2010
Eugenio Giannone Saggi -1-
www.villachincana.it 23/11/2010
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MARIO GORI, saraceno di Sicilia Ad una prima, frettolosa lettura, quella di Mario Gori (Pseudonimo di Mario Di Pasquale, Niscemi,1926 – Catania, 1970) può apparire la poesia d’un solitario e “vagabondo sconsolato”, “saraceno di Sicilia” egli amava definirsi. Ma non è così perché Gori va inserito a pieno titolo, in quanto ne fu autentico protagonista con la sua operosità culturale, in quel vasto contesto ricco di fermenti innovativi che attraversò la produzione isolana in versi negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale e nei primi anni ’50 del secolo appena trascorso. Basti ricordare il “Gruppo Alessio Di Giovanni”, che operò a Palermo, e il gruppo dei poeti che egli riusciva a coagulare attorno alle sue riviste. Denominatore comune di questi giovani artisti era lo svecchiamento nei modi e nei contenuti della poesia siciliana per ritrovare più moderne forme espressive, riallacciando la nostra tradizione poetica al gran flusso della cultura europea senza, tuttavia, dimenticare la lezione dei classici. Siamo in piena stagione neorealistica e quasi sempre da un dato concreto muove la poesia del poeta di Niscemi, di cui quest’anno ricade il quarantennale della morte e la cui figura va accostata per chiarezza di dettato ed esiti formali ad altri due grandi poeti del ‘900 che hanno lasciato chiara impronta di sé nel nostro panorama artistico-letterario. Mi riferisco ad Alessio Di Giovanni e ad Ignazio Buttitta. Del poeta di Cianciana e di quello di Bagheria Mario Gori condivide la sorte: più famoso in vita che post mortem, come di solito accade Gori è il menestrello accorato di un’epoca in dissolvimento sulla quale irrompe il nuovo che avanza inesorabilmente e che promette palingenesi e conquiste impensabili ma che si rivela incapace di ovviare a mali come la guerra, la fame, le malattie, antichi quanto l’uomo che ancora una volta si ritrova solo nel cuore della terra. La solitudine è uno dei temi ricorrenti nella poesia di Gori, che così chiude il componimento intitolato “Se così era scritto”: “O mio Signore, /come te sono solo…” e, ancora: “Signore, siamo soli / in questa terra ormai così deserta”. Accanto alla solitudine l’incanto dell’infanzia con la sua innocenza, i suoi giochi, gli innamoramenti, la sua spensieratezza, i sogni infranti per cui la sua poesia diventa una struggente nenia del tempo che fu e si fa pianto che avvolge con la sua malia per i ricordi dolce-amari che lascia affiorare e per un mondo arcano, patriarcale che non c’è più. L’infanzia è l’età della meraviglia, delle dolcissime illusioni, una favola bella perché bella è la vita nell’immaginazione. Ma i sogni “avviliscono” e le speranze vengono “umiliate”; la prosaicità della vita li spazza via. Simile visione sconsolata della vita ha fatto apparentare Mario Gori a Foscolo, Pascoli e soprattutto a Leopardi. In lui non c’è il “minimalismo”, il farsi piccolo piccolo del Pascoli e non c’è il “mistero”, ma lo stupore di una fase della nostra vita. Gori - come fa invece il poeta di Recanati - non sbarra le porte al futuro perché andare sempre in cerca di qualcosa se si è scontenti del presente è, sì, segno di inquietudine e di ansia ma esprime anche la consapevolezza che altrove, chissà dove, c’è quello che cerchiamo e ci sfugge, “c’è il sole che fa gaia la primavera”, ci sono le fanciulle in fiore e il mondo con le sue luci e le sue ombre (Cartolina); e basta un filo d’erba che sussurri col vento (E’ la tua luce) perché torni a credere nella vita; Gori è consapevole che è insano inseguire illusioni (La lettera) e che il trascorrere inesorabile del tempo è nell’ordine naturale delle cose; sistematicamente, ad ogni estate succede implacabilmente l’inverno. E viceversa. E non guasta, a questo proposito, una sottile vena d’ironia. Meno forzato mi appare l’accostamento ai Crepuscolari con i quali c’è consonanza di temi, primo fra tutti il male di vivere (pena di vivere, la chiama in Infanzia).
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www.villachincana.it Ma perché accostare la produzione d’un poeta a quella di un altro o di altri? Perché cercare sempre modelli? Quella del Gori è la storia d’un uomo e della sua anima, della sua personalissima visione della vita, che si esprime attraverso la sua grande cultura che contempla certamente Foscolo, Leopardi, Pascoli, ma anche Petrarca e altri classici, non ultimi Quasimodo e Ungaretti al quale ci rimanda, in qualche modo, “Cincu e deci”, laddove il Poeta ricorda che i Caduti in guerra, in ogni angolo del mondo, sono vivi nel nostro cuore. La sua originalità è indubbia ed egli è un grande, una delle voci più amabili della poesia italiana del secondo Novecento. E’ vero: talune sue composizioni possono apparire “datate”, legate a quella particolare temperie che fu il neorealismo nella poesia, ma Gori resta poeta autentico specialmente là dove canta la tristezza del suo tempo e rievoca, anche in dialetto, le gioie e la spensieratezza dell’infanzia, patrimonio perduto assieme all’innocenza dell’anima di un re senza regno, che ci ha lasciato prematuramente, per cui non possiamo sapere quali sarebbero stati, a seguire, gli esiti del suo percorso poetico. Di certo abbiamo perduto qualcosa d’importante. Ed è altresì indiscutibile che la guerra ha avuto un ruolo importante nella vita del Niscemese perché essa, davvero, spazzò via i sogni e le illusioni della giovinezza. C’è un grande desiderio di pace in queste composizioni, la speranza di vivere in armonia con gli altri e quanto ci circonda, ma l’uomo gli appare una creatura impazzita e i vivi dei dissennati,che riescono sempre a farsi male. Il suo ci appare, per parafrasare un altro grande poeta, un contrappunto d’amore senza amore, un canto sconfinato di pietà e di speranza per il suo Sud: storie di miseria, d’abbandono, d’emigrazione e povertà; un sogno, un’ansia di riscatto che non avviene e si trasforma in un pianto desolato per un Sud “rassegnato” alle ingiustizie della vita. Trova spazio in queste poesie l’epos dei paesi siciliani, dove sogno e realtà, fantasia e prassi convergono per convivere, alimentandosi a vicenda. Ciò che pure colpisce nella poesia del quotidiano di Gori è la facoltà pittorica, fotografica, incline a cogliere i particolari e che fa sì che si abbia l’impressione di rivedere i luoghi e i momenti descritti, come nel caso dei giochi fanciulleschi che egli spesso rievoca in maniera magistrale e ci fa ritornare bambini, perché i poeti hanno anche la grande facoltà di trasportarci in un mondo onirico, al di là della dimensione spazio-temporale. Il tutto con un linguaggio affabulatore, fortemente espressivo, evocativo, che nei componimenti in vernacolo tende al recupero di termini desueti, che conferiscono un sapore antico al dettato e una struggente musicalità alla sua modulazione. Tutto in questi versi è musica, magia. Lo è l’infanzia con i suoi giochi, lo è l’amore, causa di tante sofferenze, per il quale a vent’anni ci si perde. E allora sarebbe meglio un mondo senza amore? Ma cosa sarebbe un mondo così, senza amore, senza calore? La vita sarebbe fredda e la speranza morta (A me matri). E’ meglio vivere di sogni, anche se illusori, perché quando un sogno finisce il mondo muore (Infanzia). E veniamo all’altro grande tema della poesia goriana: l’erranza, “malattia” comune a tanti siciliani della diaspora, ai siciliani di mare, non di scoglio. C’è in lui una sorta d’inquietudine selvaggia (saraceno) che gli fa sognare partenze e non gli consente tregua obbligandolo ad errare alla ricerca di qualcosa che riesca a placare la sua ansia. Un desiderio smodato di conoscere, scoprire, inebriarsi d’infinito,di qualcosa che forse non è mai esistito se non nei sogni, in una regione mitica verso la quale costantemente protende. Un’anima ribelle, che non sa rassegnarsi, con una spina nel cuore (Lettera al padre), che lo costringe a “consumare i giorni inutilmente, a chiudere le sere in amarezza, e sognare partenze e mai partire”. Evadere per non sapere dove andare; sicuramente lontano dai suoi luoghi, dove, tuttavia, sempre ritorna perché non sa staccarsene. E’ una specie d’amore-odio che lo Eugenio Giannone
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www.villachincana.it tiene in esilio, lo blocca “appena a un passo prima d’arrivare”. E’un andare continuo verso un sogno, “rifugio sicuro alla tristezza che portiamo dentro” (Il ritorno), verso il mondo mitico dell’infanzia e dell’immaginazione. Ma il Poeta sa che passata la dolce stagione dell’infanzia non è più possibile salire tra le nuvole né cantare canzoni alla luna. E seppure, ancora, questi versi ci rimandano a Leopardi, ci piace richiamare alla memoria il primo poeta esule siciliano, quell’Ibn Hâmdis, che fu primo vero saraceno di Sicilia. Un accenno alla composizione che molti considerano il capolavoro di Mario Gori, al “Notturno pisano”. Non leggetela, sdraiatevi su un divano, chiudete gli occhi e fatevela recitare: assisterete ad un film! Il Notturno è una poesia completa e “raggiunge vertici assoluti” (E. Schembari). Mi piace chiudere questo breve intervento sul poeta niscemese con un giudizio di Fortunato Pasqualino, lo scrittore d’ispirazione cristiana recentemente scomparso, che così afferma: [quella di M. Gori] “è una poesia contrassegnata da uno spirito di umiltà e di grandezza epica, cosmica, del dolore, ma esposta al rischio di una certa ingenuità e fragilità, in un tempo come il nostro, di estreme astuzie e crudeltà stilistiche”; e auspicando la ristampa delle opere del Poeta, perché, senza testi a disposizione degli studiosi, non è facile relazionare e ogni intervento non potrà che risultare settoriale o monco. (in Rivista Italiana di Letteratura Dialettale, anno V, Palermo, gennaio-giugno 2010)
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www.villachincana.it Morire di piombo per non morire di fame
Zolfo e scrittura in Sicilia Sintesi panoramica Con le sue luci (poche) e le sue ombre (molte) il mondo ctonio della zolfara ha attratto scrittori, drammaturghi, poeti colti e popolari e artisti di vario genere (dalla pittura alla musica, dalla scultura alla macchina da presa,al canto), non lasciando nessuno indifferente, costringendo a prendere posizioni che si fecero più intransigenti e politiche, soprattutto dopo la tragedia di Marcinelle, dove l’8 agosto 1956 perirono 262 minatori, di cui 136 siciliani, provenienti per la maggior parte dal bacino solfifero dell’Isola. L’unico modo per descrivere quel mondo senza luce, vero inferno dei vivi, rischiarato solo dal lustro di una fioca acetilene e ingentilito all’esterno dal giallo pallido della ginestra, e fatto di sfruttamento e di indicibili sofferenze per le condizioni subumane cui erano costretti i lavoratori era ricorrere alla metafora dell’inferno, come fece Guy De Maupassant, che, nel capitolo dedicato alla Sicilia de “La vie errante” (1890), scrive: “Se il diavolo abita un vasto paese sotterraneo, in cui fa bollire i dannati, è in Sicilia che ha eletto il suo misterioso domicilio”; e così continua: “Le vallate grigie, gialle, pietrose recano il marchio della riprovazione divina”, per concludere che lo sfruttamento minorile (dei carusi) era una delle cose più riprovevoli e penose che si potessero vedere. L’accenno ai minori ci richiama immediatamente alla mente la splendida e tragica figura del Ciàula di Luigi Pirandello, accanto alla quale può solo collocarsi quella di Rosso Malpelo, la più bella e scabra figura di vinto del Verga novelliere. Ciàula e Rosso: due reietti della società, due parìa, assetati di aria e di affetti, che dai picconieri e dagli altri lavoratori della miniera e della cava vengono accarezzati a calci. Il drammaturgo agrigentino, che pure doveva la sua condizione di agiatezza allo zolfo, è tra i più convinti denunciatari delle condizioni di vita e di lavoro, di miseria e di perdita della dignità umana degli zolfatari. Ne parla diffusamente, oltre che in Ciàula scopre la luna, nel grande affresco della Sicilia di fine ‘800 (la Sicilia dei Fasci) che è il romanzo I vecchi e i giovani (1913) e in parecchie altre novelle come Il fumo, Il no di Anna, Fuoco alla paglia, Lontano. Alle tragedie che si consumavano in zolfara, Giovanni Verga dedica il dramma Dal tuo al mio (1906), dove una visione personalissima e conservatrice non gli impedisce di testimoniare con onestà i sintomi della ribellione e i giusti motivi della lotta dei minatori (F.Imbornone, Sicilia, BS 1987), cogliendo il clima di quel momento storico (la stagione dei Fasci siciliani,
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www.villachincana.it strozzati nel sangue e che nulla sortirono per i minatori, come gli scioperi degli anni successivi). Altro figlio di proprietari di zolfare che alle reali condizioni dei “pirriaturi” e “carusi” dedicò, pagine altamente drammatiche fu Alessio Di Giovanni, considerato il più grande poeta dialettale del 1°’900. Parecchie le sue opere che ritraggono senza fronzoli, in maniera asettica ma potentemente incisiva, quel penoso mondo di sofferenze, soprusi, privazioni e stenti: il dramma in tre atti “Gabrieli, lu carusu” (1908), le poesie della zolfara inserite poi in “Voci del feudo” (1938), i versi dell’ode “Cristu” (1905), di “A lu passu di Giurgenti” (1902) e di “Nni la dispensa di la surfara” (1910). Altro grande poeta che s’è fatto paladino degli attori della zolfara è il sancataldese Bernardino Giuliana del quale vogliamo ricordare il componimento “Cristu surfararu”. Ma sono tanti i poeti, dialettali e non, che a quel mondo si sono ispirati; due su tutti: Mario Rapisardi e Ignazio Buttitta.Il maestro ed attore Giuseppe Giusti Sinopoli percorreva, recandosi ad insegnare a Nissoria dal suo paese, lunghi tratti di strada a piedi accanto agli zolfatari dei quali conobbe ”le misere condizioni economico-sociali” e ritrasse la pericolosità del lavoro in galleria, sempre pronta a crollare, nel dramma in tre atti “La zolfara” (1896), che, seppure non annoverabile tra i capolavori di questo filone di letteratura e pur non riuscendo sempre a saldare in maniera organica il privato e il sociale (Imbornone), è tuttavia una testimonianza di quella temperie. La riflessione sulle sofferenze umane è presente nell’opera di Nino Savarese e in quella di Antonio Aniante, che sulla miniera scrive “La rosa di zolfo” (1958). E’ del 1955 il libro “Le parole sono pietre” di Carlo Levi, che ad una vicenda realmente accaduta a Lercara Friddi, unico paese “zolfataro” della provincia di Palermo, dedica pagine al cui confronto altre di diversi autori impallidiscono. Siamo già agli anni di Leonardo Sciascia, che ebbe ad affermare che “senza lo zolfo in Sicilia non ci sarebbe stata l’avventura dello scrivere”. Alla zolfara Sciascia ha dedicato pagine indimenticabili. E’ sufficiente ricordare il lungo racconto “L’antimonio” (in “Gli zii di Sicilia”, 1958), in cui narra la vicenda d’un minatore che, per sfuggire l’abbrutimento della zolfara, preferisce arruolarsi volontario per la guerra di Spagna, andando a sparare contro altri connazionali che, nella penisola iberica, s’erano schierati con i rossi. La povertà, l’indigenza, la negazione della dignità umana avevano indotto molti proletari a morire “in Spagna di piombo per non morire di fame in Italia”. Pier Maria Rosso di San Secondo, scrittore d’avanguardia, alla zolfara ha dedicato, analizzando, col suo pessimismo e la sua amarezza, i grandi temi esistenziali, il dramma La bella addormentata (1919). E’ di Grotte (AG) Matteo
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www.villachincana.it Collura, autore di Baltico (1988), “ampio affresco della vita degli zolfatari siciliani, delle loro lotte e delle loro sconfitte, della loro minuta e spicciola cronaca quotidiana e paesana nella quale incombe e irrompe la storia nazionale” (Imbornone). Nella seconda metà del secolo testé trascorso gli scrittori di zolfara abbondano ed è difficile ricordarli o accennarli, anche se brevemente, tutti. Citiamo solo qualche nome: Angelo Petyx (La miniera occupata, 1952; rist. Caltanissetta, 2002),Vincenzo Consolo, Aurelio Grimaldi (’Nfernu veru, Roma 1985), Antonio Russsello (La luna si mangia i morti, 1960, rist. TV 2003), Andrea Camilleri con la sua consueta perizia ed ironia (Un filo di fumo, Palermo 1997), Sebastiano Addamo (Zolfare di Sicilia, Palermo 1989), Mario Farinella con la sua indignazione e il suo impegno militante (Tabacco nero e terra di Sicilia, 1951); Marina Doria, prematuramente scomparsa, con la sua straordinaria delicatezza (Il conto delle lune, Catania 2000), Calogero Morreale con la sua pacatezza e musicalità di linguaggio (Il peso del silenzio,Messina 20006); infine, ultimo solo in ordine temporale, Salvatore Di Marco (Sopra fioriva la ginestra, Palermo 2006). Molti degli autori menzionati, nella loro produzione, introducono altri temi legati alla condizione socio-economica della nostra Terra, scrivendo pagine esaltanti e tragicamente belle: emigrazione, disagio esistenziale, indigenza, mafia, emarginazione etc tutti riconducibili ad un unico filo: la povertà. Non volendo citare storici, sociologi e altri operatori culturali nonché le numerose riviste che al tema hanno dedicato ampio spazio, ricordiamo, per chiudere questo breve excursus, che sulla zolfara esiste una ricca messe di poesie e canti popolari di straordinaria bellezza, dovuti spesso all’estro degli stessi zolfatari rimasti anonimi e raccolti dal Pitrè’ e da L. Vigo. Qualcuno vi inserisce, addirittura, il famosissimo Vitti ’na crozza, dandone condivisibile motivazione.
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Poesia, musica e canto Se cominciassi a sciorinare una sequela di nomi quali armonia, canto, rima, ballata, madrigale, melica, lirica e chiedessi a qualcuno di cosa mi accingo a parlare, sicuramente alcuni risponderebbero “di poesia” e altri, con altrettanta sicurezza, “di musica”. Avrebbero tutti ragione. Musica e Poesia sono, infatti, due arti nobilissime, quelle che più ci avvicinano a Dio; utilizzano lo stesso linguaggio e quando sono perfette parlano allo stesso modo, suscitano le medesime sensazioni e rapiscono i sensi. Sono così prossime, così vicine che non possiamo affermare quale delle due sia nata prima. E non mi riferisco al suono perché esso esiste in natura, anche sotto forma di rumore, e la stessa voce umana è un suono e nemmeno al cinguettio degli uccelli o al cigolio d’una porta. La musica è un’altra cosa. La nostra diverrebbe una discussione di lana caprina della quale non riusciremmo a venire a capo, come quella dell’uovo e della gallina. Sappiamo che gli antichi Greci attribuivano al Teatro e segnatamente alla Tragedia una forte funzione educativa. Essa era ritenuta qualcosa di sacro, scritta in versi, veniva recitata e accompagnata dalla musica perché il ritmo e quindi le parole con i valori che si volevano veicolare rimanessero bene impressi nella mente ed essere ricordati. Ritmo è un altro dei termini che le due arti hanno in comune. L’Iliade e l’Odissea venivano cantate dai rapsodi, dagli aedi; Nerone, mentre Roma bruciava, cantava accompagnandosi con la cetra. Qualcuno dice che ripetesse i versi relativi all’incendio di Troia, ma niente di strano che, nella sua pazzia, fosse un cantautore! Melodia deriva dal greco e melòde era il poeta bizantino che musicava il testo delle sue composizioni liturgiche. Chi non ricorda le “Chansons” de gestes? I grandi poeti sono stati sempre raffigurati con una corona d’alloro in testa e una lira in mano e – scrive Boccaccio – Dante non disdegnava il canto e tra i suoi amici più cari c’era il musico Casella. Forse non tutti sanno che la Divina Commedia è cantabile, ha un suo motivo. Sì, perché quando i versi sono perfetti sono musicabilissimi e devo dire di più: La Commedia – che, guarda caso, è divisa in tre Cantiche per trentatrè canti ciascuna + 1- è in endecasillabi e si può cantare sul motivo di Vitti ’na crozza o Ciuri, ciuri, pur esse in endecasillabi e viceversa. Provare per credere! Per tornare ai termini comuni, vorrei ricordare che l’opera principale del “dolce labbro di Calliope”, cioè Francesco Petrarca, s’intitola Il Canzoniere, che durante il Rinascimento si scrivevano ballate (es.:Il trionfo di Bacco e Arianna del Magnifico) e che nel ’700 P. Metastasio scriveva ariette. Leopardi scrisse I Canti e il Carducci I Canti di Castelvecchio. Carducci ci riporta alla fine del XIX secolo, periodo in cui si afferma in Italia, come in tutta Europa, una nuova corrente artistica che fece della musicalità della parola il suo emblema, cioè il Decadentismo, che annovera tra i suoi maggiori esponenti in letteratura un personaggio del calibro di Gabriele D’Annunzio, che come pochi seppe trarre vibrazioni musicali dalla parola. Ne è un esempio La pioggia nel pineto. La Ballata, come tutti gli appassionati di musica sanno, è … che cosa? Come al solito i tifosi della poesia risponderebbero in un modo diverso da quello dei fans della musica. Allora diciamo che la ballata è un componimento poetico, inventato dai trovadori provenzali, che scrivevano versi e musica, aveva un carattere popolareggiante con delle strofe o stanze cui si alternavano i refrain, i ritornelli. Essa è l’antesignana della Eugenio Giannone
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www.villachincana.it canzone moderna. Ne è un esempio la Canzone di Marinella di Fabrizio De André, C’era un ragazzo di Gianni Morandi e 4 marzo ’43 di Lucio Dalla. Derivano invece dalla ballata tedesca, detta anche romanza, alcune canzoni di Andrea Bocelli e di Gianna Nannini. A proposito di De André, lo avete ascoltato mentre canta “S’’i fossi foco”, sonetto del poeta scapestrato del ’300 Cecco Angiolieri? U. Saba, che durante la seconda guerra mondiale pagò il suo essere ebreo e pubblicò un suo Canzoniere, è l’autore della poesia intitolata Città vecchia, la cui versione musicale è del compianto De André Quanti musicisti ha ispirato il Cantico delle creature di San Francesco? Don Frisìna ha musicato la versione originale, Riz Ortolani ne ha ricavato, liberamente, la colonna sonora del film Fratello sole, sorella Luna, intitolata Dolce sentire. E’un incanto. I testi di S. Francesco e C. Angiolieri si collocano agli albori della Letteratura italiana, eppure non finiscono mai di suscitare interesse e curiosità. Detto tutto ciò, il problema è un altro: quale peso dare alle parole e/o alla musica? Nelle discoteche si vedono torme di giovani che si dimenano all’unico suono distinguibile che fa “zuc…zuc…zuc”. Nessuno presta attenzione al messaggio che la stessa musica metallifera vuol veicolare; eppure è musica giovane! Non è la stessa cosa che cantare, danzare, suonare di quando si capisce il messaggio che l’autore ha voluto lanciare. Quando curavo le p.r. della Corale polifonica “Cantores Dei” spesso rimproveravo i coristi perché le loro esibizioni mi apparivano scialbe, asettiche; cantavano senz’anima, senza metterci sentimento. Li invitavo a meditare sui testi e sulla musica: cantavano meglio dopo ed erano più soddisfatti: non mi chiedevano più ”Che gliene sembra?”. I canti e la musica venivano interiorizzati: testo e musica diventavano una sola cosa e quando ciò succede capita anche che, a distanza di anni, un motivo, che credevamo dimenticato e possibilmente allegro che ha accompagnato una tappa della nostra esistenza, faccia capolino inconsapevolmente, ci ritroviamo a cantarlo e le parole escono in ordine perfetto.. E’ dunque chiaro che le parole hanno un senso. “La musica sia serva delle parole” diceva il Monteverdi, al quale controbatteva il Salieri affermando “Prima la musica e poi le parole”. E torniamo alla lana caprina, perché - dice Alfio Squillaci – “Le parole senza la musica sono vuote e la musica senza parole è cieca” (Alfio Squillaci, La canzone italiana tra poesia e quotidianità, in www.lafrusta.homestead.com) Sintomatico quanto accade nel cinema. Non s’è mai detto “prima la musica e poi il film”. Generalmente prima si monta la pellicola e poi si scrive la musica, la colonna sonora. Il contrario, a mia memoria, è capitato una sola volta con Bolero, ispirato dal brano omonimo di Ravel. Senza i libretti cosa avrebbero musicato Verdi e altri grandi compositori? Senza il testo di Schiller avremmo mai avuto l’Inno alla gioia di Beethoven? Avremmo semplicemente affermato “sono solo canzonette”. L’una a supporto dell’altra, quindi, e quando i due elementi si congiungono felicemente il risultato ci trasporta in una dimensione onirica, fantastica. Le parole sono importanti e ricorrere a poeti veri per la composizione di testi da cantare non è cosa accidentale. Quante poesie di J. Prévert o P. Neruda sono state musicate? Prévert in Francia ha segnato un’epoca. Del grande poeta cileno è il componimento Lentamente muore, cui è riconducibile il brano A te di Giovanotti. In Italia, in quella che per lunghi decenni è stata la patria della nostra vera canzone, prima di Sanremo, cioè Napoli, parecchi testi erano del grande poeta Salvatore Di Giacomo e Domenico Modugno, l’interprete della canzone italiana più famosa nel Eugenio Giannone
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www.villachincana.it mondo, cioè Volare (il cui testo è rimato), non ha forse cantato anche qualche testo del grande poeta modicano S. Quasimodo o sulle sue composizioni modulato? E potrei citare il caso del poeta Sergio Bardotti, che ha scritto testi per Ornella Vanoni, Mina, Vinicius de Moraes, Sergio Endrigo, L. Tenco, M. Martini, Venditti, Branduardi etc. - Enrica Buonaccorti, laureata in Lettere, è l’autrice di La lontananza, uno degli ultimi successi di Modugno. Nel mio piccolo ho composto per il canto “Forza,Sicilia”, musicata e cantata da Daniele Guastella, e l’inno “Cianciana”, musicata dal M° Vincenzo Borgia, già direttore della banda dell’Arma dei Carabinieri, e incisa dal tenore Nazzareno Antinori del Teatro lirico di Macerata. Nemmeno io, che pure ne ho tanto parlato e scritto, so quante volte ho definito Alessio Di Giovanni cantore della Valplatani. Di sicuro egli non ha mai cantato,nemmeno i versi (rimati) della canzone “La picciutteda di la Conca d’oro”, il cui testo qualcuno attribuisce ad un suo zio omonimo. Comunque molti suoi componimenti sono stati musicati (es. da Fortunato Montuoro ad inizio del ‘900 e dal Gruppo Popolare Favarese, più recentemente) come quelli di tanti altri i cui nomi abbiamo dimenticato o non sono stati registrati per cui sono considerati di Anonimo e definiamo semplicemente popolari. E la tradizione siciliana dei canti popolari, con testi veramente poetici, è ricchissima: basterebbe sfogliare la Raccolta amplissima di Lionardo Vigo e i due volumi di Canti popolari del Pitré. Quanto ha scritto Ignazio Buttitta per Cicciu Busacca e Rosa Balestrieri? E veniamo alla musica beat, alla beat generation. Al di là delle stravaganze introdotte negli anni della contestazione, è innegabile il grande apporto che cantanti come Joan Baez, Bob Dylan, che in America è considerato un grande poeta, e i Beatles hanno dato al rinnovamento della musica che a partire dagli anni ’70 del secolo testé trascorso comincia ad interessarsi anche del sociale, ciò che prima avveniva sporadicamente e che in letteratura era costante. Nelle canzoni del gruppetto di Liverpool si fondono i motivi del blues, arie popolari e rinascimentali scozzesi, i temi dell’amore, della religione e del pacifismo. Immaginate un mondo meraviglioso con rose rosse e nuvole bianche, un mondo di pace, che vive in armonia, un mondo senza frontiere, senza avidità né cupidigia. Poesia? Sogno? Ma i sogni sono fatti per essere realizzati! Sembrava impossibile per l’uomo volare…, andare sulla luna e simili. Madre Teresa era una sognatrice? Proviamo a dire tutti assieme “Io posso” e recitare “La vita…”. Due splendide poesie con musica arcana danno corpo ai concetti cui si accennava poc’anzi, nelle interpretazioni dei Beatles e di Louis Armstrong, l’indimenticabile Satchmo: Immagine di J. Lennon e What the wanderfull the world. La canzone italiana negli ultimi decenni ha fatto il salto di qualità con interpreti come F. De André, E. Bennato, F. Battiato, A. Branduardi, R. Vecchioni, F. Guccini, R. Zero, De Gregori, Dalla, Bertoli, P. Conte e qualche altro che sono dei veri artisti del verso (anche rimato) e della musica. E allora: sfogliamolo qualche libro di poesie, ascoltiamolo qualche Cd musicale e prestiamo attenzione, perché l’ascolto consapevole affascina, affina il gusto, educa al bello, invita alla meditazione, fa cogliere i particolari e aiuta a percepire l’armonia insita nelle cose e nel creato; trasmette emozioni più intense. Sostiene Monica De Steinkuehl (www.poesia e musica, Notte di Luna): “La musica è poesia, la poesia è musica. L’importante è sentirla dentro”.
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www.villachincana.it AA.VV, GIUSEPPE TAMBURELLO(1868-1942) Scrittore della nostra terra A cura di Paolo Cottone - Massimo Lombardo ed., Agrigento 2010 Vorrei cominciare a parlare di questo libro che raccoglie gli atti del Convegno di studi sulla vita e l’opera di G. Tamburello, svoltosi nel 2008, partendo dal sottotitolo, dalla denominazione del Tamburello: scrittore della nostra Terra. Quel “nostra” sta lì a ribadire l’orgoglio dell’appartenenza, delle nostre radici etnoantropologiche in un periodo in cui la televisione, prima, e internet e la globalizzazione oggi ci stanno completamente omologando. Guardate i nostri giovani: sembrano tutti figli della TV e di internet, parlano una lingua che non si sa se è Italiano, Siciliano, Inglese od Ostrogoto. Qualcuno all’Università studia lingua per il web. Che significa? Chi parla il Siciliano vero e, soprattutto, chi lo scrive? Il dialetto è il marchio dell’appartenenza, il nostro segno distintivo; è la lingua che abbiamo appreso poppando dal seno materno ma bevendo, assieme a quel latte, abbiamo ricevuto il retaggio dei padri, la storia di ciò che siamo stai e siamo. Siamo Europei, è vero! Ma io mi sento un siciliano d’Europa; son fiero della mia sicilianità e, quantunque abbia insegnato Letteratura italiana per 35 anni e ami molto la nostra lingua e i suoi autori, non perdo occasione di relazionarmi in siciliano, perché esso mi riporta alla mia gente, alle mie radici, alla mia, alla nostra Terra. Ma parlare è un conto, scrivere in siciliano un altro. Il fatto è che, quantunque, il Siciliano abbia tutte le caratteristiche d’una lingua, e lo è, non ha una sua grammatica con delle regole e un codice ortografico, per cui ognuno, colto o non colto, si sente autorizzato ascrivere come meglio gli pare, inserendo ad inizio di parola o nel suo corso raddoppi di consonanti, aggiungendo o togliendo H,utilizzando la Z al posto della S, inserendo apicetti, altri segni diacritici e così via, rendendo il siciliano, o meglio i “siciliani” scritti perché ognuno usa il suo vernacolo - una grande babele grafica. Un unico sistema ortografico sarebbe necessario e urgente e quale potrebbe essere questo sistema non sta a me dirlo, non ne ho l’ autorevolezza. La lingua e, quindi, il modo di scrivere li impongono i grandi scrittori e poeti. E’ alla loro lezione che bisogna rifarsi. In generale i modi di scrivere nella nostra lingua siciliana sono due: quello etimologico e quello fonografico. Quello etimologico affonda le radici nella nostra storia letteraria a partire dalla Scuola poetica siciliana ed è quello che oggi è prevalentemente usato. L’altro, il fonografismo, è la tendenza a riprodurre graficamente i suoni d’una lingua ed è un argomento ancor oggi molto dibattuto, soprattutto nei paesi dell’America latina, dove ognuno vuol parlare e scrivere il “suo” spagnolo.Vi ricordate cosa si dice a proposito di Stati Uniti e Inghilterra ? “Se c’è qualcosa che divide americani e inglesi è proprio l’inglese”. Il fonografismo fiorì in piena stagione veristica, diciamo dal 1890 al 1910, quasi a voler dare consistenza all’affermazione del Verga per il quale l’opera d’arte deve sembrare essersi fatta da sé. Non era possibile far parlare, per esempio, i nostri contadini o zolfatari in italiano o in un siciliano italianizzato. La loro lingua sarebbe apparsa ridicola. E si scelse questa via, radicale, per cui avremo dei termini che se effettivamente riproducono la vera pronuncia nostra: esempio. Sccurssuni (due C e due S) Sttatua (due T), Rroma o Rriti (due R iniziali) e altro, sono difficili da leggere. Al fonografismo aderirono autori d’un certo spessore e tra loro il mio compaesano Alessio Di Giovanni e il vostro Giuseppe Tamburello, che erano legati da profonda e reciproca stima. Il primo fonografista fu il pittore toscano Garibaldo Cepparelli, che nel 1896 pubblicò Fonografie valdelsane, curate da Orazio Bacci cui si deve la coniazione del termine. Per la cronaca, ricordo che la visione d’un Cristo del pittore di San Gimignano ispirò l’ode siciliana Cristu al Di Giovanni, opera che segna l’abbandono del fonografismo da parte del poeta ciancianese (1905). Per Tamburello l’avventura fonografica durò più a lungo e questa fu forse una delle cause del suo declino repentino. Ma io non devo parlare di quest’argomento ma del libro per il quale siamo qui questa sera.
