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EDITORIALE Giulia Silvestri
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IPERDRONI, KILLER-ROBOT E SUPER UMANI PER LE GUERRE GLOBALI DEL XXI SECOLO Antonio Mazzeo
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TROPPO PIOMBO E POCA COOPERAZIONE. LA FOLLIA DELLE SPESE MILITARI IN ITALIA
Antonio Cormaci 11
LE REALTÀ PACIFISTE IN ITALIA Luca Ercolini
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PADRE ALEX ZANOTELLI LE ARMI? SOLO UN MEZZO PER DIFENDERE I PRIVILEGI a cura di Alice Facchini
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INSIEME PER LA PACE DIECI ANNI DI FORUM INTERRELIGIOSO Giuseppe Mugnano
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SOTTILE ARTE DELLA NON VIOLENZA Piccola critica alla non violenza pura Enrico Campagni
Strategie e pratiche di non violenza sul campo Stefano Fornito
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APRIRE SPAZI DI PACE PBI FRA NON VIOLENZA E DIRITTI UMANI Roberto Meloni
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IL CORAGGIO DELLA NON VIOLENZA TESTIMONIANZE DALLA COLOMBIA Sara Ballardini
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OPERAZIONE COLOMBA Francesca Notari
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TERZANI GIORNALISTA DI PACE IN TEMPO DI GUERRA Giovanni Modica Scala
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editoriale
La politica dell’occhio per occhio e il cambiamento interiore
di Giulia Silvestri
Jan chiedeva con amarezza: cosa spinge l’uomo a distruggere gli altri? E io: gli uomini, dici, ma ricordati che sei uomo anche tu. E inaspettatamente, quel testardo, brusco Jan era pronto a darmi ragione. Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi, continuavo a predicare; e non vedo nessun’altra soluzione, veramente non ne vedo nessun’altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e di strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. È l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi e non altrove Etty Hillesum
F
are la nostra parte dentro di noi. Potrebbe suonare scontato o quantomeno inefficace nel risolvere il problema immediato delle guerre, dei bombardamenti contro civili, degli uomini, delle donne che muoiono ogni giorno a causa di ogni violenza, psicologica o fisica, ma credo davvero che senza un cambiamento interiore non si possa arrivare a concepire un mondo senza conflitti. Tutto nasce dalla bramosia del potere, che è la vera radice di ogni guerra, e che cresce fino a diramarsi nella punizione del capro espiatorio, nella condanna a morte degli infedeli, nella rivendicazione di un territorio come proprio. Non sono un’idealista che vive nel mondo dei sogni, sono convinta che sia fondamentale agire ora e un cambiamento interiore, se non è avvenuto nel corso di secoli, non può certo realizzarsi dall’oggi al domani. Tuttavia la risposta giusta agli atti di violenza non sarà mai un altro atto della stessa matrice e questo è ampiamente dimostrato dal passato e dalla storia che studiamo (in fondo senza impararla davvero): gli atti terroristici sono avvenuti in Europa per una ragione più profonda e che va al di là della “guerra agli infedeli”, e gli occidentali hanno fomentato il conflitto in medio-oriente con la scusa della lotta al terrorismo e per pura vendetta contro coloro che hanno provocato l’abbattimento delle torri gemelle, attacchi a loro volta perpetrati da uomini manipolati dagli americani. La violenza causa violenza, l’odio logora i popoli per secoli, ce lo insegnano Israele e Palestina: un popolo cacciato dal proprio territorio, che dopo secoli fa ritorno nella terra promessa e per realizzare questo esilia un altro popolo. La politica dell’occhio per occhio non ha mai funzionato, ma ha solo portato il mondo alla cecità, parafrasando Gandhi, dunque non può essere la risposta. È necessario scoprire un modo di agire che non contempli la violenza, che sia non violento. Ciò non significa non fare nulla: anche Martin Luther King non era solo un semplice visionario, ma un uomo concreto che ha trovato il modo più adatto di rispondere alla brutalità bianca in quel periodo e in quel contesto. Ogni realtà può farlo: anche in Italia ci sono movimenti che riescono a vincere battaglie senza armi e senza morti. La strada c’è, va trovata e percorsa, da tutti. �
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IPERDRONI, KILLER-ROBOT E SUPER UMANI per le guerre globali del XXI secolo
di Antonio Mazzeo
“Il campo di battaglia del futuro sarà popolato da un numero inferiore di esseri umani. Quelli sul campo di battaglia, però, avranno capacità fisiche e mentali superiori: avranno una migliore percezione dell’ambiente e saranno più forti, intelligenti e potenti. Combatteranno fianco a fianco ai Killer Cacciatori Automatizzati di vario genere”. 4
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osì scrivono il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e l’US Army Research Lab, il laboratorio di ricerca scientifica dell’esercito Usa, nel report Visualizing the Tactical Ground Battlefield in the Year 2050 (pubblicato il 25 luglio 2015) che prefigura le modalità di conduzione della guerra terrestre entro la metà del XXI secolo. Battaglie che saranno combattute da robot assassini e Super-Umani, “macchine da guerra spaventose ed inarrestabili, corazzate e dotate di armi laser…”. Mostruosi non esseri viventi (o quasi) capaci però di distruggere ogni essere vivente, armati di leeches (letteralmen-
te sanguisughe), “velivoli sen- Autonomous Robotics). “Se za pilota che saranno lanciati utilizzati, i LAR possono avere dall’operatore verso una fonte conseguenze di enorme pordi energia…”. tata sui valori della società, La iperdronizzazione delle soprattutto quelli riguardanti guerre future è perseguita an- la protezione della vita, e sulla che dalla Marina e dall’Aero- stabilità e la sicurezza internautica militare: quest’ultima, nazionale”, ha denunciato il in particolare, ha predisposto Consiglio per i Diritti Umani da anni un cronogramma che dell’Assemblea generale delle fissa il 2048 come l’anno in Nazioni Unite in un rapporto cui i conflitti saranno automa- speciale pubblicato il 9 aprile tizzati al 100% e gli ordini di 2013. “Essi non possono essere attacco giunprogramgeranno da Nonostante siano dotati di mati per un network rispettare sofisticatissime tecnologie di computer le leggi e sistemi di di telerilevamento, essi non u m a n i i n t e l l i g e n z a sono in grado di distinguere tarie inartificiale, ternaziosatelliti, ter- i “combattenti” nemici dalla nali e gli popolazione inerme minali di telestandard comunicaziodi protene, velivoli senza pilota e armi zione della vita previsti dalle nucleari, assolutamente indi- norme sui diritti umani. La pendente dal controllo umano. loro installazione non comEntro i prossimi cinque anni, porta solo il potenziamento l’US Air Force diverrà già la più dei tipi di armi usate, ma angrande forza da combattimen- che un cambio nell’identità di to UAV (unmanned aerial vehi- quelli che li usano. Con i LAR, cle) del pianeta. Oltre tre mi- la distinzione tra armi e comliardi di dollari d’investimenti battenti rischia di divenire per dotarsi di ben 17 squadro- indistinto”, aggiunge il report ni di superdroni da dislocare Onu. “Raccomandiamo agli prevalentemente nella basi Stati membri di stabilire una aeree di Beale (California), Da- moratoria nazionale sulla spevis-Monthan (Arizona), Pearl rimentazione, produzione, asHarbor (Honolulu) e Langley semblaggio, trasferimento, acNewport (Virginia). quisizione, installazione e uso La progettazione e sperimen- dei Lethal Autonomous Robotazione di micidiali sistemi di tics, perlomeno sino a quando distruzione di massa e robot non venga concordato a livello killer procede inarrestabile in internazionale un quadro di tutto il mondo, mentre le dot- riferimento giuridico sul loro trine strategiche si uniforma- futuro”. Ovviamente l’appello no allo scopo di estromettere non è stato accolto da nessun prima possibile i militari in paese. carne ed ossa dalle catene de- I droni-killer protagonisti delle cisionali in tempo di guerra. Le sanguinose incursioni Usa nei armi letali del tutto automatiz- principali scacchieri di guerra zate sono definite in termine internazionali sono i “Predatecnico-militare “LAR” (Lethal tor”. Nonostante siano dotati
