n.34 - giugno 2017
A viaggio fra i beni confiscati alle mafie d'italia
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VISIONI
Mauro Biani
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ALLA CONQUISTA DEI BENI PERDUTI Giuseppe Mugnano
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LEGGE 107/96 Una luce di speranza nella lotta alle mafie Chiara Valzano
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I BENI CONFISCATI IN SICILIA Un caso più che aperto Davide Tumminelli
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LA CALABRIA NEL SEGNO DI REGGIO Salvatore Lo Monaco
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LA PUGLIA E LA CONFISCA DEI BENI: le origini, le iniziative, i problemi Chiara Valzano
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MOLISE, TERRA DI QUALCUNO
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CAVALCARE UN ONDA LIBERA
Matteo Campana Matteo Campana
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STORIE DI RINASCITA IN CAMPANIA Veronica Rafaniello
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EMILIA ROMAGNA TERRA DI (NUOVE) CONFISCHE Sergio Scollo
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UNA CAROVANA DI LEGALITà A SUON DI MUSICA Veronica Rafaniello
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editoriale
ALLA CONQUISTA DEI BENI PERDUTI
di Giuseppe Mugnano
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equestrare e, poi, confiscare i beni è il colpo più duro che si possa infliggere alle organizzazioni criminali. Sottrarre ciò che è appartenuto a loro è lo sgarro più grosso che gli si possa fare. Eppure prendere in gestione un bene confiscato non è un’operazione semplice, spesso richiede anni di pro-gettualità che altrettanto spesso vengono disattese. Nel nostro Paese sono disseminate decine di mi-gliaia di beni confiscati alle mafie, 22.990 per l’esattezza (secondo gli ultimi dati dell’Agenzia Na-zionale per i Beni Sequestrati e Confiscati, aggiornati a fine 2015), ma la percentuale dei beni riuti-lizzati a fini sociali non arriva neppure alle doppia cifra decimale. Risulterebbe quindi troppo facile parlare dei molteplici beni confiscati rimasti vacanti, come monumenti effimeri di un potere mafioso che non esiste più (o si è spostato altrove). È più interessante parlare invece delle realtà che fun-zionano, dei progetti nati per offrire alla comunità qualcosa che aggregasse, all’insegna della legalità. E mentre in sede parlamentare si discute la riforma del Codice Antimafia, che vedrebbe anche delle modifiche in materia di gestione dei beni confiscati alle mafie (in prima istanza lo spostamento della sede nazionale da Reggio Calabria a Roma, di cui parleremo in questo numero), c’è chi, tra mille difficoltà economiche e continue intimidazioni, porta avanti il proprio percorso di giustizia. Un viaggio in questo frastagliato panorama prevederebbe troppe tappe, per cui è opportuno dividere il percorso in più itinerari: meglio partire dal Sud d’Italia, dove vi si concentra il maggior numero di beni confiscati. Quale occasione migliore per parlare del Giardino di Scidà, bene confiscato nel ’99 alla mafia catanese e che presto verrà consegnato alla nostra redazione centrale de I Siciliani giovani; un bene comune da condividere con altre associazioni quali Arci Catania, Fondazione Fava, GAPA, Circolo Arci Melquiades, Collettivo Scatto Sociale e Movimento Artistico d’avanguardia. “Questo è il miglior modo per far rete - esultano dalla redazione dei Siciliani - condividere esperienze, idee e progetti, come quello di una radio comune, che abbiamo messo già in cantiere”. L’oasi verde sorgerà nel nome di Giambattista Scidà (Titta per i concittadini etnei), magistrato che ha combattuto in prima fila contro la mafia e sempre al fianco dei più deboli. Ora non resta che aspettare l’atto della consegna delle chiavi, per iniziare questo nuovo percorso di socialità. La riconquista di uno spazio è riconquista di un pezzo di libertà, un primo passo - come affermano I Siciliani - per cambiare il mondo. �
LEGGE 109/96
UNA LUCE DI SPERANZA NELLA LOTTA ALLE MAFIE di Chiara Valzano
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o studio e le indagini sull’evoluzione del fenomeno mafioso hanno riportato negli ultimi anni un quadro generale profondamente eterogeneo e irregolare. La mafia non agisce seguendo medesimi schemi. La mafia non si avvale degli stessi strumenti. Diversi sono i mercati di interesse, le modalità d’azione, il rapporto che le mafie moderne instaurano con il resto della società. Ma alla base di tutte le diverse
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organizzazioni, alla base dei più disparati obiettivi e scopi, vi è un dato unificante: la loro grande potenza economica. È questa potenza economica che consente di “creare vere e proprie signorie sul territorio”, che permette di intrecciare legami con la politica, con la società con le reti di imprese ed il mercato. Proprio per questo motivo, lo strumento di rappresaglia utilizzato per combattere la battaglia contro questa “potenza”, consiste
nell’attaccare i suoi beni, le sue ricchezze, mettendole a disposizione del resto della comunità. Era questo il sogno perseguito da Pio La Torre: “far diventare i beni confiscati da beni esclusivi in mano a pochi, a beni inclusivi a disposizione di una comunità. Beni capaci di generare valori e sviluppare relazioni virtuose nella società, nell’amministrazione e nell’economia del nostro Paese.” Proprio con tale scopo il 7 mar-
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zo 1996, entra in vigore la legge 109 sul riutilizzo dei beni confiscati alle organizzazioni criminali. E’ una svolta epocale per il nostro Paese. Il valore di questa legge risiede nel fatto che il bene confiscato assume sfumature positive di significato: questo non è inteso solo come un bene sottratto all’attività mafiosa, ma viene a delinearsi come un bene funzionale allo sviluppo economico e sociale. Restituire beni, di cui tali criminalità si arricchiscono illegalmente nel tempo, alla collettività, permette di creare un rapporto di fiducia alternativo a quello sussistente tra le organizzazioni e la società. In un’intervista del 2011 per l’anniversario dei quindici anni dall’entrata in vigore della 109, Don Luigi Ciotti, afferma che il bilancio relativo al lavoro svolto negli anni è positivo, ma permangono numerose criticità. Don Ciotti ricorda quanto spesso sia difficile dare applicazione alla legge, e permettere la sua effettività a 360 gradi. Il Don continua asserendo: “Numerosi e concreti i percorsi di giustizia, i diritti costruiti grazie alla 109: dagli edifici trasformati in scuole, caserme, centri per anziani, alle cooperative che sui terreni confiscati danno lavoro a tanti giovani e mobilitano tutte le forze sane dei territori.” L’elevato numero di sequestri e confische, porta oggi a confrontarsi con una dura realtà: tanti sono ancora i beni confiscati rimasti inutilizzati; molteplici quei beni che non riescono a trovare una nuova e lecita destinazione economica. Sconosciuta è ancora la soluzione che si vuole dare a tale 6
problema, ma per il momento si intende escludere la vendita di tali beni. E questo proprio per la ratio seguita dal legislatore nel ‘96: si vuole ricreare il valore di questi, li si vuole rendere nuovi, li si vuole “battezzare” impiegandoli in attività di solidarietà, di lavoro per giovani, quasi a volerli riscattare da un passato di corruzione e illegalità. Tra l’altro in questi vent’anni di applicazione della 109, è stato dimostrato come anche nelle realtà più difficili, attraverso la collaborazione e la buona volontà si possano raggiungere straordinari risultati. E questo sogno è riuscito a realizzarsi anche nelle campagne del Mezzogiorno, anche se parzialmente, dimostrando che la legalità conviene! Altro problema di non facile soluzione riguarda la mancanza di trasparenza nelle informazioni, ma anche nelle procedure di assegnazione di tali beni. Per non parlare della urgente necessità di trovare fondi destinati alla conservazione, ricreazione e utilizzo di tali ricchezze. Con la nuova proposta di legge, tra le più discusse in questo periodo in Parlamento, si cerca di rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti. La proposta permette innanzitutto di ampliare la destinazione economica di tali beni che potranno non solo essere utilizzati per attività sociali e istituzionali, ma anche per attività economiche. Inoltre si amplia il novero degli enti cooperativi cui saranno assegnati i beni confiscati. Il tribunale potrà anche d’ufficio ordinare il sequestro dei beni sin dalla presentazione della proposta
I BENI CONFISCATI IN
