Familia 6/2021

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2021 6 Familia

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ISSN 1592-9930

amilia

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Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa

Rivista bimestrale di Classe A dal 2016

novembre - dicembre ,2021

D iretta da Salvatore Patti Tommaso Auletta, Mirzia Bianca, Francesco Macario, Lucilla Gatt (vicedirettore), Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Enrico Quadri, Carlo Rimini, Giovanni Maria Uda

www.rivistafamilia.it

IN EVIDENZA  Alla ricerca delle origini di un fallimento: la comunione dei beni in Italia Carlo Rimini

 Trasferimenti immobiliari immediati in sede di separazione e divorzio Emanuela Andreola

 Spazi Etici per i minori Luisella Battaglia, Lucilla Gatt, Assuntina Morresi, Paola Grimaldi

Pacini



Indice

Parte I Dottrina Carlo Rimini, Alla ricerca delle origini di un fallimento: la comunione dei beni in Italia......................» 779 Tommaso Mauceri, Il rapporto tra l’atleta minore d’età e l’agente sportivo.............................................» 789 Tania Bortolu, Prenuptial agreements e cohabitation contracts tra concezione pubblicistica del matrimonio e autonomia nella regolamentazione dei rapporti di natura “familiare”............................» 805 Parte II Giurisprudenza Emanuela Andreola, Trasferimenti immobiliari immediati in sede di separazione e divorzio (nota a Cass. civ., Sez. Un., 29 luglio 2021, n. 21761).............................................................................» 829 Donato Maiorino, La Parental Alienation da sindrome a concetto giuridico: l’irragionevole “colpa d’autore” delineata dalle Corti di merito (nota a Cass. civ., sez. I, ord., 17 maggio 2021, n. 13217)........................................................................................................................................................» 865 Francesco Merola, La Cassazione torna ad occuparsi della responsabilità del fondo patrimoniale per debiti contratti per “scopi estranei” ai bisogni della famiglia (nota a Cass. civ., sez. III, 8 febbraio 2021, n. 2904)....................................................................................................................................... » 891 Vera Sciarrino, Impugnazione, opposizione, accettazione o accettazione “in nome e per conto”: ancora dubbi sulla natura dell’azione ex art. 524 c.c. (nota a Trib. Milano, sez. IV, 5 gennaio 2021, n. 42)..........................................................................................................................................................» 911 Parte III L’opinione di Luisella Battaglia, Lucilla Gatt, Assuntina Morresi, Paola Grimaldi, Spazi Etici per i minori...................» 933

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Carlo Rimini

Alla ricerca delle origini di un fallimento: la comunione dei beni in Italia Sommario :

1. Premessa. – 2. “Usque ad acuculam capitis in domo mariti deponere”. – 3. Una storia portata dal Maestrale. – 4. “L’ha designata padrona”. – 5. Ganancias, benefecios e acquêts. – 6. Un mostro con due teste.

It is a well-accepted truth that the community of property regime is definitively a failure in Italy, notwithstanding it is the statutory regime. A very high percentage of spouses living in Italy choose the separation of property regime. The paper tries to find out the deep reasons of this failure also looking at the history of the matrimonial property regime in Europe showing where the Italian statutory regime diverts from its two models: the French and the Spanish systems.

1. Premessa A distanza di quasi mezzo secolo dalla sua introduzione come regime patrimoniale della famiglia, si può dire che la comunione dei beni sia il più vistoso fallimento della riforma del diritto di famiglia del 1975. La “fuga dalla comunione” è un fenomeno sotto gli occhi di tutti. Al di là dei numeri forniti dall’Istat sulla sempre crescente percentuale di matrimoni celebrati con la scelta della separazione dei beni (numeri sui quali torneremo innanzi), è evidente a tutti coloro che si occupano di diritto di famiglia che la comunione dei beni è ormai un regime patrimoniale del tutto minoritario, che si applica quasi esclusivamente alle famiglie a basso reddito, nelle quali vi è quindi poco o nulla da mettere in comune. Vale la pena di cercare di capire quali siano le ragioni profonde di tale fallimento. Sarà un viaggio nella storia della comunione dei beni in Italia e in Europa, viaggio lungo il quale mi permetterò qualche divagazione.

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2. “Usque ad acuculam capitis in domo mariti deponere”. È noto che la comunione dei beni fra coniugi è estranea alla nostra tradizione giuridica. Non è certo un caso che essa sia stata introdotta come regime patrimoniale legale della famiglia in Italia solo con la riforma del 1975, pochi anni dopo l’introduzione del divorzio. Se il matrimonio è indissolubile, come è stato per secoli a sud delle Alpi, il coniuge più debole è tutelato dalla permanenza del vincolo e la condivisione del patrimonio familiare non è una questione rilevante. Al contrario, quando il vincolo matrimoniale diventa dissolubile, il regime patrimoniale della famiglia si erge a strumento essenziale di tutela e compensazione a favore del coniuge che dedica, in tutto o in parte, la propria vita alle esigenze familiari. Il venir meno, con il divorzio, della materiale condivisione quotidiana del patrimonio accumulato durante la vita comune fa sorgere l’esigenza di una sua equa distribuzione. In tutta Europa si sono diffusi regimi patrimoniali legali che realizzano una condivisione delle risorse accumulate durante il matrimonio tanto che si può ritenere che tale condivisione sia un tratto comune – e storicamente molto radicato – della famiglia matrimoniale europea. Le modalità operative sono però differenti. Nel Regno Unito, in realtà, non esiste un vero e proprio regime patrimoniale della famiglia, ma la condivisione viene effettuata al momento del divorzio (cioè quando il problema della tutela della parte debole diviene attuale e pressante), attraverso la cosiddetta equitable distribution. Anche in Germania, e negli ordinamenti che si sono sviluppati sotto l’influenza germanica, la condivisione viene effettuata solo al momento della fine del matrimonio attraverso il regime patrimoniale della Zugewinngemeinschaft. In Francia e in Spagna, invece, la comunione è immediata e fornisce una tutela a ciascun coniuge durante il matrimonio. Anche i sostantivi impiegati per indicare ciò che viene condiviso sono differenti: asset (cioè qualsiasi utilità economicamente valutabile) nel Regno Unito; Zugewinn (cioè qualsiasi incremento patrimoniale) in Germania; acquêt in Francia; in Spagna i sostantivi sono due, ganancias e beneficios. In ogni caso però la condivisione abbraccia qualsiasi cespite patrimoniale. L’Italia, fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, è stata estranea al contesto europeo: il matrimonio, sulla base del regime patrimoniale legale, non realizzava alcuna condivisione patrimoniale. Storicamente, il regime patrimoniale della famiglia in Italia era il sistema dotale: il più iniquo dei regimi. La moglie entrava nella famiglia del marito con un patrimonio che affidava completamente alla cura e all’amministrazione di quest’ultimo. La causa – nel senso civilistico del termine – della dote era, in sostanza, lo scambio fra il diritto che la moglie acquistava con il matrimonio ad essere mantenuta e assistita dal marito e il patrimonio che la moglie o la famiglia di lei attribuiva al marito al momento del matrimonio. Rappresentava anche una sorta di cauzione del rispetto da parte della moglie dei doveri matrimoniali e del dovere di rimanere fedele al marito, al suo fianco. La dote doveva infatti essere restituita dal marito solo se egli avesse commesso crimini orrendi,

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mentre certamente non doveva essere restituita alla moglie se lei stessa avesse deciso di lasciare la casa del marito. Questa caratteristica del regime dotale – che oggi appare del tutto odiosa – è ben espressa in una Costituzione del 331 d.C. di Costantino. È l’imperatore dell’Editto di Milano, colui che permise e favorì la diffusione del cristianesimo nell’Impero, colui che l’aquila volse contr’ al corso del ciel, l’Eguale agli apostoli. La storia, dunque, ce lo presenta come una persona perbene, non un terribile discriminatore del genere femminile. Eppure, ecco il testo della Costituzione di Costantino sul matrimonio e sulla dote, che possiamo leggere nel Codice teodosiano, scritto circa un secolo dopo: «Placet mulieri non licere propter suas pravas cubiditates marito repudium mittere exquisita causa velut ebrisoso aut aleatori aut mulierculario, nec vero maritis per quascumque occasiones uxores suas dimittere: Sed in repudio mittendo a femina haec sola crimina inquiri, si homicidam vel medicamentarium vel sepulcrorum dissolutorem maritum suum esse probaverit, ut ita demum laudata omnem suam dotem recipiat. Nam si praeter haec tria crimina repudium marito miserit, oportet eam usque ad acuculam capitis in domo mariti deponere et pro tam magna sui confidentia in insulam deportari. In masculis etiam, si repudium mittant, haec tria crimina inquiri conveniet, si moecham vel medicamentariam vel conciliatricem repudiare voluerint. Nam si ab his criminibus liberam eiecerit, omnem dotem restituere debet et aliam non ducere. Quod si fecerit, priori coniugi facultas dabitur domum eius invadere et omnem dotem posterioris uxoris ad semet transferre pro iniuria sibi illata»1. Questa immagine della donna che lascia la casa del marito – anche se egli la ha tradita con un’altra donna, purché non sia un omicida, un avvelenatore o un violatore di sepolcri – spogliata di tutta la sua dote (e quindi di tutto), dai piedi fino allo spillone con cui si lega i capelli (“usque ad acuculam capitis”) per essere deportata su un’isola (“in insulam deportari”) sarà un segno indelebile nel nostro diritto di famiglia per secoli. Era una consolazione modesta la pena del contrappasso che toccava al marito e alla seconda moglie di lui nel caso in cui egli avesse lasciato la prima moglie non colpevole di essere un’avvelenatrice, un’adultera o una mezzana: egli non solo doveva restituire la dote alla prima moglie, ma questa poteva invadere la sua casa e appropriarsi della dote della seconda moglie, che immaginiamo incolpevole, attonita di fronte a questa razzia. Quanto lontane sono le nostre radici dai valori di uguaglianza e pari dignità che la comunione dei beni incarna!

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Cod. Theod. 3,16,1: «È deciso che non sia lecito alla donna, presa da insani desideri, inviare il ripudio al marito, presentandolo come ubriacone o giocatore o donnaiolo, e neppure sia lecito ai mariti ripudiare le proprie mogli per qualsiasi ragione, ma la donna può inviare il ripudio solo se riuscirà a dimostrare che egli è un omicida, o avvelenatore o violatore di sepolcri, cosicché in questi soli casi venga lodata e riceva la sua dote. Infatti, se al di fuori di queste tre colpe avrà mandato il ripudio al marito, è necessario che lasci ogni cosa in casa del marito fino allo spillone del capo e vista la così grande fiducia in sé sia deportata in un’isola. Per quanto riguarda gli uomini, se inviano il ripudio, è necessario verificare l’esistenza di queste tre colpe, se vogliono ripudiare un’adultera o un’avvelenatrice o una mezzana. Poiché, se [il marito] abbia scacciato una donna non colpevole di questi crimini, deve restituire la dote e non prendere altra moglie. Se abbia fatto ciò, alla prima moglie viene concessa la facoltà di invadere la sua casa e di appropriarsi di tutta la dote della seconda moglie per l’offesa a lei inferta».

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3. Una storia portata dal Maestrale. Come è arrivata in Italia la comunione dei beni? Il primo regime di comunione dei beni documentato in Italia (in realtà in Sardegna) ha una evidente origine spagnola (in realtà aragonese) ed arrivò in Sardegna sospinto dal Maestrale. È una storia che vale la pena di ricordare a costo di divagare. I mercanti di Barcellona nel XIV secolo andavano alla conquista di nuove rotte commerciali: dalle coste aragonesi, alla Provenza, a Palermo, al Maghreb, fino a Smirne, Efeso e Focea. Occorreva però, lungo la rotta verso sud-est, una base dove fare cambusa e trovare riparo quando il Maestrale scendeva forte dal Golfo del Leone. Alghero e la vicina baia di Porto Conte, forse il più grande porto naturale del Mediterraneo, erano perfetti per questo scopo. Un riparo noto sin dal II sec., quando il geografo Tolomeo chiamò questa grande insenatura, protetta dall’immensa mole di Capo Caccia, Portus Nympharum (Porto delle Ninfe). Dopo i romani, arrivarono i saraceni, cacciati nell’824 d.C. dal Conte Isidoro (da allora la baia si chiama, appunto, Porto Conte). Poi arrivarono i pisani e dopo ancora i genovesi. Fino al pomeriggio del 27 agosto 1353. Pietro IV d’Aragona decise che la conquista di Alghero non poteva più essere rinviata. A metà agosto radunò una imponente flotta a Mahon, sull’isola di Minorca, di fronte a Barcellona. Cinquanta galee e cinque poderose cocche aspettarono il Maestrale per salpare: per arrivare ad Alghero sono centottanta miglia marine verso est. Il Maestrale arrivò impetuoso, come spesso succede, alla fine di agosto. Poco più di un giorno di navigazione e la flotta era ridossata a Porto Conte al comando dell’ammiraglio de Corbera. La flotta genovese era, invece, all’ancora all’Asinara, pronta a salpare per andare a proteggere la città. Il Passaggio dei Fornelli a sud dell’Asinara era impraticabile perché il Maestrale aveva alzato onde imponenti. Antonio Grimaldi, al comando delle sessanta galee genovesi, fu quindi costretto a tornare indietro e a circumnavigare l’Asinara. Poi scese veloce verso Capo Caccia, ma il ritardo consentì a venti galee veneziane al comando di Niccolò Pisani di unirsi ai catalani per dare manforte contro i nemici genovesi. La flotta di Pietro IV d’Aragona e quella degli amici veneziani si organizzarono al meglio, riparate a Porto Conte. Le cinque robuste cocche vennero lasciate dietro le galee aspettando l’arrivo dei genovesi. La mattina del 27 agosto le due flotte si scontrarono. Quando i genovesi finalmente doppiarono Capo Caccia, si trovarono davanti settanta galee. Per tutta la mattina la flotta comandata da Grimaldi sembrò comunque prevalere, poi però cambiò qualche cosa. Lontano dal campo di battaglia, il fato – che notoriamente sa guardare lontano – si schierò con i catalani, come un alleato inatteso. Assunse le vesti di una depressione formatasi fra le Baleari e la costa africana: davanti ad Alghero, dopo qualche ora di bonaccia, il Maestrale lasciò il posto allo Scirocco. Le cinque pesanti cocche aragonesi alzarono le vele e in pochi minuti, col vento in poppa, furono sul fianco della flotta genovese: un disastro per i liguri. Grimaldi fuggì verso nord con le sole venti galee superstiti. Da allora

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ad Alghero si parla catalano e i mercanti aragonesi per secoli hanno trovato ridosso dal Maestrale a sud di Capo Caccia, fino a quando l’asse delle rotte commerciali non si spostò definitivamente sull’Oceano Atlantico. Perché questa storia riguarda la comunione dei beni fra coniugi? Perché, assieme alle merci, sulle navi che attraversavano il Mediterraneo, allora viaggiavano cultura, costumi e leggi; non diffidenza, odio e paura come avviene purtroppo oggi. Alghero diventò nei secoli successivi alla battaglia di Capo Caccia un centro importantissimo per il commercio nel Mediterraneo e attirava mercanti non solo aragonesi, ma da tutta la costa occidentale, da Alicante a Marsiglia. Assieme ai mercanti, arrivavano le loro famiglie ed arrivarono anche le loro convenzioni matrimoniali.

4. “L’ha designata padrona”. Di una di queste convenzioni è rimasta una traccia su un antico documento redatto nel 1455, conservato nella Biblioteca universitaria di Sassari. Il contratto aveva la forma della ketubbah, il contratto matrimoniale ebraico. Gli sposi erano Bella e Salomone ben Zarach de Carcassona. Bella era figlia di Marwan ha-Seniri. Il matrimonio fu celebrato ad Alghero (nel testo del contratto si legge il nome catalano, L’Alguer)2. I Carcassona erano mercanti ebrei provenienti da Carcassonne in Provenza. Erano certamente la famiglia di mercanti più ricca e potente della Sardegna. Un documento attesta che Mosè de Carcassona, nel 1482, versò 8.150 lire in contanti per assicurarsi alcuni appalti regi. Con quella somma si potevano comprare circa 8.000 quintali di grano oppure 100 barche di medie dimensioni. È probabile che gli sposi del contratto matrimoniale del 1455 fossero i suoi genitori. Anche la sposa era figlia di un mercante di origini provenzali, discendente di un noto autore di poesie liturgiche ebraiche: Yishaq ben Yehuda ha-Seniri. Insomma, un mondo raffinato e colto di ricchi e potenti signori. Il testo della ketubbah si legge solo per frammenti. Alcuni di questi sono però sono illuminanti, schegge di sconcertante modernità: «E ha accettato il signor Selomoh, suddetto sposo, e ha aggiunto di suo 150 Lire… e sulla base di essa l’ha designata padrona su… immobili… 750 Lire nella moneta in circolazione qui nella città di Alghero…. se dovesse disgraziatamente venire a mancare donna Bella, la vergine summenzionata, e non lasciasse al signor Shelomoh discendenza in vita… suddetto, di restituire agli eredi di lei soltanto metà della ketubbah, mentre la metà retante… e manifestano il loro intento e la loro volontà che questa metà gli sia data in dono definitivo… Se dovesse venire a mancare

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A. Meir, La Ketubbah di Selomoh ben Zarch de Carcazzona ebreo sardo di origine provenzale, Alghero metà del XV secolo, in Gli ebrei in Sardegna nel contesto mediterraneo, Atti del convegno internazionale di Cagliari, 17-20 novembre 2008, in Materia Giudaica, XIV/1-2, 2009, 149-158.

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lui per primo, che lei possa riscuotere il debito della sua ketubbah da parte di… pagando senza svalutazione alcuna…”. Non è ancora una comunione dei beni nel senso moderno del termine, ma la frase “l’ha designata padrona” e il riferimento alla metà del patrimonio sono un seme di uguaglianza. La storia di questa potente famiglia è destinata però a spegnersi presto: meno di quaranta anni dopo, con il decreto dell’Alhambra del 1492, Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona espulsero gli ebrei dai regni spagnoli. Fu un danno grave.

5. Ganancias, benefecios e acquêts. La comunione dei beni, come regime legale ben strutturato e disciplinato, arriva in Sardegna dalle coste catalane nei secoli successivi, spinta dal Maestrale e dai mercanti: comunione di ganancias e beneficios. La troviamo chiaramente regolata nelle Regie Prammatiche Aragonesi, nel testo scritto da Francisco De Vico nel 17143. Il Libro Secondo, Titolo XL, Capitolo II è intitolato «Bienes fitios, si entran en comunicacion, entre marido y muger». In esso si legge: «... que en los matrimonios, que sin pactos y capitulaciones se contrayeren, non entren en comunicacion, ni se comprehendan en lo tocante a la propriedad los bienes fitios, y rayzes o semovientes, que los dichos contrahentes tuccieren antes de dichos matrimonios, ni tan poco, los que despues des les sobrevinieren por testamento, o ab intestato, donacion inter vivos, o causa mortis, seu alias… que dichos bienes quedam, como esta dicho, en propriedad para los contrahentes, cuios fueren, y que tan solamente puedan entrar y entren en comunidad y beneficio de entrambos con los otros gananciales, los frutos de dichos bienes, y los que ellos ganaron con su industria, durante el dicho matrimonio, y no mas». Sono comuni al marito e alla moglie, che si sono sposati senza stipulare un patto contrario, i “benefici” (“bienes fitios”) acquistati dopo il matrimonio, mentre restano personali quelli di cui ciascun coniuge era titolare prima del matrimonio, così come quelli acquistati durante il matrimonio per successione o per donazione. Entrano invece in comunione i redditi di ciascun coniuge: sia i frutti dei beni personali, sia i redditi dell’attività lavorativa di ciascuno. Chiunque immediatamente percepisce che questo testo è molto simile, quasi sovrapponibile, a quello degli articoli 177 e 179 del nostro codice civile, nella formulazione introdotta dalla riforma del 1975. Un osservatore attento coglie una differenza, ma su questa torneremo. Eppure, non è l’esperienza sarda a rappresentare il modello del nostro legislatore del 1975. Quell’esperienza, infatti, si spense con la fine del dominio aragonese, anche se è

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F. De Vico, Leyes y pragmaticas reales del Reyno de Sardeña, Caller, 1714.

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sicuro che almeno uno fra i parlamentari che approvarono la riforma del diritto di famiglia conoscesse le Regie Prammatiche Aragonesi. Un altro modello, ben più rilevante dal punto di vista della diffusione, era noto al legislatore italiano: quello francese. L’art. 1401 del codice napoleonico afferma: “La communauté se compose activement des acquêts faits par les époux ensemble ou séparément durant le mariage…”. L’art. 177, lett. a), del nostro codice civile è la traduzione letterale di questa norma: “Costituiscono oggetto della comunione: a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali…”. La prova che il nostro legislatore si è ispirato al modello francese è l’uso del sostantivo “acquisti”. È un termine che il nostro codice civile non usa in alcuna altra occasione: conosce il predicato “acquistare”, ma non il sostantivo. Nel nostro lessico giuridico, l’oggetto del predicato “acquistare”, sono i “beni”, le “cose” e i “diritti”; mai gli “acquisti”. Invece il legislatore del 1975, in relazione all’oggetto della comunione dei beni, utilizza il sostantivo “acquisti”, traducendo “acquêts”, sostantivo che nel lessico francese del diritto di famiglia ha una origine antica e precisa, essendo utilizzato – proprio per definire l’oggetto della comunione fra coniugi – nell’articolo 220 della Coutume de Paris4. Sempre un osservatore attento coglie però una sottile differenza fra la seconda parte dell’art. 1401 del codice civile francese – “et provenant tant de leur industrie personnelle que des économies faites sur les fruits et revenus de leurs biens propres”5 (in realtà molto simile all’ultima frase del passo delle Regie Prammatiche Aragonesi sopra riportato) – e quanto afferma il nostro codice civile definendo l’oggetto della comunione dei beni, ma anche su questa differenza ci accingiamo a tornare.

6. Un mostro con due teste. Nel 1975, la comunione dei beni è finalmente diventata il regime patrimoniale legale della famiglia anche in Italia. Tale regime, chiara espressione di esigenze egualitarie, pare essere entrato nel nostro ordinamento dalla porta principale essendo quello che si applica alle coppie che non optano espressamente per un regime diverso. Tuttavia, è ben noto che la comunione dei beni è in Italia un colossale fallimento. Fu accolta con favore – almeno quanto al principio fondamentale – dagli studiosi immediatamente dopo l’approvazione della riforma, ma non ha mai incontrato il favore del pubblico. L’iniziale freddezza si è trasformata presto in aperta diffidenza ed ostilità.

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Nella trascrizione che ci viene tramandata da R.J. Pothier, Traité de la communauté, Paris-Orléans, 1770, Parte I, Capitolo II, n. 24: «Sont communs en biens meubles et conquéts immeubles fait durant et constant ledit marriage». “... e provenienti tanto dalla loro attività lavorativa personale, quanto dai risparmi fatti sui frutti e sui proventi dei loro beni personali”.

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Dal Rapporto Istat “Matrimoni – Indicatori” risulta che oggi (l’ultimo dato disponibile è quello del 2019) la percentuale dei matrimoni a cui si applica il regime legale di comunione dei beni è ormai solo del 27,2% ed è in costante diminuzione (nel 2013 la percentuale era del 30,1%, nel 1995 era 59,1%)6. Il dato è particolarmente significativo se confrontato con quello degli altri Stati occidentali, ove il rapporto è rovesciato: la percentuale di matrimoni a cui si applica la separazione dei beni è modestissima, quasi insignificante. Quale è la profonda ragione del “caso italiano”? Perché gli italiani scelgono in massa la separazione dei beni anche se la comunione dei beni è il regime legale, cioè il regime che si applica alle famiglie che non scelgono un regime diverso? Ci sono almeno tre ragioni, fra loro strettamente connesse. A) In primo luogo, come si è cercato di dimostrare nei paragrafi precedenti, la comunione dei beni è estranea alla nostra tradizione giuridica. Quella scheggia di condivisione del patrimonio di cui è testimonianza il frammento di un antico contratto matrimoniale stipulato nella Sardegna aragonese del 1455 – “l’ha designata padrona” – ha prodotto una positiva contaminazione solo nei territori sottoposti alla dominazione aragonese fino ad evolversi nell’elaborazione di un vero e proprio regime di comunione, ma l’esperimento è rimasto limitato a quell’esperienza. La frase – “l’ha designata padrona” – non ha varcato i confini, né nel tempo né nello spazio, della Sardegna aragonese. La cappa del regime dotale ha avuto il sopravvento sulle contaminazioni europee. Quindi, quando la riforma del 1975 ha introdotto la comunione dei beni, ha impiantato nel nostro ordinamento un corpo estraneo. B) Forse proprio la consapevolezza di ciò ha indotto il nostro legislatore ad agire con prudenza. Non solo si è consentito agli sposi la possibilità di scegliere il più tranquillizzante regime di separazione dei beni, ma si è permesso di fare questa scelta con una semplice dichiarazione resa dagli sposi al celebrante al momento del matrimonio. In concreto, questo significa che la scelta viene fatta apponendo una semplice croce su un modulo prestampato, senza alcuna ponderazione e senza alcuna adeguata preparazione tecnica sul significato di quella croce. La grande facilità con cui la legge italiana consente la scelta della separazione dei beni è assolutamente eccezionale rispetto a quanto previsto negli altri ordinamenti con i quali siamo soliti confrontarci. Per rendersi conto di quanto le modalità previste dalla legge italiana siano lontane da quelle previste all’estero per la scelta di un regime alternativo alla comunione dei beni, è sufficiente leggere una celebre sentenza inglese che rappresenta una pietra miliare per definire, in quell’ordinamento, i requisiti sulla base dei quali una convenzione fra coniugi per regolare i loro rapporti patrimoniali è valida. È universalmen-

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I dati sono tratti dal Report pubblicato dall’Istat (a cura di A. Guarneri e C. Castagnaro) del 18 febbraio 2021, all’indirizzo <https:// www.istat.it/it/files//2021/02/Report-matrimoni-unioni-civili-separazioni-divorzi_anno-2019.pdf>; i dati completi sono consultabili all’indirizzo http://dati.istat.it/Index.aspx?DataSetCode=DCIS_MATRIND.

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te nota come il caso Radmacher7. Essa afferma che sono requisiti di validità del patto le seguenti circostanze: – che entrambe le parti siano in grado di comprendere ciò che firmano e quindi ricavano una assistenza legale indipendente; – che il patto sia sottoscritto quando manca ancora un consistente lasso di tempo alle programmate nozze, in modo che i futuri coniugi non siano sottoposti alla pressione di un matrimonio imminente; – che il patto sia sottoscritto sulla base di una reciproca piena consapevolezza della situazione economica dell’altro e quindi sulla base di una reciproca “full disclosure” dei redditi e del patrimonio dell’alta parte. I requisiti previsti dalla sentenza Radmacher hanno lo scopo di garantire che una convenzione matrimoniale sia sottoscritta dai coniugi solo sulla base di una piena consapevolezza dei suoi presupposti di fatto e dei suoi effetti. Sono requisiti molto severi che certamente disincentivano la maggior parte degli sposi dallo stipulare una convenzione. Le altre legislazioni europee prevedono requisiti meno rigidi, ma comunque diversi da ciò che consente la legge italiana. È quasi ovunque necessario un atto pubblico notarile perché la presenza del notaio ha comunque l’effetto di attirare l’attenzione delle parti sull’importanza di ciò che stanno firmando. Il notaio poi ha la funzione di spiegare alle parti il significato del loro atto. La sottoscrizione in un contesto diverso dalla cerimonia nuziale consente un approfondimento e una riflessione che ovviamente durante il matrimonio non sono possibili. In Italia quindi la scelta per la separazione dei beni si fa con una superficialità e una leggerezza che altrove non sono neppure lontanamente concepibili. C) Vi però anche una terza ragione della fuga dalla comunione, quella decisiva. Il sistema elaborato dal legislatore del 1975 funziona male: è di difficile interpretazione ed applicazione ed è quindi causa di contenziosi e conflitti. Come si è visto, la norma fondamentale – l’art. 177, lett. a) cod. civ. – è modellata su quella francese della quale è la traduzione letterale. Ricostruendo le radici storiche del regime di comunione, abbiamo anche constatato che gli articoli del codice civile italiano che ne disciplinano l’oggetto (artt. 177-179 cod. civ.) sono quasi sovrapponibili al testo delle antiche Regie Prammatiche Aragonesi e all’attuale sistema spagnolo. Perché allora in Francia e in Spagna la comunione dei beni funziona e in Italia no? La risposta si trova in una differenza fra il sistema italiano e i suoi modelli. La comunione dei beni francese, quella spagnola e l’antico sistema aragonese, comprendono qualsiasi tipo di utilità economica acquisita durante il matrimonio e, soprattutto, sono espressamente estese ai redditi che ciascun coniuge realizza con il proprio lavoro.

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G. v R. [2010] UKSC 42.

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Il codice francese precisa infatti che la comunione, oltre agli acquisti realizzati da ciascun coniuge, ha ad oggetto i “provenant tant de leur industrie personnelle”. Identico è il testo delle Regie Prammatiche Aragonesi che, dopo aver affermato che sono comuni i “Bienes fitios” acquistati dai coniugi durante il matrimonio aggiunge “y los que ellos ganaron con su industria, durante el dicho matrimonio”. Come è noto il nostro legislatore si occupa dei frutti dei beni personali e dei proventi dell’attività lavorativa di ciascuno in modo diverso. Il nostro codice prevede che i frutti e i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi diventano comuni solo se, al momento dello scioglimento della comunione, non sono stati consumati (art. 177, lett. b e c, cod. civ.) e la stessa regola si applica ai beni destinati all’esercizio dell’impresa (art. 178 cod. civ.). È la cosiddetta comunione differita o de residuo. È una regola strana. Lo stipendio percepito da un coniuge o gli utili della sua attività professionale o i beni destinati alla sua attività imprenditoriale non diventano immediatamente comuni, ma lo diventeranno in futuro proprio quando il regime di comunione dei beni cesserà e ciò a condizione che, nel frattempo, non siano stati consumati. Più che una norma giuridica sembra un ossimoro: una comunione che si forma quando la comunione si scioglie. In realtà il legislatore italiano del 1975 ha introdotto la regola della comunione differita dei frutti, dei proventi e dei beni destinati all’esercizio dell’impresa individuale ispirandosi ad un altro modello: il §1363 del BGB: «Der Zugewinn, den die Ehegatten in der Ehe erzielen, wird jedoch ausgeglichen, wenn die Zugewinngemeinschaft endet». È la cosiddetta Zugewinngemeinschaft, ossia la compensazione degli incrementi: gli incrementi patrimoniali (Zugewinn) conseguiti da ciascun coniuge durante il matrimonio vengono riequilibrati nel momento in cui il regime patrimoniale si scioglie. Il riferimento allo scioglimento della comunione che si legge nei nostri artt. 177, lett. c), e 178 cod. civ. è la traduzione del tedesco “wenn die Zugewinngemeinschaft endet” che si legge nel § 1363 del BGB. Il nostro legislatore, incerto fra il modello franco-spagnolo e il modello tedesco, ha scelto il primo ma (consapevole di quanto esso fosse lontano dalla nostra tradizione giuridica) lo ha inquinato con un elemento preso dal sistema tedesco più incline a tutelare la libertà di entrambi i coniugi durante il matrimonio. Ne è nato un sistema che non funziona: un mostro a due teste. Varrebbe allora la pena che il legislatore, dopo quasi cinquant’anni, riformasse il regime patrimoniale della famiglia, abbandonando il rigido sistema della comunione immediata, per introdurre un sistema di comunione differita degli incrementi, prevedendo, allo stesso tempo, che la convenzione con cui i coniugi (o i futuri coniugi) derogano al regime legale garantisca l’effettiva ponderazione della loro scelta.

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Il rapporto tra l’atleta minore d’età e l’agente sportivo* ** Sommario : 1. Professionalizzazione dell’attività sportiva e protezione degli atleti minori d’età. – 2. L’introdotta gratuità del rapporto minore-agente sportivo ad opera dell’art. 10, d.lgs. n. 37/2021. – 3. La diffidenza sistemica verso la gratuità nei rapporti commerciali. – 4. Conflitti di interessi e inadempimenti dell’agente alla prova della gratuità. – 5. Una possibile (difforme) interpretazione e qualche dubbio di legittimità costituzionale.

The package of Italian laws for the reform of sport states the principle of protection of minors as of primary importance, especially for youngsters entering in the world of sport. However, the legal form for contracts with the sports agent includes one legal requirement that might be counterproductive in some types of cases, especially when it comes to contracts for young professionals. Having identified and examined such cases, the author suggests a restrictive functional interpretation for this requirement, according to which it would apply exclusively to amateurs who are not hired by professional clubs.

1. Professionalizzazione dell’attività sportiva e protezione degli atleti minori d’età.

La diversa, prevalente etica sportiva che, nell’antichità, viene attribuita rispettivamente ai Greci e ai Romani, con la prima che si connota in guisa spirituale e agonistica mentre, in-

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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Lo scritto costituisce una rielaborazione della relazione presentata al convegno “La prestazione sportiva nel diritto romano e attuale”, svoltosi nell’ambito delle attività di ricerca “Tutela del credito, sistema delle garanzie reali e cautele debitorie” - Piano triennale per la ricerca - Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Catania 2016-2018 (2020), ed è già destinato al volume collettaneo G. Di Rosa-S. Longo-T. Mauceri (a cura di), Percorsi di ricerca in tema di rapporto obbligatorio. Atti delle giornate di studio (Catania, 10 ottobre 2019 - 9 luglio 2020 - 1 e 22 marzo 2021), in corso di pubblicazione per i tipi di Giappichelli, Torino.

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vece, la seconda pone al centro la spettacolarità e la vocazione all’intrattenimento1, si offre come approccio alla dualità che contrassegna la considerazione sociale e giuridica dello sport nell’attualità. Infatti, da un lato, si continua a vedere nell’attività sportiva una forma irrinunciabile di espressione della persona, uno strumento di costante crescita culturale collettiva e di inclusione sociale, un prezioso momento idoneo a tramandare alti e imperituri valori umani2. Dall’altro, si rivolge l’attenzione alla valenza spettacolare e economica delle manifestazioni sportive e all’esigenza di forme giuridiche che ne regolamentino appropriatamente le dinamiche sotto il profilo sia contrattuale (nei rapporti tra i vari operatori del settore) che fiscale (nei rapporti tra percettori di reddito derivanti dall’attività sportiva e lo Stato)3. E così anche il fenomeno della regolamentazione giuridica pare muoversi su due contrapposte linee di adattamento/intervento, nell’ottica a volte di attenuare la rilevanza giuridica dei fatti umani affinché siano preservati la genuinità e il tono agonistico delle competizioni sportive (come ad esempio per i danni provocati ai contendenti)4 o, all’opposto, per dare appropriata forma giuridica5 e, talvolta, per sottoporre al controllo statale nuovi modelli di sfruttamento economico dell’attività umana, fino a comprimere la stessa autonomia degli organi sportivi di vertice6.

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V. ora S. Longo, Ludi gladiatori e regole di ingaggio, in G. Di Rosa-S. Longo-T. Mauceri (a cura di), Percorsi di ricerca in tema di rapporto obbligatorio. Atti delle giornate di studio (Catania, 10 ottobre 2019 - 9 luglio 2020 - 1 e 22 marzo 2021), in corso di pubblicazione per i tipi di Giappichelli, Torino. Abbiamo appena vissuto lo straordinario evento costituito dall’intervista resa da Papa Francesco Bergoglio: Dal riscatto allo spirito di gruppo, ecco i valori dello sport che amo, in Gazzetta dello sport, 2 gennaio 2021 e v., ad es., P. Sandulli, Il senso dello sport nel pensiero di Papa Francesco, in RDES online, 21 gennaio 2021. Con particolare attenzione al rilievo antropologico della prestazione sportiva ricordiamo R. Prelati, La prestazione sportiva nell’autonomia dei privati, Milano, 2003, pp. 1 ss., 193 ss. e passim; A. Lepore, Responsabilità civile e tutela della «persona-atleta», Napoli, 2009, p. 7 ss. Sugli sportivi come «idoli mass-mediatici» e sulla rilevanza spettacolare della loro attività v. ad esempio M. Martone, Contratto di lavoro e «beni immateriali», Padova, 2002, 221 ss.; G. Bruno, Autonomia sportiva e fenomeni negoziali, Napoli, 2012, 256 ss.; T. Mauceri, La sponsorizzazione sportiva, Torino, 2014, 3 ss. Per un approccio antropologico-sociologico, ricordiamo H. Bausinger, La cultura dello sport, trad. di A. Patini, Roma, 2008, 37 ss.; F.M. Lo Verde, Sociologia dello sport e del tempo libero, Bologna, 2014, 147 ss. Centrale risulta la distinzione tra l’etica dello sport come strumento di benessere fisico e elevazione spirituale, grazie anche a un sano rapporto con la sconfitta e, più in generale, con i propri limiti (secondo il noto brocardo «l’importante è partecipare», che si fa risalire a De Coubertin), oggi ripresa con grande forza dal Pontefice, e la logica del «vincere non è importante, ma è l’unica cosa che conta» che, ripresa da una battuta di un suo storico esponente (Giampiero Boniperti), è il monito-idioma di una tra le più importanti realtà sportive del calcio mondiale (la Juventus S.p.A.). Già al tempo dei certamina licita esemplarmente illustrate da I. Fargnoli, Precedenti antichi di giustizia sportiva e S. Cristaldi, Attività sportiva del filius familias e responsabilità aquiliana nel mondo romano, in G. Di Rosa-S. Longo-T. Mauceri (a cura di), Percorsi di ricerca in tema di rapporto obbligatorio, cit. Per l’antichità si pensi al tema della qualificazione e dell’individuazione di un’appropriata disciplina con riferimento al caso dell’ingaggio dei gladiatori: esemplarmente S. Longo, Ludi gladiatori e regole di ingaggio, cit. e già Id., Emptio venditio et locatiio conductio familiaritatem aliquam inter se habere videntur. Le fattispecie gaiane oggetto di dibattito giurisprudenziale, Torino, 2019, 127 ss. Con riferimento all’attualità, possiamo pensare alla figura della sponsorizzazione dell’attività sportiva, ma anche in qualche modo proprio al tema delle forme giuridiche della prestazione sportiva e, segnatamente, alla configurazione giuridica del lavoro sportivo mediante, da, una parte, la previsione di un contratto tipo federale e, dall’altra, il rinvio alle normative generali con l’espunzione, al contempo, di alcune (tra le principali) disposizioni (l. 4 marzo 1981, n. 91 e ora d. lgsl. 28 febbraio 2021, n. 36). Per un’attenta, recente ricognizione del quadro normativo dell’UE sullo sport v. S. Aceto Di Capriglia, Rischio sportivo, responsabilità e criteri d’imputazione: il caso dell’atleta minore, in Rass. dir. econ. sport, 2017, 72 ss. Basti qui ricordare come, dopo il libro bianco dello sport presentato dalla Commissione nel 2007, l’UE abbia sempre più posto al centro della sua regolamentazione lo sport nella sua doppia valenza di fattore propulsivo dell’economia nonché di momento di esplicazione della personalità dei cittadini e di strumento di salvaguardia della salute -v., in partic., artt. 6, lett. e) e 165, par. 1 e par. 2, TFUE. Circa recenti studi e progetti dell’UE v. WorldHealth Organization, Health 2020: the European policy for health and well-being, www.euro.who.int/en/health-topics/healthpolicy/health-2020-the-european-policy-for-health-and-well-being (6 maggio2018)

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Nel quadro della descritta dialettica si collocano anche i recenti interventi normativi e, cioè, la l. 8 agosto 2019, n. 86 «Deleghe al Governo e altre disposizioni in materia di ordinamento sportivo, di professioni sportive nonché di semplificazione» e i decreti legislativi d’attuazione del 28 febbraio 2021 (dei quali i nn. 36 e 37 sono stati pubblicati nella Gazzetta Ufficiale, parte prima, del 18 marzo 2021, anno 62, n. 167). In questo variegato recente intervento normativo, da una parte, rileviamo la qualificazione dentro rigidi schemi di «lavoro sportivo» dei rapporti tra club e atleti, un riordino degli apparati organizzativi, una puntuale regolamentazione della figura dell’agente sportivo e dell’ordine di appartenenza7; dall’altro, però, v’è anche il tentativo (più o meno riuscito) di restituire autonomia alle federazioni nonché di tutelare il più possibile il minore assicurandone un congruo sviluppo della personalità (sia sul piano culturale che su quello della preservazione di altre chances professionali) e di sottrarlo a possibili abusi da parte degli operatori del settore e, in particolare, degli agenti sportivi. Analizzando gli aspetti principali della riforma, notiamo come le disposizioni degli artt. 1-4 della l. 8 agosto 2019, n. 86 hanno delegato al governo l’adozione di varie misure in materia di ordinamento sportivo affinché siano istituzionalmente garantiti e presidiati la funzione e il valore sociale della pratica sportiva e, soprattutto, «la missione del CONI di incoraggiare e divulgare i principi e i valori dell’olimpismo, in armonia con l’ordinamento sportivo internazionale» (art. 1, comma 1, lett. e). A partire dall’art. 5 della medesima legge delega, poi, si affida al governo il compito di riordinare le norme riguardanti gli enti sportivi, le professioni sportive e il rapporto di lavoro sportivo. Rispetto a quest’ambito si richiede la definitiva soppressione del c.d. «vincolo sportivo» da soppiantare con la regolamentazione di nuove figure tipiche di lavoratore sportivo a tempo determinato (col limite temporale massimo di cinque anni) che ricomprendano i vari ruoli e operino sia nel mondo professionistico che in quello (in via di principio tenuto fermo) dilettantistico, con garanzie di tutela previdenziale, assicurativa e connessi oneri anche fiscali a carico dei club sportivi. Particolare attenzione è riservata ai minori e ai giovani in genere, richiedendosi sia speciali forme di «tutela della salute e della sicurezza … con la previsione di specifici adempimenti e obblighi informativi da parte delle società e delle associazioni sportive con le quali i medesimi svolgono attività» (art. 5, c. 1 lett. d), sia l’adozione di strumenti di «crescita non solo sportiva, ma anche culturale ed educativa nonché una preparazione professionale che favorisca l’accesso all’attività lavorativa anche alla fine della carriera sportiva» (art. 5, c. 1 lett. e). Affinché, poi, siano garantite imparzialità, indipendenza e

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E va invece sottolineato come tradizionalmente – e già nell’antica Roma, come esemplarmente illustrato da S. Longo, op. loc. cit. – la regolamentazione dell’attività sportiva sia sempre avvenuta mediante il ricorso a figure contrattuali atipiche che mal si prestano a un’uniformazione normativa. Sulla recente riforma della figura dell’agente sportivo e del rapporto di lavoro sportivo v. rispettivamente L. Santoro, La disciplina della professione di agente sportivo contenuta nel d.lgs. 28 febbraio 2021, n. 37 nel quadro della regolamentazione vigente, in rivistadirittosportivo.coni.it e G. Agrifoglio, Prime osservazioni sulla riforma in materia di lavoro sportivo (d.lgs., 28 febbraio 2021, n. 36), ivi.

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trasparenza nell’attività degli agenti sportivi si è provveduto al riordino anche di questa materia, ancora una volta con un’attenzione particolare ai più giovani, richiedendosi al governo la «previsione di misure idonee a introdurre una specifica disciplina volta a garantire la tutela dei minori, con specifica definizione dei limiti e delle modalità della loro rappresentanza da parte di agenti sportivi» (art. 6, c. 1, lett. g) 8. La reiterata considerazione normativa della figura del minore pare volta a controbilanciare la scelta, non certo indolore, di istituzionalizzare già nella fase di formazione dei giovani promettenti rapporti di tipo lavorativo e superare, in tal modo, la diffusa prassi di qualificare come «premi» e/o «rimborsi spese» gli emolumenti, spesso di una certa consistenza, corrisposti nei campionati minori o comunque nei primi anni di carriera (il fenomeno del c.d. «professionismo di fatto» ovvero del «falso dilettantismo»)9. Infatti, e al di là della salvezza nominale del comparto dilettantistico, verosimilmente destinato a una progressiva marginalizzazione10, il legislatore non ammette forme di collaborazione amatoriale se non all’interno di una soglia di retribuzione minima, che potrà continuare a configurarsi come dazione di premi e/o rimborsi spese a forfait11. L’ordinamento, in altri termini, per un verso obbliga a diventare «lavoratore sportivo» il giovane talentuoso che pratica un’attività sportiva percependo un emolumento non irrisorio e, per l’altro, si preoccupa di fargli proseguire gli studi (lasciando aperta la possibilità di altre carriere professionali)12 nonché di proteggerlo da eventuali pratiche scorrette o non trasparenti da parte dell’agente sportivo; figura che nel sistema revisionato diventa per i più giovani di prioritaria importanza13.

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Per un quadro aggiornato sulla figura dell’agente sportivo avuto riguardo anche al progetto della presente riforma v. M.F. Serra, Considerazioni sulla figura dell’agente sportivo: dalla legge 27 dicembre 2017 n. 205, comma 373 alla legge 8 agosto 2019 n. 86, in Riv. dir. econ. sport, 2019, 2, 83 ss. 9 Sulla generalizzazione della figura del lavoratore sportivo come strumento di passaggio dal falso dilettantismo al vero professionismo v. M. Fumo, Profili professionali e funzione educativa dell’attività sportiva, in Riv. dir. econ. sport, 2019, 1, 23 ss. e, con specifico riferimento al d.lgs., 28 febbraio 2021, n. 36, G. Agrifoglio, Prime osservazioni sulla riforma in materia di lavoro sportive, cit. 10 Dal quadro normativo preesistente la figura del dilettante si contraddistingue per il mancato esercizio di un’attività sportiva con carattere di continuità e/o a titolo oneroso: v. ad es. G. Liotta, La gratuità nello sport, in A. Galasso-S. Mazzarese (a cura di), La gratuità nello sport, Milano, 2008, 278. 11 Nei decreti attuativi v’è la definizione della ormai marginale fattispecie della «prestazione amatoriale» (riferita a «coloro che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro») e si prevede come tetto massimo per i premi e i rimborsi percepiti il limite reddituale per l’esenzione di cui all’art. 69 comma 2 T.U.I.R. (attualmente pari a euro 10.000 per periodo d’imposta). Inoltre si prevedono l’espressa incompatibilità con qualsiasi forma di lavoro con l’ente tramite il quale il volontario-amatore svolge l’attività amatoriale e l’obbligo di assicurazione contro gli infortuni e le malattie connessi allo svolgimento dell’attività amatoriale, nonché per la responsabilità civile verso i terzi. 12 Ad esempio secondo le statistiche che riguardano il mondo del calcio, soltanto un giovane ogni cinquemila di coloro che sono iscritti alla FIGC all’età di quattordici anni arriva poi in serie A e si ricordi anche che solo il 5% dei calciatori professionisti riesce a vivere di rendita dopo il ritiro (secondo quanto riferito da D. Tommasi, nel corso di un intervento a un Convegno intitolato «Tempi supplementari, Aspetti traumatici e psicologici del dopo carriera», svoltosi a Udine il 30 ottobre 2017 e organizzato dall’AIC). 13 Una volta che si è soppresso definitivamente il cartellino ed è stata introdotta la prassi dei contratti di lavoro sportivo già con il primo club sportivo di appartenenza diventa imprescindibile il ricorso alla figura dell’agente, sia per l’individuazione di una collocazione appropriata sia per la stipulazione di un accordo consono.

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2. L’introdotta gratuità del rapporto minore-agente sportivo ad opera dell’art. 10, d.lgs. n. 37/2021.

È proprio con riferimento al rapporto tra il lavoratore sportivo minore d’età e l’agente e, in particolare, a una peculiare disposizione ora introdotta che intendo sollevare qualche interrogativo. Nel riferito d.lgs. 28 febbraio 2021, n. 37 recante «misure in materia di rapporti di rappresentanza degli atleti e delle società sportive e di accesso ed esercizio della professione di agente sportivo» (in attuazione dell’art. 6 l. 8 agosto 2019, n. 86), all’art. 10, rubricato «tutela dei minori», si prevede nei primi due commi che il lavoratore sportivo, a partire dal quattordicesimo anno d’età, possa essere assistito da un agente sportivo in forza di un contratto di mandato sottoscritto (a pena di nullità) da uno degli esercenti la responsabilità genitoriale (o dall’esercente la tutela o la curatela legale). Viene altresì sancito che «nessun pagamento, utilità o beneficio è dovuto all’agente sportivo da parte del minore in relazione all’attività svolta in suo favore ferma restando la possibile remunerazione dell’agente sportivo da parte della società o associazione sportiva contraente» (art. 10, comma terzo). Il dato testuale suggerisce in prima battuta che sia imposta la gratuità del rapporto. Infatti, e nonostante l’eccentricità dell’imposizione di una prestazione gratuita, è esplicitato in modo inequivocabile che, da parte del minore, non è dovuto alcunché «in relazione all’attività svolta in suo favore» e che la remunerazione di tale attività è «possibile» che sia attuata «da parte della società o dell’associazione sportiva contraente». Sempre sul piano dell’interpretazione letterale, basta confrontare queste formulazioni con la definizione di compenso apprestata dall’art. 8 e con l’ulteriore previsione (nella medesima disposizione) della possibilità che il compenso dovuto dallo sportivo sia corrisposto, per conto di quest’ultimo, dal club, per ricavare l’idea che la prestazione resa in favore del minore abbia un carattere gratuito imposto dalla legge. Infatti, non pare percorribile una ricostruzione del significato letterale in forza della quale i «pagamenti, utilità o benefici» in ogni caso non dovuti dal minore secondo l’art. 10 sarebbero preclusi se e in quanto diversi (ulteriori e aggiuntivi) rispetto al compenso, visto che, col riferimento «all’attività svolta in suo favore», essi ricalcano proprio la nozione di «compenso» dell’art. 8; così come, non pare percorribile un’interpretazione letterale per la quale nel pagamento che (sempre nell’art. 10) si fa salvo da parte della società, potrebbe intendersi anche un pagamento per conto del minore, come invece è previsto con esplicita specificazione nell’art. 8, comma terzo14.

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Ecco le parti della disposizione sul compenso il raffronto con le quali pare qui decisivo per sciogliere il significato letterale dell’art. 10: «Art. 8. Compenso. 1. Il compenso spettante all’agente sportivo, come corrispettivo dell’attività svolta in esecuzione del contratto di mandato sportivo, è determinato (…). 3. Il pagamento deve essere effettuato esclusivamente dal soggetto o dai soggetti che hanno stipulato il contratto di mandato con l’agente sportivo. Il lavoratore sportivo assistito dall’agente sportivo, dopo la conclusione del contratto di lavoro sportivo, può autorizzare la Società o Associazione Sportiva datrice di lavoro a provvedere direttamente, per suo conto, alla corresponsione del compenso dovuto all’agente sportivo, secondo le modalità e i termini stabiliti dal relativo contratto di mandato sportivo (c.n.)».

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Pare, infatti, contraddittoria l’idea di un legislatore che dall’art. 8 all’art. 10 modifichi la nozione di compenso e la tecnica definitoria per indicare che il pagamento è fatto da un soggetto ma «per conto» di un altro. Tuttavia, considerato anche che la società (o associazione) sportiva contraente si troverà tipicamente in una situazione di conflitto di interessi col minore atleta che contrae con essa (per l’instaurazione, la cessione o lo scioglimento del contratto di lavoro), non si riesce a cogliere nella disposizione una logica chiara né coerente col sistema del diritto privato15; va quindi esplorata la via di un’interpretazione antiletterale, di tipo restrittivo, sorretta dal criterio della ricerca della intenzione del legislatore (art. 12 disp. prel. c.c.)16. Va, infatti, sottoposto a controllo il rischio che, precludendo al minore che si avvia al professionismo di concordare un corrispettivo per i servizi che l’agente svolge in suo favore, si indebolisca lo spettro dei poteri di istruzioni, ingerenza e controllo così come il connesso apparato rimediale. L’agente sportivo sarebbe incentivato a preferire il soddisfacimento dell’interesse di altre parti dalle quali avrà diritto al corrispettivo (e nei confronti delle quali, correlativamente, garantirà una responsabilità piena).

3. La diffidenza sistemica verso la gratuità nei rapporti commerciali.

Un ordinamento imperniato su un’economia di libero mercato non può che sorreggersi sul principio del libero scambio, sicché la previsione di qualsivoglia forma di controllo circa la congruità del corrispettivo come rimedio a situazioni di disparità contrattuale o di asimmetrie informative si pone in termini di eccezionalità17. A fortiori si profila come ecce-

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Ci si riferisce sia alla disciplina generale del rapporto obbligatorio sia alle normative di settore volte a sottoporre a controllo gli abusi delle asimmetrie informative ricorrenti in alcuni ambiti di operazioni economiche (in particolare al cospetto dei consumatori): v. infra § 3. 16 Per l’idea secondo la quale il significato cui si perviene in forza del criterio pragmatico o funzionalista (imperniato sulla ricerca dell’intenzione del legislatore) può staccarsi dai possibili esiti dell’interpretazione letterale ed è proprio in tale distacco che risiede il carattere dell’interpretazione restrittiva ovvero estensiva, v. A. Belfiore, L’interpretazione della legge. L’analogia, in Studium iuris, 2008, 421 ss. 17 V. in vario senso F. Galgano, La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, in Contr. impresa, 2000, 923 ss.; P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2001, 335 ss.; G. B. Ferri, Autonomia privata e poteri del giudice, in Dir. giur., 2004, 5 ss.; V. Scalisi, Equilibrio e giustizia contrattuale, in Id., Categorie e istituti del diritto civile nella transizione al postmoderno, Milano, 2005, 671 ss.; A. Gentili, De jure belli: l’equilibrio del contratto nelle impugnazioni, in Riv. dir. civ., II, 2004, 36 s.; R. Lanzillo, Introduzione, in Id.-A. Riccio, Rescissione del contratto. Comm. Scialoja-Branca. Libro quarto: obbligazioni art. 1447-1452, Bologna-Roma, 2005, 1 ss.; M. Libertini, A «highly competitive social market economy» as a founding element of European economic constitution, in Concorrenza e mercato, 2011, 491 ss.; A. di Majo, Giustizia e «materializzazione» nel diritto delle obbligazioni e dei contratti tra (regole) di fattispecie e (regole) di procedura, in Eur. dir. priv., 2013, 797 ss.; M. Barcellona, Della causa. Il contratto e la circolazione della ricchezza, Padova, 2015; P. Corrias, Giustizia contrattuale e poteri conformativi del giudice, in Riv. dir. civ., 2019, I, 345 ss.; P. Papanti-Pelletier, La rescissione e la giustezza del contratto, ivi, 2020, I, 563 ss.; A. Zoppini, Il diritto privato e i suoi confini, Bologna, 2020, specialmente 177 ss.; G. Di Rosa, Il contratto. Appunti di parte generale, Torino, 2021, 7 ss. Nella dottrina meno recente, ricordiamo S. Gatti, Adeguatezza fra le prestazioni nei contratti con prestazioni corrispettive, in Riv. dir. comm., 1963, II, 447 e, in chiave storiografica, G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, I, Bologna, 1976, 37 ss. Tra gli

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zionale, o meglio eccentrica, una norma che imponga a un privato di rendere gratuitamente una prestazione nei confronti di un altro privato nell’ambito di operazioni di mercato18. All’opposto, nel nostro ordinamento vige il principio del divieto degli arricchimenti ingiustificati, a sua volta presidiato dal principio di causalità dei contratti, tenuto saldo nonostante il progressivo ridimensionamento che esso ha incontrato in altri ordinamenti. Tale progressivo ridimensionamento, peraltro, si è altrove delineato non certo per favorire trasferimenti di ricchezze e prestazioni di servizi a titolo gratuito, ma piuttosto per lasciare gli operatori del mercato arbitri di stabilire se e come debbano essere retribuiti i loro beni (specie se si tratta di nuovi tipi di utilità e di servizi), senza che un giudice possa essere chiamato a vagliare la bontà dell’operazione; in coerenza, quindi, a una visione degli affari che sta agli antipodi della prospettiva secondo la quale, per prevenire un abuso di un contraente nei confronti dell’altro, occorrerebbe precludergli il diritto al corrispettivo19. La diffidenza verso contratti privi di causa di scambio si coglie anche nella disciplina dei contratti reali, caratterizzati per l’appunto dalla gratuità di una prestazione e proprio per questo sottratti al generale principio della perfezione del contratto con l’accordo tra le parti20. Se, poi, si rivolge l’attenzione alla disciplina del mandato che, a prescindere dalla (invero assai dubbia) corrispondenza al c.d. mandato sportivo, è comunque il «punto di riferimento sistematico del nostro codice civile», col suo «carattere totalizzante» nella regolamentazione dell’ampia categoria dell’attività gestoria, si rinviene la regola di presunzione di onerosità, che ha innovato rispetto alla diversa previsione dell’art. 1737 del c.c. del 1865, proprio in considerazione del moderno «specifico ambito di operatività del mandato, quello commerciale appunto, disponendosi nel codice di commercio del 1882 che il mandato commerciale non si presume gratuito (art. 349, comma 2 c. comm. 1882)»21. Non si comprende, allora, come nel momento in cui il legislatore interviene organicamente sulla figura dell’agente sportivo, accentuandone il tratto professionale e regolamentandone l’at-

studi di EAL, ricordiamo A.T. Kroman, Errore e informazione nell’analisi economica del diritto contrattuale, in G. Alpa-F. Pulitini-S. Rodotà-F. Romani (a cura di), Interpretazione giuridica e analisi economica, Milano, 1982, 332 ss. e M.J. Trebilcock, The limits of Freedom of Contract, Harvard, 1993. 18 Circa l’esigenza di porre il gratuito in un’area di «eccezione sospetta» v. S. Rodotà, Gratuità e solidarietà tra impianti codicistici e ordinamenti costituzionali, in A. Galasso-S. Mazzarese, Il principio di gratuità, cit., 97 ss. del quale ricordiamo anche l’ammonimento, tratto dall’esperienza passata e dalla tradizione letteraria ma anche e soprattutto dall’osservazione delle moderne dinamiche della c.d. «gift economy», per cui «l’antropologia del dono è uno dei tanti temi sui quali varrebbe la pena di insistere dal momento che il dono non solo è visto come strumento obbligante per il beneficiario, ma addirittura come strumento di dominio (c.n.)». 19 In chiave comparatistica v. L. Pontiroli, Tra morte e trasfigurazione della causa (ed altre catastrofi) nel code civil, in Giur. it., 2018, 1238 ss. 20 V. P. Morozzo della Rocca, Gratuità, liberalità e solidarietà, Milano, 1998, 37 ss. e passim; G. Palazzolo, Atti gratuiti e motivo oggettivato, Milano, 2004, 169 ss. 21 V., compiutamente, G. Di Rosa, Il mandato, I, Artt. 1703-1709, in Cod. civ. Comm. fondato da P. Schlesinger diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2012, 5 ss. e 165 ss., dal quale sono tratte le espressioni riportate tra virgolette. Sulla controversa accostabilità della figura dell’agente sportivo (anche per come definita nella recente disciplina) a quella del mandatario v. M.F. Serra, Considerazioni sulla figura dell’agente sportivo, cit., 103 ss.; L. Santoro, L’agente o procuratore sportivo: il quadro normativo di riferimento, in G. Liotta-L. Santoro, Lezioni di diritto sportivo, V ed., Milano 2020, 125 ss. e ora Id., La disciplina della professione di agente sportivo, cit., 7 ss.

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tività come afferente a un ambito sempre più intriso di connotati commerciali22, imponga poi la gratuità della sua prestazione. L’impressione che la nuova regola presenti uno scarso tasso di razionalità risulta confermata se, del codice civile, si prende altresì in considerazione la figura della mediazione (art. 1754 e s.), anch’essa in qualche modo accostabile al profilo dell’agente sportivo23. Il mediatore ha diritto alla provvigione nei confronti di tutte le parti per il sol fatto che l’affare è concluso per effetto del suo intervento ed a prescindere da un previo legame con alcuna di esse in forza di rapporti di collaborazione o rappresentanza. Il diritto al compenso nei confronti di tutte le parti dell’operazione è funzionale proprio all’esigenza di libertà e imparzialità nell’attività del mediatore24, che presenta molti tratti comuni all’attività dell’agente ora tipizzata dal legislatore25. L’idea di una prevenzione di abusi contrattuali mediante la preclusione del diritto al corrispettivo si scontra altresì con i modelli di disciplina dei contratti del consumatore secondo i quali al giudice, in presenza di clausole redatte in modo chiaro e comprensibile, non è consentito vagliare in alcun modo la congruità dello scambio o l’equilibrio economico del rapporto. Oggetto del controllo di vessatorietà, infatti, è esclusivamente il c.d. «equilibrio normativo» e cioè il rapporto intercorrente tra i rispettivi diritti e obblighi ad eccezione di quelli riguardanti le prestazioni oggetto del contratto26. Anche con riferimento alle discipline sul trattamento dei dati personali, l’approccio gius-economico ha messo in evidenza come si sia trattato di precludere flussi di risorse economiche incontrollati e sottratti al principio della corrispettività, in considerazione del rischio di effetti distorsivi sul gioco della libera concorrenza27. Un ufficio che impone gratuitamente di prestare servizi di assistenza e, se del caso, il compimento di attività gestoria in favore di minori è costituito dalla carica di tutore e pro-

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V. ancora M.F. Serra, op. loc. ult. cit. V., però, le differenze condivisibilmente segnalate in L. Santoro, opp. locc. ult. citt. 24 V. A. Marini, La mediazione. Artt. 1754-1765, in Cod. civ. Comm. fondato da P. Schlesinger diretto da F.D. Busnelli, Milano, 1992, 53 ss. 25 Così come secondo l’art. 1754 c.c. il mediatore è «colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare», analogamente secondo gli artt. 2 e 3 del d.lgs. 28 febbraio 2021, n. 37 l’agente sportivo è colui che, sia pure in esecuzione di un contratto di mandato sportivo, «mette in contatto due o più soggetti operanti nell’ambito di una disciplina sportiva (…), ai fini della conclusione, della risoluzione o del rinnovo di un contratto di lavoro sportivo, del trasferimento della prestazione sportiva mediante cessione del relativo contratto di lavoro, del tesseramento di uno sportivo presso una Federazione Sportiva Nazionale, fornendo servizi professionali di assistenza e consulenza, mediazione». Quanto poi alle garanzie di indipendenza, provvede il successivo art. 6 a regolamentare una serie di incompatibilità. 26 V. A. Gambaro, Clausole abusive e contratti per adesione, in P. Stanzione (a cura di), La tutela del consumatore tra liberismo e solidarismo, Napoli, 1999, 178 ss.; G. Alpa, Il diritto dei consumatori, Roma-Bari, 2002, 205 ss.; A. Las Casas-M. Maugeri-S. Pagliantini, Recent trends of the ECJ on consumer protection: Aziz and Constructora Principado, in ERCL, 2014, I, 1 ss.; A. Gentili, Contratti del consumatore e diritto comune dei contratti, in Riv. dir. civ., 2016, I, 1479 ss. Prima della regolamentazione di fonte comunitaria ricordiamo V. Roppo, Contratti standard. Autonomia e controlli delle attività negoziali di impresa, Milano, 1975, 125 ss. e già M. Libertini, Il mercato: i modelli di organizzazione, in Trattato dir. comm. dir. pubbl. econom. a cura di Galgano, III, Padova, 1979, 430 ss. 27 G. Versaci, Personal Data and Contract Law: Challenges and Concerns about the Economic Exploitation of the Right to Data Protection, in ERCL 2018, 14(4), 374 ss. e Id., La contrattualizzazione dei dati personali dei consumatori, Napoli, 2020. 23

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tutore di minore o curatore di minori emancipati (art. 379 c.c.), e oggi anche dalla nuova figura di rappresentante dei minori stranieri non accompagnati (artt. 11 e 21 della l. 7 aprile 2017, n. 47). Già dalle disposizioni del codice civile si delineano immediatamente le profonde differenze con una figura come quella dell’agente sportivo, essendo regolamentata la funzione del tutore nel libro «delle persone e della famiglia» con prioritario riferimento alla «cura della persona del minore» e dunque iscrivendosi la sua attività nei confronti del minore al di fuori di dinamiche relazionali di tipo economico e commerciale; mentre invece, come già accennato, la regolamentazione della figura dell’agente sportivo, già oggetto di molteplici interventi normativi, si correla all’esigenza di controllo dell’azione di una categoria di professionisti il cui compito principale è e resta la promozione di contratti volti a procurare utilità prioritariamente economiche, in cui sono coinvolte parti dai tratti sempre più marcatamente professionali e all’interno di un settore di mercato in continua espansione28. Di recente, sul carattere gratuito e onorifico di uffici come quello del tutore, si è pronunciata la Corte Costituzionale, con riferimento specifico alla figura (di recente introduzione) del rappresentante di minori stranieri non accompagnati29. Orbene, la Corte ha affermato la conformità a Costituzione della mancata previsione di un corrispettivo rimarcando proprio la non riconducibilità a prestazioni professionali di queste attività, che si caratterizzano su una «base volontaristica [alla stregua di] un dovere sociale di alto rango morale»30. Si ricordi anche che, mentre al tutore è tendenzialmente precluso compiere atti giuridici in situazione di potenziale conflitto di interessi (ad es., art. 378 c.c.), per quanto riguarda l’attività dell’agente sportivo è inevitabile che questi si ritrovi a gestire contemporaneamente interessi di segno contrario rispetto a quelli del minore da lui assistito. Vero è che il legislatore si sforza di prevenire situazioni di potenziale pregiudizio, vuoi con la previsione di situazioni di incompatibilità e conflitto di interessi (art. 6 d.lgs. 28 febbraio 2021, n. 37), vuoi con roboanti affermazioni di principi come «lealtà, probità, dignità (…) corretta e leale concorrenza, trasparenza e indipendenza, osservanza del codice etico» (art. 7); ma resta il dato, fatto esplicitamente salvo anche dalle citate regole poste a prevenzione dei conflitti di interessi (in particolare dall’art. 6, comma quarto), che il suo diritto al compenso matura nei confronti delle parti per le quali ha prestato la sua attività con il solo limite di curare gli interessi di non più di due parti tra le tre potenzialmente coinvolte nell’operazione e cioè i due club sportivi rispettivamente cedente e acquirente oltre al lavoratore sportivo31.

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V. M.F. Serra, Considerazioni sulla figura dell’agente sportivo, cit., 103 ss. Al riguardo v. G.O. Cesaro, La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la figura del curatore speciale del minore, in Fam. dir., 2019, 937 ss. 30 Corte Cost., 29 novembre 2018, n. 218, in Fam. dir., 2019, 906. 31 Nel testo ci si riferisce alla formula, non certo felice, secondo la quale: «il contratto di mandato sportivo può essere stipulato dall’agente sportivo con non più di due soggetti da lui assistiti» (art. 5, comma terzo, d. lgsl. 28 febbraio 2021, n. 37). 29

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Tommaso Mauceri

4. Conflitti di interessi e inadempimenti dell’agente alla prova della gratuità.

La nuova disciplina ha recepito e esplicitamente tipizzato la prassi di determinare il compenso in termini percentuali «sul valore della transazione, in caso di trasferimento di una prestazione sportiva, ovvero sulla retribuzione lorda complessiva del lavoratore sportivo risultante dal relativo contratto di lavoro sportivo sottoscritto con l’assistenza dell’agente sportivo» (art. 8). Non è chiaro se entrambi i parametri debbano operare congiuntamente per la determinazione totale del compenso (in generale) dovuto all’agente da ciascuno dei propri assistiti o se riguardino disgiuntamente la determinazione del compenso rispettivamente dovuto dal club (cedente o cessionario) e dal lavoratore sportivo. Se fosse corretta quest’ultima interpretazione, prendendo in considerazione specificamente la posizione del minore, sarebbe alto il rischio che l’agente tenda a ottenere un prezzo più alto per la cessione a scapito del corrispettivo del c.d. «ingaggio»32. In ogni caso, e cioè a prescindere dall’interpretazione da dare alla disposizione ora richiamata, è sicuro che il lavoratore sportivo minore al quale sia precluso versare un corrispettivo all’agente sportivo, resta esposto al rischio di una gestione inadeguata dei suoi interessi. In merito può qui accennarsi ad alcune diverse classi di casi di conflitto di interesse rispetto alle quali l’enunciato testuale della nuova disciplina appresta una soluzione irrazionale e rischia anche di tradursi in una distorsione del libero gioco della concorrenza33. La prima classe di casi da tenere in considerazione riguarda il profilo dello sfruttamento economico dell’immagine dello sportivo. Che tale profilo abbia sempre più rilevanza e possa incidere anche sulla competizione sportiva trova conferma nei decreti legislativi in esame che, infatti, introducono la nuova regola secondo la quale, insieme al contratto di lavoro sportivo in federazione debba essere depositato per l’approvazione anche l’eventuale accordo circa l’attribuzione di diritti di utilizzazione dell’immagine dello sportivo34.

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Si immagini che un agente sportivo sia chiamato a operare nell’interesse sia del club cedente sia del minore e riesca a trovare un club, potenziale acquirente, disposto a investire nell’operazione di acquisto del diritto alla prestazione sportiva e di pagamento dell’ingaggio per un quinquennio la complessiva somma di dieci milioni. Potendo confidare esclusivamente sul compenso dovutogli dal club cedente, se questo compenso si determina in proporzione al valore della transazione (intesa nel significato anglofono di trasferimento), l’agente tenderà a destinare la maggior parte possibile dei dieci milioni nel contratto di scambio (anche al di sopra delle reali aspettative del club cedente) e la minor parte all’ingaggio dell’atleta (anche se al di sotto del valore di mercato della sua prestazione lavorativa). Evidentemente, nel caso del minore, il rischio ora profilato si configura anche laddove si ritenga che il riferimento al «valore della transazione» costituisca l’unico parametro del compenso dovuto in percentuale laddove vi sia un trasferimento (poco cambia, invece, a seguire questa interpretazione, se il lavoratore sportivo è maggiorenne e quindi anch’esso tenuto al compenso). 33 Circa l’esigenza di «comparare i concetti tipologici assunti dalla norma e quelli reperiti nell’esame dei fatti concreti» ricordiamo l’Ascarelli, ad esempio in T. Ascarelli, Studi di diritto comparato e in tema di interpretazione, Milano, 1952, XIX. 34 L’art. 27, comma 5, d.lgs. 28 febbraio 2021, n. 36 prevede che «La società ha l’obbligo di depositare, entro 7 giorni dalla stipulazione, il contratto presso la Federazione … per l’approvazione. Unitamente al predetto contratto devono essere depositati tutti gli ulteriori contratti stipulati tra il lavoratore sportivo e la società sportiva, ivi compresi quelli che abbiano ad oggetto diritti di immagine o promo-pubblicitari relativi o comunque connessi al lavoratore sportivo».

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Orbene, supponiamo che un agente sportivo debba favorire la conclusione di un contratto tra un giovane la cui immagine è destinata, nel giro di breve tempo, ad assumere un ingente valore economico e un club sportivo che è disposto soltanto parzialmente a investire in tale potenzialità. Analizziamo il caso che la sfruttabilità economica dell’immagine dello sportivo sia suscettibile di una valutazione, per i cinque anni successivi all’ingaggio, di circa cinque milioni di euro, ma che la società sportiva sia disposta a pagare al massimo un corrispettivo di due milioni di euro. Un’appropriata tutela dell’interesse del minore imporrebbe a tal punto che i diritti di sfruttamento dell’immagine non siano attribuiti al club ma restino riservati e gestiti autonomamente nella sua sfera giuridica, salva se mai una successiva rinegoziazione. Ma l’agente che si veda precluso il diritto al corrispettivo per la riserva dei diritti di immagine in capo al minore, spingerà per la cessione di essi alla società, sia pure a un prezzo inferiore al loro valore di mercato; ciò che si risolve in un ingiustificato arricchimento del club medesimo e, cioè, in un ingiusto vantaggio competitivo nei confronti degli altri club. Immaginiamo ora che un agente sportivo abbia ricevuto l’incarico di favorire la conclusione di un ingaggio da due giovani sportivi che ricoprono entrambi lo stesso ruolo e hanno rispettivamente l’età di diciott’anni il primo e di diciassette il secondo. Individuato un club che è alla ricerca di uno sportivo in grado di ricoprire proprio quel ruolo, l’agente sarà spinto a preferire l’accordo dal quale potrà ricavare un maggiore profitto e, ancora una volta, la supposta tutela del minore consistente nella gratuità dell’assistenza dell’agente si tradurrebbe in un trattamento deteriore. Un terzo ordine di casi nei quali la gratuità della prestazione resa al minore indurrà tipicamente l’agente a preferire a danno di questi l’interesse della società riguarda l’alternativa che vede, come primo termine, il rinnovo con lo stesso club ovvero la cessione del contratto a un’altra società e, come secondo termine, la prosecuzione del rapporto fino alla sua naturale conclusione con conseguente svincolo del minore e rientro dello stesso nel mercato «a parametro zero». L’esperienza sui professionisti – che con l’abolizione del vincolo ora prevista in via generale è destinata a estendersi a tutti i rapporti – ci insegna che questo è un conflitto ricorrente in quanto, da una parte, le società hanno interesse a preservare l’investimento incorporato nel rapporto col giocatore e, dall’altra, il giocatore coltiva spesso aspirazioni incompatibili. Normalmente queste contrapposizioni si verificano uno o due anni prima della scadenza del contratto ed è ben possibile che ciò avvenga quando l’atleta è ancora minore d’età35. Si tenga anche presente che conflitti di questo tipo si ripercuotono quasi sempre sull’utilizzo in campo del giocatore e, quindi, sulla sua forma atletica e sulla sua visibilità mediatica36. A quel punto, allora, sarà di vitale importanza

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Si consideri che «il lavoratore sportivo può essere assistito da un agente sportivo a partire dal compimento del quattordicesimo anno di età» (art. 10, comma primo, d. lgsl. 28 febbraio 2021, n. 37) e che, a regime, i contratti potranno essere fissati per la durata massima di cinque anni (art. 26, comma secondo d. lgsl. 28 febbraio 2021, n. 36). 36 Sulla complessa dialettica accennata nel testo sia consentito il rinvio a T. Mauceri, Interesse ad adempiere e professioni sportive, in Riv. dir. civ., 2016, I, 843 ss.

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un’assistenza da parte dell’agente che persegua l’interesse del minore; ciò che non pare affatto garantito da un rapporto di tipo gratuito. Nei casi descritti non si potrà imputare all’agente-mandatario di non aver realizzato adeguatamente l’interesse del minore, dato che è espressamente consentito dalla nuova disciplina curare al contempo l’interesse del club sportivo, a condizione ovviamente che l’agente non tenga nascosta tale circostanza al giovane atleta (e al suo rappresentante legale)37. In ogni caso va richiamato l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale secondo il quale, nel mandato, la fattispecie di conflitto di interesse non è suscettibile di autonoma considerazione e va ricondotta al tema della diligenza nella cura degli interessi del minore e, cioè, alla disciplina posta dall’art. 1710 c.c.38. Orbene, anche sotto questo specifico profilo, la gratuità del rapporto tra minore sportivo e agente inciderà negativamente sulla tutela del primo rispetto a eventuali trascuratezze ad opera del secondo. Troverà, infatti, applicazione, sia pure in via analogica, la regola secondo la quale la responsabilità del mandatario, nel mandato gratuito, è valutata con minor rigore. È, infatti, in gioco un principio sistematico che si esplica anche in altre disposizioni, come ad esempio l’art. 1768 c.c. per la responsabilità del depositario nel caso di deposito gratuito, gli artt. 1812 e 1821 per i danni cagionati rispettivamente al comodatario e al mutuatario (in caso di mutuo gratuito) dai vizi delle cose date a prestito, l’art. 1266, comma secondo, per quanto riguarda la garanzia nella cessione del credito a titolo gratuito e gli artt. 797 e 798 (garanzia per evizione e responsabilità per vizi della cosa donata). Questo principio si radica in una tradizione giuridica risalente39 e riflette la logica anche di razionalità economica per la quale i costi e i benefici delle attività professionali e imprenditoriali vanno sempre correlati40.

