DBMF 3/2021

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Saggi

ISSN 1722-8360

www.dirittobancaemercatifinanziari.it

di particolare interesse in questo fascicolo

Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

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Diritto della banca e del mercato finanziario

• Le fonti nel diritto dell’economia • Il ruolo dei soci negli accordi di ristrutturazione dei debiti • Estinzione delle società e crediti incerti • Tasso leasing e trasparenza

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Pacini

luglio-settembre

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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è attualmente coordinato dal prof. Daniele Vattermoli. Nell’anno 2020, hanno fornito le loro valutazioni ai fini della pubblicazione i prof. Lucia Calvosa, Giuseppina Capaldo, Vincenzo Caridi, Giacomo D’Attorre, Gianvito Giannelli, Carlo Felice Giampaolino, Giuseppe Guizzi, Raffaele Lener, Marco Maugeri, Umberto Morera, Maurizio Sciuto, Mario Stella Richter jr.


Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

Comitato di direzione Carlo Angelici, Sido Bonfatti, Mario Bussoletti, Gino Cavalli, Salvatore Maccarone, Fabrizio Maimeri, Alessandro Nigro, Mario Porzio, Ángel Rojo, Vittorio Santoro, Daniele Vattermoli. Comitato di redazione Soraya Barati, Alessandro Benocci, Antonella Brozzetti, Mavie Cardi, Vincenzo Caridi, Marco Conforto, Ciro G. Corvese, Giovanni Falcone, Clarisa Ganigian, Gian Luca Greco, Luca Mandrioli, Eugenio Maria Mastropaolo, Francesco Mazzini, Simone Mezzacapo, Filippo Parrella, Giovanni Romano, Gennaro Rotondo, Maria Elena Salerno. Segreteria di redazione Vincenzo Caridi Direttore responsabile Alessandro Nigro La sede della rivista è presso la Segreteria del Ce.Di.B. Corso Vittorio Emanuele II, 173 - 00186 Roma L’amministrazione è presso: Pacini Editore Srl Via Gherardesca - 56121 Ospedaletto - Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 www.pacinieditore.it - info@pacinieditore.it

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† Nel mese di agosto 2021 è improvvisamente mancato il prof. Luigi Carlo Ubertazzi, componente del Comitato di direzione della Rivista. I direttori e i redattori si uniscono al cordoglio della famiglia per la grave perdita.



SOMMARIO 3/2021

PARTE PRIMA Saggi Le fonti nel diritto dell’economia, di Fabrizio Maimeri Soci e accordi di ristrutturazioni, di Vincenzo Caridi Riflessioni sul piano di risanamento attestato nel passaggio dalla legge fallimentare al codice della crisi: twilight zone, stato di crisi, allerta, di Luca Fruscione

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Commenti Cancellazione dal registro delle imprese ed estinzione delle società – Cass., 22 maggio 2020, n. 9464; Cass., 14 dicembre 2020, n. 28439 Cancellazione delle società di capitali e sorte dei crediti “incerti” sopravvissuti: finalmente parole chiare (e convincenti) della Cassazione, di Alessandro Nigro Tasso leasing e disciplina di trasparenza – Cass., 13 maggio 2021, n. 12889 Il TAN e il TIR nelle operazioni di leasing, di Roberto Marcelli

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PARTE SECONDA Legislazione Revocatoria concorsuale delle rimesse in conto corrente bancario. I. Decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, come modificato dal decreto legislativo 26 ottobre 2020 n. 147 Art 166. II. Relazione illustrativa del decreto legislativo 26 ottobre 2020, n. 147, recante disposizioni integrative e correttive a norma dell’art. 1, comma 1, della legge 8 marzo 2019, n 20, al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14. Art. 20 (con brevi osservazioni di Soraya Barati)

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Documenti e informazioni Novità regolatorie in tema di esposizioni creditizie: la disciplina del default, la proroga della GACS e le nuove cartolarizzazioni, di Mavie Cardi

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Norme redazionali » 123 Codice etico » 129


PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, dibattiti, rassegne, recensioni, miti e realtà



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Le fonti nel diritto dell’economia (*)

1. In un diritto dominato dal positivismo giuridico, come è stato quello che ha preceduto l’attuale fase storica, le fonti costituivano un dato oggettivo, che offriva un sicuro e pressoché statico punto di riferimento, onde l’interpretazione delle stesse si riduceva alla contrapposizione eventuale di enunciati, di competenza, prevalentemente se non esclusivamente, dei costituzionalisti. Nell’introdurre un suo prezioso lavoro in argomento, Nicolò Lipari rammentava come non fosse senza significato la circostanza «che una delle opere più significative della civilistica del secolo scorso, le “Dottrine generali” di Francesco Santoro Passarelli, un volume sul quale si sono formate generazioni di giuristi, non contenga neppure una riga sulle fonti, quasi che esse non costituissero un problema, meritevole di approfondimento o comunque di soluzioni alternative, ma fossero appunto un presupposto incontestato sul quale fondare i procedimenti teorici e ricostruttivi»1. Con il venir meno del ruolo dello Stato come unico produttore di norme e il consolidarsi di fonti alternative di vario tipo, la frammentazione è divenuta la cifra di questa tematica, con i corollari di una rivisitazione, mai definitiva, dell’ordine gerarchico delle fonti; del tentativo, in seconda istanza, di un coordinamento fra le medesime; dell’emersione del diritto comunitario come sovraordinato ai diritti nazionali. In più, in particolar modo per il diritto commerciale in genere e dell’economia in particolare, si registrano le fonti derivanti dagli usi e dalle consuetudini (le “fonti-fatto”), dalle deliberazioni delle autorità indipendenti di setto-

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Lo scritto riproduce, con qualche adattamento, la relazione tenuta nel corso della giornata di studi “Le fonti del diritto nel sistema finanziario”, organizzata dall’Università degli Studi di Salerno il 12 novembre 2019, ed è destinato ad essere pubblicato nei relativi Atti. 1 Lipari, le fonti del diritto, Milano, 2008, p. XI.

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re, dall’interpretazione giudiziaria, che ha esteso la nozione di “diritto vivente” in origine utilizzata in relazione alle decisioni della Corte costituzionale e ai loro effetti. Per un verso, ci si sofferma sul moltiplicarsi di iniziative legislative “dall’alto”, su un policentrismo normativo che si nutre di prassi innovative come i “decreti di natura non regolamentare” come gli atti di “soft law”2 o come gli interventi delle autorità indipendenti, «con il risultato di vedere la disciplina di una medesima fattispecie non di rado soggetta a una pluralità di atti normativi o di regolazione non sempre reciprocamente coerenti o almeno coordinabili senza eccessiva fatica da parte dell’operatore del diritto»3. Per altro verso c’è chi coglie l’implosione di questo quadro già sfilacciato4 e si propone di «risalire ai fondamenti dell’ordinamento costituzionale per risistemare una realtà che per molti versi e ragioni, appare titanico dominare. Si tratta, dunque, di un tentativo ambizioso di tracciare un quadro di riferimento per i nostri discorsi intorno al diritto»5, un obiettivo certo sfidante, che marca con tutta consapevolezza la distanza dall’impostazione positivista e si avvia per un percorso in cui la fonte non è più il presupposto del diritto che come tale lo precede, ma una realtà che “si fa”, “si costruisce” nel diritto e nello svolgersi dell’esperienza quotidiana. Un diritto sociale e antropologico, piuttosto che l’espressione della volontà di una nazione attraverso i suoi organi legislativi e secondo gerarchie ordinate: si è davvero lontani

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Lemma, «Soft law» e regolazione finanziaria, in Nuova giur. civ. comm., 2006, p.

600. 3 Parodi, Le fonti del diritto, Milano, 2012, p. XVI; Patroni Griffi, “Usi e consuetudini giudiziari” e diritto giurisprudenziale, in www.astrid-on-line.it, 2017: Bevivino, Soft law e orientamenti interpretativi dei Consigli notarili: sul ruolo delle massime notarili nel quadro delle fonti del diritto, in www.elibrary.fondazionenotariato.it. 4 «Che la produzione normativa a tutti i livelli sia un’alluvione non è una constatazione originale. Che la giurisprudenza, in tutte le sue manifestazioni svolga una ininterrotta funzione maieutica accanto e, piuttosto, in luogo del potere politico un fatto difficile da negare. Che l’internazionalizzazione del diritto e la globalizzazione dell’economia superino i confini tradizionali delle esperienze sociali è solo un altro modo di essere della concezione vichiana su corsi e ricorsi. Se gran parte di quel che accade nel mondo del diritto non è così nuovo come sembra, non sono venute meno le ragioni che stanno dietro gli sforzi di dare coerenza a fenomeni che, in sé e per sé, non ne hanno alcuna. Pretese sistematiche sono state ricercate, di volta in volta, nell’auctoritas del princeps, nella voluntas del parlamento, nella prudentia del giudice. In fondo nessuno di questi modelli ha mai corrisposto alle aspettative, ciascun potere ha una sua logica, che non è mai quella propria del diritto»: Morrone, Fonti normative, Bologna, 2018, p. 11. 5 Morrone, Fonti normative, cit., ibidem.

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dall’idea di una norma “presupposto” che costituisce l’estremo fondamento di validità dell’ordinamento, proprio perché non è più “posta”6. Del resto, richiamandosi a un approccio più generale, «la “liquidità” della nostra condizione è riconducibile a ciò che è compendiato nel termine “deregolamentazione”; alla separazione del potere (capacità di fare) dalla politica (capacità di decidere cosa fare), e di conseguenza a un’assenza o debolezza delle agenzie (cioè a un’inadeguatezza degli strumenti rispetto agli obiettivi) e al “policentrismo” dell’azione in un pianeta integrato da una fitta ragnatela di interdipendenze. In parole povere, in condizioni di “liquidità” tutto è possibile, ma nulla può essere fatto con certezza»7. A questo contesto di diffusa “liquidità” non sfugge certamente neppure il tema oggetto di queste note, che da tempo registra difficoltà anche nella catalogazione delle tipologie di fonti nel diritto privato/commerciale e nel diritto dell’economia in particolare. 2. Nel corso di un convegno catanese del 2007, l’approccio alle fonti private del diritto commerciale manifestava esiti che così possono riassumersi8: a) le fonti che vengono in risalto sono l’elaborazione di modelli contrattuali (con clausole imposte da associazioni agli associati, con clausole proposte da terzi che le parti sono libere di inserire o meno, con clausole che sono il risultato di contrattazione tra i rappresentanti di contrapposte categorie); la redazione di codici di condotta (con adesione o meno dei destinatari) e l’elaborazione di standard (con relativa emissione di giudizi basati sugli standard medesimi); b) non ci sono fonti predeterminate di legittimazione delle regole private (l’attività privata di generazione di fonti acquisisce un senso generale solo se altri soggetti consentono di vincolarsi a dette fonti); c) i tre passaggi da risolvere sono: la selezione delle regole (più regole vi sono e più è agevolata l’acquisizione di un convinto consenso del mercato; posta l’astratta competenza delle autorità antitrust di intervenire, è invece lecito dubitare dell’adeguatezza del controllo esercitato); la loro implementazione (con la questione delle responsabilità del

6 Chessa, La validità delle costituzioni scritte. La teoria della norma fondamentale da Kelsen a Hart, in www.dirittoequestionipubbliche.org, n. 10/2010, p. 55. 7 Bauman, Modernità liquida, Milano, 2019, p. XXIII. 8 Denozza, Le fonti private del diritto commerciale tra mercato e politica, in Le fonti private del diritto commerciale (atti del convegno di studi – Catania, 21 e 22 settembre 2007), a cura di Di Cataldo e Sanfilippo, Milano, 2008, pp. 5 ss.

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predisponente delle regole private); il tipo di società che queste regole sono in grado di modellare: «lo sviluppo di una concezione del giusto prescinde da quella registrazione dei gusti della maggioranza che è invece tipica dello strumento mercantile e soprattutto richiede un equilibrio riflessivo che i meccanismi di mercato sembrano più idonei a scoraggiare che a favorire»9. Mi pare che questa disanima sia ancora euristicamente attuale e possa fornire una base solida per ogni indagine sul tema. Innanzitutto, si pone il problema del modello: ci si chiede se il diritto dell’economia può ammettere regole private non preventivamente validate né prefigurate né controllate dall’autorità. È forse il problema dei problemi che ogni fallimento di mercato ripropone e che ha visto nel tempo soluzioni contrastanti se non opposte. E la questione è tutt’altro che risolta: ai fallimenti di mercato si oppone il rilievo che essi sono avvenuti proprio in mercati regolamentati e che, all’opposto, esistono mercati privi di controllo che non hanno registrato crisi particolari. Quel che è certo è che regole di varia origine sono destinate a convivere e questa commistione può essere efficiente. Attenzione, però: non si tratta di una organizzazione verticale (norma primaria, norma d’attuazione; t.u.b. e istruzioni di vigilanza; t.u.f. e regolamenti Consob), in cui torna in gioco la gerarchia delle fonti; si tratta di regole nate dalla prassi che disciplinano in via autonoma, ma di fatto vincolante per la convinta e libera adesione delle parti interessate, spazi lasciati liberi dalla normazione primaria. Va da sé che tanto più sono pervasive le fonti di derivazione pubblica, tanto minore è lo spazio per la autonomia privata delle regole. E questo aspetto merita una qualche sottolineatura. Quel che molti studiosi chiamano “crisi della legge” non vuol dire apertura verso la deregulation o verso il potenziamento strutturale di fonti private, quanto piuttosto, un mutare e un confondersi di fonti sempre alla norma prima-

9 Denozza, Le fonti private, cit., p. 24, il quale conclude nel senso della necessità di «una riflessione nella direzione di un intervento che si preoccupi anzitutto di costruire il quadro istituzionale all’interno del quale una produzione privata di regole possa funzionare al meglio (e qui, esemplificando, abbiamo trattato i problemi della selezione delle regole e delle responsabilità per la loro implementazione). Occorre inoltre una particolare attenzione nel verificare quali sono i problemi di coordinamento di diverse concezioni del bene, problemi la cui soluzione può anche essere affidata al mercato, e quali soni invece problemi che investono la concezione del giusto, problemi la cui soluzione richiede il ricorso a ben altri strumenti» (p. 25).

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ria (o quasi) riconducibili, almeno potenzialmente. Sono state rilevate, come cause di detta “crisi”: per un verso l’integrazione comunitaria, per l’altro, il sistema delle autonomie territoriali e, infine, l’attività normativa dell’esecutivo. Questa risponde all’esigenza «di delegificazione e semplificazione, in una situazione nella quale quest’ultima costituisce tuttavia più un’aspirazione che non una tendenza realmente apprezzabile negli esiti»10. Ciò fa intendere come la “crisi della legge” non voglia significare di necessità l’espandersi di fonti normative non pubbliche, cioè l’ampliarsi di spazi di deregolamentazione vera e propria. A quest’ultimo riguardo, merita fare menzione di come, a seguito di studi recenti e, da ultimo, di un approfondimento specifico di Moliterni11, sono tornati alla ribalta i sistemi di pagamento informali, quali quelli cinesi, indiani, dei paesi musulmani (c.d. sistema hawala), nei quali non vi sono regole poste dall’alto e neppure autorità di controllo e per i quali può porsi, per noi occidentali, “l’enigma” della loro efficienza, che però appare indubitabile e confermata da una storia secolare. Qui, come accennavo, la contrapposizione di modelli è evidente e assume una valenza paradigmatica che va al di là del comparto dei sistemi di pagamento. «La certezza e l’effettività delle regole e la conseguente fiducia reciproca nel loro rispetto da parte degli intermediari, partecipanti ai sistemi di pagamento informali riconducibili al modello “hawala system”, è in vero parte di una più ampia cultura delle regole. Il loro rispetto è protetto fra l’altro dalla sanzione della “vergogna” per la lesione delle regole, che rappresentano la connessione e il legame immateriale fra i partecipanti al sistema-rete, e la cui recisione comporta la conseguente esclusione del responsabile del comportamento deviante»12. Spesso quindi regole private si coniugano con momenti culturali specifici, dove alle regole e al deterrente della vigilanza esterna si sostituiscono regole interne e il timore di sanzioni reputazionali e personali, dove l’operatore è per lo più una persona fisica piuttosto che una società e la cui responsabilità coinvolge l’intero suo patrimonio. Si tratta di culture contrapposte, di modelli difficilmente coniugabili. Ma la questione non è socio-culturale o accademica, ma brutalmente concreta e relativamente urgente per molti settori, quale quello delle criptovalute, fenomeno quantitativamente in espansione, rispetto al quale bisogna fare i conti

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Parodi, Le fonti del diritto, Milano, 2012, p. XVI. Moliterni, I sistemi di pagamento informali, Milano, 2019. Moliterni, I sistemi, cit., pp. 209-210.

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con una gestione privata affrancata da regole esterne e da controlli statuali. Controlli statuali tanto più complessi se si ha riguardo alla globalità del fenomeno, per il quale viene meno quella territorialità che da sempre ha costituito il presupposto per la legge formale e per la vigilanza prudenziale. La sfida del “diritto sconfinato”13 è presente e reale. 3. La vincolatività delle fonti private non può che essere desunta dal favore con il quale ognuna di esse viene accolta; significativa, e non solo in termini operativi, è anche la numerosità dei soggetti che se ne giovano. Più problematico è il profilo della interferenza di queste fonti con quelle codificate e giustificate da interventi di organi, a vario titolo, legislativi. La verifica caso per caso si impone, ma è inadeguato far capo alla mera gerarchia verticale, dovendosi piuttosto prendere atto della orizzontalità delle fonti, anche di quelle lato sensu normative. E allora il riferimento migliore è ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza, volti a comporre il “quadro normativo”, auspicato da Denozza, più coerente e più razionale possibile, dal momento che la ricucitura fra fonti di vario livello e di varia natura non sempre si presta ad essere effettuata con criteri predeterminati. Il sistema delle fonti del diritto dell’economia può riproporsi soltanto con una paziente azione di ricostruzione della tipologia delle fonti (esistenti e, con un minimo di fantasia ricostruttiva, prossime) e la determinazione di tendenze regolatrici che ne consentano l’inserimento in un ordito sì elastico, che conosca però poche ma essenziali regole in grado di orientare (e vincolare) l’interprete e, perché no, gli stessi creatori delle fonti. In altre parole, un recupero di certezza del diritto, che non vuol dire ingessare il fluire del mercato, ma fornire ad esso un alveo nel quale scorrere14.

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Ferrarese, Diritto sconfinato, Bari-Roma, 2006. Nel contesto che qui interessa assumono particolare pertinenza le osservazioni di Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari, 2007, p. 255, secondo le quali «lo Stato, indiscusso protagonista giuridico della modernità, si dimostra sempre più incapace di ordinare giuridicamente la società, e la legge sta lasciando il suo trascorso ruolo di strumento essenziale di diritto. Stiamo, ormai, vivendo l’esperienza di poteri diversi da quello politico - in primo luogo, il potere economico - impegnati nel coniare nuovi e più congeniali istituti giuridici, e stiamo parimenti vivendo una proiezione che è sempre più globale, che tende ad astrarre dalle confinazioni spesso insensate delle frontiere statuali». L’impostazione proposta fa eco alla posizione di Cotta, La sfida tecnologica, Bologna, 1968, p. 181, secondo la quale «il sistema giuridico adatto alla società tecnologica esige senza dubbio una solida struttura portante, consistente in primis di principi regolativi 14

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Scrive ancora Niccolò Lipari: «siano passati dalla consolidata struttura di un diritto consegnato ad un sistema di enunciati, alla mobile, ma storicamente viva, realtà di un diritto che si articola in una molteplicità di situazioni, di vicende, di esiti. Dottrina e giurisprudenza non sono chiamate (ammesso che mai lo abbiano fatto) a leggere testi, confrontandosi fra di loro sulle modalità di quella lettura, ma ad analizzare i contesti, nella asprezza delle loro tensioni, ma anche nella aspirazione a ricercare un punto di equilibrio»15. 4. L’accenno da ultimo richiamato offre lo spunto per affrontare il tema del “diritto vivente”, cioè del ruolo della giurisprudenza come fonte di diritto, e, segnatamente, della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Che, a prescindere dall’elegante questione del rilievo del “precedente”16, il “diritto vivente” sia correlato a quella giurisprudenza “consolidata” o “costante”, con particolare riguardo alle pronunce della Cassazione, in ragione del compito di nomofilachia alla stessa assegnato dall’ordinamento giudiziario17, è fatto notorio e indubitabile; così come lo è la constatazione di Ascarelli18 per cui il diritto non esiste al di fuori della sua interpretazione. Se non si può fare a meno della “creatività” del giudice19, né la si può bloccare in nome di una certezza non sempre acquisibile anche al netto

generali e di norme di organizzazione, di produzione, di competenza, che istituiscano autorità legittime, conferiscano poteri e stabiliscano procedure fisse e controllabili (è questo il livello giuridico-costituzionale). Seguiranno poi norme di particolare rigidità, come quelle penali o quelle tributarie, dalle quali dipende la libertà del cittadino. Ma al di là dio questi livelli è opportuno che la struttura giuridica rimanga aperta, per cui sia possibile completarla mobilmente a seconda delle esigenze dello sviluppo». 15 Lipari, Dottrina e giurisprudenza quali fonti integrate del diritto, in www.juscivile. it, 4/2016, p. 304. 16 Su cui v. Cavallaro, Terzietà del giudice e creatività della giurisprudenza: il valore del precedente, in i-lex (www.o-lex.it), 11/2010, p. 455 e, da ultimo, Longhi, Certezza del diritto e diritto vivente, in Federalismi (www.federalismi.it), 5/2018. 17 Cass. pen., S.U., 21 gennaio 2010, n. 18288, in Foro it., 2010, II, 566, ampiamente commentata da Cossutta, Intorno alla necessità di un nuovo diagramma delle fonti del diritto. Per un diritto di fonte giurisprudenziale, in Tigor: Rivista di scienze della comunicazione e di argomentazione giuridica (www.openstars.units.it), 1/2014, p. 86 e p. 98. 18 Richiamata da Patti, L’interpretazione, il ruolo della giurisprudenza, in La genesi della sentenza, a cura di P. Rescigno e Patti, Bologna, 2016, p. 161. 19 «Credo che il termine di discrezionalità (della interpretazione) giudiziaria possa utilmente sostituire quello, ormai abusato e soprattutto equivoco, di creatività della

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delle pronunce giurisprudenziali, «proprio l’equilibrio tra i poteri configurato dalla Costituente (al tempo in cui andavano affermate con chiarezza l’autonomia e l’indipendenza della magistratura) impone oggi, alla luce del mutato rapporto di forze tra giudice e legislatore, una maggiore valorizzazione dei diversi attori (formazioni sociali, avvocatura, dottrina) nei circuiti di produzione del diritto vivente. In mancanza di un maggior coinvolgimento di tutti gli attori interessati, il giudice, anche alla luce dei molteplici fattori di crisi del legislativo (decodificazione, integrazione europea, globalizzazione, ecc.), rischia di trovarsi disorientato in un paesaggio giuridico completamente trasformato rispetto a quello che aveva imparato a conoscere verosimilmente nel corso della propria formazione e con una vastità di strumenti (fonti comunitarie, internazionali, soft law, ecc.) che potrebbe non essere del tutto preparato a utilizzare»20. Per altra, ma convergente, direzione, fa «spavento il diritto vivente se rapportato allo squilibrio tra formanti e, di conseguenza, si assiste a un precedente impermeabile ai formanti normativi e tutto interno alla sola genesi giurisprudenziale autoreferenziale. Non si può ignorare la debolezza attuale del legislatore: normative censurabili sin dal piano lessicale riflettono, in realtà, l’incapacità politica di fare sintesi al più alto livello degli interessi e valori in gioco. Addirittura non è mistero che un legislatore “balbettante” ed incerto, specie in relazione a “temi sensibili”, adotti testi legislativi dolosamente preordinati all’implementazione o integrazione giurisprudenziale»21. Del resto, di fronte a questa situazione di imperfezione normativa, risulta viepiù confermato l’abbandono del brocardo in claris non fit intepretatio (visto che clarus l’attuale legislatore lo è davvero di rado): interpretare vuol dire attribuire un significato a un’espressione e ciò accade a prescindere dalla chiarezza o dalla equivocità del testo, perché di fronte a qualunque norma l’applicazione passa per la sua interpretazione22.

giurisprudenza. Il primo termine, a differenza del secondo, reca con sé, come elemento indefettibile, quello dei limiti, mentre la creatività può fare pensare all’arbitrarietà»: Lupo, Tra la lettera e lo spirito della legge: tensioni giurisprudenziali, in www.dimt.it, 3 marzo 2019, p. 25. 20 Longhi, Certezza del diritto e diritto vivente, in Federalismi (www.federalismi.it), n. 5-2018, p. 10. 21 Sica, Il valore del precedente: attuale dimensione del diritto “vivente”, in Federalismi (www.federalismi.it), n. 18-2018, p. 9. 22 Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, pp. 6-7. Conclude l’A. che il brocardo di cui al testo rischia di essere mistificatorio «giacché tende

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Tanto più quindi c’è necessità del diritto vivente, nonostante la prospettiva che una sua evoluzione carente di ragionevolezza e proporzionalità, comporta nell’ottica di un conflitto fra potere legislativo e potere giudiziario e in un appannamento della certezza del diritto23. Si dirà che è un rischio immanente, che oggi forse è accentuato, ma che va in ogni caso gestito, il che è certamente vero; vero è però che alla consueta dialettica fra potere legislativo e potere giudiziario, in principio dominata e bilanciata dal rispetto della carta costituzionale24, si

ad occultare che qualunque attribuzione di significato, anche la più ovvia, è comunque frutto di attività decisoria» (p. 8) 23 «L’opera interpretativa giurisprudenziale, se espansa oltre quella estensiva ed analogica fa correre il pericolo all’ordine giudiziario di non essere più sottoposto alla legge, ma essere esso stesso (indirettamente o mediatamente) artefice di questa»: Giulimondi, “We the Court”, or “We the people, that is the question”, ossia il contrasto fra giurisprudenza creativa e formazione governativo-parlamentare (dando una sbirciata anche agi altri ordinamenti), in www.foroeuropa.it, 2/2017, p. 12. 24 Può essere utile, a mo’ di esempio, rammentare una decisione della Cassazione (a sezioni unite, 2 dicembre 2010, n. 2448, in Foro it., 2011, I, 428, con nota di Palmieri) che ha recuperato la distinzione fra rimesse ripristinatorie e solutorie, escogitata da una decisione del 1982 della corte di legittimità per porre un freno alla revocatoria fallimentare “indiscriminata” di tutte le rimesse affluite sui fidi in conto corrente, regolari o sconfinati (Cass., 18 ottobre 1982, n. 5413, ivi, 1983, I, 69, con nota di A. Nigro, Scoperto di conto, conto corrente assistito da apertura di credito e revocatoria fallimentare delle rimesse); distinzione che aveva lasciato perplessi in punto di diritto, pur essendo stata salutata per lo più come un “accettabile compromesso” per risolvere una questione all’epoca molto sentita; riproporre questa soluzione dopo tanti anni in un contesto così diverso non è stata da molti considerata un’operazione adeguata a risolvere il dibattito giurisprudenziale sulla decorrenza del periodo prescrizionale dalla chiusura del conto o dall’effettuazione della singola rimessa; questa insoddisfazione fu fatta propria dal legislatore che, valutando prevalente il valore della certezza dei rapporti giuridici rispetto a un prolungamento quasi sine die del già diuturno contenzioso fra banche e clienti in tema di anatocismo, durante i lavori per la conversione nella legge 26 febbraio 2011, n. 10, del d.l. 29 dicembre 2010, n. 225 (“mille proroghe”), ha inserito all’art. 2 un co. 61 così formulato «in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935 c.c. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto»; sollevata la questione di legittimità, la Corte costituzionale, con sentenza n. 78 del 5 aprile 2012, ha ritenuto contrario alla Carta l’intervento legislativo, in tal modo limitando la libertà del legislatore nel modificare le scelte della Consulta. Si può a lungo discutere sugli argomenti posti alla base della decisione ma non v’è dubbio che si è di fronte al bilanciamento, operato dal giudice delle leggi, circa l’esercizio di due potestà. Sul ruolo del giudice delle leggi in questo ambito cfr. Salvato, a cura di, Profili del «diritto vivente» nella giurisprudenza costituzionale, in www.cortecostituzionale.it, febbraio 2015.

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aggiunge una contrapposizione nient’affatto “armonica” né amministrata da una norma superiore, costituzionalmente presidiata, che di recente si è mostrata nell’ambito del diritto comunitario, e che lascia interdetto l’interprete per le ricadute difficilmente accettabili che essa comporta. E il riferimento va qui a due decisioni comunitarie, entrambe attinenti alla materia del diritto dell’economia. 5. Con sentenza del 19 marzo 2019 (cause riunite T-98/16, T-196/16 e T-198/16) il Tribunale UE ha riconosciuto che la Commissione aveva errato nell’impedire il salvataggio della Banca TERCAS spa mediante l’intervento del Fondo Tutela Depositi nazionale, nel presupposto che con ciò si realizzasse un aiuto di stato25. Per favorire l’acquisizione della TERCAS da parte della Banca Popolare di Bari, il comitato di gestione e il consiglio del FITD avevano deciso di intervenire in data 30 maggio 2014; il FITD trasmetteva alla Banca d’Italia la richiesta di autorizzazione il 1° luglio 2014 e la Banca d’Italia rispondeva positivamente il successivo 7 luglio. Senonché la Commissione chiedeva informazioni su tale intervento e il 24 aprile 2015 pubblicava sulla GUCE la decisione di avvio di un procedimento e invitava le parti a produrre le proprie osservazioni; il 23 dicembre 2015 adottava la sua decisione stabilendo che le misure controverse autorizzate il 7 luglio 2014 dalla Banca d’Italia erano da ritenersi in violazione dell’art. 108, par. 3, TFUE e costituivano aiuti incompatibili e illegittimi concessi dalla Repubblica Italiana a TERCAS e ha disposto che detti aiuti fossero recuperati. Si è trattato di una interpretazione dell’art. 96-bis t.u.b., desunta da valutazioni sulle modalità di formazione del fondo e sui criteri per il suo utilizzo, che ha imposto al sistema bancario italiano di seguire strade diverse da quella divisata, con un aggravamento di costi non indifferente, non solo per il caso TERCAS (Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo) ma anche per quelli successivi (Banca Etruria, Banca Marche, CR Chieti e CR Ferrara). Nel sintetizzare i passaggi della sentenza, il comunicato stampa n. 34 del 19 marzo 201926, emanato dal Tribunale dell’Unione europea, pre-

25

Amorosino, La Commissione europea e la concezione strumentale di “mandato pubblico” (a proposito del “caso FITD/Tercas”, in Dir. banc., 2019, I, p. 364; De Gioia Carabellese, Crisi bancarie e aiuti di Stato. La sentenza Tercas. Brussels versus Italy?, in Ordine internazionale e diritti umani (www.rivistaoidu.net), 2019, p. 686. 26 Consultabile in www.curia.europa.eu.

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cisa che quest’ultimo ha ritenuto che il mandato conferito al FITD dalla legge italiana consista unicamente nel rimborsare i depositanti (entro il limite di 100.000 euro per depositante), in quanto sistema di garanzia dei depositi, quando una banca facente parte di tale consorzio è oggetto di una liquidazione coatta amministrativa. Al di fuori di tale ambito, il FITD non agisce in esecuzione di un mandato pubblico imposto dalla normativa italiana. Gli interventi di sostegno a favore di TERCAS hanno quindi una finalità diversa da quella derivante da detto sistema di garanzia dei depositi in caso di liquidazione coatta amministrativa e non costituiscono l’esecuzione di un mandato pubblico. Inoltre, l’autorizzazione da parte della Banca d’Italia dell’intervento del FITD non costituisce un indizio che consenta d’imputare la misura di cui trattasi allo Stato italiano, essendosi essa limitata a un controllo di conformità degli aiuti con il quadro normativo a fini di vigilanza prudenziale e non ha imposto al Fondo di intervenire a sostegno di TERCAS. Infine, la Commissione non ha dimostrato che i fondi concessi a TERCAS fossero controllati dalle autorità pubbliche italiane: si tratta di fondi forniti dalle banche componenti del FITD, il cui utilizzo era meno oneroso rispetto all’attuazione della garanzia legale a favore dei depositanti della banca, in caso di liquidazione coatta amministrativa di quest’ultima. Peraltro, la Commissione ha deciso, alla scadenza del termine utile, il 29 maggio 2019, di presentare appello alla Corte europea contro la sentenza di primo grado, chiedendo ad essa chiarimenti sulla circostanza che il giudice di prime cure sembra essersi discostato dalla giurisprudenza consolidata in tema di configurabilità di aiuti di stato, chiarimenti – ha spiegato un portavoce della Commissione – che «saranno utili per dare fondamento all’applicazione da parte della Commissione delle norme in materia di aiuti di Stato, quando riguardano le entità di proprietà privata con un mandato pubblico»27. Basti per queste note il riassunto proposto, anche se non può non rilevarsi che l’articolo di una legge nazionale, sia pure emanazione di una direttiva comunitaria, può essere profondamente modificato da un’interpretazione che sostanzialmente ne blocca il funzionamento fino a qualche anno fa assolutamente pacifico. Chi conosce la lunga storia degli aiuti di Stato in ambito di salvataggi bancari sa che non è stata contrappuntata né da chiarezza né da linearità, ma piuttosto da nume-

27 Sentenza Tercas, Commissione fa appello a Corte di Giustizia Ue, in www.askanews.it, 29 maggio 2019.

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rosità di rescritti contraddittori e difficilmente applicabili28. Si è di fronte ai delicati confini di una norma primaria e di un intervento giurisprudenziale che la interpreta: senza però che dall’interpretazione proposta (direi: imposta) si possano trarre insegnamenti di chiarezza ed efficienza che tornino utili a spianare la via al perfezionamento della disciplina già complicata del terzo pilastro dell’unione monetaria. Ancora una volta, il diritto vivente non sembra un perfezionamento della norma positiva, un suo migliore accordarsi con l’evoluzione del sistema giuridico-economico di riferimento, quanto piuttosto una manifestazione del disaccordo fra potere regolamentare e potere giudiziario (anche) in Europa. Possiamo ascrivere questa situazione, pure qui, alla dialettica fra norma e giudice, ma quando l’esito della composizione del dibattito è così poco utile, viene il sospetto che qualche paletto strutturale nell’ambito di questa dialettica (e in quello fra norma nazionale e interpretazione comunitaria) – o qualche “pre-giudizio” endoprocedimentale nella verifica preventiva delle decisioni della Commissione – vada previsto. Così come pure lontano dalle esigenze di procedure di salvataggio delle banche è il tempo necessario alle istituzioni comunitarie e alle istituzioni giudiziarie per provvedere, l’una a maturare il fondamento dell’azione, l’altra a deciderne la sorte. Corollario della decisione TERCAS è il divisarsi di iniziative volte a chiedere i danni alla Commissione29. Simili azioni, ai sensi del combinato disposto degli artt. 268 e 340, par. 2, TFUE, presuppongono che gli attori dimostrino la sussistenza di tre condizioni cumulative: (i) l’illiceità del comportamento dell’istituzione, da intendere come violazione sufficientemente qualificata di una norma di diritto avente ad oggetto il conferimento di diritti ai singoli; (ii) un danno effettivo; (iii) l’esistenza di un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente sull’autore dell’atto e il danno subito. «Pur essendo l’azione di risarcimento danni nei confronti dell’Unione europea un’azione autonoma, è evidente che, indipendentemente da ogni considerazione sulle difficoltà

28

Scipione, Crisi bancarie e disciplina degli aiuti di Stato. Il caso italiano: criticità applicative e autonomia di una legislazione d’emergenza, in Innovazione e diritto (www.innovazionediritto.it), 2017, p. 284; Antonucci, Gli “aiuti di Stato” al settore bancario: le regole d’azione nella regia della Commissione, in St. integr. eur., 2018, p. 587; Argentati, i salvataggi di banche italiane e l’Antitrust europeo, in Merc., concorr. reg., 2019, p. 109. 29 Gallo, Aiuti di Stato e risarcimento del danno, in eurojus (www.rivista.eurojus.it), n. 3-2019, p. 79.

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intrinseche connaturate a tale tipo di rimedio, intentare un’azione risarcitoria fondata essenzialmente sull’illegittimità del comportamento della Commissione, così come rilevata dal Tribunale nella sentenza TERCAS, appare, allo stato, prematuro se non addirittura azzardato»30. Né tali considerazioni possono dirsi superate dalla circostanza che l’impugnazione proposta dalla Commissione contro la decisione del 2019 sia stata rigettata dalla Corte di giustizia, riunita in “Grande Sezione”, con sentenza del 2 marzo 2021 (causa C-425P), giacché anzi ciò conferma che si assiste a un altro esempio di coordinamento mancato fra ermeneutiche contrapposte, fra le quali si è instaurato un generale principio di sovraordinazione non declinato secondo criteri e regole predefinite. Si ha la sensazione di una spontaneità ripetuta nel seguire archetipi semplificati di norma (e diritto vivente) comunitaria che prevale sulla norma nazionale, senza però una regola processuale soddisfacente. E allora è problema difficilmente risolubile quello «della determinazione della fonte da cui trarre l’enunciato da interpretare: crescono le responsabilità dell’interprete in un quadro in cui sono presenti non soltanto una pluralità di fonti normative giurisprudenziali ma anche una forzata coesistenza con un giudice sovranazionale, il cui precedente ha di fatto forza vincolante e può aprire problemi di conflitto con la legislazione nazionale»31. In altri termini, la mancanza di una struttura articolata nel diritto comunitario sia sostanziale che processuale (e qualcuno dirà: l’assenza di una costituzione europea) produce inconvenienti che minano alla base l’intero edificio legislativo. 6. Ancora un caso di giurisprudenza comunitaria è stato quello deciso dalla sentenza della Corte di giustizia UE dell’11 settembre 2019 (causa C-383/18). Nell’ambito di tre controversie incardinate in Polonia da una società di servizi cessionaria dei crediti derivanti da tre posizioni di credito al consumo, la società, attesa la estinzione anticipata dei prestiti, chiedeva alle banche erogatrici la restituzione pro quota delle commissioni a suo tempo pagate dai consumatori affidati; a seguito del rifiuto delle banche, si rivolgeva al giudice per ottenere ordinanze di ingiunzione, che venivano opposte dalle banche debitrici. Poiché l’opposizione

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Domenicucci, Il salvataggio della Banca Tercas non è un aiuto di Stato secondo il Tribunale dell’Unione europea, in Rivista eurojus (www.rivista.eurojus.it), n. 3-2019, p. 188. 31 Zaccaria, La giurisprudenza come fonte di diritto, Napoli, 2007, p. 50.

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verteva sulla possibilità che nella restituzione dovessero essere comprese tutte le commissioni ovvero solo quelle aventi natura recurring, il giudice adito ha ritenuto di sospendere il giudizio e di rivolgersi alla Corte di Giustizia europea per acquisire l’orientamento su quale debba essere considerata l’interpretazione corretta, atteso che la questione era diversamente decisa dalle corti nazionali, pur con una significativa maggioranza per la posizione che lascia fuori dalla retrocessione le commissioni up front. Si è quindi di fronte a una sentenza interpretativa del disposto dell’art. 16 della seconda direttiva sul credito ai consumatori (n. 2008/48), secondo cui «occorre rispondere alla questione pregiudiziale dichiarando che l’art. 16, par. 1, della direttiva 2008/48 deve essere interpretato nel senso che il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del credito include tutti i costi posti a carico del consumatore». L’impostazione fatta propria dalla decisione in commento diverge da quella seguita dagli intermediari italiani e dalle Disposizioni emanate dalle stesse autorità di vigilanza, nonché dagli intermediari di altri paesi comunitari, Polonia compresa, stando almeno al menzionato rilievo per cui la Corte avrebbe seguito l’opinione minoritaria. Nella nota del 10 novembre 2009 la Banca d’Italia sottolineava la necessità di chiarire in contratto la natura ricorrente o meno delle commissioni applicate, ai fini ovviamente della retrocessione in caso di rimborso anticipato32; analogo rilievo si poneva in luce in quella del 7 aprile 2011; negli “Orientamenti di vigilanza” sui finanziamenti contro cessione del quinto, in data 30 marzo 2018 si precisa in modo ancor più chiaro che «le Disposizioni [quel complesso di norme primarie e secondarie che disciplinano l’operazione] richiedono che la documentazione precontrattuale e contrattuale indichi in modo chiaro i costi applicabili al finanziamento; in relazione al diritto del consumatore al rimborso anticipato, vanno anche indicate le modalità di calcolo della riduzione del “costo totale del credito”, specificando gli oneri che maturano nel corso del rapporto (c.d. “recurring”) e che devono quindi essere restituiti al consumatore se corrisposti anti-

32 «È necessario che nei fogli informativi e nei contratti di finanziamento sia riportata una chiara indicazione delle diverse componenti di costo per la clientela, enucleando in particolare quelle soggette a maturazione nel corso del tempo (a titolo di esempio, gli interessi dovuti all’ente finanziatore, le spese di gestione e incasso, le commissioni che rappresentano il ricavo per la prestazione della garanzia “non riscosso per riscosso” in favore dei soggetti “plafonati”, ecc.)» (p. 5).

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cipatamente e in quanto riferibili ad attività e servizi non goduti» (par. n. 12). Nel senso ora detto si sono orientati l’Arbitro Bancario Finanziario e la giurisprudenza ordinaria33. Il problema si spostava sulla valutazione della natura della commissione ma sulla circostanza che solo le commissioni recurring fossero suscettibili di restituzione non vi erano dubbi; con la conseguenza coerente che, qualora nei contratti di finanziamento per delegazioni di pagamento e cessioni di quinto stipendiale non venisse contemplata la ripartizione tra oneri e costi up front e recurring (ovvero fosse contemplata in modo confuso e non chiaro), in caso di estinzione anticipata il rimborso proporzionale avrebbe riguardato tutte le commissioni, automaticamente considerate, per opacità, recurring34. Sulla medesima linea di pensiero si è attestata la dottrina35. Siamo in una situazione diversa dall’altra decisa dal Tribunale UE: là la revisione di una decisione della Commissione, qui la rilettura di un articolo di una direttiva. Identico però il risultato: il ribaltamento di una situazione ermeneutica consolidata. Senza approfondire anche qui il merito della decisione (approfondimento tutto sommato pragmaticamente poco utile, atteso che, ancora una volta, si è in presenza della menzionata sovraordinazione tout court della decisone della Corte di giustizia), la sentenza interpretativa nell’ambito di un procedimento pregiudiziale scolpisce esattamente il ruolo proprio della predetta Corte, che è quello di fornire interpretazione del diritto comunitario. Di qui l’orientamento ormai condiviso della vincolatività diretta di siffatte decisioni non solo per il giudice rimettente

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Trib. Torino, 4 aprile 2017, in www.expartecreditoris.it; Giud. pace di Riva del Garda, 12 giugno 2017, ivi. 34 Cfr. la decisione dell’ABF di Milano n. 560 del 30 gennaio 2013, con commento di Longo, Ancora l’estinzione anticipata di mutui e prestiti: oneri e costi up front e recurring e rimborso delle commissioni accessorie, in www.diritto.it, 27 marzo 2013, cui adde, ex multis, Collegio di Roma, decisione n. 748 del 26 gennaio 2017 e Collegio di Napoli, decisione n. 3594 del 13 febbraio 2018. La tesi dell’ABF è stata puntualizzata nelle due decisioni del Collegio di coordinamento n. 6167 del 22 settembre 2014 e n. 3378 del 21 giugno 2013. 35 Quarta, Estinzione anticipata dei finanziamenti a tempo determinato e modulazioni del costo del credito (commissioni di intermediazione, oneri assicurativi e penalità), in Riv. dir. banc., www.dirittobancario.it, 28/2013; Modica, Il credito ai consumatori, in I contratti bancari, a cura di Piraino e Cherti, Torino, 2016, pp. 306-309; Longo, Cessione del quinto: i costi rimborsabili in caso di estinzione anticipata, in www.altalex.com, 8 marzo 2018.

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e la relativa controversia, ma per tutti i giudici e per ogni controversia. Del resto, nel preambolo della Carta di Nizza36 la giurisprudenza viene enumerata insieme alle convenzioni internazionali fra le fonti rilevanti e l’obbligo di interpretazione conforme a quella comunitaria vene esteso dalla Corte di giustizia a ogni forma di diritto nazionale che possa confliggere con una norma europea, anche immediatamente applicabile, sia primaria sia derivata, sia precedente sia successiva alla norma di diritto dell’Unione: «ne consegue che spetta al giudice nazionale dare al diritto interno, in tutti i casi in cui questo gli lascia un margine discrezionale, un’interpretazione e un’applicazione conformi alle esigenza del diritto UE, e, qualora una siffatta interpretazione conforme non sia possibile, disapplicare le norme nazionali incompatibili»37. L’efficacia erga omnes delle sentenze interpretative «viene ammessa sulla base del ruolo di garante dell’uniformità interpretativa e sulla preoccupazione di evitare che del diritto comunitario si possano avere divergenti interpretazioni»38. Tutto ciò è ormai ius receptum nella giurisprudenza, oltre che della corte di giustizia, in quella della nostra corte costituzionale. Preme per completezza rammentare che, forse a ragione del forte carattere di novità e di sconcerto recato dalla decisione comunitaria, resa dopo quasi un decennio di pacifica interpretazione contraria, si è formato un orientamento minoritario volto a negare l’immediata e generalizzata vincolatività della decisione de qua, richiamando la distinzione fra effetti verticali e effetti orizzontali della decisione comunitaria. Laddove si versi in fattispecie in cui l’atto interpretato dalla Corte abbia efficacia

36 Approvata dal Parlamento europeo nel novembre 2000, è stata sottoscritta dal presidente di turno dell’Unione Europea (UE) nel 2007. Come stabilito nell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea (versione risultante dal Trattato di Lisbona del 2007), pur non essendo integrata nel Trattato, la Carta ha lo stesso valore giuridico di quest’ultimo. Il preambolo, al quinto capoverso, recita: «la presente Carta riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti della Comunità e dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dal trattato sull’Unione europea e dai trattati comunitari, dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalle carte sociali adottate dalla Comunità e dal Consiglio d’Europa, nonché i diritti riconosciuti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo». 37 Grasso, La disapplicazione della norma interna contrastante con le sentenze della Corte di giustizia dell’UE, in www.unisob.na.it, 2016, p. 8. 38 Martinico, Le sentenze interpretative dalla Corte di giustizia come forme di produzione normativa, in Riv. dir. cost., 2004, p. 267.

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indiretta nello Stato membro (cioè mediati dall’intervento del legislatore nazionale: si pensi a una direttiva non self executing), il destinatario della decisione è, per l’appunto, lo Stato, che è tenuto a intervenire per adeguare l’atto di recepimento (cioè la norma interna) alla nuova interpretazione, essendo i rapporti nazionali retti non dalla direttiva, ma dalla disposizione interna. Solo dopo che si sia realizzato siffatto adeguamento, l’interpretazione potrà essere applicata anche nel singolo Stato giacché, diversamente opinando, da un lato si porrebbe nel nulla la gerarchia delle fonti comunitarie e, dall’altro, finirebbe la Corte per incidere direttamente sul diritto nazionale, attraverso un’interpretazione della direttiva. L’obbligo di collaborazione comunitaria degli Stati verso l’Unione troverebbe così un impedimento nella necessità d’intervento dello Stato interessato per quelle prescrizioni che non hanno effetto immediato nei singoli Stati39.

39 Cfr. ad esempio Trib. Napoli, 22 novembre 2019, n. 10489/2019 (in www.expartecreditoris.it), la cui motivazione si può così sintetizzare: a) la Corte di giustizia europea non interpreta l’art. 125-sexies t.u.b., ma la direttiva; b) la Corte di giustizia europea non ha interpretato la direttiva come self executing, né lo ha richiesto controparte; c) la direttiva non è immediatamente applicabile nei rapporti tra privati; d) occorre concludere, a seguito della interpretazione innovativa proposta dalla Corte europea, che lo Stato italiano non ha trasposto correttamente la direttiva nel proprio ordinamento: ma ciò può dare luogo a responsabilità dello Stato per erronea trasposizione del testo comunitario, non certo a responsabilità fra privati; e) la sentenza della Corte europea non sposta i termini della decisione sottoposta alla corte napoletana. E che non possa parlarsi, a proposito della direttiva 2008/48, di direttiva immediatamente applicabile, lo ha ribadito anche Trib. Monza, 22 novembre 2019, n. 2573/2019 (in www.expartecreditoris.it), laddove afferma che «la natura self-executing della direttiva può esser esclusa in ragione dei numerosi dubbi interpretativi che hanno costretto i giudici di merito di svariati Stati comunitari a rivolgersi alla Corte di Giustizia UE per definire una linea ermeneutica univoca». Se la Corte di giustizia stessa valuta confuso il testo della direttiva in parte qua, confusione che giustifica interpretazioni diverse e quindi il suo intervento chiarificatore, è difficile sostenere che siamo di fronte a una direttiva immediatamente applicabile. Nel riprendere questi argomenti, la recente ordinanza di Trib. Mantova, 30 giugno 2020 (in www.consulenti-bancari-online.it) ha aggiunto che la “sentenza Lexitor” «non appare attagliarsi al sistema normativo italiano che, rispetto a quello polacco, è certamente molto più garantista per il cliente, avendo esattamente disciplinato i diritti restitutori in caso di estinzione anticipata» e rimanda all’operato del legislatore nazionale, precisando che la decisione della Corte di giustizia «non può trovare applicazione nel presente giudizio (…) perché resa su norma polacca dal tenore evidentemente difforme da quello cristallizzato nell’art. 126-sexies t.u.b. nel quale il legislatore nazionale si è fatto onere di disciplinare quali siano le conseguenze del rimborso anticipato». Nel medesimo senso cfr. Trib. Mantova, ord. 7 luglio 2020 e Trib. Napoli, 10 marzo 2020, n. 2391, in www. expartecreditoris.it.

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In esito alla sentenza “Lexitor” si è comunque registrata una presa di posizione coerente con il principio della immediata e automatica vincolatività della sentenza interpretativa verso tutti gli stati membri da parte sia della Banca d’Italia40, sia dell’Arbitro Bancario Finanziario41, sia delle decisioni della magistratura42, vincolati anch’essi al precedente interpretativo della corte di giustizia. Riprendendo quanto accennato al paragrafo precedente in punto di prevalenza senza “rete” del diritto comunitario sul nazionale, va rammentato come sia solo eccezionale l’ipotesi che l’interpretazione fornita in sede europea possa essere limitata nel tempo e non retroagire fino alla data di entrata in vigore della disposizione comunitaria interpretata. La corte infatti – e solo essa può, nell’ambito della stessa decisione, limitarne l’applicabilità e non è previsto che ciò possa accadere d’ufficio al ricorrere di determinate situazioni – ha fatto ricorso a siffatta limitazione ex nunc solo laddove abbia ritenuto che dalla propria attività ermeneutica emergesse: a) il rischio di gravi ripercussioni economiche, dovute in particolare all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa nazionale fino ad allora ritenuta valida; b) un comportamento non conforme alla normativa dell’Unione dovuto ad una obiettiva e rilevante incertezza sulla portata delle dispo-

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Comunicazione n. 1463869 del 4 dicembre 2019. ABF, Collegio di coordinamento, decisione 17 dicembre 2019, n. 26525, la quale, in punto di vincolatività erga omnes delle decisioni interpretative della Corte di giustizia non conosce incertezze: «poiché le sentenze interpretative della CGUE, per unanime riconoscimento (v. ex multis, Cass. n. 2468/2016; Cass., n. 5381/2017), hanno natura dichiarativa e di conseguenza hanno valore vincolante e retroattivo per il Giudice nazionale (non solo per quello del rinvio, ma anche per tutti quelli dei Paesi membri della Unione, e pertanto anche per gli Arbitri chiamati ad applicare le norme di diritto), non può dubitarsi che detta interpretazione sia ineludibile anche nel caso di specie». 42 Trib. Avellino, 28 ottobre 2019, n. 1968, in www.dirittobancario.it; Trib. Napoli, 7 febbraio 2020, n. 1240, www.dirittobancario.it; Trib. Torino, 23 aprile 2020, n. 1434, in www.ilcaso.it. Per la dottrina, v. Dolmetta, Estinzione anticipata della cessione del quinto: il segno della corte di giustizia, in www.ilcaso.it, 13 ottobre 2019; Marcelli, Pastore, Rimborso anticipato del credito ai consumatori, in www.ilcaso.it, 12 dicembre 2019; Tina, Il diritto del consumatore alla riduzione del costo totale del credito in caso di rimborso anticipato del finanziamento ex art. 125-sexies, primo comma, t.u.b. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Riv. dir. banc. (www.rivista. dirittobancario.it), ott. – dic. 2019, p. 155. 41

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sizioni dell’Unione, incertezza eventualmente alimentata da comportamenti tenuti da altri Stati membri o dalla Commissione43. Forse, nella logica di mettere meglio a fuoco le regole del diritto vivente comunitario e costruire un regime più puntuale, potrebbe essere il caso di valutare regole che circoscrivano ragionevolmente e con maggiore obiettività le conseguenze di interpretazioni particolarmente eversive. 7. Valutata la portata della decisione della corte europea, la vicenda da essa tracciata pone due ulteriori questioni: la prima è se la comunicazione della Banca d’Italia possa dirsi attuativa dell’art. 125-sexies t.u.b., così come lo sono stati gli interventi già richiamati in punto di distinzione fra costi recurring e costi up front. La sentenza UE ha affermato che tutti i costi contrattuali debbono essere oggetto di restituzione pro quota, nessuno escluso, laddove la menzionata comunicazione della Banca d’Italia del 4 dicembre 2020 ha precisato che debbono essere compresi «tutti i costi a carico del consumatore, escluse le imposte». Essa inoltre, quanto al criterio di calcolo del pro quota da rimborsare per i costi up front, «rimette al prudente apprezzamento degli intermediari la determinazione del criterio di rimborso; dovrà in ogni caso trattarsi di un criterio proporzionale rispetto alla durata (ad esempio, lineare oppure costo ammortizzato)»44. Da parte sua, la decisione del Collegio di coordinamento ABF ha seguito le indicazioni dell’autorità di vigilanza, ripetendo l’esclusione dai costi delle imposte; ribadendo che il criterio applicabile per la riduzione dei costi istantanei, in mancanza di una diversa previsione pattizia che sia comunque basata su un principio di proporzionalità, sia «determinato in via integrativa dal Collegio decidente secondo equità, mentre per i costi recurring e gli oneri assicurativi continuano ad applicarsi gli orientamenti consolidati dell’ABF»; stabilendo i limiti intertemporali entro i quali dare applicazione all’orientamento della Corte di giustizia in relazione ai rapporti in essere e a quelli già conclusi ma riproponibili con domanda diversa. Ne segue che, sia pure per aspetti marginali, sia la Banca d’Italia sia il Collegio di coordinamento hanno integrato l’interpretazione della Cor-

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Tesauro, Diritto dell’Unione europea7, Padova, 2012, pp. 329-330. Sotto questo aspetto la sentenza afferma egualmente il criterio di proporzionalità, laddove afferma che occorra prendere in considerazione, in punto di riduzione del costo, «l’importo in proporzione alla durata residua del contratto» (§ 24). 44

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te europea, anche se forse è eccessivo dire che il coordinamento con il diritto interno sia stato esaurientemente compiuto. In primo luogo, v’è da chiedersi – ma c’è chi meglio di me in questo convegno tratterà l’argomento – la valenza del potere normativo della Banca d’Italia, il rilievo del rinvio (o meno) che fa al suo intervento la norma primaria, la tipologia dell’atto emanato. È vero che «la distinzione tra regolamento ed istruzione ed i problemi connessi all’utilizzazione dell’uno o dell’altro strumento, per quanto importanti dal punto di vista teorico e sistematico, sembrano avere un’importanza pratica limitata. Infatti, da un lato, la legge non definisce in alcun modo i caratteri ed il procedimento di elaborazione né dell’uno né dell’altro tipo di atto; dall’altro, il controllo giurisdizionale, a cui spetterebbe di valutare la conformità del provvedimento rispetto all’atto normativo, è estremamente rarefatto in ordine ai provvedimenti della Banca d’Italia»45. Tuttavia, pur in un’ottica così pragmatica e destrutturata, qualche precisazione è da aggiungere e vi è anche da salire verso il vertice della piramide delle fonti, superando il livello dell’autorità di vigilanza. Infatti, nel porsi il problema degli effetti della nuova interpretazione in termini di penalizzazione eccessiva dell’intermediario (§ n. 34), la Corte ricorda, da un lato, che a favore di quest’ultimo è stabilito un indennizzo «equo ed oggettivamente giustificato» ai sensi del par. 2 dell’art. 16 della direttiva n. 2008/48 e, dall’altro, che il par. 4 dello stesso art. 16 «offre agli Stati membri una possibilità supplementare di provvedere affinché l’indennizzo sia adeguato alle condizioni del credito e del mercato al fine di tutelare gli interessi del mutuante». Detto paragrafo, segnatamente alla lett. b), dispone che gli Stati membri possono prevedere che «il creditore può eccezionalmente pretendere un indennizzo maggiore [rispetto alla soglia di diecimila euro in dodici mesi] se è in grado di dimostrare che la perdita subita a causa del rimborso anticipato supera l’importo determinato ai sensi del par. 2 [cioè l’indennizzo]». L’art. 125-sexies t.u.b. non tiene conto di quest’ultimo segmento dell’art. 16 della direttiva e quindi non consente che il risarcimento raggiunga un importo maggiore rispetto all’indennizzo prefissato. Di fronte all’interpretazione della direttiva che valuta la possibilità di questo “super indennizzo”, forse varrebbe la pena che il legislatore – chiamato a rendere coerente la norma nazionale con la disposizione interpreta-

45 B. G. Mattarella, Il potere normativo della Banca d’Italia, in www.osservatoriosullefonti.it, 1996, p. 245.

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ta: effetti verticali – verificasse se sia ancora conveniente mantenere il recepimento dell’art. 16 nei termini proposti prima dell’intervento della Corte. Un’indagine siffatta un legislatore attento dovrebbe svolgerla, non necessariamente per modificare l’impostazione, ma per valutarne la perdurante validità alla luce del fatto nuovo verificatosi. E una simile indagine non può essere posta in capo alla Banca d’Italia. Nella prospettiva segnalata – sui cui esiti si fa fatica a essere speranzosi – si rimane per ora con la duplice azione della comunicazione della autorità di vigilanza e della decisione del Collegio di coordinamento dell’ABF. E qui allora si pone la seconda e connessa questione, ovvero il rilievo da attribuire alla natura e alla vincolatività degli orientamenti dell’ABF. Tema complesso, che ha trovato il suo momento di emersione più rilevante nella vicenda culminata con l’ordinanza con la quale il Collegio ABF di Napoli sollevò questione di costituzionalità di una legge della regione siciliana46 e con l’ordinanza della Corte di esclusione della legittimazione dell’Arbitro a sollevarla47. È evidente l’inerenza della questione alla materia di queste note. Da un lato, l’alta frequenza delle ipotesi di adeguamento delle parti al lodo, corroborata dalla sanzione reputazionale prevista, rappresenta, soprattutto per i consumatori, una concreta risposta all’esigenza di giustizia per fattispecie destinate altrimenti a rimanere prive di giudizio; dall’altro, la funzione di private enforcement delle iniziative assunte dai ricorrenti trova eco anche presso la magistratura che sempre più frequentemente si adegua agli orientamenti arbitrali, costituendo così un sistema decisorio di largo e profondo spessore sociale. Insomma, la diffusione degli orientamenti e il rispetto che di fatto ottengono dai destinatari integrano gli estremi di una fonte di diritto. Si possono ripetere a questo riguardo le parole espresse in un contesto di autorità antitrust e di configurazione delle relative valutazioni, discorrendo di «un’autorità indipendente, che in realtà non è amministrativa perché non fa ponderazione di interessi pubblici, ma applica il sillogismo tipico del ragionamento giudiziario e lo applica con procedure che sempre più stanno diventando contenziose, [e che] non è molto diversa da quella Corte dei Conti a cui, in sede di registrazione di decreti e di pa-

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Ordinanza n. 262 del 6 luglio 2010, in GU, serie speciale, n. 48 dell’1 dicembre 2010, pubblicata anche in www.judicium.it, con nota di Maione, Profili ricostruttivi di una (eventuale) legittimazione a quo dei Collegi dell’Arbitro Bancario Finanziario. 47 Ordinanza n. 218 del 21 luglio 2011, in GU, serie speciale, n. 32 del 27 luglio 2011. Indicazioni sul punto in Liace, L’arbitro bancario finanziario, Torino, 2018, p. 133.

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rificazione del rendiconto consuntivo dello Stato, fu consentito e ammesso di sollevare come giudice a quo questioni di costituzionalità davanti alla Corte»48. E allora forse anche l’intransigenza della Corte costituzionale può essere superata, «nella diversa prospettiva della possibilità di riconoscere un potere di rimessione alle Autorità indipendenti in relazione allo svolgimento di attività paragiurisdizionali, configurando (…) una più ampia accezione di autorità giurisdizionale ai limitati fini dell’accesso in via incidentale allo scrutinio della Corte costituzionale»49. In questa logica sembrano deporre alcune valutazioni, recenti e meno, in ordine alla figura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, viepiù ravvicinato ai rimedi di tipo giurisdizionale. In primo luogo, sempre avendo riguardo al profilo di costituzionalità, la legge n. 69/2009 ha modificato l’art. 13 del d.P.R. n. 1199/1971, autorizzando «il Consiglio di Stato al rinvio pregiudiziale tutte le volte in cui il ricorso straordinario non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale»50. In secondo luogo, un recente parere reso dalla prima sezione del Consiglio di Stato, nell’adunanza del 23 ottobre 2019, in un ricorso straordinario presentato contro un provvedimento sanzionatorio per violazione degli obblighi di notifica «ai sensi degli artt. 1 e 2 del d.l. 15 marzo 2012, n. 21, recante “le norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni”», ha affermato come il ricorso straordinario abbia perso la sua connotazione, tipicamente ed esclusivamente, di rimedio amministrativo, orientandosi verso un suo progressivo avvicinamento a quelli di tipo giurisdizionale. E ciò non solo per il rammentato intervento legislativo del 2009, ma per il costante orientamento della giurisprudenza della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato. La prima

48 Amato, Conclusioni, in La tutela della concorrenza: regole, istituzioni e rapporti internazionali, atti del Convegno Internazionale, Roma 20-21 novembre 1995, in www. agcm.it, p. 12-13. 49 Antonucci, L’accesso dell’ABF al giudizio di legittimità costituzionale, in www.ilcaso.it, 2 febbraio 2012, p. 6. 50 Marone, Profili ricostruttivi, cit., p. 11, che così prosegue: «ciò posto non resta che domandarsi se anche i Collegi dell’ABF siano a tanto legittimati, anche in virtù dell’equivalenza funzionale che è possibile cogliere tra l’atto conclusivo del procedimento dell’ABF e il parere reso dal Consiglio di Stato nel ricorso straordinario al Presidente della Repubblica».

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ha affermato: «lo sviluppo normativo che ha segnato la disciplina del ricorso straordinario depone nel senso dell’assegnazione al decreto presidenziale emesso, su conforme parere del Consiglio di Stato, della natura sostanziale di decisione di giustizia e, quindi, di un carattere sostanzialmente giurisdizionale»51; la seconda ha ritenuto che, siccome «il petitum proposto in sede di ricorso straordinario [è] perfettamente equiparabile (…) ad una domanda giudiziale», non può essere esclusa la «possibilità di esperire il ricorso per ottemperanza» dinanzi al Consiglio di Stato, «al fine di ottenere l’esecuzione del decreto presidenziale»52. L’evoluzione che il contesto normativo di riferimento ha registrato; il richiamo che all’ABF ha effettuato il legislatore, collegandone (e ampliandone) l’attività con le funzioni prefettizie53, e dunque pubbliche; il moltiplicarsi di tipologie di variegate fonti normative, sono elementi che

51 Cass., S.U., 28 gennaio 2011, n. 2065. in Foro it., 2011, I, 742, con nota di D’Angelo, Ricorso straordinario e giudizio d’ottemperanza, il revirement della cassazione dopo il codice del processo amministrativo. «In tema di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, la decisione presidenziale conforme al parere del Consiglio di Stato ripete dal parere stesso la natura di atto giurisdizionale in senso sostanziale, come tale impugnabile in cassazione per motivi di giurisdizione, atteso che l’art. 69 della legge n. 69 del 2009 – che rende vincolante il parere del Consiglio di Stato e legittima l’organo consultivo a sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale – e l’art. 7 del d.lgs. n. 104 del 2010 – il quale ammette il ricorso straordinario per le sole controversie sulle quali vi è giurisdizione del giudice amministrativo – evidenziano l’avvenuta “giurisdizionalizzazione” dell’istituto»: Cass., S.U., 19 dicembre 2012, n. 23464. 52 Cons. Stato, ad. plen., 26 marzo 2012, n. 18. 53 Il d.l. n. 1/2012 (recante “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”), convertito con modificazioni dalla legge n. 27/2012, all’art. 27-bis (“Nullità di clausole nei contratti bancari”), commi 1-bis e seguenti, ha stabilito la costituzione presso il Ministero dell’economia di un “Osservatorio sull’erogazione del credito e sulle relative condizioni da parte delle banche alla clientela, con particolare riferimento alle imprese micro, piccole, medie e a quelle giovanili e femminili”. Il comma 1-quater dispone che l’Osservatorio «promuove la formulazione delle migliori prassi per la gestione delle pratiche di finanziamento alle imprese, alle famiglie e ai consumatori volte a favorire un miglioramento delle condizioni di accesso al credito, in relazione alle specifiche situazioni locali»: il comma 1-quinquies stabilisce che «ove lo ritenga necessario e motivato, il prefetto segnala all’Arbitro bancario finanziario, istituito ai sensi dell’art. 128-bis t.u.b., specifiche problematiche relative ad operazioni e servizi bancari e finanziari. La segnalazione avviene a seguito di istanza del cliente in forma riservata e dopo che il prefetto ha invitato la banca in questione, previa informativa sul merito dell’istanza, a fornire una risposta argomentata sulla meritevolezza del credito. L’Arbitro si pronuncia non oltre trenta giorni dalla segnalazione». Per approfondimenti sul punto cfr. Liace, L’arbitro bancario finanziario, cit., pp. 8999.

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rafforzano il carattere giurisdizionale dell’Organismo e delineano un panorama nel quale il divieto di rivolgersi alla Corte costituzionale imposto ai Collegi dovrebbe essere rivisto. 8. La frammentarietà del tema affrontato e la varietà dei percorsi seguiti rendono il discorso intrapreso meritevole di una qualche sintesi conclusiva. Il quadro attuale delle fonti del diritto dell’economia si caratterizza per una molteplicità di centri di imputazione, difficili da individuare e ancor più da classificare secondo un ordine gerarchico, oggi se non svanito quanto meno assai appannato. Si è soliti far capo a taluni requisiti, quali la diffusa accettazione, la consapevole fiducia dei destinatari, l’efficienza delle caratteristiche tecniche, ma si tratta di elementi segno della “liquidità” di cui si discorreva, nei quali i caratteri obbligatorio si desume più dai comportamenti che dalle sanzioni, dai codici etici più che dalle sanzioni esterne, quando presenti. In questa situazione un ruolo particolare l’assume la fonte del “diritto vivente”, anch’essa di dubbia linearità, ancor più dubbia quando si tratta di interpretazione proveniente dalle corti europee: due esempi recenti offrono spunti di riflessione solo in parte coincidenti. La c.d. sentenza “Lexitor” permette di andare oltre il mero dato ermeneutico, per proporre il tema della transizione verso un momento più decisamente giurisdizionale, con riferimento all’Arbitro Bancario Finanziario e al percorso per qualche verso parallelo segnato da procedure assimilabili. E allora il cerchio sembra di nuovo chiudersi su quelle fonti che traggono il loro enforcement “sul campo”, dall’approccio di stretto tecnicismo adottato, dal diffuso rispetto che si sono guadagnate, dalla consapevole ottemperanza che destinatari, magistratura e dottrina attribuiscono loro. Si può aprire in modo innovativo una prospettiva che restituisca non solo una modalità di distribuire giustizia, ma anche di distribuire “diritto vivente” a titolo equivalente a quello proprio dei procedimenti giurisdizionali.

