Judicium 3/2020

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ISSN 2532-3083

Judicium n. 3/2021

il processo civile in Italia e in Europa

Rivista trimestrale

settembre 2021

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Diretta da: B. Sassani • F. Auletta • A. Panzarola • S. Barona Vilar • P. Biavati • A. Cabral • G. Califano D. Dalfino • M. De Cristofaro • G. Della Pietra • F. Ghirga • A. Gidi • M. Giorgetti • A. Giussani G. Impagnatiello • G. Miccolis • M. Ortells Ramos • F. Santangeli • R. Tiscini

In evidenza: La riforma del processo del lavoro del 1973 nel dibattito della dottrina dell’epoca, tra entusiasmi e critiche, “ideologie” e sistema Enzo Vullo

Il risarcimento del danno liquidato in via equitativa per occupazione illegittima puo’ essere inferiore all’indennita’ di occupazione legittima? Note sparse in tema di “scelta” del giudice per il conseguimento dei danni per occupazione illegittima Giovanni Leone

Le nuove Norme Integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale: fra recepimento della costante giurisprudenza in materia di interventi di terzo in giudizio, alcune importanti innovazioni e… non pochi rischi applicativi Luca Maria Tonelli

La formazione dello stato passivo davanti al giudice delegato tra esperienza e codice della crisi Massimo Fabiani

Giurisdizione in tema di sanzioni disciplinari sportive Piero Sandulli

L’onere della prova dell’acquisto della qualità di erede da parte dei chiamati all’eredità e la “divergente percezione dell’art. 2697 c.c.” della Suprema Corte Marta Magliulo



Indice

Saggi Enzo Vullo, La riforma del processo del lavoro del 1973 nel dibattito della dottrina dell’epoca, tra entusiasmi e critiche, “ideologie” e sistema..............................................................................................» 293 Giovanni Leone, Il risarcimento del danno liquidato in via equitativa per occupazione illegittima puo’ essere inferiore all’indennita’ di occupazione legittima? Note sparse in tema di “scelta” del giudice per il conseguimento dei danni per occupazione illegittima.....................................................» 311 Luca Maria Tonelli, Le nuove Norme Integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale: fra recepimento della costante giurisprudenza in materia di interventi di terzo in giudizio, alcune importanti innovazioni e… non pochi rischi applicativi........................................................................» 327 Massimo Fabiani, La formazione dello stato passivo davanti al giudice delegato tra esperienza e codice della crisi........................................................................................................................................» 349 Giurisprudenza commentata Cass. 23 febbraio 2021, n. 4850 con nota di Piero Sandulli, Giurisdizione in tema di sanzioni disciplinari sportive...................................................................................................................................» 383 Cass. 6 luglio 2020, n. 13851 con nota di Marta Magliulo, L’onere della prova dell’acquisto della qualità di erede da parte dei chiamati all’eredità e la “divergente percezione dell’art. 2697 c.c.” della Suprema Corte..................................................................................................................................» 397


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Saggi



Enzo Vullo

La riforma del processo del lavoro del 1973 nel dibattito della dottrina dell’epoca, tra entusiasmi e critiche, “ideologie” e sistema Sommario :

1. Premessa: le origini di un dibattito. - 2. Il contesto storico e la situazione della giustizia civile all’inizio degli anni Settanta. – 3. Rito speciale e giudice monocratico. – 4. Le preclusioni e il nuovo modello decisorio. – 5. Conclusioni.

L’introduzione del nuovo processo del lavoro, con la l. n. 533 del 1973, suscitò presso la nostra dottrina un ampio e stimolante dibattito, che si rivelò peraltro assai divisivo e dai toni a volte aspramente polemici, inevitabile portato, del resto, di un contesto storico e culturale caratterizzato da notevoli ruvidezze e marcate contrapposizioni ideologiche. Un confronto il cui interesse è accresciuto dalla constatazione che alcune delle soluzioni tecniche più innovative per le quali aveva optato il legislatore della novella e intorno alle quali maggiormente si accese la discussione, anni dopo sarebbero state “esportate” dal processo del lavoro a quello ordinario di cognizione. The introduction of the new labor judicial process, with the l. n. 533 of 1973, aroused a wide and stimulating debate in our doctrine, which turned out to be very divisive and sometimes harshly polemical, inevitably resulting from a historical and cultural context characterized by notable roughness and marked ideological contrasts. A comparison whose interest is increased by the observation that some of the most innovative technical solutions for which the legislator of the 1973 had opted and around which the discussion was most heated, years later would have been “exported” from the labor judicial process to the ordinary one of cognition.

1. Premessa: le origini di un dibattito. Non vi è dubbio che l’introduzione, nel 1973, del “nuovo” rito del lavoro abbia rappresentato uno dei momenti più significativi nella storia della legislazione processuale italiana

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del secolo scorso. Non sorprende, dunque, l’ampiezza e la vivacità del dibattito che accompagnò la genesi e la promulgazione della riforma: una discussione ricca di contributi che coinvolse, su posizioni spesso contrapposte, i migliori esponenti della dottrina di quel periodo, ma anche vari magistrati e avvocati1. Orbene, la ricognizione di tale dibattito – probabilmente fra i più divisivi nella storia della nostra disciplina – evidenzia in prima battuta che, mentre gli studiosi dell’epoca (sia favorevoli sia contrari alla riforma) si mostrarono consci dell’importanza e della profonda innovatività di questa normativa2, non altrettanto diffusa fu l’intuizione di due rilevanti fenomeni che avrebbero caratterizzato, negli anni a venire, le sorti del nuovo “modello” processuale: mi riferisco, da un lato, alla progressiva e vigorosa “espansione” in settori del contenzioso diversi da quelli che ne costituivano l’originario ambito applicativo3 (espansione culminata e resa più organica con il d.lgs. n. 150/20114), dall’altro alla circostanza