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www.villachincana.it Si tratta d’un bel testo del quale siamo grati all’Amm.ne comunale di Realmonte che l’ha fortemente voluto. Al sindaco, ing. Farruggia, desidero esprimere il mio apprezzamento per la “Presentazione”. Le sue non sono parole di circostanza; si nota subito che si è lasciato coinvolgere anche emotivamente perché “crede nella cultura come strumento per delineare con maggiore evidenza i contorni dell’identità” sua e degli amministrati e “come coscienza di sé, dei propri limiti e delle proprie possibilità”. L’ing. Farruggia si mostra convinto, come noi, che la riscoperta delle nostre radici – e Sull’aia del Tamburello ce lo consente - è elemento fondamentale per capire chi siamo e dove vogliamo andare, è alla base “di ogni progresso morale e civile”. Il Sindaco ha capito, anche e soprattutto, che un popolo che non onora i suoi poeti e scrittori è condannato all’anonimato perché affonda le sue radici nel nulla. Il prof. Salemi, che mi ha voluto qui, ha fatto un lavoro oscuro ma encomiabile: è la sorte degli assessori, in primis di quelli alla cultura, ed ha concorso alla riscoperta del Tamburello, convinto che la conoscenza dell’opera di un autore è strumento non indifferente per riflettere sull’importanza dei luoghi, dei suoni, dei colori, dei sapori, sui costumi di una comunità”. Giungiamo al saggio del prof. Cottone. Bella penna! Ha saputo far rivivere con grande maestria e garbo e con un linguaggio semplice ma preciso, attento alle sfumature in un saggio impeccabile la figura e l’opera di del Vs. Direttore. E’ come se avesse riscritto le fonografie realmontane, così grandi appaiono l’amore e la passione con i quali ha cercato e poi studiato l’opera del Tamburello. Ha la grande virtù di prenderci per mano e guidarci per le strade paesane facendoci scoprire prima il personaggio Tamburello con la sua grande umanità, col suo acuto senso di osservazione e la sua grandezza d’uomo e di artista, e poi la gran massa dei figli del popolo che ogni giorno si spezzano la schiena per un tozzo di pane amaro. E’ un caleidoscopio di persone, di tipi, uomini e donne, giovani e vecchi, che in un gradevole amarcord ci trasporta nel palmento, sull’aia, in chiesa, tra contadini in stato d’agitazione per la spartizione delle terre, tra crocicchi di comari, di lavoratori che discutono di guerre e di fame, di giustizia, di malannate e di speranze, di miracoli e miscredenze in una fede elastica, di spigolatrici e altre costumanze, di fuitine e latinorum. Sembra proprio di vederli questi realmontani d’un tempo e ascoltare il loro cicaleccio musicale con le sue tipiche e colorite espressioni, magistralmente riprese dal Tamburello. Il ritratto che del Tamburello il prof. Cottone ci presenta, delineandone il profilo socio-culturale e inserendolo nel contesto culturale del suo tempo, in un’epoca dolorosa ed eroica, è quello d’un gentiluomo d’antan, un padre buono, che ama il bello e che ha onorato questa comunità fissandone la storia in pagine palpitanti e con vivezza icastica e potenza evocativa, con un linguaggio secco ed essenziale, cadenzato sul ritmo del parlato, ricco di sonorità; il profilo d’un uomo saggio, dalla giovinezza travagliata, sincero osservatore della natura e del popolo accanto al quale amava stare e per il quale soffriva per le vessazioni cui da secoli era sottoposto. Anche se non abbiamo avuto l’opportunità di leggere le Fonografie realmontane del Tamburello, l’intervento del prof. Cottone ce le rende familiari, appetibili. Ci incuriosisce. Chiaramente vorremmo leggerle, studiarle e per questo motivo chiediamo al Sig. Sindaco di assumere l’impegno a far ristampare Sull’aia, perché senza testi a disposizione degli studiosi ogni intervento non potrà che essere monco o improvvisato. Il prof. Di Marco non si smentisce mai: puntuale, preciso, spietato nelle sue analisi e non può che essere così, visto che ha chiaro davanti a sé tutto il quadro della produzione letteraria isolana, in lingua e in “dialetto”. E chi, meglio di lui, poteva mettere un po’ d’ordine, puntualizzare su un fenomeno quale il fonografismo, che seppure importante, è sempre marginale rispetto a tutto il nostro contesto letterario? Egli ne fa risalire i prodromi agli inizi degli anni ’60 del XIX secolo, quando, auspice la scrittrice friulana Caterina Percoto, ci si comincia ad interessare della vita quotidiana del popolo e nascono gli studi demopsicologici e “s’approfondisce il confronto sui criteri grammaticali e ortografici di trascrizione di tutti i testi raccolti dalla viva voce della gente”. Prese campo nel periodo l’orientamento di trascrivere le parlate dialettali in maniera più fedele possibile ai suoni e fu in questo fervido clima culturale che si inseriscono le fonografie del Cepparelli, la cui opera di certo venne conosciuta dal Tamburello e dal Di Giovanni, influendo più sul primo che sul secondo, volto più che altro in quegli anni al felibrismo provenzale. Infatti quando il pittore toscano pubblica la sua opera il Di Giovanni aveva già dato alle stampe il Maju sicilianu (1896), che raccoglieva poesie scritte anche negli anni precedenti. Non era stato
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www.villachincana.it il Cepparelli ad influire su di lui ma un altro pittore toscano, Niccolò Cannicci che con i pennelli aveva ripreso varie scene della vita campagnola. Per sua ammissione il D.G. sostituì ai colori e ai pennelli calamaio e penna. Fu seguace invece del del Cepparelli – “ma in tutta autonomia di stile e ragioni letterarie” – G. T, come ricorda il poeta ciancianese nel saggio introduttivo alla II edizione delle Fonografie valdelsane (1896), dove afferma che in Sicilia Cepparelli “trovò subito i suoi più amorosi critici e un veemente seguace in G.T., autore delle scultorie fonografie Sull’aia”. Ma se vogliamo, il fonografismo fu un fatto di secondaria importanza perché i grafemi sono segni convenzionali e per rendere tutti i suoni dovremmo avere un alfabeto infinito. Infatti, per restare alla sola lingua nazionale,una parola scritta in perfetto italiano suona diversamente se pronunciata da un milanese o un sardo, da un veneto o da un pugliese e così in Sicilia da un paese all’altro. Prendiamo la parola fiore: in siciliano si pronuncia con l’aspirata, come tutti sappiamo, ma si scrive ciuri, sciuri, hiuri, chiuri; qualcuno ricorre al χ greco, che non esiste nel nostro alfabeto. C’è quindi “tra la parola scritta e quella detta uno scarto fonico che nell’ortografia non è rappresentato”. In ogni caso, per poeti e scrittori dialettali colti la questione non si è mai posta perché essi hanno usato il metodo etimologico. Quello che interessa Cepparelli e con lui il nostro Tamburello era la parlata quotidiana della gente che bisognava nobilitare e gli esiti, tutto sommato, sono stati positivi se si considera la freschezza e la musicalità che sono riusciti a rendere con la trascrizione, per non parlare della loro importanza storico-documentaria. Naturalmente alla base di queste affermazioni c’è un approfondito studio che sarà sicuramente ripreso perché Di Marco è così. Gli accenni alla Percoto, al Franceschini, all’Alfani, al Bergmann, al Cecioni e all’IPA e ai vari linguisti e glottologi moderni non rimarranno tali. Ve lo dico per esperienza. Questo signore, da un saggio di poche pagine sul rapporto Di Giovannizolfara, è riuscito a dar vita a un libro di 230 pagine, intitolato Sopra fioriva la ginestra (2006). Continuando nell’analisi, l’attenzione di Di Marco si sposta sulla parabola esistenziale e culturale del Tamburello e sul suo sodalizio umano col Di Giovanni, del quale conobbe e apprezzò anche il padre Gaetano. Tra i due ci fu una profonda amicizia e una fitta corrispondenza che s’interruppe solo alla morte del Realmontano. Tamburello viene anche inserito dal prof. Di Marco nel suo contesto socio-culturale e definito “radicale tempra spirituale e intellettuale”, dai costumi sobri e dall’estrema riservatezza, che non fu la causa ultima del suo repentino oblio. Il Direttore mostrò un grande amore per la cultura popolare della sua terra, studiò con autentica passione civile la letteratura sociologica e politica delle zolfare e del feudo siciliani, formandosi dal punto di vista letterario alla lezione del naturalismo e del verismo, acquisendo una visione europea della cultura e della civiltà popolare. Indubbiamente, continua il Di Marco, egli partecipò con Martoglio, il Di Giovanni e altri al rinnovamento letterario di fine ‘800 (Nuova Scuola poetica siciliana) e notevoli appaiono l’autonomia e l’originalità del suo lavoro rispetto al Cepparelli. Quanto, infatti, le fonografie del Toscano sembrano elegiache, tanto quelle del Tamburello sono “di intensa drammaticità umana e sociale”. Sono “siciliane” o meglio, come sottolinea il nostro critico, “girgentane”: nei sentimenti, nei pregiudizi, nelle credenze, nel linguaggio. Egli seppe affermarsi come narratore proprio perché seppe leggere attentamente nell’animo della sua gente, conferendo alla sua opera un’impronta inconfondibile. Ma quest’opera andrebbe indagata in tutta la sua complessità e non solo nelle fonografie e negli scritti dedicati ai Di Giovanni. Per cui, concludendo, rinnovo l’invito all’Amm.ne Comunale e al curatore di continuare la ricerca su questo scrittore, che sicuramente altro ha scritto – e lo sappiamo – e che varrebbe la pena di riproporre nell’interezza della sua produzione. Per gli studiosi, per noi, per i curiosi e, soprattutto, per quanti ci seguiranno perché possano trovarvi un porto sicuro. Urgono i testi perché “nun si po’ jiri a ligna senza corda”!
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La delusione risorgimentale
Unificazione nazionale e Letteratura in Sicilia “Povera Isola, trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava incivilire! Ed eran calati i continentali a incivilirli … Calati tutti gli scarti della burocrazia; e liti e duelli e scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli assassini, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e le falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi …”. “… Il popolo siciliano! Che n’ha avuto? Com’è stato trattato? Oppresso, vessato, abbandonato e vilipeso!”. (L. Pirandello, I vecchi e i giovani, pag. 77)
Il passaggio della Sicilia dai Borboni ai Savoia, con le sue speranze e delusioni, ha trovato nella letteratura numerosi testimoni e interpreti. Fu chiaro a tutti che non s’era trattato, in definitiva, d’un processo di unificazione ma di una vera e propria annessione, che indusse i Siciliani a vedere nei “piemontesi” una nuova ondata di barbari “civilizzatori”, venuti un’altra volta a rapinare i tesori dell’Isola. Delle speranze “perdute” furono interpreti, a vario titolo, autori del calibro di Giovanni Verga, Federico De Roberto, Luigi Pirandello, Giovanni Pullara, quisquinese, e Giuseppe Tomasi di Lampedusa. I motivi del malcontento (nel 1866 la Sicilia votò contro il Governo) e della delusione furono molteplici e di ordine storico, politico e sociale. Per secoli la Sicilia era stata un regno con uno dei Parlamenti più vecchi d’Europa, che era stato mantenuto sempre in vita e, anche se svuotato di reali poteri, costituiva l’orgoglio dei Siciliani. Nel 1812 esso aveva votato una Costituzione liberale che re Ferdinando IV, divenuto 1° delle Due Sicilie, si affrettò a revocare subito dopo il Congresso di Vienna. E questo fu il primo tradimento che gli abitanti dell’Isola mai perdonarono ai Borboni, contro cui si ribellarono nel 1820 e nel 1848 quando alzarono la bandiera del federalismo nella speranza di un “armonico inserimento della Sicilia” nel Regno di Vittorio Emanuele che ne rispettasse l’autonomia politica. Ma “il giusto modo d’intendere l’annessione della Sicilia all’Italia” venne disatteso perché il timore di veder naufragare l’Unità appena raggiunta fu più forte di qualsiasi ipotesi di decentramento. Quindi, “prevalse… la soluzione meno gradita ai Siciliani: quella dell’accentramento ancora più rigido e intollerante di quello introdotto dai Borboni dopo il 1816” 1.Dal punto di vista economico-sociale le condizioni dei contadini, soprattutto nella Sicilia occidentale, non cambiarono granché e il bracciante continuò a dipendere, “angaricamente”, dal gabelloto mafioso. “Anche i terrieri ebbero ragione di lamentarsi per l’eccessivo fiscalismo del nuovo Regno che … aveva applicato alla rendita agraria del Sud – di gran lunga minore in rapporto a quella del Nord – le stesse aliquote di fondiaria, la tassa sui terreni; furono introdotti la ricchezza mobile sulle attività industriali e professionali e il focatico e il macinato”2 che venne considerato una tassa sulla miseria. La maggior parte delle entrate tributarie veniva impiegata nel Nord. Scrive il prof. Santi Correnti: “Per ogni cento lire esatte lo stato unitario spendeva 93 lire annue per ogni abitante del Lazio, 71,15 per ogni abitante della Liguria, solo 19,88
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L. Natoli, Op. cit., pag. 317. L. Natoli, Op. cit., pag. 317.
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www.villachincana.it per ogni siciliano”3. Pochissimi i soldi investiti dal nuovo stato in infrastrutture, mentre quelle poche attività produttive, generalmente artigiane e a conduzione familiare, che in qualche modo avevano potuto reggersi grazie al protezionismo borbonico, dovevano subire ora la concorrenza della nascente industria del nord, ben presto anch’essa protetta dal Depretis sempre a discapito dell’agricoltura meridionale, che dovette pagare il peso della guerra delle tariffe doganali con la Francia, verso cui erano diretti i prodotti ortofrutticoli. Se a tutto questo si aggiunge l’inconveniente della coscrizione obbligatoria, novità per i giovani siciliani, le cause del malcontento risultano ancora più evidenti e si spiegano anche il banditismo e le jacqueries. Alla crisi dell’agricoltura va aggiunta quella del settore solfifero, del quale la Sicilia per lungo tempo aveva tenuto il monopolio mondiale, ma che entra ben presto in crisi per la scoperta degli enormi giacimenti minerari americani. La conduzione delle zolfare, che Pirandello conosceva assai bene, non aveva nulla da invidiare all’arretrato sistema feudale e precapitalistico delle campagne, con uno sfruttamento degli addetti ai lavori che grida ancor oggi vendetta. Ancora Nei primi anni ’90 del XIX secolo “l’Isola era attanagliata dalla disoccupazione e dalla fame”4. La politica. I nostri ineffabili politici: più li conosci e meno li apprezzi; rappresentanti di se stessi e non della popolazione di cui sono espressione. Áscari che in centocinquant’anni hanno pensato solo ad arricchirsi, a sistemare figli, nipoti, pronipoti, familiari, amici, amici degli amici, ruffiani, dando vita ad un clientelismo e a un “familismo” vergognosi, ignorando o facendo finta di non vedere la carenza di infrastrutture, il bisogno di ammodernamento della nostra Terra, seminando invece – quando lo hanno fatto - cattedrali nel deserto. E dire che abbiamo avuto siciliani a capo dell’Esecutivo e un gran nugolo di ministri! Non immuni da pecche sono anche i rappresentanti che siedono a Sala d’Ercole, che non hanno saputo attuare i benefici previsti dallo Statuto regionale, che è più vecchio, addirittura, della Costituzione repubblicana. Ma forse diceva bene il Poeta: ”Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”! E’ meglio rifugiarsi tra le pagine della Letteratura, dove nessun autore mente a se stesso e dice verità scomode che suscitano il riso di compassione dei potenti. Come sostiene Leonardo Sciascia nel lungo racconto “Il quarantotto” (in Gli zii di Sicilia): “Mio caro Nievo – disse con affettuoso compatimento Garibaldi.”. Era successo che il barone Garziano, delatore, nemico dei liberali, reazionario, dopo i successi dei Mille era diventato un patriota pronto a mettere se stesso e le sue sostanze a disposizione dei vincitori e trasformare l’Eroe dei due mondi da “brigante” in “generale” e a I. Nievo, che aveva affermato “quest’uomo ha per noi tutto l’entusiasmo della paura”, Garibaldi aveva risposto, appunto, con un sorriso compassionevole. Che ne sapeva il giovane “poeta” dei giochi sottili della politica?! Alle sue insistenze “Garibaldi fece un gesto reciso -Torniamo alla poesia - disse”. 5 Coevo dell’opera sciasciana è Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dove l’Unificazione nazionale è intesa come una “necessità storica” e dove il disincantato principe don Fabrizio Salina conduce un’analisi caustica della rivoluzione del ’60. Una rivoluzione di pulcinella, nella quale il vecchio ceto dominante, la genia dei Garziano, è pronto a voltare gabbana per preservare atavici privilegi. “Se non ci siamo anche noi quelli ti combinano la repubblica”. Con la “repubblica” mille cose sarebbero mutate e i cittadini, non sudditi, avrebbero tutti avuto pari dignità, almeno formalmente: diritti e doveri uguali per tutti. Una
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Santi Correnti, Storia della Sicilia, Milano, 1956, pag. 256. L. Natoli, op. cit., pag. 327. L. Sciascia, Gli zii di Sicilia, Torino 1958, pag. XXXX
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www.villachincana.it bestemmia la “repubblica”; quindi - aggiunge Tancredi, nipote del Gattopardo – “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”6. Una rivoluzione di facciata per la quale s’era sostituito “l’organista senza cambiare né strumenti né musica: e a tirare il mantice dell’organo restavano i poveri” 7. Quei poveri che, spinti dal fascino di Garibaldi e dall’illusione che alla rivoluzione politica sarebbe seguita quella sociale, avevano dato entusiastica adesione ai Mille e talvolta anche la vita per la “Talia” e che a Bronte, in nome della libertà dalla miseria e prestando fede ingenua ai mille proclami rivoluzionari (come quello del 2 giugno, che prometteva la divisione delle terre demaniali e miglioramenti di vita per i contadini), avevano assaltato come fiume in piena municipio e palazzi baronali per cancellare le carte della schiavitù e vendicarsi dell’oppressione secolare seminando di vittime il percorso, tutto travolgendo nella rovina e sfogando in questo modo antichi rancori e rabbia secolare. La risposta fu perentoria: Nino Bixio fece fucilare, attuando giustizia sommaria, alcuni rivoltosi mentre altri, dopo un lungo processo celebrato a Catania, furono condannati a dure pene: “all’aria vanno i cenci”8. Gli avvenimenti del 2-5 agosto 1860 sono narrati in maniera “spassionata” e con la solita perizia da Giovanni Verga nella novella Libertà. Ne I Malavoglia padron ’Ntoni, recandosi dai “pezzi grossi del paese” per evitare il servizio militare al nipote, “pregava e … strapregava per l’amor di Dio di fargliela presto la repubblica, prima che suo nipote ’Ntoni andasse soldato”. Infatti, come diceva don Franco lo speziale, con la repubblica “tutti quelli della leva e delle tasse li avrebbero preso a calci nel sedere, ché soldati non ce ne sarebbero stati più…”9. Era questo il sentire delle masse popolari abbrutite da secoli d’ignoranza: “Adesso è finito il tempo delle prepotenze!... D’ora innanzi siamo tutti eguali!...” – dice, in Mastro don Gesualdo fra Girolamo dei Mercenari al barone Zacco10. Tempi nuovi reclamano uomini nuovi, cioè vecchi: ai gattopardi, che non vogliono per decenza uniformarsi, subentrano le avide iene, che ne erano i succedanei in società, e i nobili che riescono a riciclarsi, come Consalvo Uzeda, de I Vicerè di Federico De Roberto. Consalvo è un uomo cinico, privo di ideali e assetato di potere; si finge liberale e democratico per guadagnare un seggio nel parlamento del regno del quale si vede già ministro. Per lui “l’importante è non lasciarsi sopraffare […].Quando c’erano i Vicerè, gli Uzeda erano vicerè; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento …”. “Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo …La differenza è più di nome che di fatto…[…] e poi il mutamento è più apparente che reale. […] La storia è una monotona ripetizione. […] Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa di oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore.[…] Il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!...”11. La condanna del fallimento risorgimentale non poteva essere più netta: per De Roberto, Pirandello e Sciascia gli ideali che avevano condotto all’Unità erano stati svenduti, le speranze di rinnovamento della società siciliana frustrate, il sogno infranto. Per chi e cosa aveva combattuto il “vecchio” pirandelliano Mauro Mortara? Con convinzione il drammaturgo agrigentino fa esclamare a donna Caterina Laurentano “Meglio prima! Meglio prima!” 12; e Sciascia “Quello che c’è ora … fa 6 7 8 9 10 11 12
G. Tomasi, Il Gattopardo,Milano 1958, pag. 24. L. Sciascia cit., pag. 133. G. Verga in Libertà, in Novelle rusticane, Milano 1883. G. Verga, I Malavoglia, Milano 1881, pag. 3. G. Verga, Mastro don Gesualdo, Milano 1889, pag. 188. F. De Roberto, I Vicerè, 1894, pag. XXX L. Pirandello cit.
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www.villachincana.it rimpiangere i sottintendenti del Borbone”13, mentre Enzo Papa si chiede: “A che è servita questa rivoluzione, se a guidare il paese sono sempre le stesse persone, con gli stessi interessi, le stesse infamità14”? Il popolo siciliano aveva bisogno di essere “conosciuto e amato”, di essere ascoltato, “educato e allevato”, soddisfatto in bisogni che si sono incancreniti e dai quali ancor oggi non si riesce a venir fuori. La forbice tra Nord e Sud non s’accorcia e col Federalismo, che pure al momento dell’Unificazione nazionale era la massima aspirazione degli Isolani, le cose non faranno che peggiorare perché ognuno dovrà “friggersi col suo olio”. Ma, in fondo, forse è meglio così: vedremo un’altra volta, e questa volta si spera in maniera definitiva, di cosa è capace (o incapace?) la nostra classe dirigente. “Solo chi cade può risorgere”. Sarà vero? Quante volte dovrà ancora cadere il popolo siciliano o ha ragione Il Gattopardo quando afferma che “i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti”? Veramente “la loro vanità è più forte della loro miseria 15”? O ci vorranno “decenni, decenni, se non secoli, prima che il popolo si scrolli di dosso la sua pelle ferina, prima che scorga l’orizzonte della sua dignità16”? I veri sconfitti della rivoluzione del ’60, accanto alle masse popolari, furono i democratici autentici, coloro che per la patria unita avevano dato il sangue e viste confiscate le loro sostanze, pagato con l’esilio la fermezza degli ideali. Nella nuova società, fondata sul vecchio, non c’era posto per i puri, per chi non era disposto al compromesso con gli altri e con la propria coscienza; essi vengono emarginati o resi inoffensivi all’opposizione. “Noi abbiamo sudato sette camicie a coltivare il campo e loro ne godono i frutti17”. Diversa la sorte dei moderati, parecchi dei quali “fratelli massoni”, che seppero gestire il momento del trapasso, assicurando l’ordine, e con la nuova “alba” occuparono nelle amministrazioni gli spazi che avevano degnamente guadagnato con la loro condotta e attività e fecero la carriera che competeva loro. Di moltissimi liberali e democratici nessuno “ha un impiego, mentre poi si vedono gli impieghi tutti e le prebende divisi tutti od accumulati in persone che non li meritano per altro, che per l’intrigo e l’improntitudine18”. *** II PARTE “Non è questa l’Italia che sognavo” (Garibaldi morente.?) L’unico ad uscire indenne da quest’oceano di delusione fu Giuseppe Garibaldi, che, tra obiettivi veri e promesse non mantenute, aveva portato a compimento la sua missione. Egli entrò subito nell’immaginario collettivo siciliano assumendo le sembianze d’un eroe senza macchia e senza paura venuto a liberare un popolo schiavo che subito ne resta affascinato, folgorato proiettandolo nel mito, dove pure lo avevano collocato durante e dopo l’impresa – i suoi Mille e soprattutto i memorialisti in camicia rossa, quali, per citarne solo tre, G. C. Abba (Da Quarto al Volturno, del 1880), A. Mario (Camicia rossa,del 1875) e G. Capuzzi (La spedizione di Garibaldi, del 1860). Ecco come lo presenta il poeta e sindacalista rivoluzionario Vito Mercadante: “… Chistu è l’omu chi vinci la sorti! / …Chistu è l’arma di tutti sti genti!”. 13 14 15 16 17 18
L. Sciascia cit., pag1116 E. Papa, La città dei fratelli, Siracusa 1989, pag. 86-87 G. Tomasi cit., pag. 126. E. Papa, La città cit., pag.95. ibidem, pag. 85-86 Giornale “L’Alba”, gazzetta di Noto, 12 aprile 1885, in E. Papa cit., pag. 198.
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www.villachincana.it E’ un “cavaleri mai vidutu / ’ntra stu mari di frumentu”, la cui “vita è di cui soffri,/ cavaleri di lu munnu” per cui “Unni regna tirannia, / unni un populu è suggettu, / lu so vrazzu valurusu / e pi scutu lu so pettu!”. Egli è sempre “serenu comu un Diu” e se fissa con i suoi occhi profondi nessuno gli resiste e si sente trascinato19. Per Alessio Di Giovanni, che sull’impresa garibaldina in Sicilia tornò più volte nei suoi scritti, il Nizzardo sembrava “un patri ca parra a li so figghi … avìa ’na vuci ca scuteva l’arma …/…/ Veru veru pareva Gesù Cristu, / senza superbia cu li puvireddi!”20; la sua voce era così bella “che innamorava come quella di una donna”21. Per Baldassare Li Vigni Garibaldi è il nuovo sole che “nni leva di ’ncruci” ed è, perciò, “binidittu tuttu”, angelo incarnato, che stima come figli i Siciliani22. Garibaldi è un essere straordinario, che non ha paura di esporsi alle pallottole, un vero padre che mangia minestra di fave verdi come tutti i mortali e i suoi soldati, che siede su pietra e ha parole di conforto e incoraggiamento per tutti, soprattutto per chi soffre. I canti e la poesia popolare non potevano ignorarlo e l’Eroe diventa leggenda: “Ch’è beddu Caribardu, ca mi pari / san Michiluzzu arcancilu daveru,/ La Sicilia la vinni a libbirari / e vinnicari a chiddi ca mureru; / quannu talìa, Gesù Cristu pari,/ quannu cumanna Carlu Magnu veru”. “…/ E quannu lu cumannu iddu dava / tuccava trumma e prima si mittìa,/ cu ddu cavaddu lu primu marciava, / ’mmenzu li scupittati cci ridìa”. “Vinni ’Aribaldi lu libiraturi, / ’nta lu so cori paura non teni /…/ fu pri chist’omu ccu la fataciumi / ca la Sicilia fu libira arreri.”23. Nei canti raccolti da Antonino Uccello 24 Garibaldi ha “la magnanimità di un invitto paladino” che trasforma l’inferno isolano in paradiso dando linfa alle speranze dei Siciliani di una vita migliore; a Palermo, per assonanza di cognome, viene imparentato a Santa Rosalia (Sinibaldi), patrona della città. I cantastorie narrano le sue gesta (è capace di fare scaturire anche l’acqua dal suolo) e le ragazze stornelli: “Ciuri di linu!/ Guarda l’amuri miu quant’è baggianu; / russu vistutu di caribardinu! / Ciuri di cocuzza! / E ora l’amuri miu sgherru mi passa, / cu la cuccarda e la cammina russa.” Lo stesso atteggiamento traspare nella Raccolta amplissima di canti popolari siciliani di Lionardo Vigo (Catania 1870-74) e nelle opere di altri demologi. E potremmo ancora continuare. L’unico inconveniente per i piccoli paesi dell’entroterra siciliano furono le bande di ladri e briganti che, liberi dopo anni di catene in occasione della Rivoluzione, continuarono a delinquere seminando terrore tra le miti popolazioni, spacciandosi per garibaldini e tutori dell’ordine. Simile situazione è descritta da Giovanni Pullara in un romanzo25 nel quale racconta le imprese del capitano Padella che imperversò nel territorio di S. Stefano Quisquina, si vendicò di quanti riteneva suoi nemici, vessò oltre ogni dire la popolazione e organizzò una “spedizione” contro le monache della badìa di Gesù a Bivona. Similare vicenda è narrata da Pirandello nella novella L’altro figlio, che ha per protagonista il feroce bandito Cola Camizzi, che in un monastero gioca a bocce 19 20 21
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V. Mercadante, Lu sissanta, 1910, ristampa: Palermo 1982 A. Di Giovanni, Za Francischedda, A. Di Giovanni, Sacerdoti e francescani di Sicilia nell’epopea garibaldina del ’60, in La Sicilia del Risorgimento, Palermo 1932 B. Li Vigni, Pri la vinuta di l’eroi Garibaldi in Sicilia, in A. Uccello, Risorgimento e società nei canti popolari siciliani, Catania 1978 I tre canti popolari trovansi nel volume Canti e poesie popolari, a cura di Giuseppe Vettori, Roma 1975, contrassegnati dai nn.272,273,274. A. Uccello, Risorgimento e società cit., pag. 161 e sgg. G. Pullara, Sicilia dal mare di rosa, I, Il nembo sulle messi, Palermo 1981.
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www.villachincana.it con le teste delle sue vittime e ammazza le povere creature di Dio, così, per piacere, come fossero mosche, per provare la polvere… Sfuggiva a quelle inermi popolazioni la consapevolezza che nulla quei ribaldi e la loro liberazione avessero a che fare con Canebardo che, anzi, si adoperò per restaurare l’ordine. *** Concludendo questo breve intervento: Nessun siciliano ha mai messo in dubbio l’Unità della Patria per la quale nelle guerre e moti risorgimentali molti hanno combattuto e dato la vita. Francamente un po‘ tutti i nostri avi si sarebbero aspettati un trattamento diverso e una maggiore attenzione e autonomia, che quando è arrivata non è stata saputa adeguatamente indirizzare. Se i “piemontesi” hanno colpe, sicuramente le loro responsabilità sono minori di quanti avrebbero dovuto rappresentare al Parlamento nazionale le istanze dei Siciliani, un popolo che s’è abituato a chiedere per favore quanto gli spetta di diritto, ad aspettare che gli altri risolvano i suoi problemi e a flirtare col potere. Una cosa questi rappresentanti non riusciranno mai a fare: imbavagliarci e toglierci la cultura che è voglia di pensare con la nostra testa. Paradossalmente devo concludere affermando che hanno fatto di più i Leghisti (dei quali non condivido assolutamente alcuni atteggiamenti) per la popolazione della Padania negli ultimi vent’anni che i nostri paladini in questi primi (speriamo non ultimi) 150 anni di Unità
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Il Partito Comunista Italiano nel ‘900 ciancianese (ricostruzione attraverso testimonianze) Il PCI ha svolto un ruolo politicamente meno appariscente rispetto al PSI, che in paese ha sempre ottenuto più consensi, ma è stato costantemente al fianco dei lavoratori e della popolazione interpretandone bisogni e aspettative, guidandoli quando è stato necessario e non sottraendosi mai al confronto. Com’è noto, il PCd’I nasce con la scissione di Livorno nel 1921 ma gli ideali del socialismo a Cianciana si erano radicati sin dall’ultimo decennio del secolo precedente, come testimonia la vicenda dei Fasci siciliani, che da noi ebbero una sezione. Non è stato facile crescere e ancor meno affermarsi per diffidenza diffusa e l’emarginazione nella quale lo spingeva la mafia che negli anni Venti a Cianciana era “alta”. E’ emblematico, in tal senso, l’episodio (fine 1921) accorso all’on. Domenico Cigna che, dopo un famoso discorso alla Camera sull’ordine pubblico in Sicilia nel quale denunciava il perverso connubio tra malavita organizzata e politica, sulla SS. 118, all’altezza della “Trincea di Garibaldi”, fu aggredito da un gruppo di malfattori, malmenato e salvato dall’intervento dei Carabinieri, sollecitati da un magistrato. Il PCI era nato da poco ma a Cianciana non ebbe il tempo di organizzarsi perché il fascismo, nel volgere di poco tempo, mise fuori legge tutti i partiti politici. Ne fu l’anima Domenico Cuffaro che operò clandestinamente per riorganizzare il Partito in provincia, spacciandosi nel suo peregrinare per agente di commercio, accompagnato nei suoi spostamenti a cavallo dal sig. Giovanni Gambino. Cuffaro venne arrestato più volte, anche preventivamente, e quando era a Cianciana era ospitato dallo zio, il maestro G. Abate. Nemmeno il secondo dopoguerra fu facile: c’era molta povertà e disperazione diffusa, come testimonia l’episodio di spoliazione, da parte di alcuni ciancianesi, dei cadaveri dei bersaglieri che, al Salacio, erano stati massacrati dagli Americani (1943). D. Cuffaro, che sarebbe stato eletto due volte deputato regionale, faceva la spola tra Sambuca e Cianciana; una sua più costante presenza in paese sarebbe stata sicuramente più incisiva e avrebbe aiutato il Partito a crescere. Il primo segretario di sezione dopo Cuffaro fu, nel 1946, Gaetano Marino, cui subentrò Alfonso Amato, che era stato nella Resistenza. In quegli anni fu a Cianciana, come commissario per riorganizzare il Partito in zona, X Giglia Tedesco, ospite del Marino per cinquanta giorni. Non vigeva il “centralismo” democratico perché tutte le questioni venivano dibattute democraticamente, dando a tutti la possibilità di esprimere le proprie opinioni. Nel 1947 i dirigenti comunisti locali furono a fianco dei circa centocinquanta braccianti che tentarono di occupare le terre dell’ex-feudo Bissana, come furono accanto agli zolfatari durante gli scioperi e l’occupazione delle miniere del 1953. Saro Monaco e i suoi familiari, X Marino, P Castellano, A Caruana furono tra i più attivi nella lotta, anche se i meriti maggiori poi andarono ai socialisti. Saro Monaco era segretario di sezione e componente del Direttivo e… (Lega). Il segretario della CGIL locale è stato generalmente un socialista ma la vera anima delle Leghe erano i comunisti, che andavano molto d’accordo con la “base” socialista. Vincenzo Alfano era attivissimo nell’INCA. Numerose furono le iniziative a favore degli zolfatari, dei braccianti, dei coltivatori diretti e dei mezzadri, volte al loro innalzamento materiale e culturale. Gasparino Di Prazza, coadiuvato anche dai compagni comunisti, andava in giro per le campagne per fare assicurare i lavoratori e far rispettare l’applicazione del Decreto Gullo. In quegli anni la mafia e le calunnie nei confronti della Sezione e dei suoi iscritti continuavano nella loro azione, alienando al PCI le simpatie dell’intelighenzia locale. Eugenio Giannone
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www.villachincana.it A Saro Monaco, perito in zolfara nel 1957, furono negati funerali religiosi e V. Marino dovette sposarsi col solo rito civile, in Municipio (terzo matrimonio del genere in Italia). L’azione della Chiesa nei confronti dei socialcomunisti era risoluta in tal senso. Il Partito comunista ciancianese, che aveva due consiglieri comunali, nel ’56 col Blocco del Popolo e grazie alle divisioni interne alla Democrazia Cristiana, che per l’occasione presentò due liste, vinse le elezioni con Antonino Calamo, socialista, sindaco. Tre furono i consiglieri comunali in quella legislatura, il cui vicesindaco fu Giovanni Di Prazza, che si proclamò indipendente. L’Amministrazione Calamo non giunse alla fine naturale del mandato per dei provvedimenti impopolari e nel 1960 il sindaco tornò ad essere un democristiano. Cominciavano le giunte di centrosinistra. I rapporti tra il gruppo dirigente del PCI e la corrente socialista di Calamo non erano dei più idilliaci e più volte alcune proposte dei comunisti (un cantiere per sistemare la strada d’accesso al Calvario, rimboschimento di Monte Cavallo) furono respinte. Nel 1953 gli iscritti al Partito erano73 e la FGCI contava 150 tesserati. Nel 1960 l’ex-sindaco Antonino Calamo fu eletto deputato. La sezione comunista si rifiutò di appoggiare il “paesano”, socialista, nonostante le insistenze di Vincenzo Augello, Giuseppe Croce e Giuseppe Medardo, la cui proposta venne bocciata, ma contro i tre non vennero presi provvedimenti. Sempre nel ’60 i consiglieri comunali eletti nelle file del PCI furono Olindo Carubia e Vincenzo Marino (segretario di sezione dal 1957 al ’63), che avanzò la proposta del rimboschimento in sede sindacale ad Agrigento, trovando un interlocutore interessato in X Palumbo. Negli anni ’50 e ’60 i veri nemici del PCI a Cianciana furono, comunque, la mancanza di lavoro, l’emigrazione (i compagni si sarebbero impegnati nelle loro nuove residenze) e l’assenza degli intellettuali. Al momento della chiusura delle zolfare i dirigenti del locale PCI premettero perché agli ex-minatori venisse offerta un’altra chance attraverso dei corsi di riqualificazione professionale e garantendo loro una buonuscita. In quell’occasione si verificarono episodi poco chiari con gente che non aveva mai lavorato in miniera ammessa ai corsi di qualifica e in grado di percepire assegni. Tra il 1970 e l’’80 alcune categorie, soprattutto giovani studenti, cominciano ad avvicinarsi al PC e scema via via la discriminazione nei suoi confronti, anche se qualcuno durante gli anni di piombo dipingeva i comunisti come fiancheggiatori delle brigate rosse. Ma i tempi e le persone mutano. Gli anni ’90, che segnano una rottura anche a livello nazionale (svolta della Camilluccia) col passato, sono quelli della svolta e del cambiamento e finalmente si cominciano a raccogliere i frutti del lungo lavoro e del messaggio insito nel “compromesso storico” di E. Berlinguer. Nel 1991 Vincenzo D’Angelo, docente in un Istituto superiore e , poi, prematuramente scomparso, diventa sindaco di Cianciana: il primo sindaco espressione del PCI/PDS. Nel 1994 fu eletto sindaco, il primo scelto direttamente dal popolo, Gaetano Pulizzi, diessino. Erano gli anni di Tangentopoli e Mani pulite. In seno ai Ds non c’era accordo e qualcuno voleva presentare una terza lista da opporre ai due candidati alla carica di primo cittadino, Gianni Di Noto e, appunto, Tanino Pulizzi. La frattura rientrò prima del ballottaggio e condusse alla vittoria del Pulizzi, che ha lavorato come e più d’un mulo, anche se i frutti della sua dura fatica sarebbero stati apprezzati in seguito.
