Leonardo Sciascia - Il Mare Colore Del Vino

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LEONARDO SCIASCIA IL MARE COLORE DEL VINO "Maestà" disse il ministro Santangelo battendo dolcemente un dito sulla spalla di Ferdinando "siamo alle Grotte." 11 re si svegliò con un singulto, in faccia al ministro aprì gli occhi acquosi di sonno e smarriti, si passò il dorso della mano sulla bocca da cui colava un filo di saliva. "Che c'è?" domandò. "Siamo alle Grotte, maestà." Ferdinando si affacciò allo sportello della carrozza. Case grige che si ammucchiavano a scivolo sul fianco di una collina, tetti di ortiche e di muschio. E donne vestite di nero affacciate alle porte, e bambini dagli occhi attoniti e affamati, e porci che grufavano nelle immondizle. Si ritrasse. "E che mi svegliate a fare?" disse al ministro. E come rivolgendosi a una terza persona: "Ventiquattr'ore che non chiudo occhio: e appena riesco a cogliere un po' di sonno, ecco questo scimunito a svegliarmi con la bella notizia che siamo alle Grotte". 11 labbro, che pareva un rognone di vaccina, gli tremava di collera. Si affacciò di nuovo. A pochi passi dalla carrozza la gente si aggrumava silenziosa. "Nelle grotte ci stanno i lupi: tiriarno avanti" disse all'ufficiale di scorta. Rise, abbandonandosi all'indietro, della felice battuta che gli era venuta. Il ministro si piegò in due dal ridere. E tirarono avanti per altre due miglia: fino a Racalmuto, dove trovarono i balconi parati di seta come per il Corpus Domini, la guardia urbana schierata, una ricca mensa in municipio. Così Grotte, nei documenti del tempo chiamato Le Grotte e dai racalmutesi, ancor oggi,i Gr~tti, non ebbe l'onore di ricevere re Ferdinando. Giusto un secolo dopo, dalla stazione di Grotte il treno di Mussolini passò velocemente, a filo di una folla che dal marciapiede quasi traboccava tra le ruote: e non furono molti i grottesi che per un momento intravidero la faccla abbronzata e ingrugnata di Mussolini accanto a quella olivigna e sorridente di Starace. Da questi due fatti, fino a pochi anni addietro, i racalmutesi traevano irrisione e disprezzo per i grottesi. E da parte loro, i grottesi tenevano un repertorio di mimi che comicamente rappresentavano i difetti dei racalmutesi: brevi fantasie come quelle da Francesco Lanza raccolte e ricreate, e che da Lanza ebbero appunto il nome di mtmi. Nelle partite di calcio tra le squadre dei due paesi, la letteratura dei ricordi storici e dei mimi, delle invettive degli insulti, durava fino agli ultimi cinque minuti della partita: e si passava poi a quelle che nei verbali dei carabimerl erano denominate vie di fatto, cioè ai pugni, ai calci e alle sassaiole. In verità, a due miglia appena di distanza, i due paesi erano quanto di plU diverso ed opposto si possa immaginare. Grotte aveva una minoranza valdese e una maggioranza soclallsta, tre o quattro famiglie di origine ebraica, una forte mafia; e brutte strade, brutte case, squallide feste. Racalmuto aveva una festa, splendida e frenetica, che


quasi durava una settimana: e i grottesi vi accorrevano in massa; ma era, per il resto, paese senza inquietudini, elettoralisticamente diviso tra due grandi famiglie, con pochi socialisti, molti preti e una mafia divisa. A mutare i rapporti tra i due paesi, ad addolcire e spe~nere le rivalità, hanno di certo contribuito, con le nuove ~orme di vita, i frequenti matrimoni tra racalmutesi e grottesi; matrimoni, in gran parte, laboriosamente mediati e combinati da terze persone, ma quasi tutti felici. Uno di questi matrimoni, avvenuto qualche anno prima della fine del Regno delle Due Sicilie, è rimasto nel ricordo e nella fantasia dei racalmutesi e dei grottesi. Non per elementi romanzeschi, contrasti, passioni e sangue: forse solo per la bellezza di una ragazza; o forse perché, nella vicenda che ne è nata, ci sono i caratteri di una società, di un'epoca. 11 matrimonio, tra don Luigi M., medico e benestante di Racalmuto, e una figlia di don Raimondo G., grosso proprietario terriero di Grotte, avvenne nello splendore che alle due famiglie si conveniva: e teneramenK scorreva nella bella casa di Racalmuto in cui i due sposi vivevano, un marito di gigantesca e sanguigna complessione tutto pieno di timida dolcezza per la giovanissima e fragile sposa, quando accadde un terribile incidente. Don Luigi ebbe diverbio con un suo mezzadro, nella collera si lasciò andare a mollargli un calcio: che era poi un modo legittimo, per un galantuomo, di metter fine alla discussione con un villano. Ma il villano non aveva la robusta complessione di don Luigi, o forse il calcio lo prese in un punto vitale. "Fatto sta" mi racconta un discendente di don Luigi "che girò tre volte per la stanza, s'infilò a ciambella sotto un tavolino: e morì." C'era anche allora la legge: con i galantuomini più docile, più timida; ma un morto è un morto, e don Luigi non poteva scampare l'arresto. Scappò, lasciando la giovane moglie sola nella gran casa dorata. Nel Casino di Compagnia esplose l'indignazione dei notabili. Non, si capisce, nei riguardi del povero don Luigi. Il vecchio don Ottavio di Castro, presidente del sodalizio e decano della nobiltà locale, accoratamente pronunciò una frase rimasta famosa e oggi usata come ironico proverbio: "Che tempi! Un galantuomo non può più dare un calcio a un contadino". Tutti approvarono: il mondo se ne andava a sfascio, che tempi! Don Luigi non era certo andato lontano: può darsi se ne stesse addirittura a Grotte, in casa di parenti o di amici fldatn Ma era pur sempre un disagio: e ardeva del pensiero della giovane moglie sola e spaurita, tutta trine ed amore, nel gran letto dalle cortine damascate. E furono chiamati amici potenti a far sparire, leggera farfalla filigranata dei borbonici gigli, quel mandato d'arresto che il Capitano d'Arme teneva infilzato ad un chiodo sul tavolo del suo ufficio. Ma per molto tempo il suocero di don Luigi, che pure era uomo di grandi risorse e di vaste amicizie, stentò a trovare 'il canale giusto': e fortuitamente, per puro e felice caso, lo trovò una sera di dicembre che se ne stava, in veste da camera, a leggere accanto al braciere 'Il Monitore', e la figlia Concettina stava a ricamare sul tombolo, a corallini e pagliuzze d'oro, un Bambino Gesù nudo come un bruco, con appena una fascetta da CUI pendeva, tra le gambette sformate, un campanellino Concettina copiava il ricamo da una sacra immaginetta che le aveva regalato una zia monaca: e don Raimondo


non mandava giù quel campanellino tra le gambe del Bambin Gesù, ma non parlava perché non poteva né mettere m dubbio l'innocenza delle monache, che quella immagine veneravano, né turbare l'innocenza della figlia, che Sl era mvaghita a copiarla. E mentre leggeva 'Il Monitore' il pensiero del campanellino era un piccolo tarlo, e si proponeva di parlarne alla moglie, che facesse smettere a Concettina quel ricamo Perciò, quando furiosamente sentì bussare al portone, alzandosi per andare ad aprire disse a Concettina "Leva di mezzo il campanellino" e poiché Concettina non capiva gridò "Il coso... il Gesù Bambino" ché temeva il visitatore chiunque fosse, facesse malizia sulla purezza di Concettina. Il vlsltatore era un pezzo grosso, nientemeno che don Nicola Cirino, giurista e poeta, Procuratore Generale a Palermo: e aveva avuto alle porte di Grotte, in quella notte da lupi, un incidente alla carrozza sulla quale viaggiava, e non potendo per quella notte proseguire, alla casa di don Raimondo, che era la più decorosa del paese, era stato accompagnato. Era un uomo di circa sessant'anni, grigio di capelli e di barba, gracile, un po' cadente: ma gli occhi aveva vivi ed attenti, e facevano curioso contrasto con la disarticolata stanchezza cui pareva cedere il corpo. Don Raimondo, che era di mente pronta, levò un pensiero di ringraziamento al Signore: che aveva mandato una notte d'inferno, una pietra sulla strada, una piccola fatale distrazione al lettighiere; al quale don Nicola attribuiva il guaio, mentre si scusava con don Raimondo dell'incomodo che veniva a dargli. Incomodo? Era un onore, un piacere... Concettina aveva messo via il ricamo. Don Raimondo la presentò a don Nicola, per timidezza la ragazza si fece rosea come una pesca. Era bellissima: il corpo armonioso, i capelli del colore di zucchero bruciato, il volto soave e trepido ma insieme espressivo della incontenibile gaiezza di chi scopre il buffo rovescio di ogni cosa e anche di ogni pena Don Nicola pensò in versi a un ramo di tuberose, alle arance tra le foglie verdi sotto la neve, alla stella del mattino, e sempre in versi, che gli venivano facili quando si accendeva della bellezza, paragonò il suo cuore al Mongibello in improvvisa ardente colata d'amore. Da quel momento, poiché già sapeva del mandato di cui il genero di don Raimondo era oggetto, i codicl, le pandette, le requisitorie, le sentenze giacquero come ex voto ai piedi di una fanciulla di sedici anni. Fu una bella serata. La cena, improvvisata, riuscì benissimo. Ceralacche che portavano impresse le cifre di un anno nefasto, 1848, furono tolte alle bottiglie: ma il vino risultò eccellente. Del resto, il 1848 fu pretesto ad esprimere opinioni che don Nicola e don Raimondo avevano identiche. Si fecero brindisi. Don Nicola ne fece in versi: alla padrona di casa, spampanata come una rosa in un vestito di raso che era andata a mettersi di furia, e a Concettina. Poi, invitato da don Raimondo, dalla signora e, con timida voce, anche dalla ragazza, don Nicola recito un suo poema su Torquato Tasso; e quando giunse ai versi Ma pur la vita travagliata, oppressa Di quel Grande infelice avea conforto Di furtive dolcezze, il core, ahi lasso! Abbandonava alla speranza, un foco Lo struggeva animando, il suo sospiro Era d'uomo a cui il duol quasi è alimento


Se il consoli una lacrima d~amore Una pietà celeste, un cuor gentile, Eleonora... fissò Concettina con occhi da agonizzante, e si protese sulla tavola verso di lei quando in un soffio pronunciò 'Eleonora', e avrebbe voluto dire 'Concettina' il che anche don Raimondo e la signora capirono, scambiandosi un preoccupato sguardo d'intesa. Dopo i complimenti al poeta, don Raimondo sottilmente insinuò il discorso sulla sventura che ad un'altra sua flglla, sposata in un paese vicino, era capitata. il marito, inseguito da un mandato d'arresto, fuggito chi sa dove; la figlia, a pochi mesi dalle nozze, rimasta sola, e tutto per un calcio dato a un contadino... Ma di questo passo il mondo sarebbe finito a testa sotto... Sì, la legge: ma un calclo dato così, in un momento di nervi Don Nicola parve chiudersi dentro una corazza: guardava Concettina e non diceva né sì né no. Stava valutando i pro e i contro di un azzardo che voleva giocare: non se giocarlo o meno, ma se giocarlo subito o se aspettare l'indomam. "Possiamo appartarci un momento?" domandò? improvvisamente deciso. Madre e figlia si alzarono, un po' confuse; ad un cenno di don Raimondo uscirono dalla stanza. Facendo girare un fondo di vino nel bicchiere, don Nicola Cirino disse sorridente "Don Raimondo, volete fare il Natale con vostro genero?" "C'è da domandarlo?" disse don Raimondo; e pensò: 'Denaro, per uno come lui gli ci vorrà un sacco di pezzi da dodicl'. Stettero un momento in silenzio. "Non quello che pensate voi" disse don Nicola "qualcosa di più: qualcosa che per voi, e per me, è preziosa, inestimabile... Non indovinate?" "Sant'Antonio Abate" esclamò don Raimondo, che al protettore del paese volgeva invocazione nei momenti più terribili. Aveva indovinato: un fulmine gli si era scaricato in testa, i suoi pensieri si erano di colpo accecatl. "Mi rendo conto delle ragioni del vostro stupore: e vi dirò che non mi stupirei di un vostro rifiuto; e la buona conoscenza che abbiamo fatto stasera resterebbe per me, anche in tal caso, un buon ricordo... Ma voi capite: al posto in cui mi trovo tutto quel che farei, che sono disposto e in grado di fare, non mi sarebbe rimproverato se per un cognato, per un parente. 'Ha tirato dalla galera suo cognato: e chi non farebbe altrettanto?': questo direbbero. Ma per un estraneo..." "E giusto" disse don Raimondo. "Mi fa piacere che lo riconosciate. E dunque pensateci: parlatene con la signora, con vostra figlia... Domani, prima ch'io parta, mi darete una risposta. Ed ora non ne parliamo più fino a domani." Don Raimondo chiamò la cameriera, fece avvertire le donne che potevano ritornare. La moglie cercava di leggergli in faccia, lo scrutava con ansia. Bewero del rosolio e Concettina suonò al piano preghiere e romanze, don Nicola imbambolato a guardarla, appoggiato al pianoforte, che pareva la testa stesse per rotolargll sulla tastiera e finire in grembo a Concettina. Con grande sollievo degli ospiti, don Nicola si decise finalmente, e già la pendola scoccava la mezzanotte, ad


andarsene a dormire. Fece arabesco di parole per augurare la buona notte. Era appena uscito che la signora si avventò su don Raimondo con un "Che voleva?" avido e inquieto. 1 262 rl mA 1~7A/n1rA A Il mare colore del vmo 1263 Don Raimondo non le rispose. Si rivolse invece a Concertina e le domandò se a sua sorella volesse del bene. Concettina gliene voleva. E tra padre e figlia cominciò a svolgersi, domanda e risposta, un catechismo familiare: e Concettina rispondeva nella più pura ortodossia, senza venir meno di un punto ai principl dell'amore familiare e del sacrificio ai quali con inflessibilità e tenerezza, era stata educata. E infine, quand'ebbe certezza che per la felicità della sorella a qualsiasi pena la ragazza si sarebbe votata, don Raimondo le disse che bisognava sposare quel don Nicola Cirino che bastava dicesse una parola perché don Luigi M. tornasse alla giovane moglie, alle sue terre, ai suoi malati: libero dall'infamia della legge. Concettina si abbandonò a ridere, a ridere; e ridendo passò a un pianto convulso, disperato. Ma quando cominciò a piangere sua madre, e anche don Raimondo cedeva ad un tremito di pianto, si rasserenò: e tra le lacrime disse che sì, avrebbe sposato don Nicola. Per l'impazienza di tutti, di don Nicola che vamDava d'amore e di don Raimondo e dei suoi che subito libero volevano don Luigi M., in gran fretta si strinsero le nozze. Per una settimana la casa veleggiò di tele d'Olanda, di freschissimi lini, di variopinte coltri di lana e di lucide sete: la parola 'Ietto', astratta nel plurale delle conversazioni e dei capitoli nuziali ('ventiquattro letti di corredo') si faceva singolare e concreta, immagine di disgusto, di febbrile repugnanza, nei pensieri di Concettina. Ma niente traspariva nel suo volto, dolcemente reclinato sul tombolo da cui fioriva il Bambino Gesù col campanellino: e don Nicola la guardava estasiato, quel campanellino squillando innocenza nei suoi pensieri di vecchio gatto in amore e aggiungendovi un tocco, appena un tocco, di gustosa oscenità. Così avvenne che il lavoro di ampia mole e di fondamentale importanza cui don Nicola attendeva, L'istituto della Monarchia in Sicilia, restò incompleto: ché l'amore per la giovanissima moglie distrasse l'illustre giurista e poeta, e poi serenamente lo spense. Una mattina svegliandosi, circa sei mesi dopo le nozze, Concettma se lo trovo beatamente morto accanto. Finito nella notte silenziosamente: così come una candela si consuma dopo un ultimo guizzo. Vedova, Concettina tornò alla casa paterna; e molto ricca. Non passarono sei mesi: e fuggì di casa, lunare bellezza nel nero delle vesti vedovili, e in una notte di luna, con un giovane di Racalmuto che già da prima, in silenzio, l'amava. Un giovane bello, elegante, di buona famiglia: ma liberale e scialacquatore. Don Raimondo li perdonò solo in punto di morte. Di questa storia, che da ragazzo mi fece grande impressione, mi sono ricordato entrando a Palermo nella chiesa di san Domenico: dove, tra i grandi siciliani, don Nicola Cirino è sepolto. E mi sono deciso a scrlverla per una di


quelle sollecitazioni imprevedibili e gratuite che a volte ci vengono da certe sensazioni, da certi incontri, da certe letture. Rileggevo Baudelaire, ed ecco: 'Mais de toi je n'implore, ange, que tes prières, Ange plein de bonheur, de joie et de lumières!' La cattolica reversibilltà: e mi e venuto il titolo di questa breve storia, e la ragione per scriverla. Reversibilità: di un corpo che ne riscatta un altro, nella straziante religione della famiglia, di cui ancor oggi la Sicilia vive, di una ragazza di Grotte che riscatta la libertà di un uomo del vicino e nemico paese di Racalmuto. IL LUNGO VIAGGIO

Era una notte che pareva fatta apposta, un'oscurità cagliata che a muoversi quasi se ne sentiva il peso. E faceva spavento, respiro di quella belva che era il mondo, il suono del mare: un respiro che veniva a spegnersi ai loro pledi. Stavano, con le loro valige di cartone e i loro fagotti su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline, tra Gela e Licata: vi erano arrivati all'imbrunire, ed erano partltl all'alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare, aggrumati nell'arida plaga del feudo. Qualcuno di loro, era la prima volta che vedeva il mare: e sgomentava il pensiero di dover attraversarlo tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte, ad un'altra deserta spiaggia dell'America, pure di notte. Perché i patti erano questi: "Io di notte vi imbarco" aveva detto l'uomo: una specie di commesso viaggiatore per la parlantina, ma serio e onesto nel volto "e di notte vi sbarco: sulla spiaggia del Nugloirsl, vi sbarco; a due passi da Nuovaiorche... E chi ha parenti in America, può scrivergli che aspettino alla stazlone di Trenton, dodici giorni dopo l'imbarco... Fatevi il conto da voi... Certo, il giorno preciso non posso assicurarvelo: mettiamo che c'è mare grosso, mettiamo che la guardia costiera stia a vigilare... Un giorno più o un giorno meno, non vi fa niente: l'importante è sbarcare in Amerlca". L'importante era davvero sbarcare in America: come e quando non aveva poi importanza. Se ai loro parenti arrivavano le lettere, con quegli indirizzi confusi e sgorbi che riuscivano a tracciare sulle buste, sarebbero arrivati anche loro, 'chi ha lingua passa il mare', giustamente diceva il proverbio. E avrebbero passato il mare, quelrande mare oscuro, e sarebbero approdati agli stori e allearme dell'America, all'affetto dei loro fratelli zii nipoti cugini, alle calde ricche abbondanti case, alle automobili grandi come case. Duecentocinquantamila lire: metà alla partenza, metà all'arrivo. Le tenevano, a modo di scapolari, tra la pelle e la camicia. Avevano venduto tutto quello che avevano da vendere, per racimolarle: la casa terragna il mulo l'asino le provviste dell'annata il canterano le coltri. I più furbi avevano fatto ricorso agli usurai, con la segreta intenzione di fregarli; una volta almeno, dopo anni che ne subivano angaria: e ne avevano soddisfazione, al pensiero della faccia che avrebbero fatta nell'apprendere la notizia. 'Vieni a cercarmi in America, sanguisuga: magari ti ridò i tuoi soldi, ma senza interesse, se ti riesce di trovarmi.' Il sogno dell'America traboccava di dollari: non più, il denaro, custodito nel logoro portafogli o nascosto tra la camicia e la


pelle, ma cacciato con noncuranza nelle tasche dei pantaloni, tirato fuori a manciate: come avevano visto fare ai loro parenti, che erano partiti morti di fame, magri e cotti dal sole; e dopo venti o trent'anni tornavano, ma per una breve vacanza, con la faccia piena e rosea che faceva bel contrasto coi capelli candidi. Erano già le undici. Uno di loro accese la lampadina tascabile: il segnale che potevano venire a prenderli per portarli sul piroscafo. Quando la spense, l'oscurità sembrò più spessa e paurosa. Ma qualche minuto dopo, dal respiro ossessivo del mare affiorò un più umano, domestico suono d'acqua: quasi che vi si riempissero e vuotassero, con ritmo, dei secchi. Poi venne un brusìo, un parlottare sommesso. Si trovarono davanti il signor Melfa, ché con questo nome conoscevano l'impresario della loro avventura, prima ancora di aver capito che la barca aveva toccato terra. "Ci siamo tutti?" domandò il signor Melfa. Accese la lampadina, fece la conta. Ne mancavano due. "Forse ci hanno ripensato, forse arriveranno più tardi... Peggio per loro, ln ogni caso. E che ci mettiamo ad aspettarli, col rischio che corriamo?" Tutti dissero che non era il caso di aspettarli. "Se qualcuno di voi non ha il contante pronto" ammonì il signor Melfa "è meglio si metta la strada tra le gambe e se ne torni a casa: ché se pensa di farmi a bordo la sorpresa, sbaglia di grosso; io vi riporto a terra com'è vero dio, tutti quanti siete. E che per uno debbano pagare tutti, non è cosa giusta: e dunque chi ne avrà colpa la pagherà per mano mia e per mano dei compagni, una pestata che se ne ricorderà mentre campa; se gli va bene..." Tutti assicurarono e giurarono che il contante c'era, fino all'ultimo soldo. "In barca" disse il signor Melfa. E di colpo ciascuno dei partenti diventò una informe massa, un confuso grappolo di bagagli. "Cristo! E che vi siete portata la casa appresso?" cominclo a sgranare bestemmie, e finì quando tutto il carico, uomini e bagagli, si ammucchiò nella barca: col rischio che un uomo o un fagotto ne traboccasse fuori. E la differenza tra un uomo e un fagotto era per il signor Melfa nel fatto che l'uomo si portava appresso le duecentocinquantamila lire; addosso, cucite nella giacca o tra la camicia e la pelle. Li conosceva, lui, li conosceva bene: questi contadini zaurri, questi villani. 11 viaggio durò meno del previsto: undici notti, quella della partenza compresa. E contavano le notti invece che i glorm, polché le notti erano di atroce promiscuità, soffocanti. Si sentivano immersi nell'odore di pesce di nafta e di vomito come in un liquido caldo nero bitume. Ne grondavano all'alba, stremati, quando salivano ad abbeverarsi di luce e di vento. Ma come l'idea del mare era per loro il piano verdeggiante di messe quando il vento lo sommuove, il mare vero li atterriva: e le viscere gli si strizzavano, gli occhi dolorosamente verminavano di luce se appena indugiavano a guardare. Ma all'undicesima notte il signor Melfa li chiamò in coperta: e credettero dapprima che fitte costellazioni fossero scese al mare come greggi; ed erano invece paesi, paesi della ricca America che come gioielli brillavano nella notte. E la notte stessa era un incanto: serena e dolce, una mezza luna che trascorreva tra una trasparente fauna di nuvole, una brezza che dislagava i polmoni.


"Ecco l'America" disse il signor Melfa. "Non c'è pericolo che sia un altro posto?" domandò uno: poiché per tutto il viaggio aveva pensato che nel mare non ci sono né strade né trazzere, ed era da dio fare la via giusta, senza sgarrare, conducendo una nave tra cielo ed acqua. 11 signor Melfa lo guardò con compassione, domandò a tutti "E lo avete mai visto, dalle vostre parti, un orizzonte come questo? E non lo sentite che l'aria è diversa? Non vedete come splendono questi paesi?" Tutti convennero, con compassione e risentimento guardarono quel loro compagno che aveva osato una così stuDIda domanda. "Liquidiamo il conto" disse il signor Melfa. Si frugarono sotto la camicia, tirarono fuori i soldi. "Preparate le vostre cose" disse il signor Melfa dopo avere incassato. Gli ci vollero pochi minuti: avendo quasi consumato le provviste di viaggio, che per patto avevano dovuto portarsi, non restava loro che un po' di biancheria e i regali per i parenti d'America: qualche forma di pecorino qualche bottiglia di vino vecchio qualche ricamo da mettere in centro alla tavola o alle spalliere dei sofà. Scesero nella barca leggeri leggeri, ridendo e canticchiando; e uno si mise a cantare a gola aperta, appena la barca Sl mosse. "E dunque non avete capito niente?" si arrabbiò il signor Melfa. "E dunque mi volete fare passare il guaio?... Appena vi avrò lasciati a terra potete correre dal primo sbirro che incontrate, e farvi rimpatriare con la prima corsa: lO me ne fotto, ognuno è libero di ammazzarsi come vuole... E poi, sono stato ai patti: qui c'è l'America il dover mio di buttarvici l'ho assolto.. Ma datemi ii tempo di tornare a bordo, Gisto di Dio!'; Gli diedero più del tempo di tornare a bordo: ché rimasero seduti sulla fresca sabbia, indecisi, senza saper che fare, benedicendo e maledicendo la notte: la cui protezione, mentre stavano fermi sulla spiaggia, si sarebbe mutata in terribile agguato se avessero osato allontanarsene. Il signor Melfa aveva raccomandato "sparpagliatevi" ma nessuno se la sentiva di dividersi dagli altri. E Trenton chi sa quant'era lontana, chi sa quanto ci voleva per arrivarci. Sentirono, lontano e irreale, un canto 'Sembra un carrettiere nostro', pensarono: e che il mondo è ovunque lo stesso, ovunque l'uomo spreme in canto la stessa malinconia, la stessa pena. Ma erano in America, le città che baluginavano dietro l'orizzonte di sabbia e d'alberi erano città dell America. Due di loro decisero di andare in avanscoperta. Camminarono in direzione della luce che il paese più vicino riverberava nel cielo. Trovarono quasi subito la strada: 'asfaltata, ben tenuta: qui è diverso che da nol', ma per la verita se l'aspettavano più ampia, più dritta. Se ne tennero fuori, ad evitare incontri: la seguivano camminando tra gli alberl. Passò un'automobile: 'pare una seicento', e poi un'altra che pareva una millecento, e un'altra ancora: 'Ie nostre macchine loro le tengono per capriccio, le comprano ai ragazzi come da noi le biciclette'. Poi passarono, assordanti, due motociclette, una dietro l'altra. Era la polizia non c'era da sbagliare: meno male che si erano tenuti fuori della strada.


Ed ecco che finalmente c'erano le frecce. Guardarono avanti e indietro, entrarono nella strada, si avvicinarono a leggere: Santa Croce Ca1narina-Scoglitti. "Santa Croce Camarina: non mi è nuovo, questo nome." "Pare anche a me; e nemmeno Scoglitti mi è nuovo." "Forse qualcuno dei nostri parenti ci abitava, forse mio zio prima di trasferirsi a Filadelfia: ché io ricordo stava in un'altra città, prima di passare a Filadelfia." "Anche mio fratello: stava in un altro posto, prima di andarsene a Brucchilin... Ma come si chiamasse, proprio non lo ricordo: e poi, noi leggiamo Santa Croce Camarina, leggiamo Scoglitti; ma come leggono loro non lo sappiamo, l'americano non si legge come è scritto." "Già, il bello dell'italiano è questo: che tu come è scritto lo leggi... Ma non è che possiamo passare qul la nottata, bisogna farsi coraggio... Io la prima macchina che passa, la fermo: domanderò solo 'Trenton?'... Qui la gente è più educata... Anche a non capire quello che dice, gli scapperà un gesto, un segnale: e almeno capiremo da che parte è, questa maledetta Trenton." Dalla curva, a venti metri, sbucò una cinquecento: l'automobilista se li vide guizzare davanti, le mani alzate a fermarlo. Frenò bestemmiando: non pensò a una rapina, ché lá zona c~ra tra le più calme; credette volessero un passaggio, aprì lo sportello. "Trenton?" domandò uno dei due. "Che?" fece l'automobilista. "Trenton?" "Che trenton della madonna" imprecò l'uomo dell'automobile. "Parla italiano" si dissero i due, guardandosi per consultarsi: se non era il caso di rivelare a un compatriota la loro condizione. L'automobilista chiuse lo sportello, rimise in moto. L'automobile balzò in avanti: e solo allora gridò al due che rimanevano sulla strada come statue "ubriaconi, cornuti ubriaconi, cornuti e figli di..." il resto si perse nella corsa. 11 silenzio dilagò. "Mi sto ricordando" disse dopo un momento quello CUI ll nome di Santa Croce non suonava nuovo "a Santa Croce Camarlna, un'annata che dalle nostre parti andò male, mlo padre ci venne per la mietitura." Sl buttarono come schiantati sull'orlo della cunetta che non c'era fretta di portare agli altri la notizia che s arcati in Sichia.