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Com’è noto, l’iter parlamentare che portò all’approvazione della l. 11 agosto 1973 n. 533 fu accidentato e non breve. In particolare ricordo che, se già nel corso degli anni Sessanta erano stati presentati numerosi disegni di legge aventi per oggetto riforme parziali o totali del processo del lavoro (Pera, La riforma del processo del lavoro nello scorcio della quarta legislatura, in Foro it., V, 1968, 81 – 88; Federico, Foglia, La disciplina del nuovo processo del lavoro, Milano, 1973, 31-34), i prodromi ultimi e diretti della l. n. 533/1973 vanno individuati in un testo preliminare elaborato nei primi mesi del 1971 in seno a un “comitato ristretto” delle Commissioni Giustizia e Lavoro della Camera dei Deputati (Cappelletti, Una procedura nuova per una nuova “giustizia del lavoro”, in Riv. giur. lav., 1971, I, 283 ss., spec. 285 s. a nota 7 [anche in Giustizia e società, Milano, 1977, 305 ss.]), progetto pubblicato in Foro it., 1971, V, 75-88, con Osservazioni introduttive sul progetto di riforma del processo del lavoro di Andrioli. Tale testo fu approvato con “vari ritocchi” il 23 luglio 1971 in sede deliberante dalle Commissioni riunite Giustizie e Lavoro della Camera (Cappelletti, op. loc. ult. citt.; Federico, Foglia, op. cit., 33), non riuscendo, tuttavia, ad ottenere la definitiva approvazione del Senato (cui era stato trasmesso il 22 settembre 1971: vedi Aa.Vv., La riforma del processo in materia e previdenza e assistenza, [Atti del convegno indetto dall’I.S.L.E. e tenuto a Roma il 16 dicembre 1971 e il 19 gennaio 1972], Milano, 1973, 150 ss.) a causa delle fine anticipata della V legislatura. Il progetto, allora, fu ripresentato immutato alla Camera il 5 luglio 1972 (disegno di legge n. 379 d’iniziativa dei deputati Lospinoso Severini e altri) e, sempre con identico contenuto, il 16 ottobre 1972 (disegno di legge n. 952 d’iniziativa governativa), per essere di nuovo approvato dalle Commissioni riunite in sede legislativa il 26 ottobre 1972; modificato poi in via definitiva dal Senato in sede legislativa il 15 maggio 1973 (Senato che lo esaminò come disegno di legge n. 542 d’iniziativa dei deputati Lospinoso Severini e altri), diventò finalmente legge nell’agosto di quell’anno (per alcuni di questi dati, vedi Relazione illustrativa dei Senatori Martinazzoli e Torelli al disegno di legge approvato dalle Commissioni riunite Giustizia e Lavoro del Senato [comunicata alla Presidenza l’11 maggio 1973], relazione che si può leggere nel sito web del Senato della Repubblica, nonché, fra gli altri, in Denti, Simoneschi, Il nuovo processo del lavoro, Milano, 1974, 343 ss.). 2 Così, per esempio, Fabbrini, Diritto vigente, precedenti e progetti di riforma intorno al processo individuale del lavoro, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, Bologna 12-13 giugno 1971, Milano, 1971, 1 ss., spec. 2 affermava che il progetto da cui sarebbe scaturita la legge n. 533 del 1973 rappresentava un “profondissimo mutamento” rispetto al diritto allora vigente; in termini analoghi si esprimeva pure Allorio, Relazione, in La riforma del processo in materia e previdenza e assistenza, cit., 15 ss., spec. 17 [tale relazione, a quanto si legge in calce alla prima pagina, era già stata pubblicata in Rass. Parlamentare, 1972, n. 5-6, 291 ss.], mentre Cappelletti, Una procedura nuova per una nuova “giustizia del lavoro”, cit., 297 evocava, parlando di tale normativa, le “grandi rivoluzioni del diritto e del processo” e ancora – ma gli esempi del rilievo attribuito alla disciplina de qua potrebbero essere davvero numerosi (e, ripeto, trasversali ai sostenitori e ai detrattori della novella) – Andrioli, Intorno al progetto di procedimento del lavoro, in Riv. giur. lav., 1971, I, 305 ss., spec. 306, osservava come la riforma presupponesse una volontà “sanamente eversiva”, mentre Proto Pisani, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, in Foro it., 1973, V, 207 ss., spec. 228 (anche in Studi di diritto processuale del lavoro, Milano, 1976, 65 ss.) osservava come “l’importanza delle riforma” fosse tale da “travalicare” “sotto molti aspetti la specifica materia del lavoro”. 3 Su questo tema è ancora fondamentale, anche se un po’ risalente, il saggio di Tommaseo, L’espansione del rito del lavoro nelle leggi processuali speciali, in Riv. dir. civ., 1987, II, 69 ss. In tempi più recenti, per un’accurata analisi critica delle vicende normative che hanno interessato il rito del lavoro dopo la novella del 1973, vedi spec. Dalfino, in Aa.Vv., La nuova giustizia del lavoro, a cura di D. Dalfino, Bari, 2011, 3 ss. 4 Rammento che in un primo momento tale “espansione” ha interessato alcuni tipi di cause locatizie (art. 46 l. n. 393/1978, poi abrogato dalla l. n. 353/1990: vedi subito infra) e tutte le controversie in materia agraria, anche se non menzionate all’art. 409 c.p.c., n. 2, c.p.c. (art. 47 l. n. 203/1982, poi abrogato dal d.lgs. n. 150/2011: vedi infra); in seguito, l’estensione ha riguardato “[l’]intera

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che, quasi due decenni dopo, con la l. n. 353/1990, alcuni tratti particolarmente qualificanti del rito del lavoro sarebbero stati “esportati” nel processo ordinario di cognizione5 6 (penso soprattutto al sistema delle preclusioni, ma pure alla “monocraticità” dell’organo giudicante quale regola nei processi davanti al tribunale oppure all’ordinanza per il pagamento di somme non contestate o, ancora, per un certo periodo, all’onere di comparizione personale delle parti in udienza strumentale all’interrogatorio libero e, consentendolo la natura della causa, al tentativo obbligatorio di conciliazione)7.

materia della locazione e del comodato di immobili urbani e dell’affitto di aziende (art. 447-bis c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 51/1998), e, per alcuni anni, finanche [le] cause di risarcimento danni per morte o lesioni conseguenti ad incidenti stradali (art. 3 l. n. 102/2006, opportunamente abrogato dalla l. n. 69/2009)” (Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, 5ª ed., III, Bari, 2019, 17 s.). A definitivo suggello del valore riconosciuto dal legislatore a questo modello processuale, occorre poi ricordare – come accennato nel testo – che il d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 (sulla “riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione”) ha esteso il rito lavoro a un’ampia serie di controversie [precisamente quelle indicate dall’art. 6 all’art. 13 di tale provvedimento: l’opposizione ad ordinanza-ingiunzione (art. 6), l’opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada (art. 7), l’opposizione a sanzione amministrativa in materia di stupefacenti (art. 8), l’opposizione ai provvedimenti di recupero di aiuti di Stato (art. 9), le controversie in materia di applicazione delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali (art. 10) [articolo sostituito dall’art. 17, comma 1, del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101], le controversie agrarie (art. 11), l’impugnazione dei provvedimenti in materia di registro dei protesti (art. 12), l’opposizione ai provvedimenti in materia di riabilitazione del debitore protestato (art. 13 [e successive modificazioni]); in argomento vedi per tutti Bove, Applicazione del rito del lavoro nel d.lgs. n. 150 del 2011, in Il giusto processo civile, 2011, 997 ss.; Aa.Vv., in Codice di procedura civile commentato – La semplificazione dei riti e le altre riforme processuali 2010 – 2011, diretto da C. Consolo, sub artt. 6-13 d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, Milano, 2012, 77 ss.; Dalfino, Disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito del lavoro, in Aa.Vv., Riordino e semplificazione dei procedimenti civili, a cura di F. Santangeli, Milano 2012, 119 ss.; Saletti, La semplificazione dei riti, in Riv. dir. proc., 2012, 727 ss., nonché i contributi di Trisorio Liuzzi (Il modello rito del lavoro secondo il d.lgs. 150/11), Pagni (Il modello di rito e i poteri istruttori del giudice) e Dalfino («Rito del lavoro-modello» e «rito delle controversie di lavoro» a confronto), in Foro it., 2012, V, 125 ss., 130 ss., 135 ss.]. Tale estensione, peraltro, non ha per oggetto l’intero corpus normativo del processo del lavoro: da un lato, infatti, l’art. 1 del d.lgs. n. 150/2011 prevede che con questa espressione si intenda “il procedimento regolato dalle norme della sezione II del capo I del titolo IV del libro secondo del codice di procedura civile” (ergo dai soli artt. 413-441 c.p.c., con esclusione, quindi degli artt. 409-412-quater c.p.c.), dall’altro l’art. 2 stabilisce varie eccezioni, vuoi escludendo l’applicazione di alcuni articoli fra quelli poc’anzi evocati (“salvo che siano espressamente richiamati”) (si tratta precisamente degli artt. “413, 415, settimo comma, 417, 417-bis, 420-bis, 421, terzo comma, 425, 426, 427, 429, terzo comma, 431, dal primo al quarto comma e sesto comma, 433, 438, secondo comma, e 439 del codice di procedura civile”), vuoi statuendo che l’esportazione del rito del lavoro avvenga con l’adattamento di determinate norme. In quest’ultima prospettiva assume particolare rilievo sistematico la regola contenuta al quarto comma della norma testé citata, per la quale, “salvo che sia diversamente disposto, i poteri istruttori previsti dall’articolo 421, secondo comma, del codice di procedura civile non vengono esercitati al di fuori dei limiti previsti dal codice civile” (l’art. 421, 2° co., c.p.c., prevede appunto che il giudice del lavoro possa disporre “in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti del codice civile [mio il corsivo]”). 5 Al riguardo vedi ancora Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, 5ª ed., III, cit. 18; conf., tra gli altri, De Angelis, in Il processo civile riformato, a cura di M. Taruffo, Bologna, 2010, 449 s. In proposito, va detto che fin dai primi commenti alla legge n. 353/1990 (ossia la più importante delle riforme processualcivilistiche degli anni novanta) era apparso chiaro come alcune tra le più significative modifiche introdotte da tale novella fossero state mutuate dal rito del lavoro (vedi in tal senso, per esempio, Mandrioli, Le modifiche del processo civile, Torino, 1991, 15). Tuttavia, alcuni autorevoli studiosi osservavano che il rito ordinario e quello speciale del lavoro avevano comunque mantenuto una configurazione generale differente, sottolineandosi in particolare come il legislatore della riforma non avesse esteso al primo quella “strutturazione orale e concentrata della fase decisoria e istruttoria” che del processo del lavoro aveva costituito “il merito eminente” (così, Chiarloni, Prime riflessioni sui valori sottesi alla novella del processo civile, in Riv. dir. proc., 1991, 657 ss., spec. 661, alla nota 8, ma riprendendo alcuni rilievi già svolti da Taruffo, La struttura del procedimento di primo grado, in Questione giustizia, 1991, 332 ss.). 6 Solo qualche autore, fra i più favorevoli al progetto di riforma delle controversie individuali di lavoro che sarebbe sfociato nella legge n. 533 del 1973, esprimeva l’auspicio (senza mostrare, peraltro, molta convinzione che ciò sarebbe effettivamente avvenuto) che tale normativa potesse “agire da battistrada anche per una più generale riforma processuale”): Cappelletti, Giustizia: una procedura nuova nelle controversie di lavoro, in Id., Giustizia e società, cit., 289 ss., spec. 292; Id., Una procedura nuova per una nuova “giustizia del lavoro”, cit., 301. 7 L’onere di comparizione personale delle parti in udienza era stato introdotto, nel rito ordinario, con la l. n. 353 del 1990 (mediante la novellazione dell’art. 183 c.p.c.), ma poi abrogato dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, in sede di conversione del d.l. 14 marzo 2005 n. 35 (che aveva nuovamente riscritto lo stesso art. 183 c.p.c.).