SICILIA
UN CASO PIù CHE APERTO di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, ove ne ricorrano i presupposti di legge. Per concludere, la restituzione alla comunità dei beni accumulati illecitamente dalle mafie ha rappresentato sicuramente una storia dal finale fiabesco. Una storia di riscatto che ha acceso una nuova luce di speranza. La speranza che un giorno la nostra economia possa basarsi sul lavoro onesto e giusto; la speranza che il nostro Paese sia ancora abitato da uomini e donne che vivono ogni giorno con il coraggio e la forza di volontà di chi percorre cento passi �
di Davide Tumminelli
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uando si pensa alla mafia, viene inevitabilmente in mente la Sicilia. La regione più grande d’Italia è anche quella che, per varie ragioni, ha visto più volte applicata la legge 109/96. Sono quasi cinquemila i beni confiscati in territorio siciliano. Cinquemila ville sfarzose, abitazioni, palazzi, sottratti alla criminalità organizzata e restituiti, come voleva Pio La Torre e come vorrebbe la legge, alla cittadinanza per scopi virtuosi? No, purtroppo. I beni destinati e assegnati in Sicilia,
ad oggi, sono meno della metà. Lo si apprende dalla relazione redatta (nel giugno del 2015, ndr) dal settore nono della Presidenza della Regione sull’attività di monitoraggio riguardante la rilevazione delle criticità inerenti l’utilizzazione dei beni confiscati assegnati al patrimonio indisponibile dei 390 Comuni siciliani. Ci sono più di tremila beni abbandonati. Vuoti. Inutilizzati. E’ una lotta contro il tempo. Il lasso di tempo che passa in media tra la confisca e l’assegnazione per utilizzo sociale sfiora i
12 anni. Ogni giorno che passa, senza nessuno che se ne occupi e senza manutenzione, ognuno di questi oltre tremila beni, si sgretola e perde valore. I motivi dei ritardi sono molteplici; basti pensare che più dell’80% dei beni confiscati dalle procure siciliane risulta gravato da ipoteca. Oltre alle pratiche burocratiche, si incontrano anche le difficoltà ambientali, che rendono estremamente difficile trovare qualcuno che sia interessato al bene. È emblematico il caso di Castelvetrano, dove in contrada Canalotto,
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circa un anno fa, sono stati dati alle fiamme venti ettari di uliveto confiscati alla famiglia dei Sansone, costruttori palermitani e proprietari della villa dove si nascondeva Totò Riina al momento della sua cattura. Il fatto è avvenuto qualche settimana dopo la concessione all’associazione Libera dei terreni. Tutto questo causa fenomeni come quello di Licata, cittadina in provincia di Agrigento. Grazie alle denunce dell’associazione A testa alta è stata riscontrata la completa violazione da parte del Comune della normativa sulla pubblicazione e procedimentalizzazione
nel lontano 2000. Doveva divenire il vivaio comunale, e oggi è divenuto una discarica a cielo aperto sequestrata di recente dai carabinieri. Grazie al lavoro del commissario straordinario Grazia Brandara, che ha cercato di regolare il più possibile la situazione, oggi è possibile sapere quali e quanti beni confiscati ci sono a Licata. Camminando per l’abitato si riconoscono. In ognuno di essi è stata affissa una targa, ma guardarli provoca enorme tristezza; sono pochissimi quelli agibili e utilizzabili, forse nessuno. Come se non bastassero le pro-
intorno all’ex Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto. Stando a quanto sostiene il piano accusatorio, la maggior parte dei beni confiscati in Sicilia era assoggettato a logiche clientelari e a forti interessi lucrativi di chi deteneva la gestione legale dei beni. Gli indagati principali di questa vicenda sono stati di recente rinviati a giudizio dalla Procura di Caltanissetta e probabilmente il processo aprirà nuove pagine su questa vicenda. In mezzo a questo marasma però non è tutto nero. La mac-
per l’assegnazione dei beni, che, in quanto ente assegnatario, da questo dovevano essere svolte. Sono venuti fuori tantissimi beni di cui si era persa memoria. Tra questi, un vastissimo terreno in contrada Passerello, un tempo appartenuto a Salvatore Alabiso e assegnato al Comune
blematiche burocratiche e quelle legate al risentimento di chi quei beni se li è visti togliere, altri problemi per questa enorme ricchezza inutilizzata arrivano anche da chi a quei beni dovrebbe dare una nuova vita. È su questo che si incentra lo scandalo e la successiva inchiesta scoppiata
china delle assegnazioni, seppur a rilento, continua a camminare. Il 17 aprile, all’Hotel San Paolo Palace di Palermo, l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata ha consegnato a Prefetti e Sindaci siciliani più
di quattrocento beni confiscati. La consegna è stata anche l’occasione per il Prefetto Postiglione (direttore fino allo scorso anno dell’ANBSC) di raccontare le storie virtuose di quattro strutture sottratte alla mafia, che oggi sono alberghi che fanno il pieno di turisti e fatturato. Uno dei quattro è proprio il San Paolo Palace. E’ evidente e la dimostrazione che sfruttare i beni è possibile. In Sicilia e in tutta Italia. A tal proposito ci sono altre storie positive che vale la pena di raccontare. La prima riguarda la Calcestruzzi Ericina, confiscata definitivamente nel 2000 al boss Vincenzo Virga, capo-mandamento di Trapani. Con la riassegnazione del 2008, l’azienda ha aggiunto alla sua denominazione Libera e oggi conta 13 dipendenti. “La nostra forza è che non ci siamo mai fermati - spiega Gisella Zagarella, ingegnere ambientale della cooperativa anche quando hanno disposto il sequestro dell’azienda. Abbiamo avuto coraggio nel fondare la cooperativa. E ci volle anche coraggio nell’assumere me, grazie all’intervento dell’allora Prefetto Sodano, che fece valutare dei curricula di alcuni studenti dell’Università di Messina, tra cui il mio. Pensate che affronto alle organizzazioni criminali inserire una donna nell’organico, per di più come ingegnere ambientale (attualmente anche in qualità di amministratore delegato). Ora alla Calcestruzzi Ericina vige la legalità”. Molto più travagliata è stata invece la questione riguardante un’altra ditta per la produzione di calcestruzzi, di stanza a Montevago, provincia di Agrigento: la Calcestruzzi Belice. L’azienda, sequestrata nel 2010 al Gruppo Cascio (al cui vertice c’era Rosario, coin-
volto poi nell’inchiesta Scacco Matto del 2014), era stata ricostituita come cooperativa sociale, sotto l’egida dell’ANBC. Nel 2016 il tribunale di Sciacca dichiara il fallimento dell’azienda per un debito di circa 30mila euro con l’ENI. Lo Stato contro se stesso. “Abbiamo continuato a lavorare fino a dicembre - racconta Luigi Castiglione, uno dei dipendenti della Calcestruzzi Belice - dal momento che non eravamo ancora stati iscritti nei registri fallimentari. Con il nuovo anno ci hanno intimato di chiudere e lì abbiamo cominciato ad occupare l’azienda, consapevoli di essere vittime di un’ingiustizia”. A queste vicende sono seguiti mesi di trattative, interrogazioni parlamentari, incontri con i sindacati e con l’Agenzia Nazionale. “L’Agenzia fino a quest’anno, quando sono cambiati i quadri dirigenziali, non ha mai discusso direttamente con noi, preferendo dialogare attraverso la CGIL. Spesso è più facile far fallire le aziende che trattarne la riapertura. Negli ultimi mesi però le cose sono cambiate, il Presidente Sodano ha ascoltato le nostre rimostranze e grazie anche al suo lavoro siamo arrivati all’accordo di Roma di qualche giorno fa”. Il 22 luglio scorso infatti, dopo un incontro tra dipendenti, sindacati e ANBSC, si è arrivati alla firma dell’accordo che vede (dopo che il Tribunale di Palermo si era pronunciato sulla revoca del fallimento aziendale) la riassunzione dei lavoratori a partire dal 1 luglio. “Pur di tornare a lavorare, abbiamo decurtato parte del nostro stipendio, riassumendo anche col minimo salariale - ammette Castiglione -. Dobbiamo però dire che all’interno dell’Agenzia le cose non funzionano sempre come
dovrebbero, motivo per cui ci si auspica l’approvazione della riforma del Codice Antimafia, che vedrebbe lo spostamento della sede centrale dell’ANBSC nella Capitale e un aumento del personale della stessa, ora incapace di gestire l’ingente mole di beni confiscati presenti su tutto il territorio nazionale” �
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versano in condizioni di totale nullatenenza. Il primo cittadino ha poi allargato l’idea a tutti i comuni che fanno capo a Reggio Calabria attraverso l’adozione di un regolamento unico per i beni comuni confiscati; Reggio, va ribadito, è stata la prima città italiana ad adottare tale regolamento.