5. Una possibile (difforme) interpretazione e qualche dubbio di legittimità costituzionale.

Abbiamo preso le mosse dall’esigenza, avvertita dal legislatore, di tutelare il minore che si avvia al professionismo sportivo ma, nel corso dell’indagine, abbiamo dovuto constatare che il meccanismo della gratuità della prestazione resa in suo favore dall’agente

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Sul c.d. «mandato plurimo» di già esplicitamente ammesso dai regolamenti federali v. L. Santoro, La disciplina della professione di agente sportivo, cit., spec. 7 ss. Circa gli obblighi informativi e la loro accentuazione in caso di potenziale conflitto di interessi v., con riferimento al sistema previgente, A.G. Cianci, Intermediazione nel trasferimento di calciatori, obblighi dell’agente e disciplina della concorrenza, in Nuova giur. civ. comm., 2006, II, 636 ss. e spec. 648 ss. 38 V. G. Di Rosa, Il mandato, II, Artt. 1710-1730, in Cod. civ. Comm. fondato da P. Schlesinger diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2017, 3 ss. e specialmente 14 s. 39 V. già F. Vallardi, Onerosità e gratuità degli atti giuridici con particolare riferimento ai contratti, Milano, 1942, 4 ss. e 179 ss. e la Rel. al re n. 559. Di recente si è soffermato sulla correlazione tra rimedi contrattuali e logica dello scambio G. Guzzardi, La permuta atipica. Tratti ricostruttivi e regole operazionali, Torino, 2019, 147 ss. 40 In generale, per la costruzione di una nozione della diligenza imperniata sul criterio (sulla logica) del calcolo costi-benefici v. A. Belfiore, La colpa come criterio di responsabilità contrattuale: la nozione, in Studium iuris, 2007, 677 ss.

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sportivo costituisce una soluzione irrazionale; si finisce infatti così per privare il minore della possibilità di avvalersi delle prestazioni di un agente sportivo che siano realmente soddisfacenti dei suoi interessi e rispetto alle quali sia munito di pieni poteri di controllo e tutela civilistica41. Giova, allora, tornare sul quesito iniziale circa la ratio della disposizione di legge esaminata per chiederci anche se, alla luce dei rilievi svolti, essa si collochi in una dimensione incline maggiormente alla tutela della genuinità dell’attività sportiva o, all’opposto, alla razionalizzazione delle attività economiche connesse, nel perseguimento dell’obiettivo di un’efficiente allocazione delle risorse. Orbene, è parso evidente che l’imposizione di gratuità della prestazione resa dall’agente sportivo non presenta un adeguato tasso di razionalità per il fenomeno del professionismo e allora la risposta sul senso della scelta che si traduce in questa norma va ricercata altrove. Dalle statistiche rese note dal sito ufficiale della nostra federazione dei calciatori rileviamo che, nell’ultimo decennio, con un dato in costante crescita, il numero dei tesserati nel settore giovanile-scolastico è stato sempre di gran lunga superiore ai seicentomila bambini-giovani. Orbene, dei circa 700.000 giovanissimi che attualmente sono affiliati alla FIGC si stima che non più di 5.000 accederanno al professionismo o semiprofessionismo. Se per questi cinquemila, il non poter contare su un contratto a prestazioni corrispettive con gli agenti sportivi si tradurrà in un’eterogenesi dei fini della tutela della loro condizione di minori, l’unica spiegazione che resta è che il legislatore abbia inteso precludere agli agenti (o a falsi agenti) di accaparrarsi indebite prestazioni da parte degli altri 695.00042. Verosimilmente, allora, ci troviamo di fronte a una norma che pare regolamentare una fattispecie ben precisa (la conclusione o cessione di contratti di lavoro sportivo da parte di sportivi minorenni tramite agenti) ma in realtà è volta a sottrarre al campo giuridico (e prima ancora economico) rapporti che è bene proseguano nella schiettezza e spontaneità delle gioviali dinamiche esclusivamente sportive.

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Ciò si pone peraltro in controtendenza rispetto al generale indirizzo legislativo e giurisprudenziale ormai da tempo incline a riconoscere una sempre più accentuata emancipazione del minore, in connessione anche al «nuovo ordine valoriale» dell’ordinamento e alla «necessità di oltrepassare la rigida distinzione tra esercizio di diritti personali e esercizio di diritti patrimoniali»: R. Senigaglia, Minore e contratto. Contributo alla teoria della capacità, Torino, 2020, 75 ss. e passim. Con specifico riferimento alle scelte riguardanti l’attività sportiva v. R. Amagliani, Sport e minore età: l’illecito sportivo tra principi generali e regole di settore, in Giustiziacivile.com, 19 settembre 2019 (spec. 4) e F. Rende, Vincolo sportivo e interesse del minore, in G. Di Rosa-S. Longo-T. Mauceri (a cura di), Percorsi di ricerca in tema di rapporto obbligatorio, cit. Si tenga altresì presente, tornando all’agente sportivo, che tutta la disciplina del ruolo e della abilitazione di questa figura professionale è parsa a una prima lettura eccessivamente compressiva, anche nei confronti degli spazi operativi tradizionalmente riservati ai codici di autodisciplina sportiva: M.F. Serra, Considerazioni sulla figura dell’agente sportivo, cit., 109 ss., la quale riferisce anche di una diffida al governo italiano da parte del CIO con la quale si lamenta una limitazione dell’autonomia dell’ordinamento sportivo. 42 Si ricordi che una delle novità più rilevanti della nuova normativa consiste nell’estensione dell’ambito di applicazione allo sport dilettantistico (fermo restando un generale processo lato sensu di professionalizzazione): v., estesamente, L. Santoro, La disciplina della professione di agente sportivo, cit. Se, del resto, rivolgiamo lo sguardo al passato rileviamo come i problemi di risposta giuridica a condotte di (a volte sedicenti) agenti sportivi siano dipesi (non tanto dalla congruità degli affari conclusi e meno ancora dal corrispettivo richiesto nel corso delle buone pratiche quanto) da operazioni fittizie o tout court truffaldine a danno di ingenui dilettanti lusingati dal miraggio del successo professionale: v., ad esempio, Corriere della sera, ed. Milanese, 9 luglio 1969, 5: «Truffava i calciatori promettendo favolosi ingaggi in squadre di serie A» (a cura della redazione, in archiviocorriere.it).

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Per quanto riguarda i minori che realmente si affacciano sul mondo del professionismo (o semiprofessionismo) occorre, quindi, prendere le distanze dalla formulazione testuale dell’art. 10, d.lgsl. 28 febbraio 2021 n. 37 e proporre un’interpretazione antiletterale, di tipo restrittivo, che riscriva la disposizione nel senso che dal minore non sia esigibile alcun «pagamento, utilità o beneficio» in aggiunta al compenso che resta comunque dovuto all’agente per le prestazioni effettivamente eseguite43. È pur vero che gli agenti sportivi avversi al rischio che un giudice non accolga l’interpretazione razionale qui proposta e opti piuttosto per quella letterale tenderanno comunque a non richiedere alcun compenso ai minori e, in casi come quelli qui esemplificati, a preferire la cura di interessi contrapposti44. Ove, infine, si ritenesse che il significato letterale non può essere corretto in virtù del criterio della ricerca dell’intenzione del legislatore, resterebbe da considerare la via della dichiarazione di illegittimità costituzionale su iniziativa, ad esempio, del primo agente sportivo che, sanzionato per aver ricevuto un corrispettivo da qualche giovane facoltoso top player, chiederà la disapplicazione della norma. La questione di legittimità costituzionale potrebbe essere sollevata in base a due diversi approcci. Innanzitutto, si può ritenere che vi sia un eccesso rispetto alla legge delega45: la previsione di una regola così peculiare, in stridente contrasto con la dichiarata istanza di protezione della figura del minore e con i principi generali che sorreggono la disciplina del rapporto obbligatorio, avrebbe richiesto già in sede parlamentare una precisa scelta politica in tal senso. Invece, tale scelta è stata arbitrariamente introdotta in sede governativa e non pare affatto ravvisabile nei generici riferimenti all’esigenza di tutela del minore contenuti nella legge delega; piuttosto, si è visto come si profili un rischio di mancanza di trasparenza e imparzialità nella condotta dell’agente, in netto contrasto con le linee direttive della medesima legge delega46. In secondo luogo, pare a questo punto evidente come la regola di necessaria gratuità del rapporto costituisca un intralcio alla libertà di iniziativa economica e possa avere effetti distorsivi sul gioco della concorrenza47, in contrasto, quindi, anche con gli artt. 41 e 3 del-

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Come, cioè, se la norma tenesse implicitamente fermo il compenso dovuto dal minore e vietasse pagamenti aggiuntivi (v. supra, § 2). Una cautela auspicabile potrebbe consistere nello stipulare contratti con minori in cui è previsto il corrispettivo, ma la cui efficacia è subordinata all’approvazione da parte delle Federazioni, in modo che siano questi enti ad avallare le negoziazioni appropriate correggendo la scelta (per molti versi infelice) della redazione formale della disposizione. Va segnalato che l’art. 5, comma 7 del d.lgsl. 28 febbraio 2021, n. 37 prevede che «il contratto di mandato sportivo deve essere depositato dall’agente sportivo presso la Federazione Sportiva Nazionale nel cui ambito opera, a pena di inefficacia, entro venti giorni dalla data della sua stipulazione, secondo le modalità stabilite dal decreto di cui all’articolo 12, comma 1». Orbene, è auspicabile che l’atto governativo da ultimo richiamato (il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o “dell’Autorità politica da esso delegata in materia di sport” al quale il d.lgsl. delega “la disciplina di attuazione e integrazione”) preveda espressamente l’approvazione qui ipotizzata. 45 Cfr., però, con l’idea che la delega parlamentare fosse «in bianco» in quanto foriera di amplissimi margini di integrazione e correzione in capo al governo, M.F. Serra, Considerazioni sulla figura dell’agente sportivo, cit., 111. 46 V., ad esempio, Corte cost., 14 marzo 2014, n. 50, in Dir. prat. trib., 2014, 810 ss. e, in motivazione, Corte Cost. 23 marzo 2016, n. 59, in Foro it., 2016, I, 1526 ss. 47 In generale, sulla rilevanza costituzionale del principio di libera concorrenza v., esemplarmente, M. Libertini, La tutela della concorrenza nella Costituzione. Una rassegna critica della giurisprudenza costituzionale italiana dell’ultimo decennio, in Mercato 44

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la Costituzione e con un principio di ragionevolezza nell’ingresso di interventi eteronomi nella regolazione del mercato48.

concorrenza regole, 2014, p. 501 ss. Sul modo in cui l’attività degli agenti sportivi può provocare distorsioni sulla concorrenza si sofferma A.G. Cianci, Intermediazione nel trasferimento di calciatori, obblighi dell’agente e disciplina della concorrenza, cit., 651 ss. 48 V. Corte cost. 17 febbraio 2016, n. 30, in Foro it., 2016, I, 1126 ss.

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Tania Bortolu

Prenuptial agreements e cohabitation contracts tra concezione pubblicistica del matrimonio e autonomia nella regolamentazione dei rapporti di natura “familiare”* Sommario :

1. Introduzione. – 2. Modelli stranieri. L’esperienza statunitense. – 2.1. (segue) L’esperienza europea: la Gran Bretagna. – 2.2 (segue) La Francia. – 2.3 (segue) La Germania. – 3. La disciplina italiana. Il divieto di accordi prematrimoniali. – 3.1. (segue) I contratti di convivenza. – 4. Osservazioni conclusive.

The essay analyses the nature and the range of questions related to the application of the prenuptial agreements and of the cohabitation contracts, achieving a comparison between the United States of America, the Great Britain, France, Germany and Italy, offering a critical view regarding the consecration of the private family autonomy and reflecting on the necessity of solving the contrast between public and private family models.

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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.

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Tania Bortolu

1. Introduzione. Nell’ambito della tematica del processo evolutivo delle relazioni familiari, meritano un’indagine tutti quei fenomeni che tendono a valorizzare l’autonomia privata nei rapporti tra coniugi e conviventi, con particolare riferimento ai riflessi patrimoniali nel momento in cui la coppia si trova in crisi, trattandosi di un’importante tappa del c.d. processo di privatizzazione e di contrattualizzazione delle relazioni familiari che la dottrina e la giurisprudenza hanno più volte rilevato1. L’analisi che segue affronterà, in particolare, il rilievo dei prenuptial agreements e dei cohabitation contracts nelle esperienze in cui tali fenomeni sono ammessi, il cui scopo è quello di disciplinare, rispettivamente, gli accordi che i futuri coniugi concludono per regolare alcuni aspetti della vita matrimoniale, patrimoniali e non, nonché dell’eventuale crisi coniugale, con il fine di limitare i poteri discrezionali del giudice, ovvero quei patti volti a disciplinare, sotto diversi profili, una convivenza more uxorio non ancora intrapresa o già in corso2. Entrambi gli istituti sono riconducibili all’esperienza anglosassone e, sebbene essi non presentino ovunque gli stessi caratteri e non raggiungano in ogni contesto la medesima diffusione3, è interessante il loro studio, al fine di tracciare un quadro il più possibile completo degli scenari futuri cui potrà giungere il riconoscimento dell’autonomia della coppia quale fonte e tecnica di composizione della crisi anche in ordinamenti in cui il c.d. breadwinner family model4 continua ad essere prevalente, nonostante la tendenza al riconoscimento delle esigenze del singolo nel momento in cui viene meno la comunione di vita affettiva, e quindi materiale e spirituale, della coppia5. In Italia, l’argomento si inserisce nel più ampio dibattito sulla crisi della “famiglia legittima” a seguito dell’evoluzione dei costumi, dei rapporti sociali tra uomo e donna, dei valori e dei paradigmi culturali e sociali dei rapporti familiari6, ove il matrimonio non appare

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In tal senso, M. Palazzo, Il diritto della crisi coniugale. Antichi dogmi e prospettive evolutive, in Riv. dir. civ., 3, 2015, 575 ss. Sull’argomento: L. Mengoni, Nuovi orientamenti sul matrimonio civile, in Jus, 1980, (106 ss.), 110; G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, Milano, 1999; A. Zoppini, Tentativo di inventario per il nuovo diritto di famiglia: il contratto di convivenza, in Riv. crit. dir. priv., 2001, 338; P. Rescigno, Le famiglie ricomposte: nuove prospettive giuridiche, in Familia, 2002, 1; S. Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Tratt. di dir. fam., III, Milano, 2002; P. Zatti, Tradizione e innovazione nel diritto di famiglia, in G. Ferrando-M. Fortino-F. Ruscello (a cura di), in Tratt. di dir. fam., (dir. P. Zatti), I, 1, Milano, 2011, 3 ss.; T. Auletta, Famiglie ricomposte e obbligo di mantenimento, in Familia, 2007, 3; M. G. Cubeddu, Autonomia privata e regimi patrimoniali, in Tratt. dir. priv. (dir. M. Bessone), IV, 3, I rapporti patrimoniali tra coniugi (a cura di T. Auletta), Torino, 2011, 1 ss. A. Maietta, Accordi prematrimoniali, contratti di convivenza e diritti delle parti. L’ordinamento italiano e gli ordinamenti stranieri a confronto: certezze e dubbi, in http://www.comparazionedirittocivile.it/prova/files/maietta_accordi.pdf. E. Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, in Fam. e dir., 5, 2005, 543 ss. Tale concezione della famiglia attribuisce all’uomo il compito di provvedere alle esigenze economiche della stessa, mentre alla donna è attribuito il ruolo di casalinga a tempo pieno. Ci si riferisce alla medesima concezione anche con la contrapposizione tra male breadwinner e full-time housewife model. Per un approfondimento sull’argomento si veda R. Rubio Marin, The (dis)establishment of gender: care and gender roles in the family as a costitutional matter, in I•CON, Vol. 13 No. 4, 2015, 787 ss. V. Carbone, Crisi della famiglia e principio di solidarietà, in Fam. e dir., 2012, 1 ss. V. Carbone, Crisi della famiglia e principio di solidarietà, cit., 20.

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necessariamente come luogo costitutivo degli status, ovvero quale elemento fondante la famiglia intesa come struttura giuridica7. In tale contesto, le problematiche riferite alla possibilità di attribuire valore alla negoziabilità degli effetti della fisiologia e della patologia del rapporto coniugale, tanto con riguardo ai profili patrimoniali quanto con riferimento ai profili personali8, sono strettamente connesse alla concezione pubblicistica del matrimonio, come intesa originariamente nel nostro ordinamento e solo in parte superata con la riforma del 19759. Autorevole dottrina ha infatti sostenuto che la questione riguarda il fondamento stesso dell’istituto matrimoniale e «coinvolge interessi che in parte oltrepassano il singolo rapporto coniugale, avuto riguardo alla funzione di tutela svolta dal diritto della famiglia quale essenziale struttura della primaria formazione sociale»10. Come da tempo osservato, è importante avere ben presente la specificità del diritto di famiglia ed il suo innegabile ricorso ai principi generali, stante la strutturale compatibilità degli istituti della “famiglia” con la tutela generale dei diritti costituzionalmente garantiti, che nel settore della società familiare si realizza attraverso il principio di solidarietà, il quale, oltre ad implicare una partecipazione di entrambi i coniugi, con i propri beni, ai bisogni della famiglia nel suo complesso, è chiamato, altresì, a governare i rapporti nel momento patologico della crisi, esprimendo il più realista concetto di “solidarietà postfamiliare”11. Il principio solidaristico comporta il dovere dei coniugi di agire in modo da tutelare e salvaguardare la posizione dell’altro nei rapporti reciproci, evitando di assumere comportamenti contrari alla correttezza ed alla buona fede. La condotta discendente da tali principi deve essere ancora più rigorosa in presenza di figli, nei confronti dei quali i genitori sono tenuti a perseguire concordemente l’indirizzo di vita familiare, nel rispetto delle norme inderogabili poste a tutela della prole, nonché al principio della bigenitorialità, il quale costituisce anch’esso una tappa fondamentale nel processo di adeguamento ai valori costituzionali della disciplina relativa ai rapporti tra genitori e figli nella crisi familiare. Siffatti aspetti, tuttavia, non arrestano il processo di privatizzazione e pluralizzazione dei modelli familiari secondo categorie che vanno interpretate non solo in relazione all’evoluzione della società e dei costumi, ma anche secondo le trasformazioni del quadro normativo, che riflettono chiaramente una tendenza dell’ordinamento a riconoscere l’autodeterminazione delle parti, nel rispetto delle esigenze pubblicistiche di tutela di parti-

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M. Palazzo, Il diritto della crisi coniugale. Antichi dogmi e prospettive evolutive, cit., 585. G.F. Basini, I così detti “patti prematrimoniali”. Note de iure condendo, in Fam. e dir., 12, 2019, 1153 ss. 9 In favore del superamento della concezione pubblicistica del matrimonio si sono espressi, fra gli altri: C.M. Bianca, Diritto Civile, 2.1., La famiglia, Milano, cit., 32 ss; A. Finocchiaro, Del matrimonio, II, in Commentario al codice civile Scialoja-Branca , a cura di F. Galgano, Artt. 48-158, Bologna-Roma, 1993, 10; G. Ferrando, voce Matrimonio civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XI, Torino, 1994, 237 ss.; G. Ferrando, Il matrimonio, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu-F. Messineo, Milano, 2002, 1775 ss. 10 M. G. Cubeddu, Autonomia privata e regimi patrimoniali, cit., 2. In relazione alla funzione svolta dal diritto della famiglia, l’A. richiama gli insegnamenti di P. Rescigno, Matrimonio e famiglia, Torino, 2000; P. Bessone, Rapporti etico-sociali, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, sub artt. 29-34, Bologna-Roma, 1976. 11 V. Carbone, Crisi della famiglia e principio di solidarietà, cit., 3, il quale ritiene che la solidarietà applicata alla famiglia in crisi debba essere finalizzata a salvare la società naturale alla base della famiglia, evitando conflittualità. 8

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colari valori, quali la solidarietà coniugale e l’intangibilità degli interessi della prole12. Il sistema volge infatti verso questa direzione13 e ne è riprova l’approdo ad un unico status di figlio, indipendentemente dalla nascita all’interno o all’esterno del matrimonio (Legge n. 212/2012), oltreché l’introduzione delle convenzioni di negoziazione assistita per le risoluzioni consensuali di separazioni personali, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, anche in presenza di figli minori o non autosufficienti (Legge n. 162/2014)14; il definitivo superamento del disvalore delle convivenze tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso a seguito del loro riconoscimento intervenuto con la Legge n. 76/201615. Proprio tale ultima riforma ha permesso di introdurre in Italia una disciplina legale sui contratti di convivenza, che consente di regolamentare i rapporti personali e patrimoniali tra persone conviventi, che non vogliano o non possano regolamentare la loro unione con il matrimonio16.

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A. Maietta, Accordi prematrimoniali, contratti di convivenza e diritti delle parti. L’ordinamento italiano e gli ordinamenti stranieri a confronto: certezze e dubbi, cit., 1. In dottrina si parla di “diritto di famiglia” come diritto “misto” proprio perché l’autodeterminazione delle parti coesiste con le esigenze pubblicistiche poste dall’ordinamento a tutela dei diritti del coniuge debole e della prole. Sul punto si veda S. Sica, Famiglia di fatto e cohabitation contracts, in G. Autorino e al., Sistemi giuridici comparati: ipotesi applicative, Salerno, 1997, 269. 13 M. Palazzo, Il diritto della crisi coniugale. Antichi dogmi e prospettive evolutive, cit., 584. In tal senso anche F.D. Busnelli, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv. Dir. Civ., 2002, I, 509. 14 Legge 10 novembre 2014, n. 162 di conversione, con modificazioni, del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132 recante «Misure urgenti di degiusdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile», pubblicata in G.U. il 10 novembre 2014, n. 261. 15 In tal senso, M. Sesta, La disciplina dell’unione civile tra tutela dei diritti della persona e creazione di un nuovo modello familiare, in Fam. e Dir., n. 10, 2016, 881 ss. 16 Sul punto, G. Ferrando, Diritto di famiglia, Unioni civili e convivenze. Aggiornamento 2016, reperibile su http://static.zanichelli.it/ catalogo/assets/a04.9788808621313.pdf, ritiene che la disciplina introdotta dalla legge n. 76/2016 recepisca, in parte, quanto già previsto dalla legge o dalla giurisprudenza. Si segnalano, inoltre, i seguenti contributi sulla nuova normativa: Aa.Vv., Unioni civili e convivenze di fatto: la legge, a cura di P. Rescigno e V. Cuffaro, in Giur. It., 2016; aa. Vv, Le unioni civili e le convivenze, a cura di C.M. Bianca, Torino, 2017; G. Alpa, La legge sulle unioni civili e sulle convivenze. Qualche interrogativo di ordine esegetico, in NGCC, 2016, 1718; G. Amadio, La crisi della convivenza, in NGCC, 2016, 1765; T. Auletta, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia? (L. 20 maggio 2016, n. 76), in NLCC, 2016, 367; G. Autorino Stanzione-P. Stanzione, Unioni di fatto e patti civili di solidarietà. Prospettive de iure condendo, in AA. VV., Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza, vol. 5: Le unioni di fatto, il cognome familiare, l’affido condiviso, il patto di famiglia, gli atti di destinazione familiare. Riforme e prospettive, a cura di G. Autorino Stanzione, Torino, 2007, 1; F. Azzarri, «Unioni civili e convivenze (diritto civile)», in Enc. dir., Annali, Milano, 2017, 997; L. Balestra, «Contratti di convivenza», in Enc. dir., Annali, Milano, 2017, 291; G. Ballarani, La legge sulle unioni civili e sulla disciplina delle convivenze di fatto. Una prima lettura critica, in Dir. Succ. e Fam., 2016, 623; C.M. Bianca, Diritto civile II-1. La famiglia, Milano, 2017; M. Blasi, R. Campione, A. Figone e G. Oberto, La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016; C. Bona, La disciplina delle convivenze nella l. 20 maggio 2016 n. 76, in FI, I, 2016, 2093 ss; G. Buffone-M. GattusoM.M. Winkler, Unione civile e convivenza, Milano, 2017; M. Canonico, Gli aspetti patrimoniali delle unioni civili e delle convivenze di fatto, in Dir. Fam. e Pers., 2016, 1108; G. D’Amico, Contratto di convivenza e atto di destinazione, in Fam. e Dir., 2018, 203; C. Dalia, Lo scioglimento negoziale del contratto di convivenza: accordo risolutorio e recesso unilaterale, in Dir. Fam. Pers., 2017, 555; S. Delle Monache, Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale (alla soglia della regolamentazione normativa delle unioni di fatto), in Riv. dir. cv., 2015, 944; A. Di Fede, Diritto di famiglia e «negozi» di convivenza, Napoli, 2018; G. Di Rosa, I contratti di convivenza (art. 1, commi 50º ss., l. 20 maggio 2016, n. 76), in NLCC, 2016, 694; M. Dogliotti, Dal concubinato alle unioni civili e alle convivenze (o famiglie?) di fatto, in Fam. e Dir., 2016, 868; E.A. Emiliozzi, Il contratto di convivenza nella legge 20 maggio 2016, n. 76, Milano, 2018; A. Falzea, Problemi attuali della famiglia di fatto, in AA.VV., Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli, 1988, 51; M. Franzoni, I contratti tra conviventi more uxorio, in RTDPC, 1994, 737; F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983; L. Lenti, La nuova disciplina della convivenza di fatto: osservazioni a prima lettura, in www.juscivile.it, 2016, 92; L. Martinez, La rilevanza del “fatto” convivenza, in NGCC, 2016, 1731; R. Mazzariol, Convivenze di fatto e autonomia privata: il contratto di convivenza,

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2. Modelli stranieri. L’esperienza statunitense. I termini “accordi prematrimoniali” e “contratti di convivenza” individuano una gamma assai ampia di tipologie di accordi che i coniugi o i conviventi possono prevedere e disciplinare astrattamente; pertanto, al fine di considerare le innumerevoli fattispecie concrete e la portata delle implicazioni legate alla loro applicazione, risulta di particolare interesse un’indagine di natura comparatistica rispetto agli ordinamenti che già li riconoscono e disciplinano17. Quando si parla di prenuptial agreements si deve necessariamente fare riferimento all’esperienza statunitense18, in quanto essa rappresenta la patria di tali accordi, essendo il Paese pioniere nel riconoscimento della loro rilevanza giuridica19.

Napoli, 2018; L. Nonne, Trust e rapporti patrimoniali tra coniugi e conviventi: osservazioni sistematiche e profili operativi, in Riv. Dir. Priv., 2008, 99; ID., La risoluzione del contratto tipico di convivenza: una lettura sistematica, in RTDPC, 2018, 39; G. Oberto, La convivenza di fatto: I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, in Fam. e Dir., 2016, 943; S. Patti, La convivenza «di fatto» tra normativa di tutela e regime opzionale, in Foro It., 2017, I, 301; S. Pellegatta, Convivenza di fatto e dichiarazione anagrafica: natura costitutiva o probatoria?, in Fam. e Dir., 2017, 893; U. Perfetti, Autonomia privata e famiglia di fatto. Il nuovo contratto di convivenza, in NGCC, 2016, II, 1749; I. Prisco, Sulla disciplina delle unioni civili e delle convivenze, in Rass. dir. civ., 2016, 1081; E. Quadri, “Unioni civili tra persone dello stesso sesso” e “convivenze”: il non facile ruolo che la nuova legge affida all’interprete, in CG, 2016, 893; F. Romeo, Dal diritto vivente al diritto vigente: la nuova disciplina delle convivenze. Prime riflessioni a margine della l. 20 maggio 2016, n. 76, in NLCC, 2016, 665; A. Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001; F. Tassinari, Il contratto di convivenza nella L. 20.5.2015 n. 76, in NGCC, 2016, 1736; M. Trimarchi, Unioni civili e convivenze, in Fam. dir., 2016, 859; F. Viglione, I rapporti di convivenza: esperienze europee, in NGCC, 2016, 1723; G. Villa, Il contratto di convivenza nella legge sulle unioni civili, in RDC, 2016, 1319. Sull’argomento relativo ai contratti di convivenza prima della nuova legge, si vedano altresì i contributi: AA.VV., I contratti di convivenza, a cura di E. Moscati e A. Zoppini, Torino, 2002; L. Balestra, I contratti di convivenza, in Fam. pers. succ., 2006, 43 ss.; R. Bassetti, Contratti di convivenza e di unione civile, Torino, 2014; F. de Scrilli, Convivenza e situazioni di fatto. I patti di convivenza, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, I, 1, II ed., Milano, 2011, 1148 ss.; L. Gremigni Francini, Autonomia privata e famiglia di fatto, in La famiglia e il diritto fra diversità nazionali ed iniziative dell’Unione Europea, a cura di D. Amram e A. D’Angelo, Padova, 2011, 333 ss.; D. Muritano-A. Pischetola, Accordi patrimoniali tra conviventi e attività notarile, Milano, 2009; F. Angeloni, Autonomia privata e poteri di disposi zione nei rapporti familiari, Padova, 1997, 495 ss.; M. Franzoni, Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more uxorio, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II ed., Torino, 2007, p. 527 e ss.; M. Franzoni, I contratti tra conviventi more uxorio, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1994, 737 ss; G. Oberto, Convivenza (contratti di), in Contratto e Impresa, 1991, 369 ss; G. Oberto, I diritti dei conviventi, Padova, 2012; G. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991; F. D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano, 1989; F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983. In giurisprudenza, si veda, ex multis, Cass. civ., 8 giugno 1993, n. 6381, in Vita notar., 1994, 225, nonché Corr. giur., 1993, 947, con nota V. Carbone, Casa in comodato vita natural durante per una breve convivenza more uxorio; R. Senigaglia, Convivenza more uxorio e contratto, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2015, II, 671 ss.; G.A.M. Trimarchi, Gli accordi tra conviventi e riflessi sull’attività notarile, in Studi e Materiali, 2011, 11 ss.; A. Zoppini, Tentativo d’inventario per il «nuovo» diritto di famiglia: il contratto di convivenza, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2001, 335; Id., L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv. dir. civ., 2002, I, 213. 17 Per alcune raffronti comparatistici: G. Autorino Stanzione, “Autonomia privata” e Family Relationships Between Legal and De Facto Situations, in Rapports Nationaux Italiens au XVIe Congrés International de Droit Comparé – Italian National Reports to the XVIth International Congress of Comparative Law, Milano, 2002. 18 Per un’indagine sul diritto di famiglia negli USA: T. Glennon, Family Law in the United States: Freedom and Inequality, in S. Choudhry & J. Herring (Eds), The Cambridge Companion to Comparative Family Law (Cambridge Companions to Law), 48-76 (2019). 19 I patti prematrimoniali diffusi negli Stati Uniti d’America sono noti in tutto il mondo anche grazie alla loro adozione da parte di personaggi noti. È famoso l’accordo tra Jackie Kennedy e Aristotele Onassis, sottoscritto dai futuri coniugi in vista del matrimonio. Con le nuove nozze, infatti, la vedova del Presidente Kennedy avrebbe perso tutti i benefici derivanti dal suo status. Dunque, per tutelarsi riuscì ad ottenere un accordo prematrimoniale che prevedeva tre miliardi di dollari all’anno come argent de poche, svariati miliardi di risarcimento in caso di divorzio o di morte, oltre all’indicazione di somme mensili per le spese voluttuarie, una trattenuta per le emicranie e una clausola che riconosceva solo ed esclusivamente alla moglie la facoltà di decidere la frequenza dei congiungimenti

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I patti sono ampiamente diffusi nei vari Stati della Federazione, seppur con discipline differenti, mancando una specifica legislazione a livello federale; tuttavia, a fronte di una prima fase in cui essi si sono diffusi in modo disomogeneo, ha fatto seguito una tendenza degli Stati volta ad elaborare principi comuni, che hanno trovato attuazione dapprima nello Uniform Premarital Agreement Act (UPAA), elaborato dalla National Conference of Commissioners on Uniform State Law (NCUSL) nel 198320, e successivamente nei Principles of the Law of Family Dissolution, redatti dall’Americam Law Institute nel 2002, ai cui patti è dedicato l’intero Chapter 7. Entrambi i documenti sono di particolare rilevanza perché assolvono ad una duplice funzione: da una parte, riorganizzano i principi e le regole via via consolidatisi nei diversi Stati, dall’altra, individuano e promuovono soluzioni innovative, al fine di favorire la loro adozione da parte di ciascuno Stato21. In particolare, l’UPAA, avente natura di rulebook, rappresenta una codificazione dei principi fondamentali espressi nelle leggi statali già esistenti sugli accordi prematrimoniali22, la cui adozione mira ad armonizzarne la disciplina nei diversi Stati, in quanto “make no radical departure from the developing common law; indeed, it incorporates the besti principles of existing state laws on premarital agreements”23. La sezione 2, lett. 5, definisce il “Premarital agreement” come un accordo tra persone che intendono sposarsi “which affirms, modifies, or waives a marital right or obligation during the marriage or at separation, marital dissolution, death of one of the spouses, or the occurrence or nonoccurrence of any other event. The term includes an amendment, signed before the individuals marry, of a premarital agreement”. I principi redatti nel 2002 richiamano la summenzionata definizione in relazione ai patti prematrimoniali, ma risultano di più ampia portata, in quanto estendono la possibilità di predisporre accordi anche ai conviventi. Inoltre, i Principles prevedono la possibilità di stipulare i marital agreements, ovvero accordi tra i coniugi volti a disciplinare la divisione dei beni di una coppia al momento del divorzio o della morte di uno di loro senza adire il tribunale; i postmarital agreements, patti stipulati dopo le nozze, con i quali i coniugi dispongono dei propri beni in caso di divorzio o di morte e, infine, i separation agreements, accordi attraverso i quali i coniugi accettano di vivere

carnali. I patti statunitensi sono noti anche grazie all’esperienza cinematografica. La pellicola di grande successo mondiale “Prima ti sposo e poi ti rovino” (in lingua originale: “Intolerable cruelty”), con protagonista un abile avvocato divorzista di Los Angeles, interpretato da George Clooney, il quale aveva ideato l’accordo “Massey”, un patto che non consentiva ai coniugi di rivendicare alcunché del patrimonio della parte più ricca. L’attore sostiene, in una scena, che l’accordo “non è romantico né interpretabile”. Per un contributo che pone alla luce il ruolo degli accordi prematrimoniali nella società americana si veda A. A. Marston, Planning for Love: The Politics of Prenuptial Agreements, in Stanford Law Review, vol. 49, n. 4, 1997, 887 ss., nonché H. Nasheri, Prenuptial agreements in the United States: a need for closer control?, in International Journal of Law, Policy and the Family, Vo. 12, Issue 3, 1998, 307-322. 20 All’attualità l’UPAA è stato approvato da 28 Stati e dal Distretto della Columbia. Si veda: https://www.uniformlaws.org/HigherLogic/ System/DownloadDocumentFile.ashx?DocumentFileKey=f5d36125-9433-c7d8-28ec-6244f4a316e6&forceDialog=0. 21 E. Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, in Fam. e dir., 2005, n. 5, p. 548. 22 B.A Atwood, Ten Years Later: Lingering Concerns About the Uniform PremaritalAgreement Act, 19 J. LEGIS. 127, 127 n.4 (1993). 23 Così Uniform Law Commissioners, Why All States Need the Uniform Premarital Agreement Act, in Uniform Premarital Agreement Act, Information Packet (1994).

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separatamente senza divorziare. In tali casi, l’accordo può prevedere il modo in cui i coniugi intendono occuparsi della prole, il mantenimento del coniuge e la suddivisione delle proprietà e dei beni. Quale che sia la forma dei patti, la loro validità è strettamente connessa al profilo procedurale riguardante la corretta e consapevole formazione dell’atto, in relazione alla libera e volontaria prestazione del consenso, che rende uneforceable, ovvero inapplicabile, un patto che presenti delle irregolarità rispetto alle regole preposte alla corretta formazione del consenso24. Così prevede l’UPAA, che dispone l’inapplicabilità del patto laddove la parte contro la quale viene chiesta l’esecuzione dimostri che l’accordo non è stato concluso liberamente, o perché prestato in modo involontario o in quanto indotto da costrizione, ovvero che al momento della conclusione erano sussistenti i presupposti dell’unconscionability (iniquità), in quanto l’effettiva situazione patrimoniale di una parte non era stata resa nota o, comunque, non vi era stata un’effettiva possibilità di rendersi conto della situazione patrimoniale della controparte25. I Principles of the Law of Family Dissolution hanno ampliato le problematiche connesse alla validità di un accordo, riconoscendo la possibilità di accedere al controllo giudiziale anche per la fase successiva alla formazione dell’accordo, quando la parte che mira ad ottenere l’inefficacia dimostri la sussistenza di almeno uno dei seguenti presupposti: a) che sia trascorso un certo numero di anni tra la conclusione dell’accordo e il momento in cui se ne domanda l’esecuzione; b) che i partner, senza figli al momento della stipulazione dell’accordo, abbiano in seguito avuto o adottato un figlio; c) che tra il momento della stipulazione e quello dell’esecuzione sia intervenuto un significativo cambiamento delle circostanze il cui verificarsi e la cui portata fossero imprevedibili26. I Principles hanno così realizzato un significativo riconoscimento delle istanze di tutela della parte “debole”, mediante l’ampliamento delle possibilità di controllo giudiziale sugli accordi, che, appunto, non riguarda più solo la fase della formazione dell’accordo, ma si estende anche alla fase dell’esecuzione dello stesso. Al riguardo, il fulcro intorno al quale ruota tale estensione è connesso al principio della substantial injustice; principio questo che opera sia nei casi in cui la cui situazione economica di una parte vada incontro a modificazioni sfavorevoli in un periodo successivo alla stipulazione del patto, sia nei casi in cui una delle parti migliori significativamente i propri redditi rispetto all’altra. Pertanto, un prenuptial agreement potenzialmente valido nei suoi elementi costitutivi ed essenziali

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E. Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, cit., 553. Section 6. Sotto il profile procedurale, l’UPAA ha ricevuto forti critiche da parte dell’American Law Institute (ALI). Si veda American Law Institute, Principles of the Law of Family Dissolution: Analysis and Recommendations 980-81 (2002). In dottrina: B.A. Atwood & B.H. Bix, A new Uniform Law for Premarital and Marital Agreements, in Family Law Quarterly, vol. 46, 3, 2012, 313 ss; J.T. Oldham, With All My Worldly Goods I Thee Endow, or Maybe Not: A Reevaluation of the Uniform Premarital Agreement Act After Three Decades, 19 J.D. Gender L. & Pol’y 83 (2011); J.T. Younger, Lovers? Contracts in the Courts: Forsaking the Minimum Decencies, 13 Wm & M.J. Women & L. 349 (2007). 26 Section 7.05 (2) (a); b); c)). 25

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può essere ritenuto unjust, e dunque non enforceable, quando, all’esito dell’esame operato dal giudice, si riveli iniquo rispetto alla situazione di fatto al momento dell’esecuzione dell’accordo27. La section 7.05 dei Principles indica i fattori a cui i giudici devono fare riferimento al fine di valutare le ipotesi di sostanziale ingiustizia del patto: a) l’ipotesi che esso fosse stato stipulato con lo scopo di tutelare terzi, ed in particolare i diritti patrimoniali dei figli di un precedente matrimonio (section 7.05 (3) (c)), quale sia l’impatto dell’accordo sui figli e sulle parti (section 7.05 (3) (d)); b) in che misura la situazione complessiva che si realizzerebbe in caso di esecuzione dell’accordo si discosta da quella che si verrebbe a configurare se, in sua assenza, trovassero applicazione le previsioni legislative che esso ha sostituito (section 7.05 (3) (a) (b))28. Nelle legislazioni statali si trovano dei requisiti aggiuntivi ed alcune di essi hanno apportato modifiche al testo originario dell’UPAA volte ad accentuare i poteri di controllo del giudice e a rafforzare le garanzie a tutela della corretta formazione dell’accordo: nello Stato dell’Indiana, anche in presenza di patti prematrimoniali, il coniuge “debole” può ottenere il riconoscimento di un assegno di mantenimento laddove si verifichi una situazione di “extreme hardship” non ragionevolmente prevedibile al momento della sottoscrizione del patto; nel Connecticut il premarital agreement è ineseguibile anche nel caso in cui una delle parti dimostri di non aver avuto una adeguata assistenza legale; in New Jersey l’accordo si ritiene unconscionable quando la sua esecuzione determini un tenore di vita superiore rispetto a quello precedente al matrimonio; in Iowa, in New Mexico e in South Dakota è stato eliminato lo spousal maintenance dalle materie che possono costituire un valido accordo; anche in California le pattuizioni volte ad eliminare o ridurre il diritto al mantenimento (spousal support) non sono menzionate nel California Family Code29. Rispetto alle materie che possono formare oggetto di un prenuptial agreement, in via generale, vi è una tendenza comune a tutte le legislazioni statali di escludere dai patti le questioni relative all’affidamento, all’esercizio della potestà e al mantenimento della prole30, oltreché questioni ritenute di natura intima e personale, riguardanti principalmente la

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A tal proposito, si segnala l’orientamento dei tribunali statunitensi di applicare la clausola dell’iniquità in modo piuttosto restrittivo e solo nei casi in cui essa sia palese. In caso contrario, infatti, si “darebbe corso ad una concezione paternalistica del diritto, che è da ritenersi superata”. Così A. Maietta, Accordi prematrimoniali, contratti di convivenza e diritti delle parti. L’ordinamento italiano e gli ordinamenti stranieri a confronto: certezze e dubbi, cit., 3. 28 E. Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, cit., 553. L’A. richiama, rispetto al punto, la distinzione tra matrimoni di lunga e di breve durata. Nei primi il raffronto viene operato tra la situazione complessiva che si otterrebbe con l’applicazione del patto e quello con cui il coniuge “debole” avrebbe diritto in base alla legge, con riferimento al tenore di vita matrimoniale. Nei secondi, invece, tra la situazione complessiva che risulterebbe in applicazione del patto deve essere raffrontata con la situazione patrimoniale del coniuge precedente le nozze, ossia con il tenore di vita cui lo stesso coniuge avrebbe goduto se il matrimonio non avesse avuto luogo. 29 La Supreme Court of California ha precisato che l’omissione non vuole vietare gli accordi che eliminano o riducono lo spousal support, ma attribuire alle corti il giudizio sulla inapplicabilità di un patto. Pendleton v. Fireman, in 5 P.3d 839,99 Cal. Rptr. 2D 278 (2000), California Supreme Court. 30 Come previsto dall’UPAA e recepito dai Principles of The Law of Family Dissolution (in particolare dalla section 7.06 - Child Support).

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vita sessuale e la professione della fede religiosa. Anche patti volti a limitare i presupposti per accedere al divorzio sono generalmente esclusi dalle legislazioni statali, ad eccezione di quelle che riconoscono il Covenant Marriage, ovvero un modello di matrimonio nel quale lo scioglimento del vincolo soggiace ad una sorta di clausola di “durezza”, per cui il divorzio può essere ottenuto solo in presenza di alcune situazioni specifiche; la legislazione dell’Arkansas prevede, ad esempio, un periodo di due anni in caso di separazione giudiziale prima di poter sciogliere il matrimonio e due anni e sei mesi in presenza di figli, fatta salva la possibilità di presentare istanza di divorzio in un altro Stato, ove non vige tale regime31. A quanto sopra illustrato si aggiunga ancora che la stipula di un prenuptial agreement assume differente importanza a seconda del regime patrimoniale previsto nei vari Stati: alcuni infatti si basano sul modello della community property (California, Arizona, Idaho, Louisiana32, Nevada, New Mexico, Texas, Washington e Wisconsis), per effetto del quale, in assenza di accordo, i beni non personali vengono divisi in parti uguali tra i coniugi al momento del divorzio, mentre altri su quello della equitable distribution, in base al quale le corti, al momento dello scioglimento del matrimonio, possono dividere i beni tra i coniugi secondo un giudizio di equità, indipendentemente dal titolo di proprietà degli stessi33, godendo di un margine di discrezionalità determinato da diversi fattori: la capacità reddituale di ciascuno dei coniugi, il contributo fornito alla formazione del patrimonio comune e personale, la durata del matrimonio, l’età, la salute, le future esigenze finanziarie e le responsabilità economiche di ciascuno, compresi obblighi alimentari o coniugali determinati da precedenti relazioni34. Pertanto, la stipula di accordi prematrimoniali può rispondere all’esigenza di certezza circa la divisione del patrimonio negli equitable distribution states, ovvero ad evitare che metà dei beni non personali acquistati durante il matrimonio siano automaticamente assoggettati al regime legale predefinito dei common property states e, di conseguenza, attribuiti in ragione della metà ciascuno ai coniugi. Con riguardo ai cohabitation contracts, a fronte di un loro progressivo riconoscimento a partire dal caso Marvin35, in cui la Suprema Corte della California ha riconosciuto la validità di un contratto verbale tra conviventi, la loro attuale valenza è alquanto limitata nella maggior parte degli Stati della Federazione (California, Colorado, Connecticut, Di-

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Anche la legislazione di Louisiana, a partire dal 1997, riconosce i Covenant Marriage. Rientrano tra le situazioni specifiche l’adulterio, il crimine, la violenza contro un familiare, la separazione di fatto per un periodo di due anni o la separazione giudiziale pronunciata da almeno un anno, ovvero un anno e sei mesi in caso vi siano figli minori. La legislazione dell’Arizona prevede inoltre tra le cause di scioglimento anche il mutuo consenso. 32 C.K. Ulfers, Is a Postmarital Agreement in Your Best Interest? Why Louisiana Civil Code Article 2329 Should Let You Decide, 75 La. L. Rev. (2015). 33 Fatta salva la separate property, che include qualsiasi proprietà acquisita durante il matrimonio ottenuta tramite dono, lascito, devise or descent, or property otherwise provided for in a written agreement. 34 E. Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, cit., 544; A. Maietta, Accordi prematrimoniali, contratti di convivenza e diritti delle parti. L’ordinamento italiano e gli ordinamenti stranieri a confronto: certezze e dubbi, cit., 4. 35 Marvin v Marvin, 557 p. 2d 106 (Cal. 1976).

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strict of Columbia, Hawaii, Maine, Maryland, New Jersey, Nevada, Oregon, Winsconsin, Washington e Vermont), oltreché in alcune giurisdizioni (New York City e San Francisco), dal momento che è stata introdotta una disciplina sulla registred partnership, volta a fissare per legge tutti i diritti ed obblighi derivanti dalla convivenza36. Di talché lo strumento dei cohabitation contracts è stato sostituito dal modello di tutela legale, che si pone quale alternativa agli stessi e, di conseguenza, evita un’eccessiva discrezionalità delle parti nella regolamentazione dei diritti e dei doveri derivanti dal rapporto di convivenza37. 2.1. (segue). L’esperienza europea: la Gran Bretagna.

Entro i confini europei, le intese volte a definire gli assetti patrimoniali della coppia successivamente alla cessazione del rapporto affettivo assumono differente rilevanza a seconda che si tratti di patti stipulati tra due persone che intendano coniugarsi o che lo siano già, ovvero tra persone che intendano regolamentare la loro unione con un contratto di convivenza. In quest’ultimo caso, si assiste ad un maggiore riconoscimento dell’autonomia privata proprio in relazione al differente valore giuridico attribuito al matrimonio rispetto alle convivenze nella generalità degli ordinamenti. La common law inglese si differenzia ampiamente da quella statunitense in ragione degli ampi poteri attribuiti al giudice per la risoluzione delle controversie patrimoniali tra coniugi, sia in caso di divorzio che di nullità del matrimonio, nonché in caso di cessazione di una civil partnership38. La discrezionalità giudiziaria esercitata in seno alla crisi coniugale impedisce l’equiparazione ad un regime patrimoniale analogo a quello che in altri paesi prescrive il regime della comunione dei beni; a ciò consegue, in via generale, che al matrimonio si applicano le comuni regole sulla proprietà dei beni39, che prevedono la titolarità esclusiva dell’intestatario40. Pertanto, l’assenza di regole di origine legislativa che prestabiliscano il regime della comunione, in difetto del ruolo opzionale della divisione dei beni, unitamente all’atteggiamento fortemente statalista di questo ordinamento, fanno sì che le intese in vista di un’eventuale separazione o divorzio non siano vincolanti per le corti e, dunque, non limitino in alcun modo gli ampi poteri di cui essa dispone, a tutela degli interessi considerati di rilevanza generale41.

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A partire dagli anni ’70 del secolo scorso, si è assistito ad un diffuso riconoscimento dei cohabitation contract, tanto che molti stati della Federazione sono stati indotti ad adottare leggi che sostanzialmente equiparano la convivenza al matrimonio. Sul punto, S.N. Katz, New directions for family law in the United states in Indret, 2, 2007. 37 Sull’autonomia nell’àmbito dei rapporti familiari: J.G. Courtney, Autonomy in the Family, 66 UCLA, Law Review 912 (2019), reperibile su: https://ssrn.com/abstract=3436333. 38 Gli ampi poteri discrezionale delle corti inglesi in materia di famiglia sono riconosciuti dal Matrimonial Causes Act del 1973. 39 S. Cretney, Family Law in the 20th Century (OUP, Oxford, 2003) 96-97. 40 A. Sanders, Private autonomy and marital property agreements, in ICLQ, V. 49, 2010, 571-603, in www.journals.cambridge.org, 17 sept. 2010. 41 Il principio è stato ribadito nella decisione N v N (jurisdiction: prenuptial agreement) 1999 2 Family Law Reports, 745, ove il giudice Jonathan Cohen QC ha affermato “On the basis of public policy, antenuptial agreements as a class are not specifically enforceable in

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Su tali presupposti ed allo scopo di dare maggiore certezza al perimetro di validità degli accordi, a partire dagli inizi del XXI secolo, la giurisprudenza inglese ha individuato tre elementi fondamentali che possono essere presi in considerazione, di volta in volta, dalle corti al fine di decretare l’invalidità di un patto: lo stato di necessità (needs), l’indennizzo (compensation for economic disparity arising from de marriage ) e la condivisione dei beni (sharing)42. In concreto, dunque, le corti devono valutare se l’accordo determini una situazione di squilibrio eccessivo, ovvero di difetto di fairness, rispetto ad uno stato di bisogno di una delle parti, ovvero rispetto all’entità delle rinunzie effettuate da una di esse per la vita matrimoniale o ancora al contributo fornito durante il ménage43. La Suprema Corte nel caso White v Withe, assunto a ruolo di leading case, ha provveduto ad indicare i principi generali applicabili in materia di sistemazioni patrimoniali divorzili, indicando, quale criterio decisionale prevalente, l’interesse della prole e, come altri criteri, le necessità finanziarie presenti e future delle parti, l’indennizzo finalizzato a compensare significative future disparità economiche tra le parti, conseguenti alle scelte di vita matrimoniale effettuate dai coniugi, oltreché il principio dell’equal sharing, pur enfatizzando che lo yardstick of equality deve essere inteso quale elemento esclusivamente integrativo e non anche come principio base44. La successiva decisione Radmacher v Granatino ha sancito in via definitiva la validità degli accordi ante-nuptial, escludendone la contrarietà alla public policy, sul presupposto che “the reasoning in these cases is (…) in legal terms obsolete”, poiché “in the old cases, the public policy objections, seen as existing to both ante and post-nuptial agreements, were based on the policy of the law, founded upon the relation which exists between the husband and wife, and the importance to society of maintaining that relation between them”45. Nel caso, la Supreme Court ha altresì rilevato il necessario rispetto dell’autonomia privata, osservando che, se le parti concludono un pre- or postnuptial agreement, non vi è ragione per negare loro il diritto a vederlo applicato, salvo che esso appaia unfair, ovvero risulti che anche solo una delle parti non fosse stata resa edotta della vincolatività dell’accordo e dunque non fosse consapevole delle conseguenze; non avesse ricevuto tutte le informazioni essenziali; non avesse compreso che l’accordo era destinato a governare le conseguenze economiche determinate dalla crisi del matrimonio. In ogni caso, laddove emergesse che ciascuna parte possa soddisfare adeguatamente i propri bisogni, le esigenze di equità possono essere disattese e l’accordo considerato valido.

English law. The existence of an agreement and its evidential weight are factors to be taken into account when the court is deciding whether to exercise its discretion under s 25 of the Matrimonial Causes Act 1973 to make orders for financial provision under ss 23 or 24. Each individual clause is unenforceable on public policy grounds and there is no power in any statutory provision to compel the parties to implement part of the agreement”. 42 White v White (2001) 1 A.C. 596; Miller v Miller (2006) UKHL 26; McFarlane v McFarlane (2006) UKHL 24. 43 G. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Fam. e Dir., 1, 2012, 74. 44 A. Fusaro, Tendenze del diritto privato in prospettiva comparatistica, Torino, 2a ed., 2017, 223. 45 Radmacher v Granatino (2010) UKSC 42 (osservazioni di Lord Mance). L’osservazione era già stata riportata nelle parole di Lady Hale nella decisione MacLeod v MacLeod, di poco precedente.

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2.2. (segue). La Francia.

Per quanto riguarda la Francia46, tale ordinamento nega la validità degli accordi conclusi in via preventiva in merito all’an ed al quantum di prestazioni post-divorzili, sulla base dell’assenza di norme apposite e dell’ampia gamma di intese riconosciute ai coniugi in relazione al profilo relativo ai regimi patrimoniali47. L’art. 1497 del Code civil48 consente ai coniugi di modificare il regime legale di comunione in vista di un possibile divorzio, con l’adozione di accordi volti alla divisione dei beni, compresi quelli personali, anche in parti non uguali49, all’assegnazione dei beni comuni all’esito dello scioglimento, previo pagamento di una somma di denaro predeterminata50, alla possibilità per l’uno o l’altro coniuge di prelevare determinati beni a titolo gratuito, sempre in occasione dello scioglimento, nonché alla attribuzione di tutti i beni ad uno solo dei coniugi, con il diritto per l’altro ad ottenere una somma detta di forfait de communauté51. La libertà dei coniugi è dunque limitata alla crisi irreversibile del matrimonio, unico momento in cui si può negoziare l’intesa da sottoporre al vaglio del giudice; in tale prospettiva, l’esercizio dell’autonomia privata è limitato e comunque non si estende agli accordi preventivi, i quali sono considerati nulli52. A sostegno della chiusura dell’ordinamento sulla validità di tali accordi e, in particolare sulla nullità delle clausole recanti una “prestation compensatoire”, si è più volte pronunciata la Court de Cassation sul presupposto che “l’ordre public interne s’oppose à la validité de ces conventions car la prestation compensatoire n’est pas disponible”53; inoltre, l’art. 232 del Code civil consente al giudice di negare l’omologazione e di non concedere il divorzio laddove accerti che la convention non tuteli adeguatamente gli interessi dei figli o di uno dei coniugi54. Diverso è il discorso per quanto attiene ai rapporti di convivenza tra persone non coniugate: nel 1999, il legislatore francese ha introdotto l’istituto del Pacte civil de solidarité (Pacs)55, disciplinato dal Libro I del Code civil al capitolo I, integrato nel titolo XII, ove

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Per un’evoluzione del matrimonio e dei regimi patrimoniali in Francia: N. Frémeaux-M. Leturcq, Plus ou moins mariés: l’évolution du mariage et des régimes matrimoniaux en France, in Économie et statistique, n. 462-463, 2013, 125 ss. 47 G. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., 75. Per una disamina dei regimi patrimoniali tra coniugi in Francia, Terré-Simler, Droit civil, Les régimes matrimoniaux, Paris, 1994. 48 Ciò è consentito dalla riforma attuata con la Legge 2004-439 del 26 maggio 2004, entrata in vigore il primo gennaio 2005, che ha autorizzato i coniugi a concludere convenzioni per regolare tutti gli aspetti del divorzio. In quella sede si è discusso anche dei contratti prematrimoniali e nel rapporto per la commissione di riforma si legge che “il s’agit d’une suggestion, quoiqu’intéressant (mais) qui ne parait pas adaptée à l’état actuel de la société”. 49 I coniugi possono prevedere le clausole dette di stipulation de parts inégales e di attribution de la totalité de la communauté au survivant. 50 Clausola questa meglio conosciuta come “prélèvement moyennant indemnité” (Art. 1497 n. 3 Code civil). 51 Si badi che l’ultimo comma dell’art.1497 Code civil prevede espressamente che le regole della comunione legale restano applicabili in tutti i punti che non sono stati oggetto di accordo tra le parti. 52 D. Ruggiero, Gli accordi prematrimoniali, Napoli, 2005, 220 ss. 53 Court de Cassation, 1 Civ., 25 novembre 2015, pourvoi n. 14-14.003, Bull. 2015, I, 54 G. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., 75. 55 J.R. Binet, «Pacts et mariage: vingt ans de vie commune», in Dr Fam., 2019, étude 15; M. Saulier-J. Houssier, «Vingt ans après: le Pacts», in RJFP, 2019/11, 5.

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all’art. 515 esso viene definito come “un contratto concluso da due persone fisiche maggiorenni, di sesso diverso o dello stesso sesso, per organizzare la loro vita in comune”56. Tali patti richiedono meno formalismi rispetto al regime matrimoniale, essendo sufficiente, sia per il perfezionamento che per lo scioglimento dell’unione, recarsi presso la cancelleria del tribunale del luogo di residenza della coppia. Rispetto ai rapporti patrimoniali della coppia, i Pacs prevedono che i partenaires possano definire il regime patrimoniale dei beni mobili, svincolandoli dal regime legale della comunione pro-indiviso, mentre per gli immobili si applica la disciplina della comunione legale con l’attribuzione dei beni in parti uguali ai conviventi. Il Code civil, infine, riconosce, oltre al matrimonio ed ai Pacs, l’unione di fatto tra due persone definita concubinage, caratterizzata dalla convivenza stabile e continuativa, alla quale non sono ricondotti particolari doveri, ma da cui deriva la possibilità di regolamentare pattiziamente i reciproci rapporti patrimoniali tra le parti (art. 515-8 Code Civil)57. 2.3. (segue). La Germania.

La Germania assume un atteggiamento favorevole in relazione alla validità delle intese preventive sulle conseguenze del divorzio, posto che il § 1408 BGB permette ai coniugi di determinare i loro rapporti patrimoniali mediante un Ehevertrag (contratto di matrimonio) e di modificare il regime patrimoniale anche in costanza di matrimonio58, potendo altresì derogare convenzionalmente alla disciplina sul mantenimento post-divorzile, sulla comunione e sul trattamento pensionistico. Dunque, mediante il contratto si possono predeterminare i criteri per l’assegno divorzile, sino ad escludere tale diritto, oppure negare la liquidazione delle aspettative pensionistiche conseguenti allo scioglimento del regime legale della comunione degli incrementi59. Il contratto può altresì prevedere la rinuncia alla modifica giudiziale dell’assegno divorzile, quando ne consegua una modifica delle condizioni economiche delle parti. L’autonomia contrattuale sancita dal BGB può incontrare delle limitazioni nel controllo giudiziario; in diverse occasioni, infatti, la giurisprudenza tedesca ha dichiarato la nullità degli accordi laddove sia emerso che un coniuge abbia sfruttato l’inesperienza o la labilità psichica dell’altro, ovvero quando la rinunzia all’assegno divorzile sia stata determinata dallo scambio con l’affidamento dei figli, ovvero come condizione per celebrare le nozze60.

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Legge n. 99-944 del 15 novembre 1999. Sulla regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra concubins si veda: M. Saulier, «Le concubins peuvent-ils s’abstenir de contribuer aux charges du ménage?», in AJ fam., 2018, p. 457. Sulla regolamentazione dei regimi patrimoniali in generale: A. Sebag, «Faut-il créer un statut fondamental (régime primaire) pour toutes les formes de conjugalité?», in DR. Fam., 2017, étude 21. 58 Si badi che in Germania non vige il divieto dei patti successori, che sono disciplinati nei §§ 2274 e ss. BGB. 59 A. Fusaro, Tendenze del diritto privato in prospettiva comparatistica, cit., 227. 60 BGH, 19 dicembre 1989. 57

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Nel 2001 la Corte Costituzionale tedesca si è pronunciata in merito alla legittimità del controllo giudiziario sui contratti prematrimoniali, in relazione all’esercizio ed alla tutela dell’autonomia contrattuale, da cui ne possa derivare la dichiarazione di invalidità: i limiti della conciliabilità sono stati individuati rispetto agli obblighi nei confronti dei figli non economicamente autonomi, al mantenimento per la vecchiaia e la malattia, oltreché ai trattamenti pensionistici, al sostentamento per la disoccupazione, ai trattamenti sanitari e all’assistenza per gli anziani e, infine, con riguardo alle sovvenzioni per la formazione professionale ed al regime della comunione61. Il giudice deve avere riguardo alle clausole generali di buona fede e di correttezza ed operare un controllo sul contenuto del contratto, con riguardo ai rapporti contrattuali caratterizzati da una strutturale disparità tra le parti e dalla sproporzione degli obblighi assunti da quella più debole62; nell’esercizio di questo controllo deve dunque essere adottato il criterio di effettività di cui al § 138, comma 1, BGB, quale parametro di valutazione del comportamento di un soggetto, a prescindere dall’esistenza di un rapporto giuridico di carattere obbligatorio, oltreché la clausola generale di cui al § 242 BGB63, che vincola l’esecuzione del contratto al criterio della buona fede, parametrato agli usi. Dunque, il giudice è chiamato a verificare se e in quale misura un coniuge abbia abusato dei poteri attribuitigli dall’accordo, avendo maggiore severità con riguardo ai motivi addotti per escludere le tutele primarie64. Riguardo alla validità dei contratti di convivenza (Partnerschaftverträge), l’ordinamento tedesco vieta le clausole riguardanti aspetti sensibili, quali il credo religioso e politico, l’obbligo di fedeltà e la filiazione, avendo le parti ampia autonomia nelle previsioni pattizie riguardanti la corresponsione di un assegno o l’elargizione di una buona uscita in caso di cessazione della convivenza65. Occorre segnalare infine la riforma del 2017, con la quale il legislatore tedesco ha riconosciuto il diritto per le persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio66. Anche a tali unioni, una volta convertite in matrimonio, si applicano le disposizioni sopra richiamate.

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BVerfG, 6 febbraio 2001, in FamRZ, 2001, p. 343, tradotta da M.G. Cubeddu e pubblicata in Familia, 2002, II, 203 ss, con nota di P. Geurts, Accordi coniugali in vista di divorzio e tutela del partner debole. 62 BVerfG, 19 ottobre 1993 (1 BVR 567/89 e 1044/893), in Foro it., 118, n. 3 (marzo), 1995, 88. 63 Il § 242 BGB sulla “Prestazione secondo buona fede” (Leistung nach Treu und Glauben) si colloca nella disciplina dei contratti e recita: “Il debitore è tenuto ad eseguire la prestazione secondo buona fede, tenendo conto degli usi”. La disposizione detta un principio cardine del sistema giuridico tedesco e permette agli operatori tedeschi di operare un’interpretazione in chiave evolutiva delle disposizioni del BGB. 64 BGH,11 febbraio 2004, in NJW, 2004, 930, con nota di A. Nardone, Autonomia privata e controllo del giudice sulla disciplina convenzionale delle conseguenze del divorzio (a proposito della sentenza della Corte Suprema Federale tedesca dell’11 febbraio 2004), in Familia, 2005, I, 134 ss. 65 Sulla disciplina delle convivenze registrate in Germania, v. C. Caricato, Le convivenze registrate in Germania: quindici anni di applicazione e di riforme, in Familia, 2016, 72 ss; S. Patti, Le unioni civili in Germania, in Fam. e dir., 2015, 959 ss 66 Gesetz zur Einführung des Rechts auf Eheschließung für Personen gleichen Geschlechts, pubblicata nel BGBl., I, 28 luglio 2017, 2787 e ss.

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3. La disciplina italiana. Il divieto di accordi prematrimoniali.

In Italia gli accordi stipulati tra i futuri coniugi in ordine alla gestione del matrimonio ed alla sua eventuale crisi sono considerati nulli, giacché l’ordinamento non consente la disposizione di diritti che sorgono successivamente con la richiesta di separazione e/o di divorzio. Vi è, in particolare, un sistema di norme inderogabili che pone dei limiti invalicabili a dette convenzioni: in primis, l’art. 143 c.c., nello stabilire i diritti e i doveri tra i coniugi, sancisce l’inammissibilità di un accordo che modifichi la regola di eguaglianza degli effetti del matrimonio, ovvero l’esclusione di anche uno solo tra i diritti e i doveri matrimoniali, quali l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Peraltro, questi ultimi godono della garanzia costituzionale di cui all’art. 29 Cost., in quanto espressioni dei doveri di solidarietà in esso sanciti ed essenza stessa del vincolo matrimoniale. Anche l’obbligo di fedeltà coniugale, sebbene riguardi preliminarmente la sfera personale e sessuale della coppia e che ben potrebbe essere derogato, si ritiene invece non disponibile sia con riguardo al necessario progetto di vita comune, fondamentale espressione del vincolo coniugale, sia con riguardo al regime della presunzione di paternità di cui all’art. 232 c.c.67. Vi sono poi le disposizioni dedicate al regime patrimoniale secondario della famiglia (artt. 159 e ss c.c.), che, se da una parte, consentono ai coniugi un rilevante margine di discrezionalità, stabilendo i regimi patrimoniali possibili68, benché tipizzati, dall’altra, ne fissano i limiti di derogabilità; sotto tale profilo, è utile richiamare, ad esempio, l’art. 166 bis c.c., il quale vieta ogni convenzione orientata alla costituzione di beni in dote69. Inoltre, vi è da rammentare che, per la fase patologica del rapporto, a differenza delle convenzioni matrimoniali, il codice sottopone a sindacato giudiziale gli accordi conclusi in sede di separazione e di divorzio, mediante la valutazione e l’omologazione del giudice, indipendentemente dalla portata reale o obbligatoria degli stessi70.

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F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2019, 323; sul punto, inoltre, E. Falletti, Le radici del dovere di fedeltà alla luce delle recenti evoluzioni del diritto di famiglia, in Questione giustizia, 2017, 143. 68 Sul punto: G. Bonilini, I, Famiglia e matrimonio, Milano, 2016, 788 ss; G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, Milano, 2018, VIII ed., 122 ss. I margini di opzione si riscontrano, in particolare, nell’istituto del fondo patrimoniale: M. Maggiolo, Il fondo patrimoniale, in Diritto privato nella giurisprudenza, a cura di P. Cendon, II, Torino, 2000, 350 ss; T. Auletta, Il fondo patrimoniale, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da G. Bonilini, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2016, 1593 ss. 69 U. Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da G. Bonilini, II, cit., 1185 ss. 70 Da tempo la giurisprudenza riconosce la possibilità di accordi nella fase patologica del rapporto, anche di contenuto atipico. Sulle provvidenze post-matrimoniali tra ex coniugi, si veda Cass. Civ., SS.UU., 11 luglio 2018, n. 18287, in Resp. civ. prev., 2018, 1845 ss, con nota G.F. Basini, Le Sezioni Unite ripensano i criteri di attribuzione, e ridimensionano la funzione, dell’assegno post-matrimoniale, della “natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco”. Si vedano, inoltre, Cass. civ., 21 dicembre 2012, n. 23713, in Foro it., 2013, I, 864 ss.; Cass. civ., 20 agosto 2014, n. 18066, in Fam. e dir., 2015, 357 ss.

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Seppur sia stata progressivamente affermata una visione maggiormente privatistica della famiglia, la questione riguarda principalmente il limite di operatività riconosciuto all’autonomia regolamentare degli interessi familiari, che il legislatore continua a legare alla valorizzazione dell’aspetto pubblicistico dei rapporti fondati sul matrimonio, di talché ne nega, come corollario, la natura negoziale71. Il riconoscimento legale e formale di uguaglianza tra i coniugi, infatti, nella realtà non sempre si declina in uguaglianza sostanziale tra gli stessi, determinando una disparità soprattutto in termini economici tra marito e moglie, che, ancora oggi, rende indispensabili le regole stabilite a tutela del coniuge più debole, sia nella fase fisiologica che in quella patologica del rapporto72. Pertanto, le norme sopra richiamate delineano i limiti e le modalità di espressione dell’autonomia delle parti, alle quali, sebbene libere di contrarre matrimonio e formalmente uguali dopo la celebrazione dello stesso, non è consentito stipulare accordi preventivi sulla crisi del vincolo, poiché la regola espressa dall’art. 143, comma 1, c.c. impone che nessun accordo possa modificare, neppure per armonizzare il proprio progetto matrimoniale con le esigenze e necessità personali, anche se stabilite congiuntamente dai coniugi, la regola di eguaglianza degli effetti del matrimonio73. Inoltre, vi è da evidenziare come l’opinione dominante si preoccupi di impedire che la stipula di un accordo pre-matrimoniale in ordine agli aspetti economici possa in qualche modo influenzare, anche indirettamente, le determinazioni future di ciascun coniuge che riguardino lo status coniugale, la limitazione del comportamento processuale delle parti e la rinunzia ai diritti futuri, tra i quali l’indisponibilità dell’assegno di divorzio74. Al riguardo, talvolta, la giurisprudenza ha mitigato le tesi proibizionistiche, ritenendo validi accordi stipulati a tutela del coniuge debole75, ammettendo che l’accordo concluso in ordine ai profili patrimoniali tra i coniugi in sede di separazione legale ed in vista del divorzio non contrasta né con l’ordine pubblico, né con l’art. 160 c.c.76, ovvero che, nell’ambito della stretta solidarietà tra coniugi, i rapporti di dare e avere patrimoniale possano subire, su

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Il legislatore italiano ha, più volte, presentato proposte di legge di revisione del codice civile volte ad introdurre nell’ordinamento norme sulla negoziabilità degli effetti della fisiologia e della patologia del matrimonio. Da ultimo, nella relazione del Disegno legge n. 1151, comunicato alla Presidenza il 19 marzo 2019, si legge della delega al Governo, al fine di “regolamentare i rapporti personali e quelli patrimoniali, anche in previsione dell’eventuale crisi del rapporto, nonché i criteri per l’indirizzo della vita familiare e per l’educazione dei figli, salvaguardando comunque le norme imperative, i diritti fondamentali della persona, l’ordine pubblico e il buon costume. Attraverso la stipulazione di tali accordi si intende ampliare pertanto il contenuto delle convenzioni matrimoniali già disciplinate dal codice civile”. 72 G.F. Basini, I così detti “patti prematrimoniali”. Note de iure condendo, cit., 1156. 73 G. Conte, I rapporti personali tra coniugi, in Il nuovo diritto di famiglia, diretto da G. Ferrando, II, Bologna, 2008, 19 ss. 74 G. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., 82; G. Oberto, “Prenuptial agreements in contemplation of divorce” e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, 171 ss. Per una sintesi del dibattito dottrinale: G. Ferrando, Autonomia privata ed effetti patrimoniali della crisi coniugale, in Studi in onore di Piero Schlesinger, Milano, 2004, I, 487 ss. Per una diversa lettura sul tema: M.R. Marella, Gli accordi fra i coniugi fra suggestioni comparatistiche e diritto interno, in Separazione e divorzio, diretto da G. Ferrando, I, 2003. 75 Cass. civ., 13 gennaio 1993, n. 348, in I contratti, 1993, 137 ss.; Cass. civ., 14 giugno 2000, n. 8109, in Familia, 2001, 1, II, 245, con nota di G. Ferrando, Crisi coniugale e accordi intesi a definire gli aspetti economici. 76 Trib. Torino, sez. VII, ord. 20 aprile 2012, in Fam. e dir., 2012, 803, con nota di G. Oberto, Accordi preventivi di divorzio: la prima picconata è del Tribunale di Torino.

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accordo degli stessi, una sorta di quiescenza che cessa con il venir meno (provvisoriamente con la separazione e definitivamente con il divorzio) dei doveri e dei diritti coniugali77. Ne deriva che la liceità di un accordo tra coniugi riguarda la natura stessa del medesimo e il suo contenuto intrinseco che non può coinvolgere diritti indisponibili, né vincolare il comportamento processuale delle parti durante la fase della separazione o del divorzio78; di talché, un accordo può essere considerato legittimo qualora esso non sia direttamente volto a disciplinare l’assetto futuro dei rapporti patrimoniali attinenti all’eventuale pronuncia di divorzio, bensì sia qualificato quale mero atto transattivo, che, ponendo fine alle controversie insorte tra i coniugi, disponga “per il passato”79. Al riguardo, dottrina e giurisprudenza riconoscono, oramai da alcuni anni, pieno effetto al libero dispiegarsi della operatività del principio sancito dall’art. 1322 c.c. nella fase patologica del rapporto, proprio sulla base della circostanza che gli strumenti negoziali in parola sono leciti e meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, seppure rientranti nella sfera dell’atipicità, in quanto espressione di interessi sia di natura privatistica, sia di natura pubblicistica rilevanti80; da ne consegue l’espansione dell’operatività della sfera dell’autonomia privata anche nell’ambito di quei negozi del diritto di famiglia non caratterizzati dalla patrimonialità, quali, ad esempio, le pattuizioni concernenti la prole minore d’età81. La tesi, sostenuta da autorevole dottrina, poggia le sue basi sul riconoscimento del carattere negoziale delle intese di separazione consensuale e di divorzio su domanda congiunta, avendo dette prestazioni natura, carattere ed oggetto essenzialmente non patrimoniale, con conseguente affermazione della applicabilità della normativa contrattuale di cui all’art. 1322 c.c.82; peraltro, in relazione alla negozialità degli accordi tra coniugi in occasione della crisi del rapporto, si è sostenuto che le ragioni sostanziali della validità di tali accordi sono riconducibili non solo alla differenza tra contratto e negozio, ovvero all’assenza o alla presenza di patrimonialità della prestazione, ma altresì all’ampliamento di operatività della sfera dell’autonomia privata anche nella fase patologica di sistemazione degli assetti patrimoniali conseguenti alla crisi del rapporto coniugale83.

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Così Cass. Civ., sez. I., 21 dicembre 2012, n. 23713, in NGCC, 2013, I, 445 con nota di B. Grazzini, Accordi in vista del divorzio: la crisi coniugale fra causa generica ed evento condizionale del contratto. Nella decisione, la Corte ha confermato la liceità dell’accordo tra i coniugi stipulato prima del matrimonio, in cui si prevedeva che in caso di fallimento dell’unione matrimoniale l’un coniuge avrebbe ceduto all’altro un immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute dal secondo per la ristrutturazione di altro immobile di proprietà del primo da adibirsi a casa coniugale, ritenendo il fallimento del matrimonio non la causa genetica dell’accordo, ma un mero evento condizionale dello stesso. 78 Tenendo conto che non si può prescindere dal considerare, per ogni accordo tra coniugi, i profili di liceità della causa o dell’oggetto. 79 Così Cass. civ., 14 giugno 2000, n. 8109, cit., 245. 80 M. Giliberti, Gli accordi della crisi coniugale in bilico tra le istanze di conservazione e la tutela dell’autonomia dei coniugi, in Diritto di famiglia e delle persone (Il), 1, 2014, 476 ss. 81 G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, Milano, 1999, 215 ss. 82 G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, cit., 28, qualifica gli accordi in sede di separazione o di divorzio come «contratti della crisi coniugale». 83 C.M. Bianca, Diritto Civile, 2.1, La famiglia, cit., 18, precisa che “può parlarsi di un’autonomia negoziale nei rapporti di famiglia, e di negozi giuridici familiari. I negozi giuridici familiari, quali negozi che costituiscono, modificano o estinguono rapporti familiari, rappresentano una categoria a sé sul piano funzionale. Tali negozi presentano cause distinte, che però hanno in comune di attenere ad interessi familiari. I negozi giuridici familiari, precisamente, sono negozi che hanno causa in un interesse familiare”.

