel 1932 avviene una svolta, che influenzerà l’educazione architettonica in gran parte del mondo islamico: Sedad Hakkι Eldem (1908-1988)1 istituisce i Seminari sullo Stile Architettonico Nazionale2 all’Accademia di Belle Arti di Istanbul, con l’intento di fondare un vocabolario architettonico specificatamente turco, a partire dalla catalogazione dei tipi edilizi. Durante i corsi, gli studenti eseguivano accurati rilievi delle architetture vernacolari lignee diffuse in tutta l’Anatolia, che erano poi riutilizzate come modelli e strumenti per gli esercizi di progetto.
Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, l’esperienza dei Seminari darà luogo all’istituzione del Dipartimento per la Conservazione del Patrimonio Architettonico, creato per lo sforzo congiunto di alcune università, con l’obiettivo di promuovere l’architettura turca attraverso la conservazione di città e monumenti. Da questo momento fino agli anni ’80, la generazione di architetti che si era formata con Eldem incoraggia nuove politiche sulla conservazione, sviluppando progetti di recupero e di rigenerazione del patrimonio antico, assieme a studenti e istituzioni3. Il principale contributo è quello di Turgut Cansever (1921-2009)4, importante architetto turco e profondo conoscitore dell’architettura ottomana, ma anche dell’Islam e del sufismo. Cansever darà seguito alla scuola di Eldem, grazie alla pubblicazione di molti testi teorici, cui si affiancherà una costante ricerca progettuale sull’evoluzione tipologica e sul rapporto con la città ottomana. Negli ultimi decenni, sembra essersi verificata un’involuzione: la scuola di architettura turca è tornata a rivolgersi a modelli, educativi e architettonici, occidentali, perdendo gran parte della sua specificità. Al contempo, si guarda con disattenzione al tema della conservazione del patrimonio antico e moderno, che viene facilmente dismesso e sostituito con nuove costruzioni di scarsa qualità architettonica. La causa di tutto ciò è da ricercarsi anche in una crisi politica, che è specchio di quella culturale. Oggi dunque, diventa sempre più importante chiedersi quali siano le responsabilità di una scuola nell’educare le future generazioni di architetti, non solo come professionisti. L’educazione architettonica, in particolare nel mondo islamico, può essere considerata priva di valori, oppure, come afferma Spiro Kostof in The education of the Muslim architect, «to be a good architect is like being a good citizen»5? Opera e morale: una prospettiva comparativa tra Ruskin e Cansever Per affrontare la questione del valore educativo dell’architettura, e le sue implicazioni etiche e morali, proviamo a comparare due diversi approcci, legati a due differenti interpretazioni: da un lato la teoria ruskiniana, di matrice ebraico-cristiana, dall’altro il pensiero islamico di Cansever. In entrambi i casi, l’architettura viene letta e trasmessa attraverso il filtro di un milieu profondamente intriso di cultura religiosa; esso costituisce non tanto un elemento di retorica, quanto una prospettiva critica, che cerca di inquadrare l’opera in un dato contesto culturale. Nella seconda metà dell’800, in Inghilterra la Bibbia rappresentava ancora il principale riferimento morale e linguistico; per Ruskin stesso, essa costituisce il testo fondamentale cui riferirsi, assieme agli scritti di Platone, oggetto di lettura e commento quotidiani6. Secondo Ruskin, l’arte, nel riprodurre la natura, dovrebbe fungere da commento all’opera di Dio, rispettandone il suo testo, proprio come la teologia fun-
Fig. 1 T. Cansever, progetto per il tratto di città tra Fatih e Beyazıt, Istanbul, 1963, Archivio famiglia Cansever.
(1921-2005) con la consulenza dei rappresentanti Unesco e la partecipazione degli studenti dei suoi corsi, per il recupero le aree urbane attigue a Santa Sofia (Istanbul). Su questo tema cfr. E. Martinelli, Turgut Cansever in Istanbul. Identity and utopia of urban design, in Utopia and the project for the city and territory, a cura di L. Velo, M. Pace, Roma, Officina Edizioni 2018. 4 Sulla figura di Turgut Cansever cfr.: E. Martinelli, Turgut Cansever e la Scuola di Sedad Eldem. Unità e tettonica nel progetto per Istanbul, Tesi di dottorato, Università IUAV di Venezia 2017; E. Martinelli, La tradizione della modernità in Turchia. Da Sedad Eldem a Turgut Cansever, in Altre modernità. Energie etiche per il progetto, a cura di J. Galli, Milano-Udine, Mimesis Edizioni 2018. 5 S. Kostof, The education of the Muslim architect in A. Evin, Architectural education in the Islamic world, The Aga Khan Award for Architecture, Singapore, Concept Media 1986, p. 4.
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ge da commento alla Bibbia. Il ruolo dell’artista, dunque, è per lui simile a quello di un predicatore, strumento di rivelazione di un’autorità superiore7. Tuttavia, la verità della natura non può essere colta riproducendo in maniera mimetica l’insieme delle sue qualità, bensì riconoscendo un solo attributo che la caratterizza, identificabile con la “verità di forma”. Essa non costituisce una caratteristica geometrica astratta, ma è ciò che si rivela attraverso il gioco della luce e dell’ombra sugli oggetti reali8. Acquisendo “capacità di vedere”, si può cogliere l’idea di bellezza, che scaturisce direttamente da quella di verità e che permette di rivelare la componente divina insita nella natura9. Questa convinzione di una presenza reale della divinità in ogni punto della realtà naturale è uno dei cardini di tutto il pensiero ruskiniano. Il mondo sensibile palesa, infatti, impronte divine che la vista è in grado di leggere in termini di simbolo o, più precisamente, di tipo. Le caratteristiche di Dio sono tipizzazioni delle caratteristiche della natura, che è perciò letteralmente, Parola di Dio10.
Cfr. J. Ruskin, Opere, a cura di G. Leoni, Roma-Bari, Editori Laterza 1987, p. 6. 7 Ivi, p. 24. 8 Ivi, p. 25. 9 Ivi, p. 27. 10 Ivi, p. 28. 6
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Quindi, «se la natura si rivela essere in parte divina, ogni pratica artistica – come anche il semplice esercizio dello sguardo – comporta implicazioni di carattere morale»11, pur non strettamente legate ad uno specifico contesto culturale e religioso. Tra le caratteristiche della natura, che l’artista può rivelare attraverso l’opera, Ruskin ricorda in particolare l’infinità, che ha a che fare con l’incomprensibilità divina, intesa come infinita variazione e complessità. Un’altra proprietà, solo apparentemente in contrasto con la prima, è l’unità, specchio invece della divina comprensibilità: essa non annulla la diversità delle sue parti, ma ammette il rispetto della specificità di
ognuna e la loro ricomposizione secondo precise regole di relazione, che comprendono anche la variazione12. Infine, Ruskin compie una distinzione tra scienza e arte: entrambe sono commento del testo della natura, ma l’arte è capace di una maggiore profondità conoscitiva. Da qui scaturisce la separazione tra knowledge ed education:
pagina a fronte Fig. 2 T. Cansever, progetto per il villaggio Demir, Bodrum, 1971-72, Archivio famiglia Cansever.
Il knowledge è il risultato specifico di una data ricerca, mentre l’è la capacità di riconoscere il ruolo a cui si è destinati e, conseguentemente, comprendere l’ordine complessivo delle cose. Ruskin pare rintracciare il modello del suo ragionamento nella distinzione platonica tra singole scienze e saper di sapere, ma utilizza poi il riferimento, come sempre, in maniera molto libera, attribuendo questa «virtù che rende virtuose tutte le altre» all’artista. L’unico knowledge di cui l’artista ha bisogno riguarda la sua tecnica, che deve essere acquisita nel modo più rapido e completo possibile per divenire subito un elemento malleabile ed inavvertito. Altrimenti, nulla deve frapporsi tra la natura e l’occhio dell’artista, nulla tra Dio e la sua anima13.
I medesimi temi sono stati affrontati, un secolo più tardi, da Turgut Cansever nel contesto islamico. Nella sua interpretazione dell’arte islamica ritroviamo analogie con il pensiero ruskiniano. Intellettuale e profondo studioso della storia dell’arte14, Cansever con buona probabilità conosce le teorie di Ruskin, ma nell’elaborare un proprio pensiero si riferisce soprattutto a Heinrich Wölfflin e Ernst Diez: egli ritiene che un’opera d’arte possa essere valutata soltanto sulla base dei credi e dei giudizi propri della cultura in cui si è evoluta15, pur affermando l’esistenza di alcune qualità stilistiche comuni, per esempio, all’arte islamica e a quella cristiano-bizantina. A work of art is a projection of the cosmological perception of “being” in the artistic product. The decision the artist makes while engaged in his artistic endeavor is determined by his conception of being and of the hierarchy of its forces. So, art is a discipline within the realm of ethics – religion. […] Sense of responsibility and consistency of behavior, developing from the consciousness of the unity between the perception of form and being, is the step which transforms the human creature into a human being16. Ivi, p. 40. Ivi p. 28. 13 Ivi, p. 20. 14 Nel 1949, presso la Facoltà di Lettere di Istanbul, Cansever discute la prima tesi di dottorato in storia dell’arte della Turchia, con la supervisione di Ernst Diez, dal titolo Osmanlı ve Selçuklu Mimarisinde Sütun Başlıkları (“Analisi stilistica dei capitelli ottomani e selgiuchidi”). 15 Cfr. T. Cansever, Thoughts on Architecture, in Building for tomorrow: the Aga Kahn Award for Architecture, a cura di A. Nanji, Londra, Academy Group Ltd 1994, pp. 51. 16 T. Cansever, Thoughts and architecture, Istanbul, Türk Tarih Kurumu Basimevi 1981, p. 8. 11
Per Cansever lo stile è il riflesso della religione e dell’etica nell’ambito delle forme. Riferendosi alla psicologia estetica di Wölfflin, Cansever ritiene che esso sia strettamente legato alla coscienza, e rifletta in modo assoluto l’insieme di valori propri dell’artista, e dunque della cultura che lo rappresenta. Per comprendere meglio la questione, è necessario superare la visione dualistica dell’esistenza, propria delle filosofie occidentali, e approdare alle filosofie esistenziali moderne, che individuano quattro livelli di esistenza, di natura materiale, bio-sociale, spirituale e mentale. Tali livelli di esistenza costituiscono gli aspetti stilistici dell’arte, poiché rispecchiano gli stili di vita di una determinata cultura. Da qui si deduce che il concetto di stile non è una categoria fissa, ma cambia con i bisogni degli uomini. Il processo compositivo è strettamente legato all’insieme di scelte determinate dal proprio milieu e dai valori dell’individuo progettista. Dunque, proprio come l’arte, l’architettura non fa parte dell’estetica o della tecnologia, ma piuttosto concerne l’etica e la religione. I comportamenti psicologici delle persone, infatti, si riflettono nell’opera d’arte come “forme di espressione”. I principi cosmologici di base, che determinano la fondazione dell’arte islamica, sono: l’unità divina e di esistenza, l’infinità dello spazio-tempo, il carattere limitato dell’esistenza e della produzione umana.
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Fig. 3 T. Cansever, progetto per la new town Batıkent, Ankara, 1980-81, Archivio famiglia Cansever.
The quality of man-made beauty is totally different from those of being and of nature. It is most natural that Man’s product is and will be limited as well as artificial. The limitations and artificiality of manmade products do not result from the negation of being, but are natural outcomes of respect and submission to it. Thus, the clarity of form observed in Islamic culture and art is a reflection of the full awareness of Man’s limited knowledge and insight17.
Ivi, p. 9. Letteralmente “unicità”, esso costituisce il principio base dell’Islam, che afferma l’unità e l’unicità di Dio. 19 T. Cansever, The city center of Istanbul: its past and its future problems, in Urban conservation in Europe and America: planning, conflict and partecipation in the Inner City Rome, 1975: Conference proceedings, a cura di D. Appleyard, Roma, Tipografia Olimpica 1977, p. 99. 17
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Il fine ultimo dell’architettura, secondo Cansever, è quello di prendere parte al processo di abbellimento del mondo, inteso come ricostituzione delle relazioni dinamiche tra città, natura e uomo. Il senso di responsabilità si sviluppa nell’uomo grazie alla consapevolezza dell’unità fra la percezione della forma, urbana e architettonica, e l’esistenza. Questa dottrina, denominata “del Tawhid”18, si esprime nell’arte islamica attraverso l’omogeneità dell’insieme, in cui gli elementi geometrici che lo compongono sono collocati in maniera paritetica, pur con forme e grandezze variabili. Tali individualità mantengono le loro caratteristiche anche una volta assemblate, e l’unità non viene corrotta dall’aggiunta di altri individui. Implicazioni sul progetto Per Cansever, l’architettura ha il compito di definire gli stili di vita di una comunità, i comportamenti psicologici e la sfera spirituale, ma allo stesso tempo viene condizionata da questi; dunque il progetto non può essere considerato un’imposizione culturale, né un processo creativo fine a sé stesso.
Fig. 4 T. Cansever, progetto per la new town Batıkent, Ankara, 1980-81, Archivio famiglia Cansever.
Le principali implicazioni delle teorie di Cansever possono essere verificate in relazione al tema della conservazione e della trasformazione del patrimonio attraverso il progetto. Cansever ricorda che la civiltà ottomana, per promuovere lo sviluppo della città, aveva operato una vera e propria riorganizzazione urbana, tramite la rivalutazione del patrimonio architettonico bizantino. Il recupero del patrimonio esistente avveniva cercando di stabilire nuove relazioni tra entità separate, in conformità con la visione della storia secondo gli Ottomani. Per Cansever, questo metodo di lavoro rispecchia una forte coscienza storica e quindi un insegnamento da tramandare. Progettare significa, quindi, determinare relazioni e interazioni tra elementi di natura diversa o opposta, che concorrono nel formare l’unità. L’accorpamento di individualità autonome, in termini architettonici e sociali, in linea con il concetto di Tawhid, risponde a un senso di responsabilità collettiva, in cui l’individuo è sublimato. Conquestepremesse,ladistinzionetranuovoeanticoperdedisignificato.Allostessomodo, dunque, la separazione tra conservazione e invenzione cessa di essere determinante. In the case of Istanbul and Ottoman city culture, the problem was (…) the resolution of historical contradictions between past and present cultures. Our present responsibilities are similar. (…) The attitude of change for the sake of change and the separation of conservation from creation should be discarded. The fundamental principle in carrying out this task will be ‘not to change until the old can be replaced by something better19.
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La lezione di Ruskin e il contributo di Boni. Dalla sublimità parassitaria alla gestione dinamica delle nature archeologiche Tessa Matteini | tessa.matteini@unifi.it Dipartimento di Architettura (DIDA) Università degli Studi di Firenze
Andrea Ugolini | a.ugolini@unibo.it Dipartimento di Architettura (DA) Università di Bologna
J. Ruskin, Modern Painters, Vol. I., London, Smith, Elder co. 1843, Part II., Sec. 6, Chap. 3, § 21, pp.416-417. 2 Dedicati alla progettazione delle architetture e alla loro integrazione nel contesto paesaggistico. Pubblicati nel 1873 dall’editore John Wiley di New York in una versione non autorizzata (in forma ufficiale nel 1893 a Londra). 3 Che già nel 1840 utilizza l’espressione Landscape architecture. J. d. hunt, Greater perfection. The practice of garden theory, London, Thames and Hudson 2000, p.117. 4 Sappiamo che nel 1834 l’artista inglese scriverà Enquiries on the causes of the colours of water of the Rhine, pubblicato da Loudon nel 1834 in «The magazine of Natural History and Journal of Zoology, Botany, Mineralogy, geology and meteorology», London, Longman, Rees, Orme, Brown, and Green. 5 Oltre alla serie dei celebri Red Books, Sketches and Hints on Landscape Gardening, 1794, London W. Bulmer and Co., per J. & J. Boydell; Observations on the Theory and Practice of Landscape Gardening, London, J. Taylor 1805; Fragments on Landscape Gardening, with some Remarks on Grecian and Gothic Architecture, London, J. Taylor 1816. 1
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Abstract The manifold attitude and the integrated approach experimented by John Ruskin artist and writer in reading Nature generated within his work a powerful device in order to build a dynamic and systemic vision of natural phenomena, anticipating the richness and the complexity of modern ecological thinking. Moreover, Ruskin’s lesson on the ethical and aesthetic value of ruins and the importance given to the work of vegetation in ruderal contexts can be considered part of a more ambitious and visionary attitude, linked to a landscape and place-making oriented dimension. Both these lines of research will significantly influence the thinking of Giacomo Boni, a Venetian architect and archaeologist, who worked in Roman archaeological sites between the end of the nineteenth century and the beginning of the following century. Following these connections, the contribute proposes an exploration of Ruskin’s legacy in approaching and designing archaeological ambits with the aim of an active conservation, particularly considering the integrated relationships between architecture and greenery. Parole chiave Nature, paesaggio, rovine, progetto, conservazione attiva
Natura e dimensione paesaggistica nell’opera di Ruskin […] Go to nature in all singleness of heart, and walk with her laboriously and trustingly, having no other thoughts but how best to penetrate her meaning, and remember her instruction; rejecting nothing, selecting nothing, and scorning nothing J. Ruskin, Modern Painters, Vol. I, Sec. 6, Chap. 3, § 211
Così profondo, complesso e articolato è il rapporto di Ruskin con la Natura nelle sue molteplici e dinamiche manifestazioni, che il suo nom de plume sull’«Architectural Magazine» di John Claudius Loudon, per il quale scriverà una serie di articoli (Poetry of Architecture) tra il 1837 e il 18382, sarà kata Phusin (da κατά φύσιν, “secondo natura”). Se l’attenzione del Ruskin artista e letterato per la dimensione naturale, è stata ampiamente esplorata da numerosi autori con sguardi disciplinari diversi, meno indaga-
Fig. 1 J. Ruskin, View of Bologna, 1845-46, Tate Gallery, London.
J. d. hunt, Ut pictura poesis, the picturesque, and John Ruskin, «MLN», Vol. 93, 5, Comparative Literature (Dicembre 1978), John Hopkins University Press, pp.807-808. 7 Autore tra l’altro di una biografia, intitolata The wider sea. A life of John Ruskin, Londra, Dent 1982. 8 J. d. hunt, Ruskin: The Design of Nature and the Transcription of Its Manuscript, «Assemblage», 32 (Aprile 1997), MIT Press, p. 16. 9 Ibidem, p.18. 10 J. illingworth, Ruskin and gardening, «Garden History», vol. 22, 2, The picturesque (Winter, 1994), pp. 218-233. 11 J. d. hunt, Ruskin: The Design of Nature… cit. 12 M. Frost, Reading Nature. John Ruskin, Environment and the ecological impulse, in Victorian Writers and the Environment: Eco-critical Perspectives, a cura di L. W. Mazzeno, Ronald D. Morrison, New York, Routledge 2017. 13 Ibidem. 14 T. Matteini, Nature archeologiche, in Atlante delle Nature Urbane, a cura di M. Corrado, A. Lambertini, Bologna, Compositori 2011, pp. 168-169. 15 Ibidem. 16 T. Matteini, Paesaggi del tempo. Documenti archeologici e rovine artificiali nel disegno dei giardini paesaggistici, Alinea, Firenze 2009, pp.64-65. 17 E. Tea, Giacomo Boni nella vita del suo tempo, voll. I e II, Milano, Editrice Ceschina 1932, p.37. 18 Ruskin e Boni si incontreranno di nuovo a Pisa nel 1886 e nell’ottobre del 1888. 6
ta è la sua propensione alla lettura interpretativa di luoghi e paesaggi attraverso uno sguardo che potremmo definire creativo e progettuale, nutrito dalla fertile cultura inglese del place-making e del landscape gardening che, nel XIX secolo attraversa uno dei suoi momenti gloriosi. Sicuramente la collaborazione giovanile con Loudon (1783-1843), botanico e garden designer3, sarà determinante per la formazione di Ruskin4. Così come fondamentale per la costruzione dello sguardo paesaggistico è probabilmente anche la lettura delle opere di Humpry Repton (1752-1818)5, una delle figure più rappresentative del landscape gardening inglese tra il XVIII e il XIX, con il quale emergono significative assonanze sul richiamo che il paesaggio attiva sulla sensibilità etica ed estetica dell’osservatore e sul necessario legame tra le architetture e il contesto che le accoglie6. Non abbiamo certezza che Ruskin si sia mai occupato di landscape architecture nel modo in cui oggi intendiamo la disciplina, ma un critico autorevole come Dixon Hunt7, pone tra le diverse declinazioni di Natura sperimentate da Ruskin nel corso della sua opera critica, etica ed artistica anche questa definizione: «Nature as a zone for that specific act of intervention that today we term landscape architecture»8. Dixon Hunt intende così sottolineare l’attenzione di Ruskin per il contesto paesaggistico, per la sua evoluzione e per gli aspetti dinamici e processuali, evidenziando le sue molteplici ed eclettiche competenze come studioso di botanica e geologia e come colto naturalista. Dixon Hunt ricorda anche la conoscenza specifica delle diverse categorie di componenti naturali, conquistata attraverso le esplorazioni, il collezionismo, lo studio sul campo, il disegno e la letteratura: Though Ruskin never addressed himself to matters of reshaping grounds, as landscape architects did then and can now, his focus was on the meaning of ground, of territory, of terrain, its geological history, its botanical and arboreal inhabitants, its character that – independent of all influence except its own formation – guides our “reading” of it9 (fig. 1).