LA CALABRIA NEL SEGNO DI REGGIO di Salvatore Lo Monaco
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n una cornice meridionale va sicuramente messo a fuoco il ruolo della regione Calabria in tema di confisca dei beni, tema in cui la regione detiene una posizione di primo piano nel pa-norama nazionale: questa regione, infatti, nonostante conti un numero di residenti inferiore alla Lombardia o all’adiacente Sicilia, si trova, dati alla mano, sul podio della classifica nazio-nale in materia di beni immobili e mobili confiscati alla criminalità organizzata, con il 15% degli stessi beni presenti sul territorio nazionale, collocandosi dunque in una posizione im-mediatamente successiva alle regioni Sicilia e Campania e prima di Puglia, Lazio, To-
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scana e Lombardia. Di pari passo alla confisca di beni mobili e immobili, si può notare un contestuale operato dell’amministrazione regionale volto al riutilizzo degli stessi in favore, questa volta, della so-cietà per fini sociali e/o istituzionali, ponendoli a disposizione dunque di un pubblico di uten-za variegato. La regione Calabria ha ben chiara la finalità manifestata a livello nazionale dalla legge 109/96; lo dimostra la condotta attiva davanti alle istituzioni nazionali del primo cittadino del comune di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, il quale ha sostenuto una proficua collaborazione con l’Agenzia dei Beni Confiscati e le as-
sociazioni di settore, avviando un tavolo di discussione con gli studenti di Architettura, al fine di scegliere un nuovo volto di questi beni e la migliore destinazione possibile. Attraverso tale operato Falcomatà si è assicurato la consegna di oltre 85 beni presso il comune di Reggio fino allo scorso 2016. La strategia del sindaco di Reggio si è mossa allo scopo del raggiungimento di obiettivi e van-taggi fondamentali per la comunità, quali l’assegnazione (previa regolare richiesta) di tali beni alle varie associazioni territoriali, in virtù di una riqualificazione del territorio stesso, ma anche la destinazione degli stessi ad uso abitativo in favore di coloro i quali
Gli archivi di Libera permettono di avere testimonianza della proficua politica del piccolo co-mune di Polistena (RC), a partire già da un episodio, noto alla cronaca nazionale, avvenuto nel maggio 2009: si tratta del sequestro di un maxi fabbricato alla ‘ndrangheta, in cui, tra le varie porzioni immobiliari, vi era anche un modesto bar locale; tale struttura fu assegnata poi dall’Agenzia del Demanio alla Parrocchia del Duomo cittadino per essere adibita a “struttura polivalente a beneficio degli abitanti del quartiere, con particolare riguardo alla fascia minori-le e giovanile”. La stessa parrocchia, guidata da padre Demasi, cercò di realizzare in questo modo un centro di aggregazione giovanile, ed in tale contesto fu rilevante l’azione volontaria proprio di quelli che poi sarebbero stati i fruitori di tale opera, i giovani, i quali, per portare celermente a termine i lavori coinvolsero la RAI, tramite la crew del programma televisivo “I sogni son desideri”. Furono loro infatti a scrivere alla redazione una lettera piena di commozione, esprimendo la volontà che il loro sogno di questi giovani venisse realizzato: “trasformare quel bar in un centro sociale”.