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Attesa, dunque, la natura negoziale degli accordi nella predetta fase, appare utile ravvisare nella causa familiae l’elemento sostanziale degli stessi, quale esplicazione della solidarietà post-coniugale, nella quale si individua la prosecuzione dei doveri sanciti dall’art. 160 c.c. e seguenti; del resto, in dottrina, il riconoscimento dell’applicabilità della disciplina dettata per il contratto in generale alla materia degli accordi tra coniugi in occasione della separazione o del divorzio risale al 1945, quando Francesco Santoro-Passarelli ne dichiarò l’applicabilità anche ai settori non patrimoniali e, nello specifico, al diritto di famiglia84. Tesi, questa, sposata dalla giurisprudenza di legittimità che, negli ultimi cinquant’anni, ha sempre evidenziato l’operatività delle norme che riguardano in generale la disciplina del negozio giuridico o che esprimono principi generali dell’ordinamento, salvi i limiti della loro compatibilità, agli accordi di separazione o di divorzio85. 3.1. (segue) I contratti di convivenza.

L’esigenza del controllo pubblico che costituisca una garanzia a fronte della disparità della forza contrattuale delle parti non si rinviene nei c.d. contratti di convivenza, disciplinati dall’art. 1, commi 50-63, della Legge n. 76/2016, che dichiara la loro validità qualora stipulati per regolare i rapporti economici od organizzare la vita comune di due soggetti conviventi di fatto; soluzione, questa, a cui, già prima dell’introduzione ufficiale della regolamentazione normativa, era pervenuta la giurisprudenza di legittimità, che aveva dichiarato efficaci i contratti conclusi per regolare una convivenza, sull’asserto che in nessuna norma imperativa di ordine pubblico e in nessun principio di buon costume è dato ravvisare indicazioni in senso contrario86. Tale norma e tale interpretazione, se, da una parte, riconoscono tutela giuridica ai partner (sia di sesso diverso che dello stesso sesso) che sono legati da una stabile relazione affettiva e da legami di reciproca assistenza morale e materiale, dall’altra, evidenziano il riconoscimento, in capo ai conviventi, di un’autonomia ben più ampia rispetto a quella prevista a favore dei coniugi, ferma restando l’esclusione, dall’ambito di pattuizione, degli

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F. Santoro-Passarelli, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, in Saggi di diritto civile, I, Napoli, 1961, 382 s. (lo scritto venne pubblicato per la prima volta in Dir. e giur., 1945, 3 ss.): «Il codice civile non contiene una disciplina generale del negozio giuridico, la quale può però ricavarsi dalle sue norme, essendo evidente che le norme sui contratti, in quanto compatibili, siano suscettibili di applicazione non solo agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale (art. 1324), ma al negozio giuridico anche fuori del diritto patrimoniale. A ciò è da aggiungere che la figura del negozio giuridico nel diritto familiare è supposta dal codice (e la sua utilizzazione s’impone perciò all’interprete), poiché in esso si fa richiamo a nozioni caratteristiche del negozio, come i vizi della volontà (articoli 122, 265), le modalità, quali il termine e la condizione (articoli 108, 257), l’irrevocabilità o la revocabilità dell’atto (articoli 256, 298), la sua invalidità (artt. 117 ss., 263 ss.)». Per una approfondita illustrazione del pensiero di tale Autore G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 113 ss., oltreché A. Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv. dir. civ., 2001, I, 213 ss. 85 Riferimenti all’autonomia contrattuale in tema di trasferimenti immobiliari in sede si separazione tra coniugi si leggono nella nota sentenza Cass. civ., 25 ottobre 1972, n. 3299, in Giust. civ., 1973, I, 221. 86 In tal senso, Cass. civ., 8 giugno 1993, cit.

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aspetti personali del rapporto, in quanto incoercibili e insuscettibili di formare oggetto dell’autonomia dispositiva dei soggetti interessati87. Per ciò che concerne i profili contributivi della convivenza, si ritiene ammissibile che le parti possano stipulare un contratto per disciplinare uno o più interessi patrimoniali scaturenti dalla relazione affettiva, prevedendo condizioni sia per la prospettiva fisiologica del rapporto sia in vista di una futura ed eventuale patologia88; nulla vieta infatti ai conviventi di prevedere, anche per un periodo determinato, l’obbligo di mantenimento in favore della parte economicamente più debole, anche nella prospettiva di una dissoluzione dell’unione89. In tale ottica, i conviventi, anche dopo aver registrato la loro unione, possono abbandonare completamente la regolamentazione di cui alla Legge n. 76/2016, optando per forme negoziali atipiche. L’assenza di specifica regolamentazione in ordine al contenuto non patrimoniale del contratto, favorisce la genesi di patti di convivenza atipici, ovvero di contratti tipici aventi finalità di regolamentazione indiretta del rapporto. All’attualità, dunque, due soggetti conviventi, al fine organizzare la loro vita comune, possono scegliere di non registrare la loro unione e ricorrere agli strumenti di regolamentazione pattizia previsti dal codice di diritto comune o dalla normativa speciale, stipulando, ad esempio, rapporti di lavoro o costituendo diritti reali in modo convenzionale, ovvero procedere con la registrazione e stipulare un contratto di convivenza, ai sensi della Legge n. 76/2016, e disciplinare comunque uno o più interessi patrimoniali discendenti dalla relazione affettiva attraverso i comuni strumenti contrattuali. Sul piano sistemico, l’elemento caratterizzante le fattispecie negoziali tipiche previste dal codice di diritto comune o dalla normativa speciale è rappresentato dalla convivenza, che rileva sul versante soggettivo, essendo i contraenti due soggetti conviventi, mentre nei contratti di cui alla Legge del 2016 la convivenza costituisce il fatto, la ragione giustificatrice dell’accordo stesso90. In quest’ultimo caso, si tratta di un negozio giuridico bilaterale, in quanto solo due possono essere i conviventi e solo due possono essere le parti che siglano l’accordo. La forma richiesta è solenne; infatti, la sua stipulazione, le sue modifiche e la sua risoluzione sono redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità e la rispondenza alle norme imperative e all’ordine pubblico (art. 1, comma 53, Legge n.

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Così A. Maietta, Accordi prematrimoniali, contratti di convivenza e diritti delle parti. L’ordinamento italiano e gli ordinamenti stranieri a confronto: certezze e dubbi, cit., p. 14. In dottrina si ritiene che eventuali clausole aventi ad oggetto i rapporti personali tra conviventi siano affette da nullità. Sul punto, L. Balestra, Convivenza more uxorio e autonomia privata, in Giust. civ., 2014, 143, secondo il quale «i profili di natura personale rimangono fuori dall’area della contrattualità». 88 L. Balestra, Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale, in https://giustiziacivile.com/giustizia-civile-riv-trim/convivenzamore-uxorio-e-autonomia-contrattuale#nota-53. 89 Secondo F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, 18 ss, i conviventi possono pattuire la somministrazione di una certa somma di denaro finché dura il ménage o di un’altra quando venga meno, apponendo eventualmente condizioni e termini o distinguendo tra rottura consensuale o unilaterale. 90 G. Buffone, Il contratto di convivenza, in Unione civile e convivenza, a cura di G. Buffone-M. Gattuso-M.M. Winkler, Milano, 2017, 499.

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76/2016). Dal punto di vista strutturale, si applicano le norme generali contrattuali, purché compatibili e non derogate dal regime speciale della Legge n. 76/2016. Stando al tenore puramente letterale della norma, il contratto di convivenza è essenzialmente a contenuto patrimoniale, in quanto, oltre all’indicazione della residenza, può contenere: le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alle capacità di lavoro professionale o casalingo ed il regime patrimoniale della comunione dei beni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile (art. 1, comma 53, Legge n. 76/2016)91. Ne consegue che, affinché possa applicarsi la disciplina codicistica, «devono ritenersi contenuti cogenti l’indirizzo per le comunicazioni e, in alternativa tra loro, il quantum e/o quomodo delle contribuzioni necessarie al ménage familiare, ovvero l’adozione del regime di comunione “legale”»92, quale oggetto di espressa opzione tra i conviventi. Per completezza argomentativa, la disposizione deve essere letta unitamente al comma 54, a mente del quale il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con il rispetto delle formalità di cui al comma 51. Dall’analisi complessiva delineata appare condivisibile quanto rilevato in dottrina circa la natura opzionale e non vincolante della disciplina convenzionale93, posto che le disposizioni di cui ai commi 50 e 53, di evidente portata generale, non vincolano il contenuto del contratto di convivenza, ma lo considerano come strumento attraverso il quale l’ordinamento attribuisce a due soggetti conviventi la possibilità di regolamentare gli aspetti patrimoniali del loro rapporto94. Peraltro, gli ulteriori contenuti del contratto, rispetto a quelli espressamente elencati dal legislatore, non possono rendersi opponibili ai terzi mediante gli ordinari strumenti pubblicitari di cui alla Legge n. 76/2016, essendo esclusivamente valevoli inter partes95; nell’ipotesi di dissoluzione del contenuto dell’accordo, il negozio andrebbe inquadrato come contratto tra conviventi e non come contratto di convivenza. Per quel che concerne gli interessi regolamentabili connessi alla interruzione della convivenza, e, in particolare, alla previsione, anche per un periodo determinato, di un

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Vi è tuttavia da segnalare che secondo un’ermeneutica restrittiva un contratto di convivenza stipulato secondo le regole di cui alla Legge n. 76/2016 possa essere limitato ad individuare in via esclusiva l’inserimento dell’indirizzo per le comunicazioni e per la residenza, escludendo invece ogni profilo patrimoniale del rapporto ai sensi delle lett. b) e c) del co. 53. Così D. Achille, Comma 53, in Aa.Vv., Le unioni civili e le convivenze, a cura di C.M. Bianca, Torino, 2017, 651. 92 Così L. Nonne, Contratti di convivenza, in Dig., XII, diretto da R. Sacco, 77, alla 81. 93 S. Patti, La convivenza «di fatto» tra normativa e regime opzionale, in Familia, 2017, p. 3, il quale ritiene che, a prescindere da una dichiarazione negoziale dei conviventi «ed anzi anche contro la volontà di (uno di) essi», il legislatore ha predisposto un regime opzionale, al quale gli interessati possono accedere stipulando il contratto di convivenza. 94 D. Achille, Il contenuto dei contratti di convivenza tra tipico e atipico, in NGCC, 11, 2017, 1570 ss. 95 Sul punto, R. Mazzariol, Convivenze di fatto e autonomia privata: il contratto di convivenza, cit., 212, con riguardo alla prospettiva di una opponibilità a terzi degli effetti del contratto di convivenza limitata al solo regime di comunione legale, evidenzia come la certezza del traffico giuridico sia salvaguardata solo nel caso in cui i conviventi abbiano optato per detta comunione e non, invece, quando il contenuto del contratto sia differente. G. Villa, Il contratto di convivenza nella legge sulle unioni civili, rileva invece come il divieto di apporre termini o condizioni al contratto sia coerente con lo scopo di garantire esigenze di certezza, laddove «nell’escludere la rilevanza di elementi, quali la condizione, il cui realizzarsi può dipendere da circostanze note solo alle parti, o i termini, che, oltre a poter essere incerti nel quando, introducono oneri di verifica per i terzi che la legge ha evidentemente considerato eccessivi»

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obbligo di mantenimento a favore del convivente economicamente più debole, si ritiene che le clausole costruite come attribuzioni condizionate, sospensivamente alla cessazione della convivenza o risolutivamente al permanere della convivenza96, siano lecite e meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico97. Va da sé che, una volta superata la preclusione di cui al comma 56, da doversi intendere quale divieto di sottoporre a termine o a condizione il contratto complessivamente inteso, e non invece le singole pattuizioni in esso contenute, il contratto debba essere valutato con riguardo alle ragioni concrete che ne giustificano e supportano, sotto il profilo causale, le clausole in esso inserite98. Peraltro, il divieto di cui al comma 56 induce ad una sua indagine valutando l’opportunità di consentire la cessazione dell’erogazione delle prestazioni contributive nell’eventualità in cui dovesse verificarsi l’interruzione dell’unione; a tal proposito si ritiene condivisibile l’orientamento secondo cui la norma può trovare giustificazione solo in un’ottica puramente matrimoniale «posto che, mentre ha un senso stabilire che il matrimonio, per la “gravità” del vincolo che lo caratterizza, e, soprattutto, per il fatto di essere un negozio giuridico essenzialmente personale, non possa essere sottoposto a termini o condizioni, non ha, invece, costrutto alcuno stabilire lo stesso principio per un contratto che, come quello di convivenza, si colloca all’interno di un genus caratterizzato dalla patrimonialità degli effetti e per il quale l’apposizione di termini e condizioni risulta un quid del tutto “normale”»99. Ne consegue che devono intendersi illecite, con conseguente nullità della relativa pattuizione, le attribuzioni connesse all’esercizio della libertà di convivenza, quale può essere, ad esempio, una clausola penale pattuita per la cessazione del rapporto affettivo, mentre devono ritenersi lecite e meritevoli di tutela eventuali pattuizioni che trovino giustificazione nella disparità reddituale tra i conviventi100, in quanto l’indiretto condizionamento della libertà personale del convivente viene giustificato causalmente dal dovere di solidarietà tra conviventi, come ammesso dal legislatore con la previsione di cui al comma 65 della Legge n. 76/2016, laddove viene riconosciuto, in caso di cessazione della convivenza di fatto, il diritto del convivente di ricevere dall’altro gli alimenti qualora versi in stato di

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F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., 165. D. Achille, Il contenuto dei contratti di convivenza tra tipico e atipico, cit., 1579. Diversamente L. Nonne, Contratti di convivenza, cit., 82, in relazione al co. 56, ritiene che il contratto di convivenza non possa contenere elementi accidentali e, dunque, non possa essere sottoposto a condizione o a termine e, nel caso in cui questi siano inseriti nel contratto, si hanno per non apposti. Secondo l’A., l’interpretazione che fa leva sul dato letterale della norma «per confermare la natura di actus legitimus del solo contratto di convivenza complessivamente inteso e, all’opposto, per consentire l’inserimento di elementi accidentali con riguardo a singole clausole e statuizioni patrimoniali, è un’interpretazione che si scontra con l’ipotesi in cui la gran parte delle previsioni contrattuali siano condizionate o sottoposte a termine, dovendosi ritenere in tal caso, che una siffatta configurazione del contenuto negoziale sia elusiva del co. 56». 98 Peraltro, in relazione al contenuto di cui al comma 56 deve darsi atto che, secondo una diversa opzione ermeneutica, il divieto di introdurre elementi accidentali nel contratto di convivenza si giustifica con il fatto che esso garantisca dal rischio che l’apposizione di termini o di condizioni possa incidere sui profili personali del rapporto. Si veda C. Bona, La disciplina delle convivenze nella l. 20 maggio 2016 n. 76, cit., 2102. 99 G. Oberto, La convivenza di fatto: I rapporti patrimoniali ed il contratto di convivenza, cit., 952. 100 In tal caso, si ritiene utile, ai fini della determinazione della liceità del contratto, l’inserimento di parametri di ordine reddituale da considerarsi nel tempo della dissoluzione dell’unione. 97

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bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. Le parti infatti ben potrebbero provvedere, anche con l’ausilio del mutuo dissenso, a costituire un eventuale obbligo di mantenimento a favore di uno dei conviventi derogativo in melius del diritto di cui al comma 65 nello stesso contratto di convivenza101. A sostegno di siffatta conclusione si deve evidenziare come, rispetto alla previsione di cui al comma 51, secondo cui il contratto, le sue modifiche e la sua risoluzione e dunque anche quello di mutuo dissenso devono essere sottoposti ad uno scrutinio circa il rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico, detta lettura assume significato nell’ipotesi che l’accordo risolutivo non preveda solo la cessazione di efficacia del presupposto contratto di convivenza, ma quand’anche contenga ulteriori statuizioni che dispongono per la fase successiva e delle quali va acclarata la liceità102. Il rispetto delle formalità ai sensi del comma 51 anche per contratto il mutuo dissenso, in particolare, consente allo stesso di beneficiare della medesima opponibilità nei confronti dei terzi di cui gode il contratto di convivenza; da una lettura coordinata con il comma 52, infatti, può desumersi detta opponibilità altresì per gli atti negoziali che prevedono lo scioglimento del contratto di convivenza, anche con riferimento ad ulteriori e diversi aspetti rispetto allo stesso contratto. Ne consegue che sarebbe opponibile ai terzi tanto la cessazione di efficacia del contratto di convivenza quanto le determinazioni contenute nell’atto di mutuo dissenso «in cui si disciplinassero eventuali trasferimenti patrimoniali e prestazioni correlate allo scioglimento negoziale»103. In tale prospettiva, l’utilizzo dello strumento contrattuale al fine di disciplinare la dissoluzione dell’unione sul piano patrimoniale rappresenta la massima espressione dell’autonomia regolamentare riconosciuta ai conviventi104, seppur, tra i maggiori sostenitori dell’esplicazione della libertà contrattuale tra questi, continui a reputarsi maggiormente conveniente l’utilizzo di forme negoziali più collaudate, come il contratto di mantenimento vitalizio105. A tal proposito, si è, infatti, sostenuto che, in caso di controversia, al fine di considerare la liceità delle clausole mediante le quali si disciplinano i profili contributivi per la fase patologica della convivenza, il contratto debba essere connotato da prestazioni corrispettive; soluzione questa che porta a snaturare l’essenza stessa dei contratti/rapporti

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T. Auletta, Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte della famiglia? (L. 20 maggio 2016, n. 76), cit., 394. 102 L. Nonne, Contratti di convivenza, cit., 82. 103 L. Nonne, La risoluzione del contratto tipico di convivenza: una lettura sistematica, cit., 57 ss. 104 Si deve peraltro precisare che la Legge n. 76/2016, unitamente al divieto di esclusione del diritto agli alimenti ai sensi del comma 65, non ammette limiti convenzionali al diritto del convivente superstite di continuare ad abitare nella casa di proprietà del convivente deceduto (comma 42), né clausole a deroga del comma 46, il quale riconosce al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Infine, non sono ammesse pattuizioni volte ad eludere il divieto di patti successori, in quanto l’art. 458 c.c. rappresenta una norma di portata generale ed assoluta, che, in mancanza di una espressa deroga, non consente di pervenire a tale risultato per via interpretativa. Su tale ultimo rilievo: D. Achille, Comma 53, cit., 657. 105 Così G. Oberto, Contratto e famiglia, in V. Roppo (diretto da), Trattato del contratto, VI, Milano, 2006, 374.

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di convivenza, «in relazione ai quali è estranea l’idea sia dello scambio sia dello spirito di liberalità»106.

4. Osservazioni conclusive. L’indagine effettuata induce ad individuare una trama di senso, che lega le esperienze che riconoscono piena efficacia ai prenuptial agreements ed ai cohabitation contracts, sintetizzata dalla regola della soggezione allo scrutinio giudiziale in caso di disaccordo tra le parti, per cui, anche alla presenza di una certa autonomia regolamentare in capo ai soggetti legati da rapporto di coniugio o conviventi, gli ordinamenti indagati rispondono tutti alla medesima regola del controllo giudiziale sul merito delle intese. Il che evidenzia come, in realtà, sia meno marcata di quanto si pensi la differenza con gli ordinamenti - compreso quello italiano - che ammettono gli accordi tra coniugi solo nella fase patologica del rapporto, ove gli effetti patrimoniali sulla domanda congiunta di divorzio discendono direttamente dall’intesa raggiunta dalle parti, rispetto alla quale la pronuncia del tribunale riveste il mero carattere di omologa; tale aspetto, peraltro, nel nostro ordinamento assume connotati maggiormente significativi, in un’ottica di graduale avvicinamento alle esperienze che riconoscono efficacia ai prenuptial agreements, se si considerano le aperture della giurisprudenza in merito all’ammissibilità dei negozi stipulati non già come accordi prematrimoniali in vista del divorzio, ma come contratti atipici, diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi per gli effetti dell’art. 1322, comma 2, c.c.107. Sul presupposto che le soluzioni offerte dagli ordinamenti di common law, in tema di negoziabilità dei rapporti giuridici intercorrenti tra i coniugi, rispondono all’esigenza di garantire al meglio l’autonomia privata e la non ingerenza dei poteri pubblici nella vita del singolo, soprattutto nella sfera personale, quale quella dei rapporti familiari, il favore degli ordinamenti di civil law rappresenta un sicuro indice che attesta come esista una comune esigenza di rimuovere il concetto di intangibilità dello status o comunque di limitarne i confini108. Ferma restando, dunque, l’indisponibilità dei rapporti personali tra coniugi e, in particolare, la preclusione di accordi in ordine all’indirizzo di vita familiare e agli interessi della prole, deve ritenersi che, in generale, gli ordinamenti giuridici di civil law indagati stiano evolvendo verso un più aperto riconoscimento dell’incidenza del dato volontaristico all’interno della regolamentazione specifica dei diritti e dei doveri che sorgono per effetto del matrimonio in capo ai coniugi, con l’evidente fine di addivenire ad un assetto coordi-

106

L. Balestra, Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale, cit., 143. A. Pera, Il rapporto coniugale tra status e contratto negli ordinamenti italiano e inglese, in Riv. crit. dir. priv., XXXII – 2, 2014, 251. 108 A. Pera, Il rapporto coniugale tra status e contratto negli ordinamenti italiano e inglese, cit., 265. 107

827


Tania Bortolu

nato e condiviso dei loro rapporti patrimoniali, che, se ammesso, potrebbe essere idoneo ad evitare il ricorso alla tutela giurisdizionale, rispondendo così ad una funzione deflativa del contenzioso. In tale ottica, non può non evidenziarsi come, nel nostro ordinamento, le esigenze di tutela della parte debole e di “purezza” della volontà matrimoniale non trovino salvaguardia nella scelta del regime patrimoniale all’atto del matrimonio, quando i nubendi decidono le regole per l’attribuzione dei beni in costanza di matrimonio, la loro amministrazione e la loro divisione al momento della formalizzazione della crisi. Anzi, l’ordinamento sembra addirittura pretendere che il soggetto all’atto del matrimonio “costruisca le sue prospettive matrimoniali attraverso la stipulazione delle convenzioni (pre)matrimoniali, più idonee alla tutela dei suoi interessi in relazione alle circostanze e alle esigenze di vita109. Inoltre, il giudice della separazione o del divorzio non ha alcuna possibilità di intervenire né con riguardo alla scelta del regime patrimoniale né rispetto alla opzione operata a suo tempo, anche laddove questa dovesse risultare iniqua, né sulla base delle circostanze di fatto sussistenti al momento della decisione110. I dati raccolti e raffrontati consentono, inoltre, di evidenziare la diversa ampiezza riconosciuta, anche negli ordinamenti di civil law, alla sfera dell’autonomia privata nei rapporti di natura familiare non assoggettati alla famiglia di matrice matrimoniale, ove i patti volti a disciplinare, sotto vari profili, una convivenza more uxorio non ancora intrapresa o già in corso rappresentano una misura orientata a consentire ai partner di dare formalizzazione giuridica ad una serie di obblighi che, in difetto di regolamentazione, risultano generalmente incoercibili sul piano giuridico111. Anzi, è interessante rilevare, come, in tali ordinamenti, la regolamentazione delle unioni per via contrattuale realizzi uno statuto del fenomeno sociale, sottraendolo ad una tutela basata ora sullo status, ora sulle regole della proprietà ora sul contratto o sull’ingiustificato arricchimento, come modalità diverse attraverso le quali assume rilievo l’affidamento del convivente. L’autonomia privata trova dunque nel contratto la sua massima esplicazione e costituisce uno strumento privilegiato per le parti che intendono dare un assetto equilibrato ai profili economici della loro relazione fattuale112.

109

G. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., 82. E. Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, cit., 556. 111 Sui valori di libertà e di autonomia della persona: G. Marini, La giuridificazione della persona. Ideologie e tecniche dei diritti della personalità, in Riv. dir. civ., 2006, 359 ss.; G. Resta, Autonomia privata e diritti della personalità, Napoli, 2005. 112 L. Nonne, Contratti di convivenza, cit., 95. 110

828


Giurisprudenza Cass. civ., Sez. Un., 29 luglio 2021, n. 21761; Curzio Primo Presidente – Valitutti Relatore Coniugi – Rapporti patrimoniali – Clausole dell’accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta – Riconoscimento della proprietà esclusiva di beni o della titolarità di altri diritti reali ad uno o ad entrambi i coniugi ovvero ttrasferimento a favore di uno di essi o dei figli Le clausole dell’accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni – mobili o immobili – o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice è destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., purché risulti l’attestazione del cancelliere che le parti abbiano prodotto gli atti e reso le dichiarazioni di cui all’art. 29, comma 1 bis, l. n. 52/1985, come introdotto dall’art. 19, comma 14, d.l. n. 78/2010, conv. con modif. dalla l. n. 122/2010, restando invece irrilevante l’ulteriore verifica circa gli intestatari catastali dei beni e la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari.

(Omissis)

favore della R., dell’usufrutto sulla propria quota

Fatti

dell’immobile predetto.

di causa

1. Con ricorso congiunto depositato presso il

1.1. Con il ricorso, i coniugi producevano, al-

Tribunale di Pesaro il 6 luglio 2016, G.R. e R.I.

tresì, oltre alla dichiarazione del G. in ordine alla

chiedevano pronunciarsi la cessazione degli ef-

conformità allo stato di fatto dell’immobile dei

fetti civili del matrimonio concordatario, celebra-

dati catastali e delle planimetrie ed alla confor-

to dai medesimi in (Omissis), e dal quale erano

mità dell’intestazione catastale alle risultanze dei

nati i figli S. ed E. I coniugi avevano acquistato,

registri immobiliari, una perizia tecnica giurata,

durante il matrimonio, un appartamento sito in

con allegati l’attestato di prestazione energetica,

(Omissis), cointestato al 50%, destinandolo, poi, a

la dichiarazione di conformità dell’impianto ter-

casa coniugale. Desiderando comporre in via de-

mico alle prescrizioni legali, la visura e la plani-

finitiva ogni questione patrimoniale conseguente

metria catastale dell’appartamento e del garage.

alla crisi coniugale – che aveva già dato luogo a

I coniugi si impegnavano, inoltre, ad effettuare

separazione consensuale, omologata dal Tribuna-

a loro cura e spese la trascrizione e le ulterio-

le di Pesaro con Decreto del 9 marzo 2012 – “sen-

ri formalità di pubblicità immobiliare, nonché le

za differenziazione nei tempi di perfezionamen-

conseguenti volture presso gli uffici competenti,

to”, i coniugi addivenivano, pertanto, al seguente

esonerando il cancelliere da ogni responsabilità,

accordo: a) il G. si obbligava a versare l’assegno

ed a depositare presso la cancelleria la ricevuta

divorzile a favore della R., nonché direttamen-

di avvenuta presentazione della richiesta di pub-

te ai figli maggiorenni, ma non economicamente

blicità immobiliare, nonché la successiva nota di

autosufficienti, il contributo per il loro manteni-

trascrizione rilasciata dall’Agenzia del territorio.

mento; b) il medesimo trasferiva a favore dei figli

Nel procedimento intervenivano, altresì, ad

la nuda proprietà, in relazione alla sua quota del

adiuvandum, i figli dei ricorrenti, esprimendo il

50%, dell’immobile sito in (Omissis), nonché, a

loro pieno consenso agli accordi in ordine al lo-

829


Giurisprudenza

ro mantenimento, in essi compresi i trasferimenti

derazione della manifestata contrarietà espressa

immobiliari operati dal genitore.

dal Tribunale adito, chiedevano di considerare

1.2. Successivamente al deposito del ricorso, la cancelleria comunicava agli istanti una richiesta di chiarimenti del Presidente del Tribunale, in relazione ai trasferimenti immobiliari contenuti

tali trasferimenti come impegni preliminari di vendita e di acquisto. Il verbale veniva, quindi, sottoscritto da tutti i presenti.

nelle condizioni di divorzio congiunto. Seguiva

1.4. Con sentenza n. 933/2016, depositata il 13

nota con la quale il G. e la R., nonché i figli S. ed

dicembre 2016, il Tribunale di Pesaro pronuncia-

E., chiarivano anzitutto che l’accordo raggiunto

va la cessazione degli effetti civili del matrimonio,

“rappresentava una reale tutela soprattutto per i

contratto dai ricorrenti in (OMISSIS), stabilendo

soggetti più deboli dal punto di vista economico

espressamente, peraltro, che “i trasferimenti pre-

(cioè la moglie ed i figli) in quanto avrebbe ga-

visti nelle condizioni sono da intendersi impegni

rantito che il patrimonio conseguito nel corso del

preliminari di vendita ed acquisto”.

matrimonio non venisse disperso, ma conservato

2. Con sentenza n. 583/2017, depositata il 18

a favore dei membri della famiglia di origine” (p.

aprile 2017, la Corte d’appello di Ancona rigetta-

4 del ricorso per cassazione).

va il gravame proposto dal G. e dalla R., confer-

I ricorrenti dichiaravano, inoltre, di essere al

mando la statuizione del Tribunale secondo cui

corrente del contenuto del decreto del Presidente

i trasferimenti dei diritti reali previsti nelle con-

del Tribunale di Pesaro, con il quale si esclude-

dizioni di divorzio sono da considerarsi impegni

va la possibilità di inserire nelle domande con-

preliminari di vendita ed acquisto, e non trasferi-

giunte di divorzio disposizioni accessorie, aventi

menti immobiliari definitivi, con effetto traslativo

ad oggetto trasferimenti immobiliari a qualsiasi

immediato.

titolo, “a causa di problematiche organizzative”.

3. Avverso tale decisione hanno, quindi, pro-

Gli istanti evidenziavano, tuttavia, che la diversa

posto ricorso per cassazione congiunto G.R. ed

opzione – consentita dalla prassi del Tribunale

R.I., affidato a tre motivi, illustrati con memoria.

di Pesaro – di inserire negli accordi di divorzio

Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto

un mero accordo preliminare di vendita, oltre a

del ricorso.

comportare un esborso per l’atto notarile defini-

4. Con ordinanza interlocutoria n. 3089/2020,

tivo, implicava l’accettazione del rischio che se

depositata il 10 febbraio 2020, la prima sezione

una delle parti si fosse successivamente sottratta

civile di questa Corte, ritenuto che, per il rilevan-

all’accordo, per una qualsiasi ragione, si sareb-

te impatto che l’interpretazione delle norme sot-

be dovuto instaurare un contenzioso – mediante

toposte al giudizio della Corte - involgenti profili

proposizione dell’azione di esecuzione specifica

relative all’autonomia delle parti in sede della de-

ex art. 2932 c.c. – dalla durata e dagli esiti incerti,

terminazione degli accordi della “crisi coniugale”

con grave pregiudizio per i ricorrenti e per i loro

aventi ad oggetto trasferimenti immobiliari (artt.

figli.

1322 e 1376 c.c.), l’interpretazione di tali accor-

1.3. All’udienza del 28 novembre 2016, nel-

di (artt. 1362 c.c. e segg.), ed il ruolo svolto dal

la quale comparivano sia i coniugi che i figli, i

notaio in relazione all’identificazione catastale

ricorrenti insistevano nella richiesta di divorzio

dell’immobile ed alla sua conformità alle risultan-

alle condizioni indicate nel ricorso congiunto, ivi

ze dei registri immobiliari (D.L. 31 maggio 2010,

comprese quelle relative ai trasferimenti immobi-

n. 78, art. 19) – può avere sulla giurisprudenza

liari, e solo in via del tutto subordinata, in consi-

nazionale che, peraltro, sulla questione è perve-

830


Emanuela Andreola

nuta a conclusioni non univoche, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ai sensi degli artt. 374 e 376 c.p.c., trattandosi di questione di massima di particolare importanza. 5. Fissata la pubblica udienza dal Primo Presidente per la data dell’11 maggio 2021, il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso. Ragioni della decisione 1. Con i tre motivi di ricorso – che, per la loro evidente connessione, vanno esaminati congiuntamente – G.R. ed R.I. denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1322,1362 e 1376 c.c., nonché del D.L. n. 78 del 2010, art. 19, convertito nella L. 30 luglio 2010, n. 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. 1.1. I ricorrenti censurano l’impugnata sentenza nella parte in cui ha condiviso l’opzione ermeneutica fatta propria da diverse decisioni di merito, affermando che le parti, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, ben possono “integrare le tipiche clausole di separazione e divorzio (figli, assegni, casa coniugale) con clausole che si prefiggono di trasferire tra i coniugi o in favore di figli diritti reali immobiliari o di costituire iura in re aliena su immobili ricorrendo esclusivamente alla tecnica obbligatoria, che consente l’applicazione dell’art. 2932 c.c. e non a quella reale, pena la possibile vanificazione dello strumento di tutela prescelto”. Osservano, per contro, gli istanti che siffatta opzione ermeneutica costituisce violazione del disposto dell’art. 1322 c.c., laddove consente nell’ottica della massima espansione dell’ambito di applicazione dell’autonomia privata - la possibilità per le parti, e quindi anche per i coniugi in sede di determinazione dei cd. “accordi della crisi coniugale”, di concludere pattuizioni atipiche, meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. L’indirizzo interpretativo – per lo più seguito dai giudici di merito – collide, peraltro,

ad avviso dei ricorrenti, anche con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, che si è ripetutamente pronunciato in senso contrario. Gli istanti ricordano, invero, come si sia più volte affermato - nella giurisprudenza di questa Corte - che l’accordo delle parti in sede di separazione e di divorzio ha natura certamente negoziale, e può dare vita a pattuizioni atipiche meritevoli di tutela, che ben possono avere ad oggetto – essendo soddisfatta, mediante l’inserimento nel ricorso sottoscritto da entrambe le parti, poi trasfuso nel verbale di udienza sottoscritto dalle medesime, il requisiti della forma scritta ex art. 1350 c.c. – anche trasferimenti di proprietà su immobili, o altri diritti reali. 1.2. La decisione impugnata non terrebbe, poi, in alcun conto la volontà, inequivocabilmente espressa dai coniugi e dai figli, di voler realizzare in via immediata – e non prevedendosi un mero obbligo di trasferimento – il passaggio del diritto di proprietà sull’immobile adibito a casa coniugale a favore dei figli, nonché il trasferimento del diritto di usufrutto dal G. alla R., al fine di definire senza differimenti pregiudizievoli per tutti gli interessati – ogni questione relativa ai profili economici della crisi coniugale. Di tale chiara e legittima espressione della volontà delle parti la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto, in tal modo violando anche il disposto degli artt. 1362 e 1376 c.c.. 1.3. L’impugnata pronuncia sarebbe, infine, incorsa – a parere degli esponenti – nella violazione del D.L. n. 78 del 2010, art. 19, convertito nella L. n. 1 del 2010, laddove prevede che il notaio deve effettuare la verifica catastale degli immobili da trasferire. L Corte territoriale avrebbe, per vero, erroneamente opinato che il legislatore abbia inteso demandare a detto professionista, e non anche ad altri operatori, “il compito della individuazione e della verifica catastale nella fase di stesura degli atti traslativi così concentrando, nell’alveo naturale del rogito notarile, il controllo

831


Giurisprudenza

indiretto statale a presidio degli interessi pubbli-

che nella specie la parti, oltre ad avere sottoscrit-

ci coinvolti, senza che tale attività possa essere

to l’accordo di divorzio contenuto nel ricorso,

sostituita da quella di altri operatori, tra i quali

con firma autenticata dal difensore, avevano poi

il giudice” (pp. 3 e 4 della sentenza di appello).

nuovamente sottoscritto il verbale di udienza del

1.3.1. Osservano, per contro, i ricorrenti che

28 novembre 2016, riportandosi alle condizio-

anzitutto, nel caso concreto, il G. aveva dichiara-

ni dell’accordo, ed il verbale – costituente atto

to la conformità dello stato di fatto dell’immobile

pubblico ex art. 2699 c.c. – era stato redatto dal

ad i dati catastali ed alle planimetrie allegate, e

cancelliere (pubblico ufficiale) che aveva, in tal

che l’intestazione catastale era conforme alle ri-

modo, certificato l’identità dei presenti e la veri-

sultanze dei registri immobiliari. Le parti avevano,

dicità delle dichiarazioni rese. Sicché il verbale di

poi, prodotto perizia giurata dalla quale era pos-

udienza, debitamente autenticato, già costituireb-

sibile desumere ulteriormente siffatte conformità,

be titolo valido per la trascrizione. In ogni caso,

oltre a tutta la documentazione necessaria per il

osservano gli istanti, la sentenza di divorzio è di-

trasferimento immobiliare, come le planimetrie

rettamente trascrivibile, ai sensi dell’art. 2657 c.c..

degli immobili (appartamento e garage) e le di-

2. Su tali specifici profili - dedotti dai ricorren-

chiarazioni di conformità a legge degli impianti

ti - l’ordinanza di rimessione n. 3089/2020 ha in-

elettrico e termico, obbligandosi, inoltre, a curare

vestito queste Sezioni Unite rilevando, anzitutto,

a proprie spese esonerando il cancelliere da ogni

che la soluzione adottata dalla sentenza di appel-

responsabilità al riguardo - le formalità richieste

lo, nel senso dell’inderogabilità della verifica di

per la trascrizione del trasferimento immobiliare.

conformità ipocatastale da parte del notaio, oltre

Per il che tutti gli adempimenti che la norma del

ad essere contraria all’indirizzo prevalente nella

D.L. n. 78 del 2010, art. 19, pone a carico del

giurisprudenza di legittimità, chiaramente ed uni-

notaio, sarebbero stati effettuati dalle stesse parti.

vocamente incline a ritenere ammissibili – nell’e-

1.3.2. Rilevano, altresì, gli esponenti che la de-

sercizio dell’autonomia privata ex art. 1322 c.c.

cisione impugnata non terrebbe conto del fatto

– i trasferimenti immobiliari operati dalle parti in

che la norma del D.L. n. 78 del 2010, art. 19, ri-

sede di divorzio e di separazione consensuale,

guarda i soli casi nei quali le parti abbiano inteso

non è pacificamente seguita neppure dai giudici

effettuare il trasferimento di diritti reali con atto

di merito.

notarile, laddove detta disposizione non trova

2.1. Rileva, al riguardo, l’ordinanza di rimes-

applicazione qualora le parti abbiano effettuato il

sione che la disposizione di cui al comma 1 bis,

trasferimento con scrittura privata – in relazione

aggiunto della L. n. 52 del 1985, art. 29,D.L. n.

alla quale il notaio si limita ad autenticare la fir-

78 del 2010, art. 19, comma 14, convertito nella

ma dei contraenti. Il che è, del resto, certamente

L. 30 luglio 2010, n. 122, ha, difatti, dato luogo a

consentito dall’art. 1350 c.c., che si limita a ri-

contrasti interpretativi fra i giudici di merito. Per

chiedere per i trasferimenti in questione la forma

intanto, va rilevato che la sanzione della nullità

scritta ad substantiam, senza operare distinzione

colpisce – come si evince dai primi due perio-

alcuna tra atto pubblico e scrittura privata.

di del testo della norma – solo l’identificazione

1.3.3. Né potrebbe opporsi a tali considerazio-

catastale, il riferimento alle planimetrie deposi-

ni il rilievo della impossibilità di trascrivere l’atto

tate e la dichiarazione resa dagli intestatari della

in tal modo concluso, non rientrando siffatto ac-

conformità dello stato di fatto ai dati catastali ed

cordo nelle categorie di atti trascrivibili, ai sensi

alle planimetrie; dichiarazione che peraltro può

dell’art. 2657 c.c. Osservano, per vero, i ricorrenti

essere sostituita – come è accaduto nel caso di

832


Emanuela Andreola

specie – da un’attestazione rilasciata da un tecnico abilitato. Per converso, non è prevista a pena di nullità la previsione – contenuta nel terzo periodo – secondo cui il notaio deve individuare, prima della stipula dell’atto, gli intestatari catastali e verificare la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari. 2.2. La nullità prevista -–secondo l’ordinanza di rimessione riguarda, dunque, l’assenza dei requisiti ed ha “carattere oggettivo”, poiché è “rivolta a prevenire e sanzionare atti che non siano conformi allo stato di fatto dell’immobile, in relazione ad eventuali violazioni della disciplina urbanistica”. Il controllo sulla identità degli intestatari catastali e sulla loro conformità alle risultanze dei registri immobiliari – non espressamente sanzionato, in caso di omissione, con la nullità dell’atto – non esclude, pertanto, il permanere della nullità oggettiva dell’atto medesimo, nonostante l’intervento del notaio, qualora gli adempimenti richiesti dalla prima parte della norma non siano stati effettuati. Di qui la necessità che l’atto traslativo – anche di diritti reali diversi dal diritto di proprietà, venendo in considerazione nella specie il diritto di usufrutto – contenuto nel verbale di separazione consensuale o nella sentenza che recepisce l’accordo divorzile, contengano i requisiti previsti dalla menzionata norma a pena di nullità, “ma la verifica che la norma rimette al notaio può essere svolta da un ausiliario del giudice dal momento che la validità dell’atto deriva esclusivamente dalla conformità alle prescrizioni normative” (p. 7 dell’ordinanza di rimessione). 2.3. Siffatta conclusione sarebbe, peraltro, confortata – a parere del collegio rimettente – dalla previsione, sebbene non direttamente applicabile ai conflitti familiari, della L. n. 162 del 2014, art. 5 (sulla cd. “negoziazione assistita”), che esclude la necessità del ricorso al notaio anche quando le parti, con l’accordo che compone la controversia, concludono uno dei contratti che vanno trascritti

ai sensi dell’art. 2643 c.c., limitandosi la norma a prevedere che per procedere alla trascrizione “la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato” (p. 8). 3. Il ricorso è fondato. 3.1. La questione relativa alla possibilità per le parti di introdurre – negli accordi di separazione consensuale o di divorzio congiunto, ferme talune differenze tra i due atti, sulle quali si tornerà – clausole diverse da quelle facenti parte del contenuto necessario di tali accordi, ha ricevuto da parte della dottrina risposte diverse ed articolate. 3.1.1. Una parte degli autori si è attestata su posizioni di maggiore chiusura, affermando che gli accordi tra i coniugi in sede di divorzio congiunto o di separazione consensuale non potrebbero avere un contenuto diverso da quello necessario, che si riferisce nel dettato delle norme che disciplinano le due diverse fattispecie all’affidamento dei figli minori ed al loro mantenimento, all’esercizio della responsabilità genitoriale, all’assegnazione della casa coniugale, all’eventuale mantenimento del coniuge, e comunque alla disciplina di tutte quelle situazioni che avrebbero potuto costituire oggetto della statuizione del giudice. Tale opzione interpretativa si fonda, per il divorzio, sul tenore letterale della disposizione di cui alla L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 4, comma 16, che fa riferimento – quale contenuto della domanda congiunta – alla compiuta indicazione delle “condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici”, nonché, per la separazione, sul disposto dell’art. 158 c.c., artt. 710 e 711 c.p.c., nei quali si fa riferimento all’“accordo dei coniugi relativamente all’affidamento e al mantenimento dei figli”, ed ai “provvedimenti riguardanti i coniugi e la prole conseguenti la separazione”, che possono essere modificati in ogni tempo su istanza delle parti. Secondo i sostenitori di questa tesi, pertanto, non vi sarebbe spazio per i trasferimenti immobi-

833


Giurisprudenza

liari né in sede di separazione consensuale, né in sede di divorzio. Solo il notaio potrebbe, invero, ricevere i negozi giuridici traslativi di diritti reali, quand’anche l’esigenza della loro stipulazione sia originata dalla crisi coniugale; sicché – seppure riportati nel verbale del giudizio – tali accordi traslativi non potrebbero comunque essere trascritti. 3.1.2. Altri autori – pur ritenendo in astratto valido l’accordo immediatamente traslativo di beni immobili in sede di separazione consensuale e di divorzio congiunto – ritengono comunque preferibile adottare la “procedura bifasica” (assunzione dell’obbligo di trasferire in sede giudiziale e redazione dell’atto notarile in esecuzione dell’obbligo assunto) in ragione dell’elevato rischio di errori invalidanti, connesso agli adempimenti e alle verifiche richiesti per gli atti immediatamente traslativi (indicazioni urbanistiche, attestazioni di prestazione energetica e certificazione catastale). 3.1.3. Altra dottrina – in un’ottica di maggiore apertura, dettata dalla necessità di tenere conto del contesto peculiare nel quale si sviluppano siffatti accordi traslativi, dettati dall’esigenza di porre fine quanto prima, e senza il rischio di successivi ripensamenti pregiudizievoli per la stabilità, già precaria, della situazione familiare – si spinge fino a valutare unitariamente e complessivamente tutte le condizioni della separazione (o del divorzio), ed arriva ad attribuire ad esse una comune connotazione di tipicità, cui fa conseguire una disciplina unitaria. In particolare, secondo tale tesi, occorrerebbe tenere conto del carattere di “negoziazione globale” che la coppia in crisi attribuisce al momento della “liquidazione” del rapporto coniugale di fronte alla necessità di valutare gli infiniti e complessi rapporti di dareavere che la protratta convivenza genera, operando una ricostruzione che, in luogo di una miriade di possibili accordi innominati, faccia perno, invece, sull’individuazione di un vero e proprio contratto di definizione della crisi coniugale o, più esattamente, dei suoi aspetti patrimoniali. Ta-

834

le contratto dovrebbe abbracciare ogni forma di costituzione e di trasferimento di diritti patrimoniali, compiuti con o senza controprestazione, in occasione della crisi coniugale. E si tratterebbe di accordi tipici, in quanto ancorati alle previsioni – valorizzate in un significato diametralmente opposto a quello propugnato dal primo orientamento – dell’art. 711 c.p.c. e della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16, laddove si riferiscono, rispettivamente, alle “condizioni della separazione consensuale” e alle “condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici” delle parti. A tali contratti è attribuito il nome di “contratti della crisi coniugale” o di “contratti postmatrimoniali”. 3.2. La giurisprudenza di legittimità ha più volte affrontato la problematica dei trasferimenti di diritti reali immobiliari in sede di separazione consensuale e di divorzio congiunto in decisioni emesse, peraltro, con riferimento a contesti fattuali spesso differenti l’uno dall’altro, e non sempre affrontando tutti i complessi profili implicati dalle due fattispecie. Sicché è intuibile l’esigenza – avvertita dall’ordinanza di rimessione – di fare piena chiarezza sull’intera questione, attraverso una decisione che – muovendo dalla vicenda inerente un giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario – fornisca, altresì, le coordinate interpretative per la risoluzione delle problematiche, del tutto simili, anche se non identiche, implicate dal contiguo – e non agevolmente disgiungibile sul piano dogmatico – istituto della separazione consensuale dei coniugi. E ciò tenuto conto anche del fatto che talune affermazioni di principio sono state emesse proprio con riferimento a casi di separazione incardinati quando ancora la legge sul divorzio non era entrata in vigore, e sono state – dipoi – traslate a fattispecie di divorzio successive. 3.2.1. Nelle prime decisioni in materia, sebbene il problema non sia stato consapevolmente e funditus affrontato, avendo tali pronunce ad og-


Emanuela Andreola

getto la costituzione a favore del coniuge, in sede di separazione, di un diritto reale di abitazione, o il trasferimento di beni, ma con riferimento specifico alla necessità di integrazione del contributo al mantenimento del medesimo (Cass., 12/06/1963, n. 1594; Cass., 27/10/1972, n. 3299), o al riconoscimento della proprietà esclusiva di alcuni beni al coniuge, ma in funzione divisoria (Cass., 11/11/1992, n. 12110), non si è mancato, tuttavia, di rilevare la validità della clausola, con la quale i coniugi, nel verbale di separazione consensuale, riconoscano la proprietà esclusiva di singoli beni mobili ed immobili in favore dell’uno o dell’altra. 3.2.2. Fondamentale è, per contro, una successiva pronuncia, nella quale questa Corte ha affermato che sono da ritenersi pienamente valide le clausole dell’accordo di separazione che riconoscano ad uno, o ad entrambi i coniugi, la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, ovvero che ne operino il trasferimento a favore di uno di essi al fine di assicurarne il mantenimento. Il suddetto accordo di separazione, in quanto inserito nel verbale d’udienza (redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è attestato), assume - per vero - forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell’art. 2699 c.c., e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo l’omologazione che lo rende efficace, titolo per la trascrizione a norma dell’art. 2657 c.c., senza che la validità di trasferimenti siffatti sia esclusa dal fatto che i relativi beni ricadono nella comunione legale tra coniugi. Lo scioglimento della comunione legale dei beni fra coniugi si verifica, infatti, con effetto “ex nunc”, dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione ovvero dell’omologazione degli accordi di separazione consensuale. La pronuncia contiene poi l’affermazione di rilievo – ai fini della risoluzione della questione oggetto di esame in questa sede secondo cui la

separazione consensuale è un negozio di diritto familiare, espressamente previsto dagli artt. 150 e 158 c.c. e disciplinato nei suoi aspetti formali dall’art. 711 c.p.c., il quale ne prevede la documentazione nel verbale di udienza – redatto da un ausiliario del giudice ai sensi dell’art. 126 c.p.c. – e ne subordina l’efficacia all’omologazione, attribuita alla competenza del tribunale (Cass., 15/05/1997, n. 4306). 3.2.3. In senso contrario si era, in precedenza, espressa una pronuncia – rimasta, peraltro, isolata – secondo la quale, qualora i coniugi abbiano convenuto, nell’accordo di separazione, una donazione, l’omologazione non vale a rivestire l’atto negoziale della forma dell’atto pubblico, richiesto dall’art. 782 c.c., che gli artt. 2699 e 2700 c.c., impongono sia “redatto” e “formato” dal pubblico ufficiale (Cass., 08/03/1995, n. 2700). La decisione non chiarisce, tuttavia, l’aspetto fondamentale della questione, concernente la ragione per la quale il verbale dell’udienza di comparizione dei coniugi, sebbene redatto dal cancelliere – che è, a sua volta, un pubblico ufficiale – con le modalità di cui all’art. 126 c.p.c., non rivesta la natura di un atto pubblico. 3.2.4. Le statuizioni contenute nella pronuncia n. 4306/1997 hanno trovato, peraltro, conferma in tutta la giurisprudenza successiva, essendosi affermato – con riferimento ad una vicenda di proposizione dell’azione revocatoria – che gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti reciproche attribuzioni patrimoniali e concernenti beni mobili o immobili, rispondono, di norma, ad uno specifico spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento di separazione consensuale che svela una sua “tipicità” propria. Tale tipicità – intesa in senso lato, con riferimento alla finalità, comune a questi accordi, di regolare i rapporti economici a seguito della crisi di coppia – ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all’art. 2901 c.c., può colorarsi dei tratti dell’obiettiva onerosità piutto-

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Giurisprudenza

sto che di quelli della gratuità, in ragione dell’e-

ultimi accordi non sono suscettibili di modifica (o

ventuale ricorrenza, o meno, nel concreto, dei

conferma) in sede di ricorso “ad hoc” ex art. 710

connotati di una sistemazione solutorio-compen-

c.p.c., o anche in sede di divorzio, la quale può

sativa più ampia e complessiva, di tutta quella

riguardare unicamente le clausole aventi causa

serie di possibili rapporti aventi significati, an-

nella separazione personale, ma non i patti auto-

che solo riflessi, patrimoniali maturati nel corso

nomi, che restano a regolare i reciproci rapporti

della quotidiana convivenza matrimoniale (Cass.,

ai sensi dell’art. 1372 c.c. (Cass., 19/08/2015, n.

25/10/2019, n. 27409). In tale decisione, la Corte

16909; Cass., 30/08/2019, n. 21839, che ha am-

ha ribadito che il verbale in cui le parti avevano

messo l’azione di simulazione nei confronti di un

espresso le condizioni di separazione personale

patto, contenuto nelle condizioni di separazione

costituisse a seguito dell’omologa, ed in quanto

consensuale omologate, che prevedeva trasferi-

atto pubblico – titolo per la trascrizione, a nor-

menti immobiliari tra le parti).

ma dell’art. 2657 c.c. (in senso sostanzialmente

Ma al di là dalla precisazione, concernen-

conforme, cfr. anche Cass., 15/04/2019, n. 10443).

te il diverso contenuto degli accordi della crisi

Ma già in precedenza, nello stesso senso del-

coniugale, va rilevato come venga anche da tali

la pronuncia succitata e sempre con riferimento

decisioni sostanzialmente ribadita l’ammissibilità

all’esperimento dell’azione revocatoria, la Corte

dei patti di trasferimento di diritti reali in sede di

aveva più volte conformemente statuito sui pre-

separazione consensuale e di accordo congiunto

supposti per l’utile esperimento di tale azione

di divorzio.

contro il trasferimento immobiliare concordato in

3.2.6. Di particolare interesse – ai fini della

sede di separazione consensuale o di divorzio

risoluzione della questione in esame, ed a pre-

congiunto, in tal modo riconoscendone quanto

scindere dalla peculiarità della vicenda – si pa-

meno implicitamente – la validità (in tal senso,

lesa, altresì, una recente pronuncia nella quale si

cfr. Cass., 23/03/2004, n. 5741; Cass., 26/07/2005,

è ritenuto che la previsione di cui alla L. n. 266

n. 15603; Cass., 14/03/2006, n. 5473; Cass.,

del 2005, art. 1, comma 497 – che attribuisce alle

12/04/2006, n. 8516, con riferimento alla revo-

persone fisiche che non agiscano nell’esercizio di

catoria fallimentare, Cass., 13/05/2008, n. 11914;

attività commerciali, artistiche o professionali e

Cass., 10/04/2013, n. 8678; Cass., 05/07/2018, n.

che abbiano acquistato immobili ad uso abitativo

17612).

e relative pertinenze, la facoltà di optare per la

3.2.5. Altre decisioni di legittimità hanno re-

liquidazione delle imposte di registro, ipotecarie

cepito la distinzione tra “contenuto essenziale”

e catastali, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986,

e “contenuto eventuale”, elaborata dalla dottrina

art. 52, commi 4 e 5 e quindi sulla base della

succitata, avendo statuito che la separazione con-

rendita catastale – operi anche nel caso in cui il

sensuale è un negozio di diritto familiare avente

trasferimento (nella specie, cessione di quote di

un contenuto essenziale – il consenso reciproco

una casa di civile abitazione) avvenga in via tran-

a vivere separati, l’affidamento dei figli, l’assegno

sattiva davanti all’autorità giudiziaria. Ed invero –

di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti

si afferma – il verbale di conciliazione giudiziale

– ed un contenuto eventuale, che trova solo “oc-

presenta tutti gli elementi essenziali dell’atto di

casione” nella separazione, costituito da accor-

compravendita, essendo il giudice, al pari di un

di patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi

notaio, un pubblico ufficiale ed assumendo detto

concludono in relazione all’instaurazione di un

verbale il valore di vero e proprio atto pubblico

regime di vita separata. Ne consegue che questi

(Cass., 30/10/2020, n. 24087).

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Emanuela Andreola

In tale decisione la Corte perviene, pertanto, all’equiparazione, sotto i profili del contenuto e della forma, delle cessioni di immobili abitativi perfezionate con atto notarile e dei trasferimenti effettuati in sede di conciliazione giudiziale, proprio sulla scorta della giurisprudenza succitata in materia di trasferimenti concordati in sede di separazione consensuale e divorzio congiunto. 3.2.7. Ulteriori implicite conferme in tal senso provengono, peraltro, anche da una serie di decisioni in materia fiscale, concernenti l’applicazione del disposto della L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 19, che, nel testo risultante dalle pronunce di illegittimità costituzionale nn. 176 del 1992 e 154 del 1999, stabilisce l’esenzione “dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa” per tutti i provvedimenti giudiziali resi nelle cause di divorzio o di separazione dei coniugi. Si è, invero, affermato che le agevolazioni di cui alla L. n. 74 del 1987, art. 19, operano con riferimento a tutti gli atti e convenzioni che i coniugi pongono in essere nell’intento di regolare sotto il controllo del giudice i loro rapporti patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio o alla separazione personale, ivi compresi gli accordi che contengono il riconoscimento o il trasferimento della proprietà esclusiva di beni mobili ed immobili all’uno o all’altro coniuge. Tale agevolazione si estende ad ogni tipo di “tassazione”, indipendentemente dalla natura di imposta o di tassa in senso proprio del tributo concretamente in discussione (Cass., 22/05/2002, n. 7493; Cass., 28/10/2003, n. 16171; Cass. 03/02/2016, n. 2111). E l’esenzione è stata riconosciuta anche agli atti stipulati a seguito dell’assunzione del solo obbligo di trasferimento in sede di separazione consensuale o di divorzio congiunto, in favore di alcuno dei coniugi o dei figli, senza che sia posto in essere dalle parti un accordo traslativo definitivo (Cass., 28/06/2013, n. 16348; Cass., 30/05/2005, n. 11458).

3.2.8. Del tutto incontroversa, nella giurisprudenza di questa Corte, è peraltro l’ammissibilità – sul piano generale, anche a prescindere dalla materia fiscale – della sola assunzione dell’obbligo di trasferire la proprietà di un bene, o altro diritto reale, con gli accordi di separazione o di divorzio. Sotto tale profilo, può anzi affermarsi che qualsiasi clausola che sia in grado di soddisfare gli interessi delle parti a regolare consensualmente – in quel particolare e delicato contesto costituito dalla crisi coniugale – gli aspetti economici della vicenda in atto, sia essa di mero accertamento della proprietà di un bene immobile, ovvero di cessione definitiva del bene stesso, o ancora di assunzione dell’obbligo di trasferirlo, è stata ritenuta egualmente ammissibile e valida dalla giurisprudenza di legittimità. 3.2.8.1. In tal senso, si è statuito, infatti, che è di per sé valida la clausola dell’accordo di separazione che contenga l’“impegno” di uno dei coniugi, al fine di concorrere al mantenimento del figlio minore, di trasferire, in suo favore, la piena proprietà di un bene immobile, trattandosi di pattuizione che dà vita ad un “contratto atipico”, distinto dalle convenzioni matrimoniali ex art. 162 c.c. e dalle donazioni, volto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, ai sensi dell’art. 1322 c.c. (Cass. 17/06/2004, n. 11342). 3.2.8.2. Nella medesima prospettiva si pone l’affermazione secondo cui l’obbligo di mantenimento nei confronti della prole ben può essere adempiuto con l’attribuzione definitiva di beni, o con l’impegno ad effettuare detta attribuzione, piuttosto che attraverso una prestazione patrimoniale periodica, sulla base di accordi costituenti espressione di autonomia contrattuale, con i quali vengono, peraltro, regolate solo le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta. Si è precisato, pertanto, che la pattuizione conclusa in sede di separazione personale dei coniugi non esime il giudice, chiamato

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Giurisprudenza

a pronunciarsi nel giudizio di divorzio, dal verificare se essa abbia avuto ad oggetto la sola pretesa azionata nella causa di separazione ovvero se sia stata conclusa a tacitazione di ogni pretesa successiva, e, in tale seconda ipotesi, dall’accertare se, nella sua concreta attuazione, essa abbia lasciato anche solo in parte inadempiuto l’obbligo di mantenimento nei confronti della prole, in caso affermativo emettendo i provvedimenti idonei ad assicurare detto mantenimento (Cass., 02/02/2005, n. 2088). L’obbligo di mantenimento dei figli minori (ovvero maggiorenni non autosufficienti) può essere, per vero, legittimamente adempiuto dai genitori – nella crisi coniugale – mediante un accordo che, in sede di separazione personale o di divorzio, attribuisca direttamente – o impegni il promittente ad attribuire – la proprietà di beni mobili o immobili ai figli, senza che tale accordo (formalmente rientrante nelle previsioni, rispettivamente, degli artt. 155,158,711 c.c. e della L. n. 898 del 1970, artt. 4 e 6 e sostanzialmente costituente applicazione della “regula iuris” di cui all’art. 1322 c.c., attesa la indiscutibile meritevolezza di tutela degli interessi perseguiti) integri gli estremi della liberalità donativa, ma assolvendo esso, di converso, ad una funzione solutorio-compensativa dell’obbligo di mantenimento. L’accordo in parola, comporta l’immediata e definitiva acquisizione al patrimonio dei figli della proprietà dei beni che i genitori abbiano loro attribuito, o si siano impegnati ad attribuire; di talché, in questa seconda ipotesi, il correlativo obbligo, è suscettibile di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. (Cass., 21/02/2006, n. 3747; Cass., 23/09/2013, n. 21736, secondo cui tale pattuizione non è affetta da nullità, non essendo in contrasto con norme imperative, né con diritti indisponibili). 3.2.8.3. E’ indifferente, in definitiva, nella giurisprudenza di questa Corte, la modalità con la quale il regolamento di interessi avvenga, purché

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esso sia idoneo a garantire un soddisfacente assetto dei rapporti tra le parti – per un futuro nel quale la convivenza coniugale si avvia verso un esito di separazione o di scioglimento - in tempi ragionevoli che consentano di chiudere la crisi al più presto, quanto meno sul piano economico. Ed in tale prospettiva – come in seguito si dirà – lo strumento più adeguato si palesa proprio il trasferimento immobiliare definitivo, escluso invece – nel caso di specie – dalla sentenza impugnata. 3.2.9. Una ulteriore chiara indicazione in senso favorevole all’ammissibilità degli accordi traslativi in sede di separazione consensuale e di divorzio congiunto proviene, infine, da una pronuncia in materia di “negoziazione assistita”, secondo la quale, ogni qualvolta l’accordo stabilito tra i coniugi, al fine di giungere ad una soluzione consensuale della separazione personale, ricomprenda anche il trasferimento di uno o più diritti di proprietà su beni immobili, la disciplina di cui al D.L. n. 132 del 2014, art. 6, convertito dalla L. n. 162 del 2014, deve necessariamente integrarsi con quella di cui del medesimo D.L. n. 132, art. 5, comma 3. Ne consegue che, per procedere alla trascrizione dell’accordo di separazione, contenente anche un atto negoziale comportante un trasferimento immobiliare, è necessaria l’autenticazione del verbale di accordo da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato, ai sensi dell’art. 5, comma 3, succitato (Cass., 21/01/2020, n. 1202). La pronuncia costituisce, non soltanto una conferma dell’ammissibilità di siffatti accordi nella sistemazione dei rapporti economici nella crisi coniugale, ma anche della non esclusività della funzione certificatoria in capo al notaio, essendo a quest’ultimo equiparabile qualunque pubblico ufficiale a ciò autorizzato. 3.3. In senso contrario rispetto alle coordinate interpretative tracciate dalla giurisprudenza di legittimità, si è – per contro espressa la maggior parte delle pronunce rese dai giudici di merito,


Emanuela Andreola

prevalentemente orientati a negale le possibilità di intese immediatamente traslative all’interno del verbale di separazione consensuale o di divorzio congiunto. 3.3.1. Riprendendo la distinzione – come si è visto, operata dalla dottrina e della giurisprudenza di legittimità – tra contenuto necessario e contenuto eventuale degli accordi di separazione, la maggior parte delle decisioni ha ritenuto, invero, che quest’ultimo non possa ricomprendere negoziazioni prive dei requisiti formali e sostanziali necessari per la loro validità, come gli atti traslativi definitivi, ciò rientrando in un dovere funzionale volto al rispetto dei principi generali dell’ordinamento, segnatamente in materia di trascrizione di tali atti e di certezza e regolarità dei trasferimenti immobiliari. Le parti, in tale prospettiva, ben potrebbero integrare le clausole costituenti il contenuto necessario delle pattuizioni di separazione e di divorzio, ma dovrebbero ricorrere “alla tecnica obbligatoria”, e non a quella reale, pena la possibile vanificazione dello strumento di tutela prescelto” Tale soluzione, si afferma, sarebbe ora confermata dalla L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1-bis, con il quale la legge avrebbe demandato al notaio, e non ad altri operatori, il compito della individuazione e della verifica catastale, nella fase di stesura degli atti traslativi, in tal modo mostrando di voler concentrare, nell’alveo naturale del rogito notarile, il controllo indiretto statale sugli atti di trasferimento immobiliare, a tutela degli interessi ad essi sottesi. Né il giudice potrebbe, nemmeno in sede di volontaria giurisdizione, svolgere alcun potere certificativo e attributivo della pubblica fede alle dichiarazioni negoziali delle parti (ex plurimis, Trib. Milano, 06/12/2009, in Fam. dir., 2011, 937; Trib. Milano, 21/05/2013, in Fam. dir., 2014, 600 e ss.; Trib. Firenze, 29/09/1989, in Riv. not., 1992, 595; Trib. Firenze, 07/02/1992, in Dir. fam e pers., 1992, 731). Per il che, il verbale dell’udienza di comparizione dei coniugi non co-

stituirebbe né atto pubblico, né scrittura privata autenticata, bensì una semplice scrittura privata, la cui efficacia nei confronti del terzi è sottoposta alla necessaria ripetizione del contratto nella forma dell’atto pubblico notarile, ai fini della trascrizione ai sensi dell’art. 2657 c.c. (Trib. Napoli, 16/04/1997, in Fam. dir., 1997, 420). In tale orientamento si iscrivono altresì le decisioni – emesse nel caso di specie – dal Tribunale di Pesaro n. 933/2016 e dalla Corte d’appello di Ancona n. 583/2017. 3.3.2. Sebbene la giurisprudenza di merito, e le prassi ed i protocolli – uno di essi menzionato dai ricorrenti, relativo al Tribunale di Pesaro – si siano espressi in massima parte in senso contrario all’ammissibilità dei trasferimenti immobiliari ad effetti reali in sede di separazione consensuale e di divorzio congiunto, non mancano, tuttavia, diverse decisioni di segno contrario, conformi alla giurisprudenza di legittimità succitata. Si è affermato, infatti, in tal senso, che la clausola di un accordo traslativo della proprietà di un bene immobile, in quanto inserita nel verbale d’udienza, assume forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell’art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo l’omologazione che lo rende efficace, titolo per la trascrizione a norma dell’art. 2657 c.c. Il verbale di separazione consensuale, contenente clausole relative al trasferimento di immobili tra i coniugi, costituisce invero un vero e proprio contratto atipico, con cui le parti intendono attuare un regolamento dei loro rapporti in occasione della separazione, ed è un atto pubblico costituente valido titolo per la trascrizione (Trib. Salerno, 04/07/2006, in Fam. dir., 2007, 63; Trib. Pistoia, 01/02/1996, in Riv. not., 1997, 1421; App. Genova, 27/05/1997, in Dir. fam. e pers., 1998, 572; App. Milano, 12/01/2010, in Fam. dir., 2011, 589). 3.4. Tale essendo il quadro dottrinale e giurisprudenziale di riferimento, ritengono queste Se-

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Giurisprudenza

zioni Unite che l’orientamento secondo il quale in sede di divorzio congiunto e di separazione consensuale siano ammissibili accordi tra le parti, che non si limitino all’assunzione di un mero obbligo preliminare, ma attuino in via diretta ed immediata il trasferimento della proprietà di beni o di altro diritto reale sugli stessi, meriti di essere condiviso e confermato, con le precisazioni che si passa ad esporre. 3.4.1. La vicenda in ordine alla quale è stata operata la rimessione alle Sezioni Unite di questa Corte attiene ad un caso in cui le parti, con un accordo del 6 luglio 2016, avevano chiesto consensualmente al Tribunale di Pesaro la pronuncia della cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario da essi celebrato, prevedendo, tra le altre condizioni dell’accordo, il trasferimento definitivo a favore dei figli della coppia, maggiorenni economicamente non autosufficienti, della quota del 50% della nuda proprietà spettante al padre sull’immobile adibito a casa coniugale, nonché il trasferimento, da parte del marito alla moglie, dell’usufrutto sulla propria quota dell’immobile. La fattispecie concreta concerne, pertanto, non la separazione consensuale tra i coniugi, bensì il divorzio congiuntamente richiesto dai medesimi, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16. E tuttavia, come dianzi detto, i due istituti - pur presentando innegabili diversità sul piano della disciplina – si presentano strettamente connessi l’uno all’altro sul piano dogmatico. Ed invero, ad accomunare le due fattispecie è certamente la connotazione presente in entrambe – dell’essere finalizzate ad ottenere mediante il consenso dei coniugi, piuttosto che con la pronuncia costitutiva del giudice, le divisate modificazioni dello status coniugale, con le conseguenti ricadute sull’affidamento ed il mantenimento della prole, ove esistente, e sui profili economici concernenti i rapporti tra i coniugi stessi.

