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ISSN 2532-7607
RESPONSABILITÀ MEDICA
Diritto e pratica clinica IN QUESTO NUMERO Sulla tabellazione del danno non patrimoniale, con contributi di Patrizia Ziviz, Roberto Pucella, Riccardo Merluzzi, Carlo Scorretti
La responsabilità penale del medico tra etica del diritto e della medicina, di Elisabetta Palermo Fabris
La responsabilità penale del medico alla luce della legge Gelli, di Salvatore Aleo Astensione o sospensione dei trattamenti vitali, di Giuseppe Renato Gristina e Francesca Giardina
L’accertamento medico-legale delle lesioni di lieve entità alla luce della recente giurisprudenza, di Barbara Bonvicini, Rossella Snenghi, Massimo Montisci
Aprile-Giugno 2017 Rivista trimestrale diretta da Roberto Pucella
Pacini
INDICE Saggi e pareri Patrizia Ziviz, La legittimità del sistema di valutazione tabellare alla luce dell’art. 139 c. ass........ pag. 187 Roberto Pucella, Tutela della persona e sistema tabellare...................................................... » 193 Riccardo Merluzzi, La risarcibilità delle lesioni micropermanenti.......................................... » 197 Carlo Scorretti, La tutela della salute: il macrodanno.......................................................... » 203 Elisabetta Palermo Fabris, La responsabilità penale del professionista sanitario tra etica del diritto ed etica della medicina ............................................................................................. » 211 Salvatore Aleo, Alcune considerazioni sulla responsabilità penale del medico, anche alla luce della recente legge Gelli ................................................................................................ » 223 Fabio Cembrani, Profili critici della nuova legge sulla responsabilità professionale del personale sanitario............................................................................................................... » 231
Giurisprudenza Cass. civ., III sez., 28 aprile 2017, n. 10506, con nota di commento di Italo Partenza, La clausola claims made e le sezioni dis-unite della Suprema Corte: l’insostenibile incertezza del mercato................................................................................................................................ » Cass. civ., III sez., 10 gennaio 2017, n. 243, con nota di commento di Francesco Carlino, Nascita indesiderata per omessa diagnosi del medico: rifiuto di sottoporsi ad amniocentesi e nesso causale .......................................................................................................................... » Trib. Milano, 23 febbraio 2017, con nota di commento di Roberta Victoria Nucci, Perdita di chance ed accertamento del nesso causale........................................................................... »
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Dialogo medici-giuristi Giuseppe Renato Gristina, Astensione o sospensione dei trattamenti vitali: luci e ombre.......... » Francesca Giardina, Astensione o sospensione dei trattamenti vitali: luci e ombre. Francesca Giardina legge il contributo di Renato Gristina.................................................................... »
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Osservatorio medico-legale Gianluca Montanari Vergallo, Le buone pratiche clinico-assistenziali nella legge 8 marzo 2017, n. 24..... » Barbara Bonvicini, Rossella Snenghi, Massimo Montisci, L’accertamento medico-legale delle lesioni di lieve entità alla luce della recente giurisprudenza................................................. »
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Osservatorio normativo e internazionale Fabio Toriello, La responsabilità medica in prospettiva (incerta) di armonizzazione europea ....... » Luigi Gaudino, Diritti della persona e tutela della salute nella nuova Costituzione di Ciudad de México............................................................................................................ » Nicolas Terry, Liability and Regulatory Models for Managing “Never Events”........................ »
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g g sa re La legittimità del sistema e pa Saggi e pareri Saggi e pareri
di valutazione tabellare alla luce dell’art. 139 c. ass.* Patrizia Ziviz
Professoressa nell’Università di Trieste
Abstract: L’intervento espone alcune considerazioni critiche in ordine alla legittimità del sistema di valutazione tabellare del danno biologico previsto dall’art. 139 c. ass. The present paper takes into critical consideration the legitimacy of the systematic evaluation of the biological damage provided by art. 139 code of private insurance (legislative decree n. 209 of 7 September 2005).
1. La valutazione del danno non patrimoniale rappresenta un nodo estremamente problematico, considerato che si tratta di convertire in termini monetari compromissioni le quali, per loro intrinseca natura, non si prestano ad essere misurate attraverso i parametri offerti dal mercato. Tale operazione, la quale appare rimessa all’intervento del giudice, va effettuata alla luce dei principi posti alla base del risarcimento dei pregiudizi non economici ad opera delle Sezioni Unite del novembre 2008. Particolare rilievo assume, in tale materia, il principio – solennemente affermato in seno alle celeberrime sentenze di San Martino – secondo cui “il
Il contributo riprende i contenuti della Relazione tenutasi al Convegno di Trieste «La tabellazione del danno non patrimoniale da lesione all’integrità psico-fisica: evoluzioni giurisprudenziali e normative».
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risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre”. Bisogna, in ogni caso, segnalare che in ambito non patrimoniale parlare di integralità del risarcimento assume un significato peculiare. Qui, infatti non è possibile identificare, come invece accade di norma sul versante non patrimoniale, l’esatta somma corrispondente al danno subito dalla vittima; affinché il risarcimento possa dirsi integrale, quel che conta è che il giudice abbia effettivamente tenuto conto, nell’ambito della liquidazione, di tutti gli aspetti o voci in cui la categoria del danno non patrimoniale viene scandita nel caso concreto. In buona sostanza, il principio risulterà rispettato ove l’operazione di conversione in denaro abbia avuto luogo prendendo in considerazione l’intero ventaglio di compromissioni non patrimoniali provocate dall’illecito. Ciascun profilo pregiudizievole dovrà, dunque, trovare riscontro in una somma che rispecchi in maniera adeguata, alla stregua della coscienza sociale, le compromissioni concretamente risentite dalla vittima. Le sezioni unite hanno affermato che il principio di integrale riparazione può trovare concreta applicazione esclusivamente laddove venga operata una valutazione di carattere unitario del danno non patrimoniale, essendo la stessa considerata quale imprescindibile necessità al fine di evitare duplicazioni risarcitorie. Va, tuttavia, sottolineato come – in epoca successiva – la Supr. Corte abbia avuto modo di precisare che “non si hanno invero duplicazioni risarcitorie in presenza della Responsabilità Medica 2017, n. 2
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liquidazione dei diversi aspetti negativi ravvisati causalmente derivare dal fatto illecito o dall’inadempimento ed incidenti sulla persona del danneggiato/creditore. Duplicazioni risarcitorie vengono invece a sussistere laddove lo stesso aspetto (o voce) venga computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni” (Cass., 6 aprile 2011, n. 7844). Considerazioni del genere vanno senz’altro condivise, essendo – da un lato – necessario evitare ogni tentazione volta a veicolare il medesimo tipo di compromissioni sotto etichette differenti, mentre – dall’altro lato – nulla osta a ritenere del tutto ammissibile una distinzione tra le varie tipologie di pregiudizio. Va, anzi, evidenziato come un’operazione di quest’ultimo tipo appaia necessaria proprio allo scopo di una verifica quanto al rispetto del principio di integralità del risarcimento. La Supr. Corte (Cass., 23 gennaio 2014, n. 1361) – in una logica volta a garantire il riscontro circa l’adeguatezza della liquidazione del danno non patrimoniale – ha rilevato che risulta indifferente l’adozione di un sistema fondato sulla somma dei vari addendi ovvero un modulo imperniato sull’imputazione di somme parziali o percentuali del complessivo ammontare a ciascuna voce di pregiudizio. L’importante è che sia possibile ricostruire l’importo riconosciuto dal giudice in corrispondenza a ciascuna componente del danno, per verificare se la conversione in denaro – per ogni profilo descrittivo – appaia congrua, in quanto non sproporzionata per difetto o per eccesso. 2. Il rispetto dei principi elaborati dalle sez. un. dev’essere ovviamente garantito laddove la valutazione avvenga attraverso lo strumento della tabellazione: modello adottato oramai da decenni, a livello giurisprudenziale per quanto riguarda i pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla lesione dell’integrità psico-fisica. Le tabelle, com’è noto, sono state inizialmente elaborate – presso le varie sedi territoriali – con la finalità di individuare la base di calcolo per quanto riguarda la componente biologica del danno, salva restando la successiva personalizzazione di tale importo sulla base della situazione concreta della vittima. Un metodo del genere prevede che la valutazione transiti attraverso due fasi, entrambe indispensabili: la prima Responsabilità Medica 2017, n. 2
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funzionale a garantire una liquidazione omogenea di pregiudizi similari, la seconda finalizzata ad assicurare che il risarcimento venga a rispecchiare le caratteristiche peculiari che contraddistinguono la fattispecie concreta. Un distinto calcolo riguarda, poi, la componente morale del pregiudizio: in genere effettuata dalle corti tramite una liquidazione di carattere percentuale rispetto all’importo riconosciuto a titolo di danno biologico. Una revisione di tale modello operativo si è resa necessaria a fronte delle evoluzioni interpretative, di cui si è detto, caldeggiate dalle sez. un. In vista della necessità di procedere a una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale derivante dalla lesione alla salute, il tribunale di Milano è pervenuto all’elaborazione di una nuova tabella di carattere onnicomprensivo, in seno alla quale il valore del punto viene a rispecchiare, oltre alla componente anatomo-funzionale del pregiudizio, quella di carattere relazionale, nonché quella legata alla sofferenza morale. Il giudice, una volta ricavato il valore medio del pregiudizio sulla base dell’applicazione della tabella, è chiamato a incrementare (ovvero a diminuire) il relativo importo in considerazione delle circostanze del caso concreto allegate e provate dal danneggiato: discrezionalità giudiziale che risulta contenuta entro un tetto massimo percentuale di incremento, salva restando la possibilità di liquidare una somma superiore in caso di fattispecie eccezionali. Si tratta di tabelle divenute - alla luce della vocazione nazionale che la Cassazione ha riconosciuto a tale sistema (Cass., 7 giugno 2011, n. 12408) – il riferimento attraverso il quale accertare l’equità della valutazione operata dal giudice: i valori indicati dalle stesse vengono intesi, infatti, quale riscontro di un corretto esercizio del potere di cui all’art. 1226 c.c. (Cass., 25 febbraio 2014, n. 4447). 3. Un sistema a sé stante viene applicato per quanto riguarda il danno non patrimoniale alla salute derivante da sinistri stradali. Il codice delle assicurazioni private prevede, com’è noto, un metodo di valutazione stabilito a livello normativo, secondo regole modulate diversamente a seconda che si tratti di lesioni di lieve entità (art. 139 c. ass.) e di non lieve entità (art. 138 c. ass.): sistema, questo, posto fin dalla sua prima comparsa al centro di un
Tabellazione del danno non patrimoniale
vivace dibattito, incentrato sulla legittimità costituzionale delle indicazioni formulate dal legislatore. Nell’affrontare tale questione, un chiarimento appare essenziale. Il modello risarcitorio perseguito nel campo dei sinistri stradali (e successivamente esteso dal legislatore anche al settore della responsabilità sanitaria) non può essere configurato quale sistema indipendente rispetto a quello applicato, in generale, a fronte dell’illecito civile complessivamente inteso. Di totale autonomia può parlarsi in quanto ci si trovi davanti a comparti di regole che perseguono differenti finalità: situazione, questa, in presenza della quale appare ammissibile adottare, rispetto alla realtà fenomenologica del danno alla persona, diversi sistemi di misurazione. Ciò non può accadere, invece, per quanto concerne il sistema di r.c.a., considerato il rapporto di genere a specie che lega lo stesso alla disciplina generale della responsabilità civile. Posto che l’applicazione, nell’ambito dei sinistri stradali, dello strumento dell’assicurazione obbligatoria ha determinato la previsione di regole ad hoc, si tratta perciò di riconoscere che – in ogni caso – queste ultime devono trovare collocazione entro il quadro disciplinare applicato in materia di risarcimento del danno provocato da illecito extracontrattuale. Uno scostamento dalle regole previste su scala generale – in vista delle peculiarità che connotano la r.c.a – è suscettibile di trovare giustificazione esclusivamente laddove tale diversità risulti fondata su un criterio di ragionevolezza. 3.1. Considerata la mancata attuazione, fino ad oggi, della norma relativa al danno cagionato da lesioni di non lieve entità, la discussione concernente la legittimità del modello di valutazione del danno alla persona tracciato dal legislatore nel codice delle assicurazioni si è incentrata sull’art. 139 c. ass. In particolare, un versante assai dibattuto investe la definizione del fenomeno oggetto di misurazione tabellare, visto che – malgrado la disposizione normativa parli espressamente di danno biologico – da qualche tempo a questa parte è stata prospettata dalla giurisprudenza una linea di lettura propensa a convogliare entro tale voce le compromissioni corrispondenti alle sofferenze emotive provocate dalla lesione all’integrità psico-fisica. Un simile indirizzo si riallaccia alle affermazioni che le sez. un. del 2008 hanno formulato al riguardo,
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prospettando l’idea che anche le compromissioni di carattere morale siano destinate a confluire nel danno biologico: conclusione, questa, fondata sull’idea che la sofferenza possa rappresentare un autonomo pregiudizio esclusivamente in assenza di degenerazioni patologiche della stessa. Una ricostruzione del genere presta tuttavia il fianco, sul piano logico, a varie critiche. Posto che le distinte voci del pregiudizio non patrimoniale assumono una valenza di carattere descrittivo, ciò implica che un determinato tipo di compromissione, in ragione delle sue caratteristiche, va ricondotta in maniera univoca entro una sola componente: il che vale anche per la sofferenza emotiva, la quale incarna sempre un danno morale (quale che sia l’entità assunta dalla stessa). Ove il turbamento sia così grave da provocare una vera e propria malattia, a venire in evidenza sarà un legame causale tra sofferenza emotiva e lesione psichica, e non già una metamorfosi strutturale, tale da comportare la relativa migrazione da una voce descrittiva all’altra. Va, d’altro canto, rilevato che una simile relazione causale si manifesta esclusivamente a fronte di (talune) patologie psichiche, mentre nei casi di lesioni di carattere fisico, è la menomazione da questa indotta a ripercuotersi (nella dimensione dinamico-relazionale e) nella sfera emotiva della vittima, e non già viceversa. La possibilità di assorbire la componente morale nel concetto di danno biologico viene, peraltro, smentita dalla stessa definizione normativa formulata per quest’ultimo, che omette qualsiasi riferimento alle compromissioni di carattere emotivo. Né una considerazione del patema d’animo può essere recuperata in sede di personalizzazione del danno biologico, per il semplice fatto che personalizzare significa aumentare o diminuire la liquidazione relativa a una determinata posta del pregiudizio in ragione delle caratteristiche individuali del soggetto leso, e non già convogliare entro una certa voce descrittiva compromissioni che rivestono differente natura. Le ambiguità relative alla determinazione delle compromissioni incluse nella nozione di danno biologico vengono a riflettersi sul relativo sistema di misurazione tabellare. Poiché gli importi individuati dalla tabella sono stati determinati avendo di mira un’area ben definita di ripercussioni dannose, è evidente che eventuali modifiche dei confini del pregiudizio di riferimento – attraverResponsabilità Medica 2017, n. 2
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so la considerazione di ulteriori risvolti dannosi – renderebbero necessario il ritocco delle somme corrispondenti, al fine di includere nel calcolo gli aspetti pregiudizievoli in precedenza non misurati. Nessun tipo di aggiornamento è stato, tuttavia, previsto con riguardo alla tabella di cui all’art. 139 c. ass.: tale strumento, a suo tempo elaborato per misurare il danno biologico strettamente inteso, non ha subito alcun tipo di modifica in forza delle indicazioni giurisprudenziali propense a estendere la portata della voce in questione fino a comprendere la componente morale. Alla luce di tali considerazioni, il danno morale dovrebbe a rigor di logica rimanere estraneo al calcolo tabellare. In senso contrario si è tuttavia pronunciata la Corte costituzionale (Corte cost., 16 ottobre 2014, n. 235), la quale – pur mostrandosi consapevole che la tabella normativa risulta riferita a una concezione del pregiudizio non patrimoniale anteriore a quella unitaria affermata dalle sez. un. del 2008 – ha ritenuto tale sistema vada comunque applicato per liquidare le conseguenze non patrimoniali della lesione alla salute complessivamente intese. Malgrado l’avvenuta evoluzione, in termini espansivi, del fenomeno soggetto a misurazione, viene mantenuto il precedente metodo di calcolo, determinando così un’evidente violazione del principio di integrale risarcimento del danno, inteso come necessaria considerazione di tutti i versanti del pregiudizio; gli scarni margini di incremento del valore del punto non si prestano, infatti, a poter fornire riscontro (oltre alla personalizzazione del danno biologico) alle compromissioni di carattere morale. Resta da rilevare che l’inclusione del danno morale nel calcolo tabellare di cui all’art. 139 c. ass. non comporta – come ha sottolineato la stessa Cassazione (Cass., 9 giugno 2015, n. 1185) – una necessaria assimilazione dello stesso con il danno biologico. Il margine riconosciuto per la personalizzazione, corrispondente al 20% di incremento rispetto ai valori tabellari del punto, risulta in effetti correlato alle condizioni soggettive del danneggiato: le quali sono suscettibili di riflettersi entro le differenti dimensioni della sfera dinamico-relazionale, da un lato, e, dall’altro lato, nella sfera di carattere emotivo. Tale diversità tra i due ambiti del pregiudizio emergerebbe in maniera ancor più netta – secondo la Supr. Corte – in seno Responsabilità Medica 2017, n. 2
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all’138 c. ass., considerato che la norma (dopo aver definito il danno biologico in maniera identica a quanto previsto nell’art. 139) lega la personalizzazione alle ripercussioni negative di specifici aspetti dinamico-relazionali personali; oggetto della previsione in aumento sarebbe quindi solo la dimensione relazionale del pregiudizio, mentre la componente di natura interiore, da quella norma non codificata e non considerata, sarebbe sottratta alle limitazioni del calcolo tabellare, lasciando libero il giudice di quantificarla con ulteriore equo apprezzamento. Secondo tali indicazioni giurisprudenziali, del tutto condivisibili, l’attribuzione del danno morale – per le lesioni di non lieve entità – dovrebbe aver luogo al di fuori del calcolo tabellare, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria, essendo “l’eventuale aumento percentuale sino al 30% funzione della dimostrata peculiarità del caso concreto in relazione al vulnus arrecato alla vita di relazione del soggetto”, mentre altra e diversa indagine, operata al di fuori di qualsiasi automatismo risarcitorio, andrà compiuta in relazione alla patita sofferenza interiore (Cass., 20 aprile 2016, n. 7766). 3.2. Un’ulteriore critica al sistema di valutazione tabellare del danno alla persona previsto dal codice delle assicurazioni riguarda la previsione di una limitazione all’intervento del giudice. Quest’ultimo risulta chiamato a esercitare una discrezionalità vincolata, in quanto l’incremento volto a garantire la personalizzazione del risarcimento deve rimanere strettamente confinato entro il tetto percentuale individuato dal legislatore. Discussa appare la legittimità di un simile vincolo, considerato il possibile contrasto con il principio di integralità del risarcimento ogni volta che i danni da risarcire alla vittima siano di entità tale da non poter trovare congruo riscontro entro l’importo massimo normativamente previsto. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 235/2014, ha ritenuto che la limitazione risulti fondata su un criterio di ragionevolezza: a tal stregua viene valutato, infatti, il bilanciamento che sacrifica, da un lato, il diritto all’integrale risarcimento del danno per soddisfare, sul versante opposto, l’interesse degli assicurati ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi. Si tratta, però, di
Tabellazione del danno non patrimoniale
una conclusione che si espone a molteplici rilievi critici. In primo luogo, bisogna rilevare che al limite normativamente imposto tramite la tabella delle microinvalidità non è stato correlato alcuno strumento legislativo finalizzato a calmierare i premi assicurativi. Più in generale, appare assai discutibile l’idea che – per favorire un interesse di carattere economico – venga sacrificato un diritto costituzionalmente protetto di carattere personale, posto che ad essere inciso non è solo il principio di integrale risarcimento del danno, bensì il diritto che tramite lo stesso viene garantito, incarnato dal diritto alla salute. Bisogna, altresì, rilevare che – quand’anche un bilanciamento tra interessi di carattere personale ed economico fosse ritenuto ammissibile – il vantaggio patrimoniale dovrebbe operare a favore del soggetto che subisce il sacrificio: il che non necessariamente accade nel campo dei sinistri stradali, in cui di frequente risultano coinvolti soggetti che non sono titolari di un contratto di assicurazione, quali ad esempio pedoni o terzi trasportati. Va, infine, rammentato che – in una prospettiva volta a sostenere la ragionevolezza del sistema limitativo – la Corte costituzionale si è fatta forte delle affermazioni formulate dalle sez. un. del 2008, in ordine ad una compressione dei diritti inviolabili fondata sul dovere di solidarietà spettante a ciascun consociato. Ma – a prescindere dalle critiche più generali che possono essere rivolte a un simile bilanciamento – occorre sottolineare che lo stesso non si presta a giustificare il sacrificio imposto alle vittime di microlesioni dall’art. 139 c. ass. Basta rilevare che le sez. un. applicano tale principio sul piano dell’an del risarcimento, al fine di escludere la rilevanza risarcitoria dei danni bagatellari: per cui, anche in presenza della lesione di un diritto inviolabile, la tutela non potrebbe scattare a fronte di lesioni non gravi e pregiudizi non seri. Diversamente, il sistema tabellare di cui all’art. 139 c. ass. è finalizzato a liquidare pregiudizi già transitati attraverso le maglie di un simile filtro, per cui la relativa limitazione viene a colpire danni che non appaiono per alcun verso qualificabili come pregiudizi di carattere bagatellare; ci si pone, così, in rotta di collisione con i principi affermati dalle sez. un., le quali riconoscono apertamente la necessità di un integrale risarcimento per i pregiudizi che abbiamo varcato la soglia della rilevanza.
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Appare utile rammentare che la previsione di un tetto invalicabile per quanto riguarda l’intervento di personalizzazione da parte del giudice è stata talora giustificata in un’ottica volta a garantire la prevedibilità del risarcimento, quale elemento imprescindibile per il funzionamento del sistema assicurativo. Tuttavia – anche in assenza di una simile limitazione – la liquidazione non sarebbe destinata a divenire imprevedibile, posto che la personalizzazione operata dal giudice, pur potendo essere influenzata da circostanze specifiche e peculiari, risulta comunque ancorata al livello di invalidità concretamente risentito dalla vittima, ed a quest’ultimo finisce dunque per essere proporzionata. A conferma del fatto che il sistema r.c.a. può funzionare anche in assenza della previsione di tetti invalicabili, basta rilevare come ciò concretamente abbia già luogo nel sistema attuale, per i danni derivanti da lesioni di non lieve entità, ai quali – essendo rimasta inattuata la previsione dell’art. 138 c. ass. – vengono applicate le tabelle del tribunale di Milano, le quali prevedono la possibilità di superare gli incrementi massimi laddove ciò appaia giustificato da gravi motivi. Né il sistema assicurativo risulta essere collassato, più in generale, a fronte della mancata previsione – da parte del legislatore – di una tabellazione in materia di danno non patrimoniale dei congiunti, liquidabile in caso di morte della vittima o di lesioni alla salute incidenti sull’esplicazione del rapporto parentale. Per tali pregiudizi la valutazione si fonda su tabelle giurisprudenziali all’interno delle quali un ampio margine viene lasciato alla discrezionalità giudiziale; la determinazione dell’entità della lesione del rapporto parentale non risulta, infatti, agganciata ad alcun tipo di riferimento di carattere tecnico, per cui la valutazione del giudice spazia in un range estremamente variabile (entro l’intervallo assai ampio tra livello minimo e massimo liquidabile per ogni categoria di prossimi congiunti). In definitiva, si tratta di constatare che il funzionamento del sistema della r.c.a. risulta comunque garantito anche in assenza dell’imposizione di vincoli normativi tali da riflettersi in una tutela soltanto parziale del diritto fondamentale alla salute e all’integrità psico-fisica della persona. Responsabilità Medica 2017, n. 2
Saggi e pareri Saggi e pareri
Tutela della persona e sistema tabellare*
g g sa re e a p
Roberto Pucella
Professore nell’Università di Bergamo
Abstract: La relazione affronta in chiave critica i parametri valutativi, in termini risarcitori, della lesione biologica, morale ed esistenziale. The present paper takes into critical consideration the systematic evolution of the biological, moral and existential damages.
Una rapida scorsa della giurisprudenza degli ultimi anni in tema di danno non patrimoniale mostra come il percorso avviato con le sentenze del novembre 2008 in tema di danno esistenziale non sia ancora compiuto. Il consolidarsi di massime tralaticie non appare rassicurante perché dietro il radicarsi formale del principio si cela l’insidia del contrasto irrisolto. Il disallineamento (soprattutto dottrinale) non riguarda oramai più la risarcibilità in sé del danno esistenziale quanto la dimensione liquidatoria del pregiudizio. Le Scuole si confrontano, come si sa, sulla identità risarcitoria della lesione esistenziale.
Il contributo riprende i contenuti della Relazione tenutasi al Convegno di Trieste «La tabellazione del danno non patrimoniale da lesione all’integrità psico-fisica: evoluzioni giurisprudenziali e normative».
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Essa appare, per un verso, componente dinamica della sofferenza biologica: è quanto testualmente sanciscono, tra l’altro, gli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni (“per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”). La precisazione è di non poco conto perché, in punto di principio, configura il danno all’esistenza come componente della lesione del bene salute; mentre, in punto di liquidazione, comporta che la misura risarcitoria del danno resti saldamente ancorata ai parametri di determinazione del biologico attualmente in uso. A questa lettura ha, storicamente, fatto da contrappeso l’inquadramento del danno esistenziale come pregiudizio dotato di propria, spiccata, autonomia, sia rispetto alla lesione biologica – dalla quale lo distingue la non necessità del pregiudizio organico – che a quella morale, idonea a rappresentare la sofferenza interiore anziché l’incidenza del danno sugli aspetti relazionali della vita del soggetto (cfr., ad esempio, Cass., n. 7766/2016). È questo, d’altronde, un retaggio del danno esistenziale degli esordi, autoreferenziale, bilanciato più sull’effetto – il disturbo alla qualità del vivere, latamente inteso – che sull’interesse violato. Quando nel 2008 si sono pronunciate per ricomporre il contrasto creatosi in merito alla risarcibiResponsabilità Medica 2017, n. 2
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lità del danno esistenziale le Sezioni Unite hanno ritenuto di intervenire sul rischio di sovradeterminazione della lesione non patrimoniale inquadrandola nella unitaria (e rassicurante) categoria del danno biologico “nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione” (Cass., sez. un., n. 26972/2008). Seguendo il medesimo schema argomentativo al danno biologico è stata ricondotta anche la sofferenza morale che ricorre “ove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente” (ibidem). Le voci di danno “assorbite” in una categoria più ampia – osserva la Corte – non possono, proprio per ciò, essere autonomamente ristorate, pena l’inammissibile duplicazione risarcitoria. Senonché, una volta ricondotte la lesione morale ed esistenziale alla violazione del valore salute, inteso in senso lato, rimane aperto il problema della loro quantificazione a fini risarcitori; ciò perché, anche a voler parlare in termini unitari di “salute”, resta fermo il fatto che il suo contenuto, prima, e la sua violazione, poi, si possono articolare in modi complessi, in cui la dimensione più tipica, quella organica, può – o meno – essere accompagnata dalla componente morale e/o esistenziale. E si viene così al versante giurisprudenziale, ove il complesso equilibrio tra le tre categorie di danno (biologico, morale ed esistenziale) si è tradotto in due assetti asimmetrici: il primo, valorizzando la capacità inclusiva propria del valore salute, ha nella sostanza inteso depotenziare la rilevanza della dimensione sofferenziale – interna ed esterna – a favore della liquidazione del danno biologico che di quel valore è l’espressione risarcitoria. Sono le pronunce nelle quali si legge, ad esempio, che “Poiché il danno biologico ha natura non Responsabilità Medica 2017, n. 2
Saggi e pareri
patrimoniale, ed il danno non patrimoniale ha natura unitaria, è corretto l’operato del giudice di merito che liquidi il risarcimento del danno biologico in una somma omnicomprensiva, posto che le varie voci di danno non patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, ecc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili” (Cass., 16.5.2013, n. 11950). Il secondo assetto, dando evidenza alla sostanziale autonomia propria di ognuna delle tre poste di danno, ha invece condotto al principio secondo cui «Il danno biologico (cioè la lesione della salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile “esistenziale”, e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l’illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili» (Cass., 20.5.2016, n. 10414). Ma, qualunque sia l’impostazione di fondo accolta, la questione è complicata dal fatto che il criterio dell’equità che necessariamente assiste la liquidazione del pregiudizio non patrimoniale consente (e, nei fatti, ha consentito) di valutare questi danni congiuntamente, valorizzando la circostanza, fondata su massime di esperienza, per cui il verificarsi dell’uno normalmente è causa del determinarsi anche degli altri. Le tabelle del Tribunale di Milano propongono in particolare, come si legge nella Nota esplicativa, la liquidazione congiunta del danno non patrimoniale sia nei risvolti anatomo-funzionali che relazionali, nonché del danno conseguente alle medesime lesioni nei termini del dolore e della sofferenza soggettiva. La Nota precisa inoltre che per individuare i valori monetari di tale liquidazione congiunta si è fatto riferimento ad una tabella di valori medi, corrispondenti al caso di incidenza della lesione in termini “standardizzabili”. La Nota chiarisce infine che è da tenersi conto di una percentuale di aumento dei valori medi, onde consentire un’adeguata personalizzazione complessiva della liquidazione laddove il caso presenti peculiarità che vengano allegate e provate;
Tabellazione del danno non patrimoniale
fermo restando che al giudice è dato di modulare la liquidazione oltre i valori minimi e massimi in relazione a fattispecie eccezionali rispetto alla casistica comune. Dunque la partita della liquidazione della lesione non patrimoniale si gioca sul piano della riconducibilità o meno della vicenda ad una fattispecie standard. La stessa Cassazione ha riconosciuto la legittimità di un meccanismo risarcitorio nel quale il valore del punto di biologico sia espressivo (oltre che della lesione organica anche) delle ulteriori componenti in cui si articola la lesione non patrimoniale; meccanismo fondato su «l’adozione di tabelle che includano nel punto base la relativa considerazione, dando perciò per presunta – quindi, in media, generalizzata, secondo l’id quod plerumque accidit – l’esistenza di un tale tipo di pregiudizio, pur se non accertabile per via medico-legale … Si tratta … di una presunzione, accettabile quanto meno per le invalidità superiori al 10%, rispetto alle quali può reputarsi “normale” che vi siano profili prettamente soggettivi di ansia, preoccupazione, turbamento, dispiacere, collegati al pregiudizio fisico, salvo prova contraria, che può essere, a sua volta, anche presuntiva» (Cass., 6.3.2014, n. 5243). La presunzione “accettabile”, come la definisce la Cassazione, non riguarda solamente la circostanza che una lesione biologica si sviluppi sul versante dinamico-relazionale e ad essa si accompagni, di norma, una condizione sofferenziale, ma si estende anche al fatto che con il variare dell’intensità della lesione biologica muta proporzionalmente anche il pregiudizio relazionale e sofferenziale. Ciò che sta fuori dalla presunzione sono i casi nei quali i criteri standard non si rivelano in grado di rappresentare adeguatamente la lesione vuoi perché, diversamente da quanto di norma accade, essa non ha avuto luogo, vuoi perché la sua intensità non è ricompresa entro il range usuale. Le Tabelle stesse contemplano specificamente questa ultima ipotesi prevedendo la possibilità di un aumento personalizzato del danno alla salute, di cui è indicata la percentuale massima, variabile in ragione della gravità della lesione. Esse prevedono inoltre, per il danno da perdita del congiunto e per l’inabilità temporanea, la possibilità
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di modellare il risarcimento alle caratteristiche del caso, liquidandolo con valori monetari compresi tra un minimo ed un massimo. In entrambi i casi la personalizzazione è controllata vuoi perché ne è stabilito l’ammontare massimo vuoi perché è contenuta entro valori minimi e massimi. Gli aspetti problematici riguardano sostanzialmente i casi in cui il giudice non si avveda dello scostamento della vicenda rispetto all’id quod plerumque accidit e l’applicazione pura e semplice dei valori tabellari si riveli ingiustamente penalizzante o, all’opposto, ingiustamente gratificante per il danneggiato. Un diverso profilo può riguardare il caso in cui i criteri di personalizzazione del danno indicati nelle Tabelle non si rivelino idonei a raffigurarne l’esatta misura: si pensi al caso in cui i comprovati pessimi rapporti tra la vittima di un illecito mortale ed il congiunto superstite inducano a ritenere che la sofferenza di quest’ultimo si posizioni sotto i valori, pur minimi, previsti dalle tabelle; o al caso in cui il costante pericolo di vita corso dal danneggiato a seguito della lesione biologica sofferta spinga a ritenere che la percentuale, pur massima, di personalizzazione non sia adeguatamente espressiva della gravità del pregiudizio esistenziale del soggetto offeso. La Cassazione riconosce in capo al giudice la facoltà di discostarsi dai valori minimi e massimi delle tabelle milanesi quando la specificità del caso non consenta di ricondurre la lesione entro il range standard, ma impone al giudice di argomentare in merito alle ragioni che sottraggono la fattispecie alla presunzione di normalità del danno (Cass., 23.2.2016, n. 3505). Nella dialettica giudiziaria pesano non poco le generalizzazioni del senso comune: più il danno è grave più l’attore pretende che la liquidazione sia personalizzata, senza avvedersi che i valori tabellari sono già inclusivi della più accentuata, proporzionale, sofferenza ed incidenza della lesione sul versante esistenziale. Bene fa, dunque, la giurisprudenza a ritenere che l’aumento accordato a titolo di personalizzazione possa trovare accoglimento solo “in presenza di fattispecie eccezionali, caratterizzate da peculiarità specificamente allegate e provate” (Cass., Responsabilità Medica 2017, n. 2
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27.11.2015, n. 24210; nel caso specie è stata rigettata la richiesta di personalizzazione di un danno del 70% con disfunzione sessuale e turbe psichiche). Non diversamente sul fronte del danno patito dai congiunti l’esperienza insegna che la perdita della persona cara porta inevitabilmente sofferenza e ciò spiega perché il dolore di chi perde il congiunto non sia, di fatto, oggetto di dimostrazione alcuna. Il sistema, dunque, mostra una sua tenuta perché è coerente nel prevedere che all’aumento della lesione biologica corrisponda, di norma, anche l’incremento della sofferenza nella sua duplice dimensione, interna ed esterna; e perché consente la personalizzazione del danno e, in quest’ambito,
Responsabilità Medica 2017, n. 2
Saggi e pareri
l’eventuale superamento dei parametri tabellari, così non violando il principio della valutazione equitativa del pregiudizio. Lo scostamento dallo standard va invece puntualmente dimostrato; sotto questo aspetto si rivela indispensabile l’apporto del medico-legale, in grado di rappresentare, al di fuori delle facili suggestioni che contraddistinguono il senso comune, il reale scostamento della fattispecie dalle situazioni di normalità. Con ciò rivitalizzando una funzione cardine nell’accertamento del danno risarcibile, paradossalmente attenuata proprio dal dominio delle tabelle e dalla derivazione meccanica del danno morale dalla lesione biologica.
Saggi e pareri Saggi e pareri
La risarcibilità delle lesioni micropermanenti*
g g sa re e a p
Riccardo Merluzzi
Giudice del Tribunale di Trieste
Abstract: Il contributo esamina alcune questioni problematiche sorte a seguito della tabellazione del danno non patrimoniale all’integrità psico-fisica del soggetto leso. In particolare, partendo da una disamina relativa all’ambito di applicazione dell’art. 139 del c. ass., si sofferma sulle complesse questioni relative alla risarcibilità di quello che era definito il danno morale soggettivo (riguardante la sofferenza psichica) nell’ambito delle lesioni c.d. micro-permanenti. Da ultimo vengono affrontati i problemi giuridici posti dalla l. n. 27 del 24.3.2012, tanto per i medici legali che per i giudici. The article analyzes some problematic issues arising from the table of non-pecuniary damage to the psycho-physical integrity of the injured subject. In particular, starting from a review of the scope of Article 139 of the Insurance Code, focuses on the complex issues concerning the compensability of what was defined as the subjective moral damage (concerning psychic suffering) in the case of minor lesions. Lastly, the legal issues of Law no. 27 of 24.3.2012 are dealt with.
Il contributo riprende i contenuti della Relazione tenutasi al Convegno di Trieste «La tabellazione del danno non patrimoniale da lesione all’integrità psico-fisica: evoluzioni giurisprudenziali e normative».
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La presente relazione prende in esame tre tematiche principali: I) l’ambito di applicazione dell’articolo 139 del d.lgs. 7.9.2005, n. 209 (c. ass.); II) la risarcibilità di quello che era definito il danno morale soggettivo (riguardante la sofferenza psichica) nell’ambito delle c.d. lesioni micro-permanenti (art. 139, c. ass.); III) i problemi giuridici posti dalla novella (l. n. 27 del 24.3.2012). I) Ambito di applicazione dell’articolo 139 del codice delle assicurazioni. È noto che l’articolo 139 del c. ass. disciplina la materia del risarcimento del danno biologico per lesioni derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione di veicoli a motore e natanti. In giurisprudenza, successivamente alla l. n. 57/2001 e quindi all’entrata in vigore del codice delle assicurazioni, si è posto il problema se la quantificazione del danno da micro-permanente prevista dal c. ass. si applichi o meno a tutte le fattispecie diverse dall’infortunistica stradale (si pensi alla materia della responsabilità medica e sanitaria, alle lesioni personali dolose, alle lesioni da infortunio o caduta, a quelle da morso di animali, e così via). Sul punto, nel tempo, si sono confrontati tre orientamenti giurisprudenziali: - un primo orientamento sostiene che il danno da micro permanente descritto dal c. ass. possa trovare applicazione analogica alle fattispecie diverse dall’infortunistica stradale: tale Responsabilità Medica 2017, n. 2
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orientamento si basa sul rilievo che tra lesioni derivanti da circolazione stradale e lesioni derivanti da altre cause non c’è differenza ontologica, non vi è altra distinzione che il mezzo con il quale le lesioni sono state inferte, e ritiene tale differenza giuridicamente irrilevante; - un secondo orientamento ritiene che la tabella normativa costituisca un criterio di equità applicabile anche al di fuori del proprio ambito ma non per un’estensione diretta della disciplina (per analogia) ma quale parametro equo e congruo di liquidazione (in concreto, il risultato non si discosta dalla prima soluzione); - un terzo orientamento ritiene non corretta l’applicabilità dei valori contenuti nel c. ass. anche al risarcimento delle lesioni micro-permanenti diverse dai sinistri stradali. La questione era molto dibattuta nella giurisprudenza di merito e molti tribunali propendevano per l’applicazione analogica. Sul punto è intervenuta però la sentenza della Cass., III sez., 7.6.2011, n. 12408 (nota in particolare per aver affermato l’applicabilità generale dei criteri di liquidazione previsti dalle tabelle di Milano). Secondo la Supr. Corte “i criteri di liquidazione del danno biologico previsti dall’articolo 139 del codice delle assicurazioni, per il caso di danni derivanti da sinistri stradali, costituiscono oggetto di una previsione eccezionale, come tale insuscettibile di applicazione analogica nel caso di danni non derivanti da sinistri stradali”. In motivazione, la sentenza opta per la tesi contraria all’applicazione analogica dell’art. 139 per un duplice ordine di considerazioni: - da un canto, per un criterio topografico-sistematico (ovvero per essere l’art. 139 inserito nel titolo relativo all’assicurazione obbligatoria per i veicoli a motore ed i natanti) ma, soprattutto, - facendo leva sulla ratio legis, volta a dare una risposta al problema della liquidazione del danno biologico al fine del contenimento dei premi assicurativi. In sostanza, per i postumi non collegabili alla circolazione stradale varranno quindi sempre i Responsabilità Medica 2017, n. 2
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criteri di cui alle tabelle di Milano, indipendentemente dalla gravità dei postumi, e non quelli previsti dall’articolo 139 del c. ass. (di cui invece la sentenza ha ovviamente confermato la cogenza per quanto riguarda i risarcimenti danni da sinistri derivanti dalla circolazione di veicoli). Questo principio risulta di impatto assai rilevante, tanto che il legislatore, con il decreto Balduzzi (novembre 2012), ha sentito la necessità di prevedere che il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente la professione sanitaria vada risarcito secondo le tabelle previste dagli artt. 138 (per le macro lesioni, quando saranno adottate) nonché dall’art. 139 per le micro permanenti: si tratta di una norma, definita da alcuni commentatori come “figlia della spending review”, introdotta al fine di limitare i risarcimenti dei danni per lesioni derivanti da malpractice sanitaria. II) Veniamo al secondo argomento, che presenta profili sistematici più complessi. La questione riguarda la risarcibilità di quello che un tempo veniva definito danno morale soggettivo (ovvero il danno riguardante la sofferenza psichica) nell’ambito delle micro-permanenti previste dall’articolo 139 del c. ass. (ovvero solo quelle derivanti dalla infortunistica stradale, secondo la tesi sopra ricordata, ma ora anche quelle derivanti da malpractice). Il dato normativo da cui partire è quello del comma terzo dell’articolo 139, che recita “l’ammontare del danno biologico liquidato ai sensi del comma uno può essere aumentato dal giudice in misura non superiore a un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato”. Anche su tale aspetto si erano registrati contrasti nella giurisprudenza (sia di legittimità che di merito): - secondo un primo orientamento (Cass., 17.9.2010, n. 19816) la Cassazione ha sostenuto (sotto il regime dell’art. 5 della l. n. 57 del 2001, ma il ragionamento vale pure per il successivo art. 139) che il legislatore si è limitato a dettare i criteri di liquidazione del danno biologico, senza per questo escludere che, nella complessiva valutazione equitativa circa l’entità della somma spettante, il giudice debba tener conto anche delle sofferenze
Tabellazione del danno non patrimoniale
morali subite dal danneggiato: ovviamente la Cassazione del 2010 aveva ben presente il principio dell’unicità della liquidazione del danno non patrimoniale indicato dalle sez. un. nelle sentenze di San Martino, ma ha sostenuto che il giudice deve comunque tener conto degli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (mentre l’art. 139 disciplina unicamente la liquidazione del danno biologico). Al contrario, sulla stessa questione, la sentenza n. 12408 del 2011 (già citata) ha affermato che, quando trova applicazione l’art. 139, il danno va liquidato nei termini rigorosamente previsti dalla legge con possibilità, quindi, di aumento in misura non superiore al 20% quando si tratti di micro permanenti. Secondo tale orientamento la norma dettata dall’art. 139 è imperativa ed è quindi preclusa la possibilità di una liquidazione del danno da sofferenza, anche con l’aumento dell’importo base in misura superiore al 20%. In altri termini l’articolo 139, con il meccanismo correttivo previsto dal III° comma, comprenderebbe ora la liquidazione di tutti i profili del danno non patrimoniale. Questa ricostruzione è stata criticata da una parte della dottrina e della giurisprudenza, che hanno osservato come la nozione di danno biologico antecedente al c. ass. (lesione temporanea permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale) riguardasse il danno biologico statico, e consentisse di valutare comunque in via equitativa il profilo dinamico, ovvero il danno alla vita di relazione. Nel 2005 la norma dell’art. 139, dettata dal legislatore nella dichiarata ottica di contenimento dei risarcimenti per le micro-permanenti, ha incluso nella liquidazione prevista tabellarmente pure il profilo dinamico, poiché con i medesimi valori liquida il danno biologico comprensivo anche dell’“incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato” (art. 139, II° comma). Infine, sono intervenute le sentenze delle sez. un. del 2008 (sentenze di San Martino) affermando – tra l’altro – il principio secondo cui il danno alla
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salute ha valenza omnicomprensiva ed assorbe al suo interno anche le altre poste risarcitorie. Ne consegue quindi che l’art. 139, in virtù di questo processo stratificato, liquida con la medesima somma dapprima il danno biologico statico, poi anche (per espressa disposizione di legge) il danno biologico nella sua componente dinamica ed ora anche quello che un tempo era definito danno morale. Dai giudici che hanno sollevato questione di legittimità costituzionale è stato osservato che l’interpretazione secondo la quale l’art. 139 esclude la possibilità di liquidare autonomamente il danno morale manifesterebbe dei profili di illegittimità costituzionale sotto il profilo della violazione dell’art. 3. Ad ogni buon conto, a seguito di una ricerca effettuata presso gli Uffici Giudiziari del Distretto di Trieste, si può concludere che la maggior parte degli Uffici si è uniformata al principio dettato dalla Corte di cassazione, secondo il quale si sarebbe in presenza di un criterio generale: ogni qualvolta la lesione derivi dalla circolazione di veicoli, il danno non patrimoniale da micro permanente non potrà che essere liquidato, per tutti i pregiudizi areddituali che derivino dalla lesione del diritto alla salute, entro i limiti stabiliti dalla legge (articolo 139 comma quinto), salvo l’aumento da parte del giudice in misura non superiore al 20%, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato (Cass., n. 12408/2011), ma la questione rimane aperta. Più di recente la Supr. Corte ha ribadito che nei soli casi di lesioni di non lieve entità e, dunque, al di fuori dell’ambito applicativo delle lesioni cd. micro permanenti di cui all’art. 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, “(…) il danno morale costituisce una voce di pregiudizio non patrimoniale, ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinta dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico relazionali presi in considerazione dall’art. 138 del menzionato d.lgs. n. 209 del 2005, con la conseguenza che va risarcito autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria” (Cass., 9.6.2015, n. 11851). Diverso problema riguarda la prova del danno con riferimento alle condizioni soggettive del Responsabilità Medica 2017, n. 2
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danneggiato, che consente l’aumento del 20%: fermo restando l’onere di allegazione della parte ed il rispetto del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, si registrano tendenze nella giurisprudenza di merito che prevedono una certa “larghezza” nel riconoscimento di tale aumento, cui si contrappone altro orientamento che ritiene necessaria una prova rigorosa di tali condizioni soggettive: il punto è certamente delicato, anche in relazione alla durata del processo ed alle “risorse” da impiegare nel singolo giudizio, poiché in questi casi può risultare necessaria un’istruttoria articolata (tra l’altro con possibilità di prova contraria assai problematica da parte delle Compagnie assicuratrici) ai fini del riconoscimento di importi spesso modesti (si parla, al massimo, del 20% di poche migliaia di euro di risarcimento tabellare). III) Il terzo argomento qui esaminato è rappresentato dai problemi giuridici posti dalla novella contenuta nella l. n. 27 del 24.3.2012. È noto che il legislatore del 2012 ha introdotto nuove norme al fine dichiarato di limitare l’incidenza dei dati relativi al costo sproporzionato che in Italia hanno le conseguenze dei sinistri stradali ed in particolare delle lesioni micro-permanenti, che rappresentano (secondo dati europei) il 90% del totale delle lesioni e pesano per circa il 40% sul complessivo ammontare dei danni alla persona liquidati. Il legislatore del 2012 ha introdotto due norme che hanno l’evidente intento di limitare i risarcimenti per le lesioni di lieve entità, entrambe contenute nell’articolo 32 della l. n. 27. L’articolo 32, comma 3-ter, ha aggiunto al comma II dell’art. 139 c. ass. il seguente periodo: “in ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente”. L’articolo 32, comma 3-quater, ha poi previsto: “il danno alla persona per lesioni di lieve entità di cui all’articolo 139 del codice assicurazioni è risarcito solo a seguito di riscontro medico-legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione”. Responsabilità Medica 2017, n. 2
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Vanno ricordate in primo luogo le numerose e delicate questioni (anche di carattere deontologico) che impegnano i medici legali. Qui basti ricordare che le due disposizioni di legge fanno riferimento alla nozione di lesione e non a quella di menomazione: secondo una prima analisi, ne conseguirebbe che tutte le menomazioni non verificabili all’esame clinico e non accertabili a seguito di esami strumentali, non costituiscono un esito permanente risarcibile quale danno biologico nell’ambito della responsabilità civile da circolazione stradale, con la conseguenza che la sola sintomatologia soggettiva non costituirebbe più oggetto di risarcimento. Da un punto di vista giuridico si deve rilevare che le due disposizioni introdotte dalla novella risultano in apparente contraddizione terminologica. Secondo i primi commentatori, il comma ter, nel limitare il risarcimento alle lesioni che siano suscettibili di “accertamento clinico strumentale obiettivo” (è stato notato che i tre aggettivi sono riportati nel testo di legge l’uno di seguito all’altro, senza virgole, a rafforzarne l’unicità concettuale) parrebbe aver la finalità di vincolare il risarcimento del danno biologico permanente ai soli casi in cui la lesione sia riscontrata in referti di diagnostica per immagini, al fine di escludere il risarcimento per le patologie legate esclusivamente al riscontro delle sintomatologie soggettive: in termini concreti, secondo tale interpretazione, le semplici dichiarazioni della vittima di sinistro stradale che lamenti sintomi dolorosi non riscontrabili obiettivamente in una patologia clinica non potranno condurre alla liquidazione del danno biologico tabellare. Il comma quater, che si occupa non solo del danno biologico permanente ma in generale del danno alla persona, consentirebbe al medico legale di valutare strumentalmente (e quindi in maniera simile a quanto previsto nella precedente disposizione) ma anche visivamente la sussistenza di una lesione. Dovendo l’interprete dare un senso complessivo alla normativa introdotta ed offrire una chiave interpretativa che sia il più possibile conforme alla ratio legis, si è ritenuto da questi commentatori che il comma ter vada riferito solo alla liquidazione del danno biologico permanente tabellato
Tabellazione del danno non patrimoniale
nei D.M.: in questo caso il risarcimento sarebbe subordinato alla presenza di una obiettività, certificata da referti diagnostici. Il comma quater, invece, riguarderebbe la categoria più ampia del danno non patrimoniale, che comprende anche il danno biologico da temporanea, consentendo di liquidare ad esempio l’inabilità temporanea se la lesione è accertata almeno visivamente. In altri termini, mentre il comma ter escluderebbe il risarcimento del danno biologico permanente in assenza dei presupposti ivi indicati, il comma quater ammetterebbe il risarcimento, sempre che vi sia riscontro medico quantomeno visivo: ne consegue che, nel caso di accertamento strumentale obiettivo sarà risarcibile tanto il danno biologico permanente che quello temporaneo; di contro, nel caso di lesione non accertabile strumentalmente, ma solo visivamente, non sarà risarcito il danno biologico permanente ma solo quello temporaneo. Le conseguenze ricavabili non sono di poco conto, in quanto per le lesioni di lieve entità conseguenti a sinistri stradali, come accade molto spesso per il cosiddetto “colpo di frusta”, in assenza di accertamenti obiettivi strumentali presentati al medico legale demandato all’accertamento del danno, non potrebbe essere risarcito il valore tabellare ma unicamente, se accertata almeno visivamente, l’inabilità temporanea. Va aggiunto per completezza che questa interpretazione, che si basa esclusivamente sul testo della legge e sulla voluntas legis, è stata avversata da molti interpreti (in particolare medici legali). Secondo una diversa opzione interpretativa, che nega una sostanziale differenza tra i presupposti e gli elementi indicati nel comma ter e nel comma quater, la finalità perseguita dal legislatore sarebbe quella di richiamare ad un rigore valutativo nei confronti del concetto di prova del danno risarcibile, ponendo a carico del medico legale il compito di esaminare con serietà e precisione tutti gli elementi di prova prima di definire il danno
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biologico permanente: in tale ottica si è ritenuto che il riscontro strumentale rappresenti elemento sussidiario rispetto a quello clinico, al fine di evitare l’impossibilità di risarcire gran parte delle lesioni di lieve entità reali, anche se strumentalmente indimostrabili. È evidente che su questi aspetti diventa decisiva, oltre che l’irrinunciabile attività interpretativa del giudice, l’attività del consulente tecnico medico-legale, e non a caso vi sono state molte prese di posizione sulle tematiche in questione da parte delle associazioni dei medici legali. Come notazione conclusiva, va ribadita la piena consapevolezza in capo alla giurisprudenza dei problemi qui esaminati, in una visione moderna e consapevole della funzione giurisdizionale: non a caso, l’attribuzione di importi risarcitori anche significativamente diversi a seconda delle tabelle prescelte (si intende, per casi analoghi) è stato autorevolmente definito “un fenomeno che, incidendo sui fondamentali diritti della persona, vulnera elementari principi di eguaglianza, mina la fiducia dei cittadini nell’amministrazione della giustizia, lede la certezza del diritto, ostacola le conciliazioni e le composizioni transattive in sede stragiudiziale, alimenta per converso le liti, non di rado fomentando domande pretestuose anche in seguito a scelte mirate (cosiddetto forum shopping) o resistenze strumentali” (Cass., n. 12408/11). Si tratta di considerazioni che vanno certamente condivise da chi – pur nella diversità dei ruoli – si occupa della materia, ma la cui bontà rischia, indubbiamente, di essere messa in crisi da quel fenomeno, che non agevola il compito dell’operatore, che va sotto il nome di “pluralità di statuti risarcitori ed indennitari del danno alla persona”. Toccherà quindi agli interpreti (avvocati, medici legali, giudici) il non facile compito di fornire un assetto complessivo della materia che dia adeguata risposta alla domanda di giustizia dei cittadini in termini temporali congrui.
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Saggi e pareri Saggi e pareri
La tutela della salute: il macrodanno*
g g sa re e a p
Carlo Scorretti
Professore nell’Università di Trieste Sommario: 1. Il metodo. – 2. Dalla capacità lavorativa al danno biologico. – 3. Un metro controverso. – 4. Valutare ciò che resta. – 5. L’esigenza di distinguere. – 6. Una valutazione in sintonia con l’evoluzione scientifica.
Abstract: L’autore espone alcune difficoltà non risolte nell’individuazione di parametri valutativi adeguati alla “costituzionalizzazione” del danno alla salute, così come si è definito negli ultimi anni, soprattutto per quanto concerne i “macrodanni”. Gli attuali criteri infatti non consentono di apprezzare in modo adeguato le capacità residue della persona, né di fornire ristoro adeguato all’incidenza del macrodanno sulla conseguente compromissione dell’autonomia. The author exposes some unresolved difficulties in identifying evaluation parameters appropriate to the constitutional patterns of health damage as defined in recent years, especially as regards the compensation of the more relevant damages. The customary criteria do not allow to adequately appreciate the person’s residual capacity, nor to provide adequate compensation to the consequent impairment of autonomy.
questi anni nei vari ambiti normativi1, non sempre è possibile2 cogliere appieno gli elementi della metodologia necessaria per l’impiego razionale di tali delicati strumenti di misura, così come non sempre appaiono evidenti la loro forza, i loro limiti e le ragioni del loro utilizzo3; aspetti che ne rendono l’u-
Nella seduta dell’8 giugno 2016, la Commissione Permanente Industria, Commercio e Turismo del Senato ha approvato, senza modifiche, il testo dell’art. 8 del disegno di legge n. 2085, già approvato dalla Camera dei deputati lo scorso 7 ottobre 2015. La norma, che va a modificare il testo dell’art. 139 del codice delle assicurazioni, demanda ad un futuro d.P.R. da adottare entro 120 giorni la definizione di una tabella unica valida su tutto il territorio nazionale per il risarcimento delle lesioni all’integrità psico-fisica comprese tra 10 e 100 punti. La tabella dovrà essere redatta sulla base dei criteri di valutazione del danno non patrimoniale elaborati dalla consolidata giurisprudenza di legittimità. Il d.d.l. doveva essere portato in discussione finale alle Camere negli ultimi mesi del 2016.
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Fallani, Un punto percentuale di “niente”. Riflessioni sui metodi di individuazione e valutazione del danno alla persona, Bologna, 2006, 10 ss.: «… non condivido l’idea di adottare, per la valutazione del danno alla persona, criteri che prescindano da un’approfondita analisi delle componenti della personalità, che possono essere turbate o compromesse dalla lesione della persona, e del come queste turbe o compromissioni possano realizzare il danno che si deve valutare. Nelle recenti tabelle valutative, compresa quella elaborata per conto dell’INAIL, non si trova traccia delle motivazioni che consentirebbero di valutare in punti percentuali il danno e, soprattutto, non c’è traccia della individuazione dei plausibili fattori di quel danno …».
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1. Il metodo Nelle diverse proposte tabellari per la valutazione dell’invalidità o del danno alla persona, emerse in
Il contributo riprende i contenuti della Relazione tenutasi al Convegno di Trieste «La tabellazione del danno non patrimoniale da lesione all’integrità psico-fisica: evoluzioni giurisprudenziali e normative».
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Va dato atto che nell’ambito della valutazione medico-legale del danno alla persona la necessità di una motivazione del perché di un determinato parere tecnico (la “motivazio-
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so, nell’ambito forense, a volte del tutto carente di certezze assolute e spesso foriero di controversie. I tentativi di giungere a delle definizioni tecnicamente condivisibili, sulle quali basare delle proposte tabellari il più possibile coerenti con le complesse e non sempre lineari (definite da alcuni addirittura telluriche4) evoluzioni normative e giurisprudenziali, a seguito dell’introduzione del “danno biologico”, hanno così assunto spesso la veste di “indicazioni” o “proposte” (sperimentali) come, ad esempio, viene indicato nel caso del Decreto legislativo 23.02.2000 n. 38, art. 135. A ben vedere tale cautela nel proporre indicazioni assolute ha sempre fatto parte della tradizionale cultura medico-legale sulla valutazione del danno; si è infatti quasi sempre fatto riferimento a tabellazioni “indicative”6.
2. Dalla capacità lavorativa al danno biologico Scriveva Melchiorre Gioia nel 1821 che “le ingiurie, i danni, il soddisfacimento si rinnovano
ne” del parere medico-legale) tende inevitabilmente a contrarsi, quanto più la valutazione viene ad essere vincolata a tabellazioni “tassative” e non più orientative. V. Palmieri, Medicina Legale, black out?, in Riv. it. med. leg., 2002, 3, 997 ss.: «Potrebbe essere agevole ricondurre le ridotta cultura medico-legale alla maggior richiesta sul mercato per un’attività finalizzata al risarcitorio, massima espressione di terreno del compromissorio; indubbiamente la cultura del compromesso si contrappone per natura ed istituzione alla cultura del metodo e non vi è dubbio ancora che la tendenza legittima di chi si forma per inserirsi nel mercato del lavoro è quella di adeguarsi alle leggi del sistema, farle proprie e progredire». 4 Fiori, La nuova scossa di assestamento nella travagliata storia del danno alla persona da responsabilità civile, in Riv. it. med. leg., 2006, 3, 714 ss.
Art. 13, comma 1°, d.lgs. 23.2.2000, n. 38: «in attesa della definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento, il presente articolo definisce, in via sperimentale, ai fini della tutela dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, il danno biologico come lesione dell’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico-legale della persona».