La sera del 23 maggio 2009 i giovani della parrocchia di padre Demasi e i giovani tutti della comunità di Polistena hanno festeggiato l’inaugurazione del nuovo centro di aggregazione giovanile, p o r tando così a termine un p r o getto che dura tutt’oggi. Il centro è stato rinominato recentemente Centro polifunzionale padre Pino Puglisi e rappre-senta un punto saldo non solo per i giovani ma per la comunità intera di Polistena. “Mante-nendo un centro di aggregazione minorile - spiega padre Demasi - abbiamo allargato gli orizzonti del progetto iniziale introducendo un laboratorio clinico per conto di Emergency e un ostello sociale per i giovani che lavorano nei campi per l’associazione Libera”. Il progetto semidecennale rappresenta un esempio nel segno della legalità e dell’integrazione sociale. L’impegno del Comune di Reg-
gio Calabria nella lotta alla mafia e nel riutilizzo dei beni confi-scati alla criminalità organizzata continua, e non solo nel segno di un’isolata attività amministrativocomunale, ma potendo contare anche su una forte solidarietà cittadina; lo scorso gennaio, infatti, è stata rivelata ai cittadini la decisione comunale di destinare ai senzatetto lo-cali una struttura di ben quattro piani, precedentemente confiscata alla cosca ‘ndranghetista degli Audino. La stessa area, adesso adibita a struttura di accoglienza, è stata prontamente dotata di luce ed acqua corrente dal Comune, cui è seguito l’intervento della protezione civile che ha dotato i quattro piani di numerose brandine; infine, grazie alla collaborazione dei cittadini, sono state distribuite anche coperte e indumenti. “É un modo per affermare concretamente la legalità - commenta entusiasta il sindaco reggino - In questo modo lanciamo un messaggio chiaro: stare dalla
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parte della legalità conviene sempre”. Il rapporto di reciproca solidarietà tra l’amministrazione comunale di Reggio e i cittadini sembra oggi vivere i suoi giorni migliori, se osservato alla luce della vicenda della proposta di emendamento al codice antimafia, avanzata dal parlamentare Giuseppe Lumia, in merito allo spostamento della sede dell’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Beni Sequestrati e Confiscati, che da anni ha sede proprio a Reggio Calabria. In un clima che precede la pronuncia del Senato sulla stessa proposta, varie associazioni antimafia si sono mosse per la realizzazione di un sit-in davanti l’attuale sede dell’ANBSC, sit-in a cui ha preso parte la comunità intera e lo stesso sindaco Falcomatà, in rappresentanza della propria amministrazione comunale; tale sit-in rappresenta un urlo di protesta della comunità reggina e calabrese tutta, in nome della rivendicazione della presenza della ANBSC sul territorio calabrese, ormai baluardo della lotta alla ‘ndrangheta, simbolo di speranza e di esempio per la comunità. Facendosi carico del malcontento di chi da anni riversa tutte le proprie energie nella lotta alla ’ndrangheta, Falcomatà si rivolge con fermezza al governo italiano: “Sulla vicenda dell’Agenzia non accetteremo una via diversa, Reggio non assisterà inerme a questo scippo. Questa è l’occasione giusta per continuare ad affermare la lotta alla ‘Ndrangheta»�
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LA PUGLIA E LA CONFISCA DEI BENI
LE ORIGINI, LE INIZIATIVE, I PROBLEMI di Chiara Valzano
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nni ’70. Le distese di ulivi caratterizzanti le campagne salentine sono il teatro dello sviluppo di una pericolosa e spietata organizzazione criminale denominata Sacra Corona Unita. Col tempo quest’organizzazione s’insinuò sempre più nella rete sociale, inquinandone l’e-
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conomia e la politica. Di color rosso sangue, maggiormente intinte furono le zone del brindisino, dove negli anni a venire le forze dell’ordine e la magistratura estirparono il germe che aveva avvelenato la pace del tempo. Caratterizzata dalla struttura e dai comportamenti tipici della mafia siciliana, anche la SCU si avvaleva del potere economico come mezzo per il suo sviluppo e diffusione. Anche nel Salento si contano dunque numerosi beni confiscati alla criminalità organizzata. Anche in Puglia quindi, a seguito dell’emanazione della legge 109/1996, una “montagna di beni” sono stati sottratti alla mafia. Dalle aziende ai bianchi casolari, dalle ricche tenute agli spogli terreni, dalle produttive aziende locali alle meravigliose ville private, più di diecimila sembrano essere i beni confiscati, di cui circa la metà sono già stati destinati e circa un terzo sono stati dati in gestione. Ma a prescindere dalla quantità di questi beni, ciò che maggiormente risalta agli occhi è certamente il loro valore inestimabile. Solo per fare alcuni esempi. Nel barese, una delle ville del Lazzaretto, destinate al traffico di sti stupefacenti, è stata adibita a centro di assistenza terapeutica per donne incinte che soffrono di tossicodipendenza. Tra Ceglie e Bitritto è stata creata una fattoria sociale. Nel vecchio feudo di un boss, dove fino a poco tempo fa regnava lo sfarzo e la ricchezza, sarà realizzata una fattoria con micro-birrificio artigianale 14
in grado di ospitare otto soggetti bisognosi che verranno formati sulla filiera agricola e reinseriti nel mondo lavorativo attraverso la produzione, l’imbottigliamento e la distribuzione di birra «a chilometro zero». A Torchiarolo, circa venti ettari di terreno sono stati selezionati per essere adibiti alla coltivazione di grano biologico, destinato alla produzione dei famosi tarallini pugliesi Libera Terra. Ancora nel mesagnese più di trenta ettari di vigneto tipico sono in via di recupero. Libera Terra Puglia è uno tra i tanti progetti che sono nati nella regione per favorire una migliore gestione dei beni confiscati alla criminalità. L’obbiettivo consiste nel favorire la creazione di nuove cooperative si distinguano per qualità, e che operino sul mercato secondo i canoni della legalità, con la capacità di restituite alle comunità locali ciò che un tempo le è stato sottratto con la violenza e con la forza. Altro progetto di grande rilevanza in materia è “Libera il Bene”, iniziativa della regione nell’ambito di Bollenti Spiriti. “La Puglia, con Libera il Bene, intende superare gli ostacoli all’effettivo riuso dei beni confiscati, attraverso il finanziamento degli enti locali destinatari dei beni, il coinvolgimento attivo dei territori, la raccolta di idee per la loro riconversione a fini economici e sociali”. Così ha dichiarato l’ex presidente Vendola alla presentazione del progetto. Attraverso un bando aperto alle province e ai Comuni pugliesi, Libera il Bene ha finanziato progetti di recupero e ristrutturazione dei beni con-
fiscati, non solo come simbolo nella lotta contro le mafie, ma anche come mezzo per lo sviluppo economico e sociale del territorio. Ovviamente, anche di fronte a queste iniziative, diversi sono i problemi che si pongono. Perché, per quanto la legge del ’96 abbia significato un momento di svolta nella lotta contro le mafie, il procedimento creato per l’assegnazione e la ricreazione di questi beni e spazi non è di facile e immediata applicazione. I problemi sono di carattere normativo. Sono problemi che riguardano le tempistiche necessarie per la riutilizzazione di questi beni. Talvolta si tratta di problemi intrinsechi nelle organizzazioni o cooperative assegnatarie, ma nella maggior parte dei casi sono problemi legati all’aspetto economico. E questo perché il riuso dei beni richiede cospicui investimenti, risorse che i Comuni spesso non hanno a disposizione. Quindi, per concludere, numerosi sono stati i progressi della Regione dagli anni in cui la legge fu approvata, ma lunga è ancora la strada sia per la Puglia, sia per il resto dell’Italia, nell’ambito di una più scarna e agevole proceduralizzazione di tale iniziativa, che da anni ormai è venuta a delinearsi come un tassello chiave nella guerra contro la criminalità �
MOLISE, TERRA DI QUALCUNO di Matteo Campana
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l Molise è tra la regioni d’Italia con il minor numero di confische di beni alle mafie. L’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e confiscati alle mafie (“openregio.it”) attesta infatti la presenza di “solamente” cinque immobili in gestione attualmente confiscati nella Regione. Si tratta di due appartamenti, un’autorimessa e due campi agricoli. Un appartamento e l’autorimessa son stati posti sotto confisca dall’ufficio giudiziario della Procura della Repubblica di Napoli e si trovano nella
provincia di Isernia, all’interno del comune stesso. Il secondo appartamento è situato nel centro storico di Campobasso ed è stato sottratto tredici anni fa al clan della Sacra Corona Unita; i campi agricoli invece, sempre in provincia di Isernia, appartengono al comune di Cantalupo del Sannio, sottratti alla camorra. Secondo i dati che riportano queste informazioni soltanto i due capi agricoli sopracitati sono stati confiscati totalmente al 100%. Gli altri due immobili si trovano attualmente ad
una confisca dell’83%, in attesa quindi che venga raggiunta la confisca definitiva del bene. FOCUS SULL’ABITAZIONE IN VIA SANTA CRISTINA L’abitazione, un umile appartamento situato tra le viuzze strette e piene di gradini del centro storico, fu sequestrata tredici anni fa ad un affiliato della malavita pugliese, un operaio foggiano stabilitosi nel centro storico di Campobasso, affiliato al clan della
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Sacra Corona Unita; di giorno svolgeva un’attività da operaio e di notte si prestava alla malavita, fornendo servizi ad attività criminali legate al traffico di droga e ad un giro di prostituzione. Fu condannato per questi medesimi reati insieme ad altri esponenti del clan della malavita foggiana. Questa casa, dopo essere stata sequestrata, attraverso l’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati, è passata alla Prefettura, e sei anni fa al Comune di Campobasso. Ciò che aggrava la situazione dell’immobile e la confisca stessa è che il bene necessita il restauro ma a causa della mancanza di fondi
dell’amministrazione Battista (sindaco di Campobasso), tutto è fermo. A seguito di ciò, è subentrata Libera Molise che aveva fin da subito deciso di farne un luogo simbolo per la lotta alla criminalità organizzata nel territorio molisano; ha quindi promosso pubblicamente il suo impegno affinché si possa mettere in sicurezza l’appartamento, ristrutturandolo, e lo si possa ridestinare a nuovo uso. “Spingeremo il comune per il bando pubblico affinché questo bene possa essere assegnato a cooperative e associazioni e valorizzato per fini sociali” - spiega il professore Franco Novelli, co-
ordinatore regionale di Libera Molise – “A me piacerebbe che diventasse un luogo d’incontro per le donne e a coloro che sono emigrate in Italia, un bel luogo di scambio di esperienze culturali.” E conclude aggiungendo che son già stati presi i contatti con il sindaco Antonio Battista e l’assessore alla Cultura, alle Politiche Sociali e all’Urbanistica. Nonostante la carenza di soldi, il desiderio e l’interesse che i cittadini locali, insieme alle associazione e alle cooperative presenti, hanno manifestato al fine di promuovere quest’attività sembra promettere buone speranze al futuro di questa casa �
CAVALCARE UN’ONDA LIBERA di Matteo Campana
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econdo quanto riporta dall’ANBSC, nel 2015 la Basilicata contava trentuno beni confiscati alle mafie. Ad oggi il numero è aumentato di più del doppio, portando-
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si a 76. La risicata presenza di beni confiscati non deve trarre in inganno, nonostante le disparità proporzionali: non bisogna infatti considerare il territorio lucano “sano” rispet-
to alle regioni limitrofe, dove si condensano gran parte dei beni, e, per sillogismo, degli affari illeciti. Si è infatti assistito negli ultimi anni ad una manovra di conquista da parte
delle mafie, perlopiù ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita, attratte dalle risorse naturali e interessate a sfruttare il territorio per lo smaltimento illecito dei rifiuti. Attualmente dei quarantacinque immobili in gestione, trenta sono confiscati in via definitiva, suddivisi tra unità im-mobiliari domestiche e terreni agricoli. Con il progetto-ricerca BeneItalia, Libera ha censito le diverse realtà regionali, al fine di analizzare quelle che attualmente si occupano della gestione e del riutilizzo dei beni immobili confiscati alle mafie; in Basilicata l’esito della ricerca ha rivelato che vi sono, al momento, soltanto due soggetti del terzo settore che gestiscono beni immobili confiscati e riutilizzati all’interno del territorio lucano. Uno di questi detiene però un primato: è il primo stabilimento balneare confiscato alle mafie. Infatti, dove una volta c’era lo stabilimento Squalo beach, a Scanzano Ionico in provincia di Matera, ora sorge il lido Onda Libera (un aggettivo che non viene mai usato casualmente), diventando nel settembre 2011 un “lido per la formazione della legalità democratica e della corresponsabilità”, come riporta il sito dell’associazione contro le mafie. Lo Squalo Beach è stato sequestrato al clan tarantino degli Scarci dalla Polizia di Stato di Scanzano il 30 settembre del 2011 nell’ambito dell’operazione Octopus. Secondo l’accusa, il lido, intestato ai figli e ai nipoti di Franco Scarci, di fatto veniva gestito dal boss, divenendo la base logistica per la pesca di frodo con esplosivi, e location per le riunioni con
i clan amici. “E’ tutt’ora uno stabilimento balneare. - spiega Michele Di Gioia, presidente della Cooperativa sociale Onda Libera - Con l’aiuto e la cooperazione delle “energie positive” del territorio abbiamo però pensato di munirlo di attività sportive, ricreative e artistiche. Così il Lido è tornato a vivere, ma in una modalità differente: ab-biamo infatti svolto
in maniera legittima, e legale, la vita balneare. Una conquista a cui sono seguiti atti intimidatori, che però non hanno fermato il progetto: su questa spiaggia oggi si svolgono anche attività sociali e culturali (dibattiti, attività formative per i giovani sulla legalità, attività ludiche), rivolte in particolare ai gruppi di giovani che partecipano annualmente
una sorta di rivisitazione: da luogo d’incontro e trattative per scambi e accordi tra gruppi criminali lo si è trasformato in un bene comune volto a vivere
a E!State Liberi, il campo di volontariato che Libera organizza in tutt’Italia nel periodo estivo. Difatti questo lido lucano, insieme ai servizi balneari
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costituiti da ombrelloni, sedie a sdraio e lettini e da una piccola ristorazione, intende creare uno spazio partecipato, sosteni-bile, inclusivo e accessibile per sensibilizzare gli ospiti alla promozione della cultura della legalità, alla conoscenza e al rispetto dell’ambiente, con una attenzione particolare al recupero dei materiali riciclabili e all’uso consapevole dell’energia, alla promozione dell’integrazione umana e sociale, in-troducendo i temi dell’accoglienza e della inclusione sociale, alla attenzione verso i più piccoli, la terza età e i disabili, con attività di animazione ludico-motorie e con l’abbattimento delle barriere nel lido. Un modo efficace, piacevole, interessante e utile per integrare del buon senso, dell’informazione, della legalità alle nostre usuali vacanze in spiaggia. Dal 2011 ad oggi sono stati fatti passi da gigante: infatti, dopo il sequestro, gli amministratori giudiziari decidono di sollecitare l’interesse a prendere in gestione questo stabilimento. Libera risponde all’appello. “Dal 2012 al 2014 continua Di Gioia - lo gestisce in maniera del tutto autonoma, riformando e dando nuovo utilizzo alla spiaggia; dal 18