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di sofisticatissime tecnologie Nel maggio 2007 i Predator di telerilevamento, essi non sono stati trasferiti pure nella sono in grado di distinguere base di Herat, sede del Comani “combattenti” nemici dalla do regionale interforze per popolazione inerme. Dall’au- le operazioni in Afghanistan. tunno del 2012 alcuni di questi Nel corso delle operazioni belliche contro la droni dell’US Air Force L’Italia sarà così uno Libia di Gheddafi della privengono dei primi paesi Nato a mavera-estate ospitati nella stazione disporre di spietati dro- 2011, i velivoli pilotaggio a e r o n a v a l e ni-killer e il primo teatro a remoto dell’Asiciliana di operativo potrebbe già eronautica itaSigonella, hanno sulla base di essere nei prossimi mesi liana avuto un ruoun’autorizquello libico. lo chiave nelle zazione top secret del Ministero della di- operazioni d’intelligence delfesa italiano. Anche l’Aeronau- la coalizione internazionale tica militare italiana, prima a guida Usa. Negli ultimi due in tutta Europa, ha acquistato anni due velivoli-spia sono i “Predator” statunitensi; l’1 stati schierati a Gibuti, Corno marzo 2002, nella base aerea d’Africa, nell’ambito della misdi Amendola (Foggia), è stato sione antipirateria dell’Unione costituito il 28° Gruppo Ami Europea “Atalanta”, mentre per condurre le operazioni ae- nello scalo aereo di Kuwait ree con i velivoli teleguidati. Il City sono stati rischierati due battesimo di fuoco dei droni droni appositamente riconfiitaliani è avvenuto in Iraq nel gurati per operare con la coaligennaio 2005, nell’ambito del- zione internazionale anti-Isis la missione “Antica Babilonia”. in Iraq e Siria. Sino ad oggi ai illustrazione di Guglielmo Manenti “Predator” sono state assegnate solo missioni d’intelligence e riconoscimento; lo scorso anno, però, l’Italia ha ottenuto dal Congresso degli Stati Uniti l’autorizzazione ad armare i propri droni con 156 missili AGM-114R2 Hellfire II prodotti da Lockheed Martin, 20 GBU-12 (bombe a guida laser), 30 GBU-38 JDAM ed altri sistemi d’arma. L’Italia sarà così uno dei primi paesi Nato a disporre di spietati droni-killer e il primo teatro operativo po6
trebbe già essere nei prossimi mesi quello libico. Nel campo dei velivoli senza pilota, l’Italia si è conquistata una leadership in ambito internazionale. Nei piani delle forze armate Usa e Nato, la base di Sigonella è destinata a fare da vera e propria capitale mondiale dei droni, cioè un centro d’eccellenza per il comando, il controllo, la manutenzione delle flotte di UAV chiamati a condurre i futuri conflitti globali. Oltre ai “Predator”, dall’ottobre 2010 Sigonella ospita pure tre-quattro aeromobili teleguidati da osservazione e sorveglianza RQ4B “Global Hawk” dell’US Air Force. Alla iperdronizzazione delle guerre si preparano pure i paesi membri dell’Alleanza Atlantica. Entro la fine del 2016 sarà pienamente operativo il programma denominato Alliance Ground Surveillance (AGS) che punta a potenziare le capacità d’intelligence, sorveglianza e riconoscimento della Nato nel Mediterraneo, nei Balcani, in Africa e in Medio oriente. Il sistema AGS verterà su una componente aerea basata su cinque velivoli a controllo remoto “Global Hawk”
[...] la base di Sigonella è destinata a fare da vera e propria capitale mondiale dei droni
versione Block 40, che saranno installati anch’essi a Sigonella. Nella stazione siciliana, dove nei prossimi mesi giungeranno 800 militari dei paesi Nato, funzionerà il centro di coordinamento e controllo dell’AGS in cooperazione con i “Global Hawk” Usa. Sigonella è stata prescelta infine come base
operativa avanzata del sistema aereo senza pilota (UAS) MQ4C Triton, anch’esso basato sulla piattaforma del “Global Hawk” acquistati dalla Marina militare Usa. Le società Piaggio Aereo Industries e Selex Es (Finmeccanica) utilizzano dal novembre 2013 la base del 37° Stormo dell’Aeronautica militare di Trapani Birgi per i test di volo del dimostratore P.1HH DEMO, il nuovo aereo a pilotaggio remoto “HammerHead” (Squalo Martello) che sarà consegnato all’Italia nei primi mesi del 2016. In Sardegna, l’aeroporto di Decimomannu
e il grande poligono militare di Perdasdefogu (Ogliastra) sono stati utilizzati invece per sperimentare il prototipo di robot-killer volante nEUROn, l’aereo senza pilota da combattimento coprodotto da Italia, Francia, Svezia, Spagna, Svizzera e Grecia. Il nEUROn è il primo aereo europeo a pilotaggio remoto dotato di materiali con accentuate caratteristiche stealth che gli consentiranno di penetrare nello spazio aereo nemico senza essere individuato e operare a tutti gli effetti come una spietata macchina-killer per colpire e uccidere a distanza grazie agli
ordigni di precisione per gli attacchi aria-suolo a guida laser da 250 kg. Al programma nEUROn partecipa in qualità di capofila con una quota del 50% il consorzio francese composto da Dassault Aviation, Thales e EADS-France; ci sono poi l’italiana Alenia Aermacchi (Finmeccanica), la svedese SAAB, la spagnola EADS-CASA, la greca EAB e la svizzera RUAG. La pazza corsa ai droni e ai robot killer è innanzitutto il più grande affare della storia del complesso militare-industriale e finanziario transnazion ale. �
LA GUERRA IN SIGLE
UAV Unmanned Aerial Vehicle | sistema aereo senza pilota LAR Lethal Autonomous Robotics | armi letali totalmente automatizzate GBU bombe a guida laser AGS Alliance Ground Surveillance n.29 | GENNAIO 2016
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TROPPO PIOMBO E POCA COOPERAZIONE Il folle bilancio delle spese militari in Italia di Antonio Cormaci
I fatti di Parigi hanno scombussolato gli equilibri politici nazionali e internazionali. Un incessante turbinio di paure e morte ha spazzato via quel già precario equilibrio europeo e non solo, che lentamente viaggiava su una lama di rasoio. Il risultato è la paura. La voglia di vendetta, un ritrovato patriottismo tanto di moda negli ultimi tempi. La spada di Damocle, ovviamente, cade sulle politiche relative all’immigrazione, adesso più che mai severe e poco morigerate, ma anche sulle spese militari, in Italia già di per sé folli anche in tempi di “pace”. Il virgolettato è d’obbligo considerato che l’Europa, l’Italia, sono in guerra ormai da più di 10 anni.
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ebbene i conclamati annunci del Ministero della Difesa sulla diminuzione delle spese militari in Italia, tema in continuo contrasto con gli ammonimenti Nato che vogliono un 2% del Pil, queste non cessano di scemare. Anzi. Le forze armate italiane sono costate, nell’anno solare 2015, 17 miliardi di euro, di cui 4.7 miliardi spesi per l’acquisto di mezzi militari, missili e munizioni. Facendo un calcolo in base a quanto dichiarato dal Governo, ossia di spendere al-
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meno altri 13 miliardi di euro in 3 anni, si potrebbe attuare, con la stessa cifra, una spesa previdenziale che permetterebbe di finanziare le pensioni, al fine di garantire un welfare più efficace. Non sono solo le armi la principale voce di spesa nel bilancio: a far la voce grossa è anche il personale militare, al quale sono stati destinati quasi 10 miliardi nell’anno 2015 per i loro stipendi e le loro pensioni; si tratta di un personale che annovera 174.500 uomini tra Esercito, Marina ed
Aeronautica. L’abbondare di queste cifre, decisamente troppo per una spesa pubblica che dovrebbe rafforzare altre prerogative di un sano welfare, è una chiara patologia della riforma Di Paola, che non è mai decollata e la cui unica nota lieta è stata una riduzione di 1382 dipendenti rispetto al 2014. Per il resto, solo lentezze. Anzi, v’è addirittura stato un aumento della spesa totale, con un +1,6%, con 1,3 miliardi di euro destinati alla manutenzione di armi, caserme e basi. Paradossale è che le cifre spese per la manutenzione e spese affini, non sono sufficienti, essendo quindi necessari finanziamenti derivati da provvedimenti governativi di sostegno alle missioni internazionali. In sostanza possiamo definire l’apparato militare italiano come fortemente precario, in quanto strutture e mezzi non sembrano particolarmente tutelati da voci di spesa consi-
stenti. E quindi perché queste cifre folli? Nell’Italia dei paradossi anche questa domanda ha un perché: il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero della Difesa non fanno mancare l’acquisto di costosissimi nuovi mezzi, simbolo del più bieco efficientismo di facciata. È il caso della portaerei Cavour, quasi sempre ancorata poiché non vi sono sufficienti investimenti per il carburante. È il caso dei 2,5 miliardi di acquisto di armamenti. È il caso della nuova flotta da guerra della Marina. È il caso dei nuovi elicotteri Hh1010, dei caccia di addestramento M346, dei celebri cacciabombardieri Eurofighter (spesa da 768 milioni di euro), dei carri armati ruotati Freccia, dei nuovi cacciabombardieri Tornado, dal valore di 80 milioni. Una spesa pubblica altissima nel 2015. Quelle analizzate, in particolar modo i 13 miliardi di euro in tre anni destinati all’acquisto di armi, sono cifre folli,
mastodontiche. È bene ricordare che nelle c.d. spese della Difesa sono annoverate anche le missioni di cooperazione, oltre che gli interventi militari in senso stretto. Tuttavia v’è un disequilibrio notevole tra le spese militari e quelle di cooperazione. Un disequilibrio iniquo, complice anche le sopra citate sollecitazioni Nato che vogliono un rapporto del 2% tra spesa militare e prodotto interno lordo. In proporzione, mentre 9 euro su 10 vanno alle spese militari, quelle che abbiamo sopra elencato, solamente delle ininfluenti briciole – sempre provenienti dai provvedimenti governativi per le missioni internazionali – sono destinate alla cooperazione. Nel 2014, per esempio, sono stati 2,9 i miliardi spesi per la cooperazione, contro i 23 per gli allestimenti militari. È pur vero che l’Italia negli ultimi anni è salita dallo 0,2% del PIL allo 0,16% di spesa per la cooperazione ma deve essere fatto di più. Qualcuno, specialmente con la minaccia del terrorismo, ci ha provato. Con il decreto pre-