5
Bargagna et al., Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente. SIMLA. Milano, 1996, XLII: «Le percentuali di menomazione dell’integrità psico-fisica, o percentuali di invalidità, hanno sempre valore orientativo». 6
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tutti i giorni, e sono tuttora incerte le basi per calcolarli”7. Dopo quasi due secoli questa incertezza di fondo indicata dal Gioia rimane pressoché immodificata per chi ha l’onere di “calcolare”8, quantificare, tradurre in realtà tangibili degli aspetti della condizione umana che spesso sfuggono ad ogni misurazione, a maggior ragione quando il senso delle parole subisce inevitabilmente l’erosione del tempo, per cui a distanza di pochi decenni dei significati, inizialmente dati per acquisiti, trascolorano, assumendo altri contenuti rispetto a quelli originari. Questa incertezza poi aumenta quando l’esigenza di tutela non è più quella nei confronti dell’uomo individuato sin dai tempi di Hammurabi9 in base ad una semplice logica di mercato, per cui di fatto tradizionalmente si è attribuita rilevanza all’individuo esclusivamente in funzione della sua capacità di guadagno10. Il modello più conosciuto, tuttora evocato, è proprio quello del calzolaio di Melchiorre Gioia11, in ciò individuando un approccio rivelatosi nel tem-
7 Gioia, Dell’ingiuria, dei danni, del soddisfacimento e relative basi di stima, Milano, 1821, I, in prefazione. 8 Gentile, voce «Danno alla persona», in Enc. del dir.,1962, XI, 665: «La più grave incertezza e la maggiore difficoltà creata dal risarcimento del danno non patrimoniale è quella che attiene alla sua valutazione». 9 Nelle Tavole di Hammurabi mentre la “soddisfazione” della lesione subita da parte di un uomo libero si basava sulla legge del taglione, lo schiavo aveva già un suo preciso corrispettivo economico tabellato: «196. Qualora un uomo cavi un occhio ad un altro, gli sia cavato un occhio. 199. Qualora un uomo cavi l’occhio dello schiavo di un uomo, o rompa l’osso dello schiavo di un uomo, pagherà metà del valore di esso».
Tradizionalmente nel diritto romano un uomo libero non poteva essere valutato sub specie pecuniae. In tempi più recenti tale principio si evolve nella impossibilità di considerare la persona umana come un bene (come cosa in senso giuridico) commerciabile. Scalfi, Errare humanum est, perseverare diabolicum, in Resp. civ. e prev., 1976, 472 ss. 10
11 Gioia, op. cit., II, 15: «Un calzolajo, per es., eseguisce due scarpe e un quarto al giorno: voi avete indebolito la sua mano in modo che non riesce più a fare che una scarpa: voi gli dovete il valore della fattura di una scarpa, e un quarto moltiplicato pel numero dei giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi».
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po compatibile anche con le forme di tutela previdenziali intervenute successivamente. Con la forma assunta dagli Stati moderni tale modalità valutativa del danno alla persona, basato sul reddito da lavoro, venne così ad armonizzarsi all’interno dei sistemi di Previdenza Sociale, per cui il riferimento alla capacità di lavoro è ancora inserito all’interno di normative vigenti. L’efficacia di tale modello è stata indiscussa finché l’organizzazione del lavoro ha consentito di considerare le attività lavorative in termini generici, riconducibili prevalentemente ad attività di tipo manuale. È stata altresì straordinariamente efficace nella prima metà del Novecento nell’attribuire al lavoratore manuale una dignità simile a quella del combattente12: lo Stato infatti tutelava con modalità simili, “privilegiate”, chi dava il proprio contributo alla comunità nazionale, al fronte o in fabbrica. Dopo il secondo conflitto si sviluppa invece il modello del “welfare state”, che provvede ai bisogni dei cittadini indipendentemente dalla loro condizione di lavoratori e nello stesso tempo, in contrapposizione ai principi di una forma stato in cui i cittadini – operai sono soldati al servizio della nazione in lotta perenne contro i nemici esterni, si impongono i diritti imperniati nella libertà della persona, nell’autodeterminazione e quindi nella possibilità di controllare gli atti effettuati sul proprio corpo e di poterli liberamente scegliere, ed altresì nei diritti volti a garantire la possibilità di usufruire del miglior livello raggiungibile, relativamente al contesto esistenziale proprio di ogni persona, di salute sia fisica che mentale. In ambito di responsabilità civile questo processo si concretizza nella c.d. “costituzionalizzazione” del danno alla salute13, in base agli articoli 2 e 3 e
12 L’autore che forse meglio di altri ha tratteggiato le convergenze del ‘900 tra le figure dell’operaio e del combattente è Ernst JÜNGER, nel suo saggio comparso in Germania nel 1932, «l’Operaio».
V. Busnelli, Il danno biologico dal «diritto vivente» al «diritto vigente», Torino, 2001. In particolare, l’a. afferma: «Fondamentale in questa prospettiva dovrebbe essere il criterio del (contribuire nella misura del possibile a) rimuovere mediante un’adeguata liquidazione del danno alla salute, gli impedimenti di ordine economico e sociale frapposti dal fatto
13
soprattutto ai sensi del primo comma dell’articolo 32 della Costituzione, per cui nella realtà attuale il ristoro del danno non si può più basare solamente sulla perdita reddituale incentrata nell’apprezzamento di una c.d. “capacità lavorativa”, ma va piuttosto individuato attraverso la ricerca di strumenti idonei a garantire il “soddisfacimento” del torto subito ed al ripristino dei diritti essenziali della persona, così come si sono evoluti in epoca moderna e così come sono stati stabiliti nella Carta Costituzionale. Basti considerare14 come a partire dalle prime definizioni contenute nelle sentenze di fine secolo sul “danno biologico” la Cassazione ha sempre posto in rilievo la centralità del “valore uomo nella sua concreta dimensione”, affermando come il danno biologico riguardasse il ‘’valore che non è riconducibile alla sola attitudine a produrre ricchezza, ma è collegato alla somma delle funzioni naturali (le quali hanno rilevanza biologica, sociale, culturale ed estetica, in relazione alle varie articolazioni ambientali in cui la vita si esplica, e non solo economica) afferenti al soggetto”15. Tali definizioni tuttavia presuppongono anche l’idea che la nozione di danno biologico possa
dannoso al pieno sviluppo della persona umana (art. 3, 2° co., Cost.). Tale criterio, a sua volta, tenderà a specificarsi mediante una serie di principi costituzionali desumibili, a seconda dei casi, dall’art. 31, 1° co. (in riferimento a menomazioni che pregiudichino “ la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”); dall’art. 34, 3° co. (in riferimento a menomazioni che pregiudichino il diritto dei “capaci e meritevoli” di raggiungere, anche se privi di mezzi,” i gradi più alti degli studi”); dall’art. 35, 1° co. (in riferimento a menomazioni che pregiudichino la possibilità di “assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”); dall’art. 37, 1° co. (in riferimento a menomazioni che pregiudichino la “essenziale funzione famigliare” della madre e la “ speciale e adeguata protezione del bambino”) […] Il risarcimento del danno alla salute […] mira invece, a restaurare o conservare la dignità sociale (art. 3, 1° co. Cost.) del danneggiato, tutelando in questo senso il suo diritto alla salute; ne consegue che l’entità del risarcimento dovrebbe essere, in linea di tendenza, proporzionale alla gravità degli impedimenti economici e sociali causati dal fatto lesivo». Buzzi, Valdini, Medicina legale e sofferenza fisica e morale, Milano, 2010, 57. 14
15
Cass., 6.4.1983, n. 2396, in Giur. it., 1984, I, 537.
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essere considerata “scientifica prima che medico legale”16, ovvero che si possa considerare come fondata su elementi della realtà naturale misurabili, quantificabili e riproducibili.
3. Un metro controverso Sin dall’inizio, soprattutto in ambito medico legale, emerse con evidenza la difficoltà di individuare strumenti idonei per corrispondere adeguatamente a tale nuovo approccio del diritto. Difficoltà che nasceva altresì dall’esigenza di quantificare il danno relativo alle “funzioni naturali” non solo di rilevanza biologica, ma anche sociale, culturale ed estetica, in relazione alle varie articolazioni ambientali in cui la vita del soggetto si esplica, e che le varie sentenze che via via si susseguivano nonché le pronunce della Corte Costituzionale continuavano a richiamare, lasciando ovviamente ai tecnici, ai medici legali, l’arduo compito di individuare il metro più appropriato per misurarle. Le cause di queste difficoltà sono molteplici, ma ci sembra opportuno sottolineare alcune criticità che tuttora non appaiono superate e che indubbiamente hanno contribuito ad accentuare la difficoltà di individuare dei parametri pienamente condivisi. Un primo elemento critico è insito in un principio ben radicato nei sistemi normativi di molti Paesi europei, tra cui il nostro, derivati dal code civil francese: se è vero che tutti gli uomini sono uguali la stessa lesione determina conseguenze simili in tutte le vittime e le conseguenze economiche17
Petti, Risarcimento del danno da lesioni micropermanenti, Santarcangelo di Romagna, 2006, 81.
16
17 V. Cacace, Il calcolo a punto francese: applicazioni e contraddizioni, in Comandè, Domenici, La valutazione delle macropermanenti, Pisa, 2005, 77: «Si tratta della confusione fra il physiologique e l’économique e dell’applicazione di un falso postulato, secondo il quale le stesse lesioni traumatiche presenterebbero le medesime conseguenze per tutte le vittime e a prescindere dall’attività professionale esercitata. Peraltro, non sempre il verificarsi di determinate lesioni permanenti comportano un danno patrimoniale: basti pensare al pensionato, a colui che vive di rendita, ovvero ai soggetti che riprendono l’esercizio della propria precedente professione, senza alcuna diminuzione delle loro entrate. Di contro, vi sono ipotesi in cui l’assenza di un’attività lavorativa non esclude la riparazione dei gains manqués: si consideri, per esempio, la perte
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sono proporzionali alla percentuale di incapacità funzionale rilevata, e pertanto appare del tutto razionale rapportare a dei valori percentuali dei segmenti e delle funzioni corporee, perlomeno in relazione ad una cerchia di atti minimi, ma essenziali e comuni a tutti. È un approccio che evidentemente aveva dimostrato nel tempo anche la capacità di fornire una risposta a molte esigenze pratiche; si evitavano risarcimenti eccessivi, si disponeva di una regola di una giusta misura uguale per tutti, si facilitavano le soluzioni transattive tra le parti. Tuttavia l’ampliamento della tutela risarcitoria degli interessi lesi18, intervenuta nel nostro ordinamento, affidata, a seguito dell’introduzione del danno alla salute, alla categoria di diritti costituzionali inviolabili, dotati di grande flessibilità e rilevanti sia ai fini di una tutela della libera esplicazione del valore uomo in termini di dignità, sviluppo ed espressione di sé, sia nell’ambito dell’esplicazione sociale, della coesistenza di libertà e diritti19, finiva per rendere indubbiamente tale approccio obsoleto. Tale ampiezza della tutela risarcitoria rende ovviamente molto problematico ogni tentativo di individuare una adeguata modalità di misura del “danno”, e tale difficoltà diventa ancor più evidente con l’inclusione, a seguito delle sentenze delle S.S.U.U. civili del novembre 200820, sul piano risarcitorio, del danno morale e della “componente esistenziale del danno”, qualora abbia come presupposto il danno biologico21.
de la capacité de travail di un bambino, la casalinga, le cui occupazioni non sono certo prive di un valore economico, relativamente al costo dell’assunzione di una domestica, oppure la donna che, dopo aver cresciuto i propri figli, matura il progetto di riprendere una professione e vede il suo piano irrimediabilmente compromesso dall’accadimento dannoso». Angeletti, Il danno esistenziale a cinque anni dalle Sentenze di San Martino: il dibattito sui nomina juris, in Riv. it. med. leg., 2014, 1332 ss.
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19 Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la sostanza dei danni non patrimoniali, in Foro it., 2009, 139 ss. 20 Conosciute anche come Sentenze di San Martino (sent. 11 novembre 2008, n. 26972 ss.). 21 Linee guida della SIMLA per la valutazione medico-legale del danno alla persona in ambito civilistico, a cura di Buzzi, Milano, 2016, 4.
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Si sarebbe addirittura prodotta una “disinvolta ibridizzazione concettuale”22 foriera di rimettere in discussione la negazione della moltiplicazione delle poste, faticosamente raggiunta in questi anni e tradotta, nella prassi risarcitoria, nella valutazione percentualista del danno biologico che racchiude in sé tutte le componenti del danno extrapatrimoniale. Un altro fattore che certamente non ha contribuito all’individuazione di uno strumento valutativo del tutto condiviso, sia da parte dei medici che da parte dei giuristi, consiste in una sostanziale ed ormai storica “incomprensione”23 tra medici legali24 e giuristi25, che si è trascinata per decenni e
Linee guida della SIMLA, a cura di Buzzi, cit., 5: «Questa ibridazione risulta evidente nel seguente passaggio della sentenza n. 20292/2012 (Cass. Civ., Sez. III, del 20/11/2012), nel quale la Suprema Corte ha ripreso la “classica tripartizione” del danno non patrimoniale, affermando che il danno biologico (cioè la lesione della salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile esistenziale e consistente nel peggioramento nella condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l’illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono pregiudizi non patrimoniali, ontologicamente diversi e tutti risarcibili. Secondo questa impostazione gli aspetti dinamico-relazionali acquisirebbero una propria consistenza ontologica, non essendo più “soltanto” elementi costitutivi del danno biologico, ma configurando addirittura un autonomo “danno dinamico-relazionale”, da risarcirsi separatamente ed ulteriormente rispetto al danno biologico e al danno morale». 22
Stella, Le incomprensioni fra scienza giuridica e scienza medico-legale. Un pericolo da scongiurare, in Riv. it. med. leg., 1979, 7 ss.
23
24 Franchini, Nuovi criteri di valutazione medico legale del danno biologico di rilevanza patrimoniale, in Riv. it. med. leg.,1981, 304: «Come hanno osservato acutamente Monetti e Pellegrino (Per un nuovo metodo di liquidazione del danno alla persona, in Diritto e pratica nel sinistro stradale, 1974) si assiste ad una vera e propria abdicazione alla propria responsabilità da parte di studiosi e tecnici del Diritto i quali nei rispettivi campi di competenza non hanno compiuto e non compiono nessuna di quelle valutazioni che la logica vorrebbe complementari a quelle del medico, ma si limitano a ratificarlo sanzionando un calcolo che è stato necessariamente astratto. Sulla base di questa incomprensione si trova una spiegazione convincente delle accese critiche che i giuristi rivolgono ai medici legali e viceversa. È la vecchia storia della castagna bollente da togliere dal fuoco ed un lampante esempio di quelle che nel fasc. 1-2 del 1979 di questa Rivista Federico Stella ha chiamato le incomprensioni fra scienza giuridica e scienza medico-legale: un pericolo da scongiurare».
Petti, op. cit., 80: «Il deficit culturale della medicina legale era palpabile, nei vari congressi medico legali cui partecipavo da almeno un decennio, per la pretesa medico legale di essere
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che tuttora permane, tra le varie cose anche per quanto riguarda il diverso modo di interpretare la valutazione ed il significato stesso di danno alla salute e di danno biologico26.
4. Valutare ciò che resta Un’altra difficoltà deriva dal fatto che la valutazione del danno alla persona, proprio in quanto conseguenza di una azione antigiuridica, tradizionalmente non si è mai posta in termini di ricerca del valore-uomo in sé, ossia della individuazione di quegli elementi legati anche a modificazioni ed adattamenti dinamici, che caratterizzano, proprio in relazione alle perdite ed ai danni (the slings and arrows esistenziali27), la natura umana (ad esempio, la c.d. “resilienza”28).
i titolari della “verità scientifica” di un accertamento essenzialmente valutativo e per equivalente economico, che presupponeva, alla base, la percezione della costituzionalizzazione della persona umana e dei suoi diritti e delle sue libertà e delle sue capacità espansive. Appariva eccessivo, ai più dei medici legali, dare alla problematica estimatoria una cornice costituzionale, malgrado i vari pronunciamenti della Corte Costituzionale che dal 1979 in poi si erano succeduti a conforto delle tesi enunciate dai giudici di merito e convalidate dalle sezioni civili della Cassazione e persino da quelle penali, nel caso di costituzione di parte civile. Da questo deficit derivava poi inevitabilmente un deficit di risposta ai quesiti tecnici, specie quando a formularli (nella prassi) era il perito penale o il consulente di ufficio, ovvero il giovane giudice, inesperto di nozioni mediche, che si affidava a formule sintetiche e generiche, dando così al medico legale un mandato in bianco». 26 Emblematica la Sentenza della Pretura di Crema, citata da Introna, La valutazione medico-legale del danno alla persona fatta per legge, in Riv it. med. leg.,1991, 360: «Il danno biologico è una voce di danno la cui nozione è per intero frutto di elaborazione giurisprudenziale senza che alla sua costruzione abbia in alcun modo contribuito la medicina legale….nulla di più errato pertanto da parte del medico legale, della pretesa di fornire al giudice la espressione numerica percentualizzata del danno biologico». 27 Shakespeare, The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, (monologo) atto 3°, sc. 1, 3.
È di comune osservazione il fatto che nonostante l’esposizione a traumi psichici molte persone continuino ad avere esperienze emotive positive e mostrino invece solamente lievi e transitori deficit nel loro funzionamento psichico (Koch et al, Psychological injuries: Forensic assessment, treatment, and law, New York, 2006). Secondo Bonanno, Loss, Trauma, and Human Resilience (2004) 59 American Psychologist 1, 20 ss., «la resilienza rappresenta un percorso distinto rispetto al nor28
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Infatti questa ricerca quasi sempre si è posta nell’ottica di individuare condizioni esclusivamente negative in atto per la perdita sofferta, considerata essenzialmente nel rapporto economico con il mondo esterno, in base alla tradizionale e consolidata cultura imperniata sulla valutazione “patrimoniale” del danno29. Questa impostazione, basata esclusivamente su tipologie di “perdite” che incidono in modo ben apprezzabile sotto il profilo economico, ha sempre palesato con maggior evidenza i suoi limiti soprattutto nella valutazione delle funzionalità più complesse, come ad esempio le attività psichiche ed intellettive30. Un realistico apprezzamento delle conseguenze delle menomazioni di natura psichica e delle menomazioni più importanti infatti deve necessariamente prendere in esame cosa resta e soprattutto cosa è ancora concretamente utilizzabile da parte della persona. D’altra parte la valutazione percentuale del danno biologico presuppone inevitabilmente il riferimento ad una normalità “media” della condizione presa in esame. E ogni qualvolta ci si confronta con il problema della preesistenza o dell’età o delle condizioni peculiari che in qualche modo influiscono nella valutazione percentualistica del danno, proprie del soggetto esaminato, il riferimento ad un valore puntuale risulta grossolanamente limitato, sino all’iniquità. Se l’attenzione valutativa venisse spostata non tanto alla funzionalità “media” quanto piuttosto alla concreta possibilità di fare o non fare della persona non ci sarebbe più spazio per situazioni
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incongrue, quali quelle, per esempio, che vedono un residuo di valore tabellare “biologico” della persona in situazioni in cui vi è una pressoché totale perdita di autonomia. Infatti, un danno di natura psichica o intellettiva, quantificabile ad esempio, funzionalmente nella misura di un terzo, lascia effettivamente – in una realtà come quella attuale sempre più orientata in attività incentrate prevalentemente sulla dimensione psichica ed intellettiva – una capacità di utilizzo di due terzi? E sempre con particolare riguardo alla valutazione della sofferenza di natura psichica (ma non solo) appare ineludibile l’esigenza di poter disporre di una valutazione basata su competenze medico legali, ma anche supportata da nozioni specifiche di altre discipline, senza le quali ogni valutazione rischia di essere non esaustiva, soprattutto tenendo conto della non facile apprezzabilità tra il confine della sofferenza psichica e del danno morale31. Se la natura del bene giuridicamente rilevante, la cui lesione è oggetto di ristoro32, è la salute costituzionalmente intesa, appare evidente la sua complessità ed anche la sostanziale fallacia33, emergente in più sentenze, di attribuire “pigramente”34 all’interno di un unico valore numerico tabellare, per quanto convenzionalmente condiviso per ovvie esigenze pratiche, l’insieme delle molteplici sfaccettature di cui è composta la persona umana. La modalità risarcitoria consiste in una convenzione e quindi va individuata la convenzione più equa ovvero maggiormente rispondente alla con-
31
Linee guida della SIMLA, a cura di Buzzi, cit., 115 ss.
Domenici, Il calcolo a punto: le ragioni medico legali, in Comande’, Domenici, La valutazione delle macropermanenti, cit., 157 ss. 32
male processo di guarigione e spesso emergono delle traiettorie diverse ed inaspettate». La resilienza è stata impiegata in particolare per spiegare il fatto che pur essendo non trascurabile la percentuale di persone sottoposte nell’arco della loro vita ad eventi traumatici, solo in minima percentuale esse sviluppano una c.d. PTDS (Post Traumatic Distress Syndrome). Introna, Scorretti, Il problema dei falsi invalidi, in Atti Convegno Comlass 14-16 maggio 2004, Parma, 2005, 373 ss.
29
Introna, Il deterioramento mentale su base organica: valutazioni medico legali diverse in ambiti diversi, in Riv. it. med. leg., 2000, 143: «… dopo aver calcolato “quanta abilità è andata perduta” si dovrebbe illustrare “quanta validità è residuata e come può essere utilmente impiegata”…».
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Significativa e provocatoria in tal senso l’espressione dell’”incapienza” del danno morale all’interno del danno biologico, comparsa nella sentenza Cass., 9.6.2015, n. 11851 (Est. Travaglino). 33
V. anche Comandè, Incontro di studio sul tema “La nuova categoria del danno non patrimoniale”, Roma, 17-19 giugno 2009, presso il Consiglio Superiore della Magistratura: «in caso di compresenza di danno biologico e di danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti inviolabili altri rispetto alla salute, il pregiudizio non patrimoniale non potrà essere pigramente ridotto ad una quota parte del danno biologico medesimo».
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dizione della persona nell’attuale contesto sociale e relazionale. Essenziale poi diviene la collocazione culturale ed ambientale in cui si svolge la vicenda umana posta sotto la lente della giustizia: eventi ritenuti dannosi in passato oggi non lo sono più, così come aspetti dell’esistenza che una volta non erano presi in considerazione oggi vengono considerati maggiormente degni di attenzione35.
5. L’esigenza di distinguere Se questa esigenza di distinguere appare molto evidente in ambito giuridico – dove spesso diviene centrale all’interno di un dibattito talvolta assai vivace, attualmente imperniato soprattutto sul fatto che, nell’applicazione pratica dell’attuale impianto tabellare, si tende spesso a far confluire in modo improprio la quantificazione relativa a diverse forme di danno in un unico punto36 – la necessità di operare delle distinzioni non appare con altrettanta evidenza in chi si occupa in modo più specifico degli aspetti che rientrano nel dominio delle competenze medico legali. In questo confronto apparentemente da addetti ai lavori, alimentato in parte dalla dialettica contrapposta di interessi confliggenti fra chi deve risarcire e chi ritiene di dover essere risarcito, si gioca anche la ricerca del valore-uomo con la difficoltà ad individuare, per il medico legale, parametri che egli sente alieni, ostacolato come è da una logica lineare di valutazione del “danno”. Infatti da un lato ciò può essere ricondotto alla relativa fissità e ad una sostanziale irreversibilità per alcune menomazioni, che poco o nulla cambiano nel tempo nonostante l’evoluzione scientifica (si pensi ad esempio alla costante e pressoché uniforme valutazione che viene mantenuta per alcune amputazioni). Dall’altro anche alla difficoltà di introdurre ed adottare nell’ambito valutativo medico legale criteri che
35
Comandè, op. cit., 5.
Ziviz, Verso la conferma normativa dell’onnicomprensività delle tabelle (non aggiornate!) di cui agli artt. 138 e 139 Cod. Ass, in www.personaedanno.it; Id., Nonostante dubbi di costituzionalità le tabelle normative estendono il raggio di azione, in www.personaedanno.it. 36
richiedono sempre di più una valutazione non tanto di un segmento o di un organo perduto, quanto piuttosto la valutazione della compromissione della sua specifica funzionalità, e quindi anche l’introduzione di criteri non solamente metrici o morfologici, facilmente riproducibili e condivisibili anche in un’aula di giustizia, ma piuttosto di parametri tecnici altamente specialistici, spesso correttamente interpretabili solamente all’interno di competenze del tutto specifiche. Basti considerare la non sempre facile lettura ed interpretazione dei risultati di quanto emerge dalle nuove tecnologie in campo biomedico o dalle apparenti evidenze macroscopiche introdotte dalle nuove tecniche di imaging. Diviene quindi sempre più netta in tal modo la quasi irrilevanza, all’interno di un procedimento giudiziale, di un parere medico-legale del tutto autonomo ed autoreferenziale, privo degli essenziali apporti tecnici che derivano dalle competenze specialistiche richieste nel caso in esame. La medicina legale attuale, molto più che nel passato, dovrà cercare sempre di più di fornire al giudicante pareri interdisciplinari, come già la codificazione deontologica medica attuale37 prescrive con estrema chiarezza nei casi di responsabilità medica.
Art. 62 del vigente codice di Deontologia Medica (2014): Attività medico-legale: L’attività medico legale, qualunque sia la posizione di garanzia nella quale viene esercitata, deve evitare situazioni di conflitto di interesse ed è subordinata all’effettivo possesso delle reciproche competenze richieste dal caso. L’attività medico-legale viene svolta nel rispetto del Codice; la funzione di consulente tecnico e di perito non esime il medico dal rispetto dei principi deontologici che ispirano la buona pratica professionale, essendo in ogni caso riservata al giudice la valutazione del merito della perizia. Il medico legale, nei casi di responsabilità medica, si avvale di un collega specialista di comprovata competenza nella disciplina interessata; in analoghe circostanze, il medico clinico si avvale di un medico legale. Il medico, nel rispetto dell’ordinamento, non può svolgere attività medicolegali quale consulente d’ufficio o di controparte nei casi nei quali sia intervenuto personalmente per ragioni di assistenza, di cura o a qualunque altro titolo, né nel caso in cui intrattengaun rapporto di lavoro di qualunque natura giuridica con la struttura sanitaria coinvolta nella controversia giudiziaria. Il medico consulente di parte assume le evidenze scientifiche disponibili interpretandole nel rispetto dell’oggettività del caso in esame e di un confronto scientifico rigoroso e fondato, fornendo pareri ispirati alla prudente valutazione della condotta dei soggetti coinvolti. 37
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6. Una valutazione in sintonia con l’evoluzione scientifica La necessità di un ampliamento degli strumenti tecnico-scientifici finalizzati alla valutazione del danno biologico emerge con crescente evidenza ogni qual volta viene preso in considerazione il deficit di funzione, in particolar modo nell’ambito delle menomazioni del sistema nervoso centrale38 e soprattutto nella valutazione del “danno biologico” dovuto a menomazioni di natura psichica e relazionale39. Ovvero quando si immagina di evidenziare i risvolti relazionali di menomazioni che riguardano segmenti od organi. Nella valutazione di determinate categorie di macrodanni e soprattutto quando le loro conseguenze riducono o abbattono l’autonomia e la dignità delle vittime, appare evidente la scarsa congruità di un preciso riferimento tabellare. Già Fiori40 introduceva un principio di “focalità” per cui determinate condizioni post-traumatiche si ripercuotono nella complessiva validità della persona molto di più di quanto è possibile stabilire in base ad una pura valutazione funzionale: «… non è in alcun modo giustificabile l’abbassamento operato nella tariffazione di organi di primaria importanza anatomo-funzionale quali il rene, un testicolo, la milza, il fegato, l’organo dell’equilibrio e così via. Sotto il profilo dell’integrità psicofisica della persona la loro svalutazione non è scientificamente giustificata e quindi non è medico legalmente accettabile». Tale ripercussione globale sfocia molto spesso in una ben apprezzabile perdita di autonomia, per cui si rende necessaria la presenza di una terza persona. Ed allora ecco riaffacciarsi il problema di come apprezzare non solamente una percentuale di danno “biologico”, per quanto in parte legittimato dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale nel fungere da parametro contenitore di conseguenze nell’ambito relazionale e morale, ma altresì una lesione evidente della dignità della
Introna, I traumi cranici; diagnosi polispecialistica e valutazione medico-legale, in Riv. it. med. leg., 1998, 119 ss.
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persona umana, bene principe tra quelli tutelati dal dettato Costituzionale. Che tale tipo di danno sfugga ad ogni tentativo di percentualizzazione lo dimostra il fatto che la capacità di adattamento alla perdita di autonomia sia in molte persone inferiore alla capacità di tollerare il dolore, emergendo addirittura come la principale motivazione delle richieste eutanasiche nei pazienti terminali41. A ben vedere si tratta di un dibattito non recente, che si pone alla radice del mondo moderno, con la necessità irrinunciabile per la nascente medicina basata su dati scientifici di distinguere cartesianamente tra il corpo - res extensa, misurabile, quantificabile, rappresentabile, e la psiche, res cogitans, irrappresentabile ed incommensurabile. Tuttavia spetterebbe proprio alla medicina legale più che ad altre discipline il compito di ricomporre l’unità inscindibile della persona umana come realtà oggetto di diritti non negoziabili. È comprensibile, peraltro, la difficoltà di un passaggio così tumultuoso da una valutazione del danno alla persona in riferimento alla capacità di produrre reddito, ai riferimenti normativi imperniati sul processo di costituzionalizzazione del danno alla salute; così come evidenti appaiono le esigenze di salvaguardia degli interessi economici delle aziende finanziarie (assicurazioni) che hanno il compito di mantenere il delicato equilibrio economico e gestionale delle loro strutture. Non ci si può quindi sottrarre all’onere di ricercare un metodo che non sia unicamente un adattamento alla mutata realtà, quanto piuttosto una proposta coerente con quanto le conoscenze attuali ci mettono a disposizione. È questa distinzione che ha creato la medicina attuale, una realtà in cui ciò che non è misurabile non esiste, in cui la medicina si basa sull’evidenza di fatti quantificabili, riproducibili, misurabili, piuttosto che su una generica e talvolta rischiosa42 “arte medica”, legata ad una soggettività individuale spesso incommensurabile e non riproducibile.
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Linee guida della SIMLA, a cura di Buzzi, cit., 115 ss.
40 Fiori, Le guide per la valutazione quantitativa del danno alla persona, il 100° di invalidità permanente e la morte, in Riv. it. med. leg., 2000, 919 ss.
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Emanuel et al., Attitudes and Practices of Euthanasia and Physician-Assisted Suicide in the United States, Canada, and Europe (2016) 316 JAMA 1, 79 ss.
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42 Sackett (1996) 312 British Medical Journal 71ss.: famosa la sua espressione riferita all’arte medica: “art kills”.
g g sa re La responsabilità penale e pa Saggi e pareri Saggi e pareri
del professionista sanitario tra etica del diritto ed etica della medicina Elisabetta Palermo Fabris
Già professoressa nell’Università di Padova Abstract: Il contributo esamina i tratti essenziali della recente riforma sulla responsabilità penale degli esercenti le professioni sanitarie, introdotta con la legge c. d. “Gelli – Bianco” dell’8 marzo 2017 n. 24, attraverso l’inserimento nel codice penale dell’art. 590 sexies. Valutati gli aspetti critici della nuova previsione normativa, viene posta in rilievo l’esigenza di percorsi applicativi, da parte della giurisprudenza penale, in grado di dare attuazione agli intenti che hanno ispirato la complessiva nuova normativa. L’obiettivo perseguito, infatti, è quello di garantire la sicurezza delle cure, rispettando l’evoluzione di un sapere medico coniugato «more scientifico» e “more umano», all’insegna della tutela del paziente nella sua specifica individualità. The paper examines the essential features of the recent reform of the criminal liability of health professionals, introduced by the Act of March 8, 2017 n. 24 (“Gelli - Bianco”). The Act introduced a new article, art. 590 sexies, in the Italian Criminal Code. While assessing the critical aspects of the new regulatory framework, the author emphasizes the need for criminal case-law to develop “application paths” adequate to the implementation of the intentions that inspired the overall new legislation. The aim pursued by the Legislator is to ensure the safety of the treatments, while respecting the evolution of a medical knowledge more scientifico and more umano, in each individual patient’s specific interests.
La legge Gelli – Bianco (“Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”), di recentissima approvazione (l. 28 febbraio 2017, n. 24), contiene, indubbiamente, previsioni importanti sotto il profilo della sicurezza delle cure e dell’attenzione verso la persona assistita, ma appare a chi scrive non pienamente soddisfacente per disciplinare in termini chiari i presupposti della responsabilità penale per colpa dei professionisti sanitari1.
Per i primi commenti alla legge, nei quali trovano conferma le perplessità che andremo ad esporre in ordine alla nuova previsione normativa inserita nel codice penale, si rinvia a Caletti, Tra “Gelli-Bianco” e “Balduzzi”: un itinerario tra le riforme in tema di responsabilità penale colposa del sanitario, in questa Rivista, 2017, 1, 97 ss.; Caletti, Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, in Dir. pen. cont., 9 marzo 2017; Cupelli, Lo statuto penale della colpa medica e le incerte novità della legge Gelli – Bianco, ivi, 3 aprile 2017; D’Alessandro La responsabilità penale del sanitario alla luce della riforma “Gelli – Bianco”, in Dir. pen. e proc., 2017, 573 ss.; Piras, Imperitia sine culpa non datur, a proposito del nuovo art. 590 sexies c.p. Sul testo unificato della proposta di legge n. 259-262-1312-1324-1581-1769-1902-2155-b, approvata in via definitiva dalla camera dei deputati il 28 febbraio 2017 (“Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”), in Dir. pen. cont., 1 marzo 2017. Per un commento al disegno di legge, nella versione (identica a quella definitiva) approvata al Senato lo scorso 11 gennaio, con accenti critici, cfr. Basile, Un itinerario giurisprudenziale sulla responsabilità medica 1
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La nuova disciplina è stata introdotta, con una tecnica ormai ricorrente, attraverso l’inserimento di un nuovo articolo nella parte speciale del codice penale2. L’interprete deve necessariamente chiedersi se il nuovo testo normativo sia migliorativo della precedente previsione (quella contenuta nella c.d. legge Balduzzi), così com’era nelle intenzioni del legislatore e come si può evincere dal lungo dibattito che lo ha preceduto. E soprattutto se la novella abbia la capacità di dirimere le complesse questioni che da sempre impegnano medici e giuristi sulla responsabilità colposa dei professionisti sanitari, al punto che l’indagine sulla colpa nello svolgimento dell’attività medico-chirurgica ha costituito negli ultimi anni uno dei banchi di prova della tenuta stessa di tale categoria normativa3. L’attenzione non può che concentrarsi sul secondo comma della nuova previsione e per poterne cogliere il significato è necessario ripercorrere tut-
colposa tra art. 2236 cod. civ. e Legge Balduzzi (aspettando la riforma della riforma), in Dir. pen. cont., 23 febbraio 2017; Caputo, Centonze, La risposta penale alla malpractice: Il dedalo di interpretazioni disegnato dalla riforma Gelli – Bianco, in Riv. it. med. leg, 2016, 1361 ss.; Cupelli, Alle porte una nuova responsabilità penale degli operatori sanitari. Buoni propositi, facili entusiasmi, prime perplessità, Dir. pen. cont., 16 gennaio 2017; Poli, Il ddl Gelli-Bianco: verso un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del medico ai principi costituzionali?, ivi, 20 febbraio 2017. 2 Caletti, Mattheudakis, op. cit., che, analizzando il fenomeno della “‘specializzazione’ della responsabilità penale per colpa”, riconducono l’ipotesi in esame nell’alveo degli interventi attuati “nel segno della contrazione della penalità”; D’Alessandro, (op. cit., 576), commentando l’art. 590 sexies c.p., lo considera l’“ultimo prodotto di una stagione di continua gemmazione di ipotesi speciali di reati colposi contro la vita e l’incolumità individuale”.
La produzione sul tema è quanto mai vasta, ci limitiamo ad un rinvio a La gestione del rischio in medicina. Profili di responsabilità nell’attività medico-chirurgica, a cura di Canestrari, Fantini, Milano, 2006; Medicina e Diritto Penale, a cura di Canestrari, Giunta, Guerrini, Padovani, Pisa, 2009; Castronuovo, Ramponi, Dolo e colpa nel trattamento medico-sanitario, in Le responsabilità in medicina, a cura di Belvedere, Riondato, nel Trattato di Biodiritto, diretto da Zatti, Rodotà, Milano, 2011, 971 ss.; Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009; Palazzo, Causalità e colpa nella responsabilità medica (categorie dogmatiche ed evoluzione sociale), in Cass. pen., 2010, 1229 ss.; Id., Responsabilità medica, “disagio” professionale e riforme penali, in Dir. pen. proc., 2009, 1061.
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to l’iter che ha portato alla sua formulazione. Mai come in questo caso la mera interpretazione letterale, non adeguatamente sorretta da quella logica e teleologica, si rivela del tutto insufficiente a dare un significato al testo normativo. Ad una prima lettura, infatti, l’affermazione di un “evento” che “si sia verificato a causa di imperizia”, nonostante da parte del professionista sanitario vi sia stato il rispetto delle “raccomandazioni previste nelle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge” e per di più, come espressamente richiesto dal legislatore, le stesse si rivelino “adeguate alla specificità del caso concreto”, “ovvero, in mancanza di queste”, siano state rispettate “le buone pratiche cliniche assistenziali”, appare un ossimoro di difficile comprensione. Delle due l’una: o vi è stata una condotta che è possibile qualificare “imperita” (causa dell’evento lesivo), o vi è stato il rigoroso rispetto delle linee guida accreditate, adeguate al caso concreto, e/o delle buone pratiche cliniche ed allora non sussiste “imperizia”4. Se si opta per la prima alternativa si pone il problema di spiegare le ragioni della non punibilità di una condotta qualificata “imperita” ed a causa della quale si è verificato l’evento lesivo. Nella seconda alternativa, l’esclusione della possibilità di ritenere la condotta imperita, dovrebbe portare a spiegare la non punibilità per difetto della stessa condotta tipica. Per cercare di dare un senso a tale nuova disciplina e, possibilmente, un senso che dia ragione di una riforma a lungo pensata e nell’intento del legislatore, come già anticipato, migliorativa rispetto alla precedente previsione, si deve necessariamente partire da quest’ultima. La c.d. legge Balduzzi è stato un primo tentativo di dare risposta all’annoso problema del conten-
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Già in tal senso, con riferimento all’art. 3 della legge Balduzzi, Manna, I nuovi profili della colpa medica in ambito penale, in Riv. trim. dir. pen. economia, 2013, 99; Piras, In culpa sine culpa. Commento all’art. 3 I co. l. 8 novembre 2012 n. 189, in Dir. pen. cont., 26 novembre 2012. In tale norma tuttavia il rinvio alle linee guida era orientativo e non tassativo per il giudice e restava comunque aperta la possibilità di una non corretta applicazione delle linee guida adottate al caso concreto, richiesta invece nell’attuale previsione normativa quale requisito ulteriore per escludere la punibilità. 4
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zioso medico ed al conseguente fenomeno della medicina difensiva5 e, nonostante le critiche che le sono state mosse, nei pochi anni di vigenza ha generato buone prassi giurisprudenziali ed ha indubbiamente favorito un proficuo dibattito fra classe medica e mondo giuridico6. La risposta si è coagulata nei due punti essenziali: a) del riferimento alle linee guida ed alle regole di buona pratica clinica, intese come parametro con il quale confrontarsi per valutare la correttezza del trattamento sanitario, oggetto di valutazione da parte del giudice; b) della esclusione di responsabilità per la mera colpa lieve. A fronte della rapida evoluzione della medicina e della sempre maggior complessità sia della diagnostica che degli interventi terapeutici, il mondo medico ha abbracciato la strada di positivizzare in raccomandazioni scritte i criteri per le diverse procedure e per i più svariati interventi sanitari. Era inevitabile che la giurisprudenza attingesse a tali fonti per abbracciare un sapere che fatica ad essere ricondotto alle nozioni classiche della prevedibilità e dell’evitabilità dell’evento lesivo riferite, rispettivamente, alla miglior scienza ed esperienza ed al parametro dell’uomo eiusdem professionis et conditionis del soggetto agente. Già prima dell’entrata in vigore del testo norma-
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tivo del 2012, numerose sentenze avevano infatti recepito il valore delle linee guida, alla ricerca di norme scritte e di dati oggettivi che fossero di ausilio, al di là delle convinzioni del singolo perito e/o consulente tecnico7. Il travaso nel testo normativo, tuttavia, ha costretto i giudici a confrontarsi con le linee guida, generando una giurisprudenza, che in alcuni casi è possibile definire virtuosa, nella quale si è cercato di mettere a fuoco le caratteristiche che le stesse dovessero possedere per poter costituire fondamento dall’esenzione da colpa. Verrebbe da dire che “eticamente” la scelta di percorrere tale via normativa si imponeva, tenendo conto dell’incertezza più assoluta che domina il settore dell’accertamento della responsabilità colposa del medico. Come è stato efficacemente detto il giudice è consumatore e non produttore di leggi scientifiche e di prescrizioni cautelari8, e se ci si chiede dove egli possa rinvenire la fonte precostituita alla stregua della quale gli sia poi possibile articolare il giudizio senza surrettizie valutazioni a posteriori, la risposta può essere una sola: la scienza e la tecnologia sono le uniche fonti certe, controllabili, affidabili. Così come testualmente si è espressa la giurisprudenza nel vigore della
Fra le altre si v. Cass. pen., 19.9.2012, n. 35922: “È innegabile la rilevanza processuale delle linee guida, siccome parametro rilevante per affermare od escludere profili di colpa nella condotta del sanitario. Va chiarito, però, che la diligenza del medico non si misura esclusivamente attraverso la pedissequa osservanza delle stesse”. “Le linee guida non possono fornire indicazioni di valore assoluto ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale responsabilità del sanitario, per la libertà di cura, che caratterizza l’attività del medico, in nome della quale deve prevalere l’attenzione al caso clinico particolare. Non si può, pertanto, pregiudizialmente escludere la scelta consapevole del medico che ritenga causa cognita di coltivare una soluzione terapeutica non contemplata nelle linee guida”.
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Sul tema della medicina difensiva, ex pluris, si v. Bartoli, I costi “economico-penalistici” della medicina difensiva, in Riv. it. med. leg., 2011, 1107 ss.; Fiandaca, Appunti su causalità e colpa nella responsabilità medica, in Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa (un dialogo con la giurisprudenza), a cura di Bartoli, Firenze, 2010, 183 ss; Forti, Catino, D’Alessandro, Mazzucato, Varraso, Il problema della medicina difensiva, Pisa, 2010; Forti, “Decreto Balduzzi” e responsabilità del medico: un traguardo raggiunto o un quadro in movimento? - Il “quadro in movimento” della colpa penale del medico, tra riforme auspicate e riforme attuate, in Dir. pen. proc., 2015, 735 ss.; Manna, Medicina difensiva e diritto penale. Tra legalità e tutela della salute, Pisa, 2014; Roiati, Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale. Tra teoria e prassi giurisprudenziale, Milano, 2012. 5
Caletti, La colpa professionale del medico a due anni dalla Legge Balduzzi, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, n. 1, 170 ss.; Di Giovine, In difesa del c. d. decreto Balduzzi, in Arch. pen., 2014, 3 ss.; Pulitanò, Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum legislativo, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., n. 4, 2013, 73 ss. 6
Valga qui per tutti il riferimento a Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975, rist. 1990; Id., Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2003. Sulla specifica tematica di un accertamento modellato in ordine ai trattamenti sanitari, si v. Di Giovine, Trattamento medico-sanitario e causalità nel diritto penale (Introduzione), in Le responsabilità in medicina, a cura di Belvedere, Riondato, cit., 715 ss.; Billo, Causalità e applicazioni giurisprudenziali, ivi, 745 ss. 8
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legge Balduzzi, le linee guida accreditate operano come “direttive scientifiche per l’esercente le professioni sanitarie e la loro osservanza costituisce uno scudo protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente errori commessi nel processo di adeguamento del sapere codificato alle peculiarità contingenti”. “Le linee guida costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato, metabolizzato, reso disponibile in forma condensata, in modo che possa costituire un’utile guida per orientare agevolmente, in modo efficiente ed appropriato, le decisioni terapeutiche. Si tenta di oggettivare, uniformare le valutazioni e le determinazioni e di sottrarle all’incontrollato soggettivismo del terapeuta”. “Non si tratta tanto di comprendere quale sia il pur qualificato punto di vista del singolo studioso, quanto piuttosto di definire, ben più ampiamente, quale sia lo stato complessivo delle conoscenze accreditate. Pertanto, per valutare l’attendibilità di una tesi occorre esaminare gli studi che la sorreggono, l’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività delle ricerche, il grado di consenso che l’elaborazione teorica raccoglie nella comunità scientifica”. “Il giudice, con l’aiuto degli esperti, individua il sapere accreditato che può orientare la decisione e ne fa uso oculato, metabolizzando la complessità e pervenendo ad una spiegazione degli eventi che risulti comprensibile da chiunque, conforme a ragione ed umanamente plausibile”9.
9 Cass. pen., 9.4.2013, n. 16237, imp. Cantore, in Dir. pen. cont., 11 aprile 2013, v. ivi presentazione di Viganò (Linee guida, sapere scientifico e responsabilità del medico in una importante sentenza della Cassazione) che parla di una pronuncia “destinata a divenire un punto di riferimento obbligato per la riflessione futura in materia di responsabilità penale del medico, nonché più in generale per la riflessione sul ruolo del giudice in ogni processo in cui egli debba essere utilizzatore – o consumatore, secondo la felice metafora di Stella del sapere scientifico (a qualsiasi fine: nel giudizio sulla causalità, sulla colpa, ma anche – ad es. – sul pericolo o sull’imputabilità); si v. anche in Cass. pen., 2013, 298; nonché, ivi, 2014 con nota di S. Grosso, Grado della colpa e linee guida:una ventata d’aria fresca nella valutazione della colpa medica, 1670 ss.; conf. Cass. pen., 6.3.2015, n. 9923, in Quotidiano giuridico, 20.3.2015, con nota di Bartoli, Ancora difficoltà a inquadrare i presupposti applicativi della legge c.d. Balduzzi; nonché Cass. pen., 11.5.2016, n. 23283, in Dir.
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Necessità, dunque, che sia la scienza medica – avvalendosi della ricerca scientifica (è sufficiente qui richiamare tutta la disciplina in tema di sperimentazione clinica) e delle regole di buona pratica clinica, nelle quali si possono ritenere ormai travasati anche i confini segnati dalla bioetica – a definire i comportamenti corretti e coerenti con la tutela della salute del paziente10. Nella c.d. Legge Balduzzi, il rinvio era sia alle linee guida che “alle buone pratiche cliniche accreditate dalla comunità scientifica”, in quanto strumento indispensabile per valutare la correttezza dell’agire medico. Le stesse, infatti, consentono
pen. cont., 27 giugno 2016. In dottrina, si v. Di Giovine, In difesa del c. d. decreto Balduzzi, cit., 7 ss.; Id., Colpa penale, “legge Balduzzi” e “Disegno di legge Gelli – Bianco: Il matrimonio impossibile fra diritto penale e gestione del rischio clinico, in Cass. pen., 2017, 391, testo e nt. 32; Brusco, Linee guida, protocolli e regole deontologiche. Le modifiche introdotte dalla c.d. Legge Balduzzi, in Dir. pen. cont. Riv. trim., n. 4, 2013, 51 ss.; Caputo, “Agente modello” e responsabilità per colpa in campo sanitario. Problemi e prospettive, Milano, 2012; Id., Filo d’Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica, in Dir. pen. cont., 16 luglio 2012 e in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 875; Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa penale nel settore sanitario. Misura oggettiva e soggettiva della malpractice, Torino, 2012; Giunta, Protocolli medici e colpa penale secondo il «Decreto Balduzzi», in Riv. it. med. leg., 2013, 328; Pezzimenti, La responsabilità penale del medico tra linee guida e colpa “non lieve”: un’analisi critica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 311 ss.; Piras, Carboni, Linee guida e colpa specifica del medico, in Medicina e diritto penale, a cura di Canestrari, Giunta, Guerrini, Padovani, Pisa, 2009, 285 ss.; Risicato, Le linee guida e i nuovi confini della responsabilità medico-chirurgica: un problema irrisolto, in Dir. pen. e proc., 2013, 191. Anche la Corte Costituzionale (Corte cost., n. 282/2002; n. 32/2006 e n. 151/2009) si è pronunciata in tal senso: “Salvo che entrino in gioco altri diritti o doveri costituzionali, non é, di norma, il legislatore a poter stabilire direttamente e specificamente quali siano le pratiche terapeutiche ammesse, con quali limiti e a quali condizioni”. “Poiché la pratica clinica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali che sono in continua evoluzione, la regola di fondo di questa materia è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico” il quale “deve adeguare nell’interesse del paziente le sue decisioni ai dati scientifici accreditati e alle evidenze metodologicamente fondate”. Si v. in Benciolini, Aprile, La valutazione medico legale della responsabilità per colpa professionale. Una lettura nell’ottica del Biodiritto, in Le responsabilità in medicina, a cura di Belvedere, Riondato, cit., 79; Pulitanò, Responsabilità medica cit., 84. 10
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di definire non solo standard operativi finalizzati a garantire, qualità e sicurezza delle cure11, ma anche il rispetto dell’autodeterminazione del paziente con la conseguente condivisione delle scelte terapeutiche a seguito di un’adeguata informazione “circa le alternative teoricamente e praticamente possibili, e della loro diversa attitudine a modulare rischi temuti e benefici auspicati”12. Come già anticipato l’elaborazione giurisprudenziale sulla legge Balduzzi aveva intrapreso questo percorso pervenendo ad affermazioni condivisibili ed in sintonia con il sentire etico di medici e giuristi. È ora il momento di chiedersi se la nuova legge ha fatto tesoro di questo percorso, migliorando la previgente previsione o, se per converso, è intervenuta in senso peggiorativo. Ebbene, come abbiamo già anticipato, la conclusione è in quest’ultimo senso, per alcuni rilievi di fondo che si possono così sintetizzare: a) l’infelice formulazione normativa di un evento verificatosi “a causa di imperizia”, nonostante siano state “rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge” ed inoltre da ritenere “adeguate alla specificità del caso concreto”; b) l’esclusione della punibilità solo per le condotte qualificate come imperite,
Sul punto, cfr. Benci, Rodriguez, Le linee guida e le buone pratiche, in Aa. Vv., Sicurezza delle cure e responsabilità sanitaria, Quotidiano Sanità edizioni, 2017, 69 ss. 11
Giunta, Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 377, per il quale costituisce violazione di regole cautelari la condotta del medico che abbia dimenticato di acquisire il consenso del paziente, abbia fornito un’informazione inadeguata, abbia trascurato di verificare se il paziente ha compreso le caratteristiche dell’intervento (ivi, 405); sostanzialmente in senso conforme, cfr. Vallini, Paternalismo medico, rigorismi penali, medicina difensiva: una sintesi problematica e un azzardo de iure condendo, in Riv. it. med. leg., 2013, 6. L’ a., richiamando un passaggio della sentenza delle sez. un. sul caso “Giulini”, sottolinea come il consenso del paziente sia un elemento di precisa selezione della regola cautelare all’interno del ventaglio di opportunità fornite dal sapere scientifico; nonché Veneziani, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, II, I delitti colposi, Padova, 2003, 308 ss., il quale configura la condotta del medico, che non acquisisca il consenso informato del paziente, come uno sconfinamento dall’area del rischio consentito. 12
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ignorando il dibattito sulla difficoltà, per non dire l’impossibilità, in moltissimi casi di distinguerle da quelle “negligenti” e “imprudenti”; c) l’aver reso rigorosamente tassativo, sotto il profilo della responsabilità penale, il rispetto delle linee guida e nell’aver previsto il rinvio alle “buone pratiche cliniche – assistenziali” come mera alternativa in assenza di linee guida accreditate; d) l’eliminazione dell’esenzione da responsabilità per colpa lieve, laddove, invece, la norma penale avrebbe dovuto sancire in modo esplicito e chiaro che la responsabilità dei professionisti sanitari va ravvisata solo se si accerti la colpa grave. Andando per ordine, il primo scoglio da affrontare è quello di attribuire un senso al dettato normativo nella parte in cui esclude la punibilità per un evento, che si afferma essere stato cagionato da “imperizia”, nonostante siano state rispettate le linee guida definite e pubblicate ai sensi della legge in esame e si badi bene, con l’ulteriore precisazione che l’esclusione della punibilità richiede comunque un’indagine diretta ad accertare che siano state utilizzate le linee guida adeguate al caso concreto. La domanda che sorge spontanea è: quali possono essere i margini per una valutazione di imperizia? Ed in caso affermativo, se si arrivi comunque a configurare un comportamento “imperito”, quali le ragioni per escluderne la punibilità?13 Il percorso argomentativo per cercare di dare un significato al testo passa attraverso la valorizzazione del c.d. doppio livello della colpa e quindi recuperando la distinzione, elaborata dalla dottrina penalistica, fra condotta “oggettivamente colposa” posta a fondamento del fatto tipico e rimproverabilità di tale condotta al soggetto agente, ricondotta alla dimensione soggettiva dell’illecito colposo, in quanto era da lui, singolo soggetto storico, esi-
Negli stessi termini qui prospettati, si v. Benci, Rodriguez, I nuovi profili della responsabilità del professionista sanitario, in Aa. Vv., Sicurezza delle cure e responsabilità sanitaria, cit., 92. Gli aa. parlano espressamente di “un vizio logico connesso alla formulazione testuale del secondo comma dell’art. 590 sexies”.
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gibile una condotta alternativa, perché era da lui prevedibile ed evitabile l’evento lesivo14. Viene da pensare che il legislatore abbia inteso riferirsi ad una condotta qualificabile come oggettivamente imperita, in quanto rivelatasi ad un giudizio ex post, essa nella sua imperfezione, “imperita” ed il fatto oggettivo si sia realizzato in quanto l’evento lesivo sia causalmente ricollegabile a tale condotta15. Ma si tratterebbe, in tali termini, di una condotta riconoscibile come imperita solo da una ristretta cerchia di specialisti e non sulla base di un sapere diffuso, esigibile da tutti i professionisti sanitari operanti in un determinato settore e/o contesto di attività, in quanto reso disponibile attraverso, per l’appunto, linee guida accreditate e di agevole reperibilità16. Il senso della non puni-
14 Non è certamente questa la sede per una ricognizione del tema. Per tutti si rinvia al classico lavoro di G. V. De Francesco, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi Urbinati, 1977/78, 273 ss.; nonché a Canepa, L’imputazione soggettiva della colpa. Il reato colposo come punto cruciale nel rapporto tra illecito e colpevolezza, Torino, 2011; Canestrari, La doppia misura della colpa nella struttura del reato colposo, in Ind. pen., 2012, 21 ss.; Castronuovo, La colpa penale, cit., passim; Id., La colpa “penale”. Misura soggettiva e colpa grave, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1723 ss.; Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa penale nel settore sanitario, cit. 394 ss; Donini, L’elemento soggettivo della colpa. Garanzie e sistematica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 124 ss; Id., Illecito e colpevolezza nell’imputazione del reato, Milano, 1991; Fiandaca, Musco, Diritto penale, pt. g., Bologna, 2014, 574; Forti, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990; Giunta, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993; Id., La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, 90 ss.; Grotto, Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa specifica, Torino, 2012; Mantovani, Diritto penale, pt. g., 338 s.; Id., voce «Colpa», nel Dig. Disc. pen., II, Torino, 1988, 313 s.; Micheletti, La normatività della colpa penale nella giurisprudenza della Cassazione, in Medicina e diritto penale, a cura di Canestrari, Giunta, Guerrini e Padovani, cit., 247 ss.; Romano, Commentario sistematico del codice penale, I°, 3 ed., Milano, 2004, 467 ss.; Ronco, Il Reato, nel Commentario al Codice Penale, II, tomo I, 2011, 581 ss; Stortoni, La categoria della colpa tra oggettivismo e soggettivismo (che ne è della colpa penale?), in Ind. pen., 2016, 12 ss. 15 L’assonanza con la formula dell’art. 43 è fin troppo evidente: “Il delitto ... (omissis) è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia (omissis)”. 16
Marinucci, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche:
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bilità dell’omicidio e delle lesioni previste nell’art. 590 sexies di nuovo conio starebbe dunque nel riconoscere che non sussiste la colpa (almeno sotto il profilo dell’imperizia) ogni qual volta sia stato accertato che la condotta astrattamente qualificabile come “imperita” – perché non rispondente alla miglior scienza ed esperienza e causa dell’evento lesivo – non possa essere considerata “colposa” secondo il parametro del professionista diligente, individuato in colui che conosce ed applica adeguatamente le linee guida accreditate secondo i criteri forniti dallo stesso legislatore e le buone pratiche cliniche assistenziali diffuse nella propria categoria professionale. Tuttavia questa ricostruzione, nonostante risolva al meglio possibile l’apparente contrasto, non convince pienamente nei limiti in cui non tiene conto che, secondo un condivisibile orientamento dottrinale, già per la stessa configurazione oggettiva della condotta colposa occorre fare riferimento a parametri di conoscibilità e di prevedibilità rapportati all’uomo eiusdem professionis et condicionis , appartenente alla stessa categoria professionale del singolo soggetto storico e non alla miglior scienza ed esperienza del momento17. Non rimane dunque che accettare l’apparente contraddittorietà del testo normativo, cercando comunque di attribuirgli il significato che allo stesso ha inteso dare il legislatore: escludere la punibilità, sotto il profilo di giustificarne “l’imperizia” posta alla base del nesso causale, per il professionista sanitario che si sia attenuto alle linee
costi e tempi di adeguamento delle regole di diligenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 29 ss.; Id., La colpa per inosservanza di leggi. Milano, 1965. Si v. la dottrina citata alla nt. 14, cui adde, sia pure con diverse cadenza argomentative sulla necessità di separare la condotta tipica dalla sua qualificazione come ‘colposa’ in chiave di rimproverabilità soggettiva, Civello, La “colpa eventuale” nella società del rischio, Torino, 2013, 59 ss.; Giov. De Francesco, L’imputazione della responsabilità penale in campo medico chirurgico: un breve sguardo di insieme, in Riv. it. med. leg., 2012, 969 ss: Manna, I nuovi profili della colpa medica, cit., 103; Strano Ligato, Lesioni personali e omicidio colposo nell’ambito dei trattamenti sanitari, in Le responsabilità in medicina, a cura di Belvedere, Riondato, cit., 1356 ss.; Veneziani, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale, II, I delitti colposi, cit., 8 ss. 17
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guida accreditate (ai sensi della legge in esame) e che si accerti essere quelle più adeguate alla specificità del caso concreto18. Il secondo profilo di incongruenza del testo normativo riguarda la limitazione della esclusione di responsabilità alla mera condotta imperita, lasciando quindi inalterata la disciplina della imprudenza e della negligenza. Al riguardo non resta che richiamare le argomentazioni approfondite di buona parte della dottrina e della giurisprudenza, dalle quali emerge con chiarezza che nell’agire del professionista sanitario le tre categorie sfumano l’una nell’altra e che molto spesso un comportamento non diligente o imprudente potrebbe anche essere considerato “imperito” e viceversa19. Si auspica dunque che il vincolo normativo, venga superato da un’applicazione giurisprudenziale che, allo scopo di attribuire valore a linee guida qualificate, accetti di allargare i confini della “perizia”20. Proseguendo, appare assai problematico il richiamo tassativo alle linee guida accreditate come vincolo rigoroso al quale attenersi per escludere la punibilità di una condotta che, come già illustrato, viene comunque qualificata imperita. Si potrebbe ritenere che il rinvio alle linee guida come parametro per misurare la perizia del singolo soggetto storico, sottoposto al giudizio penale, sia un passo avanti nella direzione di porre un
D’Alessandro (op. cit., 576), mette in evidenza la difficoltà dell’ inquadramento dogmatico di tale esenzione da pena che pur incidendo sulla colpa, “non sembra presentare i tratti caratteristici di una scusante e pare perciò da ricondurre più propriamente a una limitazione del tipo dell’illecito colposo”.