Fabrizio Maimeri Abstract Il lavoro inquadra nel sistema delle fonti quelle proprie del diritto dell’economia, caratterizzate da estrema frammentarietà, difficoltà nel misurarne la vincolatività, incertezze nell’inventariarle. In questo panorama si sono inserite le fonti di carattere comunitario e segnatamente le sentenze della corte di giustizia della UE, sia nella logica di giudice dei provvedimenti della Commissione, sia nella logica di interprete dei provvedimenti comunitari e, dunque, delle norme

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interne di recepimento. La “sentenza TERCAS” e la “sentenza Lexitor” costituiscono gli esempi esaminati. Se ne trae la necessità, per il versante comunitario, di aggiustamento normativo per evitare conseguenze dirompenti sull’ordinamento UE e sulla sua ordinata applicazione; per il versante nazionale, di pervenire, con l’introduzione di qualche principio ordinatore certo, a una qualche sistemazione delle varie fonti, per non reprimere il “diritto vivente”, ma per evitare che abbia effetti dirompenti sull’equilibrio dei poteri. *** The work focuses in the system of sources those of economic law, characterized by extreme fragmentation, difficulty in measuring their binding nature, uncertainties in cataloging them. Community sources have been included in this panorama, and in particular the judgments of the EU Court of Justice, both in the logic of judge of the Commission’s measures, and in the logic of interpreter of Community measures and, therefore, of the internal transposition rules. The “TERCAS judgment” and the “Lexitor judgment” are the examples examined. From this there is a need, for the Community side, for regulatory adjustment to avoid disruptive consequences on the EU legal system and its orderly application; on the national side, to arrive at some sort of arrangement of the various sources, with the introduction of some certain ordering principle, in order not to repress the “living law”, but to avoid it having disruptive effects on the balance of powers.

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Soci e accordi di ristrutturazione (*) Sommario: 1. Premessa. – 2. La “regola di azione” e la tecnica normativa. – 3. Ratio della disciplina e sua collocazione nel sistema della gestione anticipata della crisi. – 4. Il ruolo dei soci nelle decisioni attinenti alla ristrutturazione. Il principio di compartecipazione gestoria. – 5. Rilievi conclusivi.

1. Premessa. In una prospettiva di diritto positivo, i soci possono rivestire nella ristrutturazione della società in crisi essenzialmente due ruoli: quello di “gestori” della ristrutturazione1, intervenendo nelle decisioni strategiche

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Il saggio riproduce (con qualche integrazione) quello pubblicato, con il medesimo titolo, nel volume Accordi di ristrutturazione, piani di risanamento e convenzioni di moratoria. Dalla legge fallimentare al Codice della crisi, a cura di Ferri jr. e Vattermoli, Pisa, 2021. 1 È questa la prospettiva dalla quale la posizione dei soci nelle ristrutturazioni societarie è stata in prevalenza indagata nella letteratura recente, che però ha impostato il problema riflettendovi quasi esclusivamente avendo presenti questioni che riguardano il concordato preventivo, e segnatamente quelle questioni, affatto peculiari a detta procedura, che si pongono in relazione alle c.d. “ristrutturazioni forzose”: e v. Ferri jr., Soci e creditori nella struttura finanziaria della società in crisi, in Diritto societario e crisi d’impresa, a cura di Tombari, Torino, 2014, pp. 96 ss.; Id., Il ruolo dei soci nella ristrutturazione finanziaria dell’impresa alla luce di una recente proposta di direttiva europea, in Aa. Vv., Crisi e insolvenza. In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, pp. 331 ss.; Id., Ristrutturazioni societarie e competenze organizzative, in Riv. soc., 2019, pp. 233 ss.; Guerrera, Le competenze degli organi sociali nelle procedure di regolazione negoziale, in Diritto societario e crisi di impresa, cit., pp. 65 ss.; Id., La ricapitalizzazione “forzosa” della società in crisi: novità, problemi ermeneutici e difficoltà operative, in Dir. fall., 2016, I, pp. 420 ss.; Id., Il rapporto tra gli organi sociali e gli organi della procedura concorsuale nelle ristrutturazioni delle società in crisi, ivi, 2018, I, pp. 1084 s.; Id., L’esecuzione “forzata” del concordato preventivo nell’art. 185 legge fall. e nell’art. 118 del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Aa. Vv., La nuova disciplina delle procedure concorsuali.

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aventi ad oggetto la scelta dello strumento di composizione della crisi e poi del suo contenuto; quello di finanziatori della ristrutturazione2, entrando nell’operazione mediante l’apporto di capitale di credito. È però in particolare avendo riguardo al primo dei due ruoli che emerge con una certa nettezza la (peraltro, circoscritta) specificità della loro posizione (rectius: dei problemi che con riferimento a questa si pongono) negli accordi di ristrutturazione dei debiti3.

In ricordo di Michele Sandulli, Torino, 2019, pp. 403 ss.; D’Attorre, Le proposte di concordato preventivo concorrenti, in Il fallimento, 2015, pp. 1168 ss.; Abriani, Socius ad factum precise cogi potest? Diritto societario della crisi e proposte concorrenti, in ilsocietario.it, 18 aprile 2016; Id., Proposte concorrenti, operazioni straordinarie e dovere della società di adempiere agli obblighi concordatari, in Giust. civ., 2016, pp. 365 ss.; Id., Proposte e domande concorrenti nel diritto societario della crisi, in Riv. dir. imp., 2017, pp. 270 ss.; Benazzo, Crisi d’impresa, soluzioni concordatarie e capitale sociale, in Riv. soc., 2016, pp. 244 ss.; Meo, I soci e il risanamento. Riflessioni a margine dello Schema di legge delega proposto dalla Commissione di riforma, in Giur. comm., 2016, I, pp. 286 ss.; Sacchi, Le operazioni straordinarie nel concordato preventivo, in Riv. dir. soc., 2016, pp. 776 ss.; L. Benedetti, La posizione dei soci nel risanamento della società in crisi: dal potere di veto al dovere di sacrificarsi (o di sopportare) (Aufopferungs o Duldungspflicht)?, in Riv. dir. soc., 2017, pp. 725 ss.; Brizzi, Proposte concorrenti nel concordato preventivo e governance dell’impresa in crisi, in Giur. comm., 2017, I, pp. 338 ss.; Pinto, Concordato preventivo e organizzazione sociale, in Riv. soc., 2017, pp. 123 ss.; Pacileo, Cram down e salvaguardia per i soci nel concordato preventivo con proposte concorrenti, in Riv. dir. comm., 2018, I, pp. 65 ss.; A. Nigro, Il “diritto societario della crisi”: nuovi orizzonti?, in Riv. soc., 2018, pp. 1207 ss., e spec. pp. 1222 ss.; Id., Le ristrutturazioni societarie nel diritto italiano delle crisi: notazioni generali, in Riv. dir. comm., 2019, I, pp. 379 ss., e spec. pp. 387 ss.; Id., voce Diritto societario della crisi, in Enc. dir., Agg., di prossima pubblicazione, pp. 37 ss. del dattiloscritto consultato per gentile concessione dell’Autore; Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine?, in Riv. soc., 2018, pp. 858 ss. (dal quale si cita; nonché in Aa. Vv., La nuova disciplina delle procedure concorsuali, cit., pp. 705 ss.); Stanghellini, Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, in Riv. dir. soc., 2020, pp. 295 ss.; Donati, Le ricapitalizzazioni forzose, Milano, 2020. Fanno in qualche modo eccezione gli ultimi tre Autori citati, i quali indagano il problema (più o meno approfonditamente) anche con riferimento agli accordi di ristrutturazione dei debiti. 2 Di recente è tornato sul tema (dallo stesso già indagato in Sul regime concorsuale dei finanziamenti soci, in Giur. comm., 2010, I, pp. 805 ss.), anche e proprio alla luce delle novità introdotte dal CCI, Marc. Maugeri, Finanziamenti “anomali” dei soci e riorganizzazione dell’impresa nel codice della crisi, in Riv. dir. comm., 2020, I, pp. 129 ss. In argomento, v. anche M. Campobasso, La disciplina dei finanziamenti dei soci postergati dopo il correttivo al codice della crisi, in Banca, borsa, tit. cred., 2021, I, pp. 171 ss.; nonché L. Benedetti, I finanziamenti dei soci e infragruppo alla società in crisi, Milano, 2017. 3 Con specifico riferimento ai finanziamenti soci erogati in connessione con gli accordi di ristrutturazione dei debiti vi è però un profilo che merita almeno un cenno.

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Nelle pagine che seguono ci si concentrerà pertanto sulle problematiche legate al ruolo dei soci quali decisori strategici, ed in questo senso “gestori” della ristrutturazione, in particolare riflettendo sulla “regola di azione”4 che il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. n. 14/2019, come modificato dal d.lgs. n. 147/2020: d’ora in avanti CCI), ai sensi del combinato disposto degli artt. 44, co. 5 e 265, ha inserito nella disciplina della fase di accesso al procedimento di omologazione dell’accordo. La prospettiva analitica imposta dal metodo normativo prescelto non impedirà, peraltro, di dar conto della questione teorica centrale del discorso sulla posizione dei soci nella ristrutturazione della società (la quale – detto per inciso – si disvela in termini particolarmente chiari proprio quando si affronta il problema dalla prospettiva dello strumento

Mi riferisco alla circostanza che il CCI, innovando rispetto alla legge fallimentare, ha subordinato la prededuzione dei finanziamenti soci c.d. “interinali” e di quelli c.d. “in funzione”, rispettivamente disciplinati nei co. 1 e 5 dell’art. 99 CCI, all’autorizzazione del tribunale, la quale potrà essere concessa, per un verso, solo nel caso in cui sia prevista nel piano la continuazione dell’attività, anche se unicamente in funzione della liquidazione; e, per altro verso, alle medesime condizioni alle quali nella legge fallimentare era subordinata l’autorizzazione a contrarre finanziamenti interinali urgenti prededucibili (oggi venuti meno), e cioè: i) specificazione della destinazione del finanziamento; ii) attestazione avente ad oggetto l’incapacità del debitore di reperire il finanziamento per altra via; iii) indicazione delle ragioni per le quali l’assenza di tale finanziamento determinerebbe grave pregiudizio per l’attività aziendale o per il prosieguo della procedura. Il tutto con un irrigidimento della disciplina, la cui coerenza con la permanenza della gestione in capo al debitore e, soprattutto, con la stessa ratio della postergazione di cui all’art. 2467 c.c. è tutta da verificare. 4 Il concetto di “regola di azione” viene per il momento richiamato semplicemente nel senso di “norma secondaria”, ed allora in un senso sì generale, ossia non connotato dall’applicazione in uno specifico ambito normativo, ma comunque intimamente legato al concetto di organizzazione. Una relazione, quella tra regola di azione e organizzazione, che ad esempio emerge con chiarezza già nel concetto di norme di organizzazione accolto da Hayek, il quale parla infatti delle stesse come di quelle norme attraverso le quali lo Stato regola l’azione dei propri organi (Hayek, The Principles of a Liberal Social Order, in Il Politico, XXXI, 1966, pp. 601 ss.) e che, in termini ancor più generali, è sotteso alla teoria dell’azione sociale di Weber, nell’ambito della quale l’organizzazione viene intesa appunto come forma dell’agire umano (cfr. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen, 1922). Sul piano dell’analisi giuridica, per l’attribuzione della natura di norme organizzative non solo alle norme relative alle tipiche figure organizzative di diritto privato, ma anche alle norme attributive di capacità (ai soggetti), di qualità (alle cose) e di qualifiche (agli atti), v., comunque e per tutti, Betti, Teoria generale del negozio giuridico2, in Tratt. dir. civ., diretto da Vassalli, Torino, 1969, p. 6; Falzea, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Milano, 1939, pp. 143 e 172 ss.

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compositivo ora in esame)5: e cioè quella della collocazione sul piano della gestione, poi da qualificare in ragione della portata solo imprenditoriale o anche societaria6, di decisioni strategiche quali sono da

5 E ciò in quanto adottando quale punto di osservazione gli accordi di ristrutturazione dei debiti il problema può essere affrontato senza i condizionamenti derivanti dalla necessità di risolvere talune (non secondarie) questioni legate a doppio filo alla “concorsualità”. Il riferimento è alla circostanza che avendo riguardo a detto strumento di composizione negoziale della crisi, da un lato, è da escludere che la presentazione del ricorso generi, ex se, un vincolo di distribuzione del patrimonio del debitore o una qualche forma di spossessamento, come invece avviene nel concordato preventivo (e v. sul punto il rilievo di Vattermoli, La posizione dei soci, cit., p. 862); dall’altro e conseguentemente, deve escludersi che possa porsi una questione, che è invece centrale quando la soluzione prescelta è quella concordataria, qual è quella della qualificabilità o meno del procedimento come strumento di attuazione coattiva della responsabilità patrimoniale del debitore (su questa questione, nella letteratura recente, si sofferma particolarmente Donati, Le ricapitalizzazioni forzose, cit., pp. 227 ss., ove riferimenti alla diverse posizione della dottrina); dall’altro ancora ed infine, non ha senso porre, come invece si fa con riferimento (di nuovo) al concordato preventivo, la questione del superamento, o anche solo della puntuale deroga, del c.d. “principio di neutralità organizzativa” (in argomento, per tutti, A. Nigro, Le ristrutturazioni societarie, cit., pp. 387 ss.; Id., voce Diritto societario della crisi, cit., pp. 37 ss.). Ed è appena il caso di precisare che, proprio alla luce di quanto appena detto, ai fini che qui interessano, poco o nulla può rilevare la riconduzione degli accordi di ristrutturazione dei debiti nell’alveo delle procedure concorsuali, operata ormai con una certa decisione da una parte della dottrina ed oggi anche dalla Suprema Corte (cfr. Cass., 18 gennaio 2018, n. 1182, in Riv. dir. banc., 2018, n. 6, con nota di Bonfatti, La natura giuridica degli accordi di ristrutturazione; Cass., 25 gennaio 2018, n. 1885; Cass., 25 gennaio 2018, n. 1886, in questa Rivista, 2018, I, pp. 175 ss., con nota di Bonfatti, La natura giuridica dei “piani di risanamento attestati” e degli “accordi di ristrutturazione”; Cass., 12 aprile 2018, n. 9087, in Dir. fall., 2019, II, pp. 451 ss., con nota di De Linz). Sulla natura (non concorsuale) degli accordi di ristrutturazione dei debiti, v. comunque A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali5, Bologna, 2021, pp. 470 s.; nonché Ferri jr., Gli accordi di ristrutturazione dei debiti: struttura, funzione ed effetti, in Accordi di ristrutturazione, piani di risanamento e convenzioni di moratoria. Dalla legge fallimentare al Codice della crisi, a cura di Ferri jr. e Vattermoli, Pisa, 2021, p. 70, ove ulteriori, ampi riferimenti. 6 Sui concetti di gestione imprenditoriale e gestione societaria e sui relativi rapporti, anche e proprio nelle società in crisi, v. Calandra Bonaura, La gestione societaria dell’impresa in crisi, in Aa.Vv., Società, banche e crisi di impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, a cura di M. Campobasso, Cariello, Di Cataldo, Guerrera e Sciarrone Alibrandi, vol. III, Torino, 2014, pp. 2593 ss. Sulla corretta gestione imprenditoriale e societaria come clausole generali, v. Mazzoni, in La responsabilità gestoria per scorretto esercizio dell’impresa priva della prospettiva di continuità aziendale, in Aa.Vv., Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Torino, 2010, pp. 829 ss.; G. Scognamiglio, “Clausole generali”, principi di diritto e disciplina dei gruppi di società, in ODC, 2013, pp. 12 ss.; Strampelli, Capitale sociale e struttura finanziaria nelle società in crisi, in Riv. soc., 2012,

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considerare quelle relative all’an ed eventualmente al quomodo della ristrutturazione.

2. La “regola di azione” e la tecnica normativa. Il referente normativo immediato è dunque rappresentato dal combinato disposto degli artt. 44, co. 5 e 265 CCI, ai sensi del quale, da un lato, la domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione è atto della società debitrice, che perciò deve sottoscriverla per il tramite del legale rappresentante7; dall’altro, la decisione in ordine a detta domanda spetta, salvo che l’atto costitutivo o lo statuto dispongano diversamente: nelle società di persone, ai soci, che la approvano a maggioranza assoluta del capitale; nelle società di capitali e nelle società cooperative, all’organo amministrativo8, che sulla stessa delibera con atto verbalizzato da notaio ed iscritto nel registro delle imprese.

pp. 625 s.; Marc. Maugeri, Note in tema di doveri degli amministratori nel governo del rischio di impresa (non bancaria), in ODC, 2014, pp. 3 ss. 7 Il fatto che l’art. 265 CCI si limiti ad attribuire la competenza alla sottoscrizione della proposta di concordato (nella liquidazione giudiziale) a «coloro che (…) hanno la rappresentanza sociale» trova giustificazione nella circostanza che con ciò il legislatore ha inteso dettare una disciplina idonea ad essere applicata anche nel caso in cui la società sia in liquidazione. Questione diversa è invece quella della sussistenza in capo al liquidatore del potere di deliberare la presentazione della domanda, e dunque se valga o meno per esso la regola di cui all’art. 265, co. 2 CCI, sulla quale v. infra, nota 8. 8 Al riguardo, merita di essere segnalato che l’esclusivo riferimento agli amministratori, presente anche nel combinato disposto degli artt. 161, co. 4 e 152 l.fall. (sul rapporto tra la disciplina di cui alla legge fallimentare e quella recata dal CCI v. infra nel testo), aveva in passato contribuito a porre il problema della applicabilità della disciplina ora in esame alla società in liquidazione. Proprio il testuale riferimento ai soli amministratori, invero unitamente ad una (non condivisibile) interpretazione letterale dell’art. 2487 c.c., ha indotto la Cassazione a negare che il potere di deliberare la proposta e le condizioni di concordato preventivo sia automaticamente estensibile al liquidatore della società, ritenendo che lo stesso debba a ciò espressamente essere autorizzato dall’assemblea: così Cass. 14 gennaio 2016, n. 12273, in Foro it., 2016, p. 3150, con nota di Niccolini, Il potere del liquidatore di s.p.a. di presentare domanda di concordato secondo la Cassazione: una nota critica; nonché in Società, 2016, p. 1329, con nota di Spiotta, Difetto di legittimazione attiva dei liquidatori a presentare la proposta di concordato preventivo. In argomento è inoltre intervenuta Cass., 1 giugno 2017, n. 13867, la quale, pur avendo precisato che laddove «l’assemblea che ha deliberato lo scioglimento della società e la nomina del liquidatore non abbia determinato i poteri attribuiti al medesimo alla stregua delle indicazioni contenute nell’art. 2487 comma 2 cod. civ., il liquidatore è investito, a

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Si tratta allora di due distinte regole, le quali, poste nella corretta sequenza logico-giuridica, si riferiscono l’una alla formazione della volontà sociale, e dunque al momento decisionale, l’altra all’attuazione della stessa, ed allora al momento esecutivo dell’opzione riorganizzativa che prende forma con la domanda di omologazione dell’accordo. Il legislatore del CCI, evidentemente mosso dall’obiettivo di predisporre un «modello processuale uniforme» per l’accesso alle procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza9 e in ogni caso adottando una scelta coerente con la più generale tendenza ad “avvicinare” gli accordi di ristrutturazione e il concordato preventivo10, ha così esteso ai primi il “meccanismo decisorio/esecutivo” già previsto nella legge fallimentare esclusivamente con riferimento al secondo (segnatamente, ai sensi del combinato disposto degli artt. 161, co. 4 e 152 l.fall.)11. E lo ha fatto, anche in questo caso, facendo ricorso alla tecnica normativa del rinvio: l’art. 44, co. 5 CCI, mettendo sullo stesso piano «la domanda di

norma dell’art. 2489 co. 1 c.c., del potere di compiere ogni atto utile per la liquidazione della società», ha nella sostanza confermato che nel caso in cui, invece, l’assemblea abbia proceduto alla determinazione di quei poteri, l’operatività del liquidatore rimane circoscritta agli stessi. Con il che giungendo alla medesima conclusione cui era pervenuta, con specifico riferimento a proposta e condizioni del concordato, nel precedente arresto. 9 Di «modello processuale uniforme» parla la Relazione illustrativa al CCI del 10 gennaio 2019, presentando lo stesso quale attuazione del principio di cui all’art. 2, co. 1, lett. d) della legge delega n. 155/2017, che prevede l’adozione di un procedimento unitario per l’accertamento dello stato di crisi e di insolvenza del debitore. In argomento, v. A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi, cit., p. 65 s., ove peraltro si nota opportunamente che, al di là delle intenzioni del legislatore storico, la regolamentazione veramente «uniforme» si riduce solo a qualche norma, risultandone «un (impressionante) effetto (…) di frammentazione e spezzettamento della disciplina». Il che induce a concludere che l’uniformità del modello procedurale è rimasta niente più che una aspirazione, la quale sul piano positivo si è tradotta in un mero simulacro della perseguita omogeneità, creando in più di un caso non secondari problemi interpretativi. Uno di questi – e lo si affronterà subito infra, § 3 – emerge proprio in relazione al “meccanismo decisorio” relativo all’accesso al procedimento di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti. 10 Sul punto, per tutti, v. A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi, cit., p. 471. 11 In argomento, nell’ambito di una letteratura ormai particolarmente ampia, v. Galletti, Art. 161, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario dir. da Jorio e coord. da Fabiani, tomo II, Bologna, 2007, pp. 2322 s.; Ambrosini, Le altre procedure concorsuali, in Tratt. dir. fall. e altre proc. conc., vol. IV, diretto da Vassalli, Luiso, Gabrielli, Rorino, 2014, pp. 52 ss.; Fabiani, Fallimento e concordato preventivo (art. 2221), vol. II, Il concordato preventivo, in Comm. cod. civ., a cura di De Nova, Bologna, 2014, pp. 274 s. e 294 s.; Liccardo, Art. 161, in Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Commento per articoli, a cura di A. Nigro, Sandulli e Santoro, Torino, 2014, pp. 41 ss.

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omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti e la domanda di concordato preventivo», si limita infatti a stabilire che nelle società le stesse «devono essere approvate e sottoscritte a norma dell’articolo 265». Sicché il precetto di riferimento continua ad essere la norma che regola la proposta di concordato endoconcorsuale, la quale, allora, rappresenta ancora oggi, in ultima analisi, il vero dato normativo di riferimento12.

3. Ratio della disciplina e sua collocazione nel sistema della gestione anticipata della crisi. A. La “trasversalità” della disciplina che discende dalla tecnica normativa appena ricordata, il fatto cioè che le regole poste dall’art. 265 CCI siano richiamate, esattamente nei medesimi termini, tanto in relazione all’accesso al procedimento di omologazione dell’accordo, quanto in relazione all’accesso alla procedura di concordato preventivo, solleva immediatamente un problema di coerenza tra il contenuto precettivo della disciplina richiamata e la struttura del procedimento di ristrutturazione dei debiti, imponendo di chiarire, in via preliminare, la portata del rinvio alle (e dunque dell’ambito della conseguente importazione nel contesto procedimentale della ristrutturazione delle) regole dettate per l’accesso al (sub)procedimento endoconcorsuale. Se infatti avendo riguardo alla sequenza procedimentale propria del concordato preventivo (non a caso, la sola per la quale quelle regole sono espressamente richiamate nella legge fallimentare)13 può avere un

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L’art. 265 CCI riproduce, con i soli aggiustamenti terminologici imposti dalla nuova denominazione della procedura liquidativa “maggiore”, l’art. 152 l.fall. Su quest’ultima norma, invece interessata dalla riforma del 2006, v. Caridi, Art. 152, in La riforma della legge fallimentare, tomo II, a cura di A. Nigro e Sandulli, Torino, 2006, pp. 934 ss.; Guerrera, Art. 152, in Il nuovo diritto fallimentare, dir. da Jorio e coord. da Fabiani, tomo II, Bologna, 2007, pp. 2202 ss.; Adiutori, Art. 152, in La legge fallimentare dopo la riforma, tomo II, a cura di A. Nigro, Sandulli e Santoro, Torino, 2010, pp. 1985 ss. 13 Al riguardo merita peraltro di essere ricordato un significativo dato attinente al profilo storico-evolutivo della disciplina in questione: e cioè che nella legge fallimentare del ’42, fino alla riforma del 2005-2006, l’art. 152 l.fall. disciplinava in via diretta la formazione e l’attuazione della volontà sociale con riferimento alla proposta e alle condizioni sia di concordato fallimentare sia di concordato preventivo. Sull’art. 152 l.fall., nel testo del ’42, v. Maisano, Il concordato preventivo delle società, Milano, 1980, pp. 51 ss.; Bonsignori, Il fallimento delle società. Profili processuali, in Il fallimento delle società, a cura di Galgano e Bonsignori, in Trattato di dir. comm. e dir. pubb. econ., diretto da

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senso isolare e collocare in una dimensione temporale puntuale la decisione sulla proposta e sulle condizioni del concordato, posto che le stesse convergono in un unico atto del procedimento, ed anzi nell’atto complesso (domanda giudiziale-proposta negoziale) che vi dà avvio14, molto meno senso ha pensare nel caso dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ad una decisione che abbia ad oggetto la proposta e le relative condizioni in termini unitari e temporalmente concentrati in un unico snodo del procedimento. Anzi, prendendo quest’ultimo procedimento avvio con la presentazione di un ricorso con il quale si chiede l’omologazione di un accordo già raggiunto, il quale allora presuppone che le trattative con i creditori si siano svolte e siano ormai concluse15, è difficile anche solo immaginare su quale proposta e su quali condizioni, delle tante che di norma si succedono nelle trattative, debba appuntarsi la decisione. La situazione non migliora, o migliora di poco, anche qualora, forzando il dato normativo, lo si interpreti operando una “dissociazione” (anche temporale) della decisione: riferendola, cioè, da un lato, alla scelta

Galgano, vol. X, Padova, 1988, pp. 188 ss.; A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in Trattato soc. per az., diretto da Colombo e Portale, 9**, Torino, 1993, pp. 260 ss. 14 La distinzione tra domanda e proposta di concordato coglie in realtà solo in parte la complessità concettuale dell’atto di avvio del procedimento concordatario, ai due citati atti dovendosi aggiungere il piano. All’autonomia concettuale tra domanda di concordato, proposta e piano è stata data positiva evidenza nell’art. 161, co. 6, l.fall., introdotto dall’art. 33, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 134, e vi è oggi evidenza, tra l’altro, nell’art. 44, co. 6 CCI. Va peraltro pure ricordato che la dottrina aveva colto l’articolazione interna alla domanda di concordato già prima della novellazione dell’art. 161 l.fall.: e v. Pacchi, La valutazione del piano di concordato preventivo. I poteri del tribunale e la relazione del commissario giudiziale, in Dir. fall., 2011, I, p. 96; Fabiani, Per la chiarezza delle idee su proposta, piano e domanda di concordato preventivo e riflessi sulla fattibilità, in Il fallimento, 2011, pp. 172 ss. In argomento, dopo la c.d. “miniriforma” del 2012, Fabiani, Fallimento e concordato, cit., pp. 163 ss. 15 Per il rilievo che l’accordo di ristrutturazione dei debiti (ed allora, a fortiori, la fase negoziale ad esso propedeutica) sia non già l’oggetto, ma il presupposto dalla disciplina in esame, in effetti votata a stabilire le condizioni normative affinché possa addivenirsi alla omologazione di quell’accordo, v. A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi, cit., pp. 469 s.; ed ora Ferri jr., Gli accordi di ristrutturazione, cit., pp. 45 ss. In termini analoghi, riferendosi agli accordi quale fattispecie della disciplina dell’omologazione, v. anche Sciuto, Effetti legali e negoziali degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. civ., 2009, I, pp. 337 e 343; nonché Id., Gli accordi di ristrutturazione dei debiti omologati ex art. 182-bis, in Diritto commerciale. II. Diritto della crisi d’impresa, a cura di Cian, Torino, 2019, p. 227

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dello strumento di composizione della crisi, e, dall’altro, all’accordo una volta raggiunto, e quindi alla presentazione del ricorso per la relativa omologazione. Non rimane allora che constatare che quello contenuto nell’art. 265 CCI e richiamato dall’art. 44, co. 5 CCI è un meccanismo pensato per assumere (e dare attuazione al)la decisione sulla presentazione del ricorso per l’avvio di un (sub)procedimento, qual è quello del concordato nella liquidazione giudiziale, che si risolve in un unico atto a contenuto complesso (appunto, domanda giudiziale-proposta negoziale), e che quindi solo al concordato preventivo può eventualmente adattarsi16. Del resto, stando al dato testuale, il rinvio operato dall’art. 44, co. 5 CCI riguarda in effetti le sole modalità di approvazione e sottoscrizione disciplinate nell’art. 265, e non anche l’oggetto della approvazione e della successiva sottoscrizione, allora segnalandosi, già sul piano semantico, una discontinuità con il suddetto art. 265, che non può essere ignorata o svalutata17. B. Va poi rilevato che neppure sembra sostenibile l’idea secondo la quale all’art. 44, co. 5 CCI possa assegnarsi rilievo solo sul piano processuale, allora riconoscendo nella approvazione e sottoscrizione ivi regolate condizioni processuali della domanda giudiziale di omologazione dell’accordo18,

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Ed infatti la giurisprudenza si era mossa proprio in questa direzione: e v., ad esempio, App. Napoli, 26 luglio 2017 (reperibile su Ilcaso.it), che ha negato l’applicazione analogica dell’art. 152, ult. co. l.fall. agli accordi di ristrutturazione dei debiti, nel ritenuto difetto di un vuoto normativo, nonché sulla scorta della non assimilabilità tra accordi e concordato (fallimentare). Alla medesima conclusione sembra potersi giungere argomentando da Cass., 4 settembre 2017, n. 20725, laddove si esclude che il meccanismo decisorio di cui all’art. 152 l.fall. sia richiesto nel caso di domanda di concordato con riserva presentata ai sensi dell’art. 161, co. 6 l.fall. (sul punto, in senso conforme, v. anche Trib. Milano, 17 giugno 2014, reperibile su Ilcaso.it; in senso contrario, Trib. Mantova, 14 marzo 2013; Trib. Pisa, 21 febbraio 2013, tutte reperibili su Ilcaso.it). 17 Va detto, al riguardo, che il disallineamento sul piano letterale segnalato nel testo emerge già nella legge fallimentare, dove infatti l’art. 161, co. 4 dispone che per le società la domanda di concordato debba essere approvata e sottoscritta ai sensi dell’art. 152, che – come noto – riguarda invece la decisione e sottoscrizione della proposta e delle condizioni del concordato fallimentare. Asimmetria semantica che, peraltro, si è ritenuto di poter superare facendo leva sulla circostanza che prima della novellazione, nel 2012, dell’art. 161 (retro nota 14), della distinzione tra piano, proposta e domanda non vi era traccia a livello di diritto positivo: così Fabiani, Fallimento e concordato, cit., p. 294. 18 In questa prospettiva, la norma in parola potrebbe forse trovare, con le differenze del caso, un modello nell’art. 2393, co. 1 c.c., laddove perché la società possa agire giudizialmente onde far valere la responsabilità dei propri amministratori è richiesta una

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come in passato si è fatto a proposito della sottoscrizione della domanda di concordato, anche e proprio sulla scorta dell’idea (da taluno sostenuta anche dopo la riforma del 2005-200619 ed invero alimentata dall’equivocità del dato normativo20) in base alla quale la prestazione professionale del legale che assiste il debitore nella presentazione della domanda di concordato preventivo, diversamente da quella di altri professionisti cui il legislatore fa espresso riferimento (ossia, in sostanza, a differenza dell’attestatore), non sarebbe stata necessaria per accedere alla procedura21. Sul punto, comunque, è oggi dirimente il disposto di cui all’art. 40, co. 2 CCI, ai sensi del quale non può più dubitarsi che l’accesso al procedimento per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, come del resto a tutti i procedimenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza (unica eccezione essendo quella di cui all’art. 40, co. 4), richieda l’assistenza tecnica22. Di talché, quando l’art. 44, co. 5 CCI prevede

deliberazione dell’assemblea dei soci, la cui adozione, secondo la giurisprudenza della Cassazione, appunto, «costituisce condizione di ammissibilità dell’azione per il promovimento dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, la cui esistenza (…..) deve essere verificata d’ufficio dal giudice» (enfasi aggiunta): così, da ultimo, Cass., 2 maggio 2019, n. 11552 (nello stesso senso: Cass., 10 settembre 2007, n. 18939; Cass., 26 agosto 2004, n. 16999; Cass., 6 giugno 2003, n. 9090; Cass., 11 novembre 1996, n. 9849). Nel sistema ante riforma 2005-2006, la mancata adozione dell’assemblea straordinaria, richiesta dall’allora vigente art. 152 l.fall., era ritenuta causa di inammissibilità della proposta: cfr. per tutti A. Nigro, Le società per azioni, cit., pp. 260 s. 19 Cfr. Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, p. 540; Ferro, Artt. 160-163, in La legge fallimentare. Commento teorico-pratico, a cura di Ferro, Padova, 2007, p. 1196; Grossi, La riforma della legge fallimentare, Milano, 2008, p. 1373; Cordopatri, Il processo di concordato preventivo, in Riv. dir. e proc. civ., 2012, p. 347; Fabiani e Nardecchia, La legge fallimentare. Formulario commentato, Milano, 2014, p. 1370. Prima della riforma fallimentare del 2005-2006, la tesi della facoltatività del patrocinio legale per la presentazione della domanda di concordato preventivo era stata sostenuta da Bonsignori, Del concordato preventivo, in Commentario Scialoja- Branca. Legge fall. (art. 160-186), a cura di Bricola, Galgano e Santini, Bologna-Roma, 1979, p. 86, sulla scorta dell’idea che con la presentazione della domanda non si radicava un processo di cognizione vero e proprio. 20 Il riferimento è all’equivoco richiamo della sottoscrizione del debitore operato nell’art. 161, co. 1 l.fall., che potrebbe ingenerare il dubbio che il legislatore abbia così voluto indicare un requisito non solo necessario, ma anche sufficiente alla presentazione del ricorso. 21 Sul punto v. però i corretti rilievi di Cavallini, Art. 161, in Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, vol. III, Milano, 2010, p. 422; Liccardo, Art. 161, cit., p. 41; Fabiani, Fallimento e concordato, cit., pp. 273 ss. 22 In questo senso, del resto alla luce di un dato normativo inequivocabile, A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi, cit., p. 475.

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(la approvazione e) la sottoscrizione della domanda di omologazione da parte del legale rappresentante della società sta evidentemente richiedendo un requisito ulteriore e diverso dalla sottoscrizione da parte del titolare dello jus postulandi, posto che quest’ultimo deve necessariamente essere conferito ad un avvocato mediante apposita procura ad litem. C. È allora il caso di emancipare la riflessione tanto dai condizionamenti derivanti dal rinvio alla norma sul concordato nella liquidazione giudiziale e dal suo ambito di operatività, quanto da quelli legati alla valenza processuale della domanda di omologazione dell’accordo, per ricercare la ratio della disciplina recata dall’art. 44, co. 5 CCI, con specifico riguardo al procedimento che qui interessa, alla luce di quell’assetto normativo disegnato dal CCI intorno alla gestione anticipata della crisi, che, pur mostrando talune lacune e qualche contraddizione, può già oggi ricostruirsi come un sistema23.

23 Il punto meriterebbe una trattazione a sé, alla quale in questa sede non è ovviamente possibile procedere. Basterà allora dire che parlando di sistema di gestione anticipata della crisi si intende alludere a quell’assetto normativo che fa perno sui doveri generali del debitore di rilevare tempestivamente la crisi e di reagirvi prontamente (art. 3 CCI), che sono dettati avendo particolare riguardo all’imprenditore collettivo e societario in specie (art. 2086, co. 2 c.c., introdotto dall’art. 375 CCI) e che si puntualizzano, in ciascun tipo sociale, in capo agli amministratori sotto forma di obblighi specifici (art. 377 CCI, che modifica le norme in tema di amministrazione dettate in relazione a ciascun tipo): su queste disposizioni e sulla possibilità di operarne una lettura unitaria riconducibile a sistema, v. Ferri jr. e M. Rossi, La gestione dell’impresa, organizzata in forma societaria, in Riv. dir. comm., 2020, I, pp. 93 ss. Assetto normativo che è poi completato dagli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento per adempiere a quei doveri generali e agli obblighi che ne discendono, e segnatamente: i) con specifico riferimento al dovere di rilevazione precoce, da meccanismi volti alla tempestiva emersione delle difficoltà economico-finanziarie delle imprese medio piccole, i quali fanno perno su “strumenti di allerta” di fonte legale, a loro volta basati su un sistema di segnalazioni (artt. 12-15 CCI), che allora si vanno ad aggiungere ai “sistemi di allerta” già contemplati dal diritto societario comune e dalle discipline di settore; ii) con specifico riferimento al dovere di pronta reazione, da strumenti idonei ad assicurare una risposta tempestiva alla crisi (i quali sono stati dal CCI, per un verso, ritoccati in più punti, e, per altro verso, ampliati nel numero), che possono dirsi di “gestione anticipata della crisi in senso stretto” e che possono essere classificati in quattro categorie: le prime due categorie sono di tipo autenticamente pre-concorsuale [si tratta: a) di uno strumento non negoziale e stragiudiziale, quale il procedimento di allerta; b) di strumenti negoziali e stragiudiziali non soggetti ad omologazione, quali gli accordi in esecuzione di piani attestati e la composizione assistita della crisi, ai quali si deve oggi aggiungere la composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa introdotta dal d.l. n. 118/2021]; la terza categoria contiene procedimenti che possono qualificarsi come di tipo para-concorsuale (si tratta di strumenti negoziali e stragiudiziali soggetti ad omologazione, quali accordi di ristrut-

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Si tratta cioè di tener conto, per un verso, del fatto che l’accordo di ristrutturazione dei debiti, in quanto strumento (legalmente) tipico di composizione negoziale della crisi, rappresenta, alla luce delle modifiche al codice civile introdotte dal CCI (artt. 375 e 377 CCI), una delle misure di tempestiva reazione che gli amministratori di tutte le società (ed anzi di tutte le imprese collettive) sono tenuti ad adottare ed attuare, attivandosi «senza indugio», una volta che la crisi sia stata (precocemente) rilevata sulla base degli “assetti aziendali” che i medesimi amministratori (oggi, anche e proprio a questo fine) devono predisporre24; e per altro

turazione dei debiti, transazione fiscale e convenzioni di moratoria); la quarta categoria comprende procedure autenticamente concorsuali (si tratta di strumenti negoziali e giudiziali, quali il concordato preventivo e il concordato minore). Come si è accennato nel testo, si tratta tuttavia di un sistema non a perfetta tenuta. Al riguardo in questa sede si può solo rilevare che l’assetto normativo sommariamente descritto presenta, da un lato e de jure condito, una incoerenza interna, e ciò anche e proprio in relazione alla circostanza che tanto gli accordi di ristrutturazione quanto il concordato preventivo trovano il proprio presupposto oggettivo non solo nella crisi, ma anche nell’insolvenza; dall’altro e de jure condendo, la necessità di essere profondamente modificato nella prospettiva del recepimento della direttiva (UE) 2019/1023, posto che quest’ultima qualifica “procedimenti di ristrutturazione preventiva” solo quelli idonei ad evitare l’insolvenza, risultando allora incompatibile con un sistema come il nostro che, per quanto si è appena detto in punto di presupposto oggettivo di accordi di ristrutturazione e concordato preventivo, non conosce procedimenti destinati ad attivarsi solo in presenza di uno stato di crisi (per quest’ultimo rilievo, v. A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi, cit., p. 84). Ed è appena il caso di rilevare che è questa una esigenza di modifica che non può ritenersi superata dall’introduzione, ad opera del citato d.l. n. 118/2021, del procedimento di composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa. Sebbene infatti prima facie detto provvedimento normativo sembrerebbe riservare il nuovo strumento al solo imprenditore (commerciale e agricolo) non ancora insolvente (cfr. art. 2, co. 1, prima parte, d.l. n. 118/2021), per un verso, non è previsto che la condizione in cui versa il debitore sia sottoposta ad un accertamento giudiziale, e, per altro verso, né alla Camera di commercio cui l’imprenditore deve rivolgere l’istanza di nomina dell’esperto indipendente, né a quest’ultimo è demandato il compito di verificare che l’imprenditore istante non sia ancora in stato di insolvenza, l’unica valutazione preventiva richiesta (allo stesso imprenditore e soprattutto all’esperto indipendente) essendo quella in ordine alle concrete prospettive di risanamento dell’impresa (cfr. artt. 2, co. 1, ultima parte e 5, co. 1 d.l. n. 118/2021), con la conseguenza che in principio non è da escludere che al procedimento in questione possa accedere anche e proprio un debitore insolvente. 24 Il riferimento è, ovviamente, da un lato, al nuovo art. 2086, co. 2 c.c. (introdotto dall’art. 375 CCI), che ha posto a carico del debitore societario «il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale», nonché quello di «attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e per il

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verso, della circostanza che accedendo ad uno strumento di regolazione concordata della crisi e dell’insolvenza, e dunque anche e proprio nel caso di accesso all’accordo di ristrutturazione dei debiti, il debitore che svolga attività d’impresa sceglie di orientare la gestione della stessa al superamento della crisi, il che poi fa sì che il generale dovere di comportarsi secondo buona fede e correttezza, che ovviamente non può non valere nell’ambito delle procedure in discorso (art. 4, co. 1 CCI), si specifichi anche e proprio nel dovere di gestire l’impresa nell’«interesse prioritario dei creditori» [art. 4, co. 2, lett. c) CCI]25.

recupero della continuità aziendale»: doveri i quali, riprendendo ed ampliando la scelta già operata con la riforma del diritto societario del 2003, ed invero (in parte) anticipata dal t.u.f. [cfr. artt. 2381, co. 3 e 5, 2403, co, 1 e 2409-terdecies, co. 1, lett. c) c.c., nonché art. 149, co. 1, lett. b) t.u.f.: sui quali, ai fini che qui interessano, v. soprattutto Montalenti, I doveri degli amministratori degli organi di controllo e della società di revisione nella fase di emersione della crisi, in Diritto societario e crisi d’impresa, a cura di Tombari, cit., pp. 35 ss.; Sacchi, La responsabilità gestionale nella crisi dell’impresa societaria, ivi, pp. 112 ss.; nonché, in termini generali, Irrera, Assetti organizzativi adeguati e governo delle società di capitali, Milano, 2005, passim; Buonocore, Adeguatezza, precauzione, gestione, responsabilità: chiose sull’art. 2381, 3° e 4° comma, c.c., in Giur. comm., 2006, I, pp. 5 ss.], si caratterizzano per una accentuata portata organizzativa, candidandosi a principi di vertice della gestione dell’impresa (e v. la nuova rubrica dell’art. 2086 c.c., che infatti recita: «Gestione dell’impresa»); dall’altro, alle norme dettate in tema di amministrazione nell’ambito della disciplina dei singoli tipi societari (artt. 2257, 2380-bis, 2409-novies, 2476 c.c., sulle quali è intervenuto l’art. 377 CCI, peraltro oggetto di un intervento correttivo ad opera del d.lgs. n. 147/2020), ai sensi delle quali l’istituzione degli assetti di cui all’art. 2086, co. 2 c.c. è di competenza esclusiva degli amministratori. La dottrina (invero anche sulla base dello stimolo proveniente dalla equivoca formulazione delle norme in questione scaturita dalle modifiche introdotte nel Codice civile da una prima versione dell’art. 377 CCI) si è ampiamente dedicata a studiare l’assetto normativo che da tali novità deriva: e v., senza pretesa di esaustività, Abriani e A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, 2019, pp. 395 ss.; Calvosa, Gestione dell’impresa e della società alla luce dei nuovi artt. 2086 e 2474 c.c., in Società, 2019, p. 799; Di Cataldo e S. Rossi, Nuove regole generali per l’impresa nel nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, in Aa. Vv., La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di Michele Sandulli, cit., p. 305 ss.; Ferri jr. e M. Rossi, La gestione dell’impresa, cit., pp. 91 ss.; Ginevra e Presciani, Il dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2086 c.c., in Nuove leggi civ. comm., 2019, p. 1209 ss.; Montalenti, Gestione dell’impresa, assetti organizzativi e procedure di allerta dalla “Proposta Rordorf” al Codice della crisi, in Aa. Vv., La nuova disciplina delle procedure concorsuali, cit., pp. 482 ss.; Spolidoro, Note critiche sulla «gestione dell’impresa» nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. soc., 2019, pp. 259 ss.; Calandra Bonaura, Amministratori e gestione dell’impresa nel codice della crisi, in Giur. comm., 2020, I, pp. 5 ss. 25 Su questa previsione, collocata in apertura del CCI, all’interno del Capo intitolato «Principi generali», v. D’Attorre, La formulazione dei principi generali nel codice della

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Si tratta di considerare, in altri termini, che essendo la crisi economico-finanziaria che qui viene in rilievo una disfunzione di tipo programmatorio26, la reazione alla stessa, oggi esplicitamente imposta dal nuovo art. 2086, co. 2 c.c., di cui l’accordo omologato è uno degli strumenti di attuazione27, si risolve nella sostanza in una riprogrammazione

crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Banca, borsa, tit. cred., 2019, I, pp. 469 ss.; nonché A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi, cit., pp. 61 s., ove però una lettura tesa a svalutare la portata precettiva della disposizione, riconoscendovi l’espressione del generale dovere del debitore di collaborare con gli organi della procedura al fine di consentire il conseguimento delle relative finalità e che, in quanto tale, «integra una regola di comportamento la cui violazione né è colpita da sanzioni dirette (salva ovviamente l’ipotesi che si puntualizzi in obblighi specifici) né può essere fonte di obblighi risarcitori». In termini analoghi, v. anche Nigro, voce Diritto societario della crisi, cit., p. 24 s. 26 Di «disfunzione della programmazione», avendo ricondotto quest’ultima ai requisiti della nozione di impresa in generale, parla Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna, 2006, pp. 173 ss.; esprime il medesimo concetto, parlando di «disordine organizzativo e gestionale», S. Rossi, La crisi d’impresa, in Aa.Vv., Diritto fallimentare [Manuale breve], Milano, 2008, p. 5; in senso analogo, v. anche Marc. Maugeri, Partecipazione sociale e attività di impresa, Milano, 2010, p. 388. 27 E v. retro, nota 23. Va peraltro al riguardo rilevato che la riconduzione degli accordi di ristrutturazione dei debiti agli strumenti di reazione di cui all’art. 2086, co. 2 c.c. segnala la necessità di un coordinamento tra il profilo funzionale dello specifico strumento ora in esame e le finalità della reazione imposta dalla nuova disposizione codicistica. Mi riferisco alla circostanza che, come è generalmente riconosciuto, gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono uno strumento di composizione della crisi ambivalente, nel senso che possono essere utilizzati tanto a fini di risanamento, ed allora di recupero della continuità aziendale, quanto a fini liquidativi (sul punto, v. per tutti A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi, cit., p. 472; Ferri jr., Gli accordi di ristrutturazione, cit., p. 56 s.), laddove invece, almeno stando al dato letterale, l’art. 2086, co. 2 c.c. sembra imporre una reazione finalizzata esclusivamente al «superamento della crisi e al recupero della continuità aziendale», collocandosi allora in una prospettiva conservativa e di risanamento. La questione, come è evidente, è un precipitato del più generale problema attinente al ruolo che gli strumenti liquidativi possono svolgere nell’ambito del sistema di gestione anticipata della crisi disegnato dal CCI e riguarda, dunque, anche il concordato preventivo liquidatorio (e ciò a dispetto della marginalizzazione della figura che emerge dal CCI), da un lato, e la liquidazione ordinaria, dall’altro, arrivando a toccare la stessa possibilità di ricorrere (sussistendone il presupposto oggettivo) alla liquidazione giudiziale (di un tale problema danno conto Di Cataldo e S. Rossi, Nuove regole generali, cit., p. 312; nonché A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi, cit., p. 86). Sul punto, ai fini del discorso che qui si sta svolgendo, ci si può limitare ad osservare che il sistema di gestione anticipata della crisi va comunque coordinato con il dovere generale di corretta gestione dell’impresa societaria, il quale si specifica, oltre che nella adeguatezza delle procedure interne di rilevazione della crisi e di reazione alla stessa, anche nella ragionevolezza, alla quale chi amministra una tale impresa deve sempre ispirare le proprie scelte, tanto più quando la stessa vive una condizione di crisi (A. Nigro,

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dell’attività28, che prende plasticamente forma a livello normativo nel piano (almeno) esconomico-finanziario che deve assistere l’accordo29, collocandosi allora a pieno titolo nella dimensione imprenditoriale della vicenda societaria30 e in essa rivestendo i connotati tipici della gestione dell’impresa organizzata in forma di società31.

“Principio” di ragionevolezza e regime degli obblighi e della responsabilità degli amministratori di s.p.a., in Giur. comm., 2013, I, pp. 467 ss., spec. pp. 472 ss.). Ne discende che di fronte ad una tale condizione, in ossequio al favor legislativo per il risanamento espresso anche e proprio dall’art. 2086, co. 2 c.c., gli amministratori dovranno optare per la via conservativa ogni qual volta (e sempre che) la stessa risulti ragionevolmente perseguibile, mentre in difetto di una ragionevole prospettiva di risanamento la reazione, comunque doverosa, potrà (dovrà) avvenire ricorrendo ad uno strumento liquidativo. 28 Cfr. Marc. Maugeri, Partecipazione sociale, cit., pp. 389 s., ove la considerazione degli strumenti concordatari (ma il discorso vale tel quel per l’accordo di ristrutturazione) come «forme di «riorganizzazione» della gestione, quindi dell’interesse al cui soddisfacimento la stessa deve volgersi» (corsivi nell’originale). 29 Quello economico-finanziario è invero solo il contenuto minimo del piano relativo all’attuazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, posto che lo stesso può ben essere strutturato altresì come piano industriale, prevedendo, allora, eventualmente, anche il compimento di operazioni straordinarie. Sul punto si tornerà infra § 4. Sulle tipologie di piano, v. intanto Ranalli, “Logica” e “tecnica” dei piani di risanamento, in Accordi di ristrutturazione, piani di risanamento e convenzioni di moratoria, cit., pp. 27 ss. 30 Che il concetto di “programmazione” sia riconducibile alla dimensione imprenditoriale e che anzi esso sia coessenziale alla stessa nozione di impresa ricavabile dall’art. 2082 c.c. è opinione condivisa, oggetto di dibattito essendo solo a quale degli attributi dell’attività di impresa essa sia riconducibile: in particolare discutendosi se essa attenga soltanto all’elemento dell’organizzazione (Bracco, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, Padova, 1966, pp. 186 ss.; A. Nigro, Impresa commerciale e impresa soggetta a registrazione, in Tratt. dir. priv.2, diretto da Rescigno, 15 **, Torino, 2001, p. 651, Spada, voce Impresa, in Dig. disc. priv., sez. comm., VII, Torino, 1992, pp. 47 s.), anche a quello della professionalità (Terranova, L’impresa nel sistema del diritto commerciale, in Riv. dir. comm., 2008, I, pp. 1 ss.; Rondinone, Il mito della conservazione dell’impresa in crisi e le ragioni della “commercialità”, Milano, 2012), o se, piuttosto, riassuma tutte le caratteristiche dell’attività di impresa, ossia economicità, professionalità e organizzazione (Galletti, La ripartizione, cit., pp. 169 ss. e spec. 171). 31 In ordine alla riconduzione alla gestione dell’impresa societaria delle attività poste in essere in adempimento del nuovo art. 2086, co. 2 c.c. v. Angelici, A proposito di «interessi primordiali» dei soci e «gestione esclusiva» degli amministratori, in Riv. dir. comm., 2020, I, pp. 59 ss.; Ferri jr. e M. Rossi, La gestione dell’impresa organizzata in forma societaria, cit., 2020, I, pp. 93 ss. In generale, sulla componente programmatoria della gestione dell’impresa societaria, v. Angelici, La società per azioni. I. Principi e problemi, in Trattato dir. civ. e comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2012, pp. 378 ss.

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D. Ebbene, se si condividono le considerazioni che precedono non si dovrebbe avere difficoltà a convenire anche sulla circostanza che l’approvazione e la sottoscrizione cui si riferisce l’art. 44, co. 5 CCI hanno in definitiva ad oggetto il compimento di un atto di (ri)organizzazione dell’impresa societaria. Un atto del quale va però qui subito chiarita una peculiare caratteristica, data da ciò che è questo un atto di organizzazione destinato a produrre effetti non già rimanendo all’interno della società, ma proiettando all’esterno della stessa tanto la crisi, ossia la disfunzione della programmazione che ne costituisce il presupposto, quanto la reazione alla crisi, ossia la riprogrammazione che ne costituisce lo strumento. Emerge, da questo punto di vista, il carattere nevralgico che all’interno del procedimento in discorso rivestono, da un lato, il piano, quale momento nel quale si realizza la programmazione finalizzata a rendere possibile l’adempimento dell’accordo raggiunto con i creditori; dall’altro, l’iscrizione nel registro delle imprese della domanda, del piano medesimo e dell’attestazione di fattibilità, oggi esplicitamente prevista (contrariamente a quanto avviene nella legge fallimentare) dall’articolo 44, co. 6 CCI, che allora completa la disciplina immediatamente rilevante ai fini che qui interessano32. Entrambi i profili meritano di essere brevemente approfonditi, e ciò anche e proprio nella prospettiva di chiarire i contorni dell’oggetto dell’approvazione e della sottoscrizione richieste dall’art. 44, co. 5 CCI, e così di trarre ulteriori indicazioni in ordine alla funzione di quest’ultima disposizione. a) Quanto al piano, va detto che, sebbene si rinvengano nel CCI taluni dati normativi che sembrerebbero suggerirne la necessaria preesistenza all’accordo (quali in particolare l’art. 57, co. 2 CCI, laddove si richiede che l’accordo deve contenere «l’indicazione degli elementi del piano economico-finanziario che ne consentono l’esecuzione»; nonché l’art. 58, co. 1 CCI, ai sensi del quale in presenza di modifiche sostanziali del piano deve procedersi alla rinnovazione e dell’attestazione e dell’acquisizione del consenso dei creditori)33, ponendosi in una prospettiva “applicativa”, è difficile non tener conto della intima interdipendenza che ne caratterizza

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Sui dubbi che sono sorti in relazione alla mancanza di una omologa disposizione nella legge fallimentare, v. Sciuto, Gli accordi di ristrutturazione, cit., p. 232. Per la sottolineatura dell’importanza dell’art. 44, co. 6 CCI v. anche Ferri jr., Gli accordi di ristrutturazione, cit., pp. 59 e 61 s. 33 Fa leva su questi dati normativi, per sostenere che «il debitore si impegna (…) non soltanto a soddisfare i crediti così come ristrutturati dall’accordo, ma anche ad eseguire il relativo piano», presupponendo allora la necessaria preesistenza di quest’ultimo all’accordo, Ferri jr., Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., pp. 53 ss.

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il rapporto con quest’ultimo: del fatto cioè che modificando l’uno è ben possibile, ed anzi altamente probabile, che si debba intervenire anche sull’altro, e ciò perché in presenza di risorse date, quali sono quelle a disposizione del debitore in crisi (le quali per definizione sono insufficienti a soddisfare integralmente i creditori “aderenti”, e che invece devono necessariamente bastare al soddisfacimento di quelli “non aderenti”), tanto l’“assorbimento” quanto la “liberazione” di risorse che conseguono a ciascuno degli accordi con i creditori sono potenzialmente idonei non solo ad incidere sui modi e sui tempi previsti dal piano per il soddisfacimento di questi ultimi, ma – ed è questo ciò che più importa nella prospettiva dell’omologazione – anche e soprattutto a pregiudicare le possibilità di soddisfacimento integrale dei creditori con i quali nessun accordo è stato raggiunto, ed allora a condizionare la fattibilità stessa del piano. A ben vedere, del resto, questa lettura funzionale trova non secondarie conferme alla luce del diritto positivo, e ciò anche e proprio avendo riguardo a quei dati normativi (ai quali si è fatto sopra cenno) che prima facie sembrerebbero deporre per la necessaria preesistenza del piano all’accordo. Ed infatti, da un lato, l’art. 57, co. 2 si limita a richiedere l’indicazione nell’accordo di meri «elementi del piano», ossia delle linee di fondo dello stesso, allora facendo emergere la consapevolezza in capo al legislatore circa il fatto che il debitore al momento della stipula degli accordi non può che avere a disposizione una mera ipotesi di piano, al più un piano provvisorio, dipendendo la definitività dello stesso anche e proprio dall’esito delle singole trattative con i creditori. Dall’altro, se è vero che l’art. 58 CCI dispone che la modifica sostanziale del piano prima dell’omologazione rende necessaria una nuova attestazione e una nuova espressione di consenso da parte dei creditori, non può non tenersi in conto che la medesima disposizione richiede una nuova attestazione anche quando siano gli accordi a mutare. Dal che all’evidenza discende che l’attestazione di fattibilità del piano deve essere rilasciata solo dopo che gli accordi con i creditori siano stati conclusi, con la conseguenza che, essendo il piano propriamente detto solo quello attestato, salva la necessaria predisposizione di una pianificazione provvisoria che contenga le linee di fondo della riprogrammazione progettata per superare la crisi, lo stesso non può che perfezionarsi successivamente alla conclusione degli accordi con i creditori34.

34 Il che può anche esprimersi dicendo che il rapporto accordo-piano nel procedimento per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti si presenta ribaltato

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Ai fini che qui immediatamente interessano, ciò permette allora di affermare che la approvazione e la sottoscrizione, sebbene testualmente riferite dall’art. 44, co. 5 CCI alla sola domanda di omologazione dell’accordo, non possano che riguardare anche e proprio il piano economico-finanziario, quale atto che, pur se materialmente separato dalla domanda35, alla stessa è – e non può non essere – intimamente collegato. Del resto, se si considera che, scomposta nelle sue unità concettuali elementari, la domanda di omologazione si articola in ricorso giudiziale, accordo, piano e relazione di attestazione; e che di questi atti il primo, come si è detto, è sottoscritto dall’avvocato all’uopo (obbligatoriamente) officiato (art. 40, co. 2 CCI), il secondo viene deciso e sottoscritto (in un momento logicamente e temporalmente anteriore) in esito alle trattative con i singoli creditori e l’ultimo non può che essere concepito e sottoscritto da un professionista indipendente anche e proprio dal debitore (art. 57, co. 4 CCI), non dovrebbero sussistere dubbi circa il fatto che quando l’art. 44, co. 5 CCI parla di domanda di omologazione dell’accordo intenda in effetti riferirsi, oltre che al conferimento del mandato professionale per la predisposizione del ricorso giudiziale di accesso al procedimento, anche e proprio al piano. Il che, ove ve ne fosse bisogno, costituisce un ulteriore – e si direbbe, dirimente – argomento a conferma del fatto che nel procedimento di ristrutturazione dei debiti il piano segue e non precede l’accordo. b) Quanto invece alla pubblicazione nel registro delle imprese di domanda, piano e attestazione, merita di esserne sottolineata l’essenzialità nella vicenda riorganizzativa che qui ne occupa, posto che è proprio il momento della pubblicità legale quello nel quale, da un lato, l’accordo supera la sfera meramente negoziale del singolo rapporto individuale tra debitore e creditore, e, dall’altro, il piano cessa di essere un semplice atto di organizzazione interna della società. E’ questo infatti il momento nel quale, proiettandosi all’esterno e segnalando un modo di essere

rispetto a quello che caratterizza i piani di risanamento attestati, nei quali infatti, in principio, gli accordi vengono stipulati “a valle” ed in esecuzione del piano; ciò che il legislatore del CCI ha voluto sottolineare fin dalla rubrica dell’art. 56 ad essi dedicato, la quale infatti recita «Accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento». Sul punto, v. Sciuto, I piani attestati di risanamento: natura, funzione, effetti, in Accordi di ristrutturazione, piani di risanamento e convenzioni di moratoria, cit., pp. 15 ss. 35 Sull’autonomia del piano rispetto alla domanda di omologazione, in termini inequivoci, v. l’art. 44, co. 6 CCI.

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dell’impresa societaria36, ossia ad un tempo la sua condizione di crisi e il programma imprenditoriale che la società debitrice (approvando e sottoscrivendo la domanda di omologazione dell’accordo) ha formalmente scelto per il suo superamento, gli stessi non solo vincolano la società rispetto ai singoli creditori aderenti all’accordo, quanto impongono ai terzi e alla stessa società sia quella condizione obiettiva sia il programma imprenditoriale selezionato per il suo superamento37. E non dovrebbe essere difficile comprendere che proprio in ciò risiede, in ultima analisi, la ragione giuridica del fatto che una vicenda negoziale, quale in definitiva (comunque la si ricostruisca) è quella nella quale si risolve l’accordo con i singoli creditori, possa generare effetti giuridici ad essa normalmente estranei, una volta che l’autorità giudiziaria abbia verificato (anche e proprio alla luce della affidabilità di quella pianificazione) la sussistenza delle condizioni di legge per l’omologazione38. E. Proprio quest’ultimo rilievo permette, allora, da un lato, di riconoscere nell’art. 44, co. 5 CCI una regola organizzativa societaria (ed in questo senso una regola di azione)39 avente ad oggetto la formazione e l’attuazione della volontà sociale in relazione ad un atto gestorio strategico, qual è quello con il quale la reazione alla crisi prende forma in un procedimento di ristrutturazione dei debiti; dall’altro, di confermare che la approvazione e la sottoscrizione della domanda di omologazione previste da detta norma non hanno direttamente a che fare con gli atti negoziali che hanno condotto all’accordo e tanto meno riguardano un

36 Sul punto, v. A. Nigro, Impresa commerciale, cit., pp. 759 s.; nonché Ragusa Maggiore, Il registro delle imprese. Artt. 2188-2202, in Il codice civile. Commentario, Milano, 2002, p. 52. 37 In generale, sui «condizionamenti che il vincolo di informare determina, in quanto tale, sull’attività di chi a quel vincolo è soggetto», v. A. Nigro, Impresa commerciale, cit., pp. 757s. 38 E v. quanto scrive, in punto di essenzialità del momento della pubblicazione nel registro delle imprese, Ferri jr., Gli accordi di ristrutturazione, cit., pp. 59 ss., spec. 62, dove si parla di «portata costitutiva della pubblicazione». 39 In questo senso, «regole di azione» sono quelle «regole organizzative della società» che si sostanziano «nella circostanza che esse contribuiscono a qualificare le attività ad esse corrispondenti, nel senso che il valore giuridico di queste consegue alla loro conformità oppure no a quelle», consentendo allora «di applicare una disciplina diversa rispetto a quella altrimenti applicabile»: così Angelici, Le basi contrattuali della società per azioni, in Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, 1*, Torino, 2004, pp. 128 ss e 135 s.; in argomento v. pure Id., La società per azioni. I. Principi e problemi, cit., pp. 240 ss.

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supposto contenuto negoziale della domanda medesima, dal momento che il perfezionamento delle trattative propedeutiche a quell’accordo, ed anzi l’accordo stesso, come si è detto, vengono qui in rilievo quale “(ante)fatto” – allora presupposto e non oggetto – della disciplina40, quella decisione e quella sottoscrizione trovando invece ragione nella circostanza che la domanda che ne costituisce l’oggetto, pur assumendo una indubbia valenza processuale, riveste anche e proprio la natura di atto di organizzazione dell’impresa, con il quale viene formalizzata e rappresentata all’esterno una più ampia attività di riorganizzazione societaria, effetto tanto della riprogrammazione dell’attività (poi, a seconda dei casi, solo economico finanziaria o anche industriale) prevista nel piano, quanto della temporanea rideterminazione della destinazione della ricchezza prodotta, inevitabile conseguenza del sopraggiungere della crisi e della scelta di reagirvi41. F. E può essere interessante notare che è questa una lettura in grado di conferire sostanziale uniformità alla disciplina dettata dall’art. 44, co. 5 CCI, di dare cioè contenuto alla formale “trasversalità” che emerge dal dato normativo, superando allora la diversità strutturale dei due procedimenti. E ciò in quanto pone l’accento sull’unico elemento veramente comune alla domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione e alla domanda di concordato, dato dal risolversi entrambe nell’atto con il quale, dando avvio ad un procedimento fondato su una riprogrammazione imprenditoriale che prende forma in un piano, si realizza quella tempestiva reazione alla crisi oggi imposta al debitore che esercita una impresa organizzata in forma societaria, all’unica condizione della ragionevolezza dell’opzione riorganizzativa (artt. 3 CCI e 2086, co. 2 c.c.).

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Retro nt. 15. Si tocca qui, come è evidente, uno dei temi sistematicamente più delicati del discorso giuridico sulle ristrutturazioni societarie, che allora merita almeno di essere segnalato nella precipua prospettiva di chiarire che quando nel testo si fa riferimento ad una rideterminazione della destinazione della ricchezza prodotta si intende evidenziare la circostanza che, al sopraggiungere della crisi, la dimensione finanziaria del fenomeno societario rimane giocoforza sospesa. Il che, sul piano normativo, potrebbe forse trovare una conferma nel modo in cui l’art. 4, co. 2, lett. c) CCI declina oggi il dovere di buona fede e correttezza in capo al debitore che acceda ad uno strumento di regolazione della crisi o dell’insolvenza, ossia imponendogli di gestire l’impresa «nell’interesse prioritario dei creditori». Sul punto si dovrà tornare comunque infra § 5. 41

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4. Il ruolo dei soci nelle decisioni attinenti alla ristrutturazione. Il principio di compartecipazione gestoria. A. Così identificata la ratio dell’art. 44, co. 5 CCI, nella prospettiva di chiarire quale sia il ruolo dei soci nelle decisioni in ordine all’an e al quomodo di una ristrutturazione societaria operata mediante lo strumento compositivo in esame, occorre a questo punto guardare al funzionamento della regola di formazione della volontà sociale di cui all’art. 265 CCI. Anche in questo caso, l’analisi andrà condotta esaminando il problema attraverso il prisma del sistema di gestione anticipata della crisi, e segnatamente alla luce dei doveri generali che gravano sull’imprenditore collettivo e societario in specie, ai sensi dell’art. 2086, co. 2 c.c. Altrimenti detto, si tratta ora di verificare se ed eventualmente in che termini quei doveri, data la loro centralità nel sistema, sono in grado di incidere sull’interpretazione di quella regola di formazione della volontà sociale ed eventualmente anche sull’assetto di competenze disegnato dal diritto societario comune. B. Il che significa innanzi tutto chiedersi se, alla luce del CCI, possano ancora prospettarsi interpretazioni, quali quelle prevalenti nella dottrina che ha ragionato sul combinato disposto degli artt. 161, co. 4 e 152 l.fall., le quali fanno perno sull’idea secondo la quale la competenza ad assumere le decisioni chiave in ordine alla ristrutturazione della società debba spettare in ultima analisi ai soci42. Idea in forza della quale, in punto di fatto, nelle società di persone, si finisce per riconoscere la regola nella competenza dei soci e l’eccezione nella possibilità che questi, avvalendosi del carattere dispositivo della norma, attribuiscano quella decisione a coloro (tra i medesimi soci) ai

42 In questo senso, con diversità di accenti, Guerrera, Le competenze, cit., p. 83 ss.; Calandra Bonaura, La gestione societaria, cit., pp. 2601 ss., spec. 2603 ss. Sul punto, v. pure Portale e De Luca, Interessi primordiali degli azionisti e competenze implicite dell’assemblea, in Riv. dir. comm., 2020, I, pp. 39 ss., spec. p. 54, nt. 23, ove, espressamente richiamando gli artt. 152 l.fall. e 265 CCI, si afferma che «è evidente che gli amministratori non possono presentare la domanda di concordato, soprattutto se contenenti proposte che devono essere deliberate dall’assemblea (come aumenti di capitale od altre operazioni straordinarie), senza la necessaria autorizzazione dell’assemblea medesima (autorizzazione che, come per le autorizzazioni su azioni proprie, non sposta la competenza, ma attribuisce agli investitori il peso di parola […])», citando sul punto Abbadessa, L’assemblea: competenza, in Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, 3*, Torino, 1994, p. 9, nt. 15.