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Vito Lo Scrudato, Varsalona, l’ultimo brigante, Nel latifondo siciliano tra ‘800 e ‘900, Palermo 2010 Il Brigantaggio è un fenomeno estremamente serio che bisogna sfrondare di tutte le romanticherie che lo circondano per comprenderlo pienamente. Esso è molto complesso e affonda le sue radici nella storia isolana, fatta di dominazioni straniere, di fame e povertà, sopraffazioni, prevaricazioni, angherie d’ogni genere perpetrate ai danni di braccianti, zolfatari e lavoratori da parte di antichi e nuovi padroni, dal baronaggio, che è stato – accanto alla mafia – l’altra infamia della Sicilia, e da una classe politica inetta che non ha saputo dirigere o governare il rinnovamento della società siciliana ma ha operato con avidità e arroganza a vantaggio proprio e dei famili. E non è assolutamente da confondere con la mafia, perché mentre il brigantaggio è combattuto dalla stessa delinquenza organizzata e dallo stato, la mafia s’insinua nei gangli del potere e flirta con le forze governative. Quando non le serve più,essa combatte i briganti, i delinquenti di piccolo cabotaggio e interviene nella loro eliminazione. Così è successo con i “Gattareddi”, così è capitato con Salvatore Giuliano, autore della infame strage di Portella delle Ginestre, così è accaduto in occasione del sequestro del giovane barone Agnello (metà del XX secolo), che fu rimesso in libertà quando giunse “l’ordine” di liberarlo. Qualcosa di simile, per dare un’idea, è successo a Napoli in occasione del sequestro ad opera delle brigate rosse di Ciro Cirillo, assessore campano. Per il troppo schieramento di forze dell’ordine la camorra non poteva ottemperare con tranquillità ai suoi loschi affari e si adoperò per la liberazione del prigioniero. La stessa cosa capita alla mafia col brigantaggio. Francesco Paolo Varsalona è un brigante sui generis, con una storia che ci apprestiamo a ricordare succintamente. Egli “in definitiva fu un prodotto più che organico, conseguente, scontato, persino necessario della società del latifondo nei tempi del passaggio tra ottocento e novecento, in quella Sicilia che tra molti ripensamenti e altrettante perplessità da alcuni decenni faceva parte del Regno d’Italia” (Lo Scrudato, pag. 238); uno di quei contadini o pastori che abitavano il nostro latifondo e dei quali “condivideva un universo di valori che gli facevano sognare non un mondo di giustizia…” ma un mondo di sopraffazione nel quale acquisire un ruolo importante (pag. 237), perché -sostiene F. Renda- il villano siciliano è nel profondo “un essere ribelle, un sovversivo, un sanguinario ammazzatutti, artefice delle più tremende jacqueries” (in VLS, pag.237). Lo storico di Cattolica E. non inventa nulla perché, al riguardo, basterebbe rileggere le relazioni dei sottoprefetti di Bivona (in A. Marrone,Il distretto ,Il Circondario ed il Collegio elettorale di Bivona (1812-1880), Bivona, 1996) Espressione, quindi, di un mondo che ci appartiene, o al quale apparteniamo, e che Vito ha ricostruito, vagliando con acume critico e col piglio del ricercatore di razza le fonti d’archivio, le pagine dei giornali d’epoca, relazioni dei responsabili delle forze dell’ordine e altri documenti. La sua indagine, che riguarda la situazione socio-economico-culturale della Sicilia del XIX secolo, privilegia naturalmente il punto d’incontro delle province di PalermoCaltanissetta-Agrigento, con i paesi di Castronovo e Cammarata, teatro delle imprese di Varsalona, dando vita ad un quadro di fondo scientificamente inappuntabile, non risparmiando nessuno e pronunciando una netta condanna sul modo in cui si compì il Risorgimento, sulla mafia e le sue connivenze, sulla miopia di chi avrebbe dovuto alleviare i problemi dell’Isola e che invece li ha incancreniti. Varsalona non era uno dei briganti di quelle bande che si costituirono nei primi anni dell’Unità, negli anni successivi alla spedizione garibaldina e per venire a capo delle quali il neonato Regno d’Italia dovette impiegare metà dell’esercito. Eugenio Giannone
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www.villachincana.it La sua vicenda si matassa dopo ma a questo punto, provocatoriamente, un po’ di sano revisionismo storico non guasta. Sostiene Lo Scrudato che mafia e brigantaggio trassero linfa dalla rivoluzione garibaldina (pag. 53) e che il centralismo sabaudo fece il resto. I Siciliani avevano risposto in maniera entusiastica al richiamo di Garibaldi, ma i “piemontesi” in Sicilia s’installarono con i sistemi che le potenze coloniali europee utilizzavano in Africa. Diciamo subito che non si trattò d’una guerra di liberazione, perché nessun meridionale viveva sotto lo straniero, ma di una conquista perpetrata con un vero atto di pirateria, cioè di banditismo marinaro. Cavour non poteva attaccare militarmente uno stato sovrano quale il Regno delle Due Sicilie; le potenze europee non gliel’avrebbero perdonato, e allora ordì la congiura con la complicità della mafia e della massoneria inglese, coinvolgendo quello sprovveduto – politicamente parlando- di Garibaldi. Sarebbero bastati quattro colpi di fucile per disperdere i Mille appena sbarcati ma ciò non avvenne. Che ci facevano le navi inglesi alla fonda nel porto di Marsala? Ancora oggi, a più di 150 anni da quella spedizione, oltre 150.000 pagine sulla vicenda sono ancora secretate. Garibaldi, che sul letto di morte pare abbia esclamato “Non è questa l’Italia che sognavo”, lasciò intravedere una riforma agraria ma quando i braccianti passarono ai fatti, per prendersi le terre promesse, la risposta fu il piombo, come, per citare un solo esempio, a Bronte (senza voler entrare nel dettaglio dei torti e delle ragioni). I Siciliani speravano nel federalismo ma caddero dalla padella nella brace. Nessuna autonomia! Il Parlamento isolano, abolito dai Borboni subito dopo il Congresso di Vienna, era il più vecchio d’Europa e, anche se svuotato di reali poteri, era l’orgoglio del nostro popolo. Per lunga consuetudine i giovani siciliani erano esenti dal servizio militare, che era volontario. Il nuovo stato introdusse la coscrizione obbligatoria con grande disorientamento e disappunto delle famiglie e dei giovani stessi: era impensabile sottrarre braccia all’agricoltura per cinque anni: tanto durava il servizio di leva. Molti, allora, per sfuggire alla chiamata alle armi si diedero alla macchia impinguando le fila del brigantaggio. Sempre il nuovo stato introdusse la tassa sul macinato, considerata dai più come una tassa sulla miseria, e nuove imposte indussero molti piccoli proprietari a vendere il terreno per pagare le tasse. Insomma, le speranze dei Siciliani di un armonico inserimento della nostra Isola nel Regno d’Italia vennero frustrate e nel 1866 il popolo siciliano, alle elezioni, votò contro il governo e a Palermo ci furono dei tafferugli in occasione del genetliaco di re Vittorio, che non sapeva parlare bene l’Italiano.. L’insofferenza verso i nuovi barbari venuti dal Nord aumentava costantemente e il nuovo stato si rivelava come il cane che si morde la coda, combattendo da un lato il banditismo, con provvedimenti liberticidi come la Legge Pica, e dall’altro impinguandolo dando la caccia ai giovani renitenti. Molte le bande che operarono in quegli anni: Pugliese, Valvo, Randazzo, Riggio, Leone, Lombardo. Alla banda Capraro apparteneva il padre di Francesco Paolo Varsalona, che a questo punto potremmo considerare un brigante col pedigree. A combattere questi delinquenti furono mandati i Carabinieri che, ignari dei luoghi, della cultura e delle tradizioni delle popolazioni locali, inanellarono un insuccesso dopo l’altro. In Sicilia vanno interpretati anche i gesti e capito il silenzio, che da noi è molto eloquente. Gli avvenimenti legati ai primi anni della vita nazionale unitaria trovano larga eco nelle pagine di molti autori nostri conterranei: Verga, De Roberto, Tomasi, Sciascia, Pirandello e altri per i quali si trattò di una rivoluzione di facciata: tutto era cambiato per non cambiare nulla! E non dimentichiamo il quisquinese Giovanni Pullara che in quel momento di trapasso dai Borboni ai Savoia ambienta la vicenda del capitano “Padella”, Eugenio Giannone
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www.villachincana.it che rinnova i “fasti”, cioè i nefasti, di Testalonga, il bandito di Pietraperzia che nel ‘700 imperversò anche in questa zona. Ma torniamo al nostro brigante le cui imprese ben presto lo proiettarono nella leggenda, alimentando attorno al personaggio un alone di mistero e invincibilità, che esercitarono un fascino perverso sulla popolazione e ne favorirono il proselitismo, anche tra i giovani rampolli di famiglie nobiliari, che per sfuggire alla monotonia della loro agiatezza (mischineddi!) lo fiancheggiarono e gli diedero ricetto, assieme agli uomini della banda, nei loro feudi. Ciccu Paulu Varsalona, inteso con terrore e rispetto semplicemente Iddu, era nato a Castronovo nel 1860 e in gioventù aveva esercitato parecchi mestieri e principalmente quello di capraio, conducendo al pascolo il gregge in quei posti che poi costituirono il suo rifugio e il suo regno, perché proprio di Regno di Varsalona si deve parlare. La sua carriera inizia nel 1892 quando consumò il suo primo delitto uccidendo l’assassino del fratello Luigi, affiliato ad una banda di abigeatari. Egli ha ben poco del bandito romantico; è un Robin Hood all’inverso, in salsa siciliana: deruba le piccole e medie masserie e risparmia le grandi proprietà. E’ un selvaggio, un assassino incallito che uccide per ribadire il suo potere e prestigio di delinquente, per vendetta, per punire, perché gli è stato negato un favore o perché glielo chiede una delle sue tante amanti. E qui la vicenda assume tinte boccaccesche perché Varsalona, a quanto pare, fu un amante focoso e insaziabile; basta leggere il libro del nostro Amico per rendersene conto. Quindi, anche un ladro d’alcova, con mariti e padri cornuti consenzienti che per timore atrofizzano il loro senso morale e dell’onore e gli sono grati perché hanno comprato a buon prezzo il bestiame che la banda ha trafugato. E’ un bandito innovatore, sostiene Vito col suo narrare affabulatorio, intrigante, accattivante, intriso - ove conviene - di termini dialettali, talvolta teatrale per come dipinge alcune scene. Varsalona inventò il pizzo e, dopo ogni colpo, scioglieva la banda rendendo in questo modo più difficile il compito degli investigatori; non condivideva i sequestri di persona e amava prendersi gioco delle forze dell’ordine. A Palermo assistette, travestito da prete, all’inaugurazione del Teatro Massimo in un palchetto accanto a quello del Prefetto della Città e rocambolesche furono le sue fughe Ma era ovvio che lo Stato, questo sconquassato stato, non avrebbe potuto tollerare a lungo le malefatte del brigante per cui, a poco a poco, il cerchio attorno alla banda cominciò a stringersi. Ad uno ad uno i malandrini cominciarono a cadere nella rete ordita dalle forze dell’ordine ma qualcuno, grazie a complicità, riuscì a riparare all’estero. Il brigante giorno dopo giorno era sempre più isolato. Nel processo di Termini Imerese contro i componenti della banda arrestati, tra cui il marchese Filippo De Cordova, i baronetti Coffaro e Rizzo, essi godettero delle testimonianze di insospettabili e se la cavarono con sentenze oltremodo miti. Erano gli anni del processo contro l’onorevole Palizzolo, mandante dell’assassino di Emanuele Notarbartolo e, fa notare con amarezza il nostro Autore, il popolo siciliano avrebbe dovuto cominciare ad abituarsi a sentenze contraddittorie ed equivoche in campo politico-mafioso (pag. 181). Era chiaro, a questo punto, che la morte del bandito di Castronovo diventava imminente se non addirittura necessaria. Molti lo avevano abbandonato, ogni manutengolo aveva tentato di salvare il salvabile disfacendosi di bestiame e armi; sulla sua testa pendeva una taglia di 10.000 lire cui ne aveva aggiunta un’altra di 5.000 il barone Agnello di Siculiana, nemico di Varsalona.
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La fine di Ciccu Paulu si tinge di mistero. Di preciso si sa che venne ucciso la sera dell’11 dicembre 1903 nel feudo Savochello. Da chi? Dai suoi stessi complici, recita una versione; dai fratelli Mercadante per vendicarsi della violenza perpetrata dall’allupato brigante sulla giovane figlia di uno dei due; o piÚ semplicemente, e verosimilmente, dalla mafia come recita la messinscena della sua morte e del ritrovamento a rate del cadavere: prima la testa conficcata su un palo e parecchio tempo dopo il resto del corpo. Ma siamo sicuri che non sia riuscito a scappare, nonostante il riconoscimento del cadavere (senza testa) da parte dei familiari?. Santo Stefano Quisquina, 29 agosto 2010 -
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Alessio Di Giovanni (1872-1946): profilo poetico Alessio Di Giovanni, saggista, folklorista, drammaturgo e romanziere, è uno dei più grandi poeti dialettali di Sicilia. Luigi Russo lo definì il più grande cantore degli umili d’Italia dopo il Manzoni; Federico Mistral, premio Nobel francese per la letteratura nel 1904, apprese il dialetto siciliano per leggerlo in versione originale, mentre Giovanni Verga ebbe a definire l’arte digiovannea “viva e sincera riproduzione della vita”. Il poeta ciancianese, che s’era assunto il compito di rinnovare la lingua e la poesia siciliana liberandole dalle svenevolezze dell’Arcadia, cantò con accenti commossi e di sincera partecipazione l’umanità sofferente che popolava il feudo siciliano, fatta di contadini e lavoratori vari, nullatenenti, sfaccendati, malandrini, monaci e romiti, persone che vivevano di espedienti e che si dannavano tra mille soprusi per un tozzo di pane e proprietari benestanti che sembravano fatti di sostanza meno grossolana e vivevano in un’altra dimensione. Nel feudo digiovanneo l’elemento sociale, economico e religioso vanno sempre assieme. Quantunque fosse stato debellato ufficialmente dalla Costituzione del 1812, il feudo da noi continuava a sopravvivere e ancora agli inizi del ‘900 in provincia di Agrigento si contavano 155 latifondi per complessivi 290.000 ettari. Per intenderci meglio, 155 proprietari possedevano ciascuno qualcosa come 1250 stadi di calcio (110x65+ spogliatoi e spalti; totale 15.000 mq = 1 ettaro e ½). Ci si trovava dinanzi ad una macchina smisurata che produceva un’immensa ricchezza e aveva una struttura verticistica, con a capo il proprietario assenteista che sperperava in città il sudore di migliaia di braccianti che stavano alla base; nel mezzo della piramide: gabelloti, campieri, soprastanti e altre figure parassitarie che, subaffittando, gravavano tutte sulle spalle dei contadini che, controllati dalla mafia rurale, se desideravano lavorare, dovevano sottostare a patti angarici. Accanto alle voci del feudo, il Di Giovanni volle aggiungere un altro tema: quello della zolfara, “l’inferno dei vivi” che avrebbe riscosso un notevole interesse da parte di autori del calibro di L. Pirandello, T. Aniante, G. Giusti Sinopoli, P. M. Rosso di San Secondo, L. Sciascia, che affermò che senza l’avventura dello zolfo in Sicilia non ci sarebbe stata l’avventura dello scrivere. Di Giovanni lo fece con una potenza descrittiva che ha pochi eguali nella nostra storia letteraria, anche nazionale. Si vedano, ad esempio, i sonetti della zolfara, così asciutti, scultorei, drammatici nella loro essenzialità da trasformarci in spettatori dai semplici lettori che siamo. Tale facoltà pittorica è uno dei tratti salienti dell’autore ciancianese, che aveva esordito proprio come critico d’arte durante l’Esposizione Nazionale di Palermo, per cui tutta la sua produzione poetica può essere considerata un grande affresco della vita degli umili che popolavano il latifondo e consumavano la loro esistenza alla luce di un’acetilene, in zolfara. La sua prima pubblicazione, Maju sicilianu del 1896, è dedicata a tre pittori: Garibaldo Cepparelli, Francesco Lojacono e Luigi Di Giovanni (non parente, ma grande amico). Il pittore che più lo aveva colpito era stato Niccolò Cannicci che aveva saputo rendere, attraverso i quadri, l’anima della sua Toscana. Di Giovanni si propose sin d’allora di rappresentare la realtà siciliana e ai colori sostituì penna e calamaio elaborando una poetica che avrebbe generato risultati sorprendenti. Egli fu essenzialmente un realista, ma il suo realismo - dice l’agrigentino G. A. Peritore – fu la vita stessa della sua gente. Questo realismo più che venirgli dal Verga, padre nobile del nostro Verismo e col quale il poeta ciancianese intrattenne rapporti Eugenio Giannone
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www.villachincana.it epistolari, gli deriva dalle frequentazioni di contadini e zolfatari e dalla lezione del padre Gaetano, insigne storico e folklorista, del Pitrè, S. A. Guastella, L. Vigo, S. Salomone Marino, G. Ragusa Moleti. Il problema era come far parlare le anime che affollavano il feudo. Non certo in Italiano, lingua sconosciuta alla maggior parte della popolazione siciliana, non nel dialetto letterario del Meli e dei suoi seguaci e, tanto meno, nel dialetto borghese del Martoglio che gli appariva un espediente da bottega, troppo caricaturale. Scelse, così, per rendere l’intima anima della nostra gente, un linguaggio semplice, fedele al parlato, senza fronzoli, scultoreo; un linguaggio fatto non solo per le anacreontiche e per i cunti, ma che fosse “coscienza riflessa” e portavoce del popolo; un linguaggio, il girgentano nobilitato, che sembrasse nascere dalle cose e parlasse al cuore e alla mente degli ascoltatori, che sapevano in quale ambiente gli attori del feudo agivano. A fare del Di Giovanni un ostinato assertore del dialetto, desideroso di vivere en plein air, fu il distico d’una canzone villareccia che egli aveva sentito cantare laggiù, nella sua bella e selvaggia Valplàtani, da un contadino: “Lu sonnu di la notti m’arrubasti, ti lu purtasti a dormiri cu tia”. Da quel momento decise che doveva “impastare pane siciliano con farina siciliana” perché in quei versi gli sembrò riecheggiasse tutto il retaggio dei padri. Ma il ciancianese ha una concezione “èlitaria” del dialetto; per lui il poeta dialettale colto “non deve dimenticare la sua condizione e i suoi studi”, deve avvalersi del dialetto natio ispirandone l’alito particolare e conferendo ai suoi versi un taglio popolare, non popolaresco, per dare l’impressione che la stessa poesia provenga dalle zolfare, dal feudo, dalle contrade paesane. Erra chi considera il dialetto un semplice aspetto della produzione dell’aedo ciancianese; esso ne è l’aspetto qualificante e portante e senza questa convinzione non si riuscirebbe a cogliere l’intima essenza della sua arte. Chi scrive in Italiano è meno dialettale di chi scrive in vernacolo? Che dire dell’Italiano del Verga? E di quello di A. Camilleri? Il siciliano è una lingua che non deve dimostrare nulla: è buono per la poesia e la prosa, strumento giusto per celebrare la storia, la cultura, le tradizioni, l’humanitas di “una sicilianità in cui la lingua è semplice e dotta, dialettale e universale, sorella e madre”, alla cui mammella attingiamo sin dalla nascita. L’amore per il dialetto, per la terra e il focolare domestico ha fatto apparentare il Di Giovanni ai felibristi francesi. Qualcuno sostiene, addirittura, che senza il Felibrismo non avremmo avuto il poeta che conosciamo. A me non sembra e se essere felibristi significa nutrire amore per le foyer,le clocher et la terre, penso che il mio paesano sarebbe stato felibrista anche senza il movimento fondato da Federico Mistral nel 1854; d’altra parte, la tematica che potremmo definire felibrista era stata già enunciata dall’ autore di Voci del feudo nel saggio del 1896 intitolato Saru Platania e la poesia siciliana nel quale egli aveva esortato i poeti isolani a “uniformare la loro opera allo spirito della regione e del paese in cui vivono”, a riferirsi al momento storico. Quando nel 1904 Il Mistral lo nominò socio onorario del suo movimento, il Di Giovanni aveva già pubblicato, oltre ai testi già ricordati, A lu passu di Giurgenti, Lu fattu di Bbissana, parecchie delle poesie che poi sarebbero confluite nelle Voci del feudo e pensato già a Scunciuru e Gabrieli, lu carusu, nonché l’ode Cristu, che segna l’abbandono del fonografismo. Tra il poeta siciliano e quelli occitanici non ci fu reciprocità; il Nostro fece conoscere gli autori provenzali in Italia, nessun francese tradusse Di Giovanni nella sua lingua.
Eugenio Giannone
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www.villachincana.it Ha sicuramente ragione I. Rampolla del Tindaro quando parla di consonanza di intenti e di temi tra poeti di due regioni mediterranee (Sicilia e Provenza), così simili per condizioni storiche e tradizioni civili. Rimarcabili mi sembrano le differenze: il felibrismo aveva natura essenzialmente ottimistica, ADG illustra un’umanità dolente; la riscoperta del provenzale per i felibristi significava prendere le distanze da Parigi con la sua opprimente politica accentratrice e riaffermare la loro identità etnica, cioè di razza. Per Di Giovanni parlerei “d’orgoglio d’appartenenza”, perché il dialetto è marchio d’appartenenza, segno d’identità e sicilianità che non ripudia l’italianità; il poeta ciancianese venerava la nostra lingua nazionale, aveva alto il senso della Patria italiana e più volte aveva applaudito all’impresa unificatrice di Garibaldi. (→ cfr. Za Francischedda, L’ultimi siciliani, Sacerdoti e francescani nell’epopea garibaldina del ’60) E veniamo all’altro grande tema della produzione digiovannea: la religiosità. Quella del Di Giovanni è una fede sincera che, seppure non sorretta da studi teologici approfonditi, è pur tuttavia forte e ben radicata, non supina, bigotta o acritica. Essa, trasmessagli dalla madre, si riconduce, secondo V. Arnone, a momenti mistici e alla storia della Chiesa, al canto dell’utopia cristiana; una religiosità patriarcale che raccoglie tutte le istanze di rinnovamento della società siciliana in fermento negli anni di fine secolo XIX (il periodo dei Fasci) che sembravano tingersi di rosso, cioè di socialismo. Del socialismo, di cui da giovane aveva condiviso le istanze utopistiche, il francescano Alessio non poteva assolutamente condividere il concetto di lotta di classe, ma si rendeva conto che le pretese di contadini e zolfatari non erano infondate, ma bisognava assolutamente sottrarli alle grinfie dei falsi socialisti con un’azione umanitaria lungimirante; essi tuttavia peccavano di presunzione quando volevano appropriarsi di cose e sostanze che non erano di loro appartenenza. Inimmaginabile, per uno spirito interclassista o di borghese illuminato come lui, pensare ad azioni violente che avrebbero irrigidito la frattura tra le classi e seminato ulteriore incomprensione e odio, ma nemmeno giustificabile era la rapacità del suo ceto d’appartenenza, arroccato su posizioni di non sempre giusto privilegio. I contrasti sociali per questo ingenuo e caldo cuore di poeta si sarebbero potuti stemperare nella città dell’amore francescano, in cui avrebbero regnato pace, amore e fratellanza sull’esempio del grande Santo d’Assisi. La figura di S. Francesco, il cui Cantico delle creature era la più bella pagina cristiana dopo il Vangelo, lo affascina, come la vita nei conventi, vere oasi di salvezza e di pace. Quella conventuale era una realtà che il Nostro conosceva assai bene perché in Valplatani i conventi non sono mai mancati. E sapeva che non tutti i conversi conducevano una vita irreprensibile. Abbiamo, così, dei monaci “fausi”, come il mafiosesco fra’ Liboriu di Scunciuru, fra’ Antuninu, “saracinu” dell’omonimo romanzo postumo, il rivoluzionario patri don Agustinu (L’ultimi siciliani) che grida vendetta contro i delatori e vorrebbe “manciari lu cori” all’assassino del fratello, il fanatico fra’ Matteo (A lu passu di Giungenti); e dei monaci santi, come fra’ Grigòli e padre Mansueto (La racina di Sant’Antoni), cui manca solo l’aureola. E tanti altri fratacchioni, come fra’ Sarafinu (Gabrieli, lu carusu), che, dopo l’Unificazione nazionale con la confisca dei beni ecclesistici, erano ritornati al laicato e vissuti di espedienti non sempre compatibili col saio. Per avere idea della religiosità del Di Giovanni basta (!) leggere le opere menzionate, Lu puvureddu amurusu, l’ode Cristu, in cui il Redentore si fa carico di tutte le sofferenze umane, e i drammi, soprattutto Gabrieli, lu carusu che ci pone dinanzi, presso le classi popolari, ad una religione istintiva, primordiale quasi, pregna di superstizione, intrisa di fatalismo che induce alla rassegnazione e si manifesta in locuzioni usuali (“Facemu la so’ vuluntà”) in bocca ai popolani che hanno piena fiducia in Dio (“A nautri nn’abbasta ca lu Signuruzzu nni duna saluti e lu pani cutiddianu”) o che lo sfidano, imprecando, bestemmiandolo anche Eugenio Giannone
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www.villachincana.it senza accorgersene e mettendolo alla prova chiedendo grazie o favori in una religione di comodo. Le anime semplici lo venerano, lo implorano, gli si rivolgono devote e gli si affidano: è il vecchio Dio campagnolo cui fa riferimento anche Pirandello. Altri soggetti hanno poco di cristiano, sono miscredenti (”Iu sugnu cchiù granni di Cristu!”), non conoscono pietà, misericordia per il prossimo né la sua dignità. Sono anime esacerbate dalla fatica, dalle sofferenze, dall’ignoranza (“Nautri suli vi li chiantamu li chiova?”) e aspettano da Dio un rivolgimento (“Signuri, ‘nca pinzaticci vui almenu”, “A cu’ tantu, a cu’ nenti!”) standosene immobili e sconfinando nel paganesimo (“Signuri tirannu, comu lu putistivu fari?”, “Cristu è lu sbirru di lu munnu!”). E allora torniamo a S. Francesco, la cui mitezza, il cui esempio è la panacea adatta a non esacerbare gli animi. Il Poverello vive per Di Giovanni in uno splendore etereo, è l’alter Christus, il suo ideale è moderno, perché egli non nutre rancori, non cova ira, è un’anima raggiante di luce che vorrebbe effondere su tutte le cose e le creature di questo mondo, che chiama fratelli e sorelle; è l’apostolo dell’umiltà, della semplicità, dell’amore universale e disprezza le ricchezze e il superfluo. Francesco è un giullare, il giullare di Dio, che ha un vero culto per la gioia e una visione colma di stupore e riconoscente tenerezza, non smette mai di lodare il Padre per quanto ci ha donato e ci circonda e non riesce mai a saziare i suoi occhi. Non disprezzava nulla, non si allontanava da nulla, “amava tutti, aveva un sorriso e una lacrima per tutti, non vedeva nella natura nulla di nemico o di troppo umile, raccattava anche i vermi da terra … era simultaneamente nel mondo, uomo fra gli uomini, creatura fra le creature, e fuori del mondo, in intimo colloquio con Dio…”(cfr. E. Di Natali in Quaderni digiovannei). Per tutti questi motivi Alessio modella su di Lui tutto l’arco della sua vita e del suo ideale di fede intride la sua arte; lo sicilianizza, facendolo muovere nella nostra campagna a sostegno dei derelitti, degli ultimi, e della sacralità del lavoro, tema caro a cristiani e socialisti. Il suo francescanesimo è tutto qui, in questa simbiosi d’amore per Dio, la natura e i fratelli, nella mansuetudine che ci fa ritenere che nulla accade per caso ma obbedisce ad un preciso disegno di Dio, della cui misericordia non bisogna mai disperare. Agrigento, Liceo Empedocle, 29 settembre 2010
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Il Vento nelle “Voci del feudo” di Alessio Di Giovanni Tra le tante voci del feudo, nell’opera omonima di Alessio Di Giovanni, spicca per la sua intensa presenza il Vento, che il poeta ciancianese ha saputo cantare come nessuno prima. Il vento è una delle creature che abitano il variegato mondo del feudo e della zolfara; è il narratore che informa tutti di tutto e prende parte attiva allo svolgersi degli eventi. Una presenza non invisibile o metafisica, ingombrante o fastidiosa, come siamo abituati a considerare l’elemento atmosferico, ma palpabile, concreta, che degli uomini sembra provare sentimenti e risentimenti. Ce ne accorgiamo da come agisce, da come ci ruba i sospiri e li porta lontano, da come a volte ci accarezza librandosi leggiero o da come ci sferza, così come farebbe un amico che abbiamo messo a parte dei nostri pensieri segreti. Non è l’osservatore sconosciuto di cui s’ignora la provenienza e la meta; non ha nulla di mitico anche se, brontolando, sembra parlare una lingua sconosciuta, forse quella di suo padre Eolo; ed è un infaticabile viaggiatore, la cui esuberanza nessuno mai è riuscito ad imbrigliare. La raccolta delle Voci del feudo si apre con un grande affresco idilliaco, con un componimento intitolato Ni la massaria di lu Mavaru, che lo stesso Giovanni Verga definì un vero gioiello. Sul vespro le vacche pascolano, lente e pazienti, naschiannu. Il crepuscolo è dolce e l’aria incantata, nun cc’è nuddu di tunnu ni lu feu; in un silenzio quasi irreale, al tinnulo e cadenzato suono delle campane degli animali risponde un alito di vento, quasi un bisbiglio per non turbare la quiete campestre; ‘na vava di ventu ca trasporta per quelle terre brulle, gerbe dice il Di Giovanni, un forte odore di nepitella. Lo stesso vento, che fa tutt’uno col paesaggio, dà una mano all’uomo invitandolo al lavoro perché porta via li nuvuli sacculari, trascinandole per il muso ( li nuvuli d’argentu / trascina pi lu mussu). Non sempre si comporta da gentiluomo e lo sappiamo bene; talvolta provoca danni alleandosi con altri agenti atmosferici; ma anche lui deve segnare il passo. A tempu di simenza è opportuno che si dia una calmata per riprendere magari più ‘ncifariatu di prima e provocare scantu di maluttempu nell’animo umano. (cfr. anche A tempu di semenza) Comincia a piovere, lu ventu si scatena e sbattulìa li porti; // porti e vitrati facennu arrivulari, mentre gli alberi si danno mazzati. Non c’è pietà. In giornate di freddo ammazzacristiani, che rendono ancora più cruda la miseria, a voler andare in giro s’incontra solo il vento, che ti rimprovera chiedendo conto della tua esistenza: ancora asisti, ‘nfami // ni stu munnu? E sembra, accordandosi con le campane, di suonare a morte un lugubre ritornello: Va a lu to palazzu, / va mancia terra! // E chisti su’ l’asequii di li poviri. In questi casi, il vento, brutto come la fame, non può che essere freddo, venire da maestro, a portare burrasche non solo fisiche. (cfr. Scantu di maluttempu e La fava) Personaggio strano, meraviglioso e imprevedibile, ora grida forte, ora lento; ora lento sospira e s’azzuffa con le nuvole del cielo. E’ uno zuzzurellone che passa chianciulinu tra le viti, dondola le spighe e si jetta a mari // cci fa fari li vozza e, comu stanca, // lu lassa a picca a picca arripusari. Alla calura, suona la sampognetta ed increspa l’acqua lucenti di ‘n’abbrivatura. (cfr. Ventu d’estati) Che tipo! Stanco ormai, si concede – come tutti i bambini - una pausa in una cappelletta, incutendo timore ad una lampada votiva, che lu senti e trema. Ma è solo un attimo perché subito riprende la sua corsa gioiosa e spensieratamente infantile Eugenio Giannone
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www.villachincana.it trastullando e refrigerando i mietitori, inseguendo le allodole per la campìa e mentre corre prende fiato e presta voce alle piante. Dà, quindi, una spazzolata alle erbe, trasporta lontano il cigolio dei carri e ingaggia un duello con i fili del telegrafo. Insomma, a stu munnu, lodatu sia lu ventu,// lodata e biniditta la so vuci! Quando sente ciavuru d’abbruscu, come in un agguato mafioso, trattiene pure lui il fiato; in siciliano nun pìpita. (Cfr Minnitta). Ma è pronto a commuoversi dinanzi alla pietà di tre orfanelli; singhiozza e smette di ‘ncuitari lu licchettu; dinanzi alle zolfare passa ‘ntussicatu, perché gli bruciano i polmoni e, sentendo il lamento straziante che proviene dalle gallerie, pure abituato a canti arditi, non sopporta e si va ‘ntana: raccapricciante lo spettacolo regressivo dello sfruttamento perpetrato in miniera! (Minnitta, L’urfaneddi, Lu cantu di li surfari e La surfara di notti) E’ un amico, dicevamo, che dopo essersi sfogato, aver sottomesso tutto il mondo (Ni l’arii di Majenza) e aver voluto punirci con la sua assenza, facendosi perciò desiderare, sa librarsi a portare sollievo, possibilità di riprendere il lavoro benedetto e speranza (Lu ventu vinni! – Ventu a cannolu e bona la stasciuni) ai braccianti, che lo avevano invocato. Da perfetto ecologista non ama la caccia e fa perdere tempo agli amanti di questo pseudosport (cfr Lu ventu e lu cacciaturi) che attorno a sé vedono arvuli arramazzati. Sensibile com’è (Sonnu maluncunusu), a settembre ad ogni tantu vintìa e quell’aria frizzantina risveglia, trasportando profumo d’acacia, tanti e tanti rigordi e fa sbuttari a chianciri quasi senza motivo, infondendo un senso di pace sconsolata , preannunciando tristezza e malinconia; quando riprende a ronfare forte (cfr E fra’ Grigoli torna) a primavera s’insinua dintra lu pirtusu di la toppa e muove chianu chianu li cimiddi // di l’arvuli e li pampini, che sospirano come ciancianedda nica e spazza via il fogliame spingendolo in alto (cfr. La primavera e fra’ Grigoli). Potente la descrizione delle gesta del nostro eroe ne Lu ventu ni lu romitoriu, dove appare scatinatu e sbuffa forte trasportando da un capo all’altro dell’universo i nembi, senza stancarisi un minutu; quindi cambia tono e suona p’un pezzu lu tammuru tra celle e corridoi dell’eremo. Riprende a soffiare e fa cazzicatummuli supra li canala, scivola nei camini e stride tra la legna ammonticchiata; dà spallate a porte e finestre e finalmente canta la ninna nanna a un fraticello che dorme nel suo jazzu. Forse anche per lui è giunto il momento di riposare! Perché simile presenza nelle Voci del feudo? Forse il poeta ciancianese sente il bisogno di lodare a voce alta il Creatore, così grande nella sua potenza, e adopera per descrivere quest’ “impronta” tutti li culura di lu munnu; ma non lo chiama mai fratello, come avrebbe fatto il Poverello d’Assisi. Il francescano Alessio mai avrebbe osato levarsi a tanto! Una domanda sorge spontanea: com’è possibile scrivere tanto di una presenza impalpabile e in modo così mirabile? E’ possibile se si hanno gli strumenti e se si sa prestare orecchio alle voci di natura. Di Giovanni aveva entrambe le facoltà e una grande vena poetica e pittorica. Nessun altro scrittore dopo Dickens – sostiene G. Ragusa Moleti nella Prefazione all’edizione del 1938 di Voci – ha saputo mai scrivere così del vento, animandolo e dandogli parola, sia che si tratti di vento di scirocco o tramontana, di provenza o di libeccio, che culli le biade in fiore e accarezzi le erbe o tormenti il mondo investendolo da ogni parte. Per V. Arnone il Di Giovanni ama parlarne così tanto da sentirlo come una dimensione morale dell’uomo isolato nel latifondo, come personificazione ora delle paure invernali, ora delle dolcezze estive.