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argine alla discrezionalità del giudice e dare certezza ai professionisti sanitari. Tanto più che tutto il contesto della nuova legge è ispirato all’esigenza di creare garanzie sotto il profilo di definire un sistema di linee guida accreditate e riconosciute a livello nazionale21. Lodevole intento, ma non condivisibile nei limiti in cui il rinvio alle linee guida, anziché essere un criterio atto da un lato ad orientare la condotta dei professionisti sanitari e dall’altro ad arginare la discrezionalità del giudice, viene individuato come un parametro tassativo che rischia di ingenerare prassi di rigida adesione a dette linee, soprattutto ove dovesse permanere un atteggiamento giurisprudenziale poco attento, nella valutazione della responsabilità, alla complessità dell’agire medico. Altro valore aveva, a nostro giudizio, il riferimento alle linee guida nella legge Balduzzi come mero punto di riferimento e non catalogo scritto al quale rigorosamente attenersi per essere posti al riparo della responsabilità penale22. D’altronde lo stesso legislatore, consapevole dell’impossibilità di imbrigliare i trattamenti terapeutici ancorandoli esclusivamente a rigorosi parametri oggettivi, precisa che “le raccomandazioni previste dalle linee guida” devono risultare “adeguate alla specificità del caso concreto”. Ne consegue che un notevole margine di discrezionalità rimane comunque in capo al giudice e quindi ai periti ed ai consulenti tecnici, inevitabilmente coinvolti nella valutazione di “adeguatezza”.
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Già M. Gallo nel classico lavoro sulla colpa (voce «Colpa penale (diritto vigente)», in Enc. del dir., VII, Milano, 1960, 624 ss.) ha richiamato l’attenzione, più in generale, sul valore meramente indicativo delle tre categorie e sulla loro interscambiabilità. Più di recente Di Giovine; Colpa penale, “legge Balduzzi” e “Disegno di legge Gelli – Bianco, cit., 387. 19
Per l’elaborazione giurisprudenziale che, sotto il vigore della legge Balduzzi, si è servita della flessibilità delle tre categorie per aprire “nuovi spazi applicativi alla restrizione della responsabilità per colpa grave”, si v. Caletti, Non solo imperizia: la Cassazione amplia l’orizzonte applicativo della legge Balduzzi, in Dir. pen. proc., 2015, 1141 ss.; Id., Tra “Gelli-Bianco” e “Balduzzi cit., (par. 8.3) 20
21 Per una disamina dell’impianto normativo che ha ispirato anche la previsione penale in esame si rinvia a Caletti, Tra “Gelli-Bianco” e “Balduzzi” cit., 1 ss.; Caletti, Mattheudakis, op. cit., 19 ss.; Cupelli, op. cit., 5 ss. Per un commento a tutta la normativa cfr. AA. VV., Sicurezza delle cure e responsabilità sanitaria, cit., passim.
Sotto tale profilo l’obiettivo di evitare la medicina difensiva sembra del tutto fallito, considerato che sempre più ci si atterrà a linee guida e protocolli, evitando di esercitare una valutazione a tutto campo della situazione del singolo malato, mettendo in gioco la propria professionalità ed esperienza. Sul punto si v. Cupelli, op. cit., 6 ss.; Benci, Rodriguez, Le linee guida e le buone pratiche, in AA. VV., Sicurezza delle cure e responsabilità sanitaria, cit., 75 s. 22
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Quello che si voleva eliminare o ridurre – la discrezionalità nella valutazione della responsabilità – riemerge dunque ma, nel contempo si accetta di pagare un prezzo ingiustificato sull’altare di tale obiettivo: porre l’accento sul profilo tecnico della medicina, mettendo in secondo piano, se non ignorando, il profilo umano della stessa. L’idea che si cura una persona e non un corpo, con la complessità che tutto ciò comporta, si allontana sempre più, lasciando spazio prevalentemente, se non esclusivamente, a criteri oggettivi di efficienza e di razionalizzazione delle risorse23. Al riguardo è fin troppo noto che la pratica dell’arte medica, pur fondandosi sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, non può prescindere dalla specificità del singolo paziente. Innanzitutto perché è indispensabile tener conto delle peculiarità individuali che ogni caso presenta, sia per la presenza di patologie concomitanti rispetto a quella oggetto dello specifico trattamento, sia per eventuali patologie pregresse che possono aver lasciato tracce nella biologia e nella psiche del paziente24. In secondo luogo perché è ormai pacificamente acquisita la necessità di rispettare il diritto all’autodeterminazione del paziente, diritto di rango costituzionale recepito dai vari codici deontologici e penetrato ormai nei criteri di buona pratica clinica. Ma poiché il diritto all’autodeterminazione non significa, né potrebbe significare il mero consenso o dissenso alla terapia, bensì una più
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complessa e articolata pianificazione delle cure all’interno del dialogo che si instaura nell’ambito della relazione di cura, ne consegue che il piano terapeutico – ivi compreso il ricorso a cure palliative, anziché cure intensive; o ancora il ricorso a cure di mantenimento, anziché il ricorso a più aggressive tecniche chirurgiche con effetti demolitivi –, deve essere definito tenendo conto di una proporzione inevitabilmente coniugata non solo «more scientifico» , ma anche «more humano»25. In terzo luogo perché non è possibile prescindere dalla libertà di cura, come si evince dall’uso diffuso dei c.d. farmaci off label che pur non previsti espressamente dalle linee guida per una determinata patologia, in quanto non soggetti a verifica attraverso protocolli sperimentali26, avendo dato effetti positivi in numerosi casi, vengono utilizzati correntemente nella comune pratica clinica. Ciò significa che non è in alcun modo possibile prescindere dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi
Federspil, Discorso scientifico e discorso etico in medicina: antiche e nuove problematiche, in Etica e deontologia in medicina: contributi per una riflessione, a cura di Martin, Favaro, Padova, 1988, 45; Barni, L’appropriatezza della decisione medica, in I diritti in medicina, a cura di Lenti, Palermo Fabris, Zatti, diretto da Rodotà, Zatti, nel Trattato di Biodiritto, Milano, 2011, 36. L’a. parla espressamente di ineludibile titolarità della scelta da parte del sanitario che “deve tendere all’equilibrio fra scienza ed etica: un’etica soprattutto di rapporto, come suggestivamente insegna la terapia del dolore!”. 25
Palermo Fabris, La sperimentazione clinica:profili giuridici, in I diritti in medicina, a cura di Lenti, Palermo Fabris, Zatti, cit., 654 s. Ivi anche per il rinvio alla vicenda Di Bella ed alla legge di conversione del d.l. 17 febbraio 1998, n. 23 che ne è conseguito. L’art. 3 della legge di conversione (l. 8 aprile 1998, n. 94, Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria), norma tuttora in vigore, prevede che, in singoli casi, il medico può, sotto la sua responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, qualora ritenga che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quell’indicazione terapeutica, e purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale.
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Sottolinea questi rischi connessi ad un’esenzione di responsabilità ancorata al rispetto delle linee guida, Poli, Il d.d.l. Gelli – Bianco: verso un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del medico ai principi costituzionali?, cit. Per quanto attiene al diritto all’autodeterminazione del paziente, di cui all’art. 32 Cost., l’a. ne ipotizza la violazione nella misura in cui il condizionamento del beneficio all’aver seguito una linea guida rischia di indurre la classe medica a non rappresentare al paziente tecniche o possibilità terapeutiche magari più aggiornate e già cristallizzate nella comunità scientifica di riferimento – ovvero preferite dal paziente – ma non ancora recepite in linee guida bensì solo quelle contenute nei testi menzionati. 23
Da ultimi sul punto, con specifico riferimento alla previsione in esame, si v. Caletti, Mattheudakis, op. cit., 17; cfr., altresì, con riferimento alla legge Balduzzi, S. Grosso, Grado della colpa e linee guida, cit., 1682 s. 24
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sullo stato delle conoscenze a disposizione, ma adattandole al singolo caso e talora percorrendo anche percorsi innovativi27. Sulla scorta di tali considerazioni, riteniamo, infine, che sarebbe stato opportuno, ai fini di vincolare la discrezionalità del giudice e dare adeguato spazio ad un sapere medico in continua evoluzione, prevedere, unitamente e non in subordine all’inesistenza di linee guida, le buone pratiche cliniche come parametro di riferimento alla cui stregua valutare la correttezza dell’attività posta in essere dal singolo professionista sanitario. Si tratta, come già anticipato, di valorizzare adeguatamente tutti i molteplici tentativi di positivizzare buone prassi condivise dalle Società scientifiche, tenendo conto che per lo più in queste ultime si consolida l’esperienza clinica e la sempre più pressante esigenza di coniugare il sapere scientifico con i postulati dell’etica e della deontologia28.
Vallini, Colpa medica, concause sopravvenute e competenza per il rischio: qualcosa di nuovo, anzi di antico, in Dir. pen. proc., 2015, 1537 ss.
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Sotto tale profilo non riteniamo che il riferimento alle buone pratiche cliniche possa essere considerato un’endiadi rispetto alle linee guida (in tal senso cfr. Di Landro, Le novità normative in tema di colpa penale (l. n. 189/2012, c.d. “Balduzzi”). Le indicazioni del diritto comparato, in Riv. it. med. leg., 2013, 834; Di Giovine, Colpa penale, “Legge Balduzzi” e “Disegno di legge Gelli-Bianco” cit., 390). Le buone pratiche cliniche si prestano, infatti, a ricomprendere anche documenti più propriamente riconducibili alle “conferenze di consenso” che “esprimono l’opinione di società scientifiche o di gruppi di specialisti sullo stato dell’arte in un determinato argomento clinico- scientifico”. Come efficacemente evidenziato si può affermare che “le buone pratiche cliniche non sono in subordine alle linee guida ma costituiscono la necessaria metodologia interpretativa delle evidenze scientifiche” (L. Padovan, L’organizzazione dell’ospedale per intensità di cure, Tesi del Corso di perfezionamento in Bioetica, Università degli Studi di Padova, A.A. 2014-2015). Si v. sul punto Benciolini, Aprile, La valutazione medico legale della responsabilità per colpa professionale cit., 74; cfr., altresì, Benci, Rodriguez, Le linee guida e le buone pratiche cliniche, cit., 72, che pur ribadendo la comune matrice, sia delle linee guida che delle buone pratiche, nell’evidenza scientifica, ritengono che l’espressione “buone pratiche cliniche assistenziali” vada considerata in senso estensivo al fine di ricomprendervi prassi professionali orientate alla tutela della salute e documenti, elaborati con metodologia dichiarata e ricostruibile, comunque denominati; Caletti, Mattheudakis, op. cit., 24 s. 28
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- Ma l’aspetto maggiormente negativo della riforma, che ha tradito l’obiettivo di proseguire nel percorso di migliorare la preesistente disciplina, riguarda la mancata previsione della restrizione di responsabilità ai soli casi di colpa grave, ignorando sia il dibattito che impegna ormai da anni la dottrina penalistica29, sia quanto attuato in questa direzione da buona parte dei restanti ordinamenti giuridici, nei quali è espressamente prevista tale restrizione di responsabilità30.
In questo contesto merita menzione il “Documento condiviso per una pianificazione delle scelte di cura”, sulle “Grandi insufficienze d’organo “end stage”, approvato dal Consiglio Direttivo SIAARTI in data 22 aprile 2013. Il documento, sulle opzioni di trattamento dei malati con insufficienza cronica cardiaca, respiratoria, neurologica, renale ed epatica, mono - o multi-organica, in fase “end stage” e condiviso da intensivisti, palliativisti, cardiologi, pneumologi, neurologi, nefrologi, gastroenterologi, medici d’urgenza, medici di medicina generale e infermieri – e per il quale solo in una valutazione tridimensionale (organo>organismo>persona) si può raggiungere la ragionevole certezza del bene del paziente –, viene espressamente definito dalle società scientifiche che lo hanno elaborato e diffuso come documento d’indirizzo, riconducibile alla metodologia della conferenza di consenso in considerazione della difficoltà di tradurre in rigida evidenza scientifica la materia trattata, a causa della scarsa produzione di studi controllati. Ma non per questo meno importante delle linee guida in materia, sotto il profilo di una corretta gestione delle patologie trattate. Buona parte dei primi commenti alla legge pongono in evidenza tale limite, sottolineando che mentre il testo della legge Balduzzi “sembrava costituire un passo in avanti rispetto alla situazione preesistente, perlomeno in relazione al parametro garantista della colpa grave”, non altrettanto si può dire dell’attuale previsione contenuta nella legge Gelli – Bianco, dalla quale scompare “ogni riferimento al grado della colpa e vi è una generica esclusione della punibilità per il sanitario che si è attenuto alle linee guida”, purchè le stesse si rivelino adeguate al caso concreto. Se il professionista sanitario si attiene a linee inadatte vi è uno spazio di possibile rimprovero per imperizia, in ordine al quale non ci sarà più il limite della colpa grave: Caletti, Mattheudakis, op. cit., 12 ss. ; conf. Caletti, Tra “Gelli-Bianco” e “Balduzzi” cit., 23 ss. (par. 11); Cupelli, op. cit., 10; D’Alessandro, op. cit., 577. Si v., anche, Caputo, Centonze, op. cit., 1366, per i quali “l’errore nella trasposizione delle raccomandazioni rischia di non essere mai penalmente rilevante, anche se grave; l’errore nella scelta delle raccomandazioni rischia di essere sempre penalmente rilevante, anche se lieve”. 29
Per un richiamo all’ordinamento francese, che proprio in ambito medico ha sperimentato l’adozione di una forma qualificata di colpa, la faute qualifiée si v. Caletti, Tra “Gelli-Bianco” e “Balduzzi” cit., 2, v. ivi il rinvio a Porro, La faute 30
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Essendo fin troppo noto il dibattito per doverlo qui ripercorrere, sia consentito avanzare solo alcune brevi considerazioni. Agli operatori sanitari viene per lo più richiesto uno standard di diligenza e perizia particolarmente elevato, mentre non è possibile sottovalutare che il loro comportamento è riferito ad un’attività che in molti casi “implica la soluzioni di questioni tecniche di speciale difficoltà” e quindi si dovrebbe applicare anche in sede penale la limitazione di responsabilità prevista dall’art. 2236 c.c.31. L’errore del professionista sanitario, sia esso esecutivo che valutativo, è riconducibile “nell’area del rischio terapeutico” e appare corretto dare allo stesso rilevanza penale solo a condizione che “sia espressione di un chiaro atteggiamento soggettivo di superficialità e avventatezza nei confronti delle esigenze terapeutiche del paziente”32. Il vero terreno sul quale trovare il punto di equilibrio tra esigenze di tutela dei pazienti e istanze sottese allo svolgimento dell’attività sanitaria è quello della dimensione soggettiva di rimproverabilità individuale per un evento che si doveva e,
qualifiée nel diritto penale francese, in Dir. pen. XXI secolo, 2011, 63 ss. Per il sistema anglo- americano si v. Caletti, ibidem; Di Landro, Le novità normative in tema di colpa penale (l. n. 189/2012, c.d. “Balduzzi”). Le indicazioni del diritto comparato, loc. cit. Per il sistema penale austriaco nel quale, con la legge di riforma del 2015 (Strafrechtsänderungsgesetz), è stata introdotta nello StGB una definizione legale di colpa grave e il cd. Medizinerprivileg, vale a dire una causa di non punibilità speciale per il professionista sanitario che per colpa semplice (e quindi senza colpa grave) cagiona una lesione personale (non grave), si v. Helfer, La colpa grave quale categoria espressamente prevista nello StGB austriaco. Un esempio da seguire?, di prossima pubblicazione in questa Rivista. Pulitano’, Responsabilità medica cit., 81 ss. Per il ricorso alla colpa grave nella comune pratica clinica “se il caso imponga la soluzione di particolari problemi diagnostici o terapeutici in presenza di pazienti dal quadro patologico complesso”, cfr. Giunta, voce «Medico (responsabilità penale del)», in Id. (a cura di), I Dizionari sistematici. Diritto Penale, Milano, 2008, 883; Valbonesi, Linee guida e protocolli per una nuova tipicità dell’illecito colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 250 ss., 258.
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Palazzo, Causalità e colpa nella responsabilità medica (categorie dogmatiche ed evoluzione sociale), cit., 1239; Id., Responsabilità medica, “disagio” professionale e riforme penali, cit., 1065. 32
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soprattutto, si poteva evitare, insita nel concetto stesso di “colpa”33. Mette molto bene in evidenza quest’aspetto la dottrina che sottolinea come solo circoscrivendo la responsabilità alla colpa grave, è possibile valorizzare adeguatamente “le regole di giudizio” che attengono alla “colpevolezza colposa”. È possibile, cioè, tenere conto dell’effettivo atteggiamento “antidoveroso della volontà, valutato nelle sue qualità e differenze psicologiche, alla luce della normalità delle condizioni personali e sociali che hanno determinato o condizionato la motivazione del soggetto nella realizzazione del fatto tipico”34, ridando così corpo e anima ad un’effettiva rimproverabilità della condotta antidoverosa ed evitando di scaricare sul singolo la complessità dell’agire medico nel quale un certo tasso di errori è “fisiologico” ed ai quali è necessario e possibile porre rimedio con ben altri strumenti diversi dal sistema penale35. All’obiezione che la nozione di colpa grave rischia di essere difficilmente tipizzabile e che non è agevole delimitarne il confine con la comune nozione di colpa si può rispondere avanzando tre ordini di considerazioni:
Mantovani, Diritto penale, cit., 338; Palazzo, Causalità e colpa nella responsabilità medica (categorie dogmatiche ed evoluzione sociale), cit., 1234.
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34 Donini, L’elemento soggettivo della colpa. Garanzie e sistematica, cit., 136. Nel senso che il concetto di colpa grave sembra sostanziare quello più ampio di misura soggettiva della colpa, imponendo di considerare se le condizioni non siano tali “da abbassare la soglia del grado di risposta che si può esigere dall’operatore medico” si v. Fiandaca, Appunti in tema di causalità e colpa nella responsabilità medica, in Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa (un dialogo con la giurisprudenza), a cura di Bartoli, Firenze, 2010, 177 ss.; sul punto si v. Di Giovine, In difesa del c. d. decreto Balduzzi, cit., 20. L’a., pur critica sulla distinzione fra colpa “ordinaria”, “lieve” e “grave”, che non avrebbe una sua dirimente ragion d’essere sul piano teorico, ritiene, tuttavia, che il criterio “potrebbe svolgere un’apprezzabile funzione di monito per la giurisprudenza, poiché cerca di rimediare al rischio, ampiamente inveratosi nella prassi, di appiattire la valutazione sul momento oggettivo della colpa, e cioè sulla sola violazione di standard precauzionali”; nonché, Strano Ligato, Lesioni personali e omicidio colposo nell’ambito dei trattamenti sanitari, cit., 1359.
Efficacemente sul punto v. Di Giovine, Colpa penale, “legge Balduzzi” e “Disegno di legge Gelli – Bianco”, cit., 394 ss.
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a) la dottrina penalistica lavora ormai da anni in questa direzione ed ha fornito strumenti concettuali in grado di supportarne, de iure condito, l’elaborazione giurisprudenziale e, de iure condendo, quella normativa36; b) la giurisprudenza, formatasi nel vigore della legge Balduzzi, aveva avviato un proficuo percorso di elaborazione di una nozione di colpa grave, in grado di dare contenuto e sostanza alla stessa37;
Già in tal senso Crespi, La “colpa grave” nell’esercizio dell’attività medico-chirurgica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, 255 ss.; Mazzacuva, Problemi attuali in materia di responsabilità penale del sanitario, in Riv. it. med. leg., 1984, 399 ss; Padovani, Il grado della colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, 818. Fra gli apporti più recenti, basti qui richiamare la proposta di inserire normativamente la limitazione della responsabilità penale alla colpa grave per tutta l’attività degli esercenti una professione sanitaria, contenuta nel “Progetto di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito dell’attività sanitaria e gestione del contenzioso legato al rischio clinico”, a cura del Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, in Criminalia, 2009, 671: Art. 2 Modifiche al codice penale. 1. Dopo l’art. 590-bis, è inserito il seguente: “art. 590 ter (Morte o lesione come conseguenza di condotta colposa in ambito sanitario) – L’esercente una professione sanitaria che, in presenza di esigenze terapeutiche, avendo eseguito od omesso un trattamento, cagioni la morte o una lesione personale del paziente è punibile ai sensi degli artt. 589 e 590 solo in caso di colpa grave. Ai sensi del presente articolo la colpa è grave quando l’azione o l’omissione dell’esercente una professione sanitaria, grandemente inosservante di regole dell’arte, ha creato un rischio irragionevole per la salute del paziente, concretizzandosi nell’evento. (omissis)”; si v. anche in Forti, Catino, D’Alessandro, Mazzucato, Varraso, Il problema della medicina difensiva, cit., passim. Si v., altresì, il Progetto di legge Pisapia (art. 16. 1, lett. f: “la colpa sia grave quando, tenendo conto della concreta situazione anche psicologica dell’agente, è particolarmente rilevante l’inosservanza delle regole, ovvero la pericolosità della condotta, sempre che tali circostanze oggettive siano manifestamente riconoscibili”). 36
È sufficiente qui per tutte richiamare quanto argomentato nella già richiamata sentenza “Cantore” (Cass. pen., 9.4.2013, n. 16237): “per un lungo periodo si è ritenuto che la responsabilità colposa del sanitario potesse configurarsi solo in caso di macroscopica violazione delle regole più elementari dell’ars medica: la plateale ignoranza o l’altrettanto estrema assenza di perizia nell’esecuzione dell’atto medico. Naturalmente, in casi di tale genere non vi può essere dubbio sulla gravità della colpa. Tuttavia tale definizione appare riduttiva. Essa si confronta con la marcata violazione delle regole basilari e traccia la figura di un terapeuta radicalmente inadeguato rispetto al suo ruolo. Tuttavia, occorre considerare che lo 37
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c) esistono già settori dell’ordinamento giuridico nei quali il concetto è utilizzato dal legislatore38. Fin qui le riserve sulla norma inserita nel codice penale, ad opera della legge Gelli – Bianco, ma è doveroso mettere in luce alcune previsioni di tale legge, in grado, se adeguatamente applicate, di mitigare i possibile effetti distorsivi denunciati e di consentire quel tanto auspicato passo in avanti verso un migliorato dialogo fra diritto e medicina nel campo della responsabilità penale dei professionisti sanitari. Il riferimento, per l’immediata ricaduta sotto il profilo dell’accertamento della colpa, è, in particolare, alle disposizioni contenute nell’art. 1539. La norma, nel disciplinare la nomina dei periti e dei consulenti tecnici nei giudizi di responsabi-
stato attuale della medicina appare assi più complesso e sofisticato: la valutazione sull’adeguatezza dell’approccio terapeutico non può essere realisticamente rapportata a poche, essenziali regole di base. Al contrario, si assiste al proliferare di complesse strategie diagnostiche e terapeutiche, governate da “istruzioni” articolate, spesso tipiche di ambiti specialistici o superspecialistici. In tali contesti sarebbe riduttivo discutere di gravità della colpa con riguardo alle sole regole basilari. Al contrario, l’entità della violazione delle prescrizioni va rapportata proprio agli standard di perizia richiesti dalle linee guida, dalle virtuose pratiche mediche o, in mancanza, da corroborate informazioni scientifiche di base. Quanto maggiore sarà il distacco dal modello di comportamento, tanto maggiore sarà la colpa; e si potrà ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato definito dalle standardizzate regole d’azione. Attraverso tale raffronto la ponderazione demandata al giudice acquisisce una misura di maggiore determinatezza o, forse, solo di minore vaghezza”. Si v., anche, in Caletti, op. cit., 9 ss. Micheletti, La colpa nella bancarotta semplice patrimoniale, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2000, 645 s.
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Sull’importanza che sotto il profilo penale e processuale assume anche l’art. 16 della legge Gelli – Bianco («all’art. 1, comma 539, lettera a) della legge 28 dicembre 2015, n. 208, il secondo periodo è sostituito dal seguente: “i verbali e gli atti conseguenti all’attività di gestione del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell’ambito di procedimenti giudiziari”»), si rinvia a Caletti, Tra “Gelli-Bianco” e “Balduzzi”: il punto sulle riforme in tema di responsabilità penale colposa del sanitario cit., 25 (par. 16); Caputo, Centonze, op. cit., 1367. Più in generale, sulle previsioni contenute nella legge e finalizzate alla gestione del rischio clinico ed alla rilevazione dell’errore si v. Di Giovine, Colpa penale, “legge Balduzzi” e “Disegno di legge Gelli – Bianco”, loc. cit. 39
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lità sanitaria, incide sulle attuali previsioni processuali in materia, introducendo come necessaria la collegialità, con l’obbligo di affidare “l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento, avendo cura che i soggetti da nominare, scelti tra gli iscritti negli albi di cui ai commi 2 e 3, non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri connessi”40. Si tratta di una previsione cruciale, destinata, si auspica, a riportare ad una corretta dialettica pro-
Caputo, Centonze, op. cit., 1367, parlano di una disposizione “finalmente fondata su una selezione che si ispira al merito, onde scongiurare il dramma della comparsa nelle aule di giustizia di sedicenti esperti che sanno meno degli imputati sui quali sono tenuti a pronunciarsi”. Per un commento alla norma si v. Rodriguez, Bolcato, Russo, Consulenti tecnici d’ufficio e periti nei giudizi di responsabilità sanitaria, in Aa. Vv., Sicurezza delle cure cit., 217. Gli aa. pongono in evidenza come la previsione normativa metta ordine nella congerie di variegate disposizioni, precedentemente descritte, dai codici di procedura, civile e penale, e dalle relative disposizioni di attuazione. “La consulenza tecnica d’ufficio o la perizia in caso di responsabilità sanitaria è, infatti” “sempre collegiale, essendo affidata ad un medico specializzato in medicina legale e ad uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento. I componenti non medici legali del collegio dovranno quindi non solo essere specialisti della disciplina, ma essere, per così dire, superspecialisti proprio nella materia su cui è richiesto il parere: in sostanza è richiesta non solo la competenza specialistica, ma addirittura la specificità della competenza.” “Novità assoluta rispetto alle indicazioni dei codici di procedura è che tutti gli specialisti del collegio devono essere scelti tra gli iscritti negli albi: è di fatto esclusa la possibilità di ricorrere a professionisti diverse dagli iscritti; la mancanza di un albo dei consulenti tecnici del pubblico ministero può essere facilmente superata ricorrendo agli iscritti nell’albo dei periti” (218).
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cessuale l’accertamento di una responsabilità che ben difficilmente si presta ad una rigorosa previsione tassativa sul piano sostanziale41. Sia sotto il profilo della prevedibilità che dell’evitabilità dell’evento, solo un corretto accertamento processuale, condotto in un adeguato confronto fra soggetti qualificati non motivati da logiche di parte, può garantire, infatti, una rigorosa e compiuta valutazione in ordine all’utilizzazione delle raccomandazioni previste dalle linee guida accreditate, tenendo conto della loro adeguatezza in rapporto “alle specificità del caso concreto”.
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Efficacemente sul tema S. Grosso, Alla ricerca di una prospettiva di individuazione delle regole cautelari. Un dialogo tra diritto sostanziale e processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 146 ss. Sul tormentato rapporto fra Diritto e Medicina e sulla conseguente esigenza di modificare le logiche ed i rapporti attualmente esistenti nell’ottica dell’accertamento processuale si v. l’ampia e approfondita trattazione di Benciolini, Aprile, La valutazione medico legale della responsabilità per colpa professionale, cit., 47ss. 41
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g g sa re e a p
Alcune considerazioni sulla responsabilità penale del medico, anche alla luce della recente legge Gelli Salvatore Aleo
Professore nell’Università di Catania Abstract: La responsabilità penale del medico dovrebbe essere circoscritta ai fatti di particolare gravità, per ragioni tanto di giustizia quanto di funzionalità ed economicità. Il criterio di garanzia dell’art. 2236 del codice civile non è ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità applicabile parimenti al diritto penale: e invece dovrebbe esserlo ben a maggior ragione. La previsione penale della legge Gelli (art. 6 l. n. 24/2017) esprime una evidente contraddizione: che al contempo possa dirsi che il sanitario abbia agito con imperizia e che abbia rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero le buone pratiche clinico-assistenziali. In un quadro generale di burocratizzazione della scienza e della pratica medica, la norma induce e favorisce la redazione di linee guida che tengano anche conto delle esigenze difensive dei medici. Physicians criminal liability should be limited to facts of particular gravity, for reasons of justice as well as of functionality and inexpensiveness. The guarantee criterion of Article 2236 of the Italian Civil Code is not considered by the Supreme Court applicable to criminal law: even though in this field it should be much more justified. The criminal law provision of the Gelli Law (Article 6 of Law 24/2017) expresses a clear contradiction: it can be said that at the same time the physician has acted with malpractice and has complied with the recommendations set forth in the guidelines, defined and published according to the law, or with good clinical practices. In a general framework of bureaucratization of science and medical practice, the rule induces and promotes the drafting of guidelines that also take into account the defensive needs of physicians.
Per ragioni sia etiche che funzionalistiche, il diritto penale, che è cruento, dovrebbe essere riservato alle attività illecite di maggiore gravità: delittuose in quanto appunto di rilevanza penale. Lo strumento penale, che svolge la funzione essenziale di prevenzione mediante intimidazione, da un canto, va considerato riferito tipicamente e innanzitutto alla detenzione: come tale deve essere il meno fallibile possibile, in tutti i sensi, per la dimensione di repressione e in funzione di garanzia del cittadino e della giustizia, e perciò è peculiarmente costoso. D’altro canto, criterio ordinario della responsabilità penale è il dolo: per la funzione preventiva mediante intimidazione che è definitoria dello strumento penale e per la stessa tipicità della detenzione. La responsabilità colposa è riservata alla lesione della vita e dell’incolumità personale (nei delitti di omicidio e lesioni colposi) nonché alla esposizione a pericolo di una pluralità indeterminata di persone (nei delitti colposi di pericolo). La previsione penale non è peculiarmente adatta a prevenire e reprimere in generale i comportamenti colposi (si pensi alla distrazione o alla dimenticanza) e appare ulteriormente atipica, inopportuna, a prevenire e reprimere gli errori, le condotte caratterizzate da imperizia, come quelle dei sanitari, per svariate ragioni. Segnatamente, l’approccio penalistico ai problemi della responsabilità professionale sanitaria produce effetti distorsivi sulla funzione generale sanitaria: toglie serenità ai medici e induce la c.d. medicina difensiva, determina un incremento generale Responsabilità Medica 2017, n. 2
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dei costi, senza miglioramento, ma piuttosto con peggioramento, delle prestazioni sanitarie. La funzione giurisdizionale penalistica dovrebbe costituire controllo di legalità e invece diventa, nei fatti, in questo campo, esplicitamente, controllo di qualità delle prestazioni, e dell’organizzazione, sanitarie. In particolare, i giuristi non sono avvezzi per competenze a giudicare delle prestazioni sanitarie, mentre i sanitari dovrebbero impegnarsi a studiare e praticare medicina piuttosto che diritto penale e teoria della responsabilità e causalità e colpa. Nei fatti, in confronto alla materia della responsabilità sanitaria, il sistema penale gira largamente a vuoto, perché le condanne sono poi pochissime, rarissime, in confronto alle denunce e agli avvisi di garanzia e ai procedimenti, con relative e costose prestazioni lavorative di tutti gli addetti, avvocati, magistrati, cancellieri, consulenti, operatori della giustizia e della sicurezza. Con esposizione mediatica e danno professionale dei sanitari, che non verrà rimediato. Per definire il livello di disfunzione socio-economica di cui parliamo, quantitativo e qualitativo, ai costi propri della medicina difensiva bisogna aggiungere, perciò, quelli della giustizia che gira a vuoto, e che si potrebbe occupare, invece e nel frattempo, di tante altre cose. Mi sembra inevitabile far rilevare come il controllo giurisdizionale esercitato sull’attività sanitaria, che ha assunto dimensioni quantitative estremamente rilevanti, si traduca, comunque, in una forma di controllo e potere sociale, esercitata e fatta valere nell’ambito delle classi più elevate. Il legislatore del codice civile del 1942 introdusse nell’art. 2236 c.c. un criterio di garanzia, in ordine alla responsabilità civile, per il prestatore d’opera che esercita attività difficili. Nel caso del medico, questo criterio è certamente rilevante e può essere considerato relativo, segnatamente, all’imperizia e alle situazioni concrete che implicano la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, secondo la felice dizione della norma. Inopinatamente, la giurisprudenza anche di legittimità ha ritenuto che il criterio dell’art. 2236 c.c. non sia applicabile parimenti al diritto penale, quale limite della responsabilità colposa. Ma, invero, la responsabilità penale dovrebbe costituire Responsabilità Medica 2017, n. 2
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un cerchio concentrico di dimensioni (molto) più ridotte rispetto alla responsabilità civile (per i casi di maggiore particolare gravità), e allora il criterio di garanzia (dettato nella norma menzionata per circoscrivere la responsabilità civile) dovrebbe valere (assai) a maggior ragione per circoscrivere e limitare la responsabilità penale (dell’esercente una professione, e relativamente a una situazione che implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà) ai casi di maggiore e speciale gravità: gravità del criterio di responsabilità, peculiarmente. Da quanto si è detto si potrebbe ritenere rispondente a un criterio di ragionevolezza che la responsabilità penale sanitaria per imperizia sia limitata alla colpa grave. Deve aggiungersi una considerazione, che sembra importante da vari punti di vista. L’ordine logico tradizionale della teoria della responsabilità, tanto nei manuali di diritto penale quanto degli accertamenti processuali, è: evento, condotta, nesso causale, elemento psicologico (dolo o colpa). Nel caso del medico appare assolutamente evidente che il giudizio di colpa è (invece) preliminare rispetto a quello del nesso di causalità (e anche del danno), nel senso che il giudizio di causalità dipende direttamente dall’opinione (del giudicante) che il medico abbia sbagliato, e non la precede: difatti si parla di causalità della colpa. Questa considerazione contribuisce a mettere in evidenza l’estrema opinabilità dei giudizi di colpa e di causalità (dimmi chi vuoi punire e ti dirò cos’è causale) e può essere generalizzata all’intera teoria della responsabilità, ad avviso di chi scrive: che ha cercato i medici e ha deciso di studiare i medici ritenendoli un laboratorio straordinario per approfondire la teoria della responsabilità. Dopo, nel frattempo, ha scoperto che quello della responsabilità sanitaria è un grande problema pratico, sociale. Argomento che sorregge e corrobora la precedente considerazione è che la teoria della responsabilità è continuamente stressata, soprattutto in giurisprudenza, proprio in materia di responsabilità sanitaria: si pensi soltanto, in ambito civilistico, alla teoria del contatto sociale e al criterio proba-
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torio del più probabile che non, in ambito penalistico, alla imputazione oggettiva dell’evento. La causalità è un criterio funzionalistico: ci poniamo il problema causale di ciò che vogliamo evitare e che riteniamo possibile evitare; allora cerchiamo le condizioni di verificabilità-evitabilità dell’evento: le condizioni di cui riteniamo che evitarle sia adeguato a evitare il verificarsi dell’evento. Definiamo causale una successione in quanto evitabile. La causalità è un criterio normativo, espressione di un pensiero ovvero di un’esigenza di tipo normativo, e in tal senso “politico”, di governo degli accadimenti. Criterio di verificabilità empirica della colpa (senza di che la colpa è ciò che ritiene il soggetto del giudizio) è quello del modo in cui si comportano normalmente i soggetti del tipo di quello di cui si giudica nel tipo di situazione (nella situazione-tipo) oggetto del giudizio: il criterio dell’uomo medio, cioè di come agiscono in maggioranza gli uomini nel tipo di situazione. Criterio, dunque, sociologico. Il dolo è un elemento di fatto, un accadimento, da provare (oggetto di prova): che il soggetto abbia voluto l’evento oppure no, secondo la logica dei significati alternativi vero/falso. La colpa è un criterio di argomentazione: della antidoverosità, oggettiva, della condotta tenuta. La prova scientifica. Anche, se non in primo luogo, dunque, nel senso delle scienze sociali. Dal punto di vista penale non può non marcarsi la differenza fra la responsabilità colposa di chi abbia cagionato l’evento e quella di chi abbia omesso di impedire un evento che aveva l’obbligo di impedire, cioè abbia violato le regole e condizioni di esercizio della propria posizione e funzione e del proprio dovere di garanzia. Se la responsabilità colposa deve essere considerata marginale nel diritto penale, ciò deve valere a maggior ragione per l’omesso doveroso impedimento dell’evento. In questo secondo caso, appare più evidente la dimensione funzionalistica del giudizio causale: causale è innanzitutto la malattia, e la condotta del medico viene qualificata causale a condizione di avere violato le regole di esercizio della funzione sanitaria.
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Esattamente all’incontrario, la nostra giurisprudenza di legittimità ha addirittura capovolto l’uso e il senso della teoria della imputazione oggettiva dell’evento. Questa teoria è stata concepita per ridimensionare la portata della causalità penale, rispetto al criterio della condicio sine qua non, aggiungendo la considerazione ulteriore che la condotta abbia elevato le probabilità del verificarsi dell’evento. La nostra giurisprudenza di legittimità ha stabilito che il medico, siccome è garante del diritto fondamentale della salute, deve essere fatto particolarmente responsabile, anche penalmente, e ha adottato il criterio della responsabilità penale che la condotta tenuta, o l’omissione della condotta doverosa, abbia elevato le probabilità del verificarsi dell’evento, ma in luogo di quello della condicio sine qua non: cioè anche quando non possa dirsi che senza la condotta errata l’evento non si sarebbe verificato. Poi la sentenza Franzese (Cass., sez. un., pen. n. 30328/2002) ha corretto questo indirizzo (definendo il criterio della elevata credibilità razionale ovvero probabilità logica) e la riforma (del 2006) dell’art. 533 del codice di procedura penale ha sancito che la definizione della colpevolezza penale deve avvenire secondo il criterio dell’«oltre ogni ragionevole dubbio». La causalità, ci ha detto la giurisprudenza, è sostanzialmente diversa in sede penale (Franzese) e in sede civile (Cass., sez. un., civ. nn. 581 e 582/2008: la probabilità maggiore della contraria). La causalità, possiamo aggiungere, è diversa fra i giudizi sul fatto doloso e su quello colposo. Una bassa probabilità ex ante dell’evento può costituire la responsabilità a titolo di dolo, per l’evento perseguito, non altrettanto quella a titolo colposo. Risulta molto interessante e significativo che i civilisti – che adottano in generale la colpa come criterio di responsabilità oggettiva, di distribuzione sociale del rischio – utilizzino nei giudizi sulla responsabilità sanitaria le categorie di causalità e colpa come definite nel diritto e nel codice penale. Forse perché lì, anche in sede civile, in questo tipo di giudizi, il problema è trovare un colpevole? Responsabilità Medica 2017, n. 2
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L’esigenza di astrazione e generalizzazione, di tipizzazione delle condotte, ha indotto e induce le linee guida, la produzione delle linee guida. Nell’attività sanitaria le linee guida sono state prodotte innanzitutto dai sanitari, come risultati delle loro ricerche epidemiologiche e indicazioni generali fornite alla collettività degli operatori sanitari per migliorare le loro prestazioni professionali. Le linee guida sono state prodotte e adottate anche dalle aziende sanitarie per migliorare gli aspetti e i comportamenti organizzativi, nonché per regolare, disciplinare, il rapporto fra le prestazioni e i relativi costi, quindi per contenere i costi. Le linee guida sono state pure indotte, prodotte e finanziate dalle aziende farmaceutiche e da quelle produttrici di strumentazioni sanitarie per diffondere l’uso dei loro prodotti. Sotto tutti i profili così sommariamente delineati, le linee guida sono state e sono sia molteplici, fra diversi soggetti e punti di vista, secondo diverse comparazioni fra valori e interessi coinvolti, sia mutevoli, a seconda dei vari luoghi e momenti. Le linee guida sono state prodotte dai sanitari per migliorare le loro prestazioni. Sono state poi adottate dalle aziende sanitarie per migliorare le prestazioni e cadenze organizzative ma anche per contenere i costi. Sono state adottate dalle aziende produttrici di farmaci e strumentazioni sanitarie per migliorare e soprattutto diffondere i loro prodotti. Le linee guida diventano ovviamente centrali nei giudizi sulla responsabilità sanitaria, come criteri di riferimento, di comparazione della condotta tenuta in concreto con le indicazioni fornite nell’ambito delle categorie interessate: indispensabili per la ricostruzione delle condotte esigibili dal sanitario. Così, diventano anche strumenti difensivi per la comunità sanitaria. Alcune osservazioni metodologiche vanno svolte in proposito. Una prima osservazione riguarda in generale la differenza fra le indicazioni astratte e le peculiarità dei casi concreti. Facile aggiungere che una linea guida può valere assai diversamente o valere e non valere in diverse condizioni di contesto, strutturali e di risorse. Un’altra osservazione riguarda la differenza, nella comprensione e valutazione della linea guida, Responsabilità Medica 2017, n. 2
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dai diversi punti di vista: dei soggetti che la formulano, del soggetto che agisce, dei soggetti che giudicano; fra questi ultimi, fra medici legali e consulenti, medici specialisti, giuristi. Dai diversi punti di vista e quindi, aggiungiamo, secondo anche le diverse culture, esperienze e prospettive funzionali. In tale ultimo quadro, una differenza assolutamente peculiare riguarda la prospettiva ex ante di chi formula la linea guida, pensando alla generalità sia dei casi che della funzione (e comparando in termini generali costi-benefici delle diverse possibili soluzioni nelle diverse possibili situazioni), la prospettiva di chi agisce, nella situazione concreta, e la prospettiva ex post di chi giudica, dopo che è accaduto l’evento avverso e ragionando a tavolino. Se è accaduto un evento avverso, sicuramente potrà dirsi che poteva farsi di meglio; il problema del giudicare è mettersi nelle condizioni e dal punto di osservazione di chi si è trovato nella situazione di dover agire. Secondo l’art. 3 della legge Balduzzi (d.l. n. 158/2012, conv. con modif. in l. n. 189/2012), «L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». Questa norma costituiva anche una risposta alla decisione della Corte di cassazione che aveva ritenuto la responsabilità colposa del medico che aveva disposto la dimissione del paziente, poi morto per infarto, nonostante il medico adducesse il rispetto della linea guida. Il ragionamento della Cassazione era stato che quella linea guida era dettata anche per motivi economici e che il medico in generale non potesse essere e sentirsi scagionato, rispetto alla sua responsabilità professionale, dall’idea semplice di avere rispettato una linea guida. Da un canto, nella definizione normativa, può essere rilevata la contraddizione fra il giudizio di
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colpa e il rispetto delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. D’altro canto, è stata sollevata dal Tribunale di Milano (IX sez. pen., ord. 21.3.2013) questione di legittimità costituzionale della norma, che costituirebbe una norma “ad professionem” (con chiaro riferimento al disvalore connesso alla nozione di leggi “ad personam”), ovvero una disciplina privilegiata in favore della categoria dei medici. La questione è stata considerata irricevibile dalla Corte costituzionale (ord. 6.12.2013, n. 295), manifestamente inammissibile, per «insufficiente descrizione della fattispecie concreta», che «impedisce alla Corte la necessaria verifica della rilevanza della questione, affermata dal rimettente in termini meramente astratti e apodittici». La valutazione delle linee guida deve servire tanto a orientare il comportamento del sanitario quanto a orientare il giudizio su quel comportamento. La norma della Balduzzi non era certo un miracolo d’ingegneria legislativa, ma serviva a costituire, a costruire, un compromesso. Soprattutto, le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica erano considerate nella loro dimensione sostanziale, ricostruita, apprezzata e valutata (oggetto di ricostruzione, apprezzamento e valutazione concreta) di volta in volta dal giudice. Quindi, la norma, al di là del tipo di definizione della soglia di responsabilità, serviva tanto a indurre il riferimento del giudizio alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, quanto a formulare le linee guida e definire e accreditare le buone pratiche da parte della comunità scientifica. Nel testo approvato dalla Camera dei deputati il 28 gennaio 2016, risultante dall’unificazione di diversi disegni di legge, si stabiliva l’introduzione nel codice penale di una previsione concernente in modo peculiare la «Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario», secondo cui «L’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, cagiona a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita risponde dei reati di cui agli articoli 589 [omicidio colposo] e 590 [lesioni personali colpose] solo in caso di colpa grave».
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Veniva così limitata alla colpa grave la responsabilità penale del medico nel caso dell’imperizia. Nell’art. 6 della legge Gelli, 8.3.2017 n. 24, «Responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria», al primo comma viene stabilita l’introduzione nel codice penale dell’art. 590 sexies, «Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario»: «Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma». «Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Nel secondo comma viene abrogato il primo comma dell’art. 3 della l. Balduzzi. È implementato lo schema della l. Balduzzi, ma è esclusa la responsabilità penale per imperizia, quindi la contraddizione sopra rilevata è assai allargata, e le linee guida sono quelle definite e pubblicate ai sensi di legge. Nell’art. 5 della legge sono formalizzati e disciplinati il ruolo e le caratteristiche di rappresentatività delle società scientifiche e la dimensione, la funzione e gli aggiornamenti delle linee guida: «pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituti pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali». Ai sensi del comma 3, «Le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse elaborati dai soggetti di cui al comma 1 sono integrati nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG), il quale è disciplinato nei compiti e nelle funzioni con decreto del Ministro della salute, da emanare, previa intesa Responsabilità Medica 2017, n. 2
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in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, con la procedura di cui all’articolo 1, comma 28, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e successive modificazioni, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge [La legge 662/1996 reca «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica» e la disposizione indicata, modificata con l’art. 1 comma 796 l. 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), riguarda gli indirizzi per l’uniforme applicazione dei percorsi diagnostico-terapeutici in ambito locale e le misure da adottare in caso di mancato rispetto dei protocolli medesimi, ivi comprese le sanzioni a carico del sanitario che si discosti dal percorso diagnostico senza giustificati motivi]. L’istituto superiore di sanità pubblica nel proprio sito internet le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse indicati dal SNLG, previa verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto, nonché della rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni». Secondo il successivo comma 4, «Le attività di cui al comma 3 sono svolte nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente e comunque senza nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica». Assodata la funzione di indirizzo e razionalizzazione della standardizzazione delle condotte mediche, che nella legge è così sancita e indotta, promossa, possono svolgersi, peraltro, alcune considerazioni, diverse e su piani diversi, anche se con profili di convergenza e interferenza. La considerazione più generale è che viene burocratizzata, e politicizzata, l’attività medica. Le linee guida sono quelle espresse dagli enti e dalle associazioni che rispondono a determinati requisiti di rappresentatività e le quali sono validate, riconosciute e pubblicate a cura dell’Istituto superiore di sanità. Assumono grande rilevanza, di garanzia dell’attività sanitaria, la rappresentatività della categoria e l’appartenenza a una istituzione rappresentativa. Responsabilità Medica 2017, n. 2
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Ma invece l’attività sanitaria è un’attività scientifica e pratica, di formazione, ricerca ed esperienza, nonché aggiornamento. Un’altra considerazione è che tutto questo non può davvero immaginarsi a costo zero. In buona misura non accadrà, semplicemente, come in tanti altri contesti e situazioni è avvenuto. Saranno, o sarebbero, necessarie nutrite squadre di specialisti che si occupino professionalmente e stabilmente di queste attività. Ma invece la loro attività dovrebbe essere quella sanitaria. Considerazione di carattere più teorico è che l’attività sanitaria è di così grande complessità, implica variabili (delle patologie, dell’ambiente, delle soluzioni e delle pratiche) così numerose e mutevoli, da essere più difficilmente semplificabile in forme generali e astratte. Ogni paziente è diverso dall’altro e ogni patologia è diversa dall’altra. Le regole di esperienza vanno intese come indicazioni e non possono essere intese e adottate in modi assoluti, tantomeno costruite come un mansionario dell’attività professionale. Un paragone può essere interessante con le regole formalizzate del codice della circolazione stradale, con quella dimensione di formalizzazione delle regole di condotta. Quelle del codice della strada sono regole convenzionali di cautela, per lo più di prudenza. È fondamentale che siano definite in modo formale, perché sono convenzionali: sono regole del gioco. Si può convenire che si circoli tenendo la destra o la sinistra, che si debba dare la precedenza a destra o a sinistra: ciò che conta è che ci si metta d’accordo, che ci sia accordo sociale sulla regola. I limiti di velocità possono essere benissimo modificati, stabilendo diverse comparazioni fra rischi e benefici. Quelle dell’attività medica sono prevalentemente regole di abilità ed esperienza, di perizia, basate sulle conoscenze e sulle capacità degli operatori. La norma penale della legge Gelli esprime una contraddizione nel dire che se il medico ha sbagliato, cioè qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone
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pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto. Se il medico ha rispettato tutte le prescrizioni definite come buone pratiche clinico-assistenziali, le quali possano ritenersi adeguate alle specificità del caso concreto, non dovrebbe esservi spazio per il giudizio di imperizia. La norma dice che se il medico ha sbagliato, ovvero la sua condotta possa essere qualificata imperita, tuttavia non può essere condannato se allega una linea guida definita e accreditata cui il suo comportamento possa essere ricondotto. La contraddizione viene superata, in concreto, dal fatto che i sanitari definiscono le linee guida anche in funzione della loro garanzia e difesa, oltre che della migliore assistenza sanitaria. La norma induce cioè prassi di definizione e sanzione di linee guida che stabiliscano punti di equilibrio, così tra benessere dei cittadini e costi della sanità, come tra ottimizzazione delle prestazioni sanitarie e garanzia degli operatori. Punti di equilibrio che diventano giuridicamente rilevanti, ai fini della definizione delle responsabilità. I sanitari saranno garantiti dalle appartenenze (alle associazioni ed enti rappresentativi della categoria), e le società scientifiche definiranno le linee guida anche in funzione della garanzia e della difesa dei loro appartenenti. Non sembra esagerato tracciare il rischio della istituzionalizzazione della medicina difensiva. In mancanza di tali definizioni, non sarà cambiato nulla, semplicemente, rispetto a prima. Appare ulteriormente contraddittorio, e molto strano, nella l. Gelli, che il criterio della colpa grave sia stato adottato come limite della rivalsa in sede civile, come già dell’azione amministrativa davanti alla Corte dei Conti, ma invece non altrettanto, anzi a maggior ragione, come criterio di fondo e limite della responsabilità penale. Eppure, data l’impalcatura generale della legge, sarebbe stato ovvio, più che ragionevole, che fosse così, e ciò avrebbe anche costituito un’evoluzione e un compimento della linea introdotta con la l. Balduzzi.
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Nei convegni dei medici mi è capitato spesso di sentire l’esigenza e la richiesta rivolta ai giuristi di tipizzare la colpa e di definire la colpa grave. La colpa non si può tipizzare, se non in modo casistico, come la causalità: perché sono infinite sia le possibilità di verificazione di un evento che le precauzioni possibili per evitarlo. Si può affinare, articolare, il criterio di argomentazione e di valutazione: sviluppando il ragionamento. La gravità della colpa dovrebbe essere definita, in fondo e in ultima analisi, dalla quantità percentuale di soggetti, del tipo di quello di cui si giudica, che nella situazione del tipo di quella concretamente accaduta si comporta e si sarebbe comportata nel modo opportuno oppure difformemente. Questo criterio dovrebbe servire a commisurare la doverosità/antidoverosità della condotta. Nella legge sulla responsabilità civile dei magistrati, – in cui è previsto che il cittadino eserciti l’azione di risarcimento contro lo Stato e che la rivalsa, nei casi di colpa grave, non possa superare la misura della metà dello stipendio netto di un anno e non possa comportare il pagamento per rate mensili in misura superiore a un terzo dello stipendio netto –, con la riforma del 2015 sono state definite le tipologie di condotte che costituiscono colpa grave: ai sensi dell’art. 2 comma 3 l. n. 117/1988, come modificato con l’art. 2 l. n. 18/2015 «Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione». È fin troppo facile il commento sulla estrema gravità oggettiva astratta e verosimilmente soggettiva concreta delle situazioni così rappresentate. Secondo il successivo comma 3-bis, «Fermo restando il giudizio di responsabilità contabile di cui al decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea si tiene conto, Responsabilità Medica 2017, n. 2
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in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza. In caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea si deve tener conto anche della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea». Si tenga conto ancora e infine che i magistrati sono giudicati dai loro colleghi, tutti gli altri cittadini, compresi i sanitari, sono giudicati dai magistrati. Lo schema essenziale della responsabilità civile dei magistrati sarebbe stato utile riferimento, avrebbe potuto essere maggiormente considerato, per una buona legge di definizione e riforma del sistema della responsabilità dei sanitari: i quali compiono un’attività più delicata e in condizioni di minore possibile riflessività in confronto ai magistrati stessi, e l’errore dei quali dovrebbe essere considerato rischio tipico della funzione e quindi del servizio sanitario: da distribuire socialmente e che invece è sbagliato attribuire singolarmente ai sanitari, sia dal punto di vista funzionalistico che da quello della giustizia. Non sembra irragionevole ravvisare una disparità di trattamento fra le discipline della responsabilità dei danni che i sanitari e i magistrati abbiano cagionato nelle loro delicate attività, meritevoli di garanzia. Il confronto è rafforzato dalla considerazione che il medico che sbaglia agisce comunque volendo salvare il paziente, anche per ragioni di
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credito professionale, mentre la stessa considerazione non vale per il magistrato che sbaglia. Ancora, il magistrato normalmente giudica, spesso a tavolino e sulle carte, fatti accaduti e opera in condizioni di maggiore serenità, avendo le possibilità di valutare, riflettere e consultarsi, rispetto alle situazioni in cui per lo più viene a trovarsi ovvero può trovarsi il medico cui capita di sbagliare. Insomma, è difficile sostenere che il bene “giustizia” debba avere un livello di protezione diverso e superiore rispetto al bene “salute”. Tornando alla questione della misura della colpa nella responsabilità penale del medico, una norma che limitasse formalmente alla colpa grave la responsabilità penale del medico per omicidio e lesioni colposi contrasterebbe con il principio di uguaglianza. Ma invece questo criterio può, e deve, ricavarsi dall’art. 2236 c.c., come criterio di carattere generale dell’ordinamento (che è uno e unico), con riferimento all’esercizio delle attività difficili e dunque all’imperizia. Tutte le diverse ipotesi formali, tentate e prospettate, sembrano inopportune, e costituiscono più problemi di quanti contribuiscano a risolvere. Questa problematica sembra addirittura emblematica per mostrare l’efficacia del sistema della discrezionalità dell’azione penale. Perché nei Paesi che hanno questo sistema viene risolto più facilmente il problema della responsabilità penale del medico: che è una figura particolarmente adatta a tutte le forme di mediazione tra le parti indotte da quel sistema.
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g g sa re e a p
Profili critici della nuova legge sulla responsabilità professionale del personale sanitario Fabio Cembrani
Direttore U.O. di Medicina legale - Azienda provinciale per i Servizi sanitari della Provincia autonoma di Trento
Abstract: L’autore, in un primo commento alla nuova disciplina che ha riformato in Italia la responsabilità professionale del personale sanitario, affronta le sue novità interrogandosi se essa sia un passo in avanti rispetto agli obiettivi dichiarati (riduzione del contenzioso medico e dei costi della medicina difensiva) o se le attuali criticità siano destinate a restare tali se non addirittura a lievitare ulteriormente. Discute, in particolare, le modifiche introdotte dalla legge Gelli-Bianco sul versante penale che, dopo aver eliminato qualsiasi riferimento al grado della colpa, ha circoscritto la non punibilità alla sola imperizia seppellendo i più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità che avevano esteso l’ombrello protettivo della colpa lieve anche alle ipotesi di negligenza e di imprudenza. The Author, in a first comment on the new legislation that reformed in Italy the professional responsibility of health personnel, he faces his new questioning whether it is a step forward compared to the stated objectives (reduction of medical litigation and the costs of defensive medicine) or whether the current critical issues are destined to remain so if not to rise further. Discusses, in particular, the changes introduced by the Gelli-Bianco law on criminal slope, after deleting any reference to the degree of fault, has circumscribed the non-punishment to one of skill burying the most recent guidelines of the Court of legitimacy that they had extended the protective umbrella of negligence also to cases of negligence and recklessness.