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Un’altra considerazione preliminare che, a mio avviso, può contribuire a inquadrare meglio la querelle sulle novità apportate dalla legge n. 533/1973, è che la paternità (almeno quella diretta) di tale normativa non era riconducibile alla dottrina (sostanzialmente estranea alla sua gestazione)8, trattandosi – come sottolineò fra gli altri, in diverse occasioni, Enrico Allorio – di una riforma voluta, regolata e imposta dal mondo “sindacale”9. Tale elemento conferì una certa particolarità alla discussione: se infatti, per esempio, nell’acceso dibattito che fra il 1943 e il 1950 riguardò la proposta di abrogare il codice di rito da poco promulgato10, oppure in quello che quarant’anni dopo si sviluppò intorno alla (fondamentale) riforma introdotta con la l. n. 353 del 1990, la dottrina si trovò nella condizione di difendere (o di censurare) disposizioni che aveva largamente contribuito a redigere11, diversamente nel caso del processo del lavoro gli studiosi della nostra disciplina furono chiamati a valutare un progetto (e poi un corpus normativo) che – pur facendosi “araldo” del

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Quest’opinione era all’epoca largamente diffusa (per riferimenti, vedi infra la prossima nota). Più di vent’anni dopo Proto Pisani, Giuristi e legislatori: il processo civile, in Foro it., 1997, V, 17 ss., spec. 19 sosteneva ancora che la riforma del processo del lavoro del 1973 fosse opera di “sindacalisti, avvocati, magistrati dell’ufficio legislativo del ministero della giustizia”; in proposito, tuttavia, Cipriani, Il contributo dei processualisti alla legislazione italiana (1946-1996), ibidem, 265 ss., spec. 266 ricordava anche come tali magistrati si fossero giovati “dei consigli e dei suggerimenti di Virgilio Andrioli”, studioso che, infatti, aveva difeso e apprezzato il progetto dal quale sarebbe scaturita la novella del 1973 (vedi Andrioli, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, Milano, 1971, 116 ss.). 9 Vedi Allorio, Relazione, cit., 15 ss. spec. 18 [relazione già pubblicata, a quanto consta, in Rass. parl., 1972, n. 5-6, 291 ss.], secondo cui “il progetto [quello da cui scaturirà la l. n. 533/1973] è notoriamente di ispirazione sindacale, nasce dal mondo sindacale”. Concetto che l’illustre studioso ribadì un paio di anni dopo, questa volta con tono decisamente polemico, sottolineando come il nuovo rito del lavoro fosse stato “regolato” e “imposto” dai “sindacalisti”, “prima che ci si mettesse qualsiasi esponente della scienza” (Allorio, Trent’anni di applicazione del Codice di procedura civile, in Aa.Vv., Commentario del codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, Torino, 1973, I, 1, XIII ss., spec. LXXXVIII). In termini, a mio avviso, ragionevolmente meno perentori altri affermavano, invece, che la “pressione unitaria delle grandi forza sindacali” avrebbe “reso possibile e incoraggiato, se non proprio direttamente promosso”, l’incontro “dei gruppi parlamentari che [andavano] dal centro sinistra governativo all’opposizione di sinistra” dal quale sarebbe scaturito, sul piano legislativo, il progetto evocato criticamente da Allorio (Cappelletti, Una procedura nuova per una nuova “giustizia del lavoro”, cit., 286). 10 Per una sintesi di questo vivace confronto che coinvolse, in polemica fra loro, la “scienza” del processo civile, gli avvocati e la magistratura, sia consentito rinviare a Vullo, La Rivista di diritto processuale dal 1946 al 1965: polemiche, orizzonti e persone, in Riv. dir. proc., 2020, 147 ss., spec. 148-154. 11 Quanto al codice di rito del 1940, valga per tutti la definizione di Carnelutti secondo cui esso fu “la prova più bella” del “cammino percorso” dalla “scienza del diritto processuale” italiana) (Carnelutti, Rinascita, in Riv. dir. proc., 1946, 1 ss., spec. 2 s.), definizione ribadita da Calamandrei quando affermava che, sul piano storico, tale corpus normativo “non era l’espressione di un regime, ma di un cinquantennio di studi” (Calamandrei, Lettera a Luigi Preti del 14 febbraio 1955, in Id., Lettere (1915-1956), a cura di G. Agosti e A. Galante Garrone, II, Firenze, 1968, 446 ss., spec. 450).

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“triplice verbo” chiovendiano “dell’oralità, della concentrazione e dell’immediatezza”12 – era stato “imposto” loro dalle forze sociali e nella cui genesi non erano stati coinvolti13 14. Si tratta, ribadisco, di un inedito (e direi non irrilevante) mutamento di prospettiva, atteso che nei decenni precedenti la “scienza” (l’accademia, la dottrina) era stata “motore” (e non “spettatrice”) del passaggio dal codice di rito del 1865 a quello del 1940/4215, assumendo un ruolo centrale nel rinnovamento della disciplina positiva del processo civile.