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La corrispondenza tra Boni e Ruskin, è stata solo parzialmente pubblicata da Eva Tea e si compone di circa venti lettere, parte conservate presso l’I.L.A.S.L. di Milano e parte presso la Pierpont Morgan Library di New York. M. Pretelli, L’influsso della cultura inglese su Giacomo Boni. John Ruskin e Philip Webb, in Giacomo Boni e le istituzioni straniere. Apporti alla formazione delle discipline storico-archeologiche, a cura di P. Fortini, Roma, Fondazione G. Boni-Flora Palatina 2008, pp.123-138. 20 Ibidem. Ruskin tornerà in Inghilterra e Boni sarà chiamato a Roma per occuparsi dei monumenti dell’antichità. 21 Su Ruskin e il pittoresco si veda J. d. hunt, Ut pictura poesis… cit., pp. 794-818 e J. d. hunt, Gardens and the picturesque. Studies in the history of Landscape Architecture, Cambridge, Mass., MIT Press 1992. 22 J. Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, London, Smith, Elder, and Co. 1849, pp. 162-182. 23 G. Simmel, La Rovina (Die Ruine in Philosophisce Kultur, Gesammelte Essais, Leipzig, Werner Klinkhardt 1911), in G. Simmel, Saggi sul paesaggio, Roma, Armando editore 2006, pp. 70-81. 24 Si veda il saggio omonimo in Il tempo grande scultore (1983), pubblicato in italiano da Einaudi, Torino 1985. 19
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In effetti, la Drawing Teaching Collection della Ashmolean ad Oxford, una raccolta iconografica preparata e suddivisa da Ruskin in lezioni tematiche per insegnare ai suoi studenti la comprensione e rappresentazione dei diversi aspetti del mondo naturale, ci rivela una visione enciclopedica eppure integrata di tutte le componenti che costruiscono un paesaggio (anche in scala ridotta, come il “paradisal” Brantwood’s garden10). In questo senso, possiamo ricordare l’attenzione di Ruskin per il giardino come laboratorio di sperimentazione botanica od estetica, come microcosmo che accoglie, pur miniaturizzata, tutta la complessità del mondo naturale11, e la fondamentale esperienza utopica ed etica della Guild of St. George a Sheffield. Mark Frost colloca alcune tracce della moderna scienza ecologica nella visione di Ruskin, il cui approccio alla natura appare complesso, molteplice ed interpretato secondo uno stato di tensione produttiva12. Secondo Frost, lo sguardo di Ruskin è conteso tra due diverse concezioni di environment: quella consolidata e tradizionale, basata sulle conquiste illuministe del XVIII secolo e sulla nozione religiosa di una natura gerarchica; l’altra invece, sollecitata dalle pressanti inquietudini del Romanticismo e dalle istanze di un pensiero scientifico in crescita accelerata, che propongono l’evoluzione e l’interdipendenza di tutti i fenomeni come dispositivo per la comprensione del mondo. Anche se in età avanzata Ruskin rigettò la teoria evoluzionistica e le implicazioni del materialismo scientifico, è indubbio che i suoi Nature’s writings partecipino al nascente pensiero ecologico e che il suo approccio rappresenti molte delle contraddizioni e delle opportunità che definiscono oggi l’ecologia13 (fig. 2). Ruskin, Boni e le Nature Archeologiche14 Se la prospettiva complessa e lo sguardo integrato applicati da Ruskin hanno generato un potente dispositivo di lettura dei fenomeni naturali che costruiscono una visione dinamica e sistemica, anticipatrice per certi versi del pensiero ecologico15, la sua lezione sul valore etico ed estetico delle rovine16 e sull’importanza dell’opera della vegetazione nei contesti ruderali può essere considerata parte di una attitudine più ambiziosa e visionaria, probabilmente legata al place-making di cui si è scritto in precedenza. Entrambe queste linee di ricerca influenzeranno in maniera significativa il pensiero di Giacomo Boni, architetto e archeologo, fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo. Boni inizia ad apprezzare Ruskin già nel 187917, ma il primo incontro fra i due data al 1882 in occasione della visita dell’inglese a Pisa18. Lo scambio epistolare tra i due documenta la forte affinità di pensiero e di sentimento nonché il debito culturale che il giovane veneziano continuerà ad avere nei confronti dello studioso inglese19. La critica ha da tempo indagato il pensiero di entrambe queste figure e le relazioni reciproche mettendo in evidenza, pur nel mutare delle opinioni e del progressivo indebolirsi dei contatti20, alcune similitudini, tra cui il rapporto che entrambi matureranno con il mondo naturale, e in particolare con le nature archeologiche. Nel 1849, la tensione etica e la sensibilità artistica suggeriscono a Ruskin una delle sue affermazioni più note sul pittoresco inteso come fenomeno estetico (e non di maniera)21: «the picturesque […] consists in the mere sublimity of the rents, or fractures, or stains, or vegetation, which assimilate the architecture with the work of Nature, and bestow upon it those circumstances of colour and form which are universally beloved by the eye of man» (The Lamp of Memory, § 16)22.
Se da un lato questa attitudine può essere collocata nel solco della tradizione ruinista inglese, da Vanbrugh a Whately e genererà una nutrita serie di epigoni etico-estetici, da Georg Simmel23 fino a Marguerite Yourcenar24, dall’altro la visione ruskiniana produce qualcosa di diverso e, per certi versi imprevedibile, ben rappresentato dal lavoro pionieristico di Giacomo Boni. L’attenzione che l’architetto veneziano dimostrerà per le relazioni fra rovine e componente vegetale, muovendo da intuizioni estetiche affini e da una piena sintonia con la visione naturale e ‘sistemica’ ruskiniana, verrà mediata da una metodologia operativa sperimentata sul campo, diventando più pragmatica e chiaramente indirizzata alla conservazione della rovina, oltre a suggerire in forma esplicita una sistemazione paesaggistica compatibile del contesto e con le preesistenze25. Eppure la attitudine panteistica e proto-ecologica ruskiniana, che Boni declinerà in senso più laico26, sta alla base della complementarietà della Flora delle ruine rispetto all’elemento umano, e quindi al rudere. È in quest’ottica che probabilmente va indagata la attenzione di Boni verso il legame tra la componente vegetale, il monumento e i suoi artefici, la sua lotta a favore della flora tradizionale (spontanea o naturalizzata) ma soprattutto l’interesse per le relazioni fra ruderi e vegetazione e per la loro gestione, che costituirà un nodo fondamentale da risolvere per garantire salvaguardia e trasmissibilità del sito archeologico (fig. 3). Così l’espressione “rudere monumentale”, utilizzata da Boni per indicare il documento archeologico sembra ricollegabile a quella di «parasitical sublimity; i.e., a sublimity dependent on the accidents, or on the least essential characters, of the objects to which it belongs» (The Lamp of Memory, § 13), scritta per meglio definire il concetto di pittoresco. Una definizione che per il veneziano, ispirato dal pensiero del suo ‘maestro’27, stava significare «la ripresa delle forze naturali sulla materia in cui l’uomo ha impresso i segni della propria intelligenza», fattore di bellezza e autenticità in quanto derivante dall’azione combinata di uomo e Natura e «dipendendo dal tempo – cioè da un fattore ultra umano – è infinitamente prezioso e insostituibile»28. Giuseppe Morganti annota che, all’inizio del XIX secolo, la «sostanziale affinità tra l’elemento vegetale e le vestigia dei monumenti antichi è acquisita. Sulla base di questo riconoscimento è ampiamente praticato, e lo sarà per gran parte del secolo, l’impiego del verde come materiale per gli interventi di sistemazione archeologica»29. Lo stes-
Fig. 2 J. Ruskin, A Cluster of Oak Leaves, 1856, Morgan Library, New York. Fig. 3 La Domus Flavia sul Palatino, dove Giacomo Boni propose la ricostruzione in vivo (foto A. Ugolini, 2014).
25 Si veda la scheda su Giacomo Boni in L. Latini, T. Matteini, Manuale di coltivazione pratica e poetica. Per la cura dei luoghi storici e archeologici del Mediterraneo, Padova, Edizioni il Poligrafo 2017, pp. 58.65. 26 F. Bernabei, Saggio introduttivo, in J. Ruskin, La natura del Gotico, Milano, Jaca Book 1981, p.16. 27 Cf. a tale proposito i paragrafi, sicuramente più volte riletti da Boni da The Seven Lamps of Architecture, The lamp of power (§ 1-4) e del IV, libro The lamp of beauty (§ 1-3). 28 E. Tea, Giacomo Boni… cit., vol. I, pp. 111-113. 29 G. Morganti, L’impiego del materiale vegetale nel restauro dei monumenti antichi, in La memoria, il tempo, la storia nel giardino italiano tra ‘800 e ‘900, a cura di V. Cazzato, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato 1999, pp. 409-431.
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30 Con il progetto romano per il Jardin du Capitole, 1811-1812, non realizzato. 31 T. Matteini, Paesaggi del tempo… cit., p.66; T. Matteini, Tra le rovine. Giacomo Boni, Scritti sulla flora delle rovine, in L. Latini, T. Matteini, Manuale di coltivazione… cit., p.60. 32 L. Caravaggi, Architettura e Natura. Le reintegrazioni archeologiche, in Tutela dei giardini storici. Bilanci e prospettive, a cura di V. Cazzato, Roma, Arti Grafiche NEMI 1989, pp.460-461 e nota 38, pag. 463. 33 G. Boni, Flora delle ruine, in Jovi Victori, estratto da «Nuova antologia», Roma 1917, p. 27 34 M. de Vico Fallani, I Parchi archeologici di Roma. Aggiunta a Giacomo Boni: la vicenda della “flora monumentale “nei documenti dell’Archivio Centrale dello Stato, Roma, Nuova Editrice Spada1988. Riportata integralmente nel volume alle pp. 78-88. 35 Si tratta di muri a secco di contenimento privi di forma o valore artistico in cui far crescere specie spontanee. 36 Vedi il capitolo Conclusioni, limiti del programma di G. Boni e indagine su un metodo progettuale in M. De Vico Fallani, I Parchi archeologici di Roma… cit., pp.104-112. 37 in M. De Vico Fallani, I Parchi archeologici di Roma… cit., p.105-111. 38 M. A. Signorini, L’indice di pericolosità: un contributo del botanico al controllo
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so Morganti individua le tracce di una linea di connessione, un fil vert che, attraverso il tempo, vede maturare l’evoluzione delle relazioni progettuali tra documento archeologico e componente vegetale. Così il progetto dei luoghi archeologici, già sperimentato in forma più didascalica dalla Ecole paysagère di Berthault30, viene progressivamente accennato, suggerito e poi sperimentato in un percorso ideale che lega Ruskin con il grande cantiere romano e quindi con Boni, Antonio Muñoz, fino alle opere più rappresentative di Raffaele De Vico, come la prima redazione del Parco del Colle Oppio. Tracce per una ricerca Agli inizi del XX secolo, dunque, Giacomo Boni compie un rilevante salto concettuale31 che lo porta dalla contemplazione evocativa della Natura in relazione alle rovine all’analisi scientifica dei meccanismi e degli equilibri ecologici e ambientali, funzionali da un lato alla conservazione attiva del costruito e alla sua comprensione e dall’altro alla gestione e tutela del paesaggio, luogo d’incontro d’elezione tra natura e opera dell’uomo. Utilizzando l’osservazione diretta della flora spontanea come indicatore dei processi in corso e di quelli già compiuti nell’ambito dei siti di sua competenza, Boni giungerà ad una consolidata conoscenza scientifica dei meccanismi e degli equilibri ecologici ed ambientali nei paesaggi archeologici, arrivando ad introdurre il concetto di stabilità o di instabilità dei relativi sistemi ecologici32, e a formulare osservazioni critiche sulla presenza di specie infestanti di provenienza esotica, come l’Ailanthus altissima o la Robinia pseudo-acacia33. Nei suoi scritti, e in particolare nella Relazione difensiva del 191034, Boni tratta di flora parassitaria e di flora classica, di falciature e di pellicce erbose, di cortine vegetali, di recinzioni e alberate, di flora ornamentale e di macere35 (fig. 4). Nella rilettura delle indicazioni proposte da Boni per la gestione e cura della struttura vegetale dei siti archeologici, disponiamo della essenziale sintesi critica di Massimo De Vico Fallani, che ha ricomposto il sistema di indicazioni fornite in forma sparsa, attraverso gli anni, in una sorta di prontuario metodologico, nel quale individua sei categorie di intervento sulle quali l’autore basava il sistema di interazioni tra rudere e vegetazione: danneggiamento, abbellimento, occultamento, protezione, funzione ed integrazione dell’immagine36. In particolare, decisamente innovativi saranno i suggerimenti sull’uso della flora ruderale per l’occultamento di strutture di sostegno o di restauro, per la fruizione e la definizione dei margini di questi siti, per l’evocazione di manufatti scomparsi o profili perduti; e ancora rivoluzionarie appariranno le annotazioni sull’uso delle piante per contenere il surriscaldamento delle superfici, sulla messa a dimora di “pellicce erbose” a protezione dei colli dei muri (di cui definisce la composizione con l’aiuto di Istituti di botanica), sulla distanza di sicurezza per le piante ad alto fusto in relazione ai ruderi37… Attraverso l’opera di Boni ed il suo pluriennale lavoro sulla gestione dinamica della simbiosi tra strutture archeologiche e flora ruderale applicato nei diversi siti romani, la visione sistemica e le intuizioni proto-ecologiche di Ruskin trovano piena applicazione e vengono confermate e rafforzate dalla sperimentazione sul campo. In una visione prospettica il prezioso lascito culturale che arriva da Ruskin e viene mediato da Boni, può essere considerato generatore di due diversi filoni di ricerca: da un lato, le definizioni scientifiche del rapporto tra ruderi e vegetazione, come ad esem-
pio l’indice di pericolosità, definito da M. Adele Signorini nel 199638 o le soluzioni per la conservazione (e integrazione dell’immagine) dei manufatti in forma di rudere e dei siti archeologici, proposte dagli specialisti39. Dall’altro, le numerose esperienze progettuali rintracciabili nel corso del Novecento, come quella, paradigmatica e ormai secolare di Ninfa, dove, dagli inizi del XX secolo viene sperimentato il landscaping di un’intera area archeologica, costituita dai resti di una cittadina medioevale e dove la coesistenza controllata tra rovine e componente vegetale diviene una modalità abituale di coltivazione e cura dei luoghi per la conservazione attiva40 (fig. 5). «Take proper care of your monuments, and you will not need to restore them» John Ruskin, The Lamps of memory, cap VI §XIX.
Fig. 4 Nature archeologiche spontanee sul Palatino (foto A. Ugolini, 2014). Fig. 5 Ninfa, il ponte in rovina (foto T. Matteini, 2011).
della vegetazione infestante nelle aree monumentali, «Informatore botanico italiano», 28, 1996, pp. 7-14 riletto nel 2017 in chiave progettuale. M. A. Signorini, Le piante delle rovine e la fatica di distruggere il giardino perfetto, in L. Latini, T. Matteini, Manuale di coltivazione… cit., p.287-299. 39 Si vedano, per le reintegrazioni vegetali di lacune murarie L. Marino, Dizionario di restauro archeologico, Firenze, Alinea editore 2003, p. 228, L. Marino, Il restauro archeologico. Materiali per un atlante delle patologie presenti nelle aree archeologiche e negli edifici ridotti allo stato di rudere-il rischio nelle aree archeologiche. Firenze, Altralinea 2016, pp. 101-106. Per le ‘pellicce vegetali’ o soft capping: M. G. Filetici, A. Rambelli, G. Torraca, Protezione vegetale su strutture di tufo. Esperienze sulle pendici del palatino, «Materiali e strutture», vol.5-6, 2005, pp. 165-175, T. Matteini, A. Ugolini, Design and active conservation of archaeological landscapes. New windows of research for an interdisciplinary reading, in Conservazione e valorizzazione dei siti archeologici. Approcci scientifici e problemi di metodo, a cura di G. Biscontin, G. Driussi, Marghera-Venezia, Edizioni Arcadia Ricerche 2013, pp.519-521; T. Matteini, A. Ugolini, Trasformando lo sguardo. Il ruolo della vegetazione nella conservazione dei manufatti allo stato di rudere, in Eresia ed ortodossia nel restauro. Progetti e realizzazioni, a cura di G. Biscontin e G. Driussi, Marghera Venezia, Edizioni Arcadia Ricerche 2016, pp.464-466; Z. Lee, H. Viles, C. Wood, Soft capping historic walls. A better way of conserving ruins?, University of Oxford and English Heritage Unpublished Report, 2009; L. Marino, Il restauro di siti archeologici e manufatti edili allo stato di rudere, Firenze, DIDA press 2019, p.79. In relazione agli aspetti microclimatici indotti dalla struttura vegetale in un sito archeologico: K. Fabbri, A. Ugolini, G. Canuti, A methodology to evaluate outdoor microclimate of the archaeological site: a case study of the Roman Villa in Russi (Italy), «SUSTAINABLE CITIES AND SOCIETY», skin35/2017, pp. 107-133. Per la mitigazione degli effetti sismici dovuti alla presenza di masse boscate A. Ugolini, M. De Luca, F. Cabras, Preserving tangible heritage. Strategies for the consolidation, the construction site, and the reduction of the seismic risk of the urban aggregates of the Italian Apennines: the village of Castel d’Alfero (FC), «CAPITALE CULTURALE», XIX, 2019, pp. 292-296. Sulla gestione della vegetazione e dei ruderi di un sito: T. Matteini, A. Ugolini, Un unicum prezioso e inscindibile. Premessa metodologica, in A. Ugolini, F. Delizia, Strappati all’oblio. Strategie per la conservazione di un luogo di memoria del secondo Novecento: l’ex Campo di Fossoli, Firenze, Altralinea edizioni 2017, pp. 141-142; R. Mancini, I. Rossi Doria, Ruderi e vegetazione. Questioni di restauro, Roma, Editoria A 2017. 40 I. Rossi Doria, Coltivare le rovine: Ninfa, in L. Latini, T. Matteini, Manuale di coltivazione… cit., pp. 193-207.
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Manuela Mattone, Elena Vigliocco
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Per un maggiore approfondimento si veda L. de Rosa, La rivoluzione industriale in Italia, Roma-Bari, Laterza 1980. 2 Ivi, p. 27. 3 Riportato in O. Selvafolta, L’immagine del paesaggio tecnologico nella Lombardia del primo Novecento, in Lombardia. Il territorio, l’ambiente, il paesaggio, a cura di C. Pirovano, Milano, Electa 1984, p. 69. 4 A. Audebrand, Signification de l’expression houille blanche, «La houille blanche», 7, 1904, p. 255. 5 E. Castelnuovo, Il profeta delle Alpi, in M. Ferrazza, Cattedrali della Terra. John Ruskin sulle Alpi, Torino, Vivalda Editori 2008, p. 5. 6 L’espressione «il paesaggio è il volto amato della Patria» è stata in più occasioni attribuita a Ruskin anche se essa pare essere tratta dal volume di Robert de La Sizeranne, Ruskin et la religion de la beauté, 1897, attraverso il quale le idee e il pensiero di Ruskin vengono veicolate in Francia e in Italia. A tal proposito si veda S. Settis, Paesaggio, costituzione, cemento, Torino, Einaudi 2010, p. 146. 1
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Interventi sul paesaggio. Il caso delle centrali idroelettriche di inizio Novecento in Italia Manuela Mattone | manuela.mattone@polito.it Elena Vigliocco | elena.vigliocco@polito.it Dipartimento Architettura e Design Politecnico di Torino
Abstract The first decades of the twentieth century are the protagonists of a rapid increase in interventions aimed at the energy structuring of the national territory. Identified the water as a useful resource for the production of electricity, works are carried out (such as dams, weirs, ducts, power stations) destined to irreversibly modify nature and the landscape. The paper intends to focus on the examination of some case studies such as the sequences of hydroelectric plants on the banks of the Adda river, in Val d’Ossola and in Valtournenche. The paper will be focused not only on the moment of realization of the hydroelectric works and on the debate arising from their construction, but also on the initial deception characterising them: those interventions, which Ruskin would have abhorred because extremely impactful and that cleverly used the poetics of romanticism to convey their image, are now absorbed by the same landscapes they have modified, becoming themselves too the object of the protection advocated by Ruskin. Parole chiave Paesaggio, centrali idroelettriche, tutela
Intervenire sul paesaggio tra esigenze di sviluppo e desiderio di tutela What is the meaning of useful? […] For what is capable of use in the hands of some persons, is capable, in the hands of others, of the opposite of use, called commonly, “from-use” or “ab-use”. And it depends on the person, much more than on the article, whether it is usefulness or ab-usefulness will be the quality developed in it J. Ruskin, Unto this last, Essay IV, Ad valorem
I decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento sono connotati da un significativo sviluppo industriale dell’Italia che si manifesta non solo nell’aumento in termini quantitativi degli stabilimenti e della produzione, ma anche e soprattutto nel miglioramento qualitativo della struttura tecnico-produttiva. Nascono nuovi comparti produttivi quali l’elettromeccanica, le radio-telecomunicazioni, i trasporti su strada, mentre altri sono protagonisti di un significativo avanzamento, grazie all’ammodernamento degli impianti (si pensi ad esempio al settore metallurgico o a quello meccanico)1.
Fig. 1 Centrale idroelettrica Taccani di Trezzo d’Adda; progetto A. Taccani, G. Moretti, 1906 (fotografia Studio Publica, 2017).
Particolarmente significativo, anche in relazione alla sua influenza nei diversi comparti produttivi, è il progresso compiuto dall’industria elettrica, la cui produzione passa, nell’arco di pochi anni, da 86.175 kW (nel 1898) a oltre 1.150.000 kW (nel 1914). Ai fini della trattazione è rilevante sottolineare che circa il 75% di tale energia2 è idroelettrica: il desiderio di garantire il progressivo affrancamento della Nazione dagli stati nord-europei per quanto attiene l’approvvigionamento delle materie prime, unitamente alle specifiche caratteristiche orografiche dell’Italia che, «circondata dalle Alpi e percorsa nella sua lunghezza dall’Appennino, [risulta essere] uno dei paesi più ricchi d’acqua e di alte cadute»3, costituiscono infatti validi incentivi allo sfruttamento delle acque per la produzione di energia. La graduale sostituzione del carbone con l’houille blanche, ossia «l’énergie de l’eau courante»4, rende però necessaria la realizzazione di interventi il cui impatto sul paesaggio risulta essere decisamente rilevante. Centrali elettriche, dighe, sbarramenti, canalizzazioni colonizzano i territori montani modificandone in modo significativo il contesto naturalistico. Le Alpi, definite pochi decenni prima da John Ruskin «cattedrali della Terra»5, paradigma di maestosità e bellezza, sono sottoposte a interventi che aggrediscono la natura e il paesaggio, alterando irreversibilmente «il volto amato della Patria»6. La realizzazione di tali opere suscita numerose polemiche in diversi settori: dubbi, reazioni, avversità sono espressi sia da associazioni quali il Touring Club Italiano7 sia da esponenti del mondo della cultura e della politica e danno avvio ad un acceso dibattito avente per oggetto la tutela del paesaggio, già affrontata in altri Paesi europei8. Nel 1905, Luigi Parpagliolo9 pubblica l’articolo La protezione del paesaggio, ponendo in evidenza i danni arrecati dallo sviluppo delle industrie e dei mezzi di locomozione che, se da un lato, consentono una maggiore fruizione delle “bellezze naturali”, dall’altro attentano «ogni giorno di più, alla vergine poesia delle montagne, delle foreste, delle cascate»10. Nel ricordare che «la bellezza di certi paesaggi, una volta distrutta, più non si riproduce»11, Parpagliolo invita a valutare “caso per caso” e con grande attenzio-
7 Fondato nel 1894, esso si propone, così come riportato nel primo articolo dello Statuto, di «collaborare alla tutela ed alla educazione ad un corretto godimento del patrimonio italiano di storia, d’arte e di natura, che considera nel suo complesso bene insostituibile da trasmettere alle generazioni future». 8 Significative sono in tal senso le azioni intraprese in territorio inglese sia da Ruskin che, nel 1862, «sorse in difesa delle quiete valli dell’Inghilterra minacciate dal fuoco strepitante delle locomotive e dal carbone fossile delle officine» (citazione tratta dal discorso fatto da Benedetto Croce in occasione seduta del Senato del Regno d’Italia del 25 settembre 1920), sia da associazioni quali il National Trust, fondato nel 1895 «to preserve and protect the coastline, countryside and buildings of England, Wales and Northern Ireland» (<https://web.archive.org/ web/20111123191025/http:// www.nationaltrust.org.uk/ main/w-trust/w-thecharity/w-what_we_do.htm>). Per quanto riguarda la Francia risale al 1898 il classement delle cascate di Gimmel (Corrèze), mentre nel 1901 viene istituita la Société pour la Protection des Paysages et de l’Esthetique de la France per «défendre le patrimoine naturel et bâti» (<http:// www.sppef.fr/>).