IL MARE COLORE DEL VINO

Il treno che nell'estate parte da Roma alle 20,50 - diretto per Re~gio Calabria e Sicilia, annuncia dall'altoparlante una voce femminile che, nel rivolo dei viaggiatori che si muove verso quel treno, un rivolo che trascina valige legate con la cordicella e mappate di tela, evoca e sospende tra i fili della stazione Termini, verso il cielo della sera, un volto femminile di appena sfiorita bellezza - porta una vettura di prima classe Roma-Agrigento: enorme privilegio sollecitato e mantenuto da tre o quattro deputati della Sicilia occidentale. In verità, dei treni diretti al sud, questo è il meno af-


follato: in seconda classe sono pochi i viaggiatori che non trovano posto a sedere; e in prima, specialmente nella vettura per Agrigento, è possibile avere uno scompartimento tutto per sé - basta spegnere la luce, tirare le tendme e distribuire bagagli e giornali sui sedili: almeno fino a Napoli, e se volete essere prudenti fino a Salerno. Superata Salerno, potete mettervi a dormire, magari in canottiera o addirittura in pigiama, che nessuno verrà a cercar posto proprio nello scompartimento vostro. Ma questa comodità relativamente ai posti la si sconta ad usura sugli orafi: perciò i siciliani preferiscono il direttissimo che partendo due ore prima arriva ad Agrigento, estrema stazione, con un vantaggio sul diretto di almeno sette ore. Ma all'ingegnere Bianchi, che per la prima volta si trovava a fare un viaggio in Sicilia - a Gela precisamente: e non per turismo - e non era riuscito a trovar posto nell'aereo, consigliarono il diretto e la vettura Roma-Agrigento: e di prenotare il posto, che c'era il rischio di passare una notte nel corridoio. Consigli uno peggio dell'altro, e particolarmente quello della prenotazione: che in uno scompartimento di posti prenotati si trovano sempre tante persone quanti sono i posti, mentre in altri scompartimenti, senza prenotazione, c'è tutta la possibilità di restar soli. Grazie ai consigli, come sempre accade, l'ingegner Bianchi si trovò a fare un viaggio scomodo in compagnia di cinque persone, tre adulti e due bambini, gli adulti loquacissimi, e maleducati i bambini Dei tre adulti, due erano padre e madre dei maleducati bambini; e aggregata alla famigliola, per parentela o per amicizia o per casuale conoscenza, era una ragazza di una ventina d'anni, a prima vista scialba e vestita di un monacale nero profilato di bianco. I bambini le stavano addosso: il più grande appoggiandosi come pieno di sonno Il più piccolo arrampicandosi fino ad abbracciarle il collo e a strapparle i capelli e poi ridiscendendo a terra, ad accularsl, In movimento continuo. Il grande si chiamava Lulù e il piccolo Nenè: diminutivi, apprendeva l'ingegner Bianchi un po' prima di arrivare.a Formia, rispettivamente di Luigi ed Emanuele. Ma prima di arrivare a Formia l'ingegnere sapeva quasi tutto sui quattro della famiglia e sulla ragazza che a loro si accompagnava. Erano di Nisima, un paese in provincia di Agrigento: un grosso paese contadino ricco cli territorio e con ricchi proprietari; arioso; amministrato dai socialcomunisti, patria di un pezzo grosso del regime fascista; senza stazione ferroviaria; con un antico castello. Marito e moglie insegnavano alle elementari; ed anche la ragazza, ma non ancora da titolare, per incarico. Era venuta a Roma, la famiglia, perché un fratello della moglie, Ministero della Difesa gruppo A, una potenza nel ramo pensioni, si era sposato con una di Roma: ragazza seria, di ottima famiglia, il padre Ministero Pubblica Istruzione, gruppo A, la sposa laureata in lettere, insegnante in una scuola privata; bella Il mare colore del vino 11 mare colore del vino 1273 ragazza, alta, bionda. Si erano sposati proprio quel giorno, a San Lorenzo in Lucina: bella chiesa; non quanto quella di Sant'Ignazio, ma bella. Testimoni di gruppo A. La ragazza che era stata loro affidata per il viaggio di ritorno da un fratello, Ministero Grazia e Giustizia, gruppo A era invece venuta a Roma per svagarsi: aveva superata una grave malattia, il vestito nero profilato di bianco lo portava per voto a san Calogero, che era protettore di Ni-


sima, miracolosissimo Santo. A Roma, con tante chiese che c'erano, non una dedicata a san Calogero: "e come è possibile" si chiedeva la moglie; "non una chiesa, non un altare. Ed era un gran Santo". Il marito un po' di san Calogero scetticamente sorrideva. La ragazza disse che, da bambina, lei di san Calogero aveva paura: nero di faccia, nero di barba, nero il manto, e, per la verità, il voto al Santo non era stata lei a farlo ma sua madre, come se l'avesse fatto lei, però: ancora per un mese, ed era il sesto, doveva portare il vestito nero profilato di bianco. "Nel crogiolo dell'anno: con questo caldo che fonde le pietre" disse il marito. "E che voto sarebbe, allora?" si risentì la moglie. "Senza un po' di sofferenza il voto non può andare." "E non basta che tutta Roma si voltava a guardarmi?" disse la ragazza. "Non basta: mortificazione e sofferenza, queste due cose ci vogliono a sciogliere un voto" disse con sicurezza la signora. La ragazza fece una lieve smorfia di irrisione. E di colpo l'ingegnere la vide diversa. Aveva un bel seno sotto quel tetro vestito, un bel corpo. Ed occhi luminosi. "Sciolgo un voto" disse il bambino più piccolo sciogliendosi le scarpe e calciando per lanciarle in aria. Una scarpa gli rimase attaccata, l'altra colpì al petto l'ingegnere. "Nenè!" urlarono padre e madre per ammonizione e minaccia. Domandarono scusa all'ingegnere, l'ingegnere restituendo la scarpa disse "ma di niente: i bambini, si sa..." ed era stato davvero niente, non sapeva quel che Nenè e Lulù gli riserbavano per il lungo viaggio: da Napoll, dove del tutto si scatenarono, a Canicattì "Questa storia dei voti!" disse il marito continuando il discorso mentre rimetteva la scarpa a Nenè. "Roba vecchia quanto il cucco: superstizione, ignoranza. ." "Ma tu la Scala Santa te la sei fatta" polemizzò acre la moglle. "Che c'entra?" disse il marito: colpito a morte, si vedeva. "C'entra: lasciamo giudicare il signore se c'entra o non c'entra" disse implacabile la moglie. L'ingegnere fece un mezzo sorriso e un timido gesto di rinuncia. "No" disse la signora "deve dirglielo lei se c'entra o non c'entra che lui va a farsi la Scala Santa e poi ride dei voti che si fanno ai Santi." "Me lo dica pure" incoraggiò il marito: con la gracile speranza di un'assoluzione. "Che vuol dire farsi la Scala Santa?" chiese l'ingegnere: ma per prender tempo. "Non lo sa?" si meravigliò la signora. "Ne ho una vaga idea, forse un ricordo" disse l'ingegnere. "Una vaga idea, un ricordo... Ma scusi: lei è o non è cattolico?" "Sono cattolico, ma..." "La pensa come me" scattò trionfante il marito. "Tu la Scala Santa te la sei fatta" disse, a fulminarlo ancora, la moglie. "Per farti compagnia" azzardò il marito. "Voglio mangiare!" gridò Nenè. "Voglio mortadella voglio banane." "E io voglio un'aranciata" disse Lulù.


"Mortadella niente, ti fa venire l'orticaria" disse la madre. Indicò macchioline rosse sulle braccia di Nenè "Mortadella: o faccio come l'asino di don Pietro" disse Nenè con una faccia che prometteva immediata attuazione. "Come fa l'asino di don Pietro?" gli chiese la ragazza: divertita, ché evidentemente lo sapeva. Nenè scivolò dal sedile per dare una risposta figurata. "Per carità!" gridarono padre e madre agguantandolo. L'asino di don Pietro, spiegarono all'ingegnere, usava strusciarsi a terra a gambe per aria, furiosamente. Nenè riusciva a farne una perfetta imitazione. Gli diedero mortadella. "L'aranciata" gemette Lulù "l'aranciata l'aranciata..." "A Napoli" promisero tutti, compreso l'ingegnere. Ad ottenere quel che voleva, Lulù si serviva di irresistibili lamenti, mentre Nenè usava la minaccia e il ricatto. L'ingegnere preferiva i modi diretti e sbrigativi di Nenè, il lamento di Lulù gli arpeggiava maledettamente i nervi. Sbaciucchiato da padre e madre Lulù si placò. L'intermezzo era stato provvidenziale: lo scabroso argomento della Scala Santa era caduto. "Lei non è sposato" affermò la signora dopo una rapida occhiata alla mano sinistra dell'ingegnere. "La gente con la testa sulle spalle non si sposa" scherzò il marito. "Questo è vero, se tu ti sei sposato" disse la moglie. "Io invece penso" disse l'ingegnere "che la gente con la testa sulle spalle, presto o tardi, sposa: io lo farò un po' tardi, ma lo farò." "Lo senti?" disse la moglie, in rimprovero al marito. "Così parla la gente che ha senso." "Ma io scherzo... Però a voler parlare sul serio, in generale, oggettivamente, ii matrimonio è un errore... Soggettivamente, personalmente, non ho ragione di lamentarmene: mia moglie, non dico per dire o perché lei è presente, è veramente un angelo" la signora chinò, improvvisamente radioso, il volto "e poi ci sono questi due angloletti..." accarezzò la testa di Nenè, che gli era vicino: e per ricambiare Nenè gli strofinò il musetto, lucido del grasso della mortadella, sulla camicia di seta cruda: camicia da cerimonia, che non aveva fatto a tempo a cambiarsi dopo il matrimonio del cognato. "La camicia!" gridò la si~nora. Era ormai troppo tardi fioriva di un grasso geroglifico. "Gioia mia" disse il padre "la camicia a papà hai rovinato. " "Voglio ancora mortadella" disse Nenè. "Nomina ancora mortadella: e viene il maresciallo ad arrestarti" minacciò il padre. "Non la nomino: la voglio" disse Nenè prontamente aggirando il veto. "E intelligente quanto un diavolo" disse il padre con orgoglio. "La voglio" ribadì Nenè. "No no e no" disse il padre. "Appena arriviamo a casa" disse Nenè "a zia Teresina racconterò che l'avete sparlata con zio Totò." "Noi l'abbiamo sparlata?" disse la madre mettendosi la mano sul petto, preoccupata ed accorata. "Tu e papà: avete detto a zio Totò che la zia è avara, che non si lava, che fa azioni maligne..." precisò Nenè con feroce memoria.


"Gli do la mortadella" disse il padre. "Dagliela" approvò la madre "e quando sarà tutto rosso d'orticaria, tutto prurito, andrà a farsi grattare da zia Teresina." "Mi gratto contro il muro" disse Nenè vittoriosamente afferrando la mortadella che il padre gli porgeva. L'ingegnere vide, nel velo di silenziosa apprensione che scese sui genitori di Nenè, acuto e mobile come quello di un furetto il volto di zia Teresina. Per distoglierli dall'ambascia disse "Siamo già a Napoli" che le luci della città già punteggiavano la notte. L'annuncio scosse Lulù, che se ne stava come in dormiveglia languldamente appoggiato al fianco della ragazza: gridò che voleva l'aranciata. Mentre il treno scivolava lungo il marciapiede il grido "sfogliate sfogliate" incuriosì Nenè. Il padre gii spiegò che si trattava di un dolce di pasta a sfoglia e di crema, Nenè con entusiasmo, e col solito garbo, ne chiese uno. L'ingegnere offrì l'aranciata a Lulù e la sfogliata a Nenè. Tanta gentilezza verso i bambini provocò un'ondata di ringraziamenti e una formale presentazione: professor Miccichè, ingegnere Bianchi. Nenè, che già al primo morso aveva mostrato invincibile disgusto, come la bottiglia di spumante al varo di una nave, sulla festa della presentazione lanciò la sfogliata: evidentemente mirando alla testa di suo padre e per poco mancandola. "Facchino" dissero padre e madre insieme. "E una porcheria" disse Nenè "voglio un cannolo." "Un cannolo?" disse il professor Miccichè. "E come lo trovo, alla stazione di Napoli, un cannolo?" "Me ne fotto: io voglio un cannolo" disse Nenè svelando una inclinazione al linguaggio forte fino a quel momento, dall'ingegnere, insospettata. La ragazza rise. Il professor Miccichè e signora smaniarono di disperazione, minacciarono l'immediato arrivo del maresciallo con frusta e catene, pregarono l'ingegnere di guardare nel corridoio: ché il maresciallo, richiamato dal turpe linguaggio di Nenè, sicuramente stava per arrivare. L'ingegnere guardò nel corridoio, certificò la presenza del maresciallo. "Il maresciallo è un cornutaccio" disse Nenè a bassa voce: aveva paura, ma non voleva cedere. Una disputa si accese tra marito e moglie per stabilire dove e da chi Nenè avesse appreso le parolacce. Il circolo, dove di solito il padre lo conduceva nelle ore pomeridiane, era, secondo la signora, la bolgia del turpiloquio; e certi Calogero Mancuso e Luigi Finisterra i più diretti responsabili della corruzione linguistica di Nenè: giovani che non avevano niente da fare e pigliavano a passatempo l'innocenza di un bambino. "Lei non immagina nemmeno" disse la signora rivolta all'ingegnere "le cose che gli insegnano: cose d'inferno, persino sui Santi, persino sul Papa... Fortuna che il bambino le dimentica." La smentita di Nenè fu immediata: "Il Papa è..." ma due mani, una della madre e una del padre, corsero a tamponargli la bocca, da dove la terribile definizione, come acqua dallo squarcio di una conduttura tappato con mezzi di fortuna, sibilò non del tutto indecifrabile. "Ha visto?" disse la signora all'ingegnere. "E io credevo che avesse dimenticato... Cose di questo genere gli msegnano." Naturalmente, sempre secondo la signora, ciò non si


sarebbe mai verificato se il padre, invece di giocare al circolo la partita a quaranta, avesse fatto attenzione al bambino: il professor Miccichè sul quaranta ci perdeva il senno. Ma secondo il professore le cose stavano in tutt'altro modo: non al circolo, palestra di elevati senrimenti e di castigato linguaggio, si dovevano le vivaci espressioni di Nenè, ma al cortile, abitato da gente zotica, sul quale dava un balcone della loro casa: ed era da ascrivere a colpa della signora se Nenè a quel balcone stava per ore affacciato. Nenè si pronunciò a metter fine alla disputa: "Al circolo" lapidariamente. Il professore si afflosciò, ma la signora non abusò del trionfo: cambiò discorso anzi, lanciandosi a ricordare, poiché il treno ripartiva, ii loro viaggio di nozze che a Napoli, dopo Taormina, aveva avuto la seconda tappa. Era già mezzanotte. 'Qui non si dorme' pensò l'ingegnere: e se non gli conveniva cambiare scompartimento che ce n'erano quasi vuoti. Ma in verità non aveva sonno e all'irritazione per esser capitato tra persone di così incontenibile loquacità, e con quei due terribili bambini per giunta, era subentrato il divertimento e ora, sul punto di decidersi a lasciare lo scompartimento, qualcosa di vago e di indefinito che non si poteva dire affezione, ma all'affezione somigliava. Non aveva mai avuto dimestichezza coi bambini e aveva sempre creduto di non poter sopportarne la compagnia, sempre nei viaggi aveva osservato la regola di non prender posto negli scompartimenti in cui c'erano bambini; ma Nenè decisamente gli piaceva. E gli piaceva la ragazza: ad ogni gesto che faceva, ad ogni parola che diceva, si faceva più viva e desiderabile. 'Il fatto è' pensava l'ingegnere 'che un viaggio è come una rappresentazione dell'esistenza, per sintesi, per contrazlone di spazlo e tempo, un po' come il teatro, insomma: e vi si ricreano intensamente, con un fondo di finzione inavvertito, tutti gli elementi, le ragioni e i rapporti della nostra vita.' Si decise a comunicare al professore il suo proposito di trasferirsi ad altro scompartimento: per lasciarli più liberi, disse, per dare un po' più di spazio ai bambini. "Nemmeno per sogno" disse il professore "lei non deve scomodarsi: se mai, ce ne andiamo noi." Si scambiarono complimenti e gentilissime proteste: e infine decisero che dallo scompartimento non si sarebbe mosso nessuno. Lulù disse che aveva sonno, e voleva spenta la luce. "Niente scuro: io debbo guardarmi dal maresciallo" disse Nenè che non aveva, nei riguardi del maresciallo, tranquilla coscienza. "Spegnete la luce!" gridò Lulù. "Voglio dormire." Fulmineo Nenè passò, per dirla col linguaggio di un maresciallo, a vie di fatto: scivolò dal suo posto e si abbatté su Lulù con un morso al di sopra del ginocchio. Lulù gridò, furiosamente si afferrò ai capelli del fratello. Li separarono stringendo il naso a Nenè, a fargli lasciare la presa del morso, ed aprendo una ad una le dita di Lulù. Nenè ebbe dal padre un leggero schiaffo e Lulù una leggera ammonizione. "Ma chi è questo maresciallo?" sorridendo chiese l'ingegnere a Nenè. "E un figlio di..." nuovo, rapido tamponamento della bocca di Nenè, ma senza apprezzabile risultato. "Gesù Bambino piange: ogni volta che tu dici cose cattive, piange" disse la madre. "Dov'è Gesù Bambino?" domandò Nenè.


"E in cielo ed è qui: è in ogni luogo." "Non l'ho mai visto" disse freddamente Nenè. "Non si vede, ma c'è." "Se non si vede, non c'è." "Scomunicato!" disse la madre. 1280 /I mare colore del vino "Andrai all'inferno" postillò Lulù. "All'inferno ci vanno i marescialli" disse Nenè. Risero tutti, anche sua madre. "Diavolo, diavolo che sei" disse suo padre dolcemente accarezzandolo. E all'ingegnere: "Ma lo sente? Ha mai conoscluto un bambino come questo?" con gli occhi lucenti di orgoglio. L'ingegnere disse "Mai" ed era vero. "Non è cattivo" disse la madre "è soltanto nenoso... Se lel vedesse quanto è generoso: non può avere una cosa nuova, un giocattolo, un libro illustrato, che subito la regala; e ai poveri darebbe la casa con tutto quello che c'è dentro; appena viene un povero a chiedere l'elemosina lui perde la testa: mamma, diamogli un vestito; diamogli un materasso; diamogli dei piatti... E convinto che la poverta sla mancanza di materassi e di piatti, è ossessionato dall'idea che i poveri dormano per terra e mangino la minestra nelle scatole di latta che buttiamo via..." "Dormono davanti la chiesa" disse Nenè "e mangiano nelle buatte del pomodoro: l'ho visto io. E muoiono." "No che non muoiono" disse il padre. "Muoiono" disse Nenè con un tono che non ammetteva replica. E aggiunse-"Ma io mi faccio povero: e i poveri non muoiono più." "Vuol farsi povero!" irrise Lulù. "Getino, te l'ho detto mille volte: uno può farsi dottore, può farsi prete, non può farsi povero." "Vero che uno può farsi povero?" domandò Nenè al padre. "Certo, certo: può farsi povero... Come no?" rispose precipitosamente il professor Miccichè. "Lo vedi?" disse Nenè a Lulù. "Tu sei un cretino, non sai che uno può anche farsi povero." "E io mi faccio maresciallo" disse Lulù "e così arresto te e tutti i poveri." Il colpo era forte. Nenè si mosse. "Mi morde!" gridò Lulù alzando i piedi in posizione da respingerlo. Il mare colore del vino "Non ti mordo: mi sono alzato perché voglio farmi quattro passi. E che sempre seduto debbo stare?" disse Nenè con un tono che trasudava falsità e rivolgendosi a tutti per avere approvazione. Ma un momento dopo era di nuovo seduto, assorto, si vedeva, in malinconici pensieri. E così, lentamente, il sonno lo colse. Fu spenta la luce, abbassati di qualche centimetro i vetri e chiuse le tendine. "Speriamo di prendere un po' di sonno, ché abbiamo ancora quindici ore di viaggio: buonanotte" disse il professor Miccichè. Tutti dissero buonanotte, anche Lulù già impastato di sonno. Erano le due. L'ingegnere aveva a lato la ragazza e accanto alla ragazza stava dall'altro lato Lulù; i posti di fronte erano occupati dal professore, da Nenè e dalla signora. Nenè dormiva agitato, forse il maresciallo appariva sulla soglia del suo sonno facendo fischiare il nerbo di bue e tintinnare le


manette. Era un bambino non propriamente bello, più bello era indubbiamente Lulù; ma era straordinario, apriva una dimensione di affetti, di pensieri, di rapporti che l'ingegnere Bianchi non aveva mai considerato. Lo guardava con un sentimento quasi struggente: come un significato dell'esistenza che fino a quel momento gli era sfuggito. La vita, anche la sua vita di tecnico, soprattutto la sua vita di tecnico, consisteva in definitiva nel fatto che Nenè aveva quattro anni contro i trentotto suoi. 'Non si può aver fede nella tecnica senza aver fede nella vita: non si può andare in orbita intorno alla terra se non per il fatto che ci sono bambini che hanno quattro anni, bambini che nascono, bambini che nasceranno. Ma la nostra società comincia a vedere i bambini come problema, come già negli Stati Uniti, con tutto lo studio di pedagogia e di medicina che si svolge sul problema della loro libertà.' 'Il punto è questo: i bambini non sono un problema. Una società che se li pone come problema li distacca da sé, provoca una soluzione di continuità. Lulù e Nenè non sono problemi per il professore Miccichè e per la signora: e sì che sono maestri, e ad un concorso saranno andati a ripetere tutte le teorie, di americani e di svizzeri, sull'educazione.' 'A proposito di svizzeri: da una società come quella svizzera, che pare disinfestata dei germl della tragedia e della storia, vien fuori quell'ingegner Faber di Max Frisch. La tragedia greca e il politecnico di Zurigo. La tragedia dell'uomo tecnico. E va a esplodere nell'antica terra di Grecia, dove la fatalità è ancora in agguato.' 'Un momento: stavi pensando ai bambini, l'ingegner Faber non c'entra.' 'C'entra: ma bisogna pensarci su con più chiarezza, ora il sonno ti sta prendendo.' 'Ecco: la Grecia, la Sicilia, forse è questo il punto.' 'Il liceo classico! Ad ogni cosa tiriamo fuori la Grecia.' 'Ma sì, è un fatto: in Svizzera in ogni bambino tu vedi lo svizzero che diventerà, in Grecia l'individuo l'uomo... Ed anche in Sicilia, immagino: questi due bambml...' 'Sono luoghi in cui non c'è l'educazione: non ci sono regole, tecniche, abitudini educative; ci sono gli affettl: e credono, i greci, i siciliani, che non ci sia problema nella vita che l'affetto non possa risolvere.' 'Risolvono così anche la morte' pensò mentre lievi ondate di sonno attraversavano la sua mente. Il caldo lo svegliò. Nel sonno la testa della ragazza era scivolata dalla spalliera sul suo petto: dormiva un sonno duro, senza respiro. L'ingegnere ne ebbe tenerezza, indefimblle giQIa: per quei capelli che quasi sfioravano la sua bocca, per il seno che premeva il dorso della sua mano. Il suo corpo, ormai sciolto dal sonno, si fece intento. Dormivano tutti, il professore addirittura ronfava. Erano già nelle Calabrie; alle fermate, nell'improvviso dilagare del sllenzlo notturno, si sentivano frasi in dialetto. Ad un momento il treno si fermò in riva al mare, il suono del mare Sl fece immagine, come nelle illusioni del cinéma, una di quelle dissolvenze in cui le figure umane appunto si dissolvono nell'avanzare delle onde, l'ingegnere se ne sentì penetrato, disciolto: ed era, indecifrato, il suo sentimento di accordo col mondo, con la natura, con l'amore. Quando il treno si mosse, l'ingegnere sentì Lulù agitarsl: qualche momento dopo, improvvisamente, se lo vide di fronte. Il bambino lo guardava di muto stupore e rimprovero: poi prese tra le mani il volto della ragazza e con sforzo lo sollevò, lo raddrizzò verso la spalliera. 'E geloso' pensò l'ingegnere 'è geloso: si è attaccato alla ra-


gazza come un innamorato, perciò se ne è stato quieto, sempre accanto a lei.' La ragazza si svegliò, capì. "Mi scusi" disse all'ingegnere, e a Lulù: "Rimettiti a dormire, gioia, è ancora notte, ora ti do il mio posto, così ti distendi e dormi tranquillamente". Lo sistemò sui due posti, gli accarezzò i capelli. Lulù non parlò: lauardava con risentimento e Insleme con implorazione, forse cuocendosi in una pena senza nome. La ragazza uscì nel corridoio. A seguirla, l'ingegnere aspettò che Lulù si fosse riaddormentato. Stava in fondo al corridoio, premendo di profllo il volto contro il vetro, ancora come abbandonata allo specchio del sonno. L'ingegnere le si avvicinò dicendo "Si è riaddormentato" e poi, dopo una lunga pausa "E geloso." Mi vuol bene" disse la ragazza. "Non è come Nenè: è più chiuso, più malinconico... Nenè è straordinario?' disse l'ingegnere. "E terribile, Nenè: lei ancora non ha visto tutto quello che è capace di fare... La povera Lucia ci perde la testa." "La signora si chiama Lucia? Mi pare che il manto la chiami diversamente." "La chiama Etta, Lucietta... Io mi chiamo Gerlanda, ma mi dicono Dina, Gerlandina... Non c'è uno in Sicilia che sia chiamato col suo nome netto, anche se è un bel nome." "Gerlanda è un bel nome." "Non è un bel nome: è pesante, c'è una gerla dentro..." "Non l'ho mai sentito in altre parti d'Italia." "Si trova solo in provincia di Agrigento: san Gerlando è il protettore della città, il primo vescovo." "E san Calogero era vescovo?" "No san Calogero era eremita... Erano sette fratelli, dice la ieggenda, tutti e sette di nome Calogero: uno è venuto nella campagna di Nisima. Sette bei vecchi: Calo1284 Il mare colore del vino | Il mare colore del vino 1285 gero in greco vuol dire bel vecchio. Ma io non conosco il greco. E lei ?" "L'ho studiato, ma non posso dire di conoscerlo." "Avrei voluto studiarlo: ma una ragazza che fa il liceo dicevano i miei, poi deve andare all'università; e come si fa a mandare sola una ragazza, in una città come Palermo ?" "In Sicilia tutte le famiglie pensano così~" "Oh no, non tutte." "La sua è una famiglia particolarmente severa~" "Non particolarmente: in Sicilia ce ne sono ancora tante che vedono la vita in un certo modo che diffidano..." "Di che?" "Del mondo, di se stessi... E non è che abbiano del tutto torto... Io prima della malattia ero più insofferente, plU Impazlente: avrel voluto fare un concorso per il continente, andarmene... Ora vedo le cose un po' diversamente: mi pare che la vita abbia perduto di serietà, che ognuno sia disposto a tradire gli altri, tutti gli altri.. Non riesco a spiegarmi, vero?" "Lei si spiega benissimo." "A Roma, ad Ostia, seduta ad un caffè, vedendo scorrere una fiumana di persone, ho pensato che nessuno stesse con gli altri, anche se parlavano, scherzavano, andavano a braccetto: dietro alla vita come dietro un carro funebre, quando ognuno pensa 'sono vivo, è toccata a quell'altro, io non muoio' e che tutti gli altri, e il mondo


stesso, sarebbero morti prima... E mai stato ad un accompagnamento funebre?" "Qualche volta." "Io un paio di volte... E dunque capisce quel che voglio dire, anche se lo dico con confusione: si va appresso alla gioia così..." "Lei sta dicendo cose profondamente vere." "Forse sono pensieri così, di una che esce da una malattia. Ma a lei non pare che la vita abbia perduto di serietà?" "Non in tutto il mondo" disse l'ingegnere. "Oh no, non in tutto il mondo: io credo che al mio paese la vita sia ancora seria... Ma le apparenze sono grette, intollerabili... Lei sta pensando che sono gretta anch'io, all'antica: e poi vestita così..." "No no" protestò l'ingegnere "sto pensando tutt'altro." "A me la vita piace: mi piacciono le belle cose, i bei vestiti... E mi piacerebbe darmi il rosso alle labbra, e provare a fumare." "Lei è la ragazza più incantevole che io abbia conosciuto: anche vestita del voto a san Calogero, e senza il rosso alle labbra." Lei abbassò gli occhi, cominciò a muovere l'indice sul vetro come scrivendo. "Sta scrivendo qualcosa?" domandò l'ingegnere. "Come?" "Voglio dire sul vetro: mi pareva lei scrivesse qualcosa." "Oh sì, il mio nome: quando sono m confuslone m trovo a scrivere il mio nome." "Lei non deve sentirsi confusa se le dico che è una bella ragazza, e che mi piace parlare con lei: perché è la verità." "Oh" disse la ragazza: e congiunse le mani, come per impedirsi di scrivere ancora il suo nome sul vetro. "Forse non è saggio tentare di portare un incontro come il nostro oltre la destinazione del viaggio, ma voglio dirle che mi piacerebbe rivederla." La testa del professor Miccichè si affacciò nel corridoio: pareva decollata tra le tendine incrociate, grondava, come di sangue quella del Battista, di sonno e di diffidenza. "E perché ve ne siete andati?" disse, con una certa lrntazione La ragazza disse all'ingegnere "Anche a me" con semplicità; e si avviò a placare la diffidenza del professore. Il treno entrava nella stazione di Paola: e appena spento lo stridio dei freni si accesero le grida "fragole, fragole" che il professor Miccichè aspettava con seicento lire in mano: un bicchiere di fragole per ciascuno, compreso l'ingegnere. I bambini si svegliarono: ancora con gli occhi chiusi tesero le mani verso le fragole. "Tu e le tue fragole!" disse la signora. "Li hai sve"Non sono stato io: si sono svegliati per le grida dei venditori" Sl scusò il professore. "Tu ti sei mosso prima delle grida" disse la signora. "Mi sono mosso" spiegò il professore "perché..." s'interruppe, confuso: e con gli occhi, impercettibilmente ammlccò verso la ragazza e l'ingegnere. Ma in lei affiorò, mvece che la tutoria preoccupazione del marito, la vocazione di ogni donna sposata ad avviare altre donne verso


il matrimonio: nel caso particolare alimentata dal romanzesco di un viaggio in treno, di un ingegnere continentale, di una buona ragazza di paese. Nenè, che aveva appena cominciato le sue, disse "Voglio ancora fragole." "Ci sono le mie: io non le mangio" disse la signora. "E o non è maleducato?" disse il professore chiedendo a tutti approvazione. "Non finirà nemmeno il suo bicchiere: parla perché ha la bocca, come te" disse la signora: e intendeva rimproverare al marito la piccola gaffe di un momento prima, quando Sl era mterrotto. "Mangerò il mio e il tuo: e altri dieci, altri cento bicchieri di fragole" disse Nenè. "Mangerò cento bicchieri di fragole!" caricaturò Lulù. "Duecento, mille" si intestardì Nenè: ma già straccamente dava fondo al suo bicchiere. Un momento dopo lo porse alla madre dicendo "Le mangerò più tardi." "Uh uh uh" burlò Lulù. "Non mi rompere le scatole" ammonì Nenè. "Non parla perché ha la bocca" si rivalse il professore "parla perché è un facchino... Ma ti metto a sesto io: ti chiudo in un collegio ti chiudo." 1286 Il mare colore del vino 1287 "In mezzo agli orfanelli?" si informò accademicamente Nenè. "Proprio: in mezzo agli orfanelli." "Se tu non muori non mi prendono: tu muori e io me ne vado con gli orfanelli." Il professore brancicò sulla parete in cerca di ferro, si attaccò al portacenere. Così immunizzato dalla morte, col solito orgoglio disse all'ingegnere "Sente che logica?" E a Nenè "Non ti illudere: ti prendono anche con me vivo, basta che io dica una parolina a padre Ferraro." Ma giustamente prevedendo la reazione di Nenè scattò in piedi e chinandosi minaccioso disse "Non ti azzardare a dire quello che stavi per dire su padre Ferraro: che ti do una pestata da fartene ricordare per cent'anni." "Non lo dico: lo penso" disse Nenè per niente sconvolto. Nervosamente il professore si passò più volte la mano sulla faccia, poi rise. Risero tutti. E mentre ridevano il controllore apparve a chiedere i biglietti: glieli diedero, il professore si informò sugli orari. E appena se ne fu andato, Nenè comunicò "Sto pensando ancora a padre Ferraro." "Gesù!" si accorò la signora. Ma il professore, l'inge gnere e la ragazza stavano ridendo fino alle lacrime. Giunsero a Villa San Giovanni dopo aver variamentc commentato la vivacità di Nenè e dopo aver sedato un paio di zuffe repentinamente esplose tra Nenè e Lulù: e ricordo degli interventi pacificatori, le camicie del profes sore e dell'ingegnere erano punteggiate del colore delle fragole. Il professore, euforico, propose che si andasse tutti in coperta, sul traghetto, a prendere 11 caffe. "E le valige?" disse la signora. "Già, le valige..." si costernò il professore. E con la voluttà autodenigratoria del siciliano spiegò all'ingegnere che, avvicinandosi alla Sicilia, era buona regola non lasciare mai incustodite le valige: che era tutt'altra cosa che al nord, dove, a immaginazione del professore, le valige si