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Il virgolettato è di Andrioli, Osservazioni introduttive sul progetto di riforma del procedimento del lavoro, in Foro it., 1971, V, 75 ss., spec., 76. Che i postulati chiovendiani dell’oralità, concentrazione e immediatezza fossero stati stella polare per il legislatore della riforma del rito del lavoro, lo si affermava espressamente nella relazione svolta dall’ On. Lospinoso Severini nella seduta del 18 ottobre 1972 dinanzi alle Commissioni riunite Giustizia e Lavoro della Camera dei Deputati e in quella dei Senatori Martinazzoli e Torelli al Senato (disegno di legge 542/A) (che si possono leggere entrambe in Converso, Pini, Raffone, Scalvini, Il nuovo processo del lavoro, Milano, 1974, 279 ss., 285 ss.: i passi nei quali si menzionano i principi poc’anzi evocati sono rispettivamente a p. 281 [ove si evocava l’ulteriore principio della “gratuità”] e a p. 291 [ove si richiamava, invece, anche il canone della “accentuata ufficialità del processo, cui deve corrispondere, per altro verso, una intensa collaborazione delle parti con il giudice”]; in particolare nella seconda delle relazioni ricordate, si affermava altresì che “il nuovo processo del lavoro” sarebbe stato “teso ad uniformarsi al progetto di riforma del procedimento civile elaborato da Giuseppe Chiovenda intorno al 1918” [rammentava Taruffo, La giustizia civile in Italia dal ‘700 a oggi, Bologna, 1980, 195, nel testo e a nota 5, che tale progetto e l’ampia Relazione che lo accompagnava – entrambi “opera integrale di Chiovenda” e resi pubblici nel 1919 – possono leggersi in Chiovenda, Saggi di diritto processuale civile, Roma, 1930, II, 1 ss.]). La coerenza della riforma del processo del lavoro rispetto al progetto Chiovenda fu sostenuta sul piano dottrinale, in particolare, da Andrioli, Intervento, cit., 121 ss. (e da Cappelletti, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 55 ss., spec. 55 s.); diversamente i detrattori di tale novella affermavano che i suoi precedenti fossero da individuare nel r.d. n. 471/1928 e nel r.d. n. 1073/1934, e quindi nella disciplina “corporativa” e “fascista” delle controversie di lavoro (Fabbrini, Diritto vigente, precedenti e progetti di riforma intorno al processo individuale del lavoro, cit., spec. 6 – 13), opinione vivacemente criticata da chi si premurava di sottolineare come la riforma non rappresentasse affatto “il ritorno all’infausto ventennio”, ma avesse invece “le carte in regola con la Costituzione” (Andrioli, Osservazioni introduttive sul progetto di riforma del procedimento del lavoro, cit., 78). 13 Anche Fabbrini, Diritto vigente, precedenti e progetti di riforma intorno al processo individuale di lavoro, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, Bologna 12-13 giugno 1971, Milano, 1971, 1 ss., spec. 1, sottolineava, all’inizio della sua relazione, che la “fase preparatoria” del progetto su cui si fonderà poi la l. n. 533/1973 era stata “avvolta in un silenzio pressoché totale” e, quindi, senza coinvolgere (in particolare) gli studiosi della nostra disciplina (analogamente, Fazzalari, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 131 ss., spec. 132, parlava, in proposito, di un “progetto quasi clandestino”, del quale “si stava già discutendo in Parlamento, senza che la stamperia ne avesse reso il testo disponibile a tutti”, concetto che lo stesso autore ribadiva, con parole ancora più accorate, in Intervento, in Aa.Vv., La riforma del processo in materia di lavoro e di previdenza e assistenza, cit., 40 ss., spec. 43). A tali rilievi, tuttavia, replicava Cappelletti, Intervento, cit., 56, affermando invece che tale progetto sarebbe stato “frutto di un paio di decenni di studi, di scritti, di pubbliche discussioni e convegni”. In realtà, a me pare che ognuno di questi autori avesse (in parte) ragione: non vi è dubbio, infatti, che di riforma del processo del lavoro si fosse iniziato a discutere (anche fra gli studiosi) già dalla prima metà degli anni Cinquanta (vedi, per esempio, N. Jaeger, Per una riforma urgente del processo del lavoro – Osservazioni e proposte, in Riv. giur. lav., 1954, 1 ss., il quale sosteneva [5 s.] che tale riforma avrebbe dovuto garantire a questa tipologia di liti “massima sollecitudine”, “notevoli economie nel costo del processo”, “sensibilità del giudice alle esigenze peculiari dei rapporti controversi a lui sottoposti, la quale gli consenta di trovare la soluzione più adeguata anche degli aspetti di essi, non disciplinati a sufficienza dal diritto positivo” [corsivi dell’autore]); d’altro canto è pur vero che il testo oggetto di dibattito all’incontro bolognese era stato predisposto, a quanto consta, senza diretto coinvolgimento della dottrina e delle università. 14 E tuttavia, una volta che il progetto di riforma da cui scaturirà la l. n. 533/1973 fu noto alla “scienza” processualcivilistica (pare su iniziativa di Fabbrini che era venuto a conoscenza del testo in discussione in Parlamento grazie a “un amico laburista”: Fazzalari, Intervento, cit., 132), l’attenzione che gli fu riservata fu “eccezionale”, “vivace” e “profonda” (tutti i virgolettati fuori parentesi sono di Allorio, Relazione, cit., 15 s.). 15 Ai rilievi già espressi alla nota 13, si può aggiungere che non a caso i principali progetti di riforma del codice di rito nel periodo fra le due guerre mondiali portano il nome di insigni studiosi del processo civile: Chiovenda (1919), Mortara (1923), Carnelutti (1926), Redenti (1933). E se è vero che il codice di rito del 1940 attinse soprattutto al c.d. progetto definitivo Solmi del 1939 (dal nome del ministro guardasigilli che ricoprì l’incarico dal 1935 al 1939), va pur ricordato che nella genesi del codice stesso fu protagonista un comitato ristretto del quale facevano parte – oltre al ministro guardasigilli Dino Grandi e ad alcuni magistrati (in primis Leopoldo Conforti, e poi Dino Mandrioli, Gaetano Azzariti, Antonio Azara e Giuseppe Lampis, cui si aggiungevano “i giovanissimi segretari Andrea Lugo e, dal 1940, Mario Berri”: Cipriani, Il codice di procedura civile tra gerarchi e processualisti, cit., 38) – tre grandi maestri della nostra disciplina: Calamandrei, Carnelutti e Redenti

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In questo scenario – connotato, dunque, da vari livelli di polemica (e così, “a monte”, sull’opportunità stessa dell’introduzione del nuovo rito, poi sui principi generali che lo ispiravano, infine sulle specifiche soluzioni “tecniche” adottate dal legislatore), nonché, come detto, dalla generale consapevolezza della novità di tale modello processuale, sovente accompagnata, peraltro, da un certa cautela (se non da vero e proprio scetticismo) riguardo al suo futuro successo applicativo16 – l’esame del confronto che si sviluppò in dottrina (coinvolgendo, com’accennato, anche i giudici e il mondo forense) evidenzia profili di interesse non solo “storici” (i.e., ricostruttivi di una vicenda esauritasi nel passato), ma pure “processuali”, laddove offre spunti di riflessione ancora utili per comprendere (e valutare) alcune delle scelte di diritto positivo compiute negli ultimi anni.

2. Il contesto storico e la situazione della giustizia civile all’inizio degli anni Settanta.

Un breve cenno, innanzitutto, al contesto storico che faceva da sfondo a questa vicenda dottrinale, ossia il lustro approssimativamente compreso fra il c.d. autunno caldo del 1969 e la crisi petrolifera del 1973/197417, anni caratterizzati da un’intensissima conflittualità nel mondo del lavoro e, in particolare, nelle fabbriche; una conflittualità che rappresentava uno solo degli aspetti (pur tra i più vistosi) delle forti tensioni e dei profondi sommovimenti che viveva in quel periodo il nostro paese (sul piano politico, economico, sociologico e culturale)18. Una stagione segnata, altresì, da un’aspra e diffusa contrapposizione ideologica, fenomeno dal quale non fu immune anche il mondo degli studi giuridici, inte-

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Mi riferisco, per esempio, a Denti, Il nuovo processo del lavoro: significato della riforma, in Riv. dir. proc., 1973, 371 ss. (pubblicato pure in Id., Un progetto per la giustizia civile, Bologna, 1982, 255 ss.), il quale, dopo avere osservato che “la legge [n. 533/1973] ha offerto soltanto alcuni degli strumenti che sono indispensabili affinché si possa instaurare realmente un nuovo processo del lavoro” (p. 371), sosteneva che l’attuazione della riforma avrebbe richiesto adesione convinta e cambiamento di mentalità da parte di giudici e avvocati (p. 383 ss.), nonché “un’attiva presenza del sindacato […] nell’amministrazione della giustizia del lavoro [presenza giustificata, secondo quest’autore, dalla legittimazione “a collaborare alla funzione giurisdizionale attraverso le informazioni e osservazioni che può rendere in giudizio”: cfr. art. 425 c.p.c.]” (p. 384), concludeva affermando che “qualche avvisaglia iniziale [ricordo che lo scritto di Denti è la relazione introduttiva di un convegno tenuto a Pavia nell’autunno del 1973 e, quindi, a pochi mesi dalla promulgazione della novella] indurrebbe alla sfiducia” (p. 388). 17 Su questo periodo, vedi per tutti la sintesi di P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943-1996, Torino, 1998, spec. 358-415. 18 Vent’anni dopo l’introduzione del rito lavoro, un autorevole studioso notava – pur ritenendola una “banale ovvietà” – come le innovazioni apportate nel nostro sistema processuale dalla legge n. 533 del 1973 (e da altri provvedimenti “anteriori”: riferendosi, immagino, alle norme processuali dello Statuto dei lavoratori) fossero, “ad un tempo, la causa e l’effetto di profondi e, sovente aspri contrasti su temi di fondo; sui valori ai quali deve ispirarsi nel suo complesso l’ordinamento, sui fini che esso deve perseguire, sul se e come la tecnica del processo deve adeguarsi all’esigenza di assicurare quei valori e perseguire quei fini” (Vaccarella, Il processo ed i problemi del lavoro, in Aa.Vv., Il processo del lavoro: bilancio e prospettive, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro. Palermo, 4-5 giugno 1993, Milano, 1994, 3 ss., spec. 3). Ebbene, aggiungerei che questi “contrasti” – sui quali tornerò in seguito (sub par. 2) – erano a loro volta conseguenza delle tensioni, ma pure delle “idee” e delle “passioni” (sono parole utilizzate ancora dallo stesso Vaccarella) di una stagione “breve” e tuttavia non effimera, da cui la società italiana uscirà profondamente trasformata e alla quale siamo debitori di epocali conquiste sul piano dei diritti individuali e collettivi.