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www.villachincana.it In ogni caso, lo ha descritto così bene, con espressioni così vigorose e secche da lasciare stupefatti, dando consistenza umana e facendo agire come persona un personaggio così inusuale.. Il vento è l’elemento collettore di tutte le voci del feudo che in lui si sommano e trovano il portavoce. E’ la stessa voce del Poeta che osserva e giudica, che ha voglia di ridere e piangere, di urlare e accarezzare, di gratificare gli uomini per la santità del focolare e la dignità del lavoro e fustigare malcostume e maldicenze, incredulo dinanzi a insipienza, malefatte e abbrutimento. A lui Di Giovanni sembra affidare le sue poesie, e perciò la sua voce, perché le diffonda con il suo francescano sogno e l’intima lode a Dio, signore e padrone di tutte le cose, perché ne magnifichi, nella sua corsa che non conosce ostacoli, da cifaru o da vava, la potenza creativa. (Conferenza al Palacongressi di Agrigento, dicembre 2002; testo pubblicato su Lumie di Sicilia, n° ……,2003, e poi su Quaderni, dell’Istituzione culturale A. Di Giovanni, Cianciana, Agosto, 2003)
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, Firenze,
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La Lupa di G. Verga e La Turca di A. Di Giovanni La ‘gna Pina e cummari Maddalena sono le protagoniste della novella La Lupa di Verga e del poemetto Lu fattu di Bbissana* del Di Giovanni, due autori che, da sponde, linguaggio e luoghi diversi narrano una vicenda similare, che hanno sentito raccontare: il romanziere catanese da Luigi Capuana, il félibre ciancianese da un contadino della Valplatani. La ‘gna Pina è la protagonista assoluta della novella e sembra divorare la scena. All’Autore bastano poche pennellate per delinearla: “era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida…e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse che vi mangiavano”. “La chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai – di nulla –. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare…con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti”, tirandoseli dietro solo con uno sguardo da satanasso. E’ una donna, rimasta vedova ancor giovane, che ha una febbre d’amore insaziabile per Nanni, che ne sposerà la figlia. Il giovane subisce la donna ma, alla fine, la uccide con un colpo di scure. La novella, che fa parte della raccolta Vita dei campi, è del 1880. Lu fattu di Bbissana è, invece, del 1900; si compone di sei sonetti e narra la storia di una donna sposata, Maddalena, soprannominata la Turca per come concupiva gli uomini. Ella s’invaghisce di Peppi, già promessosi a Caluzza, e lo seduce in un casalino nel feudo Bissana. ‘Ntoni, marito della Turca, abituato a subire da lungo tempo l’umiliazione, stanco infine, rivela la tresca a Caluzza, invitandola a non essere – come lui – devota di San Pasquale, protettore dei cornuti…consenzienti. La giovane, che da tempo aveva intuito, corre livida verso il poggio del tradimento, grida il suo amore a Peppi, ma una botta di sangu la fulmina. La Turca ha “‘na taliàta nfuscca ca t’ammaava…/…vucca lasccia e ffinta./ …e ppo’ la stucchiàta di lu scurssuni”, con addosso “lu scujetu pi Ppeppi”. La Lupa e la Turca, pallide entrambe e non più giovani ma attraenti e seducenti, sono dette allo stesso modo: satanasso e ‘ncifariata / diavula; attraggono e respingono ad un tempo i narratori delle due storie, che , se sembrano in qualche modo affascinati dal loro comportamento di donne libere, le condannano moralmente. Nella novella di Verga le donne, in sua presenza si segnavano; mentre il contadino del Di Giovanni esclama: “Scanzatini, Signuri!”. Tutto nei due racconti è soggiogato dalla presenza delle due figure femminili per le quali il tempo s’è fermato o viene scandito dal loro “scujetu”, dalla loro voglia irrefrenabile (“… dopo il pasto ha più fame che pria”, scrisse Dante). Anche il paesaggio della tragedia è il medesimo: la assolata campagna siciliana al tempo della mietitura. In entrambi gli autori prevale la rappresentazione oggettiva, tipicamente veristica, con una narrazione senza fronzoli, rapida, incisiva, essenziale per un lessico quasi “stecchito” e con ellissi che eliminano le scene superflue di collegamento, lasciate all’immaginazione intelligente del lettore. Nel linguaggio del poeta ciancianese, che afferma che nel riprodurre il dramma campagnolo non s’è voluto staccare dal racconto scultoreo, vivo e drammatico che gli era stato fatto, conservando l’incisività semplice della parlata contadinesca della Valplatani, colpisce il fenomeno cosiddetto del fonografismo, cioè il tentativo di riprodurre pedissequamente i suoni della parlata vernacolare, che se conferiscono un sapore esotico ai sei sonetti del poemetto, lo rendono di difficile lettura.
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www.villachincana.it Ma siamo agli albori della poesia del Di Giovanni, che sin d’allora aveva intrapreso a “fare pane siciliano con farina siciliana”. Per molti Lu fattu di Bbissana sarebbe la trasposizione poetica della novella verghiana, ma abbiamo detto che le due donne sono realmente esistite, quindi nessun rifacimento o imitazione. Ma potrebbe anche essere, e Lupa o Turca, satanasso o diavula poco cambia: sono entrambe cagne in calore, ammaliatrici che incantano con il loro incedere sinuoso e provocatorio. Due donne, diverse, vanno sicure incontro alla morte, che in pratica diventa un suicidio**: ‘gna Pina sa che Nanni non avrebbe resistito a lungo a quella torbida passione, mentre Caluzza, innamorata innocente, sa di essere ammalata e corre a perdifiato dando una valida mano alla morte che la coglie senza pietà. Sappiamo tutti della querelle tra Giovanni Verga e Alessio Di Giovanni. Il poeta ciancianese aveva proposto allo scrittore catanese la traduzione in dialetto dei Malavoglia, convinto che solo in quel modo quel romanzo avrebbe raggiunto le più alte vette dell’arte, quindi, col Fattu di Bbissana avrebbe inteso, forse, dimostrare al suo amico che anche il siciliano aveva raggiunto una maturità artistica tale da poter degnamente rappresentare situazioni e stati d’animo. Sicuramente aveva ragione il Verga, che, scrivendo i suoi racconti in italiano, nel suo italiano, affidava la sorte dei vinti alle cronache nazionali, mentre il Di Giovanni, quantunque venga considerato uno dei più grandi poeti dialettali, ha bisogno costantemente di essere riproposto. In ogni caso, come affermò Sciascia, il Verga parlava dalla sponda della prosa, Alessio Di Giovanni da quella della poesia. Alessio di Giovanni, Lu fattu di Bbissana, Napoli 1900. * Definito da P.P. Pasolini “uno fra i pochi capolavori del gusto realistico”. ** Cfr. G. Verga, Nedda – Vita dei campi (a cura di G. Passarello), Palermo, 1997 G. Verga, Novelle (a cura di R. Fedi), Milano, 1988
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(Pubblicato su INSICILIA, Palermo, settembre, 2003)
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La Zolfara ed Alessio Di Giovanni Il Ciancianese fa puzza di terra e di zolfo. Non c'è nulla di offensivo nella definizione perché terra e zolfo, odore e non puzza, sono i caratteri distintivi, il marchio indelebile degli abitanti di quel paese. Di Giovanni non fa eccezione, cantò le voci del feudo ma volle aggiungervi un altro tema, quello della zolfara, che avrebbe riscosso un notevole interesse e sul quale si sarebbero soffermati, seppure con diverse interpretazioni, autori del calibro di Pirandello, Aniante, Rosso di San secondo, Giusti-Sinopoli, Savarese, Lanza e, ultimo solo in ordine temporale, Sciascia. La zolfara: un'altra struttura economica che veniva ad accostarsi, senza sollievo per chi già vi consumava la sua esistenza, a quella del feudo. La zolfara: un inferno dantesco, senza luce, senza speranza, che il Di Giovanni, figlio e nipote di proprietari di miniere, ben conosceva. Il nonno Vincenzo aveva rilevato attorno agli anni '40 del XIX secolo l'attività estrattiva dalla ditta inglese Morrison Seager, rivitalizzandola e fondando su di essa la fortuna economica della famiglia. Un mondo, quindi, che Alessio conosceva direttamente e che lo sconvolgeva per le sofferenze che vi si consumavano; un mondo dove lavoravano più di mille suoi paesani, che egli vedeva andare e tornare col buio e che alla fioca luce di un lucignolo o di un'acetilene trascorrevano la loro giornata lavorativa, per poi, la sera o la domenica, affogare le tribolazioni in un bicchiere di vino, consumato nel pianterreno di casa Di Giovanni, dove la "gnora Maria la Gammillera" vendeva vino per conto di Gaetano e dove il piccolo Alessio li scrutava attentamente. I bevitori - scrive- "non mancavano mai: nei pomeriggi e nelle sere di domenica, la stanzuccia n'era tutta piena e rumorosa. Eran zolfatai la maggior parte, pallidi, scarni, con la voce roca, di poche parole, alcuni quasi tetri. Sbevazzavano, si offrivano (…) vino l'un l'altro, bestemmiavano…" "Fiaccati dalla vita dura e penosa…,abbrutiti, sfiduciati, essi cercavano nel vino l'ebbrezza dello oblìo" (1). Erano così assuefatti al vino che un solo bicchiere li faceva traballare, rendendoli quasi ebeti. In quella bettola il bambino Di Giovanni conobbe un vecchio minatore, "stentito, risecchito", che ogni sera gli raccontava le storie; anche dei carusi, suoi sfortunati coetanei che gli davano del voi, come si addice ad un padroncino. Storie, episodi, osservazione diretta che dovevano intristirlo e che ai suoi occhi innocenti dovevano apparire inspiegabili. Come poteva accadere che uomini, donne, bambini venissero martoriati in quel modo e creduti "di un'altra specie,…sostanza più grossolana…fatta per uso signorile…"?. Bisognava avere rispetto della dignità di quei derelitti - gli insegnava la madre, che "non fu mai orgogliosa, mai superba"(1)-. Da Filippa Guida Alessio ereditò tutto il suo umanitarismo, il sentimento religioso e francescano con la com-passione per le sofferenze altrui che un cuore nobile, un'anima bella può nutrire. Quali fossero le reali condizioni di vita e di lavoro degli zolfatari è, credo, inutile ribadire ed esiste a proposito una vasta bibliografia. Voglio portare a vostra conoscenza quanto mi riferì, qualche anno fa, un vecchio zolfataro mio amico: "In miniera lavoravamo mio padre, picconiere, io e un mio fratello, carusi. Guadagnavamo, in tre, una lira e venti centesimi mentre un chilo di pani di chiazza costava lire 1,40"! Ancora nel 1953, poco prima dell'occupazione delle miniere, che si sarebbe protratta per quarantacinque giorni, la retribuzione d'un operaio era di 530 lire giornaliere; altrove superava le 700 lire. A nulla erano valsi gli scioperi; nulla avevano ottenuto zolfatai e contadini con l'esperienza dei Fasci, che, a dire la verità, a Cianciana Eugenio Giannone
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www.villachincana.it rappresentò una stagione effimera, essendo stato costituito quel Fascio appena tre mesi prima che Crispi proclamasse lo stato d'assedio.(2) La loro sorte sembrava segnata ab aeterno e miserevole era la condizione dei carusi che, beffeggiati, maltrattati, derisi, disprezzati, sodomizzati, sfruttati, ingobbiti, con i piedi piatti e, perciò, spesso riformati alla visita di leva, rappresentavano l'anello più debole della catena del lavoro in miniera e venivano letteralmente comprati dai picconieri, che versavano alle famiglie il cosiddetto soccorso morto. Quale orribile spettacolo e dramma interiore doveva suscitare la vista delle caruse costrette a far coffe, a trasportare il minerale dalla bastarella ai calcheroni e a stare a contatto con uomini pressoché nudi, che sovente le avviavano al meretricio! (3) Un mondo, ribadiamo, senza luce, senza speranza di riscatto al quale il Poeta non si rassegnava e che il Ciancianese ha ritratto con accenti commossi e sofferti, quasi a voler ribadire, con maggior forza e convinzione, i concetti già espressi da G. De Maupassant che, nel capitolo dedicato alla Sicilia de "La vie errante" del 1890, così scriveva: "…se il diavolo abita un vasto paese sotterraneo, pieno di zolfo in fusione, in cui fa bollire i dannati, è sicuramente in Sicilia che ha eletto il suo misterioso domicilio" e, ancora, "le vallate grigie, gialle, pietrose, recano il marchio della riprovazione divina", per concludere che lo sfruttamento minorile era una delle cose più riprovevoli e penose che si potessero vedere. Ed ecco allora che la zolfara si configura agli occhi del Di Giovanni come "carnàla -carnaio- no di morti, ma di vivi", dove i minatori "scinninu muti /… ma, doppu, cuminciannu a travagghiari / gridanu, gastimannu a la canina / ca lu stissu Signuri l'abbannuna", mentre nel silenzio "…sempri di ddassutta veni un cantu / ca pari di ddu scuru lu lamentu" (4): "Poviri surfarara sfurtunati,/ comu la notti jornu la faciti"! (5). Così aveva insegnato a cantare ai suoi colleghi di lavoro il poeta estemporaneo Pasquale Alba. E vanno e vengono "a du a du, o suli, stanchi ed avviliti ,/ ni la muntata spuntanu affannati / ca nun ni ponnu cchiù…/ parinu di la morti accumpagnati" (4). Lo stesso sole, le stesse erbe, la natura sembrano indifferenti alla loro sorte, a "dda vita 'nfami, dda vita assassina, / comu l'armali…". (4) Questi i concetti, i pensieri che si evincono dalla lettura dei sonetti della zolfara, stupendi nella loro asciuttezza di linguaggio (6) e nitidezza di immagini, che fanno del Poeta della Valplatani un grande pittore che, tuttavia, va indagato nella molteplicità della sua produzione per esprimere un giudizio pieno sulla sua arte. Ma credo che ormai il Di Giovanni non debba più dimostrare nulla e che tutti i critici siano concordi nel considerarlo, se non il più grande, uno dei maggiori cantori degli umili. Non sta a me togliere o aggiungere: non ne ho l'autorità. Semmai mi sembra importante spendere due parole sull'intimo dissidio, sulla inconciliabilità della posizione del Di Giovanni, da una parte com-partecipe delle sofferenze degli ultimi, suoi fratelli in Dio e San Francesco, e dall'altra causa - perché "padrone"- di quelle sofferenze e sperequazioni; su come, cioè, poteva restare fedele alla sua posizione di classe un uomo che era cosciente che la dignità dei subalterni va sempre e comunque rispettata. I giudizi degli studiosi sono a proposito discordanti. Per Rita Verdirame la zolfara, col suo "silenziu ca t'inchi di tirruri" (4), è osservata dal punto di vista del minatore, "vista con spietata obiettività", al di là, quindi, "d'ogni atteggiamento rivoluzionario o riformistico o conservatore" (7). Avrebbe dovuto rinunciare alle sue origini, spogliarsi come San Francesco? Per risolvere cosa?
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www.villachincana.it Varrebbe per Di Giovanni quanto è stato scritto del Verga: vede le cose da scrittore e le denuncia. Ai politici - Di Giovanni e Verga non lo erano- il compito di trarre le conclusioni e trovare i rimedi. Per G. Carlo Marino il coinvolgimento emotivo del Di Giovanni derivava dalla piena e infelice coscienza che il Poeta aveva di quella povera e sofferente umanità. La forte carica di partecipazione emotiva alle sofferenze di quel mondo, lo struggersi per le sofferenze, il com-patire sarebbero stati "uno sforzo di autoliberazione dai condizionamenti e dai vincoli di una formazione intellettuale borghese e da un conservatorismo cui l'ancoravano l'appartenenza di classe, oscillanti nel Di Giovanni tra l'amor populi - cui attingeva per la sua produzione letteraria- e l'ira populi, cui i borghesi guardavano con apprensione dopo i fatti legati alla parentesi fasciante. (8) "Di Giovanni non era, comunque, un reazionario, semmai un conservatore sui generis, dotato di …vaga sensibilità progressista" (8), un moralista sospeso tra conservatorismo e pathos religioso, di stampo umanitaristico, tra ceto borghese , di cui in definitiva era espressione e da cui ereditava una situazione di fatto - normale per quell'epoca- e com-passione per i derelitti. Non riuscendo a risolvere questo dualismo, questa dicotomia, al Di Giovanni non restava che la fuga nell'utopia, cioè nella poesia. E mai fuga fu più bella. Agrigento, 07.10.2000 Note: 1) A. Di Giovanni, in ricordo della mamma, Noto, 1904 2) E. Giannone, Il Fascio dei Lavoratori di Cianciana, Cianciana,1997 3) Cfr. E. Giannone, Zolfara, inferno dei vivi, Palermo, 1996 e V. Savorini, Le condizioni economiche e sociali dei lavoratori…, Girgenti,1881 4) A. Di Giovanni, Sunetti di la surfara, in Voci del Feudo, Palermo, 1938, ristampa del 1997 a cura di S. Di Marco per conto del Comune di Cianciana 5) P. Alba, L'omu svintutatu ( a cura di E. Giannone), Cianciana, 1977 6) Cfr. S. Di Marco, Dialetto e poesia nel pensiero e nell'opera di Alessio Di Giovanni, in Alessio Di Giovanni, anima della profonda Sicilia, Atti del Convegno di studi, Cianciana, 1995 7) Rita Verdirame, La poesia del latifondo in Alessio di Giovanni, in Alessio Di Giovanni e la Poesia siciliana del novecento, Palermo,1988 8) G. Carlo Marino, Alessio Di Giovanni: un intellettuale, un'anima bella della profonda Sicilia, in A. D. G., anima della profonda Sicilia cit..
(conferenza tenuta al Teatro della Posta vecchia di Agrigento, ottobre, 2000; testo pubblicato su Nuove Prospettive dell’Istituto Gallo di Agrigento, Dicembre, 2000, e poi su Quaderni dell’Istituzione culturale A. di Giovanni, Cianciana, Agosto, 2003)
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Alessio Di Giovanni e il fiume della memoria Ognuno di noi è espressione del suo tempo e del suo spazio e porta indelebili i segni dell’appartenenza ai luoghi, ai modi di sentire della gente presso cui è nato o s’è formato e finisce sempre col rievocarli, addirittura a mitizzarli, se costretto a separarsene. Il Di Giovanni non fa eccezione e trascorse un’infanzia e una giovinezza serene in quei luoghi, che divennero ben presto tropoi della sua attività di narratore e poeta. Li conosceva bene perché percorsi in lungo e in largo assieme a contadini dei quali apprezzava la parlata vernacolare, schietta e musicale, e da cui sentiva raccontare le storie che poi avrebbe ripreso nelle sue composizioni. Erano quelle stesse storie, quegli stessi racconti e miti, quelle notizie confuse tra storia e leggenda che suo padre, Gaetano, trascriveva e che lo incuriosirono bambino. Tutti argomenti che rendono uniforme la cultura dei borghi che insistono nella medesima vallata, che il Di Giovanni battezzò “Vaplatani” per indicare quell’immensa distesa di latifondi che si estende dalle montagne cilestrine di Bivona fino all’azzurro mare di Sciacca. (1) In quei luoghi, in quei posti è l’origine della sua poetica. Scrive in “Come andò che divenni drammaturgo”: “…le prime cose che attirarono la mia attenzione, quando giunsi all’età del discernimento, furono, invece, quella veduta, recondita e pensosa, di monti, di valli, di pianure meste e solinghe” e, continuando: “La mia arte…deve la sua impronta prevalentemente drammatica a quella profonda traccia che il mezzo, in cui si sono passati gli anni della fanciullezza, lascia nel nostro animo, segnandolo d’un particolare sigillo che gli fa vedere la natura e la vita in un modo piuttosto che in altro”. “Se io…non fossi nato in quel cantuccio della mia selvaggia Vaplatani e in quel dato tempo, e in quelle condizioni, la mia arte avrebbe avuto certo una fisionomia diversa…”. (2) Dice espressamente altrove che proprio un distico d’una canzone villereccia, sentita da un contadino ,”lu sonnu di la notti m’arrubbasti / ti lu purtasti a dormiri cu tia”, fu alla base della sua vocazione e, rispondendo a Saro Platanìa sostiene che il suo canto contento proveniva dalla Difisa, che è una delle contrade di Cianciana, che egli cantò e descrisse superbamente, pur senza mai nominarla, nei suoi versi e nelle sue prose. Un luogo lo ha incuriosito o affascinato in modo particolare, forse per la sua peculiarità: il fiume Platani, l’ Halycos dei Greci e l’Iblatanu arabo, che è stato la culla della prima civiltà indigena: quella dei Sicani. La Vaplatani è al centro della Sicania vera e propria e i monti che le fanno corona son detti, ancor oggi, Monti Sicani. Come non poteva incuriosirlo quel fiume, salato, con i suoi meandri, le acque allora pescose, il suo corso costellato di miniere di zolfo e salgemma e cui era legato il ricordo di quell’antica civiltà con le sue città, che arrovellavano il cervello di Gaetano: Eraclea Minoa, Platanella, Kalat-Iblatanu, Alesa Comite, Ferla, Ciancianìa e, soprattutto, Kamicos con Cocalo e Dedalo?! Il Platani, con le sue pistacchiere, è il luogo della memoria che più dei feudi (Màvaru, Millàga, Bissàna, Majenza),solitari e dalle terre gerbi, affascina il Di Giovanni, sin dai suoi primi scritti. Esso è un fiume a carattere torrentizio, quindi quasi asciutto d’estate e pericolosissimo in inverno con le sue piene improvvise. Comincia a parlarne diffusamente già nel 1902 nel poema di 63 sonetti, intitolato A lu passu di Giurgenti (3), in cui domina la figura di frate Matteo, che, giunto a lu passu di Giurgenti, vorrebbe attraversare il fiume in piena. Tutti glielo sconsigliano, i viandanti e i marangoni, che il monaco prende ad intrattenere narrando vita e miracoli di
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www.villachincana.it fra’ Andrea da Burgio. Assieme alla piena monta il nervosismo e gli uomini cominciano a bestemmiare Dio, i Santi, la Madonna. Esasperato, sdegnato, fra’ Matteo esce e, per dimostrare a quei bestemmiatori la potenza di Dio, attraversa il fiume che lo inghiotte inesorabilmente. Il suo fanatismo lo perde. Non sarebbe stato più agevole e razionale aspettare che si placasse la furia del fiume o attraversarlo su un ponte? Diciamo che ben pochi ponti congiungevano le sponde del fiume (ancor oggi, per la verità) e che il Di Giovanni, nell’occasione, si rivela fonte storica preziosa. In quel punto del fiume, cioè a lu passu di Giurgenti, stazionavano i marangoni (in dialetto, maraguna), poveri infelici che abitavano in pagliai o case di creta e frasche e che, in cambio di un modesto obolo, trasferivano da una riva all’altra del Platani sulle loro spalle i viaggiatori, appoggiandosi a li furceddi, invocando S. Cristoforo e incoraggiandosi vicendevolmente. Ritorna su questo corso d’acqua nel romanzo in lingua siciliana, intitolato Lu Sarcinu (4), pensato per decenni e pubblicato postumo nel 1980 con una puntuale e profonda introduzione del prof. Pietro Mazzamuto. Esso narra la vicenda di uno scansafatiche che per non soffrire i morsi della fame decide di farsi frate del locale convento e ne diviene il cuoco. Dopo aver trascorso fuori gli anni delle prime rivoluzioni a carattere nazionale e i primi dell’unità, ritorna in paese e lo ritrova notevolmente cambiato. Alla Sicilia erano state estese le leggi Siccardi ed il Convento era stato avocato dallo stato, che lo utilizzava come scuola o caserma, cosa che è durata fino a non molti decenni fa. Fra’ Antuninu, assieme a due complici, escogita di lucrare sui morti essendo nel frattempo divenuto responsabile del cimitero. Invita i suoi concittadini a vestire i loro morti con gli abiti più belli, che egli, poi, nel chiuso del convento spogliava e rivendeva in un paese vicino, complice il locale beccamorto che faceva la stessa cosa con i morti del suo paese. E’ detto lu saracinu per la sua condotta cinica e peccaminosa e perché, appunto, non aveva rispetto nemmeno per i morti. Il primo della lista era stato addirittura il suo unico fratello. Fra’ Antuninu è personaggio realmente esistito ma nell’opera alcune vicende vengono trasfigurate. Nel romanzo il poeta ritorna ai marangoni e alla piena del fiume, che avìa la facci di lu tradituri e facìa lu rucculu di lu lupu vecchiu. La malaria, ca pisava e fumuliava ‘ntunnu ‘ntunnu, rendeva inospitali le terre adiacenti mentre lu pulizzanu, vuciannu e stripitannu a ddi timpi timpi, facia ‘ntanari macari li lupi di lu Salaciu e strascinava vasci vasci li nuvulazzi uniti e a culuri di la cinniri…mentri l’acqua…fujeva, scruscennu e timpistiannu, ‘mmezzu li cuti, ntra la negghia accussì fitta ca nun si vidia autru, unni si taliava taliava. (5) Ancora oggi il Platani offre il medesimo spettacolo. Le sue sponde non sono più infestate dalla malaria, ma continua ad inghiottire vite umane e animali (Cc’era la gran china, ed iddu vulìa passari pi forza cu la scecca carricata di virdura…E finìu ca cci appizzaru lu coriu, iddu e l’armaluzza puru…. – 6), qualche ponte, la nebbia nelle mattinate d’inverno lo copre totalmente e la temperatura è molto bassa: uno spettacolo insolito per una cittadina dal clima mite, con inverni molto tiepidi. (omissis) Dal Mavaru, una delle contrade o, se volete, dei feudi che si specchiano sulle acque “rummulusi e scujeti” (7) dell’antico Halycos, prende avvio la vicenda di padre Mansueto, il pittore protagonista dell’altro romanzo dello scrittore ciancianese, dal titolo L’uva di Sant’Antonio. Padre Mansueto, per la cui figura il di Giovanni s’era ispirato al cappuccino padre Fedele da San Biagio Platani, è l’opposto di quel monaco fausu che è fra’ Antuninu. Eugenio Giannone
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www.villachincana.it Egli vede nella pittura un mezzo per glorificare il Signore, che ha voluto fargli dono di questa splendida arte. E’ vero: Dio, modellando la creta da cui ha ricavato Adamo era stato il primo scultore; ma poi cosa fece? Si cali ‘nfunnu a ‘na surfara, quannu li pirriatura, a la matina, nun cci hannu ancora scinnutu, chi vidi?…scuru!…E si vo’ pittari ssu scuru, chi pitti? …nenti? Metti ni ssu scuru, ‘na fila di lumeri addumati, ed eccu ca hai la luci, ed eccu ca hai lu culuri, e cu la luci e lu culuri, eccu ca hai lu chiaru e lu scuru, e allura sì ca lu poi fari lu quatru. E chi quatru!… Ora, lu munnu chi era ‘n principiu? Era comu ‘na surfara, unni lu scuru si po’ fiddari. Ma appena lu Signuri dissi: -Fiat lux! – e ddoppu aviri criatu la luci, la spartìu di lu scuru: Et divisit lucem a tenebris, criàu, veni a diri, lu chiaru e lu scuru, ch’è lu funnamentu d’ogni pittura. Cosa di fari trimari!…Lu Signuri, perciò, prima d’essiri lu primu scurturi, avìa statu lu primu pitturi, quasi pi faricci sapiri a l’omu ca, si voli criari, ‘n’autra vota, (…), tutti li cosi ca si vidinu munnu munnu (…) lu po’ fari sulu sirvennusi di li culura. (8) E dunque: negli scorsi decenni l’uomo ha deturpato questa splendida opera d’arte divina che è il fiume Platani, inquinandolo, cementificando, sconvolgendone il letto, stravolgendone il paesaggio. Da qualche anno ha preso corpo una nuova sensibilità: la sua foce è divenuta un’area orientata protetta, le anguille hanno rifatto capolino, l’industria che più di tutte lo intorpidiva ha cessato di inquinare, e ci stiamo battendo perché possa essere istituito un parco fluviale che lo restituisca, con le sue anse, le sue gole, i suoi colori, la sua vegetazione e la sua fauna, agli antichi splendori, ai quadri di padre Mansueto, alla poesia del Di Giovanni. E per lasciare un ambiente pulito, fruibile, a quanti ci seguiranno e vorranno ispirasi alla natura per dipingere come hanno fatto i pittori che con le loro opere impreziosiscono le chiese che adornano le nostre cittadine. (2003).
1) A. Di Giovanni, Voci del feudo, Palermo, Sandron, 1938; ristampa del 1997, a cura di S. Di Marco, per i tipi della Ila Palma per conto del Comune di Cianciana, pag.135; 2 A. Di Giovanni, Teatro siciliano, Studio Editoriale Moderno, Catania, 1932, pgg.VIII_IX; 3) A. Di Giovanni, A lu passu di Giurgenti, Giannotta, Catania, 1902; 4) A. Di Giovanni, Lu saracinu, Il Vespro, Palermo,1980; 5) ibidem, pgg. 68-69; 6 )ib., pag.134; 7) A. Di Giovanni, L’uva di Sant’Antonio, Studio Editoriale Moderno, Catania, 1939, pag. 66; 8 )ib., pgg. 32-34.
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Alessio Di Giovanni tra feudo e zolfara Quando si parla di feudo e di zolfara, il pensiero va, inevitabilmente, a due realtà oggi fortunatamente scomparse. Da pochi decenni la seconda, dal 1812 ufficialmente la prima, cioè il feudo, che tuttavia s’è ostinato a sopravvivere fino ai primi anni dell’Italia repubblicana, che aggredì il latifondo con una legge stralcio di riforma agraria, i cui effetti tuttavia non furono immediati. Oggi un po’ tutti abbiamo un piccolo appezzamento nel quale abbiamo costruito la nostra casetta di campagna. C’è stata la polverizzazione dei fondi, siamo tanti i proprietari e andiamo in campagna a trastullarci. Una volta non era così. Considerate che ancora nel 1907 la provincia di Agrigento contava 155 latifondi per complessivi 290.000 ettari. Ora immaginate: un campo di calcio misura 110x65 metri, cioè circa 7150 mq; se aggiungiamo spogliatoi e spalti possiamo arrivare con un po’ di fantasia a 15.000 mq, vale a dire a 1 ettaro e ½. Facendo un po’ di divisioni e prendendo ad unità di possesso il campo di calcio, ogni proprietario di quei latifondi oggi possederebbe 1250 stadi di calcio. Questo per darvi l’idea dell’immensità dei feudi, e stiamo parlando solo di quelli superiori ai 200 ettari. E’ chiaro che ci si trovava dinanzi ad una macchina smisurata nella sua grandezza, che produceva un’immensa ricchezza e che aveva una struttura verticistica con a capo un proprietario assenteista, che dissipava il sudore di decine e decine di braccianti, che erano alla base della piramide, e nel mezzo gabelloti, soprastanti, campieri, tutte figure parassitarie che subaffittando gravavano sulle spalle dei contadini, che controllati anche dalla mafia rurale, dovevano sottostare, se desideravano lavorare, a patti angarici, cioè, e per dirla alla siciliana, di ‘ngarìa. Sulla situazione delle campagne siciliane, sullo sfruttamento dei suoi lavoratori e sulle lotte che questi hanno dovuto sostenere per porre fine a simile sistema, esiste una vasta letteratura:chi non ricorda, per esempio, la raccolta di novelle “Vita de’ campi” di Giovanni Verga? E chi non ricorda la vicenda dei Fasci Siciliani e le lotte contadine del I e II dopoguerra con l’occupazione delle terre? E’ una situazione sulla quale, credo, sia inutile insistere e che, comunque, era contrassegnata da un eccessivo sfruttamento, dalle lacrime e dal sangue di contadini e braccianti, con le loro ansie e fatiche, con le loro sofferenze, i soprusi e i torti patiti, con le loro tradizioni e la loro civiltà, con gli scarsi momenti di conforto che si alternavano, rincorrendosi, sugli sfondi ora luminosi ora tristi della campagna dei feudi valplatanesi, che il Di Giovanni ben conosceva per averli percorsi in lungo e largo, al punto che quando il governo italiano mandò in Sicilia un funzionario per studiarli, costui, piuttosto che rivolgersi a degli agronomi si indirizzò al vate ciancianese per avere notizie su uomini e cose. Leggendo le poesie del Di Giovanni i riferimenti a Bbissana, a Majenza, a La Difisa, al Mavaru, Lupu nivuru etc sono costanti. E questo dovrebbe essere, per i giovani soprattutto, un incentivo ad approfondire anche l’aspetto storico del feudo, secondo il nostro poeta, che lo conosceva nelle sue mille pieghe e piaghe, al punto da descriverne anche gli angoli più lontani e interpretarne superbamente le voci, come la voce del vento che parla le mille lingue della campagna, portando via i sospiri e raccontando la disperazione della povera gente che attende paziente una palingenesi sociale e avverte più le tragedie del cuore che non le miserie della vita. Non è il caso in questa sede di accennare alla visione politica dello scrittore nei confronti del feudo, ammesso che ce l’avesse. Quel che di sicuro possiamo affermare è che il poeta ciancianese ne subisce un profondo coinvolgimento emotivo e che, per la sua formazione, non poteva essere come Eugenio Giannone
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www.villachincana.it il Verga che, gran conoscitore della vita rurale, si manifesta osservatore attento e neutrale ma con una concezione statica della vita, che non ammette cambiamenti e rivolgimenti sociali. I due grandi scrittori, dice qualcuno, non avevano animo politico e, quindi, molto probabilmente erano convinti di non poter dettare soluzioni per cambiare la situazione. La loro scrittura era già denuncia, ma Di Giovanni, più dello scrittore catanese, si sente coinvolto e si strugge per le sofferenze imposte ai subalterni. Il suo è, come sostiene G. C. Marino, un compatire, cioè un patire-con, assieme, che si stempera nella visione cristiana della vita, convinto che le sofferenze del popolo si sarebbero alleviate con la costruzione della città francescana. L’indignazione morale che traspare, per esempio, dall’ode “Cristu” o da altre opere, era ben lungi dall’auspicare rivolgimenti epocali rivoluzionari, che altro non avrebbero fatto che irrigidire le classi sociali nelle loro posizioni, com’era avvenuto in occasione della parentesi dei Fasci, che aveva minacciato la sua idea di civiltà popolare e dato contadini e zolfatari in pasto a falsi socialisti e falsi profeti. Indicative, al riguardo, le pagine del grandioso affresco rappresentato dai due drammi Scungiuru e Gabrieli, lu carusu. Per lui, che pure non condivideva la sete di dominio e la rapacità del suo ceto, gli umili peccavano di presunzione quando aspiravano a possedere qualcosa che non era proporzionato a ciò che erano o erano stati. Una visione, tutto sommato, ingenua della vita e del confronto tra le classi; o meglio una visione tutta poetica del mondo e i poeti, lo sappiamo bene, spesso perdono di vista la realtà. Era così ingenuo, il Di Giovanni, che credette che il fascismo avrebbe debellato il feudo. Quella mussoliniana era solo retorica di regime e il fascismo assegnò solo 140.000 ettari espropriati che i contadini non poterono bonificare perché poveri e che erano sprovvisti di strade e di acqua. Solo la Repubblica, come abbiamo detto, mise mano a una seria riforma agraria, ma il nostro Autore non potè vederla attuata, perché morto nel 1946. Egli, perciò, resta, come scrive nella postfazione alle Voci del feudo, il cantore di ciò che era stato il feudo. Le lotte contadine avrebbero avuto un altro aedo, che, ricordo, nel 1972 venne a Cianciana a recitare le poesie del Di Giovanni: Ignazio Buttitta. Tuttavia Di Giovanni non era uno sprovveduto né un borghese arrogante perché la sua formazione culturale lo spinge ad una visione meno pessimistica e quindi dinamica della società e per lui i “vinti” non sono condannati ab aeterno; per loro c’è sempre una possibilità di riscatto e lo portano ad affermare ciò le simpatie nutrite in gioventù per il partito socialista e il forte sentimento religioso, ereditato dalla madre, dal padre Gaetano, grande studioso di S. Francesco come il figlio, e dall’omonimo zio prete, vicario foraneo di Cianciana. Allora Di Giovanni può essere definito, come sostiene il prof. Marino, un conservatore sui generis, dotato di una sottile e vaga sensibilità ‘progressista’ di tipo morale. Di Giovanni cantò le voci del feudo ma volle aggiungervi un altro tema, quello della zolfara, che avrebbe riscosso un notevole interesse e sul quale si sarebbero soffermati, seppure con diverse interpretazioni, autori del calibro di Pirandello, Aniante, Rosso di San Secondo, Giusti-Sinopoli, Savarese, Lanza, Sciascia, A. Petyx e, ultimo solo in ordine temporale,A. Camilleri. La zolfara: un'altra struttura economica che veniva ad accostarsi, senza sollievo per chi già vi consumava la sua esistenza, a quella del feudo. La zolfara: un inferno dantesco, senza luce, senza speranza, che il Ciancianese ben conosceva. Il nonno Vincenzo aveva rilevato attorno agli anni '40 del XIX secolo
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www.villachincana.it l'attività estrattiva dalla ditta inglese Morrison Seager, rivitalizzandola e fondando su di essa la fortuna economica della famiglia. Un mondo, quindi, di cui Alessio aveva conosceva diretta e che lo sconvolgeva per le sofferenze che vi si consumavano; un mondo dove lavoravano più di mille suoi paesani, che egli vedeva andare e tornare col buio e che alla fioca luce di un lucignolo o di un'acetilene trascorrevano la loro giornata lavorativa, per poi, la sera o la domenica, affogare le tribolazioni in un bicchiere di vino, consumato nel pianterreno di casa Di Giovanni, dove la "gnora Maria la Gammillera" vendeva vino per conto di Gaetano e dove il piccolo Alessio li scrutava attentamente. I bevitori - scrive- "non mancavano mai: nei pomeriggi e nelle sere di domenica, la stanzuccia n'era tutta piena e rumorosa. Eran zolfatai la maggior parte, pallidi, scarni, con la voce roca, di poche parole, alcuni quasi tetri. Sbevazzavano, si offrivano (…) vino l'un l'altro, bestemmiavano…" "Fiaccati dalla vita dura e penosa…,abbrutiti, sfiduciati, essi cercavano nel vino l'ebbrezza dello oblìo" (1). Erano così assuefatti al vino che un solo bicchiere li faceva traballare, rendendoli quasi ebeti. In quella bettola il bambino Di Giovanni conobbe un vecchio minatore, "stentito, risecchito" (!), che ogni sera gli raccontava le storie; anche dei carusi, suoi sfortunati coetanei che gli davano del voi, come si addice ad un padroncino. Storie, episodi, osservazione diretta che dovevano intristirlo e che ai suoi occhi innocenti dovevano apparire inspiegabili. Come poteva accadere che uomini, donne, bambini venissero martoriati in quel modo e creduti "di un'altra specie,…sostanza più grossolana…fatta per uso signorile…"?. Bisognava avere rispetto della dignità di quei derelitti - gli insegnava la madre, che "non fu mai orgogliosa, mai superba"(1)Quali fossero le reali condizioni di vita e di lavoro degli zolfatari è, credo, inutile ribadire ed esiste a proposito una vasta bibliografia. Voglio portare a conoscenza dei lettori quanto mi riferì, qualche anno fa, un vecchio zolfataro, mio amico: "In miniera lavoravamo mio padre, picconiere, io e un mio fratello, carusi. Guadagnavamo, in tre, una lira e venti centesimi mentre un chilo di pani di chiazza costava lire 1,40"! (2) Ancora nel 1953, poco prima dell'occupazione delle miniere, che si sarebbe protratta per quarantacinque giorni, la retribuzione d'un operaio era di 530 lire giornaliere; altrove superava le 700 lire. Nulla avevano ottenuto zolfatari e contadini con l'esperienza dei Fasci e a niente erano valsi i numerosi scioperi e le epiche occupazioni. Se triste era la sorte dei picconieri, miserevole era la condizione dei carusi che, beffeggiati, maltrattati, derisi, disprezzati, sodomizzati, sfruttati, ingobbiti, con i piedi piatti e, perciò, spesso riformati alla visita di leva, rappresentavano l'anello più debole della catena del lavoro in miniera e venivano letteralmente comprati dai picconieri, che versavano alle famiglie il cosiddetto soccorso morto. Chi non ha presenti quelle due splendide e tragiche figure di infelici che rispondono al nome di Ciaula (Pirandello) e Rosso Malpelo (Verga), che venivano accarezzati a calci? Orribile lo spettacolo rappresentato dalle caruse costrette a far coffe, a trasportare il minerale dalla bastarella ai calcheroni e a stare a contatto con uomini pressoché nudi, che sovente le avviavano al meretricio! (3) Un mondo, ribadiamo, senza luce, senza speranza di riscatto al quale il Poeta non si rassegnava e che ha ritratto con accenti commossi e sofferti, quasi a voler ribadire, con maggior forza e convinzione, i concetti già espressi da G. De Maupassant che, nel capitolo dedicato alla Sicilia de "La vie errante" del 1890, così scriveva: "…se il diavolo abita un vasto paese sotterraneo, pieno di zolfo in fusione, in cui fa bollire i dannati, è sicuramente in Sicilia che ha eletto il suo misterioso domicilio" e, ancora, "le Eugenio Giannone
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www.villachincana.it vallate grigie, gialle, pietrose, recano il marchio della riprovazione divina", per concludere che lo sfruttamento minorile era una delle cose più riprovevoli e penose che si potessero vedere. Ed ecco allora che la zolfara si configura agli occhi del Di Giovanni come "carnàla -carnaio- no di morti, ma di vivi", dove i minatori "scinninu muti /… ma, doppu, cuminciannu a travagghiari / gridanu, gastimannu a la canina / ca lu stissu Signuri l'abbannuna", mentre nel silenzio "…sempri di ddassutta veni un cantu / ca pari di ddu scuru lu lamentu" (4): "Poviri surfarara sfurtunati,/ comu la notti jornu la faciti"! (5). Così aveva insegnato a cantare ai suoi colleghi di lavoro il poeta estemporaneo Pasquale Alba. E vanno e vengono "a du a du, o suli, stanchi ed avviliti ,/ ni la muntata spuntanu affannati / ca nun ni ponnu cchiù…/ parinu di la morti accumpagnati" (4). Lo stesso sole, le stesse erbe, la natura sembrano indifferenti alla loro sorte, a "dda vita 'nfami, dda vita assassina, / comu l'armali…". (4) Questi i concetti, i pensieri che si evincono dalla lettura dei sonetti della zolfara, stupendi nella loro asciuttezza di linguaggio (6) e nitidezza di immagini, che fanno del Poeta della Valplatani un grande pittore che, tuttavia, va indagato nella molteplicità della sua produzione per esprimere un giudizio pieno sulla sua arte. Ma credo che ormai il Di Giovanni non debba più dimostrare nulla e che tutti i critici siano concordi nel considerarlo, se non il più grande, uno dei maggiori cantori degli umili. Non sta a me togliere o aggiungere: non ne ho l'autorità. Semmai - e stavolta non posso esimermi - mi sembra importante spendere due parole sull'intimo dissidio, sulla inconciliabilità della posizione del Di Giovanni, da una parte com-partecipe delle sofferenze degli ultimi, suoi fratelli in Dio e San Francesco, e dall'altra causa - perché "padrone"- di quelle sofferenze e sperequazioni; su come, cioè, poteva restare fedele alla sua posizione di classe un uomo che era cosciente che la dignità dei subalterni va sempre e comunque rispettata. I giudizi degli studiosi sono a proposito discordanti. Per Rita Verdirame la zolfara, col suo "silenziu ca t'inchi di tirruri" (4), è osservata dal punto di vista del minatore, "vista con spietata obiettività", al di là, quindi, "d'ogni atteggiamento rivoluzionario o riformistico o conservatore" (7). Avrebbe dovuto rinunciare alle sue origini, spogliarsi come San Francesco? Per risolvere cosa? Varrebbe, ripeto, per Di Giovanni quanto è stato scritto del Verga: vede le cose da scrittore e le denuncia. Ai politici il compito di trarre le conclusioni e trovare i rimedi. Per Giuseppe Carlo Marino la forte carica di partecipazione emotiva alle sofferenze di quel mondo, lo struggersi per le sofferenze dei minatori, il com-patire sarebbero stati "uno sforzo di autoliberazione dai condizionamenti e dai vincoli di una formazione intellettuale borghese e da un conservatorismo cui l'ancoravano l'appartenenza di classe, oscillanti nel Di Giovanni tra l'amor populi - cui attingeva per la sua produzione letteraria- e l'ira populi, cui i borghesi guardavano con apprensione dopo i fatti legati alla parentesi fasciante. (8) Non riuscendo a risolvere il dualismo derivantegli dalla posizione di classe e la compassione per i derelitti, non riuscendo a venire a capo di questa dicotomia, al Di Giovanni non restava che la fuga nell'utopia, cioè nella poesia. E mai fuga fu più bella. (conferenza) Note: 1)A. Di Giovanni, In ricordo della mamma, Noto, 1904 2)Cfr. E. Giannone, Il Fascio dei Lavoratori di Cianciana, Cianciana,1997; ed Eugenio e Monica Giannone, Non si passa, CGIL Agrigento e Palermo, 2003. 3) Cfr. E. Giannone, Zolfara, inferno dei vivi, Palermo, 1996 e V. Savorini, Le condizioni economiche e sociali dei lavoratori…, Girgenti,1881. 4) A. Di Giovanni, Sunetti di la surfara, in Voci del Feudo, Palermo, 1938, ristampa del 1997, a cura di S. Di Marco per conto del Comune di Cianciana.