1288 Il mare colore del vino muovono soltanto, come cani, coi loro legittimi proprieLa signora, che aveva in mente un suo disegno, propose una soluzione: che andassero su prima Dina e l'ingegnere e poi, al loro ritorno, ma che facessero con comodo sarebbero andati lei e il marito, coi bambini, a prendere ii caffe. Le proteste dei bambini, che erano impazienti di salire in coperta, furono autorevolmente represse. Il professore per la verità, non sembrava persuaso: era dilacerato tra la responsabilità assunta col fratello della ragazza e il piacere di agevolare un idillio. Ma la decisione della signora lo travolse. Così si ritrovarono soli, la ragazza e l'ingegnere, sullo stretto di Messina sfolgorante del primo sole. Presero di fretta un caffè e poi sedettero, in silenzio, di fronte a Messina: candida, nitida. Dalla notte insonne alla luce del mattino sul mare, i loro pensieri erano come abbagliati. Quando il traghetto cominciò a muoversi la ragazza disse "Scendiamo: i bambini saranno impazienti di venir su." Erano più che impazienti: Lulù frignava e Nenè era disteso, in silenziosa protesta, sul pavimento della vettura. Il professore lo additò al ludibrio della ragazza e dell'ingegnere: "Guardatelo: c'è differenza tra lui e un cane?" ma Nenè era già balzato fuori, seguito da Lulù e dalla signora. Il professore era già nel corridoio quando il pensiero che stava per lasciare la ragazza con un uomo, in una vettura quasi deserta, lo trafisse: tornò indietro e, a togliersi scrupolo se non preoccupazione, chiese alla ragazza se voleva tornar su, in loro compagnia. La ragazza disse di no, che era stanca. "Il professore diffida" disse l'ingegnere. "Vuole riportarmi a casa sana e salva" sorrise la ragazza. "Spero che non ci riesca" disse l'ingegnere "spero che lei..." non trovava più le parole. Il mare colore del vino "Sì" disse la ragazza arrossendo. Non dissero più niente. Trovandoli così silenziosi il professore precipitò in un dubbio: o che l'ingegnere era stato tanto gentiluomo da non aver nemmeno osato di parlare, in sua assenza; o che, al contrario, lo fosse stato tanto poco da tentar qualcosa ed essere respinto. Col muto linguaggio degli occhi, delle palpebre, la signora glielo risolse: l'idillio continuava, ma niente di men che corretto, bastava guardarli in faccia. Il professore si rasserenò: ma gli pareva fosse venuto il momento di sapere, poiché la signora gli assicurava che l'idillio c'era, con chi aveva a che fare: ingegnere, va bene; scapolo, almeno così si dichiarava; età, ad occhio e croce, trentacinque; simpatico; apparentemente di buon carattere... Ma bisognava andare un po' più a fondo. Domandò "Lei è veneto, vero?" che a Marostica il professore aveva fatto il corso ufficiali. "Vicenza" rispose l'ingegnere. "Città bella, città civile" disse il professore. "Vicenza, Vincenza, Vincenzina: zia Vincenzina" giocò Lulù. "Il panedispagna di zia Vincenzina" disse Nenè suc-


chiando dalle dita i resti di una tavoletta di cioccolato. "E lei risiede a Vicenza?" continuò ad inquisire il professore. "Così, anagraficamente, diciamo; ma raramente mi caPita di fare una scappata: c'è mia madre, ci sono i miei fratelli... Sono stato per molto tempo fuori d'Italia: in America, in Persia... Ora in Sicilia, a Gela." "Petrolio?" "Petrolio." "Anic?" "Anic." "E allora mi dica, in confidenza: c'è o non c'è a Gela il petrolio?" domandò il professore abbassando la voce ad un sussurro. "Ma certo che c'è." "Perché, vede, corre voce che sia, come dire?, tutta una montatura: che petrolio ce n'è tanto poco che il gioco non vale la candela." "Ma è pazzesco!" disse l'ingegnere. "E quello che dico anch'io. Ma a volte, sa com'è?, mi viene il dubbio che questo Mattei faccia le cose per gettare polvere negli occhi... Ma intendiamoci: per essere un genio è un genio, non si discute... Anche se Gela è tutto un imbroglio, ad armare un imbroglio simile ci vuole un genio." "Non è un imbroglio" assicurò l'ingegnere. "Se lo dice lei..." disse il professore, alzando le mani come ad arrendersi. E lasciando la pista dell'Anic tornò a quella, di più immediato interesse, dell'ingegnere Bianchi. "E a Gela ci resterà per molto?" "Credo di sì: se non propriamente a Gela, in Sicilia... A Troina, a Gagliano..." "La Sicilia le piace?" "Credo che mi piacerà molto: non ci sono mai stato" disse l'ingegnere guardando la ragazza. "Lo sentite?" disse il professore rivolto alla moglie e alla ragazza. "Ha girato mezzo mondo e non conosce la Sicilia! Cristo di Dio, tutti così questi continentali!" "Ma ho sempre desiderato fare un viaggio in Sicilia" si scusò l'ingegnere. "Certo certo: la terra dove splendono sovra cupo fogliame arance d'oro" citò il professore con ironia, con amarezza. "Succede sempre così" disse la signora, in soccorso all'ingegnere e a smorzare il risentimento del marito "che si rimanda da un anno all'altro: e le cose che più desideriamo vedere finisce che non le vediamo mai, o soltanto per un caso... Noi, per esempio, non siamo ancora stati a Piazza Armerina: ed è da quando siamo sposati che mio marito va dicendo che dobbiamo andarci." "E vero" approvò il marito "succede sempre così. Ma io, quando sento che uno, all'età dell'ingegnere... Mi scusi, quanti anni ha lei?..." che non perdeva di vista lo scopo di apprendere tutte le possibili notizie sul compagno di viagglo. "Trentotto." "...Che uno, a trentotto anni, non conosce la Sicilia: ebbene, non lo faccio apposta, ma mi viene una certa rabbia... Perché poi (si capisce che parlo in generale), senza conoscere, senza sapere, dall'alto del loro bum o come si chiama, del loro miracolo economico, insomma, tagliano e arrostono questa povera Sicilia come pare e piace a loro... E io allora dico: bum un corno, questo bum voi lo fate sulla nostra pelle, voi ci state friggendo con lo stesso


olio nostro... Per carità, cambiamo discorso." Lulù e Nenè, fingendo di impugnare un'arma, a vicenda si mitragliarono di bum bum bum. "E stato separatista" disse la signora, a spiegare la passione del marito. "Indipendentista" corresse il professore "e lo sono ancora." "Ora avete il petrolio" disse l'ingegnere, a consolarlo. "Il petrolio?... Mi creda: se lo succhiano" disse il professore "se lo succhiano... Si ricorda di Musco nel San Giovanni di Martoglio? Teneva una lampada ad olio davanti all'immagine del Santo: veniva un vicino e si asciuava l'olio: 'veni qualche divotu, o qualche divota, con ~arso inganno, e s'asciuca l'ogghiu d' 'a lampa...' E così finisce col petrolio: una canna lunga da Milano a Gela, e se lo succhiano... I devoti, si capisce, quelli che per la Sicilia si preoccupano, si accorano... Meglio non parlarne." "Ma se questo accade, o accadrà, non crede che la colpa sia anche dei siciliani?" "Certamente: siamo fatti così, aspettiamo che il frutto ci cada in bocca, dall'albero, quand'è maturo." "Ma, mi scusi, se siete fatti così, io non vedo cosa abbiate da guadagnare a far da soli." "Non siamo fatti così" disse la ragazza. "E che ci piace far credere di noi le cose peggiori: come quelli che immaginano di avere tutte le malattie, e provano sollievo a parlarne." "E vero" disse il professore, un po' abbattuto. Ma subito trovò da esaltarsi di fronte al mare di Taormina. "Che mare! E dove c'è un mare così?" Il mare colore del vino 1293 "Sembra vino" disse Nenè. "Vino?" fece il professore perplesso. "Io non so questo bambino come veda i colori: come se ancora non li conoscesse. A voi sembra colore di vino, questo mare?" "Non so: ma mi pare ci sia qualche vena rossastra" disse la ragazza. "L'ho sentito dire, o l'ho letto da qualche parte: il mare colore del vino" disse l'ingegnere. "Qualche poeta l'avrà magari scritto, ma io un mare colore del vino non l'ho mai visto" disse il professore, e a Nenè spiegò "Vedi: qui sotto, vicino agli scogli, il mare è verde, più lontano è azzurro, azzurro cupo " "A me sembra vino" disse il bambino, con sicurezza. "E daltonico" sentenziò il professore. "Ma che daltonico?" si rivoltò la signora. "E testardo." Si provò anche lei a convincerlo del verde e dell'azzurro del mare. "E vino" disse Nenè. "Vedi che è testardo?" disse la madre. "Ora addirittura afferma che è vlno. ' "Un momento" disse il professore. Tirò giù dalla reticella la sua cravatta, verde a strisce nere, e mostrandola domandò al bambino "Che colori ha questa cravatta?" "Di vino" rispose implacabile Nenè: e sorrideva di malizia. Il professore buttò la cravatta per aria "E meglio lasciar perdere: è testardo" disse la signora. "Forse è anche daltonico" insistette, ma ormai senza convinzione, il marito. 'Il mare colore del vino: ma dove l'ho sentito?' si chiedeva l'ingegnere. 'Il mare non è colore del vino, ha ragione il professore. Forse nella prima aurora, o nel tramonto: ma non in quest'ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di


vero: forse l'effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: si impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza.' 'I dialoghi di Platone dovrebbe recitarli Eduardo De Filippo: in napoletano.' 'Ma qui siamo in Sicilia, forse non è la stessa cosa.' Il treno correva lungo il più splendido mare che avesse mai visto: a momenti pareva assumere l'inclinazione dell'aereo quando decolla, il paesaggio rovesciato da un lato, a filo del volo. "E o non è bello?" domandò il professore, che usava sempre porre alternative estreme: e indicava la costa e il mare di Aci come un quadro che avesse appena fimto. "Bellissimo" assentirono tutti: tranne Nenè, intento com'era a cavare dai sedili gli spilloni che assicurano le strisce bianche che fanno da testiera. "Nisima è sul mare?" domandò l'ingegnere. "Eh no!" disse con malinconia il professore. "Sicilia interna, Sicilia arida... Ma, intendiamoci, ha una sua bellezza non come questa, che toglie il respiro; una bellezza che ti prende lentamente, o più quando se ne è lontani, nel ricordo... Qui ci vuol poco a dire che è bello, anche un cretino se ne abbaglia subito; ma a Nisima ci vuole tempo, ci vuole intelligenza... E un'altra cosa, insomma." "C'è mafia?" domandò l'ingegnere. "Mafia?" fece il professore, stupito come se gli avessero chiesto se al suo paese si mangiasse polenta e si bevesse grappa. "Che mafia? Fesserie!" "E queste cose?" domandò l'ingegnere mostrando sul giornale del giorno avanti un titolo a quattro colonne che diceva La mafa non vtwle le dighe. "Fesserie" di nuovo tagliò il professore. L'ingegnere pensò 'Un uomo istruito, gentile, buon padre di famiglia: e non vuol parlare della mafia, si meraviglia anzi che se ne parli, come se parlandone si desse importanza a cosa di piccolo conto; ragazzate, fesserie. Comincio a capire la mafia, è davvero un dramma.' Erano alla stazione di Catania. "Catania" annunciò il professore. "Per questo treno, una tomba: non Sl muove "Scendo: ho bisogno di fare quattro passi" disse Nenè. "Ora spostano la vettura ad altro binario, scendere non conviene" disse il padre. "Voglio una granita: granita e biscotti" disse Nenè. c io: granita e briosce disse Lulù. nieri corpulento, enorme, di una grinta resa più feroce dal g ita, biscotti e briosce. caldo, dal sudore che gli colava, si stagliò alla porta dello E che granita è?" fece Nenè, disgustato: ma dopo aver scompartimento. Nenè, al disopra del giornale, guatava scolato, in parte sul vestito, l'ultimo sorso squagliato.La ; Il maresciallo domandò se era la vettura glusta per Agrigranita è quella di don Pasqualino: appena arrivo a Ni- gento, ringraziò, passò oltre. Nenè abbassò il giornale, p erò un pozzetto pieno. venne fuori come da un sipario al dileggio di Lulù, alle ri"E meglio di quella di don Pasqualino" disse Lulù: per sate di tutti. Pianse di mortificazione, di rabbia; morse se za convinzione Lulù, si morse le mani, scalciò; poi lentamente, singul"Non capisci niente: questa è fatta di acqua, limonina tando, cadde nel sonno. e zucchero; don Pasqualino la fa invece col limone, e ci La conversazione si accese sull'educazione dei bambini, mette anche il bianco d'uovospiegò Nenè con compe- e di un bambino come Nenè in particolare. Padre e madre


sostenevano che Nenè era un maleducato, e se ne faceSa tutto ' disse la madre. "E curioso di ogni cosa: sem- vano colpa, e ne facevano colpa alla società meridionale: P che nel continente i bambini crescevano più a modo, più ioso: curiosa è zia Teresina. educati. La ragazza e l'ingegnere sostenevano invece che "Ecco che la stai sparlandotrionfò il padre. Nenè aveva sì un linguaggio non edificante e delle reaLo dici sempre tu: 'è curiosa, la vecchia strega'." zioni violente: ma la sua intelligenza era indubbiamente Il professore, battuto, minacciò un formidabile manro- pronta e vivace, i suoi sentimenti generosi. La signora e il vescio. Per niente impressionato Nenè spiegò ai due professore resistettero nel loro punto di vista, ma come estranei "Zia Teresina è ricca, ci lascerà le sue terre ma io per civetteria e infine la piena del loro affetto dilagò sul delle sue terre me ne.." sonno di Nenè. Gli arrivò, dalla madre, uno schiaffo. Mentre il treno attraversava un paesaggio fulminato di "Le terre zia Teresina le lascerà a me" disse Lulù. sole, desertò intorno al sonno del bambino erano come ola gridò il professore personaggi ia presepe coi loro buoni sentimenti, con la "~ia Teresina con la parrucca, zia Teresina con l'occhio loro fede nella vita, e che tutto dovesse durare, amicizia ¨ e ò Nenè ed amore, al di là dell'incontro fortuito, del viaggio. L'ing g se la madre gegnere pensava di aver finalmente toccato il giusto della "~ia Teresina non ti darà più le ciambelle" disse Lulù. vita e di dovere, con tutte le buone regole della famiglia "Le ciambelle con la muffa: mi viene il vomito a pen- meridionale prolungare per la vita l'incontro con quella sarci" e COSì perfettamente simulò il vomito da buscarsi ragazza serena ed attenta, di poche parole, di intensi sentimenti, e che bisognava dire qualcosa di definitivo prima Per consolarlo, la ragazza lo invitò a fare una passeg- di separarsi, magari accompagnarla al paese, parlare coi giata nel corridoio. Nenè accettò dicendo "E meglio che i genitori. Ma quando il professore cominciò a tirar giù I q on Sl ragiona balJa~li, che stavano per arrivare a Canicattì, si disse 'Non Ma un momento dopo rientrò solo, di corsa, come se sei più un ragazzo' e che c'è un tempo per ogni cosa e che inseguito voltandosi indietro: sedette al suo posto e si la sua prima giornata di libertà l'avrebbe dedicata ad un mise un giornale davanti, spiegato; pareva leggesse, solo . breve viaggio a Nisima. che 1l giornale era a rovescio. Un maresciallo dei carabi- A lungo si salutarono, ancora prima di scendere dal treno; e poi di nuovo sul marciapiedi della stazione dove l'automotrice per Campobello-Licata-Gela era in attesa. Erano tutti commossi; tranne Lulù, che faceva di tutto per distrarre la ragazza dai saluti. Nenè invitò l'ingegnere ad andare con loro, a Nisima; gli promise la granita di don Pasqualino e una serata al circolo. L'ingegnere, guardando la ragazza, promise a Nenè che presto sarebbe venuto a fargli visita. Il bambino volle abbracciarlo. Il professore gli diede il biglietto da visita. Dall'automotrice, dove prese posto accanto al finestrino, l'ingegnere li guardo: un grappolo di valige e di borse che si muoveva verso l'uscita. Prima di sparire la ragazza si voltò a guardarlo. 'Andrò a Nisima domenica' decise l'ingegnere. Ma mentre l'automotrice partiva i suoi sentimenti, la sua malinconia e il suo amore, di colpo si rappresero nel sonno. Sulla visione baluginante di colui che gli aveva


consigliato quel treno, quella vettura, una faccia soddisfatta, sadica, il suo ultimo pensiero si spense. 'Accidenti che viaggio.' L'ESAME

Un mucchietto di gettoni, grandi quanto monete da cento lire, da dividere in tre colonnine: più ruvidi, meno ruvidi, lisci. Un pezzo di fil di ferro e una pinza: per fare, del fil di ferro, un triangolo. Un cartello su cui erano disegnati tanti cerchietti, formavano come un grappolo d'uva: e dentro ogni acino, un numero. E bisognava, da una certa distanza, leggere quanti più numeri si poteva, nel tempo in cui l'uomo, con l'orologio in mano, diceva "via" e poi "basta". "Via" e "basta" erano le parole italiane che l'uomo pronunciava meglio. Un uomo alto, roseo, gli occhi chiari, i capelli biondi che gli si aprivano a crisantemo al centro della testa. Svizzero di Zurigo. Blaser di nome. In Sicilia per reclutare mano d'opera femminile: ragazze che avessero più di diciotto e meno di trent'anni. Per una fabbrica di cose elettriche contatori, pareva; ché non si capiva molto dalle poche parole che diceva. Forse era cattolico, forse luterano o calvinista. I parroci non riuscivano a capirlo. Se ne stava quieto, senza curiosità, ad esaminare le ragazze: in canonica o addirittura in sacrestia, come se quegli ambienti li avesse conosciuti da sempre, facendo il chierichetto o frequentando le lezioni di catechismo. Girava per i paesi della provincia con automobile e auIl mare colore del vino tista presi a nolo, dopo una meticolosa contrattazione dopo un diffidente tirare sul prezzo, nel capoluogo: che era una città, nel cuore della Sicilia, chiusa, arroccata, vibrante di metalliche corde di vento. L'autista si era in un certo modo appassionato a quel giuoco, a quegli esami: lo seguiva nelle sacrestie, nelle canoniche; e a volte non resisteva a mettere la sua buona parola, quando una ragazza non riusciva a passare l'esame o non aveva l'età giusta: anche se lo svizzero non ne teneva alcun conto, di quella buona parola. Si ripeteva la stessa scena ad ogni paese; e persino le ragazze, da un paese all'altro, parevano le stesse. E anche i parroci. Per l'ora già precedentemente concordata, i parroci aspettavano l'arrivo del signor Blaser; una ventina di ragazze, di solito accompagnate dalle madri, stavano in sacrestia o nella sala a terreno della canonica; bisbigliavano emozionate e nervosamente ridevano. Il parroco le Dresentava con garanzia della loro buona osservanza delle leggi cristiane e delle domestiche virtù che in Svizzera sarebbero diventate virtù operaie. Il signor Blaser tirava fuori gettoni, fil di ferro, pinza e cartello: e cominciava l'esame. L'autista sentiva una vena di rimorso incrinare la soddisfazione del guadagno che stava facendo, del passatempo in CUI Sl rlsolveva la sua giornata di lavoro: come se si fosse fatto complice di una specie di ratto delle sabine, mlsterlosamente tramato tra un uomo del nord, un tedesco oltretutto, e i parroci siciliani. Non amava i tedeschi per la lunga fame sofferta in un campo di prigionia. E


non amava i parroci, per tante altre ragioni. E quel po' di tedesco che, dolorante di fame, aveva appreso, gli serviva a tradurre il nome del suo cliente in soffiatore: e per segreta vendetta lo vedeva nudo e sospeso, le gote enfiate, il vento che gli usciva di bocca come un fascio di raggi, così come certi angeli di stucco nei cori delle chiese. Perché il signor Blaser considerava l'autista come un pezzo dell'automobile, e i tentativi di attaccar discorso durante il viaggio o gli interventi durante l'esame a favore di qualche raIl mare colore del vino gazza, teneva nello stesso conto di una piccolapanne: un incidente, un fastidio. E di ciò l'autista si rodeva: sentiva una mortificazione che sconfinava nell'odio quando lo sguardo del soffatore si posava su di lui, al più piccolo tentativo di confidenza, come su un oggetto; un oggetto che aveva la sorprendente e fastidiosa proprietà di parlare. E mortificato si sentiva per la contraddizione dei sentimenti in cui veniva a cadere: non gli piaceva che lo svizzero portasse via le ragazze, ma interveniva a raccomandarne qualcuna se stava per essere scartata. Sentimenti così complessi, in un uomo cui dava giusta retribuzione per un lavoro, e scaturiti da quel lavoro, il signor Blaser non sarebbe mai riuscito a immaginarli; e se li avesse immaginati, ne avrebbe avuto disgusto. Passò così una settimana; una diecina di paesi, un centinaio di ragazze reclutate, tutto tranquillo, tutto liscio. E venne il giorno che il signor Blaser aveva destinato a V., DaeSe isolato dentro un vasto territorio arido, paese di feudi ormai tarlati dagli scorpori e di mafia tuttora rigogliosa. Durante il viaggio, l'autista raccontò al signor Blaser, caricandole dei più raccapriccianti dettagli, le cronache del paese: ma lo svizzero non diede il più piccolo segno di curiosità o di meraviglia. Quando giunsero al centro del paese, dove sulla gradinata della matrice già l'arciprete li stava aspettando, mentre lo svizzero e l'arciprete si salutavano, all'autista che stava chiudendo la macchina si avvicinò un giovane. Salutò, l'autista rispose al saluto: e restarono per un momento a guardarsi, il giovane evidentemente intimidito, impacciato; l'autista improvvisamente assalito da una oscura preoccupazione, ché le cronache evocate ad uso del signor Blaser avevano invece fatto da lievito ad una sua apprensione. E perciò bruscamente domandò "che c'è?" a velare, con l'arroganza del tono, la preoccupazione. "C'è" disse il giovane "che lei deve farmi un favore." 'Ci siamo' pensò l'autista; ma in verità non sapeva a Il mare colore del vino "Se posso" disse; con durezza, a mostrare la sua decisione a non farlo, quel favore; o almeno a non farlo se non per gentilezza, mai per paura. "Ecco" disse il giovane "si tratta di una ragazza: una ragazza che vuole andare a lavorare in Svizzera... Non voglio che ci vada, ecco... E lì, dall'arciprete... Non devono prenderla, ecco... Io non voglio... Ci dobbiamo sposare, lei ml caplsce..." "Io non capisco niente, amico mio: e non c'entro per niente. Io non faccio che portare in giro quel tizio. Sono un autista io: mi paga e lo porto in giro per i paesi. Non so niente e niente voglio sapere di quello che fa. Ognuno


fa il suo mestiere: io il mio e lui il suo. Capisci?" ed era passato a dargli del tu, tanto gli faceva ora pena il giovane: un bambino m punto di scoppiare a piangere. "Lei deve aiutarmi" disse il giovane. 'Fa pena,' pensò l'autista, 'e poi in un paese come questo sono capaci di tutto.' Sospirò di fastidio, di angustla. "E va bene: mi ci provo. Ma tu non contare che la mia parola valga qualche cosa: quello è uno svizzero, uno svizzero tedesco. Lo sai come sono precisi gli svizzeri? Fanno gli orologi e come gli orologi camminano... E i tedeschi, pOI, meglio non parlarne, hanno teste dure come coti. E si può cavare sugo da una cote?" e si avviò verso la chiesa. Ma dalla soglia si voltò verso il giovane che era rimasto ai piedi della gradinata, lo guardò con rimprovero e compassione insieme. "E come diavolo si chiama?" domandò. "Rosalia" disse il giovane "Rosalia Calaciura." In sacrestia il signor Blaser aveva già tirato fuori le sue cose: le disponeva sul lungo tavolo come strumenti chirurgici, con attenzione, con delicatezza; e davvero pareva che si stesse apprestando, nella sacrestia violentemente tagliata da fasci di sole che spiovevano dalle alte finestre a grata, sotto lo sguardo equivocamente casto e sadico di vescovi ed arcipreti cui la luce dava risalto sulle tele consunte, tra i grandi armadi di noce scuro, nello strano odore di cera e di incenso, di vainiglia e di muffa, una teIl mare colore del vino tra operazione chirurgica o di tortura. Le ragazze guardavano le mani del signor Blaser come affascinate; ed anche l'arciprete. Dalla porta l'autista ruppe quell'atmosfera di torbida ansietà gridando "signor Blaser, una parola: permette?" e il signor Blaser si volse: sorpreso, quasi Indignato, gli occhi più del solito gelidi. L'autista gli fece, con l'mdice della destra, segno che si avvicinasse. Lo svizzero gonfio le guance a sbuffare fastidio ('il soffiatore', pensò l'autista), si mosse con offensiva lentezza. "Lei ha capito che paese è questo?" gli sussurrò nell'orecchio l'autista. "Ho capito" disse il signor Blaser. "Mafia: paese di mafia" disse l'autista. "Ho capito." "Sa cosa è la mafia?" "Me ne infischio" disse sillabando, con stento, il signor Blaser. "Io no" disse l'autista "e se vuole un consiglio da fratello, ci pensi su mille volte prima di dire 'me ne infischio'. Tra l'infischiarsene e il non infischiarsene c'è la differenza che passa tra il morire e il campare." "Non capisco" disse il signor Blaser: e appunto in quel momento cominciava a capire qualcosa. "E dunque si lasci consigliare" disse l'autista. "Via" disse il signor Blaser: e voleva dire 'avanti col consiglio, sbrighiamoci. "C'è tra queste una ragazza che lei non deve prendere: si chiama Rosalia Calaciura." "Non devo prenderla?" ''Sì: scartare, scartare subito... Non buona." "Età non giusta?" domandò il signor Blaser. "Oppure...?" si toccò la fronte a significare deficienza mentale. "No" disse l'autista, impaziente "da questo lato è a po-


sto: ma non bisogna prenderla, e basta." "E basta?" "E basta"; l'autista mostrò il pugno, aprì a squa*a l'indice e il pollice, per tre volte fece cadere il pollice sull'indice, come il cane di un fucile: "pam pam pam: a noi a me ed a lei... Ci fanno fuori". "Chi ?" 'Linnamorato: quello che non vuole che la ragazza "Ah!" fece il signor Blaser voltandogli le spalle. 'La prende,' pensò l'autista, 'com'è vero Dio, la prende: per corrlvo, per prepotenza; e per farmi dispetto. Ma se io ~ossi al posto di quel poveretto che aspetta fuori, una lezione gliela darei. E quello invece se la prenderà con me: nessuno gli farà entrare nella testa che questo qui non sente raglom, penserà che io non ho voluto mettere la buona parola.' Era cominciato l'esame. L'autista si fece attento per vedere chi, tra quelle ragazze, fosse Rosalia Calaciura. Erano quattordicl. Trascelse le più belle: tre. Ma subito una delle tre fu chiamata con un altro nome. Ne restavano due: ma nessuna delle due era Rosalia Rosalia non era bella: a guardarla bene, attentamente poteva magari apparire graziosa; bella no di certo. Era piccola, bruna. E nell'esame fu tra le più svelte. Il signor Blaser, appena ebbe detto 'basta' all'esame di Rosalia, guardò dalla parte dell'autista. Questi gli fece cenno di no con la testa. Il signor Blaser stette per un momento assorto. Si volse poi all'arciprete. "Non voglio grane" disse. "Come?" si stupì l'arciprete. "Grane, guai, incidenti" disse il signor Blaser, pronunciando male ma mostrando insospettata ricchezza di vocabolarlo. Sul collo sfilato la testa dell'arciprete girò come su una pertlca: gli occhi scasati, la bocca aperta quasi a gonfiare nell'arla, come un personaggio da fumetto, una vescica di esclamativo stupore. "Questa ragazza ha un fidanzato?" domandò il signor Blaser. "No" disse l'arciprete. E cominciava a capire. "No" disse la madre di Rosalia. "Io dico di sì" disse il signor Blaser. "Non è un fidanzato" disse la madre di Rosalia "è soltanto uno che la vuole: un disoccupato, un perdigiorno. Ma su mia figlia comando io." "Non è vero che è un perdigiorno" disse Rosalia e uno che non trova lavoro." "Vuole rovinarti" disse la madre. "Non vuole rovinarmi: è che mi vuole bene... Ma io in Svizzera voglio andarci anche per questo: per farmi una dote, per sposarmi." "Pensi a farti una dote" insorse la madre "e ti scordi della miseria che abbiamo in casa e della speranza che abbiamo in quei quattro soldi che potrai mandarml dalla Svizzera." "Manderò qualcosa a voi: ma in Svizzera ci vado per farmi la dote." "Basta" disse il signor Blaser "la prendo." L'autista uscì dalla sacrestia, attraversò la chiesa deserta. Il giovane lo aspettava appoggiato all'automobile. "Te lo avevo detto" disse l'autista. "L'ha presa?"