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3.4.2. E tuttavia, è innegabile la sussistenza di diverse differenza tra i due istituti sul piano della rispettiva disciplina giuridica. 3.4.2.1. Una prima differenza tra il giudizio di separazione consensuale e quello di divorzio su domanda congiunta è ravvisabile, invero, nel fatto che, in quest’ultima fattispecie, il procedimento non termina con l’omologazione da parte del Tribunale, bensì con una sentenza emessa all’esito dell’audizione dei coniugi, e con la quale il collegio giudicante è tenuto a verificare la sussistenza dei presupposti di legge – in particolare se la comunione tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita – ed a verificare “la rispondenza delle condizioni all’interesse dei figli”. La mancata corrispondenza a tale interesse comporterà l’apertura della procedura contenziosa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, comma 8 (art. 4, comma 16). 3.4.2.2. Ed è questa una seconda differenza di regime giuridico con la separazione consensuale, nella quale – qualora l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento ed al mantenimento dei figli sia contrario agli interessi di questi ultimi, il Tribunale – nel caso in cui le modifiche proposte non siano state idoneamente eseguite – “può rifiutare allo stato l’omologazione” (art. 158 c.c., comma 2). 3.4.3. La dottrina che si è occupata del procedimento di divorzio congiunto è pervenuta a conclusioni non del tutto univoche, anche se tra gli autori più recenti è dato registrare una maggiore uniformità di vedute. 3.4.3.1. Secondo una prima opinione, il procedimento disciplinato dalla L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16, condotto in Camera di consiglio e senza istruttoria, assume connotazioni particolari, ma è pur sempre un procedimento contenzioso e la decisione ha la forma e la sostanza della sentenza. Il tribunale non si limita ad omologare il consenso dei coniugi, perché la presentazione della domanda congiunta costituisce il presup-


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posto per la trattazione della causa secondo un rito “abbreviato”, ma devono pur sempre essere accertate le condizioni per pronunciare il divorzio, proprio come avviene nei giudizi contenziosi. Nella medesima prospettiva, si è pertanto sostenuto che la sentenza che conclude siffatto procedimento presenta una duplice natura, ossia di accertamento costitutivo, quanto all’esame dei presupposti di legge ed alla pronuncia di divorzio, e dichiarativa dell’efficacia delle condizioni volute dalle parti. 3.4.3.2. Altra dottrina, senza peraltro porsi il problema della valenza del verbale di comparizione dei coniugi che riporti le condizioni concordate dai coniugi, ritiene che il ricorso a firma congiunta sia un qualcosa in meno dell’accordo in sede di separazione consensuale, poiché non avrebbe alcun contenuto negoziale e si risolverebbe semplicemente in una domanda comune rivolta al Tribunale, nell’aspirazione ad ottenere un certo provvedimento, avente un contenuto concordemente divisato dalle parti. 3.4.3.3. Su posizione diametralmente opposta sembra, tuttavia, ormai collocarsi la dottrina di gran lunga prevalente, secondo la quale l’accordo posto a base di tale procedimento avrebbe chiara natura negoziale, rilevando il parallelismo e la connotazione causale identici all’accordo concluso tra coniugi in sede di separazione consensuale, dalla quale si distingue solo per il preliminare accertamento dei requisiti di legge per dichiarare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Secondo tale tesi, a prescindere dalla forma del provvedimento finale, il divorzio su domanda congiunta non costituisce un giudizio contenzioso, ma un procedimento di giurisdizione volontaria, nel quale gli accordi delle parti non possono essere sindacati dal giudice, se non per quanto riguarda le statuizioni riguardanti i figli minori, ferma restando la decisione sulla sussistenza dei presupposti per la pronuncia di divorzio. Al di

fuori di tale profilo, l’attività del Tribunale è ritenuta sostanzialmente vincolata, tant’è che gli effetti patrimoniali del divorzio vengono ricondotti all’accordo delle parti, riportati nel verbale di comparizione davanti al collegio, anziché alla determinazione del giudice, che è assimilata a una mera omologa all’esito di un procedimento di controllo sul rispetto delle norme inderogabili dell’ordinamento vigente. Ciò che rileva – si ribadisce è che, in caso di divorzio su domanda congiunta, la fonte della regolamentazione dei rapporti tra gli ex coniugi divorziati va ravvisata nell’accordo delle parti e non nella sentenza. 3.4.4. La giurisprudenza di questa Corte ha recepito in parte ciascuna delle diverse elaborazioni della dottrina, muovendo da un dato inequivocabile di diritto positivo, costituito dal disposto della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16, secondo cui il Tribunale decide con sentenza verificando esclusivamente “la sussistenza dei presupposti di legge” e valutando “la rispondenza delle condizioni all’interesse dei figli”. 3.4.4.1. In tal senso – accomunando le due fattispecie, che al di là della diversità di disciplina presentano l’evidenziato tratto comune della consensualità – si è affermato che, in caso di separazione consensuale o di divorzio congiunto (o su conclusioni conformi), la sentenza incide sul vincolo matrimoniale, ma sull’accordo tra i coniugi. Essa realizza pertanto – in funzione di tutela dei diritti indisponibili del soggetto più debole e dei figli – un controllo solo esterno su tale accordo, attesa la natura negoziale dello stesso, da affermarsi in ragione dell’ormai avvenuto superamento della concezione che ritiene la preminenza di un interesse superiore e trascendente della famiglia rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti. Ne consegue che i coniugi ben possono concordare, con il limite del rispetto dei diritti indisponibili, non solo gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli personali della vita familiare, quali, in particola-

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re, l’affidamento dei figli e le modalità di visita dei genitori (Cass., 20/08/2014, n. 18066; Cass., 13/02/2018, n. 10463). 3.4.4.2. Nel medesimo ordine di idee si pone la successiva pronuncia, con la quale questa Corte – affrontando un caso di revoca unilaterale del consenso da parte di uno dei coniugi – ha stabilito che il Tribunale deve comunque provvedere all’accertamento dei presupposti per la pronuncia richiesta, per poi procedere, in caso di esito positivo della verifica, all’esame delle condizioni concordate dai coniugi, valutandone esclusivamente la conformità a norme inderogabili ed agli interessi dei figli minori. Infatti, a differenza di quanto avviene nel procedimento di separazione consensuale, la domanda congiunta di divorzio dà luogo ad un procedimento che si conclude con una sentenza costitutiva, nell’ambito del quale l’accordo sotteso alla relativa domanda riveste natura meramente ricognitiva, con riferimento alla sussistenza dei presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale della L. n. 898 del 1970, ex art. 3, mentre ha valore negoziale per quanto concerne la prole ed i rapporti economici. Il che consente al tribunale di intervenire su tali accordi soltanto nel caso in cui essi risultino contrari a norme inderogabili, con l’adozione di provvedimenti temporanei ed urgenti e la prosecuzione del giudizio nelle forme contenziose (Cass., 24/07/2018, n. 19540). 3.4.4.3. È del tutto evidente, pertanto, che – ferma la natura costituiva della sentenza che definisce il procedimento di divorzio a domanda congiunta, con la peculiarità che siffatta pronuncia è emessa sull’accordo delle parti, sia pure avente natura ricognitiva dei presupposti per la pronuncia sullo status, che il Tribunale ha comunque il dovere di verificare – la sentenza in parola viene a rivestire un valore meramente dichiarativo, o di presa d’atto, invece, quanto alle condizioni “inerenti alla prole ed ai rapporti eco-

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nomici”, che la domanda congiunta di divorzio deve “compiutamente” indicare. Fermo il limite invalicabile costituito dalla necessaria mancanza di un contrasto tra gli accordi patrimoniali e norme inderogabili, e dal fatto che gli accordi non collidano con l’interesse dei figli, in special modo se minori. 3.4.5. La pacifica – secondo tutta la giurisprudenza di legittimità succitata – natura negoziale degli accordi dei coniugi, equiparabili a pattuizioni atipiche ex art. 1322 c.c., comma 2, comporta pertanto che – al di fuori delle specifiche ipotesi succitate – nessun sindacato può esercitare il giudice del divorzio sulle pattuizione stipulate dalle parti, e riprodotte nel verbale di separazione. Come del resto – sul piano generale – il giudice non può sindacare qualsiasi accordo di natura contrattuale privato, che corrisponda ad una fattispecie tipica, libere essendo le parti di determinarne liberamente il contenuto (art. 1322 c.c., comma 1), fermo esclusivamente il rispetto dei limiti imposti dalla legge a presidio della liceità delle contrattazioni private e, se si tratta di pattuizioni atipiche, sempre che l’accordo sia anche meritevole di tutela secondo l’ordinamento (art. 1322 c.c., comma 2). 3.4.6. È del tutto evidente, pertanto, che l’impostazione seguita – nel caso di specie – dalla Corte d’appello si è tradotta, in concreto, in un limite ingiustificato all’esplicazione dell’autonomia privata, che potrebbe dispiegarsi - ad avviso della Corte territoriale esclusivamente in direzione di un accordo obbligatorio, avente il valore sostanziale di un preliminare, e non di un atto traslativo definitivo. L’operazione ermeneutica che ne è derivata si è concretata, pertanto, in una sorta di peculiare - quanto inammissibile - “conversione” dell’atto di autonomia, che da trasferimento definitivo è stato trasformato d’ufficio, dal giudice, in un mero obbligo di trasferimento immobiliare. Ed invero, il giudice di secondo grado ha confermato, sul punto, l’impostazione operata dal


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primo giudice, secondo cui le condizioni stabilite dalle parti vanno precisate nel senso che “i trasferimenti immobiliari indicati nelle condizioni siano da intendersi come impegni preliminari di vendita e di acquisto”. 3.4.7. Per converso, in una lettura costituzionalmente orientata che tenga conto de fondamento costituzionale dell’autonomia privata, ravvisabile negli artt. 2, 3, 41 (Corte Cost., sent. n. 60 del 1968) e 42 Cost. – è evidente che una restrizione dell’autonomia, per di più in presenza di una situazione di crisi coniugale che impone, anche sul piano solidaristico, una soluzione il più celere possibile quanto meno delle questioni economiche che possono tradursi in ulteriori motivi di contrasto tra i coniugi, la soluzione propugnata dalla Corte territoriale non può ritenersi condivisibile. Basti, per vero, por mente all’evenienza, di certo tutt’altro che improbabile, che - in caso di inadempimento, per qualsiasi ragione, dell’obbligato alla promessa di trasferimento della proprietà di beni, in sede di accordi di separazione consensuale o di divorzio congiunto – la controparte di siffatti accordi non potrà che intraprendere dovendo escludersi anche una risoluzione del patto per inadempimento, non trattandosi di un contratto sinallagmatico, bensì dell’adempimento di un dovere di mantenimento previsto dalla legge (Cass., 17/06/2004, n. 11342) – di un lungo ed incerto giudizio di esecuzione specifica dell’obbligo, ai sensi dell’art. 2932 c.c. Con evidente levitazione dei costi, che verrebbero ad incidere su di una situazione già fortemente compromessa sul piano economico. 3.4.8. D’altro canto, tale soluzione contrasta con la rilevata assenza – sul piano generale, e fatte salve le verifiche che il Tribunale è tenuto ad operare nelle singole fattispecie concrete – di profili di illiceità o di meritevolezza di siffatti accordi. 3.4.9. Né la diversa opzione interpretativa può efficacemente fondarsi, a giudizio di queste

Sezioni Unite, sulla disposizione della L. 27 febbraio 1985, n. 52, art. 29, comma 1-bis, introdotto dal D.L. n. 78 del 2010, art. 19, comma 14, a norma del quale “Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari”. È di chiara evidenza, infatti, che il tenore letterale della norma fonda la previsione di nullità sulla mancanza nell’atto dell’”identificazione catastale”, nonché del “riferimento alle planimetrie depositate in catasto” e della “la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale”. Si tratta dunque, com’è del tutto evidente, di una nullità testuale (art. 1418 c.c.) di carattere oggettivo che, a prescindere dalla esattezza e veridicità degli allegati e della dichiarazione, determina la nullità dell’atto per la sua sola mancanza (per un’ipotesi non dissimile, Cass. Sez. U., 22/03/2019, n. 8230). 3.4.10. Tale nullità non è ancorabile, pertanto, al soggetto che compie tale accertamento – neppure individuato nella prima parte dell’art. 29 succitato – ben potendo la nullità stessa verificarsi qualunque sia il soggetto che roga l’atto,

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sia esso un notaio o anche le parti private nella scrittura privata autenticata. Il che risulta confermato dal fatto che l’unica previsione che si riferisce al notaio, contenuta nell’ultima parte della norma (individuazione degli intestatari catastali e verifica della loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari), non è sanzionata dalla nullità dell’atto. Ne discende che l’accordo traslativo adottato in sede di divorzio ma mutatis mutandis il principio, per le ragioni suesposte, è applicabile anche alla separazione consensuale, nella quale l’atto traslativo è riconducibile alla parte negoziale eventuale dell’accordo, ai sensi degli artt. 150 e 158 c.c., ma l’atto, non essendo espressamente previsto e disciplinato dalla legge, ha natura atipica deve contenere tutte le indicazioni richieste, a pena di nullità, dalla L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1-bis. 3.4.11. Sotto tale profilo, è evidente che il verbale dell’udienza di comparizione dei coniugi redatto dal cancelliere ai sensi dell’art. 126 c.p.c., che – per intanto – realizza l’esigenza della forma scritta dei trasferimenti immobiliari, richiesta dall’art. 1350 c.c., è – come dianzi detto – un atto pubblico avente fede privilegiata, fino a querela di falso, sia della provenienza dal cancelliere che lo redige e degli atti da questi compiuti, sia dei fatti che egli attesta essere avvenuti in sua presenza (oltre alle decisioni succitate, cfr. Cass., 12/01/2009, n. 440; Cass. 11/12/2014, n. 26105). E’ stato già chiarito, infatti, che la dominante giurisprudenza di legittimità e una parte della dottrina ammettono la possibilità di attribuzioni patrimoniali tra coniugi in sede di separazione consensuale e di divorzio su domanda congiunta, ritenendo che le relative pattuizioni, quando operino il trasferimento in favore di uno di essi o di terzi di beni immobili, in quanto inserite nel verbale di udienza, redatto da un ausiliario del giudice e diretto a far fede di ciò che in esso è attestato, devono ritenersi, stipulate nella for-

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ma di atto pubblico, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2699 c.c. e quindi trascrivibili, ai sensi dell’art. 2657 c.c.. Secondo tale opinione, al cancelliere (esattamente come al giudice) compete la qualifica di pubblico ufficiale e lo svolgimento delle formalità relative all’udienza, ivi compresa la stesura del verbale, rientra nell’esercizio di una pubblica funzione (cfr. art. 357 c.p.); sicché gli atti redatti o formati con il suo concorso, nell’ambito delle funzioni al medesimo attribuite, e con l’osservanza delle formalità prescritte dalla legge, costituiscono atti pubblici ai sensi dell’art. 2699 c.c.. Gli incombenti relativi alla verifica della coincidenza dell’intestatario catastale con il soggetto risultante dai registri immobiliari – previsti dall’ultima parte della L. n. 52 del 1985, art. 29 – ben possono, di conseguenza, essere eseguiti dall’ausiliario del giudice, sulla base della documentazione che le parti saranno tenute a produrre, se del caso mediante un protocollo che ciascun ufficio giudiziario – come accade già in diversi Tribunali potrà predisporre d’intesa con il locale Consiglio dell’ordine degli avvocati. 3.4.12. L’opzione interpretativa che queste Sezioni Unite intendono privilegiare, è, d’altra parte, in linea con le affermazioni della più recente giurisprudenza di questa Corte, emesse con specifico riferimento alla L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1-bis. Si è – per vero – anzitutto affermato, al riguardo, che la dichiarazione richiesta dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 19, comma 14, conv. in L. 30 luglio 2010, n. 122, riguarda la conformità allo stato di fatto non della sola planimetria dell’immobile, ma anche dei dati catastali, questi ultimi costituendo gli elementi oggettivi di riscontro delle caratteristiche patrimoniali del bene, rilevanti ai fini fiscali. L’omissione – ma limitatamente a tale dichiarazione – determina, pertanto, la nullità assoluta dell’atto, perché la norma ha una finalità pubblicistica di contrasto all’evasione fiscale, conseguendone la respon-


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sabilità disciplinare del notaio, ai sensi della L. 16 febbraio 1913, n. 89, art. 28, comma 1 (Cass., 11/04/2014, n. 8611; Cass., 21/07/2016, n. 15073; Cass., 03/06/2016, n. 11507; Cass., 29/08/2019, n. 21828). 3.4.13. Quanto all’ambito di applicazione delle prescrizioni riguardanti le informazioni e le dichiarazioni catastali, previste a pena di nullità, la tesi minoritaria secondo la quale il perimetro applicativo della norma sarebbe circoscritto allo schema dell’atto negoziale notarile (sia esso l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata), con esclusione, oltre che delle scritture private semplici, anche degli atti pubblici amministrativi o giudiziari, che producano gli stessi effetti giuridici indicati dalla norma, è smentito dall’orientamento assolutamente maggioritario della dottrina. La maggioranza degli interpreti considera, per vero, necessaria una interpretazione estensiva e adeguatrice della disposizione in esame, che la rende applicabile agli atti di categoria diversa che trasferiscano o costituiscano diritti reali (o sciolgano la comunione dei relativi diritti). Si ritiene, in sostanza, che, pur essendo la norma rivolta anzitutto agli atti formati o autenticati dal notaio, essa sia, comunque, applicabile a tutti gli atti amministrativi che producono i medesimi effetti, quali i decreti di trasferimento per espropriazione, ed anche agli atti giudiziari, come le sentenze costitutive ex art. 2932 c.c. Se non si aderisse alla tesi estensiva – non si manca di rilevare, altresì, da autorevole dottrina – si porrebbe il più generale problema della configurabilità dei trasferimenti immobiliari nei verbali di conciliazione ex art. 185 c.p.c., aventi certamente natura negoziale, ancorché redatti con l’intervento del giudice a definizione di una controversia pendente (in tal senso, cfr. Cass., 26/02/2014, n. 4564; Cass., 28/06/2007, n. 14911). 3.4.14. Alla tesi dominante ha, peraltro, aderito la giurisprudenza più recente di questa Corte, secondo la quale il mancato riscontro, da parte

del giudice investito di una domanda di adempimento del contratto in forma specifica ex art. 2932 c.c., della sussistenza della condizione dell’azione costituita dalla presenza in atti delle menzioni catastali di cui della L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1-bis, costituisce un “error in iudicando” censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e non un vizio di contenuto-forma produttivo di nullità della sentenza. Gli effetti di tale errore, pertanto, si esauriscono all’interno del processo e non producono alcuna conseguenza sul piano della idoneità della sentenza ad essere trascritta nei registri immobiliari (Cass., 25/06/2020, n. 12654). In una successiva pronuncia, questa Corte ha affrontato, poi, anche la questione relativa alla portata dell’ultima parte della L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1-bis. La decisione – per vero ribadisce che nel giudizio di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto di trasferimento immobiliare relativo ad un fabbricato già esistente, la conformità catastale oggettiva di cui alla L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1 bis, costituisce una condizione dell’azione e deve formare oggetto di accertamento da parte del giudice, che non può accogliere la domanda ove la presenza delle menzioni catastali difetti al momento della decisione. Si afferma, peraltro, che il giudice non è, viceversa, tenuto a verificare la ricorrenza della c.d. conformità catastale soggettiva, consistente nella coincidenza del promittente venditore con l’intestatario catastale del bene, in quanto essa non costituisce una condizione dell’azione e la sua mancanza non impedisce l’emissione di una sentenza costitutiva di trasferimento del fabbricato ex art. 2932 c.c. (Cass., 29/09/2020, n. 20526). 3.4.15. Deve ritenersi, pertanto, che la disposizione succitata non sia applicabile esclusivamente agli atti compiuti con il ministero del notaio, ma si attagli invece a tutti i trasferimenti immobiliari che, oltre che in forma giudiziale, ai sensi

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dell’art. 2932 c.c., ben possono essere effettuati anche in un verbale di conciliazione giudiziale o in un verbale di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta. D’altro canto, si osserva da parte di attenta dottrina, della L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1 bis, ultimo periodo, il legislatore ha certamente detto meno di quanto volesse, usando il riferimento al notaio come indicativo dell’accertamento che deve essere compiuto in ogni caso di redazione dell’atto da parte del un pubblico ufficiale. Se, invero, avesse voluto imporre l’intervento del solo notaio, il legislatore avrebbe dovuto chiarire che introduceva una norma in deroga all’art. 1350 c.c., sia pure limitatamente alle unità immobiliari urbane, mentre nulla ha disposto sul punto, dovendo pertanto ritenersi ancora pienamente lecite, e valide, semplici scritture private, che riportino trasferimenti o costituzioni di diritti reali, o scioglimento delle relative comunioni. Secondo i sostenitori di tale tesi, un’opinione contraria renderebbe, d’altro canto, la norma intrinsecamente incoerente, visto che, da una parte, legittima la possibilità di realizzare atti dispositivi anche con scritture private e, dall’altra, impone la redazione di tali atti da parte del notaio. A ciò viene aggiunta la considerazione che la violazione della disposizione sulla conformità soggettiva – come dianzi detto – non è assistita, come per la violazione di quelle conformità oggettiva, dalla sanzione della nullità, sicché, se non vi è nullità, e nessuna altra conseguenza è prevista, diviene difficile sostenere che, in forza di tale norma, solo il notaio possa compiere gli atti in esame. 3.5. Dando, conclusivamente, risposta al quesito posto dall’ordinanza di rimessione, queste Sezioni Unite affermano i seguenti principi di diritto: “sono valide le clausole dell’accordo di divorzio a domanda congiunta, o di separazione consensuale, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, o di altri diritti reali, ovvero ne

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operino il trasferimento a favore di uno di essi, o dei figli, al fine di assicurarne il mantenimento; il suddetto accordo di divorzio o di separazione, in quanto inserito nel verbale d’udienza, redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è attestato, assume forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell’art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo la sentenza di divorzio resa ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16, che, in relazione alle pattuizioni aventi ad oggetto le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici, ha valore di pronuncia dichiarativa, ovvero dopo l’omologazione che lo rende efficace, valido titolo per la trascrizione a norma dell’art. 2657 c.c.; la validità dei trasferimenti immobiliari presuppone l’attestazione, da parte del cancelliere, che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni di cui alla L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1-bis; non produce nullità del trasferimento, il mancato compimento, da parte dell’ausiliario, dell’ulteriore verifica circa l’intestatario catastale dei beni trasferiti e la sua conformità con le risultanze dei registri immobiliari”. 4. Per tutte le ragioni esposte, il ricorso deve essere, pertanto, accolto. La sentenza impugnata va, di conseguenza, cassata con rinvio alla Corte d’appello di Ancona in diversa composizione, che dovrà procedere a nuovo esame del merito della controversia, facendo applicazione dei principi di diritto suesposti. 5. Nessuna statuizione va emessa sulle spese del presente giudizio, trattandosi di ricorso congiunto. P.Q.M. La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza con rinvio alla Corte d’appello di Ancona in diversa composizione.


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Dispone, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, che in caso di diffusione della presente sentenza si omettano le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2021. Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2021. (Omissis)

Trasferimenti immobiliari immediati in sede di separazione e divorzio* Sommario : 1. La sistemazione patrimoniale nella crisi coniugale. – 2. Il controllo

giudiziale sugli accordi di separazione e di divorzio. – 3. La competenza formale del giudice a recepire accordi traslativi nel verbale di separazione consensuale. – 4. La distonia dei giudici di merito. – 5. La rilettura delle Sezioni Unite in tema di autonomia privata dei coniugi. – 6. Il fondamento normativo dell’idoneità del verbale alla trascrizione. – 7. Conclusioni.

The United Sections of the Court of Cassation return to the clauses of divorce agreements on joint application, or of consensual separation, which constitute or transfer rights in rem in favour of one or both spouses or children in order to fulfil the maintenance obligation, reaffirming their validity. If inserted in the minutes of the hearing, drawn up by an auxiliary of the judge and intended to prove what is attested in it, the negotiating act takes the form of an authentic instrument based on art. 2699 c.c., suitable for transcription.

1. La sistemazione patrimoniale nella crisi coniugale. La Corte di Cassazione in funzione nomofilattica è stata chiamata a chiarire ulteriormente i limiti del potere negoziale dei coniugi in sede giudiziale da tempo oggetto di attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza con esiti tuttavia non sempre omogenei. Prima di esaminare i passaggi essenziali della pronuncia delle Sezioni Unite in esame, occorre inquadrare brevemente la materia alla luce dei contributi dottrinali e giurisprudenziali che ne hanno in gran parte definito il perimetro. La cessazione della convivenza matrimoniale e lo scioglimento del vincolo costituiscono spesso occasione di conflitto riportando al centro del rapporto tra i coniugi questioni

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Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.

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patrimoniali fino a quel momento rimaste assorbite dal ménage quotidiano caratterizzato dall’affectio e dalla comunione di vita. Nell’ambito dei procedimenti di separazione e di divorzio è consentito ai coniugi comporre le controversie legate al cambiamento dello status attraverso accordi nei quali essi disciplinano i rapporti personali e patrimoniali incidenti sulla vita futura. Una serie di norme, anche di natura processuale, collegate al principio della dissolubilità civile del matrimonio, autorizza la definizione negoziale delle questioni controverse connesse alla cessazione del rapporto matrimoniale e il regime fiscale agevolato per tali atti di disposizione conferma l’esistenza di un favor per la «privatizzazione» della crisi. L’elaborazione della concezione moderna della «privatizzazione del diritto di famiglia» ha le sue radici nel riconoscimento di una sfera di autonomia privata anche nell’ambito dei rapporti familiari1. In tale evoluzione si inserisce l’orientamento giurisprudenziale – ormai consolidato – che riconosce sempre più spazio al potere negoziale dei coniugi nel matrimonio e, di conseguenza, agli istituti che ne accompagnano la crisi. Già nella fase del normale svolgimento del rapporto, ampi spazi all’autonomia negoziale sono riconosciuti con riguardo alla possibilità di scegliere di comune accordo regimi patrimoniali alternativi a quello di comunione legale, o di stipulare convenzioni tipiche e atipiche2. Come è noto, la base di tale autonomia privata poggia su una concezione costituzionale della famiglia ben diversa da quella pubblicistica dominante nella prima parte del secolo scorso - in cui i soggetti che la compongono hanno pari dignità e libertà di autodeterminarsi. Si tratta di un’evoluzione felicemente riassunta nell’aforisma «From status to contract»3 che evoca il passaggio da un’organizzazione rigida della società, basata sullo status, a un’organizzazione più elastica che delega all’iniziativa e all’autonomia dei singoli la disciplina dei rapporti privati, anche familiari. Nel quadro di questo nuovo concetto di famiglia si è sviluppato il tema non solo dell’ammissibilità di patti volti a pianificare, in via preventiva, gli effetti di una eventuale crisi futura (questione ancora aperta), ma anche dei limiti di contenuto e di forma degli accordi patrimoniali in sede di separazione e di divorzio.

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Cfr. F. Santoro-Passarelli, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, in Saggi di diritto civile, Napoli, 1961, 381 ss., il quale già più di mezzo secolo fa sottolineava come dovesse ritenersi che l’autonomia privata avesse una sfera d’applicazione nel diritto di famiglia, sebbene, per molti aspetti, più ridotta che nel diritto patrimoniale. Secondo l’Autore, la formazione dei più importanti rapporti familiari e prima ancora la stessa attribuzione di taluni status sono lasciate all’iniziativa discrezionale del singolo, ma spesso questa iniziativa si esplica nella forma dell’autonomia privata, cioè mediante il negozio giuridico. Nei casi più importanti, come nel matrimonio, nell’adozione, nel riconoscimento del figlio naturale, per la produzione degli effetti occorre un atto di controllo del potere statuale, quale presupposto o ulteriore elemento costitutivo o di efficacia della fattispecie. 2 Cfr. F. Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, 214-220. Sull’uso non sempre appropriato del termine «privatizzazione» riferito al diritto di famiglia, cfr. U. Breccia, voce Separazione personale dei coniugi, in Dig. disc. priv. – sez. civ., XVIII, Torino, 1998, 357, nt. 16. 3 Sottolinea la formula fortunata S. Patti (S. Patti, From status to contract? Die Bedeutung des Vertrages im Familienrecht, in Atti del Convegno di Regensburg, 30 settembre-2 ottobre 2004, Bielefeld, 2005) coniata dallo storico inglese H.S. Maine (H.S. Maine, From status to contract, in Ancient Law: Its Connections with Early History of Society and Its Relations to Modern Ideas, London, 1906, 172174, trad. it. di S. Rodotà, in Il diritto privato nella società moderna, Bologna, 1971, 241 ss.).

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Il potere di autodeterminazione dei coniugi nella fase patologica del matrimonio è anzitutto contemplato dalla normativa vigente che ammette espressamente la possibilità di disporre sulle conseguenze della cessazione della convivenza coniugale nell’ambito del processo, quando cioè vengono definite le condizioni di separazione consensuale (artt. 158 c.c. e 711 c.p.c.) o di divorzio proposto a domanda congiunta (art. 4, comma sedicesimo, L. 1 dicembre 1970, n. 898)4. La possibilità di negoziazione dei coniugi è confermata anche dalle nuove forme stragiudiziali di separazione e di divorzio contemplate dalla L. 10 novembre 2014, n. 1625. Il tratto essenziale degli accordi nella fase patologica del matrimonio consiste nell’accedere a una modifica dello status coniugale e di essere strettamente connessi al processo. Non di una contrattazione «in vista» della crisi si tratta dunque, ma di una contrattazione «nella» crisi, cui si aggiunge l’ammissibilità e la validità di una negoziazione «oltre» la crisi, mediante il riconoscimento degli accordi a latere con i soli limiti della «non interferenza» o del «maggior vantaggio» per la parte debole del rapporto. La possibilità di intervenire convenzionalmente sugli accordi già omologati appare dunque molto ampia, ferma l’eventualità di un controllo giudiziale, qualora si assumano violati principi inderogabili6. Da tempo si ammette che ciascuno dei coniugi abbia il diritto di condizionare il consenso per la separazione al regolamento dei propri interessi economici, ma senza lesione dei diritti inderogabili7. Le intese recepite nelle condizioni di separazione consensuale (o di divorzio non contenzioso) rientrano nella categoria degli atti giuridici negoziali in senso ampio, manifestazioni di volontà con cui si stabiliscono liberamente le modalità per realizzare interessi meritevoli di tutela (art. 1322, secondo comma, c.c.), atti validi e vincolanti laddove perseguano uno scopo non contrario a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume8. Resta tuttavia dubbia l’applicabilità diretta delle norme sui contratti9.

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Una serie di disposizioni del codice di rito e del codice civile conferma un favor per la privatizzazione della crisi, attraverso un espresso rinvio agli accordi eventualmente raggiunti tra i soggetti interessati, come i provvedimenti economici riguardo ai figli, nella separazione. L’art. 337-ter c.c. prevede che il giudice adito in sede contenziosa debba «prendere atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori». Inoltre, «salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti» (art. 337-ter, quarto comma, c.c.), il giudice attua d’ufficio il criterio della proporzionalità nella contribuzione economica a favore della prole, mediante la previsione eventuale di un assegno periodico. Cass., 21 gennaio 2020, n. 1202, in Notar., 2020, 164. Recentemente, cfr. Trib. Arezzo, 9 gennaio 2020, n. 19, in Dejure. Vedi inoltre Cass., 12 gennaio 2016, n. 298, in Giust. civ. Mass., 2016, la quale ha affermato che le disposizioni adottate dai coniugi per modificare il contenuto del decreto di omologazione o dell’ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c. trovano legittimo fondamento nell’art. 1322 c.c. e sono valide indipendentemente dal procedimento ex art. 710 c.p.c., imposto dalla legge nel solo caso in cui vi siano contrasti tra le parti sul tenore delle modifiche richieste. Per tutte vedi Cass., 5 luglio 1984, n. 3940, in Dir. fam. pers, 1984, 922. L’applicabilità del principio dell’autonomia privata (art. 1322 c.c.) all’ambito dei rapporti familiari costituisce un assunto ormai acquisito. In questo senso cfr. G. Doria, Autonomia privata e “causa” familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996, 64. In giurisprudenza, cfr. Cass., 22 novembre 2007, n. 24321, in Fam. e dir., 2008, 446, con nota di G. Casaburi, Separazione consensuale dei coniugi ed accordi patrimoniali atipici tra i coniugi: ammissibilità ed impugnazione. Sul problema delle regole contrattuali applicabili all’accordo di separazione consensuale, cfr. G. Oberto, La natura dell’accordo di separazione consensuale e le regole contrattuali ad esso applicabili, in Fam. e dir., 2000, 86. Parte della dottrina ritiene che l’accordo

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Poiché infatti questi hanno contenuto non soltanto patrimoniale, ma anche personale, in quanto incidono in modo diretto sullo status dei coniugi, essi producono effetti patrimoniali solo eventuali e riflessi. Di qui l’ostacolo a qualificarli come accordi costitutivi di un rapporto giuridico, ai sensi dell’art. 1321 c.c., e la proposta di considerarli negozi bilaterali di natura personale, rientranti nella categoria dei negozi familiari10. Ciò non esclude che, accanto all’accordo di separazione in senso stretto11, volto a far cessare la convivenza, siano frequenti fattispecie concrete in cui l’«accordo quadro» di separazione o di divorzio contenga atti traslativi o costitutivi tipici di diritti reali con cui i coniugi regolano la cessazione temporanea o definitiva della comunione di vita.

2. Il controllo giudiziale sugli accordi di separazione e di divorzio.

La funzione e la struttura dei giudizi speciali di separazione e di divorzio (entrambi costitutivi dello status su base consensuale), accomunati dalla caratteristica essenziale di essere procedimenti di giurisdizione volontaria, in cui la funzione di controllo del giudice è limitata, realizzano la libertà negoziale dei coniugi. Essi infatti, nel definire le condizioni della separazione, cedono o costituiscono diritti o convengono una «generale sistemazione patrimoniale» per evitare contenziosi futuri. Rispetto a tali attribuzioni il giudice effettua un controllo in funzione di garanzia dell’ordine pubblico familiare e di salvaguardia dei diritti indisponibili (dei figli minori) attuando in definitiva una valutazione sulla meritevolezza degli interessi dedotti nelle clausole. Se il «consenso» e l’«accordo» costituiscono la fonte della disciplina dei rapporti patrimoniali nella fase patologica del matrimonio, al giudice è riservato il controllo sulla causa concreta della negoziazione, anche ai fini del trattamento tributario dei trasferimenti in tale sede. Sono noti i contrasti dottrinali e gli orientamenti giurisprudenziali sulla qualificazione causale degli atti in esame, discussioni che hanno

di procedere alla separazione, non incidendo su un rapporto giuridico avente il carattere della patrimonialità e avendo ad oggetto la sospensione o attenuazione del rapporto di coniugio, va annoverato tra i negozi giuridici bilaterali familiari, estraneo alla categoria dei contratti. In questo senso, cfr. F. Santosuosso, Delle persone e della famiglia, in Codice civile. Commentario, I, 1, 2, Il matrimonio, Torino, 1981, 1088; G. Bonilini, Nozioni di diritto di famiglia, Torino, 2006, 122. Sulla questione cfr. anche P. Zatti, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Tratt. Rescigno, II, Persone e famiglia, Torino, 1996, 140. 10 Cfr. C.M. Bianca, Diritto civile, II-1, La famiglia, Milano, 2014, 256. L’Autore definisce l’atto consensuale di separazione un negozio giuridico bilaterale che però non rientra nella categoria del contratto poiché ha ad oggetto la sospensione del rapporto di matrimonio che non è un rapporto giuridico patrimoniale. Anche la Corte di Cassazione definisce in tal modo l’accordo di separazione in senso stretto partendo dalla concezione privatistica della separazione consensuale. Essa ha infatti ripetutamele affermato che l’accordo di separazione costituisce un atto di natura essenzialmente negoziale – più precisamente, un negozio giuridico bilaterale a carattere non contrattuale (in quanto privo, almeno nel suo nucleo centrale, del connotato della “patrimonialità”) – rispetto al quale il provvedimento di omologazione costituisce una mera condizione sospensiva (legale) di efficacia. Si veda in particolare anche Cass., 12 aprile 2006, n. 8516, in Corr. giur., 2006, 757, con nota di V. Carbone, Revocatoria fallimentare: diritto di abitazione. 11 Secondo la Corte di Cassazione, l’accordo di separazione in senso stretto rappresenta il contenuto “essenziale” delle intese della crisi matrimoniale (cfr. Cass., 15 maggio 1997, n. 4306, in Fam. e dir., 1997, 417).

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portato alla elaborazione di una nozione autonoma di «causa familiare»12. Ma volendo in questa sede prescindere da un approccio nominalistico, occorre realisticamente tener presente che il materiale valutabile ai fini dell’inquadramento causale è rappresentato, da un lato, dagli schemi negoziali selezionati dai coniugi, dall’altro, dai particolari interessi in gioco legati al vincolo matrimoniale e al rapporto di filiazione, che emergono in un contesto processuale dove essi vengono garantiti. Alla luce di tali osservazioni, l’elemento che accomuna i negozi della crisi appare quello di una «plurima funzione»: a) riorganizzare il patrimonio senza pregiudizio della solidarietà familiare anche nella fase patologica del matrimonio; b) assicurare che il nuovo equilibrio non leda i diritti dei soggetti che l’ordinamento tutela in via prevalente; c) evitare l’intervento «sostitutivo» dell’autorità giudiziaria nel contenzioso. Il giudizio di meritevolezza allora si fonda sulla valutazione della «funzione dell’operazione negoziale concreta» in cui vengono in rilievo non solo il meccanismo scelto dalle parti ma anche i reali obiettivi da realizzare mediante le pattuizioni13. L’indagine non può prescindere dal ricercare la connessione reciproca sul piano strutturale e funzionale delle singole pattuizioni. Sotto tale ultimo profilo va messo in luce che acquista rilevanza principale l’interesse dei coniugi a trovare una sistemazione possibilmente definitiva e in tempi brevi14. La giurisprudenza, secondo un indirizzo prevalente, ripreso anche da pronunce recenti, sottolinea la meritevolezza degli accordi con cui i coniugi operano delle attribuzioni patrimoniali non necessariamente collegate a un corrispettivo15. Il fondamento viene individuato nell’esigenza di soddisfare «uno spirito di sistemazione personale e patrimoniale» in occasione della separazione e del divorzio, volontà che si può sostanziare anche nell’at-

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La teoria della «causa familiare» mette in luce il particolare momento in cui gli accordi vengono conclusi e la pluralità degli interessi che sorge in occasione della separazione e del divorzio. Sul punto vedi G. Doria, Autonomia privata e “causa” familiare, cit., 291, il quale precisa che tali interessi emergono sotto l’aspetto sostanziale dei rapporti personali (esistenziali o economico-patrimoniali) tra coniugi ovvero sotto il profilo giuridico formale, il cui assetto non è, però, rimesso all’adozione di uno strumento ex lege “necessario” e la cui natura è, in massima parte, diversa rispetto agli interessi direttamente e specificamente presi in considerazione dal legislatore in sede di disciplina dell’assegno di mantenimento, di assegnazione della casa coniugale e di affidamento dei figli. Nel senso della configurabilità di una causa autonoma dei negozi di separazione e divorzio cfr. anche P. Giunchi, I trasferimenti di beni tra coniugi nel procedimento di separazione personale nel diritto civile e nelle leggi fiscali, in Vita not., 1993, 1052 ss. Si è eccepito che la tesi della causa familiare peccherebbe di eccessiva genericità e finirebbe per non offrire un valido strumento operativo (Cfr. G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, Milano, 1999, 703 ss.). 13 A fronte di una attribuzione stabilita in fase di definizione della crisi coniugale, spetta al giudice indagare la concreta funzione pratico-economica dell’operazione (Cass., 5 luglio 2018, n. 17612, in OneLegale). 14 Quanto alla varietà degli interessi sottesi alle attribuzioni in sede di separazione, cfr. P. Giunchi, I trasferimenti di beni fra coniugi nel procedimento di separazione personale nel diritto civile e nelle leggi fiscali, cit., 1048 ss. Secondo l’Autore la separazione determina l’insorgere di svariati interessi dei coniugi, aventi natura anche non patrimoniale, ma la causa non si identifica con tali interessi o con la loro sistemazione. Lo strumento scelto dalle parti (attribuzione del bene) troverebbe legittimazione per l’ordinamento giuridico nel fatto che il negozio è stipulato “perché i coniugi si separano”. 15 Cfr. ad esempio Cass., 22 novembre 2007, n. 24321, cit., 446. Il principio resta quello che l’accordo mediante il quale i coniugi, nel quadro della complessiva regolamentazione dei loro rapporti in sede di separazione consensuale, stabiliscono il trasferimento di beni immobili (come nella specie, di quello che costituisce la casa familiare), dà vita a un contratto atipico, volto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico ai sensi dell’art. 1322 c.c.

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tribuzione della proprietà di immobili16. L’elemento costante della negoziazione appare pertanto la funzione definitoria per il periodo successivo a quello della crisi17. Resta aperto il problema dell’ammissibilità e, in definitiva, dell’utilità operativa di una classificazione unitaria dei «negozi della crisi familiare», anche se numerose recenti decisioni della Cassazione inquadrano in modo sistematico e unitario gli accordi separatizi o divorzili sul piano funzionale, quale espressione di uno schema negoziale tipico secondo le norme vigenti18. Tali atti svelerebbero una tipicità propria, talvolta onerosi, talvolta gratuiti, a seconda che ricorra o meno, in concreto, una sistemazione «solutorio-compensativa» più ampia e complessiva19. Anche la giurisprudenza di merito ha tendenzialmente seguito tale ultimo inquadramento20. Alla luce della più recente ricostruzione causale dei negozi della crisi coniugale, emerge anche l’ulteriore caratteristica delle convenzioni, il collegamento negoziale tra le clausole che regolano singolarmente lo status, i rapporti personali e patrimoniali tra coniugi e il rapporto con i figli.

3. La competenza formale del giudice a recepire accordi traslativi nel verbale di separazione consensuale.

La sentenza delle Sezioni Unite in commento ha ribadito specificamente la validità delle clausole dell’accordo di divorzio a domanda congiunta, o di separazione consensuale, che riconoscano a uno o a entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, o di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli in

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In questo senso vedi Cass., 16 marzo 2016, n. 5156, in Notar., 2016, 3, 309 che cita i precedenti conformi, tra i quali Cass., 12 maggio 2000, n. 6065, in Fam. e dir., 2000, 437 e Cass., 17 febbraio 2001, n. 2347, ivi, 2001, 334, che ha espressamente esentato i trasferimenti immobiliari in sede di separazione e divorzio dagli obblighi afferenti al beneficio della prima casa. 17 Sottolinea il continuo riferimento della giurisprudenza, come leitmotive, alla necessità dei coniugi di effettuare una sistemazione patrimoniale e personale in conseguenza della dissoluzione della famiglia, G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, cit., 634 ss., che richiama alcune sentenze in tal senso (cfr. Cass., 5 luglio 1984, n. 3940, cit., 922; Cass., 23 dicembre 1988, n. 7044, in Giur. it., 1990, I, 1, 1320; Cass., 15 maggio 1997, n. 4306, cit., 417, con nota di R. Caravaglios, Trasferimenti immobiliari nella separazione consensuale tra coniugi). 18 Cfr. Cass., 23 marzo 2004, n. 5741, in Arch. civ., 2004, 1026; Cass., 14 marzo 2006, n. 5473, in NGCC, 2007, 371; Cass., 23 settembre 2013, n. 21736, ivi, 2014, 333; nonché la stessa Cass., Sez. Un., 29 luglio 2021, n. 21761 in commento. 19 Cfr. M. Martino, Collegamento negoziale e pagamento traslativo nella revocatoria dei trasferimenti immobiliari realizzati tra coniugi in occasione della separazione consensuale, in NGCC, 2007, I, 378, nota a Cass., 14 marzo 2006, n. 5473. 20 Cfr. Trib. Catanzaro, 9 maggio 2011, in Corr. mer., 2011, 914. Il tribunale richiamava espressamente l’insegnamento della Cassazione (cfr. Cass., 14 marzo 2006, n. 5473, cit., 371) e affermava che «l’adempimento dell’obbligo di mantenimento di un coniuge nei confronti dell’altro coniuge ovvero nei confronti del figlio minore può essere realizzato con l’attribuzione definitiva di beni od anche con l’impegno ad attribuirli, anziché per mezzo di una prestazione patrimoniale periodica». In senso conforme cfr. Trib. Padova, 5 marzo 2009, in OneLegale e Trib. Milano, 22 luglio 2010, in Foro Padano, 2011, 174, in tema di presupposti dell’azione revocatoria ordinaria; Trib. Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Fam. e dir., 2008, 616, secondo cui è valido, in quanto avente causa lecita, l’accordo tra coniugi raggiunto in sede di verbale di separazione consensuale, con il quale l’uno trasferisce all’altro, in adempimento dell’obbligo di mantenimento dei figli minori, diritti reali immobiliari, con l’impegno a non alienarli prima del raggiungimento della maggiore età dei beneficiari e di destinarne i frutti in loro favore.

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funzione di adempimento dell’obbligo di mantenimento. Sul piano formale, la pronuncia precisa che l’accordo, in quanto inserito nel verbale d’udienza, redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è attestato, assume la veste e la sostanza di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell’art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce titolo per la trascrizione. L’ammissibilità di atti di disposizione e di trasferimenti immobiliari in sede di separazione è riconosciuta da un consolidato orientamento interpretativo nonostante la mancanza di un’espressa previsione di legge. Solo in materia fiscale alcune disposizioni menzionano esplicitamente detti trasferimenti in sede di separazione21. È stato tuttavia messo in luce che numerosi dati normativi ne fondano indirettamente l’ammissibilità22. In questo quadro si pone il problema di forma. Ci si chiede più precisamente se il giudice, in sede di giurisdizione volontaria, possa omologare accordi traslativi di beni e a quali condizioni l’atto processuale costituito dal verbale sia dotato di efficacia reale. A ben vedere quindi la questione dell’idoneità traslativa del titolo è solo apparentemente un problema di forma, poiché preliminarmente occorre chiarire la competenza del giudice del contenzioso familiare a ricevere negozi aventi ad oggetto diritti reali immobiliari. La questione va chiarita partendo dal presupposto che accanto all’accordo-base di vivere separati, i coniugi possono concludere ulteriori accordi che disciplinano i rapporti patrimoniali23. Attenta dottrina ammette la competenza del giudice a recepire dichiarazioni negoziali quando esse siano causalmente connesse con il provvedimento giudiziario di omologazione degli accordi di separazione, negando invece tale competenza per quelle dichiarazioni negoziali che abbiano con il provvedimento un semplice nesso di contestualità24. In questa prospettiva possono essere verbalizzati solo gli accordi funzionali alla regolamentazione degli interessi sorti con la crisi della famiglia (divisioni, transazioni, tra-

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In tema di imposta di registro, l’originario art. 8, lettera f) della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, limitava la previsione dei trasferimenti all’ipotesi in cui l’attribuzione avesse ad oggetto beni già facenti parte della comunione e che fosse disposta dal coniuge tenuto al mantenimento in favore dell’altro a tacitazione di tale obbligo legale. Con la riforma del divorzio nel 1987, si è introdotto un nuovo regime fiscale (art. 19 L. 6 marzo 1987, n. 74), estensibile anche alla separazione e abrogativo del precedente art. 8, lett. f), della Tariffa, parte prima, di cui al Testo Unico dell’Imposta di Registro, secondo cui l’esenzione opera per «tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi al procedimento di divorzio» e non solo per l’imposta di registro ma anche per tutte le altre imposte e tasse. 22 Si tratta di tutte quelle norme che privilegiano la definizione consensuale della crisi: il capoverso dell’art. 158 c.c., che prevede un «accordo relativamente al mantenimento e all’affidamento dei figli»; l’art. 711, terzo comma, c.p.c. che non solo fa riferimento alle «condizioni riguardanti i coniugi stessi e la prole», ma dà un’indicazione di forma, ammettendo la ricevibilità nell’atto processuale del verbale presidenziale; il successivo quinto comma della stessa norma, il quale, nello stabilire la possibilità di modificare le condizioni di separazione consensuale, ne riconosce la sussistenza e l’efficacia rebus sic stantibus; la nuova formulazione dell’art. 337-ter, secondo comma, c.c., che, nell’enunciare i criteri legali seguiti dal giudice nella determinazione delle prestazioni di mantenimento, privilegia la definizione negoziale avente ad oggetto gli adempimenti degli obblighi contributivi. 23 Sulla configurabilità di un contenuto eventuale degli accordi di separazione, vedi Cass., 25 ottobre 1972, n. 3299, in Mass. Giur. it., 1972; Cass., 21 dicembre 1987, n. 9500, ivi, 1987; Cass., 11 novembre 1992, n. 12110, in Giur. it., 1994, I, 1, 304; Cass., 15 maggio 1997, n. 4306, cit., 417. 24 Cfr. M. Ieva, Trasferimenti mobiliari e immobiliari in sede di separazione e divorzio, in Riv. notar., 1995, 446 ss. L’Autore più di vent’anni fa aveva chiarito che può configurarsi una competenza del giudice a documentare dichiarazioni negoziali aventi ad oggetto il trasferimento di diritti ove risulti dimostrata la connessione causale di queste ultime con gli elementi che il giudice stesso, in sede di separazione e divorzio, è tenuto a valutare nell’esercizio della sua funzione istituzionale.

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sferimenti di immobili o di quote societarie), per i quali si parla appunto di negozi aventi causa nella separazione. L’interdipendenza tra l’accordo di separazione, in senso stretto, e il regime patrimoniale di esso costituisce in definitiva il criterio discriminante tra negozi che il giudice può recepire nel verbale ai fini dell’efficacia traslativa dell’atto processuale. Si tratta di un criterio selettivo non utilizzabile ex ante, ma verificabile ex post in relazione all’assetto in concreto voluto dai coniugi in funzione «solutorio-compensativa» dei diritti patrimoniali familiari, come ha esplicato la giurisprudenza. In questo senso il controllo giudiziale si estrinseca in un’indagine sulla causa concreta dell’atto traslativo. Coerentemente pertanto la Cassazione ammette la possibilità di includere nell’accordo di separazione tutte le pattuizioni di contenuto economico che siano «pertinenti» al nuovo status dei coniugi25. Ulteriore e diversa è la questione della idoneità formale del titolo giudiziale (decreto di omologazione o sentenza di divorzio congiunto) al trasferimento di diritti immobiliari. Il problema è controverso. La giurisprudenza ha offerto diverse soluzioni interpretative riconducibili essenzialmente a due opposti filoni di pensiero: quello seguito dal giudice di legittimità, che prevalentemente ritiene idoneo il verbale omologato agli effetti delle cessioni immobiliari (o alla costituzione, estinzione e alienazione di diritti reali immobiliari, in generale), in quanto atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c., e quello diverso seguito dai giudici di merito su cui torneremo in seguito26. Precisamente, la Corte di Cassazione, seguita da qualche Tribunale27 e da buona parte della dottrina28, considera l’accordo concluso dai coniugi nelle sedi processuali tipiche e finalizzato al trasferimento immobiliare, non solo ammissibile e legittimo ma, qualora

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Il concetto di «pertinenza» intesa come collegamento causale all’accordo di separazione è espresso da Cass., 15 maggio 1997, n. 4306, cit., 417. 26 Precisamente, la questione riguarda il verbale presidenziale (art. 158 c.c. e art. 711 c.p.c.), quello dell’udienza collegiale di cui alla procedura di divorzio congiunto; i verbali delle udienze di precisazione delle conclusioni relativi alle procedure di separazione e divorzio giudiziali, definite sulla base delle conclusioni congiunte delle parti; il verbale dell’udienza di cui al procedimento ex art. 710 c.p.c., in caso di ricorso congiunto dei coniugi. 27 Cfr. Trib. Pistoia, 1 febbraio 1996, in Riv. notar., 1997, 1421, con nota di P. Giuri, Separazione consensuale, trasferimenti immobiliari, trascrivibilità; Cass., 15 maggio 1997, n. 4306, cit., 417; App. Genova, 27 maggio 1997, in Dir. fam. pers., 1998, 572; Trib. Salerno, 4 luglio 2006, in Fam. e dir., 2007, 63, con nota di R. Zisa, Separazione personale dei coniugi: trascrivibilità del (relativo) verbale di udienza contenente pattuizioni patrimoniali ad effetti reali; Cass., 2 luglio 2010, n. 15780, in Notar., 2010, 608; App. Milano, 12 gennaio 2010, in Fam. e dir., 2010, 589, con nota di G. Oberto, Ancora sulle intese traslative tra coniugi in sede di crisi coniugale: a neverending story; App. Milano, 17 febbraio 2011, ivi, 2011, 940; Cass., 25 ottobre 2019, n. 27409, in Notar., 2020, 1, 38. 28 Sull’idoneità del verbale di separazione a contenere negozi traslativi di diritti immobiliari vedi G.F. Condò, Ancora sulle attribuzioni immobiliari nella separazione e nel divorzio, in Riv. notar., 1990, 1425; P. Giunchi, I trasferimenti di beni tra coniugi nel procedimento di separazione personale nel diritto civile e nelle leggi fiscali, cit., 1048 ss.; Id., Il trattamento fiscale delle attribuzioni tra coniugi nella separazione personale e nel divorzio, in Il Fisco, 1994, 986 ss.; M. Ieva, Trasferimenti mobiliari e immobiliari in sede di separazione e divorzio, cit., 471 ss.; G. Oberto, I trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e divorzio, in Fam. e dir., 1995, 155. In senso critico, argomentando da una pretesa distinzione tra atti pubblici negoziali (quelli notarili) e atti pubblici non negoziali o processuali (tra cui il verbale di separazione consensuale), ritenendo questi ultimi inidonei a produrre effetti reali, cfr. A. Brienza, Attribuzioni immobiliari nella separazione consensuale, in Riv. notar., 1990, I, 1409 ss.; Id., Attribuzioni immobiliari nella separazione consensuale e nel divorzio consensuali, ivi, 1992, II, 598, nota a Trib. Firenze, 29 settembre 1989; Id., Una questione sempre più controversa: le attribuzioni immobiliari nella separazione consensuale, ivi, 1994, I, 555. Sulla questione si veda anche V. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, Milano, 1995, I, 238 ss.; S. Vaglio, I verbali di separazione e divorzio sono inidonei per i trasferimenti immobiliari fra coniugi, in Fam. e dir., 1994, 685; R. Caravaglios, Trasferimenti immobiliari nella separazione consensuale tra coniugi, cit., 422 ss.

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inserito nel verbale di udienza e redatto da un ausiliario del giudice a norma dell’art. 126 c.p.c., parte di un atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c. e titolo idoneo per la trascrizione in seguito all’omologazione (o alla sentenza di divorzio a domanda congiunta) che lo rende efficace29. Gli accordi così formalizzati avrebbero pertanto efficacia non solo inter partes ma sarebbero opponibili ai terzi, in quanto resi pubblici30. L’assunto su cui poggia l’argomento è che il cancelliere (così come il giudice) è un pubblico ufficiale la cui attività relativa all’udienza rientra nell’esercizio di una pubblica funzione. Una serie di norme del codice di rito confermerebbe del resto il suo potere certificativo per attribuire la natura di atto pubblico al titolo giudiziale31. Su queste basi, la Corte di Cassazione ha seguito finora costantemente il principio secondo cui l’accordo di separazione recepito nel verbale giudiziale deve ritenersi assuma la forma di atto pubblico (art. 2699 c. c.) trascrivibile a norma dell’art. 2657 c.c.

4. La distonia dei giudici di merito. Le corti di merito si sono per lo più discostate dall’insegnamento del giudice di legittimità negando la possibilità di intese immediatamente traslative all’interno del verbale di separazione consensuale o di divorzio congiunto e prospettando la necessità di una procedura bifasica con impegno al trasferimento in sede giudiziale e successivo atto notarile per gli effetti reali della convenzione. Muovendo dalla distinzione tra «contenuto necessario» e «contenuto eventuale» degli accordi di separazione, infatti, l’orientamento maggioritario dei tribunali si è assestato sulla posizione di ritenere questi ultimi privi dei requisiti formali e sostanziali per la trascrizione allorché non confermati con atto del notaio ai fini dell’op-

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La soluzione della Corte di Cassazione si allinea all’orientamento prevalente che attribuisce pubblica fede, fino a querela di falso, alle dichiarazioni ricevute dal cancelliere, quale ausiliario del giudice, e risultanti dal processo verbale di cui all’art. 126 c.p.c. (cfr. Cass., 7 aprile 1981, n. 1971, in Mass. Giur. it., 1981; Cass., 9 marzo 1984, n. 1639, ivi, 1984; Cass., 8 marzo 1988, n. 2349, ivi, 1988; Cass., 19 dicembre 1991, n. 13671, ivi, 1991; Cass., 6 marzo 1996, n. 1784, in NGCC, 1997, I, 119) al quale, pertanto, deve riconoscersi natura di atto pubblico (Cass., 30 ottobre 2020, n. 24087, in Notar., 2021, 1, 91). 30 La Corte di Cassazione con sent. 15 maggio 1997, n. 4306, cit., 417 ha anche precisato che i trasferimenti di diritti reali immobiliari, se connessi «alla convenzione diretta a regolare il regime di separazione facendone parte, ne seguono validamente la forma, senza che possa distinguersi tra trasferimenti onerosi e gratuiti, non assumendo tale distinzione rilievo, in quella sede, sotto il profilo formale, essendo l’atto disciplinato, in via esclusiva, dalla normativa speciale dell’art. 126 c.p.c.». 31 Mentre la competenza generale a certificare è riconosciuta, come noto, unicamente al notaio, il quale, a norma dell’art. 1 dell’Ordinamento del notariato (L. 16 febbraio 1913, n. 89) è «istituito per ricevere gli atti», tutti gli altri pubblici ufficiali devono essere autorizzati all’esercizio della funzione di certificazione, secondo quanto espressamente richiesto dall’art. 2699 c.c. Con riferimento al problema specifico, le norme che fonderebbero tale potere di certificazione sono: l’art. 130 c.p.c. che identifica nel cancelliere il soggetto cui compete la redazione del verbale da effettuarsi sotto la direzione del giudice; l’art. 57, comma primo, c.p.c. per il quale «il cancelliere documenta a tutti gli effetti, nei casi e nei modi previsti dalla legge, le attività proprie, quelle degli organi giurisdizionali e delle parti»; l’art. 44 disp. att. c.p.c., secondo cui «oltre che nei casi specificamente indicati dalla legge, il cancelliere deve compilare processo verbale di tutti gli atti che compie con l’intervento di terzi interessati»; infine l’art. 126 c.p.c. secondo cui il cancelliere deve sottoscrivere il processo verbale contenente «le dichiarazioni ricevute».

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ponibilità32. L’argomento trae spunto dall’interpretazione dell’art. 1, L. 16 febbraio 1913, n. 89, il quale riserverebbe alla categoria notarile la competenza esclusiva a ricevere atti negoziali in forma di scrittura privata autenticata o di atto pubblico idonei alla trascrizione33. Inoltre la tesi sarebbe confermata dall’art. 29, comma primo bis, L. 27 febbraio 1985, n. 52, che attribuisce al notaio il compito della individuazione e della verifica catastale nella fase di stesura degli atti traslativi, così dimostrando di voler concentrare nell’alveo naturale del rogito notarile il controllo indiretto statale sugli atti di trasferimento immobiliare, a tutela degli interessi ad essi collegati. In questa prospettiva, anche riconoscendo la qualità di pubblico ufficiale al giudice e al cancelliere che ricevono la dichiarazione dei coniugi di volersi separare, si precisa che soltanto in relazione alla volontà dei coniugi relativa allo status l’organo giurisdizionale può attribuire pubblica fede, e non anche alle dichiarazioni negoziali, per le quali al medesimo non è attribuito il potere certificativo riservato al notaio. Una conferma indiretta deriverebbe dal fatto che per il magistrato non è previsto un sistema sanzionatorio analogo a quello posto a carico del notaio34. Da ciò se ne è ricavata la necessità di ripetere l’accordo risultante dal verbale d’udienza nella forma dell’atto pubblico notarile, ai fini della trascrizione. Ancora, un ostacolo insuperabile all’idoneità delle dichiarazioni dei coniugi contenute nel verbale di separazione consensuale o nelle conclusioni congiunte di divorzio a spiegare efficacia immediatamente traslativa di diritti è stato individuato negli artt. 155, comma secondo, e 156, comma primo, c.c. Si è messo in risalto che tali disposizioni, nel consentire ai coniugi, in sede di separazione, di stabilire contenuto e modalità dell’obbligo di mantenimento, non attribuiscono loro anche la possibilità di darvi direttamente attuazione. Ne deriva che, in tale fase, l’autonomia privata è limitata alla mera assunzione dell’obbligo di addivenire a un successivo trasferimento, da attuarsi stipulando un separato contratto traslativo, potendo far valere, in caso di inadempimento, il rimedio di cui all’art. 2932 c.c.35. Secondo alcune pronunce di merito inoltre si esclude l’efficacia immediatamente traslativa e la trascrivibilità del verbale, sottolineando il carattere eccezionale della previsione di cui all’art. 2932 c.c. che solo in questo caso consentirebbe al giudice di sopperire alla volontà delle parti con una pronuncia che tenga luogo di un contratto36. In altre parole, la

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In tal senso, cfr. Trib. Firenze, 29 settembre 1989, in Riv. not., 1992, 595, con nota di A. Brienza, Attribuzioni immobiliari nella separazione e nel divorzio consensuali; Trib. Firenze, 7 febbraio 1992, in Dir. fam. pers., 1992, 731; Trib. Napoli, 16 aprile 1997, in Fam. e dir., 1997, 420, con nota di R. Caravaglios, Trasferimenti immobiliari nella separazione consensuale tra coniugi; Trib. Milano, 6 dicembre 2009, ivi, 2011, 937; Trib. Milano, 21 maggio 2013, ivi, 2014, 600. 33 Cfr. Trib. Firenze, 29 settembre 1989, cit., 595 ss. 34 In tal senso, R. Caravaglios, Trasferimenti immobiliari nella separazione consensuale tra coniugi, cit., 417, profila il rischio che si pervenga a delineare per il giudice (o per il cancelliere) una sorta di «zona franca» dal tecnicismo giuridico. 35 Trib. Milano, 21 maggio 2013, cit., p. 600: «In occasione della separazione consensuale, i coniugi possono liberamente prefiggersi di trasferire diritti reali immobiliari, ma ricorrendo alla tecnica obbligatoria, con impegno contrattuale avente carattere di vincolo prenegoziale, suscettibile di esecuzione ex art. 2932 c.c. del notaio, preposto ex lege ai controlli che la legge ha rimesso in via esclusiva allo stesso, con norme insuscettibili di interpretazione analogica (da ultimo, l’art. 19, comma 4, della legge 30 luglio 2010 n. 122, che demanda al notaio il compito dell’individuazione e della verifica catastale)». 36 Trib. Firenze, 29 settembre 1989, cit., 595 ss. e Trib. Firenze, 7 febbraio 1992, cit., 731.

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funzione giudiziale «sostitutiva» non sarebbe ammessa in altri casi, salva questa particolare ipotesi espressamente prevista dalla legge. Né – si afferma – può concedersi che la giurisdizione comprenda l’attività di ricevimento di atti negoziali. Si è precisato che nel giudizio di separazione consensuale al giudice è demandato di valutare, soprattutto nell’interesse della prole minorenne, la convenienza dell’atto, ovvero di decidere sulla sussistenza dei suoi presupposti, mentre è da escludersi che egli abbia il compito di determinare l’effetto traslativo reale che può invece essere realizzato solo nelle forme dell’atto pubblico negoziale. Rispetto a tale orientamento dominante nelle corti territoriali, poche pronunce, di segno contrario37, riprendendo argomenti della Cassazione, hanno riconosciuto agli accordi traslativi inseriti nel verbale d’udienza natura di atto pubblico richiamando in particolare le disposizioni del codice di rito che attribuiscono al cancelliere la competenza di redigere il processo verbale d’udienza sotto la direzione del giudice. Nella disomogeneità applicativa dei principi, la prima sezione della Corte di Cassazione ha rimesso la questione – ritenuta di particolare rilevanza ex art. 374 c.p.c. – al giudizio delle Sezioni Unite, essendo controversa la legittimità della sentenza del tribunale che aveva interpretato i trasferimenti tra coniugi come «impegni preliminari di vendita ed acquisto», con efficacia obbligatoria quando invece le parti li avevano strutturati come atti con efficacia reale38.

5. La rilettura delle Sezioni Unite in tema di autonomia privata dei coniugi.

La sentenza delle Sezioni Unite in commento è di particolare interesse non soltanto per la funzione ricognitiva e chiarificatrice della materia, ma anche per l’ulteriore contributo alla teoria dell’autonomia causale degli accordi della crisi coniugale e al riconoscimento dell’autonomia privata dei coniugi nella definizione delle controversie matrimoniali, anche in ordine ai tempi del trasferimento dei diritti. Attraverso un inquadramento generale dei trasferimenti immobiliari operati dalle parti in sede di divorzio e di separazione consensuale, si sottolinea infatti la tipica rilevanza

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Cfr. Trib. Pistoia, 1 febbraio 1996, cit., 1421; App. Genova, 27 maggio 1997, cit., 572; Trib. Salerno, 4 luglio 2006, cit., 386; App. Milano, 12 gennaio 2010, cit., 589. 38 Con ordinanza interlocutoria n. 3089/2020, depositata il 10 febbraio 2020, in Corr. giur., 2020, 1 ss., con nota di F. Ferrara, Separazione e trasferimenti coniugali: il ruolo del giudice e quello del notaio al vaglio delle Sezioni Unite, la prima sezione civile della Corte di Cassazione, ritenuto che, per il rilevante impatto che l’interpretazione delle norme sottoposte al giudizio della Corte – riguardanti a) l’autonomia delle parti in sede di determinazione degli accordi della “crisi coniugale” aventi ad oggetto trasferimenti immobiliari; b) l’interpretazione di tali accordi; c) il ruolo svolto dal notaio in relazione all’identificazione catastale dell’immobile ed alla sua conformità alle risultanze dei registri immobiliari (D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 19) – può avere sulla giurisprudenza nazionale non univoca, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite, ai sensi degli artt. 374 e 376 c.p.c., trattandosi di questione di «massima e particolare importanza». Cfr. anche A. Arceri, I trasferimenti immobiliari tra coniugi in fase di separazione consensuale e divorzio, in Fam. e dir., 2021, 641.

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giuridica dell’autonomia privata familiare. Si ripercorrono gli approcci dottrinali al tema per confermare il riconoscimento generale dei contratti di definizione della crisi coniugale o, più esattamente, dei suoi aspetti patrimoniali, rilevando che dette convenzioni ben possono abbracciare ogni forma di costituzione e di trasferimento di diritti patrimoniali, compiuti con o senza controprestazione attraverso una «negoziazione globale». La Suprema Corte dà atto che, nonostante la giurisprudenza di legittimità abbia seguito un percorso evolutivo coerente arrivando a conclusioni unitarie (la separazione consensuale è un negozio di diritto familiare, espressamente previsto dagli artt. 150 e 158 c.c., disciplinato nei suoi aspetti formali dall’art. 711 c.p.c., documentato nel verbale di udienza, redatto da un ausiliario del giudice ai sensi dell’art. 126 c.p.c. e reso efficace dall’omologazione), vi è la necessità di fare chiarezza considerato che: a) le decisioni di legittimità, pur conformi, sono state adottate in contesti fattuali spesso differenti oppure hanno riguardato contenziosi di separazione quando ancora la legge sul divorzio non era entrata in vigore; b) la giurisprudenza di merito se ne è discostata anche per ragioni legate all’organizzazione interna degli uffici. La necessità di un intervento esplicativo in punto efficacia dei trasferimenti immobiliari in sede giudiziale si giustifica anche in considerazione del fatto che lo strumento più adeguato per una sistemazione del contenzioso familiare pare essere rappresentato proprio dal trasferimento immobiliare definitivo. Prima di esaminare il tema del fondamento normativo e degli aspetti tecnici che riguardano l’idoneità del titolo, occorre soffermarsi su alcuni passaggi illuminanti che chiariscono i criteri di interpretazione della volontà negoziale dei coniugi nel divorzio39. La vicenda riguarda un caso in cui le parti avevano chiesto consensualmente al Tribunale di Pesaro la pronuncia della cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, prevedendo il trasferimento definitivo a favore dei figli della coppia, maggiorenni economicamente non autosufficienti, della quota del 50% della nuda proprietà spettante al padre sull’immobile adibito a casa coniugale, nonché il trasferimento, da parte del marito alla moglie, dell’usufrutto sulla propria quota dell’immobile. Il collegio di legittimità anzitutto conferma la natura negoziale degli accordi dei coniugi, equiparabili a pattuizioni atipiche ex art. 1322, secondo comma, c.c., rispetto alle quali la sentenza riveste natura meramente ricognitiva, con riferimento alla sussistenza dei presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale (L. 1 dicembre 1970, n. 898). È ammesso il controllo giudiziale limitatamente alla contrarietà a norme inderogabili o interessi indisponibili40, come del resto in generale il giudice non può sindacare qualsiasi accordo di natura contrattuale privato nei limiti della meritevolezza degli interessi.

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La Suprema Corte accomuna la separazione consensuale al divorzio congiunto. Pur presentando i due istituti innegabili diversità sul piano della disciplina, si presentano strettamente connessi l’uno all’altro sul piano dogmatico. Essi sono accomunati dell’essere finalizzati ad ottenere, mediante il consenso dei coniugi e non mediante pronuncia del giudice, gli effetti voluti. Sulle differenze di disciplina vedi i paragrafi 3.4.3 e 3.4.4 della sentenza. 40 Cass., 24 luglio 2018, n. 19540, in Corr. giur., 2018, 1312.

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Con riferimento in particolare alla funzione «recettiva» e non sostitutiva del giudice, le Sezioni Unite compiono un ulteriore passo soffermandosi sulla rilevanza primaria della volontà dei coniugi collocata nel momento della crisi e nel contesto della elevata conflittualità delle parti. Si è considerato infatti che i coniugi, nel concordare trasferimenti immobiliari in sede di divorzio, manifestano la precisa volontà di giungere a una sistemazione immediata e definitiva del rapporto matrimoniale. È quindi illegittima e inammissibile l’operazione ermeneutica che, come nel caso di specie, esclusi profili di illiceità o di non meritevolezza degli accordi, operi una «conversione» dell’atto di autonomia privata trasformando d’ufficio il trasferimento definitivo in un mero obbligo di trasferimento immobiliare. La Corte invoca una lettura costituzionalmente orientata che tenga conto del fondamento costituzionale dell’autonomia privata (artt. 2, 3, 41 e 42 Cost. e Corte Cost., sent. n. 60 del 196841), chiarendo che una situazione di crisi coniugale impone, anche sul piano solidaristico, «una soluzione il più celere possibile quanto meno delle questioni economiche che possono tradursi in ulteriori motivi di contrasto tra i coniugi». L’assunto è rafforzato da un ulteriore principio di ragionevolezza secondo cui in caso di inadempimento, per qualsiasi motivo, dell’obbligato alla promessa di trasferimento della proprietà di beni, la controparte, dovendo escludersi la risoluzione del patto per inadempimento42, non avrebbe altro rimedio che quello dell’esecuzione in forma specifica giudiziale ex art. 2932 c.c. con aggravio dei costi in una situazione già fortemente difficile sul piano economico43. La regola ermeneutica fissata dalla Corte di Cassazione obbliga il giudice di merito a tenere conto del contesto peculiare nel quale si sviluppano gli accordi traslativi, della funzione di porre fine quanto prima al contenzioso e dell’interesse delle parti a evitare il rischio di successivi ripensamenti. L’interpretazione degli atti della crisi deve pertanto privilegiare «la stabilità della negoziazione globale» a scapito di meccanismi di riproduzione della volontà negoziale a distanza di tempo in cui il contenzioso potrebbe essere già riemerso.

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Corte Cost., 6 giugno 1968, n. 60, in OneLegale. La Corte precisa che non potrebbe darsi una risoluzione del patto per inadempimento non trattandosi di un contratto sinallagmatico, bensì di trasferimento in adempimento di un dovere di mantenimento previsto dalla legge (Cass., 17 giugno 2004, n. 11342, in Mass. Giur. it., 2004). 43 Sulla ragionevolezza come criterio di valutazione, cfr. S. Patti, La ragionevolezza nel diritto civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 1 ss. L’Autore, richiamando anche il pensiero di Stefano Rodotà, precisa che l’idea della ragionevolezza, insita nell’ordinamento giuridico, deve comunque riportarsi nel quadro degli strumenti che, come le clausole generali, consentono l’equilibrio tra la disciplina giuridica e le dinamiche reali senza bisogno dell’intervento continuo del legislatore. Egli tuttavia puntualizza che esiste un limite all’utilizzazione della ragionevolezza in materia contrattuale, poiché, come insegna la Cassazione, l’autonomia contrattuale non può essere sottoposta a un esame di ragionevolezza da parte del giudice, considerato che il parametro di controllo sarebbe inevitabilmente esterno rispetto all’accordo delle parti. 42

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6. Il fondamento normativo dell’idoneità del verbale alla trascrizione.

Le Sezioni Unite, nel riconoscere l’efficacia reale immediata degli accordi traslativi, compiono l’ulteriore passo di approfondire il fondamento normativo dell’idoneità del verbale ad essere inserito nei registri immobiliari ai fini pubblicitari. Per tale aspetto, la sentenza chiarisce anzitutto che la validità dei trasferimenti presuppone l’attestazione, da parte del cancelliere, che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni di cui all’art. 29, comma primo bis, L. 27 febbraio 1985, n. 52, inoltre che non produce nullità del trasferimento il mancato compimento, da parte dell’ausiliario del giudice, dell’ulteriore verifica circa l’intestatario catastale dei beni trasferiti e la sua conformità con le risultanze dei registri immobiliari. Secondo questa impostazione, il verbale di conciliazione giudiziale presenta quindi tutti gli elementi essenziali dell’atto di compravendita44. Inoltre, la funzione certificatoria in capo al notaio non è esclusiva: al cancelliere, come al giudice, compete la qualifica di «pubblico ufficiale» e lo svolgimento delle formalità relative all’udienza, ivi compresa la stesura del verbale, rientra nell’esercizio di una pubblica funzione. Gli atti redatti o formati con il suo concorso, nell’ambito delle funzioni al medesimo attribuite, e con l’osservanza delle formalità prescritte dalla legge, costituiscono dunque atti pubblici. Da tempo la dottrina più attenta aveva chiarito che è difficilmente contestabile tale assunto anche perché non si rinvengono riferimenti normativi tali da distinguere tra atto pubblico «negoziale» ricevuto da notaio e trascrivibile e atto pubblico «processuale» ricevuto dal giudice secondo norme di rito e non opponibile ai terzi. In realtà, come è stato messo in luce, la disciplina formale dell’atto dipende dalla competenza del giudice a ricevere un determinato contenuto negoziale e il potere certificativo, laddove eccezionalmente ed espressamente stabilito, dipende dall’oggetto dell’atto che la legge consente di inserire. Detta competenza si radica pertanto in ragione della legittimazione a ricevere il documento. Più precisamente, non esiste un principio di equivalenza di tutti gli atti pubblici ma si può individuare una serie di atti pubblici accomunati da una disciplina in base al soggetto che li riceve e alle clausole che essi contengono45. Nel nostro caso, la previsione normativa dell’alveo giudiziale degli accordi, il contesto temporale della crisi, ma soprattutto la

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Cfr. Cass., 30 ottobre 2020, n. 24087, cit., 91 secondo cui è evidente che il verbale dell’udienza di comparizione dei coniugi redatto dal cancelliere ai sensi dell’art. 126 c.p.c., che – per intanto – realizza l’esigenza della forma scritta dei trasferimenti immobiliari, richiesta dall’art. 1350 c.c., è un atto pubblico avente fede privilegiata, fino a querela di falso, sia della provenienza dal cancelliere che lo redige e degli atti da questi compiuti, sia dei fatti che egli attesta essere avvenuti in sua presenza. 45 Cfr. M. Ieva, Trasferimenti mobiliari e immobiliari in sede di separazione e divorzio, cit., 457. L’Autore cita come esempio il caso in cui il legislatore ha dovuto precisare che la scelta del regime di separazione può anche essere dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio (art. 162, secondo comma, c.c.). Al di fuori di questo momento, la scelta del regime dovrebbe essere fatta con atto notarile.

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funzione risolutiva della controversia perseguita dalla negoziazione qualificano e determinano sia il potere del giudice a ricevere l’atto, sia quello di certificarne la provenienza. Quanto agli incombenti relativi alla verifica della coincidenza dell’intestatario catastale con il soggetto risultante dai registri immobiliari (previsti dall’ultima parte dell’art. 29, comma primo bis, L. 27 febbraio 1985, n. 52)46, essi ben possono essere eseguiti dall’ausiliario del giudice, sulla base della documentazione che le parti producono. È auspicabile che gli uffici giudiziari, d’intesa con il locale Consiglio dell’ordine degli avvocati, si dotino di un protocollo o di linee guida uniformi47. Viene così proposta un’interpretazione estensiva della disposizione in esame, potendo essere applicata anche agli atti di categoria diversa dagli atti notarili che trasferiscano o costituiscano diritti reali. Secondo le Sezioni Unite, infatti, pur essendo la norma sulle dichiarazioni previste a pena di nullità rivolta anzitutto agli atti formati o autenticati dal notaio, essa è comunque applicabile a tutti gli atti amministrativi che producono i medesimi effetti, quali i decreti di trasferimento per espropriazione, e anche agli atti giudiziari, come le sentenze costitutive ex art. 2932 c.c. La tesi estensiva appare più coerente in quanto giustifica anche la validità dei trasferimenti immobiliari nei verbali di conciliazione ex art. 185 c.p.c., aventi certamente natura negoziale, ancorché redatti con l’intervento del giudice a definizione di una controversia pendente48. Sul possibile conflitto tra la prima e la seconda parte del citato art. 29, comma primo bis, le Sezioni Unite spiegano che dal tenore letterale della norma si evince una nullità testuale di carattere oggettivo e che, a prescindere dall’esattezza e dalla veridicità degli allegati, la sola mancanza delle dichiarazioni urbanistiche determina la nullità dell’atto49. La sanzione non si riferisce al soggetto che compie tale accertamento, la nullità potrebbe infatti sussistere qualunque sia il soggetto che roga l’atto. Ciò risulta confermato dal fatto che l’unica previsione che si riferisce al notaio (contenuta nell’ultima parte della norma relativa alla individuazione degli intestatari catastali) non è sanzionata dalla nullità.

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Cfr. art. 29, comma primo bis, L. 27 febbraio 1985, n. 52: «Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari». Sul punto vedi M. Ceolin, La conformità oggettiva e soggettiva nel D.L. 31 maggio 2010 n. 78 (conv. in L. 31 luglio 2010 n. 122) e il problema della nullità degli atti, in Riv. notar., 2011, 335. 47 Secondo l’interpretazione delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 29 luglio 2021, n. 21761 in commento) nell’art. 29, comma primo bis, ultimo periodo, L. 27 febbraio 1985, n. 52, il legislatore ha certamente detto meno di quanto volesse, usando il riferimento al notaio come indicativo dell’accertamento che deve essere compiuto in ogni caso di redazione dell’atto da parte del pubblico ufficiale. Se, invero, avesse voluto imporre l’intervento del solo notaio, il legislatore avrebbe dovuto chiarire che introduceva una norma in deroga all’art. 1350 c.c., sia pure limitatamente alle unità immobiliari urbane, mentre nulla ha disposto sul punto, dovendo pertanto ritenersi ancora pienamente lecite, e valide, semplici scritture private, che riportino trasferimenti o costituzioni di diritti reali, o scioglimento delle relative comunioni. 48 In tal senso, cfr. Cass., 26 febbraio 2014, n. 4564, in OneLegale e Cass., 28 giugno 2007, n. 14911, in Corr. trib., 2007, 2868. 49 Cass., Sez. Un., 22 marzo 2019, n. 8230, in Notar., 2019, 267.

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Detta conclusione è applicabile anche alla separazione consensuale e al divorzio congiunto quando l’atto traslativo sia contenuto nella parte negoziale dell’accordo. La sentenza «chiude il cerchio» quindi sulla questione del se e quando il verbale d’udienza diventi atto pubblico50. Certamente, per la complessità intrinseca degli atti di cessione immobiliare, la redazione dell’accordo dovrebbe essere rimessa alla responsabilità dei coniugi, i quali hanno l’onere di attivarsi con la massima diligenza, affinché l’accordo non sia privo dei requisiti formali previsti a pena di nullità51. Non può invece essere vero il contrario, che la delicatezza tecnica dell’atto e gli oneri di controllo previsti a pena di nullità escludano di per sé sul piano dogmatico l’efficacia reale immediata del trasferimento, con obbligo di ripetizione dell’atto davanti al notaio.

7. Conclusioni. Le Sezioni Unite confermano, su base normativa (artt. 158 c.c., 711 c.p.c., 4 e 5, comma ottavo, L. div.), l’ammissibilità dei trasferimenti immobiliari in sede di separazione e di divorzio, tornando sulla causa concreta degli accordi patrimoniali della crisi coniugale. Il passo avanti della Corte, in funzione compositiva dei dubbi in ordine all’efficacia reale del verbale d’udienza, consiste anzitutto nell’avere dato adeguata rilevanza al contesto temporale nella ricostruzione causale dei trasferimenti. Il momento specifico della crisi giustifica la volontà concreta di definire in modo immediato e non bifasico l’assetto economico dei coniugi in relazione agli effetti della separazione o del divorzio. Inoltre, riconoscendo alla tempistica del trasferimento rilevanza causale, è maggiormente rispettata l’autonomia privata dei coniugi in sede di contenzioso familiare, poiché in questo caso, il trascorrere del tempo per la ripetizione dell’atto traslativo potrebbe essere, oltre che non voluto, anche dannoso e dispendioso per le parti.