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www.villachincana.it 5) P. Alba, L'omu svintutatu ( a cura di E. Giannone), Cianciana, 1977. 6) Cfr. S. Di Marco, Dialetto e poesia nel pensiero e nell'opera di Alessio Di Giovanni, in Alessio Di G iovanni, anima della profonda Sicilia, Cianciana, 1995. 7) Rita Verdirame, La poesia del latifondo in Alessio di Giovanni, in Alessio Di Giovanni e la Poesia siciliana del Novecento, Palermo,1988. 8) G. Carlo Marino, Alessio Di Giovanni: un intellettuale, un'anima bella della profonda Sicilia, in A D G., anima della profonda Sicilia cit..
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Alessio Di Giovanni Maju sicilianu (a cura di S. Di Marco), Comune di Cianciana, 2003. Quando Alessio Di Giovanni pubblicò la sua prima raccolta di versi era un giovanotto poco più che ventenne e non aveva forse idea di dove la sua vocazione poetica l’avrebbe condotto, vale a dire a una vera e propria rivoluzione della lirica dialettale della quale oggi è considerato uno dei massimi esponenti. Nel 1896, recuperando di sicuro rime precedenti, aveva dato alle stampe, presso la Tipografia Montes di Girgenti, diciamo ‘tipografia di famiglia’ perché spesso adoperata dal padre Gaetano, la raccolta intitolata Maju sicilianu, ma da un decennio aveva lasciato il suo fertili paisi, del quale conservò tutta la parlata, per trasferirsi in una Palermo ricca di fermenti culturali, ancora scossa dalla parentesi fasciante e disillusa per ciò che avrebbe potuto essere e non era stato il Risorgimento; in un clima letterario nel quale i giovani si muovevano tra il rispetto, il solco della tradizione, e le nuove istanze che orientavano l’arte verso la vita vera del popolo, della gente di Sicilia. Il Di Giovanni intuisce che, dopo la stagione meliana e dei suoi migliori seguaci (Scimonelli, Alcazar, Gueli, Nascè), la poesia siciliana doveva voltare pagina, lasciandosi alle spalle il mondo sdolcinato e artificioso dell’Arcadia e dei rachitici imitatori del Meli con quei falsi pastori, quei quadri falsamente idilliaci, per rivolgersi ad un mondo più vero, più autentico, abbarbicato alla terra, intesa come bellezza, paesaggio, lavoro e fatica, sacrificio e gioia, dolore, amore, religione 1. Ad una Sicilia “più vera, mistica e patriarcale”; che era quella dei veristi e dei verghiani, che tuttavia avevano una visione statica della vita, pessimistica e senza prospettiva alcuna. Naturalismo e materialismo mal si coniugavano col suo senso cristiano dell’esistenza, con la sua bonomia, la sua fraterna indulgenza verso i suoi simili. “Il suo realismo – dice il Peritore nel suo famoso saggio – è la vita stessa della sua gente”2; ne è la descrizione viva e sincera e ciò doveva essere fatto nella parlata ingenua dei nostri contadini e zolfatari; in un linguaggio fedele al parlato – come lo stesso poeta ebbe a scrivere nel saggio su Saru Platanìa 3, licenziato lo stesso anno del Maju – “per salvaguardare il patrimonioo antropologico regionale”. No, quindi, al dialetto letterario del Meli e no al dialetto borghese di Martoglio che gli appariva un espediente da bottega. Scriveva nello stesso saggio : “Il poeta dialettale colto deve avvalersi del natio dialetto, deve spirarne l’alito particolare” senza “dimenticare la sua condizione, i suoi studi…”. La poesia dialettale dei poeti colti doveva mantenersi fresca, genuina, spontanea, ma di una “spontaneità riflessiva”, riflessa; doveva, cioè, attingere alla poesia popolare ma non confondersi con essa. Ciò significava per lui conservare il retaggio culturale dei padri, rendere omaggio al loro linguaggio “prima che esso muoia (Lettera al Verga del 06.06.1920).
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P. Calandra, La poesia siciliana tra lingua e dialetto, in Alessio Di Giovanni e la poesia siciliana del Novecento (a cura di S. Di Marco), Ila Palma, Palermo 1988, pag. 72. 2 G. A. Peritore, La poesia di Alessio Di Giovanni, Fiorenza ed., Palermo 1928, pag. 14. 3 Alessio Di Giovanni, Saru Platania e la poesia dialettale in Sicilia, Chiurazzi, Napoli, 1896.
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www.villachincana.it Verista sui generis, quindi, con una visione della vita che qualcuno ha definito ottimistica, perché i contrasti sociali della Sicilia, pensava, “si sarebbero potuti risolvere nella visione della sua ‘città francescana’, luogo ideale…dove è possibile recuperare interamente i valori cristiani della giustizia, della solidarietà e fraternità”1. Un mondo che egli ben conosceva, anche nei suoi aspetti più reconditi, per averlo scrutato attentamente e che gli era noto anche attraverso gli studi dempsicologici del padre e di quegli altri studiosi, in primis il Pitré, i cui testi abbondavano nella biblioteca domestica; ed interpretato attraverso i suoi ricordi di campagna e le narrazioni dei vecchi contadini, che lo accompagnavano nelle sue escursioni campagnole (come avviene, per esempio, ne Lu fattu di Bbissana). La campagna è il tema di fondo di Maju sicilianu, un libro che egli dice è nato tra “vaddi e muntagni” , nella Valplatani; un libro che ha un sapore antico che testimonia della sua solida cultura e ha il fascino, nei versi, delle ballate due/trecentesche che gli conferiscono un taglio decisamente popolaresco per il verso e la strofa usati, l’endecasillabo, l’ottava (anche la canzone), così orecchiabili, musicali e, oserei dire, innati nei nostri contadini, così radicati alla terra, alle contrade ciancianesi, al punto che a Saru Platania spiegava che l’origine del suo canto era nella Difisa, contrada nella quale invita anche l’amico pittore Cepparelli a raggiungerlo. Un libro col quale inizia la sua vita d’artista, pur non nascondendosi che l’arte è spesso piena di disinganni, è sì nostra gioia ma anche “nostra cruci”. Ma veniamo al libro, recentemente fatto ristampare dal Comune di Cianciana e curato brillantemente, come suo costume, da Salvatore Di Marco, che, precedentemente e sempre per la stessa Amministrazione Comunale, aveva prefato Fatuzzi razziusi (1996) e Voci del feudo (1997) Si tratta di una silloge di 71 componimenti, preceduti da un’invocazione e un preludio e chiusa da un “congedu”. Si divide i tre sezioni dedicate ad altrettanti pittori, amici dell’Autore: la prima, intitolata Amuri rusticanu, è dedicata a Garibaldo Cepparelli, il cui Cristo, serio e pensoso, gli avrebbe ispirato i versi dell’ode siciliana Cristu, che trovate in appendice a questo stesso volume; la seconda prende nome di Vuci di li cosi con dedica al paesaggista Francesco Lojacono, mentre la terza, Tipi e sceni paisani, è dedicata a Luigi Di Giovanni. Non stupisca la dedica a questi tre artisti perché il poeta ciancianese aveva iniziato giovanissimo proprio come critico d’arte e in questo campo era abbastanza preparato avendo letto, giovanissimo, come informa il Di Marco nella prefazione alla ristampa, opere fondamentali quali gli studi di Giuseppe Meli, i Discorsi intorno alla Sicilia di Rosario Gregorio e i tre volumi Delle belle arti in Sicilia di G. Di Marzo, imparentato con ciancianesi. Di Giovanni aveva una vera passione per la pittura e possedeva una notevole collezione di quadri, che a conclusione della seconda guerra mondiale sparirono rocambolescamente dalla sua casa. Va detto pure che Maju sicilianu è corredato da una serie fittissima di note, traduttive ed esplicative, che saranno una costante dell’aedo ciancianese. La raccolta è un’opera prima per cui quei componimenti – sostiene Carmelo Sgroi1 – “imitando le canzoni popolari, conservano l’insistenza tecnica degli esordienti”; né questo è l’unico difetto ed altri sono stato notati e sottolineati dal Di Marco. Vi sono, per esempio, italianismi abbondanti, qualche neologismo, delle rime facili o forzate, alterazioni aggettivali, tipiche dlla parlata ciancianese, spesso ripetute nello stesso verso, incertezze ortografiche che rimandano al fonografismo, che, come tutti sappiamo, 1 1
Salvatore Di Marco, Aspetti e problemi dell’opera di Alessio Di Giovanni, in ADG e la poesia cit., pag. 30. C. sgroi, in Salvatore Di Marco cit., pag. 24.
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www.villachincana.it è la tendenza, allora in voga, a riprodurre sulla carta la pronuncia precisa, i toni esatti del parlato. Per fortuna questa parentesi fonografica durò quanto tutte le mode e già con i componimenti successivi era superata. Non sempre lo schema metrico dell’ottava è osservato con puntualità e toglie spazio alla fantasia del poeta e un peso sembrano essere alcune reminiscenze libresche, ascrivibili alla nostra storia letteraria nazionale e vernacola, e in questo caso mi riferisco a Salvatore Mamo, il prete poeta ciancianese amico del padre. Presente, come in tutti gli esordienti, il tema della morte. Comunque, la raccolta ottenne un lusinghiero successo di critica e già Corrado Avolio che, in privato ne aveva stigmatizzato l’ispirazione forzata e languente, fu prodigo di consigli e apprezzamenti; le recensioni furono numerose e lo stesso Sgroi si affrettò a correggere il tiro, riconoscendo al poeta ciancianese il tentativo di adeguare “la sua coscienza d’artista all’ingenua freschezza sentimentale del popolo”, mentre Pietro Calandra parla, come detto, di abbarbicamento alla terra, intesa nelle sue varie manifestazioni e componenti umane. Più recentemente, per la nostra amica M. Nivea Zagarella questi bozzetti iniziali “destano la medesima intensità di una novella del Verga o del Capuana”, ma il félibre della Valplatani riesce più vero perché, al di là della drammaticità del narrato, lascia intravedere una speranza, uno spiraglio di luce e un’umana e calda simpatia per gli esseri che popolano le nostre contrade, le contrade ciancianesi, alle quali il Di Giovanni fa spesso riferimento, con un’insistenza che non troveremo più in questi toni nelle altre opere. Maju –dice sempre il Peritore – “è un’anticipazione” e l’imitazione “non è servile”. Fa già presagire il grande poeta. Notevoli appaiono la capacità di osservazione, la musicalità di buona parte dei versi, il fascinio per i particolari, l’ingenua “lindura”, l’abilità tecnica, l’aver dato un nome a tutte le cose e, soprattutto, la facoltà pittorica, che è esplosione di colori, cioè di luce, per cui non è casuale la dedica ai tre pittori. Alcuni temi della raccolta saranno ripresi più avanti e confluiranno in Voci del feudo, con esiti decisamente diversi, più maturi ed originali, che lo consacreranno come il più grande poeta del nostro primo ‘900. Colpisce la freschezza e la coloritura del linguaggio, la sua schiettezza e la vivacità che la nostra loquela locale ancora conserva, e colpisce, ancora, il senso cristiano dell’ispirazione con cui il poeta osserva il dipanarsi delle vicende umane , i drammi della povera gente che soffre e sopporta in silenzio le ingiustizie e custodisce gelosamente le sue virtù e i suoi valori più grandi. C’è, insomma, in Maju sicilianu, in nuce, il grande poeta che sarebbe venuto dopo, per cui la poesia isolana avrebbe avuto quel poeta – dal Di Giovanni preconizzato nel saggio su Saru Platania – che, allontanadosi dalla lirica individuale, dalla poesia descrittiva, sarebbe stato siciliano del suo tempo e avrebbe saputo comprendere il momento storico esprimendolo in “versi degni”. Tale divenne, grazie anche al tirocinio di questo libretto, Alessio Di Giovanni.
Il dialetto e Alessio Di Giovanni Eugenio Giannone
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www.villachincana.it (bozza di testo per conferenza a Lentini)
Il dialetto fu per Dg una seduzione del cuore, una scelta consapevole che implicava delle rinunce cui l’autore ciancianese sapeva di dover andare incontro. A farne un ostinato e convinto assertore el dialetto, desideroso di vivere en plein air, fu il distico d’una canzone villareccia – Lu sonnu di la notti m’arrubasti // ti lu purtasti a dormiri cu tia – che gli aveva sentito cantare laggiù, nella sua bella e selvaggia Valplatani, a un contadino. Come si fa a non innamorarsi del dialetto, a rimanere insensibili dinanzi a tanta dolcezza, delicatezza e tanta musicalità? In quelle parole sembrò al DG che riecheggiasse la voce lontana degli avi e decise che mantenersi fedele al linguaggio parlato era forse l’unico mezzo per salvaguardare, finché si era in tempo, il patrimonio antropologico regionale con tutti i suoi valori. Nel momento in cui si accinge a compiere questa scelta il poeta ciancianese s’accorge che la poesia siciliana doveva cambiare registro, lasciandosi alle spalle il mondo sdolcinato e artificioso dell’Arcadia e dei rachitici imitatori del Meli, abbandonando quei falsi pastori e le sbiadite ninfe, per rivolgersi ad un mondo più vero e autentico, abbarbicato alla terra, intesa come bellezza, paesaggio, gioia e fatica, dolore e sofferenza; ad una Sicilia più profonda che era, in pratica, quella dei veristi e quella del Pitrè, dal quale trascende la sua vocazione demopsicologia.Soltanto il dialetto poteva rendere l’intima anima della nostra gente, in un linguaggio fedele al parlato, senza fronzoli, scultoreo, che non fosse fatto solo per le anacreontiche e i Cunti, ma fosse coscienza riflessa e portavoce del popolo. Un linguaggio, quindi, che sembrasse nascere dalle cose e parlasse dritto al cuore e alla mente degli ascoltatori che ben conoscevano la realtà nella quale si muovevano ed operavano. No,dunque, al dialetto letterario del Meli e No al dialetto borghese del Martoglio che gli appariva un espediente da bottega, troppo caricaturale. Il Dg ha, per così dire, una concezione elitaria del dialetto e nel saggio su Saru Platania del 1896 delinea la figura del poeta dialettale colto, che non “deve dimenticare la sua condizione, i suoi studi” ma deve avvalersi del natio dialetto ispirandone l’alito particolare e conferendo ai suoi versi un taglio popolare non popolaresco per dare l’impressione chela stessa poesia provenisse spontaneamente dalle zolfare, dai feudi, dalle contrade paesane, come la Difisa, da cui, dice all’amico Platania, proviene il suo canto contento. Erra chi considera il dialetto un semplice aspetto della produzione digiovannea, perché esso ne è l’aspetto qualificante e portante e senza questa convinzione non si riuscirebbe a coglierne l’intima essenza, l’anima; ecco perché, secondo noi, il DG non va tradotto ma gustato nella sua essenziale interezza. Chi scrive in italiano è meno dialettale di chi usa il vernacolo? A. Camnilleri, il papà del commissario Montalbano, scrive nell’artificiosa lingua nazionale? G. Verga è meno dialettale del Di Giovanni? La freschezza, la lindura, l’incività e la scultorietà, la schiettezza e la vivacità sono le note caratteristiche della lingua del DG, che è la parlata agrigentina nobilitata. Essa raggiunge le vette più alte quando il Ns fa parlare la natura o dipinge dei bozzetti che sono un incanto (es.: Ni la massaria di lu Mavaru, Lu ventu ni lu romitoriu, la terribile Morti scunsulata, i sonetti della zolfara). Quindi il dialetto, così inteso, significava conservare il retaggio culturale dei padri, rendere omaggio a tutta la nostra tradizione culturale, esprimere in versi degni il momento storico. Concludendo e riassumendo: il dialetto siciliano, che aveva ed ha tutte le caratteristiche d’una lingua, buona per la prosa e la poesia, è lo strumento giusto e potente per celebrare la storia, la cultura, le tradizioni, l’humanitas di “una sicilianità in cui la lingua è semplice e dotta, dialettale e universale, sorella e madre”, madre alla cui mammella attingiamo sin dall’attimo in cui veniamo alla luce.
Alessio Di Giovanni e il Felibrismo Eugenio Giannone
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La frequentazione della letteratura d’oltralpe, assieme a soggiorni più o meno lunghi nella capitale francese, è stata la nota caratteristica di molti scrittori siciliani dell’’800 e anche del ‘900. Basterà, per tutti, citare Leonardo Sciascia che, oltre ad amare sommamente alcuni autori transalpini, compiva spesso dei raid a Parigi. Ma Sciascia ebbe sorte diversa rispetto al poeta ciancianese se è vero che uno dei suoi maggiori critici ed estimatori è Claude Ambroise, francese. Di Giovanni, che tanto amore e tempo aveva dedicato ai felibristi, dei quali tanto scrisse e tradusse, non godette di reciprocità, al di là di una nomina a socio onorario del movimento e ad attestati di stima. Personalmente non mi sono mai occupato del rapporto tra il poeta mio compaesano e il Felibrismo, avendone trattato sempre, in occasione di convegni, in senso generale tendendo soprattutto a far conoscere il personaggio e la sua poetica o esplorato tematiche insolite, come la voce del vento, il rapporto col fiume Platani, il feudo e la zolfara o, ancora, i momenti storici insiti nella sua opera. Oggi, comunque, è arrivato il momento di spendere qualche parola su questo argomento e sul peso che il Felibrismo ebbe, se l’ebbe, sulla produzione digiovannea. A me, e posso naturalmente prendere un abbaglio, non sembra – come invece sostiene il prof. Santangelo – che il movimento fondato dal Mistral e dai suoi amici nel 1854 abbia esercitato un influsso notevole sul poeta vaplatanese; e che il Di Giovanni abbia potuto illudersi di essere il Mistral siciliano non vuol dire che il Ciancianese sia nato alla poesia dopo aver letto e studiato i felibristi. D’altra parte, lo stesso illustre cattedratico parla di “congenialità e temperamento artistico e di umane idealità” parallele in due regioni, come Sicilia e Provenza, affini per condizioni storiche e tradizioni civili. Se essere felibristi significa nutrire amore per le foyer, le clocher, la terre, di Giovanni sarebbe stato felibrista anche senza quel movimento. Quando Mistral lo nominò socio del Movimento, definendolo un superbe félibre, lo scrittore siciliano aveva già pubblicato Maju sicilianu, il saggio su Saru Platania e la poesia dialettale in Sicilia, l’ode Cristu, A lu passu di Giurgenti, numerose poesie che poi sarebbero confluite in Voci del feudo, Scongiuro che, ripreso, avrebbe dato vita al dramma Scungiuru e meditato a lungo su Gabrieli, lu carusu (vent’anni, dice) e Lu saracinu (addirittura 40). Marginale poteva essere, dunque, l’influsso del Felibrismo su di Giovanni e tale appare se si legge tutta la sua opera che risulta intrisa nella sua generalità d’un profondo carattere di sicilianità, come sostiene Salvatore Di Marco. La tematica, che potremmo definire felibrista, era già stata enunciata dal Di Giovanni nel saggio su S. Platania, nel quale il Ciancianese s’era posto il problema del rinnovamento della poesia e della lingua siciliana e aveva esortato i poeti isolani a “uniformare le loro opere allo spirito della regione, del paese in cui vivono” (vivevano), addentrandosi nei misteri della vita popolare, nei costumi, nella superstizione della povera gente”, in una parola a riferirsi alla vita vera della gente di Sicilia. Una lezione che, più che dai transalpini, gli derivava dalla sua innata vocazione al realismo, dagli studi demopsicologici del Pitrè, dal Salomone Marino, dal verismo regionale di Serafino A. Guastella, da Lionardo Vigo, dal padre Getano, insigne folklorista, dall’osservazione della vita popolare cui si guardava con particolare attenzione in quel periodo, nonché dal Ragusa Moleti che nel 1878 aveva scritto che lo scrittore realista deve rivelare al mondo la vita di stenti, privazioni e sacrifici delle più umili classi sociali. Credo colga nel segno l’ispettrice Rampolla quando parla di vicinanza del Di Giovanni al Bernard “per la fusione di realismo e di ispirazione mistico-umanitaria” Eugenio Giannone
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www.villachincana.it perché, effettivamente, il vate ciancianese fu verista, mistico e populista nel senso nobile del termine e addirittura, in gioventù, aveva nutrito - lui, esponente della classe padronale - simpatie per il partito socialista prima che i cattolici cominciassero ad organizzarsi in un loro movimento e poi partito. E’ innegabile che il Di Giovanni subisca il fascino del Felibrismo; d’altra parte, come poteva egli, poeta, rimanere insensibile dinanzi ad un movimento che propugnava la riscoperta della lingua del cuore – nella quale si sentiva la voce degli avi -, dei valori tradizionali e della religiosità popolare, un connubio tra le culture neolatine, che avevano in comune memoria classica e mediterraneità? Rimarcabili mi sembrano le differenze. (cfr. R. Anzalone in Quaderni, n° 4) Il felibrismo aveva toni e colori essenzialmente ottimistici, DG illustra un’umanità dolente, anche se non asservita e condannata ab aeterno, intrisa del senso tragico della vita di cui sembra soffriamo tutti i siciliani. La riscoperta della lingua, della storia e delle tradizioni locali fu per i poeti di Provenza un modo per riaffermare la loro identità etnica, cioè di razza, e scrollarsi di dosso l’opprimnte centralismo parigino. E’ la parola razza che mi turba. Evoca in me fantasmi tragici ogni qualvolta la sento pronunciare. Per Di Giovanni parlerei d’orgolgio d’appartenenza, mentre il recupero e l’esaltazione del dialetto puro e schietto è, sì, ribadire il marchio dell’appartenenza, segno di sicilianità, ma non ripudio dell’italianità. Il dialetto in Sicilia, oltre ai segni etnici, recava quelli dell’emarginazione sociale e dell’arretratezza culturale, dato l’alto tasso di analfetismo; romiti, contadini, zolfatari digiovannei non potevano che sprimersi nella loro parlata vernacolare. Di Giovanni aveva alto il senso della patria italiana e più volte aveva applaudito all’impresa unificatrice di Garibaldi. Il suo felibrismo non poteva avere connotazioni politiche; di conseguenza, la sua adesione al movimento, se effettivamente c’è stata, altro non è che affinità di temi e vocazione, di temperameto e sentimento, consonanza d’intenti, congenialità e compiacenza di chi scopre che nella sua avventura artistica molti si erano mossi e si muovevano, non solo in Francia, sulla sua stessa lunghezza d’onda, propugnando una poesia radicata alla terra che “incontrava nel dialetto la sua espressione più autentica”. Quanto detto nulla toglie all’importanza del movimento occitanico e ai suoi grandi rappresentanti, perché esso non fu – come giustamente sostiene il Reynier – “una manifestazione localistica bensì una polla e un germoglio di pensieri e sentimenti che avevano un’impronta di universalità”, come testimonia il Nobel assegnato a F. Mistral, la sua diffusione europea e il coinvolgimento di studiosi e di più paesi in occasione delle celebrazioni di due anni fa. (Conferenza presso la Società dei Francesisti di Palermo)
A. Di Giovanni, il suo paese e il suo tempo
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www.villachincana.it Quando nel 1872 nasce il poeta, Cianciana, contrariamente a quanto avviene oggi, è un centro in forte espansione socio-economica. Da poco erano state aperte le zolfare che, al di là dello sfruttamento degli addetti ai lavori, garantivano un certo reddito che si riverberava su tutta l’economia cittadina; la popolazione, che s’era mantenuta stabile per due secoli, raddoppia con persone che, provenienti da diversi paesi, favoriscono inevitabilmente lo scambio di opinioni e di esperienze, sempre sinonimo di crescita; i “burgisi” fanno studiare i figli e anche la vita politica è vivace, grazie alla presenza di alcuni repubblicani e garibaldini convinti. Nel 1861 erano state istituite le scuole elementari maschili; nel ’63 era stato attivato il corso serale , mentre nel 1870 era stata aperta la sezione femminile e tutto ciò prima che in Italia venisse promulgata la Legge Coppino sull’istruzione elementare, laica, obbligatoria e gratuita per almeno un biennio, che è del 1877. Nel 1863 era stata istituita la stazione dei Reali Carabinieri, seguita qualche anno dopo da una delegazione di P.S., e nel 1869 il telegrafo elettrico. Nei primi anni ’70 era nata una società di mutuo soccorso. Il paese non ha mai sofferto la sete; già allora cominciava a sistemare la viabilità interna e c’era qualche tipografia in grado di stampare libri. Tra ‘800 e ‘900 parecchi sono stati i docenti dell’Ateneo palermitano d’origine ciancianese. Anche la massoneria vi era radicata. Era ancora vivo il ricordo di padre Vincenzo Felice Sedita, autore d’un poema sulle avventure di Testalonga e di numerose canzoni divenute popolari e cantate nelle bettole, dove gli zolfatari si scambiavano brindisi in rima, e durante le serenate notturne, perché Cianciana ha sempre avuto una forte tradizione musicale e c’è sempre stata una banda musicale; Salvatore Mamo incantava tutti con i suoi “cunticeddi”, mentre Gaetano Di Giovanni, padre di Alessio, raccoglieva testi folklorici e scriveva saggi storici e Giuseppe Antinori, medico e garibaldino d’Apromonte e Mentana, s’affermava in campo internazionale come sociologo antelitteram. Verso fine secolo comparvero i primi socialisti e nel 1893 anche Cianciana ebbe il suo Fascio dei Lavoratori. La vita culturale in Sicilia era in continuo fermento. Giuseppe Picone nel 1866 aveva pubblicato le sue “Memorie storiche agrigentine”; in letteratura cominciava a dominare la figura di Giovanni Verga col suo mondo e “ciclio dei vinti” e da Palermo faceva sentire la sua voce, dando inizio alla moderna demopsicologia, il Pitrè. Folkloristi e letterati guardavano con crescente interesse alla vita del popolo, alle sue tradizioni, ai costumi, alla sua religiosità, alla sua cultura, ai suoi pregiudizi. Si affermavano personalità del calibro di S. Salomone Marino, Lionardo Vigo, Serafino Amabile Guastella, Luigi Capuana ed Emanuele Navarro della Miraglia, mentre cominciava a far capolino un giovane agrigentino che, nel giro di pochi decenni, avrebbe sconvolto il mondo delle scene. Mario Rapisardi e Giuseppe Aurelio Costanzo auspicavano, con la loro polemica sociale, una palingenesi della società siciliana. Palermo, con i Florio, manteneva tutte le caratteristiche d’una capitale; Catania era l’Atene della Sicilia. In questo clima culturale si forma, sostanziandosi sicuramente, la personalità poetica di Alessio Di Giovanni, che già dalle prime opere, e segnatamente dal 1896 col saggio su Saru Platania, comincia a porsi il problema del rinnovamento della poesia siciliana, ancora invischiata nelle pastorellerie meliane ed arcadiche, e della lingua con cui far esprimere contadini, zolfatari, romiti. Era chiaro che quelle anime semplici, che intendevano più gli sconvolgimenti del cuore che le tragedie della vita, non potevano esprimersi nell’italiano del Verga, né in un siciliano italianizzato, né nel dialetto borghese del Martoglio, che gli appariva un espediente da bottega, ma nella loro genuina e schietta parlata. La poesia dei poeti colti doveva mantenersi fresca, spontanea, attingere alla poesia popolare senza confondersi con essa e far parlare i diseredati nella loro lingua, la lingua Eugenio Giannone
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www.villachincana.it del cuore, che riecheggiava la voce lontana degli avi, che era salvaguardia del patrimonio antropologico regionale con tutti i suoi valori. A fare dell’aedo ciancianese uno dei più convinti assertori del dialetto siciliano, ad indurlo ad impastare pane siciliano con farina siciliana, fu il distico d’una canzone villereccia che egli aveva sentito in una viottola della sua bella e sconsolata Valplatani da un contadino: “lu sonnu di la notti m’arrubasti / ti lu purtasti a dormiri cu tia”. Dialetto, quindi, come seduzione del cuore e come marchio d’appartenenza, anche se, sia chiaro, esso non si contrapponeva alla lingua nazionale, che il Di Giovanni venerava. L’esordio letterario del DG o, meglio, la fase immediatamente successiva è contrassegnata dal fenomeno del fonografismo, che è la tendenza a riprodurre fedelmente i suoni del parlato ma rende di difficile lettura i testi; per fortuna esso fu una moda effimera e già con l’ode Cristu era completamente superato. DG fu poeta, drammaturgo, romanziere; anzi è l’unico che abbia scritto i suoi romanzi (La racina di Sant’Antoni del 1939 e Lu saracinu, postumo) in lingua siciliana. Cantò le voci del feudo, che a Cianciana tuttavia era già stato debellato anche se non era avvenuta la polverizzazione – successiva –, ma ad esse volle aggiungere un altro tema che avrebbe riscosso un notevole successo: quello della zolfara, che cantò in modo superbo in versi stentorei, drammatici e asciutti, e che attirò l’attenzione di L. Pirandello, Giusti Sinopoli, T. Aniante, PM Rosso di San Secondo e, ultimi in ordine temporale, Angelo Petyx e L. Sciascia; anzi Sciascia ebbe a scrivere che senza l’avventura dello zolfo in Sicilia non ci sarebbe stata l’avventura dello scrivere. Era un mondo, quello della zolfara, che egli ben conosceva,essendo membro d’una famiglia che sull’estrazione del biondo minerale aveva fondato le sue fortune, e che sentiva raccontare, bambino, dai minatori che assiepavano il pianterreno di casa Di Giovanni, dove la ‘gnora Maria la Gammillera vendeva vino per conto di Gaetano. Ne avrebbe parlato spesso: nei sonetti della zolfara in Voci del feudo, in composizioni sparse, in Cristu, nel grande affresco che è il dramma Gabrieli, lu carusu. Ad un’attenta lettura la sua produzione si dimostra una fonte storica interessantissima, al di là di alcune “distrazioni” tipiche dei romanzieri e non degli storici. Di Giovanni appare altresì come un abile pittore e nessuno prima di lui aveva saputo dare visibilità “letteraria” alla pittura; si legga ad esempio il romanzo La racina di Sant’Antoni e non per nulla aveva esordito come critico d’arte; come nessuno prima di lui aveva saputo rappresentare la voce del vento. Il suo amore per la pittura è documentato, aoltre che dall’opera testé citata, dalla dedica del Maju sicilianu a tre pittori come Luigi Di Giovanni, non parente, a Francesco Lo Jacono paesaggista, di cui Agrigento ha recentemente curato una mostra, e al toscano Garibaldo Cepparelli, il cui “forte e pensoso” Cristo gli dettò, appunto, l’ode a Cristo. Un grande bozzettista, dunque, che si muove tra verismo, francescanesimo, un forte e innato spirito felibrista e decadentismo. Cominciamo da quest’ultimo: Di Giovanni non fu un decadente, anche se nella sua opera più tarda sembrano riecheggiare accenti pascoliani, come l’amore viscerale per tutte le cose, che, vedremo, in seguito, da dove invece gli discente. Da vecchi un po’ tutti siamo decadenti, se non addirittura decaduti. E’ ovvio che, essendo ogni uomo figlio del suo tempo, in qualche modo, egli abbia potuto subire l’influsso del movimento che impregnò di sé gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX. Ciò non può, assolutamente fare del figlio della Valplatani un decadente, perché egli fu essenzialmente un verista, la cui lezione realistica più che dal Verga, col quale ebbe modo d’intrecciare una simpatica querelle, gli deriva dagli autori che abbiamo ricordato all’inizio. In ogni caso il suo verismo si differenzia notevolmente da quello verghiano e dai suoi seguaci perché mentre nell’autore catanesi il destino dei vinti è segnato in partenza e per sempre, in Di Giovanni per loro c’è sempre una possibilità di riscatto e in Eugenio Giannone
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www.villachincana.it fondo al tunnel c’è per loro una fiammella accesa, che presuppone un riscatto che, magari, si sarebbe potuto realizzare nella sua città dell’amore francescano. Nel Poverello d’Assisi il poeta ciancianese vede l’alter Christus, che parlando alle coscienze, avrebbe eliminato le disparità tra gli uomini che in questo modo non avrebbero avuto motivo di ricorrere a manifestazioni di violenza per affermare la loro dignità, troppo a lungo calpestata. Ma niente colpi di testa. Da questo punto di vista DG può apparire un ingenuo, un utopista, ma in fondo un po’ tutti lo siamo quando ci interroghiamo sul destino dell’umanità e accantoniamo il nostro egoismo. Se poi aggiungiamo che la fede in Di Giovanni è sincera i tasselli vanno a posto da soli. Padre e madre soprattutto gli avevano inculcato un forte sentimento religioso. Quello ecclesiastico era un mondo che lo affascinava e nelle sue opere, a cominciare da A lu passu di Giurgenti, a Lu saracinu, a La racina, a Lu puvureddu amurusu, per finire ai tre drammi delineò splendide figure di religiosi, ora santi, come padre Mansueto, ora monaci fausi, come fra’ Antuninu de Lu saracinu, ora fanatici come fra’ Matteo, protagonista di A lu passu, ora tragediatori e mafioseschi come fra’ Liborio di Scungiuru. Interessanti i suoi saggi sui religiosi che avevano attivamente partecipato alle lotte per l’unificazione italiana. Quindi una fede non supina o bigotta, ma profondamente critica che gli consentiva di fustigare comportamente non completamente consoni al saio o all’abito talare. Sul Felibrismo non voglio spendere più parole del necessario. Qualcuno ha affermato che i felibristi di Provenza, con F. Mistral in testa, esercitarono un forte influsso sull’opera digiovannea. Niente di più inesatto, secondo me; perché se Felibrismo significa “amour pour le foyer,le clocher et la terre” Di Giovanni sarebbe stato felibrista anche senza il movimento occitanico. Per concludere: Di Giovanni è un grande artista che merita di essere riscoperto e avere la fortuna che non ebbe in vita perché è “il più grande cantore degli umili d’Italia dopo il Manzoni”, come ebbe ad affermare il grande critico Luigi Russo; perché se molti studiosi, anche stranieri, lo leggono in versione originale apprendendo quanto basta di siciliano, è chiaro che deve avere un valore intrinseco o aggiunto, come oggi si ama dire. Tra gli studiosi cito soltanto Leonardo Sciascia e P. P. Pasolini.Un autore simile ha bisogno di appuntamenti particolari per essere riproposto; e dire che la prima teatrale di Scungiuru si ebbe addirittura la Broadway Theatre di N. York, dove la sala si riempì come per incanto da parte dìun pubblico che non capiva affatto il siciliano. Strana la vita: generalmente si diventa famosi post mortem; con Di Giovanni è avvenuto esattamente il contrario. (Su Quaderni digiovannei) Ma perché leggere Di Giovanni oggi? • perché è un grande, dicevamo; • perché nelle sue opere riecheggia il retaggio culturale dei padri e, quindi, son presenti le nostre radici storico-antropologiche; • perché la sua poesia è una boccata d’aria pura; • perché la poesia è sempre un ottimo antidoto contro i mali esistenziali e le crisi e il nostro, innegabilmente, è un periodo di crisi. Perché è poco noto? • perché scrisse esclusivamente in dialetto; • perché per indole era poco incline a mettersi in mostra; • perché non ha trovato un grande critico di livello nazionale che si sia occupato, mentre era in vita, di lui; • perché tutte le sue opere sono state edite in Sicilia, anche quando leggiamo”Napoli”.