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quali è affidata l’amministrazione della società, sulla base allora di una sorta di delega; e che, nelle società di capitali, induce invece a porre l’accento sulla circostanza che ai soci è sempre consentito, mediante l’inserimento di apposita clausola statutaria, avocare a sé la competenza assegnata dalla legge in prima battuta agli amministratori, di talché quella attribuita a questi ultimi dall’art. 152 l.fall., in contrapposizione allo schema di cui all’art. 2380-bis c.c., non si configurerebbe mai quale competenza esclusiva43; e ciò tanto più nelle s.r.l., laddove non solo l’autonomia tipologica conquistata con la riforma del 2003 fa sì che quello schema risulti disattivato, ma è lo stesso diritto societario comune a disegnare aree di esclusiva operatività dell’assemblea dei soci, e ciò anche e proprio su questioni di rilievo gestorio44. Una lettura questa che presuppone, da un lato, che tra diritto societario e diritto della crisi sussista un rapporto “a geometria variabile”, e, dall’altro, sebbene non sempre lo si espliciti, che quelle relative alle ristrutturazioni societarie, specie quando riguardino la riorganizzazione patrimoniale o finanziaria, siano decisioni che finiscono per coinvolgere i c.d. “interessi primordiali dei soci”45, attenendo ad operazioni che allora

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Cfr. Calandra Bonaura, La gestione societaria, cit., spec. pp. 2598 e 2603. Su questa idea sembra basarsi anche Cass., 31 luglio 2017, n. 19009, nella cui massima ufficiale si legge infatti che «Nel concordato preventivo di una società di capitali la decisione di presentare la domanda di ammissione, salvo diversa previsione dello statuto, spetta all’organo amministrativo che delibera con verbale notarile da iscriversi nel registro delle imprese; sicché la domanda di concordato è inammissibile quando la relativa delibera sia stata assunta dagli amministratori in modo irrituale senza la verbalizzazione di un notaio, salvo che, prima della decisione del tribunale, l’assemblea dei soci aderisca alla domanda adottando una delibera con le forme prescritte dall’art. 152, comma 3, l.fall., trattandosi del medesimo organo da cui promanano i poteri degli amministratori». 44 In questo senso, v. ancora Guerrera, Le competenze, cit., pp. 83 ss. e, con specifico riferimento agli accordi di ristrutturazione, pp. 86 s.; nonché Calandra Bonaura, La gestione societaria, cit., spec. pp. 2598 e 2603. 45 L’idea secondo la quale ci sarebbero atti e operazioni delle società per azioni che, in ragione della loro idoneità ad incidere sulle coordinate di fondo dell’investimento dei soci (in questo senso, appunto, atti e operazioni di «interesse primordiale»), sebbene attinenti formalmente alla gestione dell’impresa, e dunque in principio di competenza dell’organo amministrativo, farebbero sorgere l’esigenza di rimettere la relativa decisione all’assemblea, come è noto, è stata elaborata, anche sulla scorta di taluni precedenti giurisprudenziali tedeschi (si tratta del c.d. caso Holzmüller: BGH, 25 febbraio 1982, in AG, 1982, pp. 158 ss.), nel vigore dell’art. 2364, co. 1, n. 4 c.c. del 1942, onde desumere da detta norma, alla luce del principio di esecuzione secondo buona fede del rapporto di amministrazione (art. 1375 c.c.), un vero e proprio obbligo per gli amministratori di devolvere all’assemblea la relativa decisione: e v. Abadessa, La gestione dell’impresa

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esulano, per definizione, dalle competenze di tipo gestorio imprenditoriale, per collocarsi invece a pieno titolo nell’ambito della gestione societaria. C. Ora, questa lettura, probabilmente condizionata (almeno all’origine) dalla genesi del meccanismo decisorio in questione (dal fatto cioè che lo stesso è da ricondurre ad una norma, quale l’art. 152 l.fall., che, da un lato, presuppone lo stato di insolvenza della società46, e, dall’altro, nella sua prima versione, era destinata ad essere applicata solo con riferimento a procedure che importavano vincoli sul piano della gestione

nella società per azioni. Profili organizzativi, Milano, 1975, pp. 42 ss.; ID., L’assemblea: competenza, cit., p. 20; Calandra Bonaura, Gestione dell’impresa e competenza dell’assemblea nella società per azioni, Milano, 1985, pp. 129 ss. Venuta meno, per effetto della riforma societaria del 2003, la previsione normativa che contemplava la devoluzione da parte degli amministratori di atti gestori all’assemblea, l’idea in questione, benché nella sostanza abbandonata (rectius: fortemente ridimensionata) dal primo dei suoi originari sostenitori (Abadessa, La competenza assembleare in materia di gestione nella s.p.a.: dal codice alla riforma, in Aa.Vv., Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, p.15), ha continuato ad alimentare una linea di pensiero, anche in questo caso ispirata ad esperienze giurisprudenziali straniere [v. in particolare le decisioni del BGH rese nel caso Gelatine: BGH, 26 aprile 2004 (II ZR 154/02); BGH, 16 aprile 2004 (ZR 155/02), in Konzern, 2004, pp. 421 ss., nonché in Riv. dir. soc., con nota di Marc. Maugeri], alla stregua della quale, a dispetto dell’attribuzione in via esclusiva di competenze gestorie agli amministratori da parte dell’art. 2380-bis c.c., muovendo da taluni dati positivi (tra i quali in primis l’art. 2361, co. 1 e 2, c.c.) ed applicando il metodo analogico, si è sostenuto che sarebbero configurabili competenze legali implicite dell’assemblea di s.p.a. tutte le volte in cui una operazione, a dispetto del suo carattere gestorio, si presenti quale reazione ad una situazione di straordinaria emergenza e comunque ogni qual volta incida sulla struttura organizzativa della società e sui diritti dei soci: così Portale, Rapporti fra assemblea e organo gestorio nei sistemi di amministrazione, in Il nuovo di diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abadessa e Portale, vol. II, Torino, 2006, pp. 1 ss.; Calandra Bonaura, I modelli di amministrazione e controllo nella riforma del diritto societario, in Giur. comm., 2003, I, p. 543. Sul tema, recentemente, da diverse prospettive, Portale e De Luca, Interessi primordiali, cit., pp. 39 ss.; Angelici, A proposito di «interessi primordiali», cit., pp. 59 ss. Va peraltro rilevato che, ai fini che qui interessano, il problema non è se l’assemblea possa legittimamente intervenire «in presenza di situazioni di straordinaria emergenza da contrastare con operazioni di tipo gestionale» (v. ancora Portale, Rapporti, cit., p. 28), ma se detto intervento possa configurarsi o meno come doveroso. 46 E non è un caso che l’art. 152 l.fall. ha tradizionalmente costituito un referente normativo privilegiato per la dottrina che si è interrogata sulla legittimazione alla presentazione dell’istanza di fallimento da parte della società debitrice e sulla competenza a decidere tale presentazione: e v. A. Nigro, Le società per azioni, cit., p. 258; Caridi, Art. 152, cit., pp. 942 ss.

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dell’impresa societaria47), se ci si pone nella prospettiva del CCI, non può essere condivisa, sia in generale sia con specifico riferimento alle decisioni relative all’accesso al procedimento compositivo ora in esame. E ciò per almeno tre ordini di ragioni. a) Innanzi tutto, questa lettura poggia su una non condivisibile ricostruzione del rapporto tra diritto societario e diritto della crisi, non tenendo in conto in particolare che, in effetti, il discorso sul ruolo dei soci nelle ristrutturazioni societarie deve essere impostato non tanto muovendo dalla contrapposizione tra l’uno e l’altro diritto48, quanto dalla dialettica, tutta interna al primo, tra dimensione imprenditoriale e dimensione finanziaria. Di ciò ci si può rendere conto avendo riguardo alla circostanza che, sul piano funzionale, il fulcro della vicenda societaria deve essere ricercato proprio nella sua duplice dimensione imprenditoriale e finanziaria, ed allora nella genetica tensione dialettica tra l’una e l’altra, al cui componimento lo schema societario, sebbene in modi diversi a seconda del modello in concreto adottato, è in definitiva strumentale49; e considerando poi che, al sopraggiungere della crisi, da un lato, quella tensione si acuisce e, dall’altro, il punto di equilibrio risultante dalla sintesi tra l’una e l’altra dimensione che il diritto societario realizza variamente combinandole nei diversi modelli di società viene messo in discussione. Il che accade perché in situazioni di crisi si assiste ad una sorta di deriva del

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E v. ancora A. Nigro, Le società per azioni, cit., pp. 261 s. Il discorso sulle ristrutturazioni societarie è dalla dottrina – invero non solo italiana – generalmente impostato muovendo da una contrapposizione tra diritto societario e diritto concorsuale: e v., ad esempio, Ferri jr., Soci e creditori, cit., pp. 96 s.; Id., Il ruolo dei soci, cit., pp. 331 ss.; Id., Ristrutturazioni societarie, cit., p. 234 s.; Guerrera, Le competenze, cit., pp. 76 s.; A. Nigro, Le ristrutturazioni societarie, cit., p. 380. Per la dottrina straniera, v. Pulgar Ezquerra, «Holdout accionarial», reestructuración forzosa y deber de fidelidad del socio, in Revista de Derecho Concursal y Paraconcursal, 27, 2017, pp. 47 ss.; 49 Sul punto, e con specifico riferimento alla s.p.a., v. Angelici, La società per azioni. I. Principi e problemi, cit., p. 7 s., laddove il modello azionario è presentato come strumento di equilibrio tra le contrapposte esigenze della «industria» e della «finanza», individuando così una chiave di lettura del fenomeno che viene richiamata a più riprese nel corso dell’intero lavoro; nonché, con specifico riferimento al lock-in dell’investimento a fini produttivi e alla separazione dello stesso dalle vicende dei soci, Blair, The Neglected Benefits of the Corporate Form: Entity Status and the Separation of Asset Ownwership from Control, in Corporate Governance and Firm Organization: Microfundations and Structural Forms, ed. by Grandoni, Oxford-New York, 2004, pp. 45 ss. Per una applicazione, volendo, v. Caridi, Recesso “libero” del socio e durata della società, in Riv. dir. comm., 2019, I, pp. 603 ss., spec. 644 ss. 48

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baricentro della vicenda societaria verso il cotê imprenditoriale, dovuto al fatto che, risolvendosi in uno squilibrio economico finanziario e dunque in una disfunzione di tipo programmatorio, la crisi incide – e lo si è visto – su uno degli aspetti centrali della dimensione imprenditoriale della vicenda societaria, qual è appunto quello della pianificazione. Dal che discende, ai fini che ora interessano, che la regola di formazione della volontà sociale di cui all’art. 265 CCI va intesa non già come regola di diritto della crisi, che si contrappone al regime di diritto societario comune e della quale occorre allora stabilire se operare una applicazione “indiscriminata” o piuttosto “selettiva”50, ma come una regola – se si vuole, di “diritto societario della crisi” – che individua un “nuovo” punto di equilibrio tra le due dimensioni della vicenda societaria, determinato anche e proprio alla luce della condizione di crisi in cui versa la società51. b) In secondo luogo, e conseguentemente, la lettura qui criticata non può essere accolta in quanto incompatibile con il sistema di gestione anticipata della crisi oggi desumibile dal CCI. Essa infatti non tiene conto della circostanza che, come si è cercato di dimostrare nel precedente paragrafo, la domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti oggetto dell’approvazione e della sottoscrizione di cui all’art. 44 co. 5 CCI si configura quale atto di (ri)organizzazione a contenuto gestorio, con il quale si fornisce risposta alla crisi in adempimento al dovere di pronta reazione sancito dall’art. 2086, co. 2 c.c., il quale si puntualizza in uno specifico obbligo in capo agli amministratori. c) In terzo luogo, la lettura in discorso non valorizza adeguatamente la centralità del piano e l’unità della riprogrammazione dell’attività dell’impresa che lo stesso realizza. Essa trascura cioè che se è indubbiamente vero che quel piano può ben contemplare – e di norma contempla – anche operazioni che incidendo sulla struttura patrimoniale e

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Così, Guerrera, Le competenze, cit., p. 77. Da questo punto di vista, particolarmente calzanti appaiono i rilievi di Angelici, Profili dell’impresa nel diritto delle società, in Riv. soc., 2015, p. 248, il quale infatti afferma che nel momento in cui l’impresa è in crisi «risultano modificati gli equilibri tra i diversi interessi che su di essa si puntualizzano: per esempio, e soprattutto, risulta modificato il rapporto fra l’interesse dell’imprenditore e quello dei suoi creditori, che non possono più presumersi convergenti», sicché «non costituisce motivo di stupore la constatazione che in tale situazione venga modificata anche la portata di regole concernenti la gestione dell’impresa (…); e per un altro verso che tale modificazione riguardi anche, e per certi versi soprattutto, regole specifiche del diritto societario». 51

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finanziaria della società, in sé considerate, si collocano nell’area della c.d. gestione societaria, è anche vero che, una volta entrate a far parte del piano, quelle operazioni non possono essere più considerate atomisticamente, presentandosi funzionalmente legate a tutte le altre misure contemplate dal medesimo piano e come tali ricevendo rilievo giuridico nell’ambito del procedimento per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione, come è inequivocabilmente dimostrato tanto dalla unitaria valutazione di fattibilità che se ne opera nell’attestazione (art. 57, co. 6 CCI), quanto dal modo nel quale è disciplinata la modifica del piano successivamente all’omologazione (art. 58 CCI)52. D. Si tratta allora di considerare che in un sistema che contempla in capo all’imprenditore collettivo e societario in specie un dovere di istituire assetti adeguati anche e proprio nella prospettiva di rilevare precocemente la crisi, nonché un vero e proprio dovere di ristrutturare, ossia di reagire tempestivamente alla crisi medesima una volta che la stessa sia stata rilevata, e che prevede che quei doveri si puntualizzino, convertendosi in specifici obblighi, in capo agli amministratori della società53, la

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E v. Perrino, La rinegoziazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Accordi di ristrutturazione, piani di risanamento e convenzioni di moratoria, cit., p. 80 ss., spec. 85 ss. 53 Da questo punto di vista, può essere utile guardare a come i doveri generali di cui all’art. 2086, co. 2 c.c. si specifichino in capo agli amministratori. Ebbene, ai sensi dell’art. 2380-bis, co. 1 c.c., nelle s.p.a. che adottano il sistema tradizione e quello monistico, tanto la rilevazione precoce della crisi, quanto la pronta reazione alla stessa attengono alla gestione dell’impresa societaria e rientrano nella competenza degli amministratori. Lo si evince in maniera inequivoca dalla circostanza che detta disposizione stabilisce oggi che «la gestione dell’impresa si svolge nel rispetto delle disposizioni di cui all’art. 2086, co. 2 c.c. e spetta esclusivamente agli amministratori». Enunciato che, facendo riferimento al secondo comma dell’art. 2086 c.c., senza alcuna specificazione o limitazione, rende superflua la precisazione, contenuta nel medesimo primo comma dell’art. 2380-bis, seconde la quale «L’istituzione degli assetti di cui all’art. 2086, comma 2 spetta esclusivamente agli amministratori». Alle medesime conclusioni deve giungersi, ai sensi dell’art. 2409-novies c.c., con riferimento alle s.p.a. che adottano il sistema dualistico, il quale riproduce in parte qua l’art. 2380-bis, assegnando ovviamente la gestione esclusiva al consiglio di gestione. Quanto invece alle s.r.l. e alle società di persone, gli artt. 2475 e 2257 c.c. si limitano a stabilire, per quanto qui interessa, che «L’istituzione degli assetti di cui all’art. 2086, co. 2 spetta esclusivamente agli amministratori». Il che evidentemente non vuol dire che questi ultimi siano tenuti solo all’obbligo di predisposizione degli assetti funzionali alla tempestiva rilevazione della crisi, e non anche a quello di pronta reazione. Il fatto che l’attivazione e l’attuazione degli strumenti legali di reazione alla crisi non rientrino nella loro competenza esclusiva non esclude infatti che quelle attività, in quanto di tipo gestorio, possano (ed anzi debbano) comunque essere compiute dagli amministratori.

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lettura della regola di formazione della volontà sociale di cui all’art 265 CCI e del suo funzionamento non può che muovere dal presupposto che l’accesso al procedimento di ristrutturazione è da intendere, innanzi tutto ed in ogni caso, quale atto di riorganizzazione dell’impresa societaria, collocandosi allora saldamente sul piano della gestione imprenditoriale. Il che poi nient’altro significa se non interpretare la regola in questione quale parte essenziale di quel sistema, la cui idoneità a gestire tempestivamente la crisi non può che passare per il coordinamento con i doveri sui quali esso si fonda anche e proprio della regola di formazione della volontà sociale in ordine all’accesso agli strumenti legalmente tipici di composizione della crisi. L’interpretazione dell’art. 265 CCI che da questa impostazione discende è allora opposta a quella sopra richiamata. In questa prospettiva, infatti, la regola di formazione della volontà sociale, oggi contemplata dall’art. 265 CCI, si qualifica come speciale, in quanto derogatoria rispetto alla disciplina di diritto comune tanto delle società di persone, quanto delle società di capitali54. E ciò proprio in relazione all’esigenza di fissare un punto di equilibrio tra le due dimensioni della vicenda societaria coerente con il sopraggiungere della crisi, ed allora con i sopra citati doveri. Del resto, una tale lettura sembra trovare conferma nel dato positivo, dal quale infatti emerge che la regola di default è conformata, in tutte le società, sulla base di meccanismi tipici delle decisioni di tipo gestorio, quali, nelle società a base personale, quello della decisione a maggioranza (calcolata in base alla partecipazione al capitale), di cui è modello la decisione sulla opposizione nel caso di amministrazione disgiuntiva55, ma che è altresì utilizzata nel caso di operazioni straordi-

54 È al riguardo appena il caso di rilevare, sul piano storico-evolutivo, che la regola di formazione della volontà sociale in ordine all’accesso alle procedure concordatarie si è sempre configurata come derogatoria rispetto al diritto societario comune. Tale era infatti già la regola dettata dall’art. 152 l.fall. nella versione del ’42, la quale disponeva, tanto per le società di persone quanto per le società di capitali, che la decisione sulla proposta (di concordato fallimentare e di concordato preventivo) fosse assunta con deliberazione dell’assemblea straordinaria: e v. sul punto A. Nigro, Le società per azioni, cit., p. 257 ss. 55 Sul punto, v. Serra, Unanimità e maggioranza nelle società di persone, Milano, 1980, p. 163 ss.; nonché, L. Pisani, Le società di persone, in Aa.Vv., Manuale di diritto commerciale. III. Diritto delle società, a cura di Cian, Torino, 2020, p. 118, che parla di «decisioni attinenti alla attività gestoria (in senso lato)». Rispetto a tale qualificazione deve ritenersi peraltro neutra la tesi, prevalente in dottrina, secondo la quale la decisio-

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narie (sebbene, invero, in entrambi i casi, avendo riguardo al criterio della partecipazione agli utili)56; e nelle società a struttura corporativa, quello della decisione rimessa all’organo amministrativo. Su questo assetto, che corrisponde alla selezione da parte del legislatore di un punto di equilibrio tra la dimensione imprenditoriale e quella finanziaria della vicenda societaria ulteriore e diverso rispetto a quello individuato dal diritto societario comune, atteso il carattere dispositivo della disciplina, i soci possono intervenire per operare aggiustamenti o anche modifiche, i quali però non possono mai mettere in discussione la natura gestoria dell’atto oggetto della decisione. Così, nelle società di persone, i soci possono sicuramente intervenire attraverso la previsione di clausole che modificano il criterio di determinazione della maggioranza o anche la stessa competenza, ad esempio assegnandola a quelli tra essi nominati amministratori o richiedendo l’unanimità dei consensi; mentre nelle società di capitali, possono senza dubbio prevedere il proprio coinvolgimento diretto nel processo decisionale, ad esempio per effetto di una informativa rafforzata o di una autorizzazione, o addirittura avocare a sé tout court la decisione. Alla luce di quanto detto, si aprono allora due diversi scenari: quello nel quale i soci lasciano immutata la regola legale di formazione della volontà sociale; e quello nel quale invece intervengono per sovvertirla: nelle società di persone, trasferendo la competenza deliberativa in capo ai soci amministratori; nelle società di capitali, trasferendo quella competenza all’assemblea.

ne dei soci ha qui ad oggetto l’opposizione e non già il compimento dell’atto gestorio: Buonocore, Fallimento e impresa, Napoli, 1969, pp. 81 ss.; Cagnasso, I singoli contratti. vol. VI. La società semplice, in Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, 1998, p. 147; Galgano, Il principio di maggioranza nelle società personali, Padova, 1960, pp. 63 ss. e 265; Regoli, Diritto delle società [Manuale breve]5, Milano, 2012, p. 52. Nel senso che la decisione dei soci riguardi in tal caso anche l’operazione gestoria, v. comunque Venditti, Collegialità e maggioranza nelle società di persone, Napoli, 1955, p. 75 s.; Id., Nuove riflessioni, p. 392; Bolaffi, La società semplice. Contributo alla teoria delle società di persone, Milano, 1947, p. 425. Nella manualistica recente, v. Campobasso, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società10, a cura di M. Campobasso, Torino, 2020, p. 89; L. Pisani, Le società di persone, cit., p. 103, entrambi orientati nel senso della portata non immediatamente gestoria della decisione. 56 Il mutamento del criterio di determinazione della maggioranza (non più partecipazione agli utili, ma partecipazione al capitale) può essere spiegato, a ben vedere, proprio con la sospensione della dimensione finanziaria della vicenda societaria che si realizza al sopraggiungere della crisi per effetto dello spostamento del baricentro di tale vicenda verso il cotê imprenditoriale, di cui si è detto nel testo.

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E se nelle società di persone, entrambi gli scenari, data la coincidenza tra amministratori e soci e la responsabilità in principio illimitata di questi ultimi, non pongono (o pongono minori) problemi, nelle società di capitali, tanto l’uno quanto l’altro scenario richiede qualche chiarimento. In particolare, nel caso in cui la competenza in ordine alla deliberazione della domanda di omologazione dell’accordo venga lasciata dai soci in capo agli amministratori si pone il problema di stabilire cosa succede nel caso in cui il piano allegato alla domanda preveda il compimento di operazioni straordinarie o comunque riservate dal diritto societario alla competenza deliberativa dei soci. Anche alla luce di quanto si è in precedenza sostenuto, la risposta a questo interrogativo passa per la considerazione che i soci sono in questo caso chiamati ad intervenire in un processo di tipo (ri)organizzativo attinente alla gestione dell’impresa societaria, quale è quello che gli amministratori realizzano in adempimento di un obbligo che la legge pone a loro carico. In ragione di ciò si deve ritenere che i soci siano tenuti a collaborate lealmente nella prospettiva del recupero dell’equilibrio economico finanziario della società. Il che peraltro non vuol dire che essi debbano aderire a qualsiasi programma ristrutturativo gli venga prospettato dagli amministratori (del resto potendo in ogni momento sostituire questi ultimi o avocare a sé la decisione sulla domanda di omologazione con una modifica statutaria), ma significa soltanto che essi non possono tenere un atteggiamento meramente passivo rispetto al doveroso atto di riorganizzazione dell’impresa societaria pianificato dagli amministratori. In questa prospettiva, l’approvazione della delibera relativa all’operazione straordinaria contemplata nel piano di ristrutturazione si configura, allora, quale esito di un fisiologico rapporto di compartecipazione gestoria, reso necessario dalla circostanza che la ristrutturazione pianificata dagli amministratori passa per l’adozione di una decisione che condivide tanto elementi attinenti alla gestione imprenditoriale quanto elementi tipici della gestione societaria, i quali però, come si è detto, non sono gli uni dagli altri separabili, collocando allora detta decisione ad un livello gestorio “superiore”, che impone una collaborazione interorganica. In altri termini, la circostanza che questa decisione si qualifichi quale momento necessario di una più ampia operazione di ristrutturazione attuativa di un obbligo di legge connota come doverosa anche detta collaborazione. In termini analoghi, sebbene alla stregua di un ragionamento per certi versi più agevole, va poi impostato il discorso qualora i soci, realizzando lo scenario alternativo a quello prefigurato dal legislatore, modifichino lo statuto avocando a sé la decisione sulla domanda di omologazione

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dell’accordo. Anche in questo caso, infatti, sebbene sulla base di presupposti diversi, e per certi versi opposti, si configura un dovere di collaborazione tra organo assembleare e organo amministrativo destinato a dare luogo ad una compartecipazione gestoria, posto che non è pensabile che i soci riescano a governare autonomamente l’operazione di ristrutturazione, necessitando la stessa, tanto da un punto di vista formale (e si pensi alla sottoscrizione della domanda: art. 265, co. 1 CCI) quanto da un punto di vista sostanziale, del fattivo contributo degli amministratori, i quali del resto restano detentori della gestione dell’impresa societaria57, continuando allora ad essere assoggettati all’obbligo, specificazione del corrispondente dovere di cui all’art. 2086, co. 2 c.c., di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi58. Ed è chiaro che si tratta in entrambi i casi di una collaborazione che, in quanto strumentale al corretto adempimento dei doveri sanciti dall’art. 2086, co. 2 c.c. ed allora del sistema di gestione anticipata della crisi che sugli stessi fa perno, se non attuata, è idonea a generare, in capo ai componenti di entrambi gli organi, una responsabilità affatto peculiare alla gestione dell’impresa organizzata in forma societaria59, e

57 Da questo punto di vista può qui ripetersi, con riferimento a tutte le società di capitali, quanto si sostiene, in relazione alle sole s.p.a., alla luce della formulazione dell’art. 2364, co. 1, n. 5 c.c. scaturita dalla riforma societaria del 2003: e cioè che «la volontà dei soci può essere chiamata soltanto a concorrere con quella degli amministratori, giammai a sostituirsi ad essa»: così Abbadessa, La competenza assembleare, cit., p. 10; Cerrato, Il ruolo dell’assemblea nella gestione dell’impresa; il «sovrano» ha veramente abdicato?, in Riv. dir. civ., 2009, p. 145. 58 Obbligo alla luce del quale deve in ogni caso ritenersi rientrare nelle competenze dell’organo amministrativo la richiesta di concessione del termine di cui all’art. 44, co. 1, lett a) CCI, ed a fortiori quella avente ad oggetto le misure protettive di cui all’art. 54, co. 3 CCI, le quali allora rimangono sottratte all’ambito di applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 44, co. 5 e 265 CCI, che del resto si riferisce solo alla domanda di omologazione dell’accordo e alla domanda di concordato, e non anche alla richiesta di concessione di un termine o di misure protettive per presentare l’una o l’altra. In senso analogo, con riferimento al combinato disposto di cui agli artt. 161, co. 4 e 152 l.fall., v. già Cass. 4 settembre 2017, n. 20725, cit. 59 Sul punto, v. i rilievi di Ferri jr. e M. Rossi, La gestione dell’impresa organizzata in forma societaria, cit., p. 96, i quali a proposito dell’art. 2086, co 2 c.c., sottolineano come tale disposizione si concentri sui doveri relativi alla gestione dell’impresa essenzialmente «in vista della responsabilità derivante dalla loro violazione», rilevando come la stessa possa ritenersi in definitiva «diretta a fissare i presupposti, oggettivi e soggettivi, di quella che può ben indicarsi in termini di responsabilità da gestione dell’impresa».

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segnatamente dell’impresa societaria in stato di crisi. Una responsabilità che non si fa fatica a configurare in capo agli amministratori, ma che neppure dovrebbe risultare difficile riconoscere in capo ai soci, tenendo presente che nel contesto ora in considerazione essi intervengono nell’ambito di una complessiva operazione riorganizzativa attinente alla gestione dell’impresa societaria, venendo in rilievo allora uno schema che trova già positivo riscontro, sebbene in termini non esattamente coincidenti con quelli qui prefigurati, nelle ipotesi di responsabilità per attività (art. 2497 c.c.) ed atti (art. 2476, co. 8 c.c.) di eterogestione60. Ma, spingendosi ancora oltre, si può forse giungere a ritenere che, in entrambi gli scenari sopra prospettati, ossia a prescindere dal fatto che viga la regola legale o quella statutaria, dalla collocazione dell’art. 265 CCI nel sistema di gestione anticipata della crisi possa farsi discendere un principio di compartecipazione gestoria cui gli organi societari, al sopraggiungere della crisi, devono ispirare il proprio operato, a prescindere dalla circostanza che il piano di ristrutturazione contempli operazioni straordinarie o comunque riservate dal diritto societario ai soci. Un principio ai sensi del quale, data la delicatezza del momento della vicenda societaria determinata dalla crisi, senza che ne risulti pregiudicata la competenza finale della decisione in ordine alla domanda di omologazione dell’accordo, per come la stessa è stabilita dalla legge o dallo statuto, sorge un dovere di leale collaborazione interorganica rafforzata.

5. Rilievi conclusivi. Le considerazioni da ultimo svolte sollevano, come è chiaro, questioni di vertice che in questa sede non possono essere approfondite.

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In generale, sulla responsabilità dei soci da eterogestione, v. M. Rescigno, Eterogestione e responsabilità nella riforma societaria fra aperture e incertezze: una prima riflessione, in Società, 2003, pp. 331 ss.; Tombari, La responsabilità dei soci, in S.r.l. Commentario, Milano, 2011, pp. 717 ss. Con specifico riferimento alla responsabilità deliberativa (o da voto), v. Guerrera, La responsabilità “deliberativa” nelle società di capitali, Torino, 2004; nonché Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, 1**, Torino, 2004, p. 140, nt. 254; e, in particolare, con riguardo alla società in liquidazione, Ferri jr., La gestione di società in liquidazione, in Riv. dir. comm., 2003, I, pp. 421 ss.; Turelli, L’informazione sulla gestione nella società in liquidazione, in Aa. Vv., Il nuovo diritto delle società, cit., p. 5 ss.; Id., Gestione dell’impresa e società per azioni in liquidazione, Milano, 2012.

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Ciò che preme qui precisare è solo che la prospettata proposta interpretativa non mira certo a far riemergere (sotto mentite spoglie) antiche teorie rispondenti alla “vocazione autoritaria del capitalismo”61 e tanto meno ad assecondare un nuovo istituzionalismo, allora riprendendo, o meglio riproponendo su basi rivisitate, il dibattito che ha portato al superamento del modello corporativo “classico” tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quanto a riaffermare che, al fondo, quella societaria è e resta una vicenda collettiva, una vicenda cioè nella quale la libera iniziativa economica trova realizzazione in una dimensione metaindividuale che si sostanzia nel dare una specifica forma all’attività d’impresa, quale attività che ruota intorno ai due momenti della gestione e del risultato62, laddove il primo precede logicamente e giuridicamente il secondo. Il che, ai fini del discorso che si è svolto in queste pagine, può anche essere espresso – dando così conto (almeno) del contesto teorico nel quale detta proposta intende collocarsi – dicendo che quella vicenda che si realizza all’approssimarsi dell’insolvenza e che sempre più diffusamente viene descritta, cogliendone invero solo il senso economico63, come un avvicendamento tra creditori e soci nel ruolo di residual claimants64, dal punto di vista giuridico, si configura piuttosto come

61 In argomento, Galgano, Le istituzioni dell’economia capitalistica, Bologna, 1977, p. 91; Gliozzi, Gli atti estranei all’oggetto sociale nelle società per azioni, Milano, 1970, pp. 68 ss. 62 Per la conduzione del discorso sui due piani della «gestione» e della «partecipazione al risultato», v. Marc. Maugeri, Partecipazione sociale, cit., pp. 61 ss. Più precisamente, il pensiero del citato A. è qui richiamato nella parte in cui ricostruisce la partecipazione sociale come uno dei modi attraverso i quali si può prendere parte a quella attività d’impresa il cui esercizio venga organizzato sulla base della tecnica societaria, e segnatamente come il modo attraverso il quale si prende parte alle «componenti giuridiche essenziali» di detta attività, ossia appunto ai momenti della «gestione» e del «risultato» cui questa è preordinata. 63 Da questo punto di vista, va condiviso il rilievo di A. Nigro, voce «Diritto societario della crisi», cit., p. 39, laddove si sottolinea come «in materia di società, che sono “entità” le quali esistono e funzionano solo per effetto di regole giuridiche, bisogna sempre tenere distinti il piano economico ed il piano giuridico, perché quello che è vero sul piano economico non necessariamente è vero sul piano giuridico». Sul punto, v. pure Angelici, La società per azioni. I. Principi e problemi, cit., p. 24, testo e nt. 12, sottolineando «che ogni scienza ha la propria terminologia e i propri modelli concettuali, se si vuol dire i propri paradigmi, e che quindi è in ogni caso necessaria particolare cautela quando la stessa formula verbale viene utilizzata nell’una e nell’altra». 64 Il riferimento è alla tesi – attualmente dominante – che, muovendo dalla considerazione dei soci quali residual claimants (ed allora quale particolare categoria di finanziatori sui quali ricade in ultima analisi il rischio dell’insuccesso dell’iniziativa economica

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una temporanea disattivazione (dunque, come una sospensione) della dimensione finanziaria del fenomeno societario, ossia della sua valenza di operazione speculativa, e, correlativamente, come rafforzamento della dimensione imprenditoriale del medesimo fenomeno, alla stregua del quale la società viene in rilievo puramente e semplicemente quale peculiare tecnica di organizzazione dell’impresa, atteggiandosi allora come una operazione il cui orizzonte teleologico, sebbene solo per il tempo necessario alla ristrutturazione, rimane limitato al c.d. “scopo mezzo”, ossia all’esercizio di attività organizzata per la creazione di nuova ricchezza oggettiva, poi da destinare alla realizzazione della ristrutturazione. Ed è forse utile segnalare che, anche e proprio alla luce delle indicazioni che sul punto emergono dalla direttiva UE 2019/1023 (in particolare, art. 12), sul piano comparatistico, si rinvengono oggi soluzioni positive al problema del ruolo dei soci nelle ristrutturazioni societarie rispetto alle quali un approccio del genere potrebbe ben configurarsi quale antecedente teorico.

ed ai quali è conseguentemente assegnato il potere di incidere, controllandola, sulla gestione: e v. in questo senso Easterbrook-Fischel, The Economic Structure of Corporate Law, Cambridge, 1991, pp. 66 ss.), all’avvicinarsi dell’insolvenza, prospetta un progressivo affiancamento e poi un avvicendamento nella posizione di “titolari di pretese residuali” e dunque di referenti ultimi della gestione dell’impresa tra essi soci e creditori. Si tratta di una idea all’evidenza ispirata alla c.d. residual owner doctrine, sulla quale, con specifico riferimento ai temi ora in discussione, v. Baird-Jackson, Bargaining After the Fall and the Contours of the Absolute Priority Rule, in 55 U. Chi. L. Rev., 1988, p. 761; nonché Lopucki, The Myth of the Residual Owner: An empirical Study, UCLA School of Law, Law & Economics Res. Papers, n. 3/11, aprile 2003, p. 2. Nella nostra letteratura, v. soprattutto Stanghellini, Proprietà e controllo dell’impresa in crisi, in Riv. soc., 2004, pp. 1041 ss.; e poi Id., La crisi dell’impresa tra diritto ed economica. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, passim; secondo una impostazione che era invero già stata prospettata da Libonati, Prospettive di riforma sulla crisi d’impresa, in Giur. comm., 2001, I, p. 327. L’adesione a questa tesi è presupposta, oltre che ovviamente in Stanghellini, Director’s Duties and the Optimal Timing of Insolvency. A Reassessment of the “Recapitalize or Liquidate” Rule, in Aa.Vv., Il diritto delle società oggi. Innovazioni e persistenze, a cura di Benazzo, Cera, Patriarca, Torino, 2011, pp. 733 ss.; Id., Verso uno statuto dei diritti dei soci di società in crisi, cit., p. 295 ss., tra gli altri, anche nei discorsi di Ferri jr., Ristrutturazione dei debiti e partecipazione sociale, in Riv. dir. comm., 2006, I, spec. pp. 762 ss. e 766 ss.; Id., Il ruolo dei soci nella ristrutturazione finanziaria dell’impresa alla luce di una recente proposta di direttiva europea, cit., p. 331 ss.; Id., Soci e creditori nella struttura finanziaria della società in crisi, cit., pp. 96 ss.; Sacchi, La responsabilità gestionale nella crisi dell’impresa societaria, cit., pp. 112 ss.; Vattermoli, La posizione dei soci nelle ristrutturazioni. Dal principio di neutralità organizzativa alla residual owner doctrine?, cit., pp. 872 s.; e, da ultimo, Donati, Le ricapitalizzazioni forzose, cit., spec. pp. 16 ss.

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Mi riferisco alla scelta del legislatore concorsuale spagnolo di codificare un divieto tanto in capo agli amministratori, quanto in capo ai soci di ostacolare irragionevolmente (gli uni non proponendo, gli altri non approvando) operazioni di conversione di debito in capitale o “quasi capitale” nell’ambito di procedimenti preconcorsuali di tipo negoziale quali l’acuerdo de refinanciación e l’acuerdo extrajudicial de pagos, la cui violazione espone amministratori e soci ad una condanna al versamento di una somma pari al disavanzo risultante dalla procedura aperta in conseguenza del mancato accordo con i creditori che faceva perno sulla conversione non perfezionatasi (artt. 165, 172 e 172-bis Ley Concursal, ora artt. 700-702 Testo refundido Ley Concursal). Un divieto ed una sanzione civile di tipo risarcitorio che evidentemente presuppongono in capo ad amministratori e soci un dovere, sulla cui qualificazione la dottrina spagnola si sta molto interrogando65, i cui tratti fisiognomici non sembrano poi così lontani da quelli del dovere di collaborazione interorganica qui proposto.

Vincenzo Caridi Abstract Il saggio si concentra sulle problematiche legate al ruolo dei soci quali decisori strategici, ed in questo senso “gestori” della ristrutturazione, in particolare riflettendo sulla “regola di azione” che il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. n. 14/2019, come modificato dal d.lgs. n. 147/2020), ai sensi del combinato disposto degli artt. 44, co. 5 e 265, ha inserito nella disciplina della fase di accesso al procedimento di omologazione dell’accordo. La prospettiva analitica imposta dal metodo normativo prescelto non impedirà, peraltro, di dar conto della questione teorica centrale del discorso sulla posizione dei soci nella ristrutturazione della società: e cioè quella della collocazione sul piano della gestione, poi da qualificare in ragione della portata solo imprenditoriale o anche societaria, di decisioni strategiche quali sono da considerare quelle relative all’an ed eventualmente al quomodo della ristrutturazione. ***

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Cfr. Pulgar Ezquerra, «Holdout accionarial», cit., pp. 47 ss.; Iribarren Blanco, Saneamiento financiero de las sociedades mercantiles y deberes de fidelidad de los socios, ivi, pp. 55 ss.; Díaz Moreno, Socios, planes de reestructuración y capitalización de créditos en la Directiva (EU) 2019/1023, sobre reestructuración e insolvencia, in Anuario de Derecho Concursal, 49, 2020, pp. 7 ss.

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The essay focuses on the issues related to the role of the shareholders as strategic decision-makers, and in this sense “managers” of the restructuring, particularly by reflecting on the “rule of action” that the Code on Enterprise Crisis and Insolvency (Legislative Decree No 14/2019, as amended by Legislative Decree No 147/2020), pursuant to the combined provisions of Articles 44(5) and 265, has included in the discipline of the phase of access to the homologation proceeding of the debt restructuring arrangement. The analytical perspective imposed by the chosen normative method will not, however, prevent the consideration of the central theoretical issue of the discussion on the position of the shareholders in the corporate restructuring: namely, that of the placement on the management level, to be then qualified according either only to the entrepreneurial or also to the corporate scope, of strategic decisions such as those relating to the an and possibly the quomodo of the restructuring.

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Riflessioni sul piano di risanamento attestato nel passaggio dalla legge fallimentare al codice della crisi: twilight zone, stato di crisi, allerta (*) Sommario: 1. Premessa. – 2. Oggetto e struttura del lavoro. – 3. Diversi tipi di crisi. – 4. Lo “stato di insolvenza”. – 5. Lo “stato di crisi” nella Legge fallimentare. – 5.1. Lo “stato di crisi” nel Codice della crisi. – 6. I nuovi presupposti oggettivi per l’accesso alla procedura di allerta: gli indicatori e gli indici della crisi. – 7. La twilight zone. – 8. Il piano di risanamento attestato nella Legge fallimentare. – 9. Il piano di risanamento attestato nel Codice della crisi. – 10. Il nuovo contesto normativo: cenni sul novellato art. 2086 c.c. (anche alla luce di alcune recenti pronunce del Trib. Milano). – 11. L’ambizione (irrealizzabile) di completezza del sistema. – 12. La mancanza di uno strumento per la “nuova” twilight zone. – 13. Le alternative al piano di risanamento attestato. Osservazioni conclusive.

1. Premessa. Non è necessario l’intervento del legislatore – è sufficiente il buon senso – per comprendere che la prevenzione di un male è più efficace della sua cura. In questa direzione si è dichiaratamente mossa la riforma del 2019 che ha introdotto il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCI) in sostituzione della Legge fallimentare. Il nuovo codice, che acquisirà piena vigenza il 1 settembre 20211, ha suscitato un ampio

* Il presente lavoro costituisce la rielaborazione, in forma più ampia e approfondita, di uno scritto dell’Autore già pubblicato in www.ilcaso.it, 2 luglio 2020. L’Autore desidera ringraziare il prof. Bussoletti per i preziosi consigli forniti in fase di stesura, nonché il revisore per i suggerimenti su cui si è basata l’ultima correzione del lavoro. 1 L’art. 5 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23, conv. in l. 5 giugno 2020, n. 40 (il c.d. Decreto liquidità, emanato in piena fase emergenziale dovuta al dilagare della pandemia da Covid-19), ha ulteriormente differito, al 1° settembre 2021, l’entrata in vigore del Codice della crisi, inizialmente prevista per agosto 2020 dall’art. 389 CCI, e poi, per quanto riguarda gli obblighi di segnalazione inerenti alla procedura d’allerta, già rinviata al 15 febbraio 2021.

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dibattito sulla nuova disciplina degli strumenti di gestione e soluzione della crisi alternativi – nonché preventivi – rispetto al fallimento (rectius: liquidazione giudiziale). Non a caso, la più conclamata novità introdotta dalla riforma è rappresentata dalle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi. Un’ingente quantità di contributi è stata scritta in dottrina su queste nuove procedure. Tuttavia, le misure di allerta non rappresentano l’unico aspetto della riforma che merita di essere analizzato nell’ottica della prevenzione e della tempestiva gestione della crisi. Con il presente contributo, si intende, infatti, valutare l’impatto che la riforma ha prodotto su un altro strumento: il piano di risanamento attestato.

2. Oggetto e struttura del lavoro. Affermare che si intende analizzare il piano di risanamento attestato nell’ottica della prevenzione della crisi non significa che questo sia uno strumento utilizzabile esclusivamente nella fase primordiale della crisi, al fine di una sua precoce gestione. Anzi, nella legge fallimentare, il piano di risanamento rappresenta uno strumento estremamente flessibile che, teoricamente, può essere adottato in tutte le fasi del declino che conduce l’impresa verso la dissoluzione. Non a caso, nessun particolare presupposto per la sua attivazione è richiesto dall’art. 67, co. 3, lett. d), l.fall. Pertanto, la prospettiva adottata in questo contributo è motivata da due ragioni. Da un lato, il piano di risanamento, nella pratica, è più frequentemente utilizzato come strumento per affrontare fasi di crisi non particolarmente gravi (essendo spesso necessario ricorrere agli altri strumenti – più invasivi e strutturati – per affrontare situazioni di crisi o di insolvenza in stadio avanzato). Dall’altro – ed è proprio ciò che si tenterà di dimostrare – il Codice della crisi, nel ridisciplinare il piano di risanamento, ha inciso in maniera particolare sulla sua accezione di strumento di intervento precoce, cioè sulla possibilità di utilizzarlo nella twilight zone. Ha inciso meno, invece, sulla sua accezione di strumento per fronteggiare lo stato di insolvenza. Il lavoro sarà incentrato sulla situazione delle imprese gestite in forma societaria, al fine di poter analizzare l’impatto che i nuovi obblighi organizzativi dettati dall’art. 2086 c.c. hanno prodotto sulla gestione di società in crisi e, in particolare, sulla possibilità di ricorrere agli strumenti di regolazione della crisi, tra cui il piano attestato. La twilight zone è stata descritta dalla dottrina come una “zona grigia” della vita dell’impresa non solo perché pone il gestore dinanzi all’incer-

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tezza di scelte dall’esito imprevedibile, ma anche, soprattutto, perché non è espressamente disciplinata nel sistema della Legge fallimentare. Ebbene, la procedura d’allerta e la nuova definizione di “crisi” dovrebbero colmare questo vuoto. Si anticipa una conclusione: sulla scorta della migliore dottrina, si riscontrerà che nel sistema disegnato dal nuovo codice è ancora possibile individuare una twilight zone. Questa conclusione rappresenterà, invero, solo la premessa delle ulteriori osservazioni che saranno esposte sull’istituto del piano di risanamento attestato. Si tenterà di illustrare le ragioni per cui la nuova configurazione del piano di risanamento, nonostante sia definita dal Codice della crisi con l’ambizione di valorizzare questo istituto, rischia, in realtà, di depotenziarlo.

3. Diversi tipi di crisi. Si premette una descrizione delle differenti tipologie di cause della crisi e delle forme in cui essa può manifestarsi. Anzitutto, si distinguono le crisi non patrimoniali da quelle patrimoniali2. Le crisi non patrimoniali riguardano il funzionamento e l’organizzazione dell’impresa e possono dipendere da cause esterne o interne3. Tra le cause esterne rientrano i fattori che non dipendono dallo svolgimento dell’attività imprenditoriale, come le condizioni ambientali, le riforme legislative, le congiunture macroeconomiche in cui l’impresa si trova a operare4. Le cause interne della crisi, invece, sono da imputare a inefficienze negli assetti del governo societario o nell’organizzazione aziendale (ad esempio, carenze nel settore produttivo o in quello di marketing),

2 De Matteis, L’emersione anticipata della crisi di impresa. Modelli attuali e prospettive di sviluppo, Milano, 2017, p. 33; Abriani ed altri, Diritto fallimentare. Manuale breve3, Milano, 2017, pp. 37 ss. 3 Policaro, La crisi d’impresa e gli strumenti di monitoraggio nel disegno di legge di riforma fallimentare, in Giur. comm., 2017, I, pp. 1050 s. 4 Pare superfluo specificare che in questa categoria rientra anche la crisi causata dall’arresto forzato delle attività economiche – ancorché sane e redditizie – imposto dal Governo per fronteggiare il dilagare della pandemia da Covid-19. Su questo aspetto si tornerà infra, in questo paragrafo.

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oppure possono dipendere da inadeguatezza o scorrettezza del management5. Anche le crisi patrimoniali possono dipendere da differenti cause: uno squilibrio economico, uno squilibrio patrimoniale (in senso stretto) o uno squilibrio finanziario6. Lo squilibrio economico è riscontrabile quando i ricavi non coprono i costi di gestione e l’impresa risulta incapace di creare valore. Tale situazione si riscontra agevolmente dal conto economico7. Il perdurare delle condizioni di antieconomicità comporta perdite che, nel tempo, possono condurre all’insolvenza. Tuttavia, l’impresa potrebbe permanere molto a lungo (ipoteticamente, anche per sempre8) nelle condizioni descritte, poiché si potrebbe far fronte alle perdite di gestione con risor-

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Con riguardo a quest’ultimo aspetto, si parla, più in generale, di “crisi di legalità”. Questa situazione si realizza quando all’interno dell’impresa vengono perpetrate, in modo reiterato e sistematico, violazioni di norme o dei principi di prudenza, diligenza e correttezza nella gestione, di una gravità tale da esporre a pregiudizio gli interessi dei soggetti legati all’impresa, nonché da mettere in pericolo la stessa esistenza del complesso produttivo (Abriani ed altri, Diritto fallimentare, cit., pp. 38 s.). 6 Cfr. De Matteis, L’emersione anticipata, cit., pp. 34 ss.; Abriani ed altri, Diritto fallimentare, cit., pp. 39 s. 7 Racugno, Gli obiettivi del concordato preventivo, lo stato di crisi e la fattibilità del piano, in Giur. comm., 2009, I, p. 901. 8 In realtà, questa ipotesi estrema non è concretamente realizzabile per le società di capitali, poiché il continuo depauperamento delle risorse attive del patrimonio verrà necessariamente a scontrarsi con la regola “ricapitalizza o liquida” disposta dagli artt. 2447 e 2482-ter c.c. Risulta, infatti, difficilmente immaginabile che un’impresa in condizioni antieconomiche possa sopravvivere coprendo le perdite esclusivamente con nuovo credito o mezzi extra aziendali, senza intaccare, prima o poi, il patrimonio netto e, quindi, il capitale. Inoltre, come fa notare De Matteis, L’emersione anticipata, cit., p. 34, per le società pubbliche la stabile conduzione dell’attività in una situazione di squilibrio economico è espressamente vietata dall’art. 14, co. 5, d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175, a tenore del quale le pubbliche amministrazioni «non possono, salvo quanto previsto dagli articoli 2447 e 2482-ter del codice civile, sottoscrivere aumenti di capitale, effettuare trasferimenti straordinari, aperture di credito, né rilasciare garanzie a favore delle società partecipate, con esclusione delle società quotate e degli istituti di credito, che abbiano registrato, per tre esercizi consecutivi, perdite di esercizio ovvero che abbiano utilizzato riserve disponibili per il ripianamento di perdite anche infrannuali». Sul divieto di mantenere artificiosamente in vita una società partecipata in perdita strutturale mediante versamenti straordinari da parte del socio pubblico, v. Corte conti, sez. II, giur. centr. app., 19 agosto 2019, n. 291, in Foro it., 2020, III, 32, con nota di Fruscione; Corte conti, sez. reg. contr. Abruzzo, 27 luglio 2020, n. 157, in Foro it., 2021, III, 240, con nota di Fruscione, Gli strumenti d’intervento del socio pubblico a sostegno delle società partecipate in crisi.

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se extra aziendali, con apporti dei soci, con aumenti di capitale oppure, ovviamente, consumando progressivamente le riserve e le altre voci del patrimonio netto. Lo squilibrio patrimoniale, o sovraindebitamento, si verifica quando il valore totale del passivo è superiore a quello dell’attivo. Questa situazione può dipendere da uno squilibrio economico già in atto, e frequentemente può comportare a sua volta lo squilibrio finanziario. Infatti, in assenza di ricapitalizzazioni o di apporti sostitutivi del capitale, lo sbilancio patrimoniale può essere considerato come un valido sintomo di una potenziale imminente insolvenza9. Se è vero che lo squilibrio patrimoniale è un utile segnale della prossima insolvenza, si deve anche riconoscere, tuttavia, che questi risultati di tipo predittivo possono variare notevolmente in base ai criteri adottati per la valutazione del patrimonio. Così, l’attivo di un’impresa potrebbe risultare superiore al passivo in una valutazione effettuata nella prospettiva della continuità; la stessa impresa potrebbe, invece, risultare sovraindebitata qualora i suoi cespiti siano valutati secondo i criteri della liquidazione10.

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In dottrina, Brizzi, Doveri degli amministratori e tutela dei creditori nel diritto societario della crisi, Torino, 2015, p. 83. Nella giurisprudenza di legittimità, v.: Cass., 20 novembre 2018, n. 29913, in Rep. Foro it., 2018, voce Fallimento, n. 198, e in www. ilcaso.it, 22 gennaio 2019; Cass., 17 febbraio 2012, n. 2351, in Dir. fall., 2013, II, 42, con nota di Pacileo; Cass., 1 dicembre 2005, n. 26217, in Rep. Foro it., 2006, voce Fallimento, n. 326, secondo cui un marcato sbilanciamento tra attivo e passivo, pur non essendo sufficiente a dimostrare l’insolvenza, «nondimeno deve essere attentamente valutato, non potendosene per converso radicalmente prescindere, perché l’eventuale eccedenza del passivo sull’attivo patrimoniale costituisce, pur sempre, nella maggior parte dei casi, uno dei tipici “fatti esteriori” che, a norma dell’art. 5, l.fall., si mostrano rivelatori dell’impotenza dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni». Nello stesso senso, ma da una prospettiva opposta, v.: Cass., 21 gennaio 2013, n. 1347, in www.dejure.it; Cass., 28 febbraio 2007, n. 4766, in Il fallimento, 2007, 775, con nota di Perrino, secondo la quale la prevalenza dell’attivo sul passivo non è sufficiente per escludere l’insolvenza, data la situazione di illiquidità in cui – nella specie – versava l’impresa ricorrente. Inoltre, v. Sacchi, Dalmartello e Semeghini, I presupposti del fallimento, in Fallimento e concordato fallimentare, tomo I, diretto da Jorio, Torino, 2016, pp. 189 ss., secondo i quali se, da un lato, l’eventuale eccedenza dell’attivo sul passivo può essere irrilevante ai fini del giudizio sull’insolvenza, dall’altro lato, anche l’opposta eccedenza del passivo sull’attivo non comporta necessariamente l’insolvenza. 10 Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, Bologna, 2007, p. 147. Secondo l’orientamento maggioritario (inaugurato da Cass., 10 aprile 1996, n. 3321, in Rep. Foro it., 1996, voce Fallimento, n. 222), per accertare l’insolvenza di una società in liquidazione, il patrimonio sociale deve essere valutato applicando il criterio della c.d. insolvenza “statica”, quindi secondo i “criteri di liquidazione” e non, invece, nell’ottica

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Lo squilibrio finanziario si verifica quando «le attività finanziarie a breve esistenti (liquidità e crediti) non sono sufficienti a coprire i debiti a breve scadenza»11. Questa situazione emerge soprattutto quando il rapporto tra i mezzi propri dell’impresa e i mezzi di terzi è fortemente sbilanciato in favore dei secondi12. Il ricorso alla c.d. leva finanziaria rientra tra i fisiologici mezzi di finanziamento dell’impresa; tuttavia, quando lo squilibrio tra indebitamento e patrimonio netto diventa molto rilevante, l’impresa può “scivolare” in una situazione di insolvenza13. Ovviamente questa involuzione si verifica più facilmente quando allo squilibrio si

della continuità aziendale. In questo senso, ex plurimis, Cass., 20 aprile 2017, n. 9972, in www.dejure.it: «la valutazione del giudice, ai fini dell’applicazione dell’art. 5, l.fall., deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto – non proponendosi l’impresa in liquidazione di restare sul mercato [...] – non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte»; Cass., [ord.] 7 ottobre 2019, n. 24948, in www.dejure.it; Cass., 21 novembre 2016, n. 23641, in CED Cass., rv. 266913. Secondo un orientamento minoritario, invece, la valutazione del patrimonio della società in liquidazione dovrebbe essere effettuata applicando i consueti canoni “dinamici”. In dottrina, diffusamente, Rocco di Torrepadula, Lo stato d’insolvenza della società in liquidazione, in Giur. comm., 2019, I, p. 448, il quale evidenzia che l’applicazione della teoria della “insolvenza statica” minerebbe gli interessi dei creditori soprattutto nel caso in cui il patrimonio della società in liquidazione sia, anche se capiente rispetto ai debiti, illiquido. In giurisprudenza, App. Napoli, [decreto] 29 luglio 2014, in Dir. fall., 2015, II, 566, con nota di Fauceglia: «non sembra alla Corte che vi siano ragioni per ritenere che la definizione dell’art. 5 l. fall. […] in termini di incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni non sia unica e possa dunque essere interpretata diversamente, cioè come l’incapacità di soddisfare integralmente, anche se irregolarmente, le proprie obbligazioni, ove il debitore sia una società in liquidazione»; App. Napoli, 2 maggio 2019, n. 57, in Giur. comm., 2020, II, 616, con nota di Rocco di Torrepadula, Ancora sull’inutilizzabilità per la società in liquidazione della c.d. insolvenza statica. 11 Così, Racugno, Gli obiettivi del concordato, cit., pp. 897 s. Nello stesso senso, De Matteis, L’emersione anticipata, cit., p. 36. 12 Abriani ed altri, Diritto fallimentare, cit., pp. 43 s.; Racugno, Gli obiettivi del concordato, cit., pp. 897 s.; De Matteis, L’emersione anticipata, cit., p. 36. 13 Il fenomeno della sottocapitalizzazione risulta ancora più preoccupante nelle società che godono della responsabilità limitata. In questo caso, la previsione di un capitale minimo irrisorio, unita all’assenza di un obbligo esplicito di dotare la società di un capitale sufficiente allo svolgimento dell’attività programmata, può indurre i soci ad investire nel capitale di rischio una somma minima, compensata da un cospicuo ricorso al credito, addossando ai creditori le conseguenze di un’eventuale insolvenza. Per arginare parzialmente i rischi connessi alla situazione ora descritta, il legislatore ha introdotto gli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. Cfr. Abriani ed altri, Diritto fallimentare, cit., p. 45.

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sommano anche cause esterne legate al mercato e a fattori ambientali14. Questa, d’altro canto, è la situazione che caratterizza molte delle imprese che tentano di tornare alla normale attività in seguito a un lockdown imposto per fronteggiare la diffusione di una pandemia (come avvenuto nel caso del virus Covid-19). Imprese che, prima della chiusura, erano sostanzialmente sane e capaci di produrre reddito (quindi che erano in condizioni di equilibrio economico e che – almeno teoricamente – lo sarebbero anche in seguito alla riapertura) si potrebbero ritrovare in una condizione di insolvenza (quindi in squilibrio finanziario) per carenza di liquidità e per la difficoltà di crearne o reperirne di nuova abbastanza rapidamente da far fronte agli adempimenti incombenti15. Alle patologie di natura finanziaria è ricondotta la sussistenza dello stato di insolvenza, presupposto del fallimento, pur dovendosi riconoscere che, nella maggior parte dei casi, i vari squilibri esaminati si accompagnano e talvolta si implicano a vicenda. D’altronde, «il fenomeno imprenditoriale non è segmentato né segmentabile in compartimenti stagni»16. Si consideri, inoltre, che la definizione legislativa dello stato di insolvenza non fa alcun riferimento alle cause che possono averlo provocato (ad esempio, un reale squilibrio finanziario, una grande perdita al casinò da parte dell’imprenditore17, una chiusura forzata delle attività per garantire il distanziamento sociale durante una pandemia…)18. Mentre

14 Cfr. Abriani ed altri, Diritto fallimentare, cit., pp. 44 ss.; Brizzi, Doveri degli amministratori, cit., p. 204; De Matteis, L’emersione anticipata, cit., p. 37. 15 Sull’argomento, v. anche M.L. Russotto, G. Russotto e Limitone, L’impresa in momentanea difficoltà e l’impresa insolvente: analisi economica e conseguenze giuridiche, in www.ilcaso.it, 27 aprile 2020, passim, i quali, partendo da constatazioni analoghe a quelle esposte nel testo, concludono che, nel periodo post-lockdown, non sarebbe opportuno definire insolvente un’impresa che, pur presentando uno squilibrio finanziario, godesse di un solido equilibrio economico prima del dilagare della pandemia. 16 Così, Presti, Stato di crisi e stato di insolvenza, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da Cagnasso e Panzani, Milano, 2016, p. 408. 17 L’esempio, provocatorio ma non inverosimile, della perdita al casinò è di Presti, Stato di crisi, cit., p. 415. L’Autore, a dimostrazione dell’irrilevanza della causa scatenante l’insolvenza, riporta l’esempio dell’impresa dichiarata fallita anche se produce profitti, poiché l’imprenditore ha perso tutti i suoi averi al casinò: «è possibile, infatti, che la capacità solutoria venga meno per cause che nulla hanno a che fare con l’esercizio dell’impresa». Nello stesso senso, Stanghellini, Le crisi di impresa, cit., p. 121. 18 Sull’assenza di un necessario legame tra lo squilibrio finanziario e quello economico, v. anche M.L. Russotto, G. Russotto e Limitone, L’impresa in momentanea difficoltà, cit., pp. 3 s., i quali riportano l’esempio di un’impresa sana e produttiva che, però, cada

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all’economista, infatti, interessa individuare la causa specifica della crisi per poter elaborare un piano per il risanamento dell’impresa19, al giurista interessa individuare le condizioni in presenza delle quali un’impresa può accedere alle procedure concorsuali20. Quindi, di primario interesse per il giurista è l’interpretazione delle definizioni legislative di insolvenza e crisi, alle quali nei prossimi paragrafi si volgerà l’attenzione.

4. Lo “stato di insolvenza”. Poche parole saranno spese sullo stato di insolvenza, per due ragioni: da un lato, esso non rileva particolarmente ai fini di quanto si vuole esporre nel presente contributo; dall’altro, la definizione di questo concetto è rimasta immutata nel passaggio dalla Legge fallimentare al Codice della crisi, quindi dovrebbe – sperabilmente – comportare minori problemi applicativi rispetto al nuovo concetto di stato di crisi. Dalla definizione dell’art. 5 l.fall. si intende che l’insolvenza non corrisponde all’inadempimento, né di esso è conseguenza automatica21.

in una situazione di squilibrio finanziario a causa di errate scelte gestionali nell’attuazione della politica relativa ai pagamenti e alle riscossioni. 19 Sul tema v., di recente, M.L. Russotto, G. Russotto e Limitone, L’impresa in momentanea difficoltà, cit., pp. 4 ss., i quali constatano che, da un punto di vista economico e non giuridico, la vera impresa in crisi sarebbe quella antieconomica, cioè non redditizia, e non quella semplicemente insolvente (ma potenzialmente capace di produrre ricchezza). D’altro canto, risolvere una condizione di crisi finanziaria è – in teoria e con le dovute semplificazioni – un’operazione abbastanza agevole, essendo sufficiente immettere nuova finanza nell’impresa. Al contrario, ribaltare una crisi economica è un processo molto più lungo e complesso, poiché richiede la riorganizzazione dell’attività e, quindi, non scontate capacità manageriali. 20 Terranova, Prime impressioni sul progetto di codice della crisi d’impresa, in Riv. dir. comm., 2018, II, p. 397, commentando i concetti di crisi e insolvenza del nuovo CCI. Nello stesso senso, commentando i concetti di crisi e insolvenza nella legge fallimentare, Id., Stato di crisi, stato d’insolvenza, incapienza patrimoniale, in Dir. fall., 2006, I, pp. 555 s. 21 Non a caso, già Gustavo Bonelli, sotto la vigenza del codice di commercio del 1882, che ricollegava lo «stato di fallimento» alla cessazione dei pagamenti, parificava alla cessazione effettiva la cessazione virtuale, cioè l’incapacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni. Cfr. Presti, Stato di crisi, cit., p. 408.

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Nondimeno, l’inadempimento rappresenta comunque uno dei sintomi, sicuramente il più rilevante e frequente, dell’insolvenza22. Lo stato di insolvenza è inteso come una situazione di squilibrio finanziario ed è, quindi, associato alla illiquidità del patrimonio. Per questo motivo, ai fini dell’accertamento, è di centrale rilevanza la capacità dell’impresa di accedere al credito23. Se l’imprenditore, tramite dilazioni di pagamento dai fornitori o altre forme di finanziamento di vario genere, dimostra di godere ancora della fiducia del mercato, l’insolvenza è esclusa24. Per questo, si è detto anche che l’insolvenza rappresenta una “bocciatura” da parte del mercato finanziario25. L’insolvenza, in virtù dell’avverbio “più” contenuto nella definizione, deve essere uno stato stabile e non transitorio26; tuttavia, può essere di-

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A giustificare la dichiarazione di fallimento può essere anche un solo inadempimento: v., di recente, Cass., 28 marzo 2018, n. 7589, in www.dirittobancario.it, 23 luglio 2018, secondo la quale, «ai fini del giudizio di sussistenza dello stato di insolvenza ex art. 5 legge fall., non occorre l’accertamento definitivo di crediti, sostanziandosi detto giudizio nella valutazione complessiva di uno stato di impotenza patrimoniale, non transitorio, al regolare adempimento delle proprie obbligazioni, che ben può essere condotto alla stregua dell’inadempimento anche di un solo credito, ingente, come nel caso, e che è stato valutato dalla Corte d’appello come indicativo dello stato di illiquidità, come tale idoneo a palesare “l’incapacità dell’impresa stessa di rendere sostenibile la struttura finanziaria della società”». Peraltro, come fa notare Presti, Stato di crisi, cit., p. 419, anche un inadempimento di modesto importo può essere eloquente segnale dell’insolvenza, considerando che, in alcuni casi, l’incapacità di soddisfare un debito di entità minima è ancora più probante. 23 Sacchi, Dalmartello e Semeghini, I presupposti, cit., pp. 191 s. Come riporta Terranova, Prime impressioni, cit., pp. 405 s., già Gustavo Bonelli, nella cui epoca non era ancora chiara la distinzione tra sovraindebitamento e crisi finanziaria, e l’insolvenza era considerata dipendente dallo sbilancio patrimoniale, si chiedeva come fosse possibile che un imprenditore non fallisse pur registrando un passivo notevolmente superiore all’attivo. Sottolineò quindi l’importanza del “credito”, inteso nel senso sociologico di “fiducia”, di cui l’imprenditore godeva ancora sulla piazza. Questo nuovo concetto, considerato come una posta dell’attivo, avrebbe potuto bilanciare il passivo. Peraltro, è suggestivo notare che – come rilevato da Guizzi, Fallito e fallimento nella Comédie humaine, in Riv. dir. comm., 2018, II, p. 470 – la maggiore importanza della liquidità rispetto alla condizione patrimoniale, ai fini della dichiarazione di fallimento, era già avvertita nei secoli passati e risulta anche dalla letteratura francese della prima metà del XIX secolo, in particolare dal Cesar Birotteau (1837) di Honoré De Balzac. 24 Ex multis, Stanghellini, Le crisi di impresa, cit., pp. 122 ss.; Sacchi, Dalmartello e Semeghini, I presupposti, cit., pp. 191 s. 25 Stanghellini, Le crisi di impresa, cit., pp. 123 ss. 26 Cfr., di recente, Cass., 10 ottobre 2019, in www.ilcaso.it, 25 ottobre 2019, secondo la quale: «l’insolvenza differisce dall’inadempimento, poiché non indica un fatto, e cioè

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chiarata anche all’esito di un giudizio prognostico circa la condizione in cui l’impresa verserà in futuro, in considerazione delle obbligazioni già esistenti e non ancora scadute27. È quindi possibile dichiarare il fallimento di un imprenditore ancora attualmente adempiente alle obbligazioni esigibili, ma che appare incapace di sostenere (con mezzi regolari) gli impegni di futura scadenza28, realizzando, in tal modo, un proficuo effetto di prevenzione dell’aggravamento del dissesto che si verificherebbe qualora l’apertura della procedura concorsuale fosse ritardata fino all’effettivo manifestarsi dello stato di insolvenza29.

un avvenimento puntuale, ma, appunto, uno stato, e cioè una situazione dotata di un certo grado di stabilità: una situazione risolta in una “inidoneità” di dare regolare soddisfazione delle proprie obbligazioni». 27 Presti, Stato di crisi, cit., pp. 409 ss. Nella giurisprudenza di legittimità più recente, v. Cass., 20 novembre 2018, n. 29913, in Rep. Foro it., 2018, voce Fallimento, 197, e in www.ilcaso.it, 22 gennaio 2019, secondo la quale: «dai dati di contabilità dell’impresa è consentito muovere per poter vagliare, nella concretezza di ciascuna singola fattispecie, se il debitore disponga di risorse idonee a fronteggiare in modo regolare le proprie obbligazioni, avendo riguardo alla scadenza di queste e alla natura e composizione dei cespiti dai quali sia eventualmente ipotizzabile ricavare il necessario per farvi fronte». 28 Ambrosini, Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche, in www.ilcaso.it, 14 gennaio 2019, p. 19. L’Autore (p. 14) riporta che un noto caso di accertamento di “insolvenza prospettica” fu quello deciso nei confronti di Alitalia da Trib. Roma, 5 settembre 2008 (in Foro it., 2009, I, 266, con nota di Fabiani), nel quale l’insolvenza fu desunta dalle pesanti perdite dell’ultimo esercizio e dalle stime relative all’andamento della compagnia nel terzo trimestre del 2008, le quali evidenziavano: un patrimonio netto negativo; l’indebitamento totale; la circostanza che difficilmente si sarebbe potuto rimediare a questa situazione per via del prezzo del petrolio e della crisi economica globale in atto. Sulla sentenza Alitalia, v. anche Della Santina, Crisi d’impresa e insolvenza prospettica dell’imprenditore: questioni ancora aperte nell’imminenza dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 14/2019, in www.ilcaso.it, 12 novembre 2019, p. 8. 29 Ciò è stato riconosciuto anche da una delle prime pronunce che ha fatto applicazione del novellato art. 2086 c.c., cioè Trib. Milano, [decreto] 3 ottobre 2019, n. 1357, in Il fallimentarista, 10 ottobre 2019 (commentata da: Sanzo, Istanza di fallimento ed insolvenza prospettica: ovvero le regole della crisi prima che entri in vigore la disciplina dell’allerta, in Il fallimentarista, 18 ottobre 2019; Della Santina, Crisi d’impresa, cit.; Spiotta, Insolvenza (non ancora) prospettica: quali rimedi?, in Il fallimento, 2020, p. 124; Jorio, Sulle nozioni di crisi e di insolvenza prospettica, in Giur. comm., 2020, II, p. 1474), ove l’affermazione che: «poiché poi le procedure vanno intese non come semplici rimedi ex post a situazioni dannose, al pari delle revocatorie ad esempio, ma, soprattutto nella loro evoluzione necessitata dall’orientamento delle direttive europee, come strumento di emersione tempestiva della crisi per ridurre al minimo l’impatto della stessa ed il pregiudizio delle ragioni creditorie, è chiaro che si possa e debba ricorrere ad una procedura che presuppone l’insolvenza non solamente in caso di insolvenza conclamata e risalente, ma anche quando essa si sta per manifestare all’esterno in tutta la sua gravità».