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9 Funzionario presso la Direzione per le Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione. 10 L. Parpagliolo, La protezione del paesaggio, «Fanfulla della domenica», 36-37, 1905, cit. in L. Piccioni, Il volto amato della patria. Il primo movimento per la protezione della natura in Italia 1880-1934, Trento, Tipografia Editrice TEMI 2014. 11 Ibidem. 12 Citazione tratta dal discorso fatto da Benedetto Croce in occasione seduta del Senato del Regno d’Italia del 25 settembre 1920. 13 Ibidem. 14 Si veda a tal proposito anche l’articolo scritto dallo stesso L. Parpagliolo, Le acque, «Le vie d’Italia», febbraio 1926, pp.143-154. 15 L. Parpagliolo, La difesa delle bellezze naturali d’Italia, Roma, Società Editrice d’Arte illustrata 1923, p. 190. 16 Ibidem. 17 Ivi, p. 188. 18 J. Ruskin, The Eagle’s Nest, Londra 1872, cit. in R. Di Stefano, Presentazione al volume J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, Milano, Jaca Book 1981, p. 27. 19 A. Castellano, Archeologia industriale degli impianti idroelettrici in Valtellina, in Fortezze gotiche e lune elettriche. Le centrali elettriche della AEM in Valtellina, Milano, Aem 1991, p. 134. 20 A. Restucci, Moretti e lo stile dell’industria: centrale idroelettrica Enel, Trezzo sull’Adda 1905-1906, «Casabella», 1998, pp. 6-13.
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ne, l’effettiva necessità di sfruttamento delle risorse naturali per finalità produttive e/o economiche. Pochi anni dopo, nel 1909, il deputato toscano Giovanni Rosadi si fa promotore della necessità di includere nella legge per la tutela delle antichità e delle belle arti (L. 364/1909) anche le “bellezze naturali”. Tale proposta, sebbene non accettata, porterà nel 1922 all’emanazione del R.D. 778 Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico, per porre «un argine alle ingiustificate devastazioni»12 che venivano compiute «contro le caratteristiche più note e più amate del nostro suolo»13. Per quanto attiene in particolare lo sfruttamento delle risorse idriche, nel 1923, Parpagliolo pubblica il volume La difesa delle bellezze naturali d’Italia, nel quale non solo denuncia i danni arrecati al paesaggio da tale tipologia di interventi14, ma caldeggia anche l’individuazione di soluzioni progettuali capaci di fornire una possibile risposta all’apparente insolubile problema di conciliazione tra esigenze di sviluppo del Paese ed esigenze di salvaguardia del patrimonio paesaggistico. Infatti, il timore che l’emanazione del R. D. 778/1922 possa immobilizzare il Paese, ponendo freno alla sua crescita economica, spinge alla ricerca di possibili compromessi che, «avvantaggiando le azioni del progresso industriale»15, contribuiscano all’arricchimento del paesaggio «aggiungendo ricchezza a ricchezza»16. Tali tematiche vengono dibattute nel convegno organizzato dal Touring Club Italiano, in occasione del quale il colonnello Adami (membro del T.C.I.) presenta una relazione su La difesa del paesaggio in relazione agl’impianti idroelettrici. Questi illustra una serie di proposte progettuali tese a minimizzare l’impatto degli interventi dovuti alla progressiva elettrificazione del territorio, suggerendo di sostituire le canalizzazioni in calcestruzzo armato con canali scavati direttamente nel terreno e fiancheggiati da filari di alberi; di ridurre la visibilità delle condotte forzate mimetizzandole con colori adeguati; di progettare centrali ed edifici di servizio in modo tale che possano divenire essi stessi «elementi paesistici di buon effetto»; di contenere al massimo il numero di tralicci e cavi utilizzati, che rappresentano in genere un «inconveniente gravissimo per l’armonia del paesaggio», prestando particolare cura nel progettarli e nel collocarli17. Anche dal punto di vista operativo, le prime opere idroelettriche realizzate esprimono l’intenzione di ridurre gli impatti degli interventi, interpretando le caratteristiche dei luoghi e le loro valenze paesaggistiche, poiché, come sottolineato da Ruskin, «la più lieve deformità, la più insignificante escrescenza può danneggiare l’effetto del più nobile scenario naturale, come una nota discordante può distruggere l’espressione dell’armonia più pura»18. I professionisti impegnati nella progettazione dei nuovi impianti manifestano una certa sensibilità nei confronti dell’ambiente e delle preesistenze che si esplicita sia nel tentativo di assecondare, là ove possibile, le specificità dei luoghi andandosi a inserire in “scanalature” che naturalmente favoriscono la raccolta delle acque, sia nel tipo di proposte avanzate in fase di elaborazione della conformazione dei manufatti architettonici, così come nella scelta dei materiali utilizzati per la realizzazione degli interventi. Come sottolineato da Aldo Castellano nel trattare delle centrali della Valtellina «nei primi e migliori esempi di architettura industriale le forme non assumono mai i toni brutali dello sfruttamento di uomini e cose. Si presta anzi grande attenzione a che la fabbrica, elemento essenzialmente estraneo, si inserisca nel territorio circostante con forme dignitose e soprattutto significative per il pubblico a cui si rivolge, cioè cariche di simbolismi facilmente comunicabili»19. [MM]
La costruzione di una nuova immagine industriale: Moretti, Portaluppi e Muzio Architecture is the art which so disposes and adorns the edifices raised by man for whatsoever uses, that the sight of them contributes to his mental health, power and pleasure J. Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, Section I, Chapter I
Il momento in cui in Italia prende l’avvio il “fenomeno” elettrico è da ricondurre all’incarico che Cristoforo Crespi attribuisce all’ingegner Alessandro Taccani e all’architetto Gaetano Moretti per la progettazione e realizzazione di uno stabilimento per la produzione di energia idroelettrica destinata ad alimentare i filatoi delle sue officine nel vicino villaggio di Crespi d’Adda20. La centrale Taccani (1906), le cui forme arcaiche citano la cittadella e le opere di fortificazione del castello visconteo retrostante, rappresenta una presenza monumentale sulle sponde del fiume da cui “estrae” quello che viene chiamato “l’oro azzurro”, l’energia elettrica. L’intento del progetto architettonico di questo impianto è marcatamente quello di “intonare” la nuova fabbrica alle naturali adiacenze senza creare disaccordo con i sovrastanti ruderi. Così le forme della centrale interpretano gli elementi e i materiali della tradizione locale21 e il volume, composto della stessa materia di cui si compone il paesaggio, sembra scolpito nel fondale roccioso. Le parole di Amerigo Restucci (1998) chiariscono quella che era la pratica per cui «In tutta la seconda metà dell’Ottocento e ancora agli inizi del Novecento, la tendenza a mascherare gli edifici industriali sotto vesti retoriche e adatte ad ogni uso si manifesta dando corpo ad architetture variamente eclettiche. […] Eclettismo, innanzitutto, che restituisce […] l’incontro fra tradizione e rinnovamento»22. A Trezzo d’Adda, mentre l’ingegnere Taccani progetta la macchina, l’architetto Moretti disegna un
Fig. 2 Centrale idroelettrica di Verampio; progetto P. Portaluppi, 1912-1917 (fotografia Studio Publica, 2017). Fig. 3 Centrale idroelettrica di Valdo con annessa casa per gli operai; progetto P. Portaluppi, 1920-1923 (fotografia Studio Publica, 2017). Fig. 4 Centrale idroelettrica di Crevoladossola (particolare); progetto P. Portaluppi, 1923-1924 (fotografia Studio Publica, 2017). Fig. 5 Centrale idroelettrica di Cadarese; progetto P. Portaluppi, 1928 (fotografia Studio Publica, 2017).
21 I. Mazza, La centrale idroelettrica di Trezzo d’Adda di Gaetano Moretti, «Casa Classica», settembre 1983, p. 56.
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22 A. Restucci, Architetture nuove con rappresentazioni dell’Ottocento, in Paesaggi elettrici. Territori architetture culture, a cura di R. Pavia, Venezia, Marsilio Editore 1998, p. 117. 23 C. De Seta, Architetti italiani del Novecento, Roma-Bari, Laterza 1987, p. 83. 24 O. Selvafolta, La centrale, il committente, l’architetto, «Rassegna», 63, 1995, pp. 36-45. 25 J. Gubler, Industria dell’elettricità e plusvalore architettonico. Pillole di storia dell’arte, in Architettura Moderna Alpina in Valle d’Aosta, a cura di L. Moretto, Quart, Musumeci Editore 2003, p. 15. 26 C. E. Gadda, Scritti vari e postumi, Milano, Garzanti 1993, p. 23-67. Il fotografo che più ampiamente documentò i nuovi paesaggi elettrici fu Antonio Paoletti i cui scatti sono archiviati presso l’Archivio Fotografico AEM. 27 G. Malacarne, Centrali elettriche di Maen e Isollaz, Val d’Aosta, 1926-1927, in L’architettura di Giovanni Muzio, a cura di S. Boidi, Catalogo della mostra (Milano, 1994-1995), Milano, Abitare Segesta 1994, p. 178. 28 O. Selvafolta, La scuola di Architettura al Politecnico di Milano negli anni della formazione di Muzio, in L’architettura di Giovanni Muzio… cit., pp. 25-35.
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involucro edilizio che, ridisegnando il paesaggio fluviale, finge di essere lì da “sempre”. Se la proposta di Moretti sposa un atteggiamento quasi mimetico, quella di Piero Portaluppi, mantenendo invariata la monumentalità ottocentesca, guarda alle suggestioni decorative proposte dalla Secessione viennese e dal liberty europeo23. Allievo di Moretti, il lavoro di Portaluppi si sviluppa all’interno di un circolo culturale milanese e neo-aristocratico24 geloso «della sua appartenenza lombarda e della sua apertura al liberismo statunitense»25. Visitando le centrali di Verampio (1914), Crego (1919), Valdo (1923), Crevola d’Ossola (1924) o Cadarese (1928), non si può non apprezzare una vera e propria propensione al lusso e al dettaglio. In questi progetti la centrale diventa monumento: l’involucro smette di essere “mimetico” e acquisisce un ruolo predominante all’interno degli ambienti naturali in cui s’inserisce. La centrale non appartiene più allo “sfondo” ma assume un ruolo di primo piano rispondendo alla politica promozionale e concorrenziale delle imprese che si fonda sulla diffusione d’immagini esemplari e sulla circolazione di nuove sorprendenti e affascinanti icone26. Se l’interesse di Portaluppi si concentra prevalentemente sul disegno degli involucri, il lavoro di Giovanni Muzio fa un successivo passo avanti. Muzio inizia a lavorare per l’impresa Breda27 dopo una formazione che lo porta ad incontrare l’ingegner Ugo Monneret de Villard28, docente di archeologia medioevale e progettista della centrale idroelettrica svizzera di Bodio (1911)29. Questo edificio potrebbe aver interessato il giovane Muzio a causa della sua grande attenzione al territorio perché convinto che qualsiasi contributo progettuale dovesse essere apportato in forma collettiva e in contrapposizione «all’esasperato ed arbitrario individualismo, che nella singolarità delle trovate faceva consistere l’abilità e la fama di un progettista»30. Secondo Fulvio Irace (1994), Portaluppi e Muzio non appartengono alla medesima generazione: mentre il primo partecipa a una cultura aperta al “bizzarro”, il secondo assume quella dell’ordine31. Quando è chiamato da Ernesto Breda per disegnare in Valle d’Aosta le centrali della Sociatà Idroelettrica Piemontese Lombarda, Muzio già vanta la notorietà derivatagli dalla Cà Brüta di Milano. Una parte dei costruttori che negli anni precedenti avevano lavorato per Conti in Val d’Ossola, si ritrovano in Valle d’Aosta al servizio di Breda per realizzare gli impianti di Maen e Covalou (1928) in cui Muzio non si limita a decorare il programma tecnico stabilito a priori come gli altri prima di lui. In questi esempi egli propone un impianto tipologico inedito a due navate gemelle affiancate nella lunghezza mentre i volumi continuano a ricercare un effetto di varietà32. In questa stagione di grandi innovazioni che si scontrerà con la seconda grande guerra, le numerose centrali idroelettriche alpine e le dighe rendono omaggio alle impre-
pagina a fronte Fig. 6 Centrale idroelettrica di Covalou; progetto G. Muzio, 1926 (fotografia Studio Publica, 2017). Fig. 7 Centrale idroelettrica di Maen; progetto G. Muzio, 1928 (fotografia Studio Publica, 2017).
Fig. 8 Diga del Goillet; 1939-1947 (fotografia Studio Publica, 2017).
se e al capitale: la concorrenza industriale tra le nazioni europee consolida le strategie di difesa nazionale e le Alpi, con le loro nuove “fabbriche”, saranno solo sorvolate dalla guerra mentre il loro potenziale idroelettrico ne uscirà rafforzato. La guerra segnerà tuttavia un cambio di passo e la conferma del nuovo ruolo del progetto dell’architettura porterà alla realizzazione di centrali come quelle di Credegolo (1952), di Gordona (1953) o di Castel Giubileo (1950)33 che, diversamente dalle esperienze qui descritte, rivendicano una propria autonomia di linguaggio. [EV] Conclusioni Il progetto di architettura delle centrali idroelettriche italiane a cavallo dei secoli XIX e XX, interpretando i desideri di una nuova committenza imprenditoriale, utilizza un linguaggio comprensibile dalle comunità a cui si rivolge. Le esperienze di Moretti e poi di Portaluppi e Muzio s’inseriscono in questo quadro in cui la nuova industria, che con violenza modifica e riconfigura in modo irreversibile la natura e il paesaggio in cui s’insedia e, in quanto tale, aborrita da Ruskin, propone codici formali che percorrono la strada del compromesso tra esigenze produttive e necessaria mitigazione d’impatto paesaggistico. Oggi, queste opere, assorbite dagli stessi paesaggi che hanno modificato, ne sono ormai parte integrante. Divenute testimonianza culturale, esse «appartengono in parte a coloro che [le] costruirono, e in parte a tutte le generazioni di uomini che dovranno venire dopo di noi»34 e meritano di essere salvaguardate e adeguatamente valorizzate. [MM, EV]
<http://www.azione.ch/ societa/dettaglio/articolo/ sulle-tracce-della-vecchia-biaschina.html> 30 A. Bona, Città e architettura a Milano da Novecento al razionalismo: 1921-33, in G. Ciucci, G. Muratore, Storia dell’architettura italiana. Il primo Novecento, Milano, Mondadori Electa 2004, p. 29. 31 F. Irace, Giovanni Muzio 1893-1982, Milano, Electa 1994, p. 17. 32 «[…] per Maen insomma si imponeva l’abbandono dello stereotipo del “castello turrito” in favore di un più meditato modello di architettura montana». F. Irace, Luci moderne: Muzio, Ponti e Baldessarri e il progetto delle centrali, in Paesaggi elettrici… cit., p. 144. 33 Il progetto delle prime due centrali è di Giò Ponti mentre il terzo di Gaetano Minnucci. 34 J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p. 229. 29
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L’eredità di John Ruskin a Venezia alle soglie del XX secolo: il dibattito sull’approvazione del regolamento edilizio del 1901 Giulia Mezzalama | giulia.mezzalama@docenti.iaad.it IAAD Istituto d’Arte Applicata e Design, Torino
Abstract The paper deals with the Venetian debate on the new building code approved in 1901 and the influence of Ruskin’s ideas on it. Several personalities in Venice cultural circles, the Ruskin’s successors, militated against the brusque modern transformation of the Venetian cityscape due for example, to the introduction of cast-iron architectural elements on the facades of the ancient buildings. The new building code was so conceived as a new tool for protecting the beauty of the city, the so called “urban aesthetics”. Parole chiave John Ruskin, Venezia, regolamento edilizio del 1901
La portata a Venezia delle idee di Ruskin rientra nella eredità culturale raccolta dalla comprovata esistenza di suoi fedeli seguaci1, giovani artisti e scrittori suoi collaboratori presenti nei cosiddetti «circoli ruskiniani»2 che seppero far sentire la loro voce già in occasione dei piani di trasformazione tardottocenteschi, come l’approvazione del piano di risanamento e dei quaranta progetti di rettifica e ammodernamento della città presentati nel 18873. Non si può tuttavia parlare ancora di eredità negli anni ottanta dell’Ottocento, quando Ruskin ancora in vita, seppur malato, continua i suoi soggiorni a Venezia, sebbene il suo primo incontro con la laguna risalga a circa mezzo secolo prima. Ruskin4 arriva a Venezia per la prima volta diciassettenne nel 1835 accompagnato dai genitori, vi ritorna solo per studiare nel 1845, dopo la pubblicazione del primo volume dell’opera Pittori moderni (1843-60), e poi ancora in altre occasioni tra il 1846 e il 1888, undici volte in tutto5, per compiere studi sull’architettura che porteranno alla pubblicazione di The Seven Lamps of Architecture (pubblicato nel 1849) e The stones of Venice (1851-1853), omaggio, ma non il primo come vorrebbe uno stereotipo diffuso, all’architettura gotica e bizantina veneziana6. Dai suoi primi soggiorni in laguna Ruskin aveva preso l’abitudine di circondarsi di un gruppo di giovani artisti a cui far copiare opere d’arte da lui considerate in pericolo, pratica avviata anche in altre città italiane e in Francia. Nel 1870 si stabilisce nella città veneta con il giovane John Bunney ed entra in contatto con alcuni artisti veneziani, tra Angelo Alessandri, il toscano Raffaele Carloforti e l’architetto Giacomo Boni (1859-
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1925), grande oppositore con Ruskin dei restauri della basilica di S. Marco. Tra le personalità veneziane più significative con cui Ruskin entra in contatto va ricordata l’amicizia che lo lega a Piero Alvise Zorzi, nobile veneziano, funzionario del Museo Civico Correr, pittore e autore del testo Le Osservazioni intorno a i ristauri interni ed esterni della Basilica di San Marco, del 1877, finanziato, per quanto riguarda le spese di pubblicazione dallo stesso Ruskin7. Boni, Zorzi e Alessandri erano veneziani di nascita, Carloforti, di Assisi, vi si era trasferito, ma erano tutti ugualmente studenti dell’Accademia, tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta Ruskin li aveva sostenuti moralmente, intellettualmente e finanziariamente8. È in realtà sul finire del secolo, dopo alcuni anni dagli ultimi soggiorni di Ruskin in laguna, che riaffiora l’eredità intellettuale del teorico inglese. Nel momento in cui in tutta Europa si discute sulla trasformazione in chiave moderna delle città, in cui si progettano le nuove metropolitane, si costruiscono le prime case in cemento armato, si mettono in pratica gli esiti fortunati della rivoluzione meccanica, le idee ruskiniane – il colore, i rapporti armonici, le proporzioni – si pongono come il presupposto di una linea di difesa nei confronti non solo dei grandi monumenti, ma della bellezza della città. A Venezia tale discussione avviene in occasione del dibattito sull’approvazione dei nuovi regolamenti edilizi. L’ipotesi che un’attenzione particolare sulla trasformazione della città investa l’Europa, trova conferma nella necessità, condivisa all’interno delle varie amministrazioni cittadine, di rivedere le norme per la costruzione edilizia nei due decenni a cavallo del XX secolo, non solo nelle capitali europee, Parigi, Lisbona, Berlino, Londra, ma anche in molte città italiane. Nel 1893 la commissione preposta alla revisione del regolamento edilizio di Venezia, che pur gode di caratteristiche che la rendono non paragonabile alla maggior parte delle città italiane, guarda ai regolamenti di Genova, Firenze, Roma, Pavia, Milano.9 Bisogna dire che in Italia, la necessità diffusa di rivedere i regolamenti cittadini è esito anche dell’approvazione della legge comunale e provinciale del 1888 che obbliga i comuni a indicare le norme per l’altezza degli edifici in rapporto all’ampiezza di strade e cortili10. Proprio il dibattito intorno all’approvazione del nuovo regolamento edilizio per la città di Venezia offre l’occasione per riprendere, o meglio per continuare, l’acceso dibattito che aveva animato il clima culturale veneziano tardo ottocentesco. Alla fine del secolo la commissione preposta alla revisione del regolamento propone di porre fine, con norme più rigide, al continuo abuso delle licenze edilizie e al conseguente verificarsi di danni, “scempi” al patrimonio architettonico e propone quindi di «invitare la Giunta a provvedere a una riforma del regolamento edilizio, il quale, mentre dovrebbe affermare il rispetto voluto dalla legge per la proprietà privata, non dovrebbe far piccola parte alle esigenze dell’arte e del decoro veneziano»11. La pubblicistica e l’opinione pubblica esprimono il proprio parere sulla proposta del nuovo regolamento richiamando in causa alcuni degli elementi e delle espressioni care a Ruskin sull’idea di Venezia, e appellandosi a quei “valori tipici”: il colore, la policromia, la varietà. La posizione dei difensori dei valori ruskiniani passa attraverso la nascita di un’istituzione, che ha radici comuni con la Francia e con altre città italiane ed europee, la Società nazionale per l’arte pubblica. Nata a Venezia nella primavera del 1899, pochi mesi dopo la nascita di quella fiorentina12, intesse rapporti con la Société de l’Art Public di Parigi13. Nel 1899 infatti la sezione veneziana della Società Nazionale dell’arte pubbli-
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ca, stende un memoriale da inviare al sindaco veneziano, poi pubblicato dalla Gazzetta degli Artisti, che riporta le parole del suo presidente, Pompeo Gherardo Molmenti (1852-1926), politico e storico veneziano di grande rilievo14. Dalle pagine del memoriale si legge: La Società italiana per l’arte pubblica ha inscritto nel suo statuto, fra le ragioni essenziali della sua attività, lo scopo preciso di curare che negli edifizi e negli oggetti di privata utilità, comunque esposti al pubblico, siano tutelate le ragioni dell’arte […]. Il programma compilato, si riferisce all’adozione di provvedimenti che tutelino la bellezza della città dagli sfregi che continuamente le infliggono la ignoranza, la grettezza e il cattivo gusto: e comprende osservazioni sul colore delle case, sull’uso del ferro, sulla disciplina dei battelli a vapore nel Canal Grande, sul trasporto di alcune sponde di pozzi (vere) dal Museo nelle piazze, e su altre questioni minori15.
Emergono dalle parole di Molmenti due i temi che immediatamente richiamano a un’eredità di Ruskin nel dibattito veneziano: il colore come elemento caratteristico dell’architettura e dell’identità urbana e il rifiuto dell’uso dei materiali della modernità come il ferro. Come ha sintetizzato Giovanni Leoni, Ruskin sostiene infatti che «il ferro è inadatto all’architettura perché consente strutture troppo sottili che distruggono il necessario effetto di massa. Ugualmente, tale effetto viene distrutto dal vetro con la sua trasparenza»16. Ben altro però è dato vedere lungo la via che fu definita specchio alla doppia fila di palazzi ricamati nel marmo. […] Stanze innestate negli archi delle porte, e per logica di comodo, terrazzini di ghisa sporgenti dagli improvvisati balconi; pesanti poggiuoli con balaustrate del seicento su palazzi bizantini: sostegni e ripari di tende cresciuti a proporzione di monumenti. […] Ma è lecito deplorare l’uso delle sbarre di ferro lungo le fondamenta e sui ponti. Dove i parapetti e le sponde sono di muro, le linee loro si imboccano e si rincorrono continue ondulate, armoniose, vermiglie: dove sono di ferro, ogni bellezza di linee e di colore è perduta, perché i pilastrini che sorreggono la ghisa, spezzano e scompongono ogni continuità ed armonia di linee, mentre molta miseria di pianterreni rimpiange la perduta pietà delle fasce dissimulatrici17.