"Come se io non gli avessi detto niente... Una testa, caro mio... E per di più ha fatto capire che tu volevi mettere impedimento. La vecchia si è arrabbiata, ha detto che sei un buono a nulla e che vuoi rovinargli la figlia: ma la ragazza ti ha difeso." "Mi vuole bene" disse il giovane. "Ti vuole bene, e se ne va in Svizzera" disse con ironia "Il sazio non crede a chi è a digiuno" si risentì il gio"Non sono così sazio da non credere a chi digiuna" disse l'autista "solo voglio dire che tu potevi convincere lei a non far domanda per la Svizzera, a non presentarsl all'esame; e se lei non ha voluto ascoltarti, vuol dire che ha le sue ragioni: o ti vuole un po' meno bene di quanto tu credi, o non ne può più della miseria..." "Non ne può più" disse il giovane. Il mare colore del vino "E dunque, se davvero tu le vuoi bene, lasciala andare;;. Tornerà, è una ragazza tenace, tornerà... E vi spose"Se io trovassi lavoro..." disse il giovane. "Lo troverai: con tutta la gente che se ne va, il lavoro a chi resta non dovrebbe mancare." "Il fatto è che più gente se ne va, più il paese diventa povero." "Non può essere" disse l'autista, che all'economia applicava semplice arltmetlca. "Non è come quando si sta seduti in molti su una panca, stretti, stretti, pigiati: che uno si alza e gli altri tirano respiro e si mettono più comodi... Qui nessuno è seduto: e chi se ne va, gli altri nemmeno se ne accorgono; o si accorgono solo che il paese si va facendo vuoto." "Non è un discorso chiaro" disse l'autista. "No, non è chiaro" convenne il giovane. "Ma perché non te ne vai in Svizzera anche tu? In Svizzera, in Germania... La Germania è a due passi dalla Svizzera." "Ci sono già stato in Germania, per tre mesi... Ma io dico: l'uomo non è un cane... Può starsene straregnato, in un paese non suo, a soffrire perché tutto questo gli manca" accennò alla chiesa, alla piazza intorno, al cielo che si struggeva nell'oro del tramonto "ma il diritto non deve levarglielo nessuno." "Il diritto? E che, non ti pagavano?" "Mi pagavano, il conto ad ogni venerdì sera tornava fino al centesimo: onesti, precisi. Ma io voglio dire il diritto di essere come ora qui: che ci siamo appena conoSClUtl, ma lel e una persona e iO sono una persona, e siamo uguali, e parliamo... Con loro invece è diverso: non ci vedono, ecco, non ci vedono... E uno si sente come una mosca appesa a un filo di ragno, a dondolare su quei loro bicchieri di birra... La birra! Cristo santo, la birra!..." "Eh sì" disse l'autista: e per i ricordi che improvvisamente l'assalirono si sentì nelle ossa una incrinatura di ~elo Il mare colore del vino 1305 "Ed è per questo che il pensiero che lei debba fare la prova che ho fatto io, mi fa impazzire: anche se si tratta della Svizzera..."


"Lei è donna" disse l'autista "le donne si adattano: mutano di abitudini e di sentimento... Una donna tu la lasci che pulisce una stalla e la ritrovi qualche mese dopo che è una signora." "Questo è vero" disse il giovane. "E poi, sai che ti dico? Tutto è destino. Svizzera o no, se è destino che devi sposarla la sposerai; e se è destino che devi perderla, la perderai." 11 signor Blaser venne fuori dalla chiesa. Dietro di lui sciamarono le ragazze. "Me ne vado" disse il giovane "e grazie lo stesso." "Di niente: auguri" disse l'autista. 11 signor Blaser si avvicinò alla macchina. "Paese selvaggio" disse. Giufà vive in Sicilia dai tempi degli arabi. Per come allora Sl SCrlveVa, 1l SUO nome era un piccuccello dalla coda dritta, crestato, un acino nel becco Sono passati mille anni; e ancora Giufà va ciondolan~o per le strade senza età come tutti i babbei, a combinarne una più grossa dell'altra. E la gente ci si arrabbia; o ci ride su a compatirlo; o nell'ozio, sui gradini della chiesa come un tempo su quelli della moschea, gli si fa intorno a suggenrgll scemplaggini, a fargli credere cose dell'altro mondo. La madre, povera vedova di un uomo che era poco meno stupido del figlio, ma almeno lavorava come un asino, di tanto in tanto esce di casa per andare in cerca di Giufà: e se lo tira dietro per mano, lo trascina con le poche forze che le restano; ché Giufà di stare in casa non vuol saperne, ma a saperlo fuori la madre si sente in testa, per l'apprensionc una cicala che stride e dice Giufà Giufà Giufà. L . Quello che le ha fatto vedere, povera vecchia, In una vita lunga un millennio! Cose da far morire di schianto ogni altra madre, spaventi da giuocarseli per tutte le ruote del lotto, rovine da piangerci sopra per un secolo. E sbirri sempre per casa, ogni sorra di sbirri: quelh del caìd e quelli del vicerè, compagni d'arme di re Ferdinando e carabinieri di re Vittorio. Come la volta che Giufà ammazzò un cardinale: e la fece franca o per troppa stupidità o per troppa malizia, poiché la stupidità va d'accordo con la malizia sempre, e stupido com'è Giufà sa essere maliziosissimo. O come la volta che per ammazzare una mosca che era andata a posarsi sulla faccia di un giudice, un giudice di quelli grossi, gli diede un tale schiaffo che il giudice fece su se stesso tre giri e cadde tramortito; e quando rinvenne voleva fare impalare Giufà, ma Giufà come sempre se la cavò. Se ne possono contare tante, di Giufà. La più bella è però la storia del cardinale: ché davvero Giufà stava per finire, insieme a sua madre che poveretta non aveva colpa, alle forche. E vero è che nemmeno Giufà, balordo com'era, aveva colpa: perché gli sfaccendati, che si divertivano a mettergli in testa cose strambe, e pericolose anche, gli avevano dato consiglio di darsi alla caccia, col vecchio archibuso che era ricordo di un suo avo o di un suo discendente, non si sa, ché il conto degli anni e dei secoli, del prima e del dopo, con Giufà non si può tenere, il vecchio archibuso che stava appeso al muro, a capo del suo letto, col corno della polvere e quello della lupara, la pietra focaia e gli stoppacci. Giufà trovò buona l'idea: e domandò informazioni sul modo di caricare l'arma e di andare a caccia, e sugli animali da ammazzare, e quali fossero i più gustosi. Gli spiegarono tutto, a modo loro e a modo di Giufà: e che i migliori da mangiare erano quelli con la testa rossa, cioè gli uccelli che i contadini chiamano testarossa e sono invece plccoli e magn, un


pugno di ossicini, e mai i cacciatori li ammazzano. Detto e fatto: Giufà profittò che sua madre era andata a messa, la prima messa, quella dell'alba; staccò l'archibuso, lo caricò con tutta la polvere, tutta la stoppa e tutta la lupara che c'era; e si mise alle poste, in una campagna appena fuori del paese. Era una bella campagna: con siepi verdi, fiori dappertutto, fontane che specchiavano palmizi, un gaudio di vento che trascorreva tra le cime. Giufà vedeva grandi candidi uccelli dal collo lungo scivolare sull'acqua, altri dalle penne variamente colorate e splendenti camminare lentamente sulla ghiaia dei vialetti aprendo a ruota code che parevano fitte di occhi. Ma aspettava, Giufà, quelli dalla testa rossa: e non sapeva se fossero uccelli, o Il mare colore del vino animali come le lepri o gli asini, o addirittura come gli uomini. La testa rossa: qualunque cosa vivente che avesse la testa rossa. E aspettava, con l'arma che gli portava via le braccia tanto era pesante. Ed ecco al di sopra di una siepe verde lentamente muoversi qualcosa di rosso, un bel rosso lucente, un pelo che pareva di seta. Aveva la forma di una cupoletta di moschea. Non poteva essere che una testa, se si muoveva: e l'animale doveva essere tanto grosso che sarebbe bastato a una brigata intera; ma Giufà non era così sciocco da dare a mangiare del suo, e fece disegno di mangiarne subito le trippe, come sapeva prepararle sua madre con erbe e spezle; di far brodo della testa; di mettere i quarti in salamoia. Diede fuoco alla conchetta della polvere e subito portò la mira alla cupoletta rossa. Fu un botto da far sfigurare quello del cannone di Castellammare, e per il contraccolpo Giufà si trovò a sedere dentro un ruscelletto. Si alzò e corse al punto dove la cupoletta rossa era scomparsa dietro la siepe. Trovò un corpaccio tutto rosso che pareva di un uomo (due mani grasse e bianche, due piedi con scarpe nere a fibbia d'argento) ma non si poteva più dire dopo la cannonata che gll era arrlvata. C'era da mangiare per un mese. Se lo caricò sulle spalle e corse a casa dove sul tavolo di cucina lo scaricò. Sua madre non era ancora tornata dalla messa. Sorpresa grande, pensò Giufà: mia madre sarà contenta, non dirà più che sono un buono a nulla, non lo può più dire con tutta questa grazia di Dio che le ho portato in casa. E fu sorpresa che per poco sua madre non ci lasciava il senno. Andava per casa strappandosi i capelli, sbattendo la testa al muro, lacrimando. Hai ammazzato il cardinale hai ammazzato il cardinale. Giufà che cosa fosse un cardinale non sapeva: guardava con gli occhi tondi per la meraviglia di quell'angoscia, ché si aspettava un tripudio; e non sapeva che fare. Poi, di colpo, poiché i momenti di rabbia venivano anche a lui, si caricò sulle spalle il cardinale e andò a gettarlo nel pozzo del cortile. La madre ancora si agitava e gemeva. E Giufà sempre Il mare colore del vino 1309 infuriato, ma non sappiamo se per furia o per calcolo, per stupidità o per malizia, prese il montone che sua madre allevava, e in quel momento pasceva tra le erbuzze del cortile, lo sollevò alto e lo scaraventò dentro il pozzo. Più alto levò il;emito sua madre, corse al pozzo: il montone era bello e affogato. Giufà, per non sentire la lagna, se ne uscì di casa.


Per la scomparsa del cardinale grande rumore corse in quella città e in tutta la Sicilia. Gli sbirri lo cercavano dappertutto, con le loro picche frugavano nelle pagliere, nei granai, nei mucchi di pietre e di letame; e persino nei materassi della povera gente, quando non era tanto povera da avere dei materassl. E mlsero un premlo, cent'onze, un bel mucchietto d'argento, per chi avesse dato qualche notizia buona a far ritrovare, vivo o morto, il cardinale; e dieci volte tanto, mille onze, per chi avesse denunciato il colpevole di quella sparizione. Perciò gli spioni e gli avari andavano su e giù per le strade del paese come le spole di un telaio: e le loro orecchie, per lo sforzo di cogliere i minimi sussurri nei crocchi e dietro le porte delle case, parevano diventate grandi quanto le bocche dei tromboni. E fu così che il capitano di giustizia, il capo degli sbirri, seppe che dal pozzo che era nel cortile della casa di Giufà veniva fiato di putrefazione: e con grande apparato di sbirri vi si recò. Ma non che sospettasse di Giufa. Uno per uno, il capitano per primo, tutti gli sbirri si affacciarono alla bocca del pozzo e nauseatl se ne ntrassero. Per quanto amassero il cardinale, nessuno se la sentiva di calarsi giù a tirar fuori quel corpo che, non c'era dubbio, nell'acqua stava disfacendosi: si avvicinavano, gettavano un'occhiata a quel fondo d'acqua che specchiava le loro facce, i loro elmi lucenti, e subito si allontanavano a respirare l'aria buona del mattino. Per cui, vedendo Giufà che vicino al pozzo se ne stava tranquillo, come non sentisse niente, soltanto assorto allo spettacolo di tutta quella gente luccicante di corazze e alabarde che si muoveva nel cortile, al capitano venne l'idea di calare Il mare colore del vino Giufà dentro al pozzo. Gli promise un'onza. Per un'onza Giufà si sarebbe buttato nel pozzo a testa sotto. Non si sa, quelli che riferiscono la storia non lo dicono se Giufà avesse memoria di quel che aveva fatto. Erano passati pochi giorni da quando nel pozzo aveva buttato il cardinale e il montone: ma si sa che i babbei non hanno memoria o hanno memoria confusa, delle cose vere si ricordano nebulosamente, come di sogni. Comunque, era pieno di allegria mentre gli legavano corde alla cintura e sotto le braccia, mentre lo calavano giù. Quando toccò fondo, l'acqua gli arrivava al petto. Si inginocchiò, e quasi gli arrivava alla bocca: e cominciò a muovere sott'acqua le mani, a brancicare. E subito gridò "L'ho trovato!" "Sua Eminenza?" domandò il capitano tenendosi il naso stretto tra due dita. "Che Sua Eminenza?" domandò Giufà. "Voglio dire il cardinale" precisò il capitano. "Io non ho mai visto un cardinale" disse Giufà "e tanto meno l'ho toccato: e qui sto toccando una cosa che può essere il cardinale come può essere un cane." "Malcreato!" gridò il capitano. "Ti insegnerò a nerbate che differenza c'è tra un cane e un cardinale." "Se parliamo di nerbate'disse Giufà "io non mi muovo più: e scendete voi a vedere se si tratta di un cardinale o di un cane." "Scherzavo" disse il capitano. "Così va bene" disse Giufà: e intanto continuava a brarlcicare sott'acqua, e guardava verso l'alto con una faccia perplessa, come di un cieco. "Sbrigati" disse il capitano. "Ecco: sto toccando una cosa pelosa, una cosa lanosa. Aveva lana addosso il cardinale?"


"Non lo so" disse il capitano. Il mare colore del vino 1311 quanti piedi aveva il nostro amatissimo cardinale arcivescovo? Tiratelo su" disse agli sbirri "che gliene voglio dare tante di nerbate da farlo camminare a quattro piedi per tutta la vita." Gli sbirri non lo tirarono su: ché sarebbe toccato a uno di loro scendere al posto di Giufà. E del resto anche il capitano, che agitato dalla rabbia non si stringeva più il naso con le dita, dal puzzo che sentiva si persuase a mutar tono. "Via" disse "non scherziamo." "E chi scherza?" disse Giufà. "Io un cardinale non so com'è fatto: voglio sapere se questo che cerchiamo piedi ne aveva due o quattro." "Quattro" disse il capitano, confuso dall'ira. "Due, signor capitano" dissero in coro gli sbirri. "E che ho detto quattro?" disse il capitano prendendosela ora con gli sbirri. "E che vi ci mettete anche voi a farmi fumare la testa? Ho detto due: e quel figlio di una strega che si attenta a dubitarne l'avrà a che fare con me, l'avrà a che fare." "Veramente avete detto quattro" disse Giufà, sorridendo e levando un-dito verso il capitano in scherzevole ammonizione. E poi serio: "Insomma: due o quattro?" "Due" disse il capitano sbuffando collera. "Questo qui ne ha quattro: dunque non è il cardinale" disse Giufà. "Due o quattro" disse il capitano "tu legalo alle corde che lo tiriamo su." "E perché fare un lavoro a spreco?" disse Giufà. "Se non è il cardinale perché tirarlo fuori?" "Fai come ti ho detto" disse il capitano "e non avrai a pentirtene." Giufà continuò a brancicare sott'acqua, come non avesse sentito. E "Un momento!" gridò trionfante. "11 "Non lo sapete... E quanti piedi aveva il cardinale, lo | cardinale aveva le corna?" sapete?" "Le corna, Sua Eminenza? Hai detto le corna?" urlò il 11 capitano parve assalito da un nugolo di vespe, co- capitano. E cominciò a correre intorno al pozzo urlando minciò ad agitarsi, ad agitare le mani nell'aria. "Quanti "Sacrilegio! Sacrilegio!" e digrignava i denti, e si dava piedi aveva Sua Eminenza? Hai il coraggio di domandare I colpi disperati sulla corazza. 1312 Il mare colore del vino "Non può essere?" domandò placido Giufà. "Ti farò arrostire come un porco da latte" gli gridò il capitano affacclandosi al pozzo. "Una domanda non si può fare?" disse Giufà. "E voi ditemi com'è fatto un cardinale, e io non domando più niente." "Com'è fatto un cardinale?" gridò il capitano. "E fatto come me e te, imbecille." "Non ha niente di diverso, niente di speciale?" incalzò Giufà. "Niente" disse il capitano. "E perché lo cercate con tanti sbirri?" "Perché è un uomo importante, perché è come un principe." "Ed è ricco?" "Ricchissimo."


"E in testa che porta?" "Un cappello di terzopelo, un cappello rosso." "E corna non ne ha... Siete proprio sicuro che non ne ha?" "Sicurissimo" disse il capitano, fremendo. "Ma un momento... Così, tanto per ragionare..." disse Giufà, che a guazzo nel pozzo ci stava fresco come sotto una pergola. "Voi dite che corna non ne aveva: e io vi credo... Ma voi l'avete conosciuto da vivo: che ne sapete se da morto non gli sono spuntate?... Io so che a chi da vivo ha fatto peccatacci, da morto gli vengono le corna. 11 cardinale peccatacci ne aveva?" La rabbia del capitano di nuovo esplose: imprecazioni, minacce. E quando si calmò, dal fondo del pozzo venne quieta quieta la voce di Giufà che domandava "Nemmeno un peccato piccolo così?" e mostrava un'unghia. "Nemmeno" disse il capitano. "E che arte faceva?" domandò Giufà. "Arte?" fece il capitano. "Che arte, cretino? Faceva il cardinale, faceva. Comandava i preti: tutti i preti della Sichia.'' Il mare colore del vino 1313 "Anche don Vincenzo?" domandò Giufà. Don Vincenzo era il prete della sua parrocchia. "Anche don Vincenzo" rispose paziente il capitano. "E allora" disse Giufà "questo vostro cardinale secondo me le corna deve averle: e io ve lo mando su, e lo vedete da voi." Sott'acqua legò il corpo, che era andato palpeggiando, alle corde; gridò che tirassero. E venne su, radiclo, 11 montone; e Giufà appresso. Il capitano e gli sbirri guardavano allocchiti, senza parola. "E o non è il cardinale?" domandò Giufà tutto allegro. 11 capitano gli mollò un calcio. E fu tutta la pena che Giufà ebbe: ché a nessuno venne più in mente di cercare ancora nel pozzo. LA RIMOZIONE

Rincasò, come ogni sera, alle otto in punto; dopo la solita partlta a perdivinci in cui, per aver vinto, aveva perso duecento lire. Gli era capitato come compagno, in una delle due coppie del giuoco, Nicola Spitale: un campione in tutti gli altri gluochi, e specialmente nel quaranta; ma nel perdivinci gli si potevano rimboccare le coperte e spegnergli la luce, ché quel giuoco, diceva, gli metteva invincibile sonno: l'occhio gli Sl illanguidiva, colava sulle carte uno sguardo vacuo e lontano. 'Ci sono dei giuochi che non mi piacciono, che mi annoiano; e se mi invitano ad entrarci io dico di no. Lui invece a perdivinci casca di sonno, giuoca come una bestia: e mai una volta che rifiuti di entrare nella partita' Così con tutta la bile stillata nelle due ore del giuoco, pensava Mlchele Trlcò del suo amico Nicola; e tanto era assorto a rimuginare la partita che non notò subito il buio e il silenzlo che c'erano nella casa; e andava accendendo tutte le luci, e solo all'ultima, in cucina, si accorse che la moglie non c'era. Chiamò "Filomena" e dalla camera da letto venne un


piccolo tonfo, un fruscio. Entrò, ancora sentì un fruscio da sotto il letto. 'E che si è cacciata sotto il letto?' si domandò. Sollevò un lembo della coperta: c'era il gatto gnaulò da orfano, da morto di fame. 'E dove se n'è andata?... A quest'ora, poi... Forse l'hanno chiamata da sua madre.' Vide la suocera sul letto di morte. Era tempo. Una vecchia ferrigna, ottantacinque e passa, e cattiva, velenosa di lingua, piena di puntigli e cat~rlcci. 'Ci vado', decise. Girò a spegnere tutte le luci, scese le scale, chiuse a doppia mandata la porta. 'Certo ci sarà da fare la nottata, mi ci voleva proprio una veglia col raffreddore che ho addosso.' Si avviò verso la casa della suocera, all'altro capo del paese. Ma la vecchia stava bene, vivace come una ciaula: gli occhietti lucidi, il becco pronto. Gli aprì il portone stando sul ballatoio, senza dargli il tempo di salire la scala bruscamente gli domandò cosa volesse. "C'è Filomena?" "Non c'è" disse la vecchia; e come congedo "Tira forte la porta, ché non chiude bene." "A casa non c'è: dove posso trovarla?" insistette Michele. "Sarà in chiesa" disse la vecchia ritirandosi e spegnendo la luce. Michele si tirò dietro la porta con un colpo che parve una cannonata. "In chiesa: e che ci fa in chiesa, a quest'ora? Che funzione ci può essere alle nove di sera?" La chiesa di santa Filomena, a due passi da casa sua: e aveva attraversato il paese, per andare dalla suocera. Senza dire del sangue che gli veniva alla testa, ogni volta che vedeva la vecchia. 'Mi sentirà: le farò perdere la voglia di andare in chiesa finché campa.' C'era gente, davanti alla chiesa. 'Forse c'è festa; o hanno inventato una funzione nuova, una messa notturna: non sanno più che inventare.' Awicinandosi, notò molti carabinieri. 'Sarà festa grossa, forse c'è il vescovo.' "Tricò" si sentì chiamare. Era il brigadiere. "Desidera?" domandò Tricò, risentito, pronto a romperla col brigadiere e con chiunque. "Anche lei vuol fare la rivoluzione per santa Filomena?" chiese con minacciosa ironia il brigadiere. 1316 Il mare colore del vino "Che rivoluzione? Che santa Filomena?" "Come, lei non sa niente?" disse il brigadiere: ironico, minaccloso, mcredulo. "Non so niente di niente" disse Tricò, con così evidente innocenza che il brigadiere gli credette. "Le donne: stanno dentro la chiesa" spiegò il brigadiere "e non vogliono uscire. Temono che calino giù dall'altare la statua di santa Filomena: non si muoveranno dicono, se l'arciprete non giura che la statua resterà dov'è." 'Ho capito: la storia di santa Filomena. E da un pezzo che se ne parla. Ma chi glielo fa fare, ai preti? Una chiesa dedicata a santa Filomena, un paese pieno di Filomene una festa per santa Filomena che dura una settimana intera, con iera e fiaccolate, processioni, cavalcate, le case che tremano per i mortaretti, i dolci impastati col miele: e di colpo vlen fuori il decreto che santa Filomena non è mai esistita.'


"Io vengo a prendere mia moglie" disse al brigadiere. "Vada: se ci riesce... E magari venissero tutti i mariti a prendere le loro mogli... Questa è una grana forte, caro Tricò..." il brigadiere gli sorrise di alleanza, di amicizia. Aveva creduto che i comunisti c'entrassero in qualche modo, nella protesta delle donne: proprio quella mattina un cartello aveva fatto rimuovere che di notte qualcuno aveva attaccato ai piedi del monumento a Garibaldi, c'era scritto in lettere da messale, rosse e nere, 'Martyrologium Romanum: Apud Septempedanos, in Piceno, sanctae Philomenae Virginis', ogni lettera alta un palmo. Il bello è che lui aveva visto il cartello, ma gli era parso cosa di chiesa, avviso per le Quarantore o crociata contro la bestemmia. e che il posto inconsueto, proprio ai piedi di Garlbaldi, fosse uno sfizio dell'arciprete. E invece appunto l'arciprete gli telefonò, verso le undici, che era uno sconcio, e che sull'attaccamento dell'Arma alla Chiesa un dubbio cominciava a torturarlo. Il brigadiere gli fece osservare che l'Arma, dal maresciallo in giù, non sapeva di latino e, personalmente, niente che riguardasse santa Filo11 mare colore del vino 1317 mena. Il cartello, comunque, era stato tirato giù: e la paternità di esso, concordemente dall'arciprete e dal brigadiere, attribuita ai comunisti. Ma ora, per il fatto che Tricò, segretario della Federterra, gli era parso sinceramente all'oscuro dell'affare, il brigadiere aveva tirato respiro. Michele entrò in chiesa; per modo di dire, ché appena superata la porta si trovò schiacciato contro il muro come una sogliola. 'Cristo: e tante donne ci sono nel paese?' E come trovare sua moglie, in quell'arruffo di donne e di bambini? Tra l'altro, la chiesa era quasi al buio: poche candele accese davanti agli altari e le lampade ad olio davanti alle stazioni della via Crucis. Buona idea dell'arciprete, o del brigadiere, quella di spegnere le luci: e un pover'uomo che veniva a prendere sua moglie avrebbe dovuto armarsi di una lanterna. E quasi non bastasse il buio, c'era il pianto dei lattanti; e un acre lezzo di sudore, di panno bagnato, di trigonella. 'Io me ne vado: un boccone in trattoria e poi a casa, a letto... E lei, quando sonno e fame la pungeranno, tornerà a casa: e mi sentirà.' Ma l'assalì il puntiglio: che anche sua moglie, proprio sua moglie, si fosse messa a far sedizione per santa Filomena. Si spinse in avanti gridando "e fatemi passare, Cristo di Dio!" espressione che suonò tanto scandalosa da consentirgli, per l'orrore intorno suscitato, uno slargo, un passaggio. Tra le facce che intorno gli si aprivano come le liquide pareti di un gorgo, ne distinse una: sua nipote Filomena. Aveva il bambino attaccato al petto. "Dov'è Filomena?" le domandò. "Più avanti, verso il coro." 'E andata a piazzarsi in prima fila,' pensò, 'come a teatro.' E alla nipote disse "E porta fuori il bambino, non lo senti che qui si soffoca?" Un mormorio di disapprovazione accolse le sue parole. La nipote non si mosse. Faticosamente avanzò verso il coro. Quando giunse alla balaustrata vi si appoggiò contro, stremato. Dall'alto, santa Filomena lo guardava: uno sguardo di quelli che si sogliono fare alle statue in modo che, comunque uno si sposti, non ti lasciano; ma benigno, dolce: non come