[...] il MiSE e il Ministero della Difesa non fanno mancare l’acquisto di costosissimi nuovi mezzi, simbolo del più bieco efficientismo di facciata. sentato il 10 febbraio del 2015, il governo ha rifinanziato per i primi nove mesi dell’anno le missioni all’estero con 542 milioni di euro, una cifra in lieve calo rispetto ai 550 milioni spesi per i primi sei mesi dello scorso anno. La principale novità di quest’anno è rappresentata dall’inserimento di una prima lunga parte di norme dedicata appunto alla lotta al terrorismo. Un decreto che, come è stato sottolineato da alcuni giornalisti ed esperti, con il passare degli anni è riuscito a “caricarsi di disorganicità, incoerenza e confusione, rispecchiando forse l’assenza di una chiara, definita e lungimirante strategia politica del nostro Paese per affrontare le crisi internazionali.” �
Un’altra difesa è possibile
“L
a difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”, recita la Costituzione all’art. 52. La difesa della Patria deve essere civile, non militare. Eppure qualcosa non quadra. Eppure il Governo “promette” una spesa di 13 miliardi di euro in 3 anni per l’acquisto di nuove armi. Abbiamo visto l’ammontare delle spese militari italiane e, necessità o meno, è moralmente deprecabile che un’e-
conomia precaria come quella italiana debba ritrovarsi gravata da una simile spesa. La crisi economica e sociale di questo Paese è drammatica e la soluzione non è l’acquisto di nuove armi, così come intende fare il Governo italiano nel prossimo triennio. Su questa linea di pensiero si basa la Campagna per il disarmo e la difesa civile, ossia una proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione e il finanzia-
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mento del “Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta”. La ratio di questa proposta, presentata il 2 ottobre dello scorso anno durante la Giornata mondiale della nonviolenza, è dar vita allo spirito primigenio che sta alla base della nostra Costituzione, ossia il ripudio della guerra, più volte sancito dalla Legge e dalla Corte Costituzionale e
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che verrebbe concretizzato da versie internazionali, la difeuna difesa civile alternativa a sa dell’integrità della vita, dei quella militare, finanziata dai beni e dell’ambiente dai danni cittadini attraverso l’opzione che derivano dalle calamità fiscale in sede di dichiarazio- naturali, dal consumo di terne dei redditi. Uno strumento ritorio e dalla cattiva gestione che garantirebbe un alleggeri- dei beni comuni: in sostanza si mento della spesa pubblica ed lotta affinché i miliardi annui il rispetto di altri diritti fonda- spesi per l’acquisto di mezzi militari mentali sanciti nella [...] si lotta affinché i v e n g a n o nostra Costituzione. La parola sarebbe miliardi annui spesi u t i l i z z a ti per alquindi dei soli cittaper l’acquisto di mezzi tri scopi dini, i quali si ritromilitari vengano uticome la verebbero in mano uno strumento per lizzati per altri scopi s a n i t à , far organizzare dallo come la sanità, la tutela la tutela dell’amStato la difesa civile, dell’ambiente, la previbiente, non armata e nonviolenta e che contempli denza, l’istruzione [...] la previdenza, innanzitutto la difesa della Costituzione e dei diritti l’istruzione anziché per financivili e sociali che in essa sono ziare l’acquisto dei vari cacciaaffermati, la preparazione di bombardieri, portaerei ecc. mezzi e strumenti non arma- Questi non sono solo sogni deti di intervento nelle contro- stinati a rimanere lettera morta, ma sono priorità e valori di rango costituzionale troppo spesso calpestati. Ecco che lo strumento politico della legge di iniziativa popolare può tornar utile per aprire, innanzitutto, un confronto pubblico per ridefinire i concetti di difesa, sicurezza, minaccia, dando centralità alla Costituzione che ripudia la guerra – all’art. 11 – che afferma la difesa dei diritti di cittadinanza e affida ad ogni cittadino il sacro dovere della difesa della patria, all’art. 52. Demilitarizzare per investire nel welfare, per creare benessere sociale, per creare un’economia più equilibrata e senza più disparità tra classi troppo ricche e classi troppo povere. È la Costituzione a chiederlo, è il popolo italiano che, pur inconsapevolmente, ne necessita. �
in italia
di Luca Ercolini
infografica a cura di Giulia Di Martino
realtĂ pacifiste
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Padre Alex Zanotelli
Le armi? Solo un mezzo per difendere i privilegi a cura di Alice Facchini “Siamo rimasti prigionieri del ‘complesso militare industriale’, per usare un’espressione di Eisenhower. L’industria degli armamenti ci obbliga a produrre sempre più armi, spendendo miliardi di euro: ecco allora che la guerra diventa inevitabile”. A parlare è uno dei più noti sostenitori del pacifismo italiano, il missionario comboniano Alex Zanotelli, tra i fondatori del movimento Beati costruttori di pace. Dopo aver vissuto in svariati angoli del mondo, ora abita a Napoli nel difficile rione Sanità, dove continua a sostenere molte campagne, da quella per l’acqua pubblica a quella sul disarmo. “A cosa serve la guerra? A difendere questo sistema malato in cui viviamo, che permette al 20% della popolazione mondiale di consumare il 90% delle risorse. Le armi ci servono per difendere i nostri privilegi”.
Nei primi anni 2000 il movimento pacifista aveva un grande fervore: il G8 di Genova, il social forum, il movimento contro la guerra in Iraq… Dopo cos’è successo? “Non è facile dare spiegazioni del crollo del movimento pacifista, le ragioni sono molto complicate. La prima, fondamentale, è che in questo tipo di società consumistica i problemi veri valgono pochissimo, perché l’uomo è preso da un sacco di cose futili. Oltre a questo, le colpe sono anche interne al movimento, che si è frantumato. In Italia, nonostante i tentativi di unirsi, non 12
si è arrivati a nulla, e anche oggi la disgregazione sta aumentando, invece di diminuire. C’è poi da considerare un fattore poco sottolineato ma importante: in quegli anni, i partiti si sono intrufolati e hanno usato il movimento per i loro scopi, in particolare attraverso i forum. Questo ha generato sospetto sul movimento stesso”. Come si può rilanciare il movimento pacifista oggi? “Le varie realtà dovrebbero mettersi insieme e non guardarsi in cagnesco perché ognuno si sente più puro dell’altro. E poi, bisognerebbe
fare uno sforzo per coinvolgere anche i credenti, le parrocchie, le diocesi... Più saremo uniti, più la nostra voce sarà forte. Oggi la situazione è gravissima, non si può più temporeggiare”. Come si può comunicare alle nuove generazioni il pacifismo? “Questo è un grosso scoglio, perché oggi i giovani usano un linguaggio diverso e non è facile catturare la loro attenzione su temi come questo. Ma il vero problema è che ormai i giovani sono stati risucchiati dentro al sistema capitalista. Non vedono la guerra come
foto Andrea Scarfò
un problema, ma come una di- tutti, anche il diverso. Come fesa: difesa dai terroristi, dai ricordava Vittorio Arrigoni, musulmani, difesa dal diverso. ‘restiamo umani’. Poi esistono Bisogna aiutare i giovani a ca- anche una serie di azioni più pire che la guerra non è mai la concrete: per esempio, togliarisposta”. mo i soldi dalle banche armate, Come possiamo sostenere la quelle che investono il denaro pace nella nostra vita quoti- in armamenti”. diana? Cosa c’è dietro alle guerre ma“La cosa che manca è una pre- scherate da conflitti culturali, sa di coscienza: dobbiamo il cosiddetto scontro di civiltà? renderci conto che la nostra “Non esiste nessuno scontro società è esdi civiltà, i nostri s e n z i a l - [...] per portare la pace fratelli musulmani m e n t e nelle nostre vite, do- sono uguali a noi. v i o l e n t a . vremmo innanzitutto La verità è che l’IOrmai non sis l’abbiamo crerecuperare le relazioni abbiamo ata noi e la madre più rappor- umane, imparare ad dell’Isis è la guerra ti umani, accogliere tutti, anche in Iraq. Creiamo sfruttiamo mostri continuail diverso. le persone mente, senza nesolo quando ci servono e poi anche accorgercene, e poi li fonon le consideriamo più. Quin- mentiamo con le nostre bombe di, per portare la pace nelle e i nostri carri armati. Le renostre vite, dovremmo innan- ligioni dovrebbero diventare zitutto recuperare le relazioni un baluardo di pace invece che umane, imparare ad accogliere un motivo di guerra. La chiesa
cattolica, per esempio, potrebbe giocare un ruolo enorme nel processo di pace, se affermasse con fermezza che ogni guerra è profondamente ingiusta e che l’unica via è quella della non violenza attiva, che ci ha insegnato Gesù”. Quali sono le vere minacce del nostro tempo? “La vera minaccia è il nostro sistema, non solo economico ma anche militare. Si tratta di un sistema fallato, che consuma moltissime risorse, al punto che la terra non lo regge più. Inoltre, è profondamente ingiusto: se ci fosse più giustizia sociale, non esisterebbero neanche i terroristi, che non sono altro che povera gente che non ha niente da perdere. Se vogliamo davvero raggiungere la pace, dobbiamo mettere in atto una rivoluzione culturale e spirituale, vivendo in maniera diversa. Se no finiremo per sbranarci tutti”. �
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“INSIEME per la
PACE”
10 anni di Forum Interreligioso di Giuseppe Mugnano
Ha da poco spento dieci candeline il Forum interreligioso ‘4 ottobre’ di Parma, nato nel giorno di San Francesco d’Assisi in occasione delle celebrazioni per il Giubileo del Duomo del capoluogo ducale. In quella circostanza venne inaugurato un tavolo di dialogo, confronto e collaborazione fra le quattro religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam e fede Bahá’í) presenti nella città.