Anche la volontà di “disciplinare” i battelli a vapore trova radici nel rifiuto di Ruskin verso una modernità che ha a che fare con il progresso e l’introduzione delle macchine nella società veneziana, verso quella che definiva «la nube tempestosa del diciannovesimo secolo»18. Scrive Ruskin a proposito dei battelli a vapore: Non posso scrivere questa mattina a causa del continuo fischiare dello sporco vaporetto pubblico per il Lido, che aspetta al molo di Palazzo Ducale la sporca popolazione di Venezia, che ora non è né carne né pesce, non è composta né da nobili né da pescatori; – non può permettersi di farsi portare in gondola, né ha forza o spirito sufficienti per mettersi essa stessa alla voga; invece fuma e sputa su e giù per la Piazzetta per tutto il giorno e si fa portare al Lido da una caffettiera fischiante il mattino successivo, per ritemprarsi in vista di nuove fatiche del fumo19.
Pompeo Molmenti si era schierato a favore della difesa della città lagunare20 citando proprio lo «straniero» così presente a Venezia: A Venezia non sono i monumenti soltanto che destano l’ammirazione del mondo, ma l’aspetto della città. “Se vogliamo”, esclama John Ruskin “noi possiamo edificare copie della chiesa di San Marco, da noi stessi in Inghilterra od in America, ma noi vogliamo vedere a Venezia la basilica”21.
Bisogna dire che Pompeo Molmenti non figura direttamente tra i discepoli di Ruskin, era infatti un politico e non un artista o uno scrittore come i giovani di cui si circonda l’inglese a partire dagli anni settanta. Bisogna anche ammettere che la visione di Molmenti non sempre sposava in pieno le idee di Ruskin, come già ricordato, ma è proprio
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tra i sostenitori dell’articolo del 1887, Delendae Venetiae, che figuravano tra gli altri artisti firmatari del documento alcuni dei discepoli, come Angelo Alessandri. Proprio la risonanza di quell’articolo, insieme a quello del Boito, Venezia che scompare22, avrebbe contribuito a scuotere l’opinione pubblica fino alla completa revisione del progetto comunale23. Già noto per le sue posizioni sul piano veneziano e su altri temi riguardanti la trasformazione di Venezia, come la formazione del ponte carrozzabile di collegamento con la terraferma alla fine del secolo, o l’insediamento di nuovi stabilimenti industriali24, è forse nel meno noto articolo sul nuovo regolamento edilizio, comparso sulla Gazzetta degli Artisti nel 1899, prima citato, che Pompeo Molmenti, come presidente della sezione veneziana della Società nazionale per l’arte pubblica, rivolge il suo più accorato appello al sindaco per evitare la trasformazione della città. Molmenti riconosce infatti, proprio per il suo tendere a considerare patrimonio da tutelare l’insieme urbano e non il semplice monumento, il pericolo di una trasformazione radicale celato dalle proposte del nuovo regolamento edilizio25, La pubblicistica e le parole degli intellettuali, come Boito e Molmenti, riportano questa più complessa percezione dell’immagine urbana, che pone ora al centro, come altre città europee26, l’idea di un’estetica veneziana (termine ricorrente nelle pubblicazioni internazionali, da l’Esthétique des villes, di Charles Buls o L’esthétique de la rue di Gustave Kahn per citare gli esempi francofoni). Così Saccardo a proposito dei regolamenti edilizi descriveva Venezia dalle pagine de «La Difesa» nel 1910. Venezia infatti non è soltanto un complesso di monumenti, è tutta un monumento. Lo è nel centro meraviglioso del suo San Marco e nella linea superba del Canal Grande, ma lo è ancora nella calle più umile e nella parte più remota e modesta della città. Lo è nella conformazione artistica dei palazzi e delle chiese di tutti i suoi diversi stili e nella varia e ridente forma delle sue abitazioni. Lo è nella policromia pittoresca dei suoi muri, a cui la salsedine e le intemperie donano riflessi d’una stupefacente armonia e nella patina di cui il tempo ha rivestito le sue pietre e i suoi marmi. Lo è nella linea spezzata che tutta investe la città, fugando la monotonia che sarebbe propria di una viabilità così angusta, e nel mistero dei suoi canali, elemento insuperabile di poesia. Lo è nei ghetti, nei suoi ponti, nelle sue altane, in tutto quel complesso vario, multiforme, indefinibile che si sente e non si può descrivere, simile agli infiniti moti impercettibili di un volto, vera fisionomia della città, e che per Venezia si chiama venezianità27.
È proprio nella “patina del tempo che riveste le pietre e i suoi marmi” si riscontra l’eredità intellettuale e culturale di John Ruskin a Venezia, nel riferimento agli elementi naturali ed in particolare geologici che fanno parte dell’architettura stessa; la linea del Canal Grande non è infatti solo un fondale scenico, ma parte integrante delle facciate degli edifici, la salsedine e ancora il forte richiamo agli aspetti cromatici che emergono dal connubio tra architettura e natura (l’acqua del canale). Mentre altre città si preoccupano delle più tolleranti norme che determinano l’altezza degli edifici, Venezia si preoccupa del colore delle sue case, un colore lentamente sparisce e che è simbolo di una Venezia che scompare28. Del colore di Venezia non è più il caso di parlarne perché non esiste più. Il processo di scolorimento tenacemente perseguito per anni ha ormai così bene compiuto l’ufficio suo, che tolte poche macchie di rosso, sommariamente segnate qua e là, nella massa grigia delle case, dal capriccio frettoloso di qualche forestiere, nulla più rimane che possa vantare titolo di policromia artistica. [...] Compiendo il giro del Canal Grande, le scene di lesa estetica che si succedono nel cinematografo del vaporetto sono tali e tante, che la raccolta si può dire, nel genere suo, completa e perfetta29.
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Giulia Mezzalama
RA
Fig. 1 Regolamento Edilizio per il Comune di Venezia, C. Ferrari, Venezia 1900 (Archivio Municipale di Venezia). Fig. 2 Lo sventramento di Venezia, Giovanni Alzetta editore, Venezia 1887.
Le feroci polemiche degli anni ottanta dell’Ottocento sull’assenza di politiche di salvaguardia, non trovano infatti pronta risposta da parte dello Stato che, pur individuando alcuni possibili strumenti e organi amministrativi (come gli Uffici regionali per la conservazione dei monumenti), non fornisce strumenti operativi ma solo linee di indirizzo, lasciando decisioni e poteri esecutivi alle singole amministrazioni comunali. Ed è proprio per questo motivo che il regolamento edilizio appare essere l’unico strumento a Venezia per l’attribuzione di poteri decisionali, all’unico organo preposto in qualche modo alla tutela del patrimonio storico artistico: la commissione d’Ornato. Successivamente modificato nel 1908 ma rimasto sostanzialmente invariato fino al 1919, il regolamento risponde alle polemiche e anticipa, di fatto, i provvedimenti statali. Il dibattito a scala nazionale avrà infatti come esito, ma solo alcuni anni dopo, l’entrata in vigore di Le leggi di tutela nazionale, già in discussione dagli anni ottanta dell’Ottocento, ma approvate solo nel 1902 e nel 1909.
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1 L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini editore, 2006. 2 Cfr. J. Clegg, Ruskin and Venice, London, Junction Books 1981. 3 Cfr. G. Bellavitis, G. Romanelli, Venezia, Roma Bari, Laterza 1989. 4 Cfr. R. Hewison, Ruskin a Venezia. Ruskin in Venice, The British Centre, Venezia, La Stamperia di Venezia 1983 (1à ed. 1978). 5 Ci ritornerà poi nel 1869 come Professor of Art dell’Università di Oxford, nel 1970, 1972 e nel 1876, un anno dopo la morte della seconda moglie Rose. Cfr. R. Hewison, Ruskin a Venezia… cit. Cfr. J. Clegg, Ruskin and Venice… cit. 6 Cfr. G. Zucconi, Venezia, prima e dopo Ruskin, in L’eredità di John Ruskin… cit., pp. 270-282. 7 Cfr. J. Clegg, Ruskin and Venice… cit., p. 185; M. Dalla Costa, La Basilica di San Marco e i restauri dell’Ottocento. Le idee di E. Viollet-le-Duc, J. Ruskin, e le “Osservazioni di A. P. Zorzi, Venezia, La Stamperia di Venezia 1983, p. 14. Cfr. A. P. Zorzi, Ruskin in Venice, «Cornbill Magazine», n. 122, N. S. August 1909. 8 J. Clegg, Ruskin and Venice… cit., p. 183. Cfr. A. P. Zorzi, Ruskin in Venice… cit., pp. 257-258. Tra i membri di questi circoli informali Zorzi menziona anche il professore Rinaldo Fulin, membro della Deputazione per la Storia Patria. 9 Il 15 gennaio 1893, il Sindaco di Venezia invia ai Sindaci di Roma, Firenze, Genova, Milano, Torino, Napoli, Bologna una copia del Regolamento Edilizio vigente a Venezia. 10 Cfr. C. Albertini, Sulla nascita delle commissioni edilizia, «La Casa», giugno 1923. 11 AMV, Rubrica Edilizia, Ornato, Commissione e regolamenti edilizi, 1890-1894, X. 2. 9, 23 maggio 1891. 12 Dopo la nascita della prima società a Firenze si attesta al 1901 la presenza di altre società in Italia, a Roma, a Napoli, Bologna, Siena. 13 Relazione della Commissione nominata dalla Presidenza della Società per l’Arte Pubblica nel primo biennio della sua esistenza – letta nell’adunanza generale del 31 marzo 1901, Venezia, Nuova tipografia Commerciale 1901, p. 10. 14 Cfr. M. Donaglio, Un esponente dell’élite liberale: Pompeo Molmenti politico e storico di Venezia, Venezia, Istituto Veneto di Scienze 2004. 15 Per L’arte Pubblica. Relazione della Commissione al Sindaco di Venezia, «Gazzetta degli Artisti», V, n. 115, 13 settembre 1899, p.1. Il documento nella prima stesura originale Osservazioni e proposte della sezione Veneziana della Società Nazionale per l’arte pubblica nei riguardi dell’edilizia veneziana. AMV, Rubrica Edilizia, Ornato, Commissione e regolamenti edilizi 10 ottobre 1899, 1900-1905, X.2.1. 16 John Ruskin. Opere, a cura di G. Leoni, Roma Bari, Laterza 1987, p. 119. 17 Osservazioni e proposte della sezione Veneziana cit. 18 R. Hewison, Ruskin a Venezia… cit., p. 67 19 R. Hewison, Ruskin a Venezia… cit., p. 55. 20 Cfr. Lo sventramento di Venezia. Polemica. Progetti della Giunta Municipale, Delendae Venetiae di P. G. Molmenti, Articoli del Bacchiglione, della Difesa e della Riforma, Deliberazioni del Consiglio Accademico, Lettera di P. G. Molmenti, Rimostranze degli Artisti italiani, Venezia, Giovanni Alzetta editore 1887. L’espressione è citata da Molmenti in Lo sventramento di Venezia cit., p. 19. 21 P. Molmenti, Delendae Venetiae, in Lo sventramento di Venezia… cit., p. 25. 22 C. Boito, Venezia che scompare. Sant’Elena e Santa Marta, «Nuova Antologia», s. II, 41, 1883, pp. 629645. 23 Cfr. Venezia nell’Ottocento. Immagini e mito, a cura di G. Romanelli, G. Pavanelli, Milano, Electa 1983, pp. 444-446. 24 Cfr. M. Donaglio, Un esponente dell’élite liberale… cit., pp. 229-231. 25 Cfr. Relazione della Commissione nominata dalla Presidenza della Società per l’Arte Pubblica nel primo biennio della sua esistenza – letta nell’adunanza generale del 31 marzo 1901 Venezia, Nuova tipografia Commerciale 1901. Biblioteca Marciana, MISC B 3016. 26 Cfr. D. Calabi, Parigi. L’arte urbana in Europa: alcune categorie concettuali nelle parole dei suoi teorici, in L’architettura delle trasformazioni urbane, 1890-1940, atti del XXIV Congresso di Storia dell’Architettura, Centro di studi per la storia dell’architettura (Roma 10-12 gennaio 1991), a cura di G. Spagnesi, Roma, Editeam 1992, pp. 49-57. 27 F. Saccardo, Per la tutela dell’estetica veneziana. La riforma della Commissione all’Ornato, «La Difesa», XLIV, n. 267, 24-25 novembre 1910, p. 1. 28 Molmenti cita questa espressione di Boito («Nuova Antologia», fasc. XX, 15 ottobre 1883), nelle prime righe del suo scritto Delendae Venetiae, pubblicato in Lo sventramento di Venezia… cit., p. 9. 29 Per L’arte Pubblica. Relazione della Commissione al Sindaco di Venezia, «Gazzetta degli Artisti», anno V, n. 115, 13 settembre 1899, pag. 1.
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Giovanni Minutoli
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L’estetica ruskiniana nello sviluppo della normativa per la tutela del patrimonio ambientale Giovanni Minutoli | giovanni.minutoli@unifi.it Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
Abstract John Ruskin’s figure grows in the uprising industrial age of a contradictory English society in the relationship with conservancy of the cultural heritage. This state of mind brings Ruskin thoughts upon restoration as constant maintenance of the building, «Uninterrupted activity of stonemasons and masons who are replacing the old fragments with new ones». In Italy we will have to attend the launch of the law #1089 in 1939, written by the confrontation of Gustavo Giovannoni and Giuseppe Bottai in order to promote not only architectural artifacts as monuments but the urban and social contest. We must admit far more important then the Ruskin lesson the thoughts of Camillo Sitte. Today more then ever we have the urge to rebuild form the inside the awareness of the historical heritage. At this point it’s possible to open the discussion about Ruskin theories (referring to Bottai law n1497), to fulfill the massage of one of the most important mind of the 19th century. Parole chiave Tutela paesaggistica, memoria, estetica, restauro
L. Galli, Restauro architettonico. Lettura dei maestri Antologia critica, Milano, Hoepli 2016, pp. 65-85. 2 J. Ruskin, Economia politica dell’arte, trad. di L. Angelini, Torino, Bollati Boringhieri 1991, p. 81. 1
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La personalità di Ruskin si sviluppa all’interno di una società inglese pervasa da profonde contraddizioni, l’industrializzazione, che ha visto lo spopolamento dei piccoli centri a favore delle grandi città (fonte primaria dell’alienazione umana), e il nascente socialismo utopico, di cui in seguito Karl Marx (1818-1883) sarà il principale esponente, che valuta come elemento di sviluppo il miglioramento delle condizioni di vita dei “nuovi cittadini”. La Londra vittoriana della prima metà dell’Ottocento è lo specchio di queste contraddizioni: la città appariva come un insieme caotico di edifici densamente abitati, avvolta da una coltre grigia causata dall’inquinamento dovuto alle fabbriche che “assediavano” il centro urbano. I piccoli centri, invece, erano sempre più isolati e in preda all’abbandono, in questo momento storico la tutela del patrimonio storico architettonico inglese è per lo più inesistente come lo stesso Ruskin1 afferma in The Political Economy of Art (1857); gli inglesi erano più interessati alla conservazione nelle pinacoteche di opere pittoriche di mediocre fattura invece di procedere alla conservazione degli edifici storici2. Le teorie ruskiniane sulla tutela del patrimonio storico artistico trovano entusiasti estimatori nel mondo culturale anglosassone (meno nelle altre nazioni europee); se-
condo Ruskin il restauro è da interpretare come manutenzione costante del manufatto e non come attività ininterrotta di scalpellini (si riferisce ai lavori in corso al campanile di Giotto in fase di realizzazione durante la sua visita a Firenze nel 1872) e muratori che agli antichi frammenti ne vanno sostituendo di nuovi (…), (trasformando il monumento in n.d.r.) una copia (…), di cui rimangono senza dubbio alcune parti originali, ma che nell’insieme ha perduto il potere di suscitare emozioni.
L’autore continua: Mi chiederete cosa farei di fronte all’alternativa fra il restauro e la rovina di un edificio. Ebbene: se ne abbia la massima cura e quando le cure non basteranno più a impedirne la rovina, lo si lasci rovinare palmo a palmo, ma non lo si ritocchi3.
Lo stesso tipo di attenzione viene da lui posta nei confronti della tutela del paesaggio che ha per lui una doppia valenza: in primis quella di salvaguardia del “creato”, manifestazione di Dio, tipica visione protestante del mondo; in secondo luogo come fattore di “bellezza” da salvaguardare in quanto integrato con l’architettura. Apparentemente il tema del paesaggio, come bene da tutelare e conservare, non è chiaramente trattato negli scritti dello storico britannico; il suo contributo allo sviluppo della “coscienza ambientale” è esplicitato nell’aforisma 29 la terra è qualcosa che riceviamo in eredità, che non possediamo, lampada della memoria, nelle Sette lampade dell’architettura, lui scrive: L’idea del sacrificio per amore del prossimo del praticare un economia del momento consente per il bene dei nostri genitori ancora non nati, di piantare foreste affinché i nostri discendenti possono vivere sotto le loro ombre, o di innalzare città per i futuri popoli, mai, inviando la ritengo, potranno trovare qualche favore tra le ragioni che portino pubblicamente a sostegno delle nostre ossessioni. Tuttavia, questi non sono i minori dei nostri compiti; né avremmo sostenuti adeguatamente la nostra parte sulla terra; a meno che la porta della nostra voluta e deliberata utilità includa non soltanto i compagni ma anche successori del nostro pellegrinaggio. Dio ci ha dato in prestito la terra per la nostra vita; è un’immensa eredità. Essa appartiene altrettanto fortemente a chi verrà dopo di noi, a coloro il cui nome è già scritto nel libro della creazione, come a noi ora; noi non abbiamo alcun diritto, con ciò che facciamo o trascuriamo, di coinvolgerli in una punizione superflue o privarli dei benefici che è stato nelle nostre possibilità di trasmettere loro4.
Se analizziamo attentamente il concetto di restauro sviluppato da Ruskin che prevede la manutenzione come unico intervento plausibile si vede come: l’ambiente, il paesaggio e in generale la natura si conservano facendo continui e incessanti interventi di manutenzione che ne garantiscono la produttività ma anche l’aspetto. Se a queste considerazioni inerenti il suo pensiero si aggiunge una attenta analisi dei suoi disegni5 si vede come l’architettura è immersa nell’ambiente urbano e naturale in cui si trova. I suoi disegni, a differenza di quelli di Viollet le Duc6, quasi sempre tecnici e ricchi di dettagli costruttivi, si presentano come poco tecnici e più “sensoriali” quasi a voler trasmettere la complessità delle architetture che si volevano rappresentare attraverso la lettura di queste nel contesto in cui si trova. Il disegno per gli studiosi dell’epoca, ma anche per i contemporanei, è un modo per comprendere il mondo a tutte le scale: dal dettaglio fino all’urbano, dall’edilizio all’ambientale. Sarà William Morris ad esprime in maniera chiara il pensiero di Ruskin in merito al paesaggio e alla sua tutela valutando il “paesaggio” come una vera “opera d’arte”: risposta all’industrializzazione che ha favorito lo sfruttamento del territorio7.
J. Ruskin, Mornings in Florence, Londra, George Allen 1875. Inoltre, F. Gurrieri, Mornings in Florence. Una lettura dal vivo, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006, pp. 156-159. 4 J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, intr. di R. Di Stefano, Milano, Jaca Book 1981, Aforisma 29. 5 J. Ruskin, Gli elementi del disegno, Milano, Adelphi 2009. 6 In realtà la pubblicazione di alcuni disegni poco conosciuti o inediti da parte di Emanuele Romeo evidenziano come nelle corde di Viollet le Duc siano presenti entrambe le capacità di rappresentazione una più tecnica e una più di contesto rivelando dei registri poco conosciuti. E. Romeo, Viollet le Duc estimatore dell’architettura classica: dalla conoscenza archeologica agli interventi di restauro, in Eugène Emmanuel Viollet le Duc. Contributi per una rilettura degli scritti e delle opere (1814-2014), a cura di E. Romeo, Roma, WriteUp Site 2019, pp. 27-76. 3
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Giovanni Minutoli
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W. Morris, Notizie da nessun dove, trad. di S. Stratta, intr. di P. Portoghesi, Roma, Editori Riuniti 2013. 8 G. de Martino, La ricaduta del pensiero di Ruskin sulla cultura italiana del XIX e XX secolo, in La cultura del restauro. Teoria e fondatori, a cura di S. Casiello, Venezia, Marsilio 2001, pp. 145-146. Cfr. G. Rocchi, Camillo Boito e le prime proposte normative del restauro, «Restauro», III, 15, 1974, p. 53. 9 «Atti parlamentari», Senato del Regno, Legislatura XXV, 1ᵃ sessione 1919-1920, Documenti, Disegno di legge presentato dal ministro dell’istruzione pubblica (Croce) nella tornata del 25 settembre 1920, n. 204, p. 1; Ivi, Camera del Regno, Legislatura XXV, sessione 19191921, Documenti, Disegno di legge approvato dal Senato del Regno nella seduta del 31 dicembre (ma gennaio) 1921 presentato dal ministro dell’istruzione pubblica (Croce), n. 1274, p. 3. 10 S. Settis, discorso all’Università di Venezia Ca’ Foscari nel 2011. 11 Cfr. F. Gurrieri, I principi storici legislativi sulla tutela ambientale e paesaggistica, in Restauro del paesaggio, a cura di F. Gurrieri, S. Van Riel, M.P. Semprini, Villa Verrucchino, Alinea 2005, pp. 9-23. 7
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Lo stesso Camillo Boito, maggior esperto di restauro contemporaneo di Ruskin, sminuisce il suo pensiero e le sue teorie valutandole come la scelta “romantica” di dare valore alle rovine, anche se afferma che non basta “serbare” i monumenti ma «conviene serbare ai monumenti l’ambiente»8. Al contrario invece il critico inglese proponeva di “curare” il manufatto con interventi di manutenzione costanti che avessero l’effetto che hanno sul territorio i continui interventi che gli agricoltori applicano nella coltivazione dei loro terreni. Nella consapevolezza che l’uomo non si può opporre al passare del tempo. In realtà sul territorio italiano, tra gli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento, si andava sviluppando una certa attenzione nei confronti del paesaggio: tre rescritti Borbonici del 19 luglio 1841, 17 gennaio 1842 e 31 maggio 1853 (Ruskin aveva tra i 22 anni e i 33 anni) impediscono la realizzazione di alcuni edifici perché i suddetti immobili avrebbero causato la perdita di prospettiva e quindi di panorama, di via di Mergellina, di Posillipo, di Campo di Marte e di Capodimonte, divenendo uno dei primi documenti in cui il paesaggio diventa elemento da tutelare9. In Inghilterra si inizia a parlare di tutela del paesaggio solo negli anni Sessanta dell’Ottocento, questa è però demandata ad associazioni di cittadini che con vari mezzi sensibilizzano le comunità e ottengono “per volontà popolare” la salvaguardia di alcuni contesti territoriali. Per avere una vera e propria legge di tutela in Inghilterra bisognerà aspettare gli anni Trenta del Novecento. Poco o nulla delle teorie ruskiniane hanno influenzato le politiche urbanistiche europee ottocentesche e primo novecentesche: le politiche di “risanamento sanitario”, che nella seconda metà dell’Ottocento cancelleranno porzioni significative di città storiche ne sono il riscontro. Dopo Morris il pensiero e le teorie di Ruskin sulla tutela del “creato” sono sistematizzate e codificate dallo storico austriaco Alois Riegl, che nel 1903 pubblica Der moderne Denkmalkltus, volume in cui sollecita la protezione dei “monumenti naturali” come metodo per recuperare le “bellezze del mondo”; l’architettura e la natura, e più in generale in contesto in cui questa si trova, devono costituire una “inscindibile unità formale”. Tutelare il paesaggio significa tutelare la mutevolezza della natura, garantendo una conservazione “infinita” della bellezza; se restaurare un bene architettonico significa rallentare il suo deperimento, conservare il paesaggio significa conservarne le peculiarità per l’eternità. La legge del 12 giugno 1902 n. 185 che all’articolo 13 prevede: «Nei comuni nei quali esistono monumenti soggetti alle disposizioni della presente legge potranno essere prescritti, per il caso di nuove costruzioni, costruzioni ed alzamenti di edifici, le distanze e misure necessarie allo scopo che le nuove opere non danneggino la prospettiva o la luce richiesta dalla natura dei monumenti stesso salvo un compenso equitativo secondo i casi in cui il regolamento in esecuzione della presente legge», anticipa la pubblicazione del testo di Riegl e si pone ancora sulla scia della formazione culturale italiana. Sulla scorta della norma del 1902 viene, nel 1905, redatta la legge 411 che dichiarava la Pineta di Ravenna “monumento nazionale” valutando la pineta come luogo di «memoria d’arte e di letteratura»10. Il 20 giugno 1909 viene promulgata la legge n. 364 che all’articolo 14 esprime esattamente i concetti della legge precedente, concetti ribaditi nella legge n. 388 del 23 giugno 1912 all’articolo 311. Parallelamente in Europa: il Granducato di Hess, nel 1902, la Baviera, nel 1904, l’Austria nel 1905, la Francia, nel 1906, sviluppano le loro norme per la conservazione del paesaggio; leggi che vedono l’Inghilterra come ultimo normatore nel 1932.