quello del Padreterno di Monreale, che ti incenerisce. 'E non esiste più, santa Filomena... Non è mai esistita.' Acquietò con questo pensiero l'infantile sentimento, di devozione, di paura, che sentiva crescersi dentro: e voltò le spalle all'altare, agucchiando tra le prime file. Non vedeva sua moglie, nelle pupille le facce gli cominciarono a danzare secondo l'avaro e incerto fiottare della luce: ché c'era una corrente d'aria, aperta forse per strategia dell'arciprete, e le flammelle parevano dovessero spegnersi da un momento all'altro; e a quel soffio tra la carne e il vestito il sudore gelava. Ad un tratto scoprì sua moglie: la faccia insoggolata da un velo nero, come per lutto, gli occhi spauriti puntati su di 1UI. 'Sperava che non la scoprissi.' Le si avvicinò, traboccante di collera ma in apparenza calmissimo "Andiamo a casa" disse. "Non posso" disse Filomena "staremo qui finché l'arciprete non ci fa giuramento che la Santa resterà sull'altare. " "Andiamo a casa, ti dico." "Non vengo." "Ah, non vieni..." disse Michele. Il tono era di fredda minaccia, ma in verità non sapeva che fare: si era cacciato in una di quelle situazioni in cui è difficile pigliar partito tra 11 *amma e la farsa. La rivolta della moglie apriva un baratro nella sua visione del mondo; una visione in cui il magglore Gherman Titov veniva ad imbattersi, nel suo volo orbitale, nella buonanima di Michele Tricò, morto a novant'anni nel 1929, di cui lui, figlio del figlio, portava, oltre che il nome, quel giusto giudizio sulle donne in genere e sulle mogli in particolare che dallo sbarco di Garibaldi al Concordato il nonno aveva così rigorosamente messo in pratica da lasciarne luminosa memoria; non che alla famlglia, al paese. Buone solo a una cosa aveva sentito giudicare le donne dal vecchio: quando il vecchio quella cosa non era più in grado di praticare e lui, giuocandogli accanto e pronto a ricaricargli la plpa o a correre per un bicchier d'acqua, non sapeva ancora in che quella cosa consistesse. "Non vengo" disse di nuovo Filomena. "Tua madre" disse Michele. Gli era venuta improvvisa l'idea di armare un piccolo inganno, uno scherzo in cui rifarsi del trattamento della suocera e della rivolta della moglie. "Mia madre che?" si allarmò Filomena. "Niente" disse Michele, fingendosi imbarazzato come chi porta grave notizia e vuol usare precauzione a comunicarla "una cosa da niente..." "Che è successo?" quasi gridò Filomena alzandosi di scatto. "Una cosa da niente, ti dico... A pensarci bene, puoi anche restartene qui: tanto, c'è il medico, c'è il parroco..." "Il medico, il parroco... E dunque cosa grave è?" "Un piccolo insulto, ha solo perduto la parola" e pensò 'magari fosse vero'. Filomena si volse alle donne che le sedevano vicine, disse "Avete sentito? Mia madre ha avuto un insulto, debbo andarmene..." attraversò la fila e al marito disse "Andiamo" e verso l'altare di santa Filomena si voltò a segnarsi di croce, a chiedere perdono, prima di avviarsi. Michele guardò di nuovo la Santa. La tunica bianca, la cintura d'oro, la palmetta verde in mano. 'Pare una comparsa del Quo vadis.' La traversata fu agevolata dal fatto che sua moglie an-


dava giustificando la defezione dicendo: "mia madre ha avuto un insulto, debbo correre..." e le donne compiangendola aprivano loro il passo. Ma prima di arrivare alla porta Michele si fermò per dare un ultimo avvertimento a sua nipote Filomena, che se ne stava in piedi a cullare tra le braccia il bambino in pianto, a sussurrargli una canzone di sonno. Brutalmente le disse "Com'è vero Dio, questo bambino ti muore: in gloria di santa Filomena" sollevando intorno una marea di indignazione. "Scomunicato!" gli gridarono. "Scomunicate siete voi, che vi state mettendo contro il Papa" gridò Michele subito svicolando, appresso a sua moglie, dalla porta. Squagliava di sudore, le orecchie gli bruciavano: e Sl fermò sulla soglia della chiesa a prendere respiro. "Congratulazioni" disse il brigadiere "ce l'ha fatta." "Ce l'ho fatta sì" disse Michele "ma è un inferno... Mi creda, non c'è che una soluzione: lasciarle cuocere nel loro brodo..." "Eh sì, sono anch'io di questo parere... Ma aspetto ordini... Vedremo..." "Auguri" salutò Tricò. "Andiamo" si impazientì Filomena. "Tl è venuta la prescia" constatò Michele muovendosi dietro a lei come se stesse a godersi una passeggiata. "Certo che mi è venuta: mia madre .." "A proposito: perché non te la sei tirata dietro, a far sciopero per santa Filomena?... Forse un insulto le veniva davvero, dentro quel calderone..." "E allora non è vero!" "Che ha avuto un colpo?... Certo che non è vero: l'idea appunto mi è venuta che l'avevo vista un momento prima, e stava meglio di me." "La VUOI morta, povera vecchia: e che ti ha fatto?" disse con voce di pianto Filomena "Tu lo sai meglio di me, quelio che mi ha fatto.. Ma ora il discorso è un altro: dobbiamo parlare di quello che stasera mi hai fatto tu... E come ti viene in mente, sapendo come io la penso, a metterti in quella cagnara?" Erano già a casa, e Filomena aveva cominciato ad affaccendarsi in cucina, muovendosi più precipitosamente del sollto, per preparare la cena. "Non era una cagnara: le cagnare sono quelle che fai tu... La nostra era una cosa muta: ci vogliono togliere la Santa, e nol ce ne stiamo in chiesa a guardarla..." "Ignorante, sei ignorante come una mucca..." "Io so che la Santa c'è sempre stata, che ha protetto questo paese ed ha fatto miracoli, che per lei ci sono state messe, tridui..." "E questo che vuol dire? Un tizio aveva letto nelle catacombe una lapide, l'aveva capita per il verso sbagliato: che sotto c'erano le ossa di una vergine di nome Filomena, e non era vero niente, l'iscrizione voleva dire un'altra cosa..." "Non può essere... E i miracoli? Dove li metti i miracoli ?" "Li metto..." Michele si portò una mano alla bocca, a sigillarvi la greve espressione che stava per pronunciare. "Lasciamo perdere, il problema non è questo: il problema è se tu e tutte quelle sventurate che stanno in chiesa siete o non siete cattoliche." "Certo che siamo cattoliche!"


"E allora quando vi dicono che santa Filomena non esiste, che non è mai esistita, mettetevi la coda tra le gambe e tirate via senza guardare né a dritta né a manca... Se l'arciprete vi dice che chi non vota per la Democrazia Gistiana va all'inferno, gli credete; se vi dice che santa Filomena non esiste, fate la rivolta... Queste son cose da pazzi !" "Non caprsci niente" disse Filomena. "Io non capisco niente?" esplose Michele. "Io? Ma io capisco tanto che la cosa sto portandola per come tu, che dici di essere cattolica, dovresti afferrarla... E ora te la volto per il verso mio: e ti dico che sei ignorante col palmo e con la giunta, e che questa è una storia da far ridere anche le pietre..." Gettando manate di cavoli nella pentola che bolliva Filomena silenziosamente piangeva, piangeva la sua croce di avere un marito che non credeva né a Dio né ai Santi. "Piangi sulla tua ignoranza, che è più nera della morte." "I miracoli" insorse Filomena "ci sono i miracoli: i miracoli non li può negare nessuno..." "Questo è il bello della storia: che ci sono i miracoli... Io mi ricordo quando tua madre vide in sogno santa Filomena, e aveva tre numeri in mano: e la vecchia li giuocò e vinse il terno. Santa Filomena che porta i numeri dei lotto, già la cosa era da ridere... Ma c'è di peggio: c'è che un prete, che aveva visioni di santa Filomena, per queste visioni è diventato quasi Santo; un prete francese, non ricordo come si chiamasse..." "Lo vedi che santa Filomena c'è?" "Caspita, che testa! Santa Filomena non c'è, bestia che sei: ed è il Papa stesso che te lo dice... E che interesse può avere il Papa, in questo caso, a dirti una cosa per un'altra: per far nascere cagnara?... Santa Filomena non esiste: e basta... Ed il bello è che pur non essendo mai esistita quel prete francese e tua madre, e tanti altri preti, e tante altre donne l'hanno vista così come io vedo te." "C'è" disse Filomena, ferma come una roccia. "Non c'è, non c'è mai stata" disse Michele "e la caleranno giù dall'altare: e al posto di santa Filomena metteranno un'altra Santa e tu continuerai a portare i ceri in chiesa, a far dire messe, a votare secondo il consiglio dell'arciprete... E tua madre vincerà qualche altro terno, coi numeri che le darà la.nuova Santa... Finché non verranno a dirvi che un tizio aveva sbagliato ancora a leggere una lapide..." Uscì dalla cucina e sedette a tavola, aspettando che Filomena gli portasse i cavoli e l'uovo bollito. Tirò dalla tasca il giornale come ogni sera; lo aprì. Se ne era dimenticato: invece di fare quella discussione inutile, ché discutere con una donna è come lavare la testa all'asino, avrebbe potuto leggersi in pace 'I'Unità'. Il suo occhio corse per i titoli: Registrata dagli osservatorii di tutto il mondo Esplo~a nella Nuova Zemlija la 'superbomba' sovietica Disarmo generale! 'Quando ci vuole ci vuole: ora lo sanno che la nostra bomba è più forte della loro.' Al XXII Congresso del PCUS Decisa la rimozione di Stalin dal mausoleo. "Gli occhiali" gridò "portami gli occhiali" che per lo scritto piccolo ne aveva bisogno. Filomena portò subito gli occhiali. Michele si immerse nella lettura. Il piatto dei cavoli gli fumava davanti. Continua a p. g col. 3. Squassò freneticamente il giornale in cerca della pagina nove, della terza


colonna. Eccola: 'se accaduto per colpa di Stalin... che sia riconosciuto come irrazionale conservare la tomba di Stalin nel mausoleo... La risoluzione è messa ai voti. I delegati alzano il mandato rosso. La proposta di rimozione della salma di Stalin è approvata alla unanimità.' Violentemente la mano di Michele Tricò lanciò il giornale verso il soffitto; i fogli planarono parte sul pavimento, parte sulla macchina da cucire. "Che c'è?" domandò Filomena. Michele affondò la forchetta nel piatto dei cavoli. La moglie lo guardava, preoccupata che si riprendesse la questione della Santa. "Niente" disse Michele "niente." FILOLOGIA

"Lei crede che venga dall'arabo?" "Molto probabilmente, mio caro, molto probabilmente... Ma, in materia di parole, c'è scienza tutt'altro che sicura: da dove vengono, qual è la strada che hanno fatto, i significati che hanno mutato: una confusione mio quartiere: è morto durante la prima guerra mondiale... Senti che cosa scrive il Pitré: 'La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata applicata al ladro, ed al malandrino, ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s'è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è semplicemente un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l'essere mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l'esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, d'ogni urto d'interessi e d'idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi ragione personalmente da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lul'." "Scrive come un angelo." "Come un angelo, sì: ma non è che non dica qualche fesseria..." "Davvero? A me è parso preciso e giusto come il Vand'in~erno... Questa è poi una di quelle parole su cui si possono dire le più diverse fesserie; fesserie dotte, fesserle che hanno tutte una loro logica... Il fatto è che ognuno, prima di vedere qual è l'origine della parola, cerca di sapere il significato che in atto ha: e qui cominciano i guai; ché chi ritiene che la parola significhi uno stato d'anlmo se ne va per una via, e chi invece ritiene si- gelo." gnifichi uno stato di fatto ne imbocca un~altra..Ecco il "Leggi il Vangelo, tu?" Petrocchi, che scrive la parola con due effe, all~italiana E un modo di dire..Ma qualche volta l'ho sentito 'Unione di persone d'ogni grado e d'ogni specie che si le~r" dànno aiuto nei reciproci interessi, senza rispetto né a leggl, né a morale'; e la mette in relazione, ma con molta incertezza, all'antico francese ma~qer, da cui ma?é e ma~u: mangiare, ingozzarsi..." "Non mi piace." "Dà il voltastomaco.. Mangiare, ingozzarsi: che men-


tallta!... Perché è questlone di mentalità: un simile collegamento non sarebbe mai venuto in mente a un uomo come il Pitré; un vecchietto che pareva campasse d'aria leggero come un uccello. Io me lo ricordo, abitava nei "Sai che dice il Vangelo? 'A chi ti dà uno schiaffo, porgi l'altra guancia': ti senti animo di farlo?" "A chi mi dà uno schiaffo, io gli sparo in bocca." "Bene... Ci sono fesserie anche nel Vangelo, dunque.. Ma torniamo al Pitré..." "Ho capito, ho capito dove casca l'asino: prima ha detto che la mafia non è associazione, e poi che uno può anche farsi ragione per mezzo di altri: e dunque l'associazione c'è'?. "Sei intelligente, ma devi imparare a parlare: non si dice 'ho capito dove casca l'asino', quando si parla di un grand'uomo, di una gloria della nostra terra." "Era un modo di dire." "Tu devi guardarti dai modi di dire, dai proverbi, dalle parabole: le cose devi dirle nel modo più secco e più corretto, con educazione, con tatto." "Cristo di Dio, forse che ho istruzione? L'università io l'ho fatta in mezzo alle pecore." "E tu lasciati scappare un 'Cristo di Dio' davanti alla commissione.. ." "Ma è sicuro che mi chiamerà, la commissione?" "Sicuro com'è sicura la morte: e io starei a perdere tempo con te, se non fossi sicuro? Ti chiamerà." "Sudo freddo, a pensarci." "Quante volte sei stato chiamato dai carabinieri quante volte sei comparso davanti a un giudice istruttorei" l'Acqua passata, ormai: sono più di dieci anni che nessuno mi dà fastidio... Questa è poi una cosa nuova... La commissione, dico: chi sa come si regola, chi sa quello che domanda... Il carabiniere, il giudice, chiedono di un certo fatto, di una certa persona: se sono stato in mezzo al fatto, se ho rapporti col tizio e col filano, e dove stavo quella sera, a quell'ora... E uno le risposte se le prepara prlma, ad ognl botta ha pronta la risposta... Ma la commissione, a quanto capisco, può domandare quello che vuole: e bisogna avere la mente pronta, i nervi sereni..." "Ti ho mai fatto fare uno sbaglio, un passo falso, una fesseria?" "Mai." "E dunque non ti preoccupare... Io, perché tu lo sappia, chiedero di essere sentito dalla commissione." "Lei ?" "Sì, mio caro, proprio io: ho anch'io da dare il mio piccolo contributo." "Ma..." "Un contributo alla confusione, si capisce... E te lo garantlsco lO che ad un certo punto non si capirà più niente: tra storia, filologia e lettere anonime non si capirà più Il mare colore del vino 1327 niente, niente... Hai idea della quantità di lettere anonime che riceverà la commissione? Nel 1943, quando gli americani mi fecero sindaco, io ne ho ricevute un migliaio: un paese intero veniva a risultare, dalle lettere anonime, fatto di spie dell'Ovra; persino l'onorevole Panebianco, che era stato in galera fino alla caduta di Mussolini. E le stesse lettere ricevevano gli americani: e dapprima le ritennero veritiere, arrestarono qualcuno e lo portarono ad Orano.


Poi le lettere diventarono una valanga: e allora anche loro capirono... Figurati quello che succederà ora... Questa è una terra, mio caro, in cui nella stessa faccia, nella tua o nella mia, un occhio odia l'altro occhio... Vedrai..." "Questo è vero." "Torniamo dunque al discorso... Secondo il Fanfani..." "E lei va parlando ancora di Fanfani?" "Non Amintore, bestia: parlo di Pietro Fanfani, autore di un vocabolario italiano dove la parola maffia, due effe, è data col significato di 'società segreta in Sicilia' e fatta derivare dall'arabo maehfil, che vuol dire adunanza e luogo di adunanza. Dello stesso parere sono lo Zambaldi e il Rigutini; e un po' tutti, fino al Palazzi... E la definizione del Palazzi te la voglio leggere, ché è spassosa: la prima parte è copiata dal Petrocchi, poi dice che 'non sempre la mafia ha per fine il male, ma i mezzi che essa usa sono sempre illeciti; era diffusa un tempo in Sicilia'. Spassosa, spassosa davvero." "Mi piace; quando dice che la mafia non sempre ha per fine il male, mi piace... Questo qui è un galantuomo." "Non è che sia un galantuomo: è che si è fidato di altri alantuomini... Ma la cosa divertente è questa: 'era diffusa un tempo in Sicilia'." "Lo diciamo anche noi, che la mafia non c'è più... Una volta l'ha detto anche il ministro..." "Noi e il ministro non facciamo vocabolari... E considera che questo è stato stampato nel 1948... Un tempo! A1 tempo di re Martino, forse... E veniamo ai siciliani, agli studiosi siciliani: il primo vocabolario siciliano che registra la parola è quello del Traina, 1868; e la dà come nuova, forse proveniente dal toscano smàkri, che vuol dire sgherri.. ." "Non mi piace." "...o, e questo ti piacerà di meno, dice che in Toscana la parola maffia vuol dire miseria, 'e miseria vera è credersi grand'uomo per la sola forza bruta, ciò che mostra invece gran brutalità, cioè l'essere gran bestia'. Ti piace?" "Mi fa schifo." "Ma poi aggiunge: 'Sicurtà d'animo, apparente ardire: baldanza'." "Comincia a ragionare." "Comunque, per non farla lunga sulla etimologia, eti-mo-lo-gia: cioè l'origine della parola, ci fermeremo al Padre Gabriele Maria da Aleppo, missionario cappuccino e professore di arabo, che così conclude una sua dotta ana11SI: 'Stando adunque al significato delle parole proposte qui sopra, la parola mafia in origine dovette avere il valore di protezione contro le soverchierie dei potenti, esenzione da qualunque legge sociale, riparo da qualunque danno, forza, robustezza di corpo, serenità d'animo, nconoscenza e gratitudine verso chi faceva dei benefizi da un canto, e dall'altro la parte migliore e più squisita di ogni cosa, ciò che corrisponde perfettamente a quanto dice il Pitré'. Le parole proposte dal Padre Gabriele sono queste, arabe: mohafat, che vuol dire difendere; hofuat, la miglior parte di una cosa; mohafi, amico, amico riconoscente... Questo per semplificare, per non confondertl la testa..." "Ne ha di dottrina, questo cappuccino!" "Ne ha, ma non mi persuade. Mi persuade di più il Fanfani, a dirla tra noi." "Fanfani? E che è dei nostri, ora~" "Devi fare attenzione, mio caro, devi fare attenzione... Ho detto il Fanfani, e ti ho già spiegato che non ha niente a che fare con l'uomo politico... Dunque non pre-


sti atrenzione alle cose che io ti sto spiegando." "11 fatto è, chiaro parlando, che in queste cose stiamo perdendo del tempo, mi pare: Cristo di Dio, e che me ne faccio di questa scienza delle parole! Io la mia scienza, tutta la scienza del mondo, la tengo nel portafoglio e nella schioppetta a due canne." "E allora ha ragione il Traina: ti credi un grande uomo solo perché sei una grande bestia... Ma io me ne fotto, tanto su di me non ci piove: vi lascio in pasto ai cani, vi lascio... Tanto, tu e quelli che la pensano come te, avete la scienza del portafoglio, della schioppetta a due canne e delle automobili cariche di dinamite... Perché ora la vostra scienza si è arricchita della dinamite, del tritolo: con questo bel risultato... Lasciatele fare ai tedeschi del Tirolo, queste cose: gente fanatica, gente pazza; fascisti..." "Funzionava però, la dinamite, funzionava: anche lei, in principio, quando..." "Mettiamo le cose a posto: in principio, come dici tu, ché io non so bene quand'è stato il principio voi mi avete detto 'questa storia della lupara deve finire, ormai tutti t)arlano di lupara, questa è diventata la terra della lupara, facciamo brutta figura all'estero: ci sono mezzi migliori, più sbrigativi, più sicuri; e quando non si deve sbagliare il colpo, è meglio servirsene... E abbiamo un giovane che in fatto di esplosivi è un padreterno...': e io vi ho lasciato fare, voi e il vostro padreterno; un padreterno che abbandona l'automobile senza disinnescare l'ordigno... Un padreterno!" "Lei sa com'è andata la cosa: un momento di panico, una distrazione..." "Una distrazione! Una distrazione che fa succedere il finimondo, una distrazione che ne sente il botto il mondo intero: con tutte le conseguenze che vedete." "Ma avevo fatto telefonare: non toccate la macchina, che succede l'inferno." "E quelli invece l'hanno toccata... E davvero ti aspettavi che non la toccassero? E perché, per una telefonata anonima? Poteva essere uno scherzo." "Mi dispiace, ma quello che è fatto è fatto... Mi dispiace per i soldati, che non c'entravano." "Non c'entrava nessuno, di quelli che sono morti... E il bello è che poi, a me, tocca partecipare ai funerah." "Non è la prima volta." "Sei diventato spiritoso, a quanto vedo." "Io spiritoso? Con lei? Ma non mi permetterei mai!" "Bene... Lasciamo stare, dunque, questi mezzi da terroristi: noi non siamo anarchici, siamo persone d'ordine... E i conti che abbiamo da regolare, da oggi in poi li regoleremo all'antlca.'' "I ragazzi però ci avevano preso gusto..." "Certo che l'effetto era grande, non lo posso negare... Ma non ci si può mettere su questa strada... O credi che dobbiamo metterci a lavorare per avere anche noi la bomba atomica?... Discrezione, ci vuole; saggezza, studio, tatto... Il nostro problema, per ora, è quello della commissione d'inchiesta: affrontiamolo con tranquillità di mente... Dunque: il Pitré dice che la parola mafia, quale che sia la sua origine, anche se registrata per la prima volta nel 1868.;; Da quale dizionario è stata registrata per la prlma volta? "Dal Traina." "Bravo... Anche se registrata per la prima volta nel 1868 esisteva prima della venuta di Garibaldi... E che esistesse anche la cosa, cioè l'associazione, è provato dal fatto


(aggiungo io) che i mafiosi della Vicaria, quei mafiosi che erano chiusi in prigione, fecero nel 1860 un proclama, nvolto agh amlci che erano liberi, in cui raccomandavano che si comportassero bene, che non commettessero furti, rapine e omlcldi che i Borboni potessero di fronte al mondo, per propaganda come oggi si dice, attribuire alla rivoluzione garibaldina..." "Questa non la sapevo." "Ci sono tante cose che non sai, e che è bene sapere... La cultura, mio caro, è una gran bella cosa..." GIOCO DI SOCIETA

La porta improvvisamente si aprì mentre la sua mano ancora esitava sul pulsante del campanello. La donna disse: "Entri, l'aspettavo" sorridendo, la voce gorgheggiata come se veramente stesse realizzandosi per lel un avvemmento desiderato, aspettato con emozione e con gioia. Lui pensò che c'era un equivoco, tentò di calcolarne le conseguenze. Restava sulla soglia smarrito, un po' stravolto. Sicuramente, pensò, lei stava aspettando qualcuno: qualcuno che non conosceva o che conosceva appena o che non vedeva da tanti anni. E non aveva gli occhiali, poi; e di solito, sapeva, li portava. "Mi aspettava?" "Certo che l'aspettavo... Ma entri, la prego" sempre gorgheggiando. Entrò, fece tre passi sul pavimento di ceramica che riproduceva una antica carta nautica: pesantemente, come in un pantano. Si voltò verso di lei che già aveva chiusa la porta e sempre sorridente gli indicava una poltrona. Tentò di chiarire l'equivoco, di sapere. "Ma lei chi aspettava, precisamente?" "Precisamente?" fece eco lei con un sorriso ora ironico. "Ecco: io..." "Lei... ?" "Insomma, credo che..." "Che io stia scambiandolo per un altro." Non sorrideva più. E pareva più giovane. "Ma no, aspettavo proprio lei... Vero è che non ho gli occhiali, ma gli occhiali 1332 Il mare colore del vino mi servono per le cose vicine. L'ho riconosciuta quando era al cancello. Ora forse, da vicino, ho bisogno degli occhiali: così né lei né io avremo il minimo dubbio." Gli occhiali erano posati su un libro aperto, il libro sul davanzale della finestra. Aspettandolo, l'orecchio certo intento a cogliere il cigolìo del cancello, aveva cominciato a leggere il libro: ma ne aveva letto poche pagine. Lo assalì l'insensata curiosità di sapere che libro fosse, quale lettura si era scelta per ingannare l'attesa. Ma come mai lo attendeva? Era caduto in una trappola, in un tradimento, o c'era stato un pentimento improvviso da parte dell'uomo che lo aveva mandato? Stranamente, gli occhiali dalla montatura nera e pesante la fecero apparire ancora più giovane: lo sguardo, dilatato dalle lenti, assunse un che di meravigliato, di spaurito. Ma non era né meravigliata né spaurita. Gli voltò le spalle come a sfidarlo, anzi. Aprì il cassetto di uno scrittoio, tirò fuori delle carte. Quando si voltò e gli Sl avvlclnò aveva m mano un ventaglio di fotogra~ie. "Sono un poco sfocate" disse "ma non c'è dubbio. Questa è stata scattata alle undici del venti giugno, in via Maz-


~ini: lei è con mio marito; quest'altra alle cinque del pomeriggio, in piazza del Popolo: ventitre luglio, lei è solo, sta chiudendo la macchina dopo aver posteggiato; e in quest'altra ancora c'è anche sua moglie... Vuole vederle? Il tono era ironico ma senza malanimo, quasi svagato. Lui si sentì finalmente caricato per fare quello che doveva fare. Ma non poteva; per quel tanto che riusciva a connetrere, non poteva più, non doveva. Fece segno di sì, che voleva vederle. Lei gliele diede, restò a guardarlo con la leggera e compiaciuta ansia di chi mostra fotografie familiari, di bambini, e se ne aspetta complimenti. Ma l'uomo era come parahzzato, le percezioni i pensieri i movimenti gli accadevano lenti e remoti, disperatamente pesanti. E il compllmento venne da lei, banale e feroce. "Ma sa che lei è fotogenico?e infatti la sfocatura non arrivava a velare la sua identità, mentre un po' confondeva quella di sua moglie e del commendatore. Il mare colore del vino 1333 "Si accomodi" disse la donna indicandogli la poltrona vicina: e lui vi si sprofondò come nella frana della sua esistenza. Poi: "Vuole bere qualcosa?" e senza aspettare risposta prese due bicchieri, una bottiglia di cognac. Si trovò col bicchiere in mano, di fronte a lei che sorseggiava dal suo guardandolo con divertimento. Bewe. Si guardò intorno come chi rinviene da un collasso. Bella casa. Le restituì le fotografie. "E una bella ragazza, sua moglie. Somiglia, non so se lei lo sa, alla principessa di Monaco. Ma su questa fotografia posso anche sbagliare. Sbaglio?" "Forse non sbaglia." "Dunque lei non se ne era mai accorto." Ancora quell'odiosa risata gorgheggiante. "Ne è innamorato?" Non rispose. "Non mi giudichi indiscreta, non è per curiosità che glielo domando." "E perché dunque?" "Vedrà... Ne è innamorato?" Respinse la domanda con un gesto della mano. "Non vuole rispondermi o debbo intendere che non ha nessun sentimento nei riguardi di sua moglie?" "Come vuole." "Io voglio una risposta precisa." Lo disse duramente, con minaccia; poi con tono suadente e accorato: "Perché, vede, io debbo sapere prima se lei può sopportare". "Prima di che?" "Lei ha già risposto alla mia domanda." "Non mi pare." "Ma sì. Io le ho detto: debbo sapere prima se lei può sopportare; e lei non mi ha domandato che cosa avrebbe dovuto sopportare, quale rivelazione riguardo a sua moglie, al suo amore per lei... Si è attaccato subito a quel 'prima'. Prima di che? Giusto. Non è di sua moglie che si preoccupa, ma di se stesso. Giusto. Va bene così." "Glielo domando ora: che cosa dovrei sopportare?" "Quello che le dirò." "Su mia moglie? E si preoccupa se posso sopportarlo?" Il mare colore del vino "Su sua moglie. E mi preoccupavo di sapere come lei avrebbe reagito perché noi due siamo destinati a una lunga e solida amicizia, e dovremo lasciarci alle spalle tante cose. Sempre che lei lo voglia, si capisce."