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ressando anche – in forma, direi, meno spigolosa, ma non per questo meno evidente – i cultori del diritto processuale civile19. Quanto poi allo stato della giustizia civile, esso appariva, già all’epoca, assai sconfortante. In particolare anche mezzo secolo fa, non diversamente da oggi, il male più “grave” e “macroscopico” che affliggeva i processi era la loro “eccessiva lunghezza”20, la quale – come molti denunciavano accoratamente – rendeva la situazione della giustizia italiana “semplicemente indegna di un paese civile”21, ovvero – con pirotecnica varietà di epiteti22 – “inaccettabile”23, “intollerabile”24, “fallimentare”25, “vergognosa”26, “sconcia”27, “disastrosa”28, “gravissima”29, “assurda”30: una diagnosi assai severa31 che coincideva, peraltro, con quella descritta nella nota relazione sullo «Stato della giustizia» presentata dal Consiglio Superiore della Magistratura al Parlamento nell’aprile del 197032.

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In proposito, Denti, Il nuovo processo del lavoro, cit., 371, evocando “gli animati dibattiti che accompagnarono il lungo iter parlamentare della riforma [il riferimento è proprio alla legge n. 533/1973 istituiva del nuovo rito del lavoro], quando i contrasti fra le opposte opinioni si fecero aspri, anche in ambienti ove la neutralità scientifica era sempre stata di rigore”, ricordava come si fosse “ripetutamente” parlato al riguardo “di tendenze «ideologiche», di scelte «politiche», con qualche scandalo da parte dei giuristi più legati alla tradizionale immagine del loro ruolo”. 20 I virgolettati sono di Bianchi d’Espinosa, Il processo di cognizione a trent’anni dal codice. La giurisprudenza, in Aa.Vv., Il processo di cognizione a trent’anni dal codice. Le norme processuali dello statuto dei lavoratori, Atti del IX Convegno nazionale, Sorrento, 30 ottobre-1 novembre 1971, Milano, 1974, 41 ss., spec. 44. 21 In tal senso, Cappelletti, Intervento, in Aa.Vv., Il processo di cognizione a trent’anni dal codice. Le norme processuali dello statuto dei lavoratori, cit., 90 ss., spec. 95. Tale studioso – basandosi sulle sue competenze di celebrato comparatista – osservava che all’epoca la gravità del dissesto in cui versava il processo civile italiano emergeva “a chiare lettere anche da un raffronto” con la situazione non solo di “paesi privilegiati, come la Svezia o l’Austria”, ma pure “con quella di paesi in cui, come in Francia o in Germania, difficoltà e difetti pur sono largamente lamentati e ampie riforme legislative progettate (Germania) od in atto (Francia)”. 22 La descrizione più pittoresca è certamente quella offerta da Virgilio Andrioli, che paragonava il passo della giustizia civile “all’incedere”, con “andatura arrembata e ciabattona”, “degli asini delle solfare” (Andrioli, Intervento, in Aa.Vv., op. cit., 118). 23 Così, Vocino, Intervento, in Aa.Vv., Il processo di cognizione a trent’anni dal codice. Le norme processuali dello statuto dei lavoratori, cit., 143 ss., spec. 144. 24 Vedi Andrioli, Intervento, cit., 118. 25 Si tratta di un’espressione ricorrente: Bianchi d’Espinosa, Il processo di cognizione a trent’anni dal codice. La giurisprudenza, cit., 41; Cappelletti, Intervento, in Aa.Vv., Il processo di cognizione a trent’anni dal codice. Le norme processuali dello statuto dei lavoratori, cit., 95; Vocino, Intervento, cit., 143. 26 Vedi Cappelletti, Intervento, in Aa.Vv., Il processo di cognizione a trent’anni dal codice. Le norme processuali dello statuto dei lavoratori, cit., 95. 27 Ancora Andrioli, Intervento, cit., 118. 28 Nuovamente Cappelletti, Intervento, in Aa.Vv., Il processo di cognizione a trent’anni dal codice, cit., 95. 29 In questo senso, tra i tanti, un autorevole osservatore straniero: Grunsky, Intervento, in Aa.Vv., Il processo di cognizione a trent’anni dal codice, cit., 138 ss., spec. 139, che definiva, appunto, la lunghezza eccessiva del processo civile italiano “un gravissimo bisogno sociale”. 30 L’espressione è di Fabbrini, Diritto vigente, precedenti e progetti di riforma intorno al processo individuale di lavoro, cit., 26. 31 Così come severo era il giudizio espresso da Denti, Il nuovo processo del lavoro, cit., 372 s. sull’indifferenza con cui tale situazione era generalmente percepita; osservava, infatti, l’illustre studioso che i dati sull’esasperante lunghezza dei processi “lasciano altrettanto inerte la pubblica opinione dei fiumi che muoiono, dell’aria che viene inquinata, del cemento che soffoca le rive dei mari e del aghi, le valli e le montagne”. L’insolito parallelo tra la crisi del processo civile e il tema ambientalista (evocato, peraltro anche da Andrioli, Intervento, cit., 118) non deve stupire: quest’ultimo, infatti, stava assumendo proprio agli inizi degli anni Settanta importanza cruciale nel dibattito culturale (e più tardi anche politico) del nostro paese (ricordo, per esempio, che giusto nel 1973 l’organo supremo della giustizia amministrativa, con una pronuncia di grande notorietà e rilevanza, riconobbe all’associazione Italia Nostra la legittimazione ad agire per la impugnazione di un provvedimento lesivo di norme di tutela ambientale [Cons Stato, sez. V, 9 marzo 1973, n. 253, in Foro it., 1974, III, 34 ss., con nota di Zanuttigh, “Italia Nostra” di fronte al Consiglio di Stato e osservazione di A. Romano] e che solo due anni dopo vedrà le stampe, per i tipi di Einaudi, il celebre libro-denuncia di Antonio Cederna, La distruzione della natura in Italia). 32 Tale documento è richiamato, fra gli altri, da Proto Pisani, Il processo di cognizione a trent’anni dal codice. La dottrina, in Aa.Vv., Il processo di cognizione a trent’anni dal codice, cit., 15 ss., spec. 23; su tale relazione, vedi diffusamente Franchi, La giustizia italiana

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Nello specifico, come ricordava allora Andrea Proto Pisani33, i dati resi pubblici nello stesso 1970 indicavano che la durata media complessiva (primo grado, appello e giudizio in Cassazione) di un processo civile di cognizione innanzi al tribunale era di 2748 giorni (dunque, circa sette anni e mezzo); più contenuti, e tuttavia cospicui, erano pure i tempi dei processi davanti alle preture che – ancora per i tre gradi di giudizio – raggiungevano mediamente i 2367 giorni (poco meno di sei anni e mezzo)34 35. Le statistiche giudiziarie dimostravano, inoltre, che la durata di un processo in materia di lavoro “non soltanto non [era] minore, ma [era] anzi, addirittura, superiore a quella, già esasperatamente elevata, dei processi civili ordinari”36. Nell’ottica che qui interessa, occorre notare poi che il dissesto della tutela giurisdizionale appariva ancora più vistoso e intollerabile, tenuto conto che proprio in quegli anni si era avuto il riconoscimento, sul piano della normativa sostanziale, di nuovi e fondamentali diritti a favore dei lavoratori (si pensi, per esempio, alla legge sui licenziamenti del 1966 e, soprattutto, allo Statuto dei lavoratori promulgato nel 1970)37, diritti che, in un periodo (come già ricordato) di elevata conflittualità sociale, erano frequente oggetto di controversie giudiziali, rendendo dunque più sentita e incalzante l’aspirazione a una giustizia rapida ed efficiente che non vanificasse le epocali conquiste ottenute nelle fabbriche e in parlamento.