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Peraltro, l’insolvenza c.d. prospettica30, nata come figura di creazione giurisprudenziale e dottrinale, è diventata ora, per la sua capacità di anticipare il dissesto, più che giustificata – si oserebbe dire quasi positivizzata – dal nuovo Codice della crisi, la cui impostazione culturale è dichiaratamente improntata all’emersione precoce della crisi. Il concetto di insolvenza prospettica, ora brevemente illustrato, è fondamentale per comprendere le criticità insite nella nuova definizione di “stato di crisi”.

5. Lo “stato di crisi” nella Legge fallimentare. La nozione di stato di crisi è stata introdotta nell’ordinamento italiano come presupposto oggettivo del concordato preventivo (art. 160, co. 1, l.fall.) e degli accordi di ristrutturazione (art. 182-bis, co. 1, l.fall.), da parte del legislatore della riforma del 200531. In assenza di una definizione esplicita, l’interpretazione del nuovo concetto ha suscitato molte incertezze, non interamente risolte dal successivo intervento legislativo32 con cui si è aggiunto che «per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza» (art. 160, co. 3, l.fall.), rendendo così l’insolvenza una species all’interno del genus crisi33. Anzitutto, svolgendo un’analisi in chiave teleologica, si osserva che la scelta di introdurre la nuova nozione è motivata dall’obiettivo di potenziare gli strumenti negoziali alternativi al fallimento e facilitare, così, l’emersione precoce della crisi. Infatti, il nuovo concetto di stato di crisi permetterebbe al debitore di agire con più anticipo e di avere, quindi, più possibilità di risollevare le sorti dell’impresa o, per lo meno, di trovare una migliore soluzione con l’accordo dei creditori34.

30 Sull’insolvenza prospettica anche alla luce del nuovo sistema introdotto dal Codice della crisi, Inzitari, Crisi, insolvenza, insolvenza prospettica, allerta: nuovi confini della diligenza del debitore, obblighi di segnalazione e sistema sanzionatorio nel quadro delle misure di prevenzione e risoluzione, in Contr. e impr., 2020, p. 618. 31 D.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in legge 14 maggio 2005, n. 80. 32 D.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito in legge 23 febbraio 2006, n. 51. 33 Non erano mancate, in proposito, opinioni contrarie: Terranova, Stato di crisi, stato d’insolvenza, incapienza patrimoniale, in Dir. fall., 2006, I, pp. 569 s., il quale, tuttavia, ha successivamente mutato opinione esponendone le ragioni in Id. Prime impressioni, cit., pp. 396 ss. 34 È indubbio che «le procedure concorsuali sortiscono effetti tanto migliori quanto prima vengono azionate». Così, Stanghellini, Le crisi di impresa, cit., p. 134.

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La ricostruzione35 più diffusa dello stato di crisi è quella che lo descrive come una probabilità di insolvenza36. Lo stato di crisi sussisterebbe quando, in base ad una valutazione prognostica37, risultano maggiori le possibilità che la situazione «si evolva verso l’insolvenza, piuttosto che positivamente»38. Si potrebbero ravvisare gli elementi della crisi in due situazioni simmetriche: da un lato, nel caso in cui l’impresa versi in una situazione di crisi patrimoniale o finanziaria, pur godendo ancora del credito, perché in questa situazione è probabile che presto la fiducia del mercato si esaurirà e l’insolvenza prenderà il sopravvento; dall’altro lato, nel caso in cui l’imprenditore non beneficia del credito e sostiene l’attività interamente con mezzi propri, perché, avendo il mercato già espresso un giudizio negativo su di lui, è probabile che diventerà insolvente a breve39. La ricostruzione in termini “probabilistici”, peraltro, ha suscitato alcune preoccupazioni dovute alla possibile sovrapposizione e interferenza

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Alcuni autori (Presti, Rigore è quando arbitro fischia?, in Il fallimento, 2009, p. 25) hanno invece offerto ricostruzioni alternative dello stato di crisi, tentando di valorizzare la finalità dell’istituto del concordato preventivo. E così, se la funzione del concordato è quella di prevenire la completa decozione dell’impresa quando i primi segnali di crisi sono riscontrabili solo dal debitore, lo stato di crisi sussisterebbe quando è l’imprenditore a dichiararlo. D’altronde, per un verso, è anche suo interesse salvare le sorti dell’impresa; per altro verso, a dissuaderlo dal compiere comportamenti abusivi (ad esempio, lucrare “sconti” ingiustificati dai creditori) sarebbe lo stigma sociale che sovente connota chi accede alle procedure concorsuali. Allora, la crisi non sarebbe neanche un vero e proprio stato riscontrabile dall’esterno; infatti, sarebbe solo l’imprenditore a decidere quando è presente una situazione (a prescindere dalla sua qualificazione normativa) tale da richiedere l’accesso al concordato. 36 Cfr. Stanghellini, Le crisi di impresa, cit., p. 138, che parla di «un rischio rilevante dal punto di vista probabilistico e tale da materializzarsi a breve»; Rocco di Torrepadula, La crisi dell’imprenditore, in Giur. comm., 2009, I, passim; Brizzi, Doveri degli amministratori, cit., p. 262; Strampelli, Capitale sociale e struttura finanziaria nella società in crisi, in Riv. soc., 2012, p. 632; Frascaroli Santi, Il concordato preventivo, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, vol. IV, diretto da Panzani, Torino, 2014, p. 559. 37 Questo giudizio prognostico è diverso da quello alla base della temporanea difficoltà di adempiere, presupposto della vecchia amministrazione controllata, perché, in quest’ultimo caso si trattava di un giudizio attuale negativo (difficoltà di adempiere) con prognosi positiva (la difficoltà è temporanea); nel caso dello stato di crisi, si ha un giudizio attuale positivo (può ancora adempiere) con una prognosi negativa (è probabile che non sarà più in grado di adempiere). Cfr. Rocco di Torrepadula, La crisi dell’imprenditore, cit., pp. 232 s. 38 Rocco di Torrepadula, La crisi dell’imprenditore, cit., p. 234. Negli stessi termini Id., Aspetti della crisi d’impresa, in Dir. fall., 2018, I, p. 1108. 39 Rocco di Torrepadula, La crisi dell’imprenditore, cit., p. 234.

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tra il giudizio prognostico circa la probabilità di insolvenza e il giudizio, anch’esso prognostico, attinente all’insolvenza prospettica. Questi timori, invero, si sono rivelati meno pregnanti del previsto40: infatti, il primo stato sussisterebbe quando l’esito della prognosi in termini di incapacità di adempiere alle proprie obbligazioni è probabile; il secondo stato quando il medesimo esito è certo41. D’altro canto, la ricostruzione dello stato di crisi in termini probabilistici è conforme a quanto disposto dalle fonti di diritto europeo42 e, come sarà esposto nel seguente paragrafo, è stata positivizzata dal Codice della crisi. 5.1. Lo “stato di crisi” nel Codice della crisi. L’art. 2, co. 1, lett. a), CCI definisce la crisi come «lo stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate». Questa definizione ha suscitato innumerevoli commenti e critiche da parte della dottrina43: l’aspetto più controverso riguarda il rapporto con la nozione di insolvenza. Finché si definisce la crisi come situazione che rende probabile l’insolvenza non si pongono particolari problemi. Le incongruenze si palesano

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Le osservazioni esposte nel testo, il cui percorso argomentativo è stato necessariamente semplificato per esigenze legate all’oggetto del presente contributo, sono tratte da Terranova, Prime impressioni, cit., pp. 400 s. 41 Terranova, Prime impressioni, cit., p. 401. Nello stesso senso, Spiotta, Insolvenza, cit., p. 127. 42 Si fa riferimento sia alla Direttiva (UE) 2019/1023, che disciplina i quadri di ristrutturazione preventiva per l’imprenditore che versi in stato di “probabilità di insolvenza”, sia al Regolamento (UE) 2015/848 che, con riguardo alle procedure diverse da quelle liquidatorie (tra le quali l’allegato A menziona espressamente il concordato preventivo), parla di “probabilità di insolvenza”. Sulle assonanze e dissonanze tra la Direttiva e il Codice della crisi, v. Panzani, Il preventive restructuring framework nella direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019 ed il codice della crisi. Assonanze e dissonanze, in www. ilcaso.it, 14 ottobre 2019; Vella, L’impatto della Direttiva UE 2019/1023 sull’ordinamento concorsuale interno, in Il fallimento, 2020, p. 747. 43 La formulazione attuale è il frutto dell’intervento attuato con il d.lgs. (correttivo del CCII) 26 ottobre 2020, n. 147 (emanato in attuazione della l. delega 8 marzo 2019, n. 20), il cui art. 1, accogliendo le osservazioni della dottrina aziendalistica, ha sostituito la precedente espressione «difficoltà economico-finanziaria» con «squilibrio economicofinanziario». Per un commento ad alcune delle novità introdotte dal decreto correttivo, v. A. Nigro, Le azioni revocatorie concorsuali nello schema di decreto correttivo del Codice della crisi, in Dir. banc., 2020, II, p. 75.

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quando si volge lo sguardo alla seconda parte della definizione. Infatti, la «inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate44» (per almeno i sei mesi successivi)45 sembra l’elaborazione, in chiave aziendalistica, della definizione secondo cui è insolvente l’imprenditore che «non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni»; allora, la nuova nozione di “crisi” non sarebbe altro che la riproposizione, più dettagliata, di quella situazione che la dottrina e la giurisprudenza hanno sempre definito come “insolvenza prospettica”46. In altre parole, sembrerebbe che la nuova definizione di crisi non sia realmente in grado di individuare un momento antecedente rispetto all’insolvenza47. A ben vedere, tale problema potrebbe essere risolto abbastanza agevolmente: è vero che la «inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni» – presupposto della crisi – è molto simile all’impossibilità di adempimento regolare – presupposto dell’insolvenza –; ma è anche vero che la nuova definizione di crisi parla di “probabilità di insolvenza” e che, con ciò, il legislatore ha chiaramente mostrato di intendere la crisi e l’insolvenza come due concetti differenti. Allora, al fine di attribuire un significato a entrambe le definizioni e di rispettare la manifesta intentio legislatoris, si deve ritenere che, quando l’impossibilità di adempiere appare solo probabile, l’impresa versa in stato di crisi; quando, invece, l’impossibilità di adempiere risulta certa, l’impresa si trova in stato di insolvenza48. Questa conclusione altro non rappresenta che la conferma degli orientamenti

44 Si noti anche la scelta infelice di utilizzare il termine “pianificate”, la cui ambiguità potrebbe portare a ritenere che lo stato di crisi sussista solo quando la difficoltà di adempimento riguardi le obbligazioni già assunte (di cui è pianificato il pagamento) oppure solo quelle ancora da assumere (di cui è pianificata l’assunzione). Sembra più logico ritenere che il legislatore volesse riferirsi, in generale, alle obbligazioni di prossima scadenza. In questo senso, Ambrosini, Crisi e insolvenza, cit., p. 23; A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alle persistenti alterazioni delle regole di azione degli organi sociali nelle situazioni di crisi atipica, in www.ilcaso.it, 11 gennaio 2019, p. 5. 45 Termine indicato dall’art. 13, co. 1, CCI. 46 In questo senso, tra i primi commenti alla nuova normativa: A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alle persistenti, cit., pp. 5 ss.; Terranova, Prime impressioni, cit., p. 403; Ambrosini, Crisi e insolvenza, cit., pp. 29 s.; Jorio, La riforma della legge fallimentare tra utopia e realtà, in Dir. fall., 2019, I, p. 296. 47 Cfr. Leuzzi, Indicizzazione della crisi d’impresa e ruolo degli organi di controllo: note a margine del nuovo sistema, in www.ilcaso.it, 28 ottobre 2019, pp. 4 e 21, che definisce la crisi come “embrione di insolvenza”. 48 Terranova, Prime impressioni, cit., p. 403; Ambrosini, Crisi e insolvenza, cit., p. 23.

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consolidatisi in giurisprudenza riguardo all’applicazione della vecchia nozione di stato di crisi ex art. 160 l.fall.49.

6. I nuovi presupposti oggettivi per l’accesso alla procedura di allerta: gli indicatori e gli indici della crisi. Il quadro finora descritto è stato complicato dall’introduzione delle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi. L’attivazione di queste procedure, infatti, è basata sulla ricorrenza di nuovi presupposti oggettivi – gli indicatori e gli indici della crisi di cui all’art. 13 CCI50 – che appaiono non necessariamente coincidenti con la definizione di crisi, e, comunque, non abbastanza “tempestivi” da intercettare i primi segnali di una crisi incipiente. Dall’emanazione del Codice della crisi, numerosi contributi51 hanno dimostrato che il combinato disposto della disposizione contenente la definizione di stato di crisi e delle disposizioni che individuano gli indicatori e indici della crisi potrebbe portare a un’attivazione eccessivamente “tardiva” dell’allerta52. In sostanza, vi è il pericolo che l’allarme

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Ricostruzioni indicate supra, nelle conclusioni del paragrafo precedente. Si segnala che il decreto correttivo al CCI (sul quale v. supra, nt. 43) ha modificato sia il contenuto sia la rubrica dell’art. 13 CCI, la quale, nella formulazione originaria, faceva riferimento esclusivamente agli “Indicatori della crisi”. Per un’analisi dell’allerta e dei relativi indici, anche alla luce del documento elaborato dal CNDCEC per la dettagliata individuazione di questi ultimi, v., di recente, Riva, Danovi, Comoli e Garelli, Gli attori della governance coinvolti nelle fasi dell’allerta e gli indici della crisi secondo il nuovo C.C.I., in Giur. comm., 2020, I, p. 594; Manca, Assetti adeguati e indicatori di crisi nel nuovo codice della crisi d’impresa: la visione dell’aziendalista, in Giur. comm., 2020, I, p. 629; Superti Fuga e Sottoriva, Riflessioni sul Codice della crisi e dell’insolvenza, in Le società, 2020, p. 7. 51 Il riferimento è, in particolare, ai primi autori che hanno messo in luce tali criticità: A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alle persistenti, cit.; Ambrosini, Crisi e insolvenza, cit.; Jorio, La riforma, cit.; Sanzo, La disciplina procedimentale. Le norme generali, le procedure di allerta e di composizione della crisi, il procedimento unitario di regolazione della crisi o dell’insolvenza, in Il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, a cura di Sanzo, Burroni, Bologna, 2019, p. 49. 52 Non si indugia nel testo sulla disamina di tali questioni, in quanto già ampiamente trattate dai contributi citati nella nota precedente, ai quali si rimanda, nonché da una folta serie di altri contributi elaborati sulla scia dei primi. A titolo esemplificativo, si pensi ai “ritardi nei pagamenti” di cui all’art. 13 CCI che devono essere “reiterati e significativi”, con ciò dando l’idea di uno stato di crisi piuttosto avanzato. Si pensi anche all’importo rilevante 50

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sia suonato quando la situazione della società sia ormai difficilmente recuperabile, versando essa già in stato di insolvenza o di grave instabilità, con il conseguente rischio che venga attivata una procedura infruttuosa, foriera solamente di dispendi in termini di tempo e di valore dell’impresa53. Inoltre, i possibili difetti di “tempismo” nell’attivazione dell’allerta sono aggravati dal fatto che gli indicatori e gli indici della crisi ex art. 13 CCI fanno riferimento a fattori di natura meramente quantitativa (squilibri di carattere finanziario-economico-patrimoniale), tenendo conto di un arco temporale di sei mesi; diversamente, le condizioni per accertare la prospettiva di going concern, oltre a prendere in considerazione una prospettiva di dodici mesi, richiedono l’esame di parametri qualitativi, e non solo quantitativi54. Dunque, vi è il rischio che gli indicatori della crisi ex art. 13 CCI non scattino in tutti quei casi in cui gli effetti negativi di un fatto siano tali da manifestarsi sul piano quantitativo (cioè sul piano finanziario-economico-patrimoniale) soltanto dopo un periodo maggiore di sei mesi. E ciò, nonostante la verifica della continuità aziendale sia già in grado di prevedere quegli effetti negativi su un piano qualitativo, per il semplice rilievo che quel fatto si è verificato55.

di cui all’art. 15, co. 2, lett. c), CCI, in base al quale l’obbligo di segnalazione per l’agente della riscossione sorge quando un’impresa sia gravata da un’esposizione debitoria di cinquecentomila euro o un milione, a seconda che si tratti di impresa individuale o in forma societaria. La probabilità che una società con debiti nei confronti del fisco per un milione di euro, per di più scaduti da almeno novanta giorni, sia già insolvente è molto alta. 53 A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alle persistenti, cit., p. 11. 54 Questo secondo ordine di osservazioni sulla “tardività” degli indici, dovuta alla loro natura meramente qualitativa, è stato elaborato, in particolare, da Bini, Procedura d’allerta: indicatori della crisi ed obbligo di segnalazione da parte degli organi di controllo, in Le società, 2019, p. 432. 55 In altre parole, la prospettiva della continuità aziendale può mancare anche per ragioni che non attengono – o almeno non ancora – a squilibri finanziari-economicipatrimoniali. Ed è proprio in queste situazioni che sarebbe preferibile intervenire per realizzare un efficace risanamento e bloccare la crisi sul nascere (ad esempio, trasformando il business, modificando l’organizzazione interna dell’azienda o intervenendo sulla struttura finanziaria in anticipo rispetto ai sintomi di malessere che possano affliggerla); non invece nelle situazioni in cui si sono già manifestate le conseguenze finanziarieeconomiche-patrimoniali. Sul tema, cfr. Bini, Procedura d’allerta, cit., pp. 432 ss.; Ranalli, Gli indicatori della crisi driver per le segnalazioni all’OCRI, in La riforma del fallimento: il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, a cura di Pollio e Longoni, Milano, 2019, p. 1; Policaro, La crisi d’impresa, cit., pp. 1058 ss.; Leuzzi, Indicizzazione della crisi, cit., pp. 23 s.; Sega, Allerta e prevenzione: nuovi paradigmi della crisi di impresa, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, p. 1106.

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Queste osservazioni – riportate nei limiti in cui erano utili ai fini che ci si propone – dimostrano l’esistenza del rischio che le misure di allerta si rivelino inefficaci: nel primo caso (tardività degli indicatori e degli indici), potrebbero sfuggire all’ambito applicativo dell’allerta alcuni “stadi” precoci della crisi; nel secondo caso (mancanza di indicatori qualitativi), potrebbero sfuggirvi alcune “forme” della crisi, manifestatesi sul piano qualitativo con largo anticipo rispetto alle loro future ripercussioni sul piano economico. Alla luce di ciò, attenta dottrina56 ha osservato che alcune situazioni di difficoltà dell’impresa rimarrebbero fuori dall’ambito applicativo della procedura d’allerta, in una “nuova” twilight zone. In altre parole, la nuova definizione di “stato di crisi”, da un lato, e la procedura precoce per eccellenza, cioè l’allerta, dall’altro, sembrano non essere sufficienti a creare quel desiderato anello di congiunzione che avrebbe dovuto, senza soluzione di continuità, connettere il diritto societario (il “giorno” dell’impresa) al diritto fallimentare (la “notte” dell’impresa). Rimane, nel mezzo, un vuoto: altro non sarebbe che una nuova “zona di crepuscolo” che sfugge, ancora, al diritto positivo. Pare allora opportuno, prima di passare all’esame del piano di risanamento attestato, definire la twilight zone.

7. La twilight zone. In uno stadio intermedio tra quello che vede l’impresa prosperare e quello che la vede avviarsi alla sua fine, si posiziona la c.d. twilight zone. Con questa espressione derivata dall’ordinamento statunitense, la dottrina è solita riferirsi a «quell’area economico-temporale antecedente ad una situazione di crisi in senso tecnico, sita in uno stadio prodromico sospeso tra il rischio di insolvenza e le prospettive di risanamento»; la precrisi è quindi «caratterizzata da tensione finanziaria, segnali di difficoltà e aggravamento degli indici di rischio»57. Le espressioni usate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, nazionali e internazionali58, per riferirsi

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A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alle persistenti, cit., pp. 11 ss. Così, Montalenti, La gestione dell’impresa di fronte alla crisi tra diritto societario e diritto concorsuale, in RDS, 2011, I, pp. 820 s. 58 Nella dottrina italiana: “fase crepuscolare”, “pre-crisi”. Nella dottrina anglosassone: “twilight zone”, “vicinity of insolvency”, “zone of insolvency”. L’ UNCITRAL ha utilizzato 57

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a questo periodo della vita dell’impresa sono così varie da potersene trarre una caratteristica comune: la difficoltà in cui si imbatte chiunque cerchi di dare una definizione precisa alla twilight zone59. Con riferimento all’ordinamento italiano, si può ritenere che la precrisi e lo stato di crisi di cui all’art. 160 l.fall. si distinguano per il fatto che, nella prima fase, ancora non è compromessa la fiducia del mercato nei confronti dell’impresa e, pertanto, quest’ultima ha ancora la possibilità di accedere al credito60; nella seconda fase, invece, il rischio dell’insolvenza è tanto concreto che non sono prevedibili finanziamenti esterni tali da scongiurarlo61. Quindi, la twilight zone non si manifesta con particolari sintomi verificabili dall’esterno dell’impresa: non si registra necessariamente uno sbilancio patrimoniale, né una situazione di illiquidità tale da incrinare la prosecuzione dell’attività62. Sostanzialmente, la “zona grigia” della twilight zone corrisponderebbe a quella fase che la scienza aziendalistica

l’espressione “the period approaching insolvency” nella Legislative Guide on Insolvency Law, Part IV. Nella sentenza Kipperman v. Onex Corp. (2009), in www.courtlistener.com, la corte distrettuale della Georgia indaga sull’origine di questa terminologia che ha avuto larga fortuna e afferma che la prima testimonianza scritta dell’espressione “vicinity of insolvency” sembra risalire alla sentenza Credit Lyonnais Bank Nederland, N.V. v. Pathe Communications Corp. (1991), in www.casebriefsco.com, che fa riferimento al mutamento dei doveri degli amministratori di società “al crepuscolo”. 59 Tra gli autori statunitensi, cfr. Veasey e Di Guglielmo, What Happened in Delaware Corporate Law and Governance From 1992–2004? A Retrospective on Some Key Developments, in University of Pennsylvania Law Review, Vol. 153, 2005, 5, pp. 1430 ss., i quali, prima, si riferiscono alla vicinity of insolvency con l’espressione «whatever that is», poi, concludono che essa rappresenta «an area where directors of troubled companies and their counsel face particular challenges and need expert counseling»; Pearce II e Lipin, The Duties of Directors and Officers Within the Fuzzy Zone of Insolvency, in American Bankruptcy Institute Law Review, 2011, 1, pp. 372 s., i quali constatano che le decisioni giudiziarie statunitensi raramente si pongono il problema di offrire una definizione della zone of insolvency e riporta l’osservazione svolta dalla corte in RSL Communications PLC v. Bildirici (2006), in www.courtlistener.com, secondo la quale, nel clima economico odierno, «it is difficult to imagine a coherent limiting principle [...] that would preclude a facially plausible allegation [...] that a corporation is in the “zone of insolvency”». 60 Strampelli, Capitale sociale, cit., p. 633; Montalenti, La gestione dell’impresa, cit., p. 821; De Matteis, L’emersione anticipata, cit., p. 153. 61 Stanghellini, Le crisi di impresa, cit., p. 138. 62 Brizzi, Doveri degli amministratori, cit., p. 75.

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definisce declino, composto dagli stadi dell’incubazione e della maturazione63. I concetti finora esposti sono stati, peraltro, perfettamente rappresentati da un recente decreto del Trib. Milano, nel quale il giudice, decidendo su una domanda di dichiarazione di fallimento avanzata dai creditori di una società per azioni, ha negato la sussistenza dello stato di insolvenza, anche prospettica, in ragione della persistente fiducia che il mercato ha mostrato nei confronti dell’impresa. La pronuncia afferma che la società si trovava in una «zona grigia, un momento in cui la crisi è solo intrinseca, e come fatto esterno non si manifesta ancora con inadempimenti o altri fatti esteriori»64.

63 In particolare, secondo la celebre scansione temporale della crisi tracciata da Guatri, Turnaround: declino, crisi e ritorno al valore, Milano, 1995, pp. 105 ss., e Id., Crisi e risanamento delle imprese, Milano, 1986, pp. 11 ss., nel percorso che conduce l’azienda dalle condizioni fisiologiche a quelle patologiche la prima fase sarebbe il declino, che si suddivide in due stadi: nel primo stadio (incubazione) si verificano i primi segnali di squilibri e di inefficienze dell’impresa, tra cui l’aumento del debito, la riduzione della produttività e delle vendite e una iniziale diminuzione della capacità reddituale e della liquidità (dall’esterno dell’impresa ancora non è percepibile il declino, né risulta sempre agevole individuarlo dall’interno); nel secondo stadio (maturazione) si assiste a un aggravamento dei sintomi dell’incubazione, tali da generare consistenti riduzioni dei flussi di cassa (la perdita della redditività è ormai di marcata rilevanza). Nella fase di declino l’impresa registra perdite di valore ma non necessariamente accompagnate da perdite di esercizio. È possibile, infatti, che i flussi economici rimangano positivi mentre si realizza un progressivo decremento della redditività. Affinché tale processo involutivo non diventi sistematico e inarrestabile, è necessario che i dirigenti d’impresa intervengano il prima possibile. In caso di mancato o inefficace intervento nella fase di declino, l’impresa potrebbe scivolare nella più grave fase di crisi, la quale è scandita in due stadi: nel primo stadio della crisi, si assiste a gravi ripercussioni delle perdite sui flussi finanziari e alla perdita di affidabilità dell’impresa, con la conseguente perdita di fiducia degli stakeholders e difficoltà ad accedere a nuovo credito; nel secondo stadio, si realizza la vera esplosione della crisi che riverbera le sue conseguenze negative anche sugli stakeholders. Questo stadio può manifestarsi nelle forme dell’insolvenza, cioè incapacità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, oppure in quelle del più grave dissesto. Mentre la prima situazione è ancora recuperabile, nonostante «qualsiasi intervento riparatore [appaia] problematico, spesso tardivo e con probabilità di successo assai ridotte», in caso di dissesto, invece, lo squilibrio patrimoniale, economico e finanziario è irrecuperabile senza il consenso dei creditori a rinunciare parzialmente o integralmente alle proprie pretese. 64 Trib. Milano, [decreto] 3 ottobre 2019, n. 1357, in Il fallimentarista, 10 ottobre 2019 (commentato da: Sanzo, Istanza di fallimento, cit.; Della Santina, Crisi d’impresa, cit.; nonché da Spiotta, Insolvenza, cit., p. 124). Invero, la situazione in cui versava la s.p.a. interessata dalla pronuncia potrebbe essere classificata come una twilight zone partico-

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Il problema principale legato alla twilight zone, comunque, è sempre stato quello di individuare la disciplina ad essa applicabile, posto che si tratta di una fase non appartenente propriamente né al diritto societario né a quello concorsuale-fallimentare.

8. Il piano di risanamento attestato nella Legge fallimentare. Nel sistema della Legge fallimentare, uno strumento che non richiede una crisi particolarmente qualificata è rappresentato dal piano di risanamento attestato di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l.fall. Il piano attestato, che non è considerato una procedura concorsuale65, si presenta come uno strumento extragiudiziale, agile e duttile, per fronteggiare la crisi; inoltre, essendo pubblicabile solo su richiesta del debitore, fa della riservatezza il suo punto di forza66. Si tratta, quindi, di uno strumento meramente “inter-

larmente grave ed avanzata. Nella specie, la società, operante nel settore del trasporto turistico via mare, aveva recentemente dovuto vendere i suoi due navigli di maggior pregio per poter ripianare i propri debiti. Ciò senz’altro era prova di una situazione finanziaria potenzialmente instabile. Tuttavia, il tribunale ha osservato che: la società non aveva alcuna esposizione debitoria tributaria o previdenziale; non risultava incapace di far fronte alle obbligazioni scadute, essendo recentemente rientrata nei confronti delle banche; non era inadempiente nei confronti dei ricorrenti, il cui credito scadrà nel 2023; la sua attività funzionava regolarmente. Sulla base di queste considerazioni, il giudice ha escluso la sussistenza dell’insolvenza, sia attuale, sia prospettica, in quanto non poteva affermarsi con esattezza che la società sarebbe divenuta insolvente in un arco di tempo breve. Dalla lettura del decreto si nota un aspetto che è già stato messo in luce supra (par. 4): l’importanza della capacità di accedere al credito. Infatti, nel momento del processo, la società godeva ancora della fiducia delle banche, le quali confidavano nel fatto che essa sarebbe stata in grado di ripianare i propri debiti mediante la continuità aziendale, o, nella peggiore delle ipotesi, mediante la vendita di beni (che, nel caso di specie, trattandosi di navi, possedevano un valore tale da rappresentare comunque una sufficiente garanzia). Questa pronuncia, sotto un altro aspetto sarà ripresa infra, nel par. 10, sub nota 94. 65 In tal senso, in giurisprudenza, v. Cass., 25 gennaio 2018, n. 1895, in Foro it., 2018, I, 1275, secondo la quale «il piano di risanamento ex articolo 67 non è una “procedura concorsuale”. La sua natura non partecipa, per essere più precisi, né al primo, né al secondo termine della richiamata espressione». Nello stesso senso, in dottrina, v. Meo, I piani “di risanamento” previsti dall’art. 67, l. fall., in Giur. comm., 2011, I, p. 32; Ambrosini e Aiello, I piani attestati di risanamento: questioni interpretative e profili applicativi, in www.ilcaso.it, 11 giugno 2014, p. 4. 66 Cfr., autorevolmente, Montalenti, La gestione dell’impresa, cit., p. 822; nonché, di recente, Musardo, Esecuzione del piano di risanamento attestato e responsabilità degli

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no” all’impresa che non impedisce la dichiarazione giudiziaria di insolvenza e l’apertura di procedure concorsuali; pertanto, affinché sia veramente efficace deve essere attuato tempestivamente, quando la crisi, essendo in fase precoce, può ancora essere gestita «in casa»67. Ciò non toglie, comunque, che è ben possibile utilizzare il piano attestato anche quando l’impresa già versi in condizioni di insolvenza68, purché reversibile69. I caratteri di riservatezza dell’istituto, però, non devono far ritenere che i creditori siano del tutto estranei all’adozione del piano: essendo esso finalizzato al risanamento dell’esposizione debitoria e al riequilibrio della situazione finanziaria, di norma sarà richiesto l’accordo con i creditori – o almeno con alcuni di essi – al fine di realizzare una ristrutturazione del debito70. Tali accordi, tuttavia, pur essendo quasi sempre essenziali alla buona riuscita del piano, secondo parte della dottrina71

amministratori (nota a Trib. Milano, 6 marzo 2019), in Giur. it., 2019, p. 2456. 67 Così, Meo, I piani “di risanamento”, cit., p. 32. 68 Ciò, tuttavia, è infrequente, poiché in una situazione di insolvenza è preferibile il ricorso agli altri strumenti previsti dall’ordinamento, i quali offrono maggiori garanzie per i creditori (tra cui l’intervento dell’autorità giudiziaria) e maggiori vantaggi per l’impresa (tra cui la sospensione delle azioni esecutive e la possibilità di ottenere nuova finanza più facilmente grazie alla prededucibilità dei crediti). 69 Infatti, uno stato di decozione irrecuperabile non pare compatibile con l’obiettivo di «consentire il risanamento della esposizione debitoria» e «assicurare il riequilibrio della […] situazione finanziaria». Cfr. Ambrosini e Aiello, I piani attestati, cit., p. 13. 70 Cass., 25 gennaio 2018, n. 1895, in Foro it., 2018, I, 1275. In dottrina, v. Ambrosini e Aiello, I piani attestati, cit., p. 4, ove l’affermazione che, «nella pressoché totalità dei casi, il programma di risanamento può essere davvero attuato (e, di conseguenza, fondatamente attestato) solo in presenza di un accordo tra l’imprenditore in difficoltà e i principali creditori». 71 In questo senso, Bozza, Diligenza e responsabilità degli amministratori di società in crisi, in Il fallimento, 2014, p. 1110; Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti “di salvataggio” (o di ristrutturazione dei debiti d’impresa), in Dir. fall., 2008, I, p. 368; Meo, I piani “di risanamento”, cit., p. 33, ove l’affermazione che l’accordo con i creditori, pur non essendo richiesto dalla legge, sarebbe un «presupposto di fatto del piano». Nel senso che il piano abbia natura negoziale, v., ex multis, Macario, Insolvenza, crisi d’impresa e autonomia contrattuale. Appunti per una ricostruzione sistematica delle tutele, in Riv. soc., 2008, p. 142; Di Marzio, “Contratto” e “deliberazione” nella gestione della crisi d’impresa, in Autonomia negoziale e crisi d’impresa, a cura di Di Marzio e Macario, Milano, 2010, p. 83. Nel senso che l’art. 67, co. 3, lett. d), l.fall., nonostante sia incentrato sul piano in quanto atto dell’imprenditore, di fatto presupponga – benché implicitamente – un momento contrattuale, facendo così rientrare il piano di risanamento attestato a pieno titolo tra le “soluzioni negoziali della crisi”, v. Ambrosini e Aiello, I piani attestati, cit., pp. 7 s.

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rimangono estranei al piano, che si presenta come un atto unilaterale dell’imprenditore. Tralasciando il dibattito circa la possibilità che il piano abbia un contenuto liquidatorio72, si può affermare che questo strumento è, nella normalità dei casi, finalizzato all’obiettivo di risanare l’impresa e risolvere la crisi. Tuttavia, tale finalità rileva solo sul piano delle motivazioni interne che hanno mosso l’imprenditore a promuovere l’adozione dello strumento. Sul piano giuridico, invece, l’istituto rileva in quanto non sia riuscito ad evitare l’aggravamento della crisi. Pertanto, i principali effetti del piano si producono solo una volta che, per il suo insuccesso, si sia aperto il fallimento. Gli effetti di cui si tratta consistono73 nell’esenzione dall’azione revocatoria74 per gli atti posti in essere in esecuzione del

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In giurisprudenza, nel senso che è radicalmente esclusa la possibilità di perseguire finalità liquidatorie con il piano di risanamento, v. Trib. Ancona, 27 giugno 2017, in Giur. it., 2018, 1149, con nota di Boggio. In dottrina, in senso quantomeno dubitativo, v. Ambrosini e Aiello, I piani attestati, cit., p. 18; invece, nel senso che è possibile utilizzare il piano a scopo liquidatorio, v. Meo, I piani “di risanamento”, cit., p. 32. Sul tema, cfr. Fabiani, Il piano attestato di risanamento dopo il codice della crisi, in Foro it., 2020, V, c. 93 ss. Una disamina delle diverse posizioni è rinvenibile in Stanghellini e Zorzi, Il piano di risanamento attestato, in Trattato delle procedure concorsuali, vol. V, diretto da Jorio e Sassani, Milano, 2017, pp. 550 ss. 73 Per il piano di risanamento non sono previsti alcuni degli incentivi e delle tutele offerte, invece, al concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione, tra cui la protezione dalle azioni esecutive e la prededucibilità nel successivo fallimento dei cc.dd. crediti “in funzione”, “in esecuzione” e “in occasione”. 74 Per un caso di risanamento tentato tramite il piano di risanamento attestato e per la conseguente esenzione da revocatoria, v. Trib. Roma, 22 aprile 2013, in Il Fallimentarista, 18 aprile 2014, con nota di Bosticco. Il fallimento di una nota società romana attiva nel campo edilizio aveva domandato al giudice la dichiarazione di nullità o, in subordine, di revoca (fallimentare o, ancora in subordine, ordinaria) dell’accordo risolutivo di un contratto di leasing in virtù del quale la società in questione era concessionaria di un immobile di pregio, utilizzato come sede sociale. Il giudice romano, dopo aver escluso l’ipotesi della nullità, poiché un contratto che danneggia i creditori non può, solo per tale motivo, essere considerato nullo, specifica che esso potrà, se del caso, essere aggredibile con i rimedi posti a tutela della par condicio creditorum, cioè con il sistema delle azioni revocatorie. Tuttavia, nella vicenda in esame, il fatto che lo scioglimento del contratto fosse ricompreso in un piano di risanamento portava il giudice a respingere anche la seconda domanda avanzata dal curatore. Inoltre, il Tribunale ha negato altresì la possibilità per il curatore di esperire l’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c., poiché, pur riconoscendo «la non applicabilità diretta dell’esenzione di cui all’articolo 67 l.fall. anche all’azione revocatoria ordinaria, in quanto non contemplata dalla disposizione di legge», l’esistenza del piano di risanamento escludeva la scientia damni (o partecipatio fraudis) della controparte.

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piano (art. 67 l.fall.) e, per i medesimi atti, nell’esenzione dai reati di bancarotta semplice e c.d. preferenziale (art. 217-bis l.fall.)75. Le descritte caratteristiche del piano (l’elasticità di contenuto, la riservatezza, la rapidità di adozione) l’hanno reso lo strumento più adatto per l’immediato intervento dinanzi ai primi segnali del declino; in altre parole, lo strumento precipuo per fronteggiare la twilight zone76. Naturalmente, per un’efficace prevenzione della crisi, questo strumento deve coordinarsi con le regole del diritto societario riguardanti la predisposizione di assetti organizzativi e sistemi di controllo idonei a cogliere i segnali premonitori della decadenza77. Su quest’ultimo aspetto si tornerà infra, nel par. 10.

9. Il piano di risanamento attestato nel Codice della crisi. Il panorama della twilight zone ora descritto è mutato con il nuovo Codice della crisi. L’art. 56 CCI prevede espressamente i presupposti dello “stato di crisi” o dello “stato di insolvenza”78 per l’adozione del piano79. Riguardo le

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Relativamente all’esenzione dai reati di bancarotta, sull’estensione da attribuire all’espressione «pagamenti e […] operazioni compiuti in esecuzione di» un piano di risanamento attestato, v., di recente, Abriani e Benedetti, Finanziamenti all’impresa in crisi e abusiva concessione di credito: un ulteriore frammento della disciplina speciale dell’impresa in crisi, in Banca, borsa, tit. cred., 2020, I, pp. 62 s., i quali propendono per un’interpretazione estensiva dell’espressione “in esecuzione”, tale da farvi rientrare anche operazioni prodromiche e funzionali all’elaborazione del piano, nonché cronologicamente anteriori ad esso (nello stesso senso, nella dottrina penalistica, Mucciarelli, L’esenzione dai reati di bancarotta, in Diritto penale e processo, 2010, p. 1478). In senso contrario, nella dottrina penalistica, Amarelli, I delitti di bancarotta alla luce del nuovo art. 217 bis l. fall.: qualcosa è cambiato?, in La giustizia penale, 2011, II, p. 547; nella dottrina commercialistica, A. Nigro, La responsabilità delle banche nell’erogazione del credito alle imprese in crisi, in Giur. comm., 2011, I, p. 317. 76 Montalenti, La gestione dell’impresa, cit., pp. 822 s. 77 Montalenti, La gestione dell’impresa, cit., p. 825, le cui affermazioni dimostrano – se ve ne fosse bisogno – che il dovere di istituire assetti organizzativi tali da permettere una tempestiva rilevazione della crisi non rappresenta affatto una novità introdotta nell’ordinamento dal novellato art. 2086 c.c. Su questi aspetti si tornerà infra, par. 10. 78 Ciò dimostra, ancora una volta, che lo stato di insolvenza non è incompatibile con l’obiettivo del risanamento. Cfr. Fauceglia, Il piano di risanamento nel Codice della crisi e dell’insolvenza, in Il fallimento, 2019, p. 1282; Ambrosini, Crisi e insolvenza, cit., p. 26. 79 Invece, il progetto di Codice della crisi pubblicato in data 8 novembre 2018 non richiedeva, in continuità con la legge fallimentare, specifici presupposti oggettivi per l’adozione del piano di risanamento.

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finalità dello strumento, l’impostazione culturale che permea il Codice della crisi dovrebbe suggerire che l’unico obiettivo perseguibile con il piano sia il recupero della continuità aziendale e la prosecuzione dell’attività80. La stessa relazione illustrativa al Codice afferma espressamente che il piano è riservato alle ipotesi di continuità aziendale. La nuova disciplina detta una compiuta regolamentazione del piano attestato, prevedendone contenuti e requisiti formali; inoltre, richiede che sia «rivolto ai creditori». Quest’ultima precisazione, unita alla rubrica dell’articolo «accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento», potrebbe far propendere per un’interpretazione secondo la quale il piano necessiti di una soluzione negoziale per dispiegare efficacia. Il che, invero, come si è già osservato supra81, avviene nella normalità dei casi, essendo di difficile realizzazione un risanamento in assenza di ristrutturazione del debito. Ad ogni modo, considerando il dato letterale in base al quale il piano è “rivolto” e non “proposto” ai creditori, è possibile inferire che esso mantenga la natura di atto unilaterale82. Sulla base di questi ragionamenti, si può ritenere che il piano rappresenti un prius rispetto ai successivi contratti conclusi con i creditori83. A conferma di ciò, anche la rubrica «accordi in esecuzione di piani attestati…» suggerisce l’idea che l’istituto rappresenti una fattispecie a formazione progressiva nella quale si susseguono il piano, con la relativa attestazione, e gli accordi “esecutivi” con i creditori84. Quindi, la novità sembrerebbe risiedere nei più stringenti requisiti necessari per l’applicazione della disciplina di favore dedicata all’istituto, consistente, anche nel Codice della crisi, nell’esenzione dall’azione revocatoria (art. 166, co. 3, lett. d, CCII)85 e dai reati di bancarotta semplice

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Zorzi, Piani di risanamento e accordi di ristrutturazione nel codice della crisi, in Il fallimento, 2019, p. 994. 81 Nel paragrafo che precede. 82 Infatti, se il piano avesse natura negoziale sarebbe necessaria una contrattazione basata sul consueto binomio proposta-accettazione. 83 Fauceglia, Il piano di risanamento, cit., p. 1283; Nardecchia, Il piano attestato di risanamento nel codice, in Il fallimento, 2020, p. 10; Fabiani, Il piano attestato, cit., c. 93 ss. 84 Nardecchia, Il piano attestato, cit., p. 10. 85 Con riferimento al piano di risanamento disciplinato dalla Legge fallimentare si era posto il dubbio (sciolto, per lo più, in senso negativo) sulla possibilità di estendere l’efficacia dell’esenzione di cui all’art. 67 l.fall. anche all’azione revocatoria ordinaria. In senso affermativo si esprimono ora le lettere d) ed e), del co. 3, dell’art. 166 CCII, così risolvendo il contrasto giurisprudenziale sul punto. Cfr. Relazione illustrativa al CCII, art.

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e preferenziale (art. 234 CCI). Infatti, mentre, nel sistema della Legge fallimentare, il piano, una volta attestato, poteva giovarsi dei suddetti benefici anche a prescindere da eventuali accordi con i creditori, invece, nel sistema disegnato dal Codice della crisi, sembrerebbe che il piano, per godere delle esenzioni, debba necessariamente essere seguito dagli accordi. Solo la realizzazione dell’intera fattispecie a formazione progressiva determinerebbe l’applicazione delle esenzioni. Tuttavia, sul piano strettamente letterale, le impressioni appena esposte sembrano confermate solo con riguardo all’esenzione dai reati di bancarotta, e non – o almeno non necessariamente – con riguardo all’esenzione dall’azione revocatoria. Infatti, a tenore dell’art. 324 CCI, i suddetti reati «non si applicano ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione […] degli accordi in esecuzione del piano attestato». La ripetizione dell’espressione “in esecuzione” – che senza dubbio non è eufonica – è esplicita in tal senso: il piano attestato, da solo, non scrimina. A riprova di ciò, si noti la differente formulazione dell’art. 217-bis l.fall., il quale riconosceva l’esenzione dai suddetti reati «ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione […] del piano di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d)», e non ai pagamenti e alle operazioni compiuti “in esecuzione degli accordi in esecuzione…”. Relativamente all’esenzione dalla revocatoria, invece, l’art. 166, co. 3, lett. d), CCI ha mantenuto formulazione analoga a quella dettata dall’art. 67, co. 3, lett. d), l.fall.: non sono soggetti a revocatoria «gli atti, i pagamenti effettuati e le garanzie concesse su beni del debitore posti in essere in esecuzione del piano attestato…». In questo caso, non essendo presente la formula “in esecuzione degli accordi in esecuzione…”, si potrebbe ritenere che anche atti (per esempio il pagamento di un debito in scadenza) previsti dal piano, ma non rinegoziati con i creditori, possano godere dell’esenzione dalla revocatoria. La formulazione della lett. d)

166. Sul tema, cfr. Fabiani, Il piano attestato, cit., c. 93 ss., secondo il quale, «visto che viene esentata anche l’azione revocatoria ordinaria, si assiste ad uno sganciamento tra debitore assoggettabile a liquidazione giudiziale e debitore destinatario degli effetti del piano, talché si può concludere, ma solo per questo motivo, che il piano può essere organizzato anche da un debitore che non sarà sottoponibile alla liquidazione giudiziale». In giurisprudenza, cfr. Cass., 8 febbraio 2019, n. 3778, in Il fallimento, 2019, 599, con nota di Brogi, che, non essendo ancora entrato in vigore il nuovo codice (in proposito, v. supra, nt. 1), nega la possibilità di estendere l’esenzione di cui all’art. 67, co. 3, l.fall. alla revocatoria ordinaria.

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cit. permetterebbe questa conclusione; tuttavia, la rubrica e la disciplina dell’art. 56 CCI sembrerebbero deporre in senso contrario. Effettivamente, la soluzione interpretativa che propende per la necessaria negozialità sembra la più conforme all’intentio legislatoris86, poiché rende giustizia alla grande centralità che la nuova disciplina attribuisce agli “accordi in esecuzione”. Se così fosse, comunque, un migliore coordinamento tra l’art. 166, co. 3, lett. d), e l’art. 324 CCI sarebbe più che opportuno. Ad ogni modo, nonostante il maggior grado di dettaglio della disciplina ora dedicata al piano di risanamento, la caratteristica della riservatezza non sarebbe persa del tutto, poiché: da un lato, la pubblicazione nel registro delle imprese rimane facoltativa87; dall’altro, l’art. 56 CCI non specifica che il piano sia rivolto a tutti i creditori, né a una particolare percentuale di essi, a differenza di quanto richiede il successivo art. 57 CCII per gli accordi di ristrutturazione. Quindi, potrebbe rimanere valida l’ipotesi che il piano venga reso noto soltanto ai creditori la cui collaborazione è indispensabile per la buona riuscita del risanamento. D’altro canto, questa conclusione è confermata dal tenore letterale della disposizione della lett. d) dell’art. 56 CCI, in base alla quale il piano deve indicare «i creditori e l’ammontare dei crediti dei quali si propone la rinegoziazione e lo stato delle eventuali trattative, nonché l’elenco dei creditori estranei, con l’indicazione delle risorse destinate all’integrale soddisfacimento dei loro crediti alla data di scadenza», con ciò lasciando

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Cfr., sul punto, Nardecchia, Il piano attestato, cit., p. 10, secondo il quale l’istituto è ormai «necessariamente bifasico». L’Autore afferma anche che «il legislatore ha preso atto che qualsiasi processo di ristrutturazione dell’impresa deve essere necessariamente accompagnato da una ristrutturazione del debito». Tuttavia, a quest’ultima affermazione si potrebbe anche obiettare (sulla scorta delle Linee-guida per il finanziamento alle imprese in crisi, Univ. Firenze, Assonime, Cndcec, seconda edizione, 2015, p. 9) che, forse, il legislatore non ha preso atto del fatto che «il piano di risanamento si fonda di regola anche su accordi con i principali creditori diretti a ristrutturare l’indebitamento, ma ciò non è essenziale secondo la norma, sì che il piano potrebbe in teoria basarsi anche soltanto sulla dismissione di cespiti non necessari all’imprenditore e/o sull’acquisizione di risorse da nuovi finanziatori». 87 Si segnala che il decreto correttivo al CCI (sul quale v. supra, nt. 43) ha modificato l’art. 56 CCI, prevedendo che la facoltà di pubblicazione debba riguardare, oltre al piano (unico elemento contemplato dalla formulazione originaria), anche l’attestazione e gli accordi conclusi con i creditori.

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intendere che non tutti i creditori devono partecipare alle rinegoziazioni88. Diversamente, gli “accordi di ristrutturazione dei debiti” ex art. 57 CCII richiedono espressamente che la stipula abbia interessato creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento dei crediti (co. 1). Al riguardo, si è osservato che il piano di risanamento, dopo essere stato formulato dall’imprenditore, e una volta che sia stato oggetto di accordo con i creditori, rappresenterebbe la base per l’adozione di un accordo di ristrutturazione dei debiti89. Infatti, l’art. 57 CCI richiede (co. 1) gli stessi presupposti dell’art. 56 CCI, cioè lo stato di crisi o di insolvenza, ed afferma espressamente (co. 2) che «il piano deve essere redatto secondo le modalità indicate dall’art. 56». Allora, la differenza tra i due strumenti consisterebbe nel fatto che per gli accordi di ristrutturazione è richiesta, oltre al piano e all’accordo con i creditori, anche una maggioranza qualificata di questi ultimi e, soprattutto, l’omologazione ai sensi dell’art. 44 CCI. Inoltre, ulteriore differenza consisterebbe nell’estensione dell’esenzione dall’azione revocatoria: per il piano di risanamento l’esenzione riguarda gli atti compiuti in sua esecuzione e in esso indicati (art. 166, co. 2, lett. d, CCI); per l’accordo di ristrutturazione l’esenzione riguarda anche gli atti posti in essere dopo il deposito della domanda di accesso (art. 166, co. 2, lett. e, CCI)90. Queste essendo le principali caratteristiche del nuovo piano di risanamento91, è necessario valutare, in ottica sistematica, in quale contesto esso è calato. Tale proposito richiede una succinta analisi del novellato art. 2086, co. 2, c.c.

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Si segnala che la seconda parte della disposizione riportata nel testo («nonché l’elenco dei creditori estranei, con l’indicazione delle risorse destinate all’integrale soddisfacimento dei loro crediti alla data di scadenza») è stata aggiunta dal decreto correttivo al CCI (sul quale v. supra, nt. 43), che, in tal modo, ha sancito in maniera ancor più esplicita che non tutti i creditori devono essere coinvolti nelle negoziazioni. 89 Di Marzio, Obbligazione, insolvenza, impresa, Milano, 2019, p. 150. Cfr. Panzani, Il preventive restructuring framework, cit., p. 29. 90 Come nota Di Marzio, Obbligazione, insolvenza, cit., p. 150, «la sottoposizione dell’accordo su piano attestato a una procedura di omologazione determina la qualificazione dello stesso come accordo di ristrutturazione dei debiti con gli ulteriori vantaggi protettivi» (sottolineatura aggiunta). 91 Per un’ulteriore disamina della nuova disciplina del piano attestato si rinvia ai già citati: Fauceglia, Il piano di risanamento, cit., p. 1281; Nardecchia, Il piano attestato, cit., p. 5; Zorzi, Piani di risanamento e accordi, cit., p. 993.

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10. Il nuovo contesto normativo: cenni sul novellato art. 2086 c.c. (anche alla luce di alcune recenti pronunce del Trib. Milano). Si tralasciano, in questa sede, molti dei problemi sistematici che scaturiscono dal novellato art. 2086, co. 2, c.c.92, per dedicare l’attenzione esclusivamente agli aspetti rilevanti ai fini del presente contributo. Si ipotizzi di trovarsi dinanzi ad una società i cui amministratori abbiano già diligentemente rilevato i segnali premonitori della crisi (dovere che è ora espressamente imposto dall’art. 2086 c.c., ma che era già ricavabile dal sistema antecedente93) e si trovino, quindi, a dover decidere se e come agire. Il primo quesito da sciogliere, legato all’an, è di semplice soluzione: l’art. 2086 c.c. impone l’obbligo di “reagire” alla crisi94. A ben vedere,

92 La produzione è torrenziale. Si segnalano, ex plurimis: Fortunato, Codice della crisi e Codice civile; impresa, assetti organizzativi e responsabilità, in Riv. soc., 2019, p. 952; Rordorf, Doveri e responsabilità degli organi di società alla luce del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Riv. soc., 2019, p. 929; Ferri jr. e M. Rossi, Prime osservazioni in tema di gestione dell’impresa organizzata in forma societaria, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, p. 1093; Ambrosini, L’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e il rapporto con le misure di allerta nel quadro normativo riformato, in www.ilcaso.it, 15 ottobre 2019; Benazzo, Il Codice della crisi di impresa e l’organizzazione dell’imprenditore ai fini dell’allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario?, in Riv. soc., 2019, p. 274; Abriani e A. Rossi, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Le società, 2019, p. 393; Cian, Crisi dell’impresa e doveri degli amministratori: i principi riformati e il loro possibile impatto, in Nuove leggi civ., 2019, p. 1160; Mucciarelli, Doveri degli amministratori di società in crisi, lex concursus e sovranità nazionale, in Nuove leggi civ., 2020, p. 698; Tullini, Assetti organizzativi dell’impresa e poteri datoriali. La riforma dell’art. 2086 c.c.: prima lettura, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2020, I, p. 135; Manca, Assetti adeguati, cit., passim; Calandra Buonaura, Amministratori e gestione dell’impresa nel Codice della crisi, in Giur. comm., 2020, I, p. 5; Spolidoro, Note critiche sulla «gestione dell’impresa» nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. soc., 2019, p. 253. 93 Come è stato ampiamente affermato in dottrina, che i gestori dell’impresa avessero l’obbligo di rilevare i segnali della crisi era acquisizione già immanente al sistema stesso e ricavabile da molte disposizioni del codice civile (tra cui gli artt. 2392, 2381, 2403, 2497, 2446, 2447, 2423-bis, 2428 c.c.). Cfr. Calandra Buonaura, L’amministrazione delle società per azioni nel sistema tradizionale, Torino, 2019, p. 306; Brizzi, Doveri degli amministratori, cit., pp. 205 s.; Rordorf, Doveri e responsabilità degli amministratori di società di capitali in crisi, in Le società, 2013, p. 671. 94 Si segnala, in proposito, che un recente decreto del Trib. Milano (del quale si è già parlato supra, par. 7, sub nota 64) offre un’interessante lettura dell’obbligo di reazione di cui all’art. 2086 c.c. In particolare, il giudice, pur negando la sussistenza dello stato di

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comunque, a questa conclusione si poteva pervenire anche in base ai principi del diritto societario: il compito degli amministratori di gestire l’impresa e di svolgere le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale è incompatibile con un loro atteggiamento di apatico disinteresse per l’attività95. Non a caso, di recente, il Trib. Milano96 – in una delle prima applicazioni del novellato art. 2086 c.c. – ha riconosciuto, su domanda dei

insolvenza di una società per azioni, ha riscontrato che questa si trovava in una situazione potenzialmente instabile e ha “avvertito” gli amministratori della necessità di adottare uno degli strumenti di regolazione della crisi offerti dall’ordinamento. Inoltre, il tribunale ha colto l’occasione per ricordare agli amministratori in quali responsabilità incorrono in caso di violazione dell’art. 2086 c.c. Identico monito è mosso anche al collegio sindacale, il quale, per parte sua, dovrebbe stimolare l’organo gestorio ad affrontare adeguatamente la crisi. La particolarità del decreto risiede nel fatto che esso è stato pronunciato su istanza dei creditori, i quali, presumibilmente, avevano domandato al tribunale la declaratoria di fallimento pur nella consapevolezza che non ve ne fossero i presupposti. Il giudice non ha condannato i creditori per lite temeraria sia in ragione della “novità” della questione, sia in ragione del fatto che sussumere la situazione di crisi nell’insolvenza prospettica non è ragionamento privo di logica. Alla luce di ciò, è stato osservato che questa pronuncia potrebbe aprire una nuova stagione del diritto della crisi: quella in cui il creditore può “forzare” la mano presentando un’istanza di fallimento, «con l’auspicio che il giudice, pur rigettando l’istanza, finisca per “suggerire” caldamente al debitore di aprire un percorso di risanamento» (così, Sanzo, Istanza di fallimento, cit., p. 3). Relativamente a quest’ultima osservazione, tuttavia, si potrebbe anche affermare l’esatto contrario: una volta che le questioni interpretative sul dovere di attivazione ex art. 2086 c.c. si saranno appianate, è ben possibile che i tribunali, in casi analoghi a quello prospettato, condannino i creditori per lite temeraria. Si segnala che l’avvertimento del giudice ha sortito l’effetto sperato: gli amministratori della società in questione, nel mese di febbraio 2020, hanno negoziato con i creditori un accordo di standstill, nell’attesa di definire un piano per il risanamento, che inizialmente sembrava dovesse essere attuato mediante l’istituto dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (Festa, Moby cerca la tregua e apre a un accordo con gli obbligazionisti, in IlSole24ore, 11 febbraio 2020; Festa, Moby, dialogo con il Tribunale. Va allo sprint finale con gli hedge, in IlSole24ore, 28 maggio 2020). In seguito, la gravità della situazione ha suggerito il ricorso al più incisivo strumento del concordato con riserva (c.d. concordato in bianco), al quale la società è stata ammessa con il provvedimento Trib. Milano, [decreto] 9 luglio 2020, in www.portalecreditori.it (Giacobino, Moby e Cin (Onorato) salvate dal fallimento, in ItaliaOggi, 14.7.2020). 95 Angelici, Interesse sociale e business judgement rule, in Riv. dir. comm., 2012, I, p. 575; e, meno diffusamente, Id., La società per azioni. Principi e problemi, in Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, 2012, p. 390 sub nota 98. 96 Trib. Milano, 18 ottobre 2019, in Giur. it., 2020, 365, con commento di Cagnasso, Denuncia di gravi irregolarità: una primissima pronuncia sul nuovo art. 2086 c.c.

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collegi sindacali di due società per azioni, la sussistenza di gravi irregolarità ai sensi dell’art. 2409 c.c. nella condotta degli amministratori i quali, consapevoli della crisi in atto, non hanno provveduto ad adottare alcuno strumento per fronteggiare la crisi, limitandosi a “cercare” nuovi acquirenti delle azioni sociali. I gestori, infatti, «lungi […] dall’aver prospettato un proprio impegno circa l’adozione delle misure necessarie», si sono solo limitati «a dichiararsi disponibili alla redazione di una situazione patrimoniale aggiornata»97. Il secondo quesito da sciogliere, legato al quomodo, è più complesso. Anzitutto, se l’impresa si trova in stato di piena ed irrecuperabile decozione, la scelta gestionale più efficiente sarebbe quella liquidatoria (fallimento-liquidazione giudiziale). Peraltro, sarebbe possibile optare per questa via anche quando non è stata accertata la sussistenza di uno stato di insolvenza, e quindi – come è stato recentemente ribadito da un’altra pronuncia del Trib. Milano98 – anche mediante l’ordinario procedimento di liquidazione.

97 In particolare, il Tribunale ha ritenuto che le dichiarazioni degli amministratori erano espressione di «un vero e proprio stato di crisi» e, pertanto, avrebbero comportato l’applicazione dell’art. 2086, co. 2, c.c. La situazione dipinta dai gestori, infatti, era la seguente: - era stato contattato un fondo per il potenziale acquisto delle azioni, il quale, però, aveva comunicato di riservare ogni manifestazione di interesse all’esito del procedimento; - in caso di non reperimento di finanziatori si sarebbe potuta prospettare la cessione di alcune delle farmacie rientranti nel patrimonio delle società; - vi era la necessità che le società venissero ricapitalizzate, comunque essendo assicurata l’attività corrente; - le società erano in grado di far fronte alle obbligazioni correnti ma non avevano risorse finanziarie per sistemare le posizioni debitorie risalenti. Le ultime due affermazioni (riportate in corsivo) sono particolarmente significative, in quanto dimostrano il differente modo di manifestarsi dello squilibrio economico e di quello finanziario: per un verso, le imprese risultano essere in equilibrio economico, quindi redditizie (o almeno così si desume, in assenza di ulteriori dettagli forniti dalla pronuncia, dal fatto che le società riuscissero a pagare i costi correnti); per altro verso, le imprese risultano essere in squilibrio finanziario, poiché la possibilità di coprire i costi correnti non assicura di coprire le ingenti esposizioni debitorie assunte nel tempo. Su questi concetti, v. supra, par. 3. 98 Trib. Milano, 3 dicembre 2019, n. 11105, in www.dejure.it. In breve: il tribunale ha negato la sussistenza di responsabilità gestoria in capo all’amministratore di una s.r.l. semplificata, il quale, una volta riscontrate perdite di esercizio, ha prontamente deliberato, nella sua veste di socio unico, la liquidazione della società. Il fatto che la motivazione menzioni, tra i doveri gestionali che l’amministratore ha correttamente osservato, anche il dovere di pronta “reazione” di cui all’art. 2086 c.c. dimostra che tale disposizione non impone necessariamente il risanamento delle imprese in difficoltà. E ciò, nonostante l’impostazione “culturale” del nuovo codice sia dichiaratamente ispirata

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In ogni caso, non può trascurarsi che l’amministratore diligente dovrebbe cogliere i segnali della crisi ben prima del sopraggiungere di una situazione irrecuperabile: in quel momento sorgerebbe un dovere di risanamento (c.d. turnaround), espressione dello stesso dovere di perseguire l’oggetto sociale e lo scopo lucrativo con diligenza99. Qualsiasi risanamento richiede un elemento essenziale: l’elaborazione di un piano. Il piano rappresenta l’architrave sia degli istituti disciplinati dall’ordinamento per fronteggiare la crisi, sia degli eventuali strumenti di risanamento meramente “privati” (riorganizzazione aziendale, cessione di assets, reperimento di nuova finanza, nonché accordi con i creditori stipulati senza il ricorso agli strumenti del diritto concorsuale)100. Dal punto di vista aziendalistico, il piano rappresenta un unico strumento adattabile a tutte le ipotesi di crisi; esso, però, può subire variazioni a seconda dello strumento giuridico utilizzato. Con riguardo alla twilight zone, si è osservato (supra, par. 8) che lo strumento più adatto sarebbe il piano attestato di risanamento, poiché: per l’adozione di esso non è richiesto alcun presupposto particolarmente qualificato (né stato di crisi, né insolvenza); garantisce riservatezza; è di contenuto duttile e di rapida attuazione. Comunque, ciò non toglie che, in alternativa al piano attestato, la twilight zone può essere affrontata con meri accordi “privati”, godendo così di ancor maggiore flessibilità (posto che non è necessaria alcuna attestazione), ma rinunciando ai benefici “protettivi” del piano attestato. Queste affermazioni sono senz’altro valide con riferimento al sistema della Legge fallimentare.

dall’ambizione di incentivare il recupero, piuttosto che la dissoluzione, delle imprese in difficoltà (rescue culture). D’altro canto, una diversa interpretazione dell’art. 2086 c.c. sarebbe foriera di inefficienti “accanimenti terapeutici” (l’espressione è di D’Alessandro, La crisi dell’impresa tra diagnosi precoci e accanimenti terapeutici, in Giur. comm., 2001, I, p. 416, il quale, in seguito, ha riutilizzato la medesima locuzione in Id., Efficienza e giustizia distributiva nelle procedure concorsuali, in Riv. dir. comm., 2018, I, p. 383, al fine di ammonire sui rischi insiti nell’esasperazione della rescue culture a cui è ispirato il Codice della crisi). 99 Brizzi, Doveri degli amministratori, cit., pp. 214 ss., il quale, inoltre, valorizza anche la modifica, intervenuta con la riforma del 2003, con cui si è sostituita la parola “atti” in “fatti” nell’articolo 2392, co. 2, c.c.: ciò sarebbe ulteriore conferma che il dovere di intervento degli amministratori dipende da qualsiasi elemento che possa pregiudicare la stabilità dell’impresa sociale. 100 Come si è già osservato (supra, par. 8 e 9), nella normalità dei casi, il risanamento richiede negoziazioni con i creditori.

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Atteso che nel sistema disegnato dal Codice della crisi permane la possibilità di individuare una fase crepuscolare (come si è dimostrato supra, par. 6), è ora opportuno verificare se nel nuovo quadro normativo sia ancora possibile fronteggiare questa particolare fase con le medesime iniziative da tempo individuate dalla dottrina. Per fare ciò, si devono spendere alcune ulteriori osservazioni, di carattere sistematico, sul nuovo art. 2086, co. 2, c.c.

11. L’ambizione (irrealizzabile) di completezza del sistema. L’ultimo periodo del nuovo secondo comma dell’art. 2086 c.c. impone espressamente, una volta rilevata la crisi, «di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento». Apparentemente, sembrerebbe che non vi sia altra possibilità fuorché adottare gli strumenti previsti dal Codice (accordi in esecuzione di piani di risanamento attestati, accordo di ristrutturazione dei debiti, concordato preventivo). La norma, così formulata, trasmetterebbe l’idea che l’ordinamento già offra una soluzione adatta ad ogni “forma” o “stadio” della crisi; in altre parole, trasmetterebbe l’idea che il sistema sia “completo”101. Inoltre, sembrerebbe che i risanamenti pianificati mediante soluzioni meramente “interne” all’impresa o mediante accordi “privati” con i creditori non siano più ammessi, o almeno che siano trattati con minor favore rispetto al ricorso alle procedure102. Invero, non pare opportuna una lettura così rigida della norma: la dottrina, infatti, non dubita che il risanamento per vie “private” sia rimasto legittimo, nonostante l’in-

101 Cfr. Stanghellini, Il codice della crisi di impresa: una primissima lettura (con qualche critica), in Corr. giur., 2019, p. 453; Meo, La difficile via normativa al risanamento d’impresa, in Riv. dir. comm., 2018, II, p. 620, il quale avanza dubbi sull’«atteggiamento fideistico verso le procedure predisposte dall’ordinamento» che traspare dall’art. 2086, co. 2, c.c. L’inopportunità della disposizione, secondo l’Autore, risiederebbe nel fatto che gli strumenti offerti dall’ordinamento italiano sembrano volti principalmente al trattamento della crisi finanziaria per la tutela dei creditori pregressi, piuttosto che al risanamento dell’impresa. 102 L’accesso a queste ultime, anche in caso di insuccesso, «scriminerebbe» gli amministratori di più e meglio rispetto al risanamento pianificato “privatamente”, quand’anche la scelta per questa seconda opzione poggi su decisioni gestionali corrette e ragionevoli. Così, Meo, La difficile via, cit., p. 620.