Il primo in Italia a fare suo il pensiero di Ruskin sulla tutela del territorio è Benedetto Croce che diviene il redattore “morale” e “culturale” della legge n. 778 del 1922. La norma risente delle influenze europee cercando di evitare la costruzione di “sipari” alla fruizione del paesaggio. Il concetto di tutela del paesaggio e delle bellezze naturali è scisso da quello di tutela dei monumenti. All’articolo 11 si prescrive: «Sono dichiarate soggetti a speciale protezione le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale e della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria sono protetti altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche». Nel discorso di presentazione del disegno di legge discusso alla camera dei Senatori il 25 settembre 1920, Croce riferisce lo stato dell’arte in campo di tutela del paesaggio in Europa e di come Ruskin sia stato uno dei più ferventi sostenitori di questa politica di salvaguardia già dal 186212. In questo ambiente culturale, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, si forma la “coscienza critica” di Gustavo Giovannoni che si pone come termini di riferimento una sorta di confine tra la visione ruskiniana del restauro e quella dettata da Viollet le Duc. La conoscenza del tedesco e dell’inglese fanno sì che Giovannoni legga i testi di Ruskin, Riegl, Sitte e Morris, prima degli altri colleghi italiani che non parlavano queste lingue. La lettura di questi autori ha fatto sì che Giovannoni sviluppasse quei concetti di tutela che lo vedranno come “vero” redattore delle due norme del 1939, reinterpretando il pensiero di questi scrittori d’Oltralpe e rendendolo strumento legislativo tra i più moderni d’Europa. Pensiero espresso ampiamente da Giovannoni nel suo articolo all’interno del n. 5 della rivista Urbanistica del 1938, in cui specifica come l’architettura è parte integrante della città e del contesto in cui si trova. Giovannoni considerato quanto si stava muovendo in ambito europeo e all’interno di una linea normativa già individuata dalla legge del 1922 sviluppa: prima il suo concetto di tutela e successivamente, grazie al dialogo attivo e prolifico con Giuseppe Bottai, la norma per la tutela del patrimonio storico architettonico, la legge 1089 del 1939, e di salvaguardia del paesaggio, la legge 1497 del 1939. Il ministro Bottai, estensore della legge, politico cresciuto alla corte di Mussolini e di Marinetti, poeta dilettante e volontario della guerra del 1915-18 comprende come la sua formazione non è sufficiente alla stesura della legge sulla tutela del patrimonio del paesaggio, e per questo intraprende un lungo confronto con Giovannoni. La legge 1089 si basa sulla comprensione di alcuni principi espressi e sviluppati da Boito e da Sitte, mentre nella 1497 si trova un più concreto riscontro del pensiero ruskiniano “protezione delle bellezze naturali”, dove l’estetica di Ruskin diventa momento di tutela in cui non sono da tutelare esclusivamente gli edifici e contesti urbani in cui si trovano ma anche: «art.1) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica; art. 2) le ville, i giardini e i parchi che (…) si distinguono per la loro non comune bellezza; art. 3) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale». Valutare le architetture iconiche e il contesto architettonico in cui si trovano con un unico e inscindibile bene riuscendo a trasmettere nella norma, il concetto di valore estetico della bellezza della natura, di singolarità geologica e di non comune bellezza. Riprendendo nella legge e nelle successive circolari tutti quei concetti inerenti all’estetica e le bellezze naturali tanto care a Ruskin13.
S. Settis, discorso all’Università di Venezia… cit. 13 In realtà la legge vuole avere anche delle finalità pratiche con l’obbligo di redazione di piani paesaggistici in contesti vincolati, piani che saranno molto osteggiati e che verranno realizzati solo in quantità limitata. Cfr. G. Minutoli, Piani Territoriali Paesistici adottati nell’Italia centro eeridionale, dopo l’entrata in vigore della legge 1497/1939, in Degrado del paesaggio e complessità territoriale, a cura di S. Van Riel, M.P. Semprini, Villa Verrucchino, Alinea 2005, pp. 141-150. 12
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Lucina Napoleone
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L’attualità di John Ruskin: Architettura come espressione di sentimenti alla luce degli studi estetici e neuroscientifici Lucina Napoleone | napoleone@arch.unige.it Dipartimento Architettura e Design Università di Genova
* Tutti testi citati vengono indicati nella sola edizione consultata. 1 Per una panoramica sull’empatia e sul suo ruolo nella cultura contemporanea cfr. A. Pinotti, Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano, Roma-Bari, Laterza 2011; L. Pizzo Russo, So quel che senti. Neuroni specchio, arte ed empatia, Pisa, ETS 2009. 2 E. R. Kandel, Arte e Neuroscienze. Le due culture a confronto, Milano, Raffaello Cortina 2017; C. Cappelletto, Neuroestetica l’arte del cervello, Roma, Laterza 2009. 3 Tra i titoli più recenti: T. Griffero, Quasi-cose: la realtà dei sentimenti, Milano, Bruno Mondadori 2013; A. Damasio, Lo strano ordine delle cose. La vita i sentimenti e la creazione della cultura, Milano, Adelphi 2018. 4 Cfr. J. Pallasmaa, La mano che pensa. Saggezza esistenziale e incarnata nell’architettura, Pordenone, Safarà 2014; P. Zumthor, Atmosfere. Ambienti architettonici le cose che ci circondano, Milano, Electa 2007.
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Abstract The contribution reads John Ruskin’s writings considering the recent studies on emotions, feelings, empathy, experience. An interest that takes up the currents of thought that developed in the late nineteenth century in Europe (Sichtbarkeit and Einfuhlung) and with the Phenomenology in the first half of the twentieth century. The relationship between art and sentiment had previously been investigated in depth and lucidly by John Ruskin. In his writings painting and architecture are expressive vehicles of ideas (beauty, truth, memory, etc.), understandable only through feeling and sympathy. The contemporary look can therefore recover the Ruskinian reading, often considered only in its picturesque aspects, restoring it to freshness and the role of instrument of reflection on architecture, memory and conservation also for the present generation. Parole chiave Ruskin, architecture, expression, character, feeling
Gli scritti di John Ruskin hanno perduto negli anni la loro forza coinvolgente a causa del loro procedere asistematico, la prolissità descrittiva e i riferimenti datati. Appaiono però sorprendentemente interessanti se li consideriamo alla luce degli studi contemporanei di estetica e neuroscienze*. In questa prospettiva alcuni passi di Ruskin tacciati di deriva estetizzanta, pedante spiritualismo o trascendentalismo religioso, assumono una differente tonalità per il tentativo di non cedere alle estremizzazioni scientiste e romantiche ma perseguire una unità conoscitiva del reale che coniuga la descrizione minuta e analitica, con il linguaggio poetico. Leggere Ruskin dopo gli studi sull’empatia1, la neuroestetica2, gli scritti sulle emozioni e sui sentimenti3 e la critica architettonica fenomenologica4, valorizza il suo ruolo nella formazione delle nuove generazioni, in particolare nell’ambito del restauro architettonico. Vediamo quali sono gli spunti che Ruskin offre allo sguardo contemporaneo, a partire dai volumi Modern Painters (1843-1860), forse il testo più famoso di Ruskin. Non si tratta di una “storia dell’arte” bensì un saggio teorico-pratico sui modi per esprimere e rappresentare il paesaggio. Un obiettivo perseguito nei capitoli dedicati a nuvole, cielo, montagne, acqua e foglie e nel costante riferimento esemplificativo a Wil-
liam Turner. Qui Ruskin ricerca e enuncia le proprietà della vera arte denominate Idee di potenza, imitazione, verità, bellezza e relazione. La pittura è un linguaggio la cui grandezza «si determina sulla scorta di ciò che viene raffigurato o scritto e non in base al modo in cui ciò avviene»5. Non è in questione la struttura del linguaggio pittorico o i suoi aspetti narrativi, piuttosto quelli espressivi che derivano dall’abile uso della scienza (che descrive, spiegandola, la Natura) e dell’impressione (le sensazioni). Nel secondo volume di Modern painters, emergono i sentimenti. Nella descrizione di un mulino in rovina, soggetto di due disegni rispettivamente di Stanfield e di Turner, Ruskin si concentra sulla differenza tra la tonalità allegra del primo e quella malinconica del secondo. Proprio questa differenza fa emergere le qualità artistica del secondo che all’efficacia pittoresca affianca un principio morale (fig. 1-2). Il sentimento visto come aggiunta di qualità, impedisce di pensare all’arte come mera imitazione della natura e richiede la necessaria mediazione tra scienza e impressione6 che è compiuta con l’immaginazione. Il paesaggista descrivendo un luogo,
Fig. 1 J. M. William Turner, Shields Lighthouse, 1832 (London, Tate Archive, CC0, reference D25431). Fig. 2 J. Ruskin, Studio di nuvole dal “Campo Santo, Venezia” di Turner, 1859-60 (Oxford, The Ashmolean Museum).
deve darsi come compito la resa di una verità più profonda e complessa che si ottiene non con l’osservazione fisica ma con lo sguardo della mente; deve arrivare a una raffigurazione, magari del tutto inutile per geografi e ingegneri o infedele se sottoposta ad una verifica fatta di misure e regole, ma capace di produrre nella mente dello spettatore lontano l’impressione esatta prodotta dalla realtà, suscitando in lui lo stato d’animo che avrebbe avuto se veramente fosse disceso nella vallata […]7.
La realtà non è quella della “rappresentazione topografica”, riduzione geometrica del mondo, ma quella percepita visivamente e “sentita” attraverso odorato e udito, appunto l’impressione. Questa, se è mediata dall’attività cognitiva risulta sminuita, ma se l’artista lascia spazio «al suo primo pensiero, si accorgerà che altre idee si stanno inavvertitamente raccogliendo intorno ad esso, trasformando involontariamente l’immagine e lo spirito del luogo [spirit of the place]»8. Tra due differenti rappresentazioni, la grandezza «… dipende solo dal rispettivo grado di capacità nel conoscere e sentire la collina [degrees of knowledge and feeling about hills]»9.
5 Citeremo, dei testi di John Ruskin, solo le edizioni italiane. J. Ruskin, Pittori moderni, Torino, Einaudi 1998, vol. I, p. 54. 6 Id., pp. 718-793. 7 Id., vol. II, p. 1253. 8 Id. 9 Id., p. 1262.
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Fig. 3 John Ruskin, Notebook, 184950, Mostra John Ruskin. Le pietre di Venezia, 2018 (Foto © L. Napoleone 2018).
J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, Milano, Jaca Book 1981, p. 45. 11 J. Ruskin, Pittori moderni, Torino, Einaudi 1998, vol. II, p. 1931. 10
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In Modern Painters Ruskin da prova di profonde conoscenze scientifiche e notevoli capacità descrittive che finiscono per far apparire l’intera opera frutto di una visione quasi anatomica nella sua estrema fedeltà alla Natura. Rischio che viene meno nelle pagine dedicate all’architettura in The Seven Lamps of Architecture (1849). Il saggio ha la medesima impostazione metodologica del precedente: una riflessione sui caratteri dell’Architettura, individuati nelle idee di Sacrificio, Verità, Potenza, Bellezza, Vita, Memoria e Obbedienza, che contribuiscono «alla salute, al vigore e al piacere di ordine intellettuale»10 dell’uomo. Pittura scultura e architettura sono accomunate dal fatto di essere arti d’espressione ma, se nel primo caso ciò che viene espressa è la relazione con la Natura, «l’essenziale collegamento della potenza del paesaggio con l’emozione umana»11, nel caso dell’Architettura ad essere espresso è direttamente l’Uomo. La differenza è sostanziale e modifica totalmente l’atmosfera delle Seven Lamps rispetto a Modern Painters (fig. 3). Mentre nella pittura di paesaggio per rendere al meglio la relazione uomo-natura è necessario rappresentare la Natura nella sua realtà descrivendola alla luce delle conoscenze scientifiche proprie della geologia, della botanica, della mineralogia che solo in un secondo momento saranno mediate dalla immaginazione, l’Architettura esprime direttamente l’uomo e ciò che più lo caratterizza: il provare sentimenti. Nell’introduzione di Poetry of Architecture (1837-1838) Ruskin aveva messo immediatamente in chiaro che l’architettura è una scienza del sentimento piuttosto che della regola o della proporzione. Naturalmente l’architetto deve confrontarsi con un paesaggio ar-
Fig. 4 John Ruskin, Brugg, 1862 (Morgan Library & Museum).
chitettonico storico ma se bellezza e maestosità dipendono dal risvegliarsi di «certe correnti di idee nello spirito»12, non saranno le immagini cariche di stratificazioni stilistiche della tradizione a suscitarlo ma la capacità della mente di cogliere l’«unità di sentimento che è la base d’ogni grazia e l’essenza d’ogni bellezza»13. Tale unità emerge chiaramente nella relazione architettura-paesaggio dove una eventuale disarmonia dipende dalla «presenza di una specie di esistenza inadatta al paesaggio in cui si trova; e d’una mente, la quale, […] era ignara dei suoi propri sentimenti dominanti, e, in conseguenza, non può eccitare alcuna simpatia nei nostri …»14 (fig. 4). Entra in campo così la memoria che è idea peculiare dell’architettura, perché la sua gloria risiede nella sua età, in «quella forza che congiunge epoche dimenticate alle epoche che seguono […]», ed è la capacità di essere commemorativa e comunicare «tutto quanto vi è da sapere sugli stati d’animo e sulle realizzazioni di una nazione»15. Essa si innesca tramite la “simpatia” (che dalla fine del XIX secolo inizieremo a chiamare empatia) che è la relazione che si viene a creare tra due soggetti, tra un soggetto e un oggetto o perfino con «… lo stato d’animo del mondo [simphaty with the humor of the world]»16. Giungiamo così a un altro punto importante, il pathetic fallacy17 cioè l’errore che compiono i poeti quando attribuiscono agli oggetti sentimenti e capacità che appartengono solo all’uomo: Un conto è dire, come fa Dante, che le anime si gettano dalla sponda dell’Acheronte “come d’autunno si levan le foglie”; un altro è parlare, come fa Coleridge, di una foglia che danza, perché in questo caso il poeta, lasciando che la dimensione patetica prevarichi sia la percezione sia l’intelletto, la immagina erroneamente come se fosse dotata di vitalità e di volontà18.
Nel caso della pittura il pathetic fallacy è centrale, tanto da meritare un capitolo in Modern Painters, per il conflitto che si innesca con le idee di verità. Nell’architettura la questione si fa più complessa: essa deve essere espressione di sentimenti umani e lo
J. Ruskin, Poesia dell’architettura, Milano, Solmi 1909, p. 5. 13 Id., p. 11. 14 Id., p. 17. 15 J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p. 216. 16 J. Ruskin, Pittori moderni… cit., p. 1243. 17 Id., pp. 1003-1018. 18 A. Pinotti, Empatia… cit., p. 194. 12
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19 T. Griffero, Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica, Milano, Guerini 2016, p. 50. 20 H. F. Mallgrave, L’empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze, Milano, Raffaello Cortina 2015, p. 185. 21 H. F. Mallgrave, Human Complexity: The Final Frontiers, «Oz», vol. 36/2014, p. 68. 22 J. Ruskin, La natura del gotico, Milano, Jaca Book 1981, p. 110. 23 Cfr. J. J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva, Bologna, Il Mulino 1999; G. Rizzolati, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Raffaello Cortina 2006; V. Gallese, Corpo vivo, simulazione incarnata e intersoggettività. Una prospettiva neuro-fenomenologica, in Neurofenomenologia, Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, a cura di M. Cappuccio, Milano, Bruno Mondadori 2006; V. Gallese, Embodied simulation: from neurons to phenomenal experience, «Phenomenology and the Cognitive Sciences», vol. 4, 2005, pp. 23-48.
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leggiamo chiaramente in The Nature of Gothic (1851-53). Ma richiamando la Lampada della Memoria è chiaro in cosa consista qui il pathetic fallacy: attribuire al costruttore moderno, e in particolare al restauratore, la capacità di trasmettere nel lavoro di restauro i sentimenti del costruttore del passato. Questo, non è possibile. Ogni volta che guardiamo un’architettura restaurata non possiamo che trovare noi stessi. Letto in questo senso il pathetic fallacy non è in contraddizione con la possibile comunicazione tra il percipiente e il percetto inanimato19. Ruskin, al contrario, attribuendo particolari caratteri alla decorazione architettonica derivanti dai sentimenti e dalle “tendenze mentali” del costruttore, attraverso il paradigma dell’arte come espressione, teorizza il loro trasferimento dal passato al presente attraverso la simpatia (figg. 5-6). Soffermiamoci sul trasferimento. Henry Francis Mallgrave, studioso a cavallo tra fenomenologia e neuroscienze scrive che: «i materiali [secondo Semper e Ruskin], per avere un’attrattiva sensoriale, dovevano avere un’impronta digitale umana, per così dire, incisa sulle loro superfici.»20, infatti, visiting a Gothic cathedral, do we not simulate the delicacy of the mason’s chisel on the stonework, those animating tactile values that John Ruskin insisted upon with his Lamp of Sacrifice?21.
Oggi la psicologia e la neurofisiologia attraverso gli studi sulle affordances, sull’embodied cognition e sull’empatia stanno indagato proprio su ciò che accade quando si osserva compiere un’azione o se ne esaminano le tracce, ad esempio i segni lasciati da uno scalpello sulla pietra, che Ruskin chiama «energia immobilizzata»22. Il corpo reagisce come se stesse compiendo le medesime azioni. La materia lavorata, dunque, media la risonanza motoria ed affettiva in cui entrano (anche a distanza temporale) il costruttore e il fruitore attuale che “sente” l’opera in modo corporeo e incarnato23.
pagina a fronte Fig. 5 Palazzo Ducale, Venezia, spigolo s-o, Capitello dei Pianeti, 1340-1355, rimosso durante i restauri del 1875. (Venezia, Museo dell’Opera di Palazzo Ducale). «Nella sbozzatura e nel disegno del fogliame questo capitello è il più bello in Europa. Lo scultore vi ha trasfuso tutta la propria forza» (J. Ruskin). (foto © L. Napoleone 2018).
Fig. 6 Palazzo Ducale, Venezia, spigolo s-o, Capitello dei Pianeti, copia del 1875 (foto © L. Napoleone2005).
Tra mano, strumento, materiale e traccia si crea una interazione ritmica «as the pulse beat and crafting hands movements in response with the stone material, when the stonemasons chiselled the sculptures. The sculptor must paint with his chisel: half his touches are not to realize but to put power into the form: they are touches of light and shadows; a rise and ridge, or sink a hollow, not to represent an actual ridge or hollow, but to get a line of light, or a spot of darkness»24. Parole che riprendono la Lampada della Vita: […] la scultura non consiste tanto nell’intagliare nella pietra la pura forma di qualcosa, quanto piuttosto nell’intagliarvi il suo effetto. […] Quasi che lo scultore dipingesse con lo scalpello, e la metà dei suoi tocchi avesse lo scopo, non di far apparire la forma ma di conferirle potenza25.
24 A. Heimer, The aesthetics of form knowledge: Embodied knowledge through materialization, «Studies in Materiality Thinking», vol. 14, n.5/2014, p. 6. 25 J. Ruskin, Le sette lampade… cit., p. 202.