secondo il consiglio superiore della magistratura, in Riv. dir. proc., 1971, 53 ss. (in realtà, in questo scritto mancano indicazioni circa la data della relazione che ne costituisce oggetto, ma non dubiterei che si tratti di quella dell’anno precedente evocata pure da Proto Pisani). 33 Vedi Proto Pisani, Riforme del processo civile: tecniche e ideologie, in Quale giustizia, nn. 23-24, 750 ss. (anche Id., Studi di diritto processuale del lavoro, cit., 283 ss.). 34 Come accennavo nel testo, le lungaggini processuali sono un male pressoché endemico della giustizia civile italiana ed è sorprendente notare come una situazione, già definita intollerabile nel primo scorcio degli anni Settanta, sia potuta addirittura peggiorare nei decenni successivi. In particolare, se i vari interventi normativi attuati nell’ultimo ventennio hanno effettivamente determinato una netta riduzione delle cause pendenti, che – nell’arco di tempo compreso tra il 2009 e il 2019 – si sono quasi dimezzate, passando da 5.700.000 a 3.293.2960 (dati che ricavo dal sito web del Ministero della Giustizia, i quali evidenziano una curva in costante discesa, tranne il piccolo aumento determinatosi fra il 2010 e il 2011), altrettanto non è avvenuto per la durata media dei processi civili che – ad esempio – dopo essere notevolmente diminuita tra il 2012-2014, ha ricominciato a crescere nel biennio successivo attestandosi nel 2016 a 2949 giorni (8 anni e 29 giorni) (cfr. Bernardini, Gli insufficienti passi avanti di una giustizia civile lumaca, 15 luglio 2019, spec. p. 2, in https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-Nota_Giustizia_Civile.pdf), durata maggiore di quella ritenuta “scandalosa” all’epoca dell’introduzione del nuovo processo del lavoro. Alla luce di questi dati, insomma, elemento che dovrebbe fare riflettere è che – diversamente da quanto sarebbe ragionevole attendersi – la (vigorosa) riduzione del contenzioso (con un numero di magistrati in servizio rimasto pressoché stabile tra il 2014 e il 2018: https://www.giustiziainsieme.it/it/il-magistrato/499-la-composizione-dellamagistratura-togata-oggi) non ha determinato affatto una proporzionale riduzione dei tempi medi di durata delle cause. 35 A conferma di quanto appena detto nella precedente nota, nel 2001 la durata media di un processo civile che arrivasse al terzo grado di giudizio era di 3320 giorni (cfr. Bianco, Giacomelli, Giorgiantonio, Palumbo, Szego, La durata (eccessiva) dei procedimenti civili in Italia: offerta, domanda o rito?, in Riv. di politica economica, fasc. settembre-ottobre 2007, spec. 9). 36 Lo ricordava, fra gli altri, Cappelletti, Una procedura nuova per una nuova “giustizia del lavoro”, cit., 289. 37 Questo notevole scarto fra la legislazione sostanziale del diritto del lavoro e la stasi della legislazione processuale era segnalato pure da Proto Pisani, Giuristi e legislatori: il processo civile, cit., 18 s.

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La riforma del processo del lavoro del 1973 nel dibattito della dottrina dell’epoca

3. Rito speciale e giudice monocratico. Nel contesto appena descritto, la discussione sul nuovo rito del lavoro (durante la travagliata gestazione parlamentare della l. n. 533/1973 e subito dopo la sua promulgazione)38 si polarizzò su varie questioni, alcune delle quali – com’accennato – di carattere generale (ma anche “politico”)39, altre invece di natura tecnica. Alcune di queste, poi – conviene ribadirlo – rivestono ormai un interesse sostanzialmente “storico”, concernendo aspetti su cui il dibattito appare composto40, mentre altre toccano temi sui quali la discussione è ancora aperta (anche se, talvolta, essa pare sopirsi, per riaccendersi, ad esempio, in occasione di nuovi interventi normativi)41. Tra le prime, annovererei innanzitutto la vivace querelle “sull’opportunità o meno, anche sotto il profilo costituzionale, della scelta di un rito speciale o privilegiato per la tutela dei diritti dei lavoratori”42. Al riguardo, occorre in primis chiarire che il problema (di politica legislativa) non poteva essere quello dell’ammissibilità tout court di forme differenziate (o, con le parole di Vittorio Denti, “privilegiate”) di tutela, perché, come notava tale studioso, esse erano già ampiamente previste nel nostro codice di procedura civile (“a tutela della proprietà o del possesso o del diritto di credito: dalle denunce di nuova opera e di danno temuto alle azioni possessorie, dal procedimento di ingiunzione a quello di convalida di sfratto”43); la vera questione, invece, era inerente all’introduzione di una forma di tutela giurisdizionale differenziata delle situazioni sostanziali implicate nel rapporto di lavoro, ossia, in altre parole, se le controversie individuali di lavoro meritassero un rito speciale, un processo ad hoc con regole diverse da quelle dell’ordinario giudizio di cognizione. Ebbene, se autorevoli esponenti della nostra disciplina scioglievano negativamente tale quesito44, di contro altri sostenevano – con argomenti ancor’oggi pienamente condivisibili

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Conviene ricordare che il dibattito sul processo del lavoro riguardò inizialmente (per esempio, al convegno di Bologna del giugno 1971) il progetto già evocato alla nota 1 (ed elaborato nei primi mesi di quell’anno in seno a un “comitato ristretto” delle Commissioni Giustizia e Lavoro della Camera dei Deputati), un progetto che, pur conservando le proprie caratteristiche fondamentali, sarà successivamente emendato in varie parti, anche rilevanti, durante l’iter legislativo che porterà alla definitiva approvazione della riforma del 1973. 39 Si tratta, cioè, delle questioni che, richiamando le parole di Enrico Allorio, sottintendevano “un criterio politico discorde” (Allorio, Relazione, cit., 17). 40 Penso, per esempio, all’ampio dibattito sull’opportunità di introdurre forme di tutela giurisdizionale differenziata per le controversie individuali di lavoro. 41 È questo il caso, direi, delle preclusioni. 42 Il virgolettato è di Denti, Il nuovo processo del lavoro, cit., 375. 43 Ancora Denti, Il nuovo processo del lavoro, cit., 375; in tal senso, vedi pure Proto Pisani, Tutela giurisdizionale differenziata, cit., 210, nota 11, il quale menzionava altresì, quale forma di tutela giurisdizionale differenziata già esistente, il “nuovo” procedimento regolato dall’art. 28 della l. n. 300 del 1970 (lo Statuto dei lavoratori) a tutela del “diritto di libertà e attività sindacale”; nello stesso ordine di idee si poneva anche, mi pare, il riferimento al procedimento di convalida di sfratto che si legge in Acone, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 106. 44 Così, per esempio, Fazzalari, Intervento, in Aa.Vv., La riforma del processo in materia di lavoro e di previdenza e assistenza, 40 ss., spec. 41, che parlava, al riguardo, di “rottura” della “unità della giurisdizione”, stigmatizzando questa scelta legislativa, come “un grave errore, anche politico”. A tale proposito è interessante notare – come ricordano Federico, Foglia, La disciplina del nuovo processo del lavoro, cit., 32 s. – che quando, alla metà degli anni Sessanta, il Ministero di Grazia e Giustizia sottopose agli organismi e alla