2015 subentra la nostra cooperativa sociale OndaLibera, che fornisce e aggiunge gli usuali servizi da spiaggia quali ombrellone, bagno e ristorazione. L’idea che però entrambe abbiamo voluto mantenere come fondamenta della gestione del riutilizzo è che ogni attività da noi proposta e svolta sarebbe stata a sfondo di legalità e giustizia, contrastando a viso aperto e rinnovando il suo sporco passato. Inoltre la gestione precedente era effettuata totalmente in nero, mentre attualmente stiamo svolgendo un tipo di economia totalmente legale che garantisce benessere e diritti a chiunque”. Nei primi anni l’azione di risanamento dello stabilimento balneare è stata accolto con
nostro messaggio ha influito e toccato anche le loro vite e abitudini; è divenuto comune, sostenuto spontaneamente da sempre più persone del posto, e non più esclusivamente dai ragazzi e volontari di Libera”. Se farsi conoscere e apprezzare non è facile, ancor più complicato è portare avanti il la-voro delle cooperative, tra difficoltà economica e isolamento territoriale. “Ciò che più mi preoccupa, e che dà più problemi ai beni sequestrati e confiscati - riflette, in conclusione, Michele Di Gioia, è che spesso questi rimangono beni incompiuti, orfani; necessitano di una spinta economica per poter rilanciarsi nel mercato: da soli non hanno speranze di potere competere o anche
STORIE DI RINASCITA IN CAMPANIA
“S diffidenza dalla cittadinanza, ancora in parte restia ad avvicinarsi alla nuova realtà. “L’impatto è stato forte - continua il presidente di Onda Libera perciò c’è voluto del tempo per metabolizzarlo. Ma alla fine il
solo di sopravvivere. Secondo me questo sarebbe un ottimo punto da analizzare e valutare in un’eventuale revisione della legge riguardo la gestione dei beni sequestrati e confiscati alle mafie” �
ei campano? Hai visto Gomorra?” Quale cittadino della terra do’ sole non si è mai spazientito dinanzi alla ormai sbandierata associazione Campania-camorra. La ragione è semplice quanto mai scontata: queste terre cercano ogni giorno riscatto, hanno voglia di raccontare ben altro al mondo. Raccontare ciò che non fa notizia, quello che spesso media e scrittori non sottolineano, forse perché ha un’eco meno accattivante degli spari: è il bene che nasce dai luoghi di malaffare, quando tornano nelle mani dello Stato. La Campania può, infatti, “vantare” il
di Veronica Rafaniello secondo posto nella classifica nazionale dei beni confiscati : 2754, di cui 1583 destinati e 1171 in gestione dell’ANBSC. Sono 150 i comuni con almeno un bene confiscato e di questi circa l’86% è concentrato nelle province di Napoli e Caserta. I beni vengono assegnati a soggetti istituzionali che si adoperano per favorirne il riutilizzo a fini sociali o di promozione delle attività del terzo settore e attualmente nel territorio regionale si contano ben 78 realtà associative nate da ceneri di illegalità. Anche in questo caso le province di Napoli e Caserta sono ai primi posti per numero di iniziative andate a
buon fine, seguono Salerno, Benevento e Avellino. Raccontarle tutte sarebbe un viaggio straordinario nel cuore e nella vita di centinaia di persone tra volontari, gestori e destinatari del rinnovato bene comune. Dall’impegno a favore del reimpiego dei disoccupati alle cooperative a sostegno di soggetti svantaggiati, dalla valorizzazione delle produzioni eno-gastronomiche alle attività dedicate ai bambini, sono queste alcune delle realtà nate grazie a fatica e impegno civile nei luoghi un tempo in mano ai boss. UN MONTE...DI PACE- Un
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monte di... pace è il significativo nome del progetto con il quale la comunità di Sessa Aurunca ha ripreso possesso di circa dieci ettari, confiscati nel 2012 al clan degli Esposito dalla Corte d’Appello di Napoli. Un duro colpo, materiale e simbolico, al potere camorrista esercitato per decenni sulla zona. Due edifici da ristrutturare e un terreno in disuso, situati in località Monte Ofelio, all’interno del Parco Regionale Roccamonfina, sono stati affidati, in comodato d’uso, alla cooperativa sociale New Server allo scopo di dar vita ad un luogo di ritrovo per la comunità e di lavoro per alcuni, volenterosi, cittadini. Un caso emblematico, dove chi ha bisogno può trovare una collocazione in seno alla legalità, senza sentirsi costretto a rivolgersi a coloro che sulle difficoltà del popolo hanno costruito la propria fortuna. “Questo può essere il volano per ripartire” spiega Gennaro Marotta, socio della cooperativa. “Sono molte le iniziative che stiamo portando avanti - aggiunge - produciamo olio biologico (in attesa di certificazione), oggettistica handmade e legna da ardere, che vendiamo per autofinanziarci”. Con un’area pic-nic dalla vista invidiabile, il bene di Monte Ofelio è oggi un’oasi immersa nel verde, bonificata grazie al lavoro di squadra, a pochi passi dal centro storico di Sessa Aurunca. I progetti di New Server, però, sono in continua evoluzione: “Alcuni di noi stanno seguendo un corso di apicultura per
produrre miele di ginestra e corbezzolo, coltiviamo erbe officinali e aspettiamo il via libera della regione per dar vita ad una fattoria didattica- continua Marotta - L’idea è quella di permettere l’arrivo al bene a cavallo di asinelli: le auto verranno, infatti, parcheggiate 100 metri più in basso, così da non disturbare la ricca fauna del luogo”. E poi, campi di volontariato in collaborazione con Legambiente, il
Sentiero della legalità Mimmo Beneventano, realizzato dagli alunni dell’ I.C. Caio Lucilio, che unisce l’impegno nel ricordare le vittime di camorra, con la volontà di conoscere e preservare la macchia mediterranea, e tante altre iniziative volte a promuovere il tema della legalità, soprattutto tra i più giovani.”Dobbiamo imparare dal passato per costruire un futuro migliore e in questo
l’educazione dei ragazzi è fondamentale- aggiunge il socioNoi raccontiamo loro la storia del luogo, di questi dieci ettari sottratti dalla comunità di Sessa ad un clan di casa nostra, e cerchiamo di mostrare come il malaffare si nasconda anche dietro atti quotidiani all’apparenza insignificanti o ai quali si presta poca attenzione”. AL DI LA’ DEI SOGNI Sempre a Sessa Aurunca nel 2008 è nata la cooperativa Al di là dei sogni fondata da Simmaco Perillo e sua moglie su di un terreno confiscato al clan Moccia. Nonostante le mille difficoltà burocratiche e le ripetute intimidazioni (sono nel 2016 si contano cinque incendi dolosi) il bene confiscato dedicato ad Alberto Varone, ucciso dalla camorra per aver rifiutato di pagare il pizzo, è oggi un’oasi dove si coltivano prodotti biologici, coinvolgendo persone provenienti da situazioni di disagio quali la tossicodipendenza o problemi psichiatrici. “A noi piace dire: ‘Da noi la pietra scartata è diventata testata d’angolo’: sono loro che al mattino si svegliano e vanno a lavorare la terra. Queste persone sono stati rinchiuse per 25 anni, non gli avresti dato un euro, erano un problema per lo Stato e oggi non lo sono più” ha spiegato Simmaco in una precedente intervista per la nostra rivista. Grazie alle tante attività proposte e messe in atto dalla cooperativa, come la fattoria didattica, l’agricoltura sociale e il turismo sostenibile, i sogget-