"Ma mia moglie..." "Ci arriverò. Intanto mi dica: ha capito?" "Che cosa?" "Queste fotografie, il fatto che stessi aspettandola: ha capl to ' " "No " 'Non mi deluda: se davvero non ha capito, le mie speranze crollano. E anche le sue." "Le mie?" "Certo anche le sue. Non le ho detto che diventeremo amici? Sinceramente dunque mi dica: ha capito?... E non abbia paura di parlare, non c'è nessun microfono nascostonessun registratore in funzione. Può accertarsene, del rcsto... Io sto per offrirle un lavoro semplice, rapido, reddinzlo e senza rischi. Senza dire che sto salvandola da un pericolo immcdiato, sicuro. Deve ammettere, dunque, che ho almcno il diritto di conoscere il suo quoziente di intelligcnza... E allora: ha capito?" l'on del tutto." 'Naturalmente... Mi dica che cosa ha capito." "~o capito che lei sa." "Risposta breve ed esauriente. Vuol sapere ora come ci sono arrivata?" "Mi piacerebbe." "Pcrderemo del tempo, ma è giusto che lei sappia... Ma a che ora deve incontrarsi con mio marito? Perché è benc- che glielo dica subito: la base della nostra futura amlcizia sarà l'incontro che lei stasera avrà con mio marito. A che ora?" "Ma non dobbiamo incontrarci." "Ecco che lei ancora diffida. Conosco benissimo mio marito: non poteva non darle appuntamento per stasera. A che ora?" "A mezzanotte e un quarto." Il mare colore del vino 1335 "I)ove?" "In una stradetta di eampagna, a trenta chi lometri da qui.' "Bene, abbiamo tempo... Ma forse è meglio che sia lei, ora, a farmi delle domande." "Non saprei da dove eomineiare, sono piuttosto eonfuso." "Davvero? Mi aspettavo lei fosse un tipo più pronto, di riflessi più rapidi, di immediate riflessioni. Ma forse il punto della sua meraviglia, della sua eonfusione, sta nel fatto che mio marito non le ha detto niente di me, del mio earattere, della mia eapaeità a intuire i suoi pensieri più segreti. Dopo quindiei anni di vita in eomune, un uomo eome lui e un libro aperto per una donna eome me. Un libro molto seioeeo, molto noioso. Lei che ne diee?" "Di che?" "Di mio marito." "A giudieare dalla situazione in eui mi trovo in questo momento, è un imbeeille." "Sono eontenta di sentirglielo dire. Ma avrebbe potuto eapirlo anche prima, che imbeeille è. Capiseo, però, eome lei sia stato abbagliato dalla sua prestanza, dal suo modo di fare, dall'autorità e dal denaro che eontinuamente, ma anche eon una eerta aeeortezza, una eerta nonehalanee, fa mostra di possedere... E di denaro ne possiede, non si allarmi... Aneh'io, d'altra parte, ei sono eaduta. Non che ne sia pentita: il mio solo disappunto è di averlo sposato di-


eiamo per amore inveee che per ealeolo. Ma l'avrei sposato in ogni easo; e il mio ravvedimento è stato poi immediato. E mi ero, non dieo adattata, ma addirittura adagiata, in una situazione che mi eonsentiva di sfogare eaprieeio e dispetto, una situazione che mi offriva tutto quello che una donna può desiderare, eompreso il disprezzo per l'uomo che le vive aeeanto, ed eeeo che l'imbeeille viene a rompere l'equilibrio." "Non direi, però, che è eosì totalmente imbeeille eome lei lo eonsidera: nel easo in eui mi trovo, sì, non e'è dubbio, si è eomportato seioeeamente, senza preeauzione... 133G Il mare colore del vino Ma è un uomo che si è fatto da sé, almeno così mi ha detto, così dicono tutti: e si è fatto molto ricco, molto potente..." "Lei ha un'idea da romanzo rosa, da manuale americano del successo, sugli uomini che si fanno da sé. Io conosco non solo mio marito, ma una cerchia piuttosto vasta di uomini che si sono fatti da sé: e posso assicurarle che sono stati fatti, tutti, dagli altri; i quali, a loro volta sono stati fatti da circostanze, combinazioni e intrallazzi che, anche se arrivano all'altezza della storia, restano fortuiti e miserabili... Nell'ultima guerra, mio marito era nei battaglioni della milizia fascista insieme a Sabatelli, che è pOI diventato ministro dei lavori pubblici: entrambi volontari. Tutto qui. E Sabatelli lei non immagina nemmeno che cretino è. In una società bene ordinata, onesta, in cui non si fanno carte false, in cui la capacità e il merito camminano da soli, la sorte più benigna li avrebbe portati sulla soglia di un ufficio pubblico, come uscieri, e la più maligna oltre la soglia di un carcere. Invece..." "Invece sono ricchi, potenti e rispettati... Ma lei mi ha invitato a farle delle domande. Posso?" Fermata nello slancio oratorio, fece segno di sì: ma contrarlata, stizzita. "Le mie curiosità sono molte, ma la più immediata è questa: perché proprio stasera mi aspettava?" "Perché oggi, a tavola, mio marito mi ha chiesto se avevo intenzione di passar fuori la serata: al cinema, da qualche amica; ché lui sarebbe tornato tardi, molto tardi, per una riunione del consiglio di amministrazione di una delle sue società. E di riunioni simili, durante questa estate, ne ha avute altre due: e dunque la terza doveva essere quella buona. Buona per lui, fatale per me. Perché non dico io, che lo conosco profondamente, ma chi tiene con lul una certa dimestichezza, sa che è tutto dedito a un'idea di superstiziosa perfezione basata sul tre. E non parliamo poi del nove, su cui addirittura delira. La terza riunione, dunque; il giorno tre; e lei è arrivato puntualmente alle nove. E stato lui, non è vero, a dirle che avrebbe dovuto suonare il campanello alle nove in punto?" "Sì, ma io credevo..." "...che fosse un dettaglio calcolato dalla sua mente organizzatrice. Ma lei non sa quanto poco organizzatrice sia la sua mente, ammesso che ne ab ia una. E vogho aggiungere che nella sua decisione di affidarle una missione così... delicata diciamo, rischiosa... certamente ha giocato il fatto che lei sia un professore di matematica. Lui conosce appena la tavola pitagorica, e perciò coltiva la convinzione che le sue rapine, e tutte le rapine che riescono, at-


tingano alla matematica più sublime. In certe rapine alle banche, poi, addirittura sente la musica delle sfere. Quelle rapine di cui si legge nei giornali: cronometrate, perfette... E quando non sono perfette, lui SUI resocontl le studia, ne coglie le debolezze e gli errori, le porta alla perfezione ideale. Così è accaduto in questo caso. C'è stato, qualche anno fa, un delitto di cui certo anche lei si ricorda, un processo famoso. Mio marito ci si è appassionato, è arrivato al punto che mandava un suo impiegato, ogni mattina, a prendere posto nell'aula dell'assise, che glielo tenesse per il caso lui avesse il tempo di andare ad assistere; e più di una volta il tempo l'ha avuto. Nel tempo stesso che cercava gli errori che avevano portato il protagonista nella gabbia degli imputati, ecco che lui ne faceva uno. Se oggi lei... Insomma, se le cose fossero andate secondo il piano, almeno una diecina di persone si sarebbero ricordate del suo interesse a quel processo, e specialmente l'impiegato che gli teneva il posto e uno dei giudici, che lo conosce bene e che qualche volta, dall'alto dello scranno, gli faceva un sorriso." "E da allora che lei ha cominciato a sospettare?" "Anche da prima; ma è dalla sua passione a quel processo che ho capito che le intenzioni andavano concretandosi in un piano preciso." "E allora si è rivolta a un'agenzia di investigazioni." "Una cosa molto lunga, molto costosa; ma, come vede, ne valeva la pena. Per un paio d'anni l'agenzia non mi ha Il mare colore del vino rapportato altro che le sue infedeltà. C'era da ridere: le sue infedeltà! Già dopo pochi mesi che eravamo sposati non me ne importava niente. Lui le donne le aveva sempre pagate, continuava a pagarle, aveva pagato anche me col matrimonio credendo che il mio prezzo, per quanto ingente e di lunga durata, fosse sopportabile." "E non era sopportabile?" "Evidentemente no." "Voglio dire: perché gli è diventato insopportabile?" "Per colpa mia, naturalmente. Ho fatto di tutto per allontanarlo da me, per respingerlo al margine della mia vita, delle mie giornate, delle mie notti. Un margine molto esiguo, un piccolo tapis roulant di assegni... No, non ho avuto altri uomini. O meglio: una volta sola quando ho cominciato a disgustarmi di mio marito. Così, tanto per provare. Prova fallita. Non si faccia illusioni, dunque." Gli venne una vampata di collera, cercò una risposta violenta. "Non si offenda. So bene di non essere né bella né giovane, lei potrebbe anche dirmi che sono brutta e vecchia. Ma io volevo dire che lei facilmente potrebbe farsi l'illusione di poter raggiungere tutto il mio denaro, invece che una parte, passando sul mio corpo vivo dopo essere passato sul corpo morto di mio marito: e io invece voglio che tutto sia tra noi chiaro fin da ora." "Dunque lei riconosce che suo marito non ha poi tutti i torti." "Io non riconosco niente; e se lei al punto a cui è arrivato, a cui siamo arrivati, ha voglia di pesare i meriti delle sue due possibili azioni, l'esecuzione del piano di mio marito o l'esecuzione del mio, sulla bilancia dell'arcangelo, è affare suo. Ma è un cattivo affare, immischiare la bilancia in queste cose. Questo tipo di bilancia, dico. Lei" e si aprì a un sorriso complimentoso "è un piccolo,


avido delinquente: non si permetta dei lussi che possono perderla." "Non sono un delinquente." Il mare colore del vino 1339 "Davvero?" "Non più di lei." "D'accordo. E molto meno di sua moglie, direi." "Forse. Ma lei come può dirlo?" "Lo deduco da quello che so. Lei non sa che sua moglie, diciamo così, frequenta altri uomini?" "Non è vero!" "Ma sì che è vero. E non se la prenda. Che cosa possono togliere a una donna come sua moglie, tutti gli uomini che frequenta? Siete una bella coppia, state bene assieme, desiderate le stesse cose, non litigate mai, i vicini vi guardano con simpatia... Il primo rapporto che l'agenzia di investigazioni mi ha mandato su di voi, dice cose davvero carine: lei ha ventidue anni, insegna in una scuola materna, molto bella, vivace, elegante; lui ha ventisette anni, supplente di matematica in una scuola media, simpatico, serio; molto innamorati, molto tranquilli... Il secondo rapporto, e poi tutti gli altri, su di lei non dicono niente di diverso, ma di sua moglie rivelano un'attività insospettabile, sorprendente. Per denaro, senza dubbio. Perciò anche se veramente, fino a questo momento, lei non sapeva, si tranquillizzi. Per denaro, soltanto per denaro... Sa che una volta, una volta sola, è andata anche con mio marito?" "Lo sospettavo. L'ho sospettato, cioè, in principio: ho creduto che suo marito si fosse attaccato a noi soltanto perché voleva arrivare a mia moglie. Non che mia moglie ci stesse, però. E poi il sospetto svanì: non avevo più ragione di credere che venisse a tentare mia moglie, se quello che voleva da noi, da me, l'aveva ormai dichiarato. "Nel piano di mio marito, invece, una piccola liaison con sua moglie ci voleva. Per servirsene, credo, nell'eventualità che lei, per caso o per una qualunque disattenzione nell'esecuzione del piano, si scoprisse. Allora avrebbe detto: ho avuto una relazione con sua moglie, lui è venuto a saperlo, per vendetta ha ucciso la mia; o l'ha uccisa perché è venuta a cercare me, per uccidermi, e lei gli ha 1340 Il mare colore del vino resistito o l'ha mortificato o in qualche altro modo ha suscitato la sua violenza... Ma non cominci a rodersi nel sospetto che in ogni caso, e d'accordo con sua moglie, mio marito avrebbe portato la polizia sulle sue tracce: non arriva a queste finezze. E poi sono sicura che sua moglie non avrebbe mai consentito a questa soluzione finale: credo di aver capito che tipo di donna è." "Che tipo di donna?" "Mi somiglia. Somiglia a tante altre... Adoriamo le cose, abbiamo messo le cose al posto di Dio dell'universo dell'amore. Le vetrine sono il nostro firmamento, gli armadi a muro e le cucine americane contengono l'universo. Le cucine in cui non si cucina, abitate dal Dio dei caroselli televisivi... Mio padre, che era un piccolo borghese, passò tutta la vita in case d'affitto, senza mai sentire l'esigenza di possederne una. Oggi non c'è rivoluzionario che non voglia essere proprietario della casa in cui abita; che non si getti nei debiti, nei mutui venticinquen-


nali, per il possesso di una casa. L'idea dell'eternità, l'idea dell'inferno, si sono contratte nei mutui bancari venticinquennali. Sono le banche che amministrano la metafisica. Ma lasciamo perdere... Sua moglie, dunque, mi somiglia. Ci somigliamo tutte, oggi, questo è il guaio. Sua moglie, m plù, ha mdifferenza o innocenza. Sono certa che è stata lei a infiammarsi per prima, quando mio marito vi ha proposto l'affare... A proposito: in che termini ve l'ha proposto?" "Ha già versato a nostro nome, in una banca di Amburgo, una grossa somma." "Quanto?" "Duecentomila marchi." "Dunque lei poteva stasera, invece di venire qui, volare ad Amburgo e..." "Potevo. Ma tra due anni, se tutto fosse andato liscio, avrei avuto altri quattrocentomila marchi." "Ne avrà da me cinquecentomila, e tra sei mesi. Si fida?" "Non lo so." Il mare colore del vino 1341 "Deve fidarsi. E tenga presente che il mio piano comporta un rischio minimo, mentre quello che lei stava per eseguire l'avrebbe defilato in galera con certezza, è il caso di dire, matematica. L'agenzia di investigazioni era incaricata, nel caso mi fosse accaduto qualcosa, di mandare copie dei rapporti e delle fotografie alla polizia... Mentre ora, anche ammettendo che io non tenga fede all'impegno o che addirittura abbia intenzione di tradirla, lei corre soltanto il rischio di non avere altro denaro e di essere condannato per omicidio passionale, d'onore. Due o tre anni di carcere, e c'è sempre di mezzo un'amnistia. Anzi, non dimentichi questo mio buon consiglio: nel caso lei cadesse in trappola, si attenga sempre al tradimento di sua moglie, all'atroce delusione che mio marito le ha dato. Sempre." "Pensandoci bene, lei forse mi sta appunto mettendo nella trappola." "La riterrei un cretino, se non se ne andasse da qui con questo sospetto..." Guardò l'ora, si alzò, sorridendo domandò. "Mi giudicherà indiscreta se le chiedo di che morte doveva farmi morire?" "Pistola." "Benissimo... Se ne vada ora, è quasi al limite del tempo che ci vuole per raggiungere il posto dell'appuntamento. E auguri." L'accompagnò alla porta dolcemente sorridendo, materna. Prima di chiuderla, quando lui si era già avviato verso il cancello, lo richiamò con un bisbiglio. "Mi raccomando: più di un colpo, è molto robusto" col tono di sollecitare particolari attenzioni per un bambino gracile. E poi: "C'è il silenziatore, immagino". "Nella pistola? Sì, c'è." "Bene. Di nuovo auguri." Chiuse la porta, si appoggiò con le spalle. Aveva un sorriso incantato, gustò ogni sillaba dicendo: "Il silenziatore: omicidio premeditato". Si avvicinò alla finestra. Lo vide uscire dal cancello. Sedette in poltrona. Si alzò. Passeggiò. Sfiorò con le mani, quasi facesse musica, mobili e oggetti. Si fermò dall ma~re co~ordel vino vanti ai quadri. Guardò l'orologio. Andò al telefono, fece


Il numero, con voce agitata disse: "Mio marito è ancora m ufficio?... E già andato v ia.... Sono preoccupata, molto preoccupata Sì, lo so che non è la prima volta che fa tardi; ma stasera è accaduto un fatto che mi inquieta... E venuto a cercarlo un giovanc aveva un'aria sconvolta, minacciosa; si è messo qui ad aspettarlo; se ne è andato propno ora. Mi ha fatto paura... No, non è soltanto un'impressione; è che so per quale ragione il giovane poteva essere così sconvolto. così minaccioso... Ma mio marito è andato via da quanto tempo?... Sì, grazie. Buonasera... Sì, buonanotte. Riattaccò, fece un altro numero, parlò con voce più agitata e accorata. "Commissariato? C'è il commlssarlo Scoto?... Me lo passi; subito, per favore... Oh commlssario. sono fortunata a trovarla in ufficio a quest'ora... Sono la signora Arduini... Senta, sono preoccupata, molto preoccupata... Mio marito... E imbarazzante per me, umiliante: ma non posso fare a meno di dirghclo...io marito ha una relazione con una donna sposata, una donna molto giovane, molto bella... Lo so perché l'ho fatto sorvegliare da un'agenzia di investigazioni, non ho vergogna a confessarlo... No, non voglio accusarlo di adulterlo; al contrario, sono preoccupata che gli succeda qualcosa.. Perché, vede, stasera è venuto qui il marito di lei, un giovane professore: era molto agitato, stravolto. L'ho fatto entrare incautamente; e si è messo qui con atreggiamento minaccioso, ad aspettare mio marito. Per un paio d~ore. Ho tcntato di farlo parlare. ma non rispondeva che evasivamente, con poche parole. Ora se ne è andato... Sì, da qualche minuto... Ho telefonato a mio marito per avvertirlo, ma già aveva lasciato l'ufficio. Dovrebbe essere già qui, lei non potrebbe fare qualcosa?... Sì, va bene"uasi piangendo'aspetterò ancora mezz'ora e la rlchiamero... Grazle." UN CASO DI COSCIENZA

Il viaggio da Roma a Maddà, su un treno che partendo da Roma alle otto del mattino arrivava a Maddà sette minuti dopo la mezzanotte, l'avvocato Vaccagnino sistematicamente lo impiegava leggendo un quotidiano, tre rotocalchi e un romanzo poliziesco. Almeno una volta al mese gli toccava fare quel viaggio: e all'andata ristudiava e riordinava le carte che erano ragione del suo viagglo, al rltorno si dava a plU svagate letture. Ma il quotidiano, i tre rotocalchi e il romanzo erano ormai misura di un viaggio in orario, dalle otto alla mezzanotte, con l'intervallo dei due pasti: uno sul vagone ristorante, l'altro sul traghetto. Il guaio era quando il treno si caricava di ritardo: consumata la carta stampata, non potendo nemmeno dedicarsi a guardare la campagna o il mare che ora scorrevano nella notte amorfa, il sonno cominciava a insidiarlo; e c'era pericolo andasse a finire, pesantemente addormentato, alla stazione terminale, come una volta gli era capitato. Perciò, quando il ritardo si verificava, nel treno ormai quasi vuoto l'avvocato si dedicava alla ricerca di giornali abbandonati dai viaggiatori, e si sentiva salvo quando ne trovava qualcuno, fasasta o di moda o di fumetti che fosse. E fu così che una notte d'estate, col treno che già a Catania aveva quaranta minuti di ritardo ed era prevedibile ne avesse centoventi prima di arrivare a Maddà, l'avvol i44 Il m~re colore del vino


cato si trovò immerso nella lettura del settimanale 'Vol': moda, casa, attualità. E prima lo sfogliò soffermandosi a contemplare le immagini di una moda che, per quanto del corpo delle modelle scopriva, era senza dubbio piena di vlvacità e di grazia, ma sarebbe risultata indecente a vestire il corpo di una moglie, di una figlia, di una sorella. Non che l'avvocato fosse, per carità!, di vedute ristrette, che non ammettesse il corso della moda anche a Maddà: ma il fatto era che non tutti, a Maddà, erano come lui capaci di vagheggiare le grazie femminili da un punto di vista puramente estetico; e il passaggio di una donna così vestlta (scollatura profonda e gonna cortissima) avrebbe provocato, tra i soci del circolo dei civili, una salve di gridi di desiderio e di sconce considerazioni tale da costringere il marito, il padre, il fratello della donna a subire mdecorosamente o a compromettersi con una violenta reazlone. Il settimanale era voluminoso, per fortuna. Arrivato all'ultima pagina, l'avvocato cominciò a risfogliarlo per cominciarne la lettura. Tanta pubblicità, e poi La coscienza, l'an~ma. Risponde Padre Lucchesini. L'avvocato si tolse le scarpe, distese le gambe sul sedile di fronte, cominciò a leggere. E subito ebbe un piccolo soprassalto: "Un caso molto delicato e complesso ci sottopone una lettrice di Maddà. 'Qualche anno fa, in un momento di debolezza, ho tradito mio marito con un uomo che frequentava la nostra casa, un mio parente di cui sempre, fin da ragazza, sono stata un po' innamorata. La nostra relazione è durata per circa sei mesi, ma anche mentre durava io continuavo ad amare mio marito, ed ora lo amo più di prima e la piccola mfatuazlone che avevo per quel mio parente è del tutto finita. Ma soffro per avere ingannato un uomo tanto buono, tanto leale e fedele, tanto innamorato di me. Ci sono momenti che sento l'impulso di confessargli tutto, ma mi trattiene la paura di perderlo. Sono religiosissima: e perciò più volte ho confessato questo mio rimorso a dei sacerdoti. Tutti, tranne uno (ma era un continentale), mi hanno detto che se il mio pentimento è sincero e l'amore Il mare colore del vino 1345 per mio marito intatto, debbo tacere. Ma io continuo a soffrire. Lei, Padre, quale consiglio può darmi?' " Lo stato d'animo che si dislagò nell'avvocato era di una soddisfazione che sfiorava l'esultanza. Se ne sarebbe parlato almeno per un mese, di quella lettera: al circolo, nei corridoi del tribunale, nelle riunioni di famiglie. Centinaia di ipotesi da fare, tante esistenze - di mogli, di mariti, di parenti delle mogli - da passare al vaglio della più sagace curiosità: pura, quasi letteraria, come la sua; maligna, tutta tesa a far scaturire un qualche fattacclo, come quella degli altri. Socchiuse gli occhi, levò la testa verso la lampada quasi per aver luce nella ricerca che lentamente, come una rosa da disfogliare petalo a petalo, cominciava ad aprirsi. 'E chi può essere?' si domandò a fior di labbro, soavemente. 'E chi mai può essere?': ma indugiando ad addentrarsi nella ricerca per il timore che l'identità della signora, attraverso i dati che la lettera offriva, gli si combinasse subito nella memoria. E l'indugio era talmente delizioso che il sonno, deliziosamente, vi si insinuò; l'avvocato però se ne scosse al pen-


siero, improvviso, che aveva ancora da leggere la risposta di Padre Lucchesini. Il Padre, era evidente, aveva cominciato a scrivere la sua risposta col sangue agli occhi: 'Un momento di debolezza? Un momento che dura sei mesi? Come può essere così indulgente verso se stessa, verso la sua colpa, da considerare debolezza di un momento un tradimento che è durato sei mesi, SEI MESI, a danno di un uomo, come lei stessa dice, buono, leale, fedele, innamorato?' Poi, appeso a un 'ma', veniva un grappolo di carità, di dolcezza: 'Ma se il suo pentimento è sincero, il suo rimorso sempre vivo, e tenace il proposito di mai più cadere nel peccato...' Insomma: 'Lei ha pagato e paga la sua colpa colla pena del rimorso; ma non può né deve spingerslino a confessare ad un uomo buono ed ignaro qual è suo marito, ad un uomo che ha per lei quella fiducia che si accompagna al vero amore, un tradimento la CUI conoscenza gll pro1346 Il mare colore del vino durrebbe un male forse irrimediabile. In astratto, non si può che lodare l'impulso della coscienza a confessare il tradimento consumato alla persona che ne è stata vittima; ma se questa persona ne è ignara e la rivelazione altro non le porterebbe che dolore e inquietudine, il dovere di tacere si impone. Tacere e soffrire. Giustamente dunque l'hanno consigliata quei sacerdoti che le hanno raccomandato di non rivelare a suo marito il tradimento. In quanto a quello che le ha consigliato il contrario, io credo che l'incauto consiglio sia da mettere in conto di una sua scarsa conoscenza del cuore umano e non del fatto che è come lei dice, un continentale. Preghi, comunque, preghi. e che il tacere sia per lei sacrificio più grande di una confessione all'uomo che ha tradito.' 'Bella risposta,' pensò l'avvocato, 'bella davvero. Indignazione, carità, buon senso: c'è tutto. E un uomo di primordine, questo Padre Lucchesini.' E dopo un grande sbadiglio, accendendo una sigaretta, si tuffò in una specie di gineceo in cui tutte le giovani e piacenti signore di Maddà timorose aspettavano che un uomo come lui, di rigorosi principi e di acuta intelligenza, tra loro scoprisse la colpevole, l'adultera. Ristorato da otto ore di sonno e da una gran tazza di caffè, mentre si vestiva l'avvocato Vaccagnino ripensò alla lettera della signora di Maddà. L'aveva ritagliata e conservata nel portafogli, pur sapendo che sua moglie era abbonata a 'Vol' e che copie del settimanale in paese dovevano circolarne almeno una cinquantina. E forse il punto di partenza per una indagine avrebbe dovuto essere questo: fare un elenco delle signore del paese che erano abbonate al settimanale o che abitualmente lo compravano dal giornalaio. Operazione non difficoltosa: il giornalaio era suo cliente; e l'ufficiale postale, messo al corrente della cosa sarebbe corso anche di notte ad aprire i sacchi postali. Ad ogni buon conto, qualche indicazione poteva anche farsela dare da sua moglie. E la chiamò. Quando la signora arrivò, con un "che vuoi?" impaIl mare colore del vino 1347 ziente, irta di bigodini e lucente di creme, l'avvocato si trovò però improvvisamente disposto ad assumere un tono dispettoso e inquisitorio. "Li leggi i giornali che compri?" domandò.


"Quali giornali ?" "Quelli di moda." "Sono abbonata solo a 'Vol'." "E gli altri li prendi dal giornalaio." "Non è vero, gli altri me li prestano le amiche" e la signora credeva si stesse per scivolare in una delle solite discussioni sui dispendi, le prodigalità, le spese folli che, secondo il marito, erano nodi che sarebbero arrivati al pettine, un giorno o l'altro. Ma l'avvocato non voleva incastrarsi in una discussione sul domestico bilancio: " 'Vol' " disse "appunto 'Vol': lo leggi" "Certo che lo leggo." "Anche la rubrica di Padre Lucchesini?" "Qualche volta." "E quella dell'ultimo numero, l'hai letta?" "No, non l'ho letta. Perché?" "Leggila." "Perché?" "Leggila, ti dico: vedrai..." La signora restò per un momento incerta tra l'insistere per sapere che cosa ci fosse di interessante, l'andarsene rispondendo al dispettoso tono del marito col dispetto di non leggere la rubrica e la curiosità di correre subito a leggerla. Prevalse, naturalmente, la curiosità; ma non volle dare al marito la soddisfazione di mostrare meraviglia e interesse per quel che aveva letto. Per cui l'avvocato, che voleva osservare le sue reazioni e strapparle qualche informazione, qualche sospetto, dopo un quarto d'ora di attesa di nuovo la chiamò. Ma la voce della signora venne dalla toletta, acuta di esasperazione: "Che c'è?" Dietro la porta chiusa l'avvocato domandò "L'hai letta?" 134S Il mare colore del vino "No" rispose seccamente la si~nora. Il mare colore del vino l'avvocato Vaccagnino. L'avvocato gliela consegnò: e Fa"Quanto sei cretina" disse l'avvocato: sicuro che lei l'a- vara, calandosi in una poltrona, si immerse nella lettura veva glà letta e per uno di quei ghiribizzi che variavano la con quella cOncentrazione che di solito dedicava ai rebus, loroelicità coniugale non volesse dargli il piacere di par- ai crittogrammi, alle parole crociate; e non si accorgeva lare della cosa. del silenzio che si era fatto, e dell'attenzione divertita o ansiosa di cui era diventato oggetto. Perché gli scapoli, i vedovi, i vecchi, i fortunati la cui moglie era del tutto priva di parenti, si stavano divertendo; ma una vera e propria ansietà era negli sguardi di coloro che si trovavano nelle condizioni stabilite da don Luigi: quasi che il comportamento di Favara fosse una specie di sacrificio che, una volta consumato, avrebbe restituito loro quella sicurezza che sentivano franare. E infatti Favara, levando da quel pezzo di carta uno sguardo da naufrago, reagì nel modo che i suoi compagni di pena, e anche quelli che si divertivano, auspicavano: "E che guardate? Cose inventate, stupidaggini... Io alle lettere pubblicate sui giornali non ci ho mai creduto; se le inventano loro, i giornalisti". I più dissero "E vero, ha ragione" ma con un sogghi-


gno di compassione. Invece il dottor Militello, uomo notoriamente pio e vedovo da almeno trent'anni, insorse. "E no, caro amico: posso anche ammettere che i giornali inventino delle lettere, per così dire, provocatorie; ma qui ci troviamo di fronte a una rubrica tenuta da un sacerdote: e che un sacerdote possa inventare qualcosa, addirittura un caso di coscienza poi, è un sospetto che io debbo respingere come irriverente e ingiurioso." "Lei lo respinge?" domandò Favara con una ironia che appena arginava la violenza che gli ribolliva dentro. "E lei chi è?" "Come, chi sono io?" fece il dottore, annaspando nella ricerca di una identità che gli desse netto diritto a respingere il sospetto di Favara. "Chi sono io, mi domanda?... E chi sono io?" girando lo sguardo a domandarlo agli altri. Il maestro Nicasio, presidente dell'associazione degli Ma ebbe più fortuna nei corridoi del tribunale; e un successo addirittura clamoroso registrò poi al circolo. In tribunale, il fatto che l'avvocato Lanzarotta, cinquant'anni ben portati ma con una moglie di venticinque, lasciasse la toga dieci minuti dopo aver letto la lettera e, accusando Improvvlso malore, pregasse il presidente di rimandare la causa che si stava per discutere, fu da tutti interpretato nel giusto senso; e così quella specie di rigor mortis che si veriflco nel gludice Rivera man mano che leggeva la lettera: e la restituì senza una parola, avviandosi come un sonnarnbulo verso il suo ufficio. Al circolo furono riferite le reazioni dell'avvocato Lanzarotta e del giudice Rivera: tutti convennero, con maligna compassione, che i due avevano di che preoccuparsi. Ma don Luigi Amarù, che era scapolo, spietatamente dichiaro che nelle condizloni di Lanzarotta e di Rivera, e per restare nella cerchia di amici e conoscenti, ce ne dovevano essere almeno una ventina. "Quali condizioni?" più di uno domandò. E don Luigi così le stabilì: età della donna tra i venti e i trentacinque, non brutta, di buona istruzione, come si vedeva dalla lettera; con un parente SUI quarant'anni, di bello aspetto, di un certo fascino, che ne frequentasse o ne avesse frequentato la casa, con un marito di buon carattere, pacifico, non molto intelligente. L'unanime approvazione dello schema fu immediatamente seguita da una diffusa costernazione: a parte l'intelligenza, poiché nessuno era portato a dubitare della propria, in quelle condizioni tra i presenti ce n'erano (qualcuno li aveva già contati) nove. Tra costoro, il primo a mostrare di averne preso coscienza fu 11 geometra Favara. "Mi faccia rileggere la lettera" disse avanzando cupamente, minacciosamente, verso 1350 Il mare colore del vino insegnanti cattolici, volò in soccorso del dottore: "E un cattohco, e in quanto tale ha il diritto..." "Sepolcri imbiancati!" gridò Favara scattando dalla poltrona: e prima che gli offesi avessero il tempo di reaglre appallottolò 11 ritaglio, lo lanciò contro il pianoforte con una rabbia e uno sforzo che pareva dovesse arrivare sul bersaglio mutato in una di quelle palle di bombarda che si vedono a Castel Sant'Angelo; e uscì precipitosamente. Si fece un gran silenzio: ma leggero, tremulo di ilarità. Poi il dottor Militello disse "Non sapevo che la moglie di