Il 28 febbraio 2017 la Camera dei Deputati, con alcune modifiche rispetto al testo licenziato dal Senato l’11 gennaio precedente, ha definitivamente approvato la legge «Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario», oramai nota come legge Gelli-Bianco dal nome dei parlamentari relatori nei due rami del Parlamento i quali – occorre ricordarlo – sono due medici dell’attuale maggioranza di governo che dovrebbero conoscere i problemi della professione visto anche che il secondo di essi ha a lungo ricoperto il ruolo di presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici-chirurghi e degli odontoiatri. La nuova legge (pubblicata con il n. 24 sulla Gazzetta Ufficiale del 17 marzo 2017), accolta con entusiastici plausi mediatici e dopo la raccolta di moltissime firme in una petizione pubblica con cui si chiedeva al Parlamento di velocizzare la sua approvazione per ridurre il dilagante contenzioso medico e ridurre i costi della medicina difensiva, contiene importanti novità che, modificando la legge Balduzzi a pochi anni di distanza dalla sua approvazione, novellano la responsabilità medica intervenendo direttamente sulla legge penale: limitando la responsabilità penale di chi esercita una tra le molte professioni sanitarie ai soli reati di omicidio e di lesioni personali colpose causate da un comportamento imperito che abbia violato le regole contenute nelle guidelines che Responsabilità Medica 2017, n. 2
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dovranno essere elaborate (e periodicamente aggiornate) dagli Enti e dalle istituzioni pubbliche o dalle Società scientifiche o dalle Associazioni tecnico-scientifiche iscritte in un apposito elenco nazionale o, in loro mancanza, nelle bestpractice clinico-assistenziali. Essa, facendo menzione alla sola imperizia, ha così sommariamente spazzato via quell’interessante e promettente orientamento giurisprudenziale, sia pur minoritario, per il quale «la colpa lieve nell’attenersi a linee guida importa la non punibilità anche nelle ipotesi di negligenza e imprudenza»1. Un rapido colpo di ramazza che, pur colto dagli interpreti più attenti, non è stato però appieno compreso dai professionisti della salute sul piano dei suoi effetti pratici visto il plauso entusiastico che ha accompagnato l’approvazione della norma. E che occorre affrontare riflettendo sul fatto che la legge Balduzzi nulla diceva a proposito di quali tipologie di colpa generica potevano o meno «rientrare nel beneficio della irresponsabilità per colpa lieve»2 indicando però le regole cautelari nelle guidelines e nelle bestpractice accreditate dalla comunità scientifica internazionale mentre la nuova legge le circoscrive a quelle (e solo quelle) che andranno a comporre il sistema delle linee guida interne. Con la conseguenza che la novità sostanziale della nuova riforma è che, eliminato qualsiasi riferimento al grado della colpa, la punibilità dell’esercente la professione sanitaria emerge quando l’esito dannoso (non tutti, ma solo quelli circoscritti alla morte della persona ed alle lesioni personali3) è il risultato finale di un comportamento imperito, non importa se grave o lieve (sub. 1) con violazione delle regole di condotta contenute nelle linee guida (sub. 2) purché le stesse siano ade-
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guate rispetto alla specificità del caso clinico (sub. 3) o, in loro assenza, nelle buone partiche clinico-assistenziali. A dire che i presupposti della non punibilità di chi esercita una professione sanitaria sono sostanzialmente tre: (a) l’esistenza di una linea guida (o, in sua mancanza, di una buona pratica clinico-assistenziale) come patrimonio consolidato dell’arte medica approvata ai sensi di legge ed aggiornata ogni due anni dai soggetti a ciò accreditati; (b) la non meglio qualificata deviazione del caso clinico rispetto a quanto da esse teoricamente rappresentato essendo venuto meno il riferimento alle «rilevanti» specificità del caso; (c) la violazione colposa ricadente però nella sola imperizia.
2
(2) L’elaborazione dottrinale che si è già formata sulla legge Gelli-Bianco ha saputo immediatamente cogliere la maggior parte dei suoi snodi critici4 pur ponendosi essa gli stessi obiettivi dichiarati dalla riforma precedente (riduzione del contenzioso e della medicina difensiva), a conferma così del suo sostanziale fallimento. In attesa degli sviluppi giurisprudenziali che ci si augura potranno colmare i nuovi profili di incertezza dell’irresponsabilità della legge, ciò su cui si vuole qui riflettere è la rinnovata fiducia dal legislatore riposta nelle guidelines e, in loro assenza, nelle bestpractice clinico-assistenziali individuate quali sintesi delle leggi cautelari dell’arte medica. Con alcune sostanziali novità, rispetto alla legge Balduzzi, che si possono indicare: (1) nell’aver la legge Gelli-Bianco delineato un sistema nazionale di guidelines; (2) nel ruolo supplettivo da essa riconosciuto alle bestpractice, risultando queste ultime aver valore solo in carenza delle prime (dunque, in una fase intertemporale che non si preannuncia certo breve o sulle questioni da esse non specificatamente affrontate); (3) nell’essere state le bestpractice lasciate ancora una volta nel campo dell’incerto e dell’indeterminato non essendo chiaro né il cosa esse realmente sono né
Fatico a comprendere come questi eventi possano essere l’esito di un’attività medico-legale che la norma pur considera tra gli atti medici.
4 Così Caletti, Mattheudakis, Una prima lettura della legge ‘Gelli-Bianco’ nella prospettiva del diritto penale, in Dir. pen. contemporaneo, 9 marzo 2017.
Cfr. Piras, La riforma della colpa medica nell’approvanda legge Gelli-Bianco, in Dir. pen. contemporaneo, 25 marzo 2016.
1
Cfr. Poli, Il d.d.l. Gelli-Bianco: verso un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del medico ai principi costituzionali, in Dir. pen. contemporaneo, 20 febbraio 2017. 3
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chi è il soggetto tenuto alla loro validazione (se esse sono, cioè, le tradizionali leggi dell’arte rintracciabili nell’esperienza consolidata ed accreditata a livello internazionale o quei protocolli rigidi di comportamento indicati dalle Raccomandazioni ministeriali sulla gestione del rischio clinico come in passato ammesso dai Supremi Giudici). Su questi snodi si è fin qui poco riflettuto. Perché, a parte il sistema delle linee guida nazionali che dovranno essere elaborate (e periodicamente revisionate) dai soggetti accreditati dalla legge e che dovranno essere pubblicate sul sito internet dell’Istituto superiore di sanità, c’è da chiedersi con quali forze umane le Società scientifiche e le Associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie sapranno adempiere a questo difficile compito, come saranno gestiti ed affrontati i conflitti di interesse che pur continuano ad esistere, attraverso quali strumenti esse sapranno arginare gli interessi di profitto dell’industria farmaceutica che – senza paura di essere smentiti – si renderanno sicuramente evidenti e attraverso quali garanzie le stesse costruiranno raccomandazioni di carattere generale con il solo obiettivo di migliorare gli outcomes di salute senza precostituire prassi di comportamento a garanzia dell’irresponsabilità penale del medico5. Sapranno le guidelines nazionali adempiere alle esigenze di miglior cura della persona o si preoccuperanno esse, invece, di garantire il professionista dal rischio penale? Sapranno le Società e le Associazioni tecnico-scientifiche professionali onorare il loro mandato con la periodicità prevista dalla nuova riforma? Con quali risorse in campo visto che chi di noi ha un minimo di esperienza pratica in questo campo sa quanto è difficile e dispendioso mettere assieme un panel di professionisti motivati e disposti a donare gratuitamente il loro tempo alla scienza e come sia difficile governare i conflitti di interesse che, in questi campi, assumono volti molto difficili da riconoscere? E con quali garanzie per i soggetti a cui si rivolge la cura per evitare che regole
Cfr. Qaseem et al., Board of Trustees of the Guidelines International Network. Guidelines International Network: toward international standards for clinical practice guidelines (2012) 156 Ann Intern Med 525 ss.
generali di diligenza e di prudenza siano trasferite nella perizia? O, al contrario, ad evitare che processualmente in chiave accusatoria, si trasformino casi di imperizia in imputazioni per negligenza o imprudenza? Continueranno ad esserci Regioni e Società scientifiche che producono molto e quelle che hanno fin qui prodotto troppo poco per non dire nulla? E chi sarà l’organo indipendente che dovrà affidare alle singole Società precisi compiti di elaborazione tecnica per evitare sovrapposizioni e confusioni pericolose? Ed infine: quali profili di colpa si potranno ravvisare a carico di chi avrà redatto e validato le guidelines quando saranno processualmente dimostrate le loro insufficienze, carenze se non addirittura errori? (3) In questa fase è, naturalmente, molto difficile per non dire impossibile abbozzare una risposta organica a questi interrogativi e solo il tempo saprà colmare i molti dubbi che nutro con la speranza che le deadline previste dalla legge Gelli-Bianco non facciano la brutta fine di quelle previste dalla riforma Balduzzi. In attesa di ciò, c’è però ancora da chiedersi come possa prospettarsi un’ipotesi di condotta imperita nel caso in cui le linee guida o le buone pratiche clinico-assistenziali siano state rispettate e le stesse risultino adeguate alla (non più rilevante come previsto nel testo approvato dalla Camera) specificità del caso: perché il comportamento ad esse conforme non può che escludere l’imperizia e perché, come è stato autorevolmente osservato dagli interpreti più attenti, «non c’è alcuno spazio teorico per un’imperizia di risulta» e, a guardare ancora con più attenzione, «neppure negligenza o imprudenza, qualora le linee guida contengano relative regole»6. Ed a prescindere da quanto previsto dall’art. 590-sexies c.p. che, molto probabilmente, è l’effetto della radicalizzazione di quella giurisprudenza di legittimità formatasi dopo la legge Balduzzi in base alla quale culpa levis sine imperitia non excusat. La quale trascura o finge
5
Cfr., Piras, Imperitia sine culpa non datur. A proposito del nuovo art. 590-sexies c.p., in Diritto pen. contemporaneo, 1 marzo 2017.
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di non vedere una realtà che è sotto gli occhi di tutti: le guidelines ed ancor di più le bestpractice clinico-assistenziali (se esse sono davvero schemi rigidi e predefiniti di comportamento) non contengono, infatti, solo regole di perizia ma anche regole di diligenza e di prudenza professionale come è noto a chi di noi le utilizza di regola nella pratica clinica e come ammesso da quella giurisprudenza di legittimità che ha gradualmente cercato di dilatare la colpa lieve anche a queste ipotesi colpose. Prevedere sole regole di perizia quale fonte di esclusione della punibilità eliminando qualsiasi riferimento al grado della colpa, punto centrale di tutto l’impianto normativo della legge Balduzzi7, è così un errore strategico che snatura, alla fine, ciò che è il reale obiettivo e l’intento delle linee guida e delle buone pratiche: le prime delle quali sono, ad unanime consenso, revisioni sistematiche della letteratura che si propongono di ottimizzare gli outcomes di salute dei molti atti medici tenuto conto dei loro rischi e dei relativi benefici8. Ed ipotizzare che le regole cautelari in esse contenute attengano alla sola perizia del professionista è cogliere delle linee guida o delle buone pratiche una parziale e sfumata rappresentazione che le decolora pericolosamente
Cfr. Cupelli, La colpa lieve del medico tra imperizia, imprudenza e negligenza: il passo avanti della Cassazione (e i rischi della riforma alle porte), in Dir. pen. contemporaneo, 27 giugno 2016. 7
Raccomandazioni finalizzate a migliorare l’assistenza ai pazienti, basate su una revisione sistematica delle evidenze e sulla valutazione di benefici e rischi di opzioni alternative. Come è noto, le linee guida costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato, metabolizzato, reso disponibile in forma condensata, in modo che possa costituire un’utile guida per orientare agevolmente, in modo efficiente ed appropriato, le decisioni terapeutiche. Si tenta di oggettivare, uniformare le valutazioni e le determinazioni; e di sottrarle all’incontrollato soggettivismo del terapeuta. I vantaggi di tale sistematizzata opera di orientamento sono tanto noti quanto evidenti. Tali regole, come sarà meglio chiarito nel prosieguo, non danno luogo a norme propriamente cautelari e non configurano, quindi, ipotesi di colpa specifica. Esse, tuttavia, hanno a che fare con le forti istanze di determinatezza che permeano la sfera del diritto penale. Tale enunciazione, assai utile alla comprensione del sistema e delle implicazioni di fondo connesse alla riforma, ha bisogno di un breve chiarimento.
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rispetto alla loro variabilità cromatica aprendo le porte all’utilizzo strumentale ed alla loro deriva. Come implicitamente ammesso dall’orientamento assunto dai Supremi giudici con il quale, sia pur in modalità minoritaria, si è evidenziato che le linee guida pongono «regole rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta dell’agente (è) quello della diligenza» professionale9. Ciò che è certo, senza paura di essere smentiti da chi continua a rivolgere un plauso alla nuova riforma, è che il regime di non punibilità della legge Balduzzi era più favorevole visto e considerato che essa, in buona sostanza, si limita ad affermare che la condotta rispettosa delle linee guida approvate ai sensi di legge ed adeguate alla specificità del caso concreto non è imperita, che si risponde penalmente anche per un comportamento imperito lieve o non grave e che, in loro carenza, il comportamento atteso deve essere conforme alle buone pratiche clinico-assistenziali che sono però lasciate nuovamente nel limbo dell’indefinito e dell’incerto pur assumendo una posizione supplettiva rispetto alle prime. Perché se è chiaro chi sono i soggetti chiamati a redigere le linee guida e la periodicità della loro revisione (art. 5) contando che l’Istituto superiore di sanità saprà calmierare, nel suo compito di controllo e verifica, i conflitti di interesse molto diffusi nel mondo professionale, chiaro non è ancora che cosa sono le bestpractice clinico-assistenziali che la giurisprudenza di legittimità formatasi dopo la legge Balduzzi ha spesso indicato indicato nei protocolli e negli schemi rigidi e predefiniti di comportamento diagnostico-terapeutico di carattere imperativo ricompresi, tra l’altro, nelle Raccomandazioni ministeriali riguardanti gli eventi sentinella. Le quali non contengono certo sole regole di perizia professionale ma anche regole di prudenza e di diligenza come dimostra, ad esempio, quella parte della Raccomandazione sulla prevenzione delle cadute che richiede di valutare il rischio posturale con apposite scale multiassiali, quella che invita il team chirurgico al conteggio delle garze
Cass. pen., 9.11.2014, n. 47289, in Dir. pen. proc., 2015, 1141, con nota di Caletti.
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ad ogni chiusura di strato o quella che individua le modalità operative che occorre prudentemente osservare nella prescrizione telefonica10; e la cui implementazione ed adattamento a livello locale prevista in quelle Raccomandazioni, a parte qualche rarissima eccezione, è purtroppo rimasta lettera morta. Ridurrà la nuova legge i costi della medicina difensiva o, meglio, quei costi dell’overdiagnosis e dell’overtreatment che testimoniano la ridondanza del modello scientifico oltre alla sua non tenuta e che non possono essere trasfigurati nei comportamenti agiti in chiave difensivistica? Non lo credo. Anzi, vedo il fortissimo rischio che questi costi incrementeranno per una ulteriore radicalizzazione ed esasperazione della proceduralizzazione dei percorsi diagnostico-assistenziali che non mette certo al centro dei processi di cura
10 Cfr., Cass. 2013, 1179.
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i bisogni della persona e la sua richiesta di umanità. Spero, naturalmente, di errare ma, purtroppo, non credo che sarà così perché il ridotto ambito applicativo della non punibilità non risolve certo i molti problemi della parziale abolitio criminis avvenuta già con la disciplina precedente ma li amplifica con l’apertura di scenari futuri davvero poco rassicuranti. Disegnando, tra l’altro, un profondo cambiamento di genere dell’arte medica il cui determinante costitutivo sarà il sistema delle linee guida nazionali per come lo stesso è stato definito dall’art. 5 della nuova disciplina. E non è certo che questo sarà un cambiamento positivo né per chi è il fruitore della cura né per chi la deve erogare nel rispetto di cautele e di standard di natura scientifica ed umana.
9.4.2013, n. 16237, in Riv. it. med. leg.,
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s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza
Cass. CIV., III sez., 28.4.2017, n. 10506 Cassa App. Milano, 12.7.2012
Assicurazione – Clausole claims made – Contenuto – Esclusione delle richieste postume – Meritevolezza ex art. 1322 c.c. – Esclusione (c.c., artt. 1322, 1895, 2952.)
La clausola “claims made” inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile stipulato da un’azienda ospedaliera, per effetto della quale la copertura esclusiva è prestata solo se tanto il danno causato dall’assicurato, quanto la richiesta di risarcimento formulata dal terzo, avvengano nel periodo di durata dell’assicurazione, è un patto atipico immeritevole di tutela ex art. 1322, comma 2, c.c., atteso che realizza un ingiusto e sproporzionato vantaggio dell’assicuratore, e pone l’assicurato in una condizione di indeterminata e non controllabile soggezione. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista
La clausola claims made e le sezioni dis-unite della Supr. Corte: l’insostenibile incertezza del mercato Italo Partenza
Avvocato in Milano Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le origini del problema. – 3. I principi enunciati dalle sezioni unite secondo la III sezione – 4. La decisione della III sezione
Abstract: La sentenza in oggetto mette nuovamente in discussione la decisione delle Sezioni Unite sul presupposto della illiceità della clausola claims made laddove esclude l’operatività della garanzia in caso di claim tardivo. Tale decisione appare in contrasto anche con la recente legislazione (L 8.3.2017 n. 24) e con i principi generali codicistici.
1. Introduzione Il tema della clausola claims made – apparentemente lasciato dalle sez. un. del 20161 alla considerazio-
Cass., sez. un., 6.5.2016, n. 9140, in Dir. e giust., 2016. In dottrina ex multis si veda Hazan, Claims made: cronaca di una morte annunciata?, in Insurancetrade.it; Tarantino, La clausola ‘claims made’ non è vessatoria: ma l’ultima parola spetta al giudice in Dir. e giust., 2016, n. 22, 9; Guarneri Le clausole claims made c.d. miste tra giudizio di vessatorietà e giudizio di meritevolezza, in Resp. civ. e prev., 2016, 1238; Corrias, La clausola claims made al vaglio delle Sezioni Unite: un’analisi a tutto campo, in Banca, borsa, tit. cred., 2016, 656; Facci, Le clausole claims made e la meritevolezza di tutela in Resp. civ. e prev., 2016, IV, 1136. 1
The judgement infringes the precedent of the United Sections of the Supreme Court when considers void claims made clause if the coverage does not apply in case of claim notified after the policy has expired, That decision seems to be in contrast also with the recent Legislation (L 8.3.2017 n. 24) and with the general rules of the Italian civil code.
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ne del Giudice di merito chiamato ad una valutazione circa la meritevolezza della specifica clausola prevista nella polizza sottoposta ad esame – viene inaspettatamente ripreso dalla III sezione che interviene sulla motivazione della pronuncia di appello e, sulla scorta di una dichiarata fedeltà al principio sancito dalle sez. un. un anno prima, reintroduce argomentazioni che in realtà smentiscono di fatto il pronunciamento delle sezioni unite. Sembra inevitabile riprendere tutti i punti in discussione per tentare di fare chiarezza a fronte di una pronuncia così dissonante e che contiene talune affermazioni in diritto che sembrano piuttosto lontane dalle conclusioni alle quali un anno fa la Supr. Corte aveva tentato di legare il dibattito futuro sulla liceità della clausola claim. Tali affermazioni appaiono, in verità, in contrasto anche con la recente legislazione speciale che ha chiaramente regolamentato la natura claim delle polizze dei professionisti sanitari (l. 8 marzo 2017, n. 24) ed introducono – come purtroppo talora avviene – una insostenibile ed inutile incertezza nel mercato assicurativo. La decisione desta ancor più sorpresa se si pensa che pochi mesi prima la medesima sezione2 era inevitabilmente tornata sul punto ribadendo il principio di diritto ma senza entrare nel merito di quando o come una clausola fosse meritevole di tutela e – comunque – senza riproporre un tema (quello della liceità della clausola claim che vincola l’efficacia della garanzia al pervenimento di un claim durante la vigenza della polizza) già risolto dalle sez. un.
2. Le origini del problema Le sez. un. erano, infatti, state chiamate a risolvere un dibattito piuttosto articolato che aveva coinvolto la giurisprudenza – di merito e di legittimità – e la dottrina in merito alla liceità o meno della clausola claims made3.
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Cass., 11.1.2017, n. 417, in Guida al dir., 2017, n. 12, 90.
Di fatto, i più recenti orientamenti giurisprudenziali, con una certa semplificazione, possono ad oggi riassumersi in quattro posizioni fra loro differenti. Una prima, rappresentata da talune pronunce della XIII sezione del Tribunale di Roma 3
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Giurisprudenza
del 24.2.2012, n. 405 – ma contra e per la liceità tout court della clausola claim, Trib. Roma, 2.2.2015 – afferma la nullità della clausola claim in ragione del sostanziale squilibrio contrattuale che verrebbe a crearsi fra le parti, con particolare riferimento al momento conclusivo del rapporto ed alla valutazione del successivo rinnovo, ma anche negando di fatto la sussistenza di un’alea relativamente ai sinistri già accaduti seppure con claim non ancora formulato. Una seconda, rappresentata dalla sentenza n. 7273/2013 della Supr. Corte (Cass., 22.3.2013, n. 7273, in Guida al dir., 2013, n. 22, 57, s. m.) che se da un lato supera l’impostazione di talune pronunce di merito che avevano negato la legittimità della claim ai sensi dell’art. 1917 c.c., ricordandone la natura inderogabile dei soli commi 3° e 4°, afferma tuttavia la natura atipica del contratto che la contenga e demanda al giudice di merito la verifica, caso per caso della sua vessatorietà. Afferma in questo senso la Supr. Corte che “Il contratto di assicurazione della responsabilità civile con clausola a richiesta fatta (claims made) non rientra nella fattispecie tipica prevista dall’art. 1917 c.c., ma costituisce un contratto atipico, generalmente lecito ex art. 1322 c.c., poiché del suindicato art. 1917 c.c. l’art. 1932 c.c. prevede la inderogabilità – se non in senso favorevole all’assicurato – dei commi 3 e 4, ma non anche del primo, in base al quale l’assicuratore assume l’obbligo di tenere indenne l’assicurato di quanto questi deve pagare a un terzo in conseguenza di tutti i fatti (o sinistri) accaduti durante il tempo della assicurazione, di cui il medesimo deve rispendere civilmente, per i quali la connessa richiesta di risarcimento del danno, da parte del danneggiato, sia fatta in un momento anche successivo al tempo di efficacia del contratto e non solo nel periodo di efficacia cronologica del medesimo. Al riguardo, inoltre, non assume rilievo l’art. 2952 c.c., relativo alla richiesta di risarcimento fatta dal danneggiato all’assicurato o alla circostanza che sia stata promossa l’azione, trattandosi di norma che ha differente oggetto e diversa ratio, volta solamente a stabilire la decorrenza del termine di prescrizione dei diritti dell’assicurato nei confronti dell’assicuratore. Da ultimo, infine, spetta al giudice di merito accertare – caso per caso – se la clausola a richiesta fatta riducendo l’ambito oggettivo della responsabilità dell’assicuratore fissato dall’art. 1917 c.c., configuri una clausola vessatoria”. Una terza riferibile alla pronuncia della Supr. Corte (Cass., 17.2.2014, n. 3622, in Resp. civ e prev., 2014, 826, con ampia ed esaustiva nota di Locatelli) che ne riconosce la validità ma che si interroga sulla potenziale vessatorietà della limitazione della garanzia rispetto ai fatti accaduti durante la vigenza del contratto ma con claim notificato successivamente ad essa. Il passaggio logico della Corte di legittimità appare significativamente differente e più favorevole alla clausola claim allorché statuisce che “La clausola “claims made” prevede il possibile sfasamento fra prestazione dell’assicuratore e pagamento del premio, potendo risultare assicurati comportamenti anteriori alla conclusione del contratto se la domanda di risarcimento è proposta dopo tale data e potendo risultare sforniti di garanzia i comportamenti tenuti dall’assicurato nel corso della validità ed efficacia della polizza se la domanda di risarcimento è proposta successivamente alla cessazione degli effetti del contratto. Nei contratti a regime “claims
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Di derivazione anglosassone4 tali forme di copertura devono la loro diffusione nel mercato all’esigenza dell’assicuratore di responsabilità civile di conoscere con certezza la data in cui cesserà
made” il rischio esiste, pur se di natura e consistenza diverse da quella avente ad oggetto i comportamenti colposi dell’assicurato; l’alea non concerne i comportamenti nella loro materialità, ma la consapevolezza da parte dell’assicurato del loro carattere colposo e della loro idoneità ad arrecare danno a terzi e nel fatto che non qualunque comportamento colposo induce il danneggiato a proporre domanda di risarcimento dei danni. Nei casi in cui la domanda avviene in corso di contratto ed è riferita a comportamenti anteriori alla stipulazione, la clausola “claims made” è favorevole per l’assicurato, sicché non viene in considerazione il divieto di deroghe alla disciplina ordinaria di cui all’art. 1932 c.c., mentre nei casi in cui il sinistro si realizza nel pieno vigore del contratto d’assicurazione e la domanda viene svolta per la prima volta dopo lo scioglimento del contratto, la clausola potrebbe effettivamente porre problemi di validità venendo a mancare, in danno dell’assicurato, il rapporto di corrispettività fra il pagamento del premio e il diritto all’indennizzo per il solo fatto che la domanda viene proposta dopo lo scioglimento del contratto”. Più recente, invece, Cass., 15.2.2015, n. 2872: “La clausola cosiddetta “a richiesta fatta” (claims made) inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile (in virtù della quale l’assicuratore si obbliga a tenere indenne l’assicurato dalle conseguenze dannose dei fatti illeciti da lui commessi anche prima della stipula, se per essi gli sia pervenuta una richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato durante il tempo per il quale è stata stipulata l’assicurazione) è valida ed efficace, mentre spetta al giudice stabilire, caso per caso, con valutazione di merito, se quella clausola abbia natura vessatoria ai sensi dell’art. 1341 c.c.”, in Resp. civ. e prev., 2015, 278. Una quarta, infine, che ne afferma tout court la piena legittimità e che ne nega qualsiasi natura vessatoria. Afferma infatti la Corte d’appello di Roma del 22 settembre 2014 “… La clausola “claims made”, lungi dall’escludere la sussistenza del rischio garantito, lo delimita e lo circoscrive in una prospettiva diversa da quella che discenderebbe dall’applicazione del modello loss occourence perché consente all’assicurato di garantirsi non soltanto per gli errori professionali compiuti in futuro, ma anche per quelli già eventualmente verificatisi in un determinato periodo di tempo e di cui il professionista medesimo non sia consapevole, e si pone pertanto completamente al di fuori delle clausole vessatorie, sia per gli effetti di cui all’articolo 1341 c.c., sia con riguardo alla disciplina di tutela del consumatore”. In senso favorevole alla claim anche Trib. Palermo, 3.9.2012; Trib. Catania, 12.10.2009, in Assicurazioni, 2011, 309 con nota di Rossetti, Assicurazione della responsabilità civile e delimitazione temporale del rischio: la clausola claims made; Trib. Catania, 3.5.2010 e 25.3.2013; App. Roma, 22.3.2011; Trib. Napoli, 27.1.2014 e la già citata sentenza del Trib. Roma, 2.2.2015. Si vedano i riferimenti operati da Ceserani, Ancora nuvole di vaghezza attorno alla clausola claims made: alcune necessarie puntualizzazioni, in Dir. econ. ass., 2011, 501.
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l’esposizione al rischio dopo la scadenza della polizza. L’assicuratore di responsabilità civile generale che per l’operatività della garanzia faccia riferimento ai sinistri accaduti durante la vigenza del contratto a prescindere dalla data di pervenimento di una richiesta di risarcimento (meglio nota come copertura “loss occourence”), risulta infatti indefinitamente esposto al rischio di richieste risarcitorie che pervengano anche oltre il termine prescrizionale decennale5 e comunque dopo che la compagnia abbia cessato da anni di percepire un premio per il rischio medesimo. È infatti possibile che fatti commessi dall’assicurato in vicinanza della scadenza della copertura diano origine, a distanza di anni ma entro i termini di prescrizione o di decadenza previsti dalla legge, a richieste risarcitorie, sicché l’assicuratore “loss”, fin tanto che il diritto del terzo potenzialmente danneggiato non si sia prescritto, risulta esposto ad un rischio indennitario ben oltre la fine della polizza6. Questa “asimmetria” delle prestazioni rende, di conseguenza, molto più difficile per l’assicuratore la valutazione del rischio se non addirittura indeterminabile – e dunque non assicurabile – allorché lo stesso comportamento colposo causa dell’evento sia pressoché impossibile da collocare temporalmente. Le coperture “claims” offrono, invece, il vantaggio – previa significativa riduzione del premio a carico dell’assicurato – di stabilire con certezza il momento nel quale l’assicuratore possa ritenere cessata l’esposizione al rischio, vale a dire la data entro la quale la richiesta di risarcimento non sarà più considerata valida ai fini della garanzia, ma gli stessi assicurati risultano favoriti dal poter contare
Ciò in ragione dell’essere stato il creditore in taluni casi nell’impossibilità di conoscere la stessa esistenza di un danno, perché magari la lesione non era immediatamente evidente (si pensi al caso delle infezioni da epatite c contratte in sede ospedaliera).
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Di qui la sistematica difficoltà per gli assicuratori di contabilizzare a bilancio gli accantonamenti per possibili esborsi relativi a sinistri “tardivi”, cioè sinistri relativi a polizze cessate da tempo (c.d. IBNR: Incurred But Not Reported).
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su massimali e coperture in vigore nel momento effettivamente rilevante, vale a dire la ricezione di una richiesta risarcitoria e non l’accadimento del fatto.
3. I principi enunciati dalle sezioni unite secondo la III sezione Per come ripresi dalla sentenza che qui si annota, i principi enunciati dalle sezioni unite della Supr. Corte possono essere riassunti nel seguente modo: “(a) la clausola claim’s made, nella parte in cui consente la copertura di fatti commessi dall’assicurato prima della stipula del contratto, non è nulla, e non rende nullo il contratto di assicurazione per inesistenza del rischio, ai sensi dell’art. 1895 c.c.; (b) la clausola claim’s made, nella parte in cui subordina l’indennizzabilità del sinistro alla circostanza che il terzo danneggiato abbia chiesto all’assicurato il risarcimento entro i termini di vigenza del contratto, delimita l’oggetto di questo, e non la responsabilità dell’assicuratore, e di conseguenza non è vessatoria; (c) la clausola claim’s made, pur non essendo vessatoria, potrebbe tuttavia risultare in singoli casi specifici non diretta a “realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, ai sensi dell’art. 1322 c.c. Quest’ultima valutazione tuttavia va compiuta in concreto e non in astratto, valutando: (c’) se la clausola subordini l’indennizzo alla circostanza che sia il danno, sia la richiesta di risarcimento da parte del terzo avvengano nella vigenza del contratto; (c’’) la qualità delle parti; (c’’’) la circostanza che la clausola possa esporre l’assicurato a “buchi di garanzia”.”
4. La decisione della III sezione Vi è da dire che per comprendere quanto la pronuncia della III sez. – apparentemente fedele ai principi di diritto enunciati dalle sez. un. – si diResponsabilità Medica 2017, n. 2
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scosti in realtà da essi7, è bene sin da subito evidenziare come la medesima fattispecie, ovvero la contestata inoperatività della garanzia per essere il claim pervenuto dopo la scadenza della copertura assicurativa sebbene il fatto originante la richiesta risarcitoria si fosse verificato durante la vigenza della copertura, ha trovato una disciplina radicalmente opposta. Se infatti – come conseguenza della liceità in sé della clausola claim – le sez. un. avevano ritenuto possibile considerare inoperante la garanzia assicurativa allorché il claim fosse pervenuto dopo la sua cessazione, limitandosi giustamente a stigmatizzare formule contrattuali eccessivamente riduttive che richiedevano che nel corso dello stesso periodo contrattuale dovessero essere collocati sia l’atto illecito che la richiesta risarcitoria, per la III sez., invece, il claim tardivo deve comunque essere sussunto in garanzia. In altri termini, per la III sez. una copertura claims made dovrebbe in realtà avere uno spettro di operatività ancora più ampio di una copertura loss occurence, in quanto oltre ad offrire una garanzia postuma per tutti i claim pervenuti per fatti accaduti durante la vigenza della polizza, dovrebbe coprire anche i fatti accaduti prima della
Ricordano infatti che le sez. un. nel caso di specie, che riguardava un’ipotesi di claim pervenuto dopo la scadenza della polizza, hanno chiarito che si trattava “… di verificare, alla stregua degli stimoli critici contenuti in ricorso e alla luce dei criteri innanzi esposti in ordine al controllo, immanente nella funzione giudiziaria, della compatibilità del regolamento di interessi in concreto realizzato dalle parti con i principi generali dell’ordinamento (cfr. Cass. civ. sez. un. nn. 26242 e 26243 del 2014; Cass. civ. 19 giugno 2009, n. 14343), la meritevolezza della clausola claims made inserita nella polizza n. 118921 stipulata dalla Provincia Religiosa con Cattolica Assicurazioni s.p.a. A giudizio della Corte dirimente appare sul punto il rilievo che la Curia capitolina ha segnatamente valorizzato, ancorché al fine di escludere la vessatorietà della clausola, la condizione di favore per l’assicurato rappresentata dall’allargamento della garanzia ai fatti dannosi verificatisi prima della conclusione del contratto. Il che dimostra, in maniera inequivocabile, che il giudice di merito ha condotto lo scrutinio anche e soprattutto in chiave di meritevolezza della disciplina pattizia che era chiamato ad applicare. Il positivo apprezzamento della sua sussistenza, nella assoluta assenza di deduzioni volte ad evidenziarne l’irragionevolezza e l’arbitrarietà, è, per quanto innanzi detto, incensurabile in sede di legittimità”.
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stipula, a condizione che il claim sia pervenuto durante la vigenza della copertura. Questa singolare interpretazione – ma non innovativa in quanto attribuibile ad un minoritario orientamento del Tribunale di Roma (sub nt. 2) – smentisce di fatto in maniera integrale la posizione delle sez. un., negando legittimità all’essenza stessa di tale clausola. Le ragioni esposte a fondamento di tale decisione non attengono in alcun modo al tema della meritevolezza, nonostante esso venga esplicitamente ripreso nell’enunciazione del principio di diritto, bensì si ricollegano ad una precisa tesi dottrinale8 che, seppur certamente legittima e particolarmente autorevole, è però in palese contrasto con la scelta operata dalle sez. un. Queste argomentazioni non convincono per le seguenti ragioni. Non è vero che l’ordinamento – ex art. 1322 c.c. – non può avallare la circostanza che la prestazione dell’assicuratore dipenda da un evento futuro ed incerto dipendente dalla volontà del terzo danneggiato, e cioè la richiesta di risarcimento. Afferma la Corte che in tal modo l’assicurato ben potrebbe in qualche modo stimolare il pervenimento di una richiesta risarcitoria al fine di rendere operante la garanzia sottoscritta ed evitare che il claim giunga tardivamente, con conseguenti problemi di operatività della polizza. A questa affermazione basterebbe replicare che non è descrivendo la patologia di un rapporto che se ne comprende la fisiologia: se l’assicurato dovesse adottare comportamenti contro buona fede, l’assicuratore e l’ordinamento avrebbero certamente la possibilità di porvi rimedio, posto che un comportamento del genere non potrebbe che assumere connotazioni vicine alla frode. In realtà però ciò che si dimentica è che esiste una profonda differenza fra la fonte della responsabilità – ovvero l’atto illecito – e l’assicurazione della responsabilità civile che non trova il suo titolo nell’atto illecito, bensì in un contratto che può avere a riferimento non già l’accadimento
Rossetti, Il Diritto delle Assicurazioni, Padova, 2013, vol. III.
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dannoso, bensì il pervenimento di una richiesta risarcitoria. E del resto basti ricordare la circostanza, tutt’altro che scontata, che la caratteristica principale dell’assicurazione di responsabilità civile rispetto a qualsiasi altra forma di assicurazione è la presenza di un obbligo indennitario di natura contrattuale che trova il suo presupposto in un presunto illecito dell’assicurato. Presunto, si badi, non necessariamente effettivo o accertato posto che l’assicurato può invocare la manleva del suo assicuratore anche quando l’illecito non lo abbia affatto commesso ma si veda comunque richiedere – a suo giudizio ingiustamente – un risarcimento. In altri termini, l’assicuratore adempie al proprio obbligo contrattuale anche quando difende il proprio assicurato e non soltanto quando paga il sinistro. Pertanto ciò che determina la cogenza e l’effettività dell’obbligo contrattuale di polizza non è la commissione o meno di un atto illecito, bensì il pervenimento all’assicurato di una richiesta di un terzo. È ben vero che la fonte dell’obbligazione risarcitoria è l’atto illecito dal momento del suo compimento (né potrebbe essere diversamente), ma l’obbligo dell’assicuratore trova la sua fonte nel contratto sicché le parti sono certo libere di definire pattiziamente da quale momento/circostanza far sorgere l’obbligo di manleva, e quindi anche per fatti già accaduti, purché sussista il rischio che possa pervenire una domanda risarcitoria, a prescindere dal suo rivelarsi in futuro fondata o meno. Quindi si può tranquillamente affermare che può esistere un sinistro anche in assenza di un comportamento colposo o di un danno effettivamente patito da un terzo (cioè quando le pretese del terzo si rivelano/riveleranno infondate), ma non ci potrà mai essere un sinistro senza un claim poiché se nessuno chiede un risarcimento non c’è nulla da cui l’assicurato debba essere tenuto indenne. Per tali ragioni è di tutta evidenza che la comprensione della natura della garanzia RC deve partire dal fondamentale presupposto che evento e claim costituiscono componenti differenti fra loro ed in nessun caso sovrapponibili. Responsabilità Medica 2017, n. 2
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Che un comportamento colposo sia fonte di responsabilità civile sotto un profilo codicistico non significa in alcun modo che sia anche contrattualmente rilevante a termini di polizza poiché se il danneggiato non intende chiedere un risarcimento per il danno subito, da cosa mai l’assicurato dovrebbe essere tenuto indenne? Tale principio era chiaro al legislatore codicistico allorché nel disciplinare il termine di decorrenza dei diritti derivanti dal contratto di assicurazione nella garanzia RC lo ha fatto decorrere non già dall’evento – come per le altre assicurazioni danni – bensì dal pervenimento all’assicurato di un claim: fin tanto che il claim non perviene non c’è proprio nulla da cui l’assicurato dovrebbe essere tenuto indenne, con l’unica eccezione rappresentata da procedimenti penali dai quali possano potenzialmente prodursi conseguenze risarcitorie rilevanti a termini di polizza. Perché mai, dunque, il periodo temporale di riferimento di una copertura non dovrebbe far riferimento all’unico elemento determinante del rischio ovvero non certo l’evento dannoso bensì la richiesta risarcitoria ad esso collegata? Lo stesso art. 2952 c.c., allorché lega l’insorgenza del diritto all’indennizzo in una garanzia di responsabilità civile non già all’accadimento del fatto, bensì al pervenimento di un claim, evidenzia come il timore di far riferimento come momento di operatività o meno della garanzia al pervenimento di un claim, non sia certo riferibile né al legislatore codicistico né, tantomeno, all’ordinamento, bensì soltanto a chi dimentica la differenza fra fatto illecito ed assicurazione del rischio che per tale fatto illecito pervenga una richiesta risarcitoria, differenza in fondo ben chiara alla stessa Supr. Corte allorché ricorda la rilevanza del danno conseguenza rispetto al danno evento … E cosa mai è il danno conseguenza se la conseguenza non viene invocata giudizialmente? Eppure questa consapevolezza le sez. un. l’avevano raggiunta anche per la clausola “claims made”, sicché non si comprende per quale ragione debba ora tornare in discussione. Né si comprende come si possa valutare che vi sia una sproporzione fra i vantaggi che un assicuratore riceve dalla clausola claim in sé che naturalmente prevede l’inoperatività della copertura per Responsabilità Medica 2017, n. 2
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una richiesta risarcitoria pervenuta tardivamente (si badi la clausola claim in sé e dunque non quella stigmatizzata dalle sez. un.) se nessuna valutazione si rinviene circa la ponderazione fra rischio sottoscritto e premio ricevuto (le coperture loss sono in realtà assai più onerose per l’assicurato proprio perché effettivamente spesso coprono un rischio più ampio): come si rileva dunque ed in base a quali parametri la sproporzione nell’ambito di un sinallagma se non si tiene conto del corrispettivo a carico di una delle parti? E poi, se la clausola fosse stata differente e non vi fosse stata la limitazione ai claim relativi ai fatti accaduti in vigenza di polizza e vi fosse stata una estensione retroattiva, i fatti accaduti nei dieci anni antecedenti le considerazioni sulla illiceità dell’esclusione dalla copertura del claim tardivo quale significato avrebbero avuto? È la retroattività che garantisce la meritevolezza della clausola claim o neppure questa è sufficiente? E se non lo è le sez. un. a quale clausola claim hanno fatto riferimento allorché ne hanno sancito la liceità? Che vi sia un problema nella successione delle coperture allorché la stessa richiesta possa essere contestata dall’assicuratore la cui polizza era vigente al momento dell’accadimento e da quello nel corso della cui copertura pervenga il claim in quanto riferibile ad una circostanza taciuta dall’assicurato al momento della sottoscrizione è problema noto e peraltro risolto dal mercato ora attribuendo rilevanza non soltanto alle richieste di risarcimento, ma anche a precedenti atti giudiziari di natura penale, ora prestando comunque garanzia in ultrattività ad assicurati zelanti che segnalino circostanze particolarmente gravi da far ritenere imminente il pervenimento di un claim. Ma che la non meritevolezza della clausola che richiede che tanto il danno quanto la richiesta di risarcimento avvengano nel periodo di durata dell’assicurazione significhi anche che una polizza di responsabilità civile debba avere necessariamente una natura postuma e quindi coprire sempre e comunque tutti i fatti accaduti durante la sua vigenza, significa dire qualcosa di profondamente diverso da quanto affermato dalle sez. un. E che l’orientamento delle sez. un. fosse per negare meritevolezza a clausole che richiedendo tale compresenza negavano di fatto quella simmetria
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fra coperture loss e coperture claim nelle quali una copra il futuro (ovvero le richieste legate a fatti accaduti in vigenza di polizza) e l’altra il passato (ovvero i fatti accaduti prima della stipula ma per i quali sia pervenuto un claim in vigenza di copertura) con conseguente necessità per le clausole claim di offrire copertura retroattiva (ma non anche postuma) è stato da subito chiaro alle Corti di merito9. La decisione che si annota torna invece indietro di diversi anni ed introduce improvvisamente ed immotivatamente un elevato grado di incertezza nel mercato assicurativo attraverso un’ulteriore interpretazione della quale certamente non si sentiva il bisogno e, soprattutto, rende poco comprensibile – quanto meno a chi scrive – il significato ed il ruolo nell’ordinamento di una pronuncia delle sez. un., che peraltro avevano anche ricordato come il giudizio di meritevolezza dovesse essere sottratto da quel momento in avanti al Giudice di Legittimità. Ricordiamo ancora una volta, infatti, che il giudizio di meritevolezza doveva investire – come effettivamente fatto dalle sez. un. nel caso portato alla loro attenzione – la sussistenza di un equilibrio contrattuale caratterizzato dalla tutela per i claim pervenuti in vigenza di polizza e relativi a fatti pregressi la stipula ma non mettere in discussione che l’assicuratore possa escludere l’operatività della garanzia per claim successivi alla fine del contratto.
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Negare la liceità di una clausola che vincola l’operatività della garanzia a claim pervenuti durante la vigenza della polizza significa negare liceità alla clausola claim e quindi andare in contrasto con l’orientamento appena espresso dalle sez. un. E se poi si pensa che uno dei maggiori problemi del sistema della responsabilità sanitaria è dato dall’assenza degli assicuratori e dunque dalla mancanza di liquidità sufficiente a finanziare il sistema risarcitorio di tutela del danno alla salute diviene ancor più incomprensibile la scelta di una magistratura che, certo non può orientare le proprie decisioni sulla base di interessi di mercato dovendo avere come prospettiva soltanto la giustizia e l’applicazione della legge, dovrebbe scegliere una strada e poi mantenerla. Questo pendolarismo decisionale rende inassicurabile il rischio ed ingestibile la scelta fra le modalità contrattuali da preferire, favorendo al contrario un pernicioso ed opportunistico contenzioso contrattuale fra assicurati ed assicuratori su clausole condivise al momento della sottoscrizione e strada facendo divenute non più di interesse. La Giustizia richiede certezza, lasciamo al Virgilio della Divina Commedia il “... vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare …” e teniamo tutti noi la barra del timone in una direzione condivisa – quale che sia – nel comune interesse dell’uniforme interpretazione delle norme.
Si ricorda in questo senso App. Napoli, 7.2.2017, n. 556; Trib. Bari, 3.2.2017, n. 640; Trib. Bologna, 12.8.2016; Trib. Monza, 5.7.2016; Trib. Milano, 17.6.2016, n. 7149. 9
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Cass. CIV., III sez., 10.1.2017, n. 243 Cassa App. Catania, 6.2.2013
Danni civili – Danno da nascita indesiderata – Responsabilità medica – Perdita di chance – accertamento – Nesso causale – Condizioni (c.c., artt. 1176, 1218, 1223, 2727, 2729; c.p., artt. 40, 41)
In tema di responsabilità medica, qualora risulti che un ginecologo, al quale una gestante si sia rivolta per accertamenti sull’andamento della gravidanza e sulle condizioni del feto, abbia omesso di prescrivere l’amniocentesi, esame che avrebbe evidenziato la peculiare condizione dello stesso (“sindrome di down”), la mera circostanza che, due mesi dopo quella prestazione, la gestante abbia rifiutato di sottoporsi ad ulteriori accertamenti prenatali non elide l’efficacia causale dell’inadempimento del medico quanto alla perdita della “chance” di conoscere lo stato del feto sin dal momento in cui quell’inadempimento si è verificato; conseguentemente, ove la gestante lamenti di aver subito un danno alla salute psico-fisica, per aver scoperto la condizione del figlio solo al termine della gravidanza, la perdita di quella “chance” deve essere considerata parte del danno ascrivibile all’inadempimento del medico.
Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista
Nascita indesiderata per omessa diagnosi del medico: rifiuto di sottoporsi ad amniocentesi e nesso causale Francesco Carlino
Specializzando in professioni legali nell’Università del Salento
Sommario: 1. La vicenda. – 2. I profili di inadempimento del medico: la violazione dell’obbligo informativo e la lesione del diritto all’autodeterminazione. – 3. Segue: il nesso di causalità tra l’omissione del medico di fiducia e la nascita indesiderata: il rifiuto della amniocentesi prescritta presso una struttura ospedaliera. – 4. L’omessa diagnosi da parte del medico quale perdita di chance di conoscere lo stato di salute del feto: effetto «sorpresa» e danno risarcibile.
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Abstract: La vicenda oggetto della pronuncia in epigrafe riguarda un caso di nascita indesiderata per un’amniocentesi non consigliata dal medico di fiducia e rifiutata dalla gestante qualche mese dopo, confidando nella consulenza ricevuta. Per la Supr. Corte, la violazione dell’obbligo informativo si pone in diretta connessione causale con il danno subito dalla coppia di genitori consistente nell’aver appreso con sorpresa la presenza di gravi malformazioni nel feto. La lesione del “diritto all’autodeterminazione procreativa” non può ritenersi esclusa, infatti, dal rifiuto della gestante di sottoporsi all’accertamento diagnostico dell’amniocentesi, comunque tardivo.
1. La vicenda Una donna e il marito agiscono in giudizio, in proprio e nella qualità di genitori, nei confronti del ginecologo cui la donna si era rivolta in occasione della gravidanza, chiedendo il risarcimento dei danni asseritamente subiti, conseguenza della condotta sanitaria inadempiente e consistenti nella «sorpresa» determinata dalla nascita di un figlio affetto dalla sindrome di Down. In particolare, il ginecologo non aveva prescritto né consigliato alla gestante di sottoporsi ad amniocentesi, così rassicurandola – in assenza di altri fattori o rischi allarmanti – sulla regolarità della gravidanza e sulla salute del feto. Due mesi dopo, proprio quel tipo di accertamento diagnostico venne, però, prescritto da una struttura ospedaliera, in occasione di ulteriori controlli, ma la gestante decise di non sottoporvisi, proprio sulla scorta del quadro clinico rassicurante emerso dal consulto eseguito in precedenza dal proprio medico di fiducia. In primo e in secondo grado, la richiesta risarcitoria era stata rigettata, per ragioni che sembrano ruotare attorno alla contraddittoria domanda degli attori che, pur lamentando la violazione dell’obbligo informativo, chiedevano di essere risarciti del danno da lesione del diritto ad una procreazione cosciente e responsabile. In sostanza, la coppia
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Giurisprudenza
The judgment relates to a wrongful birth case due to an amniocentesis not recommended by the doctor and refused by the pregnant woman a few months later, relying on the advice received. According to the Supreme Court, the violation of the obligation to provide information causes a direct causal connection with the damage suffered by the couple that derives from learning surprisingly the presence of serious malformations in their fetus. The violation of the “right to procreation self-determination” can not be excluded, in fact, by the refusal of the amniocentesis, however late.
non aveva lamentato di non aver potuto ricorrere all’interruzione della gravidanza, ma di aver subito al momento della nascita l’effetto «sorpresa», da cui sarebbero scaturiti effetti dannosi per la salute psico-fisica della madre. Inoltre, per i giudici di merito, il rifiuto di sottoporsi ad amniocentesi in occasione del controllo presso l’ospedale era da considerarsi un comportamento idoneo ad elidere ogni efficienza causale del comportamento inadempiente del ginecologo al verificarsi del danno. La Corte di cassazione accoglie, invece, la domanda risarcitoria. Pur confermando la confusione ingenerata “dall’erroneo riferimento al danno rispetto al quale la Corte avrebbe ritenuto l’efficacia interruttiva sul piano del nesso causale del rifiuto della gestante di sottoporsi all’amniocentesi rispetto al comportamento del medico”, i giudici di legittimità escludono che il rifiuto dell’amniocentesi abbia avuto efficacia causale sopravvenuta autonoma ed esclusiva. Non era stato svolto alcun accertamento concreto atto ad escludere che la decisione della donna non dipendesse, anche solo in parte dall’affidamento ingenerato dalla consulenza ricevuta. Né può, secondo il S. C., affermarsi che il diritto di conoscere lo stato di salute del feto sia stato leso solo nel momento del rifiuto, perché, al contrario, la cattiva esecuzione della prestazione da parte del ginecologo compresse immediatamente la possibilità di apprendere lo stato di salute del feto prima della nascita.
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Perdita di chance e nesso causale
2. I profili di inadempimento del medico: la violazione dell’obbligo informativo e la lesione del diritto all’autodeterminazione La decisione in epigrafe si inserisce nel più ampio panorama giurisprudenziale italiano1 relativo alla c.d. nascita indesiderata per omessa diagnosi delle malformazioni fetali2. Gli elementi che ruotano intorno alle vicende dei c.d. wrongful birth cases riguardano la violazione dell’obbligo di informazione gravante sul sanitario, l’accertamento del nesso di c ausalità materiale tra l’inadempimento del medico e l’evento «dannoso» della nascita, i danni risarcibili.
La vicenda in esame3, tuttavia, presenta dei profili che la rendono singolare oltre che interessante. In primo luogo, perché la responsabilità è invocata esclusivamente nei confronti del medico di fiducia e poi per il peso dell’affidamento riposto nella consulenza ricevuta che è stato tale da indurre, di fronte ad una diagnosi opposta, a confidare risolutamente sulla bontà delle informazioni e delle rassicurazioni già ottenute. Quanto alla responsabilità del ginecologo essa trova fonte nell’inadempimento del contratto4 stipulato tra medico e gestante, il quale, per giurisprudenza consolidata5, dispiega i propri effetti protettivi anche nei confronti del padre, terzo.
Dalla ricostruzione in fatto della sentenza, ma anche dalla motivazione, non emergono i motivi per i quali la gestante decise di rivolgersi alla struttura ospedaliera per ulteriori controlli, piuttosto che rivolgersi nuovamente al medico di fiducia, né emergono ulteriori profili per ricostruire la domanda risarcitoria svolta nei confronti del professionista con riferimento alle voci di danno.
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Numerose sono, ormai, le pronunce in materia di danno da nascita indesiderata per omessa o errata diagnosi prenatale. Cfr., ex plurimis, Cass., 1°.12.1998, n. 12195, in Danno e resp., 1999, 522 ss., con commento di Filograna, Se avessi potuto scegliere… : la diagnosi prenatale e il diritto all’autodeterminazione; Cass., 24.3.1999, n. 2793, in Danno e resp., 1999, 768 ss., con commento di Gorgoni, Interruzione volontaria della gravidanza tra omessa informazione e pericolo per la salute (psichica) della partoriente; Cass., 29.7.2004, n. 14488, in Resp. civ. e prev., 2004, 1349 ss., con nota di Gorgoni, La nascita va accettata senza beneficio di inventario?; Cass., 14.7.2006, n. 16123, in Resp. civ. e prev., 2007, 56 ss., con nota di Gorgoni, Responsabilità per omessa informazione delle malformazioni fetali; Cass., 2.10.2012, in Resp. civ. e prev., 2013, I, 148 ss., con commento di Gorgoni, Dalla sacralità della vita alla rilevanza della qualità della vita; Cass., 22.3.2013, n. 7269, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 653 ss., Cass., 30.4.2014, n. 12264, in Danno e resp., 2014, 1143 ss. 1
Nei c.d. wrongful birth cases, l’omessa o errata diagnosi del sanitario circa le condizioni di salute del nascituro, nell’esecuzione di accertamenti diagnostici prenatali, ha privato i genitori della possibilità di conoscere lo stato di salute del feto e, dunque, di determinarsi in ordine ad un’eventuale interruzione della gravidanza. V., amplius, Cacace, Il danno non patrimoniale da nascita indesiderata, in Ponzanelli, Il “nuovo” danno non patrimoniale, Padova, 2004, 197 ss.; Cassone, Il danno da nascita indesiderata, nel Trattato di biodiritto – Le responsabilità in medicina, Milano, 2011, 371 ss.; Favilli, Il danno non patrimoniale da cd. nascita indesiderata, in Navarretta (a cura di), Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, Milano, 2010, 493 ss.; Ferrario, Il danno da nascita indesiderata, Milano, 2011, 40 ss. 2
4 È interessante osservare come l’ipotesi di responsabilità ex contractu del medico sia stata riconosciuta anche all’interno della recente riforma sanitaria, legge n. 24/2017 (c.d. legge “Gelli-Bianco”) recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”. In particolare, l’art. 7, comma 3°, della l. n. 24/2017 dispone che «L’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente». Per approfondimenti sulla recente riforma, cfr. Franzoni, La nuova responsabilità in ambito sanitario, in questa Rivista, 2017, 5 ss.; Gorgoni, La responsabilità in ambito sanitario tra passato e futuro, ibidem, 17 ss.; Scognamiglio, Il nuovo volto della responsabilità del medico: verso il definitivo tramonto della responsabilità da contatto sociale?, ibidem, 35 ss.
In precedenza, invece, i terzi erano generalmente esclusi dal risarcimento (cfr. Cass., 14.7.2006, n. 16123, cit.). Il noto revirement del 2012 (cfr. Cass., 2.10.2012, n. 16754, cit.) ha ampliato la platea dei soggetti legittimati includendo, oltre al padre, anche i fratelli del nato che, dalla nascita indesiderata, avrebbero subito un danno consistente nella «inevitabile minore disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione; le quali appaiono invece non sempre compatibili con lo stato d’animo che ne informerà il quotidiano per la condizione del figlio meno fortunato». 5
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Mediante tale schema contrattuale6 è stata ampliata la platea dei soggetti legittimati ad agire in giudizio per il ristoro dei danni subiti per via della nascita indesiderata, con tutti i “se” e tutti i “ma”, soprattutto con riferimento alla meritevolezza di tutela del loro interesse7. È evidente che anche nella vicenda in esame il padre sia stato annoverato tra i terzi qualificati coperti dagli effetti protettivi del contratto e ritenuto legittimato ad agire in giudizio, ex contractu, a latere della moglie, come diretto danneggiato, ex art. 1223 c.c., dall’inadempimento del ginecologo «atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione, non rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all’interruzione della gravidanza»8.
La sussunzione del contratto intercorso tra la gestante e l’ente ospedaliero nello schema del contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo rappresenta un orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza della Supr. Corte. Cfr. Cass., 10.5.2002, n. 6735, con nota di Gorgoni, Il contratto tra la gestante ed il ginecologo ha effetti protettivi anche nei confronti del padre, in Resp. civ. e prev., 2003, 134 ss.; con nota di De Matteis, La responsabilità medica per omessa diagnosi prenatale: interessi protetti e danni risarcibili, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 619 ss. Il contratto in esame è una figura di derivazione tedesca, in cui, a fianco dell’obbligazione principale, esiste un’obbligazione accessoria (c.d. obbligo di protezione) a favore del terzo, del tutto autonoma ed indipendente dalla prima. Nel caso di lesione di tale obbligo di protezione, il terzo può agire direttamente verso il debitore, facendo valere una responsabilità di tipo contrattuale, pur senza aver stipulato con il medesimo alcun contratto. Al riguardo, secondo Castronovo (Obblighi di protezione e tutela del terzo, in Jus, 1976, 123 ss.), il terzo protetto dal contratto deve essere legato al creditore principale da un vincolo di parentela, o, comunque, da un legame di tale intensità. 6
Critica è Palmerini, Nascite indesiderate e responsabilità civile: il ripensamento della Cassazione, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 198 ss., secondo cui i fratelli, diversamente dalla loro madre, non sono titolari dell’interesse a conoscere lo stato di salute del feto «e in ogni caso la loro posizione è troppo remota rispetto al debitore [il medico] per consentire di includerli nell’orbita di protezione del contratto»; cfr. Gorgoni, I danni da malattia congenita non diagnosticata, in www.personaemercato.it, 2013, 143 ss. 7
Cfr. Cass., 10.5.2002, n. 6735, cit., con nota di Gorgoni, Il contratto tra la gestante ed il ginecologo ha effetti protettivi anche nei confronti del padre, cit., 134 ss. Cfr. anche Cass., 20.10.2005, n. 20320, secondo cui: «[…] Qui non si fa questione di un diritto del padre del nascituro ad interrompere 8
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Giurisprudenza
Orbene, analizzando i profili di inadempimento per come contestati nella fattispecie, il medico, omettendo di prescrivere accertamenti in ordine allo stato di salute del feto, non ha permesso alla gestante di autodeterminarsi, tempestivamente ed in maniera libera e cosciente, in ordine alla scelta di proseguire o meno la gravidanza, ricorrendone i presupposti della legge n. 194/19789. Giova, subito, precisare che la sentenza non affronta la questione del riparto degli oneri probatori, oggetto di contrasto10 risolto dalle sez. un.11, vale a dire la questione della prova della
la gravidanza della gestante, che certamente non esiste ma solo se la mancata interruzione della gravidanza, determinata dall’inadempimento colpevole del sanitario, possa essere a sua volta causa di danno per il padre del nascituro. La risposta al quesito è – come si è detto – positiva, e, poiché si tratta di contratto di prestazione di opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito che, per effetto dell’attività dell’ostetrico-ginecologo diventa o non diventa padre (o diventa padre di un bambino anormale), il danno provocato da inadempimento del sanitario costituisce una conseguenza immediata e diretta anche nei suoi confronti e, come tale è risarcibile a norma dell’art. 1223 c.c.». Cfr. Cass., 22.11.2015, n. 24220, con nota di Valerio, Responsabile il medico che non fornisce informazioni sugli esami necessari ad accertare l’assenza di malformazioni del feto, in Dir. e giust., 2015, 100 ss.; Bona, Mancata diagnosi di malformazioni fetali: responsabilità del medico ecografista e risarcimento del danno esistenziale da wrongful birth, in Giur. it., 1999, 1033; Gorgoni, Interruzione della gravidanza tra omessa informazione e pericolo per la salute (psichica) della partoriente, in Danno e resp., 1999, 766; Id., Responsabilità per omessa informazione delle malformazioni fetali, in Resp. civ. e prev., 2007, 62; Id., Nascituro e responsabilità sanitaria, in Resp. civ. e prev., 2009, 2075; Gerbi, Responsabilità del ginecologo per omessa diagnosi delle malformazioni del feto: del diritto all’autodeterminazione nelle scelte terapeutiche e dell’inesistenza del diritto a non nascere se non sani, in Riv. it. med. leg., 2011, 1263 ss. 9
10 L’ordinanza di rimessione alle sez. un. è la n. 3569 del 23.2.2015, con nota di Gorgoni, La responsabilità sanitaria per nascita indesiderata: in attesa delle Sezioni Unite, in Resp. civ. e prev., 2015, 696 ss.; Cricenti, Il danno da nascita indesiderata rimesso alle Sezioni Unite (per le ragioni sbagliate), in www.dirittocivilecontemporaneo.com, 2015; Sardella, Quali danni risarcibili se nasce un figlio indesiderato?, in Danno e resp., 2015, 615 ss. 11 Tale pronuncia non viene in alcun modo richiamata nella sentenza: sul fronte dell’onere probatorio e ricostruzione del nesso causale, il contrasto è stato risolto nel senso che non si può ricavare la volontà abortiva della gestante adottando il criterio del c.d. id quod plerumque accidit, ma il giudice vi può risalire indirettamente dalle allegazioni ai fatti di causa.