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felice formulazione dell’art. 2086, co. 2, c.c. 103 Inoltre, da un punto di vista letterale, anche le operazioni di risanamento attuate in virtù della normale autonomia contrattuale rappresentano uno “strumento previsto dall’ordinamento”104. D’altro canto, se gli strumenti offerti dall’ordinamento fossero veramente sufficienti a coprire tutti i possibili aspetti della crisi, i presupposti oggettivi per l’attivazione di essi dovrebbero essere in grado, a loro volta, di coprire ogni possibile stadio o forma della crisi. Quindi, considerato che i presupposti per l’utilizzo dei menzionati strumenti sono l’insolvenza, la crisi e gli indici per l’attivazione dell’allerta, si deduce che, qualora il concreto “stato di difficoltà” attraversato dall’impresa presenti caratteristiche che sfuggono a tali presupposti, questo stato non sarebbe risolvibile mediante gli istituti giuridici predisposti dal legislatore. In altre parole, la constatazione è elementare: se tutti gli strumenti esistenti richiedono determinati presupposti, quando non si verificano quei presupposti non è possibile attivare nessuno di quegli strumenti. L’impressione è che il legislatore della riforma abbia ambito a costruire un sistema il più possibile “completo”, capace di racchiudere negli schemi legislativi l’infinita varietà delle cause che possono incrinare la stabilità di un’impresa.

12. La mancanza di uno strumento per la “nuova” twilight zone. Come si è già dimostrato, il sistema degli strumenti per la regolazione della crisi non è completo, in quanto permane una twilight zone. Si presenta, allora, la questione di individuare quali siano gli strumenti più adatti ad affrontare gli “stadi” o le “forme”105 della crisi che, anche nel sistema del Codice della crisi, rimangono sospesi nel limbo del crepuscolo. A questo punto dell’analisi si pone un problema: per l’utilizzazione del piano di risanamento attestato, l’art. 56 CCI richiede espressamente la sussistenza di uno “stato di crisi” o di uno “stato di insolvenza”, a differenza di quanto era previsto dalla Legge fallimentare che, invece, non richiedeva alcun presupposto oggettivo per il medesimo istituto.

103

Abriani e A. Rossi, Nuova disciplina della crisi, cit., p. 395. Cfr. Cian, Crisi dell’impresa, cit., p. 1170. 104 D’Attorre, Disposizioni temporanee, cit., pp. 600 s. 105 V. supra, par. 6 e 7.

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Il risultato è che tale strumento non sembra essere più utilizzabile per la “nuova” twilight zone, poiché se questa fase è antecedente rispetto al manifestarsi degli indici dell’allerta, che è la procedura precoce per eccellenza, a maggior ragione essa è antecedente anche rispetto al momento individuato dalla nozione di crisi, la quale, come si è già illustrato, appare particolarmente “tardiva”. Non solo, quindi, permane una fase di crisi “atipica”106, ma essa è anche privata dell’unico strumento che la dottrina considerava idoneo alla sua regolazione. Alla luce di tali constatazioni, per affrontare tempestivamente la twilight zone non rimarrebbe altra via al di fuori del risanamento operato tramite riorganizzazione interna o accordi “privati” con i creditori107. Questa soluzione risulta, però, non soddisfacente, poiché sarebbe comunque esclusa la possibilità di giovarsi dei benefici assicurati dal piano attestato di risanamento, cioè l’esenzione dai reati di bancarotta e dall’azione revocatoria fallimentare108. L’assenza di questa seconda tutela, evidentemente, renderebbe i creditori e gli eventuali terzi più diffidenti all’idea di concludere accordi con l’impresa. L’amministratore che intercetti precocemente i segnali di una crisi incipiente, la quale però ancora non presenta le caratteristiche dello “stato di crisi” ex art. 2 CCI, si troverebbe davanti a una scelta: 1) attivarsi tempestivamente, stipulando accordi con i creditori, ma senza che questi possano godere dell’esenzione dall’azione revocatoria; 2) attendere (ne-

106

L’espressione crisi “atipica” è mutuata da A. Rossi, La gestione dell’impresa nella crisi “atipica”, in www.ilcaso.it, 14 ottobre 2015. 107 Tale soluzione non si porrebbe in contrasto con l’art. 2086, co. 2, c.c., poiché, anche se si volesse interpretare quest’articolo in maniera rigida, ritenendo che sia possibile ricorrere solo agli «strumenti previsti dall’ordinamento», si deve comunque considerare che tali strumenti richiedono necessariamente lo “stato di crisi” o lo “stato di insolvenza”; pertanto, è evidente che essi non possono essere utilizzati in una situazione che, come la twilight zone, non corrisponde a nessuno dei suddetti stati. Se ne deduce che durante la fase crepuscolare vigono le normali regole sulla gestione dell’impresa: in altre parole, i doveri di diligente e corretta gestione accompagnati dall’autonomia contrattuale. D’altro canto, ritenere che i gestori, a causa dell’art. 2086 c.c., non possano ricorrere a risanamenti “fatti in casa” sarebbe incompatibile quantomeno con il dovere di diligenza ex art. 2392 c.c., se non anche con la libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. Infatti, l’obbligo di gestire diligentemente l’impresa comporta necessariamente l’obbligo di risanarla, quando opportuno. Quindi, è evidente che, se l’ordinamento non offre uno strumento ad hoc per attuare il risanamento durante una determinata fase “critica”, gli amministratori dovranno trovare un’altra via per realizzarlo. 108 E ora anche dall’azione revocatoria ordinaria (v. supra, nt. 85).

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gligentemente) che la crisi si aggravi, così da poter utilizzare gli strumenti offerti dall’ordinamento e godere di tutti i benefici connessi. Non vi è dubbio che la soluzione corretta sia la prima; tuttavia, con la disciplina del piano attestato dettata dalla Legge fallimentare era possibile cumulare i vantaggi di entrambe le scelte: 1) evitare di incorrere in responsabilità gestionali e salvaguardare l’impresa; 2) godere delle esenzioni. D’altro canto, se, in una situazione di twilight zone, l’amministratore, pur consapevole che non sia ancora presente uno stato di crisi, comunque adottasse prudenzialmente il piano di risanamento attestato ex art. 56 CCI, gli effetti benefici dell’istituto potrebbero risultare paralizzati. In caso di successiva apertura del fallimento, il curatore potrebbe eccepire l’assenza del presupposto oggettivo “stato di crisi”, così sterilizzando l’esenzione dall’azione revocatoria. Si suppone, infatti, che il suddetto stato potrà essere sottoposto alla valutazione, in ottica ex ante, del giudice109. Ciò distinguerebbe il nuovo piano di risanamento rispetto a quello previsto dalla Legge fallimentare. La disciplina dettata dall’art. 67, co. 3, lett. d), l.fall., infatti, non prevedendo alcun presupposto oggettivo, non potrebbe giustificare che, nel corso del giudizio promosso dal curatore per la revoca di atti posti in essere in esecuzione del piano, venga effettuato un controllo circa l’effettiva situazione economico-finanziaria in cui versava il debitore al momento della formulazione del piano110.

13. Le alternative al piano di risanamento attestato. Osservazioni conclusive. Se, nel sistema del Codice della crisi, il piano di risanamento non può essere utilizzato nella “nuova” twilight zone, e la possibilità di pianificare il risanamento in questa fase precoce mediante meri accordi con i creditori non appare soddisfacente, è allora opportuno tentare di individuare quali degli strumenti disciplinati dal Codice della crisi possono essere “adattati” alla twilight zone, al fine di supplire alla “perdita” del piano attestato, che ora richiede necessariamente uno “stato di crisi” qualificato. Si illustrano due possibili soluzioni.

109

In giurisprudenza, sulla valutazione compiuta a posteriori, ma in ottica ex ante, da parte del giudice, v., di recente, Cass., 10 febbraio 2020, n. 3018, in Il fallimento, 2020, 451. 110 Nardecchia, Il piano attestato, cit., pp. 6 s.

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Una prima soluzione potrebbe consistere nell’anticipazione del triggering point dell’allerta ad un momento precedente rispetto a quello individuato dalla definizione di crisi e dagli indicatori e indici di cui all’art. 13 CCII. In particolare, il fatto che l’art. 14 CCI imponga agli organi di controllo di attivarsi dinanzi a «fondati indizi della crisi», invece che dinanzi agli indicatori e indici, lungi dal rappresentare un’incongruenza normativa, potrebbe essere inteso come il riconoscimento della possibilità che gli organi di controllo allertino gli amministratori dinanzi a qualsiasi segnale di crisi, anche non corrispondente a quelli codificati negli indici. L’esistenza di questa “allerta atipica” potrebbe essere confermata da un’ulteriore circostanza: posto che la definizione di crisi di cui all’art. 2 CCII rileva, per espressa previsione dello stesso articolo, «solo ai fini del presente codice [n.d.r. codice della crisi]», si potrebbe ritenere che l’obbligo di adottare «uno degli strumenti previsti dall’ordinamento», essendo previsto dall’art. 2086 del codice civile, prescinda dall’esistenza di uno stato di crisi come definito nel codice della crisi. Tuttavia, è opportuno precisare che la stessa dottrina111 che ha proposto questa ricostruzione avverte che essa è il frutto di un approccio esegetico alquanto “ortopedico” e che renderebbe quasi irrilevante la definizione di crisi (il che non è certo l’intenzione del legislatore). Si tenta, allora, di offrire una seconda potenziale soluzione al problema di individuare uno strumento adatto alla “nuova” twilight zone. Ebbene, si potrebbe valorizzare la procedura di composizione assistita della crisi. Per affermare ciò, però, si deve ritenere che l’art. 19 CCI consenta di accedere alla composizione assistita anche in una situazione non ancora classificabile come “stato di crisi” e in cui ancora non si siano riscontrati gli indici dell’allerta. Effettivamente, attenendosi stricto sensu al dettato legislativo, si riscontra che l’art. 19 CCI non richiede alcun particolare presupposto oggettivo per l’accesso alla composizione assistita. A conferma di ciò, si noti che, da un lato, l’art. 19 CCI dispone che la domanda di accesso può essere presentata «anche all’esito dell’audizione di cui all’art. 18», così lasciando intendere che la composizione assistita può essere attivata anche indipendentemente da una precedente fase di allerta in senso stretto112; dall’altro, l’art. 12 CCII aggiunge che la compo-

111

A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCII alla resilienza della twilight zone, in Il fallimento, 2019, p. 297. 112 Cfr. Perrino, Crisi di impresa e allerta: indici, strumenti, procedure, in Corr. giur., 2019, p. 664.

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sizione assistita può essere attivata “anche prima” dell’allerta. Dunque, gli agganci normativi per ritenere che la procedura di composizione assistita della crisi possa essere utilizzata durante la “nuova” twilight zone non mancano. Ad ogni modo, non si nasconde che anche questa soluzione interpretativa potrebbe peccare di un rigido formalismo nell’interpretazione delle norme. Se le due interpretazioni ora proposte fossero corrette, comunque bisognerebbe valutare se veramente, nella fase crepuscolare, l’accesso alle procedure di allerta e composizione assistita siano, in ogni caso, migliori in termini di efficacia ed efficienza rispetto al piano di risanamento attestato. A tal fine, si possono prendere in considerazione due opposti punti di vista. Da un determinato punto di vista, sembra preferibile che un’impresa in cui si sono solo verificati alcuni precoci segnali di crisi non si avventuri nelle procedure di allerta e composizione assistita, per via delle insidie che esse nascondono. Ci si riferisce alla forza con cui l’impresa, nell’ambito di queste procedure, viene spinta in un vortice che potrebbe portarla da una lieve instabilità finanziaria a una grave crisi, quando non anche all’insolvenza. Il sistema, infatti, potrebbe tramutarsi in un «meccanismo diabolico ad imbuto che attrae l’impresa verso le procedure di crisi propriamente dette»113. In una serie di passaggi che diventano progressivamente più penetranti, il debitore è condotto lungo un percorso, tracciato dagli artt. 19, 21 e 22 CCI, che non sembra lasciargli altro scampo al di fuori dell’accesso alle procedure114. Né si può confidare che la garanzia di riservatezza protegga l’impresa da tali rischi: la necessità di negoziare con i creditori115, la richiesta al giudice di misure protettive, o semplicemente gli incontrollabili fenomeni di information leakage tra dipendenti, fornitori, creditori, sono più che sufficienti per infrangere il velo di riserbo116. In aggiunta a ciò, vi è il rischio che l’imprendito-

113

Così, Meo, La difficile via, cit., p. 621. Cfr. Stanghellini, Il codice della crisi, cit., p. 454; Sanzo, La disciplina procedimentale, cit., p. 62. 115 Cfr. Ferro, Allerta e composizione assistita della crisi nel d.lgs. n. 14/2019: le istituzioni della concorsualità preventiva, in Il fallimento, 2019, p. 428. 116 Cfr. Bini, Procedura d’allerta, cit., p. 432; Spolidoro, Procedure d’allerta, poteri individuali degli amministratori non delegati e altre considerazioni sulla composizione anticipata della crisi, in Riv. soc., 2018, pp. 171 ss.; Leuzzi, Indicizzazione della crisi, cit., p. 21. Senza sforzarsi di individuare ipotetici meccanismi capaci di causare una “fuga di notizie”, si ricorda che il caso più semplice di diffusione di informazioni è quello in cui l’esercizio sociale si chiuda durante le procedure di allerta e di composizione assistita: stando alla disciplina codicistica del bilancio, si presume che gli amministratori abbiano 114

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re, affidandosi all’attività svolta dall’OCRI, e beneficiando della “rete di protezione” offerta dalla disciplina, possa perdere il senso di responsabilità per le proprie scelte sul futuro dell’attività, così determinando l’aggravamento delle condizioni117. In sostanza, un’impresa con qualche flebile sintomo di twilight zone, dopo aver fatto accesso alle procedure di allerta e composizione assistita, potrebbe, a causa delle potenziali inefficienze ora descritte, ritrovarsi in una situazione più grave rispetto a quella di partenza, e per di più con l’obbligo (art. 21 CCI) di concludere un accordo “composto” con i creditori o, in alternativa, di accedere a una delle procedure previste dall’art. 37 CCI118. Il tutto, con la minaccia che la notitia della sopravvenuta insolvenza giunga al PM119 (art. 22 CCI). Da un punto di vista opposto, invece, la procedura di composizione assistita gode di numerosi vantaggi competitivi rispetto al piano di risanamento attestato120. Infatti, la prima assicura una serie di benefici, quali: la certezza di concludere le negoziazioni entro il termine definito dalla legge di novanta giorni (art. 19, co. 1, CCI)121; la possibilità di richiedere le misure protettive e la sospensione della disciplina relativa alla riduzione del capitale per perdite (art. 20 CCI)122; la possibilità di godere delle misure premiali (artt. 24 e 25 CCI). E con riguardo alle mi-

l’obbligo di segnalare nella relazione sulla gestione, ai sensi dell’art. 2428 c.c., lo svolgimento della procedura dinanzi all’OCRI. 117 Sanzo, La disciplina procedimentale, cit., pp. 62 e 68; Spolidoro, Procedure d’allerta, cit., pp. 184 s. Cfr. Perrino, Crisi di impresa e allerta, cit., p. 670, il quale auspica che venga colmato il vistoso vuoto di disciplina riguardante la regolamentazione dei doveri e delle responsabilità dell’OCRI. 118 Sul possibile «effetto boomerang» delle procedure di allerta e composizione assistita, Vattermoli, Il procedimento di composizione assistita della crisi e l’OCRI, in Il fallimento, 2020, p. 899. 119 Sulla “minaccia” della denuncia al PM, v. anche Vella, L’allerta nel codice della crisi e dell’insolvenza alla luce della direttiva (UE) 2019/1023, in www.ilcaso.it, 24 luglio 2019, p. 30. 120 Nardecchia, Il piano attestato, cit., p. 11. Sulle differenze tra il piano di risanamento attestato e la composizione assistita, v. anche Vattermoli, Il procedimento di composizione, cit., p. 896; nonché Fabiani, Il piano attestato, cit., c. 93 ss., che parla di “concorrenza” fra i due strumenti. 121 Cfr. Boggio, Gli strumenti di regolazione concordata della crisi o dell’insolvenza, in Giur. it., 2019, p. 1981 sub nota 43, il quale, relativamente al piano attestato, afferma che «uno dei problemi più frequenti nella pratica è dato dall’insufficiente speditezza dei processi decisionali interni a ciascun creditore in funzione di scegliere se aderire o meno ed a quali condizioni alla proposta del debitore, nonché dai disallineamenti temporali con i quali le decisioni in ordine all’adesione sono adottate da ciascun creditore». 122 Cfr. Fabiani, Il piano attestato, cit., c. 93 ss.

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sure premiali, anzi, il piano attestato è presentato come lo strumento più debole in assoluto: infatti, l’art. 24 CCI offre tali benefici solamente agli imprenditori che, entro determinati termini, domandino l’accesso ad una delle “procedure regolate dal codice”123. E che il piano attestato non sia una “procedura”, anche nella nuova veste fornitagli dall’art. 56 CCII, pare potersi affermare con sufficiente certezza124. Con le osservazioni ora svolte, non si intende prendere posizione su quale sia lo strumento migliore tra il piano di risanamento attestato, da un lato, e le procedure di allerta e composizione assistita, dall’altro, bensì solo dimostrare che questi strumenti presentano differenze tali da renderli adatti a scopi diversi. Neanche si intende affermare che la definizione di crisi introdotta dal Codice non sia opportuna, poiché eccessivamente “tardiva”. È chiaro che una definizione troppo “anticipatoria” comporterebbe il rischio di falsi positivi e la conseguente attivazione di procedure in contrasto con le esigenze di efficienza nella gestione delle imprese e con il principio di economia processuale. Peraltro, si è consapevoli che un approccio eccessivamente formalistico alla materia risulterebbe distaccato dalla realtà dei modi in cui si verificano le crisi aziendali, nelle quali non è agevole distinguere la perfetta successione delle fasi (twilight zone – stato di crisi – stato di insolvenza) che in questo contributo è stata formalisticamente presentata. In conclusione, si ritiene che, forse, sarebbe stata una scelta legislativa più opportuna quella di mantenere nell’ordinamento uno strumento duttile da poter utilizzare in presenza di situazioni non codificate (e non codificabili): uno strumento senza alcun presupposto oggettivo. Il che, d’altronde, sarebbe anche conforme a quanto disposto dalla legge delega 155/2017, che, con il suo art. 5, si limitava a imporre che il piano

123 Non mancano, comunque, autori che hanno messo in luce le criticità insite nel meccanismo delle misure premiali. In tal senso, Vattermoli, Il procedimento di composizione, cit., p. 899: «le misure premiali, contemplate negli artt. 24 e 25 CCII, che dovrebbero rappresentare l’incentivo per il debitore ad attivare il procedimento di composizione assistita della crisi, non sembrano in realtà così allettanti, specialmente ove si considerino i rischi – legati, essenzialmente, alla possibile violazione dei doveri di riservatezza da parte dei soggetti coinvolti e alla conseguente fuga di informazioni sulla situazione economica, finanziaria e patrimoniale del debitore – a cui va incontro l’imprenditore che vi accede». 124 Cfr. A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCII alla resilienza, cit., p. 296 sub nt. 25. Peraltro, è lo stesso Codice della crisi a disciplinare gli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento all’interno della sezione rubricata “strumenti negoziali stragiudiziali”, con ciò confermandone la loro natura “non procedurale”.

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di risanamento attestato venisse “incentivato” mediante la previsione di «forma scritta, data certa e contenuto analitico»; imbrigliarne l’adozione in rigidi presupposti sembra limitarlo più che incentivarlo125. Una scelta legislativa come quella che si ipotizza, peraltro, non pregiudicherebbe la diffusione delle tanto conclamate procedure di allerta e di composizione assistita, poiché esse verrebbero comunque automaticamente attivate ogniqualvolta i soggetti a ciò preposti rilevino gli indici della crisi. In altre parole, se il piano attestato fosse ancora privo di un presupposto oggettivo, rappresenterebbe uno strumento in più e autonomo, piuttosto che un doppione “debole”. Per comprendere i vantaggi che potrebbero derivare da una simile scelta legislativa, si consideri quanto segue. Se quando si rilevano gli indici scatta l’allerta, ciò significa che quando si ricorre agli altri strumenti per la soluzione della crisi, presumibilmente, l’allerta non ha funzionato come avrebbe dovuto, oppure non è scattata prontamente per negligenza dei soggetti a ciò preposti. In ogni caso, se un’impresa ricorre agli strumenti negoziali di regolazione della crisi, l’allerta non è stata efficace, altrimenti la soluzione sarebbe stata trovata rapidamente e direttamente dall’imprenditore o, al più, mediante la composizione assistita dinanzi all’OCRI. In una situazione in cui nemmeno le procedure di allerta e composizione assistita hanno sortito gli effetti sperati, è presumibile che sia necessario ricorrere a strumenti ben più invasivi e strutturati rispetto al piano di risanamento attestato, poiché, se quest’ultimo rappresenta (e lo si è già dimostrato supra) una versione light della composizione assistita, è improbabile che esso venga scelto come strumento opportuno proprio laddove la composizione assistita ha fallito. Quindi, in una simile situazione, verosimilmente, si ricorrerà agli accordi di ristrutturazione dei debiti o al concordato preventivo. Tuttavia, tale ragionamento porterebbe alla conclusione che il nuovo piano di risanamento è uno strumento sostanzialmente inutile, perché non verrebbe utilizzato né durante la fase in cui si manifestano gli indici dell’allerta, posto che in quel caso scatterebbe automaticamente la procedura d’allerta, né in seguito alla infruttuosa conclusione delle procedure di allerta e composizione assistita, posto che in quel caso si ricorrerebbe alle procedure più invasive.

125 Cfr. Boggio, Gli strumenti di regolazione, cit., pp. 1978 ss., il quale esamina una serie di elementi della nuova disciplina del piano attestato che potrebbero frenare i proclamati intenti di incentivazione all’uso di questo strumento.

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Qualora invece si lasciasse il piano attestato privo di un presupposto oggettivo126, sarebbe possibile utilizzarlo in quella fase che in questo contributo è stata definita come “nuova” twilight zone, e che, pur essendo antecedente rispetto al momento individuato dagli indici della crisi, ben potrebbe presentare elementi di “criticità” tali da rendere necessario un intervento. La dettagliata e penetrante disciplina introdotta dal Codice della crisi, nel tentativo di prevedere uno strumento (tramite rules) per ogni possibile forma o stadio della crisi, sembra aver perso di vista il vantaggio delle norme “elastiche” (standard), cioè la loro adattabilità alla multiforme e imprevedibile varietà degli eventi e delle situazioni concrete127. Si è tentati di affermare che il legislatore, nello sforzo di costruire una rete a maglie strette per “pescare” ogni fattispecie, abbia omesso di considerare che nessuna rete sarà mai abbastanza estesa da coprire il mare128.

Luca Fruscione Abstract Questo lavoro, dopo aver descritto le nozioni di “crisi” e “insolvenza”, analizza il “piano di risanamento attestato” (art. 67, c. 3, lett. d, l.fall.) nell’ottica della precoce reazione alla crisi d’impresa. In particolare, il lavoro esamina l’impatto che il nuovo Codice della crisi (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – che a partire dal 1° settembre 2021 sostituirà la Legge fallimentare) produce sulla possibilità di utilizzare il “piano di risanamento attestato” durante lo “stato di crisi”, nonché in quella particolare fase della vita dell’impresa che è denominata twilight zone. Si riscontrerà che, mentre nel sistema della Legge fallimentare il “piano di risanamento attestato” rappresentava lo strumento precipuo per affrontare la twilight zone, invece, nel sistema del Codice della crisi lo stesso strumento non sembra essere più utilizzabile durante la fase di crepuscolo. Pertanto, si analiz-

126 Peraltro, nello schema iniziale di Codice della crisi, l’art. 56 non prevedeva alcun presupposto oggettivo per gli “Accordi in esecuzione di piani di risanamento attestati”. I presupposti “stato di crisi” e “stato di insolvenza” sono stati introdotti solo nell’ultima versione antecedente all’emanazione del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14. 127 Sui possibili effetti negativi dell’irrigidimento dell’accesso alle procedure (in particolare con riguardo al concordato preventivo), v. anche Fabiani, Prove di riflessioni sistematiche per la crisi da Emergenza Covid-19, in Il fallimento, 2020, p. 592. 128 La metafora, opportunamente riadattata, è ispirata da A. Rossi, Dalla crisi tipica ex CCI alle persistenti, cit., p. 12.

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zeranno le possibili alternative, indagando su quali istituti giuridici disciplinati dal Codice della crisi possano essere “adattati” alla twilight zone. *** This paper, after describing the notions of “crisis” and “insolvency”, analyses the “piano di risanamento attestato” (“reorganization plan”, i.e. the least intrusive crisis management tool provided by the Italian Insolvency law – art. 67.3, letter d, Insolvency law) with a view to the early response to the business crisis. In particular, this work examines the impact that the new Crisis code (Legislative Decree of the 12th January 2019, n. 14 – which from the 1st September 2021 will replace the previous Italian Insolvency law) produces on the possibility of using the “piano di risanamento attestato” when the company is in the “crisis” phase and in that particular phase which is called “twilight zone”. It will be found that, while in the Insolvency law system the “piano di risanamento attestato” was the main tool for dealing with the “twilight zone”, instead, in the system of the Crisis code the same instrument seems no longer usable during the twilight phase. Therefore, the paper analyses the possible alternatives, investigating which legal instruments regulated by the new Crisis code can be “adapted” to the twilight zone.

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Cancellazione dal registro delle imprese ed estinzione delle società I Corte di Cassazione, Sezione I civile, sentenza 22 maggio 2020, n. 9464; Pres. De Chiara, Rel. Nazzicone, P.M. Capasso (concl. parz. diff.); soc. B.N. s.p.a. (avv. Miccolis) c. soc. N. s.r.l. e altro (avv. Armenio, Tracquilio) (Conferma App. Bari, 23 giugno 2015) Società – Società di capitali – Cancellazione dal registro delle imprese – Effetti – Rinuncia a crediti azionati in giudizio pendente – Presunzione – Insussistenza (Cod. civ., artt. 1236, 2033, 2495) Il fatto in sé della cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese non integra alcuna presunzione di rinuncia della medesima a crediti azionati in un giudizio pendente. (1) II Corte di Cassazione, Sezione III civile, ordinanza 14 dicembre 2020, n 28439; Pres. Vivaldi, Rel. Rossetti, P.M. (non indicato); soc. S. s.r.l. (avv. Spanò) c. P. e altro (avv. Destra) (Conferma App. Napoli, 13 febbraio 2017) Società – Società di capitali – Cancellazione dal registro delle imprese – Effetti – Credito – Omessa inclusione nel bilancio finale di liquidazione – Rinuncia – Presunzione – Insussistenza (Cod. civ., artt. 1236, 2495) Il fatto in sé della mancata appostazione di un credito nel bilancio finale di liquidazione di una società di capitali, poi in effetti cancellata dal registro delle imprese, non integra alcuna presunzione di rinuncia della società a quel credito. (2)

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I (Omissis) Fatti di causa Con sentenza del 23 giugno 2015, la Corte d’appello di Bari ha confermato la decisione del Tribunale della stessa città del 22 ottobre 2010, la quale ha condannato il B.N. s.p.a. al pagamento della somma di Euro 234.363,56, oltre accessori, in accoglimento della domanda restitutoria dell’indebito proposta dalla soc. N. s.r.l.. La corte del merito ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che: a) sebbene la società sia stata cancellata dal registro delle imprese il 3 luglio 2009, in pendenza del giudizio di primo grado, tale evento non fu dichiarato dalla difesa, onde, per il principio di ultrattività del mandato, l’appello è stato validamente proposto contro la società e questa si è altrettanto validamente costituita in giudizio, restando per contro estranea al thema decidendum la questione della successione del socio in una eventuale “mera pretesa” della società cancellata; b) la dichiarazione di nullità, oltre che degli interessi c.d. uso piazza ed anatocistici trimestrali, delle poste ulteriori (commissione di massimo scoperto, spese, capitalizzazione annuale), operata dal primo giudice, non ha violato il principio della domanda, trattandosi comunque di nullità rilevabili d’ufficio; e la clausola di capitalizzazione annuale è, del pari, nulla; c) la mancata produzione, da parte della correntista, di tutti gli estratti conto integrali dall’inizio del rapporto, sorto il 22 maggio 1990, non impedisce di iniziare il conteggio dal primo saldo disponibile del 31 mar-

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zo 1991, recante, peraltro, un debito per la cliente di Lire 983.803.507 ed al quale essa ha prestato acquiescenza, mentre la mancanza del saldo per il solo mese di novembre 1991 è stata supplita dal consulente tecnico d’ufficio mediante il documento relativo al conto scalare; d) è infondata l’eccezione di prescrizione, sollevata dalla banca, sia perché essa non ha allegato e provato quali siano stati i pagamenti con funzione solutoria, sia perché è provata comunque l’esistenza di un’apertura di credito, sulla scorta di una serie di elementi fattuali (la relativa previsione in contratto, le annotazioni sempre negative e di importo ingente sul conto, la non necessità di una forma scritta del contratto all’epoca dei fatti e l’allegazione della banca circa l’esistenza di un finanziamento sin dalla comparsa di risposta in primo grado). Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione, notificato alla N. s.r.l., il B.N. s.p.a., sulla base di sei motivi. I due ex soci resistono con controricorso. Le parti hanno depositato le memorie di cui all’art. 378 c.p.c. Ragioni della decisione 1. I motivi. Con il primo motivo, la ricorrente lamenta l’omesso esame di fatto decisivo, consistente nella cancellazione della società nel corso del primo grado del processo, evento da cui deve farsi derivare la rinuncia alla pretesa fatta valere in giudizio e sul quale la sentenza non si è pronunciata, avendo applicato il principio, nella specie inconferente, della c.d. ultrattività del mandato. Con il secondo motivo, deduce la violazione o falsa applicazione degli


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artt. 1722, 1724, 1728 e 2495 c.c., nonché degli artt. 83-85, 110, 111, 156, 299 e 300 c.p.c., in quanto la società si è estinta e non è avvenuta nessuna successione del diritto controverso in capo ai soci, onde non può essersi verificata l’ultrattività del mandato, predicabile solo in presenza di un fenomeno successorio, universale o particolare, e restando la pronuncia, in tal caso, inutiliter data, perché relativa a soggetto non più esistente e che aveva ormai rinunciato alla pretesa azionata. Con il terzo motivo, proposto come i successivi - in via subordinata, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 1419, 1421 c.c. e artt. 99, 119 c.p.c., perché si tratta di diritti eterodeterminati e la nullità di ulteriori clausole non è rilevabile d’ufficio, avendo la correntista contestato solo quelle sugli interessi uso piazza e la capitalizzazione trimestrale, e non quelle sulla c.m.s., le altre spese e la capitalizzazione annuale. Con il quarto motivo, si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., essendo onere del cliente provare l’andamento del rapporto, onere non assolto, per la mancata produzione degli estratti conto integrali. Con il quinto motivo, deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2935 e 2946 c.c., per avere il giudice del merito posto a carico della banca, con riguardo all’eccezione di prescrizione da essa sollevata, l’onere di dedurre e provare la natura solutoria delle singole rimesse, quando, invece, su di essa grava solo l’onere di allegare l’inerzia del creditore. Con il sesto motivo, si duole della violazione o falsa applicazione degli

artt. 1842, 2896, 2946 c.c. e art. 167 c.p.c., oltre che di omessa pronuncia, perché la corte del merito ha errato nel ritenere provata l’esistenza di un affidamento, dato che non era la banca il soggetto onerato della prova della sua inesistenza, nè potendo la prova di quello trarsi della mera previsione della sua eventualità nel contratto di conto corrente. 2. Primo e secondo motivo: la successione dei soci nei rapporti attivi della società estinta. Il primo ed il secondo motivo attengono alla questione della valida costituzione del rapporto processuale con i due soci della società, estintasi in primo grado per cancellazione volontaria dal registro delle imprese. Essi vanno preliminarmente trattati, derivando dalle osservazioni di seguito esposte la stessa soluzione alla questione della corretta instaurazione del contraddittorio in Cassazione. 2.1. - Il primo motivo è infondato. La circostanza dell’avvenuta cancellazione della società dal registro delle imprese nel corso del primo grado del giudizio è stata esaminata dalla corte territoriale, la quale semplicemente non ne ha tratto la conseguenza, desiderata dalla ricorrente, dell’estinzione anche della pretesa azionata dalla medesima società. Ma l’avere il giudice del merito omesso di trarre dal fatto storico, invece esaminato, una conseguenza effettuale dalla parte auspicata non integra affatto la fattispecie dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. 2.2. Il secondo motivo è, del pari, infondato. Giova affrontare il tema specifico di natura sostanziale, evocato dal motivo, concernente la c.d. rinuncia im-

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plicita alle “mere pretese” da parte del liquidatore di società che abbia proceduto alla cancellazione della società dal registro delle imprese. 2.2.1. L’estinzione della società. Dopo la riforma di cui al d.lgs. n. 6 del 2003, le società di capitali si estinguono per effetto della cancellazione dal registro delle imprese, a norma del nuovo art. 2495 c.c., salvi espressi casi di legge in contrario. Com’è noto, la norma ha posto fine all’orientamento giurisprudenziale che - al fine, per vero, di razionalizzare la situazione esistente in presenza di sopravvenienze attive o passive reputava la società sempre in vita, purché esistessero ancora “rapporti pendenti”. 2.2.2. La sorte dei residui attivi: i precedenti. Esclusa ogni possibilità di conservare tale visuale, a fronte di una lettera e di un fondamento inequivocamente contrari (v. l’incipit dell’art. 2495 c.c., comma 2), plurime questioni poste dalle situazioni concrete sono, peraltro, rimaste aperte. Fra queste, rileva qui solo il tema della sorte di un credito controverso, esistente al momento della cancellazione volontaria della società dal registro delle imprese. Al riguardo, il primo spunto offerto da questa Corte viene dalla sentenza Cass. 16 luglio 2010, n. 16758, la quale riguardava propriamente non il tema delle sopravvivenze (beni o diritti preesistenti alla liquidazione, quali residui attivi non liquidati e trascurati) o delle sopravvenienze attive (perché non se ne conosceva l’esistenza), ma la mera «pretesa giudiziaria volta ... a far accertare la simulazione di un negozio risolutivo di cui la società cancellata era parte»; e

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dove si era concluso che, se la società sarebbe stata legittimata all’esercizio di una simile azione, essa non l’aveva però mai intrapresa: e, «con la decisione di porsi in liquidazione e cancellarsi dal registro (decisione che i controricorrenti sottolineano essere stata presa a suo tempo da tutti i soci all’unanimità), ha evidentemente scelto di non farlo». Con la conclusione che tale pregresso comportamento dimostra come la società abbia scelto di rinunciare proprio ad esperire l’azione. Tale originario spunto, come si vede ben circoscritto ad una situazione di mancato esercizio di un’azione del tutto incerta nell’an, è stato poi ripreso - in un obiter - dalle decisioni, rese a Sezioni unite, in cui si ebbe ad affermare come sia «ben possibile» che la scelta della società di cancellarsi dal registro delle imprese, nonostante una «pendenza non ancora definita», ma ad essa nota, sia da intendere come «tacita manifestazione di volontà di rinunciare alla relativa pretesa», essendo dato di «postularsi agevolmente» ciò, quando si tratti di «mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, cui ancora non corrisponda la possibilità d’individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto o un bene definito, onde un tal diritto o un tal bene non avrebbero neppure perciò potuto ragionevolmente essere iscritti nell’attivo del bilancio finale di liquidazione» (Cass., sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070, ove pure si aggiungeva: «Ma quando, invece, si tratta di un bene o di un diritto che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, in quel bilancio avrebbero dovuto senz’altro figurare,


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e che sarebbero perciò stati suscettibili di ripartizione tra i soci (al netto dei debiti), un’interpretazione abdicativa della cancellazione appare meno giustificata, e dunque non ci si può esimere dall’interrogarsi sul regime di quei residui o di quelle sopravvenienze attive»). Tale passaggio, pur ripreso in seguito da varie pronunce (in tema di società di capitali, Cass. 24 dicembre 2015, n. 25974; in tema di società di persone, Cass. 15 novembre 2016, n. 23269; Cass. 10 giugno 2014, n. 13017, con succinta motivazione, non massimata; Cass. 21 gennaio 2014, n. 1183, non massimata; si arresta, invece, alla declaratoria di inammissibilità del ricorso Cass. 19 luglio 2018, n. 19302), ma disatteso nei fatti da altre (che hanno considerato legittimati gli ex soci nel diritto trasferito per successione: cfr. Cass. 11 giugno 2019, n. 15637; Cass. 4 luglio 2018, n. 17492), va ora meglio precisato, quale oggetto del thema decidendum all’esame della Corte. 2.2.3. La regola della successione in capo ai soci dei residui attivi e l’eccezione della non sopravvivenza delle “mere pretese”. Una volta estinta la società, i diritti dalla medesima vantati, non liquidati nel bilancio finale di liquidazione (perché al momento non considerati, se ne ignorasse, o no, l’esistenza), transitano nella titolarità dei soci. Questa è la portata decisoria del principio, fissato dalle Sezioni unite nn. 6070, 6071 e 6072 del 2013, e non più smentito, il quale ha ricondotto la fattispecie ad un fenomeno successorio in capo ai soci, con conseguente applicazione dell’art. 110 c.p.c., atteso che il primo soggetto si estingue

e proseguono il processo i suoi successori a titolo universale: avendo, invero, ragionato tali sentenze nel senso che tale disposizione contempla, altresì, qualsiasi «altra causa» per la quale una parte venga meno, onde risulta idonea a ricomprendere anche l’ipotesi dell’estinzione dell’ente collettivo. Ma, se questa è la regola ormai fissata dal diritto vivente, ogni eccezione alla stessa ed al conseguente passaggio in titolarità dei soci delle situazioni attive già facenti capo alla società - sia quanto alle cd. sopravvivenze attive, sia quanto alle cd. sopravvenienze attive deve essere adeguatamente allegata e dimostrata da chi intenda farla valere. 2.2.4. La remissione del debito. La rinuncia costituisce un atto negoziale abdicativo unilaterale ricettizio, onde di tale categoria ha tutti i requisiti: la volontarietà dell’atto e dei suoi effetti (negozio giuridico, inteso come dichiarazione di volontà, diretta a realizzare effetti giuridici), la modalità espressiva idonea a trasmettere il contenuto e la comunicazione a destinatario determinato, ossia, ove si tratti di diritto relativo, il titolare del lato passivo del rapporto. Nel rapporto obbligatorio, l’atto estintivo dell’obbligazione per rinuncia del creditore assume tipicamente il nome di remissione del debito. Essa è regolata dall’art. 1236 c.c., il quale dispone che la dichiarazione del creditore di rimettere il debito estingue l’obbligazione quando è comunicata al debitore (salvo che questi dichiari in un congruo termine di non volerne profittare). Analizzando tali elementi, può dirsi quanto segue.

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a) Quale atto abdicativo di natura negoziale, la remissione del debito anzitutto «esige e postula che il diritto di credito si estingua conformemente alla volontà remissoria e nei limiti da questa fissati, ossia che l’estinzione si verifichi solo se ed in quanto voluta dal creditore con la conseguenza che la volontà di remissione presuppone anche, e in primo luogo, la consapevolezza, nel creditore, dell’esistenza del debito; peraltro, pur non potendosi presumere, la remissione del debito può ricavarsi anche da una manifestazione tacita di volontà, ma in tal caso è indispensabile che la volontà abdicativa risulti da una serie di circostanze concludenti e non equivoche, assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito» (Cass. 14 luglio 2006, n. 16125; Cass. 4 ottobre 2000, n. 13169; Cass. 21 dicembre 1998, n. 12765). b) In secondo luogo, quanto alla forma o alla modalità espressiva della volontà di rinuncia, essa deve essere idonea a veicolarne il contenuto. La remissione del debito non è soggetta a particolari requisiti di forma. Pertanto, ben può ammettersi una remissione tacita anche attraverso un comportamento concludente, dato che la remissione del debito non richiede una forma solenne: tuttavia, è in tal caso indispensabile che la volontà abdicativa risulti da una serie di circostanze significative ed inequivoche, assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito. La necessità di una manifestazione inequivoca di volontà remissoria, da valutare con particolare rigore, è stata più volte affermata in sede di legittimità (Cass. 14 luglio 2006, n. 16125; Cass. 18 maggio 2006, n. 11749; Cass.

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7 giugno 2000, n. 7717; Cass. 7 aprile 1999, n. 3333; Cass. 21 dicembre 1998, n. 12765; Cass. 10 giugno 1994, n. 5646; Cass. 27 giugno 1991 n. 7215; 18 giugno 1990 n. 6116; 12 giugno 1987 n. 5148), in quanto occorre la non equivoca manifestazione di volontà del creditore volta alla rinuncia della prestazione, ovvero l’univoco comportamento del titolare assolutamente incompatibile con la volontà di avvalersi del diritto (cfr. Cass. 20 giugno 2017, n. 15313; Cass. 29 maggio 2015, n. 11179; Cass. 2 luglio 2010, n. 15737; Cass. 10 ottobre 2003, n. 15180). È comunque necessario, altresì, che i caratteri della univocità e concludenza – da riscontrare nel comportamento del soggetto, affinché da esso possa desumersi l’intento remissorio del creditore definitivo ed irrevocabile – siano valutati con estremo rigore e cautela: sicché, nel caso di dubbio sulla loro effettiva sussistenza, dev’essere esclusa la volontà di rimettere di debito (Cass. 4 ottobre 2000, n. 13169 e 21 dicembre 1998, n. 12765; Cass. 10 giugno 1994, n. 5646; Cass. 6 gennaio 1982, n. 4). La remissione del debito si caratterizza per la neutralità quoad causam, avendo essa una causa integrabile volta a volta in concreto, onde essa potrebbe essere operata, ad esempio, a titolo oneroso o gratuito, cosicché la sua funzione pratica è da individuare da parte del giudice del merito, con accertamento ad esso riservato (Cass. 7 maggio 2007, n. 10293; Cass. 5 agosto 1983, n. 5260). Tuttavia, appartiene al giudizio di diritto affermare, in astratto, se un certo comportamento, suscettibile di essere riprodotto in una serie indefinita


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di casi, integri o no la fattispecie della remissione ex art. 1236 c.c. c) La remissione, in terzo luogo, sarà diretta a destinatario determinato, come prevede la stessa disposizione dell’art. 1236 c.c. È stato infatti da tempo chiarito (Cass. 22 febbraio 1995, n. 2021) che, nell’ambito dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, mentre l’accordo remissorio, diretto ad estinguere il debito verso il pagamento, da parte del debitore, di una quota di esso, costituendo un tipico negozio a struttura bilaterale (o plurilaterale), si perfeziona con il consenso manifestato da entrambe le parti, la remissione del debito, ai sensi dell’art. 1236 c.c., è strutturata quale negozio unilaterale recettizio relativamente al quale la dichiarazione a parte creditoris si presume accettata dal debitore, e diventa pertanto operativa dei suoi tipici effetti estintivi dal momento in cui la comunicazione perviene a conoscenza della persona alla quale è destinata (art. 1334 c.c.), a meno che questa, avuto conoscenza della manifesta volontà remissiva, non dichiari entro un congruo termine di ricusarla e, quindi, di non volerne profittare. In definitiva, sia la volontà del creditore di non avvalersi del credito, sia la manifestazione inequivoca di tale volontà, sia la destinazione della dichiarazione allo specifico creditore costituiscono requisiti della fattispecie. 2.2.5. Verifica dei presupposti con riguardo alla cancellazione dal registro delle imprese. La presenza di tali requisiti va verificata con riguardo alla domanda di iscrizione della cancellazione della società dal registro delle

imprese, in particolare con riferimento al credito da ripetizione di somme indebite pagate dalla società alla sua controparte contrattuale. Deve essere anzitutto precisato che la domanda di restituzione dell’indebito ex art. 2033 c.c., è un vero e proprio diritto di credito, che sorge nel patrimonio del relativo titolare per effetto dell’integrazione degli elementi della fattispecie (il pagamento senza causa). Va, altresì, ricordato come i requisiti della univocità e della concludenza - che devono essere riscontrati nel comportamento della società nel momento in cui essa si cancella dal registro delle imprese, al fine di individuarvi anche la rinuncia in ordine ai diritti di credito ancora non esatti o non liquidati - devono essere valutati con particolare rigore e cautela, come esposto: pertanto, ove difettino indici univoci sulla volontà remissoria deve essere esclusa la volontà di remissione del debito. Sarebbe, dunque, errato presumere sempre iuris et de iure, in presenza di una cancellazione richiesta dal liquidatore della società ed operata in corso di causa, una rinuncia della stessa al diritto azionato. Né questo era, si noti, il portato della più volte citate decisioni delle Sezioni unite (Cass. nn. 6070-6072 del 2013), le quali avevano piuttosto evidenziato una delle varie evenienze solo “possibili”. Perché, dunque, si possano ravvisare i ricordati presupposti, in presenza di una domanda della cancellazione della società dal registro delle imprese, non è sufficiente - pena il ritenere ingiustificatamente sempre estinto il credito in tali evenienze, sul-

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la base di una presunzione assoluta priva dei caratteri ex art. 2729 c.c., ed a parte quanto si dirà in tema di ricettizietà dell’atto - che la cancellazione sia domandata ed eseguita: ciò, pur quando la società, nella persona dell’organo e legale rappresentante (di regola il liquidatore) abbia conosciuto l’esistenza del credito, peraltro ancora sub iudice come nella specie, onde neppure ne potesse avere la certezza. Infatti, la cancellazione potrebbe essere stata, ad esempio, decisa dalla società, perché ritenuto in quel momento più conveniente (risparmio di ulteriori costi, difficoltà organizzative, ecc., anche in presenza di eventi radicali, come es. la scadenza del termine di durata, il raggiungimento dell’oggetto sociale o l’impossibilità di conseguirlo, i dissidi insanabili fra i soci o la continuata inattività dell’assemblea ex artt. 2272 e 2484 c.c.), nell’inesistenza di una disposizione che vieti la cancellazione in presenza di crediti in contesa: senza che ciò possa significare, di per sé solo, anche rinuncia al credito. All’opposto, la mancata dichiarazione del difensore, ai sensi dell’art. 300 c.p.c., ai fini della interruzione del processo e la prosecuzione del medesimo, pur dopo l’avvenuta cancellazione della società (come l’eventuale prosecuzione del processo da parte dei soci, successori a titolo universale, senza previa interruzione del giudizio: evenienza del tutto lecita), costituisce un elemento in senso contrario rispetto ad un’ipotizzata volontà abdicativa: essendo ragionevolmente presumibile, piuttosto, in generale che il difensore, mandatario della società, avesse in tal senso concordato con la stes-

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sa la linea difensiva da tenere, anche nell’interesse dei soci, il cui sostrato personale riemerge proprio nel momento della cancellazione del soggetto collettivo. Il relativo accertamento, concretandosi in un giudizio di fatto, sfugge al sindacato di legittimità; ma costituisce giudizio di diritto escludere che la mera cancellazione dal registro delle imprese possa, di per sé sola, per la sua invincibile equivocità, reputarsi sufficiente a dedurne una volontà abdicativa. Quanto, infine, al requisito della ricettizietà, l’iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese non sembra possedere tale requisito. Essa, invero, si effettua su di un pubblico registro, destinato ad offrire la certezza del diritto nei confronti della collettività indeterminata dei soggetti, agli effetti ora dichiarativi (artt. 2193, 2448 c.c.), ora costitutivi (artt. 2331, 2436, 2495 c.c.), ma sempre rivolti ad una pluralità indifferenziata. Onde tale adempimento non costituisce equipollente di quello previsto dall’art. 1236 c.c., che ha riguardo alla diretta controparte negoziale. 2.2.6. Profilo processuale. In presenza dell’estinzione della società, con la conseguente successione in capo ai soci del diritto controverso, si rende pianamente applicabile il principio della ultrattività del mandato. Com’è noto, l’orientamento fatto proprio dalle Sezioni unite nel 2013, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione notificato alla società ormai estinta al riguardo (Cass., sez. un., 12 febbraio 2013, n. 6070), è stato superato in seguito (Cass., sez. un., 4 luglio 2014, n. 15295), essendosi affermato il principio della cd. ultrattivi-


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tà del mandato, per il quale l’evento, non dichiarato, del venir meno della parte costituita a mezzo di procuratore comporta la valida notificazione dell’impugnazione al difensore medesimo. Deve essere quindi confermato il principio che la cancellazione della società dal registro delle imprese priva la stessa, a partire da tale momento, della capacità di stare in giudizio, ma, ove l’evento estintivo, verificatosi in corso di causa, non sia dichiarato, né notificato dal procuratore della società, il difensore di questa continua a rappresentare la parte, sicché il ricorso per cassazione notificato alla (pur estinta) società presso il difensore costituito nei gradi di merito risulta ritualmente proposto (in tal senso, in termini, Cass. 9 ottobre 2017, n. 23563; Cass. 22 luglio 2016, n. 15177; Cass. 29 luglio 2016, n. 15762, non massimata; Cass. 18 gennaio 2016, n. 710; Cass. 17 dicembre 2014, n. 26495; Cass. 31 ottobre 2014, n. 23141). 2.2.7. Conclusioni. In definitiva, l’estinzione della società nel corso del primo grado del giudizio non può essere automaticamente ritenuta causa di estinzione per rinuncia della pretesa in esso azionata: una tale affermazione, per la sua perentoria assolutezza, non può essere condivisa. Non coglie dunque nel segno la tesi che pretende di desumere sic et simpliciter la remissione del debito da ripetizione di indebito dal fatto che la società sia stata cancellata dal registro delle imprese in corso di causa: con conseguente rigetto anche del secondo motivo. 3. Corretta instaurazione del contraddittorio. Il ricorso per cassazione è stato proposto contro la N. s.r.l. in

persona del legale rappresentante pro tempore e notificato presso i procuratori domiciliatari della società, mentre i soci, che hanno dichiarato di essere i soli soggetti che rivestivano tale qualità al momento della cancellazione della società, hanno notificato il controricorso. Sulla base di quanto esposto, può ora rilevarsi come il ricorso, pur notificato a soggetto non più esistente, è ammissibile, in quanto i difensori non hanno mai dichiarato l’evento, agli effetti dell’art. 300 c.p.c., nel corso dei giudizi di merito di primo e di secondo grado. Del pari ammissibile il controricorso proposto dai soci, in quanto (mentre quello della società sarebbe stato, esso sì, inammissibile: cfr. Cass. 22 maggio 2018, n. 12603; Cass. 22 luglio 2016, n. 15177), sono proprio i soci che, quali successori a titolo universale, sono abilitati a proporlo per esercitare il diritto di difesa in Cassazione. 4. Terzo motivo. Il terzo motivo è infondato. Non ha errato il giudice del merito – al di là della circostanza, dedotta in controricorso ma in sè nuova, dell’avvenuta deduzione di tali ulteriori profili sin dall’atto di citazione – nel ritenere rilevabile d’ufficio la nullità della pattuizione circa la commissione di massimo scoperto, una volta che ne siano acquisiti al processo elementi idonei a porla in evidenza (Cass. 6 agosto 2002, n. 11772; nonché Cass. 20 gennaio 2017, n. 1580, fra le altre), secondo principi ormai costanti (Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242 e Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26243). Né ha errato la sentenza impugnata, laddove ha ritenuto non dovuta neppure la capitalizza-

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zione annuale, una volta dichiarata la nullità per contrasto con il divieto di anatocismo della previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal correntista (Cass., sez. un., 2 dicembre 2010, n. 24418). 5. Quarto motivo. Il quarto motivo è infondato, non trattandosi di violazione delle regole sull’onere della prova o sul potere decisorio del giudice, ma della confutazione del convincimento, riservato in via esclusiva al giudice del merito, concernente la possibilità di supplire alla mancata produzione integrale degli estratti conto mediante altri mezzi di prova ed altre considerazioni integrative. In particolare, va condivisa l’affermazione della corte del merito, che non si discosta dai principi affermati in sede nomofilattica, secondo cui, a fronte di un saldo negativo del conto, risultante dal primo estratto successivo ad un periodo non coperto dalla produzione di tali documentazione bancaria, l’accettazione del saldo così esposto - quale base dei conteggi affidati al c.t.u. - consente di effettuare il calcolo per il periodo successivo, consistendo nella sostanza nella rinuncia del cliente alla ripetizione delle somme eventualmente sino a quel momento erroneamente conteggiate a proprio sfavore. Questa Corte ha invero già condivisibilmente chiarito come, nel caso di domanda di indebito proposta dal correntista, l’accertamento del dare e avere può attuarsi con l’utilizzo di prove che forniscano indicazioni certe e complete atte a dar ragione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto; ci si può inoltre avvalere di quegli elementi i quali consentano di

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affermare che il debito, nell’intervallo temporale non documentato, sia inesistente o inferiore al saldo passivo iniziale del primo degli estratti conto prodotti, o che permettano addirittura di affermare che in quell’arco di tempo sia maturato un credito per il cliente stesso; diversamente si devono elaborare i conteggi partendo dal primo saldo debitore documentato (cfr. Cass. 2 maggio 2019, n. 11543 e 9 ottobre 2019, n. 25373), come nella specie è avvenuto. 6. Quinto e sesto motivo. I motivi quinto e sesto, che possono essere trattati congiuntamente in quanto attengono entrambi all’eccezione di prescrizione, devono essere disattesi. La sentenza impugnata ha affermato che è stata raggiunta la prova del contratto di apertura di credito. Si tratta di un accertamento di fatto, idoneo a sorreggere la decisione, che il sesto motivo inammissibilmente pretende di ripetere in sede di legittimità. Quanto al principio di diritto ad esso sotteso, si tratta del noto orientamento consolidato, secondo cui, a fronte di un’apertura di credito e quindi di rimesse ripristinatorie, la prescrizione decorre dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto (Cass., sez. un., 2 dicembre 2010, n. 24418, per tutte). Ne deriva l’inammissibilità radicale del quinto motivo, laddove censura la violazione del principio sull’onere di allegazione e prova a carico della banca (su cui la recente Cass., sez. un., 13 giugno 2019, n. 15895), in quanto ininfluente nella decisione finale, sorretta dalla duplice motivazione esposta: essendo sin troppo noto come, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed


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autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa o infondata censura ad una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, il motivo relativo alle altre, il quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso potrebbe produrre l’annullamento della sentenza (Cass. 18 aprile 2019, n. 10815; Cass. 15 marzo 2019, n. 7499; Cass. 13 giugno 2018, n. 15399; Cass. 18 aprile 2017, n. 9752; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2108; Cass. 3 novembre 2011, n. 22753). 7. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del giudizio di legittimità in favore solidale dei controricorrenti. (Omissis) II (Omissis) Svolgimento del processo 1. Nel 2000 la società M s.r.l. acquistò dalla società S. s.p.a. (che in seguito muterà forma e ragione sociale in s.r.l.) un autoveicolo che si rivelò difettoso. L’acquirente convenne dinanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere la venditrice chiedendo la risoluzione del contratto di vendita e la condanna del venditore alla restituzione del prezzo. 2. Nelle more del giudizio la società acquirente fu cancellata dal registro delle imprese, il 24 giugno 2009. 3. All’esito del secondo grado del giudizio redibitorio, la Corte d’appello di Napoli con sentenza 4189/13 di-

chiarò risolto il contratto e condannò il venditore alla restituzione del prezzo, quantificato nell’importo di Euro 31.917,04. 4. Gli ex soci della M s.r.l. (e cioè P.M. e D.N.M.) avvalendosi del titolo rappresentato dalla suddetta sentenza 4189/13 iniziarono l’esecuzione forzata nei confronti della S. A tal fine notificarono alla S. - il ricorso non indica per quale ragione - due precetti: uno il 30 gennaio 2014 per l’importo di Euro 31.917 oltre accessori; l’altro il 19 maggio 2014 per l’importo di Euro 43.911 “comprensivo di interessi e spese”. 5. La S. propose opposizione ad ambedue i precetti. Il presente giudizio ha ad oggetto l’opposizione proposta avverso il primo dei precetti sopra indicati, cioè quello notificato il 30 gennaio 2014. A fondamento di tale opposizione, secondo quanto riferito nel ricorso, la S. dedusse che nel bilancio finale di liquidazione della società creditrice non era stato appostato il credito vantato dalla soc. M. nei confronti della soc. S.; quel credito, pertanto, doveva ritenersi rinunciato. 6. Con sentenza 28 novembre 2014 n. 322 il Tribunale di Napoli Nord rigettò l’opposizione. La Corte d’appello di Napoli, adita dalla soccombente, con sentenza 13.2.2017 n. 641 rigettò il gravame. A fondamento della propria decisione la Corte d’appello pose il seguente ragionamento: -) il credito vantato dalla soc. M. e posto in esecuzione dai suoi ex soci dopo lo scioglimento della società non era né incerto, né contestato, ma era stato accertato da una sentenza passata in giudicato; e l’unica que-

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stione controversa tra le parti era la compensabilità di quel credito col controcredito della soc. S. avente ad oggetto la restituzione dell’autoveicolo oggetto della vendita risolta per inadempimento; -) quel credito, pertanto, ancorché non evidenziato nel bilancio di liquidazione, si era trasferito ai soci per effetto della estinzione della società; -) in ogni caso, la soc. S. aveva censurato in modo solo apparente l’affermazione del giudice di primo grado, secondo cui la mancata indicazione del credito nel bilancio finale di liquidazione poteva essere ascrivibile anche ad un errore, e quindi non era indice certo della volontà di rinunciarvi. 7. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dalla soc. S., con ricorso fondato su un solo motivo. P.M. e D.N.M. hanno resistito con controricorso illustrato da memoria. Motivi della decisione 1. Vanno preliminarmente rigettate le eccezioni pregiudiziali di rito sollevate dai controricorrenti. Regolari, infatti sono sia la notifica del ricorso, sia l’attestazione di conformità all’originale della relazione di notificazione effettuata per via telematica; né il ricorso appare irrispettoso dei requisiti richiesti dall’art. 366 c.p.c.: chiare, infatti, sono, sia la descrizione in esso contenuta dei fatti di causa, sia l’esposizione del contenuto delle censure. Resta invece assorbita l’eccezione di “litispendenza” sollevata dai controricorrenti, avendo essi precisato nella memoria depositata ex art. 380-bis c.p.c. che il giudizio pregiudiziale (e cioè l’impugnazione per revocazione

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della medesima sentenza oggetto del ricorso per cassazione), è stato definito dalla Corte d’appello di Napoli con sentenza 5023/19, la quale ha rigettato il ricorso proposto dalla soc S. Per quanto attiene, infine, all’eccezione di inammissibilità del ricorso ex art. 348-ter c.p.c., essa è solo parzialmente fondata (lo si dirà meglio tra breve), in quanto il ricorso pone, oltre che una questione di fatto, anche una questione di diritto, che in quanto tale sfugge alle previsioni dell’art. 348-ter c.p.c. 2. Con l’unico motivo la società ricorrente prospetta la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (sic), in relazione al mancato esame d’un fatto storico oggetto di discussione tra le parti decisivo della controversia”. Al di là di tale intitolazione, nella illustrazione del motivo si sostiene una tesi così riassumibile: -) l’ammontare del credito vantato dalla soc. M. nei confronti della soc. S., al momento della estinzione della società, era ancora illiquido, giacché controverso fra le parti era l’esatto ammontare di esso; -) poiché il suddetto credito era illiquido, il suo mancato inserimento nel bilancio finale di liquidazione della società estinta “ha comportato senz’altro la rinuncia al credito” da parte della società. 1.1. Va preliminarmente rilevato come debba ritenersi un mero refuso l’affermazione contenuta al foglio 22 del ricorso (le cui pagine non sono numerate), secondo cui il ricorrente avrebbe inteso denunciare “la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5”. Dall’illustrazione del motivo, infatti, si comprende agevolmente che la


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società ricorrente ha inteso in realtà denunciare l’omesso esame d’un fatto decisivo “ai sensi”, e non già “in violazione”, dell’art. 360 c.p.c., n. 5. 1.2. Il ricorso è inammissibile nel presupposto di fatto su cui si fonda, e infondato nella conseguenza giuridica che da esso la ricorrente intende trarre. 1.3. Quanto al presupposto di fatto, anche a volere ritenere che possa rientrare in tale categoria l’interpretazione del giudicato esterno da parte del giudice di merito, la censura sarebbe comunque inammissibile ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c., dal momento che nei gradi di merito vi sono state due pronunce conformi. 1.4. Quanto alle conseguenze di diritto, corretta appare la decisione impugnata, quand’anche volesse ritenersi dimostrato il presupposto di fatto da cui muove il ricorrente, e cioè che al momento della estinzione della soc. M. il credito da essa vantato nei confronti della soc. S. fosse contestato. 1.5. Infatti i principi che governano la sorte dei crediti delle società commerciali estinte sono stati ricostruiti, in via generale, da una sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte (sez. un., sentenza n. 6070 del 12/03/2013, Rv. 625323 - 01), di cui tanto le parti, quanto la Corte d’appello, si sono mostrati avvisati. Non ne hanno però tratto, ad avviso di questo Collegio, le debite conseguenze. La suddetta sentenza ha fissato tre principi generali in base ai quali stabilire la sorte dei crediti vantati da una società estinta, così riassumibili: a) l’estinzione della società dà vita ad un fenomeno successorio;

b) dal lato passivo, tale successione comporta che dei debiti sociali rispondano i soci, nei limiti di quanto ad essi pervenuto per effetto del bilancio di liquidazione; c) dal lato attivo, tale successione comporta che i crediti sociali risultanti dal bilancio di liquidazione si trasferiscono ai soci pro indiviso. Questi sono i principi affermati ex cathedra dalle Sezioni Unite nella sentenza sopra ricordata. 1.6. La medesima sentenza ha poi affrontato anche il problema qui in esame, e cioè la sorte delle sopravvenienze attive e dei crediti non iscritti a bilancio, dopo l’estinzione della società. Su tale problema, esaminato alle Sezioni Unite solo obiter dictum, le SS.UU. hanno affermato che la sorte delle sopravvenienze attive e dei crediti non risultanti dal bilancio di liquidazione non può essere stabilita ex ante in base ad una regola generale, uniforme ed “automatica”. Hanno invece, formulato delle ipotesi “aperte” (p. 4 e ss. dei “Motivi della decisione” di Cass. sez. un. 6070/13). Hanno, in particolare, stabilito che è compito del giudice di merito stabilire caso per caso se, in base alle peculiarità della fattispecie, possa presumersi ex art. 2727 c.c. una volontà della società di rinunciare ad un determinato credito. Si è osservato nella suddetta sentenza, in particolare, che se il credito era illiquido; se il liquidatore sapeva della sua esistenza e non l’aveva inserito in bilancio; oppure se il credito “non poteva neppure essere iscritto nel bilancio”, in tutti questi casi la mancata appostazione all’attivo può consentire di presumere una volon-

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tà della società di rinunciare a quella pretesa: ma pur sempre di presunzione si tratta, senza alcuna indefettibile implicazione unilaterale tra omessa indicazione del bilancio e remissione del debito. Nel 2013, in definitiva, le Sezioni Unite non affrontarono se non incidenter tantum il tema dei residui attivi o delle sopravvenienze attive: si limitarono a stabilire che la sorte di tali crediti resta affidata ad una valutazione caso per caso, fermo restando però che l’estinzione della società dà sempre vita ad un fenomeno successorio. 1.7. Più di recente il tema è stato ripreso e sviluppato da questa Corte con la sentenza pronunciata da dalla Prima sezione, Sentenza n. 9464 del 22/05/2020, Rv. 657639 - 01. Tale decisione, integrando e completando i principi stabiliti nel 2013, ha affermato che: - anche i residui attivi e le sopravvenienze attive possono trasferirsi ai soci della disciolta società; - può ammettersi in astratto che la società possa rinunciare ai crediti suddetti, ma questa rinuncia non può presumersi ipso facto in base al solo rilievo che il credito non sia stato appostato in bilancio. La remissione del debito, infatti, è pur sempre un atto negoziale che richiede una manifestazione di volontà. Tale manifestazione di volontà ovviamente potrà essere anche tacita, ma deve essere tuttavia inequivoca. Il silenzio, infatti, nel nostro ordinamento giuridico non può mai elevarsi a indice certo d’una volontà abdicativa o rinunciataria d’un diritto, a meno che non sia circostanziato, cioè accompagnato dal compimento di atti o com-

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portamenti di per sé idonei a palesare una volontà inequivocabile. La mancata appostazione d’un credito nel bilancio finale di liquidazione, tuttavia, non possiede i suddetti requisiti di inequivocità. Essa, infatti, potrebbe teoricamente essere ascrivibile alle cause più varie, e diverse da una rinuncia del credito: ad esempio, l’intenzione dei soci di cessare al più presto l’attività sociale; l’arriere-pensee di coltivare in proprio l’esazione del credito sopravvenuto o non appostato; la pendenza delle trattative per una transazione poi non avvenuta, e sin anche, da ultimo, la semplice dimenticanza o trascuratezza del liquidatore. 1.8. A tali principi, cui il Collegio intende dare continuità, si è uniformata la sentenza oggi impugnata, dal momento che essa ha escluso che la mera omissione dell’indicazione d’un credito nel bilancio finale di liquidazione potesse ritenersi indice certo della volontà di rimettere quel credito. Il ricorso va dunque rigettato, in applicazione del seguente principio di diritto: “la remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco; un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo quando non possa avere alcun’altra giustificazione razionale, se non quella di rimettere al debitore la sua obbligazione. Ne consegue che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a


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meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l’omessa appostazione in bilancio altra causa non potesse avere, se non la volontà della società di rinunciare a quel credito”. 2. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nel dispositivo. P.Q.M. la Corte di cassazione:

- rigetta il ricorso; - condanna S. s.r.l. alla rifusione in favore di P.M. e D.N.M. delle spese del presente giudizio di legittimità; (Omissis)

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(1-2) Cancellazione delle società di capitali e sorte dei crediti “incerti” sopravvissuti: finalmente parole chiare (e convincenti) della Cassazione 1. È opinione prevalente in dottrina e ormai unanime in giurisprudenza che con la cancellazione delle società di capitali dal registro delle imprese si abbia sempre e comunque l’estinzione e quindi la definitiva ed irreversibile scomparsa delle medesime1: una opinione che, come è

Limitando i riferimenti alla dottrina più recente, v., per tutti, G. F. Campobasso, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società10 a cura di M. Campobasso, Torino, 2020, p. 551; G. Ferri, Manuale di diritto commerciale16 a cura di Angelici e G.B. Ferri, Torino, 2019, pp. 436 s.; Fauceglia, Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, in Manuale di diritto commerciale14 ideato da Buonocore, Torino, 2017, pp. 622 ss.; Fimmanò, Artt. 2495-2496, in Scioglimento e liquidazione delle società di capitali, a cura di Bianchi e Strampelli, in Commentario della riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi e Notari, Milano, 2016, pp. 298 ss., 306 ss.; Rosapepe, Lo scioglimento e la liquidazione, in Trattato delle società a responsabilità limitata diretto da Ibba e Marasà, Milano, 2015, pp. 447 ss.; Giannelli, Art. 2495, in Commentario del codice civile, diretto da Gabrielli, Delle società, dell’azienda, della concorrenza, a cura di Santosuosso, Utet, 2015, pp. 1061 ss.; De Acutis, Lo scioglimento e la liquidazione delle società di capitali, in Diritto commerciale a cura di Cian, Torino, 2014, pp. 663 s.; A. Nigro, I soggetti delle procedure concorsuali, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da Vassalli. Luiso e Gabrielli, vol. I, Torino, 2013, pp. 140 ss.; Positano, L’estinzione della società per azioni fra tutela del capitale e tutela del credito, Milano, 2012, pp. 69 ss.; F. Ferrara jr. e Corsi, Gli imprenditori e le società15, Milano, 2011, p. 961; per la letteratura meno recente v., in ogni caso, Porzio, La cancellazione, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, 4, Torino, 2007, pp. 90 ss.; Niccolini, Art. 2495, in Società di capitali, Commentario a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, pp. 1839 ss. Non mancano però Autori contrari alla tesi dell’effetto definitivamente ed irretrattabilmente estintivo della cancellazione: v., per tutti, Spolidoro, Seppellimento prematuro. La cancellazione delle società di capitali dal registro delle imprese ed il problema delle sopravvenienze attive, in Riv. soc., 2007, passim; Id., Effetti sostanziali della cancellazione della società: sopravvenienze attive e passive, in Riv. soc., 2017, pp. 913 ss.; Bussoletti, Lo scioglimento e l’estinzione delle società fra apertura, chiusura e riapertura del fallimento, in Riv. dir. soc., 2009, pp. 462 s.; Id., La cancellazione della società e gli effetti dell’estinzione nella giurisprudenza recente, in Riv. dir. comm., 2017, II, pp. 223 ss.; Ibba, Cancellazione ed estinzione delle società. Per la soppressione dell’inciso “ferma restando l’estinzione della società”, in Riv. soc., 2017, p. 808 ss.; Sanna, Cancellazione ed estinzione nelle società di capitali, Torino, 2013, passim; Id., L’iscrizione della cancellazione delle società ed i suoi effetti, in Il registro delle imprese a vent’anni dalla sua attuazione, a cura di Ibba e Demuro, Torino, 2017, pp. 239 ss. Per la critica di queste opinioni, definibili “negazioniste” o, forse meglio, “nostalgiche”, v. – oltre a chi scrive: A. Nigro, I soggetti, cit., pp. 141 ss.; Id., Cancellazione ed estinzione delle società: una parola definitiva dalle sezioni unite, in Foro it., 2013, I, c. 2213 s. – Rosapepe, Lo scioglimento, cit., p. 459 ss.; Giannelli, Art. 1

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noto, rinviene il suo referente normativo nell’attuale art. 2495, comma 3 (già comma 2) c.c.2, il quale esordisce con il perentorio inciso “Ferma restando l’estinzione della società”3. Ciò precisato, si è da sempre posto e tuttora si pone il problema della sorte delle situazioni giuridiche attive e passive, sostanziali e processuali, eventualmente sopravvissute o sopravvenute a quella scomparsa. Il già citato art. 2495 si occupa del tema solo con riguardo ai debiti sociali, stabilendo che, verificatasi l’estinzione, i creditori sociali rimasti insoddisfatti hanno diritto di rivolgersi sia contro i soci sia contro i liquidatori; tace completamente, invece, con riguardo ai beni ed ai crediti e con riguardo ai processi in corso. Larga parte della dottrina da tempo ritiene, con argomentazioni specificamente riferite alla regola dettata per i debiti ma di portata in realtà generale, che si determini nell’ambito che qui interessa una successione dei soci alla società, in senso stretto4 o in

2495, cit., pp. 1068 ss. Quanto alla giurisprudenza, può bastare il richiamo alle ormai notissime sentenze 22 febbraio 2010, n. 4060, 4061 e 4062 (la prima in Giur it., 2010, 1616, con nota di Weigmann, La difficile estinzione delle società; la terza in Dir. banc., 2010, I, 325, con nota di A. Nigro, Ancora sulla cancellazione ed estinzione delle società: verso l’epilogo della «storia infinita»), la cui linea è stata ribadita e completata dalle sentenze 12 marzo 2013, n. 6070, 6071, 6072 (la prima e la terza in Foro it., 2013, I, 2212 ss., con nota di A. Nigro, Cancellazione ed estinzione, cit.) che hanno sancito in modo perentorio la “rigidità” ed “assolutezza” della regola posta dall’art. 2495 («La cancellazione dal registro delle imprese determina l’immediata estinzione della società, indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad essa facenti capo…»: così, lapidariamente, Cass. n. 4060/2010, cit.). Su questa posizione la Suprema Corte è ormai fermissima: e si vedano tutte le sentenze richiamate nei §§ successivi. 2 L’art. 2495 è stato modificato dall’art. 40, co. 12-ter, lett. b), n. 1), d.l. 16/7/ 2020, n. 76, convertito dalla l. 11/9/2020, n. 120, ed oggi recita: «Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese, salvo quanto disposto dal secondo comma» (comma 1); «Decorsi cinque giorni dalla scadenza del termine previsto dal terzo comma dell’articolo 2492, il conservatore del registro delle imprese iscrive la cancellazione della società qualora non riceva notizia della presentazione di reclami da parte del cancelliere» (comma 2); «Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società» (comma 3). 3 Tale inciso è stato voluto dal legislatore della riforma del diritto societario del 2003 proprio per porre drasticamente fine ad ogni residua possibilità di mantenere aperta la questione dell’effetto estintivo della cancellazione. Ad avviso di chi scrive, peraltro, esso ha soltanto reso esplicito quello che anteriormente era implicito. 4 V. per tutti Graziani, Diritto delle società5, Napoli, 1963, pp. 559-560; Greco, Le società nel sistema legislativo italiano, Torino, 1959, pp. 447-448; Porzio, L’estinzione della

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senso lato5; e della stessa opinione è ormai la giurisprudenza, in particolare della Cassazione6. Altra parte della dottrina invece recisamente nega che i soci possano riguardarsi come “eredi” della società7 e rinviene un diverso fondamento della regola dettata dall’art. 2495, co. 2 (oggi comma 3), che viene allora collegata ad un arricchimento senza causa dei soci8 o ad una ripetizione di indebito nei confronti dei medesimi9. Ad avviso di chi scrive, l’opinione più convincente è senz’altro la prima: estinta la società, come soggetto strumentale, è naturale che nella titolarità delle situazioni eventualmente residuate all’estinzione subentrino i soci: come si è avuto occasione di precisare ad altro proposito10, nelle società di capitali, “al di sotto” per così dire del contratto sociale e dell’organizzazione che ne è il frutto, c’è strutturalmente una situazione di comunione fra i soci, che, una volta estinta la società, è inevitabilmente destinata a riemergere11; e questa riemersione, con il conseguente

società per azioni, Napoli, 1959, p. 210; Speranzin, L’estinzione delle società di capitali in seguito alla iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, in Riv. soc., 2004, p. 533 ss.; Cottino, Diritto societario2, a cura di Cagnasso, Padova, 2011, p. 570 (con specifico riferimento alle sopravvenienze attive). 5 Di Sabato, Diritto delle società, Milano, 2003, p. 503, che sottolinea il carattere strumentale del soggetto-società, estinto il quale i soci naturalmente subentrano nella titolarità dei debiti sociali nei limiti della loro responsabilità. Particolare è la posizione di Niccolini, da ultimo in Contributo allo studio del bilancio finale di liquidazione delle società di capitali, Torino, 2019, p. 178 ss. il quale collega la responsabilità dei soci ad una sorta di ultraattività del programma sociale in capo direttamente ai soci dopo la formale estinzione dell’ente (nello stesso senso anche, fra gli altri, Giannelli, Art. 2495, cit., p. 1071). 6 V. soprattutto le tre sentenze delle SS. UU. del 2013 citate alla nt. 1, la cui linea sul punto è stata seguita ormai costantemente in tutte le pronunce successive della Cassazione. Nella giurisprudenza di merito v. nello stesso senso, da ultimo, Trib. Sassari, 13 luglio 2020, in Giur. comm., 2021, II, 142, con nota di Sanna, Cancellazione (d’ufficio) della società, sopravvenienze e rinuncia a “mere pretese” e “crediti incerti o illiquidi”. 7 V. per esempio F. Ferrara jr. e Corsi, Gli imprenditori, cit., p. 962. 8 V., per tutti, G. Minervini, La fattispecie estintiva delle società per azioni ed il problema delle c. d. sopravvenienze, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1952, p. 1020; Fré, Società per azioni3, in Commentario al codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1962, p. 907. 9 Mirone, Cancellazione della società dal registro delle imprese. Sopravvenienze attive e passive. Estinzione, in Riv. soc., 1968, 561 ss.; la tesi è stata ripresa, più di recente, da Guizzi, Le Sezioni Unite, la cancellazione delle società e il “problema” del soggetto: qualche considerazione critica, in Società, 2013, p. 561. 10 In Le ristrutturazioni societarie nel diritto italiano delle crisi: notazioni generali, in Riv. dir. comm., 2019, I, p. 383. 11 In questo senso v. anche Porzio, La cancellazione, cit., p. 91; e, prima, Ascarelli, Liquidazione e responsabilità delle società per azioni, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1952, p. 248.