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Il viaggio in Italia e il preludio della conservazione urbana: prossimità di Ruskin e Buls Monica Naretto | monica.naretto@polito.it Dipartimento di Architettura e Design Politecnico di Torino
1 Cfr. M. Smets, Charles Buls. Les principes de l’art urbain, Liège, Pierre Mardaga 1995; Id., Charles Buls. I principi dell’arte urbana, ed. italiana a cura di C. Bianchetti, Roma, Officina Edizioni 1999; M. Giambruno, L’opera di Charles Buls: dall’estetica delle città al restauro dei monumenti, «’ANAΓKH», 31, 2001, pp. 46-57. 2 Cfr. M. Naretto, Charles Buls e il restauro. Antologia critica /Charles Buls et la restauration. Anthologie critique, Milano, Franco Angeli 2016. 3 «Il y a 41 ans, j’abordais à Gênes, envoyé par mon excellent père, après la fin de mes études, pour compléter mon éducation par un voyage d’un an en Italie. […] Mon voyage en Italie, à 22 ans, fut donc un tourment de ma vie et si un jour j’ai pu accepter les fonctionnes de bourgmestre de Bruxelles et les remplir avec quelque honneur, c’est à l’Italie que je le dois, c’est elle qui fut mon institutrice, mon initiatrice au travail. Cette année de 1860, pendant laquelle je parcourais votre beau pays, fut une année historique […]». C. Buls, Cahier de Voyage, Italie, 1901-1902, fogli 22-23. Archives de la Ville de Bruxelles [d’ora in poi AVB], Fonds Buls, filza 92. 4 Cfr. M. Martens, Charles Buls. Ses papiers conservés
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Abstract The issues concerning Ruskin’s reception are examined in relation to two key aspects of his cultural legacy: the exploration of Italian heritage as a perceptive and interrogative source, and the appropriation of this heritage as part of the objective of conservation. The study draws upon the Italian travel carnets of Charles Buls (1837-1914), a Belgian publicist, aesthete and art critic who provided a decisive impetus for the codification of urban-scale restoration. The travel notebooks, largely unpublished and held at the Archives de la Ville de Bruxelles, document his movements within the Peninsula between 1901 and 1909, retracing some of the stages of Ruskin’s journey. This connection can also be traced by reading through Buls’ texts dedicated to restoration. Here, the reference to Ruskin’s thinking is explicit and prevalent in the understanding of conservation as a social emergency, or even in the promotion of craftsmanship and teaching in the artistic field, within the context of the Arts and Crafts culture. Parole chiave Ruskin’s legacy, Charles Buls, Tour of Italy, Travel notebooks, Urban conservation
Dell’amplissima eredità di John Ruskin è possibile circostanziare un segmento che integra al contempo differenti aspetti della sua visione e del suo lascito, mostrando composite connessioni: il viaggio come forma di conoscenza e introspezione, l’esplorazione del patrimonio tangibile come fonte percettiva e interrogativa e la presa in carico di tale patrimonio nell’obiettivo della conservazione. La cultura del restauro – italiana e internazionale – ha profondamente indagato gli strati più evidenti di questa ricezione di Ruskin, eppure è ancora possibile metterne in luce sacche inedite, che rivelano intrecci precoci sul piano culturale europeo. Il tentativo è reso possibile dallo studio dei carnets dei viaggi in Italia di Charles Buls (1837-1914 – pubblicista, esteta e critico d’arte belga)1, un corpus di taccuini per molta parte inediti conservati agli Archives de la Ville de Bruxelles, che documentano spostamenti nella Penisola ripercorrendo talune tappe del viaggio di Ruskin. In essi, compilati per lo più “sul campo”, si fa ricorso al disegno come strumento di registrazione dell’immagine percepita, dall’architettura al quadro paesaggistico ritratti nella loro variabile consistenza, a vasti appunti, corredati a posteriori anche di provini fotografi-
ci, cartoline, ritagli di quotidiani, attestando un interesse che spazia dalla conoscenza per il singolo monumento al suo dettaglio, al rilevamento del dato ambientale e territoriale, alla componente etnografica, con un approccio già sensibile a molte “dimensioni” del paesaggio culturale. Anche Charles Buls, ascrivibile a quell’élite europea educata su radici romantiche, intraprende infatti il “viaggio in Italia”, sia negli anni della formazione, sia in quelli della maturità2 (Fig. 1). La prima esperienza si compie nel 1860 quando, dopo gli studi e un tirocinio in arte orafa a Bruxelles seguiti da un soggiorno di un anno a Parigi per l’apprendimento del disegno, il giovane Buls muove alla volta dell’Italia perlustrando le principali città d’arte degli Stati preunitari per completare la sua formazione culturale, prefigurando quella vivacità di interessi che avrebbe in seguito contraddistinto la sua polisemica figura3. I soggiorni si concentrano a Firenze e Roma, mete consolidate del Grand Tour, con passaggi a Padova, Venezia, Ravenna, in Sicilia, Umbria e in tutta la Toscana4. Quaranta anni più tardi, concluso un impegno intenso come amministratore della città di Bruxelles, noto nel panorama internazionale per i suoi scritti sull’estetica5, dopo avere percorso tutta l’Europa e conosciuto Creta e Costantinopoli, l’Egitto, il Congo, il Siam e gli Stati Uniti, Buls riscopre l’Italia attraverso una serie di trasferte e lunghi soggiorni tra il 1901-1902 e il 1904-19096, durante i quali è chiamato a illustrare in conferenze pubbliche le sue conoscenze di viaggio e le sue teorie sull’«arte urbana»7, nel tempo sviluppate sulla base di esperienze dirette e riflessioni teoretiche8. Ospite di eminenti personalità del mondo politico, economico e culturale9 (fra cui Luigi Luzzatti, ministro, deputato, giornalista, divenuto nel 1910 Presidente del Consiglio dei Ministri, o Maggiorino Ferraris, già ministro, membro del Senato e direttore della rivista “Nuova Antologia”), durante la permanenza in Italia egli ha modo di instaurare una fitta rete di relazioni e amicizie, puntualmente annotate nei carnets, che attestano al centro dei suoi interessi i rapporti sociali, la vita quotidiana, gli svaghi, la ricerca filosofica, nonché l’approfondimento di monumenti, città e paesaggi per il loro valore di memoria e d’insegnamento. Attraverso i taccuini è possibile – entro un quadro di intensa mobilità favorita dalla padronanza del francese, del tedesco, dell’italiano e dell’inglese – ritrovare una prossimità topografica, pedagogica e finanche geologica rispetto all’approccio ruskiniano, un pensiero che a quell’epoca Buls conosceva direttamente poiché le opere di Ruskin, quali gli Elements of Drawing e The Seven Lamps of Architecture, nella loro edizione britannica, erano parte della sua biblioteca10. Il viaggio del 1901-1902 tocca principalmente le mete di Firenze e Roma, con una significativa divagazione in Sicilia11 nei primi mesi del 1902, dove esplora approfonditamente Palermo, Taormina, gli insediamenti normanni, i resti di Selinunte, Segesta, Siracusa (Fig. 2). Nel 1904 sono ancora Roma e Firenze le città cui dedica intensi soggiorni (Fig. 3), a cui unisce un’ampia perlustrazione della Liguria – giungendovi dal confine francese – di cui apprezza il carattere “pittoresco” del paesaggio delle Cinque Terre12. Nel 1905 nuove scoperte riguardano i siti dell’antica Etruria e Ravenna, che visita orientato da guide illustrate e con il supporto delle pubblicazioni di Corrado Ricci13, con il quale sappiamo aveva instaurato una diretta frequentazione14, condividendo la comune passione per la storia dell’arte e per gli studi danteschi. Tra il 1906 e il 1907, giunto ancora una volta in Italia dopo alcuni mesi a Bruxelles, è di nuovo in Liguria, e poi a Lucca, Firenze, Vetulonia (dove assiste agli scavi in compagnia di Isidoro Falchi)15, Perugia, Bologna e Roma, qui ospite fisso alla Biblioteca di San Lu-
Fig. 1 Il «viaggiatore impenitente», caricatura di Charles Buls pubblicata in «Le Grincheux», 1 gennaio 1911. «Sa mince silhouette, grave et austère, plusieurs fois synthétisée sous les traits de Don Quichotte ou du voyageur impénitent, a toujours, même sous le crayon des caricaturistes, attesté la constance de son enthousiasme pour le beau et le vrai […]». Da M. Martens, Charles Buls... cit., p. 72.
aux Archives de la Ville, Archives de la Ville de Bruxelles, Inventaires, n. 29, Bruxelles 1958, p. 49; M. Naretto, Charles Buls e il restauro… cit., pp. 71-75. 5 Cfr. C. Buls, Esthétique des Villes, Bruxelles, Bruylant-Christophe & Cie 1893, 18942; Id., Estetica della città, traduzione di M. Pasolini, Roma, Associazione Artistica fra i Cultori dell’Architettura 1903. 6 Cfr. M. Naretto, Charles Buls e il restauro… cit., pp. 76-83. 7 D. Calabi, L’arte urbana in Europa: alcune categorie concettuali nelle parole dei
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RA suoi teorici, in L’architettura delle trasformazioni urbane 1890-1940, Atti del XXIV Congresso di Storia dell’Architettura (Roma 10-12 gennaio 1991), a cura di G. Spagnesi, Roma, Centro di Studi per la Storia dell’Architettura 1992, pp. 49-57. 8 Cfr. C. Buls, Cahier de Voyage, Italie, 1901-1902, fogli 76-77: AVB, Fond Buls, filza 92; F. Galassi, La conferenza del signor Charles Buls, «Annuario A.A.C.A.R.», MCMII, 1902, pp. 10-19; V. Fontana, Il caso di Roma, in Camillo Sitte e i suoi interpreti, a cura di G. Zucconi, Milano, Franco Angeli 1992, pp. 145-155. 9 Fra i principali frequentatori di Buls in Italia ricorre la figura di Maria Conti Pasolini, moglie di Pier Desiderio Pasolini dall’Onda, storico e senatore del Regno. I coniugi Pasolini sono fra i membri dell’Associazione Artistica dei Cultori di Architettura di Roma, entro la quale promuoveranno ampiamente il contributo teoretico di Buls. 10 L’inventario Martens depositato presso gli AVB segnala, alla filza 23 del Fonds Buls, Restauration des monuments, il fascicolo a) «Notes pour la rédaction de l’article, paru en 1903, sur la Restauration des monuments», con trascrizioni di aforismi e passaggi delle Sette Lampade di John Ruskin, in una edizione inglese non specificata. M. Martens, Charles Buls… cit., p. 93. 11 Sul viaggio in Sicilia di Ruskin, cfr. The Diaries of John Ruskin, a cura di J. Evans, J. H. Whitehouse, London, Oxford University Press 1959, pp. 785-787; J.
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ca16. Nel 1909 dedica un intero viaggio, l’ultimo nella nostra nazione, alla scoperta della Sardegna da cui rientrerà a Bruxelles passando per Genova, Milano, Varese, Lugano17 (Figg. 4, 5). Nei taccuini, se i disegni inconfutabilmente fissano l’attenzione per le differenti accezioni del patrimonio tangibile, dalla rovina, al monumento, alla città, al paesaggio, i contatti con il mondo dell’erudizione archeologica e artistica italiana sono precisamente riportati: fra i più importanti, ai fini di questa disamina, risulta forse quello con una figura che ha ampiamente segnato la cultura della conservazione, Giacomo Boni18. Gli scambi culturali tra i due sono attestati dal 1904: l’anno seguente, a Roma, Buls completa la serie di donazioni – già attivate nei precedenti viaggi in Italia – di opere a stampa circolanti in area mitteleuropea per l’istituendo Museo dell’Impero Romano presso il chiostro di Santa Francesca Romana, che stava prendendo forma proprio su progetto di Boni19. Ebbene, il nesso tra John Ruskin e Giacomo Boni, nonché l’intersezione con altre personalità della cultura del restauro coeva, fra cui ad esempio Luca Beltrami, sono stati rivelati e ampiamente approfonditi dalla storiografia recente20. Possiamo a questo punto includere in questa circuitazione e maturazione di idee sulla conservazione anche il contributo di Buls, che ebbe certamente modo di portare all’attenzione del coté italiano il proprio pensiero e i capisaldi della sua formulazione, fra cui l’insegnamento di John Ruskin. Quanto questi scambi abbiano inciso in profondità nel superare un orientamento storicista quando non stilistico in favore di criteri più strettamente conservativi, nello spirito ruskiniano, lo dimostra la versione di Ruskin citata da Giovannoni nella conferenza Restauri di Monumenti del 1913, fra cui il celebre passaggio «abbiate cura dei vostri monumenti e non sentirete il bisogno di restaurarli […]», ovvero la traduzione italiana formulata da Giacomo Boni di una versione inglese delle Seven Lamps non meglio specificata21. Come Boni, che aveva conosciuto Ruskin a Venezia e apparteneva alla cerchia stretta dei suoi contatti italiani, Buls aveva letto Le sette lampade di Ruskin in inglese e, verosimilmente, si era apprestato a tradurne molti passaggi22, anche se la versione francese di Elwall, la più accessibile al contesto belga in quel momento, era disponibile dal 189923. Inoltre, il suo approccio alla conservazione come pratica più rigorosa e garantista rispetto al restauro, ritenuto irrimediabilmente interpretativo, era accentuata anche dalla adesione al pensiero di Victor Hugo24. A una prima attenzione della critica, l’approccio applicativo di Buls è stato letto come contrapposto alla lezione di Ruskin, nello specifico della vicenda della piazza maggiore di Bruxelles, sottratta all’hausmannizzazione della città e conservata grazie al suo borgomastro, Charles Buls, fervido ammiratore di Sitte. Buls non si è peraltro limitato a conservare, ha anche restaurato la storica piazza e ne ha ricostruito le parti mancanti. Il suo procedimento si colloca agli antipodi della conservazione devota secondo Ruskin. Lo storicismo di Viollet-le-Duc segna la conservazione museificatrice della piazza maggiore e così pure esso ispirerà quella di numerose piccole città medievali e rinascimentali in Germania e nell’Europa centrale25.
Tuttavia, più recentemente, il debito di Buls verso Ruskin è stato segnalato in termini generali in una recente opera collettiva, che ha verificato la ricezione dell’eredità di Ruskin nell’universo francofono26. Tale ricezione è in effetti esternalizzata da Buls stesso e ben identificabile nei suoi scritti dedicati al restauro dei monumenti, che re-
cuperano precocemente – quando l’universo letterario italiano della tutela ne era per lo più ancora distante – quegli ampi passaggi dell’opera di Ruskin precedentemente richiamati, trasferendoli in un articolato ed eclettico quadro interpretativo. Tali saggi, se generalmente si distribuiscono nel lunghissimo arco temporale di tutta la sua feconda attività pubblicistica ed enciclopedica, trovano una particolare coagulazione e indicano una precisa volontà di riflessione proprio negli anni dei viaggi in Italia, subito a seguire il lungo soggiorno del 1901-1902, sono pertanto da connettere inequivocabilmente alla fonte rappresentata dai carnets de voyage. Di ritorno dal primo lungo soggiorno italiano Buls si dedica infatti alla ripresa degli studi sul restauro dei monumenti e dei siti, già diacronicamente sviluppati in articoli apparsi nelle riviste «La Fédération Artistique» e «Revue de Belgique»27: l’opera La restauration des monuments anciens, che appare a Bruxelles nel 190328 e vedrà una riedizione, con alcune modifiche, nel 190529, è permeata di decifrazioni ruskiniane, attestandone ampiamente il consolidamento storiografico in area vallona. Buls attinge a Ruskin diffusamente, per farne propria la sensibilità alla problematica della conservazione quale urgenza sociale, prima ancora che l’imperativo al rispetto della verità materiale. Nei Princìpi: Sì è generalmente concordi nel riconoscere che la conservazione degli edifici antichi produce l’effetto di fortificare la comunanza di una nazione con il suo passato, e di onorare così i predecessori, dai quali ha ereditato tali testimonianze, rappresentative di epoche differenti. […] L’accordo non si mantiene quando si tenta di determinare come bisogna conservare. Restaurando? Riparando? L’illustre esteta Ruskin risponde risolutamente di no, e nel capitolo “La lampada della memoria” del suo celebre libro The Seven Lamps of Architecture non distingue tra buoni e cattivi restauri,
Fig. 2 C. Buls, Palermo, 1902, taccuino di viaggio. AVB, Fonds Buls, filza 92, pp. 126127.
Clegg, Circe and Proserpina: John Ruskin to Joan Severn, ten days in Sicily, «Quaderni del Dipartimento di Linguistica, Università della Calabria: Letteratura», II, 1986, pp. 113-138; G. Bologna, Il viaggio di John Ruskin in Sicilia, «Kalós. Arte in Sicilia», a XXII, II, 2010, pp. 12-15.
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AVB, Fonds Buls, filza 97. Ivi, filza 98, pp. 98 e sgg. 14 Un incontro tra Charles Buls e Corrado Ricci avviene il 15 maggio 1904 a Firenze presso il Museo del Bargello, di cui quest’ultimo era direttore. Ivi, filza 97, p. 111. 15 M. Martens, Charles Buls… cit., p. 67. 16 AVB, Fonds Buls, filza 99. 17 Ivi, filze 100-101. 18 Ivi, filza 97, Rubrica: 1904, “Relations”. 19 Ivi, filza 98, Rubrica, ad vocem “b”, v., e sgg. 20 Cfr. A. Bellini, Giacomo Boni tra John Ruskin e Luca Beltrami, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006, pp. 3-30; Id., Giacomo Boni ed il restauro architettonico tra istanze ruskiniane e compiutezza formale, in Giacomo Boni e le Istituzioni straniere. Apporti alla formazione delle discipline storico-archeologiche, Atti del Convegno Internazionale (Roma 25 giugno 2004), a cura di P. Fortini, Roma, Fondazione G. Boni-Flora Palatina 2008, pp. 105122; P. Fancelli, Restauro e antichità tra Ruskin e Boni, in Ivi, pp. 85-104; A. Paribeni, Personalità e istituzioni straniere dalle carte dell’Archivio Boni-Tea, in Ivi, pp. 33-48; M. Pretelli, L’influsso della cultura inglese su Giacomo Boni: John Ruskin e Philip Webb, in Ivi, pp. 123-138; G. Mezzalama, Venise 12 13
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sebbene approvi quello del Palazzo di Giustizia di Rouen30. Quando si restaura, non occorre necessariamente demolire ogni cosa come a Pisa, Venezia e Lisieux, esempi che egli cita; non bisogna lesinare sulla qualità dei materiali né sul prezzo della manodopera. Non vi è dubbio che sia meglio manutenere un edificio che essere costretti, un giorno, al dilemma: o restauro o distruzione! […] Occorre dunque preservare i monumenti antichi dalla rovina mediante la manutenzione, come sostiene Ruskin, per non essere un giorno obbligati a restaurarli. La cura è il migliore antidoto al restauro31.
O ancora: Il sentimento che indirizzava la mano dello scultore medievale non può dirigere lo scalpello dello scultore moderno. Una fede sincera può ispirarlo, ma non sarà più quella del primo scalpellino; non risalirà il corso dei secoli, non riferirà delle opere del Medioevo, poiché egli non vive nello stesso momento storico, nello stesso contesto, nella stessa organizzazione del lavoro. Siamo dunque condannati in anticipo all’impotenza quando vogliamo rifare le statue delle nostre cattedrali e dei nostri municipi, come ha ben dimostrato Ruskin. Pretendere che un artista, seppure dopo una preparazione appropriata, conformi il suo intimo sentimento, la sua maniera di interpretare la natura, di sentire la bellezza, a quelli di un maestro immaginario, è rovesciare i termini del problema, ignorare il procedimento dell’invenzione artistica, porre la causa dopo l’effetto32. Ruskin ci nega, con ragione, il diritto di toccare i monumenti del passato: “Non sono nostri. Essi appartengono in parte a coloro che li costruirono, e in parte a tutte le generazioni di uomini che verranno dopo di noi”. Victor Hugo aveva già affermato nel 1832: “Dobbiamo tenere conto del passato per l’avvenire. Posteri, posteri vestra res agitur”33.
Se la trattazione di Buls si dipana facendo riferimento a molti archetipi ruskiniani, punti di divergenza radicale possono viceversa essere identificati tra le due figure, ad
esempio rispetto alla fede nel cattolicesimo: profondamente devoto e segnato dall’ermeneutica religiosa è Ruskin, laico e liberale, anticlericale, Buls34. E l’avvicinamento alla cultura Arts and Crafts è per Buls motivo della promozione dell’artigianato e dell’insegnamento in campo artistico come potenzialità di riscatto dei giovani dalla condizione di margine (il suo impegno nella Ligue de l’Enseignement belga sarà intenso e continuativo)35, come forma di accesso alla conoscenza e di trasmissione dei saperi, più che della negazione della cultura industriale come Ruskin e Morris l’avevano intesa, preferendo lottare contro l’omologazione dei processi industriali «en appel[ant] l’art, le goût, la sience au secours de l’industrie, afin de l’aider à répandre sur ses produits le charme de la beauté»36. Tali visioni endogene, anche se condizionano differentemente l’approccio morale, non escludono come principale comunanza la radicata convinzione nella salvaguardia della memoria storica «per continuare a dare un contenuto e un senso profondo sempre più convinto, positivo, al nostro stesso convivere assieme alla comunità con gli altri, tra le cose»37. Muovendo dalla lettura dei taccuini di Buls nell’incrocio con la sua pubblicistica, la potenza del pensiero di John Ruskin emerge come eredità indifferibile, confermandone una già profonda circuitazione e ricezione a scala europea, che incide nella maturazione del pensiero sulla salvaguardia del patrimonio materiale a scala urbana e di paesaggio38.
pagina a fronte Fig. 3 B. Jeune, Roma, Arco di Tito e palazzo Farnese, Imprimé et publié par Goupil & Cie, s.d., Album Photos d’Italie. AVB, Fonds Buls, filza 173. Fig. 4 C. Buls, Valle del Tirso e castello di Burgos, Sardegna, 1909, taccuino di viaggio. AVB, Fonds Buls, filza 101, pp. 60-61.
1901: patine et polychromie, in Postérité de John Ruskin. L’héritage ruskinien dans les textes littéraires et les écrits esthétiques, Acte du symposium international (Lille juin 2009), a cura di I. Enaud-Lechien, J. Prungnaud, Paris, Classiques Garnier 2011, pp. 155-167.
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Monica Naretto
RA Fig. 5 C. Buls, Geologia della Sardegna: Iglesiente, 1909, taccuino di viaggio. AVB, Fonds Buls, filza 101, p. 94.
G. Giovannoni, Restauri di monumenti, «Bollettino d’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione», VII, fasc. I-II, gennaio-febbraio 1913, pp. 15-16. Si veda anche: E. Sdegno, 1900-1946: le prime traduzioni artistiche, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana… cit., pp. 221-246. 22 Cfr. M. Smets, Charles Buls… cit., p. 234, n. 5: «[…] ampi estratti di The Seven Lamps of Architecture, edizione non specificata, di John Ruskin. Per quest’ultimo è credibile che Buls stesso avesse intrapreso la traduzione dall’inglese». 23 J. Ruskin, La Couronne d’olivier sauvage-Les Sept Lampes de l’Architecture, trad. fr. di G. Elwall, Paris, H. Laurens 1899. Sappiamo che Proust studiò su questa prima traduzione francese di due opere di Ruskin nell’avvicinarsi al suo pensiero, e produsse, in seguito, le sue versioni de La Bible d’Amiens e di Sésame et les Lysop. cit., lla memoria”nguistica”Naretto, pp.hitettonici nel Novecentoven Lamps?, in vivere assieme alla comunità con gli altri, op. cit., lla memoria”nguistica”Naretto, pp.hitettonici nel Novecentoven Lamps?, in vivere assieme alla comunità con gli altri. 21
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La lente dei Cahiers di Buls, che inevitabilmente trasforma un “paesaggio antropizzato” in quello che oggi chiamiamo paesaggio culturale, contribuisce a ricomporne valori di complessità e ricchezza sul piano storico, percettivo, antropologico e patrimoniale. Se l’approccio visibilista è ancora pregnante, richiamato dal desiderio del “pittoresco”39 come aspetto da mettere in luce e tutelare, il viaggio in Italia di Ruskin e poi di Buls segna un profondo superamento dell’approccio alla città storica, introducendo la considerazione dell’educazione al patrimonio e della conservazione a scala di insediamento, gettando, in sostanza, le radici della dimensione urbana del restauro40.