“Q
uesta realtà nasce in primo luogo per parlare alla popolazione, soprattutto alle nuove generazioni” – spiega Luciano Mazzoni Benoni, Presidente del Forum, nonché ex-docente di Antropologia delle religioni dell’Università di Bologna – “Il nostro obiettivo primario è insegnare l’‘abc’ di ciascuna religione, partendo da una reciproca conoscenza e dalla messa
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in discussione del concetto di individuo, sostituendolo con la categoria ‘persona’”. A tal proposito, tra i primi eventi organizzati dal Forum c’è stata una mostra intitolata ‘Cattedrali, moschee e sinagoghe: segni di pace e fratellanza fra i popoli’, tenutasi presso la Biblioteca Palatina di Parma (con il patrocinio delle istituzioni locali di Comune e Provincia), in cui sono stati esposti manoscrit-
ti e miniature cristiane (il cui patrimonio relativo alla Bibbia è secondo solo a quello posseduto dallo Stato del Vaticano), ebraiche e arabe, “al fine di attestare – continua Mazzoni - la radice lontana del confronto tra le diverse comunità, interrotta drasticamente con il ‘Decreto di Alhambra’ del 1492, (con cui il sovrano spagnolo Ferdinando II di Aragona sancì l’espulsione obbligatoria delle comunità ebraiche dai regni spagnoli e dai loro possedimenti, ndr), determinando di fatto la creazione dei ghetti”. Le delegazioni hanno colto l’occasione per organizzare un nuovo confronto: la mostra pertanto è stata affiancata da una tavola rotonda dal titolo ‘Dal Dialogo all’Incontro’, come auspicio di un avvio di un processo ampio, in grado di coinvolgere
la città e di rinnovare i tratti di civismo e di tolleranza. Lezioni, queste, da trasmettere in primo luogo ai giovani. Nel
[...] attestare la radice lontana del confronto tra le diverse comunità. corso degli anni, infatti, gli eventi che si sono susseguiti hanno coinvolto principalmente le scuole, invitate ad ascoltare e a loro volta farsi veicolo di messaggi di pace. Per questo motivo, sono proprio gli studenti d’istruzione secondaria a celebrare l’anniversario del Forum interreligioso. Come nel 2009, quando, in occasione della IV Giornata parmense del dialogo interreligioso, alcuni di loro andarono in visita al Cimitero evangelico. Oppure come l’anno seguente, con la visita alla chiesa ortodossa. O ancora nel 2011, quando l’attenzione
si spostò sulla chiesa metodista e successivamente al Battistero di Parma, attraverso delle visite guidate. Tutto ciò per trasmettere un messaggio fondamentale: la religione è sinonimo di arte e cultura; è espressione di un popolo, delle proprie credenze e tradizioni. A partire dal 2012, invece, sono stati i giovani a rendersi
esibiti alla fine dell’anno scolastico in Piazzale della Pace, erano più di 500 e ogni scuola indossava una magliet ta di colore diverso. Il Liceo Musicale ‘Attilio Bertolucci’ portò anche la sua banda, suonando al ritmo delle danze greche. Uno spettacolo bellissimo, un momento di grande gioia e partecipazione”.
foto: Giuseppe Mugnano
protagonisti prendendo parte a dibattiti e organizzando la mostra ‘Vie di pace con le religioni’. Il percorso di formazione è culminato nel 2014, quando “dieci istituti superiori – racconta il Presidente del Forum - dopo un percorso in laboratorio portato avanti insieme, sono stati preparati a danzare per la pace. Si sono
Accanto a queste iniziative si sono svolte annualmente ‘la giornata della spiritualità’ e la ‘giornata dell’accoglienza’, nonché la ‘Celebrazione della Settimana ONU per l’armonia tra le religioni’. Eventi che hanno assunto un risvolto fondamentale soprattutto alla luce degli ultimi tragici eventi che hanno visto sullo sfondo l’estremismo religioso, come il tavolo di dialogo sul tema della laicità dal titolo ‘Religioni e diritti nella società laica e plurale’. Partendo dalla storia e dall’attualità, “l’obiettivo è quindi – conclude il Professor Mazzoni - creare una nuova antropologia religiosa, fondata sul dialogo e la convivenza pacifica”. �
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La sottile arte della non violenza “La violenza è inutile e pure faticosa”, diceva con ironia Jacopo Fo. Tuttavia, nonostante le vittorie nonviolente da una secolo a questa parte, notiamo come essa è ancora oggi la Cenerentola delle nostre lotte sociali e politiche. È presente, ma le sue potenzialità sono sfruttate per una infinitesima parte, e i risultati sono pochi, troppo pochi.
Piccola critica alla “non violenza” pura di Enrico Campagni
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rima di parlare di nonviolenza è a mio avviso utile prendere le distanze da alcuni luoghi comuni e miti che la accompagnano, anzi, che sono spesso presentati come l’essenza della nonviolenza stessa, da parte sia dei suoi oppositori che dai suoi proseliti. Questi luoghi comuni sono simili in entrambe le fazioni, proprio perché se da un lato conferiscono alla nonviolenza un’aura di sacralità e purezza, dall’altro viene indicata dai “violenti” come ir-
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realizzabile in molti contesti. Quali sono questi miti? Sono, tanto per citarne alcuni, la purezza della nonviolenza, ossia il suo essere completamente scissa da ogni forma di violenza; la sua efficacia sempre e dovunque, in ogni contesto storico e in ogni luogo sulla terra; la sua sacralizzazione, attraverso anche la rimozione di lati “oscuri” di alcuni dei suoi grandi fautori come il Mahatma Gandhi, che riprenderemo più volte come esempio. La non violenza ha limiti pre-
cisi: è ben lontana dall’essere una cura ad ogni male, una “formula magica” che con un colpo di bacchetta trasforma i cattivi in buoni, mette la pace tra israeliani e palestinesi e trasforma in margherite ogni arma da fuoco. Alcuni contesti, infatti, sono oramai così destrutturati, violenti, allo sbando, che pensare di poterli cambiare solo con un boicottaggio o con una protesta pacifica appare una idea molto lontana dalla realtà. Cercando un esempio nel passato, basti pensare a un regime repressivo alla Pinochet o alla Mao Tse-tung, in cui proteste di questo genere non sortirebbero quasi alcun effetto, perché i manifestanti verrebbero arrestati, torturati e uccisi in
foto Fausto Carano
poco tempo. Non solo: con una macchina della propaganda e un controllo dei mezzi di comunicazione totalizzante, la protesta non esisterebbe già a trecento metri di distanza. Quindi si può dire che essa può essere attuata solo in un luogo in cui i diritti di chi protesta sono almeno in parte riconosciuti (ad esempio l’India coloniale). In un contesto in cui, insomma, l’immagine del politico può essere modificata da azioni senza che esse vengano completamente censurate. Un esempio di questa situazione è sicuramente l’Italia di oggi, una democrazia mediatica basata sul consenso televisivo e dei giornali di partito, in cui sono presenti grandi fazioni ma non un vero e proprio monopolio: se da un lato questi media riescono a ignorare o distorcere alcuni fatti, esistono tuttavia ancora diversi canali, anche in rete, in cui i fatti sono riportati in maniera più attendibile o comunque non vengono censurati del tutto.