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correlazione causale fra l’inadempimento del sanitario e il mancato ricorso all’aborto nonché della sussistenza delle condizioni necessarie per procedere all’interruzione volontaria della gravidanza dopo il novantesimo giorno di gestazione (in relazione alla l. n. 194/1978, art. 6), soffermandosi pressoché esclusivamente sull’incidenza del rifiuto della gestante (v. infra). In comune con i casi analoghi, alla base della vicenda vi è la violazione di un obbligo informativo: tale difetto di informazione non costituisce la causa della patologia del nascituro, bensì della mancata diagnosi della sindrome fetale. Tuttavia, con l’accresciuta medicalizzazione della gravidanza12, che trova ausilio nell’utilizzo degli strumenti diagnostici, si è rafforzato il rapporto informativo tra il medico e la gestante e si è manifestata con forza la pretesa di poter esercitare un controllo pressoché assoluto circa il ‘se avere o no’ un figlio e si è cominciato ad ipotizzare la ricorrenza di una responsabilità a carico di coloro che, a vario titolo, hanno reso impossibile la scelta. Il decisum, peraltro, mette in luce il contenuto complesso del rapporto obbligatorio che intercorre tra medico e paziente: nell’ambito della prestazione medica il profilo dell’informazione13 si intreccia non solo con l’attività materiale di somministrazione di trattamenti di tipo diagnostico o terapeutico, ma anche (e soprattutto) con quello
Cfr. Cass., sez. un., 22.12.2015, n. 25767, con nota di Gorgoni, Una sobria decisione «sistema» sul danno da nascita indesiderata, in Resp. civ. e prev., 2016, 162 ss.; Frati, Turillazzi, Gulino, La Rosa, Di Sanzo, Fineschi, Colpa medica, la Cassazione a Sezioni Unite fa il punto sul diritto del neonato malformato al risarcimento del danno, ibidem, 2016, 366 ss.; Franzoni, Riflessioni a margine della sentenza sul «diritto a nascere sani», ibidem, 2016, 1461 ss. Cfr. Ferrando, Nascita indesiderata, situazioni protette e danno risarcibile, in D’angelo (a cura di), Un bambino non voluto è un danno risarcibile?, Milano, 1999, 209 ss.; Gorgoni, Il danno da procreazione: profili civilistici (del se, del quando e del come essere chiamati al mondo), in Chiamati al mondo: Vite nascenti e autodeterminazione procreativa. Atti del Convegno, a cura di Carusi, 2015, Torino, 31 ss. 12
La rilevanza degli obblighi informativi nel settore della responsabilità medica è stata oggetto di numerosi contributi dottrinali. Cfr., ex multis, Rossi, voce «Consenso informato», nel Dig., Disc. priv., sez. civ., Agg. VII, Torino, 2012, 117 ss. 13
del consenso14. È oramai acquisito in dottrina15 e in giurisprudenza16 che, talvolta, l’informazione che il sanitario è tenuto a dare al paziente integra, completandola, la prestazione medica sia a livello terapeutico che diagnostico, riducendo le asimmetrie informative17 che caratterizzano la relazione medico-paziente18. In particolare, è dato
Cfr. Gorgoni, “Il trattamento sanitario arbitrario nella morsa tra diritto vivente e diritto vigente”, in corso di pubblicazione in Resp. civ. e prev., 2017.
14
Sul punto v. Gorgoni, Interruzione volontaria della gravidanza tra omessa informazione e pericolo per la salute (psichica) della partoriente, cit., 766 ss.; Id., Responsabilità per omessa informazione delle malformazioni fetali, in Resp. civ. e prev., 2007, 56 ss.; Id., Ancora dubbi sul danno risarcibile a seguito della violazione dell’obbligo di informazione gravante sul sanitario, ibidem, 2010, 1041; Ferrando, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico, principi, problemi e linee di tendenza, in Riv. crit. dir. priv., 1998, 487 ss.; Rossetti, Lo stato dell’arte sul danno da nascita indesiderata, in Giust. civ., 2011, 2443 ss. 15
Cfr. Cass., 11.5.2009, n. 10741, in Foro it., 2010, I, 141 ss.; in Danno e resp., 2010, 144 ss., con nota di Di Ciommo, Giurisprudenza normativa e “diritto a non nascere se non sano”. La Corte di Cassazione in vena di revirement?; ibidem, 2009, 1167, con nota di Cacace, Figli indesiderati nascono. Il medico in tribunale; in Dir. fam. e pers., 2009, 1180 ss., con nota di Ballarani, La Cassazione riconosce la soggettività giuridica del concepito: indagine sui precedenti orientamenti per una lettura “integrata” dell’art. 1 c.c.; in Resp. civ. e prev., 2009, 2063 ss., con nota di Gorgoni, Nascituro e responsabilità sanitaria. 16
17 Negli anni, si è assistito ad un intensificarsi delle previsioni di legge che prevedono obblighi informativi, al fine di ridurre lo squilibrio tra le parti che possiedono un diverso bagaglio di informazioni, come nel rapporto professionista-consumatore, banca-cliente, anche nel rapporto medico-paziente. Lo squilibrio di conoscenze, nella relazione che si instaura tra il paziente e il sanitario, deriva dalla connaturata incapacità del primo di comprendere le nozioni tecnico-scientifiche possedute dal secondo, impedendogli in tal modo di autodeterminarsi liberamente. In generale sulla rilevanza delle asimmetrie informative in ambito sanitario cfr. Gorgoni, La “stagione” del consenso e dell’informazione: strumenti realizzazione del diritto alla salute e di quello all’autodeterminazione (nota a Cass., 30.7.2004, n. 14638), in Giur. it., 2005, 7 ss.; ID., Il medico non ha il diritto, ma solo la potestà di curare, in Resp. civ. e prev., 2008, 1535 ss.
Cfr. Frati, Gulino, Zaami, Turillazzi, Quanta informazione a fine diagnostico prenatale? La suprema Corte statuisce che sia completa, determinante e funzionale alle richieste ed alle scelte materne, in Resp. civ. e prev., 2013, 335 ss., secondo cui si registra, infatti, una crescita «esponenziale» del valore della informazione nel contesto che lega il sanitario al paziente
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riscontrare, proprio nelle ipotesi di mancata interruzione della gravidanza per omessa informazione sulle malformazioni fetali ovvero sui rischi connessi allo stato di gravidanza, che l’attività di counselling rappresenta di per sé la prestazione sanitaria, esaurendola19. È normale che il paziente, in quanto profano dell’arte medica, affidi al medico la tutela di quanto di più prezioso ed intimo possieda20, ma attraverso l’informazione che riceve si emancipa divenendo soggetto attivo delle scelte che coinvolgono sé, il proprio corpo e la propria salute. Sul professionista grava l’obbligo di interpretare e tradurre in maniera professionalmente adeguata le sue richieste, riducendosi altrimenti il suo ruolo in quello di mero esecutore di direttive del paziente, il quale si è procurato aliunde l’informazione e la consulenza di cui abbisogna21. Il connubio tra attività diagnostica e profilo dell’informazione, pressoché costante nel rapporto di cura da quando si è affermato il principio del consenso informato, assume caratteristiche peculiari allorché la prestazione richiesta si estrinsechi essa stessa in un compito informativo ovvero sia diretta a consentire un esercizio consapevole di interessi, anche diversi dalla salute come accade nella vicenda procreativa22. Nella diagnosi prenatale, fisiologicamente rivolta ad assicurare la regolarità della gestazione e a dare conto dello stato di salute del feto, la prestazione del medico si pone in funzione di una pluralità di esigenze e di interessi: consentire di pianificare le condizioni della nascita, di scegliere se ricorrere o meno all’interruzione della gravidanza in presenza di
che si riverbera nell’aumento del contenzioso giudiziario in ambito sanitario. Cfr. Filograna, Se avessi potuto scegliere… : la diagnosi prenatale e il diritto all’autodeterminazione, cit.
19
Cfr. Gorgoni, Il medico non ha il diritto ma solo la potestà di curare, cit.; Scalisi, Professione medica: doveri, diritti e responsabilità, in Danno e resp., 2007, 10 ss. 20
Sul punto, cfr. Cass., 24.3.1999, n. 2793, in Danno e resp., 1999, 766 ss., con nota di Gorgoni, Interruzione volontaria della gravidanza, cit.
21
Cfr. Palmerini, Nascite indesiderate e responsabilità civile, cit.
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Giurisprudenza
un pregiudizio alla salute della gestante, gestirne lo stato psicologico e prepararla eventualmente all’arrivo di un figlio handicappato. Ora, può dirsi sicuro che non sussista un obbligo per il medico di prescrivere esami diagnostici volti a rilevare eventuali malformazioni fetali se non al fine di mettere la donna nella condizione di scegliere come tutelare la sua salute23; neppure può dirsi imposto l’obbligo di assecondare
Tale aspetto andrebbe sondato con riferimento alle linee guida esistenti all’epoca della diagnosi prenatale operata dal medico. Nel panorama normativo italiano, un obbligo per il medico di fornire informazioni relative alla gravidanza può rinvenirsi nell’art. 14 della l. 22.5.1978, n. 194 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”), in base al quale “il medico che esegue l’interruzione della gravidanza è tenuto a fornire alla donna le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite, nonché a renderla partecipe dei procedimenti abortivi, che devono comunque essere attuati in modo da rispettare la dignità personale della donna. In presenza di processi patologici, fra cui quelli relativi ad anomalie o malformazioni del nascituro, il medico che esegue l’interruzione della gravidanza deve fornire alla donna i ragguagli necessari per la prevenzione di tali processi”. Il recente Codice deontologico garantisce al medico autonomia nella diagnosi (art. 3), nell’esercizio della professione (art. 4), nelle prescrizioni (art. 13), nella relazione di cura (art. 20) e gli vieta di assumere decisioni condizionate (art. 4), assunte per mero compiacimento del paziente (art. 13), in contrasto, tra l’altro, con i propri convincimenti tecnico scientifici (art. 22). Le Linee Guida S.I.O.G. 2015 (Società Italiana di Ecografia Ostetrico Ginecologica) includono l’amniocentesi all’interno degli accertamenti diagnostici prenatali invasivi che impongono una adeguata informazione nei confronti della paziente e l’acquisizione del consenso informato (cfr. pagg. 16-17 - Indicazioni 2.1 Lo screening prenatale per la trisomia 21 deve essere offerto a tutte le pazienti, indipendentemente dall’età materna, dopo essere state adeguatamente informate (Evidenza II-a. Livello di raccomandazione A). - 2.2 L’informazione deve essere offerta in occasione delle prime visite prenatali, e può essere fornita da parte del medico di famiglia, del medico ginecologo o dell’ostetrica, e anche attraverso materiale scritto (Livello di raccomandazione B). L’informazione deve specificare cos’è un test di screening, alla ricerca di quale patologia è rivolto, quali sono i test a disposizione e, per ognuno di essi, la sensibilità, i falsi positivi e i falsi negativi. Nel caso il test risulti ad alto rischio (>1/250 al momento dell’esame), la paziente dovrà essere informata della possibilità di effettuare una diagnosi prenatale invasiva delle anomalie cromosomiche mediante villocentesi nel primo trimestre o amniocentesi nel secondo trimestre, dei rischi di abortività di entrambe le procedure e della loro accuratezza diagnostica) (www.sigo. it). 23
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una richiesta diagnostica della paziente che non risponda ai crismi dell’appropriatezza clinica, a maggior ragione se l’esame richiesto risulti particolarmente invasivo e pericoloso. Il medico non è chiamato a soddisfare le richieste del paziente, tuttavia, su di lui grava un generico obbligo di verificare e, dunque, accertare che la partoriente abbia un bagaglio di conoscenze che le consenta di gestire il processo procreativo in modo cosciente e responsabile24. D’altro canto, deve pure rilevarsi come per gli esami da eseguire in gravidanza non possa ritenersi sussistente una procedura standardizzata cui attenersi, modulandosi di conseguenza – e a maggior ragione – il giudizio relativo alla colpa medica sul caso concreto25. Il medico sarà allora tenuto a rappresentare alla paziente la portata degli esami diagnostici e dei trattamenti che intende eseguire e che sono suggeriti dalla condizione personale della gestante (in relazione all’età, alla familiarità con certe patologie, ecc.) inclusi i rischi connessi, ponendola nelle condizioni di esprimere liberamente il proprio consenso informato al trattamento sanitario cui verrà sottoposta26 o meno (si ricordi che l’amniocentesi, ad esempio, è una tecnica di indagine particolarmente invasiva e, per certi versi, pericolosa). Nell’iter argomentativo della sentenza, là dove si ritiene acclarato l’inadempimento del medico, la violazione dell’obbligo informativo da parte del medico ha precluso alla donna di sapere e, dunque, di autodeterminarsi in maniera libera e
24 Cfr. Forabosco, Test genetici e diagnosi prenatale: aspetti medici e deontologici, in Carusi (a cura di), “Chiamati al mondo, Vite nascenti ed autodeterminazione procreativa”, Torino, 2015, 65 ss.
Nel caso di specie, gravava, comunque, sul medico di fiducia dimostrare che la valutazione del tipo e del numero di esami cui sottoporre la gestante venne modulata in ragione delle caratteristiche del caso di specie, fisiologiche (giovane età, stile e abitudini di vita) e non (presenza di patologie ovvero di alterazioni genetiche nelle rispettive famiglie di origine, regolarità delle precedenti gravidanze); proprie queste ultime avrebbero suggerito di non sottoporla ad esami diagnostici invasivi e non privi di rischi, qual è l’accertamento dell’amniocentesi. 25
Cfr. Franzoni, Dal consenso all’esercizio dell’attività medica all’autodeterminazione, in Resp. civ. e prev., 2012, 91.
26
cosciente nel momento in cui il consulto venne reso: si attribuisce, dunque, autonomo rilievo al mancato adempimento all’obbligo di informazione, per rendere risarcitoriamente rilevante la lesione del diritto all’autodeterminazione, distinguendo ed emancipando tale diritto rispetto a quello alla salute. In dottrina è stato sottolineato che bisogna differenziare le ipotesi in cui il diritto all’autodeterminazione, rapportandosi alle scelte di tipo terapeutico, si ricollega alla salute, dalle ipotesi in cui la corretta conoscenza di determinate circostanze si pone quale antecedente causale di una serie di altre scelte di natura esistenziale, familiare e terapeutica, per così dire, in senso lato, quali ‘scegliere se portare a termine una gravidanza, interromperla, non iniziarla’27: in tali ipotesi, si osserva che la lesione del diritto di autodeterminazione rileverebbe ex se anche dal punto di vista risarcitorio, essendo solo occasionalmente legata alla violazione del diritto alla salute. Tuttavia, bisogna fare attenzione a rifuggire da eventuali automatismi probatori: le pronunce in tema di wrongful birth per omessa, carente o intempestiva diagnosi prenatale spesso non si sono preoccupate, dinanzi ad un’omessa rilevazione della presenza di gravi malformazioni del feto e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, di verificare che ricorressero le condizioni che giustificavano l’interruzione della gravidanza, né se la donna avesse manifestato in qualche modo l’intenzione di ricorrervi ove avesse appreso dell’handicap fetale, poiché l’errore del sanitario, vi si legge, «ha troncato sul nascere qualunque possibilità di scelta e di autodeterminazione, precludendo alla paziente una volta e per tutte l’esercizio di una facoltà riconosciuta dalla legge»28. Si è assunta, infatti, in giurisprudenza la tendenza, seguita indirettamente anche dalla pronun-
Cfr. Gorgoni, Libertà di coscienza v. salute; personalismo individualista v. personalismo sanitario, nota a Cass., 15.9.2008, n. 23676, in Resp. civ. e prev., 2009, 135 ss.
27
Cfr. Gorgoni, Una “sobria” decisione di sistema sul danno da nascita indesiderata, nota a Cass., sez. un., 22.12.2015, n. 25767, in Resp. civ. e prev., 2016, 162 ss. 28
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cia in esame, a ritenere rispondente alla normale regolarità causale (v. infra) che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto e, perciò, si reputa legittimo anche il ricondurre al difetto di informazione, come alla sua causa, il mancato esercizio di quella facoltà. In definitiva, i giudici hanno ritenuto accertata la ricorrenza del nesso di causalità tra comportamento e danno, impiegando, in assenza dei presupposti di legge, una presunzione iuris tantum superabile attraverso la prova di fattori ambientali, culturali, di storia personale idonei a dimostrare in modo certo che, pur informata, la donna avrebbe accettato di continuare la gravidanza29.
3. Segue: il nesso di causalità tra l’omissione del medico di fiducia e la nascita indesiderata: il rifiuto della amniocentesi prescritta presso una struttura ospedaliera La pronuncia in commento si sofferma, sebbene parzialmente ed in maniera non particolarmente rigorosa, sui profili di ricostruzione del nesso causale tra omissione medica e nascita indesiderata, focalizzando in particolar modo l’attenzione sul rifiuto della gestante di sottoporsi all’amniocentesi prescritta presso la struttura ospedaliera: secondo la Supr. Corte, l’inadempimento del medico avrebbe condizionato tale rifiuto, intervenuto due mesi dopo quel consulto: consulto che, comunque, aveva ingenerato nella donna una situazione di affidamento circa la regolarità della gravidanza e il buono stato di salute del feto. La questione principale affrontata concerne allora l’eventualità che il rifiuto di sottoporsi all’amniocentesi, quale fatto sopravvenuto, sia risultato idoneo ad elidere ogni efficienza causale del comportamento inadempiente sull’effetto «sorpresa» derivante dalla nascita indesiderata ovvero se solo le rassicurazioni offerte in sede di consulenza, pur rese alla luce di un quadro clinico che
Cfr. Gorgoni, Il trattamento sanitario arbitrario nella morsa tra diritto vivente e diritto vigente, cit.
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non presentava elementi di rischio – per età della donna, per mancanza di familiarità con malattie trasmissibili geneticamente, per l’essere quella esaminata la sua terza e regolare gravidanza – siano da ritenersi unico fattore causale di quella parte di danno lamentato riconducibile all’effetto sorpresa. A differenza della Corte etnea che aveva escluso la responsabilità del ginecologo inferendo che, ove pure egli avesse, due mesi prima, consigliato esami adeguati a rilevare la malformazione del feto, ugualmente la gestante all’esito della diagnosi avrebbe sviluppato la nevrosi ansioso-depressiva e assumendo che il rifiuto della gestante di sottoporsi all’esame clinico, quale fatto sopravvenuto all’inadempimento del ginecologo, avesse assunto efficacia causale esclusiva nella determinazione dell’effetto «sorpresa» causativo del danno, il S.C. – rilevando la erronea applicazione del criterio della causalità materiale, dovuto al surrettizio ricorso al secondo comma dell’art. 41 c.p. – nega ogni efficacia causale del rifiuto. Solo l’inadempimento del ginecologo ha astrattamene condizionato, anche in termini causali, la scelta di rifiutare la prescrizione della struttura, giacché esso ha posto la gestante nella difficile condizione di scegliere se proseguire la gravidanza o interromperla, a due mesi di distanza dal consulto e a cinque mesi dalla gravidanza, allorquando era mutato «il bene coinvolto dalla scelta» (avendo il feto già raggiunto l’età di cinque mesi): scelta che la donna avrebbe dovuto fare confrontando il risultato della prestazione del ginecologo di fiducia con quello della prescrizione della struttura. In tale contesto – che secondo in giudici andava meglio indagato – il rifiuto non può che essere considerato un fatto «neutrale», inidoneo ad interrompere la catena causale tra l’omissione del medico e la nascita indesiderata. Orbene, il profilo ricostruttivo del nesso causale operato dalla Supr. Corte non convince appieno, perché sorvola, per così dire, sulle conseguenti implicazioni in termini di onere probatorio, così come tracciate dalle sez. un., al fine di accertare se la donna, opportunamente informata dal medico, avrebbe abortito ricorrendone le condizioni, ammiccando (implicitamente) all’argomento se-
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condo cui corrisponde a regolarità, secondo l’id quod plerumque accidit, che una donna, messa nelle condizioni di farlo, avrebbe preferito ricorrere all’interruzione della gravidanza, per impedire il verificarsi di un danno alla propria salute fisica e/o psichica. È verosimile che il collegio lo abbia fatto perché la richiesta risarcitoria non aveva avuto ad oggetto lo stato di salute della donna, conseguente alla mancata interruzione della gravidanza, bensì solo l’effetto «sorpresa», più volte richiamato. Sembra confermarlo il punto del ragionamento in cui i giudici negano che dal rifiuto di sottoporsi ad amniocentesi si possa desumere la volontà della gestante di ricorrere all’aborto terapeutico qualora fosse stata tempestivamente informata dal medico di fiducia sulla sindrome fetale30. Nondimeno, sul punto, la motivazione sembra alquanto laconica, soprattutto se posta a confronto con gli stralci della decisione della Corte di appello, da cui si evince una certa contraddizione circa la domanda risarcitoria: contraddizione che aveva avuto, sembra, un ruolo non marginale nel rigetto della richiesta. È vero, però, che la Supr. Corte insiste sulla necessità di «colorare» di elementi probatori (modalità e contesto) il rifiuto della gestante al fine di potervi attribuire una qualche rilevanza sul piano causale. Del resto, la pronuncia a sez. un. del dicembre 2015 aveva, a sua volta, osservato che «il thema probandum è costituito da un fatto complesso, e cioè, da un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo: la rilevante anomalia del nascituro, l’omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute psicofisica della donna, la scelta abortiva di quest’ultima»31. Vero è che non di tutti gli elementi costitutivi del fatto si può dare prova immediata e diretta – in
Più che verificare l’incidenza del rifiuto, autodeterminato, manifestato presso la struttura ospedaliera sul nesso causale, andrebbe allora verificata l’incidenza dei fattori valutati dal medico di fiducia in sede di consulto medico (giovane età della donna, regolarità delle precedenti gravidanze, assenza di elementi allarmanti, familiarità alla sindrome di Down). 30
31
Cfr. Cass., sez. un., 22.12.2015, n. 25767, cit., 8 ss.
particolare, per ciò che concerne la prova del fatto psichico, rappresentato dalla volontà di ricorrere all’interruzione della gravidanza, in presenza delle condizioni di cui all’art. 6 della l. n. 194/1978, il Giudice può formare il proprio convincimento ricorrendo alla presumptio hominis, deducendo cioè il fatto da provare da circostanze gravi, precise e concordanti, ancorché atipiche, a condizioni che siano allegate ai fatti di causa32 – ma, pur con tali riserve, rimane l’interrogativo sul come possa riuscire la gestante a provare, nel caso di specie, che l’accertamento dell’esistenza di eventuali malformazioni fetali, in assenza di un contesto clinico allarmante ovvero di una sua specifica richiesta diagnostica «doppiamente funzionale»33 alla diagnosi di malformazioni fetali e all’esercizio del diritto di aborto terapeutico, abbia determinato l’insorgere, nel momento in cui è stato commessa l’omissione, di un pregiudizio alla salute psico-fisica provocato dalla conoscenza dello stato patologico del feto in assenza di preparazione psicologica (di qui la «sorpresa», appunto). Il fulcro su cui sembra poggiare la sentenza in commento risiede, allora, nel ricorso al «criterio del più probabile che non»34 (v. supra), che non si limita all’accertamento della responsabilità del medico, ma si estende anche all’accertamento del
Cfr. Anzani, Il riparto dell’onere probatorio nelle due specie di responsabilità civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2017, 256 ss.; Taruffo, Considerazioni sulle prove per induzione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2010, 1165 ss.
32
Cfr. Cass., 2.10.2012, n. 16754, con nota di Gorgoni, Dalla sacralità della vita alla rilevanza della qualità della vita, in Resp. civ. e prev., 2013, 148 ss.
33
34 Il criterio in questione, ispirato alla regola della normalità causale, consente al giudice di valutare il nesso di causa tra la condotta del sanitario e l’evento dannoso giudicando le prove assunte non sulla base di probabilità scientifiche, ma secondo il maggiore grado di probabilità di verificazione dell’evento. Cfr. Chindemi, Danno non patrimoniale da perdita di chance, nesso causale e criteri risarcitori, in Resp. civ. e prev., 2010, 1169 ss.; Trib. Udine, 31.3.2011, con nota di Gorgoni, Quando è «più probabile che non» l’esatto adempimento, in Resp. civ. e prev., 2011, 1600 ss.; Della Corte, Le omissioni del medico e l’accertamento del nesso di causalità, ibidem, 2011, 113 ss.; Id., Nascita indesiderata per omessa diagnosi: onere probatorio, interesse leso e danno risarcibile, ibidem, 2013, 1506 ss.
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nesso causale tra il comportamento del sanitario e l’effetto «sorpresa», anche nei casi in cui manchi una specifica dichiarazione di intenzioni della gestante e vi sia stata una mera richiesta di accertamenti diagnostici sul generale andamento della gravidanza: richiesta i cui risvolti negativi dovevano ben essere messi in conto. La sensazione è che dall’obbligo di informazione si pretenda troppo e che la sua violazione sia una strada percorsa tutte le volte in cui non si sia soddisfatti dell’esito di una certa relazione terapeutica. Da una generica richiesta diagnostica si pretende, con un automatismo allarmante, un risarcimento del danno se tutto non è andato come si sperava, dolendosi appunto di un effetto «sorpresa». Proprio con riferimento ad ipotesi di questa natura, alcuni autori lamentano l’imperialismo della responsabilità, cioè la tendenza a considerare la copertura risarcitoria una sorta di convertitore universale del male in bene, che esternalizza la perdita che la vittima ritiene di aver subito: perdita, in aggiunta, non apprezzata in termini strettamente medicali, ma personalistici e identitari35. La tendenza recente, sia pure frequentemente stigmatizzata, è quella, una volta superata la fase di debolezza della volontà che coincide con il termine del percorso terapeutico, di ribellarsi contro il medico, permettendo che la finzione del consenso generi quella del dissenso36. Non vi sono elementi sufficienti per affermare se nel caso di specie le rassicurazioni del medico circa il regolare andamento dello stato gravidico siano state infondate ed esagerate. L’altro dato certo è che non vi fossero indicazioni, promananti dalle linee guida, che orientassero verso l’esecuzione dell’amniocentesi. Si ignora, però, se la donna fu sottoposta a esami di screening prenatale e quale sia stato il loro esito. Tali test di ultima generazione in una donna di età inferiore ai trentacinque anni e senza familiarità per malattie cromosomiche sono di norma sufficienti ed escludono il ri-
Giurisprudenza
corso a diagnosi invasive comportanti un rischio abortivo in percentuale variabile, seppur contenuta. Né si sa se fossero intervenuti fatti nuovi tali da indurre un soggetto diverso, la struttura ospedaliera, a consigliare alla gestante, due mesi dopo, di eseguire l’amniocentesi, cioè un esame di indubbia invasività e pericolosità, soprattutto perché rientrante in quella tipologia definita tardiva (che comporta rispetto all’altra, quella che può essere eseguita a partire dalla quindicesima settimana di gestazione, un rischio abortivo maggiore). In qualche modo, da alcuni passaggi della sentenza di secondo grado citati nei motivi di ricorso, sembra emergere che il ginecologo non abbia fornito la prova di aver esattamente adempiuto alla propria prestazione. Nondimeno, allo scopo di restituire al tema del consenso informato la sua corretta dimensione, non è possibile stabilire in che cosa sia consistito questo difetto di prova. In giurisprudenza si contendono il campo due opposte tendenze: l’una che considera l’obbligo di informazione funzionale al superamento delle asimmetrie informative e all’assunzione di scelte meditate e consapevoli; l’altra che lo considera una fase inserita – ce lo dimostra la frequente richiesta di sottoscrizione di moduli di consenso informato37 – nella procedimentalizzazione necessaria “a dar corpo ai principi che presiedono la legittimità” di trattamenti ed operazioni38, traducendosi in concreto in un trasferimento di dati sul paziente ed in un esonero del sanitario da responsabilità39.
Su cui cfr. Portigliatti Barbos, Il modulo medico di consenso informato: adempimento giuridico, retorica, finzione burocratica?, in Dir. proc. pen., 1998, 894 ss.; Ferrando, Informazione e consenso in sanità, in Aleo, De Matteis, Vecchio (a cura di), La responsabilità in ambito sanitario, Padova, 2014, I, 382. 37
Cfr. Cafaggi, voce «Responsabilità del professionista», nel Dig., Disc. priv., sez. civ., XVII, Torino, 1998, 187, per il quale la violazione dell’obbligo di informare non dà diritto al risarcimento nel caso in cui il paziente non riesca a provare che, qualora, fosse stato esattamente informato, egli avrebbe optato per una terapia diversa.
38
Ponzanelli, L’imperialismo della responsabilità civile, in Danno e resp., 2016, 221 ss. 35
Gorgoni, Il trattamento sanitario arbitrario nella morsa tra diritto vivente e diritto vigente, cit.
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Gorgoni, Il trattamento sanitario arbitrario nella morsa tra diritto vivente e diritto vigente, 2017, cit.
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In questa situazione di grande incertezza, trascinatasi fino al ricorso in Cassazione, è più che mai corretto l’invito rivolto ai giudici di rinvio di esaminare il contesto in cui la donna espresse il proprio rifiuto.
4. L’omessa diagnosi da parte del medico quale perdita di chance di conoscere lo stato di salute del feto: effetto «sorpresa» e danno risarcibile Secondo la Supr. Corte la mancata prescrizione dell’accertamento clinico da parte del medico, e quindi il suo inadempimento, ha in ogni caso precluso alla gestante «la possibilità di conoscere lo stato del feto fin dal momento in cui si rivolse al medesimo» e, quindi, su tale preclusione alcuna efficacia esclusiva sopravvenuta ha avuto il successivo rifiuto di sottoporsi all’accertamento clinico prescritto dalla struttura sanitaria. Una “parte” del danno risarcibile sarà, allora, costituita da quella perdita della possibilità di conoscere: perdita direttamente imputabile all’omissione del medico. Trova conferma in tale inciso il leit motive che ha guidato l’intero iter argomentativo della sentenza ovvero l’autonoma rilevanza che la lesione dell’informazione medica ha assunto nei giudizi risarcitori da nascita indesiderata. Anche se non vi è un riferimento evidentemente specifico, in questo caso, il diritto che si ritiene sia stato leso è quello dei genitori «di essere informati al fine di (...) prepararsi psicologicamente e, se del caso materialmente, all’arrivo di un figlio menomato»40. Sul punto, in linea generale e di sintesi, possono esprimersi due considerazioni: la prima, rilevata in dottrina, è che il ricorso all’ipotesi della perdita della chance costituisca una tecnica di alleggerimento della prova del danno subito dalla gestante: si sostituisce al danno effettivo, costi-
tuito dal pregiudizio alla salute, quello astratto, ovvero la perdita della possibilità di conoscere. Il ricorso alla “perdita di chance”, in questo senso, costituisce una via per consentire di arrivare al risarcimento quando alcuni elementi della fattispecie sono incerti41. La seconda riguarda il danno risarcibile: la Corte non si sofferma su tale aspetto, perdendo una preziosa occasione di approfondimento. L’obbligo di informare, violato dal sanitario, dovrebbe avere inciso sulle scelte fatte o meglio che si sarebbero fatte se i genitori avessero saputo della nascita di un figlio affetto da sindrome di Down, ad esempio in ordine al ricorso ad un sostegno psicologico o economico per accettare una vita con handicap. Tuttavia, non vi è prova neppure indiretta del danno cagionato dal ritardo – momento della nascita, piuttosto che quello della consulenza – con cui i genitori hanno conosciuto la situazione patologica del proprio figlio. La sensazione complessiva è, invece, quella che questa ipotesi costituisca un tentativo, in verità ancora incerto e contraddittorio, di percorrere una strada diversa rispetto a quella consistente nel lamentarsi di aver subito un danno per aver perso la possibilità di ricorrere alla interruzione volontaria della gravidanza, dando autonomo ed esclusivo risalto alla violazione del rapporto fiduciario medico-paziente. Il problema è che riconoscere il diritto del paziente di autodeterminarsi e l’astratta ingiustizia del danno conseguente alla lesione di tale diritto non basta a giustificare la pretesa al risarcimento, posto che occorre altresì dimostrare che la violazione abbia provocato delle conseguenze pregiudizievoli nella sfera di interessi del danneggiato che possano essere trasferite dalla sfera della vittima a quella del danneggiante.
Cfr. Cricenti, La perdita di chance come diminutivo astratto. Il caso della responsabilità medica, in Resp. civ. e prev., 2016, 2073 ss.; Azzalini, Il carattere probabilistico del danno da perdita di chance tra istanze di rigore ed esigenze di tutela della persona, in questa Rivista, 2017, 147 ss.; Snenghi, Bonvicini, Molinari, Montisci, Implicazioni medico-legali in tema di “perdita di chance” in un caso di ritardata diagnosi di Sindrome di Volkmann neonatale, ibidem, 174 ss. 41
Cfr. Della Corte, Nascita indesiderata per omessa diagnosi: onere probatorio, interesse leso e danno risarcibile, cit.
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È vero che la lesione dell’integrità psico-fisica non costituisce la sola dimensione dannosa della violazione del diritto all’autodeterminazione, ma lo è altrettanto che la lesione del proprio diritto all’informazione talvolta non determina a carico del paziente alcuna conseguenza pregiudizievole legata causalmente al difetto di informazione42.
42 Ponzanelli, Il “buonismo” della Cassazione e la dimenticanza del danno conseguenza, in Danno e resp., 2014, 279.
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Giurisprudenza
s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza
Trib. Milano, 23.2.2017
Nesso di causalità – Perdita di chance (c.c., artt. 1223, 1226, 2043, 2056)
La perdita di chance è un bene minore e non una minore probabilità di causazione dell’evento, pertanto essa consiste nella privazione di una possibilità che, nonostante sia minore rispetto alla distruzione del bene reale, è pur sempre una perdita, conseguenza certa di una condotta, il cui accertamento è soggetto al criterio causale del “più probabile che non”. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista
Perdita di chance ed accertamento del nesso causale Roberta Victoria Nucci Avvocato in Milano
Abstract: La sentenza in oggetto descrive la natura del danno da perdita di chance come bene minore evidenziando la necessità di un rigoroso accertamento del nesso causale fra comportamento lesivo e perdita sulla base del “più probabile che non”. The judgement explains the loss of chance nature – as a minor loss – pointing out the need of a clear assessment of the causal link on the preponderance of evidence basis.
Con sentenza n. 2440 del 23 febbraio 2017, il Tribunale di Milano, che qui si annota, ha riconosciuto la risarcibilità del danno da perdita di chance di maggiore sopravvivenza seguendo un percorso logico di particolare chiarezza, non sempre agevole da rinvenire su questo istituto. La sentenza riguarda il caso di un paziente affetto da cancro alla prostata il quale, a seguito di un intervento, riporta una infezione che ne determina la morte in breve tempo.
Il punto maggiormente rilevante dell’articolata pronuncia del Tribunale di Milano è rappresentato dal metodo attraverso il quale giungere alla determinazione ed alla quantificazione del danno da perdita di chance di sopravvivenza, quantificata dai medici d’ufficio in un 30%. Il tema, in realtà, è duplice: la perdita di chance è risarcibile oppure no? E se sì, è risarcibile in misura percentuale rispetto a quello che sarebbe stata la quantificazione per la perdita piena del bene, oppure è un risarcimento minore da concedere allorché la probabilità che l’errore abbia causato il fatto sia inferiore al 51% del “più probabile che non”? La scelta del Magistrato meneghino va nel senso della risarcibilità del danno della perdita di chance come “… entità a sé, giuridicamente ed economicamente valutabile”, purché sia stata accertata la rilevanza causale dell’errore medico secondo il consolidato principio del “più probabile che non”. La tesi appare pienamente condivisibile, anche se numerose sono le pronunce orientate ad utilizzare la perdita di chance come criterio che consenta un risarcimento parziale di tutti quei danni per i Responsabilità Medica 2017, n. 2
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quali non si riesca a raggiungere una probabilità statistica del 51% in termini di nesso di causa. In verità, il tema della perdita di chance entra nel mondo della responsabilità medica nel 2004 con una pronuncia della Supr. Corte1, la quale affermò la risarcibilità del pregiudizio derivante dalla “perdita di una probabilità favorevole” di guarigione o di sopravvivenza causato da un errore. Questo nuovo istituto, sin da subito oggetto di ampio dibattito in dottrina2, aveva in realtà già trovato diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento nei casi di perdita della possibilità di essere assunto in un concorso pubblico o di conseguire una promozione3. Anche se l’ambito medico rappresenta il terreno di elezione per la quantificazione di tale danno, proprio in ragione della esistenza di numerosi dati statistici che consentono di quantificare in termini probabilistici il grado di certezza di un‘eventuale guarigione a seguito dell’erogazione della corretta terapia4, al tempo stesso esso presenta criticità – prevalentemente di natura logiche – che inevitabilmente hanno influenzato la discussione sul tema. Occorre infatti rilevare che parlare del bene “salute” e del “rischio morte” non è come parlare della possibilità o meno di essere assunto ad un concorso proprio perché, al di là delle ovvie diversità fra le due situazioni, ci si confronta con una perdita di possibilità che in qualche modo è sempre presente in un danno mortale. In altri termini, ogni volta che un paziente perde la vita – per certi versi – si potrebbe dire che ab-
Cass., 4.3.2004, n. 4400, in Resp. civ. e prev., 2005, 461, con nota di Landini. 1
Ex multis: Rossetti, Il danno da perdita di chances, in Riv. giur. circolaz. trasp., 2000, 676; Princigalli, Perdita di chances e danno risarcibile, in Riv. crit. dir. priv., 1985, 315; Pacces, Alla ricerca delle chances perdute: vizi (e virtù) di una costruzione giurisprudenziale, in Danno e resp., 2000, 261; Pucella, La causalità «incerta», Padova, 2007, 85; Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1999, 545; Galgano, Trattato di diritto civile, Padova, 2010, 261. 2
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Giurisprudenza
bia perso una chance di sopravvivenza, sicché un autorevole esponente della dottrina5 ha preliminarmente distinto due ipotesi: la prima, riguarda il caso in cui l’atto colposo del medico abbia ridotto – con certezza o con ragionevole probabilità – la speranza di vita futura del paziente, l’altra, invece, individua i casi in cui la condotta del medico abbia privato il paziente (non della salute o della vita, ma) della mera possibilità di guarire. Le due ipotesi, secondo tale lettura, risultano profondamente diverse tra loro: nel primo caso, a rigore, non ci sarebbe una perdita di chance, bensì danno certo, seppur futuro; mentre nel secondo caso si potrebbe parlare della perdita di una vera e propria chance, intesa quale mera opportunità, della quale non è dato sapere se, qualora fosse stata colta, sarebbe stata favorevole o sfavorevole. La questione che si pone, in realtà, è se la perdita di chance possa o debba costituire un criterio per risarcire un pregiudizio consistente nella perdita di possibilità di guarigione, perdita effettivamente causata da un errore medico secondo il ben noto criterio di accertamento probabilistico del nesso causale del “più probabile che non”, o se invece essa costituisca un meccanismo di risarcimento parziale o minore, allorché sia dubbio anche il nesso di causa. La stessa giurisprudenza della Supr. Corte ha di fatto legittimato questa incertezza. Afferma infatti la Cassazione6 che da un lato “… la perdita di tale chance sia risarcibile, indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione”, per poi aggiungere che quella della perdita di chance rappresenterebbe una tecnica risarcitoria da applicare a tutte le “… situazioni caratterizzate dal più probabile che non, ma anche da una non eliminabile porzione di incertezza” con l’obiettivo di “… distribuire il peso del danno tra le parti in misura proporzionale all’ap-
Cass., 19.11.1983, n. 6909, in Giust. civ., 1984, I, 1841.
Si rimanda in questo senso all’esauriente disamina di Miotto, Un grande equivoco: la trasmigrazione della possibilità (o probabilità) dal contenuto della perdita di chance di guarigione o di sopravvivenza ai criteri valutativi del rapporto di causalità, in Resp. civ. e prev., 2011, 2046. 4
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Rossetti, Responsabilità sanitaria e tutela della salute in Quaderni del Massimario, 2011, 16.
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Cass., 14.6.2011, n. 12961.
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porto causale della colpa e dei fattori di rischio presenti nel paziente”. A questo punto diviene evidente come il dibattito si trovi di fatto ad avere ad oggetto due fattispecie totalmente diverse fra loro e non confrontabili: da una parte, un danno certamente causato dalla struttura sanitaria nel quale il nesso eziologico viene accertato secondo il criterio del “più probabile che non” ed il minore risarcimento erogabile è conseguenza del fatto che ciò che è stato causato è la perdita di una possibilità di conseguire un bene e non il bene in sé, dall’altra, un danno la cui causalità non arriva a quel 51% di probabilità necessario per il pieno accertamento del nesso causale e che quindi, altrimenti, non sarebbe risarcibile, mentre in questo modo lo diventa, ma in misura parziale. La causalità da perdita di chance si attesterebbe, dunque, secondo quest’ultimo orientamento, sul versante della mera possibilità, sicché il nesso di causalità risulterebbe esistente se il risultato sperato era originariamente ipotizzabile con una percentuale probabilistica intorno al 30-40%7, un modo in fondo per aggirare e superare quella prova del 51% che è riferibile al criterio del “più probabile che non”. Il tema della perdita di chance, tuttavia, non può riguardare la quantificazione delle probabilità di accadimento del fatto illecito, bensì la determinazione e quantificazione di ciò che è stato perduto8. Quindi un inadempimento o un atto illecito sono causa di una perdita di chance esattamente alle stesse condizioni per le quali lo sarebbero state in caso di compromissione integrale del bene tutelato; diverso è, invece, il bene che si intende
7
Trib. Monza, 6.9.2007, in Danno e resp., 2008, 57.
Pucella, Inadempimento qualificato, prova del nesso di causa e favor creditoris, a questo proposito ricorda “… Il tema della prova dell’esistenza della chance si confonde con quello della «consistenza» necessaria perché una probabilità perduta diventi «credibile» a fini risarcitori: il primo aspetto rimanda, più in generale, ai criteri operanti in tema di dimostrazione del nesso (oggi la regola del più probabile che no); il secondo sembra riflettere la considerazione per cui una probabilità modesta, pur se esistente, ha di per sé scarse possibilità di realizzarsi; o – ed è il rovescio della medaglia – una probabilità elevata è quella che più si avvicina alla certezza; ed offre, quindi, maggiori garanzie di realizzazione”.
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tutelare: la chance non è una mera aspettativa di fatto, ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, per cui la sua perdita configura un danno concreto ed attuale9. Chi si oppone a questa teorizzazione rileva, fra l’altro, come la chance non possa essere considerata una utilità in sé e dunque non possa essere suscettibile di una valutazione economica10. La perdita di chance, dunque, è – in un certo senso – un bene minore e non una minore probabilità di causazione dell’evento, è la perdita di una possibilità che, ovviamente, è meno della perdita del bene reale, ma pur sempre una perdita. Tale perdita tuttavia è la conseguenza certa di un comportamento, cioè di un evento del quale sia già stato chiarito che
“… Sennonché ciò che occorre porre in rilievo è che la domanda per perdita di chance è ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato. Né può ritenersi, come pure sostenuto da parte minoritaria della dottrina, che con l’espressione “perdita di una probabilità favorevole” non si fa riferimento ad un danno distinto da quello finale, ma si descrive solo una sequenza causale, nella quale la certezza del collegamento fatto-evento si evince dalla sola probabilità del suo verificarsi, ed il risarcimento viene adeguato alla portata effettuale della condotta illecita sul danno finale. La ricostruzione più convincente, sulla quale si allinea la giurisprudenza dominante in materia di lavoro (Cass. 09/01/2003, n.123, Cass. n. 23/01/2002, n.734; Cass. n. 11340 del 1998), dissocia invece il danno come perdita della possibilità dal danno per mancata realizzazione del risultato finale, introducendo così una distinta ed autonoma ipotesi di danno emergente, incidente su di un diverso bene giuridico, la possibilità del risultato appunto”, Cass., 4.3.2004, n. 4400, in Resp. civ. e prev., 2004, 1040, con nota di Cittarella, Errore diagnostico e perdita di chance in Cassazione. In dottrina anche per un quadro generale in tema di perdita di chance: Severi, Perdita di chance e danno patrimoniale risarcibile, in Resp. civ. e prev., 2003, 296; Ziviz, Il risarcimento per la perdita di chance di sopravvivenza, nota a Trib. Monza, 18.2.1997, in Resp. civ. e prev., 1998, 710. 9
10 Rossetti, Responsabilità sanitaria e tutela della salute, in Quaderni del Massimario, 34 ss. cit. ricorda criticamente che “Se la chance è un bene suscettibile di valutazione economica, essa resta tale sia che abbia molte, sia che abbia poche possibilità di successo. In altri termini, sostenere che la chance è un bene patrimoniale in sé, ma che esso va risarcito solo quando sia “ragionevolmente fondata”, equivarrebbe a dire che – ad esempio – la lesione della salute è un danno in sé, ma va risarcita solo quando essa superi un certo grado di invalidità permanente”.
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è stato causato da quello specifico comportamento, da quella specifica omissione, sicché in nessun caso la perdita di chance può e deve sostituire il criterio di accertamento causale alleggerendone – a prezzo di un minor risarcimento – il criterio probabilistico del “più probabile che non”. Se un minor risarcimento consegue naturalmente al riconoscimento di un danno da perdita di chance, ciò non può avvenire perché è minore il grado di probabilità utilizzato nell’accertamento causale: se non si raggiunge la prova del “più probabile che non” un danno non può essere risarcito perché non si può ritenere causato. Se, invece, si è certi del nesso eziologico ma non si sa quante conseguenze siano state effettivamente “causate”, allora la perdita di chance può essere un equilibrato strumento liquidativo, ma solamente nei casi in cui – lo si ribadisce – sia comunque superato il vaglio del “più probabile che non”. Perciò la riduzione di probabilità di sopravvivenza non attiene alla medesima probabilità di accertamento del nesso causale: in questo caso la riduzione delle chance di sopravvivenza o di guarigione deve essere stata accertata sotto un rigoroso profilo causale, manca soltanto la misura della lesione, cioè occorre verificare in che misura le chance sono state ridotte, ma è certo causalmente che ciò sia avvenuto. La sentenza annotata segue in maniera rigorosa ed ineccepibile questa linea interpretativa, segnalandosi per rigore metodologico anche rispetto a taluni confusi orientamenti di legittimità. Afferma infatti il Magistrato, nella sua ricostruzione dei fatti di causa, che nell’operato dei sanitari era “… ravvisabile un inesatto adempimento delle prestazioni necessarie ad evitare l’evento – id est la perdita della chance di una meno breve sopravvivenza – con conseguente responsabilità per violazione del dovere di diligenza ex art. 1176 c.c., e diritto degli attori al risarcimento dei danni non patrimoniali e dei danni patrimoniali emergenti che risultino conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento”. Precisa, inoltre, il Magistrato che “... è possibile soltanto affermare che un corretto e tempestivo intervento diagnostico/terapeutico avrebbe probabilmente consentito un prolungamento della vita del paziente e una minor sofferenza rispetto Responsabilità Medica 2017, n. 2
Giurisprudenza
a quelle patite nell’intervallo di tempo intercorso tra l’insorgere della malattia e l’evento avverso”. Ancor più chiaramente il Giudice meneghino afferma poi il principio in virtù del quale “… Una volta accertato – come nel caso di specie – il nesso di causa tra l’errore medico e la diminuzione della possibile durata della vita, la perdita di questa chance è risarcibile, quale entità a sé, giuridicamente ed economicamente valutabile”. Il percorso scelto dal Magistrato è quindi chiaro ed ineccepibile: l’inadempimento sanitario deve avere causato la perdita di chance e tale accertamento causale non può che avvenire secondo le regole della maggiore probabilità; una volta accertato tale nesso, si tratterà di valutare la consistenza di tale entità giuridicamente ed economicamente valutabile in sé. Sotto il profilo della quantificazione della perdita di tale entità, la scelta è stata effettuata sulla base di una inevitabile valutazione equitativa comunque ispirata ai principi definiti dalla Supr. Corte che, con la sentenza n. 7195/201411 – citata nella pronuncia annotata – ricorda che “le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quello della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto”.
11 La terza sezione della Cassazione, con la sentenza 27.3.2014, n. 7195, chiarisce che, in tema di danno alla persona conseguente a responsabilità medica, integra l’esistenza di un danno non patrimoniale risarcibile l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, allorché determini la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico ed allorché, per effetto del ritardo, faccia perdere al paziente la chance di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità della vita, nonché la possibilità di vivere più a lungo di quanto, poi, effettivamente vissuto. In questo senso la Supr. Corte a riguardo ha recentemente ricordato che “... il nesso di causalità può esistere non solo in relazione al rapporto tra fatto ed evento dannoso, ma anche tra fatto ed accelerazione dell’evento; sicché per escludere il nesso di causalità, in relazione alla lesione del bene “vita”, è necessario non solo che il fatto non abbia generato l’evento letale, ma anche che non l’abbia minimamente accelerato, costituendo pregiudizio anche la privazione del fattore tempo”, Cass., 7.2.2017, n. 3136.
o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo i d dic s i e r Astensione m giu
o sospensione dei trattamenti vitali: luci e ombre Giuseppe Renato Gristina
Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) – Gruppo di Studio per la Bioetica
Abstract: Le decisioni alla fine della vita costituiscono una parte importante delle attività che si svolgono nei reparti di cure intensive e oggi la maggior parte dei decessi che vi si verificano seguono una decisione di limitare i trattamenti di sostegno vitale. Tali decisioni possono attuarsi in due modi: interrompendo un trattamento già avviato ma non più efficace (interruzione), o non erogandolo (astensione). Nonostante l’ampio consenso tra esperti di etica circa l’equivalenza delle due pratiche sul piano morale, peraltro confermato anche in documenti di raccomandazioni elaborati da numerose società scientifiche, il tema continua a generare controversie nella pratica clinica. Questo articolo non ha lo scopo di assumere una posizione a favore o contro l’interruzione o l’astensione. Al contrario si esaminano dapprima le definizioni di queste due pratiche ufficialmente condivise tramite una conferenza di consenso; si valuta per quale forma di limitazione i clinici propendano maggiormente e le motivazioni di questa propensione; si offrono argomenti utili a definire luci e ombre dell’interruzione e dell’astensione, sottolineando che l’attenzione dei clinici dovrebbe focalizzarsi non tanto su queste due pratiche, quanto sull’importanza di individuare accuratamente e tempestivamente i pazienti su cui attuare una limitazione dei trattamenti. Solo successivamente sarà possibile decidere, in rapporto alle circostanze, alle condizioni del paziente e alle richieste dei suoi familiari, le modalità con cui praticare di volta in volta la limitazione dei trattamenti.
Note esplicative Al fine di rendere più agile il testo le definizioni ricorrenti saranno per brevità espresse con sigle. Queste vengono riportate in tabella in lingua italiana, quindi non corrispondono a quelle convenzionalmente usate nella letteratura scientifica internazionale. Trattamenti di supporto vitale
TSV
Decisione di limitare i trattamenti di suppor- LT to vitale Decisione di interrompere i trattamenti di IT supporto vitale Decisione di astenersi dai trattamenti di sup- AT porto vitale Unità di Terapia Intensiva
UTI
Introduzione Nei Paesi occidentali, negli ultimi decenni, i progressi della tecnologia e della farmacologia hanno permesso alla medicina intensiva di ridurre significativamente la mortalità per malattie acute gravi. Allo stesso tempo però i clinici si sono ovunque resi conto che non tutti i pazienti critici possono essere salvati, e molti di essi dovrebbero invece essere lasciati morire.
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Così, la maggior parte dei decessi in UTI si verifica oggi a seguito della decisione di limitare i trattamenti di supporto vitale.
Interrompere i trattamenti di supporto vitale o astenersi dall’iniziarli: le definizioni Lo scopo del paragrafo è quello di illustrare le definizioni concordate internazionalmente da intensivisti che hanno risposto da 32 Paesi europei e extra-europei, relative alle pratiche di limitazione dei trattamenti vitali sia nella forma della loro sospensione attiva che in quella dell’astensione dal porli in atto.
Nel 2015 una conferenza di consenso1 ha stabilito come definire le pratiche di fine vita. • i “trattamenti di supporto vitale” (TSV) sono definiti come interventi farmacologici e tecnologici usati per salvare la vita dei pazienti (ne sono alcuni esempi: rianimazione cardiopolmonare, ventilazione meccanica, uso di farmaci attivi sul sistema cardiocircolatorio, nutrizione artificiale, dialisi). • i TSV dovrebbero essere usati coerentemente con i valori e le preferenze dei pazienti, e se i TSV non offrono alcun beneficio e prolungano il processo del morire, i clinici dovrebbero astenersi dal loro uso, discutendo questa scelta con il paziente ove possibile, o con i suoi familiari. • la decisione di limitare i trattamenti di supporto vitale (LT) può attuarsi in due modi: i TSV possono non essere iniziati (decisione di astenersi dai trattamenti di supporto vitale – AT) o essere attivamente sospesi (decisione di interrompere i trattamenti di supporto vitale – IT). AT si può riferire: a) alla decisione di non avviare
Sprung, Truog, Curtis, Joynt, Baras, Michalsen, et al., Seeking Worldwide Professional Consensus on the Principles of End-of-Life Care for the Critically Ill. The Consensus for Worldwide End-of-Life Practice for Patients in Intensive Care Units (WELPUTI) Study. Am J Respir Crit Care Med 2014;190(8), 855–866.
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TSV (ad esempio non praticare rianimazione cardiopolmonare in caso di arresto cardiocircolatorio – Ordine di non rianimare, ONR); b) alla decisione di non intensificare TSV già in atto in caso di aggravamento della malattia o di insorgenza di particolari complicazioni (Ordine di non intensificare, ONI). • in caso di una condizione clinica con prognosi infausta accertata o se il paziente non vuole iniziare o continuare i TSV, questi possono essere non avviati o non intensificati o interrotti. Al contrario, pur ammettendo che il consenso del paziente o della famiglia vada sempre ricercato, una concordanza non è stata raggiunta circa l’ipotesi che esso non sia necessario trattandosi comunque di decisioni cliniche. • l’abbreviazione attiva del processo di morte, può essere definita come la circostanza nella quale qualcuno compie un’azione con la specifica intenzione di causare la morte o di abbreviarne il processo. Questo atto non va confuso con l’AT o l’IT. Non vi era invece piena concordanza sul fatto che tale pratica non sia permessa anche se consentita dalla legge.
Interrompere i trattamenti di supporto vitale o astenersi dall’iniziarli: evidenze dalla pratica clinica Lo scopo del paragrafo è quello di illustrare i risultati di studi clinici riguardanti la LT nella forma della IT e della AT per comprendere quali siano concretamente le scelte dei medici, i loro orientamenti e i fattori che possono influenzare queste scelte.
Negli anni ’90 alcuni studi condotti negli USA e in Europa, hanno mostrato che solo una minoranza di medici e infermieri considera equivalenti AT e IT e che la prima era praticata più spesso della seconda. Successivamente, altri studi hanno mostrato un’ampia variabilità riguardo alla due modalità di attuazione della LT in rapporto alla cultura dei medici, ai diversi assetti legislativi, alle differenti aree geografiche. Una maggior prevalenza dell’AT è stata evidenziata nelle UTI dei Paesi orientali e
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medio-orientali, mentre, in occidente, il maggior ricorso al IT sembra influenzato dalla disponibilità di un fiduciario, dall’età avanzata del paziente, dalla gravità della malattia. In Italia, nel 2003 uno studio ha riportato che circa la metà di 225 medici intervistati asseriva che nelle loro UTI la LT occorreva raramente o molto raramente. L’AT era considerata moralmente più accettabile della IT, che, a sua volta, era considerata psicologicamente più complessa e faticosa da affrontare. Un altro studio condotto sempre in Italia evidenziava che una LT in UTI precedeva il 62% dei 3793 decessi totali osservati. Nel 28% la AT si attuava tramite un “ordine di non rianimare” garantendo per il resto un supporto pieno; AT intesa come “ordine di non intensificare” era praticato nel 16% dei rimanenti casi, mentre l’IT era praticata nel 17%. Così, nella pratica clinica l’argomento rimane controverso.
Perché i medici preferiscono astenersi dai trattamenti piuttosto che limitarli Lo scopo del paragrafo è quello di illustrare le motivazioni per le quali i medici propendono più per l’astensione/non intensificazione dei trattamenti vitali che per la loro interruzione.
In termini di etica clinica, secondo la teoria dell’equivalenza, se è etico non avviare un trattamento, è considerato altrettanto etico sospendere quello stesso trattamento2. Ciononostante, i medici sembrano propendere invece per la teoria della non-equivalenza: se talvolta è permesso non iniziare un trattamento, potrebbe non essere permesso sospenderlo una volta iniziato3.