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Gabriella EBANO, Felicia e le sue sorelle. Dal secondo dopoguerra alle stragi del ’92-93. Venti storie di donne contro la mafia. Ediesse,Roma, 2005. Recentemente ho avuto la fortuna di leggere due libri meravigliosi: uno edito dalla Palumbo di Palermo per conto della Fondazione Progetto legalità e intitolato La memoria ritrovata. Storie delle vittime della mafia raccontate dalle scuole e l’altro, questo, di Gabriella Ebano, Felicia e le sue sorelle, per i tipi della Ediesse editrice di Roma. Il primo mi è caro per l’opera meritoria del ricordo dei valori e del sacrificio delle vittime della malapianta e mi gratifica perché contiene molti brani tratti da schede di alunni che io ho coordinato; il secondo mi è indispensabile perché mi inchioda alle mie responsabilità di uomo, di siciliano, di padre e di insegnante e mi mette davanti ad un’umanità dolente, tragicamente ferita, calpestata spesso nella dignità, drammaticamente privata degli affetti più cari e dinanzi alla quale non si può rimanere inerti o insensibili. Felicia e le sue sorelle è un libro che non deve mancare in nessuna casa perché veicola valori fondamentali e perché è un buon libro: ben pensato e impostato, espresso in modo chiaro e , perciò, accessibile a tutti. Fresco, efficace, incalzante, commovente. Il lavoro di Gabriella narra la vicenda umana di venti familiari di vittime della mafia, quasi tutti donne, e attraverso esso si può leggere la storia dell’Italia repubblicana fino ai nostri giorni senza tuttavia dimenticare episodi del passato con quanti erano stati assassinati precedentemente. Sono storie di madri, mogli, sorelle, figli diversi tra loro per estrazione sociale, educazione e cultura, accomunati da eventi tragici che hanno marchiato in modo indelebile la loro esistenza, imprimendole una brusca sterzata e maciullandoli nello spirito perché le ferite della carne rimarginano, quelle dell’anima no. Ogni storia si riflette sulle altre e le completa; evoca – come dice nell’Introduzione G. Casarrubea – “mondi perduti, valori irripetibili, battaglie di uomini e donne, famiglie, collettività, per la libertà, i diritti fondamentali”. Sono donne speciali, che non si sono mai abbattute nemmeno nei momenti più cupi, quando sono state lasciate sole, minacciate, intimorite, quando hanno temuto per i figli o sono state considerate pazze visionarie; donne che hanno resistito alla depressione, hanno vinto il mutismo; che si sono sentite rifiutate e respinte, ma sorrette da una forte tempra morale o da una profonda fede religiosa e negli ideali, nei valori per i quali si sono immolati i loro uomini; che hanno trovato una straordinaria forza per condurre una battaglia di civiltà contro l’ingiuria del tempo e l’incuria degli uomini che spesso dimenticano facilmente. Sono “persone cariche di ferite inguaribili” (don Ciotti, a La Stampa del 21.03.06), che portano avanti con ferma determinazione, pur col lutto vivo nel cuore, una dura lotta contro l’oblio perché sanno che il modo migliore per ricordare i loro defunti è “applicare i valori che ci hanno trasmesso” (Simona Dalla Chiesa, nel libro), diversamente sarebbero morti per niente e noi li avremmo uccisi un’altra volta con il nostro silenzio. Quello che emerge dal libro è, dunque, un messaggio chiaro, univoco,inequivocabile: Non dimenticare, ma coltivare la memoria, perché attraverso quelle vittime, attraverso la loro morte, passa il riscatto di tutti noi e, giustamente, pochi giorni fa, il Presidente Ciampi ricordava che a quegli uomini noi dobbiamo la nostra libertà, e GF Caselli: “ricordare con chi ha sofferto in prima persona è il modo per trasformare il dolore in un motore all’impegno e alla speranza; per crescere insieme, per andare avanti con la spinta morale del ricordo” (La Stampa del 21,03). Eugenio Giannone
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www.villachincana.it Nelle parole di queste donne può trasparire rabbia, desolazione, senso di impotenza e abbandono da parte delle istituzioni, ma non c’è rassegnazione, non c’è sete di vendetta, ma una forte attesa, un desiderio sacrosanto di giustizia. Più che leggere venti storie – e qui sta la peculiarità del libro – sembra davvero di averle davanti, queste donne, e di sentirle parlare e restare meravigliati del loro coraggio, della loro forza d’animo e della capacità di guardare avanti, nonostante l’amarezza e la tristezza del ricordo. Ma il desiderio di testimoniare, di dire che la speranza non è morta, di guardare fiduciose al futuro è più forte di ogni lacerazione della carne. Il messaggio è perciò positivo e lo sarà sempre, nella misura in cui tutti ci convinceremo che la mafia è nemica mortale dei siciliani perché impedisce l’affrancamento della nostra terra e condiziona pesantemente l’avvenire dei nostri figli, che sono la cosa più preziosa di questo mondo. “Cu’ cci lu faciva fari”? si sono sentite ripetere queste donne in riferimento all’azione dei loro uomini. Già! Chi glielo faceva fare? La loro essenza di uomini! Perché chi non lotta per la sua gente, per la sua terra, chi non si adopera per un futuro migliore per i figli non è degno di essere chiamato uomo. Queste donne sono un esempio da imitare, come i loro cari trucidati perché noi “li abbiamo lasciati soli e non siamo stati abbastanza vivi”; vanno apprezzate per la lezione che ci impartiscono; il loro impegno va condiviso perché la mafia uccide, ma il silenzio pure. Il nostro impegno dev’essere costante e non deve limitarsi a presenziare alla presentazione d’un libro, a partecipare a convegni o alle fiaccolate, ad esporre un lenzuolo o ad accendere una candela o ad indignarci dinanzi ad un nuovo efferato omicidio. Dinanzi alla guerra dei giusti non si può e non si deve rimanere neutrali, né si possono lasciare sole persone che conducono una battaglia di legalità e, perciò, di civiltà. Ad esse va il nostro pensiero, la nostra stima,la nostra solidarietà, la promessa dell’impegno a coltivare la memoria, a richiedere giustizia e verità, come non si stancano mai di chiedere quelle altre donne meravigliose che sfilano ancora in Plaza de Mayo a Buenos Aires. A loro il nostro ringraziamento per la lezione di vita; a Gabriella il nostro plauso per questo testo stupendo; a tutte un grazie sincero per l’apprezzamento dell’azione della Scuola. La Scuola ha fatto tanto per scuotere le coscienze e continuerà a farlo; ma un esercito di insegnanti non basta se manca l’azione sinergica delle famiglie e delle altre agenzie educative. E’ opportuno parlarne in ogni occasione: a scuola, in piazza con gli amici, nei bar, nei circoli cosiddetti di cultura, ovunque.
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www.villachincana.it Presentazione di REVELABO di don Salvatore MAMO Cianciana, Biblioteca comunale, 29.12.2008 (omissis) nel 2001 l’allora Amministrazione comunale provvide a pubblicare Lu vancelu nicu, sempre di patri don Turiddu, come è giusto sottolineare che Salvatore Mamo è un grande poeta, diverso da Alessio Di Giovanni che predica da un’altra sponda, e meriterebbe miglior fortuna. Purtroppo gli studiosi che si sono occupati della sua produzione poetica si contano sulle dita di una mano. E’ opportuno, quindi, che ci si ingegni per farlo uscire dall’anonimato inviando copia delle sue opere, ove siano disponibili, a quanti sono in grado di cogliere l’importanza della sua arte e la grandezza della sua poesia. Soprattutto delle due maggiori raccolte: “Li cunticeddi di me nanna” del 1881 e “Li cunticeddi di lu vecchiu” del 1911, nelle quali interpreta la vita ciancianese, alla quale attivamente partecipava, nei suoi aspetti umani, culturali e sociali. Sono dei bozzetti eccezionali che denotano grande compostezza formale, facilità e ricchezza di rima e lessico, immensa cultura, grande psicologia e profonda conoscenza dell’animo umano, interpretato e rappresentato con precisione, condita da una sottile e intelligente ironia che non dispiace affatto. Sono – dice il compianto mons. Domenico De Gregorio in un breve articolo apparso sull’Amico del Popolo – libri “pieni di fantasia e ricchi di brio”, che rivelano, più di altre conclamate opere di più famosi autori, “densità di concetti e vivezza di sentimenti, nobiltà di forma e musicalità di verso”. Ed è sicuramente per questi motivi che i nostri nonni non avevano difficoltà ad imparare a memoria quelle composizioni. Salvatore Di Marco parla di “schietta poesia che dà respiro ampio all’anima popolare siciliana e alla sua tradizione culturale, ma pure alla creatività dotta e spontanea del Poeta, il quale ha saputo – attraverso la favolistica – esercitare un autentico magistero di vita e di umanità”. Altri critici o studiosi dell’opera mamiana non so citare, non ne ricordo se non Salvatore Orilia del quale nulla ho letto. Personalmente ho avuto la fortuna di pubblicare tre inediti di don Salvatore, che era fratello della mia bisnonna paterna, e posso affermare che le sue opere, al di là del valore poetico, hanno un contenuto storico-documentario notevole: una preziosissima fonte dalla quale, chi vuol approfondire la conoscenza della nostra storia civile, non può prescindere. Ma veniamo al Revelabo, al libro per il quale siamo qui questa sera. Di viaggi immaginari nei regni d’oltretomba sono ricche le letterature d’ogni tempo e luogo. E’ sufficiente ricordare i poemi omerici, l’Eneide virgiliana e la Divina Commedia. Mandare all’inferno qualcuno è risultato sempre agevole e facile perché, se il Paradiso è il regno dei cieli per eccellenza, il Purgatorio più recente e di difficile collocazione, l’inferno è stato sempre considerato su questa terra, o sotto, e quindi facile da raggiungere. Ed è all’inferno che Salvatore Mamo spedisce, ancora vivo, don Alessio Di Giovanni, zio omonimo del poeta, col quale non c’era assolutamente feeling. Quanta stima nutriva nei confronti di Gaetano Di Giovanni, che aveva difeso appassionatamente contro l’avv. Luigi Tirrito con l’opera intitolata “Lu risentimentu di Cianciana contra un castranuvisi” del 1879, altrettanto astio, acredine covava contro il vicario foraneo don Alessio. Il fatto è che i due erano completamente diversi: per carattere, estrazione sociale, cultura e anche conformazione fisica. Li accomunava l’abito talare, che il Mamo indossò dopo un normale iter formativo e che, invece, don Alessio aveva vestito dopo una “folgorazione”, quando era già adulto e s’era laureato in legge. Eugenio Giannone
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www.villachincana.it “Don Chisciotti di Casina”, come il Mamo appella il Di Giovanni, era stato collocato vivo nell’inferno nel 1875 in “Un viaggiu pri lu ’nfernu”, poema satirico, bernesco, in sei canti in ottava rima, dove è evidente l’influsso di Dante, Tertulliano, Ariosto, delle Sacre Scritture, dei Vangeli soprattutto di Marco e Luca e la credenza popolare. “Un viaggiu pri lu ’nfernu” è un’opera, al di là del suo tono polemico, molto bella, con splendide descrizioni, diffusa ironia, felici intuizioni, periodare di ampio respiro e intrigante nella sua affabulazione. Naturalmente contiene gli errori tipici di una bozza perché il Mamo non ebbe il tempo di limare o correggerla. Non poté farlo perché gli venne requisita dal Vescovo di Agrigento. Tornata a Cianciana in modo rocambolesco e mutila, è stata data alle stampe da chi vi parla solo nel 1989, cioè dopo 114 anni dalla sua stesura. Dunque, accompagnato dalla sua Musa e da don Vincenzo Felice Sedita, autore di un poema sulle avventure di Testalonga, Mamo compie il “viaggiu” e visita sei grotte, dove è mostrato sempre lo stesso peccatore perché meritevole di vari castighi. Don Alessio viene definito presuntuoso, arrogante, ambizioso, vile e superbo; e ancora: pullicinedda, tagghia di Giuda, facci giarna, chinu comu attuppatedu, scarsu e curtu di ciriveddu, ‘nfami. Era successo che sovente, forse perché invidioso, il Di Giovanni aveva ripreso il Mamo e più volte lo aveva accusato ai superiori come amante del lusso, del gioco e di “sessu diversu”. Mamo aveva sempre e sdegnosamente respinto le accuse, sentendosi leso nella sua dignità di uomo e di sacerdote. Stanco, infine, compie questo singolare viaggio, diciamo, di vendetta per ristabilire la verità nei confronti del vicario foraneo, che si ammantava di santità e invece, per lui, era un ipocrita, un gaddu tisu tisu. Ventiquattro anni dopo i rapporti tra i due non erano migliorati per cui Don Salvatore decide di riprendere il viaggio, scrivendo il Revelabo, che l’Amministrazione Comunale pubblica a cura di Gaspare Conte, che ne ha scritto la prefazione, la traduzione in lingua italiana e arricchito di note esplicative. G. Conte è il maggior studioso dell’opera del Mamo, nei cui confronti nutre una vera e propria venerazione. Nel Revelabo, che si compone di 153 ottave in vernacolo sul metro dell’ottava siciliana, don Turiddu considera le sue mancanze ’na ’nzita (una papula) mentre ben più rimarchevole gli appare la tisia (tisi) di don Alessio, che accusandolo ai superiori, era riuscito ad estrometterlo dalla rettoria della Chiesa del Carmine, per cui tanto egli s’era speso, e prenderne il posto. Ed è proprio quest’ultima infamia che l’autore de Li Cunticeddi non riesce a perdonargli e perciò riprende il suo viaggio infernale per mostrare il rivale nella sua vera essenza. Da qui il titolo, modulato da Nahum, III,5: “Revelabo pudenda tua in facie tua et ostendam gentibus nuditatem tuam” (Svelerò sotto i tuoi occhi le tue malefatte e ti mostrerò alle genti nudo), rimproverandogli la perseveranza nei peccati carnali e altre castronerie, come le modifiche apportate all’Ave Maria e l’interrompere processioni. Fatto dipingere fisicamente il vicario in maniera caricaturale dalla di lui “amante” prediletta, Nina, Mamo inferge dei fendenti terribili al malcapitato peccatore, definendolo logorroico e vanaglorioso, ’nfami, crudili e saracinu, vigghiaccu, pazzu, Innominatu, testa di sceccu, diavulu ‘ncarnatu, sbirru di li parrini (perché vicario foraneo e, quindi, delatore), marvaggiu … pirchì ‘nzitatu supra lu sarvaggiu. La descrizione del personaggio vorrebbe essere, come il tono del libello, ironica, ma traspare tutta la sua acredine nei confronti del rivale e il risentimento verso alcuni colleghi preti che, nella lunga diatriba tra i due, avevano mantenuto un atteggiamento neutrale, pur conoscendo da quale parte stava il torto.
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www.villachincana.it L’impressione, scorrendo il testo, è che si tratti, anche in questo caso, di una minuta per alcuni piccoli inconvenienti, al di là della facilità e felicità di rima e quantità del verso, l’endecasillabo di per sé molto orecchiabile. Dal Revelabo traspare la profonda cultura del Poeta, che accanto ad opere di autori recenti e poco noti, come d. Antonio Damiano, mostra di conoscere perfettamente Dante (chiari i riferiementi al canto XVII del Paradiso), Virgilio, il sentire popolare e, naturalmente, le Sacre Scritture (Cantico dei cantici, Geremia etc). Per concludere: Francamente preferiamo il Mamo autore dei meravigliosi cunticeddi dei quali auspichiamo la ristampa e dinanzi ai quali questo Revelabo toglie, per sua genesi e contenuto, e nulla aggiunge alla sua gloria poetica.
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Danila Trapani, Dany Eileen e gli artigli del demone, L’autore libri, Firenze, 2008 Un viaggio fantastico nel Mondo di Sopra per riappropriarsi d’una facoltà che i giovani odierni, così confusi e oscillanti tra mondo reale e virtuale, sembrano avere smarrito: la fantasia. E’ quello che avviene nel libro della giovanissima Danila Trapani, pubblicato nel 2008 per i tipi della MEF- L’Autore Libri, Firenze, e intitolato Deny Eileen e gli Artigli del Demone. Ne è protagonista una giovane, Deny appunto, che è apparentemente una ragazza normale ma, in realtà, è dotata di poteri eccezionali, che tuttavia devono ancora maturare. Ella è una creatura del Mondo di Sotto, ignaro dell’esistenza della magia, e di questo mondo, il nostro, incarna i tempi, le ansie, le aspettative delle nuove generazioni, così assetate d’infinito, di fantastico e meraviglioso, che spiega il successo di personaggi come Srek, che riempie le sale cinematografiche, e del maghetto della Rowling, Harry Potter, per il quale, ad ogni puntata della saga, si registrano notti insonni e file chilometriche.Deny e i suoi amici, che frequentano – diciamo – un corso di perfezionamento dei poteri alla scuola di magia di Zefiro, nel Mondo di Sopra, non sono delle persone comuni ma Tessisogni, “creature magiche di livello supremo, simili alle streghe e a metà strada con le fate” e diverse da stregoni e maghi. Siamo dinanzi ad un libro sorprendente nel quale la giovane scrittrice si rivela narratrice di razza, riuscendo a conciliare la trama – che avvince come un romanzo giallo e come tale può essere letto– realtà e fantasia. Insomma, riesce a cucire una veste perfetta attorno alla sua creatura. Sorprende il tipo di scrittura, originale, fresco, riposante, spontaneo e giovanile, filtrato da una ricerca e da uno studio attenti e seri, fatti di buone e sistematiche letture e visitazione consapevole del dizionario, arricchito dall’uso pratico e quotidiano della lingua. Non possono meravigliare, quindi, l’aggettivazione fantasiosa e vaporosa e le figure retoriche, che stupiscono assieme alla facoltà di non stancare e accendere nel lettore il piacere d’andare avanti per scoprire come si dipana la matassa degli avvenimenti narrati.Chiunque può scrivere ma per farlo occorre sapere cosa e come scrivere, avere cioè stile e tecnica. Non tutti ce l’hanno, Danila sì. Il viaggio inizia, poco prima dell’apertura dell’anno scolastico, con una gita a Colossus, “il posto più caldo del mondo della magia”, e prosegue dentro le mura di Zefiro, dove si avvicendano fatti, episodi, personaggi strani, esseri mutanti, carte stregate, giardini, palazzi e castelli incantati, navi galleggianti, barriere invisibili, muri parlanti etc e dove, come ovunque, si scontreranno bene e male perché di tale malattia non è immune nemmeno il Mondo di sopra, che pure dovrebbe essere perfetto. Il demone del potere con i suoi artigli, ingordo, si annida anche lì, anzi viene dal futuro perché gli esseri fantastici riescono a comunicare con se stessi anche ad anni di distanza. Ma è, tuttavia, un mondo, seppure parallelo, molto simile al nostro mondo e Danila lo evidenzia con sottile ironia come quando, ad esempio, fa riferimento al clima natalizio o sottolinea l’assalto dei gitanti alle bancarelle di cianfrusaglie ( l’infanzia negata) a Colossus, l’uso di nastro adesivo, di asciugacapelli◊ portatile o del kit di prontoriparo. Il richiamo alla normalità, alla normalità della narratrice, è pure evidente nei riferimenti alla scuola, al preside, ai prof., alle discipline: il preside, dalla presenza discreta,che osserva tutto e non interviene mai a sproposito o col piglio del generalissimo; le professoresse vanesie, che si rilassano limandosi le unghie; i docenti che sanno stare in mezzo ai giovani e quelli che rendono astruse e indigeste anche le discipline più attraenti,come dovrebbe essere la Storia.E’ un mondo giovane e incantato, dove operano “mandrie di ragazzi”, che sanno fare il tifo, praticano buoni sentimenti, sanno individuare e perciò isolare i “bulli”, i prepotenti e godere dei colori Eugenio Giannone
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www.villachincana.it dell’universo. E la nota coloristica, cromatica, impronta di sé tutto il romanzo, che col suo clima di attesa, sapientemente costruito e dosato, dà l’impressione di trovarci dinanzi ad una smaliziata narratrice, facendoci dimenticare che Danila è poco più che un’adolescente, dall’avvenire sicuro e con i piedi ben saldi per terra, a far tesoro delle lezioni della scuola e della vita, desiderosa d’un organo superiore (Boulé) che sappia mettere ordine in questo sconquassato Mondo di Sotto. Ad majora!
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www.villachincana.it Giuseppe Benincasa, Memorie di Cefalonia (a cura di F. Licata e M. Liberto), Associazione Culturale Kassar, Castronovo di Sicilia 2008 Prefazione di G. Oddo “Noi della Divisione Acqui non vogliamo ricompense né chiediamo vendette perché non servono a risuscitare i 9.406 morti, ma, almeno dateci l’onore e ricordate che siamo stati i primi a combattere l’arroganza e l’alterigia dei nazi-tedeschi”. Si conclude con quest’affermazione l’ultimo lavoro di G. Benincasa, ottantacinquenne castronovese, scampato assieme a pochi altri commilitoni della stessa Divisione, all’eccidio perpretrato dai nazisti a Cefalonia nel settembre 1943. Una ferita mai rimarginata; una pagina tragica, amara e, per molti versi, ancora oscura di una guerra (il secondo conflitto mondiale) inutile e assurda, che testimonia come la barbarie umana possa essere un pozzo senza fondo. Il libro, che a volte assume le cadenze del giallo perché non sai cosa ti riserva la pagina successiva, narra in tono accattivante, affabulatorio e in un linguaggio molto semplice e sciolto, pressoché parlato come si addice a una memoria, la vicenda di un giovane che, insofferente alle imposizioni e ai soprusi, viene chiamato alle armi il 2 febbraio 1942. Assegnato al 18° Fanteria, Divisione Acqui, nel settembre dello stesso anno è imbarcato per Durazzo, trasferito a Zante al 317° Rgt Fanteria Acqui e, quindi, a Cefalonia. Il primo anno trascorre amenamente: Benincasa fa parte della Banda musicale del suo Reggimento, il portiere in una squadra di calcio, la mattina suona l’alzabandiera e la sera, dopo l’ammaina bandiera, si esibisce in piazza: “La vita militare suonava come un divertimento”. L’8 settembre 1943, a Cassibile, l’Italia firma l’armistizio con gli Alleati. Per i nostri militari è lo sbando: gli ordini sono contraddittori, equivoci, confusi. Alcuni decidono di arrendersi ai tedeschi, altri di non consegnare le armi o addirittura di combatterli; per tutti è una carneficina: i nazisti non fanno prigionieri, fucilano quanti riescono a catturare o si arrendono e poi tentano di occultare le tracce del misfatto. Giuseppe si salva per miracolo. Durante una missione, rimane ferito a un piede dalla bomba lanciata da un aereo germanico; l’indomani è catturato dai tedeschi; si trova assieme ad altri sventurati e va incontro alla morte per fucilazione; mentre è in fila con i suoi compagni, un soldato nemico lo strattona violentemente per strappargli la collanina che porta al collo; cade a terra, sviene per il dolore della precedente ferita e per la rabbia. Sente solo dire “avanti!” e subito dopo inizia il massacro. I soldati italiani gli cadono addosso e così si salva. Ore dopo, raccogliendo le forze, si dirige a casa d’un amico greco e viene aiutato a rimettersi in sesto. Entrerà poi nelle file della resistenza ellenica, tra i partigiani dell’ELAS. Nella terra del mito conosce e poi sposa quella che sarà la compagna della sua vita. Il nostos in Italia, settembre 1945,non sarà privo di amare sorprese. Al di là dei fatti storici, verificati dai curatori attraverso consultazione di fondi e testimonianze, e delle nefandezze della guerra, voluta e combattuta, come tutte, per tiranni che alla fine si stringono la mano, traspare tutta l’umanità, il senso di fratellanza, di solidarietà, generosità e ospitalità dei Greci nei confronti degli Italiani, che pure erano invasori, e testimoniano come anche in tempi di orrore il cuore umano sappia trovare nel suo fondo valori inossidabili che nessun macellaio potrà mai conculcare. Giuseppe Benincasa, memoria storica vivente del paesino sicano, non è nuovo a fatiche letterarie, avendo al suo attivo la pubblicazione di due libri di poesie e uno sui soprannomi castronovesi.
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www.villachincana.it Calogero Morreale Il peso del silenzio A. Siciliano ed., Messina, 2006, pp.479 Il Peso del silenzio è un poderoso volume che affronta un tema molto caro e comune a parecchi narratori siciliani e che si fa apprezzare per chiarezza di dettato e trattazione dei fatti, dai quali traspare tutta l’umanità dell’Autore, che affronta la materia proposta con distaccata partecipazione emotiva (fatica non facile, per i motivi che illustreremo a conclusione del nostro discorso) e la precisione dello storico di razza. E non poteva essere diversamente, visto che il Morreale ha insegnato per circa un quarantennio prima materie letterarie e poi Filosofia e Storia negli istituti superiori. Ora, in pensione, è fortemente impegnato nel sociale e riveste la carica di Presidente dell’Unione Italiana Ciechi di Agrigento, offeso anche Lui in quel preziosissimo bene. Cominciamo dal sottotitolo: “Famiglia lavoro stato e onore nella civiltà contadina della Sicilia postunitaria”. Dice tutto. Il libro è, infatti, un grandioso spaccato di quel periodo e si offre a numerose chiavi di lettura. Può essere considerato un romanzo di formazione, d’ambiente, una saga familiare, un poderoso saggio su usi, tradizioni e costumi della Sicilia ottocentesca, quindi un’opera antropologica, o un romanzo storico; in effetti è tutte queste cose assieme e andrebbe inserito nel filone dei Malavoglia di G. Verga, dei Vicerè di De Roberto, de I vecchi e i giovani di Pirandello, del Gattopardo di Giusepe Tomasi. Il romanzo è ambientato a Roveto, nome immaginario d’un paese della provincia di Girgenti, ma Favara, città la cui economia si basava sull’agricoltura e sull’estrazione dello zolfo, o Cianciana non fa differenza alcuna. La narrazione è cadenzata, quasi a voler aderire ai ritmi ora compassati e lenti ora frenetici del lavoro dei campi; il tono è soft, affabulatorio. Il linguaggio, semplice ed estremamente musicale, procede al recupero di numerosi termini dialettali quali fleccia, pizzucu, mmidioculu, buffetta, bunaca, cufularu, ippuni e di talune espressioni, come ad es. na cruci di ‘a frunti, che noi di una certa età ricordiamo benissimo ma diventano ostrogoto per le nuove generazioni, che parlano un linguaggio che non so definire. La vicenda inizia nel 1872 e si conclude subito dopo la 1ª Guerra mondiale.Essa ha per protagonista la famiglia di massaru Caliddu Paradiso e s’incentra, via via, sulla vicenda personale di Turiddu, terzogenito e secondo figlio maschio d’una numerosa prole. Si tratta di una famiglia di infaticabili e onesti contadini, tutti timorati di Dio, la cui sorte cambia allorché padre Antonio, parroco della Chiesa del Carmine, offre al massaru quattro salme di buona terra a due terraggi. La narrazione procede incredibilmente sciolta, bella nella sua asciuttezza e si fa drammatica in alcuni frangenti come nelle pagine che descrivono il pesante e disgraziato lavoro in miniera, che mangia grandi e piccoli e dove gli zolfatari rimanevano intrappolati nel fumo, nell’acqua, nelle macerie, sottoposti a tristi condizioni di lavoro, soprattutto i carusi, dinanzi ai quali Turiddu avverte un profondo disagio ma di cui nessuno osa parlare, neppure dinanzi ad una morte tragica, perché “lu pani è duci” e chi comanda sa come attuppari la vucca a chi potrebbe e dovrebbe indagare o potrebbe parlare. L’Autore, nel dipanarsi degli eventi, ha modo di soffermarsi sui momenti che scandiscono la vita della comunità in occasione delle feste religiose, degli zitaggi e dei matrimoni, delle serenate notturne, sul rigido cerimoniale dei rapporti interpersonali, improntati al buon senso, sulla condizione femminile, sulle colpe dei padri che ricadono sui figli, sul triste fenomeno dell’emigrazione, sul lavoro dei campi che iniziava all’alba per concludersi al tramonto coinvolgendo tutti i membri della famiglia, sugli inconvenienti derivati ai Siciliani dalla recente unificazione nazionale, sulle prime avvisaglie del socialismo, sull’incipiente dottrina sociale della chiesa. Tutti temi, questi, che meriterebbero ampia trattazione ma che motivi di spazio ci inducono a trascurare. Dopo aver frequentato due anni la scuola elementare, Turiddu viene avviato, come tanti bambini della sue età e di quel tempo, al lavoro dei campi. C’era poco da scegliere: campagna, miniera o putìa. Eugenio Giannone
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www.villachincana.it Con la sua opera e quella dei fratelli aiuta la famiglia a salire la scala sociale, suscitando invidie, risentimenti, rancori. Turiddu viene su forte, sensibile, orgoglioso, con un forte senso della famiglia, dell’onore e di giustizia innato; ha molti amici, suona da autodidatta la chitarra, è noto in tutto il paese, come il fratello Tanino, che s’è fatto prete. Un giorno, stanco di cedere a ricatti, angherie, intimidazioni, richieste di pizzo, prepotenze di delinquenti e desideroso di vincere il cerchio della solitudine, non più disposto a lasciarsi toccare nell’onore senza reagire, non nutrendo fiducia nella giustizia ufficiale, conscio dell’insegnamento del padre per cui non si deve bussare alla porta della caserma perché questo è contro la legge dei padri, “che fu fatta prima che noi nascessimo e si trova scritta nei nostri petti”, sceglie di aderire a nuvola, una cosca mafiosa che sa di primitivo e di barbaro, antisociale e antistatale. S’illude, come tanti hanno fatto prima e dopo di lui, che nuvola amministri la giustizia con senso di responsabilità, derima, prima e meglio della legge, le diatribe, il contenzioso tra paesani. E’ il falso e pernicioso mito d’una mafia buona, composta di gente d’onore e che, invece, è ancora l’infamia della nostra Isola. Il giudizio dell’Autore non lascia dubbi sulla sua nefandezza. Emerge, in queste pagine, una mentalità diffusa, un modo di pensare duro a morire per il quale non si doveva alcuna collaborazione al nuovo stato, che si era presentato con l’esattore delle imposte e il carabiniere per arrestare i renitenti alla leva, che durava tre anni, ed era visto come un nemico cui disobbedire era virtù. Recarsi in caserma era una grande vriogna, un indelebile marchio d’infamia. “Cu avi lu malu vicinu, avi lu malu matinu” e con Pasquale Cipolla le questioni non mancano. Un giorno del 1887 l’uomo viene ucciso e Turiddu, omertoso come tutti e che avrebbe potuto dire una parola per far prendere alle indagini un’altra direzione in grado di scagionarlo, tace: non si collabora col nemico! Viene, perciò, processato e condannato ai lavori forzati a vita nei bagni penali italiani. Dopo circa 33 anni il vero colpevole, sul punto di morte, confessa e Turiddu liberato. E’ ormai un uomo anziano, che in carcere ha fatto tesoro degli insegnamenti del cappellano e del fratello sacerdote, ha meditato sui suoi errori giovanili e ha scoperto la forza rivoluzionaria della cultura. Nel frattempo la famiglia s’è ridotta sul lastrico, due fratelli sono emigrati in America, i genitori sono morti, consunti anche dalla pena per la sorte di un figlio in galera che hanno saputo sempre innocente. La conclusione è un inno alla libertà. Bene! La vicenda non è frutto di fantasia. Essa si riferisce alla figura di un vecchio prozio dell’Autore del libro, che per decenni ha sentito raccontare dagli anziani del paese quest’incredibile storia e che prima di accingersi a narrare i fatti ha interrogato nuove fonti, coperte di polvere nei vari archivi. La condanna d’un innocente - cosa che capita ancor oggi - è un dramma per il peso materiale e psicologico che comporta; lascia l’amaro in bocca ed è una sconfitta per tutti. Oggi, per fortuna, molte cose sono cambiate e a tutti viene concessa una possibilità in più, a tutti sono aperte le porte dell’istruzione, che ci rende più sensibili e finalmente non ci fa più apparire lo stato come un nemico. Il riscatto della nostra Terra, e questo è il messaggio del libro, passa attraverso la cultura, attraverso l’ampliamento dei nostri orizzonti mentali e cognitivi. Per concludere: un bel libro, che racconta le nostre radici, che è un museo della memoria, che ci inchioda alle nostre reponsabilità nel rispetto dei diritti e dei doveri e di cui tutti dovremmo possedere copia perché ci siamo dentro con i nostri pregi e i nostri difetti, le nostre ansie e le nostre idealità, le nostre fobie e le nostre certezze, la nostra essenza di siciliani.