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ti appartenenti a ‘fasce deboli’ possono intraprendere nuovi e dignitosi percorsi di vita. Il luogo è, inoltre, aperto a stage formativi che hanno lo scopo di sensibilizzare all’uso responsabile dei beni comuni e diffondere l’idea di economia sociale come antidoto all’economia criminale. FONDO RUSTICO A. LAMBERTI Nella provincia di Napoli le storie di impegno civile si moltiplicano e diventa ancor più difficile selezionare. Particolare attenzione merita, però, il Fondo Rustico Lamberti, il primo bene agricolo confiscato alla camorra a Napoli, nel 2001. Proprio per questo, spiega Ciro Corona, rappresentante legale e fondatore della cooperativa (R)esistenza Anticamorra, non sono state poche le difficoltà sia burocratiche che culturali che si sono avvicendate nel corso della lotta per restituire alla comunità di Chiaiano un terreno sottratto al clan Simeoli e rimasto inutilizzato per ben unidici anni dopo la confisca. “La gente all’inizio continuava ad essere fedele al boss e la camorra, dal canto suo, non voleva mollare - racconta Ciro- Abbiamo subito minacce, furti, danneggiamento dei materiali, ma è stato proprio lì che la comunità è intervenuta a sostegno del bene comune, collaborando e sostenendoci”. Oggi sono molte le attività che si svolgono quotidianamente in via Tirone, dalla produzione di prodotti enogastronomici ad eventi come aperitivi, pranzi e, per il quinto anno di fila, la pasquetta sociale rallegrata da canti e balli popolari. E poi campi di volontariato e
di formazione, gruppi scout, parrocchie, scuole e associazioni, tutti sono invitati a dar vita al fondo, ad approfondire il tema dell’antimafia sociale, a far rumore; quel rumore che continua a disturbare il sonno di molti, che spesso reagiscono ancora con intimidazioni più o meno dirette. Ma non è questo che fermerà la resistenza. Il fondo dà lavoro anche a nove detenuti perchè “Fare antimafia significa dare lavoro, riprendere possesso dei luoghi, creare una rete di economia sociale”. Corona con (R) esistenza Anticamorra è anche fautore del progetto Officina delle culture, dedicato a Gelso-
mina Verde, la centoquattordicesima vittima della Prima Faida di Scampia tra Di Lauro e gli Scissionisti. Da deposito di armi e luogo di spaccio, una vecchia scuola in disuso a Scampia è divenuta un centro culturale, artistico, sociale e offre occasione di impiego, svago e formazione ai tanti ragazzi e bambini della zona. “Scampia non è solo Gomorra, c’è molto di più: un’anticamorra vera, non stipendiata e che si mette in gioco in prima persona- spiega Corona- Fare resistenza è una scelta di vita, un modo di pensare e un modo nuovo di vivere il territorio, restituendolo ai cittadini”. �
EMILIA ROMAGNA TERRA DI (NUOVE) CONFISCHE di Sergio Scollo
L
’infiltrazione mafiosa, da fenomeno considerato presente solo in Sud Italia, si è ormai diffuso in tutta la penisola, insinuandosi in tutti i settori economici. I membri delle varie organizzazioni criminali possono essere considerati come dei veri imprenditori, sempre alla ricerca di nuovi ambienti dove investire e nuovi metodi per guadagnare nell’illegalità; questo fattore è estremamente importante per comprendere il
sempre crescente numero di beni confiscati nel Nord Italia, diventata ormai la terra di investimento per i clan. Per cercare di capire realmente quanto la mafia si sia insinuata nel tessuto sociale italiano, si guardino i dati relativi ai beni confiscati alle organizzazioni criminali; ai primi posti per quantità di beni troviamo le regioni rinomate per la forte influenza mafiosa (Sicilia, Calabria, Campania). Spiccano però i dati relativi alle regioni
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del nord fra cui l’Emilia-Romagna, che presenta una situazione particolare. Troviamo infatti la regione rossa per antonomasia alla sesta posizione nella classifica delle regioni con più beni sottratti alla criminalità organizzata; dati alla mano, nel solo periodo compreso tra agosto 2015 e luglio 2016, sono stati confiscati circa 500 beni. Aziende, appartamenti, magazzini e terreni. Numeri che non destano particolare preoccupazione, anche perché in questo periodo sono in corso processi contro la ‘Ndrangheta (vedi Aemilia) che stanno scovando molte di queste proprietà mafiose. Il fattore allarmante è la bassissima percentuale di questi beni riutilizzata a fini pubblici e sociali (solo il 30% difatti è stato riassegnato ad associazioni o privati); la maggior parte rimane in disuso, per i troppi cavilli burocratici che rendono il processo di riqualificazione lungo e dispendioso. Nonostante ciò, in Emilia troviamo realtà contrastanti: in molti comuni non ci sono processi di riabilitazione in atto, mentre in altri il problema è più sentito e le molte associazioni presenti sul territorio spingono le amministrazioni a rendere efficace l’iter di riqualificazione dei beni confiscati. Dove si possono trovare le cause di queste mancate riabilitazioni, che lasciano inutilizzati una quantità rilevante di beni immobili in territorio emiliano-romagnolo? Si potrebbe ricercare un colpevole nell’ANBSC, spesso accusato di agire in modo farraginoso e poco concreto; oppure nei Comuni in parte disinteressati. 22
In realtà, lasciando fuori i rallentamenti legati a burocrazia e amministrazione, il vero problema che limita la riqualificazione è la difficile tracciabilità di questi beni, nonché la presenza di ipoteche che limitano l’azione di recupero, renden-
doli inutilizzabili. Altro fattore da non tralasciare è la scarsa informazione riguardo queste tematiche, che non aiuta nel processo di riutilizzazione dei beni, dove l’ignoranza dell’opinione pubblica provoca disinteressamento delle autorità che non ritengono così grave il mancato riutilizzo dei beni confiscati. Nonostante ciò, le diverse associazioni antimafia presenti sul territorio hanno intensificato le campagne di informazione e si sono rese molto più attive nella gestione dei beni confiscati. Anche in ambito universitario negli ultimi anni vi è stato un certo fermento: un esempio è il master “Pio La Torre”, incentrato sulla gestione e il riutilizzo di beni confiscati, diretto dalla professoressa Stefania
Pellegrini, che sta avvicinando molti studenti a questa tematica, e che apporta un continuo aggiornamento della situazione regionale. Infatti, dalla mappatura aggiornata a gennaio 2017 si può evincere che il numero di beni immobili con-
fiscati arrivi a 119 unità. Il dato su cui occorre riflettere è il numero dei beni in fase di riutilizzo, che occupano una percentuale molto bassa rispetto al totale: 15 su 119. Il tema dei beni confiscati è uno dei pilastri fondanti della rete di Libera, fin dalla sua nascita, quando ha promosso campagna “Le mafie restituiscono il mal tolto”, petizione popolare che ha portato alla legge 109/96 sul riutilizzo sociale. Libera inoltre ha tra i propri scopi statutari quelli di valorizzare, fornendo sostegno e servizi, le associazioni, gli enti e gli altri soggetti collettivi impegnati in attività di lotta ai fenomeni mafiosi. E’ da questi punti che si è partiti per strutturare la collabora-
zione con L’Altra Babele nella realizzazione di “In bici contro le mafie”, arrivata quest’anno alla seconda edizione. Organizzare questa iniziativa pubblica, oltre ad essere espressione di una rete di interscambio fra le realtà del territorio, è sopratutto uno strumento “alternativo” di coinvolgimento dei singoli nella lotta alle mafie. La partecipazione dei cittadini di ogni fascia d’età è stata alta, un ottimo segnale che testimonia il desiderio di partecipazione civica a cui poter dare seguito in quanto realtà associative. A 25 anni dalla strage di Capaci, riecheggiano le parole di Giovanni Falcone “affinché una società vada bene, ognuno deve fare il suo dovere” e noi, spiega Vito Bernardo, coordinatore del progetto, “attraverso questa iniziativa vogliamo trasformare una semplice passeggiata in bicicletta in un momento di informazione e presa di coscienza, il tutto impresso in una fotografia da diffondere e condividere. Perché la sensibilizzazione sulla lotta alle infiltrazioni mafiose e alla criminalità organizzata deve essere un movimento culturale ampio e trasversale, e soprattutto costante e continuo”. La bicicletta diventa così il mezzo della scoperta e della consapevolezza: bastano pochi km e colpi sui pedali per visitare case e palazzi del grande patrimonio dei beni confiscati, molti dei quali già restituiti alla collettività grazie a progetti virtuosi. Parla della tematica (nominando l’ iniziativa di Libera) anche Giulia Di Girolamo, consigliera di fiducia del Sindaco di Bologna per la Legalità: “Una presenza, questa dei beni con-