1. Bias cognitivi Una possibile spiegazione può consistere nel fatto che quando i medici devono prendere delle decisioni, tendono a esprimere, su una base prevalentemente emotiva, una propensione a non modificare lo stato delle cose (status quo bias). Questo bias si correla a quello di omissione: la tendenza cioè a giudicare azioni dannose come peggiori di omissioni ugualmente nocive. Questi bias cognitivi possono portare i medici a ritenere, in modo intuitivo, che interrompere attivamente un trattamento sia un’azione peggiore del non iniziarlo. D’altronde non va neppure trascurata la possibilità di un “conflitto d’interesse” da parte dei medici che trattano i pazienti in UTI. Il rapporto umano che i medici instaurano con i pazienti e le loro famiglie potrebbe indurli, quando dovessero scegliere tra i migliori interessi dei loro pazienti attuali e il benessere di altri pazienti potenziali, ad una valutazione distorta della prognosi. 2. Rigidità dei principi e pratica clinica Una seconda possibile spiegazione si riferisce alle differenti situazioni che essi incontrano nella pratica clinica. Se la qualità della prognosi può essere modificata significativamente da un trattamento e questo viene iniziato procurando un miglioramento della condizione clinica, ma senza sapere che il paziente trattato era in realtà contrario a riceverlo, è plausibile che se il medico lo avesse saputo in tempo il trattamento non sarebbe stato avviato e la prognosi sarebbe stata infausta. Ora che invece il trattamento produce un giovamento, sapere che il paziente non lo avrebbe mai voluto non è sufficiente per quel medico a interromperlo. Così appare evidente che, la rigidità dei principi, in alcuni casi, non si adatta facilmente alla complessità della pratica clinica. 3. Giustizia distributiva
2 Sulmasy, Sugarman, Are withholding and withdrawing therapy always morally equivalent? J Med Ethics, 1994; 20, 218–222. 3 Sulmasy & Sugarman. op. cit. nt. 4; Rachels, J. Killing and letting die., in: Becker, LC.; Becker, CB., editors. Encyclopedia of ethics, 2nd edn. New York; Routledge: 2001. 947-950.
Le UTI hanno risorse limitate e si trovano spesso nella condizione di non poter ammettere ulteriori pazienti una volta saturata la capacità ricettiva. Uno studio condotto in 37 UTI europee su 4248 pazienti deceduti, ha evidenziato che in meno dell’1% dei casi il rapporto costo/efficacia rappreResponsabilità Medica 2017, n. 2
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sentava una ragione primaria per attuare IT con invece una maggior propensione all’AT. Una ragione potrebbe consistere nel fatto che i medici agiscono sulla base della regola “first-come-first-served”. I vantaggi di questa regola consistono nel fatto che è inequivocabile, ed evita decisioni controverse. Tuttavia, essa produce conclusioni controintuitive: se il paziente A ha solo un 1% di possibilità di sopravvivere con le cure intensive e il paziente B ha invece il 99% di possibilità di sopravvivere con le stesse cure, la regola ‘first-come-first-served’ darebbe priorità ad A se questo accedesse per primo in UTI. Una preoccupazione legata alla pratica dell’IT in caso di risorse limitate, riguarda la sospensione dei trattamenti per ragioni moralmente non giustificabili. Ad esempio, se i medici fossero autorizzati a praticare l’IT su un paziente per beneficiarne un altro, questo potrebbe permettere ai medici di praticare, consciamente o meno, discriminazioni sulla base della razza, del sesso, dell’età, della disabilità, delle minori possibilità di sopravvivenza o della minor qualità di vita rispetto a quella di altri pazienti esistenti o potenziali. Questo risultato sarebbe certamente preoccupante, tuttavia non è chiaro il motivo per cui l’IT lo renderebbe più probabile rispetto all’AT. Attualmente i medici, in caso di risorse limitate, praticano più frequentemente l’AT che non l’IT. Tuttavia anche in caso di AT è possibile prendere decisioni che si potrebbero rivelare ingiuste. Non c’è inoltre alcuna prova che praticare l’IT in relazione a una limitata disponibilità di letti in UTI porti i medici a praticare l’eutanasia in pazienti con scarsa prognosi. 4. La relazione medico – paziente – familiari Un altro fattore che può spiegare il motivo per cui i medici preferiscono gestire la limitazione delle risorse tramite l’AT piuttosto che con l’IT, è che nel primo caso non c’è bisogno di consultarsi con i pazienti o con le famiglie. Le richieste di ammissione in UTI provengono da altri medici e la decisione di non ammettere in UTI è di solito comunicata direttamente ai medici di riferimento, non discussa con il paziente o con i membri della famiglia. Inoltre, Responsabilità Medica 2017, n. 2
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trattandosi solo di esprimere un criterio di appropriatezza clinica delle cure intensive al singolo paziente e non di porre in atto una qualche terapia, non è neppure necessario ottenere un consenso. Al contrario, è sempre molto difficile comunicare ai familiari che continuare il trattamento intensivo non è più nel migliore interesse del paziente e che quindi il team ha deciso per l’IT. 5. Aspetti legali Per quanto riguarda gli aspetti legali correlati al tema dell’IT/AT, vi sono due rilevanti questioni. La prima attiene alla percezione che i medici hanno della loro responsabilità professionale riguardo al IT. In alcuni Paesi Europei, negli USA, in Canada, Australia e Nuova Zelanda il principio della proporzionalità delle cure il ricorso alla LT sono disciplinati da apposite leggi. In Italia pur non esistendo una legislazione specifica, la LT trova supporto nell’art. 16 del Codice di Deontologia Medica 4, in raccomandazioni prodotte da Società scientifiche5, in documenti ufficiali di consenso tra differenti Istituzioni67. Malgrado questo, è possibile che l’IT, stante la sua stretta relazione causale e temporale con l’evento morte, possa comunque indurre i medici a temere di incorrere in contenziosi al contrario dell’AT. La seconda questione attiene al rapporto tra IT e giustizia distributiva. In termini legali, la scriminante che esclude la possibilità di considerare l’IT un reato consiste nel criterio della futilità dei trattamenti in atto, cosicché la loro sospensione può essere considerata
Portale FNOMCeO – Codice di Deontologia Medica. Ed. 2014 http://bit.ly/2dhGfRM (last accessed jan 2017).
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Gruppo di Studio Bioetica SIAARTI, End-of-life care and the intensivist, in Italian Society of Anaesthesia Analgesia and Intensive Care Medicine (SIAARTI) Recommendations on the Management of the Dying Patient, Minerva Anestesiol, 2006, 72, 927-63. 5
“Linee propositive per un diritto alla relazione di cura e delle decisioni di fine vita” – Documento redatto dal Comitato Scientifico della Fondazione Cortile dei Gentili unitamente alle società scientifiche SIAARTI e SICP http://bit.ly/2kgCB0a (last accessed jan 2017).
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Antonelli, Gristina, Guiding principles for the development of legislation regulating the doctor-patient relationship and end-of-life decisions: a joint effort by believers and non-believers, Minerva Anestesiol 2016, 82(2), 143–146.
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nel miglior interesse di quello specifico paziente. 8 Questa stessa scriminante non si attuerebbe invece nel caso in cui la decisione di IT fosse presa su un paziente a beneficio di un altro, come in caso di risorse limitate.
Non maleficenza – anche con ottimale analgesia-sedazione, sopportare trattamenti aggressivi può causare sofferenza. Giustizia distributiva – Se è dunque vero che i medici hanno una maggior propensione all’AT invece che all’IT – teoria della non equivalenza – il problema è il suo costo. Quando i trattamenti intensivi su pazienti con una prognosi infausta sono continuati, è plausibile ritenere che essi vengano negati a altri pazienti con maggiore probabilità di trarne beneficio. Questo non è solo un problema teorico. Gli studi che hanno esaminato il tema dell’ammissione in UTI hanno anche evidenziato un aumento del rischio di morte nei pazienti che erano rifiutati pari a 2.5 volte il rischio calcolato dopo aggiustamento per i marcatori di gravità della malattia.
Argomenti a favore della interruzione dei trattamenti vitali Lo scopo del paragrafo è quello di illustrare sinteticamente gli argomenti che nella letteratura sembrano giustificare maggiormente l’utilità della sospensione dei trattamenti rispetto alla astensione.
Nella pratica clinica, la scelta dell’IT rispetto all’AT presenta il vantaggio di risolvere il problema dell’incertezza prognostica. Offrendo al paziente un periodo di trattamento di durata prestabilita da interrompere in assenza del risultato cercato si garantirebbe a lui una chance e ai clinici la possibilità di emettere una prognosi basata sui fatti anziché rimanere nel dubbio di aver negato una possibilità solo in base a un calcolo probabilistico per quanto accurato. Ci sono poi due altre ragioni per le quali l’interruzione dei trattamenti dovrebbe essere consentita. In primo luogo, se non fosse permesso sospendere i trattamenti, le UTI sarebbero popolate di pazienti irrimediabilmente malati, mantenuti in vita artificialmente tramite cure costose, di nessun beneficio e in completa discordanza con i quattro principi fondamentali dell’etica clinica. Autonomia – I pazienti ricoverati in UTI sono nella fase più critica della loro malattia, pertanto solo rarissimamente possono essere coinvolti nella pianificazione delle cure e nelle scelte di fine vita. Beneficialità – È oggi noto che molti pazienti in tutto il mondo si giovano delle cure intensive, tuttavia una parte di questi pazienti non trae alcun vantaggio dalla medicina intensiva.
Eastman, Philips, Rhodes, Triaging for adult critical care in the event of overwhelming need. Intensive Care Med, 2010, 36, 1076–1082.
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Argomenti a favore dell’astesione dai trattamenti vitali Lo scopo del paragrafo è quello di illustrare sinteticamente gli argomenti che nella letteratura sembrano giustificare maggiormente l’utilità della astensione dai trattamenti rispetto alla loro sospensione.
Un argomento usato in favore dell’IT, come abbiamo visto, è quello dell’utilità di un trattamento di prova per un tempo limitato. A seguito delle modificazioni demografiche e biologiche intervenute nella popolazione occidentale negli ultimi decenni, il numero di ricoveri in ospedale di malati cronici è andato progressivamente crescendo e molti di questi pazienti sono stati ammessi impropriamente in UTI poiché nella fase end stage della loro malattia. In questo contesto non sembra che trattamento di prova per un tempo limitato abbia raggiunto l’obiettivo previsto. Una serie di studi dimostra che, nella vita reale, una volta ammessi in UTI, questi pazienti sperimentano degenze prolungate con una mortalità significativamente più elevata della media sia in UTI che a un anno dalla dimissione. Uno studio ha poi dimostrato che il 99% dei pazienti sottoposti all’IT era deceduto mentre l’11% di quelli sottoposti all’AT era ancora vivo alla diResponsabilità Medica 2017, n. 2
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missione dall’ospedale. Così quando i TSV sembrano non garantire più l’obiettivo, attuare l’AT può essere preferibile all’IT perché permette di limitare trattamenti dimostratisi inappropriati senza determinare necessariamente l’esito.
Astenersi o interrompere i trattamenti vitali? Lo scopo del paragrafo è quello di dimostrare che se sul piano teorico AT e IT si equivalgono, questa equazione non sempre è applicabile nella pratica clinica.
Sul piano teorico certamente si può concordare che non esistono sostanziali differenze tra l’IT e l’AT: in ognuno dei due casi la decisione fa riferimento a una situazione in cui i clinici riconoscono che i TSV non aggiungono chances alla prognosi, causando soltanto un prolungamento del processo del morire. La situazione si presenta diversa sul piano pratico. Si consideri il caso di un paziente affetto da una patologia cronico-degenerativa che, nella parte finale della sua traiettoria di malattia, sperimenta un aggravamento tale da far ipotizzare il ricorso a cure intensive. Se queste appaiono futili in base alla valutazione clinica e si pratica l’AT, il paziente non sarà ammesso in UTI ma potrà continuare ad avere cure ordinarie meglio ritagliate alla situazione attuale e cure palliative simultanee che migliorino la qualità dell’ultima fase di vita. Se al contrario il paziente fosse ammesso in UTI, e invece di ottenersi un miglioramento si avverasse un peggioramento delle condizioni cliniche, attuare un’IT significherebbe rimodulare al minimo
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o interrompere la ventilazione meccanica, interrompere la somministrazione di farmaci e una eventuale dialisi. La morte seguirà di lì poco. Una differenza tra queste due situazioni certamente esiste per i pazienti e per i loro cari, per i medici e gli infermieri in rapporto al diverso tipo di stress, alla sofferenza e all’impegno richiesti a ciascuno.
Conclusioni A fronte di queste differenze è necessario sottolineare che nella pratica clinica non esiste una formula astratta e unica per definire quale sia il modo migliore o peggiore per attuare una decisione di interrompere o non avviare trattamenti vitali. L’unico modo per affrontare utilmente e concretamente il difficile compito di prendersi cura di un paziente giunto alla fine della vita e della sua famiglia, consisterà nella scelta della modalità (IT o AT) che sia più appropriata alla collocazione del paziente, supportata da una valutazione globale delle sue condizioni e dei suoi bisogni, non solo improntata a criteri fisiopatologici, più aderente a un criterio di cura compassionevole e quanto più possibile coerente con le necessità del paziente, con le richieste dei familiari. È poi importante che qualsiasi decisione sia presa quanto più possibile in anticipo. Tutte le eventualità dovrebbero essere sempre discusse prima dal team e poi con i familiari. Le decisioni finali dovrebbero essere esplicite e condivise, trasmesse tramite un’appropriata modalità comunicativa, dopo aver raggiunto un consenso e annotate in cartella.
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o sospensione dei trattamenti vitali: luci e ombre Francesca Giardina legge il contributo di Renato Gristina Francesca Giardina
Già professoressa nell’Università di Pisa
1. I temi affrontati da Renato Gristina sono tutti destinati a suscitare grande inquietudine nel giurista, al quale è richiesto di confrontarsi con le categorie che costituiscono gli strumenti del suo lavoro e di saggiarne la capacità di porre il problema nella sua giusta dimensione. Innanzitutto, occorre chiarire quale sia il ruolo del diritto, in particolare in questa delicatissima materia. Il diritto può servire a molti fini ma, tra questi, il più importante è aiutare un problema a trovare la sua più corretta posizione. Ho volutamente parlato di posizione e non di soluzione, la soluzione la può cercare solo l’uomo, ma l’uomo può farlo – e ciascuno ha la possibilità di dare libero spazio alla sua mente, alla sua indole, ai valori in cui crede – solo se il problema è posto nei giusti termini. Il diritto non può imporre soluzioni. Se il diritto imponesse soluzioni, dall’uomo riceverebbe solo o supina obbedienza o rivolta: due risposte che nessuna società civile può tollerare. In altri termini il diritto non può mai essere il padrone dell’uomo, il padrone della società civile, deve invece porsi al loro servizio. Ma non può essere un servo sciocco: il servitore deve essere saggio. Può capitare che il servitore sia anche più saggio del padrone e che gli dispensi utili consigli, come Jacques il fatalista, servitore oltremodo saggio nato dalla penna di Diderot. Sono fermamente convinta che fare diritto debba avere un unico scopo: offrire all’uomo e alla società in cui vive il miglior servitore possibile.
Sono anche consapevole del fatto che spesso le parole del diritto, purtroppo, non sembrano fatte per servire la vita dell’uomo. Ma dialoghiamo – medici e giuristi – proprio perché le parole del diritto non conducano ad una sterile incapacità di comunicazione, alla incomprensione o, peggio, alla imposizione autoritaria di un linguaggio che appare oscuro al punto da essere visto con diffidenza o, addirittura, rifiutato. E d’altra parte, vorrei aggiungere, il diritto non ha alcun senso – e in quest’ambito ne ha meno che mai – se non si confronta con la verità dei rapporti che regola, se non si apre alla comprensione di ciò che regola, se non perde la sua veste rigida e togata, di elemento estraneo che proviene da luoghi lontani della scienza umana, se non diviene, appunto, un diritto gentile. Con queste intenzioni mi accingo a leggere il contributo di Renato Gristina che, già nel proporre al lettore una serie di definizioni concordate da medici intensivisti, induce a una serie di riflessioni e suscita interrogativi su questioni cruciali. 2. La definizione dei “trattamenti di supporto vitale” (TSV) li individua come “interventi farmacologici e tecnici usati per salvare la vita dei pazienti”. Credo l’espressione “salvare la vita” debba essere chiarita. Se si fa riferimento al semplice prolungamento della vita, si propone una definizione che entra in conflitto con quanto – a mio avviso più correttamente – si dice nell’introduzione: Responsabilità Medica 2017, n. 2
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“non tutti i pazienti critici possono essere salvati, e molti di essi dovrebbero invece essere lasciati morire”. Mi chiedo inoltre – e chiedo al medico – se non vi sia una notevole differenza, nell’esemplificazione dei TVS, tra ventilazione meccanica e dialisi e se, quindi, non vi sia, tra le pieghe, la possibilità di una diversa valutazione della “vita” che i vari TSV offrono al paziente. Una seconda definizione introduce, in realtà, una regola che, nel fondere due aspetti assai diversi, rischia di eludere il problema della loro potenziale conflittualità. L’uso dei TSV “coerentemente con i valori e le preferenze del paziente” e “l’assenza di ogni beneficio per il paziente” sono indicazioni assolutamente condivisibili, ma possono condurre a scelte divergenti. La terza definizione pone il problema centrale del contributo di Renato Gristina: individua la differenza tra astensione e interruzione dei TSV e pone le premesse per la valutazione di una loro equivalenza o, al contrario, di una loro diversità etica e deontologica. Il quarto aspetto che viene affrontato non introduce una definizione, ma pone il problema del consenso del paziente (o della famiglia) in caso di condizione clinica con prognosi infausta accertata: il consenso è necessario, o l’astensione e l’interruzione dei TSV sono decisioni cliniche che ne escludono la rilevanza? Infine si specifica – e ciò vale a escludere il problema da queste riflessioni – che non può essere confusa né con l’astensione né con l’interruzione dei TSV l’abbreviazione attiva del processo di morte. 3. Una serie di considerazioni che l’intervento di Renato Gristina mi induce a svolgere sarà meno sistematica e ordinata delle indicazioni del medico, dato che le questioni proposte si incrociano fatalmente. Il tema centrale – equivalenza o non equivalenza dell’astensione e dell’interruzione dei TSV – si propone in più termini: etici, pratici e di giustizia distributiva. Astensione e interruzione rispondono, infatti, a due condotte diverse – omissione e azione – che, per etica e diritto, non sono sempre valutate nello stesso modo: e il medico ne è consapevole. Il giurista, in particolare, viene educato a sapere e ad insegnare che non sempre l’omissione, Responsabilità Medica 2017, n. 2
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anche quando sia diretta causa di un evento, ha la stessa rilevanza di un’azione. Per essere considerata causa dell’evento, l’omissione deve risultare oggetto di una valutazione negativa da parte dell’ordinamento, non necessariamente in quanto violazione di una regola di condotta, ma anche come comportamento di indifferenza o trascuratezza rispetto alla salvaguardia di un interesse meritevole di tutela. Nella fase di preparazione della proposta di idee in forma normativa per un diritto gentile in medicina si è discusso se fosse opportuno esplicitare la congruenza tra astensione e interruzione con una norma generale simile a quelle dei Natural Death Acts americani. L’equivalenza è riconosciuta, anche se con dissensi, nella giurisprudenza inglese e tedesca, ed è sostenuta in Italia soprattutto in campo civilistico. Abbiamo però riscontrato che una affermazione generale di equivalenza avrebbe creato difficoltà di tipo concettuale ai penalisti, i quali preferivano la soluzione pragmatica di prevedere la legittimità dell’astensione e la non punibilità della interruzione: termini diversi per raggiungere un analogo risultato senza scardinare le categorie concettuali del diritto. Non sembra che l’astensione da TSV, motivata da condizioni cliniche con prognosi infausta, possa rappresentare indifferenza o trascuratezza rispetto alla salute del paziente. Ma se quest’ultimo è il criterio-guida della scelta, non c’è spazio per giudicare “azioni dannose come peggiori di omissioni ugualmente nocive”, semplicemente perché in nessun caso, né nell’interruzione, né nell’astensione da TVS può e deve esservi un danno per il paziente: tale infatti non è una morte che segue all’inutilità di un prolungamento del processo naturale di fine vita. Più in generale, un principio di portata generale dovrebbe condizionare la legittimità dell’intervento medico al requisito di proporzionalità della terapia: l’inizio e la prosecuzione di cure non proporzionate dovrebbe affiancarsi alla illegittimità dell’adozione o prosecuzione di cure non consentite o rifiutate. 4. Si giunge, per questa via, al problema del consenso e alla sua imprescindibilità anche quando i TSV non offrano alcun beneficio.
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Qui i principi dell’etica clinica – che, giova ricordarlo, hanno un forte accento anglosassone che li rende per molti aspetti estranei alla nostra cultura – non giovano alla riflessione. In particolare non giova il principio di autonomia, quando di tratti di pazienti che, nella maggior parte dei casi, non sono in grado di esprimere la propria volontà. Sul consenso e sulla sua importanza credo che giovi fare chiarezza. Quando si parla di consenso in materia di trattamento medico si rischia una confusione di piani. Giuristi e non giuristi sono accomunati dalla tendenza a immaginare il consenso come un elemento imprescindibile delle scelte del privato, sulla falsariga – i giuristi – dell’immagine del consenso contrattuale, per imitazione – i non giuristi – di un’idea formale, se non burocratica, della manifestazione di volontà. Nell’autodeterminazione che si lega alla propria vita e al proprio corpo, il consenso è cosa assai diversa: è uno strumento che non riguarda il rapporto della persona con altri, ma la persona con riferimento a sé stessa soltanto. Più del consenso rileva quindi la ricostruzione della volontà del malato e la corrispondenza a questa delle cure mediche che si intende prestargli. Di qui l’importanza delle dichiarazioni anticipate di trattamento, ma anche, in loro assenza, di altri indizi: le preferenze, credenze, convinzioni, che concorrono a definire l’identità della persona e le sue opinioni con riguardo al trattamento medico nella fase finale della sua esistenza. In tal modo la volontà del paziente può essere assunta non come punto di partenza, ma come punto di arrivo. E ciò dovrebbe valere a superare quella che Renato Gristina denuncia come rigidità dei principi rispetto alla complessità della pratica clinica. In particolare, si dice, quest’ultima presenta una varietà di situazioni della quale non può non tenersi conto: da un trattamento al quale il paziente risulti contrario il medico si astiene; un trattamento già iniziato che abbia prodotto un beneficio e che risulti a posteriori non voluto dal paziente non può essere interrotto. In questo caso è decisiva una vera ricostruzione della volontà del paziente, che non si arresti al semplice dato di una pregressa manifestazione di volontà e che richieda lo sforzo – certo difficile – di immaginare un’ipotetica diversa volontà in presenza di un dato nuovo: il beneficio in origine non previsto.
5. Inquietante è, infine, il problema del rapporto tra scelta singola e risorse disponibili. Ricordo che in un Documento proposto dalla SIAARTI e discusso in un incontro padovano nel 2013 era contenuto uno statement così formulato: «In termini di giustizia distributiva è eticamente doveroso e scientificamente appropriato ricercare costantemente la migliore allocazione delle risorse disponibili». L’affermazione era formulata in termini generali e non specificamente collegata alla singola relazione di cura. Ricordo anche che, sul punto, varie perplessità erano espresse nelle considerazioni etiche e giuridiche che accompagnavano il documento. Una regola di questo tipo – si leggeva – esigerebbe “una difficilissima riconsiderazione della catena delle decisioni, da quella legislativa di livello generale a quella delle destinazioni di bilancio a quella delle decisioni sanitarie fino a quella del trattamento del singolo paziente; a questo ultimo e concreto livello, conviene per ora mantenere il rinvio a criteri etici e deontologici che includano il diritto del paziente a ottenere il più adeguato trattamento sulla base delle risorse disponibili”. In secondo e non ultimo luogo – anzi, a mio avviso, in termini decisivi – è necessario non dimenticare che il nostro ordinamento è retto dai principi costituzionali, tra i quali non compare un principio di giustizia intesa come “corretta allocazione delle risorse”. È invece di primario rilievo il ben diverso principio di solidarietà, da intendere come norma di proiezione delle esigenze della collettività sulle esigenze individuali, che impone un confronto, una comparazione e un bilanciamento solo quando gli interessi in gioco siano di pari rango. In altri termini, se può immaginarsi che “l’interesse della collettività” prevalga sul “diritto dell’individuo”, ciò può accadere solo quando entrambi siano tesi alla salvaguardia dello stesso “bene”, come accade all’interno della norma dell’art. 32 della Costituzione, che costruisce sulla tutela della salute la duplice garanzia del diritto individuale e dell’interesse collettivo. Quest’ultimo non potrà prevalere – e sarà fatalmente destinato a lasciare spazio al diritto individuale alla tutela della salute – quando sia teso alla realizzazione di obiettivi che i principi costituzionali non pongono allo stesso, primario livello del diritto alla salute. Responsabilità Medica 2017, n. 2
o t Osservatorio-medico Osservatorio medico legale legale erva ico s d le s e o m ga Le buone pratiche e l clinico-assistenziali nella legge 8 marzo 2017, n. 24 Gianluca Montanari Vergallo
Professore aggregato nell’Università “Sapienza” di Roma
Sommario: 1. Introduzione. – 2. La nozione di buone pratiche nella dottrina giuridica e medico-legale. – 3. L’intervento del legislatore. – 4. Configurabilità della colpa specifica per violazione delle buone pratiche clinico-assistenziali. – 5. Conclusioni.
Abstract: L’art. 5 della l. n. 24/2017 obbliga i medici all’osservanza delle buone pratiche clinico-assistenziali. Partendo dalle differenti nozioni di buone pratiche sostenute dalla dottrina, il presente lavoro individua negli artt. 5 e 6 argomenti a sostegno di una definizione ampia, tale da includere tutte le leges artis basate su prove di efficacia. Di conseguenza, l’accertamento della colpa varia in relazione al grado di elasticità della regola cautelare che si assume violata. Poiché il legislatore non indica quale peso e forza delle evidenze è necessario per considerare un determinato comportamento come buona pratica, appare improbabile che la riforma offra ai medici chiare indicazioni di comportamento e, quindi, riduca il contenzioso. Section 5 of Law no. 24/2017 obliges physicians to observe good clinical-care practices. Starting from the different notions of good practice reported in the literature, the paper identifies in sections 5 and 6 arguments for a broad definition, that includes all leges artis based on evidence. Consequently, the assessment of the failure to meet the standard of care varies with respect to the degree of elasticity of the precautionary rule. Since the legislator does not state what weight and strength of evidence is necessary to consider a certain behavior as good clinical-care practice, it seems unlikely that the reform will offer doctors clear behavioral directions and therefore reduce litigation.
1. Introduzione L’art. 5 della l. 8 marzo 2017, n. 24, rubricato «Buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida», stabilisce al comma 1° che: «Gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali». Dunque, a queste ultime e alle linee guida (che si potrebbero aggettivare come “scientifico-ministeriali” in ragione del loro peculiare iter di elaborazione ex art. 5) il legislatore affida la propria risposta all’esigenza di attribuire ai medici chiare indicazioni di comportamento, necessarie sia Responsabilità Medica 2017, n. 2
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per il rispetto del principio di tassatività ex art. 25 Cost. sia per ridurre il contenzioso e renderlo maggiormente predeterminabile negli esiti. Ponendo un obbligo di carattere generale e collocandosi a monte della disciplina penalistica (art. 6) e di quella civilistica (art. 7), l’art. 5 presenta rilevanza in entrambi i rami dell’ordinamento1. Dunque, fermo restando che la riforma introduce una limitazione di responsabilità esclusivamente penale e non anche civile, l’osservanza delle linee guida e, in loro mancanza, delle buone pratiche dovrebbe valere ad escludere la sussistenza della colpa anche nell’ambito di un’azione risarcitoria introdotta dinanzi al Giudice civile, se non sussistono ulteriori profili di negligenza, imprudenza o imperizia.
2. La nozione di buone pratiche nella dottrina giuridica e medicolegale Sotto il vigore del d.l. n. 158/2012, la giurisprudenza non ha affrontato approfonditamente la nozione di buone pratiche clinico-assistenziali. Tuttavia, la riforma impone di porre attenzione a questo problema, perché il neointrodotto art. 5 richiama i professionisti all’applicazione delle buone pratiche clinico-assistenziali fino a quando non saranno pubblicate le linee guida ministeriali. Quindi, nell’attesa che queste ultime vedano la luce a seguito dell’articolato iter sancito dall’art. 52, solo per le buone pratiche è attualmente vigente l’obbligo di osservanza di cui alla medesima disposizione. In dottrina si riscontra una varietà di posizioni. La principale distinzione è tra, da un lato, l’orientamento tendente ad attribuire contenuti nettamente distinti alle buone pratiche rispetto alle linee guida e, dall’altro, coloro che propendono per sovrapporre in tutto o in parte i due concetti.
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Nell’ambito della prima impostazione, si sostiene che linee guida e buone pratiche, seppur affini sul piano funzionale, presentano diversità contenutistiche in quanto le seconde sono più stringenti e non hanno finalità di contenimento dei costi3. Infatti, le normative che alle buone pratiche cliniche fanno riferimento riguardano soprattutto la materia della sperimentazione4. Tali caratteristiche delle buone pratiche inducono a sostenere che queste siano meno importanti rispetto alle linee guida innanzitutto perché meno ricorrenti nella pratica clinica5. In particolare, secondo quest’orientamento, «le “buone pratiche” o standards – cresciute all’ombra delle ben più celebrate linee guida – si esprimono per lo più in forma di protocolli, schemi rigidi e predefiniti di comportamento diagnostico-terapeutico che descrivono le procedure alle quali l’operatore sanitario deve strettamente attenersi in una situazione specifica. Da questa peculiarità strutturale discende la tendenziale tassatività della loro applicazione, posto che solo il corretto e sistematico adempimento della sequenza comportamentale indicata garantisce l’operatore dal rischio del verificarsi di esiti avversi. Occorre, inoltre, sottolineare che, in relazione alle buone pratiche, non di rado vengono in considerazione regole procedurali volte in primo luogo ad evitare che l’evento lesivo si verifichi a causa di negligenza o impudenza, basti pensare alla diffusione delle c.d. checklist, per cui, almeno in riferimento ad esse, e contrariamente a
Roiati, Linee guida, buone pratiche e colpa grave: vera riforma o mero placebo?, in Dir. pen. proc., 2013, 224; Valbonesi, Linee guida e protocolli per una nuova tipicità dell’illecito colposo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 250 ss. 3
De Matteis, Errore e responsabilità in medicina, in questa Rivista, 2017, 66.
Tra le altre, dir. 2005/28/CE (recante principi e linee guida dettagliate per la buona pratica clinica relativa ai medicinali in fase di sperimentazione a uso umano) e d.lgs. n. 200/2007 di attuazione; dir. 2001/20/CE (relativa all’applicazione della buona pratica clinica nell’esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico) e d.lgs. n. 211/2003 di attuazione; d.m. 15 luglio 1997 (Recepimento delle linee guida dell’Unione europea di buona pratica clinica per la esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali).
Il che, secondo Benci, Rodriguez, Le linee guida e le buone pratiche. Articolo 5, in Aa.Vv., Sicurezza delle cure e responsabilità sanitaria, Roma, 2017, 73, potrebbe richiedere «vari anni».
Nocco, Le linee guida e le “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica” nella “legge Balduzzi”: un opportuno strumento di soft law o un incentivo alla medicina difensiva?, in Riv. it. med. leg. dir. san., 2013, 781.
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quanto generalmente sostenuto, l’indagine imposta dall’intervento di riforma non può considerarsi circoscritta al profilo dell’imperizia»6. Il contrapposto orientamento, che non condivide un così netto “regolamento di confini” tra linee guida e buone pratiche, presenta una varietà di sfumature al proprio interno. Parte della dottrina sostiene che il concetto di buone pratiche è incluso in quello di linee guida. Si tratterebbe, quindi, di un’endiadi7. Altra tesi, invece, sembra attribuire un contenuto maggiormente ampio alle linee guida piuttosto che alle buone pratiche, affermando che queste ultime «allud[ono] più che ad una disciplina regolamentata (come avviene nelle linee guida e nei protocolli) alla concreta attuazione delle medesime linee guida o a procedure non previste dalle linee guida ma comunemente applicate, e di cui sia riconosciuta l’efficacia terapeutica o comunque la non dannosità per il paziente»8. La dottrina medico-legale conferma che linee guida e buone pratiche fanno parte dell’insieme delle conoscenze necessarie all’esercizio della professione medica. Ma precisa che l’espressione “buona pratica clinica”, utilizzata originariamente nella disciplina delle sperimentazioni cliniche, trova attualmente applicazione nell’ambito di «interventi e strategie finalizzati a prevenire o contenere le conseguenze inattese delle prestazioni sanitarie e quindi a migliorare il livello di sicurezza delle stesse. […] In tal senso la locuzione “buone pratiche” descrive una specifica organizzazione sanitaria per la sicurezza dei pazienti la quale non
Roiati, Il ruolo del sapere scientifico e l’individuazione della colpa lieve nel cono d’ombra della prescrizione, in www. dirittopenalecontemporaneo.it, 9. 6
Di Landro, Le novità normative in tema di colpa penale (L. 189/2012, c.d. “Balduzzi”). Le indicazioni del diritto comparato, in Riv. it. med. leg. dir. san., 2012, 833; Franzoni, La nuova responsabilità in ambito sanitario, in questa Rivista, 2017, 12, «le buone pratiche […] si traducono in regole da porre nelle linee guida». 7
Brusco, Linee guida, protocolli e regole deontologiche. Le modifiche introdotte dal cd. Decreto Balduzzi, in Riv. trim. dir. pen. cont., 2013, IV, 64; Caletti, Tra “Gelli-Bianco” e “Balduzzi”: un itinerario tra le riforme in tema di responsabilità penale colposa del sanitario, in questa Rivista, 2017, 114. 8
può non fondarsi sulle medesime basi scientifiche su cui si fonda (o si dovrebbe fondare) l’operato diligente-prudente-perito dell’esercente una professione sanitaria»9. Secondo un’ulteriore tesi, le buone pratiche consistono nelle cc.dd. regole prasseologiche generalmente condivise ed applicate in ambito medico10. Rispetto alle linee guida, si tratta di regole cautelari non scritte e meno determinate, nel senso penalistico del termine11, perché le prassi nascono dalle scelte cliniche e chirurgiche che i singoli professionisti compiono nell’ambito delle rispettive attività e ambienti lavorativi senza alcuna pretesa di offrire indicazioni di comportamento valide per la generalità degli specialisti del settore. Dunque, le linee guida possono “normativizzare” una regola prasseologica, ma non escludere immediatamente le altre. Ciò avverrà solo dopo che le indicazioni contenute nella linea guida si saranno diffuse uniformemente nella prassi12. Solo quando la prassi sostituisce completamente determinati comportamenti con quelli contenuti nelle linee guida, questi ultimi devono essere considerati come la rego-
Fiori, Marchetti, Medicina legale della responsabilità medica, Milano, 2016, IV, 246 s., i quali prendendo spunto da quanto elaborato dalla European Union Network for Patient Safety and Quality of Care in materia di gestione del dolore, dei farmaci antiblastici, di prevenzione delle ulcere da pressione, di indice di deterioramento cardiaco, di prevenzione della distocia di spalla, di prevenzione dell’evento sentinella, ritengono che rientrino nelle buone pratiche le raccomandazioni del Ministero della Salute per la “prevenzione degli errori in terapia con farmaci antineoplastici”, “per la prevenzione degli errori in terapia con farmaci Look-alike/ sound-alike”, ma anche in materia di “Morte o grave danno conseguenti ad un malfunzionamento del sistema di trasporto (intraospedaliero, extraospedaliero)”.
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Giunta, La legalità della colpa, in Criminalia, 2008, 165 ss. Similmente Micheletti, La colpa del medico. Prima lettura di una ricerca sul campo, in Criminalia, 2008, 171 e ss. Nell’ambito della dottrina civilistica, Gorgoni, La responsabilità in ambito sanitario tra passato e futuro, in questa Rivista, 2017, 24, spiega che le buone pratiche clinico-assistenziali sono «evidentemente non codificate né codificabili perché costituite da comportamenti esperienziali di tipo virtuoso». 10
11 Poli, Legge Balduzzi tra problemi aperti e possibili soluzioni interpretative: alcune considerazioni, in 2013, 88 s. 12 Di Landro, Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa penale nel settore sanitario. Misura oggettiva e soggettiva della malpractice, Torino, 2012, 62 ss.
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la da seguire, sempre ovviamente previa verifica della loro adeguatezza clinica nel caso concreto13.
3. L’intervento del legislatore Descritte in questi termini le opzioni ermeneutiche relative al rapporto tra linee guida e buone pratiche, occorre valutare se ve ne sia una che trova supporto nella formulazione dell’art. 5. Secondo parte della dottrina, poiché la riforma distingue tra buone pratiche per la sicurezza, previste dall’art. 3, e buone pratiche clinico-assistenziali ex art. 5, le prime riguardano norme prudenziali insuscettibili di dover essere derogate in relazione alle peculiarità del caso concreto; mentre quelle di carattere clinico-assistenziale presentano, come le linee guida, la caratteristica di dover essere adeguate alle specifica situazione clinica. Conseguentemente, la locuzione “buone pratiche clinico-assistenziali” dovrebbe essere «considerata in senso estensivo: da un lato comprendente le prassi professionali orientate alla tutela della salute, basate su prove di evidenza scientifica, e dall’altro comprendente documenti, purché coerenti con evidenze scientifiche ed elaborati con metodologia dichiarata e ricostruibile, comunque denominati, e quindi non solo quelli che recano la dicitura “buone pratiche”. Di conseguenza un documento, pur se chiamato “buone pratiche …”, ma non rispondente ai richiesti riferimenti scientifici e requisiti di elaborazione, non rientra nella fattispecie individuata dal comma 1 dell’art. 5»14. A favore di una diversa conclusione, tuttavia, depongono altri due dati normativi pacifici: 1) gli artt. 5 e 6 pongono le buone pratiche come alternative alle linee guida scientifico-ministeriali, mancando queste ultime, e prevedono la medesima limitazione di responsabilità sia in caso di osservanza delle buone pratiche sia se il professionista segue le linee guida; 2) l’art. 6 abroga l’art. 3 del d.l. n. 158/2012 con effetto immediato, non differito fino alla pubblicazione delle linee guida ex art. 5.
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Fiori, Marchetti, op. cit., 243.
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Benci, Rodriguez, op. cit., 70 ss.
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Ciò induce a credere che i caratteri delle buone pratiche clinico assistenziali non possano essere diversi da quelli delle linee guida. Infatti, se le prime potessero limitarsi all’indicazione di attività materiali o comunque di una vincolante successione di comportamenti, si tratterebbe di regole complementari rispetto a quelle delle linee guida, che invece entrano nel vivo della discrezionalità delle scelte diagnostico-terapeutiche (infatti occorre valutarne l’adeguatezza rispetto al concreto caso clinico). Ma ciò è impedito dalle citate disposizioni, che invece delineano chiaramente tra linee guida e buone pratiche un rapporto di alternatività, non di complementarietà. Questa conclusione trova conferma nel confronto con l’art. 3 d.l. n. 158/2012. Infatti, mentre l’art. 5 richiede di seguire le buone pratiche solo fino alla pubblicazione delle linee guida scientifico-ministeriali, così stabilendo tempi diversi per l’applicazione delle une e delle altre, l’art. 3 non prevedeva un simile avvicendamento temporale. Quindi, ciascun caso doveva essere valutato in base sia a linee guida sia a buone pratiche: questo tipo di formulazione, non quello degli artt. 5 e 6, è compatibile con un rapporto di complementarietà tra linee guida e buone pratiche. Anche la scelta di abrogare con effetto immediato l’art. 3 d.l. n. 158/2012 rende necessario attribuire alle buone pratiche caratteri analoghi a quelli delle linee guida. Infatti, se le prime fossero limitate ad attività materiali o comunque vincolate, in base a quali regole cautelari si dovrebbe valutare il comportamento del professionista nei casi, peraltro maggioritari, di scelte discrezionali? Sicuramente mancherebbe un’indicazione normativa in merito, perché l’art. 3 è abrogato e le linee guida ex art. 5 sono ancora in fieri. Verrebbe, quindi, a verificarsi una disparità di trattamento tra, da un lato, operatori che compiono attività materiali o vincolate, i quali, oltre ad avere più chiare indicazioni di comportamento, beneficiano della irrilevanza penale dell’imperizia; e, dall’altro, professionisti che operano scelte discrezionali. Questi, infatti, non potrebbero contare su alcuna limitazione di responsabilità. Tale disparità è per giunta irragionevole, perché porta a trattare più severamente proprio coloro che, svolgendo attività a più alto contenuto intellettuale, sono maggiormente a
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rischio di contestazioni. Di ciò era ben consapevole il legislatore del 1942, tanto è vero che volle tutelarli attraverso la previsione dell’art. 2236 c.c. per i casi di speciale difficoltà, introduttivo di una limitazione di responsabilità pienamente ragionevole perché necessaria a controbilanciare il loro maggior rischio di incorrere in contenziosi15. D’altro canto, anche l’identificazione tra buone pratiche clinico-assistenziali e linee guida appare controvertibile. Al riguardo, sebbene gli artt. 3 e 5 della riforma distinguano tra le buone pratiche per la sicurezza e quelle clinico-assistenziali, queste ultime dovrebbero includere anche le prime. Infatti, se le buone pratiche per la sicurezza fossero qualcosa di diverso da quelle clinico-assistenziali, l’art. 5 le avrebbe citate espressamente, perché rientrano senza dubbio nelle condotte vincolanti da tenere per il corretto esercizio della professione. Invece, l’art. 5 non le nomina, diversamente dall’art. 3. Ma ciò non sembra poter significare che l’obbligo di osservanza valga per buone pratiche da adeguare al caso concreto (quindi talora derogabili) e non anche per quelle che consistono in misure di diligenza e di prudenza sempre idonee a salvaguardare la sicurezza dell’assistito. Quindi, queste ultime dovrebbero rientrare nell’obbligo di osservanza delle buone pratiche clinico-assistenziali ex art. 5. Se, dunque, per effetto degli artt. 5 e 6, le buone pratiche devono andare sia a coprire la stessa area che sarà disciplinata dalle emanande linee guida sia a sopperire nei casi in cui queste ultime manchino e ad indicare regole di diligenza e di prudenza funzionali alla sicurezza del paziente, le prime devono essere individuate nelle regole prasseologiche, in quanto queste ultime sono ca-
15 Come rilevano Fiori, D’Aloja, In tema di cosiddetta “certezza del diritto”: la colpa grave del medico, ovvero in qual modo le buone intenzioni del legislatore sono state vanificate e tramutate in danno, in Riv. it. med. leg., 2000, 1316, la relazione del Guardasigilli al Re sul codice civile del 1942 attribuisce all’art. 2236 c.c. l’«intento “di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie del cliente in casi di insuccessi e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista”».
paci di coprire lo svolgimento della pratica clinica nel suo complesso. Si pone, dunque, il problema se una qualunque regola prasseologica costituisca una buona pratica e, quindi, escluda la punibilità dell’imperizia ex art. 6, o se siano necessarie delle caratteristiche. A sostegno della rilevanza di ogni regola prasseologica depone il fatto che, negli artt. 5 e 6, le buone pratiche clinico-assistenziali non sono ulteriormente aggettivate. In particolare, manca il riferimento al loro accreditamento presso la comunità scientifica, che invece era presente nell’art. 3 del d.l. n. 158/2012. Questo dato normativo può indurre a sostenere che l’intenzione del legislatore sia di spostare la valutazione della colpa dall’ambito scientifico a quello professionale. In altri termini, l’imperizia sarebbe penalmente irrilevante se l’imputato ha tenuto un comportamento ritenuto corretto e praticato anche da altri professionisti del settore, indipendentemente dal fatto che tale prassi sia ritenuta la migliore anche in sede scientifica, ossia nell’ambito della letteratura medica internazionale, le cui pubblicazioni sono soggette a procedure preliminari di revisione tra pari. La tesi contraria, tuttavia, appare preferibile. In primo luogo, infatti, considerare rilevante qualunque regola prasseologica significherebbe legittimare sentenze di assoluzione o di rigetto della domanda risarcitoria basate sulla mera testimonianza che anche altri operatori si sarebbero comportati nello stesso modo dell’imputato. Tale esito si porrebbe in contrasto con la costante giurisprudenza. La Supr. Corte, infatti, richiede che in materia di prova scientifica i consulenti non si limitino ad esprimere la loro opinione sulla base dell’esperienza professionale. Anzi, è necessario che riportino lo stato dell’arte, ossia delle conoscenze scientifiche pubblicate ed affidabili16.
In tal senso, nell’ambito della responsabilità medica, cfr. Cass. pen., 29.1.2013, n. 16237, in Cass. pen., 2013, 9, 2999, con nota di Cupelli, I Limiti di una codificazione terapeutica. Linee Guida, buone pratiche e colpa grave al vaglio della Cassazione. In prospettiva generale, cfr. Cass. pen., 13.12.2010, n. 43786, in De jure. 16
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Inoltre, una concezione estensiva delle regole prasseologiche porterebbe ad includere nel corretto esercizio della professione anche condotte professionali sciatte. Di conseguenza, verrebbe ad essere leso il diritto alla salute, prima ancora della funzione preventiva della responsabilità penale e risarcitoria di quella civile. Su questa base, sembra di poter concludere che le buone pratiche corrispondono alle regole cautelari seguite in ambito professionale (ossia prasseologiche) e accreditate dalla comunità scientifica: le regole prasseologiche, per poter essere considerate corretto esercizio della professione, devono fondarsi sull’insieme delle conoscenze scientifiche del momento, quali risultanti dalla complessiva letteratura medica a partire dalla manualistica fino alle ultime acquisizioni della ricerca basate su evidenze affidabili. L’adesione a tali leges artis costituisce corretto esercizio della professione e vale altresì ad escludere la responsabilità penale per eventuali altri profili di imperizia almeno fino all’adozione delle linee guida scientifico-ministeriali relative al medesimo caso. Infatti, dalla lettera degli artt. 5 e 6 emerge un’automatica sostituzione delle buone pratiche per effetto della pubblicazione delle linee guida sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità. Proprio questo meccanismo sostitutivo, tuttavia, si espone ad eccezione di legittimità costituzionale ex artt. 32 e 3 Cost.17. Sotto il primo dei due profili, vincolando il professionista alle linee guida, si priva il paziente delle cure più efficaci che fossero state recepite dalla pratica clinica successivamente alla pubblicazione delle linee guida scientifico-ministeriali18. Se si ritenesse fondato tale rilievo, emergerebbe la necessità di adottare un’interpretazione costitu-
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zionalmente orientata dell’art. 6, tale da escludere la rilevanza penale dell’imperizia anche nei casi in cui il medico segua un comportamento giudicato quale buona pratica clinico-assistenziale, ma non ancora formalizzato nell’aggiornamento delle linee guida ministeriali. Del resto, anche a fronte di una linea guida pienamente aggiornata, è necessario verificare l’eventuale necessità di un suo adeguamento alle peculiarità del caso concreto. E tale adeguamento non può che avvenire sulla base delle conoscenze cliniche che fanno parte delle regole prasseologiche, ossia delle buone pratiche, che quindi non possono essere completamente sostituite dalle emanande linee guida. Ritenere diversamente darebbe luogo ad eccezione di legittimità costituzionale anche ex art. 3 Cost. Infatti, l’art. 6 prevede l’irrilevanza penale dell’imperizia solo in caso di osservanza di linee guida scientifico-ministeriali adeguate alle specificità del caso concreto. Di conseguenza, se quest’ultimo rende erroneo adeguarsi a tali linee guida, il professionista si trova ad essere discriminato perché la sua eventuale imperizia sarebbe sempre punibile. Tale disparità è anche irragionevole perché aggrava la posizione proprio del sanitario che, non potendo contare sulla linea guida nel caso concreto, si trova ad affrontare una situazione clinica più complessa; mentre rende più blanda la valutazione di responsabilità proprio nei casi che, essendo più “semplici”, renderebbero ragionevole escludere la limitazione di responsabilità19. Pertanto, onde evitare tali profili di incostituzionalità, appare necessario sostenere che, anche una volta pubblicate le linee guida ex art. 5, l’a-
Come rileva Ziviz, Responsabilità sanitaria: appunti sul rilievo delle linee guida in ambito civilistico, in questa Rivista, 2017, 45, «Questa funzione sussidiaria [delle buone pratiche clinico-assistenziali rispetto alle linee guida] opera in senso ampio: vale a dire che a tale standard bisognerà fare riferimento anche nelle ipotesi in cui l’operatore sanitario affronti una fattispecie, astrattamente governata da linee guida, le quali tuttavia non si prestino ad essere applicate al caso concreto. Se così non fosse, egli si troverebbe per definizione escluso dal trattamento di favore (sia ai fini penali che civili), per cui si produrrebbe un’irragionevole violazione del principio di uguaglianza».
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17 Per ulteriori questioni di costituzionalità relative al citato art. 6, si rinvia a Montanari Vergallo, La nuova responsabilità medica dopo la riforma Gelli-Bianco, Roma, 2017, 34 e 42 ss.
Poli, op. cit., 13. Anche Cass. pen., 11.7.2002, n. 35922, in De jure, rileva che l’adesione totale del sanitario alle linee guida potrebbe risultare lesiva della salute dei pazienti. Analogamente, Cass. pen., 25.1.2002, n. 2865, in De jure, afferma che limitare la libertà terapeutica, trasformando il medico in un burocrate, comporta «gravi rischi per la salute di tutti». 18
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desione alle buone pratiche continuerà a rendere penalmente irrilevante l’imperizia (e ad essere necessaria ai fini della responsabilità civile) qualora queste contengano conoscenze più aggiornate rispetto alle prime oppure più adeguate alle specificità del caso concreto.
4. Configurabilità della colpa specifica per violazione delle buone pratiche clinico-assistenziali La riforma in esame rende attuale e rilevante la questione se l’inosservanza delle buone pratiche clinico-assistenziali possa integrare una colpa specifica ex art. 43 c.p., almeno nei casi in cui queste assumano una veste documentale. Si tratta di un aspetto che presenta ricadute applicative non solo penalistiche, ma anche civilistiche. Infatti, se l’interpretazione dell’art. 7 sposterà sul paziente l’onere di provare anche la colpa del professionista, considerare la violazione delle buone pratiche come colpa specifica gli consentirebbe di limitarsi a dimostrare la differenza tra la condotta indicata nella linea guida e quella tenuta in concreto; mentre sarebbe il sanitario a dover provare che le specifiche circostanze del caso clinico rendevano necessario discostarsi dalla linea guida20. Come precedentemente rilevato, gli artt. 5 e 6 inducono a sostenere che le buone pratiche consistano nelle regole prasseologiche fondate sulla letteratura scientifica. Queste, abbracciando la pratica clinica nel suo complesso, possono presentare un contenuto variabile dalla maggior elasticità delle linee guida fino alla completa rigidità delle checklist. Quindi, la configurabilità della colpa specifica non può essere valutata con riferimento alla complessiva categoria delle “buone pratiche clinico-assistenziali”, bensì relativamente ai differenti contenuti che di questa fanno parte.
20 La questione della configurabilità della colpa specifica, invece, non è rilevante nei confronti della struttura sanitaria e nei casi in cui si consideri contrattuale la responsabilità del professionista, perché in tali ipotesi l’onere di dimostrare la correttezza del comportamento tenuto è interamente a carico del convenuto.
Anche nei casi di buone pratiche elastiche, ossia da adeguare, come le linee guida, alle specificità del caso concreto, un argomento favorevole alla sussistenza della colpa specifica può essere rintracciato nella forma verbale «si attengono», contenuta nell’art. 5, comma 1°, della riforma, che indubbiamente attribuisce carattere vincolante a tali leges artis21. Tuttavia, occorre ricordare che le regole di colpa specifica, rappresentando la cristallizzazione normativa di giudizi di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, comportano che, una volta provata la loro violazione, sia l’imputato a dover dimostrare la loro inapplicabilità nel caso concreto. Al contrario, anche relativamente alle linee guida scientifico-ministeriali, gli artt. 5 e 6 confermano che uno dei problemi consiste proprio nel fatto che è necessario verificare se la regola di comportamento ivi contenuta sia applicabile al caso concreto. Il che esclude di per sé che tali linee guida possano assurgere a norme di colpa specifica22. Inoltre, la stessa rilevanza orientativa delle linee guida dovrebbe comportare che, come la loro osservanza non esclude la configurabilità della colpa, così la loro violazione non dimostra di per sé la sussistenza dell’elemento soggettivo23. La questione della configurabilità della colpa specifica si pone anche rispetto ai protocolli, che, a differenza delle linee guida, rappresentano «un
21 Secondo Del Sordo, Genovese, Buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida, in La nuova responsabilità professionale in sanità, a cura di Genovese, Martini, Santarcangelo di Romagna, 2017, 39, nonostante il necessario riferimento alle specificità del caso concreto, l’art. 5 l. n. 24/2017 è molto più stringente rispetto all’art. 13 del codice di deontologia medica, che vincola il medico solo a tenere conto delle linee guida. Ne deriva una notevole limitazione dell’indipendenza, della libertà e dell’autonomia dei medici, che invece sono principi fondanti la professione ai sensi dell’art. 4 dello stesso codice deontologico. 22 Per ulteriori motivi ostativi alla possibilità di considerare come colpa specifica la violazione di linee guida o buone pratiche a contenuto elastico, si rinvia a Montanari Vergallo, La nuova responsabilità medica dopo la riforma Gelli-Bianco, cit., 24 ss.
Su questa base, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 3 l. n. 189/2012, la Supr. Corte ha confermato che la violazione delle linee guida non costituisce colpa specifica ex art. 43 c.p. (cfr. Cass. pen., 29.1.2013, n. 16237, cit.). 23
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pre-definito e rigido schema di comportamento diagnostico e terapeutico (come, ad esempio, in caso di ricerca clinica sperimentale) elaborato e preteso per assicurarne la riproducibilità e quindi l’attendibilità scientifica»24. La giurisprudenza antecedente al d.l. n. 158/2012 li metteva sullo stesso piano delle linee guida, ritenendo che il fatto di aver rispettato il protocollo non impedisse al giudice di valutare la correttezza di tale scelta e di condannare il medico nel caso in cui riscontrasse profili di negligenza, imprudenza o imperizia25. D’altro canto, anche la violazione dei protocolli, come quella delle linee guida, non può integrare i requisiti della colpa specifica «proprio in ragione delle peculiarità della attività del medico, che sfugge a regole rigorose e predeterminate»26. Più recentemente, la Supr. Corte ha distinto i due concetti affermando che protocolli e checklist «indicano una analitica, automatica successione di adempimenti»27. Su questa base si apre la possibilità di considerarli come discipline e, quindi, di qualificare la loro violazione come colpa specifica. Tuttavia, tale conclusione appare alquanto rischiosa. Infatti, costituisce pacifico principio giurisprudenziale quello secondo cui la qualificazione giuridica dei fatti e degli atti è riservata al giudice, il quale non può essere condizionato dal modo in cui gli stessi sono stati considerati dalle parti o da terzi. Dunque, la scelta se considerare un documento come linea guida oppure come pro-
Fiori, Marchetti, op. cit., 242; Barni, Diritti-doveri. Responsabilità del medico dalla bioetica al biodiritto, Milano, 1999, 31.
24
Cass. pen., 29.9.2009, n. 38154, in Resp. civ. e prev., 2010, 5, 1074, con nota di Farolfi, Responsabilità della F.I.G.C. e rapporto di preposizione. Nuove dimensioni della responsabilità vicaria, che ha confermato la sentenza di condanna a carico di un medico, sebbene si fosse attenuto ai protocolli di medicina dello sport, affermando che «in presenza di tracciati elettrocardiografici sospetti, fosse doveroso ed esigibile che l’imputato approfondisse la verifica dell’integrità psicofisica dell’atleta, per prevenire eventi nefasti che gli stessi protocolli invocati dalla difesa prevedevano, classificando il giuoco del calcio, al cui esercizio la futura vittima chiedeva di essere autorizzato, quale sport “ad alto rischio”».
25
26
Cass.
pen.,
11.7.2012, n. 35922, cit.
27
Cass.
pen.,
29.1.2013, n. 16237, cit.
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tocollo non può dipendere dal fatto che nell’intestazione dello stesso si usi l’una o l’altra dicitura. Occorre, invece, prendere in considerazione la singola lex artis che si assume violata. Al riguardo, l’indicato criterio giurisprudenziale, secondo cui presenta carattere di protocollo la regola di condotta che prevede «una analitica, automatica successione di adempimenti», può essere fonte di confusione. Infatti, un testo scientifico, pur indicando nel dettaglio i comportamenti da tenere e la relativa scansione temporale, dovrebbe essere considerato come linea guida, anziché come protocollo, ogniqualvolta sia astrattamente possibile che un diverso percorso diagnostico o terapeutico rappresenti la migliore opzione, ossia quando è necessario verificare se la lex artis ivi contenuta sia applicabile al caso concreto. Quando, invece, l’inosservanza della regola è comunque di per sé pericolosa, come ad esempio l’omissione della conta dei ferri e delle garze28, appare corretto qualificarla come colpa specifica. Ma si tratta di ipotesi in cui la scelta del professionista non presenta carattere discrezionale. Su questa base, sembra di dover concludere che solo in casi eccezionali la violazione dei protocolli possa integrare una colpa specifica. Quest’ultima, invece, dovrebbe di regola sussistere nei casi di inosservanza delle checklist (quando previste da leggi, regolamenti, ordini o discipline) perché, trattandosi di uno strumento in ogni caso idoneo a verificare che non siano state omesse attività utili o necessarie alla salvaguardia del paziente, il mancato utilizzo dello stesso è di per sé pericoloso, indipendentemente dalle peculiarità dei singoli casi. Di conseguenza, la configurabilità della colpa specifica dipende dal grado di vincolatività della regola cautelare che si assume violata nel caso concreto.
La fattispecie è esaminata, tra le altre, da Cass. pen., 26.5.2004, n. 39062, in Riv. pen., 2005, 1412, e da Cass. pen., 18.5.2005, n. 18568, in Guida dir., 2005, n. 34, 84, ribadendo che il controllo della rimozione dei ferri spetta all’intera équipe operatoria.
28
Buone pratiche clinico - assistenziali
5. Conclusioni In attesa delle prime applicazioni giurisprudenziali, appare necessario sollevare qualche perplessità circa le possibilità che il richiamo alle buone pratiche clinico-assistenziali offra ai professionisti regole di comportamento chiare e, quindi, idonee a ridurre il contenzioso a loro carico29. Infatti, le buone pratiche presentano contenuti indeterminati e sono state variamente ricostruite30. Il legislatore omette sia di definirle sia di indicare quale sia il livello minimo di evidenza scientifica necessario per consentire di considerare la con-
Secondo Del Sordo, Genovese, op. cit., 41, l’art. 5, comma 1°, delle riforma «pare offrire il fianco – nell’attesa della “validazione istituzionale” delle linee guida – a quell’anarchia interpretativa e comportamentale che aveva fatto seguito all’emanazione della Legge Balduzzi». 29
30 Cfr. la dottrina giuridica e medico-legale riportata al paragrafo 2.
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dotta tenuta dal medico come buona pratica ai fini della valutazione della colpa in sede civile e della limitazione di responsabilità penale ex art. 631. Da tale situazione derivano necessariamente una notevole aleatorietà di giudizio ed il rischio di decisioni contrastanti rispetto al medesimo caso. Tale situazione appare incompatibile con l’esigenza di certezza del diritto, che è sentita in tutti i settori sia perché è una cartina di tornasole della civiltà di un ordinamento sia perché la chiarezza delle regole aumenta la possibilità di definizione stragiudiziale del contenzioso, migliorando così il funzionamento degli uffici giudiziari.