Trascrizioni letterali di Hugo sono prodotte da Buls con riferimento a Littérature et Philosophie Melées, 1837. Cfr. M. Smets, Charles Buls… cit., p. 234, n. 5. 25 F. Choay, L’allegoria del Patrimonio, ed. italiana a cura di E. d’Alfonso, I. Valente, Roma, Officina Edizioni 1995, p. 128. 26 Cfr. Si veda: Postérité de John Ruskin… cit., e in particolare L. Brogniez, B. Fréché, Ruskin en Belgique: passage en revue (1880-1930), Ivi, pp. 209-226; inoltre M. Naretto, L’eredità di John Ruskin in Francia, in «’ANAΓKH», 66, 2012, pp. 150-151. 27 Per la bibliografia di Buls si faccia riferimento a: Bibliografia di Charles Buls / Bibliographie de Charles Buls, in M. Naretto, op. cit., 2016, pp. 279-291. 28 C. Buls, La restauration des monuments anciens, Bruxelles, Weissenbruch 1903. 29 Id., La restauration des monuments anciens, «Revue Alsacienne Illustrée», VII, 3, 1905, pp. 72-78. È da segnalare come al contempo questi saggi di Buls attingano anche da Hugo, Sitte, Clemen e, in una certa misura, da Viollet-le-Duc. Tale riferirsi a posizioni tra loro profondamente differenti è stato interpretato come espressione fondamentalmente contradditoria di Buls, sulla quale non possiamo che concordare. M. Giambruno, L’opera di Charles Buls… cit., p. 53. 30 Buls si riferisce ai passi dell’Aforisma 31 della Lampada della memoria in Le sette lampade dell’architettura: «La prima operazione del restauro (e questo l’ho visto, ben più d’una volta, nel Battistero di Pisa, nella Ca’ d’Oro di Venezia, nella cattedrale di Lisieux) consiste nel fare a pezzi l’opera originale; la seconda, di solito, consiste nel mettere in opera le meno preziose e più volgari imitazioni che non possano essere individuate come tali; ma in ogni caso, per quanto esse siano fedeli e elaborate, si tratta sempre di imitazioni, di fredde copie di quelle parti che possono essere modellate con aggiunte arbitrarie; e la mia esperienza finora mi ha offerto un solo esempio, quello del Palazzo di Giustizia di Rouen, in cui almeno questo, il più alto grado di fedeltà, sia stato realizzato o per lo meno tentato». Tratto da J. Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, con una presentazione di R. Di Stefano, trad. di R. M. Pivetti, Milano, Jaca Book 1981, p. 227. Affermando che Ruskin “approva” il restauro del Palazzo di Giustizia di Rouen Buls pare non avere analizzato a fondo la pur sempre accezione negativa che perdura in Ruskin nell’indicarlo come esempio solo per la lodevole realizzazione di elementi di imitazione. 31 C. Buls, La restauration… cit., p. 7 [dalla trad. italiana in M. Naretto, Charles Buls e il restauro… cit., pp. 110-111]. 32 Ivi, pp. 122-123. 33 Ivi, p. 132. 34 Cfr. B. Mihail, Un mouvement culturel libéral à Bruxelles dans le dernier quart du XIXe siècle, la ‘néo-Renaissance flamande’, «Revue belge de philologie et d’histoire», vol. 76, fasc. 4, 1998, pp. 9791020. 35 A.op. cit., lla memoria”nguistica”Naretto, pp.hitettonici nel Novecentoven Lamps?, in vivere assieme alla comunità con gli altriA… Sluys, Charles Buls et la Ligue de l’enseignement, supplemento in «Bulletin de la Ligue de l’Enseignement», 43, gennaio-febbraio 1922. 36 C. Buls, F. Fourcault, A. Mignot-Delstanche, Musée des Arts industriels. Programme adopté par la commission de l’Exposition des Arts Industriels de 1874, Bruxelles, Ch. Vanderauwera 1875, p. 13. 37 M. Dezzi Bardeschi, Vogliamo ravvivare queste tremule, smarrite Seven Lamps?, «’ANAΓKH», 86, 2019, p. 3 [editoriale pubblicato postumo]. 38 Cfr. S. Casiello, R. Picone, John Ruskin e il mezzogiorno d’Italia. Gli esiti sulla conservazione dei beni architettonici nel Novecento, in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana… cit., pp. 65-82. 39 Cfr. M. Dezzi Bardeschi, Quella strana mania del pittoresco... Teoria e pratica della conservazione urbana, in «’ANAΓKH», 37, 2003, pp. 20-31, con preciso riferimento anche al contributo di Buls. 40 Cfr. C. Buls, L’Isolement des Vieilles Églises, Bruxelles, Librairie Nationale d’Art et d’Histoire G. Van Oest et Cie 1910; Id., Conservation du coeur d’anciennes villes. Traduction d’une conférence faite à Salzburg par M. C. Gürlitt, estratto della rivista «Tekhné», Bruxelles, Imprimerie De Tournay & Hens, ottobre 1912; Id., La conservation du coeur de la ville de Bruxelles, estratto della rivista «Tekhné», Bruxelles, Imprimerie De Tournay & Hens, ottobre 1912; Id., Faut-il préconiser l’isolement complet ou le dégagement partiel des grands édifices? Question 22 par Ch. Buls, in Atti del Premier Congrès International et Exposition Comparée des villes, Bruxelles, Union Internationale des Villes 1914, Section I, pp. 21-22. 24
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Le Pietre di Milano. La conservazione come paradosso Gianfranco Pertot | gianfranco.pertot@polimi.it Dipartimento di Architettura e studi urbani (DAStU) Politecnico di Milano
Abstract Milan is the Italian city in which – while John Ruskin was living – very important guidelines for the intervention on historical buildings was developed. In the same city, starting in the 1970s, it was formed at Politecnico, in the Faculty of Architecture, a school openly oriented towards principles of conservation. But, right in Milan, conservation has been largely disregarded, above all the conservation of building’s surface, intended as the place of physical and visual interaction with the material and immaterial world. So, in Milan, conservation has become an occasional, paradoxical, practice. The purpose of the contribution is to identify the trajectory of the construction of this paradox and above all to delineate other possible scenarios where physical permanence still allows theoretical and operational adherences to the principles of Ruskinian thought. Among others: the architecture of the Reconstruction, but also territorial signs, urban layouts, destruction interfaces. Parole chiave Conservazione, Materia, Costruito esistente, Architettura della Ricostruzione, John Ruskin
Milano è la città italiana in cui più che in altre – John Ruskin vivente – si sono messi a punto e persino codificati importanti orientamenti per l’intervento sul costruito, con consistenti traduzioni in essere. Basti citare il III Congresso degli ingegneri e degli architetti che si svolse a Milano nel 1883 e che si concluse tra l’altro con la stesura di una significativa serie di raccomandazioni ricordata (impropriamente) come prima Carta italiana del restauro. O ricordare la presenza e l’attività, sia didattica che istituzionale che professionale, di personaggi come Camillo Boito (che delle raccomandazioni del 1883 fu diretto ispiratore), Luca Beltrami, Gaetano Moretti, mentre nello stesso periodo post-Unità la tutela trovava dapprima nelle Commissioni conservatrici lombarde e poi nell’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti della Lombardia dei referenti istituzionali fra i più attivi in Italia. Il pensiero di Ruskin, che transitò per Milano nel corso dei suoi viaggi in Italia, non venne in alcun modo ricordato nelle formulazioni ufficiali delle direttive sull’intervento sui manufatti, né ebbe diretta influenza nell’indirizzare la tutela, ma fu comunque ben noto all’ambiente culturale milanese, a partire dalla traduzione di un testo di
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George Edmund Street, di chiara derivazione ruskiniana (la rivista «The Builder» aveva definito Street Umbra di Ruskin), che Raffaele Pareto pubblicò sul milanese «Giornale dell’ingegnere architetto ed agronomo» nel 18621. Il monito ruskiniano contro il restauro, per la coscienza dell’irriproducibilità della materia, il culto empatico per il vero versus il verosimile generato dal restauro, non potevano certo entrare nelle formulazioni operative del tempo. Rappresentarono però un costante contrappeso teoretico, una sorta di antagonismo morale a ogni operatività più o meno disinvolta. Non a caso insufflarono le polemiche che accompagnarono alcuni dei più noti cantieri lombardi, criticati dal socio corrispondente della SPAB a Milano, Tito Vespasiano Paravicini, di cui sono noti opere e iniziative2. I report di Paravicini suscitarono il duro intervento di William Morris sul «Times», eloquentemente intitolato Vandalism in Italy3, che innescò piccate risposte da parte degli organi istituzionali locali e centrali italiani, anche se la polemica non arrivò ai livelli toccati da quella provocata dalle denunce sui restauri veneziani formulate da un altro socio della SPAB, Alvise Zorzi. Nonostante questa eco del pensiero ruskiniano sia risuonata da subito intorno alle stanze milanesi in cui si stava mettendo a punto l’ingranaggio della formazione politecnica, la cultura dell’intervento sul costruito si è a lungo dimostrata incapace di condividerne, almeno in parte, la lezione, rimanendo piuttosto incagliata in un continuo affinamento del filologismo, in contraltare con tesi più inclini a ribadire la supremazia dell’immagine e la transmaterialità dell’opera d’arte. Il pensiero di Ruskin è conseguentemente rimasto estraneo (quando non addirittura soggetto a selezioni e a incomprensioni4) tanto agli statuti scolastici – non solo politecnici – quanto alla teoretica dell’intervento sull’esistente. Ciò non ostante alcuni degli aspetti fondanti del suo pensiero in tema di cura dei manufatti esistenti sono riemersi, più che mai attuali – o almeno attualizzabili – proprio in un contesto didattico, politecnico, e proprio a Milano, sia pure con uno iato cronologico centenario, quando si è innervata nella Facoltà di Architettura una scuola dichiaratamente orientata verso i principi della conservazione, militante al punto di essere considerata radicale. I protagonisti di questa stagione, che ha avuto inizio negli anni Settanta del Novecento, vanno citati, e non sono solo milanesi. Da Firenze proveniva Marco Dezzi Bardeschi, motore principale di questa esperienza, da poco scomparso, che portava con sé la lezione di Sanpaolesi e di Michelucci. Nella stessa Facoltà insegnavano già Amedeo Bellini e Maurizio Boriani. Si strinsero rapporti con il CNR (in particolare con il Centro Gino Bozza) e con altri istituti al di fuori della Lombardia, come il genovese Istituto di storia della cultura materiale (ISCUM) di Tiziano Mannoni. Si aprirono in ateneo i primi laboratori diagnostici per la conservazione, mentre nel Dipartimento di Conservazione delle risorse architettoniche e ambientali, fondato nel 1980, e al corso di Dottorato di Conservazione dei Beni architettonici, attivato negli stessi anni, studiava e cresceva una generazione di docenti e progettisti. Molti dei laureati di allora nelle materie del settore scientifico disciplinare ICAR 19-Restauro sono entrati nei ruoli accademici o nelle Soprintendenze. A distanza di un secolo circa dalle denunce anti-scrape e anti-restoration si dipanava una densa stagione di ricerche e attività in difesa del patrimonio esistente, non solo costruito, con un’ingente attività divulgativa: nel 1986 si inaugurava la collana editoriale «Ex Fabrica» (direttore Dezzi Bardeschi), mentre due anni dopo usciva il primo volume della collana dei «Quaderni del Dipartimento» (direttore Bellini) dedicata al restauro. Nel 1990 venne pubblicato un primo volume di rilievi e progetti per le archi-
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tetture lombarde dimenticate redatti in quegli anni da studenti e laureandi della Facoltà di Architettura, seguito da un secondo volume nel 1991, nella collana «A-LETHEIA». Nel 1993 Dezzi Bardeschi fondava «‘Ananke» e Bellini «TeMA. Tempo Materia Architettura». Nel 1995 usciva il sesto volume di «A-LETHEIA», Milano restaurata, che riprende il taglio e gli obiettivi della rubrica La storia tradita. Guida ai monumenti infedeli d’Italia che era stata diretta dal 1981 al 1985, sempre da Dezzi Bardeschi, su «L’architettura. Cronache e storia»5. «Conservare, non restaurare» e «Aggiungere, non sottrarre materia», sono forse le espressioni, più volte ribadite fin dall’origine di quell’esperienza, che riassumono con maggiore efficacia, senza che sia stata tentata la sistematizzazione di «una (impossibile) teoria»6 della disciplina, la tensione e l’orizzonte teoretico di quegli anni. Tensione per una trasmissione integrale al futuro della materia-documento che al contempo traccia il limite e apre notevoli possibilità dell’inserimento del nuovo, ribadendo che la disciplina del restauro (o meglio: della conservazione) è intrinsecamente progettuale e non semplicemente storica, come per decenni si era tentato di considerarla, mortificandola. In questa esperienza, che ancora prosegue, gli echi ruskiniani, spogliati della loro connotazione romantica, non sono pochi. Costituiscono un’eredità, ormai priva di ogni riferimento all’arte e all’opera d’arte, che ha portato alle logiche conseguenze l’apprezzamento per il segno autentico dell’uomo e del tempo, il suo ruolo sociale ed economico, mettendo al bando per quanto possibile il giudizio di valore, o in ogni caso privandolo di ogni ricaduta operativa/selettiva, nella convinzione della (teoricamente) infinita portata documentaria della materia e dell’altrettanto (teoricamente) infinita possibilità conoscitiva, se non oggi in futuro, di tale bagaglio irriproducibile di testimonianza del passato. Il principio metodologico, inconfutabile, era comunque quello della difesa strenua dell’esistente. L’apprezzamento per le forme di indagine proprie dell’archeologia stratigrafica che vennero assorbite a pieno titolo, soprattutto nel corso dei primi anni Novanta, nel modus operandi della disciplina, rafforzò queste impostazioni teoretiche. Tutto questo sforzo culturale è in gran parte figlio di una reazione messa in atto a suo tempo di fronte al saccheggio delle risorse storiche e storiche-artistiche del Paese, iniziato con la Ricostruzione e dilagato oltre il sostenibile, e in quegli anni indirizzato anche verso il cosiddetto “recupero edilizio”, volto a sfruttare le aree centrali considerate di scarso pregio e divenute in quel momento invece assai appetibili. Va detto che questa reazione militante non è stata recepita univocamente nel mondo accademico; talvolta è stata disattesa, altre volte è stata apertamente messa in discussione e osteggiata, perché ritenuta oltranzista e limitante. In più proprio a Milano, dove il monito ruskiniano sull’irriproducibilità del half-inch di materia perduta e sul rispetto dovuto a quella rimasta è stato ed è manifesto di una scuola e di una didattica, la conservazione è stata più largamente disattesa nella prassi comune, dove è trascorsa ad argomento di nessun conto. Le Pietre di Milano sono sparite prima ancora che se ne potesse perorare la causa. La conservazione è stata ed è infatti largamente disattesa proprio e soprattutto sulle fondamentali tematiche inerenti la superficie, intesa come interfaccia di interazione fisica e visiva del manufatto con il mondo materiale e immateriale. Disassata rispetto ai suoi stessi più vitali principi, è divenuta pratica solo enunciata oppure occasionale, in entrambi i casi, quindi: paradossale.
Se si escludono alcuni cantieri paradigmatici si è assistito negli ultimi decenni ad una indefessa opera di rifacimento e di omologazione delle facciate degli edifici della città ad un criterio di omogeneità materiale e cromatica, distruggendo ogni forma di stratificazione e di permanenza. La portata di questo processo di sostituzione è stata tale da rendere appunto paradossale, mosca bianca, elemento di disturbo, ogni forma di permanenza che mostri segni di discontinuità, sovrapposizione, invecchiamento. L’abitudine a questa pratica illimitata di restyling urbano dettata prettamente da un’estetica appiattita su criteri non culturali ha permesso anche la ratifica del Decreto 8 marzo 2017, n. 2456 della Regione Lombardia, che sancisce (art. 3.3) l’obbligo di sostituire integralmente i rivestimenti esistenti sulle facciate di un edificio con un “cappotto” o altro materiale ad alta capacità termoisolante, qualora un intervento manutentivo comporti la rimozione di una quantità di intonaco di rivestimento superiore al 10% della superficie disperdente lorda complessiva. La traiettoria milanese della costruzione del paradosso si può dire compiuta. Su questo fronte la battaglia è perduta. La Milano settecentesca e ottocentesca è divenuta una replica impoverita e caricaturale, ma verosimile, di se stessa, o quanto meno dell’immagine che il cittadino/consumatore si aspetta di trovare. È ora importante domandarsi se, oltre a risorse immateriali, esistono ancora risorse materiali autentiche e genuine alle quali attribuire lo status di Pietre di Milano. Indubbiamente esistono territori marginali, di nicchia, non ancora toccati da omologazione e rifacimento, ma si tratta di oggetti ai margini dell’architettura, che hanno piuttosto a che fare con l’ingegnerizzazione del territorio. Segni territoriali, tracciati stradali, traverse fluviali, interfacce di distruzione, fragmenta dimenticati, rotaie, residui di mondo rurale incastonati nelle periferie, opere idrauliche, attrezzature urbane, oggetti in disuso ma ingombranti, incompresi, che costituiscono un bagaglio documentario ingente e pressoché sconosciuto, anche perché in effetti di relativo interesse storiografico e difficile da sistematizzare. Esiste però anche un territorio più fecondo, dove resistono ragioni e semantica per nuove possibili aderenze teoretiche e operative ai principi della conservazione e, perché no, a quelli del pensiero ruskinia-
Fig. 1 Il Palazzo di Fuoco in piazzale Loreto a Milano, segno distintivo dell’architettura milanese del dopoguerra e forte punto di riferimento visivo all’estremità della grande arteria di corso Buenos Aires. Opera di Giulio Minoletti con Giuseppe Chiodi (19581961), qui in una cartolina dei primi anni Sessanta (collezione dell’autore). Fig. 2 Lo “scrape” e lo svuotamento integrale del Palazzo di Fuoco nel 2019 (fotografia dell’autore). Fig. 3 Rendering della ristrutturazione del Palazzo di Fuoco in corso di ultimazione (GBPA Architects, dal web). È evidente – oltre alla totale eliminazione di materia originale non strutturale – la perdita dell’innovativa e originale impostazione compositiva data da Minoletti con le bande colorate orizzontali e lo sviluppo in verticale dell’edificio oltre la copertura. Tutto cancellato, in cambio di una palese omologazione a modelli correnti, corollario globale delle viste urbane.
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no. Si tratta delle architetture della Ricostruzione realizzate all’interno del tessuto storico al tempo già urbanizzato, ancora poco studiate perché coinvolte loro malgrado nel giudizio negativo che segna (giustamente) gli esiti nefasti a scala urbana della ricostruzione, o le problematiche sociali innescate in molti quartieri di edilizia economica popolare. Inoltre la relativa contemporaneità, ora decisamente superata, visto che stiamo parlando di manufatti con più di cinquant’anni, e la tendenza a concentrare l’attenzione su pochi esempi paradigmatici celebrati già alla loro nascita dalla stampa specializzata, hanno di fatto finora impedito ricerche sistematiche su questi edifici. Si tratta invece di un mondo che ha attinto ad un ambiente tecnico solido e a materiali specifici, guidato da progettisti di buona caratura anche se non sempre di coerente poetica. L’avvicinamento a questo mondo quantitativamente cospicuo e ancora matericamente integro, almeno per la quota residenziale, richiede innanzitutto un apporto conoscitivo originale. Prime indicazioni in questo senso vengono da una ricerca da poco avviata, che aspira a completare il lavoro iniziato qualche anno fa con la ricognizione delle origini della ricostruzione della città all’uscita dal conflitto, dal quale trasse danni vasti e profondi7. Sono state per ora individuate tutte le nuove costruzioni edificate all’interno della cinta dei bastioni spagnoli di Milano fra il 1948 ed il 1960. Sono circa duemila, una cifra notevole. E per ognuno di queste si sta predisponendo un apparato conoscitivo che riguarda il progetto e la connotazione materica, nella speranza di arrivare presto ad un atlante che, oltre a fare luce sull’operato di una generazione di tecnici, definisca nella sua autenticità il loro ambiente tecnico. E definisca al contempo le specificità di un contesto materico che si mostra ancora in gran parte nella sua condizione originaria, trascorsa nel tempo, con inevitabili segni del degrado. Dopo il “moderno”, è probabilmente questa la nuova frontiera per la conservazione nella città storica.
1 Cfr. R. Pareto, Sul ristauro degli antichi fabbricati, «Giornale dell’ingegnere architetto ed agronomo», IX, vol. IX, settembre 1861, pp. 626-635. 2 Cfr. A. Bellini, Tito Vespasiano Paravicini, Milano, Guerini Studio 2000. 3 W. Morris, Vandalism in Italy, «Times», 12 aprile 1882. 4 Si vedano a questo proposito i contributi raccolti in L’eredità di John Ruskin nella cultura italiana del Novecento, a cura di D. Lamberini, Firenze, Nardini 2006. 5 Cfr. M. Dezzi Bardeschi, Ricerche sulle architetture lombarde dimenticate, a cura di G. Guarisco, Firenze, Alinea 1990; M. Dezzi Bardeschi, F. Tartaglia, Architetture lombarde dimenticate, studi per il riuso, a cura di G. Guarisco, Firenze, Alinea 1991; Milano restaurata. Il monumento e il suo doppio, a cura di G. Guarisco, Firenze, Alinea 1995. 6 M. Dezzi Bardeschi, Restauro: punto e da capo. Frammenti per una (impossibile) teoria, a cura di V. Locatelli, Milano, Franco Angeli 1991. Si veda anche, Id, Restauro: due punti e da capo, a cura di L. Gioeni, Milano, Franco Angeli 2008. 7 Cfr. Milano 1946. Alle origini della Ricostruzione. La città bombardata, il Censimento urbanistico, gli studi per il nuovo piano, le questioni di tutela, a cura di G. Pertot, R. Ramella, Milano, Silvana Editoriale 2016.