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subentro dei soci alla società, realizza, in quanto tale, proprio un fenomeno successorio. Naturalmente si tratta di un fenomeno successorio del tutto sui generis, certamente non assimilabile, data la sua particolare genesi, alla successione mortis causa di cui agli artt. 456 ss. c.c.12. In tal senso, del resto, mostra ormai chiaramente di essersi orientata la legge. In base all’ultimo periodo dell’art. 2495, co. 3 (già comma 2), aggiunto dalla riforma del 2003, i creditori, entro un anno dalla cancellazione, possono notificare la loro domanda - sia quella nei confronti dei liquidatori sia, per quel che qui interessa, anche quella nei confronti dei singoli soci - presso l’ultima sede della società. Questa disposizione è suscettibile di creare molti problemi ed è stata per questo oggetto di molti rilievi critici13: quel che va ora sottolineato, comunque, è che essa riecheggia da vicino l’art. 303 c.p.c., a norma del quale «In caso di morte della parte…la notificazione [del ricorso in riassunzione] entro un anno dalla morte può essere fatta collettivamente e impersonalmente agli eredi, nell’ultimo domicilio del defunto», sottintendendo allora proprio l’accostamento fra soci ed eredi. 2. Questo essendo il quadro generale, una problematica del tutto particolare si è sviluppata con riferimento specificamente ai crediti e costituisce tuttora materia di dibattito. Il punto di partenza è stato offerto dalle più volte ricordate pronunzie delle SS. UU. del 2013, le quali, dopo aver formulato il principio, di cui si è

Per dimostrare – nel quadro dell’orientamento “negativista” di cui alla nt. 1 – che le tesi della Cassazione sarebbero «una costruzione artificiosa strumentale alla giustificazione ex post di una soluzione interpretativa fondata sulla mera intuizione di una analogia con il fenomeno successorio», una autorevole dottrina (Spolidoro, Effetti, cit., p. 921) ha ritenuto di porre l’accento su ciò che il trasferimento dei beni ai soci sarebbe una conseguenza ex lege della cancellazione: «saremmo quindi di fronte ad una successone universale in cui, diversamente da quanto previsto per la successione ereditaria o per la successione in caso di fusione, il patrimonio si trasmette al successore senza che egli lo voglia». Questo rilievo è però – ad avviso di chi scrive – palesemente inconsistente. Perché nel sistema disegnato dalle norme la trasmissione del “patrimonio residuo” dalla società estinta ai soci è voluta dagli stessi, individualmente considerati, ben due volte: con l’approvazione all’unanimità del bilancio finale di liquidazione, un’approvazione direttamente preordinata alla cancellazione, con tutto ciò che alla stessa consegue; e con la riscossione delle quote di liquidazione. 13 V., fra gli altri, Niccolini, Art. 2495, cit., p. 1847 s.; F. Ferrara jr. e Corsi, Gli imprenditori, cit., pp. 961 s.; e Bussoletti, Le nuove norme del codice civile in tema di processo societario, in Giur. comm., 2004, I, pp. 313 s. (che ha anche adombrato l’illegittimità costituzionale della disposizione). 12

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detto prima, secondo il quale nella titolarità dei beni e diritti “superstiti” rispetto alla cancellazione ed alla conseguente estinzione della società subentrano i soci, in regime di comunione, hanno ritenuto opportuno precisare – che restano esclusi da tale subentro «le mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio» e «i diritti di credito ancora incerti o illiquidi» la cui inclusione nel bilancio finale di liquidazione «avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato»; – che sarebbe «possibile che la stessa scelta della società di cancellarsi dal registro senza tener conto di una pendenza non ancora definita, ma della quale il liquidatore aveva (o si può ragionevolmente presumere che avesse) contezza sia da intendere come una tacita manifestazione di rinunciare alla relativa pretesa». Precisazioni le quali hanno fornito la base per una distinzione/contrapposizione fra crediti (della società estinta) in cui succedono i soci e crediti (sempre della società estinta) in cui i soci non succedono, perché li si dovrebbe ritenere “rinunciati” per effetto stesso della, o comunque in relazione alla, cancellazione (cioè all’estinzione) della società. A seguito di queste precisazioni14 – le quali, come spesso ormai si tende a sottolineare15, erano state formulate nell’ambito di un chiaro obiter dictum – si è venuto formando nel tempo un sempre più nutrito complesso di sentenze che hanno visto la stessa Cassazione costretta a misurarsi con l’esigenza di chiarire il modo in cui le regole estraibili da tali precisazioni possano o debbano trovare applicazione, anche in relazione alla variegata tipologia dei crediti “incerti”16 (fra i quali attenzione hanno ricevuto anche i crediti per il risarcimento dei danni da illeciti extracontrattuali17): un complesso di sentenze, peraltro, non connotato da indirizzi univoci18.

Un antecedente delle quali viene considerata la sentenza 16 luglio 2010, n. 16758, in Società, 2011, 5, con nota di Fusi, che riguardava, però, una fattispecie molto particolare (si trattava della pretesa all’accertamento della simulazione di un negozio risolutivo). 15 Così entrambe le pronunzie qui pubblicate. 16 Espressione che pare quella più idonea a comprendere riassuntivamente le varie figure evocate dalla giurisprudenza: le “mere pretese”, i crediti “illiquidi”, i crediti “litigiosi”, ecc. 17 In argomento, v. Cass., SS. UU., 18 dicembre 2020, n. 29108, in Foro it., 2021, I, 477. 18 Per un panorama dei diversi indirizzi v. Dolmetta, Cancellazione della società e “sopravvenienza” di crediti, in www.ilcaso.it, 2019; Speranzin, Estinzione delle società nella recente giurisprudenza, in Riv. dir. civ., 2021, pp. 376 ss. 14

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Inizialmente, era apparso prevalente l’orientamento secondo il quale sarebbe stato possibile rinvenire nel fatto stesso della cancellazione dal registro delle imprese e/o della mancata iscrizione dei crediti nel bilancio finale di liquidazione un atto di rinuncia ai medesimi da parte della società19. Tale orientamento (che aveva trovato la sua punta estrema in pronunzie nelle quali la regola della tacita rinunzia era stata estesa addirittura alla cancellazione ex lege ai sensi dell’art. 118, ult. comma l. fall.20) aveva fin da subito sollevato tanto radicali, quanto giustificate, critiche da parte della dottrina pressochè unanime21. Si era infatti correttamente osservato, da un lato, che la rinunzia ad un credito è atto negoziale che può anche ricavarsi da un comportamento fattualmente concludente ma non dedursi in via presuntiva22; dall’altro, che i meccanismi automatici costruiti dalla giurisprudenza dominante prescindevano totalmente dall’effettiva consapevolezza (in capo ai protagonisti della vicenda) dell’esistenza del diritto, la quale è invece elemento essenziale per la validità di un atto abdicativo23; dall’altro ancora che simili meccanismi si traducevano in un ingiustificato pregiudizio sia per i soci e sia per i creditori sociali rimasti insoddisfatti24. In tempi più recenti, forse anche e proprio in conseguenza delle sollecitazioni provenienti dalla dottrina, si sta progressivamente affermando, nella giurisprudenza della Suprema Corte, una linea diversa, orien-

19 V. fra le tante Cass., 24 dicembre 2015, n. 25974, in Foro it., Rep. 2015, voce Società, n. 707; Cass., 29 luglio 2016, n. 15782, id., Rep. 2016, voce cit., n. 733; Cass, 15 novembre 2016, n. 23269, id., 2017, I, 2812; Cass., 19 luglio 2018, n. 19302, id., Rep. 2018, voce cit., n. 494. V. anche le sentenze riportate nella nt. successiva. 20 Così, in particolare, Cass., 22 marzo 2019, n. 13921, in Foro it., 2019, I, 4002, per la quale nel caso di cancellazione di una società dal registro delle imprese a seguito della chiusura del suo fallimento per insufficienza dell’attivo, il credito litigioso che non sia stato portato dai soci, dagli amministratori o dai liquidatori a conoscenza del curatore del fallimento e non sia stato pertanto incluso fra le voci dell’attivo, deve ritenersi rinunciato dalla società. Con riguardo alla cancellazione d’ufficio ex art. 2480, comma 6, c.c. la Cassazione si è invece pronunziata nel senso dell’inapplicabilità della regola: v. da ultimo Cass. 24 gennaio 2020, n. 1625, in banca dati Pluris; Cass., 6 aprile 2018, n. 8582, in Foro it., 2018, I, 2067, con osservazioni di Niccolini. 21 Per un quadro di queste posizioni v. Mondini, Art. 2495, in Le società per azioni, diretto da Abbadessa e Portale, Milano, 2016, II, pp. 3000 s. 22 V. fra gli altri Zorzi, L’estinzione delle società di capitali: la sorte di “mere pretese” e “crediti illiquidi”, in Giur. comm., 2015, II, pp. 258 s.; Guerrieri, Cancellazione della società, rinunzie alle attività e sopravvenienze attive, in Giur. comm., 2018, I, pp. 611 ss. 23 Zorzi, L’estinzione, cit., pp. 259 s.; Dolmetta, Cancellazione, cit., pp. 9 s. 24 Niccolini, Contributo, cit., pp. 191 s.; v. anche Guizzi, Le Sezioni Unite, cit., p. 563.

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tata nel senso di prendere in considerazione tutti i dati emergenti dalla fattispecie concreta25 e, ancor più radicalmente, nel senso della rigorosa esclusione di qualsiasi automatismo. In quest’ultimo indirizzo si collocano le due pronunzie qui pubblicate. 3. Meritevole di particolare attenzione è soprattutto – per ragioni che appariranno immediatamente chiare – la sentenza 22 maggio 2020, n. 9464 della I sezione civile della Cassazione26, la cui motivazione brilla per chiarezza, linearità e completezza. Del resto, essa era stata preceduta dall’ordinanza interlocutoria 13 settembre 2019, n. 2291127, con la quale la questione oggetto del ricorso, per la sua significativa rilevanza nomofilattica, era stata rimessa all’esame della pubblica udienza; il che ha evidentemente propiziato un riesame approfondito dell’intera tematica. A. In tale pronuncia risultano scanditi, con assoluta nettezza, tutti i passaggi di un corretto percorso ricostruttivo nella materia che qui interessa: – il principio generale è che, una volta estinta la società, i diritti dalla medesima vantati, anche se non inseriti nel bilancio finale di liquidazione (perché al momento non considerati, se ne ignorasse o no l’esistenza) transitano nella titolarità dei soci; ogni deviazione da questo principio concreta un’eccezione, che va allegata e dimostrata da chi voglia farla valere; – la rinuncia ad un credito (tecnicamente remissione) è un atto negoziale abdicativo unilaterale recettizio, che ha precisi requisiti, fissati dall’art. 1236 c.c.; essenziali sono, in particolare, da un lato la manifestazione da parte del creditore di una volontà remissoria, che può anche avvenire attraverso comportamenti concludenti, purchè significativi ed inequivoci in quanto incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito; e, dall’altro, la comunicazione di tale manifestazione al debitore; – dato quanto precede, è in principio errato presumere sempre iuris et de iure in presenza di una cancellazione dal registro delle imprese richiesta dal liquidatore una rinuncia della società a crediti “pendenti”,

V. da ultimo Cass., SS. UU., 18 dicembre 2020, n. 29108, cit. Pubblicata anche in Foro it., 2020, I, 3530, con nota di Niccolini, Sulla rinuncia ai crediti sociali in conseguenza della cancellazione della società dal registro delle imprese. 27 Di cui è menzione nello scritto di Dolmetta, Cancellazione, cit., p. 2. 25 26

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dovendosi al contrario verificare se nel comportamento della società al momento della cancellazione siano rintracciabili i requisiti della univocità e concludenza, i quali devono in ogni caso essere valutati con particolare rigore e cautela e, nel dubbio, devono ritenersi assenti; – tali requisiti non possono essere ravvisati nel fatto in sé che la cancellazione sia stata chiesta ed eseguita; – infine, l’iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, per la sua stessa natura di informazione diretta alla collettività, è inidonea ad integrare il requisito, pur esso essenziale, della recettizietà. B. Tutti questi passaggi – ad avviso di chi scrive, da condividere in toto – sono naturalmente importanti. Uno, però, parrebbe particolarmente importante: ed è proprio quello di esordio, nel quale si evidenzia che costituisce principio generale quello del subentro illico et immediate dei soci alla società nella titolarità di tutte le situazioni giuridiche attive residuate dalla liquidazione (siano esse allora veri e propri crediti, ma anche aspettative o pretese; e, se crediti, di qualsiasi genere, anche illiquidi o litigiosi, ecc.) e costituisce quindi eccezione a quel principio il mancato subentro (per effetto, specificamente, di rinunzia da parte della società), con tutto ciò che allora ne consegue sul piano dell’onere di allegazione e di prova. Con questo principio e con l’altra regola evidenziata dalla sentenza in punto di valutazione del comportamento della società al fine di verificare se in esso siano rintracciabili i requisiti della univocità e concludenza indispensabili per la configurabilità di una rinunzia tacita (con la precisazione che tali requisiti vanno valutati con particolare rigore e cautela e che, nel dubbio, li si debba ritenere insussistenti28) si opera, a ben vedere, un vero e proprio capovolgimento rispetto alle linee seguite dall’orientamento un tempo dominante nella giurisprudenza della Suprema Corte. Ai meccanismi presuntivi costruiti da quell’orientamento si contrappongono infatti meccanismi presuntivi di segno esattamente opposto: la presunzione, salvo prova contraria, del subentro dei soci alla società nelle partite attive (quale che ne sia la natura e la consistenza) sopravvissute alla liquidazione; la presunzione, salvo prova contraria, che i comportamenti tenuti dalla società e dai suoi organi al momento della cancellazione, rispetto a tali partite, non concretino rinunzie tacite.

28 Precisazione ormai costante nella giurisprudenza in materia di remissione del debito: v., da ultimo, Cass., 14 giugno 2019, n. 16061, in Foro it., Rep. 2019, voce Contratto in genere, n. 277; Cass., 10 maggio 2019, n. 12544, ibid., voce Agenzia, n. 9.

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Tutto questo porta a dover considerare la sentenza in questione una sorta di “pietra miliare” nell’evoluzione della giurisprudenza della Cassazione in materia. C. Due precisazioni sembrano opportune. a. Nella sentenza si menzionano, accanto alle sopravvivenze attive, anche le sopravvenienze attive. Le si menzionano nel quadro del primo dei passaggi motivazionali, quello in cui si precisa essere regola generale il subentro dei soci nella titolarità dei diritti facenti capo alla società estinta. In tale contesto la menzione è certamente corretta. Resta però che i passaggi successivi – dove si affronta il tema specifico della eventuale rinuncia ai (o remissione dei) crediti “incerti” – possono riguardare solo le sopravvivenze attive e non anche le sopravvenienze attive, che, in quanto sorte posteriormente alla estinzione, non potrebbero essere toccate da atti abdicativi compiuti dalla società anteriormente a quel momento. b. Un attento giurista, profondo conoscitore della materia, ha concluso il suo commento alla sentenza di cui ci stiamo occupando29, osservando che il ragionamento in essa condotto – “con il suo rigoroso incedere, così attento alle regole del diritto delle obbligazioni” – di fatto consente di “riaprire i giuochi” che forse la riforma del diritto societario del 2003, con l’inciso iniziale dell’art. 2495, comma 2 (ora comma 3), intendeva impedire; e ponendo la domanda se sia stata scelta davvero accorta e producente quella del legislatore del 2003 di proclamare la cancellazione fatto che genera fatale estinzione della società. Il tema è ovviamente troppo complesso per affrontarlo in questa sede. Mi permetto solo di fare presente, da un lato, che un ritorno all’antico (per il quale l’Autore in questione30 mostra di nutrire ancora, evidentemente, qualche nostalgia31) sarebbe veramente impensabile; dall’altro,

Niccolini, Sulla rinuncia, cit., c. 3544. In passato sostenitore del prevalente orientamento giurisprudenziale ante riforma, per il quale – come è noto - l’estinzione della società seguiva sì all’esaurimento della liquidazione, ma la liquidazione non poteva dirsi esaurita fino a che vi fossero rapporti (attivi o passivi) da definire: con la conseguenza di ammettere, anche dopo la chiusura dell’iter formale di liquidazione ed anche dopo la stessa cancellazione dal registro delle imprese, la possibilità, anzi la necessità, di riaprire la liquidazione, mantenendosi così in vita la società, ogni qualvolta risultassero nuove attività o nuove passività (e v. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per azioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, 7***, Torino, 1997, p. 708 ss.). 31 E non sarebbe per la verità il solo: e v. gli A. indicati nella nt. 1 come, appunto, “nostalgici”. 29 30

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che non vi è evidentemente alcun ostacolo ad immaginare de iure condendo una revisione della disciplina della fase terminale della vita delle società che, senza proiettare all’infinito la definitiva scomparsa delle medesime, assicuri uno svolgimento più rapido e più efficiente della liquidazione, maggiori possibilità di intervento dei creditori sociali e così via. 4. La seconda delle pronunzie che qui pubblichiamo, l’ordinanza 15 dicembre 2020, n. 28439 della III sezione della Corte Suprema32, si è occupata di un profilo particolare, nell’ambito della questione generale: quello se il mancato inserimento nel bilancio finale di liquidazione di un credito illiquido perché contestato nel suo importo possa concretare atto di rinuncia al credito da parte della società. Tale problema la Corte ha risolto in senso rigorosamente negativo, facendo espresso riferimento alla sentenza della I sezione, di cui ha ripreso i principi, ai quali ha espressamente dichiarato di voler dare continuità. Per la verità, la sentenza della I sezione non ha espressamente e compiutamente affrontato il problema della rilevanza o meno della mancata iscrizione dei crediti “incerti” nel bilancio finale di liquidazione. La III sezione ha “adattato” a tale problema la linea argomentativa generale seguita dalla I sezione, rilevando (correttamente) che: – la società certamente può rinunciare a crediti pendenti al momento della cancellazione, ma questa rinuncia non può presumersi ipso facto in base al solo rilievo che tali crediti non siano stati appostati nel bilancio finale di liquidazione; – può ammettersi che la manifestazione di volontà concretante una rinuncia sia tacita, ma deve essere in ogni caso inequivoca; – alla mancata appostazione di un credito in bilancio – in quanto comportamento omissivo equivalente al silenzio – non può riconoscersi il requisito della inequivocità, posto che esso «potrebbe teoricamente essere ascrivibile alle cause più varie e diverse da una rinuncia del credito: ad esempio, l’intenzione dei soci di cessare al più presto l’attività sociale; l’arrière-pensée di coltivare in proprio l’esazione del credito sopravvenuto o non appostato; la pendenza di trattative per una transazione poi non avvenuta, e sinanche, da ultimo, la semplice dimenticanza o trascuratezza del liquidatore».

32 Pubblicata anche in Società, 2021, 667, con nota di Costanza, Il bilancio finale di liquidazione non è eloquente.

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5. È il caso di aggiungere che le linee argomentative adottate dalle pronunzie qui pubblicate sembrano riscuotere sempre maggior favore. Ad esse infatti hanno aderito altre pronunzie sia della stessa III sezione (ordinanza 31 dicembre 2020, n. 30073, in banca dati Pluris; ordinanza 9 febbraio 2021, n. 3136, in banca dati Pluris; sentenza 18 maggio 2021, n. 13534, in banca dati Pluris) e sia della sezione VI – 1 (ordinanza 16 ottobre 2020, n. 22432, in banca dati Pluris; ordinanza 10 marzo 2021, n. 6771, in banca dati Pluris, riguardante una società di persone)33. C’è da auspicare che questo consenso si allarghi e si consolidi.

Alessandro Nigro Abstract Lo scritto analizza criticamente l’evoluzione della giurisprudenza in materia di effetti della cancellazione delle società di capitali dal registro delle imprese sui crediti “incerti” (crediti non liquidi, crediti contestati, ecc.) da esse vantati. Inizialmente, infatti, prevaleva l’orientamento secondo cui il fatto stesso della cancellazione (o della mancata iscrizione di quelle posizioni attive nel bilancio finale di liquidazione) avrebbe dovuto esse considerato come rinunzia ai crediti da parte della società. Attualmente si sta affermando una diversa e più condivisibile linea – di cui sono espressione le pronunce pubblicate – fondata sulla rigorosa esclusione, in materia, di qualsiasi automatismo e sull’altrettanto rigoroso rispetto delle regole che riguardano la remissione dei debiti.

*** The paper critically analyzes the evolution of jurisprudence on the effects of the cancellation of companies from the Registro delle imprese on “uncertain” credits (illiquid credits, disputed credits, etc.). Initially, in fact, the prevailing orientation was that the cancellation (or the failure to register those active positions in the final liquidation balance sheet) should have been considered as a waiver of credits by the company. Currently a different and more acceptable opinion is emerging - of which the published rulings are an expression - based on the rigorous exclusion, in this matter, of any automatism and on the equally strict compliance with the rules concerning the relief of debts.

33 Peraltro, non sono mancate incertezze: e v. ad esempio, sez. VI – 1, ordinanza 4 marzo 2021, n. 5889, in banca dati Pluris, che ha ripreso la linea seguita in precedenza da Cass. n. 19302 del 2018, citata retro, alla nt. 19.

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Tasso leasing e disciplina di trasparenza Corte di Cassazione, Sezione III civile, sentenza 13 maggio 2021, n. 12889; Pres. Sestini, Rel. Gorgoni, P.M. Mistri (concl. diff.); Soc. XY c. C.G. (Cassa App. Torino, 16 aprile 2018) Contratti – Leasing – Tasso di interesse stabilito nel contratto – Applicazione in concreto di un tasso maggiore – Estremi per l’applicazione dell’art. 117, comma 7, t.u.b. – Non sussistono – Inadempimento contrattuale – Sussiste (Cod. civ., art. 1218; testo unico bancario, art. 117, comma 7) La differenza fra il tasso di interesse convenuto nel contratto di leasing e quello maggiore concretamente applicato non integra di per sé alcuna delle condizioni circostanziali previste dall’art. 117, comma 7, t.u.b., per l’applicazione della sanzione sostitutiva, presentando invece gli estremi di una violazione in fase di esecuzione del contratto. (1) Contratti – Leasing – Tasso di interesse – Impossibilità di desumerlo univocamente per relationem dal contratto – Estremi per l’applicazione dell’art. 117, comma 7, t.u.b. – Sussistono (Testo unico bancario, art. 117, comma 7) Integra gli estremi per l’applicazione della sanzione sostitutiva di cui all’art. 117, comma 7, t.u.b. l’ipotesi in cui il tasso leasing non sia univocamente desumibile per relationem dal contratto. (2) Contratti – Leasing – Tasso di interesse – Indicazione espressa nel contratto – Applicazione di un tasso più elevato – Maggiorazione derivante dal frazionamento della restituzione in rate infrannuali – Adozione nella determinazione delle rate di criteri non precisati nel contratto né estrinseci ed obiettivi – Estremi per l’applicazione dell’art. 117, comma 7, t.u.b. – Sussistono (Testo unico bancario, art. 117, comma 7)

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Integra gli estremi per l’applicazione della sanzione sostitutiva di cui all’art. 117, comma 7, t.u.b. l’ipotesi in cui sia indicato nel contratto di leasing il tasso, appunto, di leasing, ma il tasso concretamente applicato risulti maggiore di quello convenuto, per effetto dell’adozione di un meccanismo di restituzione attraverso rate infrannuali, determinate secondo criteri né richiamati dal contratto né estrinseci ed obiettivi. (3) (Omissis) Svolgimento del processo La ricorrente espone di essere stata convenuta in giudizio, con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., dinanzi al Tribunale di Torino, da C.G., con cui aveva stipulato un contratto di locazione finanziaria, perché, accertata l’illegittima applicazione di interessi ultralegali e di somme ed oneri non pattuiti, ricalcolasse l’esatto dare avere tra le parti ed il canone di locazione senza l’applicazione di alcun interesse e, in via subordinata, con l’applicazione del tasso di interesse ex art. 117 t.u.b. e, in via ulteriormente subordinata, del tasso legale, ai sensi dell’art. 1284 c.c.; in via ulteriormente subordinata, instava per l’applicazione del tasso di interesse indicato nel Documento di sintesi del contratto, con storno e compensazione per le rate a scadere, e, nel caso di scadenza del contratto nelle more del giudizio, chiedeva la condanna alla restituzione delle somme indebitamente percepite dalla locatrice, oltre al risarcimento dei danni. Con ordinanza del 23 maggio 2017, espletata c.t.u., il Tribunale di Torino condannava XY a pagare all’attore la somma di Euro 70.269,17, a rimborsargli l’80% delle spese processuali e a farsi carico delle spese di c.t.u. Il Giudice reputava che il tasso indicato nel contratto, quello di 3,743%, corrispondesse al TAN e che facesse difetto l’indicazione del TEG, prescritta peraltro, dall’art. 5 del contratto; di conseguen-

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za, riteneva applicabile la sanzione di cui dell’art. 117 t.u.b., commi 4 e 7, cioè la sostituzione automatica del tasso convenuto con quello fissato ex lege. XY impugnava l’ordinanza di primo grado dinanzi alla Corte d’Appello di Torino e ne chiedeva la riforma, ritenendola errata in fatto e in diritto, e invocava la condanna di C.G. alla restituzione dell’importo di Euro 86.468,92, al netto degli interessi legali e del maggior danno, decorrenti dal 13 giugno 2017. La Corte d’Appello, con la sentenza oggetto dell’odierno ricorso, rigettava il gravame, confermava l’ordinanza del Tribunale di Torino, condannava l’odierna ricorrente alla rifusione delle spese di lite a favore di C.G. Avvalendosi di due motivi, la società finanziaria ricorre per la cassazione di detta sentenza. Resiste con controricorso C.G. Con ordinanza n. 20766 del 13 luglio 2020 la trattazione del ricorso, in considerazione della natura nomofilattica di alcune delle questioni proposte, veniva rinviato alla P.U. Entrambe le parti hanno depositato memorie. Motivi della decisione 1. Si dà preliminarmente atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in Camera di consiglio, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei


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difensori delle parti, ai sensi del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito in l. 18 dicembre 2020, n. 176, non avendo alcuna delle parti né il Procuratore Generale fatto richiesta di trattazione orale. 2. Con il primo motivo la società XY deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 117 t.u.b. e delle Istruzioni della Banca d’Italia – circ. n. 228/1999 – nonché delle Disposizioni di trasparenza della Banca d’Italia del 29 luglio 2009, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Corte d’Appello ritenuto le indicazioni del tasso di leasing non conformi alle prescrizioni normative sui tassi di interesse e per aver applicato una illegittima sanzione. La tesi argomentata è che la sostituzione del tasso convenuto con quello previsto dall’art. 117, comma 7, t.u.b. fosse avvenuta in assenza delle prescrizioni risultanti dal combinato disposto dell’art. 117 t.u.b., commi 4 e 7. Infatti, essendo stato il tasso di interesse indicato nel contratto, ad avviso della ricorrente, non sarebbe risultata integrata la condizione – la mancata indicazione del tasso di interesse – cui le indicazioni normative subordinano la sanzione della sua sostituzione automatica. La Corte d’Appello, insomma, avrebbe applicato la sanzione di cui dell’art. 117 t.u.b., comma 7, sulla scorta di un presupposto diverso da quello richiesto dalla legge: ritenendo che il tasso di interesse indicato nel contratto non fosse quelle effettivamente applicato, e, in particolare, reputando la pur minima differenza tra il tasso indicato in contratto e quello effettivamente applicato idonea a determinare la violazione dell’art. 117 t.u.b. Altrettanto erroneamente sareb-

be stato richiamato, per giustificare la sanzione sostitutiva, dell’art. 117 t.u.b., comma 8, che, per determinati contratti, impone un contenuto tipico predeterminato, comprendente l’indicazione del c.d. tasso di leasing; l’errore sarebbe consistito nel non aver tenuto conto che il tasso di leasing, risultando disciplinato dalle Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia, circ. n. 229/1999, aggiornamento del 25 luglio 2003, nella Sezione II, relativa alla Pubblicità, e non in quella (la III) riguardante il contratto (che commina la invalidità, ai fini che qui interessano, per la mancata indicazione del tasso di interesse) non avrebbe giustificato la nullità del contratto, ma solo la eventuale ricorrenza di una responsabilità contrattuale. 2. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1362 c.c., per avere il giudice a quo ritenuto che il contratto di leasing, contenendo esclusivamente l’indicazione del TAN, il quale avendo come riferimento temporale solo l’annualità e non i rimborsi infra-annuali, non rispettasse le Istruzioni della Banca d’Italia quanto all’obbligo di indicare il tasso d’interesse. L’art. 5 del contratto, il cui contenuto è riportato nel ricorso per rispettare i dettami dell’art. 366 c.p.c., comma 6, rubricato Tasso di Leasing, conterrebbe, ad avviso della società ricorrente, i criteri di calcolo per procedere all’effettiva individuazione del tasso interno di attualizzazione allorché la periodicità delle rate, come nel caso di specie, sia mensile. Di tale clausola contrattuale la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto.

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3. Riguardo al primo motivo, va in primo luogo esaminata l’eccezione di inammissibilità formulata dal controricorrente (p. 8), e ribadita nelle memorie, quella depositata in vista della adunanza camerale del 13 luglio 2020 e quella depositata in prossimità della odierna Pubblica Udienza, secondo il quale la società XY si sarebbe sempre difesa affermando che una eventuale imprecisione o irregolarità nella indicazione del tasso di interesse non potesse portare all’applicazione della sanzione sostitutiva di cui all’art. 117 t.u.b., con conseguente novità degli argomenti difensivi sottoposti allo scrutinio di questa Corte. L’eccezione va respinta, perché, oltre a non essere adeguatamente supportata, la sentenza (pp. 3 -4), riassumendo il motivo di impugnazione, chiarisce che la censura di XY si era indirizzata verso la non corretta comprensione da parte del Tribunale di Torino dei concetti di tasso di leasing, tasso indicizzato e Taeg, imputando al giudice di primo grado l’errore di aver affermato che nella normativa vigente il tasso di leasing corrispondesse al TEG, mentre, secondo le Istruzioni della Banca d’Italia, il tasso di leasing includerebbe solo quanto versato a titolo di capitale ed interessi, e che le informazioni riportate nel contratto erano da ritenersi, pertanto, corrette e rispettose della prescrizioni di cui all’art. 117, comma 8 t.u.b. In aggiunta, a p. 6 della sentenza si legge che la conferma dell’ordinanza quanto alla mancata indicazione del tasso di leasing assorbe le domande subordinate riproposte dall’appellato: indice inequivocabile del fatto che l’apparato difensivo della società di leasing non si fosse affatto limitato ad invocare

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l’irrilevanza della indicazione irregolare o imprecisa del tasso di leasing. 4. Può dunque passarsi allo scrutinio nel merito del mezzo impugnatorio. 5. Occorre partire dalla premessa che la Corte d’Appello ha sì confermato la decisione di prime cure, ma modificandone la motivazione, perchè ha escluso che il problema del contratto oggetto di controversia fosse rappresentato dalla mancata indicazione e/o dal mancato raffronto del tasso di interesse applicato con il TEG (che comprende le componenti non finanziarie del costo del credito, ma che sono irrilevanti ai fini della determinazione del tasso di leasing) (p. 5), rilevando solo l’assenza di rilievo della periodicità dei pagamenti e quindi dell’effettivo costo del credito formato dalla sole componenti di capitale ed interessi prescritte dalla Banca d’Italia per il leasing, per cui a fronte di un TAN pari al 3,743% il tasso di leasing o TIR - misura del tasso di costo/rendimento rappresentabile, nella matematica finanziaria, come una sequenza temporale di flussi finanziari in entrata ed in uscita - in caso di rata mensile, sarebbe risultato pari a 3,808%. Ora, il contratto recava la indicazione del tasso di leasing (lettera F delle condizioni particolari di contratto), ma, come è emerso dai fatti di causa, esso risultava quantitativamente difforme da quello che, ex lege, cioè ai sensi delle evocate Istruzioni della Banca d’Italia (costituiscono interessi legali non soltanto quelli stabiliti dall’art. 1284 c.c., ma anche qualsiasi interesse che, ancorché in misura diversa, sia imposto da una fonte primaria o secondaria: Cass. 4/03/2012, 1118), avrebbe dovuto applicarsi nel


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caso di specie: nel quale, infatti, essendo state previste rate infrannuali, il tasso indicato, espresso su base annua indipendentemente dalla periodicità dei pagamenti convenuti, risultava,, in relazione ad ogni singola clausola, pari a 3,743% mentre, per soddisfare l’esigenza di rendere eguale il prezzo del bene e il valore attuale dei canoni e del prezzo di opzione finale, cui è funzionale il tasso di leasing, il saggio dell’interesse avrebbe dovuto essere quantificato nella misura del 3,808%. A fronte di questa difformità, la quaestio disputandi è se nel caso in esame si fossero verificati i presupposti circostanziali per ricorrere all’integrazione cogente del contenuto del contatto, cioè all’inserzione delle misure direttamente conformative del contratto, di cui all’art. 117 t.u.b., comma 7, al fine di correggere la clausola determinativa del tasso di leasing: integrazione cogente e correttiva che la Corte d’Appello ha così giustificato: “la pur minima differenza tra il tasso indicato nel contratto da quello effettivamente previsto ed applicato, non può certo evitare di constatare l’avvenuta violazione dell’art. 117 t.u.b. e la conseguente applicazione della sanzione ivi prevista, non trattandosi di materia in cui sia consentito al giudice di apprezzare discrezionalmente una concreta capacità offensiva” (p. 6). 5.1. Il comma 7 del t.u.b. introduce la sanzione della correzione legale del tasso di interesse subordinandola al verificarsi di un duplice alternativo quadro circostanziale: l’inosservanza del comma 4, a mente del quale “i contratti indicano il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizioni praticati, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di

mora”; la ricorrenza di nullità indicate nel comma 6, ai sensi del quale “sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse e di ogni altro prezzo e condizione praticati nonchè quelle che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati”. 5.2. Il fulcro del problema è racchiuso nella seguente affermazione della sentenza: “il tasso di leasing nel caso di specie è stato indicato in 3,743% alla lettera F delle condizioni particolari di contratto, come affermato dal c.t.u. a pag. 20 della relazione ad esso corrisponde di fatto al “tasso annuale nominale”, ma il TAN non è il tasso di leasing effettivamente previsto nel caso de quo” (p. 4). La rappresentazione del tasso di interesse indicato nel contratto è fuorviante - prosegue la Corte - non per il raffronto con il TEG, come pure ritenuto dal c.t.u., ma perché non dà conto della periodicità dei pagamenti e quindi dell’effettivo costo del credito formato dalle sole componenti di capitale e interessi prescritte dalla Banca d’Italia per il leasing, non essendo il tasso effettivamente praticato ricavabile dividendo per dodici il TAN (p. 5). 5.2. In altri termini, deve assumersi come pacifico che nel contratto non facesse difetto l’indicazione del tasso di leasing, ma che quest’ultimo, per un verso, non fornisse all’utilizzatore una effettiva conoscenza del costo dell’operazione, visto che, applicato alla rateizzazione infrannuale del canone mensile, non coincideva con quello pattuito - e verosimilmente pubblicizzato per altro, non corrispondesse ai parametri stabiliti dalla Banca d’Italia.

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Più precisamente, il tasso, pur espressamente indicato come tasso di leasing, soddisfaceva solo formalmente, ma non anche sostanzialmente le prescrizioni della Banca d’Italia in ordine all’indicazione del TIR. 5.3. La differenza rilevata dalla Corte territoriale è quella che corre tra Tan e Teg o Tir (nel contratto di leasing). Del primo si è soliti affermare, proprio come rilevato dalla sentenza impugnata, che è un tasso solo nominale perché non tiene conto del tipo di rateizzazione, tant’è che la sola ipotesi in cui il TAN coincide con il tasso reale degli interessi è quella in cui il pagamento degli interessi abbia luogo una tantum a fine anno insieme con la restituzione totale della somma capitale. Sicché, se il TAN fosse dell’x% e la somma ricevuta a prestito fosse 100, a fine anno verrebbe restituita la somma di 100 + X%: 100 a titolo di capitale e X a titolo di interesse. 5.4. Pur essendo indiscutibile quanto sopra, pare corretto ritenere che dalla sentenza impugnata non emerge chiaramente la premessa giuridica che ha giustificato il ricorso alla sanzione sostitutiva: i riferimenti contenuti nella sentenza tendenzialmente possono adattarsi sia al difetto della trasformazione ed equiparazione in equivalenza finanziaria dell’operazione che rappresentava il saggio di interessi in ragione di una non ricorrente restituzione annua del “prezzo” del leasing in quella concretamente occorsa, ove invece la restituzione del prezzo del leasing era stata prevista per periodi inferiori all’anno, sia ad una rilevata differenza tra il tasso convenuto e quello applicato. Tantomeno può escludersi, in verità, che la fuorvianza di cui parla la Corte territoriale debba riferirsi alla divergenza tra le condizioni

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effettivamente praticate rispetto a quelle pubblicizzate. 5.5. Le tre ipotesi non integrano tutte, però, il quadro condizionale di cui al riferito art. 117 t.u.b., comma 7. Certamente non giustificherebbe l’applicazione della sanzione sostitutiva la seconda ipotesi, perché l’eventuale applicazione da parte di XY di un tasso diverso da quello convenuto non integra alcuna delle condizioni circostanziali previste dall’art. 117 t.u.b., presentando gli estremi di una violazione in cui la società di leasing sarebbe incorsa nella fase di esecuzione del contratto. Se il problema riscontrato fosse quello della divergenza tra il tasso contenuto nel contratto rapportato ad un timing di pagamento annuale e quello da applicare alla restituzione infrannuale, si porrebbe un problema non di mancata indicazione del tasso di leasing, cioè di parte del contenuto obbligatorio del contratto, ma di opacità dell’operazione, non in grado di mettere l’utilizzatore nella condizione di conoscere l’effettivo costo dell’operazione posta in essere. L’utilizzatore avrebbe infatti formato la propria volontà sul tasso indicato in contratto, ma non sarebbe stato oggetto di accordo che le rate fossero da determinare secondo un metodo il cui risultato è quello di aumentare l’importo degli interessi e quindi di far emergere un tasso annuo effettivo superiore a quello risultante dalle clausole contrattuali (Cass. 21/03/2011, n. 6364). Si sarebbe posto, cioè, un problema di trasparenza del costo del leasing. Ciò non significa, però, che non avrebbe potuto applicarsi la sanzione sostitutiva come invece argomenta XY. La funzione della trasparenza – come insegna la dottrina specialistica – non


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è più quella meramente bancaristica orientata ad introdurre il principio di concorrenza all’interno del settore bancario, né quella di mero contenimento di scelte irrazionali ma un valore che merita di essere in sé e per sé considerato per la sua idoneità ad incidere sull’equilibrio delle relazioni contrattuali, tanto da imporre il sindacato ex lege del contenuto del contratto. Oggi se ne può affermare la declinabilità in senso economico, giacché essa poggia sul convincimento che il contratto trasparente sia quello che lascia intuire o prevedere il livello di rischio o di spesa del contratto di durata. Trasparente è solo il contratto corredato di clausole la cui giustificazione economica risulti comprensibile, di tal ché senza tale trasparenza a risultare opaco è il costo totale del credito, donde una rilevanza di rimbalzo della trasparenza, come si è detto, sull’equilibrio economico del contratto. Il viatico all’adozione di una nozione di trasparenza declinata in senso economico si è avuto con la sentenza della Corte di Giustizia del 21 dicembre 2016, cause riunite C-154/15, C-307/15, C-308/15, ove essa ha assunto lo stesso rango di norma di ordine pubblico, la cui imperatività di fatto sostituisce all’equilibrio formale, che il contratto determina fra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti, un equilibro reale, finalizzato a ristabilire l’eguaglianza tra queste ultime. La trasparenza economica nella portata che ne risulta è da considerare, secondo autorevole dottrina, l’antidoto ad una opacità precontrattuale che il diritto comune rinserra nel perimetro tassativi dei vizi del consenso. 5.7. La Corte territoriale, però, avrebbe dovuto premettere all’appli-

cazione della sanzione un accertamento che invece ha fatto difetto: avrebbe dovuto verificare, non bastando a tale scopo l’avere escluso che il tasso di leasing effettivo potesse ricavarsi semplicemente dividendo per dodici il tasso annuo nominale indicato nel contratto, se il tasso di leasing fosse comunque determinabile, anche mediante ricorso a calcoli di tipo matematico, a prescindere dalla difficoltà. La giurisprudenza di questa Corte ha avuto occasione di occuparsi della determinabilità del tasso di interesse in varie occasioni, stabilendo, nella pronuncia n. 8028 del 30/03/2018, che in tema di contratto di mutuo, affinché una clausola di determinazione degli interessi corrispettivi sulle rate di ammortamento scadute sia validamente stipulata, ai sensi dell’art. 1346 c.c., è sufficiente che la stessa – nel regime anteriore all’entrata in vigore della l. 17 febbraio 1992, n. 154 – contenga un richiamo a criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, purché obiettivamente individuabili, funzionali alla concreta determinazione del saggio di interesse. A tal fine occorre che quest’ultimo sia desumibile dal contratto con l’ordinaria diligenza, senza alcun margine di incertezza o di discrezionalità in capo all’istituto mutuante, non rilevando la difficoltà del calcolo necessario per pervenire al risultato finale, né la perizia richiesta per la sua esecuzione. Per Cass. 26/06/2019 n. 17110, nella vigenza del d.lgs. n. 385 del 1993, art. 117, comma 4, il tasso di interesse può essere determinato “per relationem”, con esclusione del rinvio agli usi, ma in tal caso il contratto deve richiamare criteri prestabiliti ed elementi estrinseci che, oltre ad essere oggettivamente

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individuabili e funzionali alla concreta determinazione del tasso, non devono essere determinati unilateralmente dalla società di leasing. La Corte chiarisce che tale possibilità si desume in via indiretta dall’art. 117 t.u.b. – perché non avrebbe senso vietare il rinvio agli usi se non fosse possibile ammettere la determinazione per relationem alle altre condizioni del contratto attraverso fonti esterne, purché non dipendenti dalla unilaterale volontà della banca – oltre che dalla ratio della norma individuata nell’esigenza di salvaguardia del cliente sul piano della trasparenza e della eliminazione delle cosiddette asimmetrie informative: infatti, la prescrizione che fa obbligo di indicare nel contratto “il tasso d’interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati” intende porre il cliente nelle condizioni di conoscere e apprezzare con chiarezza i termini economici dei costi, dei servizi e delle remunerazioni che il contratto programma: ed è evidente, allora, che tale finalità possa essere perseguita, con riguardo alla determinazione dell’interesse, non solo attraverso l’indicazione numerica del tasso, ma anche col rinvio a elementi esterni obiettivamente individuabili, la cui materiale identificazione sia cioè suscettibile di attuarsi in modo inequivoco (cfr. anche Cass. 19/05/2010, n. 12276). La determinabilità per relationem del tasso di leasing escluderebbe dunque la irrogazione della sanzione sostitutiva applicata nel caso di specie, riservata alle ipotesi nelle quali nel contratto manchi la relativa pattuizione (Cass., 26/06/2019, n. 17110; Cass., 26/06/2019, n. 16907): ipotesi cui deve essere equiparata quella in cui il tasso sia indicato nel contratto, ma esso porti ad un ammontare del costo

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dell’operazione variabile in funzione dei patti che regolano le modalità di pagamento, sì da ritenere che il prezzo dell’operazione risulti sostanzialmente inespresso e indeterminato, oltre che non corrispondente a quello su cui si è formata la volontà dell’utilizzatore (cfr. Cass., 21/03/2011, n. 6364). 5.8. D’altro canto, ed è questo l’altro profilo di opacità della decisione, essa neppure chiarisce se, invece, la sanzione applicata sia stata giustificata dalla non coincidenza tra il tasso indicato nel contratto e quello pubblicizzato. 6. Il motivo merita, pertanto accoglimento. La sentenza deve, pertanto essere cassata con rinvio affinché il giudice del rinvio rivaluti la vicenda, accertando, nei termini riferiti, se ricorrano i presupposti circostanziali giustificativi dell’applicazione della sanzione sostitutiva di cui all’art. 117, comma 7 t.u.b. 7. L’accoglimento del primo motivo giustifica l’assorbimento del secondo. 8. Ne consegue l’accoglimento per quanto di ragione del primo motivo di ricorso. Il secondo motivo è assorbito. La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto. La controversia è rinviata alla Corte d’Appello di Torino, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo di ricorso per quanto di ragione, dichiara assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rimette la controversia alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. (Omissis)


Roberto Marcelli

(1-3) Il TAN e il TIR nelle operazioni di leasing Sommario: 1. La pronuncia della Cassazione e il tasso leasing. – 2. Il tasso convenzionale ex art. 1284 c.c. e il tasso leasing: le disposizioni della Banca d’Italia. – 3. Il TAN e il TAE/TIR e le distinte periodicità di capitalizzazione e di pagamento. – 4. La sentenza della Corte d’Appello di Torino e l’applicazione dell’art. 117, co. 7, t.u.b.

1. La pronuncia della Cassazione e il tasso leasing. La sentenza qui pubblicata si occupa del tasso contrattuale delle operazioni di leasing che la Banca d’Italia – in base a quanto previsto dall’art. 117, comma 8 – nelle Disposizioni di Vigilanza, poi trasfuse nelle norme di trasparenza ha individuato nel TAE (Tasso Annuo Effettivo), altrimenti denominato TIR (Tasso Interno di Rendimento), cioè il tasso composto annuo che eguaglia il capitale finanziato ai pagamenti corrisposti nei distinti canoni, compreso il prezzo del riscatto 1. Il TAE/TIR si distingue dal TAN (Tasso Annuo Nominale): quest’ultimo costituisce il parametro annuale impiegato nell’algoritmo di calcolo relativo al periodo di maturazione degli interessi (mensile, trimestrale, …): mentre per una cadenza annuale dei pagamenti i due tassi, TAE e TAN, coincidono, per una cadenza dei pagamenti infrannuale, il TAE, nel valorizzare l’onere figurativo dell’anticipato pagamento rispetto alla cadenza annuale, esprime un valore maggiore.

1 Ancorché l’indicazione della Banca d’Italia relativo al processo di attualizzazione venga, da taluni, riferita al TIR (acronimo dell’inglese IRR, Internal Rate of Return), appare più corretto nella circostanza impiegare la denominazione del TAE. Il TIR è il tasso annuale di crescita atteso da un investimento, calcolato in regime composto, impiegato nelle valutazioni e nei confronti di impieghi finanziari alternativi. Misurando la redditività del finanziamento in leasing, rimane propriamente riferito all’investimento dell’intermediario, mentre dal lato dell’utilizzatore del finanziamento è corretto parlare dell’omologo TAE (Tasso Effettivo Annuo), più propriamente riferito al costo del finanziamento sopportato dall’utilizzatore, espresso nella metrica del regime composto, del tutto analogo nell’algoritmo al TAEG, prescritto nei finanziamenti ordinari per i confronti, e al TEG, per la verifica del rispetto delle soglie d’usura. A tale indicatore del costo fa riferimento la Banca d’Italia nel menzionare «il costo d’acquisto del bene locato e il valore dei canoni e del prezzo dell’opzione di acquisto finale».

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Nei contratti di leasing, al TAE/TIR del 10%, ad esempio, nei pagamenti annuali corrisponde il TAN del 10%, mentre nei pagamenti trimestrali corrisponde il TAN = (1 + 10%)1/4 – 1 = 2,41%. In tali contratti frequentemente gli intermediari, per meglio “carpire” la scelta del cliente, indicano il tasso nominale del 10%, che, tuttavia, nei pagamenti ad es. trimestrali, convertono nel rapporto proporzionale 10%/4 = 2,50% riferito all’unità periodale trimestrale, anziché impiegare il TAN/tasso leasing annuale del 10% riferito all’unità periodale espressa in frazione d’anno, equivalente al TAN trimestrale del 2,41%. Capitale = 1.000

montante 1° trimestre

C x (1 + 10%/4)1 = 1.025

montante 1° trimestre

C x (1 + 10%)1/4 = 1.024,1

Nella modalità impiegata dagli intermediari, matematicamente rimane implicita la capitalizzazione trimestrale del 2,50% che, su base annuale, corrisponde al TAN = tasso leasing del 10,38%. montante 1° trimestre

C x (1 + 10%/4)1

montante 1° trimestre

=

C x (1 + 10,38%)1/4

La periodicità infrannuale dei pagamenti non è da confondere con la capitalizzazione infrannuale: i due aspetti rispondono a concetti distinti e separati. regime di canone trimestrale capitalizzazione (TAN period.)

TAN

&

10%

&

annuale

10%

&

trimestrale

canone annuale (TAN period.)

Tasso leasing

2,41%

10%

10%

2,50%

10,38%

10,38%

Senza l’espressa indicazione in contratto del regime di capitalizzazione infrannuale si palesa la violazione dell’art. 117 t.u.b., co. 4. Il TIR, come il Tasso Annuo Nominale, è riferito alla capitalizzazione annuale: il relativo pagamento dei canoni può essere scadenzato su una periodicità infrannuale, annuale o ultrannuale. Poiché il TIR, per definizione, è calcolato con il tempo espresso in unità annuali di capitalizzazione, onde evitare confusione e pratiche elusive, ogni eventuale regime di capitalizzazione infrannuale va ricondotto al tasso equivalente del regime annuale, nel quale è espresso il TIR/TAE/TAN (nell’esempio, la capitalizzazione trimestrale al TAN del 10% è equivalente alla capitaliz-

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zazione annuale al TAN del 10,38%): è evidente la maggiore trasparenza che si consegue nei termini contrattuali2. Il comportamento adottato dagli intermediari è riconducibile ad una indicazione di Assilea (Associazione Italiana Leasing) che suggerisce alle proprie associate di riportare in contratto, attraverso una assai criptica formulazione, un’espressione del tasso leasing diversa dal TIR prescritto dalla Banca d’Italia, dalla quale non è propriamente agevole dedurre univocamente lo stesso TIR. Infatti, nel riportare il disposto della Banca d’Italia: «Per i contratti di leasing finanziario, in luogo del tasso di interesse è indicato il tasso interno di attualizzazione per il quale si verifica l’uguaglianza fra costo di acquisto del bene locato (al netto di imposte) e valore attuale dei canoni e del prezzo dell’opzione di acquisto finale (al netto di imposte) contrattualmente previsti», Assilea, nelle proprie indicazioni, aggiunge: «Il tasso di attualizzazione é calcolato come tasso periodale espresso in termini di Tasso Nominale Annuo, sviluppato con la stessa periodicità dei canoni sulla base di un anno standard di 365 gg. composto di periodi (mesi, bimestri, trimestri o semestri) tutti eguali fra di loro». Con tale aggiunta – che vorrebbe richiamare, in luogo dell’esplicita indicazione del regime composto infrannuale, il sofisticato parametro matematico (TAN convertibile m volte nell’anno), impiegato nella scienza specialistica della matematica finanziaria – Assilea viene ad esprimere un tasso inferiore al tasso leasing prescritto dalla Banca d’Italia3. Nell’indicazione di Assilea, tale parametro matematico viene impiegato, non in ragione d’anno, come d’ordinario il TAE/TIR/TAN, ma in ragione periodale e, nella semplicistica conversione applicativa (TAN/12 per il mensile, TAN/4 per il trimestre, ecc..), cela il sistematico impiego del regime composto infrannuale in luogo di quello annuale. In altri termini, viene del tutto disconosciuta ogni distinzione fra regime com-

2 Poiché, a prescindere dalla cadenza dei pagamenti, il TAN del 10% in capitalizzazione trimestrale è equivalente al TAN del 10,38% in capitalizzazione annuale, rimane una mera, inutile e fuorviante modalità di esprimere il costo dell’operazione di leasing con il TAN riferito alla capitalizzazione infrannuale, quando il TAN può essere espresso più semplicemente nell’equivalente regime annuale, corrispondente al tasso leasing prescritto dalla Banca d’Italia. 3 Per contratti di credito a larga diffusione è opportuno, ove non strettamente indispensabile, evitare termini che appartengono al linguaggio specialistico della matematica, che risultano ordinariamente preclusi alla comprensione dell’operatore; ordinariamente il TAN convertibile non trova applicazione in quanto rimane, il più delle volte, un’inutile complicazione che è agevole evitare esprimendo l’equivalente TAN della capitalizzazione annuale, impiegato nell’unità periodale dell’anno, anziché in quella infrannuale.

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posto e periodicità dei pagamenti, assimilando sistematicamente i pagamenti infrannuali ad una pari capitalizzazione, discostandosi dall’ordinaria prassi di mercato che esprime il tasso in regime composto annuale (TAE/TIR/TAN), al quale corrispondono importi diversi in funzione delle distinte modalità e cadenze temporali di pagamento convenute4. Rimane assodato che il tasso leasing indicato dalla Banca d’Italia sia un tasso annuale composto, del tutto identico, nell’algoritmo di calcolo, a parte il diverso contenuto degli oneri considerati, a quello prescritto per il TAEG e per il TEG dell’usura.

Non vi è alcuna esigenza pratica, né funzionale o di correntezza, né, tanto meno, di trasparenza, che possa giustificare il ricorso ad un tasso diverso da quello prescritto dalla Banca d’Italia, da impiegare, nella determinazione del canone, con riferimento ad una metrica diversa dall’anno. Il TAN indicato da Assilea risulta fuorviante in quanto, in un’impropria sinonimia, assimila la periodicità infrannuale dei pagamenti alla capitalizzazione infrannuale. Quand’anche fosse pattuito in contratto il regime infrannuale di capitalizzazione, si riporta con esso un tasso inferiore al tasso leasing prescritto dalla Banca d’Italia, che rimane così ce-

La Banca d’Italia fa riferimento al tasso interno di attualizzazione, omettendo la qualifica ‘annuale’, ma risulta del tutto assodato il riferimento al tasso impiegato in matematica finanziaria nella qualifica di TAE/TIR, come riconosciuto dalla Corte d’Appello di Torino e della Cassazione. Mentre il TAE/TIR si sviluppa sulla base del ‘tasso annuo’, Assilea, anziché impiegare il tasso annuale riferendo il tempo all’unità di misura annuale, intera o frazionata, suddivide proporzionalmente il tasso, riferito non più all’anno, ma all’unità di periodo impiegata: ad esempio, anziché impiegar il tasso annuale del 10% riferito, per il trimestre ad ¼ d’anno, viene impropriamente impiegato ¼ del tasso, pari al 2,50%, riferito all’unità periodale del trimestre. Con tale espediente – non chiaramente esplicitato e del tutto arbitrario – si passa dalla capitalizzazione annuale a quella infrannuale, pervenendo ad un valore del canone periodico più alto, senza l’indicazione esplicita dell’effettivo tasso leasing più alto del TAN riportato in contratto. Le società di leasing, disattendendo la definizione data dalla Banca d’Italia, pongono addirittura il tasso leasing pari al menzionato Tasso Nominale Annuo, per poi, come detto, frazionarlo proporzionalmente (TAN12 = TAN/12 per il canone mensile, TAN4 = TAN/4 per il canone trimestrale, ecc.), quando, invece, a parità di tasso leasing, il TAE/TIR/TAN, nel frazionamento infrannuale assume valori più bassi, coerenti con la natura composta del tasso [TAN12 = (1+TAN)1/12-1 per il canone mensile, TAN4 = (1+TAN)1/4-1 per il canone trimestrale, ...]. 4

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lato in una equivoca quanto inutile definizione ‘specialistica’ del TAN, di difficile accesso agli stessi professionisti della materia, usi ad impiegare per tale parametro la base annuale di capitalizzazione, funzionale, per altro, a rendere agevole e immediato il confronto5. La Suprema Corte, nella sentenza qui pubblicata, ritiene “indiscutibile” la differenza fra TAN e TIR, non tenendo conto il TAN – nella diversa ed errata modalità di impiego - della cadenza infrannuale dei canoni che trovano, invece, riscontro nel TIR. Accertata la discrasia, si viene, di riflesso, ad esaminare la portata giuridica dell’erronea indicazione del TAN in luogo del TIR, per valutarne la violazione prevista al co. 4 dell’art. 117 t.u.b. e quindi l’applicazione della sanzione del co. 7. Al riguardo, la Cassazione si sofferma sostanzialmente, su due possibili soluzioni interpretative, che, tuttavia, non giustificano, entrambe, l’applicazione del co. 7 dell’art. 117 t.u.b. In una prima ipotesi interpretativa, nell’indicazione in contratto per il tasso leasing del tasso corrispondente al TAN, la sentenza ravvisa «un difetto della trasformazione ed equiparazione in equivalenza finanziaria dell’operazione (…) prevista per periodi inferiori all’anno». In una seconda ipotesi interpretativa, la sentenza ravvisa, più semplicemente, «una rilevata differenza tra il tasso convenuto e quello applicato». Questa ipotesi, a giudizio della Cassazione, «non integra alcuna delle condizioni circostanziali previste dall’art. 117 t.u.b., presentando gli estremi di una violazione in cui la società di leasing sarebbe incorsa nella fase di esecuzione del contratto». Pertanto, questa ipotesi «non giustificherebbe l’applicazione della sanzione sostitutiva» prevista dall’art. 117 t.u.b. Nella prima ipotesi – che appare meglio attagliarsi alla pratica di indicare in contratto il TAN, per poi modificarlo proporzionalmente nel tasso periodale infrannuale al quale corrisponde un effettivo tasso leasing (TIR) maggiore del TAN indicato al cliente – la sentenza si pone il problema

5 Anche nel calcolo periodale degli interessi si impiega il TAN su base annuale di capitalizzazione, con riferimento al tempo espresso in anni o frazioni. In alternativa, nella matematica, quando ragioni particolari suggeriscono il riferimento all’equivalente tasso annuale della capitalizzazione infrannuale, si precisa lo specifico e diverso regime di capitalizzazione, impiegando i termini propri della matematica (TAN convertibile 12 volte l’anno, 4 volte l’anno, … e/o con capitalizzazione mensile, trimestrale, ecc..): è questo un linguaggio alternativo, particolarmente specialistico e sofisticato, di scarso impiego in quanto, impedendo un’immediata omogeneità di confronto, rimane fonte di facile confusione.

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dell’«opacità dell’operazione, non in grado di mettere l’utilizzatore nelle condizioni di conoscere l’effettivo costo dell’operazione posta in essere». Nella circostanza la sentenza rileva la criticità di trasparenza, che investe l’opacità del costo del leasing e che può riflettersi, di rimbalzo, sull’equilibrio economico del contratto, non escludendo, quindi, la sanzione sostitutiva dell’art. 117 t.u.b. La menzionata criticità della trasparenza dell’operazione di leasing viene approfondita negli aspetti relativi alla determinabilità del tasso leasing, dedotto in maniera univoca dal TAN indicato in contratto, «anche mediante ricorso a calcoli di tipo matematico, a prescindere dalle difficoltà». In questa prospettiva, la sentenza richiama i precedenti giurisprudenziali in tema di determinazione del tasso validamente stipulata. In particolare: – nel regime anteriore all’entrata in vigore della l. 17 febbraio 1992, n. 154, per la determinabilità del tasso di interesse si è ritenuto sufficiente «un richiamo a criteri prestabiliti ed elementi estrinseci, purché obiettivamente individuabili, funzionali alla concreta determinazione del saggio di interesse. A tal fine occorre che quest’ultimo sia desumibile dal contratto con l’ordinaria diligenza, senza alcun margine di incertezza o di discrezionalità in capo all’istituto mutuante, non rilevando la difficoltà del calcolo necessario per pervenire al risultato finale, né la perizia richiesta per la sua esecuzione» (Cass., 30 marzo 2018, n. 8028); – nella vigenza dell’art. 117, co. 4, d.lgs. n. 385 del 1993 – la determinabilità del tasso di interesse può essere conseguita «“per relationem”, con esclusione del rinvio agli usi, ma in tal caso il contratto deve richiamare criteri prestabiliti ed elementi estrinseci che, oltre ad essere oggettivamente individuabili e funzionali alla concreta determinazione del tasso, non devono essere determinati unilateralmente dalla società di leasing» (Cass., 26 giugno 2010, n. 17110). La prescrizione dell’art. 117, precisa ulteriormente la sentenza, «intende porre il cliente nelle condizioni di conoscere a apprezzare con chiarezza i termini economici dei costi, dei servizi e delle remunerazioni che il contratto programma: ed è evidente, allora, che tale finalità possa essere perseguita, con riguardo alla determinazione dell’interesse, non solo attraverso l’indicazione numerica del tasso, ma anche col rinvio a elementi esterni obiettivamente individuabili, la cui materiale identificazione sia cioè suscettibile di attuarsi in modo inequivoco» (cfr. anche Cass., 19 maggio 2010, n. 12276). Da ultimo, nel ribadire che la determinabilità del tasso leasing escluderebbe l’applicazione della sanzione contemplata dall’art. 117 t.u.b.,

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la sentenza equipara all’omessa pattuizione, con assoggettabilità al co. 7 dell’art. 117 t.u.b., il caso in cui «il tasso sia indicato in contratto, ma esso porti ad un ammontare del costo dell’operazione variabile in funzione dei patti che regolano le modalità di pagamento, sì da ritenere che il prezzo dell’operazione risulti sostanzialmente inespresso e indeterminato, oltre che non corrispondente a quello su cui si è formata la volontà dell’utilizzatore». La sentenza, in conclusione, rinvia al giudice di merito la valutazione dell’operazione di leasing nel quadro giuridico richiamato, per l’accertamento della determinabilità per relationem del tasso leasing o, alternativamente, per l’equiparazione all’omessa pattuizione dello stesso che giustificherebbe l’applicazione della sanzione sostitutiva prevista al co. 7 dell’art. 117 t.u.b. Al fine di valutare compiutamente i termini della sentenza, appare opportuno, in via preliminare (§ 2), chiarire il quadro giuridico di contorno, fornendo gli opportuni ragguagli che interessano la metrica del tasso leasing, informata alle disposizioni di trasparenza della Banca d’Italia, distinguendola dall’ordinaria metrica del tasso di interesse che presiede le operazioni di finanziamento, informata al dettato dell’art. 1284 c.c. Definiti i criteri che presiedono al costo del leasing, l’esame dei relativi calcoli di determinazione del canone (§ 3) consente di evidenziare le criticità matematiche del modello applicativo impiegato dagli intermediari, traendone le conclusioni giuridiche (§ 4) informate ai principi richiamati dalla Suprema Corte nella pronuncia in esame.