Questi media possono incidere non di poco sull’opinione pubblica, la vera e forse unica arma di cui noi cittadini dell’era mass-mediatica ancora disponiamo. Relativizzare e de-mitizzare la nonviolenza significa anche riconoscere il carattere “impuro” delle azioni nonviolente: esse sono immerse in un continuum che va dall’azione “ideale” senza alcun uso di violenza all’azione quasi-violenta. Ad esempio, boicottare arance israeliane provocando il fallimento di una ditta e la disoccupazione di decine di lavoratori può essere considerata al cento per cento nonviolenza? Certo che no. Oppure: sabotare il Tav è del tutto nonviolento? Certo che no! Eppure forse questi sarebbero i due modi più efficaci e meno violenti di ottenere dei risultati in quei contesti. “Menoviolenti”, allora, non “nonviolenti”. Prendiamo come esempio sempre Gandhi: in diverse occasioni, la sua protesta è risul-
tata efficace poiché, sotto un atto apparentemente completamente nonviolento, si celava la minaccia dell’esplosione di una violenza inaudita. Nel 1932, ad esempio, il leader degli intoccabili Ambetkar aveva ottenuto dal governo coloniale britannico seggi separati per la sua casta, che avrebbe consegnato loro la maggioranza dei seggi nel Congresso Indiano. Per evitare questo, Gandhi si oppose con uno sciopero della fame che lo ridusse in fin di vita. Iniziarono tensioni tra gandhiani e intoccabili, che sarebbero molto probabilmente sfociate in un massacro dei secondi da parte dei primi nel caso di un decesso del Mahatma. Ambetkar rinunciò al disegno di legge, trovando come soluzione una conversione di massa degli intoccabili al Buddhismo, che non prevedeva l’esistenza di caste. Dopo questa piccola opera di decostruzione come si potrebbe definire, allora, la nonvio-
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lenza? Si potrebbe provare a definirla, senza alcuna pretesa di completezza, attraverso un insieme di termini opposti tra loro. Apparenza e sostanza, concretezza e creatività, combattere una persona e allo stesso tempo “umanizzarla”, sacrificio e tattica. L’apparenza, purtroppo, è la chiave della propaganda politica. Bisogna credere fermamente in ciò che si vuole ottenere, ma bisogna saperlo trasmettere a chi è diverso da noi. Bisogna che queste persone siano in grado di capirlo. Cambiare, consapevolizzare, stupire, scioccare, scalfire l’indifferenza tipica dell’Italiano Medio è l’unico modo per cambiare in maniera democratica la nostra società sul breve e sul lungo termine. Bisogna essere dei ponti tra diverse concezio-
foto Fausto Carano
ni del mondo, tra il cittadino attivo e militante e quello menefreghista. La nonviolenza è concreta perché non basta andare in piazza. Occorre essere in numero sufficiente, occorre essere pronti a reagire allo stesso modo, a non farsi prendere dal momento, magari dagli insulti, dalle percosse, dalla violenza provocata nell’altro. Anche Gandhi ci diceva che l’arte della nonviolenza pretende una 18
saldissima disciplina dell’animo. Infatti la disciplina che qui si richiede non ha nulla a che vedere con quella tipica delle forze militari: è una disciplina consapevole, che non parte dall’accettazione passiva di ordine ma richiede la comprensione di tutto sé stesso: corpo, anima e mente. Evitare la violenza esige poi una dose enorme di creatività, perché occorre immaginazione per inventarsi modi alternativi di sensibilizzare la popolazione e “sputtanare” i potenti. Ad esempio, il sindaco emerito di Bogotà, Mokus, riuscì a diminuire gli incidenti stradali usando un “esercito” di clown al posto della polizia, ed in qualche mese si riuscì a consapevolizzare le persone attraverso scenette, pianti, risate, prese in giro. La nonviolenza implica una fervente attività di fantasia: in questo senso è molto più faticosa della violenza. Occorre lasciare i vecchi format e sperimentarne di nuovi, fare entrare l’ironico e il ridicolo nell’attività politica. Come quando alcuni del gruppo Arte Migrante di Bologna, in occasione dell’ultimo comizio di Salvini a novembre scorso, si sono vestiti da leghisti per accedere inosservati alla loro manifestazione, per poi mettersi a ballare e danzare tra i devoti salviniani, ottenendo il loro totale spiazzamento. Forse pochi
militanti dei collettivi autonomi accetterebbero di mettersi dei vestiti leghisti, o di fingere di essere “un nemico”. Perché? Perché non si vuole lasciare il
[...] la disciplina che qui si richiede non ha nulla a che vedere con quella tipica delle forze militari: è una disciplina consapevole, che non parte dall’accettazione passiva di ordine ma richiede la comprensione di tutto noi stessi. caro e comodo vecchio format, la propria cornice. Si vuole mantenere la nostalgica forma dello scontro, del duro e puro, del “celerino morto”. E poi cosa scrivono sui manifesti dopo averle prese una intera giornata? “Grande resistenza sul ponte di Stalingrado!”. Sempre il buon Gandhi ci dice come occorra amare chi ci odia per seguire la via della satyagraha o nonviolenza. Non leggerei questa frase come un comandamento imprescindibile dalle nostre scelte o come un dogma del sacrificio nonviolento, bensì da un punto di vista tattico. Non considerare la persona da sconfiggere “un nemico da odiare”, ma un altro essere umano come noi ci dà un enorme vantaggio. Primo, perché siamo persone “a tutto tondo”, con lati negativi e lati positivi, celerino compreso. Considerare la possibilità di tenere sempre e comunque aperta una finestra di dialogo è utile. Da un punto di vista interiore – ma questa è una idea personale – odiare una persona arreca un grande danno a
noi stessi. Ci rode, ci annebbia la mente, ci fa prendere scelte di cui in seguito, finito il momento di odio, forse ci pentiamo. Essere distaccati, combattere un’idea o una pratica e mai la persona salva quindi ciò che abbiamo dentro, qualsiasi “dentro” esista in noi. Qui (a Bologna, in Italia, in Europa) e ora (e non ad esempio durante il Fascismo) la protesta nonviolenta potrebbe essere invece l’arma più efficace in molte occasioni. Efficace perché con il minor numero di persone si potrebbe ottenere potenzialmente il risultato più concreto e utile che con una risposta violenta. Sensibilizzare la gente, far perdere denaro, credibilità, consensi a una società o a un politico, sono fra gli obbiettivi principali di un’azione non-
violenta. Occorre rimanere concentrati sul proprio obiettivo, altrimenti si rischia di ritornare a quello, non ufficiale, di natura “socializzante” o “di sfogo” che traspaiono tanto nei movimenti anarchici, qunato nei circoli della lega e o nelle bocciofile per gli “anziani comunisti”. É certo un aspetto importante, tuttavia non è l’obiettivo principale. Manifestare per stare insieme e fare gruppo no, essere gruppo per manifestare sì. Bisogna ricordarsi che sì, siamo sempre in guerra, ma in una guerra intelligente, creativa, nonviolenta.�
queste può essere uno spunto o una spinta per il lettore ad approfondirne qualcuna e, magari, applicarla. Tutte le azioni nonviolente hanno sempre un occhio rivolto verso il pubblico, ma ci sono alcune tecniche che hanno come scopo principale quello di sensibilizzare la popolazione su alcune tematiche. Volantinaggio, attività di controinformazione, marce, sono tutte azioni comunicative; fra queste una delle forme più creative ed efficaci emotivamente è quella dell’azione teatrale. Si possono mettere in atto delle rappresentazioni per strada, coinvolgendo il pubblico, rappresentando delle problematiche sociali e chiedendogli come risolverle: è il caso del teatro forum. Uno strumento molto più sottile e potenzialmente esplosivo è quello del teatro dell’invisibile: una donna entra in un locale, si sente male, ma chiede ai soccorritori di non chiamare l’ambulanza, è straniera e ha problemi di documenti. dante o vittima a interlocutore, Chi l’ha aiutata lamenta delle che utilizza la violenza subita o ingiustizie subite dai migranevitata come strumento di co- ti e cerca un’altra soluzione, un altro avmunicazione delle proprie posizioni [...] la propria trasfor- ventore afagli altri giocatori mazione da sfidante o ferma invece o agli spettatori. vittima a interlocutore, che bisogna chiamare Le possibilità di che utilizza la violenza ambulanza azioni non voilente, in termini di subita come strumento e polizia per tecniche e strate- di comunicazione delle denunciarla. gie, sono davve- proprie posizioni agli Fin qui erano gli attori ro innumerevoli, altri giocatori. che avevano accresciute continuamente dalla creatività e creato questo scenario, quello dall’originalità di generazioni che seguirà dipenderà da come di attivisti. Alcune di queste le persone presenti interversono ormai desuete o anacro- ranno nella rappresentazione nistiche, ma molte sono as- cui inconsapevolmente sono solutamente attuali e, chissà, stati inseriti, rappresentando fare una piccola rassegna di se stessi e le proprie idee in
Strategie e pratiche di non violenza sul campo di Stefano Fornito
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a vita è un gioco, o meglio un continuo susseguirsi di inviti o possibilità di giocare, ma il bello è che, a meno che non siamo obbligati, siamo noi a scegliere le regole e se partecipare. Se qualcuno mi tira un pugno posso restituirglielo o arrendermi, accettando le sue regole del gioco, oppure posso cercare di cambiarle e portare anche l’altro a doverle rispettare, in un campo a lui meno familiare, in cui avrà bisogno della mia collaborazione per continuare a giocare. È questa una delle basi della nonviolenza, non la sottomissione alla forza dell’altro, ma la propria trasformazione da sfi-