fiscati, che ci ricorda, ormai da anni, che anche il nostro territorio non è affatto immune dal fenomeno criminale. Ed è importante promuovere iniziative come questa, e diffondere una sana e profonda cultura della legalità a tutti i livelli, per contrastare con forza una cultura economica e sociale di natura criminale, anche alla luce dei processi che hanno interessato (e interessano tutt’ora) la nostra Regione, quali il processo Black Monkey e Aemilia. La conoscenza, la cultura e l’impegno quotidiano da parte di tutti sono armi importantissime per contrastare le mafie, con la consapevolezza che siamo tutti coinvolti in questa lotta e siamo tutti responsabili della tutela del nostro territorio”. Ritornando al problema dei beni confiscati, si può dare una stima precisa della situazione nel Comune bolognese. Allo stato attuale i beni confiscati censiti in provincia di Bologna sono 18, di cui 10 in gestione, 2 destinati e 6 in riutilizzo. Nell’area cittadina di Bologna i beni confiscati sono immobili tutti appartenuti a Giovanni Costa, imprenditore condannato in via definitiva per riciclaggio, e la maggior parte di essi sono ubicati nel centro storico della città. L’unico bene effettivamente in riutilizzo è situato in Via Galleria 17, l’immobile era la sede di una delle attività di Giovanni Costa, la Costa Costruzioni S.p.a., società di costruzione di immobili e di ricostruzione/ ristrutturazione edile, assegnato al Tribunale di Bologna ed oggi sede di uffici giudiziari, quindi si tratta di un riuti-
lizzo a fini istituzionali. Gli altri beni confiscati pongono maggiori problematicità; in particolare l’imponente struttura di Villa Celestina, anch’essa precedentemente usata come sede di società s.r.l.: un’immobile che attualmente versa in pessime condizioni, al momento del sequestro era in fase di ristrutturazione e da allora i lavori sono bloccati. L’edificio, in parte demolito, è tutt’ora un cantiere a cielo aperto, e le sue dimensioni notevoli richiedono una ristrutturazione molto pesante in termini temporali, ma soprattutto in termini economici. Nonostante gli aspetti negativi, la struttura presenta un ampio ventaglio di vocazioni d’uso, sia per la sua posizione centrale ma al di fuori della zona ZTL, sia per le ampie dimensioni. Possiamo infine considerare l’Emilia-Romagna una Regione con discreta presenza mafiosa in ambito economico ma anche politico; questo perché ormai i clan tendono a spostare i loro affari illegali in zone più industrializzate ed economicamente avanzate, al fine di incentivare i profitti. Questo fattore, in regioni come l’Emilia o la Lombardia, sta diventando allarmante; anche per questo rivalutare i beni confiscati diventa così importante ed urgente, soprattutto per dare un segnale positivo a favore della lotta contro la criminalità organizzata �
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UNA CAROVANA DI LEGALITà A SUON DI MUSICA di Veronica Rafaniello
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n tour musicale nei beni confiscati alle mafie? “Una meravigliosa follia” secondo Franco D’Aniello, membro storico dei Modena City Ramblers, la band combat-folk che nel 2009 ha trasformato la ‘follia’ in realtà grazie al sostegno di Libera. Dal 29 aprile al 2 maggio, infatti, la musica ha scosso le coscienze proprio dove queste erano state messe a tacere per anni, accendendo luci, dando uno schiaffo alla paura. L’impegno sociale del gruppo, nato nel 1991, è una presenza forte tra le note e le parole delle loro canzoni, nelle scelte che ne hanno guidato la carriera, nello spirito dei musicisti. Facendo due chiacchiere con Franco è chiara la passione che lo anima, la voce gli si
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accende quando nomina il potere della musica nel difendere la legalità e diviene pacata, rispettosa, quando racconta di come e perché è nata la canzone I cento passi. Nel 2009 esce ‘Onda Libera’ e prende il via il tour ‘Carovana della legalità contro le mafie’. Com’è nato il progetto? Ricordo perfettamente la nascita del progetto, eravamo in Sardegna. Durante un pomeriggio di relax, in una fattoria, ci venne l’idea di un tour all’interno dei beni confiscati alla mafia. In realtà, all’inizio, non sapevamo come muoverci, come sarebbe stato. È stato grazie all’aiuto di Libera e Don Ciotti, subito entusiasti, che siamo riusciti a trasformare un pensiero in realtà. Non è stato facile, ovviamente,
soprattutto dal punto di vista logistico, ma a livello artistico e sociale è stata un’esperienza meravigliosa. Volevamo occupare con l’arte, con la musica, luoghi di malaffare e di morte. Era un po’ una follia, me ne rendo conto, ma una follia bellissima. Cos’è per voi la lotta alla mafia? La nostra lotta alla mafia è questa: suonare, raccontare storie come quella di Peppino Impastato. Se ognuno facesse qualcosa, anche piccola, quotidianamente, la mafia sarebbe sconfitta. Ovviamente l’aiuto dei poteri forti sarebbe importante, ma credo che ogni singolo cittadino possa fare la differenza.
A proposito di Peppino Impastato, nel 2004 avete tradotto la sua vita in musica con ‘I cento passi, all’interno dell’album ‘Viva la vida, muera la muerte’ dove raccontate le storie di tanti personaggi diversi e lontani tra loro. Cosa vi ha spinti a dedicargli una canzone e cosa significa per voi la sua storia? Abbiamo conosciuto la storia di Peppino grazie al film, la sua era una storia dimenticata perché l’Italia di quegli anni era presa da altro. Ciononostante, la sua storia è emblematica, non è una storia di eroi, ma di una persona che ha fatto qualcosa che riteneva normale, naturale: non avere paura. La straordinarietà sta nella semplicità dei suoi gesti e dei suoi modi di fare. Per alcuni l’antimafia è un riflettore, Impastato invece non voleva diventare famoso. Io non lo considero un eroe, bensì un simbolo.
un potente mezzo espressivo che permette, anche ai più giovani, di avvicinarsi e conoscere storie e temi difficili da comprendere diversamente. Il bello dell’arte è che lascia da parte tutte le sovrastrutture mentali. Sono convinto che la bellezza delle cose sia lo strumento più potente per sconfiggere le mafie e allontanare i giovani da quegli ambienti, facendoli avvicinare ad un concetto di vita molto più alto. È da poco uscito il vostro ultimo album ‘Mani come rami, ai piedi radici’. Quali sono i temi affrontati e in cosa si differenzia dai precedenti?
‘Mani come rami, ai piedi radici’ è un album nato in vari step, con calma. In questo modo sono nate canzoni più riflessive. Si tratta di canzoni diverse dalle altre, più introspettive, allegre dal punto di vista musicale, caratterizzate dalla mescolanza di generi e lingue diverse. Il nostro ultimo lavoro ‘Niente di nuovo sul fronte occidentale’ era pieno di storie, in questo ci siamo calati in un’altra dimensione, più eterea. Nonostante il cambiamento, però, è stato accolto bene sia dal pubblico che dalla critica e di questo siamo molto soddisfatti. �
L’impegno sociale caratterizza fortemente la vostra produzione. Quanto ha influito sulla vostra carriera? Ha influenzato molto la nostra carriera. Non siamo degli artisti mainstream e non abbiamo mai cercato il successo. Il nostro impegno sociale, il porre in risalto determinate tematiche, ci ha chiuso tantissime porte, ma ne ha aperte altrettante. Per quel che riguarda, ad esempio, il tour nei beni confiscati, non ci ha portato a nulla dal punto di vista commerciale, ma ha arricchito enormemente le nostre anime. Che ruolo ha la musica nella promozione della legalità? Il ruolo della musica è importantissimo. Si tratta di
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