2. Il tasso convenzionale ex art. 1284 c.c. e il tasso leasing: le disposizioni della Banca d’Italia. Nelle ordinarie operazioni di finanziamento, gli artt. 821 e 1284 c.c. fissano la metrica da impiegare, espressa nella misura annuale della “velocità” costante e proporzionale con la quale si conviene la produzione degli interessi nel periodo di finanziamento: gli interessi maturano gradualmente in misura proporzionale al capitale e al tempo, indipendentemente dalle modalità di pagamento6. Nel principio sotteso dall’ordina-

6 Luciano e Peccati offrono un’utile esemplificazione del concetto di metrica: «La velocità ci dà il rapporto costante tra lunghezza della strada percorsa e tempo impiegato a percorrerla: 100 km/1 h = 150 km/1,5h = 400 km/4h = 100 km/h. È noto che può interes-

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mento gli interessi periodicamente maturati rimangano infruttiferi sino al loro pagamento, che nel regime semplice interviene alla scadenza del capitale, mentre nel regime composto il medesimo esito si consegue quando gli interessi maturati vengono prontamente corrisposti così che non si realizza alcuna produzione di interessi su interessi in capo al mutuatario7. Negli ordinari finanziamenti la prescrizione dell’art. 1284 c.c., di fatto, viene spesso sopperita con l’indicazione del TAN. L’acronimo TAN non compare nel t.u.b., né è propriamente prescritto nelle disposizioni regolamentari: con un ambiguo retaggio storico, si continua ad indicare la misura del costo del finanziamento con il tasso espresso dal parametro matematico (TAN) che, tuttavia, nella circostanza, assume propriamente la funzione di tasso convenzionale (art. 1284 c.c.)8.

sare esprimere questa velocità con riferimento ad unità di misura diverse dal km e dall’ora. (…) Come si segue la conversione di un modo di descrivere la velocità all’altro? Anche qui nulla di misterioso, basta trasformare i kilometri (km) in metri e le ore (h) in secondi e …. il gioco è fatto: 100 km/1H = 100x1.000 cm/3.600 sec = 27,77 m/sec. (…) Sul piano finanziario il problema è simile: un tasso è l’analogo della velocità dell’autovettura. Un tasso ci dice con quale velocità un impiego ci produce interessi, con quale velocità un finanziamento ci grava di interessi. Anche per i tassi, come per le velocità dell’autovettura, bisogna però sapere con riferimento a quali unità di misura essi sono espressi e quali convenzioni di calcolo il loro uso richiede. Se anche vi è, in ambito finanziario, una certa attenzione all’unità di misura (difficilmente uno scambia un tasso annuo con un tasso mensile, anche se le unità di misura, per es., del cosiddetto “tasso fisso” non sono sicuramente limpide), spesso non si presta attenzione a quali calcoli vanno fatti usando un dato tasso». (Luciano e Peccati, Matematica per la gestione finanziaria, 1997, p. 52). 7 Il tasso ex art. 1284 c.c. assume contorni definitori diversi da quelli ricoperti dal TAN nella scienza finanziaria e le risultanze operative non sempre risultano coincidenti. Il prezzo espresso dal tasso convenzionale ex art. 1284 c.c. riportato in contratto attiene alla misura dell’obbligazione accessoria pattuita, corrispondente all’importo da corrispondere, mentre il TAN attiene al parametro di calcolo dei pagamenti, che può essere declinato vuoi in regime semplice, vuoi in regime composto, con esiti economici distinti. Il pagamento trimestrale di € 2,5 per € 100 di capitale rimane coerente con il tasso ex art. 1284 c.c. del 10% espresso dal regime semplice, mentre il pagamento degli interessi capitalizzati e corrisposti a fine anno si ragguaglia al tasso ex art. 1284 c.c. del 10,38%, non al TAN del 10,0% impiegato nell’algoritmo di calcolo. Quando interviene la capitalizzazione periodica degli interessi, il TAN viene a perdere la funzione di tasso convenzionale, in quanto assume un valore dell’aliquota sistematicamente inferiore alla metrica del tasso ex art. 1284 c.c., corrispondente all’effettivo esborso, che ricomprende interessi secondari. 8 «A causa dell’improprio utilizzo terminologico del TAN in luogo del tasso corrispettivo ex art. 1284 c.c., si riscontra frequentemente un uso promiscuo dei due tassi. (…) Il divieto di anatocismo risponde fondatamente ad un’esigenza di trasparenza, interessan-

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Per le operazioni di leasing le disposizioni della Banca d’Italia prevedono che, in luogo della metrica proporzionale corrispondente al tasso convenzionale ex art. 1284 c.c., alias TAN, la velocità della produzione degli interessi venga espressa nella metrica composta del tasso interno di attualizzazione, corrispondente al TAE, altrimenti indicato come TIR. Ciò comporta una metrica diversa dal tasso ex art. 1284 c.c. in quanto la velocità di produzione degli interessi non è più ragguagliata ad una crescita costante e proporzionale al capitale e al tempo, bensì viene ragguagliata alla metrica esponenziale del tasso composto annuale: di riflesso, al medesimo TAE/TIR, espresso su base annua, corrispondono importi della spettanza convenuta diversi se il pagamento del canone, comprensivo degli interessi, è previsto mensilmente, trimestralmente, annualmente o in termini pluriannuali. Ancorché non espressamente menzionato nelle disposizioni della Banca d’Italia, il TAE/TIR comporta l’impiego del regime composto, in deroga al divieto di anatocismo. In questa metrica – del tutto dissimile da quella adottata dal tasso ex art. 1284 c.c. per gli ordinari finanziamenti – dal lato dell’utilizzatore vengono ricompresi nel calcolo degli interessi espressi dal tasso leasing, sia gli oneri, solo ‘figurativi’, corrispondenti agli interessi corrisposti anticipatamente a cadenza infrannuale, sia gli interessi anatocistici connessi alla produzione degli interessi su interessi, corrispondenti ai pagamenti ultrannuali: in questa metrica, ad esempio, i pagamenti trimestrali di € 2,41 [100 x (1 + 10%)1/4 - 100] presentano il medesimo tasso leasing dei pagamenti annuali di € 10 [100 x (1 + 10%)1

do, non tanto il calcolo degli interessi alle distinte scadenze di pagamento, quanto la modalità, in corrispondenza al tasso ex art. 1284 c.c., con la quale viene pattuito il costo del finanziamento espresso in contratto». (Marcelli, Ammortamento alla francese: equivoci alimentati da semplicismo e pregiudizio, in Dir. banc., 2020, I, p. 529). Nel glossario dei termini tecnici della Banca d’Italia si riporta: «Il TAN indica il tasso di interesse (ossia il prezzo), in percentuale e su base annua, richiesto da un creditore sull’erogazione di un finanziamento». Nell’Allegato 3 delle norme di trasparenza della Banca d’Italia si menziona il “Tasso di interesse nominale annuo” indicandolo come il «Rapporto percentuale, calcolato su base annua, tra l’interesse (quale compenso del capitale prestato) e il capitale prestato». Seguendo il dettato espresso dal glossario, il tasso convenzionale ex art. 1284 c.c., ordinariamente riportato in contratto con l’indicazione del TAN, quale espressione del prezzo ex art. 1284 c.c., viene pertanto ad assumere un impiego più ristretto di quello assunto ordinariamente dal TAN nella matematica finanziaria: in altri termini, il TAN, quando viene impiegato nella capitalizzazione degli interessi, non corrisponde al tasso espressione del rapporto proporzionale dettato dall’art. 1284 c.c.

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- 100] e del pagamento al termine triennale di € 33,1 [100 x (1 + 10%)3 - 100]. Rimane rilevante, pertanto, la distinzione fra il tasso ex art. 1284 c.c./ TAN, proprio alle operazioni di credito, e il tasso leasing/TIR/TAE, proprio alle operazioni di leasing. Le due tipologie di tassi, più che porsi in alternativa o contrapposizione, colgono aspetti distinti dell’operazione, propri alle caratteristiche della differente metrica impiegata. Per le operazioni di credito, rivolte prevalentemente ad operatori retail, la norma dell’art. 1284 c.c. dispone l’indicazione in contratto del tasso corrispondente al rapporto del corrispettivo dovuto, in ragione d’anno, proporzionale al capitale; per le operazioni di leasing, le disposizioni della Banca d’Italia, in un accostamento al mercato finanziario, dispongono l’indicazione in contratto del tasso effettivo annuo, che se da un lato esprime la corretta misura finanziaria del costo dell’operazione, dall’altro non corrisponde necessariamente all’effettivo ammontare degli interessi da corrispondere, che risulterà minore o maggiore in funzione del/dei pagamenti infrannuali o pluriannuali. Al riguardo, non appare chiaro come la Banca d’Italia possa aver disposto, per le operazioni di leasing, una deroga all’art. 1284 c.c., “sdoganando” al tempo stesso anche l’anatocismo. Considerando il disposto dell’art. 117, co. 8 che prevede: «La Banca d’Italia può prescrivere che determinati contratti, individuati attraverso una particolare denominazione o sulla base di specifici criteri qualificativi, abbiano un contenuto tipico determinato» gli ulteriori margini dispositivi della Banca d’Italia, soprattutto per operazioni di leasing finanziario, dovrebbero interessare esclusivamente aspetti formali di tipizzazione del rapporto contrattuale, conservando il rigoroso rispetto del quadro normativo prescritto dall’ordinamento giuridico9.

9 Al riguardo osserva Dolmetta: «L’art. 5 del Testo unico pone, invero, come finalità fondamentale dell’agire della Banca d’Italia la “stabilità complessiva” del sistema bancario (per la rilevazione che proprio questa è la funzione “preminente” v., tra gli altri, A. Nigro, La nuova normativa sulla trasparenza bancaria, in Dir. banc., 1993, I, pp. 578/579). Con riguardo alla disposizione dell’art. 117, comma 8, ciò significa che un (ipotetico) potere di propulsione in funzione di trasparenza verrebbe a trovare un condizionamento (esterno, ma decisivo) nella finalità di stabilità (la quale ultima ben potrebbe giustificare anche l’immodificabilità assoluta, per un certo periodo di tempo, delle condizioni negoziali attualmente fissate nelle NUB): in buona sostanza che l’esercizio del potere di trasparenza verrebbe a trovarsi subordinato (nell’ «an», come nel «quomodo») alla finalità di stabilità (nel sistema normativo del credito assunta a prioritaria non foss’altro perché situata al livello più generale). (…) In generale (senza porsi, cioè,

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Occorre tuttavia rilevare che l’ambito giuridico nel quale sono intervenute le disposizioni della Banca d’Italia già escludeva per i contratti di leasing il rispetto dell’art. 1284 c.c., e di riflesso dell’art. 1283 c.c. In una prospettiva che appare oggi superata, la Suprema Corte aveva, infatti, ritenuto che il canone pattuito avesse natura di corrispettivo per l’uso del bene: gli interessi finanziari pattuiti risultano inglobati nel canone e non assumono configurazione autonoma da questo e dalla natura sinallagmatica del godimento del bene, con la conseguenza che allo stesso non si applica la disciplina dell’art. 1284 c.c. (cfr. Cass. n. 2909/96)10. Per tale via si può giustificare la menzionata sostituzione del tasso ex art.

particolari quesiti), parte della dottrina ritiene che le clausole fissate ex art. 117, comma 8, restino comunque soggette al sindacato di abusività da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria (cfr. ora Sirena, La nuova disciplina delle clausole vessatorie nei contratti bancari di credito al consumo, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, p. 386). E, in effetti, sostenere il contrario significherebbe, al fondo delle cose, attribuire al microsistema delle condizioni generali dei contratti bancari un’eccentricità (rectius: un’eccezionalità) rispetto al sistema comune che il complesso normativo degli artt. 1469-bis ss. appare davvero ben lungi dall’autorizzare». (Dolmetta, Normativa di trasparenza e ruolo della Banca d’Italia, in Fondamento, implicazioni e limiti dell’intervento regolamentare nei rapporti tra intermediari finanziari e clientela, Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, n. 49, marzo 1999). 10 «Non si configura la componente degli interessi corrispettivi in ciascun canone di locazione finanziaria e, al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha enunciato il principio estensibile anche al cd. leasing traslativo, secondo cui: “In tema di leasing di godimento, il canone pattuito – anche se la sua funzione causale è prevalentemente finanziaria, dovendo garantire, per la società di leasing, il rientro del capitale maggiorato degli interessi finanziari e degli utili di rischio di impresa – ha comunque natura di corrispettivo per l’uso del bene, essendo ragguagliato al valore di utilizzazione di quest’ultimo per la durata della vita tecnico-economica dello stesso. Alla stregua di siffatta ricostruzione della suddetta figura contrattuale, gli interessi finanziari pattuiti per assolvere la relativa funzione remuneratoria, dipendendo dalle dette variabili economiche, sono inglobati nel canone e non assumono configurazione autonoma da questo e dalla natura sinallagmatica del godimento del bene, con la conseguenza che, in proposito, non si applica la disciplina di cui all’art. 1284 cod. civ.” (Cass., Sez. III, sentenza n. 14760 del 4.6.2008, C.E.D. Corte di Cassazione, Rv. 603327) e, inoltre: “L’art. 1283 cod. civ. presuppone che una somma sia dovuta a titolo interessi” [...] ma, al contrario, il canone, nel contratto di leasing, è dovuto dall’utilizzatore come corrispettivo del godimento del bene da parte sua, mentre non rileva il dato economico che il canone, oltre ad essere commisurato al prezzo di acquisto sborsato dal concedente, sia di regola comprensivo, con ammortamento, spese di gestione e margine di profitto dell’impresa, anche dell’interesse sul capitale investito. (Cass., Sez. III, sentenza 29.3.1996, n. 2909)» (Trib. Roma, 22 dicembre 2018, n. 24533).

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1284 c.c. con il tasso leasing previsto dalle norme di trasparenza della Banca d’Italia. Assilea nel 2013, nel quadro delle osservazioni al documento di consultazione delle disposizioni di trasparenza, già aveva proposto, allegando il prototipo di Foglio informativo, la menzionata integrazione esplicativa del tasso leasing che, come detto, sembra voler conformare il prezzo delle operazioni di leasing espresso dal TAN al tasso convenzionale dell’art. 1284 c.c., riferito all’effettivo ammontare degli interessi corrisposti, anziché al TAE/TIR. Nelle successive FAQ Leasing del 2015, Assilea, discostandosi dalla definizione ordinaria del TIR riportata nei manuali di matematica finanziaria, riferisce direttamente il TAN della menzionata descrizione di calcolo in una sinonimia al TIR dell’operazione di leasing, impiegata, tuttavia, proporzionalmente nella cadenza infrannuale dei canoni, e gli intermediari finanziari, cogliendo la migliore opportunità competitiva del TAN suggerito da Assilea, inferiore al tasso leasing indicato dalla Banca d’Italia, hanno, in prevalenza, scelto di adeguarsi all’indicazione della propria Associazione di categoria11.

3. Il TAN e il TAE/TIR e le distinte periodicità di capitalizzazione e di pagamento. Come accennato, negli ordinari finanziamenti la prescrizione normativa sottesa all’art. 1284 c.c. è informata ad una velocità di maturazione

11 L’errata ed ingannevole sinonimia del TAN al tasso leasing, impiegato nella capitalizzazione infrannuale, trova sostegno e conforto in una ‘stravagante’ lettura del tasso leasing offerta dal prof. M. Comana. Osservando che la definizione della Banca d’Italia é meramente testuale, senza indicazione della formula, il valore attuale dei canoni viene calcolato univocamente attraverso l’impiego del tasso periodale corrispondente alla cadenza dei canoni, diversamente da quanto previsto per i similari tassi corrispondenti al TAEG e al TEG. Tale tasso, secondo il prof. M. Comana, viene per prassi poi riespresso con riferimento all’anno, in una relazione proporzionale, semplicemente moltiplicando il tasso periodale per il numero di periodi che si contano nell’anno. In termini di matematica finanziaria, si aggiunge, ciò che si otterrebbe da tale semplice passaggio matematico altro non è che il tasso equivalente in regime di capitalizzazione semplice. Sottolinea, infine, il prof. M. Comana che questo è proprio il tasso che viene utilizzato per la costruzione del piano di ammortamento e quindi si tratta di una modalità di conversione tutt’altro che arbitraria, bensì quella più aderente alla modalità di determinazione delle prestazioni contrattuali. Si ritiene detta lettura del tutto priva di ogni fondamento logico, matematico e giuridico.

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degli interessi proporzionale al capitale finanziato, che prescinde dalle modalità di pagamento degli stessi e rimane invariata e costante nel tempo, descrivendo una crescita degli interessi lineare, tipica del regime semplice. Per contro, nei finanziamenti in leasing, la prescrizione del TAE/TIR, configurando una metrica informata al regime composto, è basata su una velocità di maturazione degli interessi proporzionale al montante maturato ad ogni scadenza, che, con gli interessi capitalizzati, descrive una crescita corrispondente ad una curva esponenziale12. Il TAN, propriamente, non trova un pratico utilizzo nel regime semplice: l’aggiunta del termine ‘nominale’ in tale regime, informato al criterio di proporzionalità, rimane sostanzialmente superflua in quanto non specifica alcunché in aggiunta al tasso annuo. Il TAN trova, invece, una propria applicazione nel regime composto e, in generale, salvo specifica e diversa indicazione, viene riferito al parametro corrispondente alla capitalizzazione annua, coincidente con il TAE/TIR13.

Bonferroni invita a non confondere il tasso con l’interesse: «Per ottenere un tasso, occorre dividere un interesse (unitario) per il tempo in cui s’è formato; e quindi dividendo (1 + i)1/m -1 per 1/m, nel nostro caso si ottiene appunto im. Il tasso sta all’interesse unitario come la velocità sta allo spazio; e come la velocità è un modo di percorrere lo spazio, così il tasso è un modo di corrispondere l’interesse. Se in un’ora si percorrono 100 km, la velocità media (in km – ora) è 100; e se nella prima mezz’ora si sono percorsi 40 km, la velocità media nella mezz’ora è stata 40: ½ = 80, ma nessuno dirà che è stata 40. Il tasso non è mai un interesse, perché si tratta di grandezze diverse, anche quando sono misurate dallo stesso numero; così una velocità non è mai uno spazio, neanche se numericamente coincide con la misura dello spazio percorso nell’unità di tempo. Dicendo “tasso effettivo” o “nominale” si vuol dire semplicemente che la sua misura è uguale, o no, a quella dell’interesse corrisposto nell’anno su una lira, ma non che esso si identifica, o no, con tale interesse. In fondo, un tasso è sempre effettivo, perché misura una modalità effettivamente realizzata. Chi, nel 1° semestre, versa 2 lire d’interesse su 100 di capitale, corrisponde l’interesse al tasso del 4%, anche se, nel 2° semestre, l’interesse sarà 3, portando in totale a 5 l’interesse annuale. Tali denominazioni provengono dal linguaggio – che non si può pretendere sia molto raffinato – delle persone di pratica e si perpetua essenzialmente per forza di tradizione; ma sarebbe forse meglio bandirle dalle trattazioni matematiche e scientifiche allo stesso modo che in meccanica non si parla di velocità effettiva o nominale, ma solo di “velocità”». (Bonferroni, Fondamenti di matematica attuariale, Anno Accademico 1936-37, p. 161 ss.). 13 Nella matematica si considerano tanti regimi composti distinti, a seconda del periodo di capitalizzazione (mensile, trimestrale, ecc..): nel linguaggio tecnico più sofisticato, quando è necessario impiegare il TAN riferito ad un periodo di capitalizzazione inferiore all’anno, onde evitare ambiguità, per una corretta trasparenza dei termini di calcolo, il tasso (TAN) viene sempre espresso su base annuale ma si aggiunge la precisazione ‘convertibile m volte l’anno’ o ‘con capitalizzazione m volte l’anno’; l’indicazione – è bene rilevare – è riferita precipuamente al tasso (TAN), non agli interessi, che 12

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Il TAN, come ogni tasso di mercato (TAE, TIR, TAEG), è usualmente espresso su base annua, a prescindere dalla periodicità di pagamento, che può anche intervenire più volte nell’anno. Osserva Cacciafesta: «stabilire che il prestito sarà remunerato in ragione di un certo tasso annuo non vuol dire che gli interessi debbano venir pagati annualmente, ma serve solo a stabilire la velocità con cui gli interessi stessi vengono generati. Resta ancora da stabilire la legge da impiegare per la loro quantificazione effettiva»14. L’impiego del TAN nei finanziamenti in regime composto, salvo specifica indicazione, comporta il riferimento alla capitalizzazione annuale: a tale periodo si riferisce il tasso leasing prescritto dalla Banca d’Italia corrispondente al TAE/TIR/TAN, che esprime compiutamente il costo finanziario annuo dell’operazione di leasing. L’eventuale regime di capitalizzazione infrannuale deve essere opportunamente esplicitato in contratto, né si può confondere e ricondurre il regime di capitalizzazione all’esigibilità: risulterebbe alquanto penalizzante per il prenditore del finanziamento, ritenere che nelle scadenze infrannuali scompaia la relativa distinzione e, conseguentemente, l’esigibilità infrannuale degli interessi risulti necessariamente accompagnata dalla capitalizzazione infrannuale. La capitalizzazione annuale e la capitalizzazione infrannuale si riferiscono a “velocità” distinte, alle quali cor-

potrebbero anche essere corrisposti con una periodicità inferiore, multipla o comunque diversa dalla periodicità della capitalizzazione che contraddistingue il regime composto. Questo consente di distinguere la capitalizzazione dall’esigibilità degli interessi: infatti, il pagamento infrannuale degli interessi può alternativamente essere riferito al regime di capitalizzazione annuale, richiamato dal Tasso Annuo Nominale, o al regime di capitalizzazione infrannuale, richiamato dal Tasso Annuo Nominale ‘convertibile m volte l’anno’: nel primo caso al tasso annuale indicato corrisponderà l’equivalente tasso infrannuale, nel secondo caso al tasso annuo convertibile corrisponderà il proporzionale tasso infrannuale. Capitalizzazione e esigibilità, assimilate nel calcolo del regime composto, rimangono concettualmente distinte. Al TAN del 10% corrisponde il pagamento trimestrale del tasso equivalente (2,41%), mentre al TAN del 10% convertibile 4 volte l’anno corrisponde il pagamento trimestrale del tasso proporzionale del 2,50%. È evidente che, fuori dal campo specialistico della matematica finanziaria, l’impiego del TAN convertibile, in luogo del TAE/TIR, è fonte di inutile confusione, esprimendo, per altro, un tasso ingannevole in quanto inferiore al corrispondente TAE/TIR, non propriamente rispondente alla misura del prezzo nella metrica prescritta dalla Banca d’Italia. 14 Cacciafesta, Le leggi finanziarie dell’interesse semplice e composto e l’ammortamento dei prestiti, in assoctu.it, 2018.

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rispondono TAE/TIR distinti, che conducono ad esiti economici diversi, per la stessa esigibilità periodica convenuta15. Le istruzioni di trasparenza della Banca d’Italia, nel prescrivere la formula di determinazione del tasso leasing corrispondente al TIR, definiscono, al tempo stesso, la modalità di calcolo della rata e, implicitamente, le imputazioni alle distinte scadenze.

15 Il TAE/TIR contrattuale può essere accompagnato dalla capitalizzazione o dal pagamento m volte l’anno, come anche il pagamento degli interessi m volte l’anno può accompagnare la capitalizzazione annuale e, viceversa, la capitalizzazione m volte l’anno può accompagnare il pagamento annuale. «Nominal rates with different compounding frequencies are not comparable. For example, a nominal rate of 12% compounded annually on a capital of €100 implies a capital at the end of the year of 100 x (1+0.12) = €112. The same rate, compounded monthly implies that the capital at the end of year is 100 x (1+0.01)^12 = €112.68. In this case the difference is not large, but it increases with the level of the rate (for example, for a nominal rate of 40% we obtain balances of 100 x (1+0.4) = €140 and 100 x (1+0.4/12)^12 = €160.10 respectively) and the horizon (at the end of 10 years the balances are 100 x (1+0.12)^10 = €310.58 and 100 x (1+0.01)^(10x12) = €330.04 respectively). However, once the compounding frequency is known, interest rates may be converted to allow for comparisons. In fact, for any given interest rate and compounding frequency, an ‘equivalent’ rate can be obtained for a different compounding frequency, which applied on the same initial capital gives the same balance over any horizon. For example, from a nominal rate ‘if’ compounded f times a year we can obtain the equivalent rate ‘ig’ compounded g times a year as follows (equivalent conversion method):

{

1 +

if f

f

} ={

1 +

ig g

}

g

When g is 1, that is, the compound frequency is yearly, we obtain the effective interest rate. That is, the effective interest rate is an equivalent rate calculated as if compounded annually. Or, in other terms, effective interest rate is the interest rate restated from the nominal interest rate as an interest rate with annual compound interest. Using the previous equation, if we use r to refer to the effective rate and i to the nominal rate, we obtain:

{

r =

1 +

i f

f

}

- 1

where, as before, f is the number of compounding periods per year. The effective rate is also known as the Effective Annual Rate (EAR) or Annual Equivalent Rate (AER), terms which make explicit the annual compounding frequency and the equivalent nature of the effective rate». (European Commission, Directorate-General Health and Consumer Protection, Study on the calculation of the annual percentage rate of charge for consumer credit agreements, Rapporto originale 2009, revisionato ottobre 2013).

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Nella determinazione del canone costante, con l’impiego del regime composto ed i pagamenti infrannuali, il TAN va riferito al regime di capitalizzazione annuale, corrispondente al TAE/TIR, prescritto dalla Banca d’Italia. La corrispondente formula di determinazione del canone costante, nella periodicità infrannuale pari a 1/m di anno, è data, con riferimento al tasso leasing corrispondente al TAN/TAE/TIR, da: A = C/(1 + TAN)1/m + C/(1 + TAN)2/m + … + C/(1+ TAN)nxm/m dove C esprime il valore costante del canone, mentre l’esponente, 1/m, 2/m, ..., esprime il tempo in anni16. Risultando il TAN convenuto in regime di capitalizzazione annuale, nella determinazione infrannuale della rata, il relativo valore rimane scevro della capitalizzazione infrannuale, che, invece, risulterebbe dall’impiego del tasso periodale TAN/m, conservando esclusivamente la capitalizzazione propria al regime composto annuale. Nella periodicità infrannuale, se gli interessi vengono corrisposti anziché capitalizzati, rimangono invariati la natura del TAN e il tasso leasing convenuto. Il TAN pattuito, nelle modalità impiegate per la determinazione del canone, non è altro che il tasso interno di rendimento (TIR), cioè il tasso annuo effettivo che «esprime su base annua l’eguaglianza tra, da un lato, la somma dei valori attualizzati di tutti i prelievi e, dall’altro, la somma dei valori attualizzati dei rimborsi e dei pagamenti»17.

16 Volendo esprimere la medesima formula del TAE/TIR, con i periodi in unità diverse dall’anno (mensile, trimestrale, …), l’eguaglianza al capitale iniziale è data da: A = C/(1 + im )1 + C/(1 + im )2 + … + C/(1+ im)n x m con im = (1 + TAN)1/m –1 Come accennato, anche nel linguaggio specialistico della matematica, il Tasso Annuo Nominale, senza il puntuale riferimento alla periodicità di capitalizzazione infrannuale, assume la veste di TAN ‘ripetibile una volta l’anno’, riferito alla capitalizzazione annuale che, in matematica, quando si accompagna a canoni di cadenza infrannuale, relativi all’unità periodale 1/m di anno, ricomprende gli interessi calcolati al tasso periodale equivalente al TAN espresso in contratto, cioè im = (1 + TAN)1/m – 1. Cfr. Moriconi, Matematica finanziaria, Bologna, 1994, p. 80; Cacciafesta, Le leggi finanziarie, cit. 17 L’indicazione del TAN nella capitalizzazione annuale è ricondotta al tasso espressivo del TAE, sia che gli interessi siano corrisposti infrannualmente, sia che vengano infrannualmente, capitalizzati al tasso periodale equivalente (im = (1 + TAN)1/m – 1). Se nel calcolo infrannuale degli interessi e corrispondentemente nella determinazione della rata, in luogo del tasso periodale im = (1 + TAN)1/m – 1, si impiega il tasso periodale im = TAN/m, corrispondente matematicamente al TAN convertibile m volte l’anno, oltre a discostarsi dal criterio sottostante il calcolo del TAEG, si viene a disattendere, in assenza di una espressa previsione contrattuale, il dettato dell’art. 125 del t.u.b. che ai co. 5 e 6 prevede:

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Per il calcolo del canone, annuale o infrannuale, il tasso espresso dal TIR risulta matematicamente determinato nella medesima modalità impiegata per il TAEG, richiamata dalla Direttiva sul credito al consumo, dove a sinistra dell’eguale si pone il capitale finanziato e a destra, con esclusione degli oneri accessori, i canoni periodici attualizzati in regime composto con il tempo (t) espresso in anni e frazioni, non in unità periodali inferiori o diverse dall’anno18. Diversamente, nella modalità indicata da Assilea e adottata dagli intermediari, si riporta in contratto il TAN e, per il calcolo del canone infrannuale – anziché impiegare il TAN con il tempo espresso in anni o, alternativamente, il corrispondente rapporto di equivalenza finanziaria riferito alla periodicità infrannuale dei pagamenti [ im = (1 + TAN)1/m – 1] – si impiega impropriamente il rapporto proporzionale TAN/m, pervenendo ad un valore del canone maggiore, al quale corrisponde, oltre al pagamento infrannuale, anche la capitalizzazione infrannuale, con TAE/ TIR più elevato del TAN riportato in contratto. Se, ad esempio, la periodicità del canone è trimestrale e il TAN indicato in contratto è pari al 10%, nella determinazione del valore del canone trimestrale, gli intermediari impiegano il tasso espresso nell’unità trimestrale TAN/4 = 2,50%: A = C/(1 + TAN/m)1 + C/(1 + TAN/m)2 + … + C/(1+ TAN/m)n x m (1) dove 1,2, … nxm, indicano il tempo espresso in unità di trimestre (con m = 4, periodi nell’anno, n = anni), così che la determinazione della rata, oltre alla cadenza dei pagamenti trimestrali, ricomprende il regime di capitalizzazione trimestrale; questa formula corrisponde all’impiego,

«Nessuna somma può essere richiesta o addebitata al consumatore se non sulla base di espresse previsioni contrattuali». «Sono nulle le clausole del contratto relative a costi a carico del consumatore che, contrariamente a quanto previsto ai sensi dell’articolo 121, comma 1, lettera e), non sono stati inclusi o sono stati inclusi in modo non corretto nel TAEG pubblicizzato nella documentazione predisposta secondo quanto previsto dall’articolo 124. La nullità della clausola non comporta la nullità del contratto». 18 Nella circostanza rimane pienamente rispondente ai criteri matematici quanto adottato dalla Direttiva, in particolare la precisazione: «Gli intervalli di tempo intercorrenti tra le date utilizzate nei calcoli sono espressi in anni o frazioni di anno. Si assume che un anno sia composto da 365 giorni (366 giorni per gli anni bisestili), 52 settimane o 12 mesi di uguale durata, ciascuno dei quali costituito da 30,41666 giorni (vale a dire 365/12), a prescindere dal fatto che l’anno sia bisestile o meno».

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in capitalizzazione annuale, del tasso annuo espresso dal TAN/TAE/TIR del 10,38%19. La corretta formula di attualizzazione richiamata dalla Banca d’Italia viene espressa in capitalizzazione annuale ed è data, invece, da: A = C/(1 + TAN)1/m + C/(1 + TAN)2/m + … + C/(1+ TAN)nxm/m (2) dove 1/m, 2/m, …nxm/m indicano il tempo in unità di anno e frazione, così che la determinazione della rata, prevede la cadenza frazionata nell’anno (1/4 = trimestre) ma il regime di capitalizzazione rimane annuale. Per la determinazione del canone di leasing, anche quando sia prevista la cadenza infrannuale, nell’impiego del criterio di attualizzazione stabilito dalla Banca d’Italia, non si ravvisa alcuna esigenza di convertire l’unità di tempo espressa in anni, all’unità espressa nell’unità di tempo infrannuale, così che il tasso impiegato rimane sempre inequivocabilmente ed univocamente espresso dal TAE/TIR = TAN annuale, indicato in contratto20.

19 Solo nella proporzionalità del regime semplice, alla quale fa riferimento l’art. 1284 c.c. per gli ordinari finanziamenti, il tasso trimestrale può essere espresso nel rapporto TAN/4. L’evidenza della mistificazione, nel passaggio dal regime composto annuale a quello trimestrale, emerge evidente in un finanziamento senza oneri annessi: infatti, per un tale finanziamento, per i medesimi flussi, corrispondenti all’importo della rata costante, determinati con l’improprio artifizio del tasso periodale posto pari a: im = TAN/m = 2,5%, impiegato nell’unità periodale riferita al trimestre anziché all’anno, il corrispondente TAEG, secondo i criteri dettati dalla Direttiva 2008/48/CE, è pari al 10,38% e non al 10%. La medesima evidenza si riscontra altresì con il TEG relativo alla verifica del rispetto delle soglie d’usura, per il quale è impiegato il medesimo fattore annuale di attualizzazione previsto per il TAEG. Poiché nel mercato finanziario viene sistematicamente negoziato il tasso composto annuale, nel reperimento dei fondi sul mercato dell’IRS l’intermediario consegue, rispetto al tasso leasing praticato, un occulto free lunch pari alla differenza fra il tasso dichiarato (10%) e quello effettivamente praticato (10,38%). In termini analoghi risulterebbe anomalo, in caso di estinzione anticipata, a fronte di un tasso convenzionale del 10%, determinare il capitale residuo scontando le rate residue al tasso annuo del 10,38% (equivalente al tasso periodale del 10%/4). 20 Non è la prima volta che si complica la matematica per confondere la parte. Proprio nella conversione al tasso periodale si maschera la maggiorazione del tasso praticato nelle operazioni di leasing. Poiché ogni tasso è propriamente riferito all’anno, nel regime composto, se convenuto al Tasso Annuo Nominale del 10%, pari al tasso leasing – corrispondente alla capitalizzazione annuale – l’interesse corrisposto trimestralmente sarà pari al tasso periodale del 2,41%; se, oltre al pagamento trimestrale, si pattuisce anche la capitalizzazione trimestrale, sarà sufficiente considerare il corrispondente tasso leasing e Tasso Annuo Nominale del 10,38%, al quale corrisponde il tasso periodale del

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È opportuno altresì osservare che, con riferimento alla violazione dell’art. 117, co. 4, all’impropria indicazione del TAN in luogo del tasso leasing, esaminata dalla pronuncia in commento, si accompagna l’ulteriore criticità relativa al criterio di imputazione, adottato nelle modalità di pagamento. Infatti, la prescritta eguaglianza del valore del finanziamento iniziale ai valori attuali dei canoni corrisponde a modalità di pagamento che risultano invertite rispetto ai criteri di imputazione adottati dagli intermediari nei pagamenti alle distinte scadenze. Un semplice esempio di finanziamento in leasing con canone costante può essere di aiuto. Si consideri un finanziamento in leasing di € 1.000 a tre anni, al TAN del 10%, con canone trimestrale costante. Come accennato, nella pratica operativa, nell’adottare il regime composto, fissato il Tasso Annuo Nominale, nel calcolo del canone e, conseguentemente, degli interessi periodali, in luogo del tasso riferito alla capitalizzazione annuale (10%) e del corrispondente tasso trimestrale equivalente i4 = (1 + TAN)1/4 – 1 = 2,41%, gli intermediari impiegano direttamente il tasso periodale dato da: i4 = TAN/4 = 2,5%, corrispondente al tasso leasing del 10,38% che, nei vincoli di chiusura, restituisce un valore della rata più elevato, pari a € 97,49 (in luogo di € 96,96), che include la capitalizzazione trimestrale degli interessi. REGIME COMPOSTO (TAN = 10%). Determinazione canone costante: 97,49

Equivalenza fra l'importo erogato e i distinti pagamenti. Tasso periodale di attualizzazione: TAN/4 = 2,50%

1° canone C = 1000

=

97,49/(1+ TAN/4)

1

+

2° canone

+

97,49/(1+ TAN/4)

2

+ … +

11° canone

+ … +

97,49/(1+ TAN/4)

11

+

12° canone

+

97,49/(1+ TAN/4)12

Quota capitale

95,11

+

92,79

+ … +

74,30

+

72,49

Quota interessi

2,38

+

4,70

+ … +

23,19

+

25,00

Quota capitale

72,49

+

74,30

+ … +

92,79

+

95,11

Quota interessi

25,00

+

23,19

+ … +

4,70

+

2,38

Imputazioni canone costante: 97,49

Nella formula di determinazione del canone, corrispondente al processo di attualizzazione prescritto dalla Banca d’Italia, ai valori del canone alle distinte scadenze trimestrali corrispondono – nell’ordine temporale di scadenza – le imputazioni a capitale ed interesse riportate nel prospetto superiore. Come si può agevolmente verificare, in ciascuna ra-

2,50% Solo nel linguaggio specialistico tale circostanza viene talvolta, quando necessario, richiamata riferendo l’interesse convenuto al Tasso Annuo Nominale del 10% con capitalizzazione 4 volte l’anno (trimestrale).

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ta l’imputazione a capitale corrisponde al valore attuale della rata stessa, mentre l’imputazione ad interessi corrisponde all’ammontare maturato sulla quota capitale a rimborso. Diversamente, nel piano dei pagamenti, che ordinariamente accompagna i contratti di leasing, l’ordine temporale di dette imputazioni viene invertito (il 1° con il 12°, il 2° con l’11°, ecc...), riproducendo le imputazioni a capitale ed interesse riportate nel prospetto inferiore, nel quale gli interessi risultano calcolati, ad ogni scadenza sul debito residuo, anziché sulla quota capitale in scadenza. In altri termini, nella formula di determinazione del canone è implicita la capitalizzazione trimestrale degli interessi riferita alla quota capitale in scadenza, mentre nel piano di ammortamento allegato il pagamento del monte interessi incluso nella rata, precedentemente definito nel regime composto trimestrale, viene, nei pagamenti, anticipato, senza alcuna capitalizzazione, con l’imputazione degli interessi maturati, ad ogni scadenza, calcolati sul debito residuo, anziché sulla quota capitale in scadenza21. Nelle due alternative il TIR dell’operazione è il medesimo ma l’onere per l’utilizzatore assume contorni giuridici diversi e, senza un esplicito assenso, si viene a configurare la violazione dell’art. 117, comma 4, in quanto si riscontra l’inosservanza dell’indicazione di “ogni altra condizione praticata”. Può sembrare il gioco delle tre carte: rimane frequentemente inespresso in contratto il criterio di imputazione del canone nei distinti valori periodali del capitale e degli interessi, prevedendo, nel piano dei pagamenti allegato, un ordine temporale di imputazione invertito rispetto ai valori rivenienti dal processo di attualizzazione. Gli interessi maturati sul debito residuo risultano, ad ogni scadenza, pagati anticipatamente, ma ciò non induce alcun beneficio sul monte interessi corrisposto che

21 Come nell’ammortamento a rata costante, la capitalizzazione infrannuale ricompresa nel monte interessi incluso nel canone, rimane occultata in quanto derivata non dal tasso riportato in contratto ma dall’algoritmo di calcolo impiegato nella determinazione del canone. Con un esempio elementare, per un prestito di € 1.000 al tasso annuale composto espresso dal TAN del 10% per il periodo di 3 anni, è indubbio che, con il pagamento annuale degli interessi maturati (€ 100), il tasso rimane invariato al 10%; ma se il monte interessi, viene prima definito nella pattuizione nel valore espresso dal tasso composto dell’unità periodale trimestrale [C x (1+2,5%%)12 - C], pari a € 344,9 e poi distribuita, per tale valore, nei tre anni, il tasso del prestito risulta maggiorato. In termini assimilati, é quanto si consegue con l’impiego del regime composto infrannuale nella determinazione del canone periodico pattuito nel valore maggiorato, poi distribuito, con l’imputazione degli interessi sul debito residuo.

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rimane quello definito in contratto nel regime composto (annuale o infrannuale), e nella medesima misura conseguibile con l’imputazione degli interessi capitalizzati e corrisposti con la quota capitale in scadenza, così come riveniente dall’algoritmo di determinazione del canone richiamato dalla Banca d’Italia22. Il cliente rimane ignaro dello scambio di imputazioni che interviene nel canone periodico, con gli indubbi riflessi di penalizzazione che richiamano d’appresso l’imputazione a sorpresa dell’art. 1195 c.c. 23. Le tre carte risultano identiche sul dorso sottoposto alla sua vista e consenso contrattuale (nell’esempio, valore del canone in regime composto = € 97,49; finanziamento iniziale = € 1.000; tasso leasing = 10%), ma con la composizione invertita nella distribuzione dei pagamenti alle distinte scadenze. Al di là del canone costante indicato in contratto, rimane pressoché impossibile all’operatore retail avvedersi dell’inversione nelle imputazioni al capitale e agli interessi, nonché del conseguente ampliamento del finanziamento medio nel periodo di riferimento. L’impiego del TAN, frazionato proporzionalmente nel periodo infrannuale, non può trovare giustificazione nella circostanza che, risultando gli interessi corrisposti immediatamente a ciascuna scadenza trimestra-

22 Il piano di ammortamento, quando è unito in allegato al contratto, riporta, di regola, tavole numeriche con i distinti valori delle imputazioni a rimborso del capitale e corresponsione degli interessi, i cui criteri di determinazione rimangono, tuttavia, sottratti all’assenso della parte, la quale rimane ignara della pregnante penalizzazione degli stessi, per giunta indotta a ritenere univoca la determinazione delle imputazioni stesse. D’altra parte, noti i criteri, risulta accessorio l’allegato, mentre non è altrettanto vero il contrario. La Cassazione ha più volte ribadito che, mentre non rileva la difficoltà del calcolo, inerente la capacità tecnica di determinazione del piano, rileva invece che «il criterio di calcolo risulti con esattezza dallo stesso contratto» (Cass. nn. 22898/05, 2317/07, 17679/09, 25205/14). 23 Come per l’ammortamento alla francese, il canone costante incontra un generale gradimento per la semplicità di gestione. Tuttavia, occorre osservare che nell’ammortamento a canone costante, con il regime composto ordinariamente praticato dagli intermediari, il carico economico, nelle due tradizionali alternative di imputazione degli interessi, è il medesimo dello Zero coupon. All’anticipato pagamento degli interessi non corrisponde alcuna economia: il monte interessi rimane invariato; per giunta – rispetto all’alternativo criterio riferito all’impiego in regime composto sulla quota capitale in scadenza –anticipando il pagamento degli interessi maturati, si realizza un significativo “prolassamento” nel rimborso del capitale, dal quale l’intermediario finanziario trae ulteriori non trascurabili benefici sul piano del trattamento giuridico con riguardo al privilegio nel recupero (art. 2855 c.c.), alla prescrizione (art. 2948 c.c.), e alla cessione del credito (art. 1263 c.c.).

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le, non hanno modo di comporsi e quindi, in ragione d’anno, il corrispettivo si ragguaglierebbe al 10%: la prescrizione della Banca d’Italia, come accennato, non è riferita al rapporto proporzionale dell’art. 1284 c.c., bensì al tasso composto annuale che con i pagamenti trimestrali del 2,5% corrisponde al tasso leasing del 10,38%. Nella determinazione dell’importo del canone periodico, evitando ogni impropria commistione fra capitalizzazione ed esigibilità degli interessi, il calcolo della rata trimestrale, come prescrive la matematica finanziaria, deve essere effettuato con il tasso annuale del 10% in regime di capitalizzazione annuale, che corrisponde al tasso periodale equivalente del 2,41%, non del 2,50%. La capitalizzazione è distinta dall’esigibilità. Come accennato, le modalità di rimborso e corresponsione degli interessi interessano aspetti diversi: il tasso leasing è espresso nel tasso composto annuale, mentre la cadenza del canone può essere prevista annuale o infrannuale. Corrisponde ad una mera mistificazione riscontrare che, nei canoni scadenzati in termini infrannuali – senza alcuna precisazione ed assenso della parte – l’onere connesso alla capitalizzazione venga ulteriormente aggravato accompagnando l’esigibilità trimestrale alla capitalizzazione trimestrale, che maggiora ulteriormente il valore del canone già caricato della capitalizzazione annuale. Un’analoga mistificazione si riscontra negli ordinari finanziamenti a rata costante, dove il contratto riporta il TAN con le rate infrannuali e, analogamente, gli intermediari, nel calcolo del valore della rata, al tasso annuale (10%) con il tempo espresso in anni e frazioni, sostituiscono il tasso periodale proporzionale (10%/4 riferito al tempo espresso in trimestre), impiegando in tal modo la capitalizzazione infrannuale24. Nella circostanza, la prescrizione dell’impiego, nell’equivalente tasso periodale, della formula di conversione [im = (1 + TAN)1/m – 1] del Tasso Annuo Nominale riportato in contratto, risulta chiaramente esplicitata sino al 2016 nei Prototipi di foglio informativo (Allegato 4.B), previsti dalle disposizioni di trasparenza della Banca d’Italia, ma è rimasta sistematicamente disattesa dagli intermediari creditizi. Nel menzionato documento, per i mutui offerti ai consumatori, nel prescrivere l’indicazione del tasso di interesse nominale annuo, si precisa in nota (n. 5): «Se nel piano di

Si osservi che nella circostanza, il prezzo del finanziamento è espresso dal tasso proporzionale prescritto dall’art. 1284 c.c., non dal TIR, e quindi nel calcolo del valore della rata non è consentita la capitalizzazione degli interessi, né in ragione d’anno, né in ragione infrannuale. 24

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ammortamento si applica il regime di capitalizzazione composta degli interessi, la conversione del tasso di interesse annuale i1 nel corrispondente tasso di interesse infrannuale i2 (e viceversa) segue la seguente formula di equivalenza intertemporale: i2 = (1 + i1)t1/t2 -1»; nel successivo aggiornamento del menzionato Prototipo tale dettaglio in nota risulta omesso25. Si osservi, per altro, che sino al 2012 nelle istruzioni di trasparenza, alla sezione I Contratti, le cui disposizioni erano estese ai finanziamenti di leasing finanziario, al paragrafo 3 “Contenuto dei contratti”, veniva disposto: «Con particolare riferimento ai tassi di interesse, ai sensi della delibera CICR del 9 febbraio 2000, i contratti indicano la periodicità di capitalizzazione e, nei casi in cui sia prevista una capitalizzazione infrannuale, il valore del tasso, rapportato su base annua, tenendo conto degli effetti della capitalizzazione». Non si comprende come sia stata possibile una generalizzata disapplicazione della norma regolante l’applicazione degli interessi infrannuali nella completa inerzia dell’Organo regolatore: nella deriva di omissione si può riscontrare l’evidente conflitto di interesse, richiamato da Dolmetta nello scritto menzionato in precedenza (v. nt. 9). Gli interme-

25 Nel paragrafo relativo ai fogli informativi, le disposizioni di trasparenza riportavano: «I fogli informativi relativi ai contratti di conto corrente e mutuo ipotecario in euro per i consumatori sono redatti in conformità dei modelli previsti negli Allegati 4A e 4B». Al riguardo, le Istruzioni e le indicazioni della Banca d’Italia appaiono pervase nel tempo da un’apprezzabile confusione e opacità. L’ Allegato 4B, con la menzionata nota, viene introdotto con le Disposizioni di trasparenza del 2009; nel 2016 l’Allegato B viene sostituito con l’Allegato 3 e la menzionata nota non viene sostituita, ma semplicemente omessa. Nell’aprile del 2011 viene pubblicata in G.U. la guida pratica sul conto corrente e sul mutuo, nella quale si riporta un esempio di ammortamento alla francese nel quale l’importo della rata infrannuale viene determinato con la formula i2 = (1 + i1)t1/ t2 -1. Successivamente, nell’ottobre del 2012, sempre con pubblicazione in G.U., viene aggiornata la guida e nell’esempio di mutuo alla francese la rata risulta determinata con la forma semplificata i2 = i1/m, diversamente da quanto disposto dall’Allegato 4B. Con provvedimento del 30 settembre 2016, come accennato, il Prototipo di foglio informativo (Allegato 4B) relativo ai mutui viene sostituito dall’Allegato 3 nel quale tale dettaglio è omesso. Successivamente vengono pubblicate (non più in G.U.) nuove versioni della guida, ‘Comprare una casa – Il mutuo ipotecario’, nelle quali viene nuovamente proposto un mutuo alla francese con la rata infrannuale determinata con il tasso periodale calcolato nella modalità semplificata i2 = i1/m. Si reiterano circostanze nelle quali l’opacità delle disposizioni del Regolatore risultano coprire un significativo quanto indebito drenaggio, diffuso all’ampia platea degli operatori più deboli, che subiscono l’asimmetria negoziale di contratti predisposti dall’intermediario.

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diari, mentre per l’indicazione del TAEG impiegano la formula corretta, recepita dalla Direttiva comunitaria sul credito al consumo, nel calcolo del canone delle operazioni di leasing e della rata dei finanziamenti con ammortamento alla francese, continuano ad applicare l’impropria conversione proporzionale nella periodicità infrannuale, in luogo della conversione al tasso equivalente: in tal modo, anche in assenza di oneri accessori, il TAEG e il TEG, corrispondenti al tasso leasing e, rispettivamente, al tasso ex art. 1284 c.c. dell’ammortamento alla francese risultano maggiori del TAN convenuto26. In Francia, ancor prima della Direttiva 2014/17/EU sul credito al consumo relativo ai beni immobili, con decreto del Ministero dell’Economia

26 Riporta Peccati: «Il fattore da applicare al debito per calcolare gl’interessi è: (1 + i)1/m – 1 con interessi composti; i/m con interessi semplici, ove i>0 è il tasso annuo di interesse e 1/m è l’intertempo tra due rate». L.’ A. riconosce che, dato il TAN contrattuale pari a ‘i’, il tasso corrispondente alla frazione periodale è pari a im = (1+i)1/m – 1; osserva altresì che nel calcolo frazionato, gli interessi composti ordinariamente applicati risultano inferiori a quelli semplici, ma nelle pratiche commerciali i contratti predisposti dagli intermediari adottano nella circostanza il più oneroso tasso i/m, nascondendo ‘nella giacchetta’ margine percentuali non espressi nel TAN enunciato in contratto. Nell’esempio di p. 10 del documento del 26 novembre 2020, riporta come fattore di montante (1+5%)1/2 quando, invece, gli intermediari creditizi impiegano il fattore di montante (1 + ½ x 5%). In termini analoghi anche Mantovi e Tagliavini sviluppano il piano di ammortamento con il corretto tasso periodale im = (1 + i)1/m – 1, ritenendolo ordinariamente impiegato dagli intermediari, mentre confondono con l’impiego del regime semplice, il criterio adottato dagli intermediari (i/m), per affermarne la maggiore penalizzazione. (Mantovi e Tagliavini, Anatocismo e capitalizzazione annuale degli interessi, giugno 2015, in dirittobancario.it). Riprendendo l’esemplificazione questi A. la tipologia di ammortamento adottata dagli intermediari non è quella riportata con il valore teorico di jm = (1+i)1/m – 1, bensì quella riportata, con il valore di jm = i/m che conduce ad un importo maggiore del monte interessi. In entrambi gli sviluppi il monte è maggiore di quello risultante dal regime semplice. Diversamente, Silvestri e Tedesco, danno per corretto il criterio adottato dagli intermediari, ritenendo non necessaria la menzionata correzione nel passaggio al tasso periodale equivalente, non perché il tasso è espresso, contrariamente all’art. 1284 c.c., in ragione semestrale, ma perché non interviene la capitalizzazione degli interessi che, invece, risultano nei pagamenti corrisposti semestralmente (Silvestri e Tedesco, Sulla pretesa non coincidenza fra il tasso espresso in frazione d’anno e il tasso annuo nel rimborso rateale dei prestiti secondo il metodo “francese”, in Giur. merito, 2009, I, p. 82). A parte taluni refusi (32.177.188 – 24.150.000 = 8.631.188), si considera il Tasso Annuo Nominale convertibile due volte (semestrale), a motivo del pagamento semestrale che, a loro avviso, preclude la capitalizzazione, trascurando che la capitalizzazione semestrale degli interessi è già ricompresa nel valore della rata definita a monte nella pattuizione.

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n. 2002-927 del 10 giugno 2002, è stato disposto per il credito al consumo, nei pagamenti infrannuali, in luogo del tasso proporzionale, l’adozione del corretto tasso equivalente (tasso attuariale), oltre alla puntuale indicazione all’utilizzatore del criterio adottato27. Nella pattuizione ordinariamente adottata dagli intermediari, distintamente nei finanziamenti ad ammortamento graduale e nei finanziamenti in leasing, con la rata/canone determinati in regime composto al tasso espresso dal TAN indicato in contratto, si riscontra: i) nei primi, il venir meno della proporzionalità del tasso convenzionale ex art. 1284 c.c. e, al tempo stesso, l’anatocismo vietato dagli artt. 1283 c.c. e 120 t.u.b., in quanto il monte interessi incluso nella rata esprime un valore esponenziale con il tempo, diverso e maggiore del corrispondente valore lineare espresso dal regime semplice; ii) nei secondi, il venir meno, con l’impiego dei canoni infrannuali, dell’indicazione del tasso leasing disposto dalla Banca d’Italia a norma dell’art. 117, comma 8 t.u.b., in quanto, in luogo di impiegare l’algoritmo del TIR che esprime il tempo in anni e frazioni, si impiega il TAN impiegato proporzionalmente nella periodicità infrannuale; iii) per entrambe le modalità di finanziamento, alla capitalizzazione annuale del TAN riportato in contratto si sostituisce, nella determinazione periodale inferiore all’anno, la capitalizzazione infrannuale, impiegando un tasso periodale semplificato per eccesso (im = TAN/m), contrario a quello espresso dalla matematica (im = (1 + TAN)1/m – 1). Nella distinta fase del pagamento, sia per i finanziamenti con ammortamento alla francese che per quelli in leasing, con il criterio ordinariamente adottato dagli intermediari, la spettanza - nel valore maggiorato incluso nella rata/canone calcolata in regime composto infrannuale risultando distribuita anticipatamente, viene a comprimere il capitale a rimborso, determinando una sorta di roll over dei rimborsi che, reiterato ad ogni scadenza, incrementa il capitale medio di periodo; di tal guisa, gli interessi secondari infrannuali calcolati nella pattuizione vengono nei

«Le premier alinéa de l’article R. 313-1 du code de la consommation est remplacé par les dispositions suivantes « Sauf pour les opérations de crédit mentionnées au 3° de l›article L. 311-3 et à l›article L. 312-2 du présent code pour lesquelles le taux effectif global est un taux annuel, proportionnel au taux de période, à terme échu et exprimé pour cent unités monétaires, le taux effectif global d›un prêt est un taux annuel, à terme échu, exprimé pour cent unités monétaires et calculé selon la méthode d›équivalence définie par la formule figurant en annexe au présent code. Le taux de période et la durée de la période doivent être expressément communiqués à l›emprunteur». 27

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pagamenti trasformati in primari, riferiti a valori maggiorati dell’obbligazione principale. Le criticità, riconducibili alle rispettive violazioni delle menzionate disposizioni normative, si ravvisano nella pattuizione della rata/canone, non nei pagamenti che, pur tuttavia, rispondono frequentemente a criteri di imputazione privi dell’assenso della parte, configurando, anche su questo versante, la violazione dell’art. 117, comma 4 t.u.b.28. Nella circostanza, sia nei finanziamenti con ammortamento graduale che nei finanziamenti in leasing, risulta violata la disciplina di correttezza e trasparenza che, in più aspetti, sia l’ordinamento generale che quello specifico bancario dispongono a tutela della parte debole. Come rileva Dolmetta, la presenza di una disciplina della trasparenza per definizione suppone il riconoscimento della disparità strutturale delle relative posizioni e della diversità funzionale tra chi il prodotto crea, o assembla, e chi il prodotto, invece, consuma29. Con la menzionata indicazione di Assilea, si esprime il tasso leasing, dato dal TAE/TIR, nella sinonimia del TAN che, tuttavia, viene meno con l’impiego nel regime di capitalizzazione infrannuale; si consegue, di fatto, una celata mistificazione, assimilando l’esigibilità infrannuale ad una pari capitalizzazione. Occorre tenere distinta la misura della velocità di produzione degli interessi della spettanza pattuita dal relativo pagamento: la periodicità trimestrale riferita al pagamento degli interessi rimane concettualmente ed operativamente distinta dall’impiego del regime di capitalizzazione che nel tasso leasing è espresso nella periodicità annuale. Il relativo TAN è inteso in capitalizzazione annuale, pari al TAE/TIR,

Nella circostanza di un mutuo ipotecario stipulato fra un consumatore e un professionista, la Corte di Giustizia Europea nella sentenza n. 125 del 2018 ha stabilito un puntuale principio di trasparenza: «la Corte statuisce che, al fine di rispettare l’obbligo di trasparenza ai sensi della direttiva ( Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993) una clausola che fissa un tasso d’interesse variabile contenuta in un contratto di mutuo ipotecario deve non solo essere intelligibile sui piani formale e grammaticale, ma anche consentire che un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, sia posto in grado di comprendere il funzionamento concreto della modalità di calcolo di tale tasso e di valutare in tal modo, sul fondamento di criteri precisi e intelligibili, le conseguenze economiche, potenzialmente significative, di una tale clausola sulle sue obbligazioni finanziarie. (...) un giudice di uno Stato membro è sempre tenuto a controllare la chiarezza e la comprensibilità di una clausola contrattuale vertente sull’oggetto principale del contratto». 29 Dolmetta, Efficienza del mercato e “favor naturalis” per le imprese bancarie, in Riv. dir. civ., 2018, pp. 1231, ss. 28

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e nel pagamento infrannuale volendo, in alternativa al tasso annuale, impiegare l’equivalente tasso periodale, quest’ultimo è dato da: im = (1 + TAN)1/m – 1, non dal TAN/m. Con l’indicazione suggerita da Assilea, si fa ricorso ad un confuso quanto ermetico linguaggio esplicativo, senza richiamare la dicitura “convertibile m volte l’anno”, propria al linguaggio degli specialisti della materia, né tanto il più esplicito riferimento all’utilizzo del “regime composto infrannuale”, che rimarrebbe di più agevole accesso all’utilizzatore.

4. La sentenza della Corte d’Appello di Torino e l’applicazione dell’art. 117, co. 7 t.u.b. Nel caso, oggetto della sentenza dalla Corte d’Appello di Torino cassata dalla Suprema Corte, il contratto riportava il TAN del 3,743%, senza alcun riferimento alla capitalizzazione mensile, né alla specifica tecnica “convertibile 12 volte l’anno”. Nella circostanza, l’intermediario, seguendo le indicazioni di Assilea, ha intenzionalmente espresso nel TAN il tasso leasing, ma ha impiegato nel calcolo della rata, quale fattore di attualizzazione, il tasso periodale mensile riportato nella formula (1): (1 + TAN/12)k, anziché impiegare il corretto tasso annuale composto della formula (2): (1 + TAN)k/12, corrispondente all’espressione del TAE/TIR prescritto dalla Banca d’Italia. Al riguardo la Corte di Torino aveva correttamente osservato: «La differenza tra il TAN e tasso interno di attualizzazione (o tasso interno di rendimento – TIR) previsto dalle istruzioni della Banca d’Italia per il contratto di leasing è che il TAN è espresso su base annua indipendentemente dalla periodicità dei pagamenti previsti. Di fatto il TAN corrisponde al cd. Tasso leasing o TIR unicamente nel caso in cui il contratto preveda una rata annuale, mentre il TIR diventa maggiore laddove vi siano rate infra-annuali, come nel caso in esame ove le rate previste erano mensili.’ (…) ‘a fronte di un TAN pari a 3,743%, il cd. tasso leasing o TIR, in caso di rata mensile, sarebbe pari a 3,808%». L’intermediario non risulta aver riferito il tasso leasing corrispondente, per relationem, al TAN indicato in contratto, bensì ha identificato il tasso leasing, in una sinonimia al TAN sostenendo che «il tasso leasing riportato in contratto diviso 12 è esattamente il tasso interno che rende effettivamente l’eguaglianza tra il prezzo del bene e il valore attuale dei canoni (incluso l’anticipo) e del prezzo di opzione finale». In realtà, l’intermediario avrebbe dovuto indicare in contratto il criterio di determinazione per relationem, quale “altra condizione” dell’art. 117, co. 4

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t.u.b., onde pervenire dal TAN al tasso leasing, conseguendo un’univoca determinabilità dell’oggetto. L’intermediario, invece, né ha impiegato il TAN nel corretto algoritmo prescritto dalla norma per la determinazione del valore del canone, né ha indicato il criterio di calcolo per pervenire per relationem alla determinazione della rata stessa30. Poiché la Banca d’Italia prescrive l’indicazione del tasso leasing corrispondente alla formula (2), il giudice di merito aveva rilevato che «l’individuazione del tasso interno che rende effettiva l’eguaglianza tra il prezzo del bene e il valore attuale dei canoni e del prezzo di opzione finale, non è ricavabile dalla mera divisione per 12 del TAN»31 Pertanto, aveva ritenuto che: «La sia pur minima differenza tra il tasso indicato nel contratto (3,743%) da quello effettivamente previsto e applicato (3,808%), non può certo evitare di constatare l’avvenuta violazione dell’art. 117 t.u.b.»32. Per i contratti di leasing, il Tasso Annuo Nominale – aveva aggiunto la Corte di Torino – risulta ‘fuorviante’ in quanto esprime una rappresentazione che non dà conto della periodicità dei pagamenti e quindi dell’effettivo costo finanziario del credito prescritto dalla Banca d’Italia per i leasing. L’intenzionale omissione dell’effettivo tasso leasing, in assenza di un espresso criterio di relatio al TAN, viene a deviare su quest’ultimo tasso la volontà espressa dall’utilizzatore, configurando la violazione del-

«Come ritenuto da questa Corte in diverse occasioni, ciò che importa, onde ritenere sussistente il requisito della determinabilità dell’oggetto del contratto di cui all’art. 1346 c.c. è che il tasso di interesse sia desumibile dal contratto, senza alcun margine di incertezza o di discrezionalità in capo all’istituto mutuante, anche quando individuato per relationem: in quest’ultimo caso, mediante rinvio a dati che siano conoscibili a priori e siano dettati per eseguire un calcolo matematico il cui criterio risulti con esattezza dallo stesso contratto. I dati ed il criterio di calcolo devono perciò essere facilmente individuabili in base a quanto previsto dalla clausola contrattuale, mentre non rilevano la difficoltà del calcolo che va fatto per pervenire al risultato finale né la perizia richiesta per la sua esecuzione (cfr. Cass. 8028/2018; Cass. 25205/2014; Cass. 2765/1992 e 7547/1992; Cass. 22898/2005; Cass. 2317/2007; Cass. 17679/2009)»: così Cass., 25 giugno 2019, n. 16907. 31 Come accennato, per determinare il valore del canone, non occorre passare al tasso periodale con il tempo espresso in unità periodali date da mesi, trimestri, ecc, in quanto nel TIR si riporta il tasso annuale, con il tempo all’esponente espresso in anni e frazioni d’anno. 32 Nella circostanza, la Corte di Appello aveva ravvisato l’indeterminatezza dell’oggetto del contratto, ritenendo rilevante la pur minima differenza. Come chiarito anche dalla richiamata sentenza n. 16907/19 della Cassazione, «La circostanza che la differenza di risultato fosse minima, è una circostanza di fatto, legata alla contingenza di quel singolo calcolo, e comunque è irrilevante che lo scostamento sia di tanto o di poco, essendo decisivo che comunque ci sia, poiché esso è indice della variabilità del criterio di calcolo dell’interesse, da cui dipende poi l’adeguamento del canone». 30

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le norme di trasparenza, che la Corte di Torino aveva sanzionato con nei termini di cui all’art. 117, co. 7 del t.u.b.33. Una precisazione nel contratto del tasso, qualificato, non come tasso leasing, bensì come Tasso Annuo Nominale con capitalizzazione mensile, ancorché esprimente un valore distinto dal tasso leasing, è stata ritenuta dall’ABF corretta ed esauriente34.