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una situazione critica e di forte impatto emotivo. Se invece l’obiettivo è spingere il proprio avversario a interrompere o modificare pratiche che si reputano ingiuste, allora il repertorio nonviolento offre un’ampia gamma di tecniche di non-collaborazione, boicottaggio o intervento diretto. Uno degli esempi più antichi e originali di boicottaggio sociale è raccontato nella commedia greca Lisistrata in cui tutte le donne di Atene arrestano ogni tipo di prestazione sessuale fino alla cessazione della guerra: alla fine l’hanno vinta, ma è solo teatro. Oggi sono numerose invece le forme di boicottaggio sociale, politico o economico nei confronti di stati interi che applicano politiche repressive e violente, multinazionali che non rispettano l’ambiente e i diritti dei lavoratori, istituzioni e politici corrotti. Seguire continuamente un politico o i rappresentanti di un’istituzione, denunciando le loro malefatte e delegittimandone i discorsi e la presenza in situazioni pubbliche, può arrivare a fargli commettere atti violenti e incontrollati, che li renderanno più vulnerabili e obbligati a scendere a compromessi. Pressioni di questo tipo compromettono la reputazione dell’avversario, lo isolano politicamente ed economicamente, associano il suo nome a pratiche ingiuste che aveva cercato di nascondere, ma rese note ad esempio con la consegna del premio al peggiore (il nobel per la guerra, l’inquinatore dell’anno) o l’istituzione di record, come quello del sindaco responsabile di più sgomberi, per fare un esempio. 20
Il boicottaggio di beni può essere accelerato da azioni spettacolari e teatrali nei supermercati per spingerli a non commercializzare i prodotti di certi marchi, con forti effetti mediatici e ingenti danni economici ai propri avversari. E se l’obiettivo è combattere, o almeno non collaborare con lo strumento di coercizione violenta più potente in mano agli stati, ovvero l’esercito, le cose si fanno complicate. Quando esisteva la
commons.wikimedia
leva obbligatoria in Italia, centinaia di pacifisti hanno subito processi ed incarcerazioni per l’obiezione di coscienza, fino a quando è stato istituito il servizio civile in sostituzione di quello militare. Dagli anni ’80, inoltre, è nata una nuova pratica: l’obiezione di coscienza alle spese militari, detta anche «obiezione fiscale», che consiste nel non pagare la percentuale di tasse che si stima sia destinata alle spese militari e devolverla altrove, assumendosi tutte le pene che sono previste per gli evasori. Gli interventi diretti sono invece quelli più delicati, quelli che mettono più in pericolo la salute degli attivisti a causa della repressione, e che rischiano di compromettere l’immagine dell’azione in caso di disordini ampliati mediaticamente. Abbonda un gran numero di
“-in”, dai più comuni a quelli meno familiari: sit-in, standin, read-in, milt-in (occupazione di un luogo continuando a muoversi), ride-in (occupazione dei mezzi di trasporto, tipica del movimento antisegregazionista afroamericano), teach-in, sleep-in, die-in (una delle più grandiose fu la simulazione di morte atomica a Roma nel 1983, in cui centomila persone si accasciarono a terra al suono di fortissime sirene), vomit-in (in consigli generali, assemblee, tribunali, forzarsi a vomitare quando è presa una decisione ingiusta). Spesso la presenza di videocamere degli attivisti che si occupano della comunicazione, o dei giornalisti, è decisiva nell’evitare violenze da parte dei propri avversari, o almeno è utile a testimoniarle. In tutti i casi una rigorosa disciplina nonviolenta mette in seria crisi i dispositivi di repressione che sono abituati a utilizzare la forza per levarsi di torno presenze scomode, giustificati e appoggiati dall’opinione pubblica, la resistenza passiva invece mostra la bontà non solo delle proprie posizioni ma soprattutto del modo di esprimerle, e può attirare solidarietà e consensi. Immaginiamo uno scenario fra quelli qui citati: all’improvviso appare il proprio avversario fuori di sé oppure una squadra di omini blu armati fino ai denti con caschi e scudi trasparenti, non c’è bisogno del loro libretto di istruzioni per capire quali sono secondo loro le regole del gioco, sta noi far capire e far rispettare le nostre. �
Aprire spazi di pace Peace Brigades International fra non violenza e diritti umani
pbdcolombia.org
Sarebbe bello avere una bacchetta magica, recitare una formula difficile da pronunciare ma molto efficace appena terminata, dormire una notte intera e risvegliarsi così, magicamente, in un mondo di pace. In un mondo dove i diritti fondamentali di tutti vengono rispettati perché qualcuno, tempo addietro, ha stabilito che quei diritti sono fondamentali. Fondamentali per tutti gli essere umani. Sarebbe certamente bello avere quella bacchetta magica. Ma così non è.
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avorare per aprire spazi di pace è invece l’obiettivo di Peace Brigades International, organizzazione non governativa internazionale che nasce in Canada circa trentacinque anni fa e lavora in vari paesi del mondo con lo scopo di promuovere la non violenza e difendere i diritti umani. Ma cosa significa “difendere i diritti umani”? Cosa spinge ragazzi e ragazze provenienti da tutto il mondo ad impegnarsi
nella difesa dei diritti umani? Peace Brigades International aspira a un mondo in cui le persone affrontino i conflitti in maniera nonviolenta, in cui si difendano in modo universale i diritti umani e in cui la giustizia sociale e il rispetto interculturale siano una real-
tà. PBI lavora in paesi in cui le comunità subiscono intimidazioni, repressione e violenti
di Roberto Meloni
conflitti. Per loro stesso dire, gli uomini e le donne che lottano in difesa dei diritti umani rappresentano il cuore di tutto quello che l’associazione fa. L’associazione fornisce protezione, supporto e riconoscimento agli attivisti e attiviste per i diritti umani locali che hanno richiesto l’aiuto dei volontari di PBI perché lavorano in zone in cui c’è repressione e conflitto. PBI aiuta gli attivisti e le attiviste a fare rete e ad accrescere la consapevolezza rispetto alle
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problematiche che devono affrontare. Le attività che l’associazione porta avanti in tutti i suoi progetti sono di sensibilizzazione e stimolo a diversi livelli – dal soldato che si trova al check point locale fino agli organi di governo nazionali e agli organismi internazionali come le Nazioni Unite – per favorire l’assunzione di responsabilità internazionale rispetto alla tutela dei diritti umani. Lo scopo dichiarato dei volontari internazionali è quello di mandare un potente messaggio: il mondo sta a guardare ed è pronto ad agire. Dall’ultimo rapporto annuale dell’associazione si legge “Noi crediamo che non si possano ottenere una pace stabile e delle soluzioni durature ai conflitti attraverso metodi violenti. Lavoriamo sempre su richiesta degli attivisti e delle attiviste per i diritti umani e in risposta alle loro esigenze. Siamo convinti che una duratura trasformazione del conflitto non possa giungere dall’esterno, ma si debba basare sulla capacità e sulle aspirazioni della popolazione locale. Evitiamo l’imposizione, l’interferenza o il coinvolgimento diretto nel lavoro svolto da chi accompagniamo. Non forniamo supporto finanziario o sostegno
ni con il mantenimento di una estesa rete di supporto internazionale.” La bacchetta magica non c’è ancora. Ed è proprio per questo motivo che ragazzi e ragazze si impegnano con PBI in vario modo. I progetti sul campo ad oggi aperti sono in Colombia, Guatemala, Honduras, Indonesia, Kenia, Messico e Nepal – paesi nei quali gli attivisti e le attiviste per i diritti umani subiscono intimidazioni, molestie, persecuzioni, arresti, sparizioni forzate, torture e uccisioni a causa delle loro idee e delle loro azioni. Usando le informazioni dettagliate e precise degli attivisti e delle attiviste impegnate sul campo, l’associazione promuove la sensibilizzazione e mobilitazione della comunità internazionale, per contribuire a rendere il mondo un luogo più sicuro per chi si im-
Siamo convinti che una duratura trasformazione del conflitto non possa giungere dall’esterno, ma si debba basare sulla capacità e sulle aspirazioni della popolazione locale. allo sviluppo alle organizzazioni con cui lavoriamo. Il nostro lavoro è efficace perché utilizziamo un approccio integrato, combinando la presenza sul campo accanto agli attivisti e alle attiviste per i diritti uma22
pegna per i diritti umani. Per capire meglio il lavoro di questa realtà del pacifismo mondiale, è bene ricordare qualche numero: in particolare il rapporto annuale di PBI afferma, fra le altre cose, che “nel 2014
PBI ha garantito protezione ed appoggio a 124 attiviste e 167 attivisti dei diritti umani di 57 organizzazioni. Nel complesso, queste organizzazioni