Eugenio Giannone
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Enzo Di Natali, Le baracche di Belice, Agrigento 2006 Un libro, Le baracche di Belice di Enzo Di Natali, di straordinaria attualità e che trasuda umanità; un libro di forte, avvertita compartecipazione alle vicende terribili di un’intera comunità, orribilmente provata dal più grande e catastrofico evento sismico siciliano degli ultimi 50 anni.. Un libro che è un viaggio nella memoria non solo degli abitanti di quella sventurata Vallata, così duramente colpiti negli affetti e nelle cose più care, ma nella memoria collettiva, perché principi religiosi e laici, etico-sociali, morali e civili, dunque, non sono prerogativa di una ristretta cerchia di individui ma appartengono all’intera umanità. Solidarietà, pietà, epopea del vicinato, generosità sono valori universali; ed è responsabilità di chi compie questo viaggio, cioè ricorda, riportare alla memoria, perché “tale vicenda dolorosa non può - e non deve – cadere nell’oblio”, ma indurre a “riflettere sul terremoto e sulle conseguenze sociali, culturali, ambientali, economiche e morali”, che sconvolsero interi paesi delle province occidentali della Sicilia tanto da segnare in maniera indelebile il paesaggio stesso, “che ha subito una radicale trasformazione”. Dal libro traspare la forte indignazione dell’Autore dinanzi a ritardi, lentezze burocratiche, impreparazione incredibili e incoffessabili per un paese civile, ricco e democratico come l’Italia, al punto che la “vicenda di Belice è divenuta la cartina di tornasole per capire la sensibilità e la capacità dei governanti”, che forse non meritano le popolazioni che amministrano. Non scopro certo l’acqua calda se affermo che la società civile è sempre un passo avanti rispetto alla politica, di qualsiasi colore essa sia, che ha sempre tenuto nell’isolamento e nell’abbandono questa nostra meravigliosa e disgraziata Terra. Oggi la Protezione civile italiana è tra le più efficienti del mondo; quarant’anni fa diede altra prova di sé e ci fu da vergognarsi. Immaginate che i primi soccorsi arrivarono a Belice ben sei ore dopo la scossa delle 02:30 e circa dodici ore dopo la prima scossa, quella avvertita la sera del 15 gennaio 1968, durante un inverno particolarmente rigido che aveva visto anche la neve coprire ogni cosa col suo manto. Poteva essere una serata di festa, come quando nevica insolitamente nei nostri centri, allorché, piuttosto che tapparci in casa, per l’inusualità del fenomeno ci riversiamo per strada. Ma andiamo con ordine e presentiamo brevemente l’autore di questo racconto che, con un ritmo crescente, riesce ad incuriosirci e a spingerci a progredire veloci nella lettura per sapere fin dove arriva l’insipienza umana, fin dove può spingersi l’umana solidarietà, dove può arrivare l’ottusità e/o l’impreparazione di chi della collettività dovrebbe avere cura, fin dove la natura è generosa e fino a che punto la fede sincera è veramente consolatoria e riesce a dare risposte ai mille problemi che assillano la mente umana. Enzo Di Natali è ormai figura assai nota a Cianciana e nel panorama culturale agrigentino. E’ insegnante, bioeticista, nonché giornalista pubblicista, affermato e apprezzato conferenziere, collabora al settimanale diocesano L’Amico del Popolo, ha fondato e dirige il quadrimestrale “Oltre il muro” e approfondisce argomenti religiosi e sociali in diverse radio e televisioni. (…) Il lungo racconto o, se si vuole, il romanzo breve Le baracche di Belice si snoda attraverso le vicende di una famiglia alle quali s’intrecciano quelle di una società, quella dell’intera Vallata, che sembra immobile, assolutamente impermeabile ai mutamenti pur intervenuti nella nostra Isola e dove vige ancora il don, riservato solo a pochi individui, come il nobilotto di turno, il prete, forse anche il maresciallo e a chi se l’è conquistato sul campo. Ma il terremoto è un vero comunista; sconquassa tutto, appiana ogni dislivello sociale azzerando tutto e tutti equiparando nella miseria e nella disperazione; rende tutti bisognosi: l’uomo è nudo. Tutto va in malora: ricchezza, astii, rancori, felicità, sogni, speranze; dietro di sé disperazione e morte. Don Calogero Falanga è un misantropo, guarda tutti letteralmente col cannocchiale, tenendo i suoi compaesani Eugenio Giannone
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www.villachincana.it lontani anni luce, non prestando mai loro denaro per timore che possano diventare come lui e qualcuno si appropri del don: “Io sarò don Calogero Falanga fino a quando essi saranno Belicesi pezzenti e bisognosi”. E’ un uomo condannato a morire solo, conscio della sua miseria esistenziale, gridatagli financo dai quadri che pendono dalle pareti del suo palazzo-fortino mai rinfrescate. La sua ricchezza, sostiene qualcuno a Belice, è favolosa ma non in grado di dargli un attimo di felicità o calore; perciò egli invidia la famiglia felice, unita, che gode le gioie semplici della vita, di Caloriu, un contadino atteso con impazienza la sera dai figli che gli corrono incontro per fare il giro con il muro, come avveniva pure da noi. Personalmente ricordo mia figlia e le mie nipoti che andavano incontro a mio suocero, al crepuscolo per fare il loro giro sul cavallo, che altro non era che un mulo, meglio: una mula. Espletato questo rituale vespertino, la famigliola si riunisce attorno al desco a consumare una cena frugale, sotto gli occhi binococolati e invidiosi del don , che avrebbe, questa volta sì, pagato per godere un attimo di quell’atmosfera. La descrizione di questi momenti è tra le pagine più poetiche del libro che si fa apprezzare per la semplicità di linguaggio, che conserva la freschezza delle narrate popolari, ma anche e soprattutto il taglio del giornalista di razza e la precisione dello storico, del sociologo. Altro passo romantico è quello conclusivo dll’amore di Francesco, ultimo figlio di Caloriu sopravvissuto perché strappato miracolosamente alle macerie, e di Alfonsina, figlia di emigrati. La sera nevosa del 15 gennaio 1968 in Tv davano “Notte senza fine” mentre al cinema proiettavano il film “Berlino 1945. La caduta dei giganti”; improvvisamente tutto cominciò a tremare e fu fuggi fuggi generale. Il primo pensiero fu per quelli rimasti a casa. In brevissimo tempo il paese, i paesi si svuotarono; la gente cercò rifugio nelle case di campagna, nelle automobili, all’aperto, adagiata sulle pietre con fazzoletti in testa e una coperta sulle spalle a fumare una sigaretta dopo l’altra, come avvenne da noi che avevamo avvertito la scossa. (A Cianciana, ricordo, per più sere riempimmo i pullman degli studenti.) Trascorse all’addiaccio, molti fecero ritorno a casa e si misero a letto vestiti, pronti a fuggire alle prime avvisaglie ma alle 2.30, una nuova, violentissima scossa di 60 secondi destò l’urlo selvaggio dei Belicesi, piombati nella disperazione. Moltissimi non ebbero il tempo d’uscire di casa e rimasero sepolti. I sopravvissuti capirono che nulla più sarebbe stato come prima, che la tragedia li avrebbe segnato indelebilmente e avrebbero rimpianto di non essere morti con i loro cari: “Lasciate che i morti seppelliscano i morti”, si legge in un passo della Bibbia. Uno spettacolo agghiacciante, terrificante si presentò agli occhi dei giornalisti de “La sibilai” che sorvolavano in elicottero la zona: diversi paesi erano stati distrutti, Montevago e Ghibellina non esistevano praticamente più! Anche la Chiesa Madre di Belice, cassaforte della memoria, era crollata. Quella gente rimase terribilmente sola, senza pane, senza coperte, senza ricovero, che lo Stato non riuscì ad assicurare nemmeno 48 ore dopo il disastro. Si scavava solo di giorno perché di notte mancavano i gruppi elettrogeni. E cominciò il rimbalzo delle responsabilità con le autorità a profferire parole vuote e irragionevoli. Anche don Calogero Falanga ci aveva lasciato la pelle. Lo trovarono penzolante in pigiama da un albero: la sua puzza era uguale a quella di tutti gli altri cadaveri. Ai Belicesi senza cibo e al freddo, in attesa di soccorsi, si strinse “in una comunione spirituale e di fraternità” l’intera comunità nazionale. Anche i detenuti del carcere di San Vito vollero essere solidali con una raccolta spontanea. Il Governo sistemò i Belicesi rimasti e che non avevano preferito emigrare in baracche, che dovevano essere alloggi provvisori; ma sappiamo tutti bene che in Italia non c’è più nulla di definitivo del provvisorio. Le baraccopoli davano l’impressione di campi di concentramento nazisti, col lato fresco d’inverno calo, cioè rovente, d’estate e in esse
Eugenio Giannone
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www.villachincana.it non c’era posto per l’intimità, il silenzio né per il riposo perché, data la sottigliezza delle pareti, entravano i rumori della strada e i sospiri dei vicini. L’ironia che traspare dal passo che illustra tale inconveniente è la stessa che sottolinea gli incontri annuali dei politicanti che, commemorando ancora dopo sette anni dal sisma, piuttosto che parlare di ricostruzione delle case, disquisivano di opere di urbanizzazione come ponti, monumenti, stadi, piscine che facevano innervosire i terremotati che, sempre più, si convincevano che in Sibilai i diritti si chiedono come favori e che l’unica dimora certa era un loculo al cimitero, che molti inaugurarono prima di vedere costruire le prime abitazioni. Edificazione delle nuove case che fu affidata ad un architetto piemontese che ridipinse il paese come un’anonima periferia torinese: in questo modo anche il patrimonio cultural veniva cancellato, afferma il nostro Enzo. Fecero bene gli abitanti del Friuli in simile dolorosa circostanza, fatta tesoro dell’esperienza dei Belicesi, a non permettere intromissioni di sorta nella loro ricostruzione! Leggere il libro è fare una passeggiata, a ritroso nel tempo, nei nostri piccoli centri a ritrovare la memoria: quante vecchiette vedevamo in quegli anni che aspettavano i figli dispersi in guerra, la cui immagine pendeva dal medaglione al collo della madre! Quante donne vestivano di nero rispettando il rigido luttorio imposto dalla tradizione che di fatto le obbligava a quegli abiti di tristezza per tutta la vita! E come si svuotavano di continuo le nostre strade! Quanti abbandonavano i paesi terremotati, e i nostri, con la famosa valigia di cartone, legata con rozzo spago? Chi emigrava? Chi emigra? Si chiede sconsolato Enzo Di Natali. I giovani, coloro che con la lor intelligenza e operosità avrebbero potuto cambiare Belice e la Sicilia, che, diversamnente amministrata, sarebbe potuta diventare un vero eden. Ma questi sono discorsi che un po’ tutti gli ingenui (?) ci rivolgiamo. Chi è l’emigrato? Uno sradicato, frutto d’un fasullo innesto che cambia a seconda del posto in cui si trova, per cui in Sicilia recita da siciliano, in Germania da tedesco e in Inghilterra da inglese. Forestiero all’estero, forestiero in patria! Ecco perché, alora, coloro che scelsero di rimanere a Belice, fecero studiare i figli, individuando nella cultura, nello studio la molla del riscatto sociale: “I libri fanno labbra” – ripeteva quel povero “uccellaccio” di don Calogero Falanga. Ricordate quali erano i luoghi d’incontro? Le botteghe artigiane. A Belice, qualche tempo dopo il disastro, riapre il suo laboratorio per “petti e tacchi” don Peppi, “scarparu anchi a cridenza”. Egli è un vecchio socialista, antifascista che ha partecipato alla Resistenza, all’occupazione delle terre e ha conosciuto Accursio Miraglia, il sindacalista di Sciacca ucciso dalla mafia. Dalle pareti del suo locale pendono un Crocefisso e il quadro di Giacomo Matteotti, al quale mensilmente fa officiare una messa, indicando al prete il nome di Giacomino. Il reverendo sa ma si chiede se questo martire della causa del proletariato non sia più degno di tanti pseudo cristiani. Dov’è scritto che dignità umana, solidarietà, cooperazione, generosità, altruismo, libertà dal bisogno e dall’ignoranza siano valori etichettabili, riconducibili solo ad una religione o a un credo politico? Essi sono valori universali e appartengono a tutti gli uomini di buona volontà. Diceva il credente Rosario Livatino, il giudice ragazzino: “Io devo rendere conto del mio operato a Dio, essi ( i laici) al popolo”. Purtroppo le nostre coscienze hanno bisogno sempre di martiri per scuotersi. Questo “scarparu a cridenza” intende la politica come servizio, come missione, non come vendita di sogni o come scalata al successo. Egli campa con la sua misera pensione e del su modesto mestiere. Quanta amarezza se raffrontiamo la sua alla condotta di tanti personaggi odierni, che hanno fatto dell’arte nobile di attenzionare i problemi della collettività per risolverli, uno strumento per arricchire se stessi e gli amici, da veri “trispi allittrati”, come Peppi ama definirli. Quanti sono, dunque, i protagonisti del racconto? Il terremoto, don Falanga, Francesco, figlio del povero Caloriu, con la sua mamma, la speranza, l’emigrato che ritorna d’estate a Eugenio Giannone
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www.villachincana.it rinnovare la piaga, la vita che lentamente riprende il sopravvento per cui anche nelle baraccopoli compaiono i televisori e si ascolta San Remo, si vedono le partite di calcio e si festeggiano gli avvenimenti dell’anno liturgico e le festività laiche che, assieme, scandiscono l’esistenza. Su tutti e tutto emergono due altre figure, di cui una non materiale ma fortemente consistente. La prima è quella di don Lorenzo, il nuovo parroco di Belice, destinato diventare Padreterremoto, scomodo per i miopi poveri di spirito ma guida sicura di tutti i Belicesi. E’ lui che tiene desta la speranza ed è lui che porta i bambini a Roma, dove saranno ricevuti da Aldo Moro, Sandro Pertini da Papa Paolo VI, rinnovando l’indignazione nazionale per la situazione incancrenita di tutti gli abitanti della Valle del Belice, vera vergogna nazionale. Il resto è storia recente. E’ ovvio che sotto le spoglie di padre Lorenzo si cela don Ribaldi, che poi sarebbebstato nominato vescovo di Acerra e che i Belicesi non hanno mai dimenticato. Il suo “I miei diciotto anni nel Belice” Enzo conosce bene e talvolta lo cita. Ma veniamo per concludere, all’altro vero, grande protagonista del libro. “Reverendo, perché se Dio è padre buono consente i terremoti”? E’ la domanda che tutti ci poniamo in presenza di eventi catastrofici e che gli Indonesiani, gli Haitiani, i Cileni, gli Abruzzesi, cui va tutta la nostra solidarietà e umana simpatia, si son posta. Già! Perché? La risposta è nelle pagine del Vangelo, della Bibbia, nella fede sincera di cui si nutre anche il nostro amico scrittore. Verrebbe da rispondere, di primo acchito, “perché Dio vuole metterci alla prova” ma< nel libro le risposte sono tante. Cominciamo dall’ultima, a pag. 110: “La Provvidenza viene sempre incontro… si chiude una porta e si apre una finestra”. E’ un modo di dire, d’accordo; ma il popolo non ha mai inventato locuzioni senza basarsi sull’esperienza d’una lunga osservazione. Quindi è vero: “DIO c’è: Vede e provvede”, tanto per restare in tema di “frasi fatte”. A pag. 83 viene ricordato un passo di Geremia (30, 18-19): “Così dice il Signore: Ecco restaurerò la sorte delle tende di Giacobbe, avrò compassione delle sue dimore. La città ricostruita sulle sue rovine e il palazzo sorgerà di nuovo al suo posto”. Nel racconto di Lazzaro è la risurrezione; tuttavia, ricorda padre Lorenzo, Gesù partecipa al dolore di quelle sorelle. Gesù è presente nel dolore di ogni uomo. Il dolore è icona di Gesù… Nemmeno Gesù dinanzi al dolore dà una spiegazione, forse non sarebbe servita a nulla… Dinanzi al mistero del dolore Gesù si stende sul legno della croce per salvare l’uomo. Si può, dunque, “cercare la luce della ragione nell’oscurità dell’esistenza, attraverso la via del dolore”. L’acqua è utile, preziosa per la vita; tuttavia, tutte le volte che cade abbondante muoiono tanti esseri viventi, trascinati dalla sua furia… tutto diventa un oceano di dolore. Eppure l’acqua è vita, anche se provoca morte e distruzione. “L’acqua che trascina e uccide, confluisce nell’oceano del dolore, ma evaporando si purifica raggiunge, limpida, l’infinito cielo. Il dolore, così, viene trasformato ingoia e innalzamento”. E’ il sentiero della fede che dà linfa alla speranza per cui “se noi consideriamo solamente il terremoto, [esso] ci appare morte e distruzione: se lo consideriamo nella totalità delle leggi della natura diventa vita”. Allora: un buon libro, ricco di spunti per interrogarci sul nostro presente e che ci “prende” durante la lettura; un libro che è una continua, sarcastica, coraggiosa denuncia, una fonte storica preziosa, una lezione di giornalismo sociale e militante, una lode a Dio e alla speranza, un inno alla solidarietà; un invito a vivere in simbiosi con quanto ci circonda, a rispettare le leggi di natura, alla riscoperta di valori antichi insostituibili e insopprimibili; un testo di demopsicologia, un duro atto d’accusa contro i profittatori e gli sciacalli, gli insipienti. Un libro in cui ciascuno di noi troverà qualcosa e di cui siamo grati all’Autore. Eugenio Giannone
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Giuseppe Pedalino Di Rosa, il notaio poeta di Racalmuto Pur avendo sentito parlare più volte di Giuseppe Pedalino Di Rosa non avevo mai avuto l’opportunità di leggere qualcuna delle sue composizioni. Per i soliti, tanti motivi: • Perchè molte opere sono ormai introvabili, essendo state pubblicate una sola volta mentre l’autore era in vita; • Perché i siciliani abbiamo la virtù dell’oblio, preferendo dimenticare e ignorare quello che dovrebbe essere un vero e proprio archivio della memoria, ricco di figure di notevole spessore culturale, erigendo un monumento alla dimenticanza; • Perché tutte le volte che si parla di poesia il discorso si complica e ancor di più per quella in dialetto o vernacolare; ben pochi la leggono, ancora meno ne comprano i testi. Si spiega così come personaggi del calibro di A. Di Giovanni, Valori, Trassari, lo stesso Buttitta, Bartolo Cattafi e Pedalino Di Rosa siano stati più famosi in vita che post mortem, come solitamente per gli artisti succede. Per fortuna nei nostri paesi esistono 4/5 pazzi innamorati di storia e letteratura patrie che con opera meritoria riportano alla luce autori e opere che meriterebbero miglior sorte; ma le ristampe cui essi o le associazioni culturali danno vita sono a tiratura limitata, soddisfano i paesani e solo qualche studioso; i più ne restano sprovvisti e diventa un’impresa ardua reperire i testi per lo studio, il semplice diletto o la curiosità. E meno male, nel nostro caso, che il poeta di Racalmuto abbia incontrato il maggior conoscitore della letteratura siciliana, Salvatore Di Marco, che con la solita impareggiabile sapienza ha curato la ristampa, per la Fondazione Buttitta, de Lu cantastorii ’n’America, arricchendolo di una precisa, puntuale e documentata prefazione, nella quale, oltre a ripercorrere le tappe culturali del Notaio, si sofferma sul sodalizio umano e culturale con Buttitta e De Simone soprattutto, lasciando cadere i giudizi (o i pregiudizi) sulla sua vicenda politica, che giustamente non devono interessare chi si occupa di letteraura, dovendo il critico soffermarsi sugli aspetti letterari di un’opera. Un rapporto, quello tra i tre, “fruttuoso e articolato che raramente la storia della poesia siciliana registra”. Del Pedalino mi sorprende il fatto che L. Sciascia, che pure tanto “raccomandava” Alessio Di Giovanni, mai abbia indugiato su questo fine e colto letterarato suo paesano,che forse non gli era congeniale, e mi hanno colpito, della sua produzione, l’interesse per gli aspetti culturali, etnico-antropologici e il virtuosismo letterario, senza il quale “il suo parabolismo sarebbe scaduto in un’incoerente esercitazione dilettantistica”, sottolinea Di Marco, che aggiunge che in Pedalino si riscontrano vigoria rappresentativa, grande respiro della narrazione, stilemi e archetipi riconoscibili e riconducibili alla lirica popolare siciliana. Ma Pedalino Di Rosa è anche e soprattutto un poeta colto, che esordisce nel 1927 con una silloge di 16 sonetti intitolati Sunetti a ‘ntruccatura, che lasciarono di stucco il De Simone, che ne scrisse la prefazione. Essi sono una prova della maestria di questo virtuoso del verso. La ‘ntruccatura consiste nel fatto che l’ultimo endecasillabo del primo sonetto viene ripreso come incipit del verso iniziale del secondo, l’ultimo del secondo come inizio del terzo e così via. Altra caratteristica è data dal fatto che il corpus è preceduto e seguito da uno stesso sonetto, detto corona, ricavato dai 14 endecasillabi che aprono e chiudono la raccolta così appositamente ‘ntruccata. Dalla lettura de Lu cantastorii emerge la sua novità (“A me premeva lo svecchiamento dei metri e delle tematiche della poesia siciliana”) e la sua fantasia linguistica. Eugenio Giannone
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www.villachincana.it Leggendolo ho avuto l’impressione che pensasse in Italiano e scrivesse in Siciliano, così perfetta e continua è l’osmosi tra lingua nazionale e dialetto. Il Pedalino gioca con le parole, ne ha consapevolezza e perciò dice: “scrivu e parlu a modu miu”. Ed è un modo che incuriosisce, affascina e coinvolge come i suoi metri e i temi trattati. I metri variano dal sonetto, talvolta caudato, alla terzina libera, all’esametro, al metro barbaro carducciano, all’ottava siciliana tipica della canzuna, sempre scorrevoli e dal ritmo incalzante alla tiritera e alla filastrocca che, accanto agli accenti commossi, ispirati, spontanei, popolareggianti da vero cantastorie, gli consentono il recupero di alcune pregresse esperienze futuriste. In più ho notato - ma è una mia personalissima impressione – accanto a taluni latinismi e costruzioni a senso, qualche richiamo a Martoglio e nei sonetti, diciamo, “scientifici” qualche reminiscenza dantesca. Talvolta l’ho trovato sovrabbondante, retorico ed enfatico nei toni, insistente in alcune descrizioni come, per es., in quelle delle torture patite da fra’ Decu, del quale il Nostro ammira la tenacia, la fermezza nei convincimenti, la libertà di pensiero, e non mi sono piaciuti certo patriottismo di maniera, l’orgoglio vacuo dei siciliani, figli tuttavia di una particolare temperie, e qualche forzatura. Molto belli i bozzetti di vita paesana, i ritratti tipici che rivelano la sua tecnica fine, la sua ironia, la sua nostalgia e la sua amarezza che non gli fa accettare i disagi della condizione dell’emigrato, la cui vita, egli, esule a Milano come tanti altri siciliani della diaspora, conosceva assai bene. Tra i temi vorrei sottolineare l’attaccamento a Racalmuto, terra di contadini e minatori, “paisi amatu”, al quale ritorna costantemente col pensiero, per cui, pur essendo andato via, gli pare “d’essiri statu sempri ccà”, la fugacità della vita, gli affetti più cari come l’amicizia, la famiglia con l’attaccamento alla madre e l’emozione di padre, il folklore con le abitudini paesane, la sicilianità per cui la nostra Isola, “paradisu di suli e di saluti”, con i suoi “tanti splennuri” gli fa credere a un Dio d’amore, che ci rimanda all’altro grande tema della sua ispirazione e produzione, che è quello religioso. C’è, infatti, in lui un continuo richiamo al creato, alla Madonna “matri divina/ ch’illumina e sirena lu criatu”, alla Chiesa di cui esalta la funzione protettrice e vede madre premurosa come una chioccia. Il tema religioso è sempre presente. Lo era stato nei 32 sonetti de Lu maggiu di Maria del 1930 e ritorna nella raccolta intitolata Via crucis (1932), che sono il sigillo della sua fede cristiana sbocciata da ragazzo a Racalmuto e filtrata dalla riflessione teologica. Questo tema, sempre presente nella lirica popolare siciliana, accomuna il nostro Notaio a Di Giovanni, a Ganci Battaglia, a B. Giuliana, poeta di San Cataldo scomparso da pochi anni. E’ una fede sincera, così candida e fresca da rasentare l’ingenuità, che consente di sopportare meglio talune sventure familiari e dinanzi alla quale s’inchina la stessa scienza, cantata ne Lu cantastorii, perché “ogni potenza viene da Dio”. Di notevole interesse i contrasti e le poesie di sdegno. Per concludere, un poeta colto che riesce a filtrare magistralmente la poesia popolare, che sa farsi apprezzare per il suo sperimentalismo linguistico e metrico e la varietà tematica, dal narrare sciolto, da vero cantastorie, che deve essere recuperato per dirgli che sbagliava quando scriveva “Tu si’ pueta e fabbrichi a lu ventu”, perché da un poeta c’è sempre da imparare specialmente in tempi in cui le nostre convinzioni sembrano vacillare.
Eugenio Giannone
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www.villachincana.it FAMIGLIA Da più parti, radio, Tv, giornali, chiacchiere, si continua a ripetere che la famiglia è in crisi e che stiamo allevando una generazione di smidollati, una gioventù fumata, che vuole tutto e subito senza dare nulla in cambio. Viviamo in una società particolare che divora tutto in breve tempo e nella quale la violenza sembra sia stata eretta a sistema di comunicazione: bulli, stupratori, ladri, assassini, figli che uccidono i genitori e viceversa. E’ facile addossare la colpa alla nevrosi, al branco, alla famiglia in frantumi, alla società. E sicuramente è così; ma sono temi che andrebbero indagati singolarmente per giungere poi ad una sintesi. In questa sede intendiamo occuparci di famiglia, di un’istituzione, cioè, che svolge ancora un ruolo fondamentale, insostituibile nella società. Dinanzi al suo sfaldamento, alla sua crisi viene sempre da dire Una volta la famiglia… Non è così. L’evoluzione è nell’ordine naturale delle cose ed era giusto che la famiglia fosse investita dal processo di rinnovamento. Oggi si parla di famiglia mono o poligamica; una volta esisteva la famiglia patriarcale, ma non per questo era un modello esemplare. E’ falso ritenere che la famiglia patriarcale non avesse problemi o che essa fosse sempre in grado di risolverli. Basti pensare alle privazioni, alle limitazioni della libertà cui sottoponeva i figli; ma è vero che nei momenti di difficoltà aumentava la coesione. D’altra parte la parola del patriarca era legge, era lui il depositario delle tradizioni, dell’esperienza, dei trucchi del mestiere e chi si allontanava avrebbe ignorato i mezzi necessari alla sopravvivenza. All’inizio di questi terzo millennio molte cose, grazie all’istruzione diffusa e ai media, sono cambiate, non sempre in positivo; anche il modo con cui si guarda alle regole e certi modelli, purtroppo, non sono assolutamente proponibili. Per esempio il rapporto amicale tra padre (madre) e figlio. L’amicizia tra padre e figlio presuppone un rapporto paritario tra persone appartenenti a generazioni diverse. Il risultato è una confusione dei ruoli, un rapporto squilibrato, sfasato. Il padre, gareggiando in gioventù, cerca l’amicizia di una persona immatura, il figlio di una persona inadatta, alla quale non confiderà mai tutto. La democrazia familiare non ha raggiunto l’obiettivo per una generazione migliore, più matura e responsbile; ha prodotto solo confusione e lassismo. Di questa situazione i ragazzi non hanno colpa. Essi sono semplicemente quello che noi abbiamo voluto fossero. Sono i figli del nostro egoismo perché abbiamo voluto realizzarci attraverso i nostri figli e li abbiamo cresciuto deresponsabilizzandoli. Perché un giovane dovrebbe cercare un lavoro, crearsi una famiglia, compiere sacrifici se diamo loro tutto? Una volta non era così. Subito dopo il soldato ci si sposava per avere più libertà, per essere indipendenti, per avere una famiglia tutta nostra e dettare noi le regole. Ma non sono cambiati i ragazzi, sono cambiati i tempi: noi siamo figli della televisione, i nostri giovani di internet. Si torni a parlare di regole, si smetta col permessivismo che serve solo a tacitare le nostre mancanze genitoriali, le nostre assenze; smettiamola di essere i sindacalisti, sempre e comunque, dei nostri pargoli, perché rischiamo di ammazzare “la muglieri a vasati”.