33 Con argomentazioni, che non risultano affrontare le criticità sopra menzionate, la Corte d’Appello di Venezia, nella sentenza (inedita) n. 20 del 20 maggio 2019, è pervenuta ad un’opposta conclusione: «Sostengono gli appellatiti che il contratto di leasing non contenga esatta indicazione del tasso interno di attualizzazione. Il contratto contiene l’indicazione di tale tasso (esposto nella misura del 7,044%), il quale esprime il costo effettivo di finanziamento, ma secondo gli appellanti esso sarebbe errato: il tasso di attualizzazione sarebbe del 7,29%, mentre 7,044% corrisponderebbe al tasso nominale annuo. Ammesso e non concesso che ciò corrisponda al vero, si deve escludere che l’errore determini la nullità parziale del contratto di leasing. Non sussiste, infatti, una previsione normativa di nullità per tale ipotesi e non può applicarsi né il 4º co. dell’art. 117 t.u.b., il quale non contempla una fattispecie di nullità, né il 6º co. del medesimo articolo, che sancisce la nullità delle clausole di rinvio agli usi per la determinazione delle condizioni economiche e delle clausole “che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati”: nella specie, non vi è stata allegazione che la società di leasing abbia applicato tassi superiori a quelli eventualmente pubblicizzati e la circostanza non si desume dagli atti e documenti ‹depositati in causa. Si deve poi osservare che il corrispettivo pattuito con il contratto di leasing non dipende dal tasso interno di attualizzazione. Al contrario, è quest’ultimo che, rappresentando un indicatore del costo complessivo annuo del leasing, dipende dal primo. Ma volendo anche astrattamente ipotizzare che così non fosse e la società di leasing avesse richiesto ed ottenuto in pagamento somme di denaro superiori a quelle contrattualmente pattuite, la conseguenza non sarebbe la nullità del negozio giuridico, ma il sorgere di un diritto di ripetizione di quanto pagato in eccedenza. L’azione di ripetizione, che si fondi su tale specifica causa petendi e non sulla nullità parziale del contratto, che, come detto, deve escludersi, non è stata tempestivamente esercitata in giudizio e non è quindi ammissibile». 34 «Ebbene, il contratto di leasing sottoscritto dalle parti riporta la seguente indicazione: “tasso interno di attualizzazione ai sensi deliberazione cicr 4 marzo 2003: 4,045 con capitalizzazione mensile”, dal cui tenore letterale può dedursi che il contratto sottoscritto dalla ricorrente preveda l’indicazione, in percentuale, del tasso annuo nominale e la precisazione, in forma descrittiva, della sua capitalizzazione mensile. Quanto dedotto in via interpretativa è stato poi confermato da una simulazione eseguita in fase di istruttoria della presente controversia, da cui risulta, in effetti, che il 4,045% corrisponde al TAN di un rapporto in cui il valore del capitale alla stipula è pari al valore di acquisto del bene locato, con corresponsione all’atto stesso della stipula di una maxi-rata iniziale e di n. 239 rate mensili di importo pari a quelle previste in contratto e con un pagamento alla scadenza dello stesso pari al valore di riscatto del bene. Dal ricalcolo effettuato il tasso annuo effettivo (TAE) del finanziamento, è invece pari al 4,13%. Da quanto sopra dimostrato, può dedursi, in definitiva, che la formulazione contenuta nel contratto non è errata, in quanto indica il tasso nominale precisando il periodo di capitalizzazione, avendo il Collegio

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Se il TAN indicato nel contratto non è distinto dal tasso leasing e riferito esplicitamente alla capitalizzazione infrannuale, non risulta propriamente desumibile dal pagamento infrannuale degli interessi anche il regime composto infrannuale che autorizzerebbe l’impiego del tasso periodale im=TAN/m, in luogo di im= (1 + TAN)1/m.35. Le disposizione di trasparenza della Banca d’Italia, per le operazioni di leasing, che vengono ad interessare anche un’ampia fascia di operatori retail - onde evitare travisamenti e conseguire, nell’univocità di determinazione del tasso, quell’omogeneità di confronto, che nei finanziamenti ordinari si persegue, alternativamente, con l’indicazione aggiuntiva del TAEG, non previsto nelle operazioni di leasing - fanno diretto riferimento al TIR, che assomma nella sua espressione, al tempo stesso, l’importo richiesto e le modalità di pagamento, inglobando nel tasso l’effettivo costo finanziario dell’operazione36. Diversamente, il TAN, corrispondente al TIR, muta in funzione della periodicità di capitalizzazione adottata quando si discosta dall’ordinario riferimento annuale. Di regola il TAN, senza diversa indicazione, è riferito alla capitalizzazione annuale (convertibile una volta l’anno) ed è identico al tasso espresso dal TIR. L’impiego del TAN, quando riferito alla speciosa capitalizzazione infrannuale, esprime un tasso fuorviante che, in quanto inferiore al TIR, sottostima l’effettivo costo finanziario dell’operazione. Il riferimento per relationem al tasso leasing – come riconosciuto dall’ABF quando il contratto riporta il TAN espressamente riferito alla capitalizzazione infrannuale – consegue certamente l’uni-

ritenuto che tale indicazione descrittiva equivalga all’espressione in percentuale del tasso effettivo»: così ABF Roma, 16 marzo 2018, n. 6186. Nella circostanza, pertanto, si è ritenuto che l’indicazione in contratto del TAN pari al 4,045% con “capitalizzazione mensile”, esprimendo compiutamente il riferimento inequivocabile al TIR corrispondente al tasso leasing del 4,13%, soddisfi le condizioni di trasparenza prescritte dall’art. 117 t.u.b. 35 Come ricordato all’inizio, nel testo suggerito da Assilea, ordinariamente riportato nei contratti di leasing, per evitare l’indicazione del tasso leasing o il chiaro riferimento alla capitalizzazione mensile, trimestrale, ecc, si utilizza l’involuta espressione «Il tasso di attualizzazione è calcolato come tasso periodale espresso in termini di Tasso Nominale Annuo, sviluppato con la stessa periodicità dei canoni sulla base di un anno standard di 365 gg. composto di periodi (mesi, bimestri, trimestri o semestri) tutti eguali fra di loro» che, anche a rigor di linguaggio specialistico, richiama il Tasso nominale Annuo, non il Tasso Nominale Annuo convertibile. 36 Tale misura del costo non corrisponde necessariamente all’importo della spettanza dovuta, espressa invece – per gli ordinari finanziamenti – dal tasso ex art. 1284 c.c., ricomprendendo in sé l’onere ‘figurativo’ dell’eventuale corresponsione che interviene nella cadenza dei pagamenti infrannuali.

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vocità della determinazione del corrispondente tasso leasing, ma conserva, nell’espressione del TAN in luogo del TIR, un’apprezzabile opacità che - soprattutto per contratti in serie, rivolti ad operatori retail, dotati di modesta emancipazione finanziaria – è suscettibile di raggirare la volontà dell’utilizzatore, soprattutto se i termini della relatio non vengono chiaramente esplicitati. Al riguardo non è trascurabile la circostanza che la complessità del TAN, impiegata nella speciosa espressione periodale suggerita da Assilea, risulta priva di scopo funzionale, riconducibile esclusivamente ad un espediente atto ad esprimere un tasso inferiore, volto a mascherare l’effettivo costo del finanziamento in leasing: risulta del tutto assimilabile alla formulazione del tasso posto, ad esempio, pari all’espressione del logaritmo in base 2 del TAN. L’impiego del TAN suggerito da Assilea è privo di ogni funzione pratica e/o di correntezza, aspetti ai quali sembrano, invece, far riferimento le pronunce richiamate dalla Cassazione in esame nell’esprimere la natura ‘funzionale alla concreta determinazione del saggio di interesse’. Per altro, l’indicazione del TAN, diverso dal tasso leasing, priva l’utilizzatore dell’omogeneità di confronto con i diversi prodotti offerti dal mercato, propria del TAEG che, nelle operazioni della specie, è sostituita dal tasso leasing. Risulta palese il beneficio concorrenziale che deriva all’intermediario dall’indicazione di un tasso inferiore a quello prescritto dalla Banca d’Italia e, come detto, privo di omogeneità con i tassi di prodotti alternativi37. Troppo spesso gli intermediari adottano comportamenti informati ad una spinta opacità, perseguita frequentemente con involuzioni matematiche di dubbia utilità, che consentono di prevaricare finanche elementari principi di trasparenza e correttezza, confidando nella generale acquiescenza della clientela a subire le condizioni poste nei contratti per adesione: rimostranze, contestazioni e sanzioni non pervengono, nell’immediato, a modificare il rapporto costi/benefici che presiede le scelte dell’intermediario38. Infatti, tali comportamenti, frequentemente,

Nella circostanza, in assenza di un tempestivo controllo e di adeguate sanzioni, l’impiego del TAN, in luogo del tasso leasing, si è venuto rapidamente diffondendo a buona parte del mercato del leasing, determinando ineluttabilmente un effetto di emarginazione degli intermediari ligi alle prescrizioni della Banca d’Italia. 38 Osserva Inzitari: «Le ragioni della contestazione verso la clausola anatocistica risiedono nell’insoddisfazione per l’attribuzione di un onere anche rilevante, piuttosto che attraverso una chiara ed univoca determinazione dell’entità del costo per il cliente, attraverso una via indiretta, e, cioè, mediante una modalità di conteggio contabile total37

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Commenti

apportano consistenti benefici ai bilanci degli intermediari, trovando evidenza solo a distanza di tempo, con riflessi che si sviluppano tardivamente in ricorrenti vertenze seriali che impegnano, oltre ogni ragionevole e fisiologica misura, la Magistratura, con le conseguenti ricadute in termini di costi della giustizia e di oneri sociali ed economici sulla platea dell’utenza del credito. A partire dagli anni ’80, prima la dottrina e poi la giurisprudenza hanno rilevato che prassi, usi e consuetudini adottate dagli intermediari limitavano la possibilità, per il contraente debole, di avere una agevole cognizione delle condizioni contrattuali. Successivamente, il legislatore è intervenuto con l’art. 117 t.u.b., per eliminare o quanto meno temperare ogni tipologia di asimmetria informativa che potesse pregiudicare l’efficienza del mercato. Con il dettato normativo sembra volersi escludere dal contratto ogni forma di relatio, non strettamente necessaria, posta al di fuori dell’atto formale, che possa pregiudicare l’immediata, consapevole acquisizione degli obblighi assunti. Oltre alla determinabilità dell’oggetto, con l’art. 117 t.u.b. si persegue la pregnante esigenza di conoscibilità e consapevolezza nel momento stesso in cui viene assunto l’impegno39. Per operazioni rivolte ad operatori retail, ma non solo, le carenze di trasparenza riscontrate nelle operazioni di leasing risultano riferibili all’equivoco impiego del regime composto infrannuale, in difetto di un esplicito assenso contrattuale. Il TAN del 10% del regime composto trimestrale è equivalente al TAN del 10,38% del regime composto annuale. Se il contratto riporta semplicemente il TAN del 10% e l’applicazione del 2,50% trimestrale, l’operatore retail, nell’evidente e semplice rapporto di propor-

mente interno alla banca. Si tratta di un conteggio di difficile, se non impossibile, lettura da parte del cliente. Riguarda in realtà una manifestazione del potere della banca di imporre, assieme alle sue regole, anche la sua unilaterale determinazione dei costi e del prezzo del servizio offerto» (Inzitari, Interessi, Torino, 2017). 39 Rileva Verdi: «(…) se si considera che alla base del divieto del rinvio agli usi di piazza per la determinazione degli interessi (v. art. 117, comma 6, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385) vi è l’interesse a tutelare la consapevolezza del cliente circa l’effettivo contenuto del contratto che sta per sottoscrivere e se si ritiene questo interesse, nell’attuale sistema, di fondamentale importanza (quindi di portata generale), non vi dovrebbero essere ostacoli teorici per ritenere che l’art. 117, comma 6, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (t.u.b.) contenga in sé un divieto generale per qualsiasi forma di relatio. E ciò proprio perché detto meccanismo, consentendo solo una valutazione ex post e non ex ante del contenuto contrattuale, si pone in contrasto insanabile con l’esigenza di certezza/consapevolezza che la forma è chiamata a svolgere in un sistema ispirato al principio di trasparenza» (Verdi, Funzione della forma prescritta dall’art. 1284, 3° comma, c.c. e principio di trasparenza, in Giur. it., 2007, p. 2621).

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zionalità, rimane ignaro della diversa equivalenza espressa dalla matematica finanziaria per il regime composto e viene, di riflesso, a subire, senza avvedersene, la penalizzazione della capitalizzazione trimestrale; rimane un’indebita forzatura concettuale voler intendere, con il pagamento trimestrale degli interessi, anche la capitalizzazione trimestrale. Questo non è il solo aspetto che viene sottaciuto all’utilizzatore: come mostrato, frequentemente, senza una chiara indicazione in contratto del criterio di imputazione degli interessi, nel piano dei pagamenti questi ultimi vengono invertiti rispetto alla formula di attualizzazione corrispondente al TIR richiamato dalla Banca d’Italia, con riflessi giuridici di indubbio rilievo nel rapporto economico sottostante. Ritornando alle osservazioni della sentenza qui commentata, le considerazioni sopra esposte fanno ritenere che, nelle circostanze nelle quali ricorrono, congiuntamente o disgiuntamente, i due aspetti sopra richiamati, l’indeterminatezza che ne consegue è direttamente riconducibile all’omissione di «ogni altra condizione» prevista all’art. 117, comma 4. Le criticità di trasparenza menzionate, nei criteri di determinazione del canone di leasing, vengono ad incidere direttamente sull’equilibrio economico del contratto e, nelle modalità di imputazione alle distinte scadenze, adottate dagli intermediari, raggirano palesemente la volontà dell’utilizzatore. Le stesse criticità di trasparenza appaiono ancor più marcate negli ordinari finanziamenti con rimborso graduale, nei quali i dettami degli artt. 1283 e 1284 c.c. pongono più stringenti presidi al rapporto fra l’impiego del regime composto e l’equilibrio economico del contratto40.

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40 Negli ammortamenti a rata costante (alla francese) appaiono ricorrere con maggiore evidenza le circostanze richiamate dalla Cassazione in esame: i) «un tasso solo nominale che non tiene conto del tipo di rateizzazione»; ii) «un difetto della trasformazione ed equiparazione in equivalenza finanziaria» del tasso concretamente impiegato nell’operazione, che risulterebbe essere il regime composto non indicato in contratto e, quindi, «una rilevata differenza tra il tasso convenuto e quello applicato», in quanto a quest’ultimo non corrisponde il monte interessi del regime semplice, espresso in ragione proporzionale dall’art. 1284 c.c.; iii) un’opacità di trasparenza del costo, declinabile in senso economico, in quanto «non lascia intuire il maggior costo del contratto»; ed infine: iv) «il tasso indicato in contratto porta ad un ammontare del costo variabile in funzione dei patti che regolano le modalità di pagamento e il prezzo dell’operazione risulta sostanzialmente inespresso e indeterminato, oltre che non corrispondente a quello su cui si è formata la volontà dell’utilizzatore».

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Commenti

Abstract Nella sentenza della Cassazione 13 maggio 2021, n. 12889 si affronta il tema del costo delle operazioni di leasing, individuato dalle disposizioni della Banca d’Italia nel TIR (Tasso Interno di Rendimento) che, per una cadenza infrannuale dei canoni, differisce dal TAN (Tasso Annuo Nominale) ordinariamente riportato nei contratti di leasing. Nella circostanza la Suprema Corte esamina la discrasia fra i due tassi, ai fini dell’applicazione della sanzione prevista al co. 7 dell’art. 117 t.u.b. Considerata la significativa differenza fra il tasso convenzionale ex art. 1284 c.c. e il tasso leasing, la sola indicazione del TAN nelle operazioni di leasing con canoni periodici infrannuali, celando il regime di capitalizzazione infrannuale, è suscettibile di raggirare la volontà dell’utilizzatore, soprattutto se i termini della relatio con il tasso leasing non vengono chiaramente esplicitati.

*** The decision of the Corte di Cassazione 13 of May 2021, n. 12889 faces the subject of leasing contract’s cost, about which Bank of Italy establishes the contract specification of the IRR (Internal Rate of Return), that, in the event of interim lease fees, differs from Nominal Annual Interest Rate, which is usually indicated on the contracts. The Court of Cassation looks at the differences between the two rates, in order to establish if the penalty under art. 117, co. 7, t.u.b. applies to the circumstance. Given the relevant difference between the conventional rate ex art. 1284 c.c. and the leasing rate, if a contract includes only Nominal Annual Interest Rate, concealing the effect of interim lease fees, it is likely to deceive the user’s will, especially if the terms of the relationship with the leasing rate are not clearly specified.

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PARTE SECONDA Legislazione, documenti e informazioni



LEGISLAZIONE

Revocatoria concorsuale delle rimesse in conto corrente bancario L’art. 67, comma 3, l. fall. include fra le diverse ipotesi di esenzione dalla revocatoria quella delle «rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca» (lett. b); connessa a questa disposizione è quella dell’art. 70, comma 3, per la quale «Qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario o comunque rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d’insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso». Queste previsioni, con le quali il legislatore della riforma del 2005-2007 aveva inteso risolvere l’annoso e travagliatissimo problema della revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario, sono state riprodotte, con minime differenze formali, rispettivamente nell’art. 166, co. 3, lett. b) e nell’art. 171, co. 3, del Codice della crisi e dell’insolvenza, emanato con il d.lgs. n. 14 del 2019. Infine, il testo dell’art. 166, co. 3, lett. b) è stato ritoccato dal c.d. “decreto correttivo” (d.lgs. n. 147 del 2020), che ha eliminato da quella disposizione il termine «consistente». Qui pubblichiamo il nuovo testo dell’art. 166, co. 3, lett. b) ed il brano della Relazione illustrativa del decreto correttivo, in cui vengono illustrate le ragioni (in sé condivisibilissime) della modifica. *** Le disposizioni di cui si è detto hanno fin dall’inizio prospettato molti nodi problematici. Alcuni di quei nodi hanno trovato, nel tempo, soluzioni convincenti. Così ha trovato soluzione il problema di carattere generale dell’applicabilità o meno dell’esenzione in questione alla revocatoria ordinaria. Nell’ambito dell’art. 166, co. 3, sono ormai specificamente indicate le ipotesi di esenzione destinate ad operare anche con riguardo all’azione revocatoria ordinaria (le ipotesi di cui alle lett. d) ed e)): nella lett. b), nulla è detto, quindi è sicuro che questa ipotesi non possa operare con riguardo alla revocatoria ordinaria.

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Legislazione

Così, ha trovato soluzione il problema se dovesse operare, anche nella nuova disciplina, la tradizionale distinzione fra rimesse aventi carattere ripristinatorio, in quanto affluite su un conto corrente assistito da apertura di credito e semplicemente passivo, e quindi non revocabili, e rimesse aventi carattere solutorio, in quanto affluite su un conto non assistito da apertura di credito e scoperto, e quindi revocabili. La giurisprudenza, infatti, si è ormai definitivamente orientata in senso negativo: in tal senso v. da ultimo Cass., 15 maggio 2018, n. 11782 (in Unijuris.it); Cass., 9 gennaio 2019, n. 277 (in Foro it., 2019, I, 2444; Giur. it., 2019, 582, con nota di Spiotta; Il fallimento, 2019, 781, con nota di Falcone; Riv. dott. comm., 2019, 69, con nota di Vigna Taglianti; Diritto & Giustizia, 2019, con nota di Tarantino), la quale ha sottolineato come la riforma abbia spostato il fulcro della disciplina della revocatoria delle rimesse «dal dato formale dell’essere il versamento affluito o meno su di un conto affidato (e dall’essere il versamento stesso eseguito o meno in presenza di uno sconfinamento del correntista) a quello, sostanziale, da verificare in concreto, del prodursi, o del non prodursi, di una neutralizzazione degli effetti della rimessa in ragione di successive operazioni da conteggiarsi a debito dello stesso cliente […]»; e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Arezzo, 10 gennaio 2018 (in banca dati Pluris); Trib. Arezzo, 4 aprile 2018 (in Riv. dott. comm., 2018, 511, con nota di Arlenghi); Trib. Viterbo, 2 aprile 2019 (in banca dati Pluris); Trib. Treviso, 17 aprile 2019 (in banca dati Pluris); Trib. Perugia, 3 settembre 2019 (in Ilcaso.it; Unijuris.it); Trib. Piacenza, 15 ottobre 2019 (in banca dati Pluris); Trib. Brescia, 9 marzo 2020 (in banca dati De Jure); Trib. Bologna, 6 giugno 2020 (in banca dati Pluris); Trib. Cuneo, 6 novembre 2020 (in Ilcaso.it; Unijuris.it). Così, infine, ha trovato soluzione il problema della revocabilità delle rimesse effettuate dal terzo. Si è consolidato, infatti, l’orientamento per il quale è in principio da escludere la revocabilità del pagamento del terzo, e in particolare del fideiussore (salvo che risulti che il solvens abbia utilizzato direttamente o indirettamente denaro del fallito o abbia esercitato il regresso prima della dichiarazione di fallimento), anche quando il pagamento sia stato effettuato con accreditamento sul conto del debitore principale, con conseguente diminuzione del saldo passivo di quel conto. In tal senso v. Cass., 9 gennaio 2019, n. 277, cit. e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Milano, 18 aprile 2019 (in banca dati De Jure), la quale ha precisato che incombe sul curatore l’onere di provare che il pagamento sia stato effettuato con somme provenienti dal fallito. *** Sono rimasti, però, del tutto irrisolti i due fondamentali nodi problematici che la disciplina in questione prospetta: - quello del significato da attribuire, un tempo all’espressione «riduzione consistente e durevole dell’esposizione debitoria» ed oggi all’espressione «riduzione durevole dell’esposizione debitoria»; - quello del rapporto fra la previsione dell’art. 166, co. 3, lett. b) e la previsione dell’art. 171.

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Soraya Barati

Quanto al primo nodo. Certamente, ha semplificato i problemi l’eliminazione del requisito della “consistenza”, assolutamente inafferrabile e del quale non si riusciva nemmeno a comprendere esattamente la ragione. Resta, però, che anche il requisito della “durevolezza” è, in sé considerato, di tutt’altro che facile determinazione. E ne è palmare conferma l’autentico “disorientamento” in cui mostrano di venirsi a trovare i giudici quando debbono pronunciarsi al riguardo. Disorientamento di cui appare espressione la linea – che sembra acquisire sempre maggiori consensi – secondo cui la verifica della sussistenza, un tempo dei due requisiti, oggi del solo requisito della durevolezza, andrebbe condotta [Trib. Brescia, 11 maggio 2019 (in Unijuris.it) e Trib. Brescia, 9 marzo 2020, cit.], non già “in maniera atomistica”, con riguardo alle singole rimesse, bensì avendo considerazione dell’andamento complessivo dell’intero rapporto, prendendo quindi in esame una pluralità di fattori e, in particolare, l’ammontare dell’esposizione massima nel periodo di riferimento, l’entità del “rientro” complessivo e del saldo residuo, la natura, la frequenza e la consistenza delle eventuali ulteriori movimentazioni e così via. V. anche Trib. Cuneo, 6 novembre 2020, cit., il quale ha precisato che i due requisiti debbono essere considerati in modo “unitario”, l’uno come rafforzativo dell’altro, di talché anche una riduzione progressiva dell’esposizione debitoria con versamenti di importo modesto, ma che persista per un periodo di tempo sufficiente, possa indurre a ritenere sussistenti i requisiti predetti; Trib. Perugia, 3 settembre 2019, cit. che, nel valutare la sussistenza del requisito della “durevolezza”, ha ritenuto doversi fare riferimento ad un criterio relativo, che tenga in considerazione l’andamento del conto corrente per individuare quelle rimesse che non siano riconducibili ad un funzionamento fisiologico di un rapporto attivo, caratterizzato da continue movimentazioni, ma siano di fatto funzionali a soddisfare il credito della banca nell’ambito di un c.d. “rientro”; nonché, Trib. Piacenza, 15 ottobre 2019, cit. che ha richiamato il criterio applicato, sul punto, da parte di Trib. Bergamo, 28 aprile 2014, il quale ha affermato che il significato dell’aggettivo “durevole” deve essere individuato nel concetto di stabilità nel tempo dell’effetto solutorio, sicché «soltanto il versamento (con effetto riduttivo consistente) che non venga compensato da successivi prelevamenti (non necessariamente di importo corrispondente, ma anche superiore o inferiore ma non tale da ridurre il ripianamento al di sotto dell’individuata soglia di “consistenza”)» ha l’effetto di determinare la “durevole” riduzione dell’esposizione debitoria; e che nel determinare il periodo «successivo» rilevante ai detti fini, deve essere fatto ricorso, necessariamente, ad un criterio relativo e non assoluto, dipendente dalla valutazione della frequenza delle movimentazioni del conto, dovendosi ritenere, pertanto, che «qualche giorno di stabilità» sarà sufficiente solo in presenza di un conto con rimesse e prelevamenti infragiornalieri, e non nell’ipotesi in cui il conto sia caratterizzato da movimentazioni occasionali. Quanto al secondo nodo. È chiaro – e sostanzialmente pacifico – che le due disposizioni sono espressione di logiche divergenti: l’art. 166 ha riguardo, palesemente, alle singole rimesse; l’art. 171, altrettanto palesemente, all’effetto complessivo prodotto dalle medesimo: ed è in questo l’essenza del problema. L’unica ricostruzione possibile del rapporto fra le due disposizioni parrebbe

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Legislazione

essere quella che attribuisce all’art. 171 (anteriormente art. 70) la funzione di delimitare l’ambito di operatività dell’art. 166 (anteriormente art. 67) comma 3, lett. b), sul piano degli effetti, scindendo dunque il piano della pronuncia di revoca (che riguarderebbe tutte le rimesse che abbiano determinato una riduzione durevole dell’esposizione debitoria) e quello dell’obbligazione restitutoria (da circoscrivere entro il limite della differenza). Ed in effetti tale soluzione è stata accolta, di recente, da Cass., 15 maggio 2018, n. 11782, cit. e da Cass., 9 gennaio 2019, n. 277, cit., la quale ultima ha affermato che l’accertamento in ordine alla consistenza e alla durevolezza non può ritenersi surrogato dalla semplice quantificazione del differenziale di cui all’art. 70, comma 3, giacché quest’ultima disposizione indica solo il limite massimo dell’importo che il convenuto in revocatoria può essere tenuto a restituire; e, nella giurisprudenza di merito, da Trib. Arezzo, 4 aprile 2018, cit.; Trib. Perugia, 3 settembre 2019, cit.; Trib. Piacenza, 15 ottobre 2019, cit.; Trib. Bologna, 6 giugno 2020, cit. Il fatto è però che, come viene rilevato in dottrina (A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese5, Bologna, 2021, pp. 220 s.) si tratta di una ricostruzione difficilmente accettabile. Essa infatti, innanzi tutto, introduce una scissione fra pronunzia di inefficacia e obbligazione restitutoria che non ha precedenti nel nostro sistema e che non sembra con esso compatibile; in secondo luogo, comporta una forzatura del tenore letterale dell’art. 171, il quale pone sì un limite alla obbligazione restitutoria, ma un limite che è al tempo stesso massimo e minimo, nel senso che l’obbligazione restitutoria, per quella norma, ha ad oggetto non già al massimo l’importo della differenza, bensì proprio quell’importo; in terzo luogo, rischia di determinare difficoltà insormontabili nell’ipotesi (che è poi l’ipotesi nella quale, secondo quella ricostruzione, l’art. 171 entrerebbe in gioco) in cui la somma delle rimesse revocabili ai sensi dell’art. 166 lett. b) superi il limite della differenza: non si saprebbe infatti come l’importo restituito (ragguagliato a quel limite) dovrebbe essere imputato alle singole rimesse. *** In conclusione. Il nostro legislatore ha avuto occasione di intervenire, sul tema della revocatoria delle rimesse, tre volte: nell’ambito della riforma del 20052007; nell’ambito della riforma sfociata nel Codice della crisi; nell’ambito del correttivo al medesimo Codice. In tutte e tre le occasioni non è riuscito a produrre una disciplina chiara e coerente. [Soraya Barati] I Decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, come modificato dal d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147, recante disposizioni integrative e correttive a norma dell’articolo 1, comma 1, della legge 8 marzo 2019, n. 20, al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14. Art. 166.

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d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14

Art. 166 (Omissis) 3. Non sono soggetti all’azione revocatoria: a) omissis b) le rimesse effettuate su un conto corrente bancario che non hanno ridotto in maniera durevole l’esposizione del debitore nei confronti della banca; II Relazione illustrativa del d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147, recante disposizioni integrative e correttive a norma dell’articolo 1, comma 1, della legge 8 marzo 2019, n. 20, al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14. Art. 20. Art. 20 Modifiche alla Parte Prima, Titolo V, Capo I, Sezione IV, del decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 La disposizione interviene: - sull’articolo 166 che disciplina la revocatoria degli atti a titolo oneroso, pagamenti e garanzie posti in essere nell’anno o nei sei mesi antecedenti il deposito della domanda cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale. La modifica concerne, in primo luogo, la causa di esonero da revocatoria prevista dal comma 3, lettera b), per le rimesse effettuate su conto corrente bancario. La norma attuale, mutuata dalla legge fallimentare, esclude la soggezione a revocatoria delle rimesse che non hanno ridotto in modo consistente e durevole l’esposizione debitoria. La previsione ha dato luogo a numerose incertezze interpretative, in particolar modo con riferimento al requisito della “consistenza”, che esprime un valore relazionale, da accertare caso per caso e che lascia all’interprete un inevitabile margine di discrezionalità. Una parte della giurisprudenza di merito, ad esempio, ha fatto ricorso ad un parametro espresso in termini percentuali, da alcuni rapportato al saldo debitore nel periodo sospetto; secondo un altro orientamento verrebbe invece in considerazione il c.d. “rientro” ex art. 70 della legge fallimentare (ora, articolo 171, comma 3, del Codice), cioè la differenza tra la massima esposizione debitoria raggiunta dal debitore nel periodo c.d. sospetto e quella riscontrata al momento di apertura del concorso; altre pronunce hanno valorizzato l’importo medio delle rimesse dato dalla somma delle stesse divise per il loro numero rapportate all’importo medio del saldo debitore, computato all’inizio e a fine del periodo di riferimento. L’eliminazione del requisito della consistenza ai fini della revocabilità delle rimesse è dunque funzionale a eliminare tali difformità interpretative, in ossequio all’art. 2, comma 1, lettera m), della legge n. 155 del 2017, senza in alcun modo pregiudicare l’effettivo ambito di operatività dell’esenzione, giacché l’esigenza di sottrarre alla revocatoria operazioni che non abbiano realmente depauperato il patrimonio del debitore né leso effettivamente la par condicio

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creditorum è comunque soddisfatta, oltre che dal requisito della durevolezza, dal limite stabilito dall’art. 171, comma 3. (Omissis)

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DOCUMENTI E INFORMAZIONI

Novità regolatorie in tema di esposizioni creditizie: la disciplina del default, la proroga della GACS e le nuove cartolarizzazioni Sommario: 1. Premessa: l’incidenza regolatoria del primo semestre 2021. – 2. “Default” ed esposizioni creditizie: criteri identificatori. – 2.1 La disciplina regolatoria: l’efficacia dal 1 gennaio 2021. – 2.2 Profili di criticità della regolamentazione sulle esposizioni bancarie. – 2.3 Gli effetti sul piano dell’intermediazione bancaria. – 3. La GACS tra “aiuti di Stato” e nuova proroga UE. – 3.1 L’approvazione da parte della Commissione UE della quarta proroga (giugno 2021). – 3.2 I macro-profili quantitativi. - 3.3 – I fattori mitiganti l’impatto. – 3.4 L’esperienza maturata. – 3.5 Le novità operative apportate dalla proroga al giugno 2022. – 4. Cartolarizzazioni e regolamentazione. – 4.1 I nuovi Regolamenti UE (marzo 2021) e l’impatto sulle cartolarizzazioni deteriorate. – 4.2 Verso obiettivi di stabilità.

1. Premessa: l’incidenza regolatoria del primo semestre 2021. Il primo semestre 2021 ha visto il succedersi di eventi di significativo impatto regolatorio in materia di esposizioni creditizie. Si tratta di eventi che si collocano su piani diversi tanto in termini di “fonti” normative (tutte di origine eurocomunitaria, ma differenziate per i profili procedurali), quanto della (diversa) attinenza allo shock economico provocato dalla pandemia. Il quadro che emerge non appare contraddistinto in via di principio da assoluta omogeneità: al contrario, regolamentazioni ora definitivamente applicate, ma elaborate in tempi diversi rischiano di produrre effetti tra loro contraddittori. È peraltro sostenibile - sul piano dell’analisi critica che qui ci si propone di svolgere - che la stessa regolamentazione contiene al proprio interno elementi che si pongono, nella attuale contingenza, come mitiganti della sua iniziale assolutezza. Di seguito si considererà pertanto il “framework” regolatorio costituito:

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Documenti e informazioni

a) dall’obbligo per tutte le banche di adottare dal 1 gennaio 2021 il complesso regolamentare che definisce lo stato di default per le esposizioni bancarie (§ 2); b) dalla nuova proroga (al 30 giugno 2022) della disciplina dello schema della Garanzia sulle Cartolarizzazioni delle Sofferenze - GACS (§ 3); c) dall’adozione dei Regolamenti UE 2021/557 e 2021/558 del 31 marzo 2021 che hanno modificato la normazione del Capital Requirements Regulation in tema di cartolarizzazioni. La disamina dei provvedimenti di regolamentazione sopra richiamati, considerati nel loro insieme (oltre che nella rapida successione temporale con cui sono intervenuti) può offrire elementi interpretativi che – se non valgono a ricondurli a sistematicità – suggeriscono però linee di regolamentazione volte a un possibile equilibrio: ovvero un bilanciamento tendenziale tra esigenze contingenti (ma di prevedibile medio periodo) dovute alla crisi pandemica ed esigenze perduranti (di medio lungo periodo) di stabilità del sistema bancario.

2. “Default” ed esposizioni creditizie: criteri identificatori. 2.1. La disciplina regolatoria: l’efficacia dal 1° gennaio 2021. A partire dal 1 gennaio 2021 trova applicazione generalizzata per tutte le banche la nuova configurazione, definita a livello europeo, della regolamentazione prudenziale della classificazione delle esposizioni creditizie. Si tratta di un’efficacia successiva rispetto alle date di adozione del framework regolatorio relativo alla identificazione delle esposizioni in stato di default prudenziale da parte delle banche. L’assetto normativo si è formato infatti progressivamente, a partire dal Regolamento sui requisiti di capitale, il Capital Requirements Regulation (CRR) del 2013, successivamente integrato dalle Linee guida dell’EBA del 20161 e da un Regolamento delegato della Commissione europea pubblicato nel 20182. In particolare, è quest’ultimo che definisce la soglia di rilevanza delle

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Linee Guida EBA sull’applicazione della definizione di default (EBA/GL/2016/07). Regolamento Delegato (UE) n. 171/2018 della Commissione europea del 19 ottobre 2017. 2

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obbligazioni creditizie in arretrato, mentre le Linee guida dell’EBA avevano chiarito le modalità applicative concernenti aspetti specifici, quali – tra gli altri – i criteri di conteggio dei giorni di arretrato3. Nell’insieme, si tratta di un complesso regolatorio che rende più stringenti i criteri per la classificazione a default dei debitori rispetto al passato. Il termine ultimo per l’adozione da parte delle singole banche della normativa sopra detta è risultato, infine, singolarmente coincidente con gli effetti economici dovuti alla crisi pandemica. 2.2. Profili di criticità della regolamentazione sulle esposizioni bancarie. Al fine di ricostruire la genesi e la struttura della nuova regolamentazione, possiamo cominciare col dire che le disposizioni sul default di un debitore muovevano – secondo l’ispirazione originaria – dal presupposto, nel (lontano) 2013, di affidare alla Commissione Europea la definizione dei criteri di misurazione della soglia di rilevanza delle esposizioni in arretrato (in linea – in tal senso - con le norme tecniche emanate sul punto dall’EBA in tema di applicazione della definizione di default). L’attuazione della delega da parte della Commissione si è poi avuta con il citato Regolamento delegato (UE) n. 171/2018 che ha stabilito, in sintesi (in epoca anche qui pre-crisi), che un’esposizione creditizia scaduta è da considerarsi rilevante quando l’ammontare dell’arretrato supera entrambe le seguenti soglie: i) 100 euro per le esposizioni al dettaglio e 500 euro per le esposizioni diverse da quelle al dettaglio (soglia assoluta); ii) l’1% dell’esposizione complessiva verso una controparte (soglia relativa). Superate entrambe le soglie, prende avvio il conteggio dei 90 giorni consecutivi di scaduto, oltre i quali il debitore è classificato in stato di

3 Più in dettaglio, l’approccio europeo si compone di due misure: il cd Addendum (Addendum to the ECB Guidance to banks on non-performing loans: supervisory expectations for prudential provisioning of non-performing exposures, pubblicato a marzo 2018) e il cd “prudential backstop” (Regolamento (UE) n. 630/2019 in materia di requisiti di copertura minima a fini prudenziali delle esposizioni deteriorate). Si tratta di misure che, ai soli fini prudenziali (e non anche quindi ai fini delle valutazioni di bilancio), stabiliscono percentuali minime di svalutazione delle esposizioni deteriorate, secondo un criterio crescente in funzione degli anni trascorsi dalla classificazione delle esposizioni come deteriorate. Al termine del periodo previsto (differenziato a seconda della presenza o meno di garanzie), le esposizioni deteriorate devono risultare interamente svalutate prudenzialmente (ovvero risultare, completamente coperte dal capitale regolamentare) oppure contabilmente.

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default. Il Regolamento stabilisce, inoltre, i criteri in base ai quali effettuare questi calcoli; tra gli stessi, è previsto che non è più possibile compensare gli importi scaduti con le linee di credito aperte e non utilizzate (c.d. margini disponibili). A tali specificazioni ha fatto seguito l’emanazione della Comunicazione della Banca d’Italia del 26 giugno 2019, la quale dà atto delle modifiche introdotte alle definizioni di esposizioni creditizie deteriorate. Più precisamente, con la modifica della Circolare 285 pubblicata il 26 giugno 2019, la Banca d’Italia ha recepito le Linee Guida dell’EBA sull’applicazione della definizione di credito deteriorato ai sensi dell’art. 178 del CRR e attuato il Regolamento relativo alla soglia di rilevanza delle esposizioni creditizie in arretrato. Le principali novità introdotte dalle regole ora entrate in vigore (dopo un periodo di acclimatamento delle banche alla disciplina in questione) implicano criteri identificatori delle esposizioni creditizie decisamente più rigorosi del passato: si pensi alla componente relativa della soglia di rilevanza (la quota del prestito scaduto o sconfinante in rapporto all’esposizione totale), che viene fissata all’1% a fronte del precedente 5%; all’introduzione – come detto – del divieto di compensare le esposizioni scadute e/o sconfinanti con i margini disponibili sulle altre linee di credito accordate al medesimo debitore (in precedenza possibile); e ancora all’obbligo di classificare come NPL le esposizioni oggetto di una misura di concessione quando ciò comporta una riduzione del valore attuale dei flussi attesi dalla banca superiore all’1% (in precedenza questa soglia non era definita). 2.3. Gli effetti sul piano dell’intermediazione bancaria. Gli effetti sui processi di intermediazione potenzialmente derivanti da una disciplina che misura in mesi la sua effettiva vigenza possono leggersi su due livelli: - un piano micro, rappresentato dal rapporto tra la banca e il cliente e da cui scaturiscono effetti e criticità che richiederanno un’attenta gestione da parte delle banche; - un piano macro, interpretabile in chiave di impatto sul sistema di intermediazione finanziaria nel suo complesso. Da questa dicotomia possono rinvenirsi due prospettive di analisi, tra loro distinte. La prima (micro) rinvia ad una definizione di default che, in quanto interna al rapporto tra il singolo e le banche, è volta a indurre queste ultime ad affinare le basi informative per il monitoraggio e la gestione dei

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crediti deteriorati; la seconda (macro) è invece volta alla considerazione di soluzioni di sistema idonee a realizzare forme di smobilizzo degli stessi. È a quest’ultima prospettiva che si collegano le ulteriori innovazioni registrate nel corso del periodo immediatamente successivo all’efficacia della regolazione sul default. Ed è ad essa che va fatto richiamo nell’ottica del tendenziale equilibrio sopra richiamato.

3. La GACS tra “aiuti di Stato” e nuova proroga UE. 3.1. L’approvazione da parte della Commissione UE della quarta proroga (giugno 2021). La seconda delle prospettive sopra richiamate (l’ottica “macro”) è certamente quella di maggior interesse sul piano della (auspicabile) sistematicità della regolamentazione. In questo contesto, assume particolare rilievo l’approvazione da parte della Commissione europea della quarta proroga dello schema GACS, ai sensi delle norme UE in materia di aiuti di Stato. La Commissione, confermando che la misura in parola non costituisce aiuto di Stato ai sensi delle norme dell’UE in materia, ha concesso l’autorizzazione all’utilizzo dello schema GACS fino al 14 giugno 20224. Si tratta, come è noto, di uno schema che vede la garanzia statale attivata a supporto delle operazioni di cartolarizzazione di crediti deteriorati, introdotto dal d.l. n. 18 del 20165. Gli obiettivi originari erano di carattere contingente presupponendo la necessità di una azione emer-

4 European Commission, 14.06.2021 C (2021) 4149 final. State Aid SA.62880 (2021/N) - Italy Fourth prolongation of the Italian guarantee scheme for the securitisation of nonperforming loans. 5 Lo schema GACS è disciplinato dal decreto legge 14 febbraio 2016, n. 18 (convertito in legge con modificazioni dalla l. 8 aprile 2016, n. 49); il successivo decreto ministeriale del MEF del 3 agosto 2016 ha definito le disposizioni di attuazione. A seguire, i decreti ministeriali adottati il 21 novembre 2017, il 10 ottobre 2018 e il 14 ottobre 2019 hanno apportato ulteriori limitate modifiche. Il d.l. 18/2016 è stato ulteriormente modificato dal d.l 25 marzo 2019, n. 22, convertito con modificazioni dalla l. 20 maggio 2019, n. 41.

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genziale6 a fronte (all’epoca) della crisi creditizia, azione emergenziale successivamente proseguita data la persistente straordinarietà della crisi7. In particolare, il meccanismo di rilascio della garanzia pubblica prevede che questa possa essere richiesta nell’ambito di operazioni di cartolarizzazione i cui assets sottostanti siano crediti classificati come sofferenze, oggetto di cessione esclusivamente da parte di banche o intermediari finanziari (ex art. 106 del t.u.b.) aventi sede legale in Italia. Come è anche noto, ai fini della concessione della GACS, l’operazione di cartolarizzazione deve essere strutturata secondo precise caratteristiche che ne distinguono l’impostazione rispetto all’impianto tradizionale delle cartolarizzazioni, ormai ampiamente sperimentate, nell’ambito delle quali è lasciata agli operatori la possibilità di definire gli elementi strutturali delle operazioni in base al caso concreto8. Lo schema GACS vede rigidamente vincolati all’impostazione istituzionale diversi profili, tra cui il prezzo di cessione dei crediti, la struttura finanziaria dei titoli, il tranching, il livello di rating, l’ordine di priorità dei pagamenti degli interessi, del rimborso del capitale e degli altri costi dell’operazione. Ne segue che la garanzia pubblica nell’ambito dello schema GACS è onerosa: il corrispettivo annuo è determinato a condizioni di mercato, al fine di escludere l’aiuto di Stato. E infatti, la disciplina di impostazione della GACS si propone, da un lato, di sostenere il mercato secondario dei crediti deteriorati e, dall’altro, di prevedere un intervento pubblico in linea con le logiche di mercato, stabilendo un corrispettivo della garanzia calcolato in funzione del rischio e della anzianità della tranche senior.

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Sul punto già il mio, Ricapitalizzazioni e garanzie nelle crisi bancarie. Profili istituzionali e gestionali del caso italiano, 2017. Cfr. anche Giusti, NPLs: dal gambling degli investitori al fair play della GACS, in Rivista di diritto bancario, ottobre-dicembre 2016. 7 Ancor prima della normativa di legge del 2019, i decreti MEF del 21 novembre 2017 e del 10 ottobre 2018 avevano dato luogo a prolungamenti dello schema GACS previsto dalla l. 49/2016. 8 Per una analisi del mercato primario delle cessioni e delle cartolarizzazioni di Npl, nonché dei soggetti che vi operano e dei rispettivi ruoli, v. F. Tutino e M. Tutino, Mercato secondario degli Npl, intermediari, servicer e banche: verso quali equilibri di sistema?, in Banc., n. 4/2020, pp. 24-38.

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3.2. I macro-profili quantitativi. La prospettiva di analisi appena richiamata, muovendosi sul piano del macrosistema, richiede - per un puntuale inquadramento - alcuni dati essenziali. L’incidenza dei crediti deteriorati è infatti ancora oggi tra i principali rischi che le banche italiane si trovano ad affrontare, sia pure beneficiando di una posizione più solida rispetto al passato9. Come è noto, fino al 2015, si è assistito ad un accumulo di sofferenze che è andato ben oltre i limiti fisiologici di una attività che si connota per l’assunzione di rischi, la cui prevenzione è al centro della «sana e prudente gestione», criterio cui è subordinato il corretto svolgimento della stessa. Tuttavia, il dato registrato in quella sede risentiva del succedersi di due profonde recessioni, nonché di carenze nelle modalità di gestione dei crediti deteriorati da parte degli intermediari e dell’illiquidità del mercato secondario. I dati ad oggi disponibili segnalano, ad aprile 202110, sofferenze nette (al netto delle svalutazioni e accantonamenti già effettuati) per 19,8 miliardi di euro, in riduzione rispetto ai 26,1 miliardi del corrispondente periodo dell’anno precedente. La riduzione è significativa rispetto al livello massimo delle sofferenze nette raggiunto a novembre 2015 (88,8 miliardi). Il rapporto sofferenze nette su impieghi totali è pari all’1,15% ad aprile 2021, confrontandosi con un valore di 1,50% dell’anno precedente e con il 4,89% del novembre 2015. Il flusso di nuovi crediti deteriorati in rapporto ai prestiti in bonis (rimasto piuttosto stabile allo 0,9% fino a settembre del 2020, collocandosi su valori storicamente molto bassi) è cresciuto nel quarto trimestre 2020 all’1,1%, dato che ancora una volta si confronta con percentuali attorno al 6% raggiunte nel 2009 e nel 2013. In termini complessivi, la tendenza verso la riduzione dei crediti deteriorati nei bilanci bancari, secondo le previsioni della Banca d’Italia11, è tuttavia destinata ad interrompersi per gli effetti della crisi pandemica in corso, sia pure ipotizzando, al mo-

9 Sul processo di progressiva riduzione dei crediti non performing avvenuto negli ultimi anni, v. tra gli altri: Beccalli, I crediti deteriorati del settore bancario, in Banc., n. 11/2019, pp. 12-23. 10 ABI, Monthly Outlook. Economia e Mercati Finanziari-Creditizi, giugno 2021. 11 Cfr.: Intervento del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, 27° Congresso ASSIOM FOREX, 6 febbraio 2021.

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mento, un tasso di deterioramento inferiore rispetto ai livelli raggiunti durante la crisi del debito sovrano12. 3.3. I fattori mitiganti l’impatto. Le innovazioni regolamentari qui in esame (tanto per il profilo del default, quanto per la gestione delle sofferenze) non sono da considerarsi - naturalmente - una novità inattesa per le banche i cui processi di adeguamento operativo hanno preso avvio già da tempo. Nella prospettiva ora tratteggiata assume comunque un rilievo specifico il tema - macro - dello smobilizzo dei non performing e, in tal senso, riveste centralità la valutazione della strumentazione delle garanzie, inquadrate nella loro funzione economica sostanziale di mitigazione del rischio. E infatti, l’articolato sistema delle garanzie si compone di molteplici tipologie di strumenti (privati e pubblici) che svolgono in condizioni “normali” la medesima funzione di mitigare il rischio. Nell’attuale quadro economico generale, la presenza di garanzie pubbliche sui prestiti ha contribuito ad evitare la trasmissione dello shock al credito e ai tassi di interesse13. Tuttavia, laddove la mitigazione attenga a situazioni di rischio già compromesse, la concessione di garanzie è legata a condizioni di straordinarietà che possono comportare modalità emergenziali di mitigazione (o trasferimento) del rischio stesso, incidendo anche sulla natura dei soggetti garanti. Il tema è centrale in relazione alle diverse soluzioni, attuate o proposte a fronte delle problematiche connesse con la gestione dei crediti non performing. Si tratta di soluzioni (talora esclusivamente) “market based” o (più spesso) di “State support” che implicano, in larga misura, il ricorso a sistemi di garanzia.

12 Per un’analisi delle implicazioni di sistema legate ad un potenziale aumento degli NPL a causa della pandemia, v. da ultimo: Kasinger, Johannes et al., Non-performing loans - new risks and policies? NPL resolution after COVID-19: Main differences to previous crises, SAFE White Paper, No. 84, Leibniz Institute for Financial Research SAFE, Frankfurt a. M. 2021. 13 I crediti assistiti da garanzia del Fondo centrale sono oltre 110 miliardi, a cui vanno aggiunti oltre 18 miliardi coperti da garanzie della SACE, cfr. I crediti deteriorati del sistema bancario italiano: situazione attuale, prospettive e provvedimenti rilevanti, Memoria della Banca d’Italia, Camera dei Deputati, Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario, Roma, 15 gennaio 2021.

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3.4. L’esperienza maturata. Data l’ampiezza dell’esperienza maturata negli ultimi quattro anni, nell’ambito del quadro regolatorio ora detto, appare opportuno dare qui conto di alcuni dati, sia pure essenziali. A partire dal 1° agosto 2016, fino al 31 dicembre 2020, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha concesso la GACS sui titoli di classe senior di 27 operazioni di cartolarizzazione. I dati disponibili presentano una realtà molto più ampia di quanto inizialmente previsto: il valore nominale lordo dei crediti ceduti dalle banche oggetto delle citate operazioni è pari a € 75 miliardi. A fronte di questo importo – dopo le rettifiche di valore e gli sconti di cessione operati sui portafogli ceduti – sono stati emessi titoli per 17,7 miliardi, ravvivando notevolmente il mercato secondario. Le tranche senior assistite dalla GACS, in fase di emissione, avevano un valore complessivo di 14,4 miliardi. Le tranche mezzanine e junior – ovvero le classi che forniscono il cosiddetto credit enhancement ai titoli di classe senior – all’emissione ammontavano complessivamente a 3,3 miliardi. I rimborsi effettuati sulle tranche senior a partire dalla data della loro emissione ne hanno diminuito la consistenza da complessivi euro 14,4 miliardi a 10,5 miliardi, riducendo corrispondentemente l’esposizione dello Stato14. In questo contesto, assume particolare rilevanza il fatto che complessivamente, nel 2019, il 90% circa del valore delle sofferenze cedute per mezzo di cartolarizzazioni era assistito da GACS. Come si è detto, il meccanismo della GACS è stato rivisto nel 2019 con l’obiettivo di ridurre il rischio a carico dello Stato e di dare maggiori incentivi ai servicers nell’attività di recupero. L’efficacia di questi interventi correttivi sembra essere confermata dalla migliore performance delle operazioni realizzate dopo questa data. 3.5. Le novità operative apportate dalla proroga al giugno 2022. Il rilascio dell’ultima proroga autorizzata dalla Commissione il 14 giugno 2021 ha consentito alcune innovazioni di regolamentazione: in particolare con riguardo ai criteri di calcolo del corrispettivo della garanzia statale. Ciò per quanto riguarda a) l’aggiornamento della composizione dei panieri di riferimento sulla base dei quali viene determinato il corrispettivo e b) il tasso di sconto utilizzato.

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Cfr.: Banca

di Italia,

Rapporto sulla stabilità finanziaria, n. 1, aprile 2021.

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Quanto al primo aspetto, le modifiche hanno riguardato la composizione dei panieri di riferimento al fine di riflettere i cambiamenti nel rating delle società avvenuti, nell’ambito degli stessi, nel periodo successivo alla terza decisione di proroga15; il corrispettivo, infatti, viene determinato in base a tre panieri CDS (credit default swap) riferiti a singoli emittenti italiani. Quanto al secondo aspetto, la garanzia statale è comunque concessa a fronte di un corrispettivo annuo determinato a condizioni di mercato; come ulteriore elemento di novazione, il tasso di sconto utilizzato per determinare il corrispettivo della garanzia, ancorato al rendimento dei titoli di Stato italiani a 7 anni, è stato ridotto all’1,5% dal precedente 2,75%16. Più precisamente, il meccanismo di calcolo della commissione prevede maggiorazioni percentuali più consistenti con il passare del tempo, proporzionalmente al periodo di copertura della garanzia e in base all’ammontare residuo del titolo senior: si tratta di una modalità incentivante in termini di accelerazione del processo di recupero del credito. Sul piano della conformità dello schema alla disciplina europea sugli aiuti di Stato, l’aggiornamento del paniere di riferimento e del tasso di sconto garantiscono il costante allineamento della remunerazione alle condizioni di mercato. Le GACS si sono dunque rivelate uno strumento efficace per agevolare la gestione delle sofferenze; la Banca d’Italia ne ha recentemente sollecita-

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La terza proroga dello schema GACS è stata notificata alla Commissione il 30 aprile 2019, con una durata di 24 mesi; la Commissione ha quindi confermato, con la decisione del 27 maggio 2019, SA.53518 (2019/N) che la proroga del Piano non costituisce aiuto di Stato. 16 Con particolare riferimento al tasso di sconto utilizzato ai fini del calcolo della commissione di garanzia, come si è detto, questo si basa sul contesto di mercato osservabile negli ultimi anni, ossia sul rendimento del titolo di Stato italiano a 7 anni a partire dal 2019. La Commissione UE, nell’ambito delle proprie valutazioni sulla misura, espresse nel provvedimento di proroga, osserva che il rendimento medio nel 2019 e nel 2020 è stato rispettivamente dell’1,48% e dello 0,8%, collocandosi invece attorno allo 0,5%, nel primo semestre 2021. In particolare, nel periodo da marzo a maggio 2020, in cui il rendimento è stato superiore all’1,5%, si può ipotizzare che la fase iniziale della pandemia, abbia portato ad un significativo aumento della volatilità del mercato. Prima e dopo il periodo in questione, il rendimento è stato inferiore all’1,5%. Da qui l’opportunità di fissare il tasso di sconto all’1,5%, seguendo un approccio conservativo in linea con la decisione originaria; secondo la Commissione, pertanto, un tasso di sconto pari all’1,5% può rappresentare una proxy adeguata per gli operatori di mercato.

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to l’estensione attraverso un intervento legislativo che potrebbe anche costituire l’occasione per introdurre modifiche di regolamentazione in modo da far sì che tutti i soggetti coinvolti nell’operazione (banche cedenti, servicers, investitori e garante) operino con i giusti incentivi al fine di ridurre al minimo il rischio che la garanzia statale debba essere escussa17.

4. Cartolarizzazioni e regolamentazione. 4.1 I nuovi Regolamenti UE (marzo 2021) e l’impatto sulle cartolarizzazioni deteriorate. Il quadro degli ulteriori sviluppi di regolamentazione in materia, intervenuti nel succedersi del primo semestre 2021, si completa con il Regolamento (UE) 2021/557 ed il Regolamento (UE) 2021/558 del 31 marzo 2021 del Parlamento europeo e del Consiglio che hanno modificato, il primo, il quadro generale in materia di cartolarizzazioni18, e il secondo, la normativa Capital Requirements Regulation, ancora in materia di cartolarizzazioni. E infatti, nell’ambito di una più ampia revisione delle norme sul mercato dei capitali, alla luce delle sfide derivanti dalla pandemia, i due regolamenti sopra richiamati, si collocano nel contesto delle cartolarizzazioni di esposizioni deteriorate, caratterizzate da profili di rischio ed elementi strutturali differenti rispetto a quelle che presentano un sottostante di crediti in bonis. Si introduce - in altre parole - un trattamento prudenziale specifico per le cartolarizzazioni deteriorate. La modifica introdotta riduce gli assorbimenti patrimoniali delle operazioni di cartolarizzazione in parola, nell’ottica di agevolare le operazioni di cessione, liberando così risorse che gli intermediari possono destinare al finanziamento dell’economia19.

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In questi termini si è espresso il Governatore della Banca d’Italia nella relazione su: Le norme europee sul calendar provisioning e sulla classificazione della clientela da parte delle banche, in occasione dell’Audizione presso la Commissione Parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario, Roma, 10 febbraio 2021. 18 Regolamento (UE) 2017/2402 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2017, in materia di cartolarizzazioni. 19 Lo studio di La Torre, Vento, Chiappini e Lia, Cessione degli Npls e reazione dei mercati: c’è un vuoto a rendere?, in Banc., n. 3/2019, pp. 30-46 evidenzia come il mercato

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Il nuovo assetto regolatorio inoltre interviene modificando anche la disciplina delle garanzie, prevendendo una linea meno restrittiva, in particolare richiedendo un livello minimo di rating solo per alcune tipologie di garanti. Più precisamente, la novità rispetto al regime precedente è che le garanzie governative saranno sempre ammissibili indipendentemente dal rating; diversamente, per gli altri garanti, come ad esempio le imprese non finanziarie resta in vigore il requisito del rating minimo. Per quanto attiene ai riflessi specifici che tali modifiche presumibilmente rivestiranno sul piano del ricorso alle GACS, la previgente condizione di un rating minimo per le garanzie governative avrebbe reso non sempre ammissibile la GACS ai fini del calcolo dei requisiti patrimoniali. Come è noto, infatti, in base al quadro normativo precedente, le garanzie rilasciate da un governo – indipendentemente dal rating di quest’ultimo – erano sempre valide ai fini del calcolo dei requisiti patrimoniali per il rischio di credito, mentre per le operazioni di cartolarizzazione la normativa richiedeva l’esistenza di un rating minimo in capo al soggetto garante. La modifica in esame favorisce, quindi, l’operatività dei sistemi nazionali di garanzia pubblica, che svolgono un ruolo importante nelle strategie degli operatori attivi nel mercato dei crediti deteriorati20. 4.2. Verso obiettivi di stabilità. Riportando, infine, la problematica discussa ad un’ottica – per quanto possibile – di sistema, ovvero che contemperi gli schemi micro con quelli macro, può dirsi che tra gli strumenti che hanno contribuito nell’ultimo periodo – e possono continuare a contribuire – a dare risposte strategiche alle criticità bancarie vanno di certo annoverati gli assetti regolatori sopra criticamente analizzati. Il tema qui delineato spazia in varie direzioni: dalla individuazione degli impatti sulle varie tipologie di crediti della nuova definizione di default (§ 2) alle modalità di gestione degli stessi (§ 3 e 4).

valuti positivamente il trasferimento degli Npl, con particolare riguardo agli effetti che ne derivano in termini di riduzione dell’assorbimento patrimoniale e di nuove opportunità per l’attività creditizia. 20 Sull’efficacia delle strategie di cartolarizzazione e per una valutazione in chiave di impatto della presenza della garanzia pubblica, v. da ultimo, Bolognesi, Stucchi, Miani, Are NPL-backed securities an investment opportunity?, in The Quarterly Review of Economics and Finance, Volume 77/2020, pp. 327-339.

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Si tratta di temi di intermediazione finanziaria che richiedono soluzioni istituzionali mitiganti il rigore degli elementi definitori in tema di default, e più in generale, evidenziano le ragioni economiche sottostanti alla necessità di un intervento dello Stato nell’ambito della gestione delle sofferenze. Evidenze da ricondursi alla complessità assunta dal tema NPL. In questo senso l’intervento pubblico, nella forma dello schema GACS, si colloca da tempo come risposta alla necessità di fronteggiare problematiche di sistema: le modifiche intervenute (con i tratti di alleggerimento dei requisiti sopra richiamati) costituiscono solo una conferma dell’attualità degli strumenti di garanzia pubblica. Può sottolinearsi anche, sul piano delle prospettive di analisi qui tratteggiate, l’intreccio tra elementi di natura economico-finanziaria e prospettive regolatorie: il raccordo tra esigenze di redditività e stabilità e scelte strategiche derivanti dai modelli di business degli enti creditizi resta un obiettivo non facile da realizzare anche sul piano regolatorio. Ciò detto, la soluzione della problematica che ci occupa continua a costituire un obiettivo essenziale del disegno regolatorio europeo21. Si tratta di una problematica che resterà ancora a lungo al centro delle analisi e delle riflessioni critiche. Quello che rimane un punto fermo è che le modalità di gestione dei crediti deteriorati e la regolamentazione di tecniche che ne incrementino i volumi di cessione (e lo smobilizzo dai bilanci delle banche) identificano al presente un percorso essenziale per gli obiettivi di stabilità micro e macro dei processi di intermediazione; il che è un presupposto essenziale per un ritorno alla crescita economica e finanziaria.

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Abstract La tematica delle esposizioni creditizie ha visto, nel corso del primo semestre 2021, il succedersi di eventi di significativo impatto regolatorio, spaziando in

21 Per una ricostruzione del quadro regolatorio in materia, v. tra gli altri Montanaro, Non Performing Loans and the Eu legal framework, in The Palgrave Handbook of the European Banking Union Law, a cura di Chiti e Santoro, 2019, chap. 8. Più di recente: Segall, Dias, Grigaite e Magnus, The EU’s regulatory and supervisory response to addressing non-performing loans, Economic Governance Support Unit (EGOV), Directorate-General for Internal Policies PE 659.634 - February 2021.

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varie direzioni: dall’introduzione della nuova definizione di default alle modalità di gestione dei crediti deteriorati. E infatti, il nuovo framework regolatorio (costituito dall’obbligo per tutte le banche di adottare dal 1° gennaio 2021 i nuovi criteri definitori di default per le esposizioni creditizie, dalla proroga al 30 giugno 2022 dello schema GACS e dalle modifiche del Capital Requirements Regulation in tema di cartolarizzazioni) dà conto, considerato nell’insieme, di elementi tendenzialmente sistematici volti a un possibile equilibrio: ovvero un bilanciamento tra esigenze contingenti dovute alla crisi pandemica ed esigenze di medio lungo periodo di stabilità del sistema bancario. *** In the first semester 2021, the issue of defaulted exposures experienced a series of significant regulatory events, ranging in various directions: from the new definition of default to the management of non-performing loans. In fact, the new regulatory framework (consisting of the mandatory introduction by all banks, as from 1 January 2021, of the new definition of default, the extension of the GACS scheme to 30 June 2022 and the amendments to the Capital Requirements Regulation with regard to securitisations), when considered as a whole, reflects systematic elements aimed at achieving a possible balance: that is, a balance between contingent needs due to the pandemic crisis and medium-long term needs for banking system stability.

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a. I contributi proposti per la pubblicazione (saggi, note a sentenza, ecc.) debbono essere inviati, in formato elettronico (word), al Direttore responsabile prof. avv. Alessandro Nigro al seguente indirizzo email alessandro.nigro@tiscali.it È indispensabile l’indicazione nella prima pagina (in alto a destra) dell’indirizzo email, per l’invio delle bozze. b. I contributi proposti per la pubblicazione sono preventivamente vagliati dalla Direzione. Quelli che superano tale vaglio vengono trasmessi, in forma anonima, ad uno dei componenti della apposita struttura di revisione, coordinata dal prof. Daniele Vattermoli. Il revisore rimette al coordinatore la sua relazione che, in forma anonima, è trasmessa al Direttore il quale, se la relazione è positiva, autorizza la pubblicazione del contributo.

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto

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corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. … 4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile codice di commercio

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c.c. c.comm.


Norme redazionali

Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall. legge cambiaria l.camb. testo unico t.u. testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) t.u.b. testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58) t.u.f. 2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc.

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Norme redazionali

Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur. Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm.

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Norme redazionali

Rivista della cooperazione Rivista delle società Rivista del diritto commerciale Rivista del notariato Rivista di diritto civile Rivista di diritto internazionale Rivista di diritto privato Rivista di diritto processuale Rivista di diritto pubblico Rivista di diritto societario Rivista giuridica sarda Rivista italiana del leasing Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Vita notarile

Riv. coop. Riv. soc. Riv. dir. comm. Riv. not. Riv. dir. civ. Riv. dir. internaz. Riv. dir. priv. Riv. dir. proc. Riv. dir. pubbl. RDS Riv. giur. sarda Riv. it. leasing Riv. trim. dir. proc. civ. Vita not.

4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

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CODICE ETICO

La rivista Diritto della banca e del mercato finanziario è una rivista scientifica peer-reviewed che si ispira al codice etico delle pubblicazioni elaborato da COPE, Committee on Publication Ethics, Best Practice Guidelines for Journal Editors. (http://publicationethics.org/resources/guidelines)

Doveri dell’Editore

Fornisce alla rivista risorse adeguate nonché la guida di esperti (p. e. per la consulenza grafica, legale ecc.), così da svolgere il proprio ruolo in modo professionale e accrescere la qualità del periodico. L’Editore si preoccupa di perfezionare un contratto che definisca il suo rapporto con il proprietario della rivista e/o con la Direzione. I termini di detto contratto devono essere in linea con il Codice di condotta per editori di riviste scientifiche messo a punto da COPE. Il rapporto tra Direzione, Comitato di Redazione ed Editore deve basarsi saldamente sul principio di indipendenza editoriale.

Doveri del Direttore e del Comitato di Redazione

Il Direttore e il Comitato di Redazione della rivista Diritto della banca e del mercato finanziario sono i soli responsabili della decisione di pubblicare gli articoli sottoposti alla rivista stessa. Nelle loro decisioni, essi sono tenuti a rispettare le linee di indirizzo della rivista. Gli articoli scelti verranno sottoposti alla valutazione di uno o più revisori e la loro accettazione è subordinata all’esecuzione di eventuali modifiche richieste e al parere conclusivo del Comitato di Redazione. La Direzione e il Comitato di Redazione sono tenuti a valutare i manoscritti per il loro contenuto scientifico, senza distinzione di razza, sesso, orientamento sessuale, credo religioso, origine etnica, cittadinanza, di orientamento scientifico, accademico o politico degli autori. Se il Comitato di Redazione rileva o riceve segnalazioni in merito a errori o imprecisioni, conflitto di interessi o plagio in un articolo pubblicato, ne darà tempestiva comunicazione all’Autore e all’Editore e intraprenderà le azioni necessarie per chiarire la questione e, in caso di necessità, ritirerà l’articolo o pubblicherà una ritrattazione.

Doveri degli Autori

Gli Autori, nel proporre un articolo alla rivista, devono attenersi alle Norme per gli Autori consultabili sul sito internet della rivista. Gli Autori sono tenuti a dichiarare di avere redatto un lavoro originale in ogni sua parte e di avere debitamente citato tutti i testi utilizzati. Qualora siano utilizzati il lavoro e/o le parole di altri Autori, queste devono essere opportunamente parafrasate o letteralmente citate.

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Codice etico

Va correttamente attribuita la paternità dell’opera e vanno indicati come coautori tutti coloro che abbiano dato un contributo significativo all’ideazione, all’organizzazione, alla realizzazione e alla rielaborazione della ricerca che è alla base dell’articolo. Tutti gli Autori sono tenuti a dichiarare esplicitamente che non sussistono conflitti di interessi che potrebbero aver condizionato i risultati conseguiti o le interpretazioni proposte. Gli Autori devono inoltre indicare gli eventuali enti finanziatori della ricerca e/o del progetto dal quale scaturisce l’articolo. I manoscritti in fase di valutazione non devono essere sottoposti ad altre riviste ai fini di pubblicazione. Quando un Autore individua in un suo articolo un errore o un’inesattezza rilevante, è tenuto a informare tempestivamente la Redazione e a fornirle tutte le informazioni necessarie per indicare le doverose correzioni del caso. I protocolli di studio dei lavori originali devono essere preventivamente autorizzati dai comitati etici di riferimento degli Autori e le ricerche devono essere condotte secondo norme etiche con specifico richiamo alla dichiarazione di Helsinki.

Doveri dei Revisori

Attraverso la procedura del peer-review i Revisori assistono il Comitato di Redazione nell’assumere decisioni sugli articoli proposti, e inoltre possono suggerire all’Autore correzioni e accorgimenti tesi a migliorare il proprio contributo. Qualora non si sentano adeguati al compito proposto o sappiano di non potere procedere alla lettura dei lavori nei tempi richiesti sono tenuti a comunicarlo tempestivamente al Comitato di Redazione. Ogni testo assegnato in lettura deve essere considerato riservato; pertanto tali testi non devono essere discussi con altre persone senza l’esplicita autorizzazione della Direzione. La revisione deve essere effettuata in modo oggettivo. I Revisori sono tenuti a motivare adeguatamente i giudizi espressi. I Revisori s’impegnano a segnalare al Comitato di Redazione eventuali somiglianze o sovrapposizioni del testo ricevuto con altre opere a loro note. Tutte le informazioni riservate o le indicazioni ottenute durante il processo di peer-review devono essere considerate confidenziali e non possono essere usate per altre finalità. I Revisori sono tenuti a non accettare in lettura articoli per i quali sussiste un conflitto di interessi dovuto a precedenti rapporti di collaborazione o di concorrenza con l’autore e/o con la sua istituzione di appartenenza.

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Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria

L’abbonamento alla rivista decorre dal 1° gennaio di ogni anno e dà diritto a tutti i numeri relativi all’annata, compresi quelli già pubblicati. L’abbonamento si intende rinnovato in assenza di disdetta da comunicarsi almeno 60 giorni prima della data di scadenza a mezzo lettera raccomandata a.r. da inviare a Pacini Editore S.r.l. Cedola di sottoscrizione - Abbonamento Italia 2021 (4 fascicoli): € 135,00 - Abbonamento Estero 2021 (4 fascicoli): € 190,00 - Il prezzo dei singoli fascicoli è di € 40,00 Modalità di Pagamento ☐ assegno bancario (non trasferibile) intestato a PACINI EDITORE Srl - PISA ☐ versamento su conto corrente postale n. 10370567 intestato a PACINI EDITORE Srl - PISA (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) ☐ bonifico bancario sul c.c. n. IBAN IT 67 G 01030 14010 000000561171 Banca Monte dei Paschi di Siena (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) ☐ a ricevimento fattura (secondo modalità indicate in fattura) (opzione valida solo per librerie, commissionarie librarie, case editrici e istituti/enti) ☐ carta di credito ☐ MasterCard ☐ VISA Carta n. ...................... Data di scadenza ....................... Nome, Cognome o Ragione Sociale: ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... P. Iva (se in possesso) e C. Fiscale (obbligatorio per tutti): ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Indirizzo ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Firma.................................................................

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