appoggiano migliaia di donne, uomini, bambine e bambini a cui vengono negati i diritti fondamentali perché espulsi con la forza dalle loro terre, o spettatori delle “sparizioni” di familiari o sottoposti a tortura e violenza da parte delle forze armate. Nel 2014 PBI ha garantito 1738 giorni di accompagnamento fisico alle attiviste ed agli attivisti dei diritti umani. Abbiamo visitato le organizzazioni e le persone accompagnate 407 volte nel 2014. Queste visite e riunioni danno appoggio morale e consulenze pratiche, e consistono nel verificare lo stato di benessere delle attiviste e degli attivisti e nel dare aiuto con risposte concrete a specifici incidenti di sicurezza.” I volontari di PBI si sono però organizzati anche in gruppi
nazionali in 15 diversi paesi del mondo. Senza i gruppi nazionali, PBI non potrebbe offrire un accompagnamento protettivo alle attiviste e agli attivisti
per i diritti umani e avrebbe un sostegno e un impatto internazionale limitato. I gruppi nazionali contribuiscono a cercare, formare e sostenere i volontari internazionali di PBI, raccolgono i fondi per i progetti sul campo, sviluppano legami con i parlamentari, il personale delle Ambasciate, avvocati, giudici, studiosi, ONG, Chiese, comunità e singoli individui per sostenere i difensori dei diritti umani. I gruppi nazionali fanno attività di sensibilizzazione sulle violazioni dei diritti umani e fanno attività di advocacy per stimolare l’azione della comunità internazionale. Sarebbe bello avercela quella bacchetta magica. Per il momento però c’è ancora tanto e tanto lavoro da fare per permettere agli attivisti che si oc-
cupano di diritti umani di fare il loro lavoro, di autodeterminarsi, di lottare con metodi pacifisti e non violenti per un mondo più giusto. La non vio-
lenza e il pacifismo esistono e PBI dimostra che anche solo una goccia è importante per far si che l’oceano non si prosciughi. �
pbd-italy.org
Il coraggio della nonviolenza: testimonianze dalla Colombia*
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omaira ed Enrique, contadini afrodiscendenti, ci parlano con commozione del loro forte legame con la terra e della loro appartenenza alla comunità afrocolombiana. La loro voce non esita neanche un momento nello spiegarci che, essendo contadini afrodiscendenti in Colombia, sono vittime degli interessi delle imprese agroindustriali, che non lasciano spazio alla coltivazione tradizionale della terra. E la violenza è la strategia usata per imporre i megaprogetti. Yomaira ed Enrique (con altre centinaia di famiglie ) hanno preso una posizione chiara:
di Sara Ballardini nonviolenza e difesa del territorio. Sorge spontanea la domanda: “Come siete arrivati a questa scelta? Perché la nonviolenza?” Ma come potrebbe Enrique raccontarci in poche parole gli anni dello sfollamento, le assemblee fino a notte fonda, la ricerca di appoggio internazionale, la costruzione di rete fra comunità, il percorso di formazione con giovani e adulti, i gruppi di donne, le vittime, le minacce e gli attacchi, le diffamazioni, le sentenze giuridiche...? Non ci sono parole sufficienti. Ma la sua risposta risuona chiara: “La non violenza è l’unica possibilità reale che abbiamo. Se ci lascia-
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Curvaradó e Jiguamiandó. In queste zone della Colombia, a partire dal 1996, le incursioni e i massacri fatti da paramilitari ed esercito hanno costretto alla fuga le comunità contadine. Con la scusa di combattere la guerriglia, militari e paramilitari hanno attaccato i contadini; chi è sopravvissuto e fuggito (“solo con gli abiti che aveva addosso, abbandonando tutto”, ricordano Yomaira ed Enrique) è rimasto sfollato per anni, in precarietà assoluta. Quando, dopo anni, alcune famiglie sono riuscite a tornare sulle proprie terre, le hanno ritrovate coperte da estese piantagioni di palma da olio, introdotta da impresari (in seguito condannati per collaborazione con i paramilitari). I tribunali hanno dato ragione ai contadini, riconoscendo che la terra gli appartiene e ordinando lo sgombero degli impresari; ma l’occupazione illegale dei territori continua oggi, mentre i contadini che rivendicano la propria terra vengono attaccati con ogni forma di violenza (vari sono stati uccisi, anche recentemente).
mo provocare e coinvolgere in Curvaradó (Chocó - Colomatti di violenza, daremo la scu- bia), perché, oltre le parole, è sa per schiacciarci come zan- l’esperienza diretta che ci fa zare. La nonviolenza ci fa più capire la straordinarietà della forti, ci dà una forloro scelta. za diversa da quella La non violenza ci Come volontaria di che usano impren- fa più forti, ci dà Peace Brigades Inditori e paramilita- una forza diversa. ternational (PBI), ri/militari.” ho camminato a Yomaira ed Enrique sono do- lungo per i sentieri e le strade vuti scappare dalla loro terra, del Curvaradó e del Jiguamiandopo anni di attivismo nelle dó. L’obiettivo della presenza proprie comunità, e dopo aver di PBI nella zona è proteggedenunciato gli assassini dei re attivisti come Enrique e propri familiari. In pochi mesi Yomaira e permettere loro di hanno subito sette attentati e portare avanti le proprie rivendecine di minacce e diffama- dicazioni, forti dell’accompazioni. Entrambi hanno dovuto gnamento internazionale. lasciare il proprio Paese chie- Yomaira ed Enrique ci hanno dendo rifugio temporaneo in commosso con le loro parole e Europa. Nella sofferenza del- i loro volti segnati dalla soffela distanza (e con le minacce renza; è una commozione che che continuano contro le pro- ci chiede di muoverci, di proseprie famiglie), hanno deciso guire, sempre più convinti, nel di raccontare la loro storia per cammino della nonviolenza, comunicarci in prima persona sostenendo le Zone Umanitaquello che succede in Colom- rie del Curvaradó e Jiguamianbia, e per coinvolgerci nella dó e i loro leader. Ci chiede di loro resistenza nonviolenta in fare rete tra le tante organizzadifesa del territorio. zioni che si occupano di pace In Trentino, ci hanno invitato e diritti umani (in prima fila a riflettere sui nostri acquisti e nell’organizzare l’incontro con sugli investimenti che faccia- Yomaira e Enrique sono stati il mo (il messaggio di Enrique Forum Trentino per la Pace e i è chiaro: “Credo non vogliate Diritti Umani, Operazione Comangiare banane sporche del lomba, il Centro di Educazione nostro sangue”); hanno chie- Permanente alla Pace di Rosto di fare pressione sui nostri vereto, Il Gioco degli Specchi, politici, affinché l’Italia smetta Yaku e PBI Italia Onlus), per di appoggiare le politiche che rendere la nostra azione più violano i diritti umani in Co- efficace, qua in Trentino come lombia; hanno chiesto di at- in altre regioni del mondo. � tivarci per chi (come loro) sta subendo attacchi a causa del loro ruolo di leader della resistenza nonviolenta. E ci hanno invitato ad andare *articolo pubblicato sul sito dell’associazione AZIONE NON VIOLENTA a trovare le loro famiglie, nel
Afrocolombiane. Sono le popolazioni discendenti dagli schiavi deportati dall’Africa
durante il colonialismo. CONPAZ. Rete di 110 comunità colombioane a cui appartengono Enrique e Yomaira. https://comunidadesconpaz.wordpress.com/ 24
OPERAZIONE COLOMBA
di Francesca Notari tuwaniresiste.operazionecolomba.it
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volte capita che i potenti rispondano “di pancia” agli attacchi terroristici, ed è allora che scoppia la guerra: i bombardamenti però non colpiscono solo il tanto temuto nemico barbuto, ma anche i civili, i bambini, le donne, gli ospedali. Dicono i politici: “Dobbiamo rispondere all’invasione dei musulmani”. Peccato che una recente ricerca Ipsos Mori sostenga che in Italia i migranti rappresentino il 7% della popolazione, percentuale che scende al 4% se si parla di musulmani. Si può definire invasione questa? Eppure, l’occidente sembra faticare a trovare risposte ai problemi complessi del nostro tempo, come le migrazioni: oltre alle bombe, stiamo assistendo alla chiusura delle frontiere, alla militarizzazione dei territori, alla dichiarazione di stato d’emergenza, con conseguente sospensione della democrazia. Ma ci sono alternative a tutto questo? Alcune realtà dimostrano che, come si usava dire una volta, “un altro mondo è possibile”. Parliamo ad esempio di Operazione Colomba, il corpo nonviolento di pace della comunità Papa Giovanni XXIII, che
dal 2004 opera in Palestina. Anche in un territorio come quello, dove la guerra si vive tutti i giorni, è possibile agire secondo principi nonviolenti: i volontari scortano i bambini palestinesi a scuola, accompagnano i pescatori in mare e lavorano per avviare un dialogo tra le parti belligeranti. Operazione Colomba ha progetti anche in Libano, in Albania e in Colombia, dove la filosofia è sempre la stessa: la nonviolenza è l’unica via per ottenere una pace vera, fondata sulla condivisione e sull’accettazione dell’altro. Sempre in Palestina, un’altra realtà interessante è il Comitato popolare delle colline al sud di Hebron, nato nel 1999 ad At-Tuwani in seguito alla deportazione armata della popolazione di 15 villaggi da parte dei coloni israeliani. La Palestina è maestra in materia di resistenza popolare non violenta, e in quell’occasione è stato evidente. Gli abitanti, subito dopo essere stati sgomberati, si sono riuniti in questo Comitato, dandosi due regole: la prima, “non lasciare mai la terra, qualsiasi cosa accada”, la seconda, “per farlo, non usare mai la violenza”.