Eugenio Giannone
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www.villachincana.it Se è necessario bisogna ripristinare lo scappellotto, il ceffone. Attenzione! Parlo di azioni virtuali, simboliche; non mi riferisco allo sfogo violento di un adulto fuori di testa che scarica la sua rabbia sui minori o sui più deboli. Ci devono essere sempre baci, carezze, ma le mancanze devono essere sottolineate e punite impedendo, per es., l’uso del motorino o di rientrare tardi. Soprattutto bisogna ricercare il dialogo, non escludere i figli dalle decisioni, ascoltare le loro opinioni, farli sentire importanti, dare loro spazio. Dato 100 lo spazio in una famiglia, è chiaro che all’origine esso risulterà diviso tra marito e moglie; crescendo i figli, le proporzioni vanno modificate e lo spazio redistribuito; diversamente i nostri “bambini” ci accuseranno di essere insensibili, autoritari e lo cercheranno fuori. Dobbiamo convincerci che i nostri figli devono vivere la loro vita, devono poter sbagliare da soli e realizzarsi come persone, come individui irripetibili; ma dobbiamo vigilare. Se non dovessimo stare attenti a queste cose, aumenterebbero gli urti, le tensioni, i disagi, le incomprensioni e i nostri figli assumerebbero comportamenti a rischio o imboccherebbero strade pericolose. La famiglia perderebbe la sua unità e aumenterebbero i problemi. E stiano attenti soprattutto i padri. E’ inutile nasconderci dietro un dito, diciamolo francamente: i padri non crescono i figli, li vedono crescere. Se c’è un estraneo in famiglia, questo è proprio il padre; quindi sia più presente; non sia sul posto solo quando deve vietare o dare 10 euro al rampollo. Cosa devono fare i genitori? Come devono comportarsi? Nessuno ci ha insegnato a farlo; basta semplicemente essere genitori e porsi come modelli credibili, non predicare bene e razzolare male perché perderemmo la stima dei nostri figli che ai nostri giudizi tengono tanto. Quindi assumere un atteggiamento comprensivo, discreto, non invadente ma attento, esigere il rispetto delle regole, ascoltare le ragioni dei ragazzi, che sanno bene quali sono i valori che contano – anche se talvolta fa comodo ignorarli – e ci guardano per giudicarci. Spegniamo il televisore, compriamo loro un pantalone in meno e stiamo mezz’ora a chiacchierare in più; collaboriamo con i docenti, con la parrocchia, con le altre agenzie educative per una loro crescita serena, ricca, armoniosa. I figli, pezzi di cuore, i giovani sono il patrimonio che dobbiamo salvaguardare gelosamente perché è a loro che affideremo la guida della società. L’attuale è una generazione fragile, facile agli entusiasmi, ma altrettanto incline agli abbattimenti; una generazione che accetta il rischio e lo vive con eccitazione, come sfida. Sembra apatica, asociale, non curarsi della salute; sembra. Non tutti sembrano allo stesso modo e sono molti i giovani impegnati nel sociale, nel volontariato. I ragazzi hanno una loro cultura che è figlia del loro tempo, anche se sovente è in contrapposizione a quella della nostra generazione. Non sempre siamo in grado di capire, ma dobbiamo accettarla. Sta alla famiglia far capire che si può crescere bene assieme; sta alla famiglia che sa comunicare, favorire la formazione dell’individuo trasmettendogli il suo ricco patrimonio di esperienze e di cultura, senza imporlo come immutabile, impedendo i rinnovamenti, le trasformazioni che l’esuberanza giovanile e i tempi mutati impongono. Sta ai genitori fare crescere i figli in un clima di serena comprensione e fiducia reciproca, offrendo sani modelli d’identificazione e facendoli sentire importanti, al centro dell’attenzione. Se i genitori sono infelici assieme, per quanti sforzi possano compiere per mascherare la loro insoddisfazione reciproca, questa si proietterà fatalmente sui figli; non ci potrà essere armonia e la famiglia non apparirà più il nido, il porto sicuro in cui ripararsi, in cui comporre le proprie ansie e ricevere consolazione per gli insuccessi e solidarietà in cui stemperare fragilità e debolezza. Eugenio Giannone
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www.villachincana.it I genitori siano, quindi, punto di riferimento costante per i figli, diano calore, benessere psicofisico, senso della dignità e del valore di ciascuno; i genitori si aprano al dialogo con i figli, prestino attenzione ai loro piccoli-grandi problemi, si preoccupino della loro istruzione e della loro giornata, dello sviluppo dei loro talenti; li aiutino, li consiglino, li sostengano nella costruzione del loro futuro; li circondino d’affetto; offrano una situazione socio-affettiva stabile e non colpevolizzino gli errori in questa loro avventura per il mondo. Solo così potremo affermare che la nostra famiglia è felice, armoniosa, unita. Famiglia felice è quella in cui ogni membro dimostra considerazione per ciò che di unico e irripetibile c’è in ogni componente; famiglia felice non è quella in cui non succede mai nulla di brutto, ma quella in cui la causa del brutto non viene colpevolizzata ma sostenuta nella sua disgrazia, aiutata a capire e a risolvere i suoi sbagli. (Scuola Media “Quasimodo” di Licata, “S. Mamo” di Cianciana - 15.02.08 – e Radio Emmaus)
Eugenio Giannone
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Il ritorno dei pifferi Salvatore Di Marco Sopra fioriva la ginestra, Alessio Di Giovanni e la Sicilia delle zolfare, Nuova IPSA Editore, Palermo, 2006. Per tutto l’Ottocento la Sicilia fu il maggior produttore ed esportatore di zolfo nel mondo. La commercializzazione del biondo minerale, piuttosto che riverberarsi sulle decine di migliaia di addetti ai lavori, servì ad arricchire una classe di proprietari assenteisti, affittuari e gabelloti vari, spesso stranieri, sempre parassiti, che fecero delle angherie, dello sfruttamento sistematico e bestiale dei lavoratori il loro unico credo. Quelle ingiustizie, lesive della dignità umana, non erano il prodotto di un cieco destino ma il risultato d’un connubio perverso tra mondo economico e politico con le loro ciniche leggi. La visione di simile mondo ctonio non poteva lasciare indifferenti e l’unico modo per descriverlo era ricorrere alla metafora dell’inferno, come per primo fece Guy De Maupassant che nel capitolo dedicato alla Sicilia della sua La vie errante così scrive: “…se il diavolo abita un vasto paese sotterraneo, in cui fa bollire i dannati, è in Sicilia che ha eletto il suo misterioso domicilio”; “Le vallate grigie, gialle, pietrose recano il marchio della riprovazione divina”, per concludere che lo sfruttamento minorile era una delle cose più riprovevoli e penose che si potessero vedere. Le tristi condizioni di vita e di lavoro degli zolfatari (picconieri, spisalori, scarcaratuta, acqualori, e soprattutto carusi e caruse – l’anello più debole della catena di lavoro in miniera) attrassero l’attenzione di poeti e scrittori che le ritrassero con accenti di viva e solidale compartecipazione alle sofferenze; anche quegli scrittori che allo stesso zolfo dovevano una condizione sociale agiata, come nel caso di L. Pirandello che descrisse lucidamente la zolfara in alcune novelle (su tutte Ciàula scopre la luna) e nel romanzo “I vecchi e i giovani”. Alessio Di Giovanni la definì ‘nfernu veru e carnàla, cioè carnaio, non di morti ma di vivi. Era chiaro agli osservatori neutrali e meno frettolosi come giornalisti, sociologi, antropologi, studiosi, che lo sfruttamento intensivo dei lavoratori del latifondo e, quindi, della zolfara, che di quel mondo era sincrono (la zolfara veniva coltivata), con le loro condizioni subumane avrebbe innescato un’esplosione che non avrebbe tardato ad incendiare l’Isola, come sembrò in occasione dell’esaltante ed effimera stagione dei Fasci, che si concluse con la proclamazione dello stato d’assedio e la condanna a secoli di carcere degli esponenti più rappresentativi del movimento. E’ chiaro pure, come sostiene L. Sciascia, che senza l’avventura dello zolfo non ci sarebbe stata l’avventura dello scrivere. Molti ne avrebbero scritto in ogni caso, al di là dell’insuccesso dei Fasci, che per V. Consolo diede vita a quella letteratura. A quel mondo senza luce, ingentilito nel suo deserto di ginisi dal pallido giallo della ginestra, e ad Alessio Di Giovanni ritorna con un poderoso saggio dal titolo Sopra fioriva la ginestra, Alessio Di Giovanni e la Sicilia delle zolfare (Nuova IPSA Editore, Palermo, 2006) Salvatore Di Marco, che, con il consueto acume critico, razionalità d’analisi e di scrittura, esamina i presupposti teorici su cui si fonda la lirica di giovannea, a cominciare dal “Saru Platania”, dove il poeta ciancianese sottolineava come in Sicilia mancasse (e siamo al 1896) “ancora la voce che si faccia banditrice del grido di dolore che dai campi desolati, dalle cupe miniere, si eleva di quando in quando minaccioso e pietoso allo stesso tempo”, all’Ode Cristu, ai Sonetti della zolfara, al dramma Gabrieli, lu carusu. Prima di dare inizio al suo excursus, lo studioso palermitano passa in rassegna le analisi di economisti e storici ad inquadrare ermeneuticamente la produzione del Di Giovanni, che gli appare come la voce più alta e sofferente del latifondo e della zolfara fonti d’iniquo patimento sociale, che seppe tradurre in un “autentico e fedele segno letterario. Quella del Di Giovanni è “cruda e drammatica testimonianza” di destini umani da restituire a dignità”, un “documento di Eugenio Giannone
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www.villachincana.it alta umanità, pagine importanti della storia letteraria siciliana”. Per Di Marco il Di Giovanni, animato da una forte tensione etica, “non ha mai perduto di vista l’unità del tema della sofferenza umana, delle condizioni di miseria della sua gente” sia che zappasse sia che sprofondasse sottoterra; il suo com-patimento sincero delle sofferenze di quegli sventurati non può e non deve sorprendere ove si tenga presente la sua storia personale e familiare, la sua formazione, la sua fede religiosa, le sue idee: “aspetti che concernono la libertà dell’autore e la sua coscienza d’uomo”, di membro di una famiglia di proprietari di miniere che, contrariamente ad altre, coltivò delicati sentimenti verso i suoi dipendenti “nel rispetto della loro dignità in piena e convinta solidarietà” verso le loro sofferenze. Sotto il profilo squisitamente letterario, pur stigmatizzando le pecche della produzione giovanile dell’autore di Voci del feudo, il critico palermitano, chiarito che molto della civiltà della zolfara era nel DNA del ciancianese, non può esimersi dal sottolineare l’ispirazione sociale dei Sonetti della zolfara che, integrati dalla silloge Nni la dispensa di la surfara, da alcuni sonetti di A lu passu di Giurgenti e dalle pagine del Gabrieli, - dove protagonista non è quel caruso ormai grandicello ma la zolfara con le sue voci – costituiscono la documentazione fondamentale per ricostruire le basi testuali della poetica della zolfara “apprezzabili per vigoria di dettato e forte animazione sociale”. Lo colpisce della produzione digiovannea sui surfarara lo stile scarno dei singoli componimenti, il loro linguaggio scabro, disadorno, “il vocabolario che conferisce al dialetto un dettato essenziale ed austero”. Se altro il Di Giovanni non avesse scritto, sarebbero bastati i sei sonetti ad inserirlo tra le voci più alte della letteratura siciliana in genere e della zolfara in particolare. In quei versi non ci sono segni di cedimento retorico – continua il Di Marco – né veemenza populista o accenti melodrammatici; il Di Giovanni ebbe il merito di evitare che la realtà antropologica e culturale della zolfara si trasformasse in mito e d’avere rivelato il mondo del latifondo e perciò della zolfara e ne rappresentò il dramma umano e sociale, facendo, quindi, opera di denuncia. Eppure, stando ad alcuni critici dell’una tantum letterario il Di Giovanni non avrebbe inteso la portata rivoluzionaria e la carica ideale dei Fasci e non avrebbe fatto suo il dramma collettivo, facendosi portatore di una filosofia della rassegnazione. Per il nostro critico i versi dell’aedo ciancianese valgono più delle denunce di sociologi e studiosi, antropologi e delle commissioni parlamentari. Le critiche di G. C. Marino e del Nicastro gli appaiono pregiudiziali, ingenerose e fuorvianti, presumendo i due illustri studiosi di giudicare la produzione poetica del Di Giovanni a posteriori, alla luce della loro ideologia, come se lo scrittore, prima di accingersi a scrivere e descrivere, dovesse munirsi d’un manuale di dottrine politiche. “Non è compito del poeta assoggettare la sua vena creativa, allora improntata al naturalismo verismo, alle ragioni della sociologia, della politica o della morale”, il poeta risponde solo a se stesso, alla letteratura. Gli storici facciano gli storici, gli economisti si occupino del loro campo d’indagine, quanto meno abbiano la compiacenza di documentarsi adeguatamente prima di emettere sentenze. Il tiro adesso si sposta su Vincenzo Consolo, per il quale “la scelta del dialetto”, in Alessio Di Giovanni, “rimase alla fine una scelta sentimentale, una chiusura e nel sentimento e nel linguaggio, l’uno e l’altro stagnanti, portatori di storture, di vizi, di rassegnazione”; sempre secondo l’illustre scrittore fu colpa del di Giovanni avere propugnato una letteratura della rassegnazione. Quando Consolo si lascia andare a simili giudizi è chiaro che predica da una sponda che con la letteratura ha poco da spartire e Di Marco li respinge sdegnato. Sappiamo che per l’autore de Le pietre di Pantalica “l’innocenza in letteratura non esiste”, ma nel caso specifico ritengo, con Di Marco, che abbia sbagliato personaggio per giudicare il quale i suoi metri ideologici sono inopportuni , inadeguati e fuorvianti. Simili (pre)giudizi, che investono la sfera privata del poeta Di Giovanni, presuppongono una conoscenza sommaria di quell’autore e non molto stratificata della storia isolana, Eugenio Giannone
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www.villachincana.it dove è sempre mancata la figura dell’eroe positivo. Se Il Di Giovanni e altri scrittori descrissero una realtà di rassegnazione e fatalismo non inventarono assolutamente nulla, non erano conservatori né reazionari, per il semplice fatto che l’apatia e la rassegnazione sono tra i nostri caratteri distintivi. Basterebbe ricordare l’ormai famoso “Cu’ cci lu fici fari?”. Quindi narratori della rassegnazione e non cultori della filosofia della rassegnazione. A me questa querelle ne richiama alla mente altre due: quella che vide implicato Carlo Marx a proposito di ”Filosofia della miseria e “Miseria della filosofia” e l’altra, più recente, che ebbe protagonisti E. Vittorini e P. Togliatti circa i famosi pifferi della rivoluzione, con Consolo nel ruolo dell’esponente comunista, contrario alla libertà dell’artista. Bisogna convincersi fondamentalmente di due cose: che la letteratura, anche quella della zolfara, è solo letteratura e non “un fatto politico, cioè economico” e che non sono stati gli scrittori o le civiltà che si sono succedute in Sicilia ad avere recato danno alla nostra gente impedendone l’affrancamento, ma la barbarie del baronaggio e della mafia. Ma questi temi non sono letterari e per essi esistono altri testi di storia, economia, sociologia etc. Ben vengano le critiche, anche feroci, -sembra dire il Di Marco – purché investano l’aspetto letterario d’un autore e solo quello. Forse, conclude il critico palermitano, Consolo è “disorientato dalla vastità, dalla sensibilità, dagli esiti diversi della letteratura dello zolfo” e dimentica il giudizio del suo - e nostro - amato Sciascia che, ne La corda pazza, aveva affermato che Alessio Di Giovanni meglio di chiunque altro visse il travaglio e la tragedia della miniera.*** “Sopra fioriva la ginestra” è il libro che mancava nel panorama saggistico sulla letteratura dello zolfo e sulla produzione digiovannea per la puntualità dell’esegeta e il puntiglioso rigore critico del suo autore, che riesce ad offrirci uno spaccato socioeconomico e storico-culturale della temperie siciliana nella quale si formò il poeta ciancianese e fa soprattutto giustizia di certi luoghi comuni e frettolosi giudizi (non solo su A. Di Giovanni) che vengono dal Di Marco smontati alla luce di una conoscenza profondamente stratificata della letteratura isolana e digiovannea in particolare. Nemmeno la polemica, condotta con passione ma con stile, traborda e perevale il tono persuasivo, colloquiale. Anche nelle due “Postille” nelle quali il nostro poeta e critico palermitano indaga l’influenza che il verismo di G. Ragusa Moleti possa avere esercitato sul Di Giovanni e sul suo addio al fonografismo; e confuta talune affermazioni del Consolo che aveva, quasi, accusato Mario Rapisardi di menzogna (a proposito del Canto dei minatori) e di “incomprensione” riguardo agli “eventi storici, sociali e politici” del 1893-94 in Sicilia. Chiudono il volume una ricca bibliografia sull’argomento trattato e una preziosa postfazione di Rita Verdirame nella quale l’illustre studiosa catanese riconosce al Di Marco indubbie “qualità di critico, del ricercatore e dell’esegeta”; gli attribuisce il merito di una “complessiva recapitolatio dell’attività speculativa del Di Giovanni sostenuto da una solida informazione storica su tutta la vicenda umana e letteraria del Di Giovanni”. “Sopra fioriva la ginestra” – continua la Verdirame – è “un saggio innovativo” in chiave storico-demologicoculturale di assoluta pregnanza documentaristica”, assolutamente necessario per la “collocazione di un poeta come A. Di Giovanni”, la cui opera fu intessuta di istanze sociologiche ed “implicazioni economiche, politiche e risvolti antropologici ed esistenziali”. Quindi un prezioso strumento di rivisitazione critica del quale siamo particolarmente grati all’Autore. (e. giannone) In Lumie di Sicilia, n° 60, Firenze, giugno 2007.
Eugenio Giannone
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La Sicilia bizantina (Intervento presso l’Università della Terza Età, Cianciana, aprile 2007) Il periodo bizantino è tra i più bui della storia di Sicilia, non tanto perché non siano successi fatti rilevanti o perché il dominio dei Romaioi sia stato particolarmente pesante per cui è meglio dimenticare, quanto perché è tra le epoche meno indagate e su cui bisognerebbe far luce. E’ come se la storia della nostra Isola, dopo gli otto secoli circa di dominazione romana, abbia aperto una parentesi, attraversato una lunga vigilia in attesa dei Normanni che introducono Federico II, “stupor mundi”, che pure tanto apprezzò la cultura bizantina; anzi nei modi, come il suo avo Ruggero, era più bizantino che latino o nordico. Il fatto è che la storia di Sicilia, come storia del popolo siciliano, è stata poco indagata, per cui viene da chiederci cosa sappiamo delle vicende del nostro popolo al di là dei luoghi comuni, delle ovvietà, durante la dominazione romana o durante il periodo arabo. Della dominazione araba, per esempio, si ricordano solo alcuni aspetti, positivi per altro, ma non s’è mai approfondito il rapporto con la popolazione cristiana sottomessa. Cos’altro sappiamo, al di là della Congiura dei baroni ordita da Manfredi Chiaramente, delle faccende legate a re Martino o della mini insurrezione di Giuseppe Alesi, delle vicende che vanno dalla Pace di Caltabellotta a tutto il ‘600? Poco, in verità. Al limite questi periodi sono stati studiati meglio dai dialettologi che non dagli storici.. Quando i Bizantini di Giustiniano, guidati da Belisario, giunsero in Sicilia, arrivarono a “casa”, in una regione che parecchi secoli prima era stata dei loro antenati dei quali rinvennero numerose tracce, nonostante la latinizzazione, nella lingua soprattutto, che riprese nuovo vigore grazie alla loro presenza. La stessa chiesa cristiana siciliana era d’ispirazione orientale e bizantina rimase fino ai tempi della riconquista normanna perché profonda era stata l’incidenza dei basiliani. La Sicilia bizantina fu affidata a un pretore o prefetto col titolo di patrizio e con funzioni civili, mentre capo dell’esercito era un dux. La sua ricchezza in questo periodo è costituita dall’allevamento dei cavalli, dalla coltivazione del grano e dalla produzione di vino e olio. Il ritorno della Sicilia nell’alveo di una grande comunità, quale l’impero romano d’oriente, determina una rinascita culturale dell’ellenismo che ebbe in S. Gregorio d’Agrigento uno dei suoi massimi rappresentanti. Di certo la Sicilia nel periodo bizantino non brilla di luce propria, ma è destino di tutte le periferie; ciò non implica necessariamente fatti eclatanti o sconvolgenti. La normalità è spesso sinonimo di sicurezza e la Sicilia lo era, al punto che nel 663 l’imperatore Costante II trasferì a Siracusa la corte, la zecca e gli uffici imperiali da Costantinopoli, costantemente minacciata dagli Arabi. Fenomeno particolare pare sia stato quello demografico che vide le città spopolarsi a favore delle campagne, forse per il rallentamento del commercio, forse per le angherie amministrative e fiscali. La vita rurale è caratterizzata dai latifondi, o massae, di proprietà imperiale o della chiesa. Ma la condizione dei lavoratori muta: la schiavitù per effetto del Cristianesimo tende a scomparire, la gran parte dei contadini diventa coloni, comunque legati al latifondo da una specie di servitù della gleba (enapografoi), o salariati liberi (misthôtoi eleutherioi). Personalmente non ritengo che i Bizantini siano stati più rapaci di altri conquistatori, anteriori o posteriori. Vittorio Amedeo II di Savoia, per esempio, pretese come donativo (una specie di una tantum) per la sua incoronazione 450.000 scudi, un altro donativo per la sua lista, oltre “naturalmente” alle tasse ordinarie (1713)! Gli Austriaci, ai quali la Sicilia appartenne dal 1720 al 1734, pretesero un donativo di 600.000 scudi nel 1720 (benvenuto d’insediamento?) e un altro di 800.000 nel 1732! Comunque, è sicuro che i Bizantini incisero sulla lingua, sulla musica, sulla religione, sui costumi al punto che nell’XI secolo, a due dallo sbarco degli Arabi, almeno un terzo della popolazione era da considerare bizantina. La tradizione bizantina è presente nell’architettura e nella Eugenio Giannone
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www.villachincana.it decorazione musiva. Come non ricordare le pitture o i mosaici della Cappella Palatina, della Chiesa di S. Maria dellâ&#x20AC;&#x2122;Ammiraglio (la Martorana), dellâ&#x20AC;&#x2122;abside centrale del Duomo di CefalĂš e della Sala di re Ruggero nel Palazzo dei Normanni?
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Salvatore Di Marco,Cu rimita menti, Palermo 2010 Quasi a voler celebrare le nozze di diamante con la poesia, ecco,dopo una distrazione durata circa un quindicennio, la nuova raccolta poetica di Salvatore Di Marco intitolata “Cu rimita menti”. La lunga pausa è da ascrivere agli impegni molteplici di Di Marco quale giornalista, editorialista, conferenziere e soprattutto saggista, come si addice al più profondo conoscitore della produzione letteraria siciliana in lingua e in vernacolo. Di Marco ha iniziato a poetare quando ancora portava i calzoni corti e giovanissimo ha fatto parte del Gruppo di Poesia Alessio Di Giovanni, che riuniva poeti siciliani impegnati nel rinnovamento della poesia dialettale nella nostra Isola. Tra le numerose raccolte ricordiamo Cantu d’amuri (1986), L’acchianata di l’aciddara (1987), Li palori dintra (1991) e La ballata di la morti (1995). Più volte antologizzato, di lui si sono occupati i maggiori critici nazionali che gli riconoscono originalità e autorevolezza. Cu rimita menti ci pone di fronte ad una poesia moderna che però, pur svolgendosi nell’ambito della poesia nazionale, viene espressa in un’altra lingua, a voler ribadire quasi e riaffermare l’orgoglio dell’appartenenza e la radicalità alla terra in un’epoca in cui modernizzazione selvaggia e globalizzazione ci stanno rendendo anonimi. La silloge, afferma Enzo Papa nella Prefazione, “è straordinaria testimonianza di continuità e nello stesso tempo di superamento della grande tradizione letteraria siciliana, con esiti espressivi che … rivitalizzano la parola poetica restituendole sangue e calore…”. C’è, infatti, nella raccolta lo scavo della parola; la ricerca della parola primigenia, dalla quale tutte discendono e che tutte comprende e che racchiude l’essenza del dire e del fare, parola da intendere nella sua pienezza di significato e che, perciò, acquista un notevole valore simbolico, evocativo e una sicura musicalità. Tra i nuclei tematici: la contemplazione pacata, serena della natura in un cosmo d’aria, di luce, di colori, fiori e uccelli cui spesso, nella raccolta, il Poeta si rassomiglia, definendosi ora “aceddu nivaloru”, ora “aceddu pi l’aria””e poi “piddirinu (pellegrino) alla ricerca d’infinito, di conoscenza e d’amore da dare e ricevere; fa, tuttavia, capolino un sottile velo di malinconia che ne lenisce la vena allegra e ironica: troppi i riferimenti alla sera, al tramonto, inteso in maniera simbolica. Tale simbolismo rimanda ad autori francesi e al Pascoli (es. “Il gelsomino notturno”). Emerge preponderante l’amore per la vita, la meditazione sull’esistenza che mette in luce i due aspetti della personalità del Poeta: uno aperto (“finestra senza pirsiani”), l’altro riservato, una volta figlio del sole, l’altra della luna e c’è il poeta che sa apprezzare e cantare le gioie semplici della vita, guardarsi attorno con “rimita menti”. Tradurrei quel “rimita” non con romita o solitaria ma con sgombra, che sa di libertà, di desiderio d’evasione (Haju lu sversu stasira / haju la malincunia / Lu cori pazzu / e la menti … ca nun s’arrisetta). Al Poeta che ci appare stanco e si sente ancora “aceddu a la strania” rispondiamo che “nun sta scurannu”: domani sarà ancora Pasqua e Natale e splenderà di nuovo il sole. (La Voce di Cianciana, aprile 2010)
Eugenio Giannone
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Piero carbone, Venti di sicilinconia, Favara 2009 Venti di sicilinconia è l’ultimo tassello di una carriera poetica iniziata quando ancora l’Autore era giovanissimo e depone a favore d’un amore, culto, per la poesia e il dialetto che sembrano non lasciargli mai tregua. Ad esso ne seguiranno certamente altri perché Carbone è divenuto nel frattempo sinonimo di poesia, in lingua e soprattutto in dialetto. Vorrei semplicemente ricordare i titoli di alcune sue raccolte: A lu Raffu e Saracinu del 1988, La luna del ’94, Notturno in Via Atenea del ’93 e Pensamenti del 2008; per non parlare del Carbone saggista, giornalista, storico e critico d’arte. Il fatto è che Piero attribuisce alla poesia non solo una funzione consolatoria e catartica, ma anche rivelatrice di verità indicibili perché il poeta può dire “cosi niuri” mentre “pari ca babbìa” (E pari ca babbìa, pag. 40) tanto per gli altri - che “si cridinu stroìti e sapienti… grapinu l’uocchi” e “chjuinu la menti”( chjuinu la menti pag. 46) quando fa roteare la sua scimitarra (Pensanu ch’è foddi, pag. 47), egli è semplicemente “foddi” e ad un pazzo si concede di tutti, non “ce ne facciamo” di niente. Appare, quindi, evidente che in Venti di sicilinconia, opera vincitrice del Premio Martoglio 2009, c’è anche il fustigatore di certo inveterato malcostume che, “nni sta fabbrica speciali” che è il nostro mondo (Ma nun è pi tutti uguali, pag. 39), è duro a morire, perché siamo tutti furbi, falsi moralisti (Ccu tuttu lu cunventu, pag. 64), pronti a cambiare bandiera in nome della democrazia (A ttia e a mmia, pag. 59) e ad indignarci. Ma alla fine vien da dire “Menu mali ca si mori” (Menu mali ca si mori, pag. 55). Sono versi pieni di saggezza critica, che dicono d’un acuto scrutatore della realtà, attento al dipanarsi della quotidianità della gente del suo paese, dei nostri paesi, della Sicilia che gli genera non “malapinzera” ma amare considerazioni che gli arrovellano il cervello, come colpi di maglio su un’incudine. L’incudine ci rimanda al titolo della silloge: vediamo di spiegarlo. E’ una questione di accenti, sui quali Carbone gioca: Sicilinconìe o Sicilincònie? Cioè: Sicilia e sicilianità come pensieri che martellano e non ci abbandonano mai o malinconie di siciliano? Penso che alla fine i significati dei due neologismi convergano. Salvatore Di Marco, che della raccolta ha curato da par suo la Prefazione, alla questione dedica ampio spazio e riesuma altri termini quali sicilitudine e isolitudine per cui non è il caso d’indugiare ulteriormente. Facciamo parlare i versi del Poeta: “Ma chi sunnu sti sicilincunii? Pinzera. Pampini Di vigna nvirdicata. Pampini D’un arbulu cadutu” (Silincunii, pag. 41) E ancora : “…Pinzera, gruppa Di firnicii” Conti che non tornano (Mbriacatu di sicilincunia, pag. 32), per concludere che “Sicilincùnia veni di ncunia Silincunìa veni di pena” (Sicilincùnia o Sicilincunìa ?, pag. 33) Queste risposte ci aiutano ad introdurre i temi trattati, che vanno dal disagio esistenziale al recupero della memoria, dal mistero della vita e della morte alla contemplazione della vastità dell’universo, dai mutamenti di pensiero e mentalità e Eugenio Giannone
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www.villachincana.it dall’inesorabile trascorrere del tempo – per cui ciò che c’era non c’è più e tutti siamo come canne al vento – all’emigrazione e alla durezza di taluni lavori, dalla tragedia della guerra, sempre assurda, alla disperazione di quanti arrivano sulle nostre coste come “lapi / appizzati/ a na vrisca di feli / ncatinati” (N-silenziu si l’agghiutti, pag. 30). E c’è il malessere, la consapevolezza di ciò che poteva essere e non è stato, di un rapporto di rabbia-amore (Parpagliuni a la lumera, pag. 21) per la nostra terra, difficile da cambiare per cui si sente fuori posto o, addirittura, fuori tempo e di notte mentre “lu munnu tuttu taci / mi nni vaju nni li seculi passati” (C’è cu rrunculìa, pag. 18). Il tutto condito d’una amara ironia che smorza nostalgia e malinconia e narrato in modo elegante, con tono disincantato e tuttavia accattivante, che depongono della sua sensibilità ed originalità per cui, giustamente e meritatamente, la Giuria del premio ha potuto attribuirgli il Martoglio, sottolineando la “grande efficacia comunicativa” e “la chiarezza del dettato poetico”, che sigillano “la pronunciata sicilianità spirituale e culturale” di Carbone, che ha saputo conferire alla sua silloge “una struttura espositiva ed architettonica estremamente moderna” (Motivazione del premio). Per concludere, due parole sulla lingua. Quella usata da Piero Carbone è il dialetto racalmutese, non quello letterario e colto, spesso artefatto, di G. Pedalino Di Rosa, ma quello di tutti i giorni, del parlare spicciolo della gente, della piazza, più aderente alle cose e, perciò, più vero e autentico, colloquiale, coinvolgente nella sua comunicabilità e che suscita l’approvazione di Di Marco che già, in prefazione a Pensamenti, aveva sottolineato questo aspetto della lingua di Piero, che aveva e ha “dismesso la tonaca degli artificiosi dialetti letterari”. Venti di sicilinconia è diviso in due parti:la prima dà il nome alla raccolta, mentre la seconda è intitolata Lassatimi diri; in copertina reca la riproduzione di un quadro di Renzo Collura, Sale e zolfo, che sono l’emblema della nostra Provincia. Un libro, quindi, che raccomandiamo per la sua originalità, per l’impostazione strutturale nuova nella quale ogni componimento ci appare come un capitolo d’un romanzo che bisogna leggere tutto per gustarlo nella sua interezza.
Eugenio Giannone
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Giufà, personaggio planetario Giufà è un personaggio planetario che attraversa con estrema leggerezza confini, razze, religioni, lingue, culture e generazioni diverse (Ongini, 1993, pag. 33). Quantunque qualcuno sostenga che sia frutto della fantasia siciliana, egli è innegabilmente ascrivibile alla cultura araba ( esisteva una tribù col suo stesso nome) che in Sicilia ha lasciato tracce profonde del suo passaggio. Gli Arabi in Sicilia si sentirono a casa e la trasformarono in un giardino fiorito; Palermo divenne una delle più splendide città dell’ Islam. Molti poeti cantarono la bellezza della nostra Isola e al momento della riconquista cristiana ad opera dei Normanni, lasciando quella che ormai era diventata la loro patria, ne portarono indelebile nel cuore e nella mente il ricordo: molti versi trasudano nostalgia, come quelli di Ibn Hamdis, che fra tutti fu il più grande. La cantò sicuramente anche Al Ballanubi, che visse nella nostra zona, la Sikanìa vera e propria, anche se non sappiamo esattamente dove; molto probabilmente a KalatIblâtanu ( nel territorio dell’odierna Cianciana ). Di sicuro avevano inciso notevolmente sul tessuto culturale isolano. Giufà è planetario per due motivi: a) ovunque esiste lo scemo del villaggio, che talvolta si crede furbo; b) con diversi nomi è presente in Sicilia e nell’Italia centromeridionale; nell’ Andalusia e nei Balcani; nei paesi del Maghreb e in Turchia; nel vicino e nell’estremo Oriente; insomma in tutte le zone della terra che hanno registrato un’incisiva presenza araba, una forte islamizzazione, insomma contatti frequenti con popolazioni musulmane. Così abbiamo Djeha in Algeria e in Marocco, Goha in Egitto, Gihane a Malta, Giaffah in Sardegna, Giucca in Toscana, Giucà in Albania etc. Nel teatro popolare padano-veneto abbiamo la maschera Zani e in Francia Jean le pec; Vi ricordo che in dialetto Gianni o Giovanni suona Giuvà o Giuà. in Trentino esiste Turlulé e nei paesi anglosassoni Noodles. In Turchia il personaggio è noto col nome di Nasreddin Hocha. E’ altresì un personaggio proteiforme e contraddittorio perché se in alcune storielle appare scemo in altre è particolarmente furbo e in altre ancora è l’incarnazione della satira del potere. Molto probabilmente per alcuni il suo comportamento strampalato, grottesco, surreale, è l’espediente per evitare guai peggiori di quelli nei quali s’è cacciato, per mettere alla berlina chi di lui si ritiene più dotto e furbo e per non doversi acconciare o sottostare ad obblighi o servizi, o per far passare la buriana ( “fari lu fissa p’ ‘un jiri a la guerra “ si dice in Sicilia, oppure “ calati juncu cà passa la china”; e ancora “ fari lu fissa p’ ‘un pagari la duana” ). Nella storiella “ Giufà tirati la porta” chi sbaglia non è lui; è la madre che non ha saputo esser chiara, come quando gli disse “ cala du’ favi” e lui ne mise a cuocere 1+1. Nemmeno il giudice ( cfr. “ Giufà e li muschi”, in G. Pitrè, Fiabe, novelle e racconti, 4 Voll. , Palermo, 1875 ) ha saputo spiegarsi. E’ un generoso che non esita a difendere i più deboli o gli ingenui ( cfr. “Giufà e chiddu di la scummissa “, in Pitrè cit. ). Ma è anche un personaggio che non conosce misura e, nel bene e nel male, per indole è sempre indotto a strafare; tanto è vero che, per questo suo aspetto, è divenuto proverbiale e, a chi è sovrabbondante nel compiere determinate azioni, l’encomio che rivolgiamo è : “ Giufà “! Di uno che ne combina di tutti i colori , irrazionalmente, diciamo sempre che è un giufà; e lo stesso epiteto diamo a chi, dopo aver realizzato 99, si rifiuta, magari per pigrizia, di fare 100 per completare l’opera, confondendosi per così poco. A lui la città di Noto, capitale del barocco siciliano, ha dedicato qualche anno fa un convegno e l’estate, che ne hanno messo in evidenza l’interculturalità, facendolo Eugenio Giannone
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www.villachincana.it giustamente assurgere a trait-d’union tra paesi geograficamente e culturalmente così lontani. Giufà è, comunque, un personaggio sempre vivo, eternamente giovane anche se in alcune storie appare ragazzo e in altre già maturo; ed è lo specchio delle nostre inquietudini, del nostro cuore generoso e della nostra ragione avara e taccagna. E’ un’invenzione didascalica che tanto potrebbe insegnare ai bambini ( e non solo ), inducendoli al riso per le ovvietà, che sono peccati veniali. I piccoli, crescendo, non lo imiterebbero. Ma oggi la Tv e il web stanno cancellando questa maschera didattica, sostituendola con personaggi disancorati, che non affondano radici in nessuna tradizione e poco o nulla hanno da insegnare. In ogni caso, siamo di fronte a un idiota, un ebete, un paladino della letteralità, un campione dell’evidenza ( “ quannu chiovi fa friddu “ – quando piove fa freddo), un furbo che, nato più di mille anni fa, tanto continua ad insegnarci, mettendo a nudo le nostre debolezze, le mille sfaccettature della nostra personalità ( siamo a volte ingenui, altre furbi: talvolta mister Hyde, altre il dottor Jekyll: ora generosi, quindi egoisti ) e che ci induce costantemente a riflettere. La complessità del personaggio merita altre ulteriori considerazioni o riflessioni. • Può essere considerato scemo un tizio al quale, alla fine, va tutto bene? O non sarà, per caso, l’altra faccia del nostro “io”, per cui tutti vorremmo fare e dire senza pagare dazio, infischiandocene delle convenzioni sociali? • Giufà, sostiene qualcuno, si trova all’incrocio di due tradizioni culturali: quella folklorica e popolare, anche orale, e quella letteraria, se è vero, come è vero, che di lui hanno scritto autori come G. Verga, G. Deledda, N. Martoglio, F. Lanza, L. Sciascia, I. Calvino, G. Bonaviri e G. Bufalino, per restare ai più noti e non far cenno ai demologi. Quel che emerge da questa sequela è la capacità di Giufà di adattarsi a diversi registri narrativi per uscire sempre, nella sua saga, riconoscibile, rafforzato e ricco di ulteriori potenzialità. • Esiste un nesso tra Pirandello e Giufà? Secondo me sì e il grande drammaturgo agrigentino nella sua analisi dell’essere e dell’apparire è rimasto fulminato sulla strada del nostro personaggio. Penso che molti di voi ricorderanno la storiella “Mangiate vestitucci miei”. Riproponiamola. Era successo che Giufà, spinto dalla fame, s’era presentato in una masseria vestito da .. Giufà e ne era stato cacciato malamente. La madre allora gli acconciò degli abiti che il signorino sembrava un campiere. Si ripresentò nella stessa masseria, dove venne riverito e fatto sedere a tavola. Serviti gli spaghetti, Giufà ne mangiò qualche forchettata, poi con le mani, ne prese altri e li strofinò addosso e cosi fece con la carne, dicendo:” Mangiate, vestitucci miei; perché voi e non io siete stati invitati”! • Il suo comportamento, sostiene Marina Di Leo, sembra voler dimostrare che non sempre quello che appare è vero e non sempre quello che è vero appare, al punto da non poter spesso discernere tra realtà e fantasia, tra verità e menzogna. A questo proposito vorrei brevemente ricordare altre due storielle e chiudere il mio intervento, altrimenti qualcuno mi accuserà di volere strafare, come Giufà. Le potete leggere in due saggi fondamentali: F. M. Corrao, Giufà , il furbo, lo sciocco, il saggio, Milano 1991 e M. Di Leo, Le storie di Giufà, Palermo 1996. Giufà compra degli asini e si avvia verso casa montando su uno di essi. Lungo la strada si volge a contare gli animali, ma dimenticando quello sul quale sta in groppa, crede di averne perso uno. Preoccupato, smonta e riprova a contarli: questa volta sono dieci. Rimonta in sella e conta un’altra volta: sono nove. Ripete più volte l’operazione finché si rassegna ad andare a piedi: Meglio guadagnare un asino piuttosto che perderne uno per stare seduto!
Eugenio Giannone
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www.villachincana.it Il protagonista di quest’altra storiella è Nasreddin Hocha, il Giufà turco, il quale per convincere alcuni ragazzi a smettere di importunarlo, inventa loro che a casa del sindaco è in corso una distribuzione di dolci. Ma non appena i ragazzi si allontanano nella direzione indicata, Giufà viene assalito dal dubbio: “E se quello che ho detto è vero”? E prende la stessa via!
Eugenio Giannone
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Eugenio Giannone, ciancianese. Lauretao in Lettere all'UniversitĂ di Palermo con una tesi sui lavori pubblici in Sicilia nel XIX secolo, ha insegnato per 35 anni negli istituti superiori. Apprezzato conferenziere e saggista, ha pubblicato o curato numerosi lavori, tra cui. -Giovani e anziani, un'intesa possibile, Bivona 2000 -Dove va il branco? Bivona 2002 -Il Fascio dei lavoratori di Cianciana(1893-94), Cianciana 1997 -Zolfara inferno dei vivi, Cianciana-Palermo 1996 -Quannu...S. Stefano quisquina 2008 -Pasquale Alba, L'omu svinturatu, Cianciana 2007 -Andrea Arcuri Voci nel silenzio (monografia), Alcamo 2009 -Non Si Passa. L'occupazione delle miniere del 1953, Agrigento-Palermo 2003 -Halikos, aspetti naturalistici e culturali del fiume Platani, Agrigento 2005.
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