Favara avesse parenti" avviando così una conversazione talmente piacevole che soltanto fu sospesa per l'intervento del cameriere, che molto rispettosamente fece notare l'ora: le due dopo mezzogiorno. L'avvocato Vaccagnino trovò gli spaghetti sfatti e la moglie m bronclo. E mangiò senza mormorazioni, poiché la colpa era sua, tentando di rallegrare la moglie col racconto, debltamente colorito, delle scene di cui erano stati protagonisti Lanzarotta, Rivera e - dulcis in fundo - Favara. Ma la signora non-mostrò di apprezzare lo spassoso racconto. "Bella coscienza, avete. E se succede qualche tragedia?" "Ma che tragedia!" disse l'avvocato. "E quand'anche succedesse qualche tragedia, io la coscienza me la sento a posto. Primo, perché si tratta di una lettera pubblicata su un giornale che lo leggono cani e porci..." "Lo hai letto anche tu" constatò la signora. "Per caso" precisò il marito. "E allora io che lo leggo sempre appartengo alla categoria cani e porci" ché la signora, chi sa perché, voleva proprio far vampare una lite. L'avvocato, che invece non ne aveva voglia, le domandò scusa e continuò: "Secondo, perché nessuno, dico nessuno, ha fatto la benché minima allusione ai casi personali di uno dei tre: a) perché sulle mogli di Lanzarotta, Il mare colore del vino 1351 Rivera e Favara, non c'è mai stata, che io sappia, nessuna maldicenza; b) che se anche ci fosse stata, siamo tutti dei gentiluomini e io poi fino all'eccesso, c) che se uno vuole proclamarsi cornuto, è libero di farlo come io sono libero di divertirmici..." "Questo è il punto" disse la signora "che ti vuoi divertire." Irritato per essere stato interrotto nella foga delle sottodistinzioni, in cui era maestro, l'avvocato alzò la voce: "Sì, proprio, mi voglio divertire... Se poi tu sai che questo è un argomento su cui io non ho il diritto di divertirmi, non hai che da dirmelo" e già il suo aspetto dava nel fe"Mascalzone" disse la signora; e corse a chiudersi in camera da letto. L'avvocato si pentì subito dell'ultima battuta, e più per avere dismagliato la propria quiete che per avere offeso sua moglie; poiché ora da quella battuta rampollava una antica storiella e dalla storiella cominciavano a rameggiare e stormire l'inquietudine, il dubbio, l'apprensione. La storiella era quella del bando di Guglielmo il normanno, che ordinava tutti i cornuti del suo regno portassero un cappuccio a pizzo per distinguersi da quelli che non lo erano, pena cento onze di multa; e un marito particolarmente rispettoso delle leggi chiese alla moglie se, in coscienza, a lui convenisse o no il cappuccio a pizzo, suscitando fierissime proteste e che non c'era donna più di lei rispettosa dell'onore dei marito. Ma quando il brav'uomo, così rincuorato, stava per uscire a testa libera, la donna lo chiamò indietro e gli consigliò che per il sì e per il no, per levare l'occasione, si mettesse il cappuccio. 'E che sa, un marito?' pensò l'avvocato: e tutta una letteratura di inganni femminili, di tradimenti consumati dalle donne con diabolici accorgimenti, venne ad alimen-


tare il sentimento di autocommiserazione cui si abbandonò con la disperazione di un cieco (il paragone gli balenò nella mente) che riflette sulla propria sventura. E veramente si sentì in una condizione di cecità fisica, assediato dalla compatta oscurità in cui si nascondevano gli anni che sua moglie aveva vissuti prima che lui la conoscesse, il tempo in cui la lasciava sola, la libertà di cui godeva, i sentimenti che veramente aveva, le cose che veramente pensava. 'Ci vuole filosofia', si disse: e la trovò nell'immagine di Marco Aurelio, alta ed immobile sulla fluente e lubrica nudità di Messalina; ché, chi sa come, si era radicato nella convinzione che Messalina fosse stata moglie di Marco Aurelio e che costui fosse diventato filosofo per dominarsi nelle coniugali disgrazie. La filosofia aleggiò nel circolo per tutta la serata. C'erano anche il giudice Rivera e l'avvocato Lanzarotta, che evidentemente - e si vedeva dal colore della faccia e dall'occhio sperso e inquieto - simulavano serena indifferenza; e del resto erano in molti a nascondere disagio, apprensione, paura. Ed anche l'avvocato Vaccagnino, seppure si trovasse, agli occhi degli altri, nella felice condizione di annoverare tra i parenti della moglie soltanto un cugino che stava a Detroit, e non si era mai visto in paese, e una zia monaca di clausura. Il geometra Favara aveva fatto di tutto per liberarli da ogni preoccupazione: appena lasciato il circolo era corso a fare un serrato interrogatorio alla moglie, trascorrendo anche (si mormorava) a vie di fatto, e poiché la signora negò, disperatamente negò, di avere commesso quella colpa e di avere scritto quella lettera, Favara decise che c'era una sola cosa da fare: correre a Milano, trovare Padre Lucchesini e convincerlo a fargli vedere quella lettera. Per l'eventualità che Padre Lucchesini non si convincesse con le buone, si era messa in tasca una rivoltella. Per cui la signora, appena uscito suo marito, telefonò all'ingegnere Basicò, che salvasse il suo socio ed amico dalla catastrofe e l'ingegnere, che era veramente un amico, corse all'aeroporto di Catania, calcolando che Favara, partito in treno, come assicurò il capostazione, sarebbe arrivato a Milano l'indomani. Ma, per quanto amico, prima di partire volle informare il dottore Militello, cioè tutti i soci del circolo, della delicata e segreta missione che si accingeva a complere. Perciò tutti applicavano ora filosofia al caso di Favara, dicendo infondati i sospetti che lo avevano sconvolto ma intensamente sperando che si rivelassero invece fondatissimi. Arrivarono anzi a proclamare che la lettera doveva essere stata mandata da qualche bello spirito di Maddà: appunto per far succedere quello che era successo; e che era impensabile una sventatezza simile da parte di una signora. "Se trovo chi è stato" disse il professore Cozzo "il collo glielo torco, per quanto è vero Dio." Poiché Cozzo era scapolo, tutti si meravigliarono: "E tu che c'entri?" "Lo so io se c'entro" rispose Cozzo battendo nervosamente il pugno chiuso della destra contro il palmo della sinistra. E c'entrava davvero: aveva un appuntamento, il primo, con la signora Nicasio: in un albergo del capoluogo; ma la signora glielo aveva disdetto, dicendo che non poteva proprio quel giorno dire al marito che se ne andava sola in città, a far le solite compere, ché il maestro era stato a tavola intrattabile, pieno di malumori e di so-


spettl. L'atteggiamento di Cozzo suscitò una nuova ondata di sospetti, ma sempre contenuti, sempre nascosti; e anche nel maestro Nicasio, che era presente, facendogli riaffiorare il ricordo di quel ballo di carnevale in cui per quasi tutta la serata sua moglie aveva ballato con Cozzo (e in casa avevano poi litigato). Fu, insomma, una lunga serata per alcuni; per altri troppo breve. Come ogni sera, l'avvocato Zarbo andò a letto prima della moglie. Aveva avuto una brutta giornata, con quella lettera: al tribunale, al circolo, e dentro di sé soprattutto, combattuto dal risentimento e dalla pietà, dall'amore e dal rancore. Non come gli altri. Lui sapeva, aveva sempre saputo. Il mare colore del vino Prese il libro, lo aprì al punto segnato. Ne lesse parecchie pagine, ma tra l'occhio e la mente era caduta come una cateratta, la mente dolorosamente disgregata. Quando levò lo sguardo dal libro, quasi si spaventò vedendo la moglie nuda, le braccia alte, la testa velata dalla camicia da notte che stava infilandosi. E gli parve il momento giusto per domandarle, con voce incolore con tono calmo: "Perché hai scritto a Padre Lucchesinii" La faccia di lei .sembrò venir fuori da uno strappo, raggelata in una smorfia di smarrimento, di paura. Quasi gridò "Chi te l'ha detto?" "Nessuno: ho capito subito che la lettera era tua." "Perché? Come?" "Perché sapevo." Lei cadde in ginocchio, affondò la faccia nella sponda del letto come per soffocare l'urlo: "Dunque sapevi! Sapevi!" e così restò, scossa da singulti silenziosi. Lui cominciò a dire del suo amore e della sua pena; e la guardava con tenero disprezzo con pietà venata di desiderio e di vergogna. E quando ie cose che diceva arrivarono al pianto, alle lacrime, si avvicinò a sollevarla, a tirarla a sé. Ma appena toccata lei si alzò di colpo. Rideva negli occhi e nella bocca di un riso maligno, freddo, immobile. Tese verso di lui la mano a pugno chiuso, ne fece scattare In riferlmento alla nota dell'eccellenza Vostra, in cui si come per cavargli gli occhi, l'indice e il mignolo, e dalla ordinavano Indagini a canco del attadino Inglese E.A. bocca le uscì isterico e lacerato il verso del caprone. Crowley, in atto residente a Cefalù (Palermo), trascrivo i "Beeeee..beeeee. " punti essenziali del rapporto ora pervenuto da parte del Commissariato di P.S. di quella località. "Il nominato Edward Alexander Gowley, nato a Learnington il 12 ottobre 1875, vive in una villa, situata a circa tre chilometri dal paese, fin dall'aprile del 1920. Regolarmente paga il canone d'affitto ai proprietari, i quali soltanto lamentano certa mania del Gowley di dipingere a fresco le pareti e con figurazioni, a quanto pare, non conformi a decenza; ma essi proprietari non hanno mai avuto modo di vedere la villa, da quando l'hanno ceduta in affitto al Gowley, e soltanto da dicerie che corrono in APOCRIFI SUL CASO CROWLEY


Per il capo della polizia. Indagare et riferire sulla vita che conduce a Cefalù il cittadino inglese Edward Alexander Crowley. M.

A Sua Eccellenza Benito Mussolini Capo del Governo Roma, l5 luglio 1924 Il mare colore del vino paese sanno della mania dell'inglese. Dicerie alimentate dal fatto che convivono col Crowley ben cinque donne relativamente giovani e ben portanti (oltre a tre bambini di cui uno negro o mulatto), sulle quali la fantasia di un paese come questo si scatena e sbizzarrisce in tal modo che è difficile distinguere, in tutto quello che si racconta, il vero dal falso. Pare comunque che le stranezze di cui in paese si fa carico al Crowley, si riducano ad un modo di vita secondo natura: i bambini, le donne e lo stesso Crowley sono stati visti nudi a prendere il sole; ma da parte dei vicini mai è pervenuta lagnanza a questo commissariato. Pare anzi che i contadini della zona attivamente si dedichino a spiare nella villa, peraltro ben recintata, dell'inglese: traendo dalla nudità delle giovani donne un diletto di cui poi, in tutto il paese, si favoleggia fino allo scandalo. Di ciò siamo stati avvertiti da Sua Eccellenza il Vescovo, ma una nostra indagine, condotta con molta discrezione, altro non ha accertato che delle violazioni, da parte dei contadini della zona, di quel diritto alla privata libertà che è di ogni cittadino e a cui gli inglesi partlcolarmente tengono. Sl è creduto perclò di non dar seguito alla cosa, assicurando però a Sua Eccellenza il Vescovo che quanto avveniva nella villa del Crowley non sfuggiva all'attenzione nostra e che alla prima violazione che gli abitanti della villa avessero commesso delle leggi del nostro Paese con immediatezza e decisione avremmo adottato provvedimenti. "Riassumendo: certamente il Crowley conduce una vita al di fuori della norma comune, ma più con mistero che con scandalo; e appunto in forza del mistero la sua presenza a Cefalù è elemento di inquietudine. In quanto a una sua eventuale attività spionistica o comunque volta contro la sicurezza dello Stato Italiano, crediamo il sospetto del tutto infondato: e basti la considerazione che i suoi rapporti col mondo esterno si riducono al puro e semplice approvvigionamento, che di regola viene fatto una volta al mese in un negozio del luogo. Dal che si deduce che a fare il pane provvedono le donne, poiché la Il mare colore a'el vino 13S7 villa è dotata di un forno a legna, mentre le carni, ammesso che ne consumino, vengono dall'allevamento di capre e animali da cortile cui la piccola comunità si dedica." In attesa di altri eventuali ordini, con saluti fascisti il capo della polizia gen. E. De Bono

Appunto per il capo della polizia. L'indagine sull'inglese Crowley deve continuare. Fare


un sopralluogo. Riferire. Chi ha detto che è sospettato di spionaggio? E l'ambasciatore inglese che ha delle preoccupazioni sul suo connazionale: teme, per il buon nome dell'Inghilterra, che dia scandalo in Italia. Io me ne frego. M.

A Sua Eccellenza Benito Mussolini Capo del Governo Roma, 11 settembre 1924 In ordine alle disposizioni impartite da Vostra Eccellenza relativamente al suddito inglese Edward Alexander Crowley, in atto residente a Cefalù (Palermo), si trasmette il rapporto del Commissario di P.S. di quella località. Con saluti fascisti, il capo della polizia gen. E. De Bono

A Sua Eccellenza il Capo della Polizia Roma Il sottoscritto, in seguito a quanto disposto da Vostra Eccellenza con lettera del 20 luglio 1924, prot. 19328, si è con ogni diligenza adoperato allo svolgimento della deliIl mare colore del vino cata missione. E innanzi tutto, ad evitare insorgesse incidente con l'Autorità Giudiziaria, si è portato ad informare dell'incarico ricevuto il signor Procuratore del Re presso il Tribunale di Cefalù, in modo che il sopralluogo nella villa abitata dal Crowley avvenisse conformemente alla legge e che ad una eventuale protesta dell'inglese per la nostra intrusione nella sua vita privata non seguisse il risentimento del signor Procuratore. Il quale non subito, e non senza esitazione, ha aderito alla richiesta del sottoscritto, nonostante la motivazione del superiore interesse, e forse della sicurezza della Patria, cui l'inchiesta sul Crowley si ispirava. Da ciò il ritardo nel dare contezza a Vostra Eccellenza di ciò che il sottoscritto ha potuto infine personalmente constatare. Il sopralluogo nella villa abitata dal Crowley è stato dal sottoscritto, coadiuvato dal brigadiere Lo Turco Angelo e dall'agente Vasta Bartolomeo, effettuato nelle ore antemeridiane del 7 c.m., in compagnia del professore Paolo D'Alunzio, docente di inglese nella locale Scuola Tecnica, che dal sottoscritto è stato chiamato per fungere, eventualmente, da interprete. Ma in verità della sua opera non c'è stato bisogno, parlando il Crowley un italiano abbastanza comprensibilè. La presenza del professore è tornata comunque utile per un dettaglio di cui si dirà in seguito. Il Crowley ha mostrato dapprima una certa indignazione per il fatto che in Italia si potesse sottoporre una persona, che in nessun modo ha violato la legge né dato luogo a scandalo, ad una inquisizione patentemente in contrasto con l'elementare principio della libertà individuale; ma subito ha assunto un atteggiamento di condiscendenza e persino di divertimento, come recitando la parte della guida in un museo, non senza prima spiegare la filosofia di cui le persone e le cose intorno a lui vivevano e testimoniavano. La quale filosofia, se al sotto-


scritto è permesso far ricorso alla memoria dei suoi studi liceali, approssimativamente risulta dalla commistione di certi elementi delle antiche civiltà medio-orientali, magia Il mare colore del vino 1359 ed astrologia, con elementi di un epicureismo denaturato e corrente nell'accezione oraziana dell'Epic~ri grege porcum. Ma con una controparte di feroce pessimismo; ed il tutto esaltato in un rituale di estrazione cattolica e massonica insieme, a giudicare dagli oggetti che servono ad esso rituale e che ci sono stati esibiti e spiegati. Non mancano, naturalmente, catene e strumenti di flagellazione: poiché in questa religione che il Gowley ritiene di aver fondato, religione del sole e del sangue, il piacere è frutto del dolore. Ma del dolore altrui, probabilmente, anche se il professor D'Alunzio afferma che in Inghilterra non sono infrequenti, per raggiungere il piacere, pratiche di reciproche o auto flagellazioni. Il sottoscritto ha altresì constatato che rispondono al vero le dicerie riguardo alle pitture a fresco dispiegate dal Gowley sulle pareti interne della villa: pitture che raffigurano, non senza talento, strane posizioni di accoppiamento non solo, ma anche scene di pervertimento e di sodomia ed esaltano, quasi come motivi di ricorrente ornamentazione, quelle parti del corpo umano che la decenza vuole coperte e innominabili. Il Gowley ha voluto convincere il sottoscritto che la vita in altro non consistesse e significasse che nelle cose da lui rappresentate e praticate e che in effetti ogni pensiero e azione dell'uomo da quelle cose discende e quelle cose, sotto forme diverse, realizza. E così è passato a dichiararsi ammiratore del Fascismo e del suo capo, e che era felice di trovarsi ospite di un Paese come l'Italia: ché in questo momento, grazie al fascismo, l'Italia gli sembra il Paese in cui più trova elementi di riscontro alla sua visione della vita. Complimento, questo, che il sottoscritto ha creduto di dover respingere: ma il Crowley ha insistito con argomentazioni speciose e contorte, anche se non prive di intelligenza. Più tardi, scorgendo il sottoscritto una pietra squadrata, sulla quale erano evidenti tracce di sangue, e domandato quale ne fosse l'uso, il Crowley rispondeva che su essa si consumavano i sacrifici. Ma ha aggiunto una frase in inglese nella quale il sottoscritto colse soltanto il nome Matteotti; e il professor D'Alunzio spiegò poi che il Crowley aveva testualmente detto: "l'onorevole Matteotti è stato ucciso altrove". Forse non senza ironia. Per quanto riguarda le donne, benché sia da presumere vivano in una specie di schiavitù, non sembrano né si sono dichiarate infelici. Evidentemente, hanno per il Crowley una adorazione incondizionata. I bambini, al momento del nostro sopralluogo, dormivano sotto un albero. Sembrano m buona salute. In definitiva, le impressioni ricavate dal sottoscritto sono del tutto negative e basterebbero a motivare una espulsione del Crowley dall'Italia, tanto più che sono state raccolte testimonianze di contadini della zona in cui si afferma che più di una volta sono state viste le donne del Crowley, ora una ora un'altra, legate nude ad una roccla, esposte al sole nelle ore plU ardenti. In attesa di ordini, con saluti fascisti, Cefalù, 8 settembre 1924 il commissario A. Caminiti


Per il capo della polizia: Prowedere urgentemente all'espulsione dall'Italia del signor Crowley. Il commissario di Cefalù è un cretino.

Per il ministero degli esteri. Informare l'ambasciatore di Gran Bretagna che è stata decisa dal ministro degli interni l'espulsione dall'Italia del slgnor Crowley. WESTERN DI COSE NOSTRE

Un grosso paese, quasi una città, al confine tra le province di Palermo e Trapani. Negli anni della prima guerra mondiale. E come se questa non bastasse, il paese ne ha una interna: non meno sanguinosa, con una frequenza di morti ammazzati pari a quella dei cittadini che cadono sul fronte. Due cosche di mafia sono in faida da lungo tempo. Una media di due morti al mese. E ogni volta, tutto il paese sa da quale parte è venuta la lupara e a chi toccherà la lupara di risposta. E lo sanno anche i carabinieri. Quasi un giuoco, e con le regole di un giuoco. I giovani mafiosi che vogliono salire, i vecchi che difendono le loro posizioni. Un gregario cade da una parte, un gregario cade dall'altra. I capi stanno sicuri: aspettano di venire a patti. Se mai, uno dei due, il capo dei vecchi o il capo dei giovani, cadrà dopo il patto, dopo la pacificazione: nel succhio dell'amicizia. Ma ecco che ad un punto la faida si accelera, sale per i rami della gerarchia. Di solito, l'accelerazione ed ascesa della faida manifesta, da parte di chi la promuove, una volontà di pace: ed è il momento in cui, dai paesi vicini, si muovono i patriarchi a intervistare le due parti, a riunirle, a convmcere I glovani che non possono aver tutto e I vecchi che tutto non possono tenere. L'armistizio, il trattato. E poi, ad unificazione avvenuta, e col tacito e totale assenso degli unificati, l'eliminazione di uno dei due capi: 13G2 Il mare colore del vino Il mare colore del vino emigrazione o giubilazione o morte. Ma stavolta non è Se il governo, ad evitare la sovrappopolazione, ogni tanto così. I patriarchi arrivano, i delegati delle due cosche si faceva spargere il colera, perché non pensare che i carabiincontrano: ma intanto, contro ogni consuetudine e aspet- nieri si dedicassero ad una segreta eliminazione dei matativa, il ritmo delle esecuzioni continua, più concitato, fiosi? anzi, e implacabile. Le due parti si accusano, di fronte ai Il tiro a bersaglio dell'ignoto, o degli ignoti, continua. patriarchi, reciprocamente di slealtà. Il paese non capisce Cade anche il capo della vecchia.cosca. Nel paese è un più niente, di quel che sta succedendo. E anche i carabi- senso di liberazione e insieme di sgomento. I carabinieri nieri. Per fortuna i patriarchi sono di mente fredda, di se- non sanno dove battere la testa. I mafiosi sono atterriti.


reno giudizio. Riuniscono ancora una volta le due delega- Ma subito dopo il solenne funerale del capo, cui fingendo zioni, fanno un elenco delle vittime degli ultimi sei mesi compianto il paese intero aveva partecipato, i mafiosi pere "questo l'abbiamo ammazzato noi", "questo noi", "que- dono quell'aria di smarrimento, di paura. Si capisce che sto noi no" e "noi nemmeno, arrivano alla sconcertante ormai sanno da chi vengono i colpi e che i giorni di coconclusione che i due terzi sono stati fatti fuori da mano stui sono contati. Un capo è un capo anche nella morte: estranea all'una e all'altra cosca. C~è dunque una terza co- non si sa come, il vecchio morendo era riuscito a trasmetsca segreta, invisibile, dedita allo sterminio di entrambe le tere un segno, un indizio, e i suoi amici sono arrivati a cosche quasi ufficialmente esistenti? O c~è un vendicatore scoprire l'identità dell'assassino. Si tratta di una persona isolato, un lupo solitario, un pazzo che si dedica allo sport insospettabile: un professionista serio, stimato; di caratdi ammazzare mafiosi dell'una e dell~altra parte? Lo smar- tere un po' cupo, di vita solitaria; ma nessuno nel paese, rimento è grande. Anche tra i carabinieri i quali, pur rac- al di fuori dei mafiosi che ormai sapevano, l'avrebbe mai cogliendo i caduti con una certa soddisfazione (inchiodati creduto capace di quella caccia lunga, spietata e precisa dalla lupara quei delinquenti che mai avrebbero potuto che fino a quel momento aveva consegnato alle necroscoinchiodare con prove), a quel punto, con tutto il da fare pie tante di quelle persone che i carabinieri non riusciche avevano coi disertori, aspettavano e desideravano che vano a tenere in arresto per più di qualche ora. E i mala faida cittadina si spegnesse. fiosi si erano anche ricordati della ragione per cui, dopo I patriarchi, impostato il problema nei giusti termini tanti anni, l'odio di quell'uomo contro di loro era esploso ne fecero consegna alle due cosche perché se la sbrigas- freddamente, con lucido calcolo e sicura esecuzione. C'ensero a risolverlo: e se la svignarono, poiché ormai nessuna trava, manco a dirlo, la donna. delle due parti, né tutte e due assieme, erano in grado di Fin da quando era studente, aveva amoreggiato con garantire la loro immunità. I mafiosi del paese si diedero una ragazza di una famiglia incertamente nobile ma certaa mdagare; ma la paura, il sentirsi oggetto di una imper- mente ricca. Laureato, nella fermezza dell'amore che li lescrutabile vendetta o di un micidiale capriccio, il trovarsi gava, aveva fatto dei passi presso i familiari di lei per arriimprovvlsamente nella condizione in cui le persone one- vare al matrimonio. Era stato respinto: ché era povero, e ste si erano sempre trovate di fronte a loro, li confondeva non sicuro, nella povertà da cui partiva, il suo avvenire e intorpidiva. Non trovarono di meglio che sollecitare i professionale. Ma la corrispondenza con la ragazza contiloro uomini politici a sollecitare i carabinieri a un~inda- nuò; più intenso si fece il sentimento di entrambi di gine seria, rigorosa, efficiente pur nutrendo il dubbio che fronte alle difficoltà da superare. E allora i nobili e ricchi appunto i carabinieri, non riuscendo ad estirparli con la parenti della ragazza fecero appello alla mafia. Il capo, il legge, si fossero dati a quella caccia più tenebrosa e sicura. Ivecchio e temibile capo, chiamò il giovane professionista: Il mare colore del vino con proverbi ed essempli tentò di convincerlo a lasciar perdere; non riuscendo con questi, passò a minacce di-


rette. Il giovane non se ne curò, ma terribile impressione fecero alla ragazza. La quale, dal timore che la nefasta minaccia si realizzasse forse ad un certo punto passò alla pratica valutazione che quell'amore era in ogni caso impossibile: e convolò a nozze con uno del suo ceto. Il giovane si incupì, ma non diede segni di disperazione o di rabbia. Commcio, evldentemente, a preparare la sua vendetta. Ora dunque i mafiosi l'avevano scoperto. Ed era condannato. Si assunse l'esecuzione della condanna il figlio del vecchio capo: ne aveva il diritto per il lutto recente e per il grado del defunto padre. Furono studiate accuratamente le abitudini del condannato, la topografia della zona in cui abitava e quella della sua casa. Non si tenne però conto del fatto che ormai tutto il paese aveva capito che i mafiosi sapevano: erano tornati all'abituale tracotanza, visibilmente non temevano più l'ignoto pericolo. E l'aveva capito prima d'ogni altro il condannato. Di notte, il giovane vendicatore uscì di casa col viatico delle ultime raccomandazioni materne. La casa del professionista non era lontana. Si mise in agguato aspettando che rincasasse; o tentò di entrare nella casa per sorprenderlo nel sonno; o bussò e lo chiamò aspettandosi che comparisse ad una data finestra, a un dato balcone. Fatto sta che colui che doveva essere la sua vittima, lo prevenne, lo aggirò. La vedova del capo, la madre del giovane delegato alla vendetta, sentì uno sparo: credette la vendetta consumata, aspettò il ritorno del figlio con un'ansia che dolorosamente cresceva ad ogni minuto che passava. Ad un certo punto ebbe l'atroce rivelazione di quel che era effettivamente accaduto. Uscì di casa: e trovò il figlio morto davanti alla casa dell'uomo che quella notte, nei piani e nei voti, avrebbe dovuto essere ucciso. Si caricò del ragazzo morto, lo portò a casa: lo dispose sul letto e poi, l'indomani, disse che su quel letto era morto, per la ferita che chi sa dove e da chi aveva avuto. Non una parola ai carabinieri, su chi poteva averlo ucciso. Ma Il mare colore del vino 1365 gli amici capirono, seppero, più ponderatamente prepararono la vendetta. Sul finire di un giorno d'estate, nell'ora che tutti stavano in piazza a prendere il primo fresco della sera, seduti davanti ai circoli, ai caffè, ai negozi (e c'era anche, davanti a una farmacia, l'uomo che una prima volta era nusclto ad eludere la condanna), un tale si diede ad avviare il motore di un'automobile. Girava la manovella: e ll motore rispondeva con violenti raschi di ferraglia e un crepitio di colpi che somigliava a quello di una mitraghatrlce. Quando il frastuono si spense, davanti alla farmacia, abbandonato sulla sedia, c'era, spaccato il cuore da un colpo di moschetto, il cadavere dell'uomo che era riuscito a seminare morte e paura nei ranghi di una delle plU agguerrite mafie della Sicilia. PROCESSO PER VIOLENZA