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Sull’efficacia reale immediata del verbale d’udienza o del verbale omologato, la giurisprudenza di merito non è univoca. Le pronunce che la escludono, a prescindere dalla qualificazione giuridica del titolo, sono indotte da ragioni di semplice opportunità e convenienza. Sui profili dell’eventuale nullità dell’atto, vista la complessità degli adempimenti che devono precedere e accompagnare un’operazione di trasferimento immobiliare, alcuni giudici accedono all’idea che le parti otterrebbero maggiori garanzie di tutela quando detto trasferimento fosse curato dal notaio. Infatti, al giudice, a rigore, non compete alcun obbligo di verifica, né tanto meno alcuna responsabilità circa la correttezza della descrizione dei dati catastali dell’immobile, dell’effettiva titolarità dei beni trasferiti o dell’esistenza di oneri e vincoli sugli stessi. Ciò non può tuttavia precludere l’omologabilità degli accordi di trasferimento immobiliare se le parti forniscono con proprie autocertificazioni e conseguente assunzione di ogni responsabilità, i dati e le dichiarazioni necessarie per espressa volontà di legge (App. Milano, 12 gennaio 2010, cit., 589). I sostenitori della trascrivibilità del verbale di separazione contenente negozi traslativi immobiliari precisano in ogni caso che il titolo per la pubblicità è costituito dal verbale e non dal decreto di omologazione, poiché l’atto che determina il trasferimento e contiene la volontà delle parti è il primo, non il secondo che è atto giudiziale esterno di controllo, che incide sugli effetti. Sul punto vedi G. Oberto, Ancora sulle intese traslative tra coniugi in sede di crisi coniugale: a neverending story, cit., 592 ss. 51 Nel caso posto all’attenzione delle Sezioni Unite i coniugi avevano prodotto una perizia tecnica giurata con l’attestato di prestazione energetica, la dichiarazione di conformità dell’impianto termico alle prescrizioni legali, la visura e la planimetria catastale dell’appartamento e del garage. I coniugi inoltre si erano impegnati ad effettuare a propria cura e spese la trascrizione.

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Sotto il profilo formale, la sentenza risponde ai dubbi interpretativi sull’art. 29, comma primo bis, L. 27 febbraio 1985, n. 52 sulla rilevanza soggettiva del potere certificativo del notaio nei trasferimenti immobiliari. In particolare, la conformità «oggettiva» dei dati catastali può essere dichiarata mediante attestazione rilasciata da un tecnico abilitato. Quanto alla «conformità soggettiva» richiamata dall’ultimo periodo della norma, essa non introduce affatto una riserva a favore della categoria notarile poiché la previsione non è assistita dalla sanzione di nullità. Ai fini dell’efficacia reale immediata dell’atto giudiziale non è quindi di ostacolo la disciplina catastale, è invece sufficiente che l’accordo traslativo contenga tutte le dichiarazioni urbanistiche prescritte dalla legge. Il verbale d’udienza realizza pertanto pienamente l’intento negoziale dei coniugi di definizione immediata della crisi, la necessità della forma scritta e, in quanto redatto dal cancelliere, ausiliario del giudice, la trascrivibilità del titolo. Emanuela Andreola

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Giurisprudenza Cass. civ., sez. I, ord. 17 maggio 2021, n. 13217; Genovese Presidente – Caiazzo Relatore Affidamento del figlio minore - Sindrome di alienazione parentale o PAS – Modifica delle modalità di affidamento – Previo accertamento della veridicità dei comportamenti denunciati da un genitore mediante i comuni mezzi di prova In tema di affidamento del figlio minore, qualora un genitore denunci i comportamenti dell’altro tesi all’allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), nella specie nella forma della sindrome della cd. “madre malevola” (MMS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova comprese le consulenze tecniche e le presunzioni, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena.

(Omissis)

le nel (Omissis) (che aveva autorizzato il Be. a

Rilevato che:

riconoscere la figlia, disponendone l’affidamento

A seguito di ricorso proposto da Be.Ma. nei

ad entrambi i genitori con collocazione prevalen-

confronti di B.P.G., il Tribunale di Treviso, valu-

te presso la madre).

tate le c.t.u. disposte, ha negato l’affido cd. “su-

Con successivo reclamo B.P.G. adiva la Corte

per-esclusivo” della figlia minore della coppia,

d’appello di Venezia, impugnando lo stesso de-

disponendone invece l’affido esclusivo al padre

creto del Tribunale, chiedendone la revoca, con

ricorrente, regolamentando le visite e fissando

richiesta di affidamento condiviso della minore

le varie prescrizioni tra cui il divieto di incontro

ad entrambi i genitori, del collocamento preva-

della minore con la nonna materna e conferman-

lente della figlia presso di sè e la conferma del

do, a carico del Be. e in favore della resistente,

contenuto economico del decreto. Si costituiva il

l’assegno per il mantenimento della figlia per la

Be., resistendo al reclamo. Il P.M. concludeva per

somma di Euro 200,00 mensili oltre alla quota

il rigetto del reclamo.

per le spese.

Riuniti i due procedimenti, con decreto emes-

Il Be. ha proposto reclamo avverso il suddet-

so il (Omissis), la Corte veneziana ha respinto

to provvedimento del Tribunale, chiedendone la

il reclamo della B., accogliendo quello del Be.

modifica: con la previsione di visite protette della

e, in riforma del decreto impugnato, ha disposto

madre verso la minore per il primo periodo di sei

l’affido “super-esclusivo” della minore al padre,

mesi, con l’ausilio dei servizi sociali e, successiva-

la revoca del contributo economico a carico di

mente, secondo un calendario ma con esclusione

quest’ultimo, e regolamentando il diritto di visita

del pernottamento; con l’affido “super-esclusivo”

della madre secondo i criteri dettati. Al riguar-

della minore a suo favore e con la revoca del

do, il giudice di secondo grado ha osservato che

contributo al mantenimento.

dalle due c.t.u. espletate si evinceva non solo un

La P.G. ha chiesto la riunione del procedimen-

elevato grado di conflittualità della coppia di ge-

to con altro pendente e il rigetto del reclamo con

nitori – con difficoltà comunicative tra loro – ma

la modifica del decreto impugnato nel senso con-

anche una grave carenza delle capacità genitoria-

forme alla sentenza emessa dallo stesso Tribuna-

li della B.P.G.; in particolare, dalla prima c.t.u.,

865


Giurisprudenza

sulla base dei colloqui clinici e dell’osservazione

al fine di evitare il prelevamento paterno della

dei comportamenti della reclamante, risultava:

figlia.

una scarsa flessibilità della madre di accettare il

La Corte territoriale ha ancora osservato che:

ripristino delle relazioni tra padre e figlia, emer-

le conclusioni dei c.t.u. erano da condividere in

gendo la sua volontà di mantenere la figlia con

quanto fondate su risultanze cliniche, oggetto di

sè escludendo il padre, in contrasto con quanto

specifico accertamento di fatto, non motivata-

concordato e suggerito durante la consulenza;

mente contrastate con elementi probatori, aven-

la rappresentazione di versioni non veritiere da

do gli stessi consulenti valutato in contradditto-

parte della reclamante e la ferma resistenza della

rio le contestazioni dei c.t.p.; le conclusioni cui

stessa a modificare le proprie convinzioni; una

sono pervenuti i c.t.u. non erano difformi dalla

dinamica relazione fondata su elevata tensione,

reale situazione che comprovava un comporta-

anche in presenza della minore; l’influenza della

mento materno improntato a gravi carenze della

famiglia materna sulla reclamante con prospettive dannose e rischiose; la necessità di collocare la minore presso il padre, ritenuto unico genitore in grado di dare equilibrio e serenità alla bambina. La Corte territoriale ha altresì rilevato che: la successiva c.t.u. aveva confermato quanto indicato nella prima, suggerendo anche l’affido “superesclusivo” a fronte del comportamento della B. da cui era sorto il rischio di alienazione della minore rispetto al padre (rilevando altresì che la madre sembrava affetta dalla cd. sindrome della “madre malevola” – cd. “MMS”), emergendo anche psicopatologie accertabili; al riguardo, il secondo c.t.u. aveva rilevato che la madre, pur mantenendo con la figlia, almeno in apparenza, un sufficiente rapporto di accudimento, esercitava nei confronti dell’ex partner una condotta tendente ad impe-

genitorialità con volontà della B. di estraniare la minore dal padre, a fronte invece della buona capacità genitoriale dimostrata dal Be.; pertanto, non era condivisibile il decreto emesso dal Tribunale che aveva negato l’affido “super-esclusivo” della minore al padre, argomentando dalla consapevolezza dimostrata dalla madre della gravità dei suoi comportamenti, tenendo conto che le allegazioni dell’ex partner, contestate, erano state chiaramente dimostrate. B.P.G. ricorre in cassazione con quattro motivi. Resiste il Be. con controricorso. Ritenuto

che

Il primo motivo denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 155,315bis, 337ter, quater, quinquies e octies c.c., artt. 62,194,709ter c.p.c.,

dirgli un normale ed affettuoso rapporto con la

in quanto la Corte d’appello aveva aderito acri-

minore, mirando ad estraniarlo da ogni scelta che

ticamente alle due c.t.u. le cui risultanze erano

la riguardasse; la madre si era resa responsabile

fondate sulla diagnosi della cd. PAS, sebbene in

di una totale mancanza riflessiva su di sè e sulla

maniera non esplicita. Al riguardo, la ricorren-

minore la quale era stata fortemente segnata da

te lamenta che il provvedimento di “superaffido”

“scellerati” comportamenti della stessa madre e

della minore al padre, non necessitato da sue

della nonna materna; la reclamante aveva indotto

psico-patologie, non riscontrate, era stato emesso

due pediatri a non seguire più la minore a segui-

sulla base della conflittualità insorta tra la ricor-

to della richiesta, da parte della B., di certificati

rente e i c.t.u., senza intraprendere un percorso

fasulli finalizzati ad impedire l’accesso al padre;

di sostegno alla genitorialità.

le frequenti assenze scolastiche della minore era-

Il secondo motivo denunzia violazione e falsa

no imputabili alla reclamante la quale aveva agito

applicazione degli artt. 155, 333, 337-ter, -quater

866


Donato Maiorino

e -octies c.c., con riferimento alla mancata verifica dell’attendibilità scientifica della teoria posta a base della diagnosi di “sindrome della madre malevola” e alla qualificazione della B. come genitore “condizionante”. In particolare, la ricorrente si duole che le risultanze peritali non siano state fondate su dati clinici e che la Corte territoriale non abbia effettuato una valutazione comparativa degli effetti sulla minore del trauma dell’allontanamento dalla casa familiare rispetto al beneficio atteso, nel senso che il provvedimento impugnato non appariva ispirato al superiore interesse del minore in quanto il dolore della forzata separazione della minore dalla madre era rimasto sullo sfondo rispetto alla ritenuta prevalenza dell’interesse all’attuazione coattiva del diritto alla bigenitorialità. La ricorrente lamenta altresì che il giudice d’appello abbia del tutto troncato il rapporto con la nonna materna sull’erroneo presupposto che anche quest’ultima avesse mirato ad estraniare il padre. Il terzo motivo deduce l’omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, consistito nella mancata valutazione comparativa degli effetti sulla minore del trauma dell’allontanamento dalla casa familiare rispetto al beneficio atteso. Il quarto motivo denunzia violazione degli artt. 3, 6, 12, 16, 19 della Convenzione Internazionale di New York sui diritti del fanciullo, e degli artt. 3-6 della Convenzione Europea di Strasburgo nonchè dell’art. 337-octies c.c. sull’ascolto del minore e dell’art. 8 Cedu. In particolare, la ricorrente si duole del fatto che il decreto impugnato abbia leso l’interesse della minore in quanto solo circostanze eccezionali potrebbero determinare la rottura del legame familiare, e giustificare il mancato ascolto del minore. I quattro motivi, esaminabili congiuntamente perchè tra loro connessi, sono fondati. Invero, la Corte territoriale ha fondato la propria decisione sul contenuto delle due c.t.u. i cui punti salienti

destano significative perplessità in punto di fatto e di diritto e non possono essere condivise, per quanto si dirà appresso. Al riguardo, la Corte territoriale, in sostanza, ha disposto il “super-affido” della minore a favore del padre esclusivamente sul rilievo che la condotta della B.P.G., in quanto conflittuale con i c.t.u. e con l’ex-partner, sarebbe stata finalizzata all’estraneazione della minore dal padre, ovvero ad allontanarla da quest’ultimo. Va osservato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sè, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale (PAS), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità del fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena (Cass., n. 6919/16). È stato altresì affermato che nei giudizi in cui sia stata esperita c.t.u. medico-psichiatrica (allo scopo di verificare le condizioni psico-fisiche del minore e conclusasi con un accertamento diagnostico di sindrome dell’alienazione parentale), il giudice di merito, nell’aderire alle conclusioni dell’accertamento peritale, non può, ove all’elaborato siano state mosse specifiche e precise censure, limitarsi al mero richiamo alle conclusioni del consulente, ma è tenuto – sulla base delle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti e ricorrendo anche

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Giurisprudenza

alla comparazione statistica per casi clinici – a

volontà genitoriale del Be.”, omettendo di esplici-

verificare il fondamento, sul piano scientifico,

tare quali siano stati gli specifici pregiudizi per lo

di una consulenza che presenti devianze dalla

sviluppo psico-fisico della minore, peraltro non

scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stes-

considerando le possibili conseguenze di una

so piano della validità scientifica, oggetto di plu-

brusca sottrazione della minore alla madre.

rime critiche e perplessità da parte del mondo

In altri termini, il riferimento alla condotta tesa

accademico internazionale, dovendosi escludere

ad estraniare la figlia dal padre – sostanzialmente

la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare

ricondotta alla cd. PAS, ovvero alla cd. “sindrome

soluzioni prive del necessario conforto scientifico

della madre malevola” – e la evidenziata conflit-

e potenzialmente produttive di danni ancor più

tualità con l’ex-partner, non appaiono costituire

gravi di quelli che intendono scongiurare (Cass.,

fatti pregiudizievoli per la minore alla stregua

n. 7041/13).

della descrizione delle vicende occorse, tenuto

Ora, delineati i principi affermati da questa

comunque conto del controverso fondamento

Corte in fattispecie analoghe, occorre rilevare

scientifico della sindrome PAS, cui le c.t.u. han-

che, nel caso concreto, il contenuto e le conclu-

no fatto riferimento senza alcuna riflessione sulle

sioni delle c.t.u. sono in molti punti generici e

critiche emerse nella comunità scientifica circa

non chiari circa la ritenuta carenza delle capacità

l’effettiva sussumibilità della predetta sindrome

genitoriali della ricorrente. Anzitutto, se è vero

nell’ambito delle patologie cliniche. Sul pun-

che non è contestato che quest’ultima abbia in-

to, invero, va rimarcato che la Corte veneziana,

trattenuto un rapporto, breve, molto conflittua-

esaminando le c.t.u., ha affermato che sarebbe-

le con il Be., cercando, in qualche occasione, di

ro state riscontrate psicopatologie nei confronti

ostacolare o impedire le visite del padre alla figlia

della ricorrente, intendendo di fatto che le stesse

(anche attraverso fatti indiscutibilmente gravi,

fossero da identificare nella citata PAS (o anche

quali i certificati medici falsi e le assenze scola-

qualificata dal giudice di merito come “sindrome

stiche del minore che la Corte di merito imputa

della madre malevola”), considerando l’assoluta

alla madre, attingendo dalle relazioni dei c.t.u.) e

mancanza di riferimenti ad altre ipotetiche pa-

che la B. non ha collaborato con i c.t.u, è stato

tologie.

altresì accertato che quest’ultima manteneva con

Al riguardo, giova evidenziare che, in materia

la minore “almeno in apparenza, un sufficiente

di affidamento dei figli minori, è stato affermato

rapporto di accudimento”. In realtà, la Corte ter-

che il giudice deve attenersi al criterio fondamen-

ritoriale ha valorizzato, ai fini della decisione im-

tale rappresentato dall’esclusivo interesse morale

pugnata, alcuni rilievi critici privi di concretezza

e materiale della prole, privilegiando quel genito-

empirica, che costituiscono generiche deduzioni

re che appaia il più idoneo a ridurre al massimo

tratte da premesse di non univoca interpretazio-

il pregiudizio derivante dalla disgregazione del

ne. Infatti, a sostegno della pronuncia in esame,

nucleo familiare e ad assicurare il migliore svi-

la Corte territoriale ha fatto riferimento a “gravi

luppo della personalità del minore. L’individua-

ripercussioni ed effetti sulla minore”, a “condot-

zione di tale genitore deve essere fatta sulla base

te scellerate” della madre senza però indicarle e

di un giudizio prognostico circa la capacità del

specificarle, nonchè ad un comportamento “im-

padre o della madre di crescere ed educare il

prontato a gravi carenze nella genitorialità con

figlio, che potrà fondarsi sulle modalità con cui il

volontà tesa ad estraniare la minore dal padre a

medesimo ha svolto in passato il proprio ruolo,

fronte di una situazione in cui si denota la buona

con particolare riguardo alla sua capacità di re-

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Donato Maiorino

lazione affettiva, di attenzione, di comprensione, di educazione, di disponibilità ad un assiduo rapporto, nonchè sull’apprezzamento della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente che è in grado di offrire al minore. La questione dell’affidamento della prole è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice di merito, il quale, ove dia sufficientemente conto delle ragioni della decisione adottata, esprime un apprezzamento di fatto non suscettibile di censura in sede di legittimità (Cass., n. 28244/19). Orbene, nella fattispecie, deve escludersi che la Corte d’appello, nel disporre l’affidamento esclusivo del minore al padre, abbia garantito il migliore sviluppo della personalità del minore stesso, escludendo l’affidamento condiviso su una astratta prognosi circa le capacità genitoriali della ricorrente fondata, in sostanza, su qualche episodio, sopra citato (pur grave) attraverso cui la madre avrebbe tentato di impedire che il padre incontrasse la bambina, senza però effettuare una valutazione più ampia, ed equilibrata, di valenza olistica che consideri cioè ogni possibilità di intraprendere un percorso di effettivo recupero delle capacità genitoriali della ricorrente, nell’ambito di un equilibrato rapporto con l’ex-partner, e che soprattutto valorizzi il positivo rapporto di accudimento intrattenuto con la minore, sebbene il riferimento della Corte di merito all’apparenza di tale rapporto costituisca una chiara conferma del fatto che il suo giudizio sia stato incentrato esclusivamente sul disvalore attribuito all’asserita PAS. Se è vero, in proposito, che i consulenti hanno riscontrato una forte animosità della ricorrente nei loro confronti e una certa refrattarietà a seguire i suggerimenti e le prescrizioni da loro impartite in ordine al rapporto con la minore e con l’ex partner, è altresì vero che proprio tali limiti caratteriali della madre avrebbero dovuto essere affrontati e valutati nella prospettiva di un’offerta di opportunità diretta a migliorare i

rapporti con la figlia, in un percorso scevro da pregiudizi originati da postulate e non accertate psicopatologie con crismi di scientificità. Dagli atti emerge, invece, che le asprezze caratteriali della ricorrente sono state valutate in senso fortemente stigmatizzante, come espressione di un’ineluttabile ed irrecuperabile incapacità di esprimere le capacità genitoriali nei confronti della figlia, pur in mancanza di condotte di oggettiva trascuratezza o incuria verso quest’ultima, anche minime, o anche di mancata comprensione del difficile ruolo della madre. Al contrario, proprio il riferimento della Corte veneziana al buon rapporto di accudimento della minore da parte della ricorrente dimostra plasticamente il travisamento in cui lo stesso giudice d’appello è incorso nel ritenere che la B. fosse stata protagonista di un comportamento concretizzante l’invocata cd. PAS (dall’inglese: Parental Alienation Syndrome) desunto dalle predette condotte, attraverso, come esposto, un implausibile sillogismo la cui premessa principale è costituita da un ingiustificato severo stigma di comportamenti della madre fondato su un mero postulato. Da tale impostazione del provvedimento in esame discende anche la censurabilità del riferimento al padre quale unico genitore “in grado di dare equilibrio e serenità alla bambina”, affermazione che è il diretto precipitato di quanto argomentato sulla PAS. La pronuncia impugnata appare, dunque, essere espressione di una inammissibile valutazione di tatertyp, ovvero configurando, a carico della ricorrente, nei rapporti con la figlia minore, una sorta di “colpa d’autore” connessa alla postulata sindrome. Ora, il collegio non intende (e non può) entrare nel merito della fondatezza scientifica della suddetta PAS, ma deve invece conclusivamente rilevare, in conformità dell’orientamento sopra citato, che i fatti ascritti dalla Corte territoriale alla ricorrente non presentano la gravità legittimante

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Giurisprudenza

la pronuncia impugnata, in mancanza di accertate, irrecuperabili carenze d’espressione delle capacità genitoriali, considerando altresì il profilo, palesemente trascurato dalla stessa Corte di merito, afferente alle conseguenze sulla minore del c.d. “super-affido” della minore al padre in ordine alla conseguente rilevante attenuazione dei rapporti con la madre in un periodo così delicato per lo sviluppo fisio-psichico della bambina. Per quanto esposto, il decreto impugnato va cassato, con rinvio alla Corte d’appello di Brescia, in considerazione dell’opportunità che la causa sia trattata da altra Corte territoriale, anche perchè provveda sul regime delle spese del giudizio.

P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso e cassa il decreto impugnato, con rinvio alla Corte d’appello di Brescia che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. Dispone che in caso di diffusione dell’ordinanza siano omessi i nominativi delle parti e degli altri soggetti in essa menzionati. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 gennaio 2021. Depositato in Cancelleria il 17 maggio 2021. (Omissis)

La Parental Alienation da sindrome a concetto giuridico: l’irragionevole “colpa d’autore” delineata dalle Corti di merito* Sommario:

1. Il fatto ed i profili giuridici della vicenda. – 2. Il retroterra storico-scientifico della Sindrome d’Alienazione Parentale (PAS). – 3. La nuova genesi della Paternal Alienation come concetto giuridico: il valore della CTU sull’idoneità dei genitori. – 4. Contenuto, limiti e profili procedurali dell’ascolto del minore. – 5. Conclusioni.

This paper arises from the exigency of exploring, within the context of the parental crisis, a central issue concerning the legal and scientific nature of the so-called “parental alienation syndrome” (PAS). By respecting the relevant principle of exclusively protecting children’s moral and material interest, the judge should prefer the parent who appears to be the most suitable to minimize those prejudices that may derive from family disintegration, in order to ensure the minor’s personality best development. According to the Supreme Court, by taking into account that the scientific basis of PAS is still controversial and as consequence it may not be considered *

Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.

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Donato Maiorino

as a pathology, the proven conflict between parents and the mother’s conduct of alienating the daughter from her father do not necessarily represent prejudicial facts for the minor. This writing, in the form of a note in the judgment, aims to go over the case submitted to the Supreme Court’ scrutiny and, through the analysis of the vexata quaestio, also examines the CourtAppointed Technical Consultant’s function in those proceedings concerning children’s custody and the consequent possible changeover of parental alienation from syndrome to legal concept.

1. Il fatto ed i profili giuridici della vicenda. La pronuncia in commento trae origine dal ricorso del padre finalizzato ad ottenere l’affidamento “super-esclusivo” della figlia minore. Il Tribunale di Treviso, tuttavia, disponeva l’affido esclusivo al ricorrente, regolamentando le visite della madre e stabilendo il divieto di incontro con la nonna materna. Avverso il decreto, il padre proponeva reclamo insistendo per l’affido super-esclusivo, le visite della madre protette con l’ausilio degli assistenti sociali e l’esclusione del pernottamento. La Corte d’Appello di Venezia, in riforma del decreto impugnato, dispone l’affido super-esclusivo della minore al padre1, la revoca del contributo economico a carico di quest’ultimo, e regolamenta il diritto di visita della madre. Recuperando integralmente quanto asserito dalle due C.T.U., ritiene, infatti, che il padre fosse l’unico genitore in grado di dare equilibrio e serenità alla bambina evidenziando, da un lato l’elevato grado di conflittualità della coppia, dall’altro una grave carenza delle capacità genitoriali della madre basandosi però su episodi isolati e di per sé insufficienti a fondare il provvedimento di affidamento super-esclusivo. La madre, invero, pur avendo mantenuto con la figlia un discreto rapporto di accudimento, mostrava una scarsa flessibilità ad accettare il ripristino delle relazioni con il padre, inducendo due pediatri a non seguire più la minore a seguito della richiesta di certificati fasulli finalizzati ad impedire l’accesso al padre e permettendo alla minore numerose assenze scolastiche al fine di impedire il prelevamento della stessa da parte dell’ex marito. Nella motivazione del decreto impugnato, il giudice di seconde cure precisava che anche il medico-psichiatra, in una seconda C.T.U. espletata, avesse suggerito una modalità di affidamento più rigorosa, in quanto la condotta “scellerata” della madre ingenerasse il rischio di una alienazione della minore rispetto al padre, rilevando altresì che la madre “sembrava” affetta dalla “sindrome della madre malevola”2.

1

2

Sull’affidamento super-esclusivo al padre come rimedio alla condotta manipolativa della madre collocataria si veda Trib. Milano, ord. 20 marzo 2014, con nota di G. Savorani, L’affidamento superesclusivo in talune circostanze è l’unico mezzo per tutelare l’interesse del figlio minore, in Nuova giur. civ. comm., 2014, 1184 ss.; Trib. Roma, decr. 4 giugno 2018, con nota di R. Russo, Affidamento esclusivo e super esclusivo: l’interesse del minore richiede flessibilità, in Fam. dir., 2019, 892 ss. I.D. Turkat (1995) Divorce related malicious mother syndrome, Journal of Family Violence, 10(3), 253 ss., Id., (1999) Divorce Related

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Giurisprudenza

La Suprema Corte censura con rinvio la decisione di appello. Entrambi i giudizi di merito soffrirebbero di una mancata specificazione delle conseguenze che le condotte materne comporterebbero sullo sviluppo psico-fisico dei figli. In altre parole, i giudici di merito, limitandosi a richiamare per relationem quanto asserito nelle consulenze tecniche esperite, avrebbero posto in essere un’irragionevole tätertyp, correlando aprioristicamente eventuali psicopatologie della madre a diagnosi di PAS, non curandosi di quale fosse il migliore sviluppo della personalità del minore. Nell’ordinanza de qua, la Cassazione ha lapidariamente statuito che i giudici di merito non avrebbero dovuto ricercare un genitore performante ma, al contrario, valutare ai sensi dell’art. 337-ter, co. 1 c.c., “il modo in cui il figlio ha ricevuto cura, educazione, istruzione ed assistenza morale; lo stato di salute del figlio; la capacità del figlio di relazionarsi con entrambi i genitori e la sua disponibilità ad un rapporto assiduo …”, non desumendo aprioristicamente la congruità dell’affidamento super-esclusivo dalla mera personalità del genitore. Tale conclusione presta il fianco a quanto teorizzato da una parte della dottrina secondo cui la PAS, non avendo alcun conforto psico-forense, non potrebbe essere intesa come una vera e propria sindrome, quanto, piuttosto, come concetto giuridico3.

2. Il retroterra storico-scientifico della Sindrome d’Alienazione Parentale (PAS).

Prima di analizzare la nuova genesi strettamente giuridica che sembrerebbe aver assunto la Parental Alienation Syndrome (PAS) nelle aule giudiziarie appare opportuno ripercorrere il retroterra storico-scientifico dell’annosa quaestio. Orbene, secondo lo psichiatra infantile Richard Allan Gardner, l’alienazione parentale deriverebbe da una condotta “manipolativa” di uno dei due genitori (generalmente quello presso il quale è disposto il collocamento prevalente4), nei confronti del figlio tale da ingenerare un vero e proprio disturbo a danno del genitore alienato. Nell’esperienza clinica,

3 4

Malicious Parent Syndrome, Journal of Family Violence, 14, 95 ss., il quale riconosce che dopo la cessazione del rapporto coniugale, il genitore, pur rimanendo esente da altre psicopatologie accertabili, e mantenendo coi figli, almeno in apparenza, un efficace rapporto di accudimento, esercita, tuttavia, nei confronti dell’ex coniuge un comportamento di vera e propria punizione, teso soprattutto ad impedirgli un normale ed affettuoso rapporto coi figli. L’alterazione della condotta può comprendere sia veri e propri gesti criminali, oppure può trasformarsi in un eccesso di azioni legali con cui impedire all’altro genitore il rapporto coi figli. Tale sindrome presenta diversi punti di contatto con la P.A.S., descritta da Gardner, tuttavia, la sindrome della madre malevola riguarda un’anomalia più globale in cui i comportamenti posti in essere risultano essere particolarmente eclatanti e teatrali, quali, ad esempio: l’ex-moglie brucia la casa al marito che aveva ottenuto l’affido dei figli dopo il divorzio; una donna, in guerra col marito per l’affido, compra ai figli un gatto pur essendo a conoscenza che il marito è allergico a questi animali; una madre obbliga i figli a dormire in macchina per “dimostrare” che il loro padre li ha portati alla bancarotta. Preme precisare sin da ora (sul punto si tornerà infra) che tale sindrome, al pari della PAS, non è annoverata nelle classificazioni ufficiali (ICD e DSM) né nei trattati di psichiatria. M. Pingitore, Nodi e snodi nell’alienazione parentale. Nuovi strumenti psicoforensi per la tutela dei diritti dei figli, Milano, 2019, 87 ss. Sul concetto di collocamento prevalente si veda L. Delli Priscoli, The best interest of the child nel divorzio, fra affidamento condiviso e collocamento prevalente, in Dir. fam. pers., 2019, 262 ss.

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peraltro, era già nota una configurazione relazionale tipica delle famiglie con genitori in conflitto, definita Complesso di Medea5, in cui il comportamento materno era finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli nei conflitti familiari. L’instaurarsi di una tale “programmazione” comporterebbe la creazione di una realtà familiare “immaginaria” fondata su terrore e vessazione, tale da generare nella prole un senso di protezione e coalizione nei confronti del genitore identificato come sofferente con conseguente astio, disprezzo e denigrazione verso il genitore alienato. In sintesi, la prole, sottoposta a forti pressioni psicologiche a fronte della disgregazione familiare, per sopravvivere emotivamente, sente l’esigenza di allontanare fino ad alienare uno dei due genitori, di solito il padre6. Secondo Gardner l’emotional abuse7 produrrebbe nella prole un ventaglio di alterazioni psicopatologiche che vanno dall’alterazione della realtà fino a giungere alla mancanza di rispetto per l’autorità estesa anche a figure non genitoriali8. In particolare, lo psichiatra fornisce una serie di criteri tesi ad individuare la PAS facendo riferimento tanto agli otto sintomi tipici che manifesterebbe la prole, quanto ai modelli comportamentali, alla storia familiare ed alle patologie eventuali dei genitori. Indice sintomatico di una sindrome di alienazione parentale, secondo Gardner, è la campagna di denigrazione rivolta contro un genitore, una campagna che non ha giustificazioni: essa è il risultato della programmazione effettuata dal genitore indottrinante e del contributo personale offerto dal bambino alla denigrazione del genitore bersaglio9. La prole, dunque, agisce senza alcuna conseguenza negativa, rimprovero o punizione da par-

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J.W. Jacobs, Euripides’ Medea: A psychodynamic model of severe divorce pathology, “American Journal of Psychotherapy”, 1988, XLII (2), 308 ss. Vedi D. Pajardi, Individuazione e valutazione del danno nei soggetti esposti a violenze familiare, in Minori e violenze. Dalla denuncia al trattamento, Milano, 2011, 65. R.A. Gardner, The empowerment of children in the development of parental alienation syndrome, The American Journal of Forensic Psycology, 2002b, 20(2), 5-29. Trad. It. (2005) L’acquisizione di potere dei bambini nello sviluppo della sindrome di alienazione genitoriale, Nuove tendenze della psicologia, 3 (1), 75 ss. In cui specifica che anche il genitore alienato subisce un abuso emotivo: l’odio del suo ex partner si materializza come vendetta compiuta per mano dei figli; al punto che Gardner descrive la terribile sofferenza del genitore succube paragonandola ad uno “stato di morte vivente” (state of living death). R.A. Gardner, The Parental Alienation Syndrome, Creative Therapeutics, 1998, Cresskill (NJ); Id., Family therapy of the moderate type of Parental Alienation Syndrome, “The American Journal of Family Therapy”, 27, 1999, 195-212; Id., Differentiating between parental alienation syndrome and bona fide abuse/neglect, “The American Journal of Family Therapy”, 27(2), 1999, 97 ss.; in cui vengono elencate diverse psicopatologie, quali, ad esempio: possibili spunti paranoidi, psicopatologie legate all’identità di genere e l’indebolimento della capacità di essere empatici. L’autore specifica che nelle situazioni tipiche della Sindrome di Alienazione i genitori accusati di indurre la suddetta sindrome nei loro figli tendono a sostenere che la “campagna di denigrazione” del bambino sia giustificata da autentico abuso o negligenza da parte del genitore bersagliato. È di fondamentale importanza riuscire a diagnosticare i casi di PAS discriminandoli da altri apparentemente simili poiché, qualora ci si trovasse in presenza di abuso o incuria realmente commesso dal genitore accusato e rifiutato, l’animosità del minore sarebbe del tutto giustificata e la diagnosi di PAS non sarebbe applicabile. Id; Should Courts Order PAS Children to Visit/Reside with the Alienated Parent? A Follow-up Study, “TheAmerican Journal of Forensic Psycology”, 2001, 19, 61, in cui Gardner precisa che una falsa accusa di violenza sessuale sui minori è piuttosto da considerare come un derivato o un effetto della sindrome, a seguito dell’insuccesso delle tecniche di programming. Frequentemente tali accuse di abuso vengono mosse dalla madre (genitore alienante) verso il padre (genitore alienato); quando, invece, è il padre il genitore programmatore o alienante, le accuse vengono di solito rivolte verso il nuovo partner dell’ex-moglie. R.A. Gardner, The Parental alienation syndrome. Recent Trends in divorce and custody litigation, “The American of Psychoanalysis and dynamic Psychiatry”, Cresskill (NJ), 1985, 3 ss.

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te del genitore alienante, che, al contrario, arriva a favorirla o incoraggiarla palesemente. Tale animosità comporterebbe un’estensione dell’ostilità, fino a coinvolgere gli amici e la famiglia allargata del genitore alienato, cui consegue una sistematica mancanza di rispetto verso tali figure. A fronte di tale situazione i figli maturerebbero una sorta di mancanza di ambivalenza, ovvero una convinzione secondo cui il genitore alienato presenti solo caratteristiche negative, e tale convinzione sfocerebbe nell’appoggio automatico al genitore alienante in qualunque genere di conflitto intrafamiliare. La prole in tutte le espressioni di disprezzo – nella maggior parte mutuate da scenari presi a prestito dal genitore alienante – non presenta alcun senso di colpa o sentimento di empatia nei confronti del genitore alienato, perpetrando la sua campagna di denigrazione. Al fine di manifestare la propria determinazione ad essere un pensatore indipendente, il figlio alienante prosegue la campagna di denigrazione autonomamente, iniziando ad inventare accuse verso il genitore alienato, fornendo razionalizzazioni deboli, superficiali e assurde per giustificare il biasimo nei confronti del genitore alienato e spiegando le ragioni del proprio atteggiamento con motivazioni illogiche, insensate o anche soltanto superficiali10. Tuttavia, siffatta teoria “scientifica” non risulta esser suffragata da fonti autorevoli in quanto, da un punto nosografico, non viene annoverata tra i disturbi elencati nel DSM-V (ovvero il Diagnostic and statistical manual of mental disorders)11. La stessa, peraltro, in

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R.A. Gardner, The Parental Alienation Syndrome: A Guide for Mental Health and Legal Professionals, Creative Therapeutics, Cresskill, 1992a, New Jersey. A questi otto sintomi primari Gardner ha aggiunto altre quattro condizioni da lui definite “additional differential diagnostic considerations”: la difficoltà di transizione nei periodi di visita presso il genitore non affidatario; il comportamento del minore durante le “visitations” (id est il periodo durante il quale permane presso il genitore non affidatario); le caratteristiche del legame del minore con il genitore alienante; le caratteristiche del legame con il genitore alienato riferite al periodo precedente il processo di alienazione e, quindi, prima della fase di separazione. L’autore distinguere anche fra effetti a breve e a lungo termine della PAS, in quanto questi possono dipendere dall’ età del figlio, dalla durata, dall’intensità e dal tipo di tecniche di “programming” utilizzate. Fra gli effetti osservati se ne evidenziano alcuni, quali, ad esempio: aggressività, scarso controllo, comportamento ostile generalizzato, confusione emotiva e intellettiva, alto livello di dipendenza emotiva, passività e bassa autonomia, disturbi psicosomatici e dell’identità di genere, relazionali, emotivi, difficoltà di decentramento cognitivo, eccesso di razionalizzazione e comportamenti autodistruttivi o ossessivo-compulsivi. Per una consultazione nazionale si veda A.L. Lavadera-S. Ferracuti-M. Malagoli Togliatti, Parental Alienation Syndrome in Italian legal judgments: An exploratory study, “International Journal of Law and Psychiatry”, 35 (4), 2012, 334 ss., effettuato sulla base di un campione composto da 96 rapporti psicologici prodotti da 12 diversi esperti nominati dal Tribunale di Roma tra il 2000 e il 2006. Secondo tale studio quando il genitore alienante è il padre è più probabile che il suo agire sui figli venga riconosciuto come serio e pericoloso, e che venga rifiutato l’affido. Analogamente, ai padri non viene comunque concessa la custodia quando sono il genitore alienato. Le madri, al contrario, anche se riconosciute come alienanti, ricevono l’affido con maggiore frequenza dei padri perché, secondo uno stereotipo, sono considerate il genitore migliore anche quando presentano gravi disfunzioni, in forza del principio secondo cui la madre è la “custode” della prole per eccellenza. 11 Cfr. M. Biondi (a cura di), American Psychiatric Association, DSM - V. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano, 2014. A tale critica R.A. Gardner, The empowerment of children in the development of parental alienation syndrome. American Journal of Forensic Psychology, 2002, 20, 5 ss., ha obiettato che le osservazioni non sono mai state fatte per includere la PAS nel manuale statistico. L’autore specificava, peraltro, che dalla formulazione originale negli anni ’80 della PAS erano stati scritti diversi articoli in riviste peer-reviewed e che i comitati DSM stavano valutando di includere la PAS nella prossima edizione nel 2012. Tuttavia, allo stato dell’arte, nell’ultima versione del DSM-V, l’alienazione parentale non risulta ancora essere stata introdotta fra i diversi disturbi. *

Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.

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forza delle caratteristiche che la connoterebbero, potrebbe essere individuata sommariamente tra i “problemi relazionali”, a loro volta inseriti all’interno delle “altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica”. Ad ogni modo, non essendo stata fornita prova scientifica del fatto che sussista un nesso eziologico fra il rifiuto di un minore di avere contatti con un genitore e l’azione di influenza dell’altro12, l’alienazione parentale non esisterebbe come un disturbo mentale ma al più come eventuale problema relazionale13. Gli otto sintomi della PAS cui si è fatto riferimento, infatti, non sarebbero, almeno da un punto di vista medico, qualificabili come tali; così come la terapia, non volontaria ma coercitiva – definita “terapia della minaccia”, consistente nel provvedimento giudiziale modificativo delle condizioni di affidamento finalizzato a deprogrammare il figlio –, non sarebbe propriamente efficiente14. Gardner manifesta apertamente la necessità di scriminare l’utilizzo delle minacce e della manipolazione psichica più o meno intensa a seconda dei casi tanto da produrre una vera e propria violenza sulla prole – in spregio ad i più alti principi enunciati nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, nella dichiarazione dei Diritti del Fanciullo e nella Costituzione – al fine di garantire l’“egoistico” esercizio del diritto di vista e di custodia dei figli da parte del genitore alienato15. Secondo lo studioso americano, infatti, “i terapeuti devono

vedi Cass. civ., sez. I, sent. 20 marzo 2013, n. 7041, in Nuova giur. civ. comm., 2013, 433 ss., con nota di M. Casonato, L’alienazione parentale nella sentenza 7041/2013 della Cassazione civile, che esalta la parzialità e soprattutto il numero esiguo di fonti che sono espressamente contrarie alla scongiurazione della PAS come sindrome. Tuttavia, non sono mancate le critiche da parte della dottrina rispetto all’uso quasi mitologico del DSM-V, in quanto Il DSM non è uno strumento «scientifico», ma il prodotto del consenso di commissioni di esperti. Sul punto vedi Paris, DSM-5: Handle With Care The Neuropsychotherapist 2013 25 aprile, in http://www. neuropsychotherapist.com/dsm-5-handle-with-care/; Insel, Transforming Diagnosis The National Institute of Mental Health Aprile 29, 2013 in http://www.nimh.nih.gov/about/director/2013/transforming-diagnosis.shtml, secondo cui le diagnosi del DSM sono “basate sul consenso” e che la sua “debolezza è la sua mancanza di validità”. 12 In tal senso vedi K.C. Faller, The Parental Alienation Syndrome: What is it and what data support it?, “Child Maltreatment”, 3 (2), 1998, 100 ss.; R.E. Emery, Parental Alienation Syndrome: Proponents bear the burden of proof, “Family Court Review”, 43 (1), 2005, 8 ss.; C.S. Bruch, Parental Alienation Syndrome and Parental Alienation: Getting it wrong in child custody cases, “Family Law Quarterly”, 35 (3), 2001, 527 ss., secondo cui la PAS non avrebbe fondamenti logici e scientifici e nei pochi casi nei quali potrebbe venire riscontrata la stessa si tratterebbe di un lieve disturbo transitorio. 13 La sindrome in esame non risulta nemmeno nella classificazione ICD-10 (ovvero International classification of diseases). In una nota del 2010 della National District Attorneys Association ricorda che “vari autori (due psicologhe Consuela Barea e Sonia Vaccaro) hanno sostenuto che la PAS sarebbe un costrutto pseudoscientifico in grado di minacciare l’integrità del sistema penale e la sicurezza dei bambini vittima di abusi”. Nel 2012, a seguito dell’interrogazione parlamentare n. 2-01706 del 16 ottobre 2012, seduta n. 704, il sottosegretario alla Salute, il Prof. Adelfio Elio Cardinale, ha precisato che “sebbene la PAS sia stata denominata arbitrariamente dai suoi proponenti con il termine “disturbo”[…] l’Istituto Superiore di Sanità non ritiene che tale costrutto abbia né sufficiente sostegno empirico da dati di ricerca, né rilevanza clinica tali da poter essere considerata una patologia e, dunque, essere inclusa tra i disturbi mentali nei manuali diagnostici”. Più recentemente, con nota del 29 maggio 2020, relativa all’interrogazione Parlamentare n. 4-02405, il Ministero della Salute, Dott. Roberto Speranza, ha evidenziato che le teorie di Gardner sono state sviluppate “in diversi lavori auto-pubblicati e, pertanto, privi di verifica da parte della letteratura scientifica”, ed ha, altresì, messo in luce il “rischio di un utilizzo strumentale di una definizione priva di validità diagnostica nelle controversie che coinvolgono minori”, avvertendo che, in caso di segnalazione di diagnosi di PAS da parte di medici o psicologi, il Ministero della salute “ha cura di sollecitare gli Ordini professionali di appartenenza, per gli accertamenti sulle eventuali violazioni di norme deontologiche”. 14 Vedi G. Cassano-I. Grimaldi, L’alienazione parentale nelle aule giudiziarie: ragioni dei minori e decisioni irragionevoli tra giurisprudenza e normativa sovrannazionale, in Corr. giur., 2020, 159 ss. Sulla congruità dell’inversione dell’affido vedi anche D.C. Rand, R. Rand, L.M. Kopetski, (2005), The spectrum of Parental Alienation Syndrome: Part III: The Kopetski follow-up study, “American Journal of Forensic Psychology”, 23, 15 ss. 15 Lo sviluppo psico-fisico del minore è legato all’effettività del diritto alla bigenitorialità, la cui concretizzazione prescinde da una

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sapere esattamente quali minacce possono utilizzare per dare forza ai loro suggerimenti, alle istruzioni e anche alle manipolazioni. […] Senza minacce non ci sarebbe nessuna società civile organizzata. […] Minacce che hanno poca o nessuna possibilità di attuazione, danno del terapeuta una immagine di soggetto debole e impotente e compromettono significativamente l’efficacia del trattamento. Affinché le minacce abbiano il giusto peso, il giudice deve mettere in pratica ciò che il terapeuta ordina. In caso contrario, le minacce del terapeuta non hanno significato”16. Ordunque, l’impossibilità di qualificare la PAS come sindrome è confermata da quanti ritengono più corretto descriverla come dinamica familiare considerata nel suo complesso – e non come patologia del singolo individuo – nell’ambito della quale ciascun membro della famiglia assume un preciso ruolo animato da motivazioni proprie17 cui consegue l’ingenerarsi di un “triangolo perverso”18 in cui due membri della famiglia creano una vera e propria coalizione intergenerazionale – sulla base del dogma “insieme ci bastiamo e non abbiamo bisogno di nessuno”19 – spesso negata dagli stessi, al fine di escludere progressivamente l’altro genitore. Sebbene i dubbi in merito alla correttezza nel qualificare l’alienazione parentale come una vera e propria sindrome sembrino orientare verso una soluzione negativa e per una

parificazione cronologica del tempo di frequentazione della prole con ciascun genitore. In tal senso si veda L. Delli Priscoli, The best interest of the child nel divorzio, fra affidamento condiviso e collocamento prevalente, cit., 262 ss. In giurisprudenza si veda Cass. civ., Sez. I, dicembre 2018, n. 31902, con nota di F. Trubiani, Affidamento condiviso: il diritto alla bigenitorialità fra assolutezza del principio e relatività delle regole applicative, in questa Rivista, 2019, 757 ss.; in Fam. dir., 2019, 250 ss., con nota di F. Danovi, La Cassazione si esprime (ante litteram?) sulla parità dei tempi dei genitori con il minore. 16 R.A. Gardner, Family therapy of the moderate type of Parental Alienation Syndrome, The America Journal of Family Therapy, 27, 1999, 198. 17 Cfr. F. Montecchi-F.R. Montecchi, Separazioni ad alta conflittualità e Sindrome di Alienazione genitoriale (PAS): imbroglio diagnostico o realtà clinica? Dalla parte dei minori, in Minori giustizia, 2013, 188 s. 18 Cfr. J.Haley, Towards a theory of pathological systems, in G.H Zulk, Boszormeny-Nagy I., eds., Family therapy and disturbed families, Science and Behavior, Palo Alto, 1969. Sul concetto di triangolazione vedi anche S. Minuchin, Famiglie e terapia della famiglia, Roma, 1976. Vedi anche F. Villa, La sindrome di alienazione genitoriale: cerniera tra legami incestuali e rapporti incestuosi, in Minori giustizia, 2, 2006, 42 ss., il quale offre una lettura della Sindrome di Alienazione Genitoriale in chiave psicodinamica, come possibile trait d’union tra legami incestuali e rapporti incestuosi. L’Autore evidenzia come “nei casi di PAS ci si trovi di fronte ad una condizione di psicopatologia familiare che non si è riusciti a contenere neanche con il divorzio e che, a motivo della sua gravità, ha dovuto trovare altre abnormi vie di sfogo per alleviare gli elevatissimi livelli d’angoscia: l’alienazione genitoriale rappresenta così l’ultimo disperato agito nei confronti di una relazione triangolare – madre, padre, figlio – intollerabile a tal punto da mettere in atto meccanismi espulsivi violenti, concreti e pericolosi per riuscire a regredire in una più antica e rassicurante relazione duale”. In altre parole quello della madre “pre-edipica” è un tentativo disperato di ripristinare una relazione esclusivamente duale mediante l’instaurazione di un meccanismo di rifiuta da parte del figlio verso il padre. Il file rouge tra Sindrome di Alienazione Genitoriale, relazioni incestuali e casi di incesto è riconoscibile in una stessa matrice psicodinamica che risiede in relazioni familiari primitive, in quanto è la stessa madre ad utilizzare modalità difensive primitive (quali scissione e proiezione) per proteggersi da angosce persecutorie e di annientamento, rifugiandosi in relazioni duali idealizzate che escludono il terzo. 19 P.C. Racamier, (1992): Le genie des origines. Psychanalyse et psychotes, Paris. Tr. it. Il genio delle origini, Milano, 1993, 284-98, Id., (1995): L’incest et l’incestuel, Vinsobres. Tr. It., Incesto e incestuale, Milano, 2003, cit., 37 ss., in cui vengono sintetizzati i tre “dogmi” del credo narcisistico che governano tali contesti familiari: “insieme ci bastiamo e non abbiamo bisogno di nessuno”; “insieme ed uniti, trionferemo su tutto”; “se mi lasci, io muoio”. La prole, secondo l’autore, mentre credeva di essere amata era, in verità, sottoposta ad un dominio: “Staccandosi da sua madre, l’oggetto incestuale non rischia forse di danneggiare il narcisismo materno e distruggere la sua vita?” (cit. 69).

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migliore qualificazione come fenomeno/incastro piscologico20; ciò che è certo è che in tutte le ipotesi in cui si verificano le circostanze esposte, sul piano giuridico, il figlio, a fronte di tali “psicotrappole”21, subisce una lesione del suo diritto – riconosciuto all’art 337-ter, co. 1 c.c. – a “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori […] e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”22. Tale lesione, tuttavia, deve essere empiricamente ed autonomamente accertata da parte del giudice, in quanto lungi dal costituire aprioristicamente lo scudo dietro cui ciascun genitore può trincerarsi per la salvaguardia di mere spinte egoistiche, rappresenta, piuttosto, lo strumento attraverso il quale al minore stesso deve esser riconosciuto e garantito il ruolo di protagonista della “l’isola principale” da cui “in vario modo dipendono le isolette in cui si sono ridotti a vivere gli adulti”23. Come avremo modo di constatare, infatti, la Cassazione, a più riprese, ha ribadito che il giudice di merito, allorché abbia aderito alle conclusioni del medico-psichiatra che diagnostichi la sindrome dell’alienazione parentale, è tenuto a prendere espressamente posizione sulla fondatezza delle censure mosse dalle parti alle risultanze della C.T.U., ed a verificarne il fondamento al fine di evitare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor ben più gravi di quelli che intendono scongiurare24.

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M. Pingitore, Nodi e snodi nell’alienazione parentale. Nuovi strumenti psicoforensi per la tutela dei diritti dei figli, Milano, 2019, 5 ss.; che non definisce mai l’alienazione parentale come una sindrome ma ne parla genericamente nei termini di “fenomeno psicologico” che coinvolge tutti i membri di un sistema familiare, non riconoscendone il valore di patologia. Segue in giurisprudenza Cass. civ., sez. I, sent. 1 aprile 2019, n. 13274, in Corr. giur., 2020, 162 ss., con nota di G. Cassano-I. Grimaldi, L’alienazione parentale nelle aule giudiziarie: ragioni dei minori e decisioni irragionevoli tra giurisprudenza e normativa sovrannazionale; Cass. civ., Sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919, in questa Rivista, 2016, con nota di M. Carai, Affidamento condiviso del figlio minore e bigenitorialità, in cui si riconosce che il giudice utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia (incluso l’ascolto del minore) e le presunzioni, deve motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia. Sul punto si veda anche G. Vanacore, Falsificazione e processo: come e quando la scienza diventa sentenza?, in Danno e Resp., 2016, 1143ss. 21 G. Nardone, Psicotrappole. Le sofferenze che ci costruiamo da soli: riconoscerle e combatterle, Firenze, 2013, pag. 7 ss., in cui vengono definite “psicotrappole” le soluzioni che ogni individuo adotta in un periodo per risolvere delle situazioni difficili che se ripetute nel tempo incastrano l’autore in un problema ancor più complesso di quello per le quali erano state adottate, rendendo necessario un intervento esterno per risolverlo. In particolare, il bambino cade in queste trappole mentali autonomamente oppure a causa delle continue “ristrutturazioni” di significato delle condotte del genitore succube ad opera del genitore dominante. 22 Sul modello dell’affidamento condiviso quale strumento per la concretizzazione del diritto a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore si veda T. Auletta, sub Art. 337-ter c.c., in Comm. Gabrielli, 2, Torino, 2018, 1000 ss.; A. Arceri-M. Sesta, La responsabilità genitoriale e l’affidamento dei figli, in La crisi della famiglia. Trattato di diritto civile e commerciale, III, a cura di P. Schlesingher, 2016, 43 ss.; M. Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in Fam. dir., 2013, 321 ss.; Id., Famiglia e figli a quarant’anni dalla riforma, in Fam. dir., 2015, 1009 ss.; Id., Le nuove norme sull’affidamento condiviso: a) profili sostanziali, in Fam. dir., 2006, 4, 377 ss., G. Ballarani, La responsabilità genitoriale e l’interesse del minore (tra norme e principi), in Atti del XIII convegno nazionale: Comunioni di vita e familiari tra libertà, sussidiarietà e inderogabilità, a cura di P. Perlingieri-S. Giova, 2019; Id., Potestà genitoriale e interesse del minore: affidamento condiviso, affidamento esclusivo e mutamenti, in S. Patti-L.R. Carleo (a cura di), L’affidamento condiviso, Milano, 2006, 2 9 ss. 23 M. Paradiso, Navigando nell’arcipelago familiare. Itaca non c’è, in Riv. dir. civ., 2016, 1317, in cui l’autore mette in evidenza che “è la filiazione l’unico punto fermo di tutta la materia, l’unico nel quale operano regole e principi inderogabili e nel quale refluisce quel tanto di ordine pubblico che pur sempre la caratterizza. È nella filiazione, in altri termini, che si ritrova ormai quell’interesse superiore della famiglia che ci si è affannati ad espungere dall’unione coniugale e il diritto di famiglia diviene così, quasi senza residui, diritto della filiazione”. 24 In tal senso si veda già Cass civ., sez. I, sent. 20 marzo 2013 n.7041, in Mass. Giust. civ., 2013.

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È del tutto evidente, di fronte a siffatte considerazioni, che la prospettiva demistificatoria assunta dalla Suprema Corte, consente di contornare le caratteristiche della nuova genesi dell’alienazione parentale, riconducendola ad un’analisi delle relazioni intrafamiliari in un’ottica non più impropriamente scientifica, quanto, piuttosto, giuridica, “sia in quello che viene chiamato Esosistema (rapporti tra l’individuo e l’ordinamento) sia, in un’ottica più vasta, con riguardo al c.d. Macrosistema (religione, storia, leggi e cultura) e al Cronosistema (il ruolo del passare del tempo anche nelle decisioni e nei loro effetti pratici)”25.

3. La nuova genesi della Paternal Alienation come concetto giuridico: il valore della CTU sull’idoneità dei genitori.

Dinanzi a condotte che possono ingenerare relazioni controverse tra genitore e figlio, rispetto alla dottrina che considera l’alienazione parentale come sindrome un “falso mito” non potendo essere diagnosticata o rilevata in un contesto clinico ma un concetto giuridico che può essere individuato soltanto in un contesto giudiziario26, la giurisprudenza di legittimità dimostra un approccio più aperto e dialogico27. In materia di separazione ed affidamento della prole si riscontra, infatti, un largo uso della consulenza tecnica d’ufficio (CTU) anche in circostanze in cui ictu oculi risultasse manifestamente superfluo. Da tale angolo visuale, il dubbio rispetto al valore della consulenza tecnica d’ufficio che accerti la sussistenza di una PAS e la conseguente difficoltà di distinguere tra le teorie maggiormente accreditate dalla comunità scientifica utilizzabili dai giudici ai fini della decisione, rientra nel più generale problema della valutazione della prova scientifica nel

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Corte d’App. Brescia, Sez. minori, Decr., 17 maggio 2013, in Fam. dir., 2013, 749 ss., con nota di M. Casonato, Affidamento d’un minore, consulenza tecnica d’ufficio e ricorso in Cassazione per vizi della motivazione – conflitti familiari e sindrome da alienazione parentale: note su una discussa patologia – conflitti familiari e sindrome da alienazione parentale: note su una discussa patologia, in Fam. dir., 2013,cit., 755. 26 J.A. Hoult, The evidentiary admissibility of Parental Alienation Syndrome: Science, Law, and Policy, “Children’s Legal Rights Journal”, 26 (1), 2006, 1 ss., il quale sostiene, in forma più categorica, che la relazione di un consulente tecnico che faccia riferimento alla PAS non dovrebbe essere ammessa in un procedimento legale perché mancherebbe di sufficienti credenziali di scientificità, validità e attendibilità. Tuttavia, quanto all’ammissibilità, non può trascurarsi che negli USA la testimonianza di diversi consulenti tecnici, sostenitori della teoria scientifica della precitata sindrome, sottoposti alla verifica degli standard Frye (1923) e Daubert (1993), è stata ritenuta ammissibile tanto dalla Corte del Massachusetts che da quella del Connecticut. Vedi anche Central East Region. Court File No. 9520/01, 9 agosto 2002, in cui la Corte penale di Durham County nell’Ontario (Canada) ha stabilito che la PAS – sottoposta al vaglio del Mohan (equivalente del Frye Canadese) – avesse sufficienti credenziali di scientificità per esser ammissibile in giudizio. 27 Cfr. C. Casale, Coniugi separati e litigiosi, la PAS e la Suprema Corte, in Dir. fam. pers., I, 2019, 14 ss.; M. Pingitore, Nodi e snodi nell’alienazione parentale, cit., 56. Di diverso avviso F. Villa, La sindrome di alienazione genitoriale: cerniera tra legami incestuali e rapporti incestuosi, cit., 52-53, il quale ritiene necessario un’efficace collaborazione tra i diversi organi di giustizia e tra professionisti del settore giuridico e psicologico. Infatti, partendo dal presupposto che vi sia una correlazione fra Sindrome di Alienazione Genitoriale, relazioni incestuali e casi di incesto, l’autore ritiene che una tale questione non possa essere affrontata “solo in aule di tribunali e risolta con decreti o disposizioni ma deve essere considerata e fronteggiata da tutti come espressione di un disagio psichico dell’intero nucleo familiare”.

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processo civile28; tuttavia, non essendo questa la sede per trattare il tema in linea così generica, pare opportuno soffermarsi esclusivamente sul valore attribuibile alla CTU che accerti l’esistenza d’alienazione parentale come vera e propria sindrome. Sin dalle prime pronunce sulla validità scientifica della diagnosi29, la Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto la natura “molto controversa” della PAS, tanto da aver lapidariamente statuito che il giudice di merito deve ricorrere alle proprie cognizioni scientifiche al fine di verificare il fondamento di una consulenza che presenti “devianze rispetto alla scienza medica ufficiale, e come tale, non può costituire oggetto per l’adozione di un provvedimento giudiziale”, specificando, peraltro, che qualora ciò non avvenga è dovere della Corte cassare la sentenza e disporne il rinvio affinché a governare il processo siano la legge e la scienza30. Tuttavia, se è vero che il giudice non può fondare la motivazione esclusivamente sulla base di una CTU che diverga da nozioni correnti della scienza medica, non è men vero però che neppure concetti “autoevidenti” possono da soli esser sufficienti a fondare una decisone di particolare rilevanza come quella che incide sulle relazioni intrafamiliari. In sintesi, anche le proprie cognizioni scientifiche cui il giudice deve fare affidamento non possono limitarsi a dei meri richiami a “miti della psicologia popolare”31 sforniti anch’essi di adeguata attendibilità.

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Per una ricostruzione più attenta del tema si v. R. Poli, La prova scientifica e il suo controllo in Cassazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2017, 1222 ss.; rileva ai nostri fini ricordare la quaestio sulla natura della consulenza tecnica d’ufficio, cioè se essa rappresenti o meno, ed eventualmente in quali casi, un mezzo di prova in senso stretto. Vedi Cass. civ., Sez. III, sent. 13 marzo 2009, n. 6155, in Mass. giur. it., 2009, secondo cui la consulenza tecnica ha fisiologicamente lo scopo di fornire un parere che sia di ausilio all’attività valutativa dell’organo giudicante sotto il profilo di quelle cognizioni tecniche che esso non possiede (c.d. consulenza deducente). Costituisce, invece, mezzo di prova qualora, oltre che valutazione tecnica, costituisca accertamento di particolari situazioni di fatto, rilevabili solo attraverso cognizioni tecniche e percepibili esclusivamente attraverso strumentazioni tecniche specifiche (c.d. consulenza percipiente). Sulla valenza istruttoria, la metodologia e lo svolgimento della C.T.U. vedi F. Danovi, Tutela del minore e tecnica processuale nella C.T.U. psicodiagnostica, in Fam. dir., 2019, 8-9, 819 ss. 29 Cfr. Cass civ., Sez. I, 20 marzo 2013, n.7041, in Nuova giur. civ. comm, 2013, 20433, con nota di M. Casonato, op. cit., nel caso di specie, una coppia stabiliva negli accordi di separazione omologati dal Tribunale l’affidamento in via esclusiva del minore alla madre, con una regolamentazione del rapporto fra il minore ed il padre che prevedeva una loro progressiva intensificazione in relazione alla crescita del bambino. Tuttavia, tale rapporto si è rivelato presto soggetto ad esponenziale involuzione, ed il padre ne attribuiva la causa alla condotta della ex moglie. Il Tribunale, all’esito dell’espletamento della CTU, pronunciava la decadenza della potestà genitoriale della madre, disponendo l’affido ai servizi sociali, pur rimanendo il collocamento prevalente del minore presso la madre. Entrambi i genitori proposero ricorso in Cassazione avverso il provvedimento della Corte d’Appello che, in sede di reclamo, prendendo atto dell’alterato equilibrio psicofisico evidenziato dalla CTU, aveva disposto l’affidamento al padre e l’inserito del minore in una struttura residenziale educativa, prescrivendo la programmazione di incontri con entrambi i genitori. 30 Cfr. Cass civ., Sez. I, sent. 20 marzo 2013, n. 7041, Nuova giur. civ. comm, 2013, 433 ss., con nota di M. Casonato, op. cit., la S.C. ritiene sussistente il vizio di motivazione rispetto ad un fatto decisivo e controverso per il giudizio. Nel par. 3 ss. la S.C. afferma che “la Corte territoriale, pur recependo integralmente le conclusioni cui era pervenuto il consulente tecnico d’ufficio, fondate sull’accertamento diagnostico, nei confronti del minore, della “sindrome da alienazione parentale” (PAS), non ha esaminato le censure, specificamente proposte […] in relazione alla validità, sul piano scientifico, di tale controversa patologia”. Accoglie, inoltre, la denunciata “violazione di legge ed omessa motivazione in merito a un fatto controverso e decisivo per il giudizio, consistente nella mancata verifica dell’attendibilità scientifica della teoria posta alla base della diagnosi di sindrome da alienazione parentale”. La sentenza precisa che la corte territoriale non avesse mai fatto riferimento (forse volontariamente) all’alienazione parentale in punto di motivazione, nonostante fossero riportati più passi della CTU. In virtù di ciò, la S.C. ritiene che il mancato richiamo esplicito risulti essere più apparente che reale sulla base del palese motivazione “per relationem” adottata. 31 Così in Cass. civ., sez. I, sent. 20 marzo 2013 n. 7041, con nota di M. Casonato, op. cit., in cui l’autore critica la sent. n.7041 nella

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Diversamente da quanto sostenuto da una parte della dottrina32, i giudici di legittimità, rimettendo la valutazione ad opera dei giudici di merito sulla base delle proprie cognizioni scientifiche, di fatto non hanno né chiuso definitivamente la porta a conoscenze scientifiche sfornite di generale accettazione, né hanno disconosciuto che, almeno dal punto di vita fenomenico, la condotta di un genitore possa comportare delle ostilità fra la prole ed il genitore alienato. In altri termini, la giurisprudenza non si è voluta esprimere sulla natura scientifica dell’Alienazione Parentale, limitandosi a cristallizzare una dinamica nella quale i figli, in scenari di elevata conflittualità tra i genitori, possono ricevere direttamente o indirettamente informazioni negative da uno sull’altro che influiscono sul tipo e sulla qualità della relazione con i medesimi. La questione semmai attiene piuttosto alla necessità di riuscire a discernere quando la condotta del genitore alienante travalichi i meri disdicevoli fatti della vita, tanto da arrecare pregiudizio ai minori; da quando la stessa rientri nell’ordinaria gestione di una disgregazione familiare. L’atteggiamento del bambino che rifiuta l’altro genitore, per un patto di lealtà con il genitore apparentemente più debole, può condurlo ad una forma di invischiamento capace di accompagnare la sua crescita non solo di sofferenza, ma anche di problemi psicologici alienanti, perciò, “non si tratta di conservare al bambino la bigenitorialità, da intendersi come un patrimonio prezioso di cui i figli debbono poter disporre, ma di evitare che attraverso il rifiuto si vada strutturando una personalità deviante”33.

parte in cui prevede al par. 4.3 che “non è dato comprendere come una vera e propria patologia psichica, indotta da elementi che evidentemente sfuggono – obbedendo a meccanismi interiori e profondi – a qualsiasi consapevolezza, soprattutto da parte di un bambino, possa essere compatibile con la descritta mutevolezza di comportamenti verso il genitore alienato”. In altre parole, osserva come la S.C. si affidi ad un principio religioso e non a conoscenze scientifiche. “Perché mai il bambino – se non sulla base di un asserto religioso – dovrebbe essere l’unico essere vivente del creato che non presenta comportamenti machiavellici: forse «perché non ancora corrotto...»?”. Per una risposta nel senso di cui nel teso vedi M. Giampietro, La mente machiavellica: manipolazione ed inganno, in Incontri evolutivi. Crescere nei contesti attraverso le relazioni, a cura di M. Antonella, Milano, 2000, 81 ss., in cui si evidenzia proprio come il principio religioso posto a fondamento della sentenza negli studi pedagogici sia stato negato, in quanto viene dimostrato come i bambini siano più capaci degli adulti a manipolare per ottenere qualcosa o evitare una punizione: il semplice pianto costituisce il primo espediente utilizzabile. In altre parole, viene sconfessata quella visione dei bambini necessariamente puri ed ingenui. Vedi anche M. Mazzola-M. Casonato, Alienazione genitoriale e sindrome da alienazione parentale (PAS), Roma, 2016, 13; in cui si evidenzia come a fronte della separazione aumentano le accuse di abuso e maltrattamento false, prodotte intenzionalmente ad opera della madre o del genitore collocatario (spesso le due figure coincidono). 32 Vedi G.Cassano-I. Grimaldi, L’alienazione parentale nelle aule giudiziarie: ragioni dei minori e decisioni irragionevoli tra giurisprudenza e normativa sovrannazionale, cit., 162 ss., in cui viene precisato che pur eliminando la parola “sindrome” e parlando solamente di alienazione parentale il prodotto adulterino non diverrebbe affatto genuino. Tutto ciò, sarebbe corroborato dal fatto anche nella letteratura internazionale Carol Bruch, insigne giurista statunitense, ha precisato che i problemi relativi alla validità scientifica della Sindrome di Alienazione Parentale riguardano anche il concetto di Alienazione Parentale. Vedi anche A. Mazzeo, Il problema della cosiddetta alienazione parentale: breve ricognizione storica e analisi della situazione attuale, in L’Alienazione Parentale nelle aule giudiziale, Strumenti di contrasto e importanza dell’ascolto nei procedimenti di diritto di famiglia, a cura di G. Cassano-P. Corder-I. Grimaldi, Rimini, 2019, 165, secondo cui il mero rifiuto non può costituire lo strumento dal quale desumere la manipolazione psicologica sofferta dalla prole, quanto, piuttosto, rappresenta la diretta conseguenza del condizionamento stesso. L’autore asserisce che così come lo stato di ubriachezza non può essere la prova dell’incidente stradale ma la mera conseguenza, anche il rifiuto non può essere la prova della manipolazione psicologica ma il mero risultato della condotta deviante del genitore alienante. 33 Vedi Corte d’App. Brescia, Sez. minori, Decr., 17 maggio 2013, in Fam. dir., 2013, con nota di M. Casonato, op. cit., 745 ss., investita, quale giudice ad quem della Cass civ., Sez. I, sent. 20 marzo 2013 n. 7041, ha censurato il comportamento della madre ed ha stabilito il collocamento presso il padre, chiarendo che la mancanza di fondamento scientifico della PAS non esclude che essa possa essere

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A conferma di quanto or ora asserito, la giurisprudenza di merito34 e quella di legittimità poi sono tornate ad affrontare nuovamente la quaestio dell’alienazione parentale assumendo un differente focus. Più precisamente, la Suprema Corte, cassando una pronuncia in cui il giudice di secondo grado aveva previsto il collocamento prevalente della figlia presso la madre alienante asserendo che i giudici di merito erano “venuti meno all’obbligo di verificare, in concreto, l’esistenza dei denunciati comportamenti volti all’allontanamento fisico e morale del figlio minore dall’altro genitore”, ha chiarito definitivamente che non le compete “dare giudizi sulla validità o invalidità delle teorie scientifiche e, nella specie, della controversa PAS”, giacché la ratio decidendi prescinde dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della sindrome suddetta35. I giudici di legittimità, pertanto, sostengono che al fine di accertare l’esistenza di un legame simbiotico e patologico che intercorre tra il genitore incube ed il figlio, il giudice di merito può utilizzare tutti “i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia (incluso l’ascolto del minore) e anche le presunzioni”, non limitandosi alla sola CTU. Attenendosi al criterio fondamentale rappresentato dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole il giudice è chiamato a compiere un giudizio prognostico circa la capacità del genitore di educare e crescere il figlio a fronte della crisi genitoriale “in base ad elementi concreti, del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore, delle sue consuetudini di vita e dell’ambiente sociale e familiare che è in grado di offrire al minore, fermo restando, in ogni caso, il rispetto del principio della bigenitorialità, da

utilizzata, ai fini del processo, per individuare un problema relazionale in situazioni di separazione, pur non avendo i connotati di una vera e propria malattia. Si legge, infatti, che “l’oggettivo riscontro di disturbi della personalità del minore manifestatisi in forme anomale d’avversione nei confronti del padre, quando sia provato che sono causati dal comportamento alienante e possessivo della madre, giustifica gli opportuni provvedimenti giudiziali nell’interesse del minore e ciò anche indipendentemente dalla loro qualificazione in termini di sindrome di alienazione parentale essendo sufficiente ricondurli a problemi relazionali molto frequenti nelle famiglie in crisi”. 34 Vedi Trib. Milano, sez. IX civ., decr. 13 ottobre 2014, in ilcaso.it, secondo cui la c.d. sindrome di alienazione genitoriale è priva di fondamento sul piano scientifico, in ragione delle medesime ragioni esposte in precedenza dalla Corte di legittimità, “ne consegue che il comportamento del genitore che sia alienante può rilevare sotto altri e diversi profili ma non come patologia del minore (non comprendendosi, peraltro, perché se litigano i genitori, gli accertamenti diagnostici debbano essere condotti su chi il conflitto lo subisce e non su chi lo crea”. La stessa sentenza in punto di motivazione rimanda a quanto previsto anche dal Trib. Varese, ord. 1 luglio 2010, in Giur. it., 2011, 1867. 35 Cfr. Cass. civ., Sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919, in questa Rivista, 2016, con nota di M. Carai, op. cit., nel caso de quo dinanzi la S.C. veniva impugnato il provvedimento adottato dalla Corte d’Appello di Milano che aveva disposto l’interruzione della frequentazione della figlia con il padre sulla base di una acritica adesione alle conclusioni finali del CTU senza aver accertato in concreto i non meglio precisati comportamenti riprovevoli ascritti al padre ad opera della figlia e dalla madre. In particolare, il C.T.U. nominato in primo grado aveva già rilevato che “la madre limita di fatto la relazione tra padre e figlia attraverso un controllo continuo su ogni atto direttamente o tramite persone di sua fiducia”. Nello stesso senso vendi anche Cfr. Cass. civ., Sez. I, 28 settembre 2017 n. 22744, in ilfamiliarista.it, con nota di C. Casale, Le modalità di affidamento del figlio devono assicurare la bigenitorialità anche in presenza di PAS, secondo cui non è pertinente insistere sul profilo della PAS, poiché non può costituire il solo ed essenziale elemento per assumere decisioni incisive nella vita dei minori, coinvolti in separazioni conflittuali dei genitori. Nello stesso senso vedi anche Cass. civ., sez. I, sent. 1 aprile 2019 n. 13274, in Corr. Giur., 2020, 2, 159 ss., con nota di G. Cassano-I. Grimaldi, op. loc. cit., in cui, ancora una volta, la S.C. ha cassato App. Venezia, sent. 30 maggio 2017, n. 1140, che aveva previsto l’affidamento esclusivo, con limitazione del diritto di visita della madre per un semestre, esclusivamente sulla base delle condotte ostative della madre alla frequentazione del figlio da parte del padre, motivandole sulla base delle mere risultanze delle CTU.

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intendersi quale presenza comune dei genitori nella vita del figlio, idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi, i quali hanno il dovere di cooperare nella sua assistenza, educazione ed istruzione”36. Tuttavia, come opportunamente osservato da una parte della dottrina, il giudizio prognostico così come delineato dalla giurisprudenza, sembra essere nella prassi incentrato sulla necessità dei genitori di risultare performanti, rischiando di perdere di vista l’interesse del minore d’età coinvolto nel procedimento di separazione. In altre parole spesso i giudici – così come avvenuto nell’ordinanza in commento –, anziché tener conto “del modo in cui i genitori hanno precedentemente svolto i propri compiti, delle rispettive capacità di relazione affettiva, nonché della personalità del genitore …”, dovrebbe piuttosto valutare “il modo in cui il figlio ha ricevuto cura, educazione, istruzione ed assistenza morale; lo stato di salute del figlio; la capacità del figlio di relazionarsi con entrambi i genitori e la sua disponibilità ad un rapporto assiduo …”. Sarebbe, dunque, più in linea con l’obiettivo dell’indagine peritale riguardante il rispetto dei diritti del figlio da parte dei genitori secondo quanto richiesto dall’art. 337-ter c.c., indirizzare il giudizio prognostico più che sull’idoneità del genitore, sulle concrete esigenze del figlio37. A fortiori ratione, se non è casuale la scelta del legislatore di anteporre il diritto del minore a “mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei due genitori”, risulta piuttosto incoerente riconoscere, in prima istanza, così come molti giudici fanno, importanza al giudizio sulla personalità del genitore, che fra l’altro non è neppure automaticamente correlabile alla sua capacità di garantire i diritti del figlio38. Recentemente anche la Procura generale presso la Corte di Cassazione, con la requisitoria del 15 marzo 2021, ha precisato che la decisione della Corte d’Appello di Roma – che

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Vedi Cass. civ., Sez. VI – 1, Ord., 04 novembre 2019, n. 28244, in CED Cassazione, 2019, secondo cui “in materia di affidamento dei figli minori, il giudice della separazione e del divorzio deve attenersi al criterio primario dall’esclusivo interesse morale e materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo i danni derivati dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore”. 37 M. Pingitore, Nodi e snodi nell’alienazione parentale. Nuovi strumenti psicoforensi per la tutela dei diritti dei figli, Milano, 2019, 81; in cui espone tale proposta di modifica dei criteri relativi alla CTU non più basandolo sui genitori, ma sui diritti dei figli; A. Mazzeo, Ragioni negatorie dell’esistenza scientifica di una sindrome di alienazione parentale e strategie per il contrasto della perizia, in G. Cassano (a cura di), il minore nel conflitto genitoriale. Dalla sindrome di alienazione parentale alla legge sulle unioni civili, Milano, 2016, 205. 38 Trib. Castrovillari, sent. 27 luglio 2018 n. 728, in Quotidiano Giuridico, 2018, in cui riconosce l’esistenza dell’A.P. in capo al bambino a causa della condotta della madre, disponendone l’allontanamento semestrale. La sentenza riconosce “l’irrilevanza di un approccio clinico alla questione, pure sostenuto dal consulente di parte, ed induce a valorizzare i comportamenti tenuti, oggettivamente osservati, ed l’effettiva incidenza di questi sul minore, su cui, in via esclusiva, il CTU ha fondato le indagini, le valutazioni e le conclusioni”. In altre parole, l’idoneità del genitore andrebbe valutata in concreto, tenendo conto dei comportamenti avuto con il figlio in una data relazione triadica (madre-padre-figlio). Vedi anche Protocollo di Milano, 17 marzo 2012, in psicologiagiuridica.eu, il quale è volto ad offrire agli operatori chiamati a valutare le condizioni per l’affidamento dei figli in caso di crisi genitoriale delle linee guida al fine di garantire il benessere dei minori. In particolare al par. 1.3 lettera c) prevede che “l’individuazione delle aree disfunzionali, siano esse di natura relazionale (conflitti genitori e figli), oppure di origine individuale (psicopatologie, alcolismo, tossicodipendenza, criminalità), e dei possibili riverberi negativi sullo sviluppo psico-fisico dei figli, tenendo presente che così come la salute materiale di per sé non coincide con l’adeguatezza genitoriale, allo stesso modo disturbi psicologici o di altri problemi di natura psico-sociale non necessariamente compromette la competenza genitoriale”.