31 Anziché richiamare al rispetto delle buone pratiche, il legislatore avrebbe dovuto porre rimedio agli orientamenti giurisprudenziali che hanno alimentato la crescita del contenzioso, innanzitutto quello che pone in capo al medico l’obbligo di far ottenere al paziente il risultato normalmente conseguibile. Invece, come rileva Pucella, È tempo per un ripensamento del rapporto medico-paziente?, in questa Rivista, 2017, 4, l’attuale meccanismo di overcompensation «non è toccato dalla nuova legge: non lo è, certamente, quanto alla posizione della Struttura sanitaria pubblica o privata, per la quale nulla cambia; ma non lo è, a ben vedere, neppure per il medico, perché la previsione dell’art. 7 agisce sul registro della natura del rapporto non su quello della delimitazione del contenuto della prestazione. Difficile, allora, è pensare che se questa rimane la struttura portante la funzione dell’obbligazione del medico – id est garantire un sostanziale risultato migliorativo – davvero possa modificare in senso incisivo l’attuale assetto la circostanza che la prescrizione per l’azione si riduca a cinque anni – non certo pochi – o che gravi sul paziente la prova della colpa (che comunque, e pur con le facilitazioni riconosciute all’allegazione, va in qualche misura confezionata anche per agire contro la Struttura)».
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o t Osservatorio Osservatorio medico-legale medico legale erva ico s d le s e o L’accertamento medico- m ga e l legale delle lesioni di lieve entità alla luce della recente giurisprudenza Barbara Bonvicini, Rossella Snenghi, Massimo Montisci* Sommario: 1. Evoluzione storica dell’accertamento del danno alla persona. – 2. La novella 24 marzo 2012, n. 27. – 3. Il fenomeno sociale del danno micro permanente e le posizioni del medico-legale. – 4. Il compito del medico-legale.
Abstract: La sentenza della Corte di cassazione n. 18773 del 26 novembre 2016 offre lo spunto per una riflessione medico-legale sugli effetti applicativi originati dalla l. n. 27 del 24 marzo 2012, che all’articolo 32, nei due commi che lo compongono (3-ter, 3-quater), ha voluto designare una sorta di moderno sistema di risarcimento del danno con importanti ripercussioni in ambito dottrinale e giurisprudenziale. Attraverso il richiamo alle “Leges Artis”, viene riaffermata la valenza dell’accertamento medico-legale del danno derivante da lesioni di lieve entità, già posta in discussione dal costrutto terminologico normativo (“accertamento clinico strumentale obiettivo”), fonte di accese perplessità interpretative. Nella presente riflessione si delinea il ruolo della metodologia accertativa e criteriologia valutativa medico-legale sempre più fondata sui principi dell’evidenza scientifica a fronte della continua evoluzione dell’Istituto giuridico del risarcimento.
The Judgment of the Court of Cassation n. 18773 of 26 November 2016 offers the opportunity for a medical-legal reflection on the application effects originating from Law No 27 of 24 March 2012. The Court wanted to designate a sort of modern damage compensation system with major doctrinal and jurisprudential repercussions. Through the “Leges Artis”, the validity of the medical-legal assessment of the damage caused by slight injuries is already reaffirmed, already questioned by the terminological normative construct (“objective instrumental clinical assessment”). The our reflection defines the role of the methodological ascertainment and evaluation criterion of medical-legal based on the principles of scientific evidence.
Barbara Bonvicini (studio.bbonvicini @gmail.com), Rossella Snenghi (rossella.snenghi@unipd.it), Massimo Montisci (massimo.montisci@unipd.it), afferiscono tutti alla Sede di Medicina legale del Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Cardiovascolari dell’Università degli Studi di Padova, Via Falloppio 50, Padova.
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1. Evoluzione storica dell’accertamento del danno alla persona Nel corso degli anni si è assitito all’evoluzione del ruolo del medico-legale in tema di accertamento del danno alla persona che ne ha elevato sempre più il campo di applicazione ed il significato. Da pratica che all’epoca dei popoli antichi si fondava su indagini quanto mai rudimentali e soventemente empiriche1, la Medicina-Legale assurgeva progressivamente a ricercata Collaboratrice e, in qualche fase, a Maestra della Giustizia indirizzando sempre più le Scienze Giuridico-Penali su basi biologiche ed estendendo il suo bacino di interesse alla Legislazione Sociale e Civile, imprimendo un importante cambiamento con la nascita delle Assicurazioni Private. In tema di risarcimento del danno si è passati da una sorta di diritto primordiale, fondato sulla legge del taglione, alla reintegrazione della situzione patrimoniale preesistente, compiendo nel corso dei secoli una progressiva evoluzione normativa e dottrinale. Tuttavia solo con la rivoluzione industriale il sistema del risarcimento del danno iniziava una sistematizzazione codicistica, conseguenza logico-sociale dell’affermazione nella coscienza collettiva dell’inviolabilità del diritto alla salute ed alla correlata necessità di garantire una uniformità di valutazione economica. Si sviluppava quindi un percorso lungo e difficile, irto di contrasti dottrinali e applicativi, con evoluzione del concetto di valore alla persona sempre più teso ad intendere l’individuo come homo biologicus e come homo socius, in aderenza alla rappresentazione più volte espressa da Paolo Cortivo2.
«Dirette a stabilire, ad esempio, la legittimità della prole e la primogenitura, l’avvento della pubertà e l’attitudine al sacerdozio o al matrimonio; ovvero se esistevano elementi in favore d’un veneficio; oppure, se il decesso fosse esclusivamente riferibile alle lesioni; e così via», Palmieri, Zangani, Medicina legale e delle assicurazioni, Milano, 1980, 9, cap. I.
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Il primo inquadramento legislativo era infatti fondato sull’homo faber, ovvero incentrato unicamente sulla capacità lavorativa dello stesso finalizzata alla produzione di un reddito, in accordo coi combinati degli artt. 2043 e 2059 del c.c. per i quali era risarcibile solo una lesione di interesse patrimoniale. Viceversa il «danno non patrimoniale» veniva comunemente identificato, tanto dalla giurisprudenza quanto dalla dottrina, con il danno morale soggettivo della tradizione, ovvero con la lesione di sentimenti, delle affezioni della vittima, e dunque con la sofferenza morale o psichica (c.d. pretium doloris). Tutto questo valse fino ai primi anni 70, dopodichè, il quadro del diritto vigente cominciò a mutare profondamente con l’emersione di figure di danno alla persona che, da un lato, non producevano alcuna sofferenza morale o psichica, non essendo quindi propriamente riconducibili alla categoria del danno morale, e dall’altro, non avendo i caratteri della valutabilità in denaro, non potevano essere ricomprese nella categoria del danno patrimoniale: così il danno alla salute, quello estetico, quello alla vita di relazione, quello conseguente alla lesione di interessi diffusi o collettivi ecc. Venne quindi progressivamente affermandosi, nella dottrina e giurisprudenza di merito, un orientamento che poneva in discussione i tradizionali criteri di liquidazione del danno alla salute, di cui si era già fatto importante portavoce il Gerin nelle Giornate Medico-Legali di Trieste del 1952, e veniva così elaborata la figura del danno biologico in cui era attribuita rilevanza risarcitoria alla lesione dell’integrità psico-fisica in sé e per sé considerata, indipendentemente dalle ripercussioni patrimoniali che ne fossero derivate. La risarcibilità del danno biologico fu riconosciuta, in primis, dai giudici di merito genovesi che,
1
2 Palmieri, Umani Ronchi, Bolino, Fedeli, La valutazione medico-legale del Danno Biologico, in Responsabilità civile, Mi-
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lano, 2006; Barni, Bona, Buzzi, Farneti, Cucci, Fiori, Gallone, Ronchi, Mastroroberto, Genovese, Gentilomo, Marigliano, Martini, Mazzucchelli, Il nuovo danno alla persona, Santarcangelo di Romagna, 2011; Buzzi, Domenici, Linee guida per la valutazione medico legale del danno alla persona in ambito civilistico, Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni, Milano, 2016.
Lesioni di lieve entità
con sentenza del 25 maggio 19743, stabilirono che il danno alla persona riguardava sia l’ambito professionale, che le attività extralavorative e ricreative, giacché è attraverso queste ultime che l’individuo realizzava la propria personalità. Questa impostazione trovò sempre maggiori consensi, dapprima nella giurisprudenza di merito e più oltre anche in quella di legittimità; ciò nonostante, la “figura” del danno biologico e la sua dimensione giuridica impegnarono a lungo la Corte costituzionale. Cinque anni più tardi, la sentenza n. 88 del 26 luglio 1979 contribuiva ulteriormente al rinnovamento del concetto di danno alla persona, affermando testualmente che la salute è un “diritto fondamentale, primario ed assoluto dell’individuo, il quale, in virtù del suo carattere privatistico, è direttamente tutelato dalla Costituzione (art. 32) e, nel caso di sua violazione, il soggetto può chiedere ed ottenere il giusto risarcimento, in forza del combinato tra il medesimo articolo costituzionale e l’art. 2059 del codice civile”. Nella stessa pronuncia, la Corte precisava che la tutela del bene salute andava esteso anche a situazioni implicanti la lesione di interessi non economici. In questa nuova ottica, il risarcimento del danno alla persona perdeva definitivamente il suo legame esclusivo con l’aspetto reddituale includendo, pertanto, anche categorie sociali, fino ad allora escluse. La sentenza n. 88/1979, oltre ad aver avuto il merito di valorizzare l’art. 32 della Costituzione, segnava il passo ad una successiva pronuncia della Corte (sentenza n. 184/1986), considerata pietra miliare per il raggiungimento dell’attuale accezione giuridica. Il danno biologico (chiamato così per la prima volta proprio in questa sentenza) diventa evento costitutivo della lesione, mentre al danno patrimoniale e al danno morale veniva invece attribuita connotazione di danni-conseguenza.
“Nell’ipotesi di lesioni all’integrità psico-fisica della persona deve essere risarcito il danno biologico in sé e per sé considerato a prescindere dalla effettiva incidenza sulla capacità lavorativa del soggetto leso”.
3
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Anche in infortunistica lavorativa, ambito nel quale da sempre il valore della persona era confinato ad un giudizio patrimoniale, il d.lgs. n. 38/2000, art 13, comma 1°, ne ridisegnava le vesti intendendo il danno biologico come la “lesione dell’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona … in misura indipendente dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato”. L’art. 5 della l. n. 57/2001 riprendeva testualmente quanto già espresso dal d.lgs. n. 38/2000, aggiungendo che il danno biologico viene ulteriormente risarcito tenuto conto delle condizioni soggettive del danneggiato. Nel processo di revisione definitoria del concetto di danno biologico si inseriva anche la Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni e nel noto convegno di Rimini del maggio 2001, stabiliva che il danno biologico “consiste nella menomazione permanente e/o temporanea all’integrità psico-fisica della persona, comprensiva degli aspetti dinamico relazionali, passibile di valutazione medico-legale ed indipendente da ogni riferimento alla capacità di produrre reddito ...”. Successivamente anche il Codice delle Assicurazioni, col d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, espandeva la definizione di danno biologico (artt. 138 e 139), affermando che per “danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali riercussioni sulla sua capacità di produrre reddito …”. Come effetto a cascata del nuovo inquadramento giuridico-risarcitorio si sviluppavano i cosidetti “danni bagatellari” (“disagi, fastidi, disappunti, ansie e ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale”), che divenivano una presenza sempre più esponenziale ed ingombrante negli articolati quesiti inerenti la consulenza d’Ufficio. La successiva crisi economica fungeva da motore per una ulteriore riorganizzazione del sistema risarcitorio del danno biologico. In tale contesto Responsabilità Medica 2017, n. 2
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storico si collocano le sentenze di San Martino del 20084 delle sez. un., attestanti l’unitarietà del danno non patrimoniale. Tale riorganizzazione proseguiva con l’emanazione della l. 24 marzo 2012, n. 275, che pur non entrando nel merito della definizione di danno biologico, introduceva per le lesioni di lieve entità, una sorta di indicazione metodologica accertativa, ancorata ai requisiti di un “accertamento clinico strumentale obiettivo”.
2. La novella 24 marzo 2012, n. 27 La l. 24 marzo 2012, n. 27, che ha definitivamente convertito in legge il d.l. n. 1 del 24 gennaio 2012, c.d. “sulle liberalizzazioni”, ha comportato una modifica dei criteri di accertamento del danno biologico considerato come la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona “suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”. In particolare, la novella, con l’introduzione, all’art. 32, dei commi 3-ter e 3-quater6, ridisegnava la modalità accertativa delle lesioni unicamente di lieve entità. Il riassetto definitorio metodologico-accertativo generava un acceso dibattito dottrinale-giuridico e medico-legale delineandosi nel tempo posizioni contrapposte inerenti la corretta interpretazione
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degli aggettivi “clinico”, “strumentale” e “obiettivo” del comma 3-ter e degli avverbi “visivamente o strumentalmente” del comma 3-quater. Sul fronte assicurativo, l’Associazione Medico Giuridica Melchiorre Gioia, mediante l’emanazione di “Linee guida sulla Legge 27/2012”, interpretando in maniera restrittiva e apodittica la norma, estrapolava dal contesto del comma 3-ter il solo termine “strumentale” escludendo gli altri termini “clinico e obiettivo”, con l’intento di limitare la risarcibilità delle lesioni che non potevano essere oggetto di un apprezzamento strumentale7. Per contro, autorevoli giuristi e medici-legali, nonchè importanti Associazoni di Medicina Legale e delle Assicurazioni8 criticavano la novella ed il tentativo del legislatore di introdurre una sorta di franchigia ex lege mirante ad abolire tout court il risarcimento delle lesioni di lieve entità, pianeta costituito prevalentemente dal c.d. “colpo di frusta”. Numerose risultavano, in epoca successiva, le pronuncie gurisprudenziali che univocamente riconoscevano la risarcibilità del danno biologico anche in assenza di accertamento strumentale9, tenuto conto che quest’ultimo non può essere considerato “condicio sine qua non della risarcibilità del danno”10. In questa disputa interveniva anche la Corte cost. dapprima con la sentenza n. 235/201411 e poi con l’ordinanza n. 242/2015.
“In considerazione del fatto che il Legislatore non ha utilizato né virgole né trattini tra i tre aggettivi (clinico strumentale obiettivo), per potersi riconoscere un danno biologico permanente, l’accertamento medico-legale deve avere tutti e tre i requisiti contemporaneamente: deve dare, cioè, evidenza della lesione sia attraverso le risultanze di un esame “clinico” sia attraverso un esame “strumentale”, ed entrambi devono fornire riscontri obiettivi”.
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4 Cass., sez. un., nn. 8827/2003 e 8828/2003; Cass., sez. un., n. 26972/2008.
Pubblicata nel Suppl. ordinario n. 53 all G.U. del 24 marzo 2012, n. 71.
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Il comma 3-ter del rinnovato art. 32 del d.l. n. 1/12 ha modificato il comma 2° dell’art. 139 del Codice delle Assicurazioni (d.lgs., 7.9.2005, n. 209), aggiungendovi il seguente periodo: “In ogni caso le lesioni di lieve entità che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non possono dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente”. Il comma 3-quater stabilisce invece (senza modificare testualmente il Codice delle Assicurazioni): “Il danno alla persona per lesioni di lieve entità di cui all’articolo 139 del decreto legislativo 7 settembre 2006 n. 209 è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione”.
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Si rammentano, al riguardo, la delibera dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura del 28 marzo 2012 e le indicazioni della Società Italiana di Medicina Legale e di alcune qualificate Società medico-legali come la Società del Triveneto, SISMLA e FAMLI.
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Giud. Pace Padova, 22.11.2012, n. 1443; Trib. Padova, 6.11.2014, n. 4707; Trib. Padova, 6.11.2014, n. 3371; Trib. Bologna, 8.1.2015, n. 192; Giud. Pace Padova, n. 828/2015; Giud. Pace Padova, n. 802/15; Giud. Pace Udine, n. 39/2015. 9
10
Trib. Padova, n. 4707/2014, cit.
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Corte
cost.,
6 – 16 ottobre, 2014, n. 235.
Lesioni di lieve entità
La prima era emessa in risposta a quattro ordinanze, con cui i giudici di Pace di Torino e Recanati ed i Tribunali ordinari di Tivoli e Brindisi, sezione distaccata di Ostuni, sollevavano questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle Assicurazioni Private), nella parte in cui esso, prevedendo un risarcimento del danno biologico basato su rigidi parametri fissati da Tabelle Ministeriali, non consentiva di giungere ad una adeguata personalizzazione del danno (in contrasto con gli artt. 2-3-24-32-76 Cost.), rappresentando “la fissazione di un limite al risarcimento del danno alla persona senza un adeguato contemperamento degli interessi in gioco”. Il sistema risarcitorio previsto dalla norma era considerato inoltre incompatibile con le nuove posizioni di diritto comunitario e, in particolare, con il “diritto all’integrità alla persona”12, oltre che in contrasto con il “diritto ad un processo equo”13 sancito dalla CEDU (Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali). Poste tali premesse la Corte costituzionale riteneva non fondata la questione di legittimità circa la “prescrizione della (ulteriore e necessaria) diagnostica strumentale ai fini della ricollegabilità di un danno “permanente” alle microlesioni” argomentando che nell’ambito dell’assicurazione obbligatoria assume rilevanza non solo l’interesse particolare del danneggiato al risarcimento del danno ma anche l’interesse generale e sociale ad avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi, posto che le Compagnie di Assicurazione concorrono ex lege al fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguendo anche fini solidaristici. Ad analogo risultato giungeva inoltre l’ordinanza emessa circa la questione di legittimità (in riferimento agli artt. 3-24 e 32 della Cost.) sollevata dal Giudice di Pace di Reggio Emilia, ove la Corte, in relazione alla necessità di “prescrizione della (ulteriore e necessaria) diagnostica strumentale ai fini della ricollegabilità di un danno permanente
12 Art. 3, comma 1°, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e art. 2 CEDU (Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali). 13
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alle microlesioni” ha ribadito che “la limitazione imposta al correlativo accertamento (che sarebbe altrimenti sottoposto ad una discrezionalità eccessiva, con rischio di estensione a postumi invalidanti inesistenti o enfatizzanti) è stata, infatti, già ritenuta rispondere a criteri di ragionevolezza, in termini di bilanciamento, in un sistema come quello vigente, di responsabilità civile per la circolazione dei veicoli obbligatoriamente assicurata, in cui le compagnie assicuratrici, concorrendo ex lege al Fondo di garanzia per le vittime della strada, perseguendo anche fini solidaristici, e nel quale l’interesse risarcitorio del danneggiato deve comunque misurarsi con quello, generale e sociale, degli assicurati ed avere un livello accettabile e sostenibile dei premi assicurativi”. Un ulteriore passo in avanti nel dibattito concernente era infine compiuto con la recente sentenza n. 18773 del 26 settembre 2016 della III sez. della Supr. Corte che ha sancito ancora una volta la risarcibilità del danno per lesioni alla persona, anche di lieve entità, purchè accertato con perizia medico-legale. Nello specifico si trattava della richiesta formulata per ottenere il risarcimento di un danno biologico temporaneo derivante dalle lesioni subite da un danneggiato (contusioni alla spalla, al torace ed alla regione cervicale) certificate in sede di Pronto Soccorso e ritenute guarbili in 7 giorni. Il Giudice di Pace di Napoli rigettava nel merito la pretesa di ristoro ritenendo che vi fosse un difetto di “dimostrazione convincente dei suoi elementi giustificativi”; anche il Giudice di Appello respingeva la domanda escludendo la risarcibilità del danno biologico temporaneo in quanto le lesioni certificate venivano considerate “affezioni asintomatiche di modesta entità non suscettibili di apprezzamento obiettivo clinico, alla stregua dell’art 32, comma 3-quater della legge 27/2012, e non dimostrate con le rigorose modalità prescritte ex lege”. La Supr. Corte considerava invece fondata la domanda della ricorrente precisando che “il comma 3-quater, così come il precedente comma 3-ter, sono da leggere in correlazione alla necessità, predicata dagli artt 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni, (che, a tal riguardo, hanno recepito quanto già presente nel “diritto vigente”), che prevedono che il danno biologico sia suscettibile di accertamento medico-legale”; “Entrambe le norme (senza differenze Responsabilità Medica 2017, n. 2
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sostanziali tra loro) esplicano i criteri scientifici di accertamento e valutazione del danno biologico tipici della Medicina Legale (ossia il visivo-clinico-strumentale, non gerarchicamente ordinati tra loro, né unitariamente intesi, ma da utilizzarsi secondo le LEGES ARTIS), siccome conducenti ad una obiettività dell’accertamento stesso, che riguardi sia le lesioni che i relativi postumi (se esistenti)”. A margine della sentenza interveniva nuovamente la Società Scientifica Medico Giuridica Melchiorre Gioia14, che ribadiva nuovamente i concetti precedentemente formulati, non modificati nella sostanza dalla enunciazione della Supr. Corte. Interveniva anche un Giudice del Tribunale Civile di Padova con sentenza n. 2892 del 20 ottobre 2016 il quale, chiamato a giudicare una precedente pronuncia ove un Giudice di Pace aveva proceduto a liquidare il danno biologico “pur in assenza di debito riscontro strumentale, in palese violazione delle norme di legge e dello stesso orientamento recentemente espresso in proposito dalla Consulta, in un caso in cui non si era in presenza nemmeno di un accertamento visivo”, rigettava l’appello richiamando la sentenza sopracitata ed affermando che “l’accertamento strumentale può essere decisivo nei casi di dubbia interpretazione ai fini del riconoscimento della lesione biologica, ma che in ogni caso può comunque essere ritenuto sufficiente anche un dato clinico obiettivo, purché scientificamente compatibile e adeguatamente connesso all’evento lesivo”.
3. Il fenomeno sociale del danno micro permanente e le posizioni del medico-legale Il “fenomeno sociale” del danno micropermanente, da non considerarsi “conseguenza diretta delle condizioni di traffico, dello stato di manutenzione delle strade e dei veicoli, dell’imperizia nella guida”, ma piuttosto espressione di “mancanza di adeguata diligenza nella redazione delle consulenze medico legali”, nonché di “speculazioni truffaldine, poste in essere in determinati ambi-
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ti territoriali, sociali e professionali”15, sembrava aver trovato soluzione nella emanazione della l. 24 marzo 2012, n. 27. Ad esemplificazione della dimensione del fenomeno, fonti medico-legali16 rivelano la realtà di aree geografiche gravate da ingenti spese risarcitorie (dell’ordine di centinaia o migliaia di euro) a fronte di modestissime lesioni che peraltro “avevano il pregio di non giungere mai a guarigione”. La ratio della novella si desume già nella relazione illustrativa17 affermando che “la modifica proposta è volta ad introdurre, per le lesioni di lieve entità, la previsione di assenza di risarcimento da danno biologico permanente in caso di effetti lesivi “oggettivi” (cioè solo rferiti dal paziente e non obiettivamente constatabili). L’introduzione della norma, coerentemente con quanto avviene negli altri Paesi europei, eviterebbe in pratica l’abnorme speculazione sul cosiddetto “colpo di frusta”. La natura speculativa di buona parte delle richieste di risarcimento per danni alla persona di modesta entità è infatti suffragata dalla differente diffusione del fenomeno nelle diverse aree territoriali italiane. In alcune realtà territoriali, in particolare nel sud Italia, la percentuale dei sinistri con lesioni, fa infatti registrare punte anche superiori al 40%”. Poste tali premesse l’obiettivo del legislatore sembrava pertanto essere quello di ridurre i costi dei risarcimenti conseguenti a truffe assicurative18, espressive anche di “generosi” accertamenti medico legali, sprovvisti del dovuto rigore metodologico. Purtroppo però la novella produceva rigide restrizioni al risarcimento nella componente non patrimoniale del danno biologico inserendosi nel filone di riforma del danno civilistico di modifica del sistema risarcitorio già intrapreso nelle pronuncie di San Martino (2008), che sembra sempre più coincidere con le logiche tipiche dello schieramento dei
Spera, Art 32, commi 3 ter e 3 quater, dalla l. n. 27/2012: problematiche interpretative, in Danno e resp., 2013, n. 2, 217. 15
16
In linee guida della l. n. 27 del 24 marzo 2012.
Pubblicata nel Suppl. ordinario n. 53 alla G.U. del 24 marzo 2012, n. 71. 17
“Torna di moda il tema delle lesioni Lievi? Note a margine della Sentenza 18773/16 della SCC”. 14
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18 Un chiaro indice di questo intento è dato proprio dal successivo art. 33, d.l. n. 1/12, che ha inasprito le sanzioni per le false attestazioni di invalidità derivanti dai sinistri stradali.
non apprezzabilità visita/strumentale di quadri lesivi di lieve entità, di frequente riscontro in ambito risarcitorio (Tabella 1). Lesioni di lieve entità
287
Tabella 1
LESIONI DI LIEVE ENTITA’
STRUMENTALMENTE ACCERTABILI → fratture ossee e dentarie → lesioni tendinee, legamentose, meniscali → ematomi interni
NON STRUMENTALMENTE ACCERTABILI
STATO DEL PERIZIANDO → gravidanza
TIPOLOGIA LESIVA → traumi cranici minori → traumi psichici → lussazioni capsulo legamentose con ripristino dei rapporti articolari → lesioni contusive e/o distrattive
GESTIONE OSPEDALIERA → assenza/rottura strumentario → procedure operative clinico-assistenziali interne
c.d. “tort reformers” anglo americani e nostrani, os- più evidentemente finalizzate ad una pianificazione sia dei detrattori della c.d. “compensation culture”. terapeutico-riabilitativa ma, viceversa, mirate a sodSul piano operativo si instaurava generale caos lo scopo medico-legale del caso. Applicando “rigidamente” leun disposizioni delladisfare novella n. 27/1012 verrebbero ad essere applicativo con ricadute sui medici legali fiduciari Nell’ambito poi dell’attività di consulenza tecnica producevano verbali di “conferimento d’incaridelle compagnie d’assicurazione a limiesclusi “ab initio” particolari costretti tipologie lesive,sicomprendenti i traumi cranici e psichici tazioni valutative e deontologiche, con il risultato co” recanti quesiti argomentativi forieri di un cer19 minori, lussazionidelcapsulo-legamentose con toripristino deiinterpretativo” rapporti articolari, le lesioniase difficilmente “imbarazzo finale di le incremento contenzioso giudiziario similabili dal professionista medico legale, a volte inerente le c.d. “lesioni di lieve entità”. In tale contesto si sviluppavano difformi indirizzi già vittima di accese dinamiche di inconciliabile 19 contraddittorio parti. dottrinali medico-legali, di tipo RONCHI , La prova delrestrittivo-definidanno nel nuovo quesitodelle medico-legale promosso torio, mirati a rendere più difficoltoso l’accerta- La criticità fondamentale della consulenza tecnica dall’osservatorio per la giustizia civile di Milano: le opinioni del giurista e del medicomento della lesione del bene salute; per converso, medico legale attiene tuttavia alla non apprezzabilità legale, Milano. la dottrina medico-legale più vicina agli interessi visita/strumentale di quadri lesivi di lieve entità, di delle vittime prospettava interpretazioni estensive frequente riscontro in ambito risarcitorio (Tabella 1). delle locuzioni “obiettivo” e “strumentale” volte a !12 superare le neo introdotte difficoltà nell’accertamento della lesione all’integrità psico-fisica. Contestualmente si delineava in ambito clinico una 19 Ronchi, La prova del danno nel nuovo quesito medico-leipertrofizzazione delle procedure diagnostiche, non gale promosso dall’osservatorio per la giustizia civile di Milano: le opinioni del giurista e del medico-legale, Milano.
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Applicando “rigidamente” le disposizioni della novella n. 27/1012 verrebbero ad essere esclusi “ab initio” particolari tipologie lesive, comprendenti i traumi cranici e psichici minori, le lussazioni capsulo-legamentose con ripristino dei rapporti articolari, le lesioni contusive e/o distrattive, cosi come le lesività che non sono state indagate strumentalmente per ragioni sanitarie del paziente o del potenziale futuro “periziando” (gravidanza), ovvero gestionali ospedaliere (assenza e/o mancato funzionamento dello strumentario, procedure operative clinico-assistenziali interne) tutto ciò ovviamente dove il target diagnostico-terapeutico “clinico” è stato correttamente raggiunto con il dovuto risparmio delle limitate risorse economiche del Servizio Sanitario Nazionale. L’importanza della sentenza n. 18773 del 26 settembre 2016 risiede nel fatto di aver rimesso al centro dell’accertamento e della valutazione medico-legale il ruolo essenziale e insostituibile della criteriologia scientifica su cui si basa l’attività specialistica. D’altro canto, come già affermato da Rossetti20, i due commi della legge in oggetto, che tanti dubbi e difficoltà interpretative hanno destato, non potevano che essere considerati unidirezionalmente non avendo cambiato nulla rispetto la legge previgente continuando a definire il “danno biologico” soltanto quello “suscettibile di accertamento medico legale”. Il danno biologico, quindi, per potere essere risarcito “deve essere obiettivamente sussistente in corpore, e la sua esistenza deve potersi predicare non sulla base di intuizioni o suggestioni, ma sulla base di una corretta criteriologia medico legale. Dunque anche prima del d.l. 1/12 il danno biologico era risarcibile solo a condizione che fosse riscontrabile una obiettività medico legale, posto che per la medicina legale non è certo concepibile l’esistenza di danni presunti, figurativi od ipotetici. Ma se così è, deve concludersi che da un punto di vista teorico e dogmatico le nuove norme contenute nell’art. 32 d.l.
Rossetti, Le nuove regole sull’accertamento del danno da lesione di lieve entità: profili giuridici, in www.dirittoassicurativo.it.
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1/12 nulla hanno aggiunto e nulla hanno tolto rispetto al passato. Esse non hanno fatto altro che formulare in modo esplicito un principio già necessariamente implicito nel sistema”. Ancorché sia trascorso molto tempo da quando Antonio Cazzaniga, nel 1928 sotto il titolo di “Basi medico-legali per la stima del danno alla persona da delitto o quasi delitto”, abbia gettato i presupposti per una criteriologia medico-legale volta al fine risarcitorio, i continui cambiamenti e mutamenti in questo settore non devono comunque tradursi nella perdita della personalità professionale del medico, come la novella in questione sembra in parte aver determinato, confliggendo peraltro con le norme del Codice Deontologico21.
4. Il compito del medico-legale La legge 24 marzo 2012, n. 27 ha dato avvio ad un percorso dottrinale e giurisprudenziale ad oggi ancora in evoluzione che ha segnato in maniera decisiva il passaggio tra il danno “naturalmente inteso” (così come accertato e valutato nella sua interezza dal medico-legale, oltre che comprovato nelle sue diverse esteriorizzazioni) al danno “giuridicamente concepito e delimitato”22.
Art 62: Attività medico-legale. “L’attività del medico-legale, qualunque sia la posizione di garanzia nella quale viene esercitata, deve evitare situazioni di conflitto di ineresse ed è subordinata all’effettivo possesso delle specifiche competenze richieste dal caso. L’attività medico-legale viene svolta nel rispetto del Codice; la funzione di consulente tecnico e di perito non esime il medico dal rispetto dei principi deontologici che ispirano la buona pratica professionale, essendo inogni caso riservata al giudice la valutazione del merito della perizia. Il medico, nel rispetto dell’ordinamento, non può svolgere attività medico-legali quale consulente d’ufficio o di controparte nei casi sia intervenuto personalmente per ragioni di assistenza, di cura o qualunque altro titolo, né nel caso in cui intrattenga un rapporto di lavoro di qualunque naura giuridica con la struttura sanitaria coinvolta nella controversia giuridica. Il medico consulente di parte assume le evidenze scientfiche disponibili interpreandole nel rispetto dell’oggettività del caso in esame e di un confronto scientifico rigoroso e fondato, fornendo pareri ispirati alla prudente valutazione della condotta dei soggetti coinvolti”. 21
Tratto da Pedoja, Pravato, La sofferenza “psicofisica” nel danno alla persona. Metodologia valutativa medico-legale, Santarcangelo di Romagna, 2013.
22
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Lesioni di lieve entità
La legge, definita “farraginosa e maldestra”23, sembrava aver ridisegnato la modalità tecnico-accertativa del danno alla persona nell’ambito delle lesioni micro invalidanti sulla base di un escamotage linguistico che ha privato il medico-legale di una libertà metodologica valutativa, costringendolo ad accertare l’esistenza di una lesione con le modalità prescritte nel comma 3-ter ed in osservanza al comma 3-quater. Un analogo tentativo di indirizzare il medico legale nel suo operato si era già palesato con la riforma Balduzzi che richiamava gli specialisti, in ambito di responsabilità medica, ad attenersi alle disposizioni degli articoli 138 e 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 20924. La novella, sin dalla sua emanazione considerata una sorta di monstrum, che sembrava introdurre nel nostro ordinamento una sorta di franchigia ex lege mirante ad abolire tout court il risarcimento dei c.d. ‘colpi di frusta’, ha suscitato un lungo dibattito interpretativo che ha portato progressivamente ad oscurare il ruolo della medicina-legale, non più ispirata all’evidenza scientifica, dovendo soggiacere ad una sorta di “comando” legislativo. La sentenza della Cassazione n. 18773 del 26 settembre 2016 ha nuovamente ribadito il principio secondo il quale anche il danno biologico di lieve entità deve essere risarcito qualora esso risulti, in maniera inequivocabile, da un riscontro medico-legale che abbia accertato, indifferentemente, in modo clinico-obiettivo o con l’ausilio di strumenti, l’entità delle lesioni del danneggiato. In sostanza ribadisce che è compito del medico legale accertare la sussistenza delle lesioni e delle menomazioni, nel rispetto dei criteri previsti dalla letteratura e dalla dottrina medico legale.
23 Spera, Art 32, commi 3 ter e 3 quater, della l. 27/2012: problematiche interpretative, in Danno e resp., 2013, n. 2, 217.
“Il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto della fattispecie da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo”.
Viene quindi ad essere supportata la tesi di chi aveva già sostenuto che la l. n. 27 del 24 marzo 2012 presentava contenuto “declamatorio esortativo”, perchè mirato a “richiamare l’attenzione dei pratici sulla necessità che il danno alla salute sia accertato in modo rigoroso e zelante, senza facilonerie e pressapochismi”25. La valutazione del danno non patrimoniale, quindi, non deve essere presa in considerazione sulla base di generici principi di plausibilità secondo l’id quod plerumque accidit di presunzione di prove testimonali, ma dopo applicazione della criteriologia medico legale, nel rispetto della medicina delle evidenze scientifiche. Lo specialista in medicina legale, certamente chiamato ad applicare i precetti normativi, resta pur sempre un “medico-chirurgo”, con una dotazione culturale prevalentemente naturalistica e biologico-scientifica. A quest’ultimo spetta il compito di osservare uno stretto rigore metodologico accertativo e valutativo, mediante applicazione delle evidenze scientifiche e di Linee Guida a cui Ferrara rimanda anche nella valutazione delle lesioni microinvalidanti, come il c.d. colpo di frusta26. Ancora in tema di peculiarità accertativo-valutativa si ricordano le Linee Guida per la valutazione medico-legale del danno alla persona in ambito civilistico emanate dalla Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni (SIMLA) nel 2016. Come già affermato nei principi ispiratori e di struttura delle suddette, l’approccio valutativo deve privilegiare quanto più possibile gli aspetti funzionali quanto quelli anatomici a dimostrazione che il medico legale compie una valutazione clinica ancor prima che legale, mirata a cogliere le ripercussioni della lesione sugli aspetti dinamico-relazionali di comune appartenenza ad ogni individuo nel nostro contesto sociale. L’importanza dell’armonizzazione dell’approccio metodologico, volta a garantire obiettività, rigore
24
25
Nt. 20.
Ferrara et all., Whiplash-Associated Disorders. Clinical and medico-legal guidelines on the methods of ascertainment, in Int. J Legal Med., 2015.
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e riproducibilità nella raccolta degli elementi di giudizio in ambito medico-legale, sottende inoltre la recente emanazione delle Linee Guida Internazionali IALM (International Accademy Legal Medicine)27, ove un gruppo di lavoro scientifico ha fornito una descrizione dettagliata delle procedure medico-legali nell’accertamento del danno alla persona, includendo osservazioni sulla qualifica e sulle competenze richieste degli esperti valutatori. La scelta di Consulenti d’Ufficio di comprovata competenza, cioè aggiornati sul piano scien-
27 Ferrara, Boscolo-Berto, Viel, Personal Injury and Damage Ascertainment under Civil Law, State-of-the-Art International Guidelines, Springer, 2016.
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tifico, dottrinale e giurisprudenziale, è dunque di cruciale importanza. In tale ambito il Medico Legale, da sempre dedicato all’accertamento di lesioni causalmente riconducibili a fatti antigiuridici, risulta essere certamente la figura più competente, capace di divenire un “collaboratore particolarmente qualificato”28, dotato del bagaglio culturale necessario per esprimere un giudizio quanto mai motivato e fondato sul rigore metodologico, ancora una volta richiamato dalla giurisprudenza.
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Nota del 22.3.2017 del Presidente SIMLA, Prof. C. Buccelli.
t a v r Osservatorio normativo e internazionale Osservatorio normativo e internazionale sse ati o rm z La responsabilità medica no rna e t in prospettiva (incerta) di in armonizzazione europea Fabio Toriello
Professore nell’Università di Sassari
Sommario: 1. Premessa: r.c. medica europea? – 2. Una breve ricognizione di fonti: competenza ancillare per la sanità, concorrente per il mercato interno. – 3. Principi generali e tutela risarcitoria. Diritto alla salute. Principio di precauzione: dal diritto dell’ambiente alla politica sanitaria (ma non ancora all’imputazione di responsabilità civile). – 4. Liberalizzazione del mercato farmaceutico e depotenziamento delle deroghe nazionali per motivi di sanità pubblica. – 5. Libertà di circolazione e diritti dei pazienti: mobilità, non discriminazione, consenso informato, rapporto fiduciario, disponibilità informativa, ma anche “meccanismi” atti ad affrontare i casi di danni da assistenza sanitaria e “fatture trasparenti”. – 6. La liberalizzazione della prestazione di servizi professionali sanitari.
Abstract: Il contributo cerca di definire entro quali coordinate di massima possa provenire, anche se in una prospettiva non ravvicinata, un apporto integrativo dal diritto dell’Unione Europea al settore della r.c. medica, con particolare attenzione al focus tradizionalmente puntato dal regolatore comunitario dei servizi all’instaurazione di fattori di funzionamento uniforme del mercato. This contribution tries to define the general legal framework of an EU intervention, albeit not in sight, within the field of medical liability, focusing on the traditional concern for the functioning of the internal services market.
1. Premessa: r.c. medica europea?
solidate, prassi sperimentate ed esperienze affidabili di ragionamento giuridico e modelli decisionali? Qualche idea per una risposta potrebbe emergere dalla vicenda evolutiva del diritto privato europeo sul tema della r.c. prodotti, che offre all’osservatore un importante paradigma di interazione tra fonti di livello diverso, cosicché non pare senza interesse cominciare a raccogliere (anche se con molto anticipo – dato il non comparabile grado di avanzamento che il diritto UE mostra sui temi della r.c. prodotti da una parte, e sui temi giuridici collegati alla tutela della salute nel contesto sanitario e nel rapporto medico-paziente, dunque specialmente sul versante privatistico, dall’altra) i dati utili a compiere una valutazione parallela nell’ambito del tema che è al centro del focus di questa Rivista. Il riferimento corre, per esempio, a quanto capitò alla Francia (e simili ripercussioni poi in Danimar-
Perché preoccuparsi di un diritto della responsabilità medica di matrice europea (in fase neppure embrionale1) se il diritto interno poggia su tradizioni con-
Parla di “embrionic body of European law”, riferendosi alla
1
Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti umani e la biomedicina del 1991, Hondius, Comparative medical liability in Europe, in Festschrift für Hans Stoll, Tübingen, 2001, 185.
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ca e Spagna) più di quindici anni fa2: in un settore (quello della r.c. in generale e della r.c. prodotti in particolare) in cui l’ordinamento d’oltralpe ovviamente poteva, e può, candidarsi a modello d’avanguardia per la tutela dei consumatori 3, la Francia attuava nel 1998 la direttiva 85/374 con un provvedimento ispirato all’intenzione di elevare il grado di incisività della tutela risarcitoria attraverso l’estensione della responsabilità oggettiva da prodotto anche ai fornitori; l’esito del noto procedimento Commissione c. Francia, con i suoi successivi “richiami”, ha però rivelato all’Europa che la direttiva va interpretata in senso ostativo a norme nazionali che prevedano che il fornitore debba assumersi la responsabilità da difetto del prodotto in via oggettiva, un tipo di responsabilità che la direttiva imputa solo al produttore in via generale, e solo in casi particolari anche al fornitore; mentre la direttiva non si oppone ad una norma nazionale che imputi al fornitore una responsabilità generalizzata per colpa. In quell’occasione la Corte di giustizia ha sancito che il margine di valutazione di cui dispongono gli Stati membri per regolamentare la responsabilità per danno da prodotti difettosi non è illimitato ma è stabilito in modo inderogabile dalla direttiva4, il che comporta che i legislatori nazionali possono esclusivamente muoversi all’interno del perimetro costituito dal tenore e dall’oggetto del sistema
portato dalla fonte prevalente per determinare in quale direzione eventualmente espandere la tutela risarcitoria. Una tutela maggiore a favore dei consumatori, ma eccentrica rispetto alla ratio di cui alla direttiva, e pur agevolando le azioni giudiziarie attivabili dalla parte lesa, introdurrebbe diseconomie non volute dal legislatore sovranazionale nella misura in cui – obbligando tutti fornitori ad assicurarsi contro una tale responsabilità – condurrebbe al sicuro rincaro dei prodotti proprio perché aumenterebbe esponenzialmente il ricorso alla giustizia. Questo il dictum superiore (non da discutere qui ma da tener presente). Quanto nasce a livello comunitario/europeo in funzioni comunitarie/europee deve mantenere i caratteri di origine anche se al livello statale (o a livello di opinione pubblica) ne sfuggano in prima battuta le ragioni profonde ed anche se uno degli argomenti spesi durante il dibattito tocchi – con esiti non immediatamente intelleggibili – la definizione delle materie alle quali corrispondono le competenze ripartite tra Unione e Stati; in quel caso: la r.c. da prodotto rientrava nel diritto civile e nel diritto della responsabilità extracontrattuale tradizionalmente riservati all’autonomia degli Stati o nel diritto dei consumatori e del mercato interno? Ed ora, quali principi, norme o semplici indicazioni di soft law provengono dal contesto del diritto sovranazionale europeo che possano costituire elementi di integrazione più o meno obbligata con quelli già autonomamente elaborati nelle tradizioni interne in tema di r.c. medica?
La procedura di infrazione culminata in CG 25.4.2002, in C-52/00, in Racc., I-03827, fu promossa nell’agosto del 1999; v. poi CG 14.3.2006, C-177/04; 9.2.2006, C-127/04; 10.1.2006, C-402/03, in Foro it., 2006, IV, 317, con nota di Bitetto, Responsabilità oggettiva solo per il produttore.
2. Una breve ricognizione di fonti: competenza ancillare per la sanità, concorrente per il mercato interno
2
Sulla tutela dei consumatori in Francia v. Picod, Davo, Droit de la consommation, Paris, 2015; Calais, Auloy, Steinmetz, Droit de la consommation, Paris, 2015; retrospettivamente v. anche la raccolta di materiali in Alpa- Bessone, I contratti standard nel diritto interno e comunitario, Toriello (a cura di), Torino, 1997; sul modello francese di risarcimento del danno non patrimoniale v. Perfumi, Il danno non patrimoniale: il modello francese, in Ponzanelli (a cura di), Il “nuovo” danno non patrimoniale, Padova, 2004, 223 ss. 3
Ci permettiamo il rinvio al nostro La responsabilità del produttore, in Alpa-Conte (a cura di), La responsabilità d’impresa, Milano, 2015, 89 ss. V. Joerges, The challenges of europeanization in the realm of private law: a plea for a new legal discipline (2004) 14 Duke j. Comp. Int’l law, 149, 169. 4
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Inizialmente, in assenza di un’esplicita base giuridica che legittimasse l’intervento in materia di salute e sanità la Comunità si è mossa a partire dalla competenza in materia di miglioramento del tenore e della qualità della vita prevista dall’allora art. 2 TCE adottando piani d’azione contro il cancro e contro l’AIDS5.
5
Dec. 91/317/CE; dec. 88/351/CE; in tema v. Troubec, Nan-
Una M. C. europea?
Con l’Atto Unico Europeo (art. 118/A TCE) si passava a promuovere il miglioramento dell’ambiente di salute e di lavoro per tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori, e con l’art. 130/R si ispirava l’azione della Comunità in materia ambientale funzionalizzandola alla protezione della salute umana, fino ad arrivare al Trattato di Maastricht che – così come introduceva la nuova politica di protezione dei consumatori – sanciva la competenza della Comunità a contribuire a garantire un livello elevato di tutela della salute anche quale componente di altre politiche6. All’indomani del Trattato di Lisbona l’art. 2 TFUE prevede ora al comma 5 che l’Unione abbia competenza per svolgere azioni di sostenimento, coordinamento e completamento dell’azione degli Stati in alcuni settori di loro competenza, senza tuttavia sostituirsi ad essi, e l’art.6 TFUE inserisce la tutela e il miglioramento della salute umana tra tali settori7. Coerentemente con tale impostazione – ispirata al principio di sussidiarietà8 – l’art. 168 TFUE
Hervey, The construction of healthier Europe: lessons from the fight against cancer, in Wisconsin int’ l. rev., 2006, 804; sui precedenti tentativi di intervento normativo in settori specifici legati ai rispettivi ambiti materiali CECA ed Euratom v. Cartou, L’Union Européenne, Paris, 2006, 276 s. ce,
La coessenzialità della tutela della salute rispetto alle altre politiche della Comunità/Unione è stata ribadita nel caso Regno Unito c. Commissione, C-180/96, in Racc. 1998, I-2265; in argomento v. ora Munari, Il ruolo della scienza nella giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di tutela della salute e dell’ambiente, in Dir. Unione eur., 2017, 112. 6
Un tentativo di progressione della produzione normativa nel settore della sanità si è avuto prima dell’introduzione dell’art 152 TCE, ora 168 TFUE attraverso il c.d. “metodo aperto di coordinamento tra istituzioni europee”, basato sulla spontanea partecipazione dei vari soggetti pubblici o privati, più o meno istituzionali, a tavoli di concertazione miranti a elaborare strumenti di soft law; epperò si è rilevato come il settore della sanità sia talmente vasto e complesso che in assenza di coordinate specifiche e vincolanti sulle competenze normative dell’Unione la collaborazione delle parti interessate ha finito per disperdersi senza pervenire a strumenti significativi: v. ora in argomento Inglese, Unione europea e sanità, Tesi di dottorato, Bologna, 2015, 20.
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Dispone l’art. 5.3 TUE che nei settori non di competenza esclusiva l’Unione intervenga soltanto se ed in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possano essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri né a livello centrale né a livello regionale e locale.
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stabilisce che nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione sia garantito un livello elevato di protezione della salute umana. In particolare si prevede che l’azione dell’Unione, che completa le politiche nazionali, sia indirizzata al miglioramento della sanità pubblica, alla prevenzione delle malattie e affezioni, e all’eliminazione delle fonti di pericolo per la salute fisica e mentale, includendo la lotta ai grandi flagelli, favorendo la ricerca sulle loro cause e sulla loro propagazione e la loro prevenzione nonché l’informazione e l’educazione in materia sanitaria, nonché la sorveglianza, l’allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero. Sempre nel contesto dell’art. 168 TFUE è poi prevista un’azione a livello di Unione a completamento dell’azione statuale volta a ridurre gli effetti nocivi per la salute umana derivanti dall’uso di stupefacenti. La natura di supporto, e in questo ancillare, della competenza dell’Unione è confermata al secondo comma dell’art.168 TFUE dove si prevede che l’Unione incoraggi la cooperazione tra gli Stati membri nei settori della sanità pubblica appoggiando, solo ove necessario, la loro azione, e incoraggiando in particolare il miglioramento della complementarietà dei servizi sanitari nelle regioni di frontiera. Si prevede una competenza di coordinamento della Commissione, che può anche adottare iniziative proprie sempre purché utili a promuovere il coordinamento tra le politiche sanitarie degli Stati nonché utili ad una serie di attività di supporto quali la definizione degli orientamenti comuni, la definizione degli indicatori e l’organizzazione degli scambi delle migliori pratiche. Tuttavia in deroga alla regola generale che relega le competenze dell’Unione a funzione ancillare, l’art 168.4 prevede la competenza delle istituzioni europee rispetto alla realizzazione di obiettivi di sicurezza quali: l’adozione di misure che fissino parametri elevati di qualità e sicurezza degli organi e delle sostanze di origine umana, del sangue e degli emoderivati (e però si prevede che in tale campo le misure europee non ostino a che gli Stati membri mantengano o introducano misure protettive più rigorose); miResponsabilità Medica 2017, n. 2
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sure nei settori veterinario e fitosanitario il cui obiettivo primario sia la protezione della sanità pubblica, e misure che fissino parametri elevati di qualità e sicurezza dei medicinali e dei dispositivi di impiego medico. L’art. 168 TFUE si chiude ribadendo che l’azione dell’Unione rispetta le responsabilità 9 degli Stati membri per la definizione delle loro politiche sanitarie e per l’organizzazione e la fornitura di servizi sanitari e di assistenza medica. Le responsabilità degli Stati membri includono la gestione dei servizi sanitari e dell’assistenza medica nonché l’assegnazione delle risorse loro destinate. D’altra parte, e come noto, l’Unione ha una propria competenza diretta, concorrente con quella degli Stati ex art. 4, oltre che nel settore storico del mercato interno, anche nei settori dell’ambiente, della protezione dei consumatori e dei problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica (articolo 4.2 TFUE). Fondate proprio sulla base giuridica rappresentata dall’art. 168, e maturate in un periodo caratterizzato da forti tensioni tra le politiche sanitarie dell’Unione e gli Stati membri, che hanno così ispirato un atteggiamento di prudenza da parte delle istituzioni europee, sono da ricordare le direttive di armonizzazione della qualità e sicurezza per la raccolta, il controllo, la lavorazione, la conservazione e la distribuzione del sangue umano (dir. 2002/98 del 27 gennaio 2003), dei tessuti e delle cellule umane (dir. 2004/23 del 31 marzo 2004) e sugli organi umani destinati ai trapianti (direttiva 2010/45 del 7 luglio 2010). Ebbene: da questo primo sguardo superficiale parrebbe emergere una tendenziale estraneità o indifferenza delle competenze europee rispetto al versante privatistico collegato alla sanità e in particolare al rapporto medico-paziente.
La versione dell’art. 152 TCE si esprimeva in termini di “competenze”.
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3. Principi generali e tutela risarcitoria. Diritto alla salute. Principio di precauzione: dal diritto dell’ambiente alla politica sanitaria (ma non ancora all’imputazione di responsabilità civile) Un breve accenno al dibattito sulla vigenza in ambito UE di un diritto individuale alla salute. Nell’ambito della Carta europea dei diritti fondamentali l’art. 35 prevede che ogni persona abbia il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite, si precisa, dalle legislazioni e prassi nazionali, con la ulteriore precisazione che nella definizione e attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana10. Vengono poi in rilievo le disposizioni del titolo I della stessa Carta, in tema di dignità (inviolabilità; diritto alla vita; diritto all’integrità fisica e psichica; principio del consenso libero e informato; divieto di pratiche eugenetiche; divieto di utilizzare il corpo umano come fonte di lucro; divieto di clonazione riproduttiva). Mentre mancano pronunce della Corte di giustizia che abbiano confermato l’azionabilità di un diritto di fonte UE avente ad oggetto la salute in generale (si potrebbe ipotizzare, sul modello dell’invocabilità in giudizio dell’art. 32 Cost.), si registra il caso relativo ad altro principio sancito nella Carta (quello relativo al diritto all’informazione in ambito aziendale ex art. 27 Carta) per il quale espressamente l’invocabilità diretta ed orizzontale è stata esclusa per indeterminatezza dell’enunciato normativo pur rinviando il cittadino eventualmente
Come noto, ai sensi dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea l’Unione riconosce i diritti le libertà e i principi sanciti dalla Carta del 7 dicembre 2000, quale fonte di pari rango rispetto ai trattati, e aderisce altresì alla Convenzione europea sui diritti dell’uomo, senza che le disposizioni della Carta o i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione EDU possano peraltro estendere in alcun modo le competenze dell’Unione come definite dai trattati; in argomento v. Tomasi, Il dialogo tra corti di Lussemburgo e di Strasburgo in materia di tutela dei diritti fondamentali dopo il Trattato di Lisbona, in Baruffi (a cura di), Dalla Costituzione europea al Trattato di Lisbona, Padova, 2008, 150 ss. 10
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leso dalla mancata attuazione nazionale del principio sovranazionale alla tutela risarcitoria contro il proprio Stato (principio Francovich)11. Quanto al principio di precauzione è innanzitutto da ricordare l’opera interpretativa della Corte di giustizia che ne ha esteso l’applicazione al settore delle politiche sanitarie affermando che nonostante il principio sia menzionato solo in materia di politica ambientale esso ha una portata più ampia ed è destinato ad applicarsi in tutti gli ambiti di azione della comunità quale principio generale del diritto comunitario al fine di assicurare un livello elevato di protezione della salute12. In materia sanitaria un’applicazione legislativa interessante si è avuta con l’art. 4 della dir. 2004/27 di modifica del c.d. Codice comunitario dei medicinali, il quale stabilisce che in caso di dubbio se un prodotto possa rientrare contemporaneamente nella definizione di medicinale – tenuto conto
Cfr. ancora Inglese, op.cit., 157 ss. Sui rapporti tra principi generali comunitari e rimedio risarcitorio mi permetto di rinviare a I principi generali del diritto comunitario. Il ruolo della comparazione, Milano, 2000, 281 ss. 11
Caso Artedogan, T 16.11.2002, cause riunite T-74/00, 83/00, 85/00, 132/00, 137/00, 141/00, in Racc. 2002, II4945. CGCE 11/9/2014 n. 525/12 e CGCE 15 maggio 2014, n. 521/12. Il principio è espressamente previsto solo in materia di politica dell’ambiente, all’art. 191 TFUE, già art. 174 TCE, ove si stabilisce che la politica dell’Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire la protezione della salute umana, oltre ad altri obiettivi, e si precisa altresì che tale politica è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, nonché sul principio “chi inquina paga”. Cfr. Pallaro, Il principio di precauzione tra mercato interno e commercio internazionale: un’analisi del suo ruolo e del suo contenuto nell’ordinamento comunitario, in Dir. Comm. int., 2002, 17; Tirelli, Il principio di precauzione e la salute, in Battaglia, Rosati (a cura di), Il principio di precauzione. I costi della non scienza, Roma, 2004; Capilli, Gli obblighi di precauzione dell’impresa, in Alpa, Conte, op. cit., 149 ss.; Castronovo, Le sfide della politica criminale al cospetto delle generazioni future e del principio di precauzione: il caso OGM, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2013, 393; Rizzioli, A proposito di organismi geneticamente modificati: la Corte di giustizia ritiene incompatibile con il diritto dell’Unione Europea disciplina italiana di autorizzazione alla messa in coltura degli OGM, in Riv. dir. agrario, 2012, 229; Santonastaso, Principio di precauzione e responsabilità dell’impresa: rischio tecnologico e attività pericolosa “per sua natura”. Prime riflessioni su un tema di ricerca, in Contratto e impr. Eu., 2005, 97; Izzo, La precauzione nella responsabilità civile, Padova, 2005. 12
dell’insieme delle sue caratteristiche – ed anche nella definizione di prodotto disciplinato da altra normativa comunitaria – verrà comunque assoggettato alle disposizioni relative ai farmaci in virtù di un principio di prevalenza della normativa di maggior tutela. Tale “principio” appare peraltro un corollario di quello di precauzione: la premessa della norma è che si sia di fronte ad un caso di dubbio, quindi ad un caso di relativa incertezza scientifica sulle caratteristiche preminenti del prodotto, ed il principio di precauzione è destinato per l’appunto ad operare in casi di incertezza conoscitiva. Proprio perché non si conosce appieno l’eventuale portata terapeutica ed i possibili effetti sulle funzioni fisiologiche dei destinatari, effetti che non si possono del resto escludere, la regola comunitaria prescrive la via della cautela. Anche qui, peraltro, non si intravede ancora la traduzione del “principio” in regole di imputazione della responsabilità o in regole cogenti di condotta diligente in capo ai potenziali danneggianti (ammesso che nel settore della r.c. medica questa sia una prospettiva fruttuosa, del che si può dubitare se si pensa che il medico è tendenzialmente chiamato a prestare le proprie cure, non ad astenersi precauzionalmente dal farlo, tanto che il problema si sposta piuttosto sulle caratteristiche della relazione con il paziente e sui contenuti dell’informazione dovuta a quest’ultimo; ed è semmai di questo aspetto che l’Unione ha cominciato ad occuparsi, come vedremo a breve).