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Enrica Petrucci, Renzo Chiovelli
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1 M. Balzani, Restauro della materia e conservazione della memoria. Progetto, ricerca e formazione, 28 Febbraio 2014, <https:// ilgiornaledellarchitettura. com/web/2014/02/28/ restauro-della-materia-e-conservazione-della-memoria-progetto-ricerca-e-formazione/> (06/2019). Secondo l’A., il progetto della memoria non deve cristallizzarsi in un mero atto di pura conservazione ma deve potenziare il testo storico in un linguaggio anche contemporaneo alla vita e alla qualità dei luoghi. 2 John Ruskin, Le sette lampade dell’architettura, a cura di R. Di Stefano, Milano, Jaca Book 19811, pp. 225-226; Idem, John Ruskin. Interprete dell’architettura e del restauro, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1983, pp. 114-117, in cui sono evidenziati i contenuti dell’Aforisma 30 della «Lampada della Memoria». 3 Cfr. B. G. Marino, La materia dell’architettura, l’architettura della materia, in Restauro e riqualificazione del centro storico di Napoli patrimonio dell’Unesco tra conservazione e progetto, a cura di A. Aveta, B. G. Marino, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 2012, pp. 97-119. Cfr, anche, F. Redi, Le strutture storiche come archivio di saperi empi-
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L’etica della polvere ossia la conservazione della materia fra antiche e nuove istanze Enrica Petrucci | enrica.petrucci@unicam.it Università di Camerino Renzo Chiovelli | chiov.re@gmail.com Sapienza Università di Roma
Abstract Starting from John Ruskin’s thought on the most superficial part of the matter (half inch of matter), the evolution of conservation theories is analyzed through a brief exursus. In 1866, Ruskin wrote the booklet The Ethics of the Dust, in which he collects a series of thoughts on time that leaves indelible marks on surfaces, giving them an enchanted and mysterious aura. The inheritance of Ruskin is collected by the artist Jorge Otero-Pailos, who sets himself the goal of detecting from surfaces the specificities of the air, in different places and at different times, to compose a “pollution archive”. The surfaces are cleaned with a layer of adhesive latex, removing centuries of dust, a sort of mark left by the climatic and atmospheric conditions, by maintenance practices, even by the chemical materials already used in previous restorations. This connects to the age-old question of cleaning and replacing of “The stones of Venice” and tries to mediate the different positions that have marked the history of restoration. On the one hand, the strategy wants to preserve the authentic information that is linked to the dust and pollution and on the other, cleans to ensure the correctness of the operation. Therefore, it’s faithful to the Ruskinian tradition, according to which it’s the age to glorify buildings, as the walls are characterized by the “history of men”. Parole chiave materia, immagine, conservazione, innovazione
La conservazione della materia ha destato l’interesse di studiosi e artefici, fin dalle epoche più remote. Per questa ragione, è interessante affrontare un excursus dell’argomento, recependo le istanze della contemporaneità verso nuovi interrogativi conservativi1. La storia è costellata di atteggiamenti teorici e implicazioni pratiche che si pongono la vexata questio relativa alla conservazione materiale. Il termine “materia”, nel restauro, è stato nel passato affrontato concettualmente; tuttavia, negli ultimi anni sembra aver perso la sua complessità in quanto definibile secondo un approccio metodologico che si collega ad un intervento tecnico razionale che non ha bisogno di interpretazione critica. Il restauro ha, invece, la grande responsabilità di relazionarsi sia con la sfera sensibile, sia con quella immateriale. Il significato della materia dell’architettura può essere analizzato attraverso il pensiero di alcune figure che hanno determinato la storia del restauro. Senza ripercorrere e
Fig. 1 J. Ruskin, A view in the Alps, 1835. Acquerello (Ashmolean Museum, University of Oxford). L’idea di The Ethics of Dust nasce ai piedi delle Alpi, che rappresentano un contesto ideale per la glorificazione della polvere: dall’accumulo dei materiali si formano i cristalli e, attraverso i cristalli, nel tempo, le catene montuose.
approfondire la visione naturalistica di John Ruskin che sostanzia la teoria della conservazione dell’inglese, basta richiamare quanto egli abbia osservato a proposito del valore dell’architettura del passato per avere la dimensione del significato della materia: Ora, per ritornare al nostro tema, accade che, in architettura, la bellezza aggiuntiva e accidentale è assai comunemente incompatibile con la conservazione del carattere originario dell’opera; per questo il pittoresco si ricerca sempre nelle rovine, e si pensa consista nella decadenza. Invece anche quanto lo si ricerca in questo modo, esso consiste nella sublimità delle crepe, o delle fratture, o nelle macchie, o nella vegetazione che assimilano l’architettura all’opera della natura, e le conferiscono quelle condizioni di colore e di forma che sono universalmente dilette all’occhio dell’uomo. […] Ma quando il pittoresco riesce a mantenersi coerente con i caratteri intrinseci dell’architettura, ecco che la funzione di questa forma di sublimità esteriore dell’architettura è senz’altro più nobile di quella di qualsiasi altro oggetto, perché esso è testimonianza dell’età dell’opera: di ciò in cui consiste la maggior gloria dell’edificio. Pertanto i segni esteriori di questa gloria, che hanno una forza e un compito più grandi di qualsiasi altro che appartenga alla loro pura bellezza sensibile, possono esser fatti rientrare nel rango dei caratteri puri ed essenziali dell’architettura […] tale da essere soggetto a danni materiali dovuti all’alterazione delle superfici causate dalle intemperie, o dalla degradazione strutturale che un lasso di tempo così lungo implicherebbe. [...] Tale valore risiede nella sua età, e in quel senso di larga risonanza, di severa vigilanza, di misteriosa partecipazione, perfino di approvazione o di condanna, che noi sentiamo presenti nei muri che a lungo sono stati lambiti dagli effimeri flutti della storia dell’umanità2.
I muri sono materia costitutiva dell’architettura e vengono avvertiti come elemento di assorbimento e di riflesso, nel contemporaneo, di storia dell’umanità3. Inoltre, la materia, s’identifica con l’architettura stessa, in quanto sede fisica delle trasformazioni nel tempo e sostanza estetica di essa. Ruskin chiarisce il significato della parte più superficiale della materia (mezzo pollice di materia)4, affermando che
rici su materiali, tecniche costruttive e organizzazione del cantiere nel Medioevo: diagnostica archeologica e metodi di datazione, in Muri parlanti: prospettive per l’analisi e la conservazione dell’edilizia storica, Atti del convegno (Pescara 26-27 settembre 2008), a cura di C. Varagnoli, Firenze, Alinea 2009, pp.43-54. 4 Cfr. F. tomaselli, Quel “mezzo pollice” di materia, in Città, intonaci, colore. Problematiche inerenti al restauro degli intonaci storici, a cura di G. M. Ventimiglia, Roma, Quasar 2012, pp.15-27. È sviluppata una riflessione sul ruolo delle superfici architettoniche nei monumenti e nei contesti antichi, richiamando il pensiero di John Ruskin e Alois Riegl, che hanno evidenziato il valore di autenticità e rimarcato il ruolo delle superfici nella percezione dell’architettura storica, contestando i restauri distruttivi in corso in molte città (come il restauro della Basilica di San Marco a Venezia). 5 Sul concetto di arbitrarietà nel restauro, A. Pane, Per un’etica del restauro, «Ricerca/Restauro», coordinamento di D. Fiorani, sez. 1A, Questioni teoriche: inquadramento generale, a cura di S. F. Musso, Roma, Quasar 2017, pp. 120-133. 6 J. Ruskin, The seven lamps of architecture, Londra, George Routledge & Sons 1849, ristampato da Kissinger Publishing’s, pp.184-207. Il capitolo 6, «The Lamp of Memory» contiene l’Aforisma 31.
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Emerge con decisione in Ruskin la condanna degli interventi di ripristino, di quel tipo di restauro che è accompagnato dalla “falsa descrizione” di ciò che è irreversibilmente perduto. Per lo studioso inglese, cancellare i segni superficiali significa riportare il manufatto allo stato di puro accumulo di materiale edile, non più architettonico. Cfr. M. Pretelli, L’influsso della cultura inglese su Giacomo Boni: John Ruskin e Philip Webb, in Giacomo Boni e le istituzioni straniere, Apporti alla formazione delle discipline storico-archeologiche, Atti del convegno Internazionale (Roma 25 giugno 2004), a cura di P. Fortini, Roma, Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, Fondazione G. Boni-Flora Palatina 2008, pp. 123-138. 7 Traduzione di J. Ruskin. The Seven Lamps of Architecture tratta da C. Ceschi, Teoria del restauro, Roma, Bulzoni 1970, p. 87-92. Per approfondimenti, R. Picone, John Ruskin e il mezzogiorno d’Italia. Gli esiti sulla conservazione dei beni architettonici nel Novecento, in Saggi in onore di Gaetano Miarelli Mariani, a cura di M. P. Sette, M. Caperna, M. Docci, M. G. Turco, Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura, nuova serie, fascicoli 44-50 (2004-2007), Roma, Bonsignori 2007, pp. 359-362; pp. 433-446. 8 Cfr. G. G. Scott, On the Conservation of Ancient Architectural Monuments and
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É un’impresa palesemente impossibile, quando si tratta di eseguire una riproduzione fedele e sincera. Che riproduzione si può eseguire di superfici consumate di mezzo pollice? Tutt’intera la rifinitura superficiale dell’opera stava proprio in quel mezzo pollice che se n’è andato; se provate a restaurare quella finitura, non potete farlo altro che arbitrariamente5; se copiate quel che è rimasto, assicurando il massimo possibile di fedeltà (e quale attenzione, o meticolosità, o spesa, è in grado di garantirla?), come può la nuova opera essere migliore di quella vecchia? Eppure in quella vecchia vi era una qualche vitalità, una qualche e suggestiva traccia di quel che essa era stata, e di quel che era andato perduto; una qualche soavità in quelle linee morbide modellate dal vento e dalla pioggia. E non ve ne può essere alcuna nella brutale durezza del nuovo intaglio6.
Gli interventi di sostituzione e ripristino delle superfici, il rifacimento degli intonaci e le nuove tinteggiature sono divenuti negli ultimi anni metodiche abitualmente praticate a livello globale. Ed ancora, il pensiero di Ruskin torna attuale quando egli afferma che voi potete fare il modello di un edificio come lo potete di un corpo e il vostro modello può rinchiudere la carcassa dei vecchi muri, come pure il vostro corpo può rinchiudere lo scheletro, ma non ne vedo il vantaggio e poco m’importa. Il vecchio edificio è distrutto: lo è più completamente più inesorabilmente che se fosse crollato in un cumulo di polvere7.
Alla metà del XIX secolo, il deperimento dei materiali rappresenta una problematica da affrontare nell’intervento di restauro. Il trattamento consolidante delle pietre ha una prima cospicua diffusione in Francia, per essere, subito dopo, usato in Germania e in Inghilterra. Ne è testimonianza l’impegno posto da uno dei più noti restauratori inglesi, George Gilbert Scott8. Nel 1849, a seguito della sua nomina ad architetto dell’Abbazia di Westminster, avrà l’opportunità di svolgere un lavoro molto accurato, mostrando attenzione per la conservazione dei materiali di cui l’abbazia è composta, soprattutto la pietra da taglio, ipotizzandone un intervento d’indurimento, mediante una composizione di gommalacca sciolta in «spirito di vino». Questa applicazione si rivelerà fallimentare, peggiorando nel tempo lo stato di degrado delle pietre. L’applicazione della gommalacca aveva due effetti disastrosi: il primo rappresentato dall’annerimento della pietra che assume una tonalità scura; il secondo, dall’accumulo di acqua sotto lo strato indurente, con conseguenti meccanismi di degrado delle superfici lapidee. Durante l’Ordinary General Meeting del R.I.B.A., il 6 gennaio 1862, Scott dichiara che
pagona a fromte Fig. 2 Jorge Otero-Pailos pulisce un muro della fabbrica Alumix di Mussolini (1937). The Ethic of the Dust: Alumix, esposta al European Contemporary Art Biennial 2008, nel Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Bolzano nel 2008. Fonte <http://www. oteropailos.com/the-ethicsof-dust-series/#/the-ethicsof-dust-alumix/> (06/2019).
l’importanza di applicare ai dettagli più fini una soluzione conservatrice, se può essere trovata, è quasi altrettanto grande di quella della difesa delle masse; la polverizzazione della superficie sembra in molti casi andare avanti ad un ritmo costantemente accelerato, e minaccia la rapida perdita delle vere forme delle modanature e della scultura. A Fountains Abbey, forse il miglior esempio di cura di tutti questi resti, ho osservato il costante degrado delle modanature per questa causa; se potessimo salvarli con tale processo, varrebbe la pena. Nell’interno dell’Abbazia di Westminster sto gradualmente indurendo la pietra degradata nel suo stato attuale, e assicurandola (come spero) da ulteriore decadimento; e non è irragionevole sperare che venga trovato un processo che farà lo stesso per il lavoro esterno9.
Anche in Italia, si sperimenta l’uso di nuove sostanze per rallentare il deterioramento della pietra10. Dall’Inghilterra provengono indicazioni su nuovi prodotti consolidanti; questi vengono sperimentati nel restauro delle Porta della Carta in Palazzo Ducale a Venezia, dove è operante un grande cantiere di restauro diretto da Annibale Forcellini11. Intorno al tema della conservazione della materia costitutiva dell’opera d’arte si è sviluppato, negli ultimi anni, un interessante dibattito che ha portato a significativi avanzamenti teorici e operativi. Ma che cosa è oggi la materia su cui si è chiamati ad intervenire e come è possibile differenziare il suo naturale processo d’invecchiamento dalle forme di degrado che inducono fenomeni patologici12. Alcuni studi fondativi, condotti sugli affreschi e in genere sulle superfici decorate, hanno consentito un avanzamento delle sperimentazioni, permettendo l’identificazione di materiali e procedure esecutive, sia tradizionali che moderne, oltre alla definizione di specifiche ricette che talvolta hanno evidenziato alcune criticità. Gli esiti di una multiforme pratica operativa, pur muovendo dal riconoscimento di valori storici e testimoniali, e quindi da indiscutibili esigenze di tutela, si sono rivelati spesso contraddittori. Da una parte si è proceduto, in diversi casi, a pesanti interventi manutentivi consistenti in puliture radicali, utilizzando metodologie a volte fortemente aggressive e alla totale sostituzione degli strati corticali, nella convinzione dell’inutilità o della impossibilità di conservare materiali diversamente degradati a causa della loro esposizione agli agenti atmosferici e, quindi, alla necessità di un fisiologico ricambio. Dall’altra parte, le stesse esigenze manutentive, connesse all’indispensabilità di prevenire le azioni aggressive e degradanti dell’atmosfera, hanno incrementato le sperimentazioni verso la ricerca di metodi di protezione delle superfici. Anche in questi casi, però, non sono mancati errori o risultati negativi a causa di tempi di sperimentazione troppo limitati, solo in parte giustificabili dal rapido avanzamento delle tecniche e dalla disponibilità di sempre nuovi materiali. Per il trattamento della materia, occorreva avvalersi della “superba scienza moderna”, sia per la pulitura che per il consolidamento, con l’impiego di nuovi metodi d’intervento, coltivando la speranza di risolvere definitivamente ogni problema di sopravvi-
Fig. 3 The Ethics Of Dust: Doge’s Palace. Confronto fra la parete di Palazzo Ducale a Venezia e il suo calco in lattice su cui sono depositati «gli strati del tempo e dell’inquinamento». La superficie in lattice è stata esposta alla 53a Biennale d’Arte di Venezia nel 2009. Fonte: Collezione Thyssen-Bornemisza Art Contemporary Foundation T-BA21. Fonte <https:// nexusmedianews.com/ashesto-ashes-and-dust-to-arte63787ba5413/> (06/2019). Fig. 4 Disegno per il progetto dell’istallazione The Ethics Of Dust: Doge’s Palace, realizzato da Jorge OteroPailos nel 2009 per la 53a Biennale d’Arte di Venezia. Fonte: Collezione Thyssen-Bornemisza Art Contemporary Foundation T-BA21.
Remains, «Sessional Papers of the Royal Institute of British Architects», 1861-62, p.69. 9 E. Petrucci, Architectural Restoration. Idee e pratiche nel restauro dei monumenti inglesi, Roma, Aracne 2018, pp.56-57. 10 Cfr. F. Tomaselli, Le prime sperimentazioni nell’impiego dei fluosilicati per il consolidamento dei marmi della Basilica di San Marco a Venezia, in Restauro dell’Architettura. Saggi in onore di Salvatore Boscarino, a cura di M. Dalla Costa, G. Carbonara, Milano, FrancoAngeli 2005, pp.250-
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264, in particolare p.250: «Alcuni ritrovati chimici messi a punto all’inizio del XIX secolo avevano destato grande entusiasmo tra gli intenditori di monumenti. Si era intravista la possibilità di porre la chimica al servizio della conservazione degli antichi edifìci, coltivando la speranza di poter risolvere definitivamente ogni problema di sopravvivenza del patrimonio storico ed artistico». 11 I prodotti chimici e i manuali per eseguire il trattamento erano arrivati a Venezia, su richiesta di Giacomo Boni, giovane architetto collaboratore di Forcellini. L’intervento è descritto in M. Calabretta, F. Guidobaldi, Studi e sperimentazioni di Giacomo Boni su prodotti e tecniche per la conservazione dei monumenti, in Manutenzione e conservazione del costruito fra tradizione ed innovazione, Atti del convegno Scienza e Beni culturali (Bressanone 24-27 giugno 1986), a cura di G. Biscontin, Padova, Libreria Progetto 1986, pp. 81-90. 12 Sul significato del degrado cfr. S. Muñoz Viñas, Teoria contemporanea del restauro, Roma, Castelvecchi 2017, pp. 94-97, in cui si afferma che «il concetto di degrado è cruciale nel restauro: è premessa all’esistenza stessa dell’attività, dato che senza degrado, effettivo o potenziale, non ci sarebbe alcuna azione di restauro. Ciononostante non sempre è chiaro che degrado non equivale ad alterazione».
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venza del patrimonio storico artistico13. In un prospettiva fortemente conservativa e con una nuova attenzione rivolta alle fonti d’inquinamento che si erano moltiplicate a causa dei rapidi processi d’industrializzazione, si colloca un altro interessante scritto di Ruskin, The Ethics of the Dust, pubblicato nel 186614. Vi sono raccolti, sotto forma di dialogo socratico, alcuni pensieri sulla dimensione temporale dei processi d’invecchiamento. Egli sostiene che la polvere − the Dust − con le sue potenzialità chimiche, esercita un potere formativo mentre si trasforma e si muove incessantemente in una miriade di forme che si depositano sulla superficie (Fig. 1). La polvere rappresenta, quindi, un sistema dinamico che si muove attraverso stati di dissoluzione e decadimento, diluizione e concentrazione e questo può caratterizzare la stessa superficie in un nuovo processo formativo15. Da queste premesse, Ruskin sviluppa un ragionamento in merito alla polvere come documentazione storica: lo sporco lasciato dal tempo sui muri è un indice della qualità dell’aria respirata da generazioni di uomini nella storia, che può essere ricostruita attraverso le analisi di laboratorio. Nella fenomenologia della contemporaneità, l’eredità di Ruskin è raccolta dall’artista/ architetto Jorge Otero-Pailos16 con un’inedita strategia conservativa, denominata The Ethics of Dust, che si pone l’obiettivo di “rilevare” dalle superfici, le specificità dell’aria in diversi luoghi e in diverse epoche, costituendo una sorta di «archivio dell’inquinamento»17. Sulla parete viene steso uno strato di lattice allo stato liquido che è lasciato in posa per qualche giorno, per essere successivamente staccato. Il risultato visivo è una grande pannellatura opalescente che presenta una superficie macchiata e irregolare, recando le tracce dello sporco depositato sul muro (Fig. 2). Il riferimento a John Ruskin e alla necessità di conservare la time stain, è evidente nei contenuti e negli obiettivi di Otero-Pailos e si manifesta in modo ancora più esplicito nel titolo che si rifà al libro The Ethics of the Dust, in cui Ruskin richiamava al rispetto per la lentezza dei processi naturali attraverso principi di geologia e mineralogia, intessuti di riferimenti mitologici. Otero-Pailos aspira a realizzare un lavoro scientifico e seriale, rilevando dalla superficie di diversi edifici, le specificità dell’aria in diversi luoghi e in diverse epoche18. Durante la Biennale del 2009, una delle superfici di Palazzo Ducale a Venezia è stata “pulita” con uno strato di lattice adesivo, togliendo via secoli di polvere, quella sorta di marchio lasciato dalle condizioni climatiche e atmosferiche, dalle pratiche di manutenzione, persino dai materiali chimici già usati in precedenti interventi di restauro19 (Figg. 3, 4). Questo si connette all’annosa quaestio della pulitura e della sostituzione delle pietre degli edifici veneziani. Otero-Pailos compie una duplica operazione: da un lato conserva l’informazione autentica che si lega alla polvere e all’inquinamento e dall’altro effettua una pulitura dello strato di superficie (Figg. 5, 6). In questa prospettiva, è fedele alla tradizione ruskiniana, secondo la quale «la gloria più grande di un edificio non risiede né nella pietra né nell’oro di cui è fatto […] La sua gloria risiede nella sua età, che noi sentiamo nei muri che a lungo sono stati lambiti dagli effimeri flutti della storia degli uomini»20. Pur essendo un calco, la superficie creata da Otero-Pailos, così come il velo della Veronica o la Sacra Sindone, assume un valore di unicità e di autenticità. La superficie di lattice rappresenta una sorta di «monitoraggio» ruskiniano delle superfici che vengono attentamente analizzate in termini scientifici21.
13 Cfr. G. M. Ventimiglia, Il ruolo della cultura inglese nella definizione del restauro come disciplina, in F. Tomaselli, Restauro Anno Zero. Il varo della prima Carta italiana del restauro nel 1882 a seguito delle proteste internazionali contro la falsificazione della Basilica di San Marco a Venezia, Roma, Aracne 2013, p. 301. 14 J. Ruskin, The Ethics of the Dust: Ten Lectures to Little Housewives on the Elements of Crystallization, New York, John Wiley & Son 1866. 15 Cfr. E. Mershon, Ruskin’s Dust, «Victorian Studies», Vol. 58, 3, 2016, pp. 464-492, in particolare, p. 486 dove si evidenzia la natura cristallina della polvere che ha un potere formativo e accumulativo su una determinata forma che assume un valore transitorio nel vortice della vita molecolare. La forma è una tregua compositiva tra le scomposizioni e le decomposizioni; per questo motivo, la polvere, con le sue caratteristiche «organiche» sembra poter arricchire la forma transitoria della stessa composizione artistica. 16 Jorge Otero-Pailos è un artista, architetto conservatore e teorico che si associa alla corrente del «Experimental Conservation» e alla rivista «Future Anterior». È direttore e professore di conservazione presso la Columbia University, Graduate School of Architecture, Planning and Preservation (Columbia GSAPP). 17 I risultati della strategia di pulitura delle superfici, che va sotto il titolo The Ethics of Dust, sono stati esposti alla 53a Biennale di Venezia, alla Westminster Hall, al Victoria & Albert Museum e al SFMoMA. Cfr. E. Grazioli, La polvere nell’arte, Milano, Mondadori 2004; L. Fusi, Ethics Impressed on Dust: Nihil potest homo intelligere sine phantasmate, in Jorge Otero-Pailos: The Ethics of Dust. Thyssen-Bornemisza Art Contemporary, a cura di E. Ebersberger, D. Zyman, Köln, Walther König 2009, pp. 72-75. 18 Cfr. E. Ebersberger, D. Zyman, The Ethics of Dust: Doge’s Palace, Venice 2009, in Jorge Otero-Pailos: The Ethics… cit, pp. 50-71. 19 Cfr. V. Burgio, Dal dagherrotipo di John Ruskin all’impronta di Jorge Otero-Pailos: The Ethics of Dust, Doge’s Palace, in Sulla 53a Biennale di Venezia, a cura di T. Migliore, «Quaderni della Biennale», Milano, Edizioni Et Al. 2011, pp. 95-106. 20 John Ruskin, Le sette lampade...cit., pp.219-220. 21 Jorge Otero-Pailos afferma che «la sperimentazione e il restauro sono stati, fino a poco tempo fa, tenuti lontani. Ciò nonostante, i professionisti contemporanei difendono la necessità di sperimentare per far progredire la conoscenza degli oggetti – e in effetti per proteggere il loro futuro. Oggi, le domande cruciali non sono più inquadrate in termini teologici; il dibattito si è spostato in termini biotecnologici, dal momento che abbiamo iniziato a manipolare il DNA umano e man mano che la nostra comprensione delle forze climatiche si è evoluta. Con l’emergere della scienza del clima, il tempo ha cessato di essere visto come un agente di decadimento “naturale” contro il quale eravamo indifesi. Ora comprendiamo che l’inquinamento causato dall’uomo sta alterando il clima planetario a tal punto che siamo entrati in una nuova era geologica: l’Antropocene». Cfr. F. Gallati, “Sono un conservatore sperimentale”, «Abitare» n.565, 2017, pp. 46-50, <http://www.oteropailos.com/the-ethics-ofdust-series> (06/2019); J. Otero-Pailos, Experimental Preservation, «Places», <https://placesjournal.org/ article/experimental-preservation/> (05/ 2018).
Fig. 5 Disegno di Jorge Otero-Pailos nel 2015 per il progetto artistico intitolato The Ethics of Dust, Westminster Hall. Fonte <http://www. oteropailos.com/the-ethicsof-dust-series#/the-ethicsof-dust-westminster-hall> (06/2019). Fig. 6 The Ethics of Dust: Westminster Hall. La riproposizione in lattice con gli strati superficiali staccati dalla parete dell’abbazia di Westminster, esposta a Londra nel 2016. Fonte <http://www.oteropailos. com/the-ethics-of-dustseries#/the-ethics-of-dustwestminster-hall/>(06/2019).
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Finito di stampare da Officine Grafiche Francesco Giannini & Figli s.p.a. | Napoli per conto di didapress Dipartimento di Architettura UniversitĂ degli Studi di Firenze Novembre 2019