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aveva parzialmente riformato il decreto del Tribunale per i minorenni di Roma, mantenendo l’affidamento del minore al servizio sociale, ma collocandolo in casa famiglia in forma residenziale e non solo diurna – fosse fondata su un “pre-giudizio” verso la figura materna, piuttosto che su un giudizio elaborato a seguito delle risultanze probatorie, difettando, peraltro, di un approfondimento adeguato delle verosimili problematiche di personalità39. La Corte, cassando con rinvio la decisione della Corte d’Appello di Venezia, riconosce, infatti, come già nella requisitoria della Procura generale della Corte di Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma, che l’ingresso di concetti stigmatizzanti ed evanescenti, privi di qualunque validità scientifica, come quello della madre malevola o della sindrome di alienazione parentale, comportano “un implausibile sillogismo la cui premessa principale è costituita da un ingiustificato severo stigma di comportamenti della madre fondato su un mero postulato”. Secondo la Suprema Corte, dunque, la decisione della Corte d’Appello costituisce “espressione di una inammissibile valutazione di tataertyp”40, incompatibile con un ordinamento democratico, configurando “a carico della ricorrente, nei rapporti con la figlia minore, una sorta di colpa d’autore connessa alla postulata sindrome”, ovvero condurrebbe a sanzionare non più l’illecito in sé ma “l’autore per quello che è, e non per quello che fa”, omettendo ogni ricerca di “dati di fatto concreti ed oggettivi”. Tornando all’ordinanza in commento, i giudici di legittimità hanno sottolineato che i fatti ascritti alla ricorrente non presentano una gravità tale da dimostrare “irrecuperabili

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Requisitoria consultabile in https://www.procuracassazione.it/procuragenerale-resources/resources /cms/documents/RG_36260-2019, in cui la Procura di Roma asserisce che nel decreto oggetto di giudizio sono unicamente evocati concetti evanescenti, come l’eccessivo invischiamento, il rapporto fusionale, rispetto ai quali è impossibile difendersi non avendo essi base oggettiva o scientifica, essendo il risultato di una valutazione meramente soggettiva. La Corte territoriale imputa alla madre aprioristicamente di aver indotto al convincimento che l’interazione con un genitore dovesse determinare l’esclusione dell’altro e del di lui ramo familiare. Il giudice di merito avrebbe completamente trascurato che il procedimento di fronte al Tribunale per i minorenni si è aperto su ricorso del pubblico ministero minorile ex artt. 330 ss., c.c., che aveva chiesto in via urgente un provvedimento limitativo della responsabilità genitoriale del padre su segnalazione del locale Comando dei Carabinieri. Infatti, dall’annotazione di servizio citata in ricorso e allegata ai fini dell’autosufficienza, emergeva che vi fossero due procedimenti penali pendenti a carico del padre presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma per violenze agite sul figlio. Sul punto, la Procura fa menzione alla mancata considerazione delle risultanze dei procedimenti penali connessi, in violazione dell’art. 31 Convenzione di Istanbul - norma vincolante per il legislatore nazionale -, che impone di adottare misure legislative volte a far sì che, nelle decisioni relative ai diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza e che impone di garantire che l’esercizio dei diritti di visita e di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima e dei bambini. 40 Già M. Pingitore, nodi e snodi nell’alienazione parentale, cit., 92, asserisce che l’interesse dell’ambito giudiziario nei casi di separazione e affidamento, non dovrebbe essere quello di comprenderne le cause psicologiche di un determinato comportamento. Ad esempio se un genitore ha favorito nel figlio la convinzione di voler modificare il proprio cognome, l’interesse della CTU e del Tribunale « non deve essere quello di ricercare la motivazione che ha spinto il genitore ad agire in quel modo (“perché lo ha fatto?) ma deve valutarne il comportamento (“che cosa ha fatto?”) nonché le ricadute sul figlio (“quali sono le conseguenze sul figlio e sui suoi diritti”)». Nel testo inoltre evidenzia come il rischio di insistere sulla personalità dei genitori è il medesimo di quello previsto nei casi di perizia per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche, di cui, il cui divieto è sancito dall’art. 220 comma 2 c.p.p. Infatti, così come si teme che si accerti la responsabilità del reato dell’imputato non sulla base della prova dei fatti, ma semplicemente attraverso le sue caratteristiche psichiche; così, anche per la determinazione dell’idoneità genitoriale, si rischia che il giudice valuti la personalità del genitore sulla base della sole caratteristiche psichiche e non sulle risultanze peritali che accertino o meno, l’esistenza di cura, educazione, assistenza morale e materiale della prole.

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carenze d’espressione delle capacità genitoriali” e da legittimare il provvedimento di super affido. La valutazione del giudice deve quindi essere ampia e considerare ogni aspetto, anche la possibilità di intraprendere un percorso di recupero delle capacità genitoriali della donna e deve valorizzare il rapporto positivo di accudimento della madre verso la figlia, pertanto non è corretto attribuire rilevanza ai limiti caratteriali della madre quando la stessa non ha dimostrato trascuratezza o incuria verso la figlia. In ultima istanza, il giudice non può “adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare” ma, al contrario, adottare soluzioni che preservino tanto il best interest of the child, quanto il diritto alla bigenitorialità.

4. Contenuto, limiti e profili procedurali dell’ascolto del minore.

Nell’ordinanza in commento la ricorrente con il quarto motivo denunzia la violazione degli artt. 3, 6, 12, 16, 19 della Convenzione Internazionale di New York sui diritti del fanciullo, e degli artt. 3-6 della Convenzione Europea di Strasburgo nonché dell’art. 337 octies c.c., sull’ascolto del minore e dell’art. 8 CEDU. In particolare, la madre si duole del fatto che il decreto impugnato abbia leso l’interesse della minore in quanto solo circostanze eccezionali potrebbero determinare la rottura del legame familiare e giustificare il mancato ascolto del minore. In base all’art. 2, co. 1, l. n. 219 del 2012, contenente la delega al Governo per la revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione – che alla lett. i) impone di disciplinare le modalità di esercizio del diritto all’ascolto del minore che abbia adeguata capacità di discernimento –, la nostra disciplina si è uniformata alla normativa internazionale ed europea, prevedendo all’art. 315-bis, co. 3 c.c., che il figlio dodicenne, e anche di età inferiore se capace di discernimento41, ha il diritto all’ascolto in tutte le “questioni” e le “procedure” che lo riguardano, così da assumere portata generale, al contrario del precedente art. 155-sexies c.c., che lo circoscriveva al solo caso dell’affidamento nella fase patologica del rapporto genitoriale42. Va, dunque, ricordato che è proprio l’art. 315-bis c.c., interpretato

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Sulla capacità di discernimento del minore vedi, inter multis, P. Stanzione, Capacità e minore età nella problematica della personalità umana, Napoli, 1975 374 ss.; F. Giardina, “Morte” della potestà e “capacità” del figlio, in Riv. dir. civ., 2016, p. 1615 ss., F. Scaglione, Ascolto, capacità e legittimazione del minore, in Diritto di Famiglia e delle Persone, 1, 2014, cit.,426 ss., G. Ballarani, La capacità autodeterminativa del c.d “grande minore”, in L’interesse del minore tra bioetica e diritto, Roma, 2010, in particolare 179 ss., L. Lenti, Note critiche in tema di interesse del minore, in Riv. dir. civ., I, 2016, 109 ss. 42 La portata generale è confermata dal fatto che l’art. 315-bis è collocato tra le norme di apertura del titolo IX del libro I del Codice civile sulla potestà dei genitori e sui diritti e doveri del figlio: in questi termini, il disposto, ponendosi a garanzia del superiore interesse del minore in ogni relazione familiare, si ritiene applicabile a prescindere dalla fase fisiologica o patologica del rapporto genitoriale. Vedi

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attraverso il filtro del principio personalistico, a consentire una lettura del modello relazionale tra genitori e figli improntato sulla pariteticità, valorizzando la figura del minore come soggetto del diritto e “referente primo, in senso partecipativo, alle scelte genitoriali, dando rilievo esplicito alla volontà del minore”43. Pertanto, come univocamente riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, l’ascolto non può essere qualificato come mero atto d’indagine ma va inteso come strumento volto a raccogliere “le opinioni, le valutazioni ed esigenze rappresentate dal minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto”44, al fine di facilitare tutelare lo stile di vita assunto anteriormente la disgregazione della realtà familiare e garantire il più possibile il mantenimento di un rapporto con entrambe le figure genitoriali. Il fatto che il diritto del minore ad essere ascoltato sia annoverabile tra le situazioni giuridiche a contenuto esistenziale consente di escludere la scindibilità della titolarità dall’esercizio delle facoltà ad esso riconnesse45, benché non ne comporti l’annessa facoltà di farli valere in giudizio di persona46. In altre parole, è riconosciuta la facoltà di parteci-

anche M.A. Lupoi, La riforma della filiazione. Aspetti processuali, in La nuova disciplina della filiazione, Santarcangelo di Romagna, 2015, 238, in cui si segnala che l’uso di una differente terminologia (id est passando dall’audizione all’ascolto del minore) il legislatore ha voluto evidenziare come l’ascolto costituisce una fase cruciale per la comprensione dei bisogni e dei desideri del minore. 43 Cfr. G. Ballarani, La responsabilità genitoriale e l’autonomia del minore, in Trattato sulla famiglia: tra natura, diritto e nuove istanze, Milano, 2018, cit., 157. Sull’ascolto del minore v. anche G. Ballarani, Contenuto e limiti del diritto all’ascolto nel nuovo art.336-bis c.c.: il legislatore riconosce il diritto del minore a non essere ascoltato, in diritto di famiglia e delle persone, 2, 2014, 850 ss., Id., Il diritto del minore a non essere ascoltato, in diritto di famiglia e delle persone, 2010, 2, 1807 ss., M. R. Iannicelli, La crisi della coppia genitoriale e il “diritto” del figlio minore ad essere ascoltato in giudizio, in questa Rivista ,I, 2016, 87 ss. Vedi in giurisprudenza anche Trib. Varese, Sez. I, Dec. 24 gennaio 2013, in ilcaso.it, secondo cui rispetto ad un provvedimento d’affidamento del minore in caso di crisi genitoriale non può “essere trascurata la recente modifica introdotta dalla l. 10 dicembre 2012, n. 219 che ha inserito, nel codice civile, il nuovo art. 315-bis, co. 2, che “il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano”. A prima lettura, la norma potrebbe essere ricondotta tout court alla già esistente previsione di cui all’art. 155-sexies c.c., ma, in realtà, si tratta di una tipizzazione normativa che si differenzia dalla previsione legislativa appena citata: l’art. 155-sexies c.c. tratteggia il «dovere» del giudice di ascoltare il minore; l’art. 315-bis c.c. delinea il «diritto» del minore ad essere ascoltato dal giudice, così guardando al fanciullo non come semplice oggetto di protezione ma come vero e proprio soggetto di diritto, a cui va data voce nel momento conflittuale della crisi familiare”. 44 Vedi anche anteriormente alla riforma del 2012, Cass. civ., sez. I, sent. 26 marzo 2010 n. 7282, in Fam. dir., 2011, 268-280, con nota di L. Querzola, La Cassazione prosegue nel comporre il mosaico del processo minorile, in cui la S.C, facendo riferimento in particolare alla convenzione di Strasburgo, considera l’ascolto funzionale alla acquisizione delle opinioni e delle esigenze del minore in ordine alla vicenda processuale che lo coinvolge direttamente o in via riflessa ed afferma che “conseguenza altrettanto rilevante della nuova concezione non più incentrata sul minore oggetto di tutela, ma sul minore soggetto titolare di diritti soggettivi perfetti, autonomi ed azionabili, è che la sua audizione (pur quando sia facoltativa), non può essere qualificata un atto di indagine, ovvero un accertamento su di esso, rientrante nella categoria di quelli rivolti a convincere il giudice in ordine alla sussistenza o meno di determinati fatti storici, bensì lo strumento diretto per raccogliere le opinioni nonché le valutazioni ed esigenze rappresentate dal minore in merito alla vicenda in cui è coinvolto; e nel contempo per consentire al giudice di percepire con immediatezza, attraverso la voce del minore e nella misura consentita dalla sua maturità psicofisica, le esigenze di tutela dei suoi primari interessi”. 45 F. Ruscello, La potestà dei genitori. Rapporti personali, in Comm. cod. civ. Schlesinger-Busnelli, 2, Milano, 2006, 48, secondo il quale “deve, però, essere indubbio che, specialmente con riferimento alle situazioni di natura personale, riconoscere la titolarità di una libertà senza ammetterne l’esercizio significa disconoscere l’esistenza di quella stessa libertà”. 46 Deve essere riconosciuta capacità processuale in tutte le questioni che lo riguardano, intesa nel senso di capacità di essere parte nel processo secondo l’art. 75 c.p.c., che non va confusa con la capacità di stare in giudizio in senso processuale, cioè di promuovere il processo o di difendersi in esso e di compiere validamente atti processuali. Sul punto vedi Cass. sez. un., 6 ottobre 2009, n. 22238, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 307 ss., con nota di J. Long, Ascolto dei figli contesi e individuazione della giurisdizione nel caso di trasferimento all’estero dei figli da parte del genitore affidatario, in cui la S.C., avverso un decreto che aveva affidato i figli minori al

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pare attivamente alle decisioni sull’esercizio dei propri diritti fondamentali insieme con gli adulti che hanno una responsabilità nei suoi confronti, facendo valere il proprio punto di vista, cui viene attribuito un peso crescente, in proporzione all’età e al grado di maturità raggiunti, non potendolo più qualificare tale attività come mero atto istruttorio47. In virtù di tale “partecipazione”, l’ascolto – come disciplinato dall’art. 336-bis c.c. – è condizione di procedibilità del giudizio48 e può essere omesso dal giudice soltanto quando risulti “in contrasto con l’interesse del minore” o “manifestamente superfluo”. Il diritto ad essere ascoltato del minore, dunque, costituisce la manifestazione estrinseca della necessità che la voluntas del figlio divenga “così centro e ragione della famiglia, fino a costituire elemento determinante per la stessa esistenza di una comunità familiare”49. Tuttavia, nonostante il giudice non sia vincolato da quanto dichiarato in sede d’ascol50 to ; non può completamente ignorare la volontà espressa dal minore in quanto costituisce comunque l’elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse51; perciò, ogni qualvolta decide di omettere l’ascolto, tanto nelle ipotesi appena menzionate, quanto

padre in un procedimento di sottrazione dei minori, senza averli preventivamente ascoltati, chiarisce la questione della sua posizione nei procedimenti che lo riguardano: “i minori, che non possono considerarsi parti del procedimento[…] sono stati ritenuti portatori d’interessi contrapposti o diversi da quelli dei genitori […] per tale motivo qualificati come parti in senso sostanziale. I provvedimenti in materia matrimoniale incidono pesantemente nella sfera giuridica del minore, in virtù della qualificazione di quel diritto relazionale a crescere ed essere educati da entrambi i genitori. 47 App. Catania, sent. 12 dicembre 2013, in ilcaso.it, in cui rispetto ad un provvedimento d’assegnazione della casa familiare, ribadisce che l’audizione del minore non è un atto istruttorio: “il minore non viene sentito quale testimone, ma come portatore di un proprio interesse e, in quanto tale, ammesso ad esercitare in prima persona il diritto di esprimersi, nella misura in cui la sua età ed il suo grado di maturità lo consentono”. Tuttavia come precisato supra, Cass. civ., Sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919, in questa Rivista, con nota di M. Carai, cit., ha previsto che “il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia (incluso l’ascolto del minore) e le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia”. 48 Cass. civ., Sez. I, 15 maggio 2013, n. 11687, in Dir. fam. e pers., 2013, 1340 ss., con nota di G. Savi, Procedimenti familiari, mancato ascolto rituale del minore e nullità della sentenza, in cui si riconosce che la mancata ottemperanza del dovere di ascolto da parte del giudice segue, in linea generale, l’invalidità dell’intero iter processuale. 49 M. Paradiso, La comunità familiare, Milano, 1984, cit., 211, secondo cui non è più l’interesse della famiglia come individuato dai coniugi a condizionare i figli ma l’esatto contrario. Vedi anche A. Trabucchi, Il “vero” interesse del minore e i diritti di chi ha l’obbligo di educare, in Riv. dir. civ., 1988, 738 ss., il quale precisa che tutte le posizioni giuridiche di cui sono titolari i genitori attive o passive che siano, trovano ragione le une nelle altre e tutte nel superiore interesse del minore. 50 L’istituto dell’ascolto “riflette […] una nuova considerazione del minore quale portatore di bisogni e interessi che, se consapevolmente espressi, pur non vincolando il giudice, non possono essere da lui ignorati; e che lo obbligano comunque anzitutto ad ascoltarlo nella misura consentita dalla capacità di autodeterminarsi […] e quindi a tener conto della sua volontà e delle sue scelte nei limiti della sua capacità di discernimento e dello sviluppo della sua personalità dimostrati anche durante l’ascolto”, così in Cass. civ., Sez. I, 26 marzo 2010, n. 7282, in tribmin.reggiocalabria.giustizia.it; cfr. anche Cass. civ., sez. I ,10 giugno 2011, n. 12739, in Fam. e dir., 2012, 37 ss., con nota di F. Tommaseo, Per una giustizia «a misura del minore»: la Cassazione ancora sull’ascolto del minore; Cass. civ., sez. I, 21 novembre 2014, n. 24863, in Fam. dir., 2015, 54 ss., in particolare però Cass., sez. I, 24 maggio 2018, n.12957, in Foro it., 2018, 1, 2364, specifica che “può disattendere le dichiarazioni di volontà che emergono dall’ascolto, ma alla stregua di una motivazione rigorosa e pertinente, che ne evidenzi la contrarietà all’interesse del minore, in quanto resta centrale la valorizzazione sostanziale del suo punto di vista, ai fini della decisione che lo concerne”. 51 Cfr. Cass. civ., Sez. I, Ord. 07 maggio 2019, n. 12018, , in CED Cassazione, 2019, secondo cui “l’ascolto del minore di almeno dodici anni, e anche di età minore ove capace di discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse”.

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in quelle in cui esclude il presupposto della capacità di discernimento, deve “darne atto con provvedimento motivato”, pena la nullità assoluta della decisione stessa52. In definitiva, “l’ascolto è una relazione tendenzialmente diretta fra il giudice e il minore che dà spazio, all’interno del processo, alla partecipazione attiva del minore al procedimento che lo riguarda” costituendo lo strumento diretto – diversamente dalla consulenza tecnica” che prende in considerazione una serie di fattori quali, in primo luogo, la personalità, la capacità di accudimento e di educazione dei genitori, la relazione in essere con il figlio”53 – a constatare se il rifiuto mostrato da parte del minore costituisca frutto di una innata avversione nei confronti del genitore alienato, ovvero l’indottrinamento posto in essere dal genitore alienante. Un rifiuto costante potrebbe costituire l’effetto di una sintomatica e perversa – anche inconsapevole – dinamica relazionale fra la prole ed il genitore alienante, la cui verifica impone al giudice di porre in essere misure di tutela nell’interesse dell’effettivo best interest of child54 non necessariamente radicali come quelle professate nella teoria di Gardner55, quanto, piuttosto, favorire l’utilizzo di strumenti attraverso figure specializzate56 di normalizzazione dei rapporti fra le figure genitoriali e la prole.

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La norma è chiara nel prevedere ed esigere che il provvedimento con cui il giudice omette l’ascolto debba essere adeguatamente motivato. Non mediante un generico e standardizzato rinvio alla manifesta superfluità o contrarietà dell’adempimento all’interesse del minore, bensì con riferimenti puntuali alla concreta situazione di fatto e ai motivi per cui l’ascolto potrebbe compromettere l’integrità psicologica del minore o essere eventualmente superfluo. In principio Cass., Sez. Un., 21 ottobre 2009 n. 22238, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 307 ss., cit., ritenuto non integrante una nullità rilevabile d’ufficio il vizio procedurale della mancata audizione del minore; successivamente la stessa Cass. civ., Sez. I, 31 marzo 2014, n. 7479, in Foro it., 2014, I, 1471, ammette che l’omissione immotivata dell’audizione è ritenuta causa di nullità assoluta rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, in quanto vizio insanabile. Più recente in giurisprudenza vedi Cass. sez. I, 17 aprile 2019, n.10776, in Quotidiano Giuridico, 2019; Cass. civ., Sez. I, sent. 1 aprile 2019 n. 13274, in Corr. giur., 2020, 2, 159 ss., con nota di G. Cassano-I. Grimaldi, op. cit., secondo cui “l’audizione del minore sia un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che lo riguardano e in particolare in quelle relative all’affidamento ai genitori, salvo che tale adempimento possa essere in contrasto con gli interessi del minore stesso, con la conseguenza che il mancato ascolto non sorretto da una espressa motivazione sulla contrarietà all’interesse del minore, sulla sua superfluità o sulla assenza di discernimento del soggetto interessato è fonte di nullità della sentenza, in quanto si traduce in una violazione dei principi del giusto processo e del contraddittorio”. 53 Vedi Cass., sez. I, 24 maggio 2018, n.12957, in Foro it., 2018, 7-8, 1, 2364. 54 Sul superiore interesse del minore vedi L. Lenti, Note critiche in tema di interesse del minore, in Riv. dir. civ., I, 2016, 105 ss.; Id.; “Best interests of child” o “best interests of children”?, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 157 ss.; M. Renna, Affidamento del minore, bigenitorialità ed alienazione parentale, in questa Rivista, 451, il quale offre una rilettura delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Secondo l’autore “piuttosto che assumere una posizione di favore o di chiusura nei riguardi della sindrome di alienazione parentale, la giurisprudenza convenzionale enfatizza l’effettività del best interest of the child e del diritto individuale inalienabile al rispetto della vita familiare”. 55 Sull’incoercibilità del diritto di visita del figlio si veda Cass. civ., Sez. I, ord. 6 marzo 2020, n. 6471, in Fam. e dir., 2020, 4, 332-345, con nota di B. Ficcarelli, Misure coercitive e diritto-dovere di visita del genitore non collocatario; in questa Rivista, con nota di R. Trezza, La non coercibilità dell’inadempimento del diritto- dovere di visita del figlio minore da parte del genitore non collocatario, in Famiglia e Diritto, 2020, 8-9, 792, con nota di E. Vullo, non coercibilità del diritto-dovere di visita del figlio minore spettante al genitore non collocatario; Cass. civ., Sez. I, ord. 23 aprile 2019, n. 11170, in ilcaso.it, in cui la S.C. ha stabilito che ove un figlio abbia dimostrato una chiara avversione ad avere un rapporto continuativo con un genitore non può, stante la natura incoercibile dei rapporti affettivi, essere obbligato da parte del giudice a frequentare quel genitore, che può tuttavia favorire, attraversi i servizi sociali, una normalizzazione dei rapporti padre-figlia. Sul punto vedi anche Cass. civ. Sez. I, 28 novembre 2018, n. 30826, in Quotidiano Giuridico, 2018, la quale ha confermato l’affidamento esclusivo di una minore alla madre con sospensione dei rapporti della minore con il padre alla luce del manifestato rifiuto da parte della medesima con la necessita attraverso i servizi sociali di attivare un intervento di supporto psicologico in favore della minore stessa al fine di elaborare il percorso di crescita ed “uno spazio di rielaborazione dei vissuti interiori rispetto alla figura paterna”. 56 C. Rimini, Sul disegno di Legge Pillon e sugli altri D.d.l. in materia di responsabilità genitoriale in discussione in Senato, in Fam. dir.,

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5. Conclusioni. L’indagine peritale e l’ascolto del minore57, d’ausilio all’attività valutativa dell’organo giudicante, devono quindi avere l’obiettivo primario di verificare la natura del rifiuto del fanciullo nei confronti d’un genitore, tenendo pur sempre conto del fatto che “la coercizione per il raggiungimento dell’obiettivo di mantenimento del legame familiare deve essere utilizzata con estrema prudenza e misura e deve tenere conto degli interessi, dei diritti e delle libertà delle persone coinvolte e in particolare dell’interesse superiore del minore”58. Tuttavia, nella prassi, i giudici limitandosi a cristallizzare il rifiuto posto in essere dalla prole senza analizzare le cause, danno sempre più spesso credito all’Alienazione Parentale acriticamente, limitandosi a recepire quanto statuito da convinzioni scientifiche non corroborate dalla scienza medico-psichiatrica uniforme, senza cercare conferma mediante una “propria” costatazione empirica che potrebbe derivare direttamente dall’ascolto del minore. Come evidenziato – se pur latentemente – nell’ordinanza in commento, una strabica disamina della singola dinamica familiare ed un’applicazione aprioristica di terapie coercitive e punitive potrebbe essere deleteria per una prole già vulnerabile a causa dalla disgregazione familiare59. D’altro canto, se è vero che il diritto della famiglia tende inevitabilmente a divenire sempre più il “diritto del minore nella famiglia” – in quanto “la prole rimane uno degli ultimi elementi di stabilità a partire dal quale il legislatore potrà ricostruire il diritto della famiglia”60 –, il nucleo essenziale della tendenza aspramente criti-

2019, 68 ss.; secondo cui appare opportuna l’introduzione nel nostro ordinamento della figura del “coordinatore genitoriale” con le funzioni indicate all’art. 5 del d.d.l. S/735. […] La quotidianità dello scontro e delle ragioni di lite, spesso assolutamente insignificanti singolarmente considerate, impedisce che il conflitto sia portato all’attenzione del giudice del procedimento in corso (sempre che un procedimento in corso vi sia). Per questo l’assunzione di un ruolo di gestione del conflitto e anche l’assunzione di minime funzioni decisionali in capo ad un terzo neutrale è assai utile”. Tuttavia, l’autore ritiene che “mentre la mediazione familiare […] deve rimanere facoltativa, è opportuno che la nomina del coordinatore genitoriale sia effettuata dal giudice anche senza il consenso delle parti in tutti i casi in cui il giudice ritenga opportuno attribuire ad un terzo neutrale il compito di gestire e risolvere la conflittualità quotidiana, che è spesso la causa dei più gravi disastri che si consumano sulla pelle dei minori”; Trib. Mantova sez. I, 5 maggio 2017, in questa Rivista, 2018, 355, con nota di Novello, Il coordinatore genitoriale: un nuovo istituto nel panorama giuridico italiano?, ricorre al coordinatore genitoriale con modalità fortemente limitative dell’autonomia privata. 57 C.M. Bianca, Il diritto del minore all’ascolto, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 529, secondo cui l’ascolto ha travalicato i confini del mero ambito giurisdizionale, per collocarsi più in generale nel contesto delle relazioni familiari, come modalità attraverso la quale si adempie l’obbligo di assistenza morale del figlio in un momento fondamentale del processo educativo volto all’estrinsecazione della personalità del minore. 58 C. Eur. Dir. Uomo, Santilli c. Italia, 17 dicembre 2013, ric. n. 51930/10, cit., par. 64 59 Sul punto vedi A. Astone, “L’autorità di diritto” dei genitori nel passaggio dalla patria potestà alla genitorialità responsabile, in P. Sirena-A. Zoppini (a cura di), I poteri privati e di diritto della regolamentazione. A quarant’anni da «Le autorità private» di C. M. Bianca, Roma, 2018, 120, secondo cui l’alienazione parentale rappresenterebbe la manifestazione estrinseca di “un uso distorto dell’ufficio del genitore, ancorata all’idea del figlio inteso come proprietà esclusiva, in contrasto con il principio della c.d. bigenitorialità”. Allo stesso modo M. Renna, Affidamento del minore, bigenitorialità ed alienazione parentale, cit., 439 ss., secondo cui l’errore è quello di ricondurre necessariamente il rifiuto del minore ad una condotta alienante del genitore collocatario, infatti, “il riconoscimento della sindrome di alienazione parentale ha sdoganato una tecnica di risoluzione dei conflitti tutt’altro che neutrale, ovvero quella dell’inversione della domiciliazione del minore”. 60 P. Malaurie-L. Aynes, La famille, a cura di P. Malaurie-H. Fulchron, Paris, 2014, cit., 382, in cui si riconosce che con l’avvento di una

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cata dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento, si esprime in una ricostruzione più apparente che reale dell’“oggetto” della tutela, in quanto sembra essersi interessata a riproporre modelli di idoneità genitoriali stereotipati piuttosto che garantire in concreto il diritto del figlio a mantenere identici rapporti con i genitori e con i parenti dei relativi rami anche quando questi non convivano. Tale eterogenesi dei fini, appare ancor più chiara se mutuiamo quanto oggetto di riflessione in ambito penale61. La linea “politico-repressiva” – frutto di una tecnica legislativa ancora eccessivamente approssimativa che abdica al suo ruolo di formalizzazione di scelte politiche concrete che tengano conto della problematicità della crisi familiare, a vantaggio di una produzione normativa frutto dell’interpretazione creativa ad opera del formante giurisdizionale62 – seguita da parte della Corte d’Appello di Venezia e condivisa da larga parte della giurisprudenza di merito, è quella di prevenire “incastri psicologici” a danno della prole assecondando «una sorta di fobia diffusa ancorata, unicamente, ad un meccanismo tautologico della paura – essenzialmente, orientata a parificare il “diverso” al “nemico”»63. È allora proprio in una simile ottica di creazione di un diritto delle famiglie in crisi modellato su di un tätertyp e caratterizzato dalla dissacrazione dei più alti principi di cui all’art. 337-ter c.c., nonché da una sensibile flessione delle esigenze concrete del figlio in luogo di una maggiore attenzione all’idoneità del genitore deviato, si accompagna la predisposizione di una tutela in chiave non solo preventiva, ma soprattutto simbolicoespressiva della prole, che talora rischia paradossalmente di risultare ineffettiva e persino deleteria. In altre parole, l’anticipazione della rimproverabilità sulla base del mero pericolo presunto (c.d. Vorfeldkriminalisierung)64 che le psicopatologie cui è affetto un genitore

pluralità di modelli familiari, “in tempi ove le famiglie sono fragili, le coppie instabili e i minori sballottati da una famiglia all’altra. Il minore, come detto, rimane uno degli ultimi elementi di stabilità a partire dal quale il legislatore potrà ricostruire il diritto della famiglia”. 61 Per opportuni approfondimenti sul diritto penale d’autore si veda M. Donini, Il diritto penale di fronte al nemico, in Cass. pen., Politiche criminali e penali, doc. 207, n. 2/2006, 694-735; M. Donini-M. Papa (a cura di), Diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, in Quaderni di diritto penale comparato internazionale ed europeo diritto penale e comparato, 4, Milano, 2007; L. Ferrajoli, Il diritto penale del nemico e la dissoluzione del diritto penale, in Questione Giustizia, 2006, 797. 62 Sul punto, ex multis, F. Viola – G. Zaccaria, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, XIII, Roma- Bari, 2018; G. Zaccaria, La giurisprudenza come fonte del diritto. Un’evoluzione storica e teorica, Napoli, 2007; V. Velluzzi, La distinzione tra analogia giuridica ed interpretazione estensiva, in M. Manzin-P. Sommaggio (a cura di), Interpretazione giuridica e retorica forense. Il problema della vaghezza del linguaggio nella ricerca della verità processuale, Milano, 2006, 133 ss. 63 E. Lo Monte, Politiche neo-liberiste e questione criminale nella post-modernità (dall’atrofia dello Stato sociale di diritto all’ipertrofia dello Stato penale), in Riv. trim. dir. pen. ec., 2010, cit., 764: «La retorica qualunquista, associata ad immagini di miseria, violenza, degrado, reitera il concetto della criminalità – in particolare alcune forme di criminalità – come “problema”, come “piaga” e, ancor di più, come “minaccia”»; «In una sorta di fobia diffusa ancorata, unicamente, ad un meccanismo tautologico della paura – essenzialmente, orientata a parificare il “diverso” al “nemico” – il legislatore ribadisce una sequela di misure punitive, assistite, a volte, da un regime sanzionatorio che in “qualità e quantità” va ben oltre la “qualità e quantità del delitto”, a volte intrise di simbolismo repressivo. L’effetto è quello di indirizzare la “voglia di forca” dell’opinione pubblica verso specifiche categorie di soggetti, facendo passare sotto silenzio “altri” comportamenti criminosi, certamente di più rilevante pericolosità». 64 C.E. Paliero, Consenso sociale e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, cit., 886- 888, in cui l’A. osserva che «rispetto al nucleo più classico della tutela penale (quello che riguarda i beni più strettamente individuati) in momenti di forte conflittualità o di transizione sociale è facile l’emersione di un iperconsenso, anche spontaneo, che punta verso opzioni draconiane sul terreno sanzionatorio, e

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Giurisprudenza

possano condizionare la frequentazione fra la prole ed il genitore alienato, rende eccessivamente distante ogni tipizzazione generale ed astratta dall’esigenza concreta di tutela dell’integrità psichica della prole, rischiando di punire con “pene” di particolare gravità – come quella dell’affidamento super-esclusivo – condotte al più sintomatiche di una mera rimproverabilità morale, di un vicious behaviour, ma comunque del tutto inoffensive rispetto all’integrità delle relazioni intrafamiliari. Donato Maiorino

all’ipertutela del bene giuridico anche con forti anticipazioni della punibilità al “campo antistante” (c.d. Vorfeldkriminaliserung). Tale iperconsenso mette a dura prova i meccanismi di razionalizzazione dell’apparato legislativo: benché si tratti di ipotesi in cui la fonte di legittimazione ha massima portata, l’errore più grande sarebbe quello di delegare in qualche misura le scelte al consulto popolare, da cui potrebbe derivare in questo caso solo indicazioni forcaiole e criminologiche».

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Giurisprudenza Cass. civ., sez. III, 8 febbraio 2021, n. 2904; Spirito Presidente – Scarano Relatore Fondo

patrimoniale

– Bisogni

della famiglia

Il debitore che contesti il diritto del creditore di agire esecutivamente sui beni costituiti in fondo patrimoniale deve dimostrare, anche a mezzo di presunzioni semplici, che il medesimo creditore era consapevole, al momento del perfezionamento dell’atto dal quale deriva l’obbligazione, che questa era contratta per scopi estranei ai bisogni della famiglia ancorché intesi in senso lato ovvero volti non soltanto al soddisfacimento delle necessità cd. essenziali o indispensabili della famiglia ma anche ad esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della medesima, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa ed al miglioramento del suo benessere economico, restando escluse ragioni voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi. In relazione ai debiti assunti nell’esercizio dell’attività d’impresa o a quella professionale, essi non assolvono di norma a tali bisogni, ma può essere fornita la prova che siano eccezionalmente destinati a soddisfarli in via diretta ed immediata, avuto riguardo alle specificità del caso concreto.

(Omissis) Svolgimento

Si duole che la corte di merito abbia attribuito del processo

alla notifica della cessione del credito al debito-

Con sentenza del 14/2/2017 la Corte d’Appel-

re ceduto “un ruolo del tutto residuale” nonchè

lo di Ancona ha respinto i gravami interposti dal

tralasciato di considerare l’ulteriore eccezione

sig. P.G. – in via principale – e dalla sig. Pu.Vi.

concernente la sua “omessa accettazione della

– in via incidentale – in relazione alla pronun-

cessione del contratto”.

zia Trib. Pesaro 1/6/2012, di rigetto dell’opposi-

Il motivo è inammissibile.

zione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., proposta

Esso risulta formulato in violazione dell’art.

nell’ambito della procedura esecutiva promossa

366 c.p.c., comma 1, n. 6, atteso che il ricorrente

dalla Banca d. M. s.p.a. avente ad oggetto il com-

fa riferimento ad atti e documenti del giudizio

pendio immobiliare costituito da appartamento

di merito (in particolare, alla cessione del con-

sito in (OMISSIS) e dal relativo garage, stante la

tratto”) limitandosi a meramente richiamarli, sen-

ravvisata inopponibilità alla creditrice procedente

za invero debitamente (per la parte strettamente

del relativo conferimento in fondo patrimoniale,

d’interesse in questa sede) riprodurli nel ricorso

e comunque l’inefficacia ex art. 2901 c.c..

né fornire puntuali indicazioni necessarie ai fi-

Avverso la suindicata pronunzia della corte di

ni della relativa individuazione con riferimento

merito il P. propone ora ricorso per cassazione,

alla sequenza dello svolgimento del processo

affidato a tre motivi.

inerente alla documentazione, come pervenuta

Resiste con controricorso la Banca A. s.p.a.

presso la Corte Suprema di Cassazione, al fine di

(già Banca d. M. s.p.a., già N. Banca d. M. s.p.a.).

renderne possibile l’esame (v., da ultimo, Cass.,

Gli altri intimati non hanno svolto attività di-

16/3/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o

fensiva.

in quello di parte, e se essi siano stati rispettivaMotivi

della decisione

mente acquisiti o prodotti (anche) in sede di giu-

Con il 1^ motivo il ricorrente denunzia “vio-

dizio di legittimità (v. Cass., 23/3/2010, n. 6937;

lazione e falsa applicazione” dell’art. 1407 c.c., in

Cass., 12/6/2008. n. 15808: Cass., 25/5/2007, n.

riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3.

12239, e, da ultimo, Cass., 6/11/2012, n. 19157),

891


Giurisprudenza

la mancanza anche di una sola di tali indicazio-

l’automatismo voluto dalla Corte dorica”, avendo

ni rendendo il ricorso inammissibile (v. Cass.,

la corte di merito erroneamente tratto tale con-

Sez. Un., 27/12/2019, n. 34469; Cass., Sez. Un.,

clusione in via presuntiva laddove nella specie

19/4/2016, n. 7701).

trattasi di mera fideiussione “improvvidamente

A tale stregua non deduce le formulate censu-

prestata ad un amico”.

re in modo da renderle chiare ed intellegibili in

Si duole non essere stata “in alcun modo for-

base alla lettura del ricorso, non ponendo que-

nita la prova che il fatto generatore dell’obbliga-

sta Corte nella condizione di adempiere al pro-

zione, contratta... rilasciando una fideiussione, si

prio compito istituzionale di verificare il relativo

dovesse rinvenire nello scopo di soddisfare i bi-

fondamento (v. Cass., 18/4/2006, n. 8932; Cass.

sogni della famiglia”, e che per converso l’”attenta

20/1/2006, n. 1108; Cass., 8/11/2005, n. 21659;

verifica... delle pretese creditorie azionate in via

Cass., 2/81/2005, n. 16132; Cass., 25/2/2004.

monitoria dalla Banca d. M. s.p.a. ... chiarisce

n. 3803; Cass., 28/10/2002, n. 15177; Cass.,

inequivocabilmente che la creditrice procedente

12/5/1998 n. 4777) sulla base delle deduzioni

non poteva ignorare, e non lo può tuttora, che

contenute nel medesimo, alle cui lacune non è

il debito contratto dal P. in forza della garanzia

possibile sopperire con indagini integrative (v.

fideiussoria prestata a favore della società R. M.

Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n.

s.r.l., non poteva avere nulla a che vedere, nep-

12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).

pure ipoteticamente, con i bisogni della famiglia

Non sono infatti sufficienti affermazioni - co-

dell’istante, con le esigenze di pieno manteni-

me nel caso - apodittiche, non seguite da alcuna

mento della stessa e con le necessità dell’armoni-

dimostrazione (v. Cass., 21/8/1997, n. 7851).

co sviluppo della famiglia”.

L’accertamento in fatto e la decisione dalla

Lamenta essersi nell’impugnata sentenza dalla

corte di merito adottata e nell’impugnata deci-

corte di merito ravvisata la pignorabilità del bene

sione rimangono pertanto dall’odierno ricorrente

“in totale spregio delle risultanze probatorie ac-

non idoneamente censurati.

quisite”, e “sulla scorta di sole presunzioni”.

Con il 2^ motivo il ricorrente denunzia “vio-

Con il 3^ motivo denunzia “violazione e falsa

lazione e falsa applicazione” dell’art. 170 c.c., in

applicazione” degli artt. 115,116 c.p.c., in riferi-

riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3.

mento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole che, nel ribadire che “l’onere proba-

Si duole che la corte di merito abbia ritenu-

torio è in capo al debitore che invochi l’applica-

to inammissibili le formulate richieste istruttorie

bilità dell’art. 170 c.c., il quale deve dimostrare

erroneamente ritenendole non espressamente ri-

che il debito sorto è estraneo ai bisogni della

proposte in sede di gravame, laddove l’”esame

famiglia e che il creditore è consapevole di tale

degli atti del giudizio di secondo grado consente

estraneità”, la corte di merito abbia nella specie

di avere la prova che le istanze istruttorie sono

ravvisato la pignorabilità dei beni in virtù dell’es-

state riproposte”, e “i capitoli di prova formulati...

sere stato il debito contratto per il soddisfacimen-

erano finalizzati... a dimostrare la consapevolezza

to dei bisogni della famiglia.

della Banca d. M. di agire illegittimamente in via

Lamenta che “non tutti i debiti che sorgono

esecutiva su di un bene impignorabile”.

in capo al pater familias che abbia una parte-

I motivi, che possono congiuntamente esami-

cipazione sociale, automaticamente hanno una

narsi in quanto connessi, sono p.q.r. fondati e

matrice “familiare” e certamente il fatto che...

vanno accolti nei termini e limiti di seguito in-

fosse socio della R. M. s.r.l. non può conferire

dicati.

892


Francesco Merola

Il fondo patrimoniale indica la costituzione su determinati beni (immobili o mobili registrati o titoli di credito) da parte di uno o di entrambi i coniugi (o anche di un terzo), con convenzione matrimoniale assoggettata ad oneri formali (art. 167 c.c., comma 1) e pubblicitari (art. 162 c.c., comma 4 e d.P.R. n. 396 del 2000, art. 69), (v. Cass., 8/10/2008, n. 24798; Cass., 10/7/2008, n. 18870; Cass., 5/4/2007, n. 8610; Cass., 15/3/2006, n. 5684; Cass., 1/10/1999, n. 10859. Cfr. altresì Cass., 27/11/2012, n. 20995), di un vincolo di destinazione (art. 169 c.c.) al soddisfacimento dei bisogni della famiglia (art. 170 c.c.). Indica altresì il relativo regime di cogestione da parte dei coniugi (artt. 167 c.c. e segg.). Il vincolo di destinazione impresso ai beni comporta che essi non siano aggredibili per debiti che i creditori conoscevano essere stati contratti per bisogni estranei alla famiglia (art. 170 c.c.). A tale stregua, il detto vincolo limita l’aggredibilità dei beni conferiti solamente alla ricorrenza di determinate condizioni (art. 170 c.c.), rendendo più incerta o difficile la soddisfazione del credito, conseguentemente riducendo la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti in violazione dell’art. 2740 c.c., che impone al debitore di rispondere con tutti i suoi beni dell’adempimento delle obbligazioni, a prescindere dalla relativa fonte (v. Cass., 7/10/2008, n. 24757; Cass., 7/1/2007, n. 966; Cass., 15/3/2006, n. 5684; Cass., 7/3/2005. n. 4993; Cass., 2/8/2002, n. 11537; Cass., 21/5/1997, n. 4524; Cass., 2/9/1996, n. 8013; Cass., 18/3/1994, n. 2604). Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la costituzione del fondo patrimoniale può essere dichiarata inefficace nei confronti dei creditori a mezzo di azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. (v. Cass., 7/10/2008, n. 24757; Cass., 7/1/2007, n. 966; Cass., 7/3/2005, n. 4933; Cass., 2/8/2002, n. 11537: Cass., 21/5/1997, n. 4524; Cass., 2/9/1996, n. 8013; Cass., 18/3/1994, n. 2604), mezzo di tutela del creditore rispetto

agli atti del debitore di disposizione del proprio patrimonio, poichè con l’azione revocatoria ordinaria viene rimossa, a vantaggio dei creditori, la limitazione alle azioni esecutive che l’art. 170 c.c., circoscrive ai debiti contratti per i bisogni della famiglia (v. Cass., 7/7/2007, n. 15310), sempre che ricorrano le condizioni di cui all’art. 2901 c.c., comma 1, n. 1 (v. Cass., 17/6/1999, n. 6017, e, conformemente, Cass., 7/10/2008, n. 24757), senza alcun discrimine circa lo scopo ulteriore da quest’ultimo avuto di mira nel compimento dell’atto dispositivo (a tale stregua considerandosi soggetti all’azione revocatoria anche gli “atti aventi un profondo valore etico e morale”, come ad es. il trasferimento della proprietà di un bene effettuato a seguito della separazione personale per adempiere al proprio obbligo di mantenimento nei confronti dei figli e del coniuge, in favore di quest’ultimo: in tali termini v. Cass., 26/7/2005, n. 15603), per la sussistenza del consilium fraudis essendo in particolare sufficiente, nel caso in cui la costituzione sia avvenuta anteriormente al sorgere del debito, la consapevolezza da parte dei debitori del pregiudizio che mediante l’atto di disposizione venga in concreto arrecato alle ragioni del creditore (v. Cass., 23/9/2004, n. 19131). Atteso che l’art. 170 c.c., disciplina l’efficacia sui beni del fondo patrimoniale di titoli che possono giustificare l’esecuzione su di essi (v. Cass., 5/3/2013, n. 5385), il criterio identificativo dei crediti il cui soddisfacimento può essere realizzato in via esecutiva sui beni conferiti nel fondo patrimoniale va ricercato non già nella natura – “ex contractu” o “ex delicto” - delle obbligazioni (v. Cass., 26/7/2005, n. 15603; Cass., 18/7/2003. n. 11230), ma nella relazione esistente tra gli scopi per cui i debiti sono stati contratti ed i bisogni della famiglia, con la conseguenza che l’esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso può avere luogo qualora la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia (v. Cass.,

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Giurisprudenza

8/7/2003, n. 11230: Cass., 31/5/2006. n. 12998. E,

obbligazioni assunte nell’esercizio dell’attività

conformemente, da ultimo, Cass., 19/6/2018, n.

d’impresa o professionale abbiano uno scopo

16176, Cfr. altresì Cass., 7/7/2009, n. 15862).

normalmente estraneo ai bisogni della famiglia

A tale stregua, delle obbligazioni assunte, an-

(cfr. Cass., 31/5/2006, n. 12998, ove si è sottoline-

che anteriormente alla costituzione del fondo (v.

ato come la finalità di sopperire ai bisogni della

Cass., 9/4/1996, n. 3251), per bisogni estranei alla

famiglia non può dirsi sussistente per il solo fatto

famiglia, i beni vincolati in fondo patrimoniale

che il debito sia sorto nell’esercizio dell’impresa).

non rispondono.

È pertanto necessario l’accertamento da parte

Si è da questa Corte posto d’altro canto in

del giudice di merito della relazione sussisten-

rilievo che i bisogni della famiglia sono da in-

te tra il fatto generatore del debito e i bisogni

tendersi non in senso restrittivo, come riferentesi

della famiglia in senso ampio intesi (v. Cass.,

cioè alla necessità di soddisfare l’indispensabile

24/2/2015, n. 3738), avuto riguardo alle specifi-

per l’esistenza della famiglia, bensì (analogamen-

che circostanze del caso concreto.

te a quanto, prima della riforma di cui alla ri-

Va al riguardo per altro verso sottolineato che

chiamata L. n. 151 del 1975, avveniva per i frutti

il vincolo di inespropriabilità ex art. 170 c.c., de-

dei beni dotali) nel senso di ricomprendere in

ve essere contemperato con l’esigenza di tutela

detti bisogni anche quelle esigenze volte al pieno

dell’affidamento dei creditori.

mantenimento ed all’armonico sviluppo della fa-

Atteso che la prova dei presupposti di applica-

miglia, nonchè al potenziamento della sua capa-

bilità dell’art. 170 c.c., grava su chi intenda avva-

cità lavorativa, restando escluse solo le esigenze

lersi del regime di impignorabilità dei beni costi-

voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente

tuiti in fondo patrimoniale, ove come nella specie

speculativi (v. Cass., 7/1/1984, n. 134).

venga proposta opposizione ex art. 615 c.p.c., per

In altri termini, i bisogni della famiglia debbo-

contestare il diritto del creditore di agire esecutiva-

no essere intesi in senso lato, non limitatamente

mente il debitore opponente deve dimostrare non

cioè alle necessità c.d. essenziali o indispensabili

soltanto la regolare costituzione del fondo e la sua

della famiglia ma avendo più ampiamente riguar-

opponibilità al creditore procedente ma anche

do a quanto necessario e funzionale allo svolgi-

che il suo debito verso quest’ultimo è stato con-

mento e allo sviluppo della vita familiare secon-

tratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia

do il relativo indirizzo, e al miglioramento del

(cfr. Cass., 29/1/2016, n. 1652; Cass., 19/2/2013, n.

benessere (anche) economico della famiglia (cfr.

4011; Cass., 5/3/2013, n. 5385; Cass., 7/2/2013, n.

Cass., 19/2/2013, n. 4011), concordato ed attuato

2970; Cass., 15/3/2006, n. 5684).

dai coniugi (cfr. Cass., 23/8/2018, n. 20998: Cass., 19/2/2013, n. 4011; Cass., 5/3/2013, n. 5385).

Poichè il vincolo de quo opera esclusivamente nei confronti dei creditori consapevoli che

Con particolare riferimento ai debiti derivanti

l’obbligazione è stata contratta non già per far

dall’attività professionale o d’impresa del coniu-

fronte ai bisogni della famiglia ma per altra e di-

ge, anche se la circostanza che il debito sia sorto

versa finalità alla famiglia estranea, si è sottoline-

nell’ambito dell’impresa o dell’attività professio-

ato come tale consapevolezza debba sussistere

nale non è di per sé idonea ad escludere in termi-

al momento del perfezionamento dell’atto da cui

ni assoluti che esso sia stato contratto per soddi-

deriva l’obbligazione.

sfare i bisogni della famiglia (v. Cass., 26/3/2014,

La prova dell’estraneità e della consapevolez-

n. 15886; Cass., 7/7/2009, n. 15862), risponde

za in argomento può essere peraltro fornita anche

invero a nozione di comune esperienza che le

per presunzioni semplici (v. Cass., 17/1/2007, n.

894


Francesco Merola

966; e, conformemente, Cass., 8/8/2007, n. 17418. Con riferimento alla prova della consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi dei creditori quale condizione per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, cfr. Cass., 11/2/2005, n. 2748). È pertanto sufficiente provare che lo scopo dell’obbligazione apparisse al momento della relativa assunzione come estraneo ai bisogni della famiglia. Orbene, i suindicati principi sono rimasti dalla corte di merito invero disattesi nell’impugnata sentenza. Atteso che la vicenda attiene a pignoramento (notificato il 7/12/1994) della Banca d. M. s.p.a. avente ad oggetto compendio immobiliare (integrato da appartamento sito in (OMISSIS) e dal relativo garage) dall’odierno ricorrente conferito in fondo patrimoniale il precedente 10/10/1993, e che gli importi il cui pagamento è stato dalla Banca richiesto sono relativi a fideiussioni dal medesimo prestate a garanzia di affidamenti ottenuti dalla società R. M. s.r.l., di cui era socio, tale giudice ha disatteso i suindicati principi là dove ha in particolare affermato che “in difetto di qualsiasi prova od allegazione su di una qualche diversa fonte di sostentamento della famiglia, appare del tutto legittimo presumere che dall’attività d’impresa di cui faceva parte il P. derivassero i mezzi di sostentamento del nucleo familiare, di modo che le obbligazioni fideiussorie assunte ricollegabili a tale rapporto societario ben possono ritenersi rientrare nell’alveo di quelle prestate nell’interesse della famiglia”. Non è dato invero evincere su quali basi e con quali argomentazioni la corte di merito abbia evinto che la stipulazione delle fideiussioni sia stata dall’odierno ricorrente nella specie operata non già quale atto di esercizio della propria attività imprenditoriale volto a garantire la Banca in ordine agli affidamenti concessi funzionali allo svolgimento dell’attività della società (di cui era socio), quanto bensì per sopperire ai bisogni della famiglia.

Non risulta infatti dalla corte di merito fornita indicazione alcuna circa gli elementi o indizi deponenti nel senso dell’essere stata la stipulazione delle fideiussioni de quibus direttamente ed automaticamente volta anziché a favorire lo svolgimento dell’attività societaria al soddisfacimento viceversa dei bisogni della propria famiglia. Né a fortiori emerge su quali basi la corte di merito sia pervenuta alla raggiunta conclusione in base ad una prova per presunzioni. Non spiega infatti come abbia potuto ritenere che risponda all’id quod plerumque accidit che il professionista o come nella specie l’imprenditore, ove coniugato, nell’esercizio della propria attività professionale o imprenditoriale di norma assuma debiti non già al fine del relativo espletamento quanto bensì per direttamente ed immediatamente sopperire ai bisogni della famiglia. Le obbligazioni concernenti l’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale risultano per converso avere di norma un’inerenza diretta ed immediata con le esigenze dell’attività imprenditoriale o professionale, solo indirettamente e mediatamente potendo assolvere (anche) al soddisfacimento dei bisogni della famiglia (arg. ex art. 178 c.c. e art. 179 c.c., lett. d), se e nella misura in cui con i proventi della propria attività professionale o imprenditoriale il coniuge, in adempimento dei propri doveri ex art. 143 c.c., vi faccia fronte. È fatta peraltro salva la prova contraria, potendo dimostrarsi che pur se posto in essere nell’ambito dello svolgimento dell’attività d’impresa o professionale nello specifico caso concreto, diversamente dall’id quod plerumque accidit, l’atto di assunzione del debito è eccezionalmente volto ad immediatamente e direttamente soddisfare i bisogni della famiglia. Orbene, nell’impugnata sentenza la corte di merito ha errato là dove, pur esattamente movendo dal principio affermato da questa Corte secondo cui l’esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso può avere luogo qualora la fonte e la ra-

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Giurisprudenza

gione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia, ha invero errato là dove ha invero omesso di valutare – dandone congruamente conto – l’aspetto relativo all’inerenza diretta ed immediata delle stipulate fideiussioni de quibus con specifico riguardo alla causa concreta degli stipulati contratti di garanzia in argomento (v. Cass., 10/6/2020, n. 11092; Cass., Sez. Un., 8/3/2019, n. 6882; Cass., 6/7/2018, n. 17718; Cass., 19/3/2018, n. 6675; Cass., 22/11/2016, n. 23701). Ha altresì errato là dove ha fondato la propria decisione su una ravvisata prova presuntiva di cui non è dato invero evincere quale sia il relativo provato fatto base da cui ha argomentato, né risulta spiegato su quali basi l’abbia ritenuta consentanea all’id quod plerumque accidit che appalesa viceversa di segno contrario. Va ulteriormente posto in rilievo che l’affermazione secondo cui “in difetto di qualsiasi prova od allegazione su di una qualche diversa fonte di sostentamento della famiglia, appare del tutto legittimo presumere che dall’attività d’impresa di cui faceva parte il P. derivassero i mezzi di sostentamento del nucleo familiare, di modo che le obbligazioni fideiussorie assunte ricollegabili a tale rapporto societario ben possono ritenersi rientrare nell’alveo di quelle prestate nell’interesse della famiglia”, oltre che del tutto apodittica e intrinsecamente ed irrimediabilmente illogica, non consente invero nemmeno di evincere che al momento della stipulazione la re fosse consapevole che la finalità da quest’ultimo con essa perseguita fosse non già correlata all’esercizio della propria attività imprenditoriale bensì direttamente ed esclusivamente alla tutela dei bisogni della famiglia, quand’anche latamente intesi. Senza sottacersi, da un canto, che risulta a tale stregua dai giudici di merito indebitamente e del tutto immotivatamente imposto a carico del debitore odierno ricorrente un onere di “prova od allegazione su di una qualche diversa fonte

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di sostentamento della famiglia” privo invero di fondamento alcuno, con conseguente violazione pertanto (anche) della regola di ripartizione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. Per altro verso, che movendo dal ravvisato “difetto di qualsiasi prova od allegazione” al riguardo, l’inammissibilità dei mezzi di prova proposti dall’odierno ricorrente (e in particolare dell’articolata prova testimoniale in ragione della sussistenza “già agli atti” di “elementi sufficienti onde addivenire ad una corretta pronuncia sul punto”) ritenuta dalla corte di merito si appalesa ulteriormente contrastare con il principio affermato da questa Corte in base al quale la mancata ammissione di un mezzo istruttorio si traduce in un vizio della sentenza se il giudice trae conseguenze dalla mancata osservanza dell’onere sancito all’art. 2697 c.c., benché la parte abbia offerto di adempierlo (v. Cass., 5/5/2020, n. 8466; Cass., 3019/2019, n. 24205; Cass., 21/4/2005, n. 8357; Cass., 21/10/1992, n. 11491; Cass., 9/11/1981, n. 5915; Cass., 21/3/1979. n. 1627; Cass., 19/7/1975, n. 2867; Cass., 2/3/1963, n. 789). Alla fondatezza nei suindicati termini e limiti del 2 e del 3 motivo, rigettato il 1 motivo, consegue la cassazione in relazione dell’impugnata sentenza, con rinvio alla Corte d’Appello di Ancona, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo dei suindicati disattesi principi applicazione. Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie p.q.r. il ricorso nei sensi di cui in motivazione. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 15 luglio 2020. Depositato in cancelleria l’8 febbraio 2021. (Omissis)


Francesco Merola

La Cassazione torna ad occuparsi della responsabilità del fondo patrimoniale per debiti contratti per “scopi estranei” ai bisogni della famiglia* Sommario: 1. Introduzione. – 2. Natura del fondo patrimoniale – 3. La respon-

sabilità per debiti contratti per i “bisogni della famiglia” (art. 170 c.c.) – 4. I debiti contratti nell’ambito delle attività di rischio (professionali o d’impresa) – 5. Il vincolo di “inalienabilità” ex art. 169 c.c.: riflessi sul regime di espropriabilità dell’art. 170 c.c. – 6. La conoscenza da parte del creditore dell’estraneità dei debiti ai “bisogni della famiglia” – 7. Conclusioni.

The institution of the patrimonial fund represents “a bottomless pit of general theory problems” of which there is little need, especially in the current transition of the family and its centrifugal dynamics. Creditors who claim to recognize a link between the obligation and family interests bear the proof of the intra-family purpose that, in the specific case, the spouses wanted to pursue.

1. Introduzione. Il caso portato all’esame della Suprema Corte di Cassazione nasce dalla contestata estensione del regime di responsabilità dell’art. 170 c.c. per debiti derivanti da fideiussione prestata da uno dei coniugi tesa a garantire propri affari commerciali. Nello specifico, il caso processuale nasce dal rigetto dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. – così deciso in prima istanza dal Tribunale di Pesaro e poi confermato dalla Corte di Appello di Ancona – opposizione che era stata proposta da un privato imprenditore per salvare dalla pretesa creditoria l’appartamento con garage già in precedenza costituito in fondo patrimoniale e destinato ai bisogni della sua famiglia. La banca, titolare del credito, pretendeva di agire esecutivamente sui beni del fondo per un debito contratto da uno dei coniugi a favore di una società (R. M. S.r.l.) di cui lo stesso era socio, quindi manifestamente a favore di una propria attività economica, senza che l’obbligazione presentasse particolari collegamenti alla situazione familiare

*

Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.

897


Giurisprudenza

del debitore se non per una vaga attinenza dei “redditi” ricavabili dall’attività di impresa ed eventualmente reimpiegabili a favore della famiglia. Per entrare meglio nella comprensione della questione sottesa alla pronuncia che si annota, è anche il caso di sottolineare come la vicenda attiene ad un pignoramento (notificato il 7/12/1994) della Banca d. M. s.p.a. avente ad oggetto compendio immobiliare (integrato da appartamento e relativo garage) conferito in fondo patrimoniale in data 10 ottobre 1993, quindi anteriormente al sorgere del debito scaturente da fideiussioni prestate a garanzia di affidamenti ottenuti dalla società R. M. s.r.l. e di cui era socio il “coniuge imprenditore”. La Cassazione, ripercorrendo la genesi dell’istituto previsto negli artt. 167 e ss. del codice civile e richiamando le ragioni di tutela della famiglia proprie del fondo patrimoniale, si concentra sul “vincolo” per i creditori dettato dall’art. 170 c.c. che pone un limite alla generale responsabilità patrimoniale e così testualmente la Corte: «rendendo più incerta o difficile la soddisfazione del credito, conseguentemente riducendo la garanzia generale spettante ai creditori sul patrimonio dei costituenti in violazione dell’art. 2740 c.c. che impone al debitore di rispondere con tutti i suoi beni dell’adempimento delle obbligazioni, a prescindere dalla relativa fonte». Si impone al creditore un dovere di attenzione alle ragioni dell’obbligazione contratta con il debitore. La previsione normativa è peraltro attenta a contemperare la limitazione alla pignorabilità con le ragioni dell’affidamento dei creditori accollando al debitore l’onere della prova dell’elemento psicologico circa la conoscenza della “estraneità del debito ai bisogni della famiglia”. In via preliminare, la Corte richiama e conferma il rimedio generale offerto dalla revocatoria ordinaria (ex art. 2901 c.c.) per far dichiarare l’inefficacia del fondo anteriore al sorgere del credito senza dover provare se non il consilium fraudis della dolosa preordinazione tesa a pregiudicare i creditori; tale rimedio smarca il ceto creditorio dalla limitazione in executivis posta dall’art. 170 cit. e così ancora testualmente la Corte: «senza alcun discrimine circa lo scopo ulteriore avuto di mira (ndr dal debitore) nel compimento dell’atto dispositivo (a tale stregua considerandosi soggetti all’azione revocatoria anche gli “atti aventi un profondo valore etico e morale”, come ad es. il trasferimento della proprietà di un bene effettuato a seguito della separazione personale per adempiere al proprio obbligo di mantenimento nei confronti dei figli e del coniuge, in favore di quest’ultimo: in tali termini v. Cass., 26 luglio 2005, n. 15603)». Laddove non sia possibile, o non sia più possibile, esperire il rimedio della revocatoria, occorre allora necessariamente muovere dal disposto dell’art. 170 c.c. rubricato «Esecuzione sui beni e sui frutti» in forza del quale: «L’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia». La Corte afferma innanzitutto che i «bisogni della famiglia» sono da intendersi – alla stregua di un’ampia e conforme giurisprudenza – come tutte quelle «esigenze», non solo minime ed indispensabili al sostentamento economico, ma anche «volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento della sua capacità

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lavorativa, restando escluse solo le esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi (v. Cass., 7 gennaio 1984, n. 134)». In relazione ai detti “bisogni”, i “debiti” che risultano funzionali a perseguirne il soddisfacimento si apprezzano non per la fonte costitutiva (ex contractu o ex delicto) ma per la “inerenza” diretta ed immediata a tali bisogni, come dice la Corte: «nella relazione esistente tra gli scopi per cui i debiti sono stati contratti ed i bisogni della famiglia, con la conseguenza che l’esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso può avere luogo qualora la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia»; e, pertanto, il giudice di merito deve compiere un tale accertamento. Pur senza negare in assoluto una possibile attinenza con i bisogni della famiglia dei debiti contratti nell’ambito dell’attività professionale o d’impresa, il creditore ha modo di rendersi conto, nel momento del sorgere dell’obbligazione, del fatto che detta inerenza non è naturale. La Corte è qui abbastanza chiara nell’affermare che tale conoscenza – dev’essere sì provata dal debitore – ma quantomeno, in via presuntiva, non può essere esclusa quando, per usare ancora una volta le parole della Corte, «risponde invero a nozione di comune esperienza che le obbligazioni assunte nell’esercizio dell’attività d’impresa o professionale abbiano uno scopo normalmente estraneo ai bisogni della famiglia (cfr. Cass., 31 maggio 2006, n. 12998, ove si è sottolineato come la finalità di sopperire ai bisogni della famiglia non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito sia sorto nell’esercizio dell’impresa)». In perfetta analogia ed equilibrio tra le posizioni, opposte, di creditore e debitore e quindi al pari del regime probatorio imposto al creditore nella revocatoria, la prova dell’estraneità e della consapevolezza di cui all’art. 170 c.c. può essere fornita dal debitore «anche per presunzioni semplici». Come riconosce ancora una volta la Corte è pertanto «sufficiente provare che lo scopo dell’obbligazione apparisse al momento della relativa assunzione come estraneo ai bisogni della famiglia». In conclusione, a giudizio della Corte ed in maniera condivisibile, viene riaffermato il principio di diritto che i debiti sorti nell’ambito dell’attività professionale o d’impresa di uno dei coniugi, pur non potendosi ritenere esclusi in assoluto dalla attinenza ai bisogni ed interessi della famiglia in se stessa (occasionalmente rilevando per la pignorabilità ex art. 170 c.c.), sono normalmente “non inerenti” al sostentamento ed armonico sviluppo della famiglia se non, appunto, in via mediata ed indiretta in ragione di un “doveroso” reimpiego di essi redditi per le esigenze familiari, reimpiego non imposto però da alcuna norma ma da provare in concreto. Si rigetta così l’assunto – fatto proprio anche dal giudice di prime cure e dalla superiore Corte dorica – che ha portato al risultato di un esatto capovolgimento del principio di diritto su cui si fonda il limite di impignorabilità dell’art. 170 c.c., arrivando così a dire: «in difetto di qualsiasi prova od allegazione su di una qualche diversa fonte di sostentamento della famiglia, appare del tutto legittimo presumere che dall’attività d’impresa … derivassero i mezzi di sostentamento del nucleo familiare, di modo che le obbligazioni

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fideiussorie assunte ricollegabili a tale rapporto societario ben possono ritenersi rientrare nell’alveo di quelle prestate nell’interesse della famiglia». Peraltro, anche in riferimento all’onere probatorio, la Corte stigmatizza la decisione della Corte dorica (ed indirettamente del primo giudice) quando afferma: «senza sottacersi, da un canto, che risulta a tale stregua dai giudici di merito indebitamente e del tutto immotivatamente imposto a carico del debitore odierno ricorrente un onere di “prova od allegazione su di una qualche diversa fonte di sostentamento della famiglia” privo invero di fondamento alcuno, con conseguente violazione pertanto (anche) della regola di ripartizione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c.».

2. Natura del fondo patrimoniale. Il fondo patrimoniale, come recita l’art. 167 c.c., consiste nella imposizione convenzionale, da parte di uno dei coniugi o di entrambi ovvero anche da parte di un terzo, di un vincolo in forza del quale determinati beni, immobili o mobili iscritti in pubblici registri, o titoli di credito, sono destinati a far fronte ai bisogni della famiglia (ad sustinenda onera matrimonii). L’istituto1, pur costituendo un adeguamento del “patrimonio familiare” alle nuove esigenze della famiglia, rappresenta, in realtà, una figura giuridica del tutto nuova. Come è stato ben detto2, l’istituto del fondo patrimoniale rappresenta “un pozzo senza fondo di problemi di teoria generale” di cui poco si avverte l’esigenza specie nell’attuale transizione della famiglia e delle sue dinamiche centrifughe. La dottrina ha, peraltro, immediatamente messo in guardia circa il carattere ambiguo di una riforma che, volendo superare i “vincoli” com’erano stati tradizionalmente intesi con il patrimonio familiare e la dote, ha partorito un nuovo “vincolo” che si presta ad essere facile “strumento di frode per i creditori”.

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Il fondo patrimoniale è stato introdotto con la riforma del diritto di famiglia l. n. 151/1975 ed ha come diretto antesignano il “patrimonio familiare” (cfr. art. 177 c.c. ante-riforma). Tuttavia, non mancano profili di analogia con l’istituto della dote poi abrogato (v. art. 166-bis c.c.). La dottrina ha ricostruito la natura del fondo di cui agli artt. 167 e ss. come patrimonio di destinazione in funzione dello scopo di dare sicurezza economica alla famiglia attraverso l’assolvimento degli obblighi reciproci di assistenza materiale cui sono tenuti i coniugi tra loro e verso i figli, nonché i figli conviventi nei confronti dei genitori (cfr. artt. 143, 147, 315 c.c.); allo stesso tempo, esso rappresenta un patrimonio separato perché risponde soltanto dei debiti contratti per i bisogni familiari ex art. 170 c.c. (in deroga al principio dell’art. 2740 c.c.). Tale patrimonio destinato nasce da una “convenzione matrimoniale” dei coniugi che si affianca al regime generale della comunione o della separazione ed è regolato in modo speciale in quanto ha ad oggetto determinati beni immobili o mobili registrati separati dagli altri beni di proprietà comune o individuale dei coniugi in virtù di un sistema di pubblicità conoscibile dai terzi (artt. 162-163 e 2647 c.c.). Sia lecito rinviare alla copiosa dottrina in argomento: F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, Milano 1984; A. Iannuzzi, Manuale di volontaria giurisdizione, Milano 1984; A. Finocchiaro - M. Finocchiaro., Riforma del diritto di famiglia, I, Milano, 1975; F. Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino 1983; T. Auletta, Il fondo patrimoniale, Milano, 1992; su posizioni peculiari v. anche V. De Paola-A. Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978 e così G. Cian-A. Villani , Comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), in Riv. dir. civ., I, 1980, ed in App. noviss. dig. it., II, Torino, 1981. In questo senso, v. F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 83 ss.

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Si è fatto notare come questo vincolo sia tale soprattutto per i creditori, visto che la disposizione dell’articolo 169 c.c. – pur con tutte le controversie ermeneutiche – consente (ed ha finito per consentire!) ai coniugi la predisposizione di un fondo “vulnerabile” da parte dei costituenti ed “invulnerabile” da parte di una determinata categoria di creditori3. Il vincolo di impignorabilità contenuto nell’articolo 170 c.c. rappresenta una deroga alla generale responsabilità per debiti (art. 2740 c.c.) ed è giustificato dalla destinazione patrimoniale impressa ai beni costituiti in fondo patrimoniale per la tutela di interessi della famiglia. La Cassazione si è soffermata, innanzitutto, sull’azione revocatoria (artt. 2901 e ss. c.c.) quale rimedio generale offerto ai creditori che risultino pregiudicati dal vincolo di impignorabilità del fondo patrimoniale. Alla revocatoria si aggiunge, dal 2015 il nuovo rimedio per i creditori introdotto con l’art. 2929-bis c.c. (ex d.l. 27 giugno 2015 n. 147 conv. in L. 6 agosto 2015 n. 132); la disposizione intitolata «Espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito» consente al creditore di agire esecutivamente, e senza ottenere la preventiva inefficacia dell’atto costitutivo del fondo, sui beni destinati ex artt. 167 e ss. c.c., anche per crediti anteriori, purché l’atto di pignoramento sia perfezionato (notificato e trascritto) entro l’anno dalla costituzione del fondo patrimoniale. Allo stesso modo può agire il creditore (pure anteriore) che interviene, sempre entro l’anno, nell’esecuzione promossa da altri. In tali ipotesi non viene in rilievo il limite di impignorabilità frapposto agli atti esecutivi dall’articolo 170 c.c. ma, di converso, il debitore può fare opposizione all’esecuzione ai sensi del titolo V del libro III del codice di procedura civile dimostrando il difetto dei presupposti della norma delineata dall’art. 2929-bis, l’assenza di pregiudizio alle ragioni del creditore, ovvero ancora la non conoscenza da parte del debitore del pregiudizio che l’atto dispositivo arrecava alle ragioni del creditore4.

3. La responsabilità per debiti contratti per i “bisogni della famiglia” (art. 170 c.c.).

Ai fini che qui interessano occorre guardare alla relazione tra “bisogni della famiglia” (nell’accezione dell’art. 170 c.c.) e “debiti contratti” per soddisfarli.

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Ancora F. Corsi, op. cit., 84-85. Sulla diretta pignorabilità introdotta con l’art. 2929-bis c.c. si rimanda a C. Iodice-S. Mazzeo, Il regime patrimoniale della famiglia, collana notarile (seconda edizione), Milano 2021, 15 e 44 ss.

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La domanda da porsi è pertanto la seguente: i debiti nascenti dall’attività che produce “redditi” per i singoli coniugi, o per altri membri della famiglia, possono essere annoverati nei debiti della famiglia in via diretta? La sentenza che si annota è, in linea con la precedente giurisprudenza5, attestata su posizione negativa, almeno nel senso che i debiti contratti per l’attività professionale o d’impresa di uno dei coniugi, pur se “occasionalmente” ed “indirettamente” destinati al soddisfacimento di esigenze familiari, risultano esclusi dalla possibilità di esecuzione da parte dei creditori ove questi non provino l’inerenza nel caso concreto ai bisogni della famiglia6. In riferimento ai “bisogni della famiglia”, la giurisprudenza si richiama ad una formula tralatizia incentrata sulle «necessità cd. essenziali o indispensabili della famiglia, incluse le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della medesima, nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa ed al miglioramento del suo benessere economico, restando escluse ragioni voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi». Pertanto, tra i bisogni della famiglia, vi rientrano sicuramente: il vitto; il vestiario; i medicinali e le cure mediche alle quali dovessero sottoporsi i componenti della famiglia (compreso il parto); l’abitazione; l’educazione dei figli; l’addestramento professionale o lavorativo dei suoi membri; la conduzione di una normale vita relazionale; gli svaghi e la villeggiatura, il risparmio (inteso quale accantonamento per la soddisfazione di esigenze future) nonché quant’altro assicuri alla famiglia un “dignitoso livello di vita”7. Ciò nondimeno, la selezione dei debiti funzionali ai “bisogni della famiglia” come indicato nell’art. 170 c.c. rimane piuttosto difficile in concreto. L’indagine sulla natura del debito deve necessariamente partire dalla finalità per cui è assunta l’obbligazione e, più specificamente, dall’inerenza di essa con la “controprestazione” che ne è l’altra faccia della medaglia, ossia la posta attiva di cui si avvantaggia il debitore medesimo. La dottrina8 ricorre ad un criterio “eclettico” per stabilire la pertinenza delle obbligazioni contratte ai bisogni della famiglia fondandola, da un lato, sulla partecipazione di entrambi i coniugi all’assunzione dell’obbligazione (criterio soggettivo) e, dall’altro, mettendo in risalto la natura dell’obbligazione se dettata dall’esigenza di soddisfare alla ricorrenza di un bisogno familiare in base alle circostanze del caso concreto (criterio oggettivo).

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Conforme Cass 27 aprile 2020, n. 8222. In dottrina si veda, anche per il caso dell’agire congiunto dei coniugi, A. Finocchiaro - M. Finocchiaro, op. cit, p. 835; F. Carresi, Del fondo patrimoniale, I, 1, Padova 1977, p. 357; C.M. Bianca, Diritto civile, tomo 2, Milano 1989, p. 108. Il limite dell’impignorabilità valevole anche nell’ipotesi in cui i coniugi abbiano concesso un diritto di prelazione (pegno o ipoteca) è ben affermato in T. Auletta, op. cit., 323. Peraltro, diversamente si è espressa la stessa Cassazione (v. ord. 24 febbraio 2015 n. 3738 ed in precedenza Cass. 19 febbraio 2013 n. 4011) riguardo a debiti di natura “tributaria”, in relazione ai quali i giudici sembrano piuttosto orientati a riconoscere la responsabilità del fondo anche se trattavasi di rapporti afferenti all’impresa di uno dei coniugi (entrambe cit. in C. Iodice - S. Mazzeo, op.cit., 45-48). Sul tema si consulti A. Fusaro, Il regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1990, 127. A. Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1983, 146 ss.