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– la legittimità e l’opportunità di questa scelta del legislatore, osservando in particolare: a) che il processo del lavoro è normalmente caratterizzato dalla disuguaglianza economica delle parti (lavoratore e datore di lavoro); b) che la parte economicamente più debole (di regola il lavoratore)45, “ha minori capacità di resistenza e di attesa”, subendo di conseguenza “danni maggiori dalla lunghezza del processo”; c) che la parte economicamente più forte (di solito il datore di lavoro), oltre ad avere maggiori capacità di attesa e resistenza, ha spesso “interesse a che il processo duri più a lungo”; d) che tale situazione caratterizza normalmente le liti del lavoro, distinguendole rispetto a tutti gli altri processi aventi per oggetto altri rapporti sostanziali; e) che solo un procedimento “tecnicamente adeguato” può essere strumento idoneo ad evitare, in tali controversie, gli effetti distorsivi causati dalla disuguaglianza economica delle parti46. Considerazioni che per la loro ragionevolezza potrebbero apparire oggi finanche “banali” (e così, del resto, le definiva all’epoca Proto Pisani)47, ma che, com’accennato, incontrarono critiche vivaci da parte dei paladini della c.d. “neutralità” della legge processuale48, principio declinato in vari modi, ma che nel suo nucleo essenziale può intendersi come l’asserita necessaria indifferenza (o impermeabilità) di quest’ultima rispetto alle caratteristi-

forze sociali più direttamente interessate alla riforma del rito del lavoro un questionario in cui si chiedeva, fra l’altro, se ritenessero opportuna l’introduzione “di un vero e proprio procedimento speciale in materia di lavoro”, solo una minoranza si espresse in senso favorevole (“CGIL, CISNAL e Corte dei Conti”), mentre la maggioranza si dichiarò contraria (“CSM, Cassazione, Avvocatura dello Stato, CNEL, UIL, CISL, nonché la quasi totalità degli organismi forensi”). 45 In proposito, tuttavia, vi era pure chi negava che “le categorie del ricco e del povero” corrispondessero a quelle “del datore di lavoro e del lavoratore subordinato”, rientrando nella prima anche gli artigiani e i piccoli imprenditori, e nella seconda, non soltanto gli “operai e contadini”, ma anche, ad esempio, “il direttore generale della impresa” o “i Primari spedalieri” (Jemolo, La legge è uguale per tutti, in Riv. dir. civ., 1972, II, 103 ss., spec. 103). Ma – replicava Proto Pisani, Tutela giurisdizionale e nuovo processo del lavoro, cit., 208 s., alla nota 10 – tale osservazione, “indubbiamente esatta”, non teneva però “nel debito conto che la legislazione per norme generali e astratte deve modellarsi sulla base dell’id quod plerumque accidit, cioè sulla regola e non sull’eccezione”. Il breve scritto di Jemolo, inoltre, merita attenzione (non solo, come chiosava ancora Proto Pisani, “per la statura morale” dell’autore), ma perché testimonia (e si tratta di un’ovvietà) che la valutazione delle norme è fortemente condizionata dal momento storico in cui è formulata: così sorprende notare che due istituti come la provvisoria esecutività delle sentenze di condanna pronunciate a favore del lavoratore e l’ordinanza (sempre a vantaggio del lavoratore) per il pagamento delle somme non contestate (istituti che – anche prima della novella del 1990, ossia della loro estensione generalizzata al rito ordinario e a favore di entrambe le parti – non eravamo soliti ritenere particolarmente eversivi) fossero all’epoca considerati dall’insigne studioso addirittura come “improntati” alla “giustizia di classe che i regimi comunisti reclamano come il miglior mezzo per realizzare la giustizia vera”. 46 Così, Proto Pisani, Tutela giurisdizionale e nuovo processo del lavoro, cit., 208; Id., Riforma del processo civile: tecniche e ideologie, cit., 757. Conf., nella sostanza Acone, Intervento, cit., 106, il quale osservava che quello proposto nel progetto da cui sarebbe derivata la riforma del rito del lavoro non era un “processo partigiano”, bensì un processo che “riflette[va] la peculiarità del rapporto sostanziale dedotto in lite”. A favore della specialità del rito per le controversie individuali di lavoro si era espresso con molta chiarezza anche un illustre sostanzialista (Scognamiglio, Intervento, in Aa.Vv., La riforma del processo in materia di lavoro e di previdenza e assistenza, cit., 66 ss., spec. 67 s.), il quale, dopo aver premesso che essa non poteva consistere nel “concedere ai lavoratori veri e propri privilegi processuali”, affermava che “il senso e la ragione” di tale specialità sarebbero stati quelli “dell’adeguamento del processo comune alla risoluzione di controversie relative a rapporti, che presentano una particolare fisionomia di fatto e tecnica, e più in generale a rapporti e situazioni che, per la loro rilevanza sociale e per gli interessi che coinvolgono, sollecitano strumenti procedurali caratterizzati dalla concretezza e sveltezza delle tecniche di accertamento e decisione sui punti di fatto e di diritto dei controversi”. 47 Ancora Proto Pisani, Tutela giurisdizionale e nuovo processo del lavoro, cit., 209; Id., Riforma del processo civile: tecniche e ideologie, cit., 757. 48 La discussione sul tema della neutralità della legge processuale con riferimento alla riforma del rito del lavoro prese le mosse – come rammentava Allorio, Relazione, cit., 21 (il quale, con malcelato sarcasmo, definiva la questione “forse affascinante, perché le parole sono spesso fonte di equivoci che divertono”) – dalla relazione, già più volte ricordata, che Giovanni Fabbrini tenne all’incontro di Bologna del giugno 1971 (vedi supra alla nota 13).

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che (oggettive e soggettive) della situazione sostanziale dedotta in giudizio49; “neutralità” che – come una volta ancora dimostrava convincentemente Proto Pisani50 – non soltanto “non esiste” e “non è mai esistita” nella legislazione processuale (affermazione indubbiamente corretta anche considerando gli ordinamenti ispirati al “liberalismo”)51, ma che soprattutto non ha ragione di esistere, traducendosi, se applicata, in un evidente vulnus alla tutela giurisdizionale dei diritti52. Altra questione che all’epoca pareva cruciale e su cui il dibattito si rivelò assai vivace riguardava la scelta (allora definita “radicalmente innovatrice”)53 di affidare la competenza per materia sulle controversie individuali di lavoro a un giudice monocratico, segnata-