Così il Comitato popolare delle colline al sud di Hebron ha basato la sua resistenza sulla non risposta alle armi, sul dialogo con le forze militari israeliane, in collaborazione con altre associazioni palestinesi e estere. Una strategia che vieta l’uso della forza non dà effetti immediati, è vero, ma a lungo termine risulta vincente. E i risultati si sono visti: in 17 anni di operato, si è riusciti a ottenere uno spazio dove sono state costruite una clinica e una scuola, e dove si può usufruire dell’elettricità e dell’acqua corrente. Purtroppo, l’assurdità della guerra porta ancora i bambini di At Tuwani a dover essere scortati nel tragitto casa-scuola, per non essere vittime dei continui attacchi dei coloni israeliani. Anche i pali della luce sono stati presi di mira: dovevano essere abbattuti, erano già arrivate le ruspe, quando uno scudo umano di donne palestinesi si è frapposto. Insomma, i problemi ancora sono enormi, ma almeno risulta chiaro che i risultati prima o poi arrivano, se si sceglie di combattere con l’arma della nonviolenza. �
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Tiziano Terzani
Giornalista di pace in tempo di guerra di Giovanni Modica Scala
N
el lontano 2001, quando aveva già chiuso i conti con il giornalismo ritirandosi nelle amene vette dell’Himalaya, Tiziano Terzani decide di tornare in campo in seguito all’attentato terroristico dell’11 settembre. Quella che si presentava era una “buona occasione per ripensare tutto: i rapporti tra Stati, tra religioni per fare un esame di coscienza, accettare le nostre responsabilità di uomini occidentali e magari fare finalmente un salto di qualità nella nostra concezione della vita”. Dopo le esperienze di guerra in Vietnam, Cina e Cambogia,
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sente l’irrefrenabile “bisogno di fare il corrispondente non di guerra ma contro la guerra”. La forma prescelta per questo ‘pellegrinaggio di pace’ tra la frontiera pak-afghana (Peshawar, Quetta), Kabul e Delhi è quella delle lettere, coerentemente con il desiderio di potere scrivere senza limitazioni di spazio, libero dalla perentorietà delle scadenze: un accordo con Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della Sera, gli permette di tornare a fare il proprio mestiere. Questi testi andranno a costituire Lettere contro la guerra, la cui dedica è riservata al nipo-
tino Novalis, sua fonte di ispirazione come lo stesso autore ebbe a confessare in Un altro giro di giostra: “Due anni, curioso e inconsapevole, pieno di entusiasmi e ancora senza quel sentimento che presto soffoca tutti, la paura. Volevo lasciargli qualcosa che non fosse solo il ricordo di un nonno con la barba”. Ne esce fuori un’opera di grande valore in cui si fonde una grande dote narrativa - che illumina anche le descrizioni dei paesaggi martoriati dalla guerra – con analisi storiche, geopolitiche e filosofiche cristalline che conducono il lettore alla conclusione del-
la vanità di ogni violenza. Si parla dalle radici afghane del panislamismo, del dramma del mondo musulmano nel suo confronto con la modernità, del ruolo dell’Islam come ideologia anti-globalizzazione e, ripetutamente, della necessità da parte dell’Occidente di evitare una guerra di religione. Si citano personaggi storici più o meno celebri: da Gandhi a Bandshah Khan (“il musulmano soldato di pace”), leader afghano che si unì giovanissimo al movimento di Gandhi e dedicò tutta la sua vita a convincere i pashtun, una delle etnie più bellicose della terra, a rinunciare alla violenza; senza trascurare Ashoka, imperatore che, nel III sec. a.C., dopo l’ennesima conquista, si rese conto dell’assurdità della violenza e cominciò a scolpire nella pietra manifesti antimilitaristi. Non ritengo opportuno soffermarmi a lungo - in quanto già ripetutamente sviscerata dopo i fatti di Parigi - sulla polemica alimentata dalla querelle con Oriana Fallaci, sostenitrice dell’egemonia occidentale e, nella sua essenza, islamofoba. Rimandando alla lettura integrale dell’interessante dibattito tra i due fiorentini, mi limito a sottolineare l’impa-
reggiabile onestà intellettuale che permea Lettere contro la guerra facendone un trattato di antimilitarismo ‘razionale’: “con queste lettere non cerco di convincere nessuno – sostiene Terzani nell’incipit – voglio solo far sentire una voce, dire un’altra parte di verità, aprire un dibattito perché tutti prendiamo coscienza, perché non si continui a pretendere che non è successo nulla, a far finta di non sapere che ora, in Afghanistan, migliaia di persone vivono nel terrore di essere bombardate dai B-52, che in questo momento un qualche prigioniero,
“Devi andare a sentire le ragioni degli altri. Oggi il grande problema è che ci viene impedito di sapere cosa vogliono gli altri, chi sono.” portato incappucciato e incatenato a venti ore di volo dalla sua terra, viene ora ‘interrogato’ su un ultimo lembo di terra coloniale degli USA a Guantanamo, mentre gli strateghi della nostra coalizione contro il terrorismo stanno preparando altri attacchi in chi sa quali altri paesi del mondo”. Per il giornalista fiorentino, non si tratta di giustificare ma di capire. Emerge qui, a proposito del ruolo dell’intellettuale, l’essenzialità della pratica del dubbio: “Dubitare è una funzione essenziale del pensiero. Io non pretendo affatto d’aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo, ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande”. Ciò che anima l’opera di Terzani sono le ragioni degli altri: “tutto il mio lavoro di giornalista prima e, ora, di vecchio viaggia-
tore è sempre stato quello di rappresentare il punto di vista degli altri. Nelle guerre ci sono sempre due parti: se stai da una parte sola non capirai mai cos’è la guerra. Devi andare a sentire le ragioni degli altri. Oggi il grande problema è che ci viene impedito di sapere cosa vogliono gli altri, chi sono”. Altro leitmotiv delle lettere è la riflessione filosofica sull’idea di progresso che ha determinato, paradossalmente, un drammatico imbarbarimento dell’uomo: “Anni di sfrenato materialismo hanno ridotto e marginalizzato il ruolo della morale nella vita della gente, facendo di valori come il danaro, il successo e il tornaconto personale il solo metro di giudizio. Senza tempo per fermarsi a riflettere l’uomo del benessere e dei consumi ha come perso la sua capacità di commuoversi e di indignarsi”. “Che fare?”, dunque, si chiede in chiusura Terzani. La soluzione, oltre all’abbandono della violenza come mezzo di risoluzione di qualsivoglia controversia, consiste in una rivoluzione interiore: “Ancor più che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi. Lentamente bisogna liberarcene. Opponiamoci – inveisce – non votiamo per chi appoggia una politica che investe sulla militarizzazione delle nostre società, controlliamo dove abbiamo messo i nostri risparmi e togliamoli da qualsiasi società che abbia anche lontanamente a che fare con l’industria bellica, introduciamo una cultura di pace nei giovani. Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma preferiamo quello dell’abbrutimento che ci sta dinanzi? O quello, più breve, della nostra estinzione? Allora: buon viaggio! Sia fuori che dentro.” �
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Crediti fotografici: - Andrea Scarfò | p. 13 - Fausto Carano | pp. 16,17,18 - Giuseppe Mugnano | p. 15 Illustrazioni e immagini: - Guglielmo Manenti | p. 6 - Bansky | pp. 10,28
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Carlo Tamburelli
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