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La linea di confine diventa mobile quando si prendono in considerazione i debiti che sono contratti dai singoli coniugi nell’ambito della propria attività e per i quali non vi è diretta attinenza ai bisogni cd. primari della famiglia9. Il principio fondamentale cui fare riferimento dovrebbe essere il collegamento con gli “obblighi di contribuzione” nella famiglia (artt. 143-147 nonchè art. 315 c.c.) onde poter apprezzare l’inerenza, non dei “debiti”, ma prima di tutto dei “redditi” che ne derivano, ai bisogni della famiglia se e nella misura in cui risultino destinati al loro diretto soddisfacimento. Nessun dubbio può sussistere per i redditi direttamente pertinenti ai bisogni della famiglia, e quindi conseguentemente per i “debiti” necessari a produrli, com’è, per esempio, per le “rendite” o “profitti” ricavabili dagli stessi beni costituiti in fondo patrimoniale; e così pure, in via interpretativa, si può ritenere anche per i “redditi da lavoro” (che non richiedano assunzione di rischio economico per conseguirli) facenti capo ai singoli coniugi obbligati e volti a sostenere gli “obblighi di contribuzione” in proporzione al loro tenore ed all’indirizzo concordato (ex art. 144 c.c.).

4. I debiti contratti nell’ambito delle attività di rischio (professionali o d’impresa).

Fuori dall’ambito degli “obblighi di contribuzione” (fondati come detto sulla solidarietà familiare) ci sono gli “spazi di autonomia” riservati all’iniziativa economica anche dei singoli membri della – e nella – famiglia. Orbene, il reddito professionale o d’impresa di uno o entrambi i coniugi (ma anche dei figli autonomi conviventi!) influisce, infatti, esclusivamente sulla loro rispettiva capacità di assolvere, ma in via eventuale, occasionale ed indiretta, la propria “obbligazione contributiva”. Ecco che, come ben affermano gli ermellini, le spese ed i debiti relativi al miglioramento e consolidamento delle fonti di entrata economica, e più in generale, allo svolgimento dell’impresa o della professione di uno dei coniugi non possono ritenersi effettuate in adempimento di bisogni familiari, atteso che il diretto beneficiario è proprio il titolare dell’attività, mentre solo parzialmente e mediatamente lo sarà la famiglia cui questi appartiene10.

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In caso di fallimento dell’impresa di uno dei coniugi l’art. 46 n. 3) l. fall. (anche all’indomani dell’introduzione del codice della “crisi di impresa”) prevede che non siano compresi nel fallimento i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall’art. 170 cod. civ. Altra dottrina ritiene non applicabile al fondo patrimoniale l’art. 46 cit. in quanto, al di là di elementi formali, opera pur sempre il limite dell’art. 170 c.c. opponibile anche al curatore, in tal senso T. Auletta, op. cit., 340, 341, 342 e 343 ove in nota (75) si richiama favorevolmente anche C.M. Bianca, op. cit., 109; G. Cian-G. Casarotto, Fondo patrimoniale della famiglia, in App. Noviss. Dig, it., III, Torino, 1980, p. 831. 10 Si veda lo studio approvato dal CNN n. 2384-1999, di G. Trapani, Obbligazioni familiari e fondo patrimoniale: limiti all’esecuzione, 8 ss.

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Sul punto, la Cassazione è orientata a riconoscere un simile corollario quando laconicamente afferma: «… in relazione ai debiti assunti nell’esercizio dell’attività d’impresa o a quella professionale, essi non assolvono di norma a tali bisogni, ma può essere fornita la prova che siano eccezionalmente destinati a soddisfarli in via diretta ed immediata, avuto riguardo alle specificità del caso concreto». Volendo ancor meglio approfondire lo iato esistente tra “bisogni della famiglia” e “operazioni d’impresa”, traendo sempre spunto dalla massima, occorre interrogarsi sul se sia consentito immettere nel fondo patrimoniale anche beni utilizzati direttamente nell’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi e come ne andrebbe regolata di conseguenza la responsabilità11. In realtà, nell’insegnamento della Corte di Cassazione, come nella pronuncia in commento, vi è accenno al concetto di “speculazione”, in quanto attività “estranea” agli interessi della famiglia, richiamata per fissare i “limiti esterni” alla responsabilità del fondo. Ebbene, per “attività di speculazione”, pur senza accoglierne un significato strettamente tecnico, ma nemmeno deteriore della parola, non si può far a meno di ricomprendervi le attività di impresa o professionali che, per il rischio che normalmente le connota, sono ragionevolmente “speculative” e quindi estranee al novero dei bisogni familiari12. La controprova della netta separazione tra attività d’impresa e bisogni della famiglia si coglie anche dalla disciplina dettata per l’esercizio dell’impresa familiare nella quale il concetto di “familiare” (ex art. 230-bis, comma 3, c.c.: «i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo») è diverso da quello sottinteso al “nucleo della famiglia” cui sovrintendono le norme del fondo patrimoniale; inoltre, come osservato da autorevole dottrina13, anche nell’ipotesi in cui impresa familiare e famiglia nucleare coincidano, la parte del reddito dell’impresa familiare ex art. 230-bis c.c., eventualmente distribuita ai singoli membri sotto forma di utili, è come tale impiegata liberamente dagli stessi. La mancanza, qui, di un obbligo di reimpiego a favore della famiglia conduce a ribadire l’affermata estraneità ai

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Questa è la provocazione di F. Corsi, op. cit, 85, nota 7, dove l’Autore in maniera critica si chiede «se sia consentito immettere nel fondo patrimoniale anche beni utilizzati nell’esercizio dell’impresa, quali l’immobile industriale o gli autocarri, il tutto in danno (e beffa) dei creditori dell’impresa e finisce col rispondere che non si può giungere al punto di rendere compatibili due destinazioni contemporanee e diverse degli stessi beni: all’esercizio dell’impresa da un lato, e ai bisogni della famiglia (ossia al fondo patrimoniale), dall’altro». Aggiungerei che al pari “incompatibili” devono ritenersi le due aree di responsabilità, per debiti della famiglia e per debiti dell’impresa. 12 Ancora una volta lo studio CNN n. 2384-1999, 8 così testualmente: «ove infatti si intenda per speculazione, tralasciando le accezioni negative pur diffuse nel comune sentire, la capacità di prevedere gli orientamenti del mercato in cui si opera, in detta species non può non sussumersi anche l’attività d’impresa, sia essa svolta uti singulus o in forma societaria, dal momento che nessuna attività imprenditoriale può prescindere dall’analisi del settore in cui viene svolta. Dovrà considerarsi, allora, estranea ai bisogni familiari qualunque obbligazione inerente all’esercizio dell’impresa coniugale o di uno solo dei coniugi». Nonchè in nota, dove si richiama su medesima posizione, A. Ceccherini, I rapporti patrimoniali nella crisi della famiglia e nel fallimento, Milano, 1996, 579. 13 T. Auletta, Il fondo patrimoniale. Artt. 167-171, Milano, 1992, 201; V. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, tomo III, Milano 1996, 37; G. Cian-G. Casarotto, voce Fondo patrimoniale della famiglia, in App. noviss. dig. it., III, 1982, 829; contra: G. Gabrielli, Patrimonio familiare e fondo patrimoniale in Enc. dir., XXXII, 1982, 300. Deve, inoltre, rilevarsi che la convivenza, elemento essenziale al fine della delimitazione soggettiva del concetto di famiglia ai sensi dell’art. 170 c.c., non è caratteristica pregnante dello stesso concetto rilevante ai fini di cui all’art. 230-bis c.c.

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bisogni familiari e segnatamente quelli dell’art. 170 c.c. delle obbligazioni contratte per la conduzione di un’impresa anche “familiare” e, dunque, un’impossibile totale coincidenza tra gli interessi dell’impresa ed i bisogni della famiglia14.

5. Il vincolo di “inalienabilità” ex art. 169 c.c.: riflessi sul regime di espropriabilità dell’art. 170 c.c.

In verità l’articolo 170 c.c. andrebbe letto, anche e soprattutto, nel suo intento di rafforzare la separazione patrimoniale del fondo a favore dei “creditori della famiglia” i quali debbono poter fare affidamento sui beni e frutti specificamente destinati in via esclusiva ai bisogni della famiglia rispetto agli altri creditori personali dei coniugi, tra cui appunto i creditori nascenti dalle loro attività professionali e d’impresa15. La considerazione della natura del fondo patrimoniale16 dovrebbe indurre gli interpreti a valutare in modo più appropriato anche i “bisogni della famiglia” richiamati nell’art. 170 del codice civile. Infatti, se è vero che i “bisogni della famiglia” sono intesi in senso ampio – come abbiamo visto anche in tale ultima pronuncia della Corte – è anche vero, però, che la “funzione di garanzia” dei creditori familiari insita nella previsione dell’art. 170 risulta direttamente collegata alla funzione di peculium familiare che emerge dalle norme della sedes materiae (artt. 168, 169 e 171 c.c.). Il vincolo alla disposizione dei beni immessi nel fondo, nella previsione dell’art. 169 c.c.17, dovrebbe rendere ragione di una limitazione anche in executivis per i creditori ge-

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Contra: F. Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi, Napoli, 1990, 153 ss. che ritiene sovrapponibili gli scopi imprenditoriali agli “interessi della famiglia” nel timore che altrimenti si potrebbero configurare ipotesi di frode per i creditori. In realtà, i creditori non restano senza rimedi come abbiamo visto potendo far ricorso alla revocatoria (art. 2901 c.c.) ed anche alla “esecuzione diretta” ex art. 2929-bis c.c. Cass. civ. sez. III, 7 gennaio 1984, n. 134, riportata in Giust. civ., 1984, I, 663 si è pronunciata sul caso di un fondo patrimoniale avente ad oggetto il “podere” gestito da una famiglia colonica ponendo attenzione in modo diretto soprattutto al fatto che le somme concesse a titolo di mutuo servivano alla fruttificazione del bene-terreno agricolo oggetto del fondo e concesso in garanzia. Si trattava, dunque, nel caso di specie all’esame della Corte di legittimità, di debiti inerenti ai bisogni familiari non perché concernevano l’attività svolta dall’intera famiglia colonica (impresa familiare), ma perché relativi al miglioramento della capacità produttiva del bene oggetto del fondo su cui si sosteneva la famiglia. Semmai, la questione, diversa, dell’ipotecabilità dei beni immobili del fondo patrimoniale anche per scopi estranei ai bisogni della famiglia è affrontato nel pregevole studio approvato dal CNN n. 1605-1997, di A. Ruotolo, Ipotecabilità di beni del fondo patrimoniale per scopi estranei ai bisogni della famiglia. 15 Si pone il problema anche T. Auletta, op. cit., 324 e 325 pur rilevando l’esistenza di rimedi processuali azionabili dai creditori del fondo a tutela della responsabilità prioritaria del fondo per i debiti inerenti ai bisogni della famiglia (in surrogatoria dei coniugi inerti). 16 Come detto sopra, coesistono nel fondo patrimoniale la natura di patrimonio allo scopo (art. 167 c.c.) e quella di patrimonio separato (art. 170 c.c.). 17 Il vero nodo problematico del fondo patrimoniale è la tenuità del “vincolo interno”, ossia la pressoché “libera” facoltà di disposizione giuridica da parte dei coniugi come ricavabile dall’interpretazione dell’articolo 169 c.c. che infatti consente ai coniugi (e costituenti) di superare l’inalienabilità dei beni del fondo a determinate condizioni: a) consenso congiunto dei coniugi; b) autorizzazione del tribunale in presenza di figli minori “salvo diversa convenzione”. Inoltre, si ritiene ormai pacificamente possibile anche uno

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nerali, facendo riferimento alla possibilità di “alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare” espressamente, ed a prescindere dall’autorizzazione giudiziale, soltanto nei casi di “necessità” o “utilità evidente” con nozioni che sono sistematicamente previste o presupposte nella disciplina riguardante l’amministrazione per conto di minori ed incapaci, ovvero dei beneficiari di amministrazione di sostegno (v. artt. 320, comma 3, 374, 375, 376, 394, 410, 411 c.c.). L’amministrazione del fondo e così la disposizione giuridica dei beni con esso destinati ai bisogni della famiglia andrebbe quindi messa in diretta relazione con la finalità di assicurare alla famiglia (specie in presenza di figli minori o non economicamente autosufficienti) una gestione “conservativa” rispetto alla quale non rileverebbero i debiti che sorgono dalle attività anche volte ad incrementare il tenore e benessere dei vari componenti la famiglia quando si sostanziano in attività di rischio (com’è per l’attività professionale o d’impresa). In pratica, si dovrebbero ritenere rispondenti ai bisogni della famiglia i debiti sorti nelle limitate ipotesi di “necessità” o “utilità evidente”, per es. per provvedere direttamente ad una “necessità” come può essere il vitto, il vestiario, l’abitazione, le cure mediche ed il mantenimento (incluso lo studio ed avviamento professionale dei figli); o per far fronte ad operazioni di “utilità evidente” quali l’alienazione di beni del fondo per reinvestirne il ricavato nell’acquisto di altri beni da immettere pure nel fondo18 e che andrebbero a meglio soddisfare uno scopo di godimento o d’investimento a beneficio del nucleo familiare nel suo complesso. Ma, sicuramente, non rispondenti ai bisogni della famiglia sono quelle operazioni economiche funzionali al reddito dei singoli componenti la famiglia, come per esempio l’acquisto di un fondo o anche di un bene produttivo per incrementare l’attività di uno dei coniugi o anche di un figlio già economicamente autosufficiente; e, tantomeno, non rispondente è qualsiasi altra “operazione di rischio” intesa come atti e contratti (e debiti conseguenti) compiuti o stipulati nell’ambito di attività professionali o d’impresa di alcuno dei componenti la famiglia cui pertiene un fondo patrimoniale19.

“scioglimento volontario” del fondo in assenza di figli minori o non autonomi, oltre l’art. 171 c.c. e soltanto qualche voce isolata sostiene l’immanenza al patrimonio destinato nel fondo di un “obbligo di reimpiego” in caso di atti di alienazione (sul punto, ancora C. Iodice-S. Mazzeo, op.cit., 40-41). 18 Sulla questione del riconoscimento di una “surrogazione reale” dei beni del fondo, vedasi lo studio approvato dal CNN n. 265/2012, di G. Trapani-F. Magliulo, Il conferimento in fondo patrimoniale di titoli dematerializzati. 19 T. Auletta, op. cit., 325 ss. sul problema se anche verso il creditore in buona fede per obbligazione estranea alle esigenze della famiglia debba operare la regola della piena responsabilità del fondo propende per riconoscere al creditore in questione il soddisfacimento solo sulla quota del fondo appartenente al coniuge contraente. Si veda nello stesso senso C.M. Bianca, op. ult. cit., 108; il tema è quello dell’affidamento e si sposta sul piano squisitamente processuale in quanto appare anche all’Autore come la soluzione più equa quella che meglio tutela la posizione dell’altro coniuge conformemente alle regole della comunione. Del resto la responsabilità nei limiti della quota spettante al coniuge obbligato sottende una più equa ripartizione del rischio d’insolvenza tra il “coniuge estraneo” – a non veder pregiudicato il suo patrimonio (per debiti che non rientrano nei bisogni familiari) – ed il “creditore ignaro” della natura personale del credito – agente per estendere la tutela del suo credito – ad similia di quanto avviene nel bilanciamento tra chi si difende per evitare un danno (qui certat de damno vitando) rispetto a chi agisce per un vantaggio non dovuto (qui certat de lucro captando).

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Francesco Merola

6. La conoscenza da parte del creditore dell’estraneità dei debiti ai “bisogni della famiglia”.

Altro aspetto su cui interviene la sentenza in rassegna è quello processuale dell’onere della prova, posto a carico del debitore nell’articolo 170 c.c. e confermato dai giudici con la sentenza de qua. La prova che il creditore “era a conoscenza dell’estraneità del debito” rispetto ai bisogni della famiglia impone di considerare, innanzitutto, quando l’assunzione di un debito può avere i caratteri esteriori che ne rendano conoscibile la non pertinenza ai bisogni della famiglia. Infatti, sul punto la Cassazione è netta: «… risponde invero a nozione di comune esperienza che le obbligazioni assunte nell’esercizio dell’attività d’impresa o professionale abbiano uno scopo normalmente estraneo ai bisogni della famiglia …»; ed ancora: «la prova dell’estraneità e della consapevolezza in argomento può essere peraltro fornita anche per presunzioni semplici …»; per giungere dunque alla conclusione che: «è pertanto sufficiente provare che lo scopo dell’obbligazione apparisse al momento della relativa assunzione come estraneo ai bisogni della famiglia». Il tema dell’imputabilità dell’agire giuridico dei coniugi al compendio familiare, e di conseguenza la responsabilità dei beni comuni per la comunione legale, ma anche del patrimonio costituito in fondo ai sensi degli artt. 167 e ss. c.c. per le obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia, risulta alquanto controverso. È stato sostenuto20 che, qualora l’obbligazione sia stata contratta congiuntamente da entrambi i coniugi, essa debba ritenersi, per ciò stesso, conforme ai bisogni della famiglia, argomentandosi sia dal fatto che con il loro consenso, in assenza di figli minori, è possibile “alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare” i beni ed i frutti del fondo (art. 169 c.c.), sia dalla difficoltà di stabilire l’estraneità dell’obbligazione ai bisogni della famiglia, in presenza del congiunto consenso di entrambi coloro ai quali compete in forza dell’art. 144 c.c. proprio la determinazione dell’indirizzo di vita. Anzi a conferma del criterio dell’agire congiunto quale “unico” necessario all’assunzione di debiti rispondenti ai bisogni della famiglia, altra dottrina21 rileva come, diversamente ragionando, con l’ammettere che si possa contrarre debiti della famiglia anche da parte di uno solo dei coniugi sorgerebbe una responsabilità senza debito per il “coniuge non agente”, il quale si troverebbe esposto all’attività dell’altro senza possibilità di tutela.

20 21

Si veda A. Pino, Il diritto di famiglia, Padova, 1984, 130 e 144-145. In questo senso, G. Cian-G. Casarotto, op. cit., 828, secondo cui il “coniuge non agente” sarebbe più adeguatamente tutelato nei confronti dell’abusiva attività del coniuge agente in sede di opposizione alla esecuzione intrapresa dal creditore insoddisfatto; vi sarebbe una migliore garanzia per i beni oggetto del fondo, che, sia pure pro parte, non sarebbero sottoposti ad esecuzione forzata. Pertanto, i creditori della famiglia dovrebbero pretendere l’espressione congiunta del consenso. Tuttavia, tale “appesantimento” non trova alcun fondamento positivo e finirebbe per rendere oltremodo gravosa l’amministrazione del fondo.

907


Giurisprudenza

Tuttavia, non appare condivisibile gravare i terzi creditori di una tale ulteriore “limitazione” che non è scritta nelle norme e per di più è smentita da una lettura sistematica della disciplina codicistica in materia di regime della comunione legale a cui fa rinvio anche l’art. 168, ultimo comma, c.c. nel delineare l’amministrazione del fondo. Una tale limitazione di responsabilità non può trovare quindi applicazione nei confronti del terzo creditore, atteso il potere attribuito dall’ordinamento giuridico ad un solo coniuge nell’interesse del nucleo familiare (argomentando ex artt. 180, 181, 182 e 183 c.c.). Il coniuge non agente potrà infatti sempre agire ex art. 183 c.c. per l’esclusione dell’altro dall’amministrazione. In analogia con la comunione legale, dove la responsabilità del patrimonio comune dei coniugi è fissata nei criteri dell’articolo 186 c.c., il fondo patrimoniale deve rispondere innanzitutto dei “pesi” ed “oneri gravanti sui beni propri” (v. art. 186 lett. a), quindi dei “debiti di amministrazione” relativi agli stessi beni conferiti nel fondo (v. art. 186 lett. b), e così delle “spese per il mantenimento della famiglia”, per “l’istruzione ed educazione dei figli” ed ogni altra obbligazione contratta nell’interesse della famiglia (v. art. 186 lett. c); diversamente dalla comunione, invece, la responsabilità del fondo non sorge per il solo fatto che le obbligazioni sono state contratte congiuntamente22 dai coniugi (diversamente dalla lett. d) dell’art. 186 c.c.).

7. Conclusioni. La questione che emerge dalla fattispecie pervenuta all’esame delle Corte di Cassazione pone in evidenza tutte le criticità insite nella figura del fondo patrimoniale. Pur con tutte le cautele del caso, non si può però che salutare con favore la massima edita di questa Cassazione che, muovendosi nell’alveo già tracciato da un preciso filone giurisprudenziale, contribuisce a fare almeno chiarezza sul fronte dei “debiti personali” dei coniugi in quanto “pertinenti” alla propria impresa o attività libero-professionale. In defini-

22

Infatti, il fondo patrimoniale, a differenza del regime della comunione tra i coniugi, è un regime “particolare” e “ristretto” e la responsabilità per debiti è regolata dall’art. 170 c.c. con “norma speciale”. Il fondo come regime patrimoniale della famiglia partecipa dunque della solidarietà familiare, specie con riferimento alle obbligazioni contratte per le finalità dell’art. 147 c.c. mentre maggiori incertezze si prospettano nei casi in cui le obbligazioni sorte fossero dirette al soddisfacimento dei bisogni di vita dei coniugi. Di fronte a chi valorizza il principio di solidarietà discendente dall’art. 144, comma 2, c.c. che attribuisce a ciascun coniuge il potere di attuare l’indirizzo di vita concordato: A. Falzea, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, I, 624 ss.; C.M. Bianca, op. cit., 55; G. Gabrielli, I rapporti patrimoniali tra coniugi, Trieste, 1981, 17; F. Corsi, op. cit., 40 ss.; S. Patti, Diritto di mantenimento e prestazione di lavoro nella riforma del diritto di famiglia, in Dir. fam., 1977, 1366; di contrario avviso, A. Finocchiaro-M. Finocchiaro op. ult. cit., 281 ss.; cui adde V. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, I, Milano, 1991, 88 ss.; nonché N. Scannicchio. con ampia bibliografia, in nota a Cass. 18 giugno 1990, n. 6118, in Foro it., 1991, I, 831. Sull’estraneità dei debiti di impresa di uno dei coniugi al fondo ed alla responsabilità dei beni con esso destinati a fra fronte ai bisogni della famiglia, puntualmente T. Auletta, op. ult. cit., 323 ss.

908


Francesco Merola

tiva, la Corte effettua una “lettura positiva” dell’istituto del fondo patrimoniale affermando l’assenza di qualsiasi automatismo nella responsabilità dei beni destinati ex artt. 167-170 a far fronte ai bisogni della famiglia in rapporto, appunto, alle obbligazioni contratte dai coniugi nell’ambito della propria “attività economica di rischio”. Si apprezza così il bilanciamento equilibrato delle “ragioni della famiglia” da un lato e quelle, contrapposte, della generalità dei creditori a cui risulta opponibile l’impignorabilità dei beni e frutti del fondo ex art. 170 c.c. oltre i rimedi degli artt. 2901 e 2929-bis c.c. La Corte, pur non arrivando ad affermare che il fondo patrimoniale è una sorta di “assicurazione di un minimo vitale” per la famiglia contro i dissesti e le iniziative speculative estranee alla famiglia, offre un criterio certo e ragionevole per la salvaguardia delle buone ragioni del “peculio familiare” non tralasciando spunti processuali sull’onere della prova per contemperare tale esigenza di tutela con l’interesse dei creditori a smascherare le ipotesi maggiormente elusive e quindi, non a caso, coerentemente con la lettera dell’art. 170 c.c. si concentra sulle obbligazioni di “fonte contrattuale” rispetto alle quali il creditore può rendersi conto delle finalità extrafamiliari – almeno nei casi più evidenti – per cui possano essere state contratte. La prova di tale conoscenza, anche mediante semplici presunzioni (valevoli in primis per debiti d’impresa), come esplicitamente riconosce la Corte, grava sui coniugi debitori; mentre, sui creditori che pretendano di ravvisare un nesso tra l’obbligazione e gli interessi familiari grava la prova della finalità endo-familiare che, nel caso concreto, i coniugi abbiano voluto perseguire. La natura “contrattuale” della fonte costitutiva dell’obbligazione rilevante ai sensi dell’articolo 170 c.c. evoca, anche per la questione in esame, la nota teoria della “causa in concreto” per la quale l’atto negoziale dev’essere indagato non tanto e solo in relazione alla sua sussumibilità in schemi tipici o atipici (art. 1322 c.c.) in funzione della causa economico-sociale ma dev’essere apprezzato anche e soprattutto per le finalità concrete – causa economico-individuale – avute di mira dagli interessati ai fini di una corretta ricostruzione interpretativa degli effetti del negozio e delle conseguenti “responsabilità”23. Francesco Merola

23

Sulla causa economico-individuale si fa riferimento alle magistrali pagine di C.M. Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, 452-455. Nell’ambito specifico della responsabilità dei beni del fondo patrimoniale in funzione della natura dell’obbligazione da opporre al creditore anche sulla base di presunzioni, ancora T. Auletta, op. ult. cit., 324.

909



Giurisprudenza Trib. Milano, sez. IV, 5 gennaio 2021, n. 42; Cozzi Giudice Rinuncia all’eredità – Impugnazione – Riparto dell’onere probatorio Per l’impugnazione della rinuncia ereditaria ai sensi dell’art. 524 c.c. il presupposto oggettivo è costituito unicamente dal prevedibile danno ai creditori, che si verifica quando, al momento dell’esercizio dell’azione, i beni personali del rinunziante appaiono insufficienti a soddisfare del tutto i suoi creditori; ove dimostrata da parte del creditore impugnante l’idoneità della rinuncia a recare pregiudizio alle sue ragioni, grava sul debitore provare che, nonostante la rinuncia, il suo residuo patrimonio è in grado di soddisfare il credito dell’attore.

(Omissis)

Sf. Fa. e Be. Ga. Do. eccepivano la propria

Motivazione

carenza di legittimazione passiva e contestava-

Il Fallimento M. s.r.l. conveniva in giudizio Sf.

no nel merito la domanda attorea; in particolare

Ro. chiedendo la revoca della rinuncia del pre-

esponevano che il Ro. Sf. aveva già ricevuto dal

detto all’eredità relitta del padre Sf. Fr. (resa con

padre Fr. Sf. somme per oltre Euro 371.000,00 e

dichiarazione al Cancelliere del Tribunale di Mi-

doveva ritenersi più che soddisfatto in ogni sua

lano del 6.10.2014), che si era quindi devoluta

possibile pretesa sull’eredità paterna.

agli altri eredi legittimi, ossia alla madre del convenuto, Be. Ga. Do., ed al fratello, Sf. Fa. Il Fallimento esponeva di essere creditore del convenuto Sf. Ro. e che, a causa della rinuncia, il patrimonio di Sf. Ro. era “azzerato”, con conseguente impossibilità per i creditori di soddisfare le loro ragioni. Il Fallimento M. s.r.l. concludeva quindi chiedendo l’accertamento del proprio credito nei confronti di Sf. Ro., la revoca della rinuncia di quest’ultimo all’eredità paterna e l’autorizzazione all’accettazione dell’eredità del de cuius Fr. Sf. ex art. 524 cod. civ. Inoltre, ferma restando la legittimazione pas-

Anche Sf. Ro. chiedeva il rigetto delle domande dell’attore contestandole nel merito. In particolare riconosceva di aver ricevuto donazioni dal padre per oltre Euro trecentomila e contestava di essere debitore del Fallimento attore in quanto il credito fatto valere dalla M. s.r.l. nei confronti della Forniture per Pelletterie sas di Ro. Sf. e C era stato estinto per compensazione con il credito vantato dalla Forniture per Pelletterie sas di Ro. Sf. e C nei confronti della M. s.r.l. per la vendita, nel gennaio 2011, di beni di cui alle fatture 1/10.1.2011, 2/18.1.2011 e 3/27.1.2011 (doc. n. 1-3 di parte conv.) riportati anche nell’inventario del Fallimento, per l’importo di Euro 53.293,20

siva spettante unicamente a Sf. Ro., il giudizio

(Euro 44.411,00 per imponibile ed Euro 8.882,20

veniva esteso dall’attore anche a Ga. Do. Be. ed

per IVA – all’aliquota del tempo-).

a Fa. Sf., al fine di consentire la trascrizione della

Venivano assegnati i termini di cui all’art. 183,

domanda giudiziale, come da giurisprudenza di

VI comma, n. 1, 2, 3, c.p.c. e la causa veniva

legittimità (ex multis, Cass. Civ., sez. III, n. 15468

istruita documentalmente e mediante la prova te-

del 15/10/2003 e docc. 17, 18 – fasc.di parte at-

stimoniale.

trice). Si costituivano regolarmente in giudizio tutte le parti convenute.

All’udienza del 10/9/2020 la causa veniva trattenuta in decisione, sulle conclusioni precisate dalle parti, come riportate in epigrafe, con l’asse-

911


Giurisprudenza

gnazione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per

attorea di impugnazione della rinuncia da parte

il deposito degli scritti conclusivi.

di Sf. Ro. ex art. 524 c.c., di cui alla nota reg. gen.

La domanda attorea è fondata e merita accoglimento per i motivi di seguito indicati.

62781 reg. part. n 43660 presentazione n 59 del 30.7.2018 (doc. n 17 fasc.att.)

È opportuno premettere che legittimato pas-

Nel merito il Fallimento M. s.r.l. ha dedotto di

sivo rispetto alle domande attoree è il convenuto

vantare un credito dell’importo di Euro 44.209,37

Sf. Ro. ma che la citazione in giudizio dei con-

dall’anno 2010 nei confronti della Forniture per

venuti Sf. Fa. e Be. Ga. Do. è giustificata ai fini

Pelletterie s.a.s. di Ro. Sf. & c. – società cancellata

della trascrizione della domanda nei confronti

dall’albo delle imprese artigiane dall’1.1.2010 –

dei soggetti ai quali è stata devoluta l’eredità, ex

che può essere fatto valere nei confronti del so-

art. 2659 c.c., che è rilevante per la risoluzione

cio accomandatario Ro. Sf., il quale, rinunciando

del conflitto tra il creditore del rinunziante e gli

alla eredità paterna, devoluta per legge, ha leso il

aventi causa dell’erede accettante in luogo del

diritto di credito della società fallita.

rinunziante, come da giurisprudenza richiamata

La qualità di socio accomandatario della For-

dalla stessa parte attrice: In caso di conflitto tra i

niture per Pelletterie s.a.s. di Ro. Sf. & c del con-

creditori dell’erede che abbia deciso di rinunziare

venuto Ro. Sf. è provata dalla visura storica della

all’eredità (i quali, come noto, hanno diritto di

società della CCIA (doc. n 3 fasc. attore), oltre a

agire, ex art. 524 cod. civ., onde sentirsi autoriz-

non essere stata contestata dal convenuto.

zare ad accettare in nome e in luogo del debitore

Sono parimenti circostanze pacifiche e docu-

rinunziante) e gli aventi causa di colui che, a sua

mentali: l’apertura della successione legittima del

volta in qualità di erede, abbia accettato l’eredità

de cuius Fr. Sf. in data 28.4.2014 e la rinuncia

in luogo del rinunziante, perchè possa conseguir-

all’eredità del figlio Ro. Sf., al quale sarebbe spet-

si l’effetto previsto dall’art. 2652 n. 1 cod. civ. è

tata la quota di un terzo, con conseguente accre-

necessario che la domanda con la quale si eserci-

scimento della quota spettante agli altri eredi Be.

ti l’impugnazione ex art. 524 cod. civ. sia trascritta

Ga. Do. (coniuge del de cuius) e a Sf. Fa. (altro fi-

nei confronti di colui al quale l’eredità è devolu-

glio del de cuius), come risulta dalla dichiarazio-

ta, che deve essere necessariamente convenuto

ne di rinuncia resa in data 6 ottobre 2014 avan-

in giudizio insieme al rinunciante. In mancanza

ti al Cancelliere del Tribunale di Milano - R.G.

di trascrizione della domanda nei confronti del

9265/2014, dalla dichiarazione di successione e

successivo chiamato al quale l’eredità è devoluta

dalla divisione dell’eredità (docc. 4, 5 – fasc. di

per effetto della rinuncia, il conflitto tra creditori

parte attrice).

del rinunciante ed aventi causa dell’accettante si

Dalla denuncia di successione risulta che

risolve in favore di questi ultimi, indipendente-

l’eredità di Fr. Sf. comprendeva beni mobili ed

mente dalla circostanza che il loro acquisto sia

immobili del valore, al netto delle passività, di

stato trascritto successivamente alla trascrizione

complessivi Euro 212.058,02 (cfr. ancora doc. 4

della domanda ex art. 524 cod. civ. proposta nei

– fasc. att.).

confronti del rinunciante. Cass. Sez. 3, Sentenza n.15468 del 15/10/2003.

Il pregiudizio che la rinuncia all’eredità paterna ha arrecato ai creditori di Sf. Ro. è desumibi-

Ne consegue che Sf. Fa. e Be. Ga. Do. sono

le dall’assenza di altri beni integranti la garanzia

stati correttamente convenuti in giudizio quali

patrimoniale generica del debitore di cui all’art.

eredi che hanno accettato l’eredità del de cuius

2740 c.c., considerato che, a fronte della dedu-

Sf. Fr., al fine della trascrizione della domanda

zione dell’attore secondo cui il patrimonio del

912


Vera Sciarrino

debitore è “azzerato”, era onere del convenuto provare di essere in grado di soddisfare i creditori nonostante la rinuncia all’eredità del padre, come da giurisprudenza che si richiama: Per l’impugnazione della rinuncia ereditaria ai sensi dell’art. 524 c.c. il presupposto oggettivo è costituito unicamente dal prevedibile danno ai creditori, che si verifica quando, al momento dell’esercizio dell’azione, i beni personali del rinunziante appaiono insufficienti a soddisfare del tutto i suoi creditori; ove dimostrata da parte del creditore impugnante l’idoneità della rinuncia a recare pregiudizio alle sue ragioni, grava sul debitore provare che, nonostante la rinuncia, il suo residuo patrimonio è in grado di soddisfare il credito dell’attore. (Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 5994 del 04/03/2020). Nella specie, il convenuto ha ammesso l’assenza di beni personali allegando di aver subito la procedura esecutiva immobiliare n 2570/2013 RGE Tribunale di Milano, conclusasi con il decreto di trasferimento rep. n 1381/2016 agli aggiudicatari, “per cui dall’aprile 2016 si è trovato nella condizione di dover essere ospitato dalla madre”. Al fine dell’impugnazione della rinuncia all’eredità, è sufficiente che la rinuncia sia pregiudizievole per i creditori, a prescindere dall’eventuale frode che possa avere ispirato la rinuncia del debitore; infatti, l’art. 524 c.c. mira a tutelare le ragioni dei creditori che verrebbero frustrate dal rinunziante, il quale, con la rinuncia all’eredità, farebbe conseguire un vantaggio a favore degli altri eredi in danno alle ragioni dei suoi creditori. È quindi irrilevante il motivo che ha indotto il convenuto a rinunciare all’eredità paterna, che è ravvisato dai convenuti nelle donazioni ricevute dal padre nel corso degli anni per oltre trecentomila Euro (Euro 371.843,78 secondo lo stesso convenuto Ro. Sf.), non essendo rilevante l’intenzionalità della lesione prodotta ai creditori con la rinuncia all’eredità ma solo il fatto oggettivo del prevedibile danno ai creditori, che nella specie

è desumibile dall’assenza di beni personali del rinunziante. Quanto al credito della M. s.r.l. si osserva che è provata l’esistenza del credito di Euro 44.209,37 nei confronti di Sf. Ro.. Innazitutto è provato che il debito di Forniture per Pelletterie s.a.s. verso M. s.r.l. è attualmente in capo al convenuto Sf. Ro., già socio accomandatario ed illimitatamente responsabile di Forniture per pelletterie s.a.s., che è stata cancellata dal Registro delle Imprese (doc. 3, fasc. di parte attrice). Inoltre dall’ultimo bilancio depositato da M. s.r.l. ed approvato dai soci, risalente al 31 dicembre 2011, risulta che il debito di Forniture per pelletterie s.a.s. è ricompreso nello “stato patrimoniale”, ove i crediti esigibili entro l’esercizio successivo (2012) ammontano ad Euro 121.215,00 e tra questi vi è il debito per cui è causa (docc. 6 e 7 – fasc. di parte attrice); anche il bilancio a sezioni contrapposte (attività e passività) di M. s.r.l., nella sezione relativa alle attività esigibili, riporta il conto clienti n. 111.0527, Euro 44.209,37, di Forniture per pelletterie s.a.s. di Sf. Ro. (cfr. doc. 8, pag. 2 – fasc. di parte attrice). La prova testimoniale ha confermato l’esistenza del credito per un importo superiore (Euro 52.330,00) alla data del 31.12.2011, come da dichiarazione resa dal dott. Gu. Pe. (commercialista della società fallita e della Forniture per pelletterie s.a.s. di Ro. Sf.), sulla base del Bilancio in forma abbreviata (c.d. “bilancino”) della società Forniture per pelletterie s.a.s. di Sf. Ro., sottoscritto da Ro. Sf., che, tra le passività, riporta un debito verso M. s.r.l. di Euro 52.330,09 (doc. 11 – fasc. di parte attrice). La provenienza del c.d. bilancino, sottoscritto dal socio accomandatario Ro. Sf., è confermato anche dal testimone Pe. Is.. È quindi certo che, al 31 dicembre 2011, M. s.r.l. vantava un credito nei confronti della Forniture per pelletterie s.a.s. di Euro 44.209,37, come è provato dalla documentazione contabile della

913


Giurisprudenza

società creditrice che trova corrispondenza con

Infine, deve essere respinta la domanda ex

quella delle debitrice (che riporta il superiore im-

art. 96 c.p.c. non essendo ravvisabili nelle difese

porto di Euro 52.330,00).

delle parti convenute elementi per desumere la

Il convenuto Sf. Ro. assume l’estinzione per compensazione del suddetto credito in forza del-

responsabilità aggravata nel resistere alle domande attoree.

la vendita di beni da parte della Forniture per

P.Q.M.

pelletterie s.a.s. di Sf. Ro. alla M. s.r.l. di cui al-

il Tribunale in composizione monocratica,

le fatture nn.1,2,3 del 10.1.2011, 18.1.2011 e

ogni diversa domanda disattesa o assorbita, defi-

27.1.2011 (doc. 1,2,3 fasc. conv.). Le fatture so-

nitivamente decidendo, così provvede:

no però inidonee a provare il credito a favore

1) accerta e dichiara l’esistenza del credito del

dell’emittente, considerato che si tratta di docu-

Fallimento M. s.r.l. in liquidazione nei confronti

menti di formazione unilaterale, che non hanno

di Ro. Sf. di Euro 44.209,37 e condanna Ro. Sf. al

corrispondenza nelle scritture contabili delle due

pagamento in favore del Fallimento attore della

società (cfr doc. n 21 fasc. attore) e che non ri-

somma di Euro 44.209,37, oltre interessi dal 30

sultano accettate dalla M. s.r.l., considerato che la

aprile 2018 al saldo;

generica descrizione dei beni di cui alle fatture

2) revoca la rinuncia da parte di Ro. Sf. all’e-

non consente di ritenere che si tratti degli stessi

redità del de cuius Fr. Sf. ed autorizza il credito-

beni inventariati dal Fallimento cinque anni dopo

re Fallimento M. s.r.l. in liquidazione, in persona

(verbale d’inventario del 20.5.2016 = doc. n. 9

del Curatore fallimentare, ad accettare l’eredità in

fasc. conv.).

nome e luogo del rinunziante, se del caso anche

Deve quindi essere accolta la domanda di cui

con beneficio di inventario, per soddisfarsi sui

all’art. 524 c.c. di impugnazione della rinunzia

beni ereditari fino alla concorrenza del credito di

ereditaria di Sf. Ro. e deve essere autorizzato il

cui al n 1);

creditore Fallimento M. s.r.l. in liquidazione ad accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante, suo debitore, se del caso anche con beneficio di inventario, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza del suo credito accertato in Euro 44.209,37.

3) rigetta le eccezioni e domande delle parti convenute; 4) rigetta la domanda ex art. 96 c.p.c. dell’attore; 5) condanna i convenuti, in solido tra loro, alla rifusione delle spese di lite in favore dell’at-

L’attore ha diritto anche alla rifusione delle

tore che liquida in complessive Euro 4.000,00 per

spese di lite dalle parti convenute soccomben-

compenso, Euro 518,00 per spese, oltre 15 % per

ti, che si liquidano come da dispositivo ex D.M.

spese forfetarie, c.p.a. e i.v.a..

55/2014, con la riduzione del valori medi tenuto

Milano, 28 dicembre 2020. (Omissis)

conto della non complessità delle questioni trat-

(Omissis)

tate.

914


Vera Sciarrino

Impugnazione, opposizione, accettazione o accettazione “in nome e per conto”: ancora dubbi sulla natura dell’azione ex art. 524 c.c.* Sommario :

1. Il fatto ed il principio di diritto. – 2. L’azione ex art. 524 c.c. e la tutela dei creditori del rinunziante. – 3. Qualche considerazione sull’applicabilità dell’art. 524 c.c. in presenza di una rinunzia all’azione di reintegrazione della legittima. – 4. Rinunzia all’eredità e rinunzia all’azione di riduzione. Il fallimento e la tutela del credito. – 5. L’infelice formulazione dell’art. 524 c.c. mette ancora in crisi l’interprete. – 6. La rinunzia ed il danno ai creditori.

In this note, the Author reflects on the particular protection instrument recognized to the creditors of the renouncer of the inheritance by evaluating, given the unfortunate wording of art. 524 c.c., whether this remedy could be considered a case of challenge against the waiver, of opposition to it or of acceptance of the inheritance “in the name and on behalf” of the renouncing debtor. Are also assessed the consequences of renouncing the inheritance in the event of bankruptcy and liquidation of the assets (art. 14-ter ss., L. no. 3/2012). Lastly, the Author focuses on the assumption of the harmfulness of the renunciation and whether, in the case of active inheritance, the damage should be still concretely assessed taking into account any collation and imputation to be made by the called party.

1. Il fatto ed il principio di diritto. La pronuncia che si annota riguarda un caso di “impugnazione della rinunzia” all’eredità da parte del creditore del rinunziante, azione disciplinata dall’art. 524 c.c. Questi, brevemente, i fatti. La Curatela del fallimento della società xxx esponeva di essere creditrice del sig. yyy, il quale aveva rinunciato all’eredità relitta dal padre, eredità che si era così devoluta interamente agli altri eredi legittimi del de cuius (madre e fratello del debitore). Aggiungeva che il rinunziante non era titolare di altri beni integranti la garanzia patrimoniale generica (art. 2740 c.c.).

*

Il presente contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.

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Giurisprudenza

Chiedeva, quindi, al Tribunale, previo accertamento del credito, di dichiarare la revoca della rinunzia e di essere autorizzata ad accettare l’eredità ai sensi dell’art. 524 c.c. L’azione era promossa, oltre che nei confronti del debitore, anche verso i due eredi legittimi del defunto ai quali si era devoluta interamente l’eredità e ciò al fine di consentire la trascrizione della domanda giudiziale. Si costituivano tutte le parti convenute. La madre ed il fratello del debitore, oltre a negare la loro legittimazione passiva, contestavano nel merito la domanda attorea esponendo che il congiunto rinunziante aveva già ricevuto dal padre una donazione di oltre euro 371.000,00 e doveva ritenersi pertanto più che soddisfatto in ogni sua possibile pretesa sull’eredità paterna. Anche il rinunziante chiedeva il rigetto delle domande formulate dalla Curatela confermando, da un lato, di aver ricevuto detta somma dal padre e contestando, dall’altro, di essere debitore della Curatela in quanto il credito fatto da questa valere si era estinto per compensazione. Il Tribunale, preliminarmente, riconosceva la legittimazione passiva di tutti i convenuti, ritenendo la loro partecipazione necessaria ai fini della trascrizione della domanda giudiziale e della risoluzione degli eventuali conflitti tra i creditori del rinunziante (e, quindi, tra la Curatela fallimentare) e gli aventi causa degli eredi1. Nel merito, il giudice di primo grado osservava – dopo avere accertato la posizione debitoria del rinunziante ed escluso la compensazione da quest’ultimo eccepita – che non era stato assolto, da parte dell’autore dell’atto rinunziativo, l’onere di provare di essere in grado di soddisfare i creditori nonostante la rinunzia all’eredità paterna essendo, anzi, stata ammessa l’assenza di beni personali. Ritenendo sufficiente, al fine dell’esercizio dell’azione ex art. 524 c.c., che l’atto rinunziativo sia pregiudizievole per i creditori – senza che sia necessaria anche l’eventuale frode che possa avere determinato la rinunzia stessa e rimanendo del tutto irrilevante anche il motivo ad essa sottostante – il Tribunale accoglieva la domanda ed autorizzava la Curatela “ad accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante, suo debitore, se del caso anche con beneficio di inventario, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza del suo credito accertato”.

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La domanda giudiziale ex art. 524 c.c. va trascritta ai sensi degli artt. 2643 e 2652, n. 1, c.c. Nel conflitto fra i creditori del rinunziante ed i terzi acquirenti da colui che ha accettato in luogo del rinunziante prevale quindi chi per primo abbia trascritto. In dottrina, si rinvia sul punto a L. Ferri, Successioni in generale, in Comm. cod. civ., a cura di A. Scialoja-G. Branca, art. 512-535 c.c., BolognaRoma, 1968, 114. V., in giurisprudenza, sul tema, Cass. 29 marzo 2007, n. 7735, in Riv. notariato, 2008, 2, 456 e Cass. 15 ottobre 2003, n. 15468, in Riv. notariato, 2004, 1268. In particolare, in quest’ultima pronuncia si legge che «in caso di conflitto tra i creditori del rinunziante e gli aventi causa dell’erede che ha accettato l’eredità in luogo del rinunziante, per conseguire l’effetto previsto dal n. 1 dell’art. 2652 c.c. la domanda con la quale si esercita l’impugnazione ex art. 524 c.c. dev’essere trascritta nei confronti di colui al quale l’eredità è devoluta, che dev’essere necessariamente convenuto in giudizio insieme al rinunziante. In mancanza di trascrizione della domanda nei confronti del successivo chiamato al quale l’eredità è devoluta per effetto della rinunzia, il conflitto tra i creditori del rinunziante e gli aventi causa dell’accettante si risolve a favore di questi ultimi, indipendentemente dalla circostanza che il loro acquisto sia stato trascritto successivamente alla trascrizione della domanda ex art. 524 c.c. proposta nei confronti del rinunziante».

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2. L’azione ex art. 524 c.c. e la tutela dei creditori del rinunziante.

Prima di entrare nel merito della pronuncia, appare opportuno soffermarsi sui caratteri e sulle condizioni del rimedio giudiziale previsto all’art. 524 c.c., norma che introduce uno strumento di tutela per una particolare categoria di creditori, che è quella dei creditori personali del rinunziante, ai quali si permette di “impugnare” la rinunzia all’eredità posta in essere dal debitore se la stessa risulta lesiva delle loro ragioni. Ciò può avvenire se il patrimonio del debitore non sia sufficiente per soddisfare i diritti dei creditori e questi ultimi, per effetto della rinunzia all’eredità, non possono neanche giovarsi del patrimonio ereditario. A seguito del vittorioso esperimento dell’azione2, i creditori istanti3 possono poi soddisfarsi, fino alla concorrenza delle loro ragioni, sui beni dell’eredità ripudiata dal loro debitore. Ai fini dell’esercizio dell’azione occorre, innanzitutto, il compimento di un atto di rinunzia all’eredità4. Tale norma non potrà essere invocata se il chiamato non abbia manifestato ancora la sua volontà in merito alla delazione. In questo caso, infatti, difettando un atto di rinunzia, i creditori del chiamato possono soltanto esercitare l’actio interrogatoria (art. 481 c.c.) chiedendo al giudice la fissazione di un termine entro il quale il chiamato debba compiere la sua scelta e, successivamente, nell’ipotesi di atto rinunziativo, agire ex art. 524 c.c. Diversamente, se il chiamato non manifesti alcuna volontà nei termini di cui agli artt. 480 e 481 c.c., si verifica la perdita del diritto di accettare. In questi casi sarà precluso l’esercizio dell’azione disciplinata dall’art. 524 c.c., azione che la norma subordina espressamente al compimento di un atto (positivo) di rinunzia, ipotesi ben diversa dalla perdita del diritto di accettare5. Così come va esclusa l’applicazione della disposizione in esame

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Ritiene che l’azione possa esercitarsi anche ex art. 702-bis c.p.c. Trib. Pinerolo, 7 maggio 2015. L’azione non giova ai creditori non istanti salvo che questi non intervengano nel giudizio fino al momento della distribuzione del prezzo. Rimane comunque salvo il loro diritto di promuovere altra azione ex art. 524 c.c. sui beni relitti che eventualmente residuano. L’art. 524 c.c., stante il carattere eccezionale che alla stessa norma viene riconosciuto (infra par. 3), non si applica nella diversa ipotesi di un’accettazione dell’eredità pregiudizievole per i creditori dell’erede (come nel caso di accettazione pura e semplice ad un’eredità passiva). In questo caso i creditori potranno esercitare, qualora ne ricorrano i presupposti, l’azione revocatoria. Cfr. sul punto L. Ferri, Successioni in generale, cit., 108. L’art. 524 c.c. non trova poi applicazione nell’ipotesi di rinunzia al legato. È dubbio se i creditori di colui che, destinatario della disposizione mortis causa a titolo particolare, vi abbia rifiutato possano agire ex art. 2901 c.c. al fine di ottenere in ogni caso una declaratoria di inefficacia relativa dell’atto di rinunzia. In senso contrario L. Ferri, ult. cit., 117, secondo il quale, dovendosi considerare la rinunzia al legato, al pari della rinuncia all’eredità, un atto di rifiuto ostativo di un acquisto e non un atto di disposizione, in senso abdicativo, di diritti già acquistati, non ricorre, nella fattispecie, un “atto di disposizione”, necessario per l’esercizio dell’azione ex art. 2901 c.c. Nello stesso senso V. Sciarrino, La rinunzia all’eredità, in Comm. cod. civ., artt. 519-527 c.c., a cura di F.D. Busnelli, Milano, 2020, 148 ss. Contra C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, II, Milano, 1952, 115. Così V. Sciarrino, ult. cit., 216, ove si legge che «qualora potesse considerarsi quale rinunzia all’eredità la perdita del diritto di accettare, da ciò discenderebbe la facoltà per il chiamato/decaduto di accettare l’eredità revocando la “rinunzia” ex art. 525 c.c., facendo così venire meno le conseguenze della decadenza e paralizzando il meccanismo predisposto all’uopo dalla legge». Similmente P. Stanzione-G. Sciancalepore, Remissione e rinunzia, Milano, 2003, 389; A. Palazzo, Le successioni, in Tratt. dir. priv., a cura di G. Iudica-P.

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nel caso in cui l’erede riservatario, destinatario di un legato in sostituzione di legittima, abbia preferito conseguire il legato sebbene di valore inferiore alla quota a lui spettante per legge. Quanto al diritto del creditore istante, non occorre che il credito sia stato accertato nel suo preciso ammontare6 o che sia esigibile7. È da escludere, però, che il credito possa essere soltanto eventuale, ipotesi non prevista dall’art. 524 c.c. a differenza di quanto sancito dall’art. 2901 c.c.8. Occorre dunque che il credito, seppure condizionato, sia già sorto prima della rinunzia. Altro presupposto richiesto dalla norma è che la rinunzia all’eredità avvenga con danno ai creditori, che essa sia cioè pregiudizievole delle ragioni dei creditori come quando, da un lato, l’eredità rinunziata risulti attiva (non potendo i creditori ritenersi pregiudicati da una rinunzia ad un’eredità passiva) e, dall’altro, il patrimonio del debitore non risulti sufficiente per il soddisfacimento dei creditori9. Questi ultimi possono anche limitarsi a provare la sussistenza di un danno prevedibile, ossia l’esistenza di fondate ragioni che facciano apparire i beni del debitore insufficienti per la tutela del credito10. È però necessario che il pregiudizio (o comunque il pericolo dello stesso) sussista al momento della rinunzia, dovendosi considerare irrilevante la non capienza del patrimonio del debitore sopravvenuta rispetto al momento del compimento dell’atto rinunziativo11.

Zatti, Milano, 2000, 369; G. Grosso-A. Burdese, Le successioni. Parte generale, in Tratt. dir. civ., diretto da F. Vassalli, Torino, 1977, 347; L. Coviello j., Diritto successorio, Bari, 1962, 310; A. Zanni, Note minime in tema di impugnazione della rinunzia all’eredita`, nota a Cass. 24 novembre 2003, n. 17866, in Riv. Notariato, 2004, p. 1266. In giurisprudenza, cfr. App. Trieste, 20 maggio 1964, in Foro pad., 1965, I, 800. In senso contrario P. De Marchi, La c.d. impugnazione della rinunzia all’eredità e la perdita del diritto di accettare, in Riv. Notariato, 1961, 340, il quale ritiene che, in difetto di un’equiparazione tra le due fattispecie, i creditori rimarrebbero privi di tutela nel caso in cui il chiamato, al fine di frodarli, si accordasse con gli ulteriori successibili nel senso di fare esercitare loro l’actio interrogatoria nei suoi confronti in modo da consentirgli, invece di rinunziare (atto che consentirebbe ai suoi creditori di agire ex art. 524 c.c.), di lasciare decorrere invano il termine fissatogli, precludendo così ai creditori di agire. Per gli stessi motivi tale A. ritiene che l’art. 524 c.c. sia invocabile anche nel caso di cui all’art. 487, ult. comma, c.c. ma non anche nell’ipotesi di perdita del diritto di accettare per decorso del termine di cui all’art. 480 c.c., considerato che il creditore del chiamato ha, comunque, in quest’ultimo caso, a sua disposizione l’actio interrogatoria al fine di evitare il decorso del termine decennale e, dunque, il verificarsi di una situazione per lui sfavorevole. In giurisprudenza, nel senso dell’assimilazione ai fini di cui all’art. 524 c.c., della rinunzia all’eredità alla decadenza ex art. 481 c.c. v. Cass., 11 novembre 2021, in Familia, 23 novembre 2021, con nota di L. Collura, Esperibilità dell’azione ex art. 524 c.c. anche nell’ipotesi in cui il debitore abbia perso il diritto di accettare l’eredità a seguito di actio interrogatoria; Cass. 23 luglio 2020, n.15664; Cass. 29 marzo 2007, n. 7735; App. Torino, 21 dicembre 2017, n. 2739 e Trib. Grosseto, 1° marzo 2016, n. 199. 6 Secondo Trib. Terni, 30 ottobre 2019, n. 828 l’accertamento del credito è, in questo giudizio, meramente incidentale. La pronuncia ex art. 524 c.c. è infatti emessa “fino a concorrenza del credito”: 7 V. Cass. 14 giugno 1964, n. 1470. Così, in dottrina, G. Grosso-A. Burdese, Le successioni, Parte generale, cit., 347; F. Cavaliere, nota (senza titolo) a Cass. 25 marzo 1995, n. 3548, in Giur. it., 1996, I, 1, 656 e A. Burdese, voce Successione, in Enc. giur. Treccani, 1993, 10. 8 Secondo L. Ferri, Successioni in generale, cit., 111, non possono qui invocarsi, neppure in via integrativa, i principi dettati in tema di azione revocatoria ordinaria. V. anche, sul punto, A. Cicu, Successioni per causa di morte, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1961, p. 223. 9 Non si ritiene necessaria la preventiva negativa escussione del patrimonio del debitore. Cfr., sull’argomento, G. Grosso-A. Burdese, Le successioni, cit., 347 e, in giurisprudenza, Cass. 29 aprile 2016, n. 8519 e Trib. Terni, 30 ottobre 2019, n. 828, cit. 10 Secondo Cass., Ord., 4 marzo 2020, n. 5994, ove – dimostrata da parte del creditore istante l’idoneità della rinunzia a recare pregiudizio alle sue ragioni – grava sul debitore provare che, nonostante l’atto rinunziativo, il suo residuo patrimonio è in grado di soddisfare il credito dell’attore. 11 L’esercizio dell’azione ex art. 524 c.c. è stato escluso quando l’atto di rinunzia all’eredità sia anteriore al sorgere del credito ma sia stato dolosamente preordinato al fine di negarne o pregiudicarne il soddisfacimento. In tal senso Trib. Reggio Emilia, 3 maggio 2000,

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Non è invece richiesto il consilium fraudis. L’art. 524 c.c. non subordina la tutela dei creditori al previo accertamento dell’animo fraudolento del rinunziante. Così come non considera neppure rilevante la conoscenza che l’autore dell’atto rinunziativo abbia del possibile danno che dall’atto di rinunzia possa derivare per i creditori12. Né occorre la dimostrazione, da parte del creditore istante, della sussistenza di un’eventuale consapevolezza che di tale danno possono avere i chiamati di grado successivo al rinunziante che hanno posto in essere un atto di accettazione dell’eredità o i conchiamati che, per effetto dell’accrescimento, sono subentrati nella quota rinunziata. A tal ultimo riguardo, va detto che l’esercizio dell’azione in esame non deve infatti considerarsi impedito – nulla dicendo la norma al riguardo – dal fatto che, dopo la rinunzia, l’eredità sia stata accettata da ulteriori chiamati in subordine (o che abbia avuto luogo ipso iure l’accrescimento)13. Deve pertanto ritenersi che, anche in questi casi, i creditori del rinunziante possano agire sul patrimonio ereditario come se la rinunzia non vi fosse mai stata, non essendo quest’ultima a loro opponibile e risultando così l’eredità accettata da altro dei chiamati “vincolata” a garanzia di un debito del rinunziante14. Così come non rileva che la rinunzia sia o meno ancora revocabile (art. 525 c.c.) potendo, in ipotesi, il rinunziante esercitare lo ius poenitendi riconosciutogli dalla norma da ultimo citata anche dopo l’esercizio dell’azione in esame, determinando così la cessazione della materia del contendere.

3. Qualche considerazione sull’applicabilità dell’art. 524

c.c. in presenza di una rinunzia all’azione di reintegrazione della legittima. Tra i diversi tentativi di estendere l’ambito di operatività della norma in esame vi è quello di invocarne l’applicazione, se del caso analogica, in presenza di una rinunzia all’azione di riduzione15.

in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, 745, con nota di C. Coppola, Legittimazione attiva e passiva all’impugnazione della rinunzia all’eredità ex art. 524 c.c. 12 Trib. Roma, 20 ottobre 1994, in Guida al dir., 1995, n. 1, 32, con nota di R. Pastore, Un’azione giudiziaria autonoma che prescinde dalla frode del debitore. 13 V. L. Coviello j., Diritto successorio, cit., 379; L. Ferri, Successioni in generale, cit., 111. 14 I chiamati di grado successivo, che subiscono gli effetti di tale azione, potranno comunque agire nei confronti del rinunziante al fine di ripetere quanto i creditori di lui hanno sottratto all’eredità per il soddisfacimento delle loro ragioni o quanto corrisposto ai medesimi creditori per arrestare l’azione in questione. Cfr. A. Cicu, Successioni per causa di morte, cit., 222, secondo il quale “per l’effetto retroattivo, questi beni entrano nel patrimonio dell’erede accettante come già pignorati, già destinati al soddisfacimento del creditore revocante, rispettata la prelazione generata dal beneficio d’inventario o separazione”. Tale A. ritiene che i creditori del rinunziante vadano posposti rispetto ai creditori ereditari in presenza di un’accettazione beneficiata da parte di un chiamato in subordine o di separazione dei beni (art. 512 c.c.). Così anche L. Ferri, Successioni in generale, cit., 110. Sull’argomento cfr. anche G. Grosso-A. Burdese, Le successioni, cit., 349 e A. Palazzo, Le successioni, cit., 370. 15 Cfr., sul tema, A. Busani-A. Currao, Legittimario pretermesso inerte e azione di riduzione in via surrogatoria, in Notariato, 2019, 5,

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Invero, dalla rinunzia all’eredità la rinunzia all’azione di riduzione si distingue sotto il profilo funzionale e strutturale. La differenza tra i due istituti è certamente evidente nel caso in cui il riservatario sia stato del tutto estromesso dall’eredità, non potendo egli neppure essere considerato chiamato prima dell’accoglimento dell’azione di riduzione. La rinunzia all’eredità presuppone, invece, la delazione e l’assenza di quest’ultima impedisce pertanto il compimento di tale atto rinunziativo che è sorretto dalla chiara e manifesta volontà di non rendersi erede nonostante la chiamata. Il legittimario pretermesso può, quindi, rinunziare alla sola azione di riduzione ma non può anche porre in essere un atto di rinunzia all’eredità. I due istituti non possono essere assimilati neppure nella diversa ipotesi di legittimario “soltanto” leso che rinunzi all’azione di riduzione. Egli, infatti, si trova comunque a subentrare in una quota dell’eredità sia pure inferiore a quella che – per legge – gli spetta. La rinunzia all’azione di riduzione non lo esclude pertanto dalla successione, come avviene nel caso di una rinunzia all’eredità. Non gli consente soltanto di ottenere il supplemento al quale egli ha diritto. Come accennato, costituisce oggetto di vivace dibattito la potenzialità applicativa dell’art. 524 c.c. e, in particolare, la possibilità di tale norma di trovare attuazione anche in presenza di una rinunzia all’azione di reintegrazione della legittima o se, in quest’ultimo caso, al ceto creditorio non rimanga il solo strumento disciplinato all’art. 2901 c.c., sempre che ricorrano i presupposti contemplati in tale norma. Si ritiene che l’art. 524 c.c. non possa, in tale diversa fattispecie, trovare applicazione costituendo quella in esame una norma c.d. a fattispecie esclusiva, e cioè una disposizione che non può essere ricondotta ad alcun principio generale, rappresentando una particolarità nell’ambito dell’ordinamento giuridico, in quanto eccezionalmente prevista dal legislatore, per cui insuscettibile di analogia16. Ne consegue che l’azione revocatoria ordinaria è l’unico strumento attraverso il quale i creditori del legittimario possono aggredire la rinunzia di quest’ultimo all’azione di riduzione17.

528 ss., nota a Cass. 20 giugno 2019, n. 16623; F. Pirone, Rinunzia all’azione di riduzione ed art. 524 c.c.: la tutela del creditore del legittimario, in Notariato, 2018, 2, 221 ss. e A. Bigoni-F. Giovanzana, La tutela del creditore personale del legittimario tra surrogatoria, revocatoria ed art. 524 c.c., nota a Trib. Novara, 8 marzo 2013, in Notariato, 2013, 6, 658 ss. 16 V. L. Ferri, Dei legittimari, Libro II, Delle Successioni – Art. 536-564, Bologna, 1971, 201; F.S. Azzariti-G. Martinez-G. Azzariti, Successioni per causa di morte, cit., 242; V.R. Casulli, voce Riduzione delle donazioni e delle disposizioni testamentarie lesive della legittima, in Noviss. dig. it., Torino, 1957, 1061. In giurisprudenza v. Cass. 22 febbraio 2016, n. 3389; App. Trieste, 20 maggio 1964, cit. e Trib. Brescia, 26 gennaio 2018. 17 L’ammissibilità del rimedio ex art. 2901 c.c. presuppone comunque l’adesione alla tesi per cui l’azione di riduzione ha ex se un valore patrimoniale, altrimenti verrebbe a mancare uno dei presupposti essenziali dell’azione revocatoria ordinaria, vale a dire il pregiudizio del creditore derivante dalla deminutio patrimonii del debitore. Cfr., sul punto, L. Collura, Mezzi di tutela dei creditori del legittimario leso o pretermesso, in giustiziacivile.com, 24 gennaio 2020. In giurisprudenza, si rinvia a Cass. 5 marzo 1970, n. 543; Trib. Gorizia, 4 agosto 2003, in Familia, 2004, 12, 1187, con nota di G. Grassi, Rinuncia del legittimario pretermesso all’azione di riduzione e mezzi di tutela dei creditori: revoca della rinuncia ed esercizio in surroga dell’azione di riduzione e Trib. Novara, 18 marzo 2013. Si ricorda, comunque, la differente opzione ermeneutica che, muovendo dal presupposto che l’art. 524 c.c. non sia norma eccezionale né tanto meno a fattispecie esclusiva, invocando il principio della cd. “tutela conservativa del diritto del creditore”

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Una volta ottenuta la declaratoria di inefficacia relativa, i creditori potranno, ex art. 2900 c.c., esercitare l’azione di riduzione in luogo del legittimario rinunziante. Ma ciò, in realtà, soltanto nell’ipotesi di legittimario leso18 e non anche nel caso di legittimario pretermesso. In quest’ultima fattispecie, infatti, l’esercizio dell’azione di reintegrazione della legittima in via surrogatoria porterebbe l’inaccettabile effetto di fare divenire erede il legittimario non chiamato alla successione in contrasto, da un lato, con la volontà del de cuius e, dall’altro, con la volontà dello stesso riservatario pretermesso19. Quid iuris, poi, nel caso in cui il legittimario pretermesso o leso si limiti a non esercitare l’azione di riduzione senza, quindi, compiere un espresso atto di rinunzia alla medesima azione? In tale ipotesi ricorre certamente l’inerzia e, quindi, anche qui può ammettersi l’esercizio dell’azione di riduzione in via surrogatoria sempre che il debitore – come sopra detto – non sia un legittimario pretermesso. Non si condivide pertanto quel recente orientamento giurisprudenziale20 che, adottando chiaramente una soluzione di compromesso, ha ritenuto che, dalla lettura combinata e sistematica degli artt. 524, 557 e 2900 c.c., possa trarsi la conclusione secondo la quale l’art. 2900 c.c. riconosce al creditore la legittimazione ad esercitare l’azione di riduzione anche in caso di inerzia colpevole del legittimario pretermesso senza però che ciò com-

e considerati i vantaggi che si accompagnano a tale soluzione, ritiene che la stessa norma possa essere applicata analogicamente in presenza di una rinuncia all’azione di riduzione. Così S. Pagliantini, La frode per testamento ai creditori del legittimario: sulla c.d. volontà testamentaria negativa e tecniche di tutela dei creditori, in AA.VV., Tradizione e modernità del diritto ereditario nella prassi notarile, Milano, 2016, 212 ss. M. Criscuolo, La tutela dei creditori rispetto ad atti dispositivi della legittima, in AA.VV., Tradizione e modernità del diritto ereditario nella prassi notarile, cit., 129 ss. sottolinea i vantaggi legati all’applicazione analogica dell’art. 524 c.c. specie in relazione ai problemi suscettibili di insorgere nella fase esecutiva. Escludendo l’applicazione analogica dell’art. 524 c.c., i creditori del rinunziante dovrebbero dapprima esercitare l’azione revocatoria e, successivamente, l’azione surrogatoria. Ed allora, «ancorché i creditori del legittimario debbano essere preferiti ai creditori dei beneficiari delle disposizioni lesive, i tempi necessari all’espletamento di entrambi i giudizi, potrebbero poi portare alla concreta aggressione dei beni una volta che siano stati già sottoposti a pignoramento da parte dei secondi, con l’ulteriore conseguenza che ove gli stessi abbiano trascritto il pignoramento, ex art. 2915 c.c., sono destinati a prevalere, nel caso in cui la domanda dei creditori del legittimario non sia stata a sua volta trascritta in data anteriore». In giurisprudenza, sul tema, v. App. Napoli, 12 gennaio 2018, cit. 18 V. Cass. 30 ottobre 1959, n. 3208, in Rep. Foro it., 1969, voce Successione n. 3, in merito all’esercizio dell’azione di riduzione in via surrogatoria da parte del creditore del legittimario leso. Nella fattispecie, la Suprema Corte ha riconosciuto la legittimazione ad agire alla moglie separata avente diritto all’assegno di mantenimento in presenza di una lesione della legittima spettante al marito. 19 Cass. 26 ottobre 2017, n. 25441; Cass. 3 luglio 2013, n. 16635; Cass. 13 gennaio 2010, n. 368; Cass. 20 novembre 2008, n. 27556; Cass. 29 luglio 2008, n. 20562; Cass. 28 ottobre 1974, n. 3220; Cass., 28 gennaio 1964, n. 204. In dottrina, sull’argomento, tra i tanti, si rinvia a A.G. Annunziata, Sull’ammissibilità della legittimazione dei creditori personali del legittimario ad esperire in via surrogatoria l’azione di riduzione, in Fam. pers. succ., 2011, 3, 217 e A. Bigoni-F. Giovananza, La tutela del creditore personale del legittimario tra surrogatoria, revocatoria ed art. 524 c.c., cit., 655. 20 Cass. 20 giugno 2019, n. 16623, in Notariato, 2109, 5, 1223, con nota di A. Busani-A. Currao, op. cit., e in Notariato, 2020, 3, con nota di A. Torroni, L’azione di riduzione esercitata dai creditori del legittimario preterito che rimane inerte. la via stretta tra il rispetto della volontà del testatore e la tutela del credito, quale unico precedente della giurisprudenza di legittimità in tema di esercizio dell’azione surrogatoria da parte del creditore personale del legittimario inerte pretermesso. La Suprema Corte riconosce contenuto patrimoniale all’azione di riduzione ed esclude che si verta in materia di diritti o di azioni indisponibili ovvero disponibili solo dal suo titolare. E la circostanza che la legittimazione ad agire ex art. 557 c.c. sia riconosciuta anche agli aventi causa lascia intendere che non si verta in tema di azione indisponibile ovvero personalissima. Conformi, nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma 7 gennaio 1960, in Foro pad., 1960, I, 1067; Trib. Parma, 27 aprile 1974, in Giur. it., 1975, I, 350; Trib. Pesaro 11 agosto 2005, n. 604, in Corti Marchigiane, 2007, 2/3, 541.

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porti l’acquisto, per quest’ultimo, della qualità di erede all’esito del positivo esperimento dell’azione di riduzione da parte del creditore, così come, nel caso di azione ex art. 524 c.c., il rinunziante non acquista la qualità di erede. Tale soluzione giurisprudenziale è mossa soltanto dall’esigenza di garantire un bilanciamento di contrapposti interessi: da un lato, impedire al legittimario pretermesso l’acquisto della qualità di erede contro la propria volontà, dall’altro tutelare il creditore di fronte ad un atto del proprio debitore che arreca pregiudizio alle sue ragioni. Pur apprezzabile nel fine, siffatta impostazione non tiene conto del disposto di cui all’art. 476 c.c., norma che considera l’esercizio dell’azione di reintegrazione della legittima quale “atto che presuppone necessariamente la sua [del chiamato] volontà di accettare e che non avrebbe diritto di fare se non nella qualità di erede”21 nonché del fatto che l’acquisto della qualità di erede (a seguito dell’esercizio dell’azione di riduzione) non è subordinato al prodursi di un effetto positivo nel patrimonio del legittimario dovendo comunque il legittimario pretermesso domandare la restituzione dei beni ereditari non essendo la restituzione un effetto automatico connesso all’azione di riduzione22.

4. Rinunzia all’eredità e rinunzia all’azione di riduzione. Il fallimento e la tutela del credito.

Nella fattispecie oggetto della pronunzia in esame l’azione ex art. 524 c.c. è stata esercitata dal curatore fallimentare a tutela della massa. Invero, qualora il debitore del fallimento sia vocato mortis causa, il curatore dovrà valutare se e come tutelare i diritti dei creditori di fronte ad una serie di comportamenti omissivi o attivi posti in essere dal debitore con riguardo all’eredità a lui devoluta, se tali atti siano lesivi delle ragioni dei creditori. Stessa valutazione dovrà compiere il curatore nel caso di fallimento dell’imprenditore individuale o nell’ipotesi di fallimento dei soci illimitatamente responsabili ex art. 147 L.F. ovvero, ancora, nell’ipotesi di liquidazione del patrimonio ex artt. 14 ter ss. L. n. 3/2012, con riguardo agli atti computi dal fallito o dal debitore ammesso alla procedura di liquidazione in presenza di eredità che a loro è stata devoluta. Il curatore può, innanzitutto, esercitare, indipendentemente dalla qualifica o meno di legittimario del debitore o del fallito, l’azione di impugnazione della rinunzia all’eredità ai sensi dell’art. 524 c.c. Esperita vittoriosamente tale azione, il curatore potrà poi agire in via esecutiva sui beni relitti nei limiti di quanto sia necessario all’integrale soddisfacimento dei creditori ammessi al passivo.

21 22

In tal senso A. Busani-A. Currao, Legittimario pretermesso e azione di riduzione in via surrogatoria, cit., 530. Così sempre A. Busani-A. Currao, op. ult. cit., 530.

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Tale azione è esercitabile indipendentemente dall’anteriorità o meno della rinunzia all’eredità rispetto alla dichiarazione di fallimento (o all’apertura della procedura ex artt. 14-ter ss. L. n. 3/2012), con il solo limite della prescrizione quinquennale (art. 524, secondo comma, c.c.) e sempre che – come sopra detto – il credito del debitore o del fallito, seppur condizionato, sia sorto prima del compimento dell’atto rinunziativo. In presenza di una rinunzia all’eredità posta in essere dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, il curatore potrà anche invocare l’inefficacia di tale atto ex art. 44, primo comma, L.F. ai sensi del quale “tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”. La sanzione dell’inefficacia che colpisce gli atti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento opera automaticamente. Il curatore può valutare, comunque, la possibilità di promuovere un’azione di accertamento dell’inefficacia specie in presenza di un’accettazione dell’eredità intervenuta, dopo la rinunzia, da parte di altro dei chiamati. Eventualmente, l’azione ex art. 44 L.F. potrà essere proposta in via gradata rispetto all’azione di impugnazione di cui all’art. 524 c.c. Laddove, poi, il fallito sia stato vocato alla successione quale legittimario, il curatore potrà valutare se la quota di quest’ultimo sia stata lesa e se, ciò nonostante, il riservatario abbia omesso l’esercizio dell’azione di reintegrazione della legittima. In questi casi, il curatore può esercitare tale ultima azione in luogo del legittimario prevedendo l’art. 43 L.F. che “Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore”23. Non occorre, dunque, che l’azione del curatore passi attraverso l’art. 557 c.c. o l’art. 2900 c.c. avendo il curatore legittimazione attiva diretta riconosciutagli dalla legge24. Ciò però, come sopra detto, nella sola ipotesi di legittimario leso dovendosi negare che il curatore – come qualunque creditore – possa esercitare l’azione di riduzione in luogo di un legittimario fallito25 pretermesso che intenda rispettare la volontà del de cuius di non chiamarlo alla successione, pur se tale volontà sia lesiva dei suoi interessi26. Così come è da escludere la possibilità di invocare, in quest’ultimo caso, il rimedio giudiziale di cui all’art. 524 c.c., presupponendo la norma da ultimo citata un comportamento attivo (un atto di rinunzia all’eredità) al quale non è equiparabile l’inerzia del legittimario pretermesso. Considerazioni di natura diversa devono farsi laddove, invece, il legittimario fallito abbia posto in essere un espresso atto di rinunzia all’azione di reintegrazione della legittima.