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Se questa è la definizione di “neutralità processuale” proposta (e criticata) da Proto Pisani, Tutela giurisdizionale e nuovo processo del lavoro, cit., 224 (e ripresa, per esempio, da Federico, Foglia, La disciplina del nuovo processo del lavoro, cit., 84 s.), a me pare, com’accennato, che tale concetto sia stato utilizzato da chi all’epoca avversava il nuovo rito del lavoro in modo non del tutto univoco. Così, per esempio, Fabbrini, Diritto vigente, precedenti e progetti di riforma intorno al processo individuale di lavoro, cit., 27 escludeva che “atteggiamenti differenziati del mezzo processuale” potessero legittimamente derivare “dalla diversità delle categorie di cittadini che di volta in volta si servono, per la tutela dei loro diritti, dello strumento del processo civile”, mentre lo ammetteva per “ragioni di natura oggettiva”, ossia “attinenti alle caratteristiche dei rapporti sostanziali sottoposti a giudizio” (conf., sulla prima parte, Scognamiglio, Intervento, cit., 67). A conclusioni non diverse, direi, giungeva anche Carnacini, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 136 s., ponendo particolare accento sull’idea che “la eguaglianza di tutti cittadini” sarebbe perseguibile solo sul piano del diritto sostanziale, mentre su quello “più propriamente processualistico” compito della legge sarebbe limitarsi a garantire la parità delle parti nel rispetto del principio del contraddittorio (conf., Zangari, Intervento, in Aa.Vv., La riforma del processo in materia di lavoro e di previdenza e assistenza, cit., 86 ss., spec. 86). Dal canto suo, invece, Fazzalari, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 134 (il quale dichiarava di far propria l’opinione di Fabbrini, ma che in realtà ne forzava il significato a fini polemici) sembrava far coincidere il concetto di neutralità processuale con quello di neutralità del giudice, paventando il rischio che la “tutela giurisdizionale differenziata” in cui si sarebbe concretata la riforma del rito del lavoro ci avrebbe consegnato un giudice non più imparziale (e segnatamente un giudice che “amministrando una giustizia di classe”, ovvero “aiutando la parte più debole”, avrebbe svolto un compito “assistenziale” di esclusiva spettanza della “società” e della “legge sostanziale”): e qui, in effetti, il discorso si fa più scivoloso, nel senso che se Proto Pisani si preoccupava di rimarcare come il superamento dell’asserita “neutralità processuale” non comportasse affatto una violazione (o l’accantonamento) del principio della “neutralità [o imparzialità] del giudice” (Proto Pisani, op. loc. ultt. citt., 224: conf., Governatori, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 95 ss., spec. 101), altri autori parevano assumere al riguardo una posizione meno limpida invocando, per esempio, “la istituzione di un giudice dotato dei poteri necessari per intervenire nei conflitti di lavoro ad imporre quella soluzione conforme a giustizia sociale che il legislatore persegue astrattamente ponendo le norme a tutela del lavoro” (Denti, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., spec. 77: parole “non chiarissime”, come chiosava ancora Proto Pisani [op. cit., 224, alla nota 46], ma che sembrano condivisibili se intese nel senso di riconoscere anche alla legge processuale [e non soltanto a quella sostanziale] la legittima [e lodevole] attitudine a perseguire valori di giustizia sociale). 50 Vedi Proto Pisani, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, cit., spec. 208 ss., ed ivi un’ampia rassegna critica di numerose pronunce della Consulta con le quali si è affermata la legittimità costituzionale di varie ipotesi “sia di singoli procedimenti speciali, sia di disposizioni che dettano una disciplina particolare dei procedimenti ordinari di cognizione ad esecuzione ove questi abbiano ad oggetto situazioni giuridiche che presentano caratteristi che particolari” (op. ult. cit., 210). 51 Ancora Proto Pisani, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, cit., 224, spec. alla nota 46 (e ivi un riferimento polemico allo scritto di Colesanti, Un convegno sulla riforma del processo del lavoro, in Riv. dir. proc., 1971, 435 ss.). 52 Conf., Denti, Il nuovo processo del lavoro: significato della riforma, cit., 377 s., sottolineando da un lato l’esigenza di “forme di tutela [giurisdizionale] adeguate alle caratteristiche dei diritti sostanziali ed alle posizioni sociali delle parti”, dall’altro che l’idea del processo come “mera garanzia formale, indifferente ai fini particolari delle norme [definizione, a ben vedere, che coincide con la versione più “radicale” del concetto di “neutralità processuale”: cfr. supra nel testo e a nota 49]” sarebbe stata un ingombrante “mito ottocentesco” da “superare” con decisione (sul concetto di processo come “garanzia formale”, vedi ancora le interessanti, seppur sintetiche, riflessioni svolte dallo stesso Denti nel saggio Il processo come alienazione, in Id., Un progetto per la giustizia civile, Bologna, 1982, 117 ss., spec. 122-124). 53 Così, Denti, in Denti, Simoneschi, op. cit., 78. Ma si trattava di opinione diffusa, così, per esempio, anche Converso, in Converso, Pini, Raffone Scalvini, Il nuovo processo del lavoro, cit., 37, definiva la scelta del pretore come giudice competente per materia “una delle principali innovazioni della riforma”.

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mente al pretore54. Così, se la maggioranza dei partecipanti a tale discussione apprezzò la novità55, osservando talora che essa avrebbe garantito la concreta attuazione dei postulati chiovendiani della “concentrazione” e della “immediatezza”56 o sostenendo, in generale, che la collegialità sarebbe stata un “lusso” divenuto “superfluo e dannoso”57, di contro alcuni autorevoli studiosi58 – pur non pronunciandosi nettamente contro il giudice “unico” o “individuale”59 – criticarono che questi potesse essere il pretore, organo ritenuto non sufficientemente “attrezzato”, troppo “gracile”60, perché gli fossero affidati “così nuovi e onerosi compiti”61 (timori ai quali si aggiungevano, a volte, le resistenze nei confronti dell’intenzione dei conditores della riforma di fare del pretore “un giudice eminentemente specializzato”)62. In realtà, la diffidenza di questa parte della dottrina verso il pretore non era dovuta solo all’idea che i “giovani” magistrati che (normalmente) ricoprivano tale ruolo fossero privi di sufficiente esperienza per farsi carico, nella sua interezza, di un settore così cruciale

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Ricordo che l’ufficio del pretore è stato soppresso dall’art 1 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51. In generale, sui profili evolutivi della dibattuta questione della scelta fra giudice collegiale e giudice monocratico (o “unico” o “individuale”), si rinvia alla recente monografia della Ficcarelli, Giudice monocratico e giudice collegiale nella prospettiva del giusto processo civile, Napoli, 2020, ed ivi anche un’interessante comparazione col sistema francese. 55 In particolare, Andrioli, Intervento, cit., 128 s.; a favore dell’individuazione del pretore quale giudice cui devolvere il contenzioso individuale del lavoro, vedi anche Gionfrida, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 30 ss., spec. 32; Pera, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 38 (se ben intendo); Micheli, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 52 (che però, pochi mesi dopo, si pronuncerà ancora sull’argomento sollevando alcune perplessità: Id., Intervento, in Aa.Vv., La riforma del processo in materia di lavoro e di previdenza e assistenza, cit., 45 ss.); Cappelletti, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 57 (che, più in generale, definiva la collegialità un “lusso non necessario”; Verde, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 107 ss., spec. 109 s.; conf., fra gli altri, Governatori, Intervento, cit., 96 ss.; Simoneschi, Intervento, Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 84 ss., spec. 90 s.; Martone, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 79 ss., spec. 80; Florio, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 112 ss., spec. 112 s. 56 In questo senso, Proto Pisani, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, cit., 228; Andrioli, Intervento, cit., 128; Id., Osservazioni introduttive sul progetto di riforma del procedimento del lavoro, in Foro it., 1971, V, 75 ss., spec. 79 (affermando che la scelta del giudice monocratico avrebbe reso possibile la realizzazione dell’altro postulato chiovendiano, quello della “oralità” del processo). 57 Vedi Cappelletti, Una procedura nuova per una nuova “giustizia del lavoro”, cit., 301, il quale notava, da un punto di vista tecnico, come “il rito collegiale [fosse] più complicato, più costoso, più lento, più anonimo e quindi meno impegnato e responsabile, oltreché meno vicino ai fatti epperciò più formalista e astratto”. Lo stesso autore aggiungeva poi, però, che la scelta del pretore avrebbe avuto anche “un significato ulteriore, politico e sociologico”, nel senso che “è la scelta del giudice giovane anziché di quello radicato ormai nella lunga e isolante “carriera”; è la scelta del giudice tendenzialmente più sensibile a fenomeni ed esigenze nuove, più attento e impegnato di fronte agli emergenti scottanti problemi della nostra epoca, del giudice insomma proteso verso il futuro piuttosto che schiavo del tempo passato”. 58 Studiosi, detto per inciso, appartenenti al novero dei più severi censori del progetto di riforma (mi riferisco, in particolare, ad Allorio e Fazzalari: vedi infra nelle prossime note). 59 Di giudice “individuale” parlava un’insigne dottrina, ritenendo di “inutile ineleganza” la più comune espressione giudice “monocratico” (Allorio, Trent’anni di applicazione del Codice di procedura civile, cit. XXIII, nota 12). 60 Così, Allorio, Relazione, cit., 24. 61 Nuovamente Allorio, Relazione, cit., 24. Queste osservazioni trovavano eco nelle parole di Fazzalari, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 131 ss., spec. 134 s. e Id., Intervento, in Aa.Vv., La riforma del processo in materia e previdenza e assistenza, cit., 40 ss., spec. 42 s., il quale dichiarava la propria contrarietà che il contenzioso del lavoro fosse affidato a “un giudice alle prime armi” privo ancora della “necessaria” “maturazione intellettuale e spirituale”. 62 In tal senso, Micheli, Intervento, in Aa.Vv., La riforma del processo in materia di lavoro e di previdenza e assistenza