La mattina dell'8 dicembre 1870, giorno festivo in gloria della Immacolata Concezione, a Bottanuco, paese del bergamasco che contava allora un migliaio di anime, tra le quah almeno una indubbiamente nera, una ragazza di quattordici anni che serviva nella famiglia dei contadini Ravasio, chiesto il permesso ai padroni e promettendo per


la sera 11 rltorno, si avviò al vicino paese di Suisio, dove aveva parenti. Uscì di casa insieme alla padrona, ma si separarono poco dopo. Erano le sette o poco più, e dunque non era ancora giorno pieno. La padrona, data l'ora, la strada sohtaria, il tempo non bello, la guardò allontanarsi con vaga inquietudine. Poco dopo, già in cammino verso Madone, sentì dei lamenti acuti, come di lupo; e senz'altro rltenne fossero di lupo, poiché c'era neve e per i lupi Sl sa, è dura quando c'è la neve. Il fatto che i lamenti venissero da dove la ragazza era scomparsa, non le aggiunsero inquietudine, sul momento: non c'era memoria che i lupl aggredissero, in quelle contrade, gli umani. Se ne ricordo, due glorni dopo, la sera del 10: ché la ragazza non era tornata la sera dell'8, né l'indomani; e non era mai arnvata a Sulslo. La trovarono sotto la tettoia di un presepe. "L'infelice giovmetta glaceva sul terreno, affatto nuda, avendo solamente coperta da una calza la gamba sinistra, e il suo corpo presentava le tracce del più feroce scempio. Deformatoa molte ferite, era quasi spaccato a mezzo pel lungo, mancante di alcune parti e specialmente dei visceri. Questi furono rinvenuti nel cavo di un albero. E, dentro una capanna di paglia poco distante, fu trovato un brano di polpaccio della gamba destra e un'immagine del papa Pio IX, che ad essa apparteneva. Sotto un mucchio di gambi di frumentone, nel vicino podere, furono rinvenute le vesti; e un suo fazzoletto fu raccolto, in mezzo alla neve, sulla strada. Finalmente fu osservato che presso il cadavere stavano stranamente disposti in simmetria dieci spilli che l'infelice soleva portare infissi nei capelli" (da questo, e da altri particolari che vengono poi dalle testimonianze, si è portati a imprestare alla povera Giovannina Motta, nel momento in cui esce dalla cascina dei Ravasio per andare verso la morte, l'immagine di Lucia che si prepara alle nozze: "I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi molteplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d'argento, che si dividevano all'intorno, quasi a guisa de' raggi d'un'aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati...", ma quello di Giovannina era di "coralli fini"). Gli spilli erano disposti, per terra, a raggiera: l'assassino volle forse ripetere la disposizlone che avevano tra i capelli della ragazza o figurare un ostensorio. Sulle vesti non c'era traccia di sangue, segno che la ragazza era stata denudata prima di essere uccisa. Il cubito destro fratturato, le gambe graffiate, la bocca piena di terra, fecero pensare che la ragazza si fosse difesa e avesse gridato. I primi sospetti caddero su un muratore di Suisio, certo Abramo Esposito, che fu arrestato. Il cognome fa pensare a un meridionale. Sospettato in quanto meridionale? Ma non c'entrava per niente, aveva "un alibi indubitabile": e fu liberato "ben presto", ma da una sentenza del tribunale di Bergamo; e cioè dopo un paio di mesi di carcere. Liberato l'Esposito, non si seppe più da che punto riprendere le indagini, su chi indirizzare i sospetti. Ma durava, nel 1368 11 mare colore del vino paese, l'impressione di quel delitto orrendo, l'inquietudine per quell'assassino ancora libero. Perciò il 27 agosto l871, domenica, giorno delle Sante Reliquie, bastò un'assenza di due ore della moglie, dalle sei alle otto, perché il


contadino Antonio Frigeni si agitasse a cercarla. La trovò poco lontana dal luogo dove lei aveva detto che andava: in un campo di mais, completamente denudata, e non meno straziata della Motta. "Mostrava sul collo una larga ecchimosi con depressione e lacerazione della pelle prodotta dallo stringimento di una corda rinvenuta sul luogo stesso, che le doveva essere stata gittata per di dietro a modo di laccio, e che essa indarno aveva cercato di strapparsi, come indicavano le graffiature rinvenute in ambo i lati del collo. E la soffocazione era stata infatti, come giudicarono i periti, la causa unica della sua morte. Ma dopo morta non era stata la sua salma rispettata. Si trovarono larghe ferite al ventre, al braccio destro, alla nuca, ai lombi, tutte portate dopo che era estinta con robusto istrumento da punta e taglio, probabilmente un falcetto. Dalla vasta ferita che le apriva il ventre uscivano gli intestini. Nel dorso le si trovarono infitti tre spilli..." Gli spilli dei capelli: e disposti a esatto triangolo, il vertice in direzione della nuca. Anche stavolta, si cercò subito di arrestare. La scelta cadde su un Luigi Comerio, contadino di Suisio, a ragione che "aveva vagheggiata la Elisabetta Pagnoncelli, e aveva pur tentato d'indurla a mancare ai suoi doveri coniugali". Ma non risultò che avesse mai vagheggiato la Motta, e poi aveva un alibi inattaccabile. Passarono sei mesi, e le indagini si erano del tutto spente, gli inquirenti e la popolazione rassegnati al mistero, quando improvvisamente, per l'insorgere di fatti tenuti fino allora celati, cominciò a sussurrarsi il nome di Vincenzo Verzeni. "Era costui un giovane di ventidue anni, nato e dimorante a Bottanuco di una agiata famiglia di contadini. Ritenuto infino ailora giovane onesto, dedito alle pratiche religiose, alieno da qualunque vizio, non si sarebbe mai creduto capace di sì atroci misfatti, se Il mare colore del vino 1369 non si fosse propagata una serie di fatti, sui quali sino allora erasi ser ato il più perfetto sllenzlo.'' Quattro anni prima, in un imprecisato giorno festivo (le feste religiose e le domeniche puntualmente ritornano nei fatti attribuiti al Verzeni), ad ora di vespro, una ragazza di dodici anni, Marianna Verzeni, viene aggredita nel suo letto, mentre riposa o addirittura dorme. Un cuscino sulla faccia, una mano che la stringe alla gola. La ragazza riesce a divincolarsi per quel tanto che le consente di gridare, l'aggressore fugge. Una vicina ha visto Vincenzo Verzeni, cugino della ragazza, che ablta nella casa attigua, uscire dalla sua, entrare nella casa dei parenti, furtivamente, con precauzione, e dopo qualche minuto uscirne. Pochi istanti dopo aveva sentito le grida della ragazza: pochi istanti dopo che il Verzeni era uscito, non c'è luogo ad equivoco. Più coerentemente, una zia della ragazza dice di aver sentito prima le grida, e di aver visto poi il Verzeni per le scale, che se ne andava. Per sua parte, il Verzeni sostenne di essere anche lui accorso alle grida, ma vedendo nuda la ragazza subito, pudicamente, si era ritirato. Tre anni prima, era quasi l'alba, mentre dalla campagna si avviavano alla chiesa parrocchiale per la messa, due donne erano state successivamente, in breve spazio di tempo, aggredite: Barbara Bravi, afferrata dall'aggressore


per il collo, gridò e lo costrinse a fuggire; più robusta e coraggiosa, Margherita Sala reagì afferrandolo alla camicia e al labbro inferiore, e lungamente colluttando riuscì a liberarsi e a fuggire. Né l'una né l'altra riconobbero l'uomo, ma i contrassegni che ne ritennero nella memoria - gagliardia giovanile, complessione, statura, giacchetto di panno grosso e peloso detto pelucc - potevano bemssimo riferirsi al Verzeni. Per di più, un tale Pozzi proprio quella mattina, in quella contrada, lo aveva incontrato: e aveva notato sulla guancia sinistra del Verzeni una graffiatura (ma non sul labbro inferiore). Nello stesso mese, dicembre, la dodicenne Angela Previtali, andando a scuola (giorno feriale, ma ci doveva pur Il mare colore del vino essere una qualche solennità religiosa) si imbatté in Vincenzo Verzeni che, senza violenza e dicendo soltanto "andiamo, andiamo", presala per mano cercò di condurla verso quella tettoia sotto la quale fu rinvenuta poi scempiata la Giovannina Motta. La ragazza dapprima si lasciò condurre, poi gridò e fuggì. Verzeni, calmo, le andò dietro per un po'. Aprile 1871: la contadina Maria Galli incontra uno sconosciuto che riconosce poi nel Verzeni, che le strappa dalla testa ii fazzoletto e se lo porta via. Il 26 agosto dello stesso anno, cioè il giorno avanti l'assassinio della Pagnoncelli, la filatrice Maria Previtali, diciannovenne, viene seguita e, a un certo punto, assalita dal Verzeni, a lei "ben noto" in quanto cugino. Riuscì a gettarla a terra e a sollevarle le gonne, ma poiché lei gridava il Verzeni, che la teneva per il collo, ad un momento l'abbandonò per andare sullo stradone a guardare che non venisse qualcuno. Quando tornò, e lei si era rialzata, "le prese ambedue le mani che tenne qualche tempo tra le sue, senza mai proferire parola, indi alle sue preghiere la lasciò andare". A questi fatti, chi sa perché tanto tardivamente emersi e riuniti, si aggiunsero due non meno tardive testimonianze: di Rosa e Carolina Previtali, che la mattina dell'8 dicembre 1870 avevano visto sul luogo del delitto, sotto la tettoia del presepe, il Verzeni, e dopo aver sentito da quel luogo provenire grida che invocavano aiuto e gemiti (ma non avevano visto la Giovannina, né morta né viva; né di quelle grida si erano allarmate); e di Giovanni Bravi, che aveva visto il Verzeni, il 27 agosto 1871, sul luogo dove fu poi rinvenuta la Pagnoncelli, e circa nell'ora in cui si presumeva fosse stata assassinata. Ma al processo, ecco un colpo di scena: Carolina Previtali, interrogata se quel giovane visto sotto la tettoia somigliasse al Verzeni, decisamente nega. Le si fa osservare che in istruttoria ha dichiarato di riconoscerlo. Nega di averlo dichiarato. Viene messa a confronto col padre, che dice di aver sentito da lei che quel giovane era assai somi11 mare colore del vino 1371 gliante al Verzeni. Nega. "Io non ho detto niente", ripete. Il pubblico ministero ne chiede l'arresto e il processo immediato. La corte si ritira, lasciando l'aula in agitazione, col Previtali che scongiura la figlia di riconoscere il Verzeni. Quando la corte rientra, la ragazza chiede perdono, si dice convinta che l'uomo visto sotto la tettoia "rassomigliava assai a esso Verzeni". E il processo riprende vela.


Il Verzeni, però, sempre nega. Non ci sono contro di lui che indizi. Le testimonianze hanno qualche zeppa. La più grave, che è quella di sua cugina Maria Previtali, non arriva a dare parvenza di volontà omicida a quello che sul momento la giovane considerò un brusco attentato alla propria virtù, spentosi persino pietosamente in quel tenerle le mani tra le sue, senza parole - e soltanto dopo, con quei due cadaveri di mezzo, indicato il Verzeni ed esecrato come assassino, avrà preso nella memoria di lei il carattere di un evento tremendo cui fortunatamente era sfuggita. Ma non aveva alibi, l'imputato, se non nelle messe: ne vide tre il giorno in cui fu assassinata la Motta; tre il giorno in cui fu assassinata la Pagnoncelli. E tutte e due le volte si confessò e comunicò. Ma vale la pena riportare qualche passo dell'interrogatorio. PRESIDENTE Quanto tempo prima della disgrazia la vedeste, la Motta? ACCUSATO In ottobre, nel campo a vangare. PRESIDENTE Avete udito qualcosa, sul conto suo? ACCUSATO Sì, lo sa anche lei... (llarità) PRESIDENTE Sì, ma vorrei sentirlo anche da voi. ACCUSATO Era tutta sconciata, sassinada, non si poteva nemmen più riconoscerla per cristiana, non era vestita, era nuda... PRESIDENTE Nuda? ACCUSATO Sì, nuda, aveva indosso niente... PRESIDENTE Era intiero, il corpo? ACCUSATO No... Spaccato a mezzo, davanti e dietro... Il mare colore del vino PRESIDENTE La testa? ACCUSATO Non la potei vedere. PRESIDENTE Quand'è che la vedeste? ACCUSATO Dopo la prima messa, il giorno in cui l'hanno trovata. Ero là cogli altri... PRESIDENTE Come conosceste il fatto? ACCUSATO Restai lì... Che debbo dire?... Lo seppi dalla voce pubblica. PRESIDENTE La quale diceva... ? ACCUSATO Che son cose, che non sembran da cristiani. PRESIDENTE Non si vociferava che la ragazza fosse stata a Suisio, nel giorno di sagra della Madonna? Né si andava ripensando da quanto tempo mancasse di casa? E voi non sapete, voi per conto vostro, da quanto fosse assente? ACCUSATO Non udii, né so nulla di tutto questo. PRESIDENTE Non sapeste che fosse andata per la festa? ACCUSATO Che debbo sapere, io, dei fatti altrui? PRESIDENTE In quel luogo del massacro, o lì vicino sulla strada, ci foste il dì dell'Immacolata? ACCUSATO No. PRESIDENTE In quel giorno come passaste le ore della mattma? ACCUSATO Andai a messa alle sei, poi tornai a casa; indi rirornai in chiesa, e mi confessai e presi la comunione. (llantà) PRESIDENTE Non andaste altrove? ACCUSATO No... Assistetti alla seconda messa, e poi alla grande. PRESIDENTE Sempre in chiesa, dunque... E quando ve-


deste il corpo della Motta sotto la tettoia, era coperto? ACCUSATO Era coperto... Ma era nuda, lei... PRESIDENTE Veniamo all'ultimo fatto... Voi che faceste il giorno 27 agosto 1871, domenica? ACCUSATO Mi levai la mattina presto per la prima messa, mi confessai dal Martina, fui comunicato dal parNon udii, né so nulla di tutto questo. Non sapeste che fosse andata Der la Il mare colore del vino roco (ilarità), poi andai alla messa seconda di don Bartolo, e poi alla terza del curato detto Curradù. Ciò fatto ritornai e andai pei campi - altri dicono a casa... Quest'ultimo tocco è, se non scaltro, di buon senso: come volete che mi ricordi di quello che ho fatto una mattina di tre anni fa? Le messe sì, la confessione, la comunione: per me d'obbligo a ogni domenica, a ogni festa; ma per il resto, lasciamo decidere ai testimoni, che per i fatti miei hanno miglior memoria di me. E tutte le sue risposte si può dire siano sensate e, nella misura in cui lo sono, improntate all'indifferenza di chi sente vano il buon senso di fronte a quell'assurda macchina che è la giustizia. Ci sono soltanto tre smagliature, nelle risposte di Verzeni al giudice: la prima quando dice "restai lì" (dove? sul luogo del delitto, dopo averlo commesso?); le altre due in quei momenti come sospesi, come di un raptus residuato, in cui si sente che sta ancora godendo, irresistibilmente, del ricordo o della immaginazione della vittima nuda. Ma di queste tre smagliature né il pubblico ministero né i giudici sanno approflttare. Affrontata alla "anormalità" dei delitti che gli si attribuivàno, la "normalità" dell'imputato, sia fisica che di raziocino, poneva ai giudici il problema della responsabilità. Bisogna anche dire che difesa e autodifesa all'immagine di "normalità" concorrevano con questi elementi: le indefesse pratiche di devozione - le messe a rotazione, le confessioni e comunioni - cui il Verzeni era dedito; il fatto che fino a ventidue anni non avesse avuto rapporti intimi con donne né indulgesse a solitari vagheggiamenti erotici; la sua comprovata repugnanza ad assistere alla uccisione di polli (che si uccidono, si sa, col tirar loro il collo). "Poiché di tanto la ruota ha girato", oggi non c'è schiappa d'avvocato che non sa quanto controprodurrebbero tali elementi, ma allora servivano a difendere. Comunque, per affrontare con giusto ausilio di scienza il problema della responsabilità dell'imputato, la corte si Il mare colore del vino Il mare colore del vino rivolse a colui che in quel momento era il massimo lumi- affetto da "quel lieve attossicamento cretinoso e pellanare della criminologia: il professor Cesare Lombroso groso che si divaricava nei suoi parenti, e che lasciava imfondatore della scuola positiva del diritto penale. pronte nel lobo frontale destro e rompeva l'equilibrio Il professor Lombroso non può, naturalmente pronun- delle facoltà affettive in confronto degli appetiti". Ma inciarsi così, su due piedi. Chiede che si faccia prima da somma: che queste affezioni, unite alle repressioni eserci-


parte di specialisti "un esame accurato del fondo deli~oc- tate dall'ambiente familiare e alla owia "libidine del cachio dell'imputato, poiché la retina è quasi una finestra sto", abbiano potuto promuovere nei delitti uno stato di per cui si guata entro il cervello"; e che gli consegnino incoscienza, e quindi di irresponsabilità, il professore decil'imputato tosato a zero come un coscritto, perché si samente lo esclude. Se mai, la cosa può mettersi così: "repossa procedere ai rilievi "craniometrici" indispensabili a sponsabile pienamente in principio dell'atto meno restabilire se è o non è un pazzo, se è o non è un delin- sponsabile nel delirio dell'atto" - e tornato alia piena requente. A questa seconda richiesta, il pubblico ministero sponsabilità subito dopo, nell'occultarsi, nel difendersi. salta su ad opporsi: se me lo tosate, come faranno i testimoni a riconoscerlo? Obiezione accolta: sarà tosato, ma dopo i riconoscimenti. Una volta che il professore l'ha nelle mani, non gli ci vuole più di una settimana per periziarlo a dovere. E non solo l'imputato: ma, per come era nei canoni della "scuola", la perizia si estende ai genitori, ai nonni agli zii, ai cugini dell'imputato. Il padre ha tracce di peliagra, due zii sono "cretinosi" (e uno specialmente: cranio piccolo e a pan di zucchero, niente barba, un testicolo atrofico e l'altro addirittura mancante), un cugino patì d'iperemia cerebrale e un altro è "recidivo nei furti". La madre la nonna vivente, gli avi e bisavoli defunti, "non offrono malattie di rilievo". Tutto sommato, niente di più di quanto si nota scoperchiando le famiglie più a modo. Il termine "cretinoso", per altro, vale come alleggerimento di quello di cretino: "oltre il cretino", spiega il professore, "abbiamo il 'cretinoso', che partecipa del primo e nello stesso tempo dell'uomo sano e normale". E viene da rimpiangere che questa parola non sia uscita dalle perizie del criminologo per entrare nell'uso comune: oggi ce ne sarebbe tanto bisogno, ché si attaglierebbe a quelli che partecipano della cretineria mostrando di far uso degli strumenti dell'intelligenza. Secondo il professore, il Verzeni non si poteva nemmeno considerare propriamente "cretinoso": era soltanto Letta la perizia del professor Lombroso, il pubblico ministero cavalier Quintavalle attaccò la sua arringa. Evocò vive le vittime: "vivace, intelligente e prosperosissima, modello alle compagne per castigatezza e purità di costumi" Giovannina Motta; "madre di due teneri figli, uno dei quali lattante ancora" Elisabetta Pagnoncelli. Le fece poi vedere morte, non risparmiando i particolari più orrendi. E infine: "Or non mi resta più altro che trincerarmi dietro il giudizio dei periti". Vi si trincerò, inespugnabilmente. Per il Verzeni, i lavori forzati a vita. EUFROSINA

Le Cronache italiane di Stendhal le ho lette parecchie volte, a distanza di anni o di mesi, ma solo ieri, rileggendo I (ena, mi sono improvvisamente accorto di un errore e ricordato di una lunga e tragica storia che comincia in Sicilia, nella casa dei Corbera, e finisce a Roma, in quella dei Massimo. L'errore è dove si dice che il papa propenso a far grazia della vita a Beatrice e agli altri condannati, si era poi irrigidito, e aveva ordinato fosse ese-


gulta la sentenza, alla notizia che Paolo di Santacroce aveva ucciso sua madre e ricordandosi "anche del fratricidio dei Massimi commesso qualche tempo prima". Ma i due figli di Lelio Massimo avevano ucciso la matrigna, la giovane e bella Eufrosina de Siracusis: e dunque non un fratricidio era accaduto, ma qualcosa di simile a un matricidio, non sappiamo se per interesse, o per onore. Il cronista siciliano che riferisce la storia di Eufrosina è portato a considerarlo delitto d'onore, se chiama "cavalieri assai onorati" i due assassini e li dice mossi da dispiacere e alterazione. E c'era di che, considerando il passato di Eufrosina. Questa donna che aveva il nome della gioia, di quella delle tre Grazie che rappresentava la gioia - un nome che Lmneo aveva passato a una farfalla color miele armoniosamente venata di nero; questa Eufrosina familiarmente chiamata Frosina, giovane e bella certamente, molto probabilmente sciocca e crudele, poca gioia ebbe e diede nella sua breve vita; e fu anzi, nel destino degli altri e nel proprio, una farfalla di morte. A Stendhal sarebbe tanto piaciuta la storia che, senza saperlo, sfiorò: anche se nel suo corso più lungo non si svolge nella Roma dei papi ma nella Sicilia dei vicerè. E comincia appunto da un vicerè, Marcantonio Colonna: che si invaghisce di Eufrosina, moglie di Calcerano Corbera, erede della signoria del Misilindino (che stava per diventare, con la licentia populandi di Filippo Il, quel paese che doveva poi assumere il nome di Santa Margherita Belice: e come non ricordare quella casa, fatta cosrruire circa un secolo dopo da un Filangeri, distrutta quattro anni fa dal terremoto, misteriosa e favolosa nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi?). Se ne invaghisce, la circuisce, la vezzeggia e festeggia: da "vecchio pazzo" quale, in ordine a queste cose, la moglle lo defmlsce. "11 signor Marcantonio - dice il cronista siciliano - in quello divenne così cieco, che, non facendo conto dell'autorità e reputazion viceregia, fu un altro Marcantonio con Cleopatra. Le andava dietro, le passeggiava innante, e per le strade, e per le chiese. Alla secura vi trattava e conversava, il giorno di vista e complimenti, e la notte con effetti da dovero. Fu più volte incontrato e visto il vlcerè solo e travestito di notte andarle a casa..." Il marito di Eufrosina, giovanissimo e forse non intelligente, non si avvedeva, ma tutta la città ne mormorava. Così lo seppe, mentre in quel del Misilindino se ne stava a far sorgere un paese, don Antonio Corbera: e decise di andarsene a Palermo per un po', a vedere come sravano le cose, a rimetterle a posto. Appena seppe della decisione del suocero, Eufrosina "disse al signor Marcantonio che essa stava in gran periglio, e che dubitava [cioè temeva} più del socero che del marito'; e il Colonna non tardò ad escogitare il modo di liberarla Per dirla con espressione d'oggi, Marcanronio Colonna fu un vicerè dall'arresto facile. Ma fare arrestare don Antonio Corbera non era facile, poiché era familiare Il mare colore del vino dell'Inquisizione - e cioè godeva del privilegio che non la glustlzla ordinaria poteva arrestarlo e processarlo, ma soltanto quella inquisitoriale, qualsiasi reato gli fosse imputato. Il vicerè non si scoraggiò. Nemico acerrimo dell'Inqulsizione e degli inquisitori, si piegò a chiedere un favore all'inquisitore: che era quel Diego de Haedo, benedettmo, cui si deve una Storia di Algen piena di notizie


sulla vita del Cervantes. L'inquisitore ci cascò; o forse si aspettava una contropartita, che non venne: fatto sta che se ne lamenta, in una relazione mandata al re nell'agosto 1581 e che è tutta una requisitoria, velenosissima, contro Colonna. L'anno scorso - dice l'Haedo - Marcantonio (poiché lo chiama solo per nome, con ironia e disprezzo) ci ha ingannati: tramite Pompeo Colonna, ci ha chiesto di sospendere dal privilegio di familiare dell'Inquisizione il barone del Misilindino, promettendo di farci avere poi le informazloni e ragioni; ma appena noi abbiamo concesso la sospenslone, ecco che lo fece arrestare per debiti, "e il volgo sa che fu per suo fine particolare". E può parere strano che l'inquisitore non si soffermi su questo "fine particolare" del Colonna, che era poi la tresca con Eufrosma: ma il lasciare intendere qualche altro fine era in effetti più grave, a carico del vicerè, che una passione amorosa. Comunque, il barone Antonio Corbera morì in carcere qualche giorno dopo l'arresto: qualcuno dice di veleno, l'inquisitore parla soltanto di sofferenze. Restava il marito, e per quanto ingenuo dall'arresto e morte del padre qualche sospetto, sia pure vago, poteva nascergh. E si rimediò mandandolo a Malta, in una misslone capeggiata da Pompeo Colonna e di cui faceva parte un certo Flaminio di Napoli che, a quanto pare, ebbe l'incarico di far fuori il Corbera, una volta arrivati. E così "una notre fu trovato il barone Calcerano Corbera morto dietro alla porta della casa ove stavano, con molte pugnalate, senza avere avuto disgusto o inimicizia con nessuno". Aveva ventun anni. Quanti ne avrà avuto Eufrosina, rimasta ormai sola e libera? Il mare colore del vino Ma non era solo, né libero, il vincirore di Lepanto (che di anni ne aveva quarantanove). Sua moglie, Felice Orsini, pur saggia e indulgente, qualche bastone tra le ruote glielo metteva. Una notte, a palazzo, ando a bussare all'appartamento del marito, ché sapeva ci stava Eufrosina. Nel panico, Marcantonio nascose la ragazza nel balcone, e le diede le vesti "per ivi vestirsi"; ma dimentico le pianelle. Entrando, donna Felice disse: "lo son venuta per dormir con voi questa notte, che fa gran freddo"; e vedendo le pianelle: "Ora conosco che siete fatto manto amorevole. Le avete comprate per me queste pianelle?" "Sì", rispose il marito. E lei "Ah vecchio pazzo, non avete discrezione di lasciar morire di freddo questa povera giovane fuor dal balcone?" E aprì il balcone, tlrò dentro Eufrosina vergognosa e impaurita, la rincuorò; e la fece riaccompagnare a casa. Più pericoloso, ad avvelenargli (espressione da prender forse alla lettera) l'amorosa conqulsta, ll quasi hbero godimento della donna amata, vegliava Diego de Haedo. Più delle tante offese consumate dal Colonna contro l'Inquisizione, probabilmente gli bruciava la sferzante frase che, nell'ultimo scontro, il vicerè gli aveva rivolto: "I miei pari il re li conta su un dito, dei vostrl ne può carlcare navi". Chiamato in Spagna, forse a discolparsi di tutto C10 che l'Haedo aveva detto o insinuato nelle sue relazioni (Sl possono leggere nel Contnbuto alla storia dell'Inqui~izione in Sialia del Garufi), Marcantonio Colonna si imbarcò a Palermo il 1° maggio 1584. Secondo il cronista, pnma di partire raccomandò alla moglie l'amante: con commossi e


paterni accenti, e promettendo che al ritorno avrebbe collocato Eufrosina "con persona, con la quale ella abbla da vivere onestamente". Promessa da marinaio qual era; ma donna Felice ci credette o finse di crederci, e a sua volta promise che avrebbe tenuro con sé Eufrosina, a palazzo, finché "piacerà al Si~nore che voi farete ritorno". Ma non piacque al Signore ~arlo ritornare: ché morì a Medinaceli, sulla strada per Madrid, con sospetto di veleno. Sospetto che tocca gli inquisitori, secondo alcuni; la corte spagnola, secondo altri. Ma nessuno ha pensato a Eufrosina: non a lei direttamente, si capisce, ma a qualcuno che lo avesse fatto per passlone di lei. Ed ecco un piccolo problema, per i ricercarori d'archivio: Lelio Massimo era tra gli accompagnatori del Colonna, nel viaggio a Madrid? Certo, gli era stato sempre vicino, negli anni palermitani: e il cronista lo ricorda accanto al vicerè, nella prima schermaglia amorosa con Eufrosina, nei giuochi, nelle attenzioni, nelle galanterle. E perché non credere si fosse segretamente innamorato della donna, e si macerasse e soffrisse di fronte a quell'amore, coi sotterfugi cui era costretto a tener mano, tra la donna desiderata e l'amico potente? E perché non credere - se lo accompagnò - che, travolto dalla passione, al di sopra del sospetto e profittando della voce di disgrazia presso il re cui era caduto il Colonna, cedesse alla tentazione di eliminarlo? Feroci sono le passioni, e più feroci erano in quel secolo. Che amasse Eufrosina, comunque, non c'è dubbio: e che l'amasse al punto di superare ogni senso di onore, ogni vergogna. Doveva essere ben nota, tra Palermo e Roma, la colpa di lei nella tragedia della famiglia Corbera (tanto che pubblicamente, in atto notarile, le cognate rifiutavano di ricevere i gioielli dei Corbera che lei aveva indossato), la sua tresca senza ritegno col vicerè. Ma Lelio Massimo la sposò - chiestane la mano a donna Felice - e la portò nella sua casa. Dove a metter fine alla vergo~na forse al dileggio, i due "cavalieri assai onorati" suoi figli, un giorno, mancando il padre, "con due archibusetti la occisero". E furono poi uccisi, per decapitazione, dal boia. "Ecco gravissima materia" conclude il cronista "da farsene flebilissima tragedia." Flebilissima: cioè lamentosissima. Giusto il contrario di come, tra le Cronache italiane avrebbe potuto scriverla Stendhal. NOTA

Quesli racconti sono stati scritti - con altri pochi, che non mi è parso valesse la pena di raccogliere e riproporre - tra il 1959 e il 1972. Ho cercato di metterli nell'ordine in cui sono srati scritti (non, forse, nell'ordine in cui sono stati pubblican sui giornali, riviste e antologie): e credo che ll lettore potrà verificare la giustezza dell'ordine cronologico mettendoli m cornspondenza dei libri che nello stesso arco di tempo ho pubbhcato. (2ualcuno è internarnente datato: La rimozione, per esempio, scritto quando fu rimossa la salma di Stalin dal mausoleo (o quando se ne ebbe notizia); e-Filologia, scritto - profezla piuttosto facile - al costituirsi della commissione antirnafia. Uno solo, tra tutti, è stato riveduto e quasi riscritto: quello di Giufà e del cardinale. Degli altri ho corretto solo qualche svista. I lettori, coi quali credo di essere ormai in o~timi rapporti, certo non si chiederanno e non mi chiederanno perché li ripub-


blico, se la sollecitazione mi viene appunto da loro: e cioè dal fatto che quando di uno di questi racconti è stato fatto un (Un caso di coscienza) e da due altri dei telefilms (Gioco di società sono stati molto richesti dai titoli omonimi (che non esistevano - ed esisteva soltanto, col titolo di Racconti siciliani, un volumetto impreziosito da una acquaforte di Emilio Greco, che ne raccoglieva cinque: stampato in 150 copie dall'Istituto Statale d'Arte di Urbino). Ma se il lettore non se lo chiede e non me lo chiede, io me lo chiedo: perché raccolgo e pubblico questi racconti? Ecco: perché mi pare di aver messo assieme una specie di sommario della mia attività fino ad ora - e da cui vien fuori (e non posso nascondere che ne sono in un certo modo soddisfatto, dentro la mia più generale e continua insoddisfazione) che in questi anni ho continuato per la mia strada, senza guardare né a destra né a sinistra (e cioè guardando a destra e a sinistra), senza incertezze, senza dubbi, senza crisi (e cioè con molte incertezze, con molti dubbi con profonde crisi), e che tra il primo e l'ultimo di questi racconti si stabilisce come una circolarità: una circolarità che non è quella del cane che si morde la coda. L.S.


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