23

Cfr., sul tema, S. Pagliantini, La frode per testamento ai creditori del legittimario: sulla c.d. volontà testamentaria negativa e tecniche di tutela dei creditori, cit., 206 ss. In giurisprudenza Cass. 15 maggio 2013, n. 11737; App. Napoli, 12 gennaio 2018 e Trib. Sanremo, 7 ottobre 2002. 24 Com’è noto, l’art. 43 L.F. trasferisce sul piano processuale gli effetti sostanziale conseguenti per il fallito dalla dichiarazione di fallimento. Alla perdita della disponibilità sostanziale del patrimonio si accompagna la perdita della legittimazione processuale, attiva e passiva, a tutelare i propri interessi. Cfr. Cass., 2 aprile 1996, n. 3055. 25 Al fallito è equiparabile – come detto sopra – il debitore ex artt. 14-ter ss. L. n. 3/2012. 26 V., contra, Cass., 20 giugno 2019, n. 16623, cit.

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Giurisprudenza

Va, preliminarmente, valutato se la rinunzia sia intervenuta prima o dopo la sentenza dichiarativa di fallimento. Nel secondo caso, la soluzione è offerta nuovamente dall’art. 44 L.F. ai sensi del quale anche la rinunzia all’azione di riduzione può considerarsi inefficace rispetto ai creditori27. Va esclusa, anche qui, la possibilità di applicare l’art. 524 c.c.28 stante, come detto, la differenza, sotto il profilo strutturale e funzionale, tra i due istituti. Diversamente, laddove la rinunzia all’azione di riduzione sia stata posta in essere prima della dichiarazione di fallimento, il curatore può, innanzitutto, valutare la possibilità di agire ai sensi dell’art. 557 c.c.29. Sebbene, infatti, tale norma riconosca la legittimazione attiva al legittimario, ai suoi eredi o ai suoi aventi causa (primo comma) ma non anche ai creditori del legittimario, si ritiene – argomentando ex art. 557, terzo comma30 – che debba essere riconosciuta la legittimazione ad agire anche ai creditori del legittimario leso, interpretando tale ultima disposizione in modo estensivo al fine di evitare di creare una disparità di trattamento tra le due categorie di creditori dello stesso soggetto (creditori del defunto divenuti creditori del legittimario leso che ha accettato puramente e semplicemente, da un lato e creditori del legittimario, dall’altro)31. Seguendo tale impostazione, il curatore fallimentare, a tutela della massa dei creditori, può pertanto agire ex art. 557, terzo comma, c.c. per esercitare, in via surrogatoria, l’azione di riduzione spettante al legittimario leso fallito. E si ritiene che, similmente, il curatore possa agire laddove la rinunzia all’azione di riduzione sia stata posta in essere da un debitore del fallimento. Difficile appare invece riconoscere, nonostante l’interpretazione estensiva dell’art. 557, terzo comma, c.c., la legittimazione ad agire ai creditori (e, quindi, al curatore) del legittimario pretermesso che abbia rinunziato all’azione di riduzione dato che, come sopra

27

Cfr. Cass., 6 settembre 1996, n. 8130. Cass., 29 luglio 2008, n. 20562 in Mass. Giust. civ., 2008, 9, n. 1297. Contra Trib. Napoli 15 ottobre 2003, in Giur. it., 2004, 1644, con nota di A. Bucelli, Rinunzia all’azione di riduzione e fallimento del legittimario, secondo il quale l’art. 524 c.c. trova applicazione anche in presenza di una rinunzia all’azione di riduzione e la curatela del fallimento del legittimario rinunziante è legittimata alla suddetta impugnazione ai sensi dell’art. 35 L.F., senza che possa invocarsi l’art. 64 L.F. 29 Cfr., in generale sul tema della tutela dei creditori del legittimario di ricorrere all’art. 557 c.c., S. Pagliantini, La frode per testamento ai creditori del legittimario: sulla c.d. volontà testamentaria negativa e tecniche di tutela dei creditori, cit., 206 ss. In giurisprudenza si rinvia a App. Napoli, 12 gennaio 2018, cit.; Trib. Roma, 22 gennaio 2014, n. 1564, in Foro it., 2014, I, 1308 secondo il quale in caso di disposizione testamentaria lesiva delle quote di legittima spettanti a soggetti falliti (totalmente pretermessi), ancorché costoro abbiano rinunziato all’azione di riduzione, va riconosciuta per analogia la legittimazione del curatore fallimentare a esperire l’azione ex art. 524 c.c., al fine di agire in via esecutiva su dette quote nei limiti di quanto sia necessario all’integrale soddisfazione dei creditori insinuati. V., sul punto, anche Trib. Napoli, 15 ottobre 2003, in Giur. napoletana, 2003, 12, 469. 30 L’art. 557, terzo comma, c.c. escludendo che i creditori del defunto possano esercitare l’azione di riduzione o, comunque, approfittarne se il legittimario avente diritto alla riduzione ha accettato con il beneficio d’inventario, riconosce – a contrario – la legittimazione ad agire ai creditori del defunto in presenza di accettazione pura e semplice. 31 Così A. Busani-A. Currao, Legittimario pretermesso e azione di riduzione in via surrogatoria, cit., 527 e M. Perreca, Considerazioni minime sugli strumenti di tutela dei creditori del legittimario verso la rinunzia tacita alla legittima, nota a Trib. Cagliari 14 febbraio 2002, in Riv. giur. sarda, 2003, 321.

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esposto, in questi casi all’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione si accompagna, per il legittimario pretermesso, l’acquisto della qualità di erede32. Nel caso di un atto di rinunzia all’azione di riduzione posto in essere anteriormente alla dichiarazione di fallimento, il curatore può anche valutare di agire con l’azione revocatoria fallimentare (art. 64 L.F.) o, ove fosse già trascorso il termine di due anni dall’atto revocando previsto dalla disposizione citata, con quella ordinaria ex artt. 66 L.F. e 2901 ss. c.c., sul presupposto dell’orientamento prevalente in giurisprudenza33 che riconosce all’azione di riduzione valore patrimoniale.

5. L’infelice formulazione dell’art. 524 c.c. mette ancora in crisi l’interprete.

Con la pronunzia in esame, il giudice di merito, accogliendo le domande attoree, ha autorizzato il curatore fallimentare “ad accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante, suo debitore, se del caso anche con beneficio di inventario, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza del suo credito accertato”. Il principio di diritto enunciato desta qualche perplessità. Esso, formalmente, appare in linea con il testo della norma in esame la quale prevede che i creditori possono farsi autorizzare dall’autorità giudiziaria ad accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante. Tuttavia, l’interpretazione strettamente letterale della disposizione non appare convincente anche perché non risulta in sintonia con la rubrica della stessa norma che, nel definire l’azione in esame, utilizza l’espressione “impugnazione”. Se – tramite il rimedio giudiziale in esame – i creditori “impugnano” la rinunzia, è da escludere che gli stessi, al contempo, pongano in essere un atto di accettazione. D’altronde, nel senso di escludere che i creditori del rinunziante pongano in essere un vero e proprio atto di accettazione dell’eredità depone, innanzitutto, il fatto che gli stessi non sono stati vocati alla successione34. La norma individua i legittimati attivi all’e-

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In tal senso L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, in A. Cicu-F. Messineo, Tratt. dir. civ. e comm., Milano, 2000, 256. Contra, A. Bucelli, Dei legittimari, Art. 536-564, in Il Cod. Civ. Comm., diretto da F. Busnelli, Milano, 2021 600, secondo il quale si realizza una lesione della parità di trattamento tra i creditori del legittimario sulla base dell’intensità delle lesione subita dal legittimario medesimo (totale o parziale). In giurisprudenza, v., sul tema, Cass., 9 dicembre 1995, n. 12632; Cass., 22 ottobre 1988, n. 5731; Cass., 12 marzo 1975, n. 928. 33 Cass., 20 giugno 2019, n. 16623; Cass., 20 gennaio 2009, n. 1373; Cass., 30 ottobre 2008, n. 26254; Trib. Gorizia, 4 agosto 2003; App. Roma, 27 ottobre 2010. V. App. Napoli, 12 gennaio 2018, n. 118, in Riv. notariato, 2018, p. 662, con nota di A. Leuzzi, La rinuncia del legittimario pretermesso all’azione di riduzione e i mezzi di tutela dei creditori e del curatore fallimentare, che riconosce al curatore fallimentare la possibilità di impugnare la rinunzia all’azione di riduzione posta in essere dal fallito, legittimario pretermesso, ai sensi del combinato disposto degli artt. 66, comma 1°, L.F. e 524 c.c. 34 Nel senso di escludere l’acquisto della qualità di eredi da parte dei creditori v. A. Cicu, Successioni per causa di morte, cit., 221; L. Ferri, Successioni in generale, cit., p. 116 e F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, cit., 452. In giurisprudenza, si rinvia,

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sercizio dell’azione nei “creditori” dovendosi pertanto escludere che gli stessi siano stati anche chiamati alla successione, per legge o ex testamento. In assenza di delazione, non può allora ammettersi che i creditori pongano in essere un atto di accettazione dato che quest’ultima li renderebbe eredi. Peraltro, non è da escludere che i creditori neppure conoscano il de cuius o che, comunque, non siano per nulla interessati a subentrare nel complesso della titolarità dei rapporti giuridici, attivi e passivi, facenti capo al defunto. Senza contare che l’azione in esame può essere esercitata anche dopo che l’eredità sia stata accettata da altro dei chiamati in subordine rispetto al rinunziante o dopo che si sia verificato l’accrescimento in favore dei conchiamati35. Il che, a maggior ragione, esclude che, attraverso il rimedio giudiziale in esame, i creditori pongano in essere un atto di accettazione. Ed anche quando l’azione ex art. 524 c.c. sia stata esperita prima dell’acquisto da parte di un chiamato di grado successivo (o conchiamato), essa non impedisce l’acquisto mortis causa da parte di questi ultimi36. Nel senso che i creditori non compiano alcun atto di accettazione dell’eredità può altresì rilevarsi che, anche una volta promossa l’azione in esame, nulla impedisce al rinunziante convenuto in giudizio, sempre che ricorrano i presupposti di cui all’art. 525 c.c., di porre in essere un atto di revoca della rinunzia all’eredità e rendersi pertanto successore della persona della cui eredità si tratta. Similmente, è da escludere che i creditori possano accettare l’eredità “in nome e luogo del rinunziante”, come l’interpretazione strettamente letterale della norma suggerirebbe e come il giudice di merito, con la sentenza che si annota, ha affermato. Il rimedio giudiziale previsto dall’art. 524 c.c. non è infatti un’azione di natura surrogatoria ex art. 2900 c.c.37.

tra le più recenti, a Trib. Ancona, 11 luglio 2016, n. 1306. Non vanno ignorate le esigenze di tutela delle ragioni dei conchiamati o dei chiamati di grado posteriore che subentrano al rinunziante e che possono essere lesi dall’esercizio dell’azione in esame, dato che, in caso di vittorioso esperimento dell’azione in esame da parte dei creditori, si trovano a beneficare di un’eredità (o di una quota di essa) inferiore a quella a loro devoluta, dovendo parte del patrimonio relitto subire l’azione esecutiva esercitata dai creditori del rinunziante. Sul punto si rinvia a V. Sciarrino, La rinunzia all’eredità, cit., 240, ove si rileva che gli eredi vedono entrare nel loro patrimonio i beni relitti vincolati in favore dei creditori del rinunziante salvo che non preferiscano rilasciare gli stessi beni ovvero offrire ai creditori quanto potrebbe ricavarsi dalla loro vendita, se non l’intera somma pari al loro credito. Rimane comunque sempre salva l’azione di regresso nei confronti del rinunziante o la facoltà di surroga nei diritti dei creditori soddisfatti, ex art. 1203, nn. 2 e 3, c.c. Cfr. L. Ferri, op. ult. cit., 113. In senso contrario all’esercizio dell’azione di regresso v. G. Grosso-A. Burdese, Le successioni, cit., 347. 36 In tema di litisconsorzio necessario degli eredi subentrati al rinunziante, dei successivi chiamati o dei conchiamati Cass. 23 luglio 2020, n. 15664; Cass. 25 marzo 1995, n. 3548, cit.; Cass. 18 gennaio 1982, n. 310, in Riv. not., 1982, 308; Cass. 12 giugno 1964, n. 1470, cit., e Trib. Ancona, 11 luglio 2019, n. 1306, cit.. Nel senso della legittimazione passiva di coloro che, in vece del rinunziante, hanno accettato è A. Cicu, Successioni per causa di morte, cit., p. 212. Si riconosce comunque la facoltà di intervenire sia agli eredi, subentrati al rinunziante, sia a coloro che, chiamati in subordine, non abbiano ancora accettato l’eredità (c.d. intervento adesivo dipendente) avendo essi interesse a negare il fondamento dell’azione dato che la sentenza emessa nei confronti del debitore, autore della rinuncia all’eredità, produrrà nei loro confronti un’efficacia riflessa. 37 V., sul punto, App. Torino, 21 dicembre 2017, n. 2739. 35

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Pur presentando i due strumenti a tutela del credito alcuni punti “di contatto” che hanno portato parte della dottrina a ritenere che l’azione in esame potesse considerarsi come una particolare applicazione dell’azione surrogatoria alla materia delle successioni, i due rimedi giudiziali, invero, non possono essere assimilati. Invero, l’individuazione della natura dell’azione in esame è oggetto di ampi dibattiti che hanno portato a vedere nella stessa, oltre che una peculiare figura di azione surrogatoria38, un’ipotesi di azione revocatoria ex art. 2901 c.c.39 ovvero, ancora, un’azione autonoma diversa dalle altre due citate. La tesi della natura surrogatoria poggia sulla considerazione che, attraverso l’esercizio di tale azione, il legislatore ha voluto consentire ai creditori del rinunziante di esercitare il diritto di quest’ultimo di revocare la rinunzia (art. 525 c.c.). A tal proposito si fa leva sul dettato letterale della norma in esame che consente ai creditori di ottenere un’autorizzazione giudiziale ad accettare l’eredità “in nome e luogo del rinunziante”, espressione che evoca il contenuto dell’azione ex art. 2900 c.c. La diversa tesi della natura revocatoria muove, invece, dal presupposto secondo il quale alla delazione va riconosciuto un carattere patrimoniale. La rinunzia all’eredità comporta, in questa prospettiva, la dismissione – se non dell’eredità che non è stata ancora acquistata – di un diritto di natura patrimoniale. Considerando allora la rinunzia un atto di disposizione che determina una diminuzione del patrimonio del chiamato, attraverso l’esercizio dell’azione in oggetto si priva la rinunzia di efficacia nei confronti del creditore istante40. È tuttavia preferibile ritenere che, sebbene qualche affinità sia ravvisabile tra l’azione descritta all’art. 524 c.c. e gli strumenti di tutela del credito di cui agli artt. 2900 e 2901 c.c., il rimedio giudiziale in commento sia piuttosto da considerare sui generis e ciò alla luce delle profonde differenze che al contempo sussistono41.

38

C.M. Bianca, Diritto civile, II, Milano, 2011, 477. In tal senso A. Cicu, Successioni per causa di morte, cit., 164, 220, il quale supera l’ostacolo rappresentato dalla necessaria ricorrenza della frode (art. 2901 c.c.) ritenendo che per frode debba intendersi la «violazione del dovere del debitore di conservare al creditore le garanzie del suo credito». Da qui la conclusione per cui «il chiamato, che potrebbe adempiere alle sue obbligazioni accettando l’eredità, che è già a sua disposizione come elemento del suo patrimonio, viola il suo dovere per il solo fatto della rinunzia, quando questa porta danno ai creditori. L’obiezione che egli può avere motivo di ripudiare l’eredità non è decisiva, come non lo sarebbe quella che, per escludere la revoca della donazione, adducesse che il debitore può aver motivo di donare. Comunque, il difetto del requisito della frode potrà indurre a considerare questo come un caso speciale di applicazione della figura della revocatoria, così come è della revocatoria fallimentare; ma niente di più». Nel senso della natura revocatoria anche P. Schlesinger, Successioni, cit. 40 Si osserva, a sostegno di questa tesi, che numerosi sono i punti di contatto tra le due discipline: la medesima durata del periodo prescrizionale (cinque anni); l’esperibilità dell’azione nei confronti dei terzi acquirenti di buona fede dall’erede accettante soltanto se la domanda giudiziale sia stata trascritta prima della trascrizione o iscrizione del loro acquisto (art. 2652 n. 5 c.c.); l’anteriorità del sorgere del credito rispetto all’atto di rinuncia o all’atto di disposizione. 41 Nel senso della natura autonoma dell’azione V. Sciarrino, La rinunzia all’eredità, cit., 226 ss.; G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., 222; G. Grosso-A. Burdese, Le successioni, cit., 346; L. Ferri, Successioni in generale, cit., 117 e Rinunzia e rifiuto nel diritto privato, cit., 113 ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle successioni, cit., 115; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, cit., 453; L. Bigliazzi-Geri, Della tutela dei diritti, sub. art. 2901, in Comm. cod. civ., Torino, 1980, 169. In giurisprudenza, per la natura autonoma dell’azione v., tra le tante, Cass., 24 novembre 2003, n. 17866, cit.; Cass., 25 marzo 1995, n. 3548, cit.; Cass., 18 gennaio 1982, n. 310; Cass. 10 agosto 1974, n. 2395, cit. e Cass. 10 agosto 1974, n. 2394, cit. 39

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Difetta infatti, da un lato, l’inerzia, dato che l’atto di rinunzia costituisce espressione di una chiara manifestazione di volontà del chiamato. Inoltre, sotto il profilo degli effetti, non si produce, come invece nel caso di vittorioso esperimento dell’azione surrogatoria, né l’acquisto della qualità di erede in capo al rinunziante né, comunque, un incremento del patrimonio dello stesso dato che, non avendo egli acquistato la qualità di erede, non va a suo vantaggio quanto dovesse eventualmente residuare dopo il soddisfacimento dei creditori istanti. Ancora, ammettendo la possibilità per i creditori del rinunziante di surrogarsi nel diritto di quest’ultimo di revocare la rinunzia ex art. 525 c.c., si giungerebbe alla conseguenza che il rinunziante si troverebbe ad essere erede contro la sua volontà. Invero, la sola presenza di debiti non può comportare l’acquisto coattivo della qualità di erede in assenza di un atto di accettazione neppure se ciò sia necessario per la tutela dei creditori. Parimenti, è da negare che lo strumento processuale in esame possa considerarsi come una particolare applicazione dell’azione pauliana non potendosi, innanzitutto, reputare la rinunzia all’eredità quale atto di disposizione ex art. 2901 c.c. La rinunzia non è infatti un atto con il quale si dispone del proprio patrimonio ma è un atto di “rifiuto”, impeditivo di un acquisto42. A ciò aggiunga che l’art. 524 c.c. non richiede la frode (a differenza dell’art. 2901 c.c.), né la semplice conoscenza, da parte del chiamato, del pregiudizio che dalla rinunzia discende per i creditori. È parimenti da escludere che, attraverso l’azione in esame, si voglia “impugnare” la rinunzia privando la stessa di validità43. Nonostante la terminologia impiegata dal legislatore, l’azione non è volta a rendere invalida la rinunzia. I creditori, d’altronde, non hanno l’interesse a far venire meno la validità dell’atto rinunziativo ma soltanto a reagire di fronte ad un atto compiuto in loro danno al fine di paralizzarne, nei loro confronti, l’efficacia. Un effetto così drastico e radicale, qual è quello dell’invalidità, mal si sposerebbe con quello che è lo scopo dell’azione. Quest’ultima mira soltanto ad assicurare ai creditori il soddisfacimento delle loro ragioni, fine che emerge chiaramente dalla norma secondo la quale l’autorizzazione giudiziale è concessa ai creditori “al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti”. La rinunzia, pertanto, rimane pienamente valida. Si può allora configurare il rimedio descritto, in modo non certamente felice, dall’art. 524 c.c., come una sorta di opposizione che consente ai creditori del rinunziante di rea-

42 43

Sul punto si rinvia a V. Sciarrino, La rinunzia all’eredità, cit., 24 s. Ma v. G. Azzariti-G. Martinez-S.F. Azzariti, Diritto civile italiano. Successioni per causa di morte e donazioni, cit., 136, nel senso dell’“annullamento” della rinunzia a seguito dell’esercizio dell’azione in esame. Contra C.M. Bianca, Diritto civile, II, cit., 559. Cfr. invece D. Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, cit., 806, che ritiene più opportuno parlare di opposizione piuttosto che di impugnazione.

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gire all’atto rinunziativo al fine di ottenere una pronunzia di inefficacia relativa in modo, successivamente, di aggredire il patrimonio ereditario come se il debitore avesse accettato. Al rimedio previsto all’art. 524 c.c. va allora riconosciuta una funzione ed un’efficacia limitata, essendo esso strumentale44 al soddisfacimento dei diritti dei creditori del rinunziante che potranno poi procedere, in via esecutiva e fino alla concorrenza del loro credito, sui beni dell’eredità ripudiata e, quindi, su beni che non sono di proprietà del loro debitore, determinando così tale azione, in deroga al principio di cui all’art. 2740 c.c., l’estensione della garanzia generica a beni altrui45. Il chiamato successivo al rinunziante, ove accetti, viene così ad acquistare l’eredità per la sola parte eccedente le ragioni dei creditori del rinunziante46. L’azione in esame consente pertanto di ottenere una declaratoria di inefficacia che non è soltanto relativa ma è anche, eventualmente, parziale (dato che la rinunzia, come detto, soddisfatte le ragioni del creditore precedente, conserva la sua efficacia sia nei confronti del chiamato che ha rinunziato, sia nei riguardi degli eredi che hanno accettato dopo la rinunzia del primo chiamato, sia erga omnes). Ciò comporta che l’eventuale attivo residuo rimarrà a favore di coloro che hanno accettato l’eredità in luogo del rinunziante ovvero a favore di quest’ultimo laddove egli abbia, nelle more, revocato la rinunzia47. Di fronte alle complesse questioni sottese alla norma in esame, la pronunzia in esame, invece, si limita a riprodurre l’oscuro testo di legge. Escluso – come detto – che vi possa essere un’accettazione dell’eredità da parte dei creditori, né per conto proprio né in nome e per conto del rinunziante, erra allora il giudice di merito nel limitarsi a riprodurre, tout court, la norma di legge, con l’aggravante, però, di avere previsto anche la possibilità per i creditori di accettare con beneficio di inventario. Quest’ultimo inciso appare, invero, del tutto incomprensibile considerato che, anche ammesso che si sia voluto riprodurre l’ambigua disposizione normativa, il riferimento al beneficio di inventario finisce per confondere e spiazzare l’interprete perchè sembra ammettere l’ammissibilità di una vera e propria accettazione dell’eredità posta in essere da parte dei creditori in nome e per conto del rinunziante il quale allora, in contrasto con la sua volontà già solennemente espressa, si troverebbe ad essere erede.

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Così G. Capozzi, Successioni e donazioni, cit., 221; G. Azzariti, L’impugnativa della rinunzia all’eredità da parte dei creditori e l’azione di riduzione in surrogatoria del debitore, cit., 779. Similmente, in giurisprudenza, Cass., 24 novembre 2003, n. 17866, in Corr. giur., 2004, 632, con nota di S. Conforti ed in Riv. notariato, 2004, I, 1263, con nota di A. Zanni, cit.; Cass. 25 marzo 1995, n. 3548, in Giur. it., 1996, I, 1, c. 654 e Cass. 12 giugno 1964, n. 1470, Cass. 10 agosto 1974, n. 2395, in Foro it., 1995, p. 381 e Trib. Ancona 11 luglio 2016, n. 1306. 45 Si veda V. Sciarrino, La rinunzia all’eredità, cit., 234 s. 46 F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, cit., 451. 47 Cfr. A. Cicu, Successioni per causa di morte, cit., 220, n. 37.

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Giurisprudenza

Con l’ulteriore aggravante che il Tribunale sembra avere rimesso al creditore la scelta del tipo di accettazione avendo affermato che, “se del caso”, l’accettazione può anche avvenire con beneficio di inventario. La pronuncia non brilla, pertanto, quanto a chiarezza e rischia di far tornare a galla i dubbi ermeneutici che l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale ha cercato, negli ultimi decenni, di dissipare.

6. La rinunzia ed il danno ai creditori. Un’ultima riflessione suscita la lettura della sentenza in esame a proposito dell’accertamento del presupposto della dannosità della rinunzia per i creditori istanti. Come si è detto, l’art. 524 c.c. richiede che la rinunzia all’eredità avvenga con danno dei creditori. Danno che certamente non sussiste in presenza di una rinunzia ad un’eredità passiva, per quanto non occorra – da parte dei creditori – la dimostrazione della previa negativa escussione del patrimonio del debitore48. È necessario, pertanto, da un lato, che l’eredità rinunziata risulti attiva e, dall’altro, che il patrimonio del debitore/rinunziante non appaia sufficiente, al momento dell’esercizio dell’azione, per il soddisfacimento integrale dei creditori49. A tal ultimo proposito, si ricorda che i creditori possono anche limitarsi a provare la sussistenza di un danno prevedibile50, ossia l’esistenza di fondate ragioni che facciano apparire i beni del debitore insufficienti per la tutela del credito. La sentenza che si annota ha ritenuto sussistente il danno ai creditori dato che l’eredità rinunziata era, come detto, attiva. A ben vedere, però, occorre riflettere se sia sufficiente che l’eredità presenti un attivo per considerare comunque esistente il danno ai creditori. E la fattispecie oggetto della pronunzia in esame offre, sul tema, ulteriori interessanti spunti di riflessione. Nel caso in oggetto l’eredità relitta aveva un valore, al netto della passività, di euro 212.058,02. Considerato però che il rinunziante era un legittimario ed aveva ricevuto cospicue donazioni dal de cuius quando questi era ancora in vita (circa euro 371.000,00), lo stesso sarebbe stato tenuto alla collazione ed all’imputazione che avrebbero portato all’azzeramento della porzione di eredità a lui spettante. L’accettazione dell’eredità non avrebbe allora determinato l’attribuzione al debitore di alcun diritto sul relictum. Non avrebbe,

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V. nota 9. V. Cass., 4 marzo 2020, n. 5994, in Giust. civ. mass., 2020 e Cass., 29 aprile 2016, n. 8519, in Giust. civ. mass., 2016, secondo le quali per l’impugnazione della rinunzia all’eredità ai sensi dell’art. 524 c.c. «è richiesto il solo presupposto oggettivo del prevedibile danno ai creditori, che si verifica quando, al momento dell›esercizio dell›azione, fondate ragioni facciano apparire i beni personali del rinunziante insufficienti a soddisfare del tutto i suoi creditori». 50 Cfr. Cass., ord., 4 marzo 2020, n. 5994, cit. 49

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Vera Sciarrino

cioè, comportato un incremento del patrimonio dello stesso il quale, anzi, sarebbe stato tenuto a conferire quanto ricevuto per donazione superando il donatum la quota a lui riservata. Ne consegue, allora, che i creditori, nell’ipotesi di accettazione dell’eredità da parte del loro debitore, non avrebbero potuto fare alcun affidamento sul patrimonio relitto. Nella sentenza in esame, però, con l’accoglimento della domanda ex art. 524 c.c., si è permesso ai creditori del rinunziante di aggredire il relictum che – come detto – sarebbe stato assegnato agli altri legittimari in caso di accettazione del debitore. In definitiva, i creditori hanno potuto contare sui beni ereditari che non avrebbero invece potuto aggredire in presenza di una accettazione del loro debitore. Tutto ciò a scapito degli altri riservatari. L’azione in esame rischia allora, in fattispecie come quella oggetto della sentenza che si annota, di ledere ingiustificatamente la quota degli altri legittimari le ragioni dei quali finiscono per soccombere rispetto alle ragioni dei creditori del rinunziante. Tale questione non è stata affrontata nel caso in oggetto probabilmente per la mancata difesa degli altri legittimari sul punto. Ciò che comunque appare certo è che la sola esistenza di un attivo relitto non può bastare a ritenere esistente il danno dei creditori dovendo tale presupposto oggettivo essere accertato in modo più rigoroso da parte dell’autorità giudiziaria tenendo conto anche di quanto ricevuto in vita dal rinunziante e dagli altri eredi convenuti. Vera Sciarrino

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Opinione di L. Battaglia-L. Gatt-A. MorresiP. Grimaldi Spazi Etici per i minori* Sommario : 1. Lo Spazio Etico: le origini. – 2. Pluralità semantica dell’espressione

Spazio Etico in riferimento al minore d’età. – 3. Spazio Etico nella scuola per contrastare il bullismo 4. Segue: Spazio Etico nella scuola come strumento di tutela della c.d. diversabilità. – 5. Spazio Etico del minore in ambito giudiziario. – 6. Segue: Spazio Etico come Group of Experts di supporto per rendere effettivo il diritto all’ascolto del minore presso gli organi giudiziari. – 7. Segue: Spazio Etico come luogo fisico ubicato presso gli organi giudiziari e declinato sul minore: il criterio del minor by design.

1. Lo Spazio Etico: le origini. La riflessione sulla categoria concettuale dello Spazio Etico, sostenuta dall’attenzione crescente per la Bioetica, è maturata da tempo nel settore sanitario attraverso la creazione di strutture e organismi in ambito ospedaliero. Per incoraggiare e accompagnare questa evoluzione in Francia fin dal 1995 è stato creato l’Espace Ethique de l’Assistance publique, un organismo inteso come luogo di ascolto, di incontro, di condivisione di saperi e di esperienze di vita, ma anche di confronto e dibattito tra tutti i soggetti interessati alla gestione del sistema sanitario: utenti, professionisti, cittadini. Istituito per la prima volta in un ospedale parigino è stato poi adottato come modello su tutto il territorio francese e dal 2010 è divenuto un centro di collaborazione dell’OMS per la bioetica. Una funzione, quindi, diversa da quella classica del Comitato Etico ma che può svolgere anche un ruolo di sostegno e di ausilio a quest’ultimo. Alle origini dello Spazio Etico vi è l’esigenza di tener conto dei bisogni e delle aspettative delle persone in un contesto di servizio pubblico ospedaliero, nella consapevolezza che le circostanze della malattia coinvolgono molteplici problemi morali e spirituali, diverse tradizioni culturali, specifiche vicende esistenziali e non da ultimo, rilevanti problemi giuridici: in altri termini, il mondo della vita in tutta la sua varietà e complessità. Al centro dell’attenzione è la persona nella realtà vissuta della malattia. Riconoscere la condizione di estrema vulnerabilità1 della persona malata significa da parte del medico ammettere che l’incontro interindividuale non può mai essere neutro. La cura in senso proprio impone lo sforzo di comprensione del malato nella sua identità più profonda, nella sua storia personale, nella sua cultura. Essa ha pertanto una innegabile dimensione etica; è un impegno che non può limitarsi alla pratica di un atto esclusivamente professionale e che quindi eccede il piano strettamente deontologico. In questa prospettiva l’originalità dello Spazio Etico risiede nel tentativo di superare lo stretto domi-

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Luisella Battaglia ha scritto Il paragrafo 1; Lucilla Gatt ha scritto i paragrafi 2, 5 e 7; Assuntina Morresi ha scritto il paragrafo 6; Paola Grimaldi ha scritto i paragrafi 3 e 4. Con specifico riferimento alla vulnerabilità in relazione alle neurotecnologie ed alla necessità di creare spazi etici nella progettazione di devices per persone disabili A.a. Mollo, La vulnerabilità tecnologica. Neurorights ed esigenze di tutela: profili etici e giuridici, in European Journal of Privacy Law & Technologies, I, 2021, in corso di pubblicazione e online al seguente link https://universitypress. unisob.na.it/ojs/index.php/ejplt/article/view/1326.

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nio dell’etica medica per favorire un’etica della cura che faccia tesoro delle pratiche, delle esperienze, delle riflessioni e delle intuizioni provenienti dall’attività quotidiana dei curanti e che, testimoniando un’attenzione alla singola persona nel suo ambiente familiare e sociale, rappresenti in modo tangibile un’attitudine di ascolto e di rispetto e, insieme, contribuisca alla dinamica di un pensiero che su questa base evolve e si perfeziona. Si tratta di promuovere un’etica dell’ospitalità che permetta alle persone malate, ai loro familiari come ai professionisti della salute, di sentire l’ospedale come un autentico luogo di vita dove il paziente è oggetto di un’attenzione multi prospettica, e non invece un luogo isolato dal resto dell’area urbana in cui è collocato. Seguendo la via dello Spazio Etico sembra possibile realizzare quel patto di cura di cui parla il filosofo Paul Ricoeur, scandito nei suoi diversi momenti e che si basa sulla reciproca fiducia tra curante e curato; la stessa fiducia che dovrebbe caratterizzare la relazione di cura medico-paziente di cui parla la nostra recente legge n. 219/2017 sulle c.d. direttive anticipate di trattamento. Ma nello Spazio Etico è possibile attuare ulteriori importanti obiettivi: a) sostenere gli operatori sanitari aiutandoli a contenere lo stress lavorativo imposto dai ritmi dell’azienda ospedaliera, e quindi prevenire il burnout, fronteggiando il cosiddetto moral distress; b) condividere uno spazio e un tempo per manifestare i propri dubbi, comunicare le difficoltà che si incontrano nella comunicazione di cattive notizie, individuare le modalità più appropriate per raccogliere un ‘vero’ consenso informato del paziente e, in caso sia necessario, dei suoi famigliari; c) rispondere alle domande di tutti coloro (parenti, tutori, amministratori di sostegno, associazioni, etc.) che sono coinvolti nelle pratiche di assistenza, circa le incertezze e i conflitti morali che possono insorgere nell’etica clinica. Lo Spazio Etico svolge, altresì, il ruolo di osservatorio, in grado di identificare, anticipare, analizzare le questioni etiche relative, ad es., alla pratica ospedaliera attraverso la costituzione di gruppi tematici di riflessione e di commissioni ad hoc per promuovere una analisi organizzata e una formazione degli operatori sanitari orientata all’acquisizione di competenze essenziali per affrontare i dilemmi etici inerenti la professione, attraverso, ad esempio, lo studio dei casi a posteriori. In questo modo si valorizza quella che si potrebbe chiamare la ‘storia della decisione’ che comporta una riflessione critica argomentata sull’azione di cura, sulle opzioni possibili e sulle scelte che si sono operate. In tal modo lo Spazio Etico è chiamato a svolgere un ruolo non solo di sostegno ai Comitati etici – cui offre una consulenza etica al fine di discutere e approfondire problematiche di particolare delicatezza e complessità – ma anche di ausilio effettivo e in tempo reale, contribuendo, ove possibile, a promuovere la mediazione di conflitti e, quindi, ad affrontare preliminarmente e, auspicabilmente, a risolvere situazioni che sarebbero altrimenti sottoposte ai Comitati Etici, dove, invece, giungerebbero, solo casi più complessi, non risolti nello Spazio Etico. Sempre in Francia nel 2002 sono stati costituiti Spazi Etici regionali e interregionali destinati ad essere luoghi di incontro, di formazione, di documentazione, di scambi interdisciplinari sulle questioni etiche nel campo della salute e, insieme, a svolgere una funzione di osservatorio sulle pratiche relative all’etica. Questi spazi partecipano altresì all’organizzazione – in collaborazione con università e centri di ricerca - di dibattiti pubblici al fine di favorire un approccio più articolato e approfondito alle problematiche etiche, valorizzando una pluralità di saperi, nonché di promuovere l’informazione e la consultazione dei cittadini sulle più rilevanti tematiche bioetiche. Fondamentale, ancora una volta, è la prospettiva interdisciplinare per favorire un incontro e un’interazione delle diverse competenze (medicina, scienze umane e sociali, diritto, filosofia, psicologia, economia, etc.) suscitando e coordinando iniziative che consentano di affrontare problematiche comuni ai professionisti della salute, ai ricercatori e ai cittadini. In conclusione, è importante sottolineare che il riferimento all’esperienza francese dovrebbe intendersi non tanto come un invito a replicare letteralmente tale esperienza nella situazione italiana quanto piuttosto come una sollecitazione a prendere in attenta considerazione un modello che ha

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Spazi Etici per i minori

prodotto e continua a produrre risultati significativi nei diversi ambiti di applicazione, e ad esaminare accuratamente le possibilità e le condizioni in cui auspicabilmente possa essere introdotto nel nostro paese. Per limitarci all’ambito medico, oggi avvertiamo il bisogno di una svolta radicale in sanità che si basi su una profonda revisione culturale e valoriale. Si pensi in particolare allo sviluppo di un “welfare di comunità” che, senza sostituirsi o sovrapporsi al ruolo dello Stato, metta la comunità al centro del piano riformatore, potenziando la medicina territoriale. Va, inoltre, segnalato che una recente indagine empirica, coadiuvata da chi scrive e condotta all’interno di alcune strutture ospedaliere italiane attraverso la somministrazione di un questionario agli operatori sanitari locali, ha fatto emergere un chiaro favor da parte degli stessi operatori verso la creazione di uno spazio etico all’interno dei presidi sanitari. In conclusione, la cura di prossimità e l’istituzione di “Case della Salute” in base al progetto europeo del NextGenerationEu potrebbero trovare negli Spazi Etici” – luoghi in cui sperimentare interventi adeguati a nuovi bisogni di salute – uno strumento particolarmente efficace per realizzare tale svolta innovativa la cui necessità è avvertita chiaramente in Italia anche dall’area giuridica che, nella persona di Natalino Irti e della sua Scuola, si è di recente interessata specificamente a queste istanze con l’evento del 17 giugno 2021 intitolato “Dignitas curae. Manifesto per una Sanità del Futuro”, svoltosi online presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Durante l’evento è stato presentato da Massimo Mastella, ordinario di cardiochirurgia dell’ateneo milanese, un programma di rinnovamento del rapporto di cura medico-paziente in una prospettiva di tutela effettiva della dignità umana2 che è la stessa prospettiva in cui va anche l’auspicio qui proposto di costituzione di Spazi Etici nelle strutture ospedaliere con uno specifico riguardo alla cura dei minori d’età.

2. Pluralità semantica dell’espressione Spazio Etico in riferimento al minore d’età.

Ove si abbia riguardo al minore di età la categoria concettuale dello Spazio Etico assume una molteplicità di significati in ragione dei diversi contesti in cui il minore opera o viene a trovarsi e, soprattutto, in ragione delle diverse prospettive di tutela che possono essere assunte nei confronti del minore medesimo. Esemplificando può dirsi che: a) l’educazione del minore necessita di uno Spazio Etico nelle scuole dove fenomeni di disagio, sopraffazione e bullismo sono ormai troppo diffusi e male affrontati; in contrasto con tutte le previsioni normative vigenti in Italia (e in Europa) che prevedono espressamente la presenza e l’operatività nelle scuole di ogni ordine e grado delle figure del pedagogista e dello psicologo che operino in spazi dedicati e opportunamente attrezzati per la tutela dei dati personali e per l’interazione con le tecnologie di supporto ove esistenti. Tali figure sono del tutto assenti nella pressoché totalità delle strutture scolastiche dove, tra l’altro, non esistono spazi dedicati né tecnologie di supporto e ciò è una manifestazione eclatante non rilevata né sanzionata di mancato rispetto di importanti norme

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Cfr. https://www.dimt.it/wp-content/uploads/2021/06/Seminario-Dignitas-curae.pdf.pdf Nel manifesto si afferma chiaramente che la cura della persona impone una umanizzazione della medicina affinché essa diventi medicina della prossimità, capace di rimuovere distanze e divari medico-malato ed evitare che le relazioni – che sono tempo di cura anch’esse – vengano devalorizzate.

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cogenti (cfr. legge n. 107/2015 c.d. Legge sulla Buona Scuola); b) la cura del minore, in particolare negli ambienti ospedalieri (ambulatoriali e medici in generale) richiede improrogabilmente la creazione di Spazi Etici – vale a dire: risorse umane specializzate che operano in determinati luoghi fisici – dedicati al supporto del paziente minore e della sua famiglia quando si trova ad affrontare questioni (non solo etiche) complesse nel percorso di cura del minore medesimo. Sull’adeguatezza della configurazione nei presidi medici e nei reparti ospedalieri sia degli ambienti di accoglienza del minore sia del personale non medico dedicato (anche qui: pedagogisti e psicologi dell’età evolutiva ma anche giuristi) è improrogabile fare una riflessione e, ancora di più, un’azione concreta di realizzazione in quanto – allo stato – il ricovero in strutture mediche si associa soltanto a luoghi e personale sanitari non sempre capaci di generare nel minore un senso di fiducia e, tantomeno, di benessere; c) la tutela giudiziaria del minore in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano impone la creazione presso tutti gli organi giudiziari dove sono coinvolti minori di uno Spazio Etico inteso nella duplice accezione di: 1) team di esperti che rendano effettivo l’esercizio del diritto del minore ad essere ascoltato e, più in generale, tutelato nelle procedure che lo riguardano: 2) luogo dedicato e dotato di personale specializzato in grado di interagire correttamente con il minore sia prima sia dopo sia durante l’ascolto o anche solo in situazioni di semplice attesa perché, comunque, in tutti questi casi il minore è particolarmente fragile ed esposto a gravi ed irreversibili danni morali.

3. Spazio Etico nella scuola per contrastare il bullismo. In un recente studio pubblicato sulla rivista Archives of Pediatrics & Adolescent Medicine3, a cui hanno partecipato molti Paesi, tra cui gli Stati Uniti ed i paesi anglosassoni per un periodo di due anni, gli esperti hanno osservato dei bambini in età scolastica (7-10 anni), annotando informazioni sugli episodi di bullismo di cui ciascuno era stato vittima, in considerazione dei problemi fisici o psicologici che questi manifestavano. Nel corso della sperimentazione i programmi anti-bullismo, ideati con metodo interdisciplinare, hanno dimostrato la loro efficacia registrando un percorso di miglioramento sia per la vittima che per l’oppressore che si è avvicinato ai programmi di recupero con una partecipazione dinamica alle attività scolastiche, ma anche ad un calo dei comportamenti di estraneità rispetto al sistema scuola4. Come dimostrato sempre più spesso dalle cronache di giornale, i fenomeni del bullismo e del cyberbullismo si manifestano in particolare in ambito scolastico. In ragione di ciò, proprio nella scuola, il fenomeno andrebbe inizialmente gestito. Ad oggi, però, nella gran parte degli istituti scolastici manca non solo un sistema di monitoraggio permanente sul fenomeno bullismo ma anche un’azione sinergica di tutti gli attori del sistema scuola (insegnanti, collaboratori scolastici, dirigenti scolastici, genitori e alunni stessi) che dovrebbero essere uniti nella lotta al bullismo nelle sue molteplici manifestazioni. Andrebbero, innanzitutto, applicate le leggi in materia che, in certi casi, necessiterebbero di un

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R. C. Vreeman-A.E. Carroll, A systematic review of schoolbased interventions to prevent bullying, in Archives of Pediatric and Adolescent Medicine, 2007, 161, 7888. C. D’Angelo, Il ruolo della scuola, della famiglia, dei media nella lotta contro il bullismo, in I giovani e la legalità, Spring edizioni, 2010, 43 ss.

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ripensamento e di una riforma in alcune loro parti5; andrebbero attuati gli indirizzi, gli strumenti utili indicati di recente dal MIUR nelle apposite campagne di informazione e di sensibilizzazione sul tema6. Soprattutto, come sottolineato anche dal Garante della privacy, intervenuto sul tema del cyberbullismo, è necessario “ripensare le regole della pedagogia”7; bisogna mirare ad una relazione significativa tra adulti e ragazzi fondata sulla presenza, sulla accoglienza e sulla continuità. Le dimensioni numeriche che il fenomeno del bullismo sta assumendo negli ultimi anni sono una chiara manifestazione di una gravissima patologia della società e quindi una patologia dell’educazione e della comunicazione che necessitano di una vera e propria rivoluzione del sistema educativo che agisca nella trasmissione dei valori della democrazia sin dalla scuola primaria8. Nella scuola l’intervento non può che essere di natura corale, la cooperazione e la collaborazione nell’individuare le azioni di bullismo, di intervenire su di esse ma soprattutto, quando è ancora possibile, di prevenirle. In questa prospettiva si colloca la proposta di creazione dello spazio alias luogo fisico con personale dedicato, luogo protetto e rispettoso della privacy, vale a dire Spazio Etico dove si può puntare alla responsabilizzazione, alla rieducazione, ad iniziative miranti ad educare ovvero ri-educare, per esempio, anche ad un uso corretto e critico di Internet e dei videogame. Nello Spazio Etico per le scuole andrebbero previste professionalità ulteriori9 rispetto a quelle già presenti in ogni istituto scolastico e, nello specifico, la figura del pedagogista, dello psicologo, del giurista, del bioeticista, del pediatra, del neuropsichiatra infantile in grado tutti, con un lavoro cooperativo, di progettare azioni ed interventi in grado di offrire adeguate opportunità educative tali da favorire interventi che perdano il carattere puramente repressivo a favore di altri e che consentano invece l’in-

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L’intervento del legislatore in materia con la Legge 71/2017 è stato salutato con entusiasmo dalla stampa e dai media in generale ma ciò che emerge è che lo stesso rischia, invece, di non risultare realmente efficace. Negli articoli 3 e 4 della Legge, ad esempio, nel prevedere rispettivamente il Piano di Azione Integrato e l’istituzione e la formazione del referente negli istituti scolastici non viene specificato con quali strumenti finanziari tutto ciò debba essere realizzato. Ancora, rimangono perplessità rispetto alla reale efficacia del previsto meccanismo di “oscuramento, rimozione o il blocco di qualsiasi altro dato personale del minore, diffuso nella rete internet” con la finalità di prevenire fenomeni di diffusione di dati personali potenzialmente lesivi per le vittime di cyberbullismo. In merito al trattamento dei dati personali dei minori in rete I. A. Caggiano, Minori d’età e GDPR, in Aa.Vv., Diritto di Famiglia e nuove tecnologie, a cura di E. De Belvis, Napoli 2021, 189-214 Cfr. https://www.noisiamopari.it/site/it/giornata-nazionale-contro-il-bullismo-e-cyberbullismo/; https://www.generazioniconnesse. it/; https://www.noisiamopari.it/site/it/il-piano-nazionale/. Audizione del Presidente del Garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro. Seguito dell’indagine conoscitiva sulle forme di violenza fra i minori e ai danni di bambini e adolescenti, 8 luglio 2020: cfr. https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/ docweb-display/docweb/9434094. AA.VV., John Dewey e la pedagogia democratica del ’900, a cura di M. Fiorucci-G. Lopez, Roma, 2017, che individuava proprio nel sistema scolastico quella ‘democrazia in miniatura’ che forma i cittadini di ogni comunità politica e sociale. Uno Spazio Etico multidisciplinare è stato realizzato in via sperimentale nel secondo semestre del 2020 presso i licei dell’Istituto scolastico Suor Orsola Benincasa a seguito della collaborazione tra professionisti di area legale, psicologica e pedagogica, tutti operanti presso l’Università Suor Orsola Benincasa, i quali, opportunamente coordinati, hanno elaborato il Progetto UNISOB/ ScuoleSOB denominato “TI ASCOLTO”: cfr. https://www.educhiamoci.com/ti-ascolto-uno-sportello-per-gli-alunni-dei-licei-sob/. Obiettivi del Progetto, in parte già realizzati e poi a causa del COVID-19 temporaneamente sospesi, sono: la creazione di uno spazio fisico adibito a sportello legale-psico-pedagogico rivolto a studenti di età adolescenziale e alle loro famiglie con il proposito di affrontare con modalità dinamiche le tematiche individuate sia in generale che entrando nello specifico dei rischi associati alle stesse; il miglioramento dell’integrazione delle politiche giovanili di livello locale sul tema del bullismo, del cyberbullismo, della violenza in rete, della netiquette on-line, delle dipendenze, con le progettualità nazionali; la definizione di una strategia di intervento su casi di bullismo e cyberbullismo conclamato; l’informazione e la formazione sulle regole di comportamento on-line (netiquette on-line); la definizione di una strategia di prevenzione e di contrasto ai fenomeni descritti attraverso attività di sensibilizzazione così da generare consapevolezza nei giovani circa i rischi che conseguono alle forme di violenza e di dipendenze innanzi indicate; il miglioramento della capacità di riflettere in modo critico sul disagio adolescenziale che si esprime attraverso comportamenti disadattivi e violenti con riferimento ai temi individuati .

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staurarsi di relazioni sociali che, a partire dalla condizione di disagio del minore, facciano emergere il dialogo e l’autonomia10.

4. Spazio Etico nella scuola come strumento di tutela della c.d. diversabilità.

Il ruolo dello Spazio Etico nella scuola si estende al mondo della disabilità. Parlare oggi di disabilità, di accoglienza, di integrazione e di inclusione di soggetti disabili nella scuola vuol dire ribadire, anche in questa sede, la necessità di interventi mirati e speciali che tengano conto delle particolarità e delle differenze che segnano la qualità di vita delle persone in stato di difficoltà. Ciò che bisogna riconoscere è che la persona disabile è un individuo con una propria identità, con una connotazione e delle caratteristiche proprie. La parola ‘disabile’, infatti, dichiara solamente che a un individuo mancano una o più competenze o abilità, ma non informa, in realtà, sul fatto che egli possiede anche delle abilità11. Il processo di integrazione che in questi anni ha portato gli alunni con disabilità all’inclusione nelle classi normali, impedisce di pensare oggi alla classe in termini di omogeneità nella quale inserire il minore in situazione di handicap12. Ai sistemi formativi è sempre più richiesto di tener conto di questa grande diversità di caratteristiche e bisogni con l’obiettivo di fornire significatività all’esperienza scolastica per tutti gli alunni. Nel perseguimento di tale obiettivo, famiglia e scuola diventano parte integrante l’una dell’altra, interagiscono con una posizione di pari dignità in un rapporto nuovo, mirato e solido. Proprio nella prospettiva della collaborazione scuola-famiglia si colloca la recente previsione normativa sul “patto educativo di corresponsabilità”13, che è sottoscritto al momento dell’iscrizione a scuola ed è finalizzato a definire in modo dettagliato e condiviso i diritti e i doveri nel rapporto tra istituzione scolastica, famiglie e studenti14.

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Nello Spazio Etico, il minore può essere educato dagli psicologi al senso del limite, al senso di responsabilità, all’acquisizione della consapevolezza che ogni azione porta con sé conseguenze. Lo Spazio Etico rappresenta il luogo dove il minore verrà accolto da riferimenti stabili, responsabili ed autoritari, luogo dove poter riflettere insieme ai pedagogisti sui valori, sul senso delle relazioni, sul concetto di violenza e sulla necessità di porre un limite all’espressione della aggressività tanto nel mondo reale quanto in quello virtuale della Rete. Lo Spazio Etico può anche offrire con i giuristi un primo orientamento sugli aspetti giuridicamente rilevanti della situazione analizzata e sui rimedi esistenti riguardo specifiche ipotesi di danno o, comunque, riguardo situazioni in senso lato contra legem, supportando la vittima nella valutazione di quale scelta effettuare per meglio tutelarsi. 11 Alla luce di queste osservazioni alcune associazioni hanno proposto allora di cambiare il termine ‘disabile’ in ‘diversamente abile’, che dà una lettura in positivo delle caratteristiche possedute dalla persona. Da un po’ di tempo, di conseguenza, si sta facendo strada una nuova terminologia che alla connotazione negativa implicita nel termine ‘disabilità’ oppone quella positiva del termine ‘diversabilità’, che vuole indicare una pluralità di categorie di normalità e abolire la vecchia concezione di disabilità. Diversabilità, infatti, è un termine, insieme, propositivo e positivo, che mette in evidenza l’essere diversamente abili di molte persone con deficit, che aiuta a vederle in una prospettiva nuova. 12 L’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha proposto sin dal 1980, una “Classificazione Internazionale dell’Handicap e Disabilità (ICDH) rimasta in vigore fino al 2000, anno in cui la stessa OMS ha pubblicato la seconda classificazione denominata “Classificazione Internazionale del Funzionamento e della Disabilità” (ICF). La prima classificazione evidenziava la “mancanza di qualcosa”, la seconda evidenzia maggiormente le possibilità di sviluppo del soggetto. 13 V. D.P.R. 21 novembre 2007, n. 235 e cfr. M. Pavone, Famiglia e progetto di vita. Crescere un figlio disabile dalla nascita alla vita adulta, Ed. Erickson, 2009, 246. 14 L’integrazione riguarda il singolo alunno, interviene prima sul soggetto disabile e poi sul contesto, mentre l’inclusione considera tutti gli alunni e interviene prima sul contesto e poi sul soggetto disabile.

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Quando si parla dei problemi della ‘diversità’ in rapporto alla scuola risulta evidente che l’istituzione scolastica, l’insegnante di sostegno, come anche le istituzioni extrascolastiche, giochino un ruolo determinante15. Occorre, difatti, che insegnanti, educatori, istruttori e terapisti siano a conoscenza di strategie adeguate e specifiche per non farsi trovare impreparati, offrendo così all’alunno diversamente abile gli strumenti che gli consentiranno di adeguarsi agli altri e rendersi partecipe della comunità mettendo così a frutto la sua ‘diversabilità’ e la sua sensibilità. L’integrazione scolastica si ottiene tramite l’aiuto di un operatore qualificato nell’ambiente scolastico alla persona disabile e con la programmazione di un’attività scolastica specifica, tale da permettere l’apprendimento e soprattutto le relazioni e la socializzazione16. Si vede, dunque, come lo Spazio Etico nella scuola costituirebbe per la disabilità un luogo accogliente, a misura di disabile, nel quale figure professionali e specializzate sulla disabilità (pedagogisti, psicologi, psicoterapeuti, medici, giuristi, bioeticisti, ecc.) possano supportare l’istituto scolastico, nelle persone che lo rappresentano (dirigente, educatori, insegnanti di sostegno, ecc...) ed i genitori nello svolgimento di una serie di compiti ed attività, specifiche e spesso complesse, riguardanti il bambino disabile17. Lo Spazio Etico è anche il luogo in senso fisico dove definire e valorizzare, con l’aiuto ed il supporto degli esperti coinvolti, le strategie di lavoro collaborativo tra compagni di classe che rappresentano la risorsa più preziosa per attivare i processi inclusivi. Lo Spazio Etico, così inteso, supporta l’istituto scolastico nella redazione dei documenti e delle certificazioni relative agli alunni con disabilità frequentanti l’istituto stesso, così come prescritto dalla normativa vigente18; sulla base della specifica documentazione così redatta, studiata e ben esaminata, attraverso l’aiuto degli esperti, si procederà agli itinerari di programmazione mirata dell’attività scolastica che saranno, evidentemente, orientati a rendere gli obiettivi e gli interventi educativi e didattici il più possibile adeguati alle esigenze e potenzialità evidenziate nella diagnosi funzionale19. A bene vedere, solo la creazione di un luogo tangibile sia nelle strutture sia nelle risorse umane nell’ambito degli istituti scolastici, specificamente dedicato ai minori disabili frequentanti e alle loro specifiche necessità, consentirebbe di dare concreta attuazione alla normativa esistente in materia, in

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In Italia, all’inizio del 1900, Maria Montessori, attraverso i suoi studi di neuroscienze, già prese in considerazione la disabilità affermando la prevalenza del modello pedagogico su quello medico nel recupero dei portatori di handicap, ritenendo che l’approccio al problema del disabile dovesse essere multidisciplinare; modello medico e modello educativo devono, quindi, integrarsi: cfr. V. Piazza, Maria Montessori. La via italiana all’handicap, Erickson, 2019. 16 Con gli studenti disabili assume perciò grande rilievo la figura singolare e versatile dell’insegnante, dato che ha una funzione mediatrice per un’educazione fisica e mentale del soggetto con difficoltà e per costruire una collaborazione con gli altri in modo da favorirne la convivenza: A.L. Dell’Aquila, Emilio e la musica. Come imparò a scalare le montagne della vita, Spring Edizioni, 2011. 17 Si pensi, ad esempio, al caso non raro che si presenta negli istituti scolastici del dover evidenziare le difficoltà cognitive, relazionali o sociali di qualche alunno e, quindi, di segnalare la necessità di un intervento precoce su tutti quei bambini che presentano difficoltà o impedimenti verso l’apprendimento laddove spesso alcuni genitori o non sono in grado di comprenderli o la loro capacità di afferrare il problema e rendersi conto delle difficoltà concrete che il bambino presenta è facilmente offuscata dal loro coinvolgimento emotivo. 18 L’istituzione scolastica, attualmente, quando accoglie alunni con disabilità, ha l’obbligo, come prevede il D. Lgs. 13 aprile 2017, n. 66, di redigere tre tipi di documenti per la certificazione delle loro difficoltà: la diagnosi funzionale (DF), il profilo dinamico funzionale (PDF) e il piano educativo individualizzato (PEI). Per una visione d’insieme sul punto cfr. L. Cottini, Didattica speciale e inclusione, Carocci, 2017. 19 Esistono, anche alcune strategie educativo-didattiche di base legate all’ambito dell’analisi del comportamento. L’insegnante, che lavora con BES, deve essere sistematicamente impegnato ad insegnare abilità, comportamenti adattivi e strategie più o meno complesse, in ambiti diversi, cognitivo, linguistico, autonomia personale, e sociale e abilità psicomotorie e interpersonali. L’elemento comune è l’obiettivo di accrescere i repertori di azioni del soggetto. Spesso gli obiettivi definiti dall’insegnante, per i casi BES, devono essere ridotti ed organizzati gradualmente, con apposite strategie e metodologie, per facilitare l’apprendimento. Tali strategie risultano importanti perché solo attraverso queste tecniche il disabile prende coscienza dell’ambiente che lo circonda e della sua “capacità del fare”. Questo perchè per gli alunni disabili è fondamentale mettere in atto una programmazione per la loro educazione che sia rilevante per i loro bisogni e non sia affatto una semplificazione o un adattamento del curriculum scolastico. Per un approfondimento di tali strategie di apprendimento e di comportamento strategico cfr. D. Ianes, La speciale normalità, Edizioni Centro Studi Erickson, 2013.

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particolare alla legge 5 febbraio 1992 n. 104 che, allo stato, vede un’attuazione solo formale come rilevato dalle associazioni di genitori di bambini disabili20. Lo Spazio Etico per la disabilità va, dunque, inteso come luogo strutturato21e gruppo di esperti capaci di supporto per tutti coloro che hanno a che fare quotidianamente con l’educazione e la cura di minori disabili, anche per una migliore comprensione di quali debbano essere i loro compiti ed i ruoli specifici, migliorando così i risultati dell’intervento scolastico-educativo e dando una risposta certamente più efficace alle esigenze di questi soggetti.

5. Spazio Etico del minore in ambito giudiziario Sintetizzando quanto sopra espresso e tenendo conto dei tre principali ambiti già individuati dell’educazione, della cura e della tutela giudiziaria, può dirsi che, in relazione al minore, lo Spazio Etico non è identificabile soltanto in un insieme di esperti aventi diversi ruoli e funzioni e che diano supporto nell’affrontare problemi etici in senso stretto, ma può essere inteso come rafforzamento dell’espressione stessa del minore (l’ascolto in ambito scolastico, medico e giudiziario) ovvero come spazio fisico declinato verso il minore e adeguato ad ospitarlo e accudirlo in momenti di particolare difficoltà, vale a dire come luogo progettato per il minore sia nella struttura sia nel personale che vi opera. Nella presente proposta lo Spazio Etico è riferito specificamente all’ambito della tutela giudiziaria del minore e si articola dunque nelle due accezioni sopra individuate (cfr. supra par. 2, lett. c) dell’insieme di esperti che rendano effettivo l’esercizio del diritto del minore ad essere ascoltato, da una parte, e, dall’altra, del luogo dedicato e dotato di personale specializzato in grado di interagire correttamente con il minore nei diversi momenti che scandiscono la sua presenza presso un organo giudiziario.

6. Segue: Spazio etico come Group of Experts di supporto per rendere effettivo il diritto all’ascolto del minore presso gli organi giudiziari

L’importanza dell’ascolto dei minori e il loro coinvolgimento nelle decisioni che li riguardano è un punto ampiamente condiviso all’interno del dibattito bioetico. Particolare attenzione vi è stata data specie in ambito sanitario, in riferimento al consenso informato ai trattamenti e alla ricerca scientifica (Convenzione di Oviedo, Cap.II – Consenso – art. 6)22. Rafforzare la partecipazione dei bambini alle decisioni

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A tal proposito, a parere di chi scrive, sarebbe opportuno modificare l’art. 14 della Legge 104/92 in tema di insegnamento di sostegno e prevedere, così, una classe di concorso dedicata alla disabilità che possa offrire una certa garanzia di dedizione, di sensibilità e di formazione ed aggiornamento continuate nel tempo durante tutto l’arco dell’esercizio dell’insegnamento sulla specifica materia, che garantisca quindi l’acquisizione di certe abilità specifiche che ogni insegnante di sostegno dovrebbe detenere. 21 Al di là della retorica dell’integrazione in aula con bambini c.d. normalmente abili, è giunto il momento di ammettere la necessità di predisporre nelle strutture scolastiche pubbliche spazi adeguati per alunni con disabilità che non consentono la permanenza in aula del soggetto disabile per più di un certo tempo ovvero che richiedono uno spazio di apprendimento adeguato e specifico. 22 Art. 6 «Protezione delle persone che non hanno la capacità di dare consenso» - «(1) Sotto riserva degli articoli 17 e 20, un intervento non può essere effettuato su una persona che non ha capacità di dare consenso, se non per un diretto beneficio della stessa. (2) Quando, secondo la legge, un minore non ha la capacità di dare consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo

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riguardanti la propria salute è uno degli obiettivi dello Strategic Plan Action del Consiglio d’Europa23. Si tratta di un principio etico che ha trovato spazio nell’ambito del diritto, ad esempio nella Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo (art.12) e nella Convenzione Europea sui diritti del Fanciullo (Strasburgo 25 gennaio 1996), dove agli artt. 3, 4, 6, 10 si delinea un “vero e proprio diritto processuale articolato in forme, facoltà, doveri ben precisi”24. Di particolare interesse la questione dell’ascolto dei minori nei provvedimenti che lo riguardano in ambito giudiziario, dove gli aspetti legali e sanitari si intrecciano e si sovrappongono, sia per la consolidata definizione di salute secondo l’OMS, “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità”, che per il ricorso alle CTU (Consulenze Tecniche d’Ufficio) da parte del giudice. Queste sono spesso costituite da personale sanitario che dovrebbe avere specifiche competenze pediatriche, e comunque sui minori in genere; ad essere chiamate in causa sono usualmente figure molto diverse fra loro, per esempio professionisti da sempre appartenenti all’ambito sanitario, come il neuropsichiatra infantile, oppure lo psicologo, quest’ultimo solo da poco annoverato fra le professioni sanitarie25, e a questo proposito va ricordata la norma connessa che prevede anche i LEA psicologici26; sono anche coinvolti nelle CTU operatori socio-sanitari come gli assistenti

rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge. Il parere di un minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità. (3) Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge. La persona interessata deve nei limiti del possibile essere associata alla procedura di autorizzazione. (4) Il rappresentante, l’autorità, la persona o l’organo menzionati ai paragrafi 2 e 3 ricevono, alle stesse condizioni, l’informazione menzionata all’articolo 5». 23 A. Altavilla-R. Halila-M.A. Kostopoulou-L. Lwoff, Strengthening children’s partecipation in their health: the new initiative of the Council of Europe, Lancet, published on line February 10, 2021, S2352-4642(21)00019-5, doi: 10.1016/S2352-4642(21)00019-5). 24 I. Grimaldi, L’ingresso della PAS nelle aule giudiziarie: incidenza, posizioni giurisprudenziali, conseguenze, 148, in G. Cassano-P. Corder-I. Grimaldi (a cura di), L’alienazione Parentale nelle Aule Giudiziarie, Maggioli Editore, 2019. 25 Legge 11 gennaio 2018, n. 3, recante: «Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute, Art. 9. (Ordinamento delle professioni di biologo e di psicologo), comma 4: «All’articolo 1 della legge 18 febbraio 1989, n. 56, è premesso il seguente: Art. 01. – (Categoria professionale degli psicologi) – 1. La professione di psicologo di cui alla presente legge è ricompresa tra le professioni sanitarie di cui al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233, ratificato dalla legge 17 aprile 1956, n. 561». 26 DPCM 12 gennaio 2017, Art. 24 «Assistenza sociosanitaria ai minori, alle donne, alle coppie, alle famiglie»: «1. Nell’ambito dell’assistenza distrettuale, domiciliare e territoriale ad accesso diretto, il Servizio sanitario nazionale garantisce alle donne, ai minori, alle coppie e alle famiglie, le prestazioni, anche domiciliari, mediche specialistiche, diagnostiche e terapeutiche, ostetriche, psicologiche e psicoterapeutiche, e riabilitative, mediante l’impiego di metodi e strumenti basati sulle più avanzate evidenze scientifiche, necessarie ed appropriate nei seguenti ambiti di attività: a) educazione e consulenza per la maternità e paternità responsabile; b) somministrazione dei mezzi necessari per la procreazione responsabile; c) consulenza preconcezionale; d) tutela della salute della donna, prevenzione e terapia delle malattie sessualmente trasmissibili, prevenzione e diagnosi precoce dei tumori genitali femminili in collaborazione con i centri di screening, e delle patologie benigne dell’apparato genitale; e) assistenza alla donna in stato di gravidanza e tutela della salute del nascituro anche ai fini della prevenzione del correlato disagio psichico; f) corsi di accompagnamento alla nascita in collaborazione con il presidio ospedaliero; g) assistenza al puerperio, promozione e sostegno dell’allattamento al seno e supporto nell’accudimento del neonato; h) consulenza, supporto psicologico e assistenza per l’interruzione volontaria della gravidanza e rilascio certificazioni; i) consulenza, supporto psicologico e assistenza per problemi di sterilità e infertilità e per procreazione medicalmente assistita; j) consulenza, supporto psicologico e assistenza per problemi correlati alla menopausa; k) consulenza ed assistenza psicologica per problemi individuali e di coppia; l) consulenza e assistenza a favore degli adolescenti, anche in collaborazione con le istituzioni scolastiche; m) prevenzione, valutazione, assistenza e supporto psicologico ai minori in situazione di disagio, in stato di abbandono o vittime di maltrattamenti e abusi; n) psicoterapia (individuale, di coppia, familiare, di gruppo); o) supporto psicologico e sociale a nuclei familiari in condizioni di disagio; p) valutazione e supporto psicologico a coppie e minori per l’affidamento familiare e l’adozione, anche nella fase successiva all’inserimento del minore nel nucleo familiare; q) rapporti con il Tribunale dei minori e adempimenti connessi (relazioni, certificazioni, ecc.); r) prevenzione, individuazione precoce e assistenza nei casi di violenza di genere e sessuale; s) consulenza specialistica e collaborazione con gli altri servizi distrettuali territoriali; t) consulenza e collaborazione con i pediatri di libera scelta e i medici di medicina generale. 2. L’assistenza distrettuale ai minori, alle donne, alle coppie, alle famiglie tiene conto di eventuali condizioni di disabilità ed è integrata da interventi sociali in relazione al

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sociali, con un profilo decisamente meno definito dal punto di vista della formazione professionale. Limitandoci al profilo etico che compete al presente documento, ed escludendo gli aspetti procedurali, si vogliono sottolineare due punti cruciali: un primo strettamente legato al consenso informato del minore, ed uno ulteriore più ampio, relativo al suo ascolto in generale. Il consenso informato richiede il coinvolgimento del minore nei trattamenti a carattere diagnostico e terapeutico, e questo pone alcuni problemi sulla validità dei trattamenti stessi, quando sono di tipo psicologico e includono anche provvedimenti in ambito legale e socio-sanitario – come ad es. la destinazione a una casa-famiglia. A differenza delle diagnosi e terapie tipicamente cliniche, la validazione di quelle psicologiche e più generalmente socio-sanitarie, non segue procedure stabilite da parte di autorità competenti riconosciute, come ad es. le agenzie regolatorie pubbliche (Aifa o Ema per i farmaci, ad es.), ma percorsi interni ai rispettivi ambiti professionali di cui non è possibile allo stato individuare protocolli validati in analogia a quanto avviene per i trattamenti diagnostico/farmacologici27. Si crea quindi una doppia “asimmetria etica” nel consenso informato nel minore:–- la prima dovuta al differente peso del suo coinvolgimento nei trattamenti stessi – legalmente non ne ha quando la legge prevede che ne abbia in proporzione al suo grado di maturità (cfr. artt. 315-bis, co. 3, e art. 336-bis, co, 1, c.c.) – rispetto a una persona di maggiore età; la seconda dovuta al differente, inevitabile maggior margine di discrezionalità nella validazione dei trattamenti psicologici e socio-sanitari rispetto a quelli più strettamente clinici, sia diagnostici che terapeutici. A questo si aggiunge o, meglio, è strettamente connessa la problematica dell’ascolto del minore in generale, oltre l’aspetto legato al consenso informato in ambito sanitario. La categoria de “il minore” vede al suo interno un intervallo di età che, dal punto di vista delle capacità cognitive ed espressive, può letteralmente dirsi immenso: dal neonato al “grande minore” di 17 anni, 11 mesi e 29 giorni, ognuno è un minore che ha diritto ad essere ascoltato a seconda delle proprie possibilità di esprimersi, possibilità che nel range di età in esame presentano evidenti enormi differenze. È importante che chi è chiamato ad ascoltare il minore sia in grado di farlo, sintonizzandosi sulla sua lunghezza d’onda e mettendolo nelle condizioni di esprimersi, senza per questo costituire un aggravio ulteriore dal punto di vista burocratico delle procedure giuridiche. Limitandoci a un punto di vista etico, e guardando all’ambito giudiziario, è importante quindi che tutti gli organi giudiziari presso i quali vengono condotti e coinvolti minori di età (vale a dire presso i Tribunali per i Minorenni ma non solo, visto che la gran parte dei procedimenti di separazione e divorzio si svolge presso il Tribunale Ordinario) si pongano il problema delle modalità di ascolto dei minori, guardando a ciascun singolo minore nelle sue condizioni, nei suoi bisogni e nel suo vissuto, mettendo a disposizione le competenze professionali necessarie allo scopo, e al tempo stesso con la flessibilità richiesta dalla varietà delle situazioni possibili. In questi contesti riteniamo che lo Spazio Etico inteso come gruppo di esperti dotati di competenze adeguate all’interazione con il minore d’età, possa costituire una ipotesi di lavoro necessaria: un ambito collegiale e pluridisciplinare in cui individuare le migliori modalità di ascolto del minore dalla logistica dei luoghi alla possibilità di ascolto per un tempo sufficientemente lungo da poterne comprendere la storia: un tempo che spesso non è quello delle singole valutazioni psicologiche personali ma che

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bisogno socioassistenziale emerso dalla valutazione». Il fatto che un procedimento diagnostico/terapeutico sia ampiamente condiviso dagli operatori di settore, e magari codificato in un testo intorno al quale si raggiunge un consenso importante (ad es. la Carta di Noto, per restare nell’ambito delle riflessioni del presente contributo, o comunque in generale documenti prodotti da Consensus Conferences) non dà di per sé un carattere di rigore scientifico al procedimento stesso. Se bastasse un consenso sufficientemente diffuso a rendere rigoroso un percorso diagnostico/ terapeutico, allora ad es. l’omeopatia vi rientrerebbe.

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richiede una conoscenza sufficientemente ampia del suo vissuto, con più fonti informative, che si può formare solo in un tempo adeguato. In conclusione lo Spazio Etico dei Tribunali nella sua accezione di Group of Experts nelle tecniche di ascolto e relazione con il minore potrebbe stabilire come e dove il minore deve essere ascoltato, individuare le professionalità competenti incaricate a farsene carico e verificare l’adeguatezza degli strumenti adottati, fermo restando il compito del giudice di operare una sintesi finale in base all’accertamento dei fatti avvenuti. Vale la pena precisare che la costituzione di tale Spazio etico con le caratteristiche sopra sommariamente descritte appare vieppiù improrogabile là dove si tratti di minori con disabilità di ogni genere (fisica e/o psichica). Va, altresì, precisato che del medesimo gruppo di esperti possono avvalersi anche i genitori del minore per affrontare la vicenda giudiziaria sia per problematiche loro proprie sia – specialmente – per problematiche generate dalla relazione con il minore.

7. Segue: Spazio Etico come luogo fisico ubicato presso

organi giudiziari e declinato sul minore: il criterio del minor by design Nella prospettiva qui assunta di una reale attuazione del principio etico fondante del best interest of the child come enunciato nei dati normativi individuati sub par. 2, appare, altresì, opportuno estendere – come detto – l’area semantica di Spazio Etico dalle persone ai luoghi e promuovere, quindi, la creazione presso tutti gli organi giudiziari che incardinano procedimenti coinvolgenti minori d’età, di spazi fisici dotati di personale titolato e adeguatamente preparato per lo svolgimento di specifici compiti nonché attrezzati con quanto occorre per l’accoglienza e l’intrattenimento in modo adeguato di un minore (con specifico riguardo alle fasce d’età più fragili) durante le lunghe ed estenuanti fasi di attesa che intercorrono tra l’arrivo in Tribunale e lo svolgimento dell’ascolto o della testimonianza o di altro intervento diretto del minore nel procedimento giudiziario che può riguardarlo personalmente ovvero riguardare i suoi genitori/parenti ovvero riguardare terzi. Si potrebbe, addirittura, ipotizzare la previsione a livello normativo del criterio del minor by design quale criterio da osservare ab origine nella progettazione e ideazione architettonica28 di strutture giudiziarie in cui devono trovare collocazione Spazi Etici concepiti come ambienti idonei ad ospitare un minore d’età che attenda – spesso molto a lungo – di essere ascoltato ovvero sottoposto ad altro esame o comunque introdotto ad una fase processuale che lo coinvolga direttamente o che coinvolga un genitore/ tutore, e, dunque, di luoghi adeguatamente curati nell’impatto visivo e sensoriale per generare benessere in un minore d’età che vive una situazione altamente traumatica nonché dotati di personale titolato e adeguatamente preparato per lo svolgimento di compiti specifici. Allo stato attuale la presenza di minori privi di qualsiasi assistenza, stazionanti per ore nei corridoi

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In ambito di edilizia scolastica è acquisito – anche se poco praticato in concreto – il criterio del minor by design: si veda il secondo contributo scientifico che la Fondazione Agnelli ha commissionato a ricercatori esterni in preparazione del suo Rapporto sull’Edilizia Scolastica, pubblicato da Laterza. Il paper WP 61/2019 è stato redatto e curato da Leonardo Tosi ed Elena Mosa, ricercatori dell’Indire – Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa. Il presidente dell’Indire, Giovanni Biondi, firma l’introduzione: L. Tosi-E. Mosa, Edilizia scolastica e spazi di apprendimento: linee di tendenza e scenari, Fondazione Agnelli.

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o sulle rampe di scale di edifici in cattivo stato di manutenzione è una realtà che contrasta in modo stridente con tutti i principi fondanti le costituzioni e le carte dei diritti nazionali e sovranazionali in materia di tutela del minore d’età. È auspicabile che il suggerito criterio del minor by design possa ispirare anche e soprattutto la realizzazione dei luoghi in cui il minore viene ascoltato nell’esercizio del diritto normativamente previsto di cui si è detto nel paragrafo precedente, diventando il principale criterio ispiratore nella realizzazione delle strutture giudiziarie che coinvolgono minori di età. In sintesi, lo Spazio Etico dei Tribunali va concepito anche nell’accezione di luogo fisico declinato in senso oggettivo (tipologia di struttura e di arredi) e soggettivo (adeguatezza del personale preposto: educatori et similia) sul minore in relazione alle diverse fasi spazio-temporali in cui il minore si trova ad agire ovvero ad attendere prima, dopo o durante il suo diretto coinvolgimento in un procedimento giudiziario. Vale la pena precisare che la costituzione di tale Spazio Etico con le caratteristiche sopra sommariamente descritte appare vieppiù improrogabile là dove si tratti di minori con disabilità di ogni genere (fisica e/o psichica).

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