4. Liberalizzazione del mercato farmaceutico e depotenziamento delle deroghe nazionali per motivi di sanità pubblica Quello della libera circolazione delle merci (più recentemente passato in secondo piano rispetto alla liberalizzazione dei servizi13) è notoriamente campo di elezione del legislatore comunitario europeo, ed in questo settore si è cominciato a
“I servizi costituiscono il motore della crescita economica e rappresentano il 70% del PIL e dei posti di lavoro nella maggior parte degli stati membri”: Considerando 3, “direttiva servizi”, dir. 2006/123. 13
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legiferare con particolare riguardo al mercato del farmaco fin dalla direttiva 65/65 (del Consiglio del 26 gennaio 1965) fino ad arrivare al c.d. codice comunitario dei medicinali per uso umano del 200114. Tra i considerando della direttiva 2001/83, pur enunciandosi che lo scopo principale delle norme è quello di assicurare la tutela della sanità pubblica, si prevede poi però che questo scopo debba essere raggiunto con mezzi che non ostacolino lo sviluppo dell’industria farmaceutica e gli scambi dei medicinali nella Comunità, vero obiettivo cui la direttiva è rivolta, puntando essa a eliminare le disparità tra disposizioni nazionali relative ai medicinali che hanno per effetto di ostacolare – nuovamente – gli scambi dei medicinali avendo essi un’incidenza diretta sul funzionamento del mercato interno (considerando 3 e 4). Così la direttiva è destinata ai medicinali per uso umano prodotti industrialmente, definisce le procedure per l’autorizzazione all’immissione in commercio, contiene disposizioni speciali per il mercato dei medicinali omeopatici, disciplina il mutuo riconoscimento delle autorizzazioni, i requisiti per l’autorizzazione alla fabbricazione e all’importazione, le caratteristiche obbligatorie dell’etichettatura e del foglietto illustrativo, contiene una classificazione dei medicinali e le regole per la distribuzione all’ingrosso, regola la pubblicità dei medicinali e disciplina la farmacovigilanza affidata agli Stati. Non ci sono accenni al regime di responsabilità civile, né alla tutela diretta del diritto alla salute ex art. 168 TFUE, segno che la stagione legislativa è in questa fase ispirata ad una politica funzionale alle sole esigenze di liberalizzazione del mercato dell’industria farmaceutica (la base giuridica della direttiva è del resto quella centrale in materia di mercato interno, l’art.114 TFUE), e probabilmente anche segno che una sufficiente tutela risarcitoria contro i danni alla salute umana provocati da reazioni avverse (materia anch’essa ancillare al completamento del mercato interno) si è rite-
Dir. 2001/83 del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 novembre 2001 in G.U. n. 311 del 28 novembre 2001. 14
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nuta risiedere nel solo filone della direttiva r.c. prodotti15. La prevalenza dell’interesse per la liberalizzazione del mercato nell’ambito della produzione normativa comunitaria europea è altresì testimoniata dalla casistica giurisprudenziale in applicazione delle fonti di diritto secondario: se nelle prime decisioni prevaleva un’interpretazione estensiva della nozione di medicinale, nei casi di prodotti potenzialmente al confine con le categorie (e rispettivi mercati) delle vitamine, degli integratori alimentari e dei cosmetici, con la conseguenza che eventuali normative nazionali di deroga alla libertà di circolazione delle merci alla luce delle esigenze di sanità pubblica ai sensi dell’art. 36 TFUE (ex 30 TCE) potevano ancora essere fatte salve e fatte prevalere sulla norma comunitaria liberalizzante16, una volta disciplinata esaustivamente la materia del mercato del farmaco e sussunta a livello di normazione europea, e così giuridificata a livello centralizzato, la connessa preoccupazione per la salute umana che eventualmente potrebbe ispirare ancora misure di ostacolo istituite a livello nazionale, ebbene quella stessa preoccupazione diventa meno giustificabile se invocata “dal basso” (per es.: perché se un farmaco è posto in commercio evidentemente ha superato i test prescritti in modo uniforme dal codice comunitario); ed è così che le decisioni più recenti, quelle registrabili all’indomani della direttiva del 2001 si se-
15 Pur se con eventuali cumuli di rimedi diversi, come accade nell’esperienza italiana; circa la concorrente applicazione dell’art. 2050 c.c. e del regime speciale di matrice europea v. Pardolesi, Responsabilità civile nella produzione e commercializzazione di farmaci, in Foro it., 2002, I, 3225; Monateri, Mass torts. Natura e regime della responsabilità civile per danno ambientale, in Amministrazione in cammino, 25.9.2003, 201; Alpa, La responsabilità del produttore di farmaci, in Sanità pubblica, 1984, 487. Cfr. poi i contributi di Di Marzo, Liability for defective pharmaceuticals products: the Italian perspective, Thiede, Detective pharmaceuticals tortfeasors: a German law perspective in DES-daughters scenarios, e G’sell, DES daughter cases: Cour de cassation 24 September 2009 and 24 January 2010 and CA Paris 26 October 2012, in European Review of Private Law, rispettivamente 591, 617 e 587. 16 Casi Bennekom, C-227/82, in Racc., 1983, 3883; Delattre, C-369/88, 1991, p. I-1487; Ter Voort, C-219/91, in Racc., 1992, p.I-5484; v. ancora il lavoro di Inglese, op. cit., 63 ss.
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gnalano per un modello decisionale decisamente meno favorevole ad avallare le deroghe nazionali e più incline ad intendere restrittivamente la nozione di prodotto avente effetti sulla salute umana. Si accentrano le politiche comunitarie là dove è preminente la politica del mercato, storicamente più forte a Bruxelles, mentre l’Unione si appropria della sanità – tema storicamente secondario – con la naturale progressione delle proprie competenze e con l’effetto di erodere la portata della deroga nazionale per motivi di sanità pubblica17.
17 Commissione c. Spagna, C-88/07 in Racc. 2009, I-0353; caso Orthica, C-211/03, in Racc. 2005, I-05141; caso Hecht-Pharma, 15.1.2009, C-140/07: «l’art.1, punto 2, lett. b), della dir. 2001/83, recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano, come modificata dalla dir. 2004/27, deve essere interpretato nel senso che, nonostante le modifiche apportate dalla dir. 2004/27 alla definizione di medicinale, i criteri delle modalità d’uso di un prodotto, dell’ampiezza della sua diffusione, della conoscenza che ne hanno i consumatori e dei rischi che possono derivare dalla sua utilizzazione sono ancora rilevanti per stabilire se tale prodotto sia compreso nella definizione di medicinale per funzione. L’art. 1, punto 2, lett. b), della dir. 2001/83, recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano, come modificata dalla dir. 2004/27, deve essere interpretato nel senso che, esclusi i casi di sostanze o composizioni destinate a stabilire una diagnosi medica, un prodotto non può essere considerato come medicinale ai sensi di tale disposizione quando, tenuto conto della sua composizione – compreso il dosaggio di sostanze attive – e in condizioni normali di uso, non è idoneo a ripristinare, correggere o modificare in modo significativo funzioni fisiologiche, esercitando un’azione farmacologica, immunologica o metabolica. Infatti, il criterio dell’idoneità a ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche non deve condurre a qualificare come medicinale per funzione sostanze che, nonostante abbiano un’influenza sul corpo umano, non hanno effetti fisiologici significativi e non modificano quindi, propriamente parlando, le condizioni del suo funzionamento». Si è infine sinteticamente osservato come il settore farmaceutico e alimentare «siano caratterizzati da un’ingente produzione legislativa che consente ai giudici di Lussemburgo di interpretare le norme del Trattato solo qualora quelle di diritto derivato non siano applicabili […]. Ma è ormai evidente che con il passare degli anni e con la promulgazione di atti sempre più avanzati che si spingono a disciplinare anche aspetti di dettaglio lo spazio rimasto per la applicazione della deroga ex articolo 36 TFUE è alquanto stretto […]. Si ricava dunque un quadro d’insieme di difficile applicazione per gli Stati sui quali grava l’onere di dimostrare la ragionevolezza delle loro normative interne a tutela della sanità pubblica quando restringono la libera circolazione delle merci. Essi infatti hanno lungamente abusato di questa linea argomentativa con il risultato di averla resa difficilmente difendibile in giudizio»: Inglese, op. cit., 83.
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5. Libertà di circolazione e diritti dei pazienti: mobilità, non discriminazione, consenso informato, rapporto fiduciario, disponibilità informativa, ma anche “meccanismi” atti ad affrontare i casi di danni da assistenza sanitaria e “fatture trasparenti” La direttiva sulla libertà e mobilità dei pazienti è stata preceduta da varie sentenze18 che hanno spianato la strada al coordinamento legislativo tra Stato di affiliazione e Stato di cura19. La definitiva sistemazione della materia è però appunto merito della direttiva 2011/24 del 9 marzo 2011. I suoi considerando 10 e 11 richiamano il diritto all’accesso ad un’assistenza sanitaria transfrontaliera sicura e di qualità nell’Unione nonché a standard minimi di prestazioni sociali di carattere sanitario, da usufruire in modo libero anche in Stati diversi (Stato di cura) dal proprio Stato di affiliazione (lo Stato presso i cui enti di assistenza sanitaria si è affiliati). Senza che la direttiva miri ad attribuire ai cittadini diritti di ingresso o di soggiorno o di residenza, come precisato dal considerando 18, lo strumento deve peraltro poggiare su un effettivo consenso informato che consenta al paziente di operare una scelta informata evitando malintesi e incomprensioni e instaurando un elevato livello di fiducia tra paziente e prestatore di assistenza
18 Specialmente il caso Decker, C-158/96, in Racc. 1998, I-1831 e C- 158/96, ibidem, I-1931. 19 L’assunto di base è che le cure non ospedaliere non necessitino di autorizzazione poiché la loro incidenza finanziaria sulle casse pubbliche è irrilevante in ogni paese mentre per le cure ospedaliere la mancanza della previa autorizzazione comprometterebbe l’equilibrio del sistema previdenziale. Con il Regolamento 823 del 2004 si è poi stabilito che la persona autorizzata dall’istituzione competente a recarsi in un altro Stato membro al fine di ricevervi cure adeguate al suo stato di salute beneficia delle prestazioni erogate per conto dell’istituzione competente dall’istituzione del luogo di dimora. L’art. 56 TFUE continua a regolamentare le cure non ospedaliere le quali non necessitano di autorizzazione preventiva. In tema v. Urbano, Diritto alla salute e cure transfrontaliere. Profili di diritto interno e comunitario, Torino, 2009.
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sanitaria, cosicché i pazienti di altri Stati membri ottengano su richiesta le pertinenti informazioni sulle norme di sicurezza e di qualità applicate nel territorio di erogazione, nonché informazioni su quali prestazioni e su quali prestatori di assistenza sanitaria siano soggetti a quelle norme. I considerando 19 e 20 precisano, oltre a ciò, che nulla osta “a che lo Stato membro di cura obblighi altresì soggetti diversi dai prestatori di assistenza sanitaria, quali assicuratori o autorità pubbliche, a fornire informazioni su specifici aspetti dei servizi di assistenza sanitaria prestati se ciò risulti più appropriato tenuto conto dell’organizzazione del sistema di assistenza nazionale sanitaria”. Infine, nell’ambito dei superiori valori di universalità, di accesso ad un’assistenza di elevata qualità, di equità e di solidarietà, e sempre puntando al massimo rispetto dei principi di libera circolazione dei pazienti nel mercato interno, di non discriminazione e di necessità e proporzionalità nel fronteggiare eventuali restrizioni alla libera circolazione, i considerando 23 e 24 enunciano come essenziale l’obiettivo di prevedere obblighi comuni chiari in relazione alla previsione di meccanismi volti ad affrontare i casi di danni derivanti dall’assistenza sanitaria, così da evitare che la mancanza di fiducia in questi meccanismi costituisca un ostacolo al ricorso all’assistenza sanitaria transfrontaliera. In questo contesto i sistemi di risarcimento dei danni nello Stato membro di cura dovrebbero, dice il considerando 23, far salva la possibilità per gli Stati membri di estendere la copertura offerta dal proprio sistema nazionale ai pazienti del proprio paese che si avvalgano di un’assistenza sanitaria all’estero, quando il ricorso alle cure in un altro Stato membro sia più opportuno per il paziente stesso. Ed il considerando 24 stabilisce che gli Stati membri dovrebbero garantire che sussistano meccanismi di tutela dei pazienti e di risarcimento dei danni per l’assistenza sanitaria prestata sul loro territorio e che tali meccanismi siano appropriati alla natura o alla portata del rischio, pur lasciando alla competenza degli Stati membri la determinazione della natura e delle modalità di tali meccanismi. Contemporaneamente il considerando 21 richiama, quali parametri di valutazione degli standard Responsabilità Medica 2017, n. 2
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di qualità e sicurezza, i progressi della scienza medica internazionale e delle buone prassi mediche generalmente riconosciute nonché delle nuove tecnologie sanitarie. In coerenza (forse non totale, come diremo) con i propri considerando la direttiva stabilisce al suo art. 4 che sia responsabilità dello Stato membro di cura garantire che i pazienti ricevano su richiesta le informazioni pertinenti relative agli standard e agli orientamenti di qualità e sicurezza relativi alle cure richieste, che i prestatori di assistenza sanitaria (intesi come coloro, persone fisiche o giuridiche, che prestino legalmente assistenza sanitaria nel territorio di uno Stato membro) forniscano informazioni pertinenti per consentire ai pazienti di compiere una scelta informata, fra l’altro, sulle opzioni terapeutiche e sulla disponibilità, qualità e sicurezza dell’assistenza sanitaria ad essi prestata nello Stato membro di cura20, e che gli stessi prestatori forniscano altresì fatture trasparenti e informazioni trasparenti sui prezzi, sullo status di autorizzazione o di iscrizione dei prestatori di assistenza sanitaria, sulla loro copertura assicurativa o su altri mezzi di tutela personale o collettiva per la loro responsabilità professionale. L’art. 4.2/B precisa anche che nella misura in cui i prestatori di assistenza sanitaria forniscano già ai pazienti residenti nello Stato membro di cura informazioni pertinenti su tali argomenti la direttiva non li obbliga a fornire informazioni più esaurienti ai pazienti di altri Stati membri. Questa previsione lascia peraltro aperta l’eventualità di un controllo della Commissione sul livello di adeguatezza delle informazioni fornite ai pazienti. Lo Stato membro di cura deve ancora garantire l’esistenza di procedure trasparenti per le denunce e per i meccanismi di ricorso in caso di danno causato dall’assistenza sanitaria ricevuta e dovrà inoltre garantire l’esistenza di sistemi di assicurazione di responsabilità professionale o garanzie o
20 Forse Cass., 19212/2015, tra le altre, si sarebbe espressa con maggior precisione in termini di informazione che deve sostanziarsi in informazioni dettagliate ed adeguate al livello culturale del paziente, con l’adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone.
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analoghi meccanismi essenzialmente comparabili quanto a finalità e commisurati alla natura e alla portata del rischio21. L’attuazione italiana della direttiva si è avuta con il d. lgs.n. 38 del 4 marzo 2014, il quale in tema di rimedio risarcitorio prevede all’art. 5.3 che “il paziente che subisca un danno a causa dell’assistenza sanitaria ricevuta in Italia presso prestatori di assistenza sanitaria operanti nel territorio italiano ha diritto ad esperire gli ordinari rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento nazionale”. Si estende così al paziente straniero il sistema di tutela risarcitoria interno, il che appare conforme alla prescrizione minima di cui all’art. 4.2/C della direttiva (garantire l’esistenza di procedure trasparenti e di mezzi di ricorso risarcitori a norma della legislazione dello Stato di cura), anche se queste procedure e questi meccanismi – commentiamo – dovessero rivelarsi inefficienti o incompleti rispetto a standard diversi e ulteriori. Semmai vi è da chiedersi se vi sia perfetta coerenza tra il considerando 23 della direttiva (che
L’art. 3/f definisce “professionista sanitario” il medico, l’infermiere responsabile dell’assistenza generale, l’odontoiatra, l’ostetrica o il farmacista o altro professionista che eserciti attività nel settore dell’assistenza sanitaria l’accesso alle quali sia riservato ad una professione regolamentata secondo la definizione di cui alla dir. 2005/36 La direttiva prevede poi le responsabilità dello Stato membro di affiliazione in relazione al rimborso dei costi di assistenza sanitaria transfrontaliera, i principi generali a cui il rimborso deve attenersi, le regole relative alle procedure amministrative relative all’assistenza sanitaria, al riconoscimento delle prescrizioni rilasciate in altri Stati membri, al funzionamento delle reti di riferimento europeo (che devono perseguire gli obiettivi di cooperazione europea in materia di assistenza sanitaria altamente specializzata, condivisione delle conoscenze in materia di prevenzione delle malattie, miglioramento delle diagnosi e dell’erogazione dell’assistenza sanitaria di qualità, accessibile ed economicamente efficiente per tutti i pazienti affetti da particolari patologie, massimizzazione dell’uso economicamente efficiente delle risorse, rafforzamento della ricerca e della sorveglianza epidemiologica, agevolazione della mobilità delle competenze, sviluppo dei parametri di riferimento in materia di qualità e sicurezza, collaborazione con gli Stati membri che hanno un numero insufficiente di pazienti con particolari patologie affinché essi elevino la gamma completa dei servizi altamente specializzati e di alta qualità) alla cooperazione in materia di malattie rare, di assistenza sanitaria on-line e di valutazione delle tecnologie sanitarie. 21
postula come essenziale la previsione di obblighi comuni chiari in relazione alla previsione di meccanismi di tutela in caso di danno, in vista della prevenzione del rischio di mancanza di fiducia nello scambio di prestazioni sanitarie) e la previsione, di cui all’ art. 4, di un semplice obbligo di garanzia circa l’esistenza di procedure trasparenti e di mezzi di tutela ai sensi della legislazione dello Stato di cura. Non pare peregrino ipotizzare che di fronte ad un rischio verificato di inefficacia, vuoi dello strumento di diritto europeo derivato vuoi delle implementazioni nazionali, rispetto all’obiettivo dello scambio di prestazioni sanitarie tra Stati membri e rispetto al rischio di diminuita fiducia infra-europea, l’Unione intervenga nuovamente per migliorare l’attuazione dell’obiettivo prefigurato dal considerando, per esempio introducendo uno standard di tutela rimediale maggiore che non quello della semplice “esistenza” di procedure trasparenti ai sensi della legislazione territoriale22.
6. La liberalizzazione della prestazione di servizi: obbligo assicurativo uniforme rispetto ad una responsabilità civile non uniformata Le basi giuridiche dell’intervento europeo in materia di libertà di circolazione di persone e servizi nonché di diritto stabilimento sono date – come noto – dagli artt. 45, 49 e 56 TFUE23, che vietano
Ed in effetti a due anni dalla scadenza per l’attuazione della direttiva la Commissione ha cominciato a pubblicare i dati relativi all’implementazione in 23 Stati ed in tale sede, nella presentazione del rapporto offerto il 24 ottobre 2016 a Bruxelles alla conferenza “Towards amplified awareness of EU rights to cross-border care”, il Commissario europeo per la salute e la sicurezza alimentare ha evidenziato l’importanza dei diritti di pazienti alle cure transfrontaliere ed ha insistito per un maggior coinvolgimento dei punti nazionali di contatto di cui alla direttiva, al fine del miglioramento del livello informativo dei pazienti e del coordinamento dei servizi sanitari a livello europeo. Stando al rapporto, nel solo anno 2015 la Polonia era il paese con il maggior numero di richieste (oltre 31.000) mentre l’Italia ne aveva ricevuti solo 428. 22
23 «Nel quadro delle disposizioni che seguono le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro
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ogni restrizione alle libertà economiche; ma siamo qui in settori in cui tipicamente è l’Unione a dover dare impulso su scala europea ai movimenti di integrazione del mercato, ed ecco che il Considerando 6 della c.d. “direttiva servizi” 123/2006 annuncia che “non è possibile eliminare questi ostacoli soltanto grazie all’applicazione diretta degli articoli 43 e 49 del Trattato in quanto, da un lato, il trattamento caso per caso mediante l’avvio di procedimenti di infrazione nei confronti degli Stati membri interessati si rivelerebbe estremamente complesso da gestire per le istituzioni nazionali e comunitarie, in particolare dopo l’allargamento e, dall’altro lato, l’eliminazione di numerosi ostacoli richiede un coordinamento preliminare delle legislazioni nazionali, anche al fine di istituire una cooperazione amministrativa”24. Così in materia di attuazione del mercato dei servizi nel settore delle professioni sanitarie la direttiva 2005/36 del 7 settembre 2005 punta all’agevolazione della prestazione di servizi nel contesto della stretta osservanza della salute e della sicurezza pubblica nonché della tutela dei consumatori (Considerando 6), postulando che il prestatore di servizi sia soggetto all’applicazione delle norme disciplinari dello Stato membro ospitante (Considerando 8) nonché delle norme deontologiche, di controllo e di responsabilità (Considerando 11) e immaginando una piattaforma comune da istituire in ambito europeo (intesa come “una serie di criteri che permettono di colmare la più ampia gamma di differenze sostanziali che sono
nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro. La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività autonomi e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società …». Riprende il tema il Considerando 116 così giustificando e introducendo l’intervento normativo: «l’obiettivo della presente direttiva vale a dire la soppressione degli ostacoli alla libertà di stabilimento dei prestatori negli Stati membri e alla libera prestazione di servizi prestati non può essere realizzato in misura sufficiente dagli stati membri e può dunque a causa delle dimensioni dell’azione essere realizzato meglio a livello comunitario» ragione per cui «la comunità può intervenire in base al principio di sussidiarietà». 24
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state individuate fra i tre quesiti di formazione in almeno due terzi degli Stati”: considerando 16). La direttiva – che non mira a pregiudicare le misure necessarie a garantire un elevato grado di tutela della salute e dei consumatori (considerando 44) – si rivolge su queste basi a disciplinare l’accesso alle professioni regolamentate disciplinando la libertà di stabilimento e la libertà di circolazione dei servizi per medici, infermieri, dentisti, veterinari, ostetriche, farmacisti, architetti, ed è applicabile a “tutti i cittadini degli Stati membri che vogliano esercitare come lavoratori subordinati o autonomi, compresi i liberi professionisti, una professione regolamentata in uno Stato membro diverso da quello in cui hanno acquisito le loro qualifiche professionali”, previo il mutuo riconoscimento delle qualifiche professionali (in ciò poggiando sull’armonizzazione già effettuata per il curriculum universitario). La liberalizzazione dei servizi si attua dunque senza imporre regole comuni in tema di responsabilità civile professionale ma lasciando agli Stati membri ospitanti la potestà di applicare i propri regimi ai professionisti sanitari comunitari (e senza per ora prevedere alternative a questo modello di regolamentazione). Il che sembra indicare che la possibile disuniformità di regimi non sia ritenuta per ora costituire ostacolo alla realizzazione del mercato interno agli occhi del regolatore del mercato dei servizi. Il breve accenno all’assoggettamento dei prestatori di servizi alle norme locali in materia di responsabilità di cui al considerando 11 trova una altrettanto timida eco nel considerando 15 della direttiva 2013/55 del 29 novembre 2013, di modifica della direttiva-base, ove leggiamo che “gli Stati membri dovrebbero in particolare incoraggiare lo sviluppo professionale continuo di medici, medici specialisti, medici generici, infermieri responsabili dell’assistenza generale, dentisti, dentisti specializzati, veterinari, ostetriche, farmacisti e architetti. Le misure adottate dagli Stati membri per promuovere lo sviluppo professionale continuo di tali professioni dovrebbero essere comunicate alla Commissione e gli Stati membri dovrebbero procedere allo scambio delle migliori prassi in questo settore. Lo sviluppo professionale continuo dovrebbe contemperare gli sviluppi tec-
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nici, scientifici, normativi ed etici ed incoraggiare i professionisti a partecipare all’apprendimento permanente relativo alla loro professione” (corsivo nostro)25. Parallelamente la direttiva 2006/123 del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno provvede a rimuovere gli ostacoli che riguardano tutti i servizi che possono essere offerti sul mercato europeo indicando in particolare l’ostacolo rappresentato “dall’incertezza giuridica che caratterizza le attività transfrontaliere e dalla mancanza di fiducia reciproca tra Stati membri” (considerando 3), ribadendo che la certezza giuridica è necessaria all’effettivo esercizio delle libertà comunitarie-europee (considerando 5), annunciando l’opportunità di elaborare codici di condotta anche in funzione della tutela di obiettivi di interesse generale come la protezione dell’ambiente, la pubblica sicurezza e la sanità pubblica (considerando 7), e indicando altresì come obiettivo da perseguire l’elaborazione di codici di condotta a livello comunitario finalizzati a promuovere la qualità dei servizi, nel rispetto dello stesso diritto comunitario, del diritto della concorrenza e delle norme nazionali di deontologia professionale giuridicamente vincolanti (considerando 113 e 114)26. Ancora, si ritiene necessario prevedere nella direttiva norme relative all’alta qualità dei servizi, agli obblighi e requisiti di informazione e trasparenza (considerando 97) ed infine si ritiene opportuno che i prestatori di servizi che presentano
25 Sullo sviluppo delle norme deontologiche quali fonti integrative del diritto sostanziale cfr. Alpa, Le “fonti” del diritto civile: policentrismo normativo e controllo sociale, in www. consiglionazionaleforense.it; con particolare riguardo alla responsabilità professionale Franzoni, Dalla colpa grave alla responsabilità professionale, Torino, 2016, 7. Sulla produzione di codici deontologici su impulso “comunitario” mi permetto di rinviare a I codici deontologici nel diritto privato comunitario, in Alpa, Zatti (a cura di), Codici deontologici e autonomia privata, Milano, 2006, 389. 26 In tema di mera acquisizione a livello di Unione Europea di conoscenze sui rischi per la salute dei consumatori e sui rischi ambientali v. la decisione della Commissione 2008/721 sulla struttura dei comitati scientifici, nonché la dec. 1082/2013 sulle minacce transfrontaliere alla salute; in argomento v. Papademetriou, European Union legal responses to health emergencies, in www.loc.gov.law/help/health, 2015.
un rischio diretto e particolare per la salute e la sicurezza dei destinatari o dei terzi siano in linea di principio coperti da un’adeguata assicurazione di responsabilità professionale (considerando 98) che dovrebbe a sua volta essere adeguata alla natura e alla portata del rischio (considerando 99). La direttiva del 2006 esclude dal proprio ambito di applicazione i servizi sanitari e farmaceutici forniti dei professionisti del settore sanitario ai propri pazienti, ai quali è rivolta invece la direttiva del 2005 (anche se il considerando 33 include i servizi di assistenza agli anziani tra le materie coperte dalla direttiva 123/2006) ma lo stile ed i contenuti dell’intervento del legislatore europeo del 2006 sono comunque degni di essere analizzati in quanto espressivi di un metodo e di una tecnica normative generalizzate, avendo la direttiva “servizi” inaugurato una stagione di tecnica legislativa di normazione orizzontale e di codificazione dell’acquis nel settore dei servizi27 (ed è poi successiva, seppure di un solo anno, alla direttiva “professioni regolamentate”). Ebbene, la direttiva “servizi”, senza assolutamente sfiorare il tema dei criteri di imputazione di responsabilità per danni alla persona, disciplina all’art. 24 il tema delle assicurazioni di responsabilità professionale prevedendo in particolare (al comma 2) che quando un prestatore si stabilisce sul loro territorio gli Stati membri non possano imporre un’assicurazione di responsabilità professionale se egli sia già coperto da una garanzia equivalente o essenzialmente comparabile, quanto a finalità e copertura fornita in termini di rischio o capitale assicurati o massimale della garanzia. Il legislatore comunitario non entra dunque nel merito dei regimi di responsabilità professionale o civile, e neppure fa carico allo Stato ospitante di imporre al prestatore una copertura assicurativa nazionale, purché il prestatore sia portatore di una garanzia assicurativa equivalente o essenzialmente comparabile.
Cfr. Mastroianni, La libertà di prestazione dei servizi nella giurisprudenza comunitaria: i principi generali, in Studi sull’integrazione europea, 2007, 523 ss.; Daniele, Diritto del mercato unico europeo, Milano, 2012, 196. 27
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Tale adeguatezza di garanzia si può accertare peraltro, ci pare, solo a seguito di una valutazione comparativa tra la natura e l’estensione del rischio di danno a terzi in cui il prestatore può incorrere nello Stato ospitante/Stato di prestazione rispetto all’estensione di copertura di cui gode nello Stato di provenienza. Se il requisito da accertare è la sufficienza della copertura assicurativa rispetto al rischio come regolato nello Stato di destinazione è segno che, da un lato, il legislatore comunitario non intende (ancora) interferire con l’applicazione dei regimi di responsabilità civile locali; il che potrebbe essere considerato coerente rispetto allo strumento offerto dal criterio generale di individuazione della legge applicabile ai fatti illeciti in Europa (in casi internazionalmente connotati); il criterio c’è ed è ben collaudato: si applica la legge del paese in cui il danno si verifica, indipendentemente dal paese nel quale è avvenuto il fatto che ha dato origine al danno e a prescindere dal paese o dai paesi in cui si verificano le conseguenze indirette di esso (art. 4.1 Reg. 864/2007 sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali)28. In questa prospettiva l’esistenza di criteri uniformi a livello europeo di determinazione della legge applicabile, quale strumento di attenuazione del tasso di incertezza e imprevedibilità giuridica dell’esito dei contenziosi, è sicuramente un fattore di armonizzazione indiretta del mercato. Ma
d’altra parte accertare se una copertura assicurativa straniera è sufficiente anche rispetto a rischi che saranno determinati (nella loro configurazione giuridica) da un assetto regolamentare diverso da quello di origine (quanto a selezione di danni risarcibili, criteri di imputazione, liquidazione del danno) potrebbe rivelarsi operazione meno semplice del previsto. Nel contesto di un lento ma progressivo avanzamento dell’esercizio delle competenze dell’Unione nel settore della sanità e della salute (anche accompagnato da tentativi per quanto incerti di costruzione di strumenti concettuali – come il principio di precauzione – per la valutazione della prudenza delle condotte), se un’operazione pensata a Bruxelles e affidata all’attuazione statale come passaggio essenziale per la realizzazione di una libertà di mercato si rivela operazione difficile, potrebbe conseguirne un giudizio di insufficienza (non delle garanzie assicurative, ma) dello strumento-direttiva per come concepito. Il che potrebbe aprire un nuovo scenario di intervento normativo, che oggi pare solo molto indirettamente evocato dalle prescrizioni che si occupano di qualità, di migliori pratiche, di necessità di codici uniformi di condotta e comportamento, di ispirazione agli aggiornamenti (anche) normativi ed etici, per poi saltare (omesso il medio della regola di responsabilità civile) all’obbligo di assicurazione29.
Quindi se un paziente, anche se non cittadino italiano ma residente in Italia, viene trattato in Italia da un medico straniero e il danno alla salute si concretizza sempre in Italia perché il paziente ivi è rimasto, si applicherà il regime italiano; il diritto italiano si applicherà anche qualora il paziente residente in Italia sia stato trattato all’estero, per es. in virtù del diritto comunitario di mobilità transfrontaliera, ma abbia fatto ritorno in Italia e si siano concretizzate qui le conseguenze dannose dirette della cura infruttuosa.
Per calzanti considerazioni sullo spostamento di accento dalla natura speciale delle prestazioni del professionista, come da tradizione culturale italiana, alla loro dimensione di servizio valutabile economicamente in un contesto di mercato europeo v. ancora Franzoni, op. cit., 6 ss.
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t a v r Osservatorio normativo e internazionale Osservatorio normativo e internazionale sse ati o rm z Diritti della persona e tutela no rna e t della salute nella nuova in Costituzione di Ciudad de México Luigi Gaudino
Professore nell’Università di Udine
Sommario: 1. La riforma istituzionale messicana. – 2. I diritti della persona nella Costituzione della nuova entità federativa (Ciudad de México). – 2.1. Dignità e uguaglianza, libertà. – 2.2. La salute. – 3. Le reazioni del Governo centrale.
Abstract: Tra il 2016 e il 2017, a seguito di una storica riforma istituzionale, Ciudad de Mexico è diventata un’entità federativa e si è dotata di una propria Costituzione. In questo articolo si passano in rassegna i principali diritti umani, sanciti dalla nuova Carta, con particolare riguardo ai temi della salute. Between 2016 and 2017, an historical political reform has converted Mexico City into a federative entity, with her own Constitution. This article reviews the main human rights enshrined in the new Charter, with particular focus on health issues.
In particolare, l’art. 44 di questo testo dichiara la Ciudad de Mexico “entidad federativa sede de los Poderes de la Unión y Capital de los Estados Unidos Mexicanos”. Il Distrito Federal muta così ufficialmente il proprio nome in Ciudad de Mexico (CDMX); assume lo status di entità federale ed è al contempo Capitale degli Stati uniti del Messico2. L’entidad federativa – afferma l’art. 122 del Decreto − gode di autonomia e viene chiamata a dotarsi di una propria Costituzione, rispettosa dei
Il fatto di essere sede del potere federale giustifica la scelta di non riconoscere alla Ciudad de Mexico la qualifica di Stato (cfr. il documento della Comisión Especial para la Reforma Política del Distrito Federal, in http://aldf.gob.mx/comision-especial-reforma-politica-distrito-federal-737-1.html). Informazioni sulle ragioni storiche – di carattere politico-militare – che, nel passato, avevano indotto a non riconoscere l’autonomia di CDMX, nonché sulle scelte operate con la riforma, sono offerte da Cárdenas Gracia, Comentario sobre la reforma política de la Ciudad de México, in Cuestiones Constitucionales. Revista Mexicana de Derecho Constitucional, 2017, 368 ss; 385 (reperibile on line: revistas.juridicas.unam. mx); v. anche Bátiz Vázquez, Sentido y logros de la nueva constitución, in DFensor, Revista mensual de derechos humanos de la Comisión de Derechos Humanos del Distrito Federal, 2017, 3, 47 ss. (il fascicolo − La Constitución de la Ciudad de Mexico desde la perpsectiva de derechos humanos – è dedicato interamente alla nuova Carta, ed è reperibile al sito: http:// cdhdf.org.mx/revista-dfensor/).
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1. La riforma istituzionale messicana Il 29 gennaio 2016 è stato pubblicato, sul Diario Oficial de la Federación, una complessa riforma costituzionale: il “Decreto por el que se declaran reformadas y derogadas diversas disposiciones de la Constitución Política de los Estados Unidos Mexicanos, en materia de la reforma política de la Ciudad de México”1.
http://www.dof.gob.mx/avisos/2480/SG_290116_vesp/ SG_290116_vesp.html.
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principi della Costituzione federale nonché di una serie di indicazioni dettate dal medesimo decreto di riforma. A tal fine, viene istituita un’Assemblea Costituente, secondo regole contenute negli articoli transitorios VII, VIII e IX del Decreto3. Insediata il 15 settembre 2016, l’Assemblea Costituente ha approvato, il 31 gennaio 2017, la Constitución Política De La Ciudad De México, pubblicata nella Gaceta Oficial del successivo 5 febbraio e destinata a entrare in vigore – tranne in alcune sue parti − il 17 settembre 20184.
2. diritti della persona nella Costituzione della nuova entità federativa (Ciudad de México) Nelle parole dei promulgatori, la Costituzione della CDMX è la Carta più giovane, progressista e avanzata di tutta l’America latina5; una Costitu-
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zione che − nonostante l’esclusione di alcuni diritti, pur presenti nel progetto originario – risulta “ambiziosa”6, ed è indicata come “un esempio da seguire”7. In realtà, non tutti condividono tale entusiasmo8. Le censure sembrano provenire in gran parte dagli ambienti cattolici, estremamente critici sulle scelte operate, soprattutto in tema di autodeterminazione delle persone; scelte che non tutelerebbero adeguatamente la vita umana9. Si accusa la Carta di seguire i passi del “chavismo” (con riferimento all’esperienza del Venezuela di Hugo Chavez) e di riconoscere “falsi diritti”10; si definisce la Costituzione “assassina”: documento illegittimo, frettoloso, ricettario di ideologie e di assurdità giuridiche11. Posizioni che paiono bilanciarsi con quelle di chi, da sinistra, critica radicalmente il processo
Nella pagina che El País del 2 febbraio 2017 ha dedicato all’approvazione della carta si dà conto dei conflitti in seno all’Assemblea Costituente e di come questi abbiano portato a escludere riferimenti espliciti all’aborto, al matrimonio omosessuale, all’uso della marihuana a scopi ricreativi: Dabdoub, La ambiciosa Constitución de Ciudad de México pierde fuerza, in http://internacional.elpais.com/internacional/2017/01/31/mexico/1485892800_595387.html. 6
La Costituente figura composta da cento membri: sessanta eletti con voto popolare; ventotto eletti dal Congresso federale (quattordici dal Senato e quattordici dalla Camera); sei membri sono stati nominati dal Presidente della Repubblica e altri 6 dal Capo del Governo della Ciudad de Mexico. La partecipazione dei cittadini è stata incentivata mediante la possibilità di presentare proposte, anche su una piattaforma elettronica; l’elenco delle proposte avanzate dai cittadini è reperibile alla pagina: http://gaceta.diputados.gob.mx/ ACCM/GP/propuesta10.html. La formula sulla composizione dell’Assemblea è stata da subito oggetto di critiche (v. ad esempio: Cárdenas Gracia, op. cit., 382 ss., secondo il quale si tratta di una limitazione della sovranità popolare, tipica delle costituzioni miste predemocratiche; v. anche Cárdenas Gracia, Breve análisis crítico de la Constitución de la Ciudad de México, in Dfensor, 2017, 3, 35 ss.). Il meccanismo ha determinato una sovrarappresentazione dei partiti conservatori (Partido Revolucionario Institucional e affini) ma non ha impedito il formarsi di una maggioranza progressista: Jusidman Rapoport, Reflexiones sobre el nuevo pacto social, económico y cultural en la Ciudad de México, in DFensor, 2017, 3, 23 . 3
http://dof.gob.mx/nota_detalle.php?codigo=5470989&fecha=05/02/2017.
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Sono le parole di esponenti dell’amministrazione del Presidente Miguel Ángel Mancera (indipendente, ma eletto da una coalizione di sinistra), riportate in Nueva Constitución de la Ciudad de México despierta polémica (https://mundo. sputniknews.com/americalatina/201702081066782631-mexico-constitucion-polemica/). V. anche l’editoriale La Constitución Política de la Ciudad de México: progresista y de avanzada, in DFensor, 2017, 3, 3.
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Si vedano le dichiarazioni di alcuni deputati e costituzionalisti riportate, nell’edizione in spagnolo del New York Times del 4 febbraio 2017, da Franco y Albinson Linares, Ciudad de México aprueba su primera constitución y estrena nuevos poderes, in https://www.nytimes.com/es/2017/02/04/ ciudad-de-mexico-aprueba-su-primera-constitucion-y-estrena-nuevos-poderes/.
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V., ad esempio, quanto riferisce Riquelme, 7 puntos polémicos alrededor de la Constitución de la CDMX, sul numero del 14 gennaio 2017 di El Economista (http://eleconomista. com.mx/sociedad/2017/01/14/7-puntos-polemicos-alrededor-constitucion-cdmx).
8
Casciano, La nuova Costituzione dello Stato della Città del Messico e la sfida mancata del diritto alla vita (http://www. vitanews.org/?s=la+nuova+costituzione+dello+stato): l’a. parla di “accanimento ideologico” e stigmatizza il mancato dibattito intorno al diritto alla vita (dibattito che avrebbe dovuto condurre al ripudio dell’aborto). 9
Hernández, La nueva Constitución de la Ciudad de México sigue los pasos del “chavismo”, in http://www.actuall.com/entrevista/familia/la-nueva-constitucion-la-ciudad-mexico-sigue-los-pasos-del-chavismo/.
10
Così, esplicitamente, l’Editorial: Constitución asesina, apparso sul settimanale dell’Arcidiocesi messicana del 2 febbraio 2017 (http://www.desdelafe.mx/apps/article/templates/?a=7101). 11
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costituzionale seguito e ritiene altresì insufficienti i diritti riconosciuti dalla Carta12. Per chi si è preso la briga di contarli, sono ben cinquanta i diritti umani garantiti dalla Costituzione della CDMX13. In questa breve nota informativa ci limiteremo a segnalare ai lettori i passaggi che appaiono maggiormente suscettibili di influire – direttamente o indirettamente – sui temi della salute. 2.1. Dignità e uguaglianza, libertà Dignità, uguaglianza e libertà sono termini ricorrenti nella nuova Carta, che si coniugano più volte fra loro − a partire dal preambolo − e fungono da sfondo e collegamento per tutti gli altri diritti riconosciuti dalla Carta. La dignità umana è definita – all’inizio dell’art. 3, dedicato ai principi guida – “principio rector supremo y sustento de los derechos humanos”. Lo stesso articolo dichiara la protezione dei diritti umani fondamento della Costituzione stessa; la garanzia e il rispetto di essi è guida per ogni attività pubblica. Dignità e uguaglianza sono protetti nei confronti di qualsiasi discriminazione14. A raf-
Si vedano le dichiarazioni di Guillermo Andrade, esponente di Nueva Constituyente Ciudadana y Popular (NCCP), riportate in Nueva Constitución de la Ciudad de México despierta polémica, cit.; critico anche Cárdenas Gracia, Breve análisis .., op. cit., 37 ss., che sottolinea come molti passaggi della Carta ne testimonino l’impronta “neoliberal”, ed elenca le insufficienze in molteplici campi (minimo di reddito garantito, disobbedienza civile, lotta alla corruzione …). 12
13 Encinas Rodríguez, La Carta de Derechos de la Constitución de la Ciudad de México, in Dfensor, 2017, 3, 6 ss.; Los 50 Derechos Humanos de la Nueva Constitución de la Ciudad de México, in https://homozapping.com.mx/2017/02/los-50derechos-humanos-de-la-nueva-constitucion-de-la-ciudadde-mexico/; v. anche Carretto, Punto por punto, las claves de la Constitución de la Ciudad de México, in http://expansion. mx/nacional/2017/02/02/punto-por-punto-las-claves-de-laconstitucion-de-la-ciudad-de-mexico.
Art. 5, C, 1: “Se prohíbe toda forma de discriminación, formal o de facto, que atente contra la dignidad humana o tenga por objeto o resultado la negación, exclusión, distinción, menoscabo, impedimento o restricción de los derechos de las personas, grupos y comunidades, motivada por origen étnico o nacional, apariencia física, color de piel, lengua, género, edad, discapacidades, condición social, situación migratoria, condiciones de salud, embarazo, religión, opiniones, preferencia sexual, orientación sexual, identidad de género, 14
forzare tali dichiarazioni v’è l’esplicita affermazione del Diritto alla riparazione integrale per ogni violazione dei diritti umani, da attuarsi mediante tutti gli strumenti: restituzioni, risarcimento, riabilitazione e così via15. Degno di significato è pure il ricorrente richiamo alla laicità: presente sin dal preambolo, e poi ribadito là dove si parla della forma di governo (art. 1, 3° co.; art. 28); del diritto alla sessualità (art. 6, E); dell’istruzione (art. 8, A, 3° co.) − con riguardo a quest’ultimo tema, vanno sottolineati pure i passaggi dedicati alla cultura, alla scienza, alla ricerca (art. 1, co. 6; art. 8). 2.2. La salute Salute e integrità della persona sono oggetto di una molteplicità di disposizioni. Il Capitolo II della Carta si apre con l’affermazione dei diritto all’autodeterminazione (art. 6, A), quale diritto umano fondamentale, condizione per poter esercitare pienamente la personalità e poter vivere con dignità. Ma è la dichiarazione successiva a essere, sin dal suo apparire, oggetto di discussione: “La vida digna contiene implícitamente el derecho a una muerte digna”: frase che viene unanimemente interpretata come un’apertura verso l’eutanasia16 e
expresión de género, características sexuales, estado civil o cualquier otra. También se considerará discriminación la misoginia, cualquier manifestación de xenofobia, segregación racial, antisemitismo, islamofobia, así como la discriminación racial y otras formas conexas de intolerancia. La negación de ajustes razonables, proporcionales y objetivos, se considerará discriminación”. Art. 5, C, 1: “La reparación integral por la violación de los derechos humanos incluirá las medidas de restitución, indemnización, rehabilitación, satisfacción y garantías de no repetición, en sus dimensiones individual, colectiva, material, moral y simbólica, conforme a lo previsto por la ley”. 15
16 V. le dichiarazioni di Jesús Ortega Martínez, membro della Costituente, esponente del Partido de la Revolución Democrática (PRD), all’Huffington Post dell’11 gennaio 2017: secondo l’esponente politico – pur nell’attesa di una legge secondaria − il diritto all’eutanasia sarebbe già garantito dalle norme costituzionali sull’autodeterminazione, sul libero sviluppo della personalità e sulla morte degna (Morales, Cómo ejercer tu derecho a la eutanasia en la CDMX, in http://www. huffingtonpost.com.mx/2017/01/11/como-ejercer-tu-derecho-a-la-eutanasia/); v. anche Lucario, La muerte digna
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che va letta in collegamento con l’affermazione del diritto (art. 11) alle cure palliative; tutto ciò in una realtà che, ricordiamo, già riconosce appieno l’autonomia del paziente: in particolare, con il diritto a rifiutare le cure e quello a formulare volontà anticipate di trattamento17. Il diritto a una vida digna è proclamato – all’interno dell’art. 9, intitolato alla “cittadinanza solidale” – nelle sue molteplici sfaccettature, che vanno dal diritto all’alimentazione, al diritto alla salute, sino al diritto all’accesso all’acqua potabile (definita “bien público, social y cultural” e, in quanto tale, inalienabile, imprescrittibile, irrinunciabile ed essenziale per la vita, e perciò soggetto a gestione pubblica senza fini di lucro: art. 9, F, 3° co.). Il diritto all’integrità fisica e psichica (art. 6, B) si completa con il riconoscimento del diritto alla sessualità, senza alcuna discriminazione (art. 6, E). Il tema della riproduzione viene affrontato sancendo il diritto a decidere in maniera libera, volontaria e informata, se avere o meno dei figli, con chi e quanti e con quale intervallo fra di essi, in forma sicura, senza alcuna coazione o violenza; tutto ciò comporta l’accesso al più alto livello di salute riproduttiva, compresa la riproduzione assistita (art. 6, F). Qui il tema “caldo” è, ovviamente, quello dell’aborto. L’interruzione della gravidanza – disciplinata nella CDMX dal 200718 − non figura citata esplicitamente nella Carta; d’altra parte, la proposta di inserire in Costituzione l’affermazione del diritto alla vita risulta essere stata respinta proprio al fine di evitare che ciò finisse per minacciare la normativa che consente l’interruzione
se convierte en un derecho dentro de la Constitución de la CDMX, in http://www.huffingtonpost.com.mx/2017/01/06/ la-muerte-digna-se-convierte-en-un-derecho-dentro-de-laconstitu_a_21649515/; Stettin, Derecho a la eutanasia va a la Constitución de CdMx, in http://www.milenio.com/df/ derecho_eutanasia-constitucion_cdmx-constituyente-milenio_noticias_0_878312464.html. Ley de voluntad anticipada para el distrito federal, del 7 gennaio 2008 (http://www.aldf.gob.mx/archivo-077346ece61525438e126242a37d313e.pdf). 17
Decreto por el que se reforma el Código Penal para el Distrito Federal y se adiciona la Ley de Salud para el Distrito Federal, 26 aprile 2007 (http://www14.df.gob.mx/virtual/wp_inmujeres/interrupcion-legal-del-embarazo/que-dice-la-ley/). 18
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della gravidanza19: una scelta che lascia eventuali future decisioni in mano al legislatore ordinario20. Nella costruzione di una società non discriminante e pluralista – ove un particolare riguardo è dedicato alle popolazioni indigene − v’è spazio pure per la tutela delle pratiche mediche tradizionali (art. 8, C, 4° co.; art. 9, D, 3° co., lett. e). Si afferma il diritto allo sport e all’attività fisica, come funzionale alla promozione della salute e dello sviluppo della personalità (Art. 8, E, lett. a). In maniera più diretta, il diritto alla salute è oggetto − all’interno del progetto di “cittadinanza solidale” (art. 9) – di una molteplicità di affermazioni davvero significative (art. 9, D). Anzitutto, il riconoscimento del diritto al livello più elevato possibile di salute fisica e mentale si coniuga con il diritto all’accesso alle migliori pratiche mediche e ai servizi sanitari di qualità, con l’avanzamento delle conoscenze scientifiche, con le politiche attive di prevenzione, con il diritto di chiunque alle cure mediche urgenti. Salute e dignità si completano a vicenda (art. 9, D, 4° e 6° co.). Gli utenti dei servizi sanitari hanno diritto a un trattamento dignitoso, in cui la qualità tecnica deve accompagnarsi al calore umano. Le cure devono esse tempestive ed efficaci. Le indagini diagnostiche devono essere condotte al fine di determinare quali siano gli interventi strettamente necessari e debitamente giustificati. I pazienti hanno il diritto di godere dei benefici del progresso scientifico e delle sue applicazioni. Si afferma il diritto del paziente all’informazione sulla sua condizione sanitaria e sulle alternative di trattamento, nonché quello di esprimere il consenso e di cercare una seconda opinione. È un diritto fondamenta-
Così, le dichiarazioni esplicite di Olga Sánchez (giurista, nominata all’assemblea costituente da Miguel Ángel Mancera Espinosa, capo del governo di CDMX), riportate da Olson, Lista la Constitución de la Ciudad de México, in http://www. excelsior.com.mx/comunidad/2017/01/31/1143256. 19
20 Il livello dello scontro è reso evidente dalle affermazioni che compaiono nell’ Editorial: Constitución asesina, cit.: “Las fracciones mayoritarias en la constituyente evadieron la durísima realidad de sangre y crueldad en la Ciudad de México. Realidad que esconde la inmoral figura de la eutanasia y el lucrativo y abominable negocio del aborto, que es peor que el del narcotráfico” (enfasi aggiunta).
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le – da garantire in qualsiasi fase della vita − quello all’autodeterminazione personale; vanno rispettate l’autonomia del soggetto e le sue decisioni relative a trattamenti o procedure che mirino a prolungare inutilmente la vita; proteggendo comunque, in ogni momento, la sua dignità. Sanità pubblica e privata devono rispettare i diritti sessuali e riproduttivi di tutte le persone e fornire assistenza senza discriminazioni (art. 9, D, 5° co.). La nuova Costituzione si spinge ad affermare il diritto all’uso medico e terapeutico della cannabis sativa, indica, americana o della marihuana e dei suoi derivati (art. 9, D, 7° co.). È un diritto costituzionale l’accesso a un sistema sanitario pubblico (art. 9, D, 2° e 3° co.) che offra un servizio universale, equo, gratuito, sicuro, di qualità e aperto a tutti; sistema pubblico del quale si elencano i compiti: migliorare la qualità e la durata della vita, ridurre i rischi sanitari, la morbilità e la mortalità. A questi fini, si indica pure il programma che le autorità della CDMX dovranno progressivamente realizzare: 1) offrire una copertura universale di servizi e infrastrutture mediche e ospedaliere, a cominciare dalle aree più svantaggiate, e l’accesso gratuito ai farmaci essenziali; 2) porre in essere le condizioni necessarie affinché le istituzioni di sanità pubblica locale allestiscano servizi sanitari, di assistenza sociale e sanitaria in strutture adeguate, con personale sufficiente e qualificato, dotato delle attrezzature necessarie; 3) offrire un ambiente sano, spazi pubblici, attività culturali e sportive che migliorino la qualità della vita; incoraggiare stili di vita sani, disincentivando la violenza, le dipendenze e la vita sedentaria; 4) prevenire, trattare e controllare le malattie trasmissibili e non, quelle croniche e quelle infettive; 5) sviluppare la ricerca scientifica, salvaguardare e promuovere la medicina tradizionale indigena. La salute torna a essere menzionata quando, disegnando la Ciudad productiva e affermando il diritto al lavoro, si impegnano le autorità della Ciudad a promuovere la protezione dei lavoratori dai tutti i pericoli, compresi quelli psicosociali ed ergonomici, e ad assicurare che il lavoro produttivo si svolga in un ambiente idoneo a garantire la sicurezza, la salute, l’igiene e il benessere dei lavoratori.
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L’art. 11 è intitolato alla “Città inclusiva”. Al suo interno troviamo (punto F) i diritti delle persone anziane, il cui elenco comprende il diritto a servizi sanitari specializzati e, in particolare, alle cure palliative. Grande attenzione è dedicata (art. 11, G) alle persone con disabilità, a favore delle quali si impegnano, in particolare, le autorità ad adottare ogni mezzo necessario per salvaguardare l’esercizio integrale dei loro diritti e il rispetto della loro volontà.
3. La reazione del Governo centrale La reazione del governo centrale – espressione del Partido Revolucionario Institucional, sotto la presidenza di Enrique Peña Nieto − non si è fatta attendere. Secondo notizie giornalistiche, la Procuraduría General de la República (PGR) – che in Messico è organo del potere esecutivo – figura aver impugnato, insieme alla Presidenza della Repubblica, la Costituzione della CDMX rilevando ben 39 punti di incostituzionalità, tra i quali la disciplina dei diritti umani che altererebbe il sistema costituzionale federale21. Alcuni punti della Carta risultano altresì essere oggetto di un ricorso – fondato su presunte carenze nella tutela dei diritti − presentato dalla Comisión Nacional de Derechos Humanos22.
21 La notizia è riportata dal quotidiano El Siglo del Torreón del 10 marzo 2017 (https://www.elsiglodetorreon.com.mx/ noticia/1320018.impugna-la-pgr-constitucion-local.html); v. anche http://www.animalpolitico.com/2017/03/pgr-impugna-constitucion-cdmx/. Sulle diverse azioni di incostituzionalità avanzate, v. Impugnaciones a la Constitución de la Ciudad de México, in Dfensor, 2017, 3, 52 ss. 22 Il ricorso può essere letto alla pagina: http://www.cndh. org.mx/Acciones_Inconstitucionalidad. Interessante, a questo proposito, la posizione assunta dalla Comisión de Derechos Humanos del Distrito Federal, la quale ha sottoposto all’attenzione della Suprema corte un lungo documento a difesa della Carta della CDMX; il documento – sintetizzato in Documento presentado por la CDHDF ante la SCJN para la defensa de la Constitución Política de la Ciudad de México, in Dfensor, 2017, 56 ss. − è scaricabile al link http://bit.ly/2nrGFIM (Escrito-CDHDF-AI-15-2017-y-acumuladas.pdf).
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Infine, secondo il Tribunal Superior de Justicia de la Ciudad de México, la Carta conterrebbe norme tali da violare l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario locale23. A questo punto, la parola passa alla Suprema Corte de Justicia de la Nación.
Osservatorio normativo e internazionale
Dal nostro punto di vista, l’esperienza della CDMX è meritevole di essere seguita con attenzione, non soltanto per ciò che riguarda i diritti da essa solennemente proclamati ma, soprattutto, per verificare come questi verranno effettivamente garantiti nei tempi a venire in una realtà che – com’è noto – appare da più punti di vista problematica24.
Come ricorda Cárdenas Gracia, Comentario..., op. cit., 387: “No basta el reconocimiento más amplio de los derechos humanos en la Ciudad de México si no se cuenta con las garantías sustantivas y procesales para que ese reconocimiento se acerque a la realidad”. Sugli strumenti contenuti nella Carta e miranti a orientare l’attività di governo verso il rispetto e la realizzazione dei diritti umani, v. Padierna Luna, Constitución de la Ciudad de México. Una Carta para los Derechos humanos, in Dfensor, 2017, 3, 43 ss. 24
La notizia è riportata su Expansión del 10 marzo 2017: La PGR impugna ante la suprema corte la constitución de la CDMX (http://expansion.mx/nacional/2017/03/10/la-pgrimpugna-ante-la-suprema-corte-la-constitucion-de-la-cdmx). 23
Responsabilità Medica 2017, n. 2
t a v r Osservatorio normativo e internazionale Osservatorio normativo e internazionale sse ati o rm z Liability and Regulatory no rna e t Models for Managing in “Never Events” Nicolas Terry
Professor of Law, Indiana University McKinney School of Law, USA
Abstract: “Preventable adverse events” are now the third leading cause of death in the U.S.1. Almost twenty years after the publication of To Err Is Human2, structural problems combined with patient and provider heterogeneity conspire to make solutions to the medical error epidemic difficult to formulate. Particularly shocking are the numbers of adverse events caused by almost 500,000 health care–associated infections (HAIs) per year, at an annual cost of $9.8 billion3. Not all HAIs are preventable, but some are. Those HAIs fit the definition of “never events,” that the U.S. Agency for Healthcare Research and Quality4 defines as “adverse events that are unambiguous (clearly identifiable and measurable), serious (resulting in death or significant disability), and usually preventable.” Logic suggests that never events are a class of medical error that should be reducible.
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In the U.S., 1 in 5,500 operations4 involve a “retained object,” such as a surgical sponge or instrument. Prudent defense lawyers likely will settle any resulting litigation. Those who are braver or foolhardy have helped create some interesting jurisprudence. For example, courts frequently decide that these are cases of “obvious” negligence, for which the usual medical malpractice requirement of expert testimony is unnecessary (Hernandez v. Yale Medical Group, 2017 WL 1240484 (Conn. Sup. Ct)). A small number of courts go
http://www.bmj.com/content/353/bmj.i2139
http://www.nationalacademies.org/hmd/~/media/Files/Report%20Files/1999/To-Err-is-Human/To%20Err%20 is%20Human%201999%20%20report%20brief.pdf
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http://jamanetwork.com/journals/jamainternalmedicine/fullarticle/1733452
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In 2011, The National Quality Forum1 identified 29 different “never events,” grouped into seven categories. A study published in 2013 estimated that there were over 4,000 never events each year in the USA. Only half the states require the reporting of medical errors and only a handful of states (such as Minnesota2) demand the type of granular information necessary to analyze “never events.” This is not a phenomenon unique to the U.S. For example, in the UK almost 400 “serious Incidents” appeared on the Never Events List 2015/163, including examples of wrong site surgery, retained objects, and “wrong route” administration of medication.
https://psnet.ahrq.gov/primers/primer/3/never-events
http://www.qualityforum.org/WorkArea/linkit.aspx?LinkIdentifier=id&ItemID=69573
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http://www.health.state.mn.us/patientsafety/ae/
https://improvement.nhs.uk/uploads/documents/Never_ events_March_2017.pdf
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https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25081938
Responsabilità Medica 2017, n. 2
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further and decide that the existence of a retained object does not even require a jury to decide the issue, because the existence of such a never event constitutes malpractice as a matter of law (negligence per se). However, most jurisdictions favor a middle ground, holding that the existence of the retained object creates an “inference of negligence,” using the quirky Anglo-American res ipsa loquitur doctrine (Nazar v. Branham, 291 S.W.3d 599 (Ky. 2009)). Unfortunately, decided cases, while highlighting some of the issues, have not slowed the incidence of “never events.” Today, both the U.S. and UK approach “never events” as system failures, rather than blameworthy individual failures. In the UK, the mandatory introduction of the WHO Surgical Safety Checklist5 in 2010 was expected to substantially reduce the number of “never events.” However, this did not occur, leading to recommendations from the Surgical Never Events Taskforce6 that led to the promulgation of
Osservatorio normativo e internazionale
National Safety Standards for Invasive Procedures7 designed to foster system-based approaches to reduce the number of never events. U.S. healthcare rotates around reimbursement. Therefore, it should not be a surprise that the U.S. regulatory response to “never events” was to refuse payment. The Deficit Reduction Act of 2005, §5001(c) and, subsequently, the Affordable Care Act of 2010, §2702 authorized Provider-Preventable Conditions8 regulations that deny healthcare providers any reimbursement for treating patients who suffer “never events.” The cultures and systems of healthcare providers must change substantially for “never events” to be eradicated. So far it is unclear whether regulation will be any more effective than litigation in achieving that goal. Twitter: @nicolasterry Podcast: The Week in Health Law, TWIHL.com
https://improvement.nhs.uk/uploads/documents/natssips-safety-standards.pdf
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http://www.who.int/patientsafety/safesurgery/tools_resources/SSSL_Checklist_finalJun08.pdf
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https://www.england.nhs.uk/2014/02/surgical-safety/
Responsabilità Medica 2017, n. 2
https://www.gpo.gov/fdsys/pkg/FR-2011-06-06/pdf/201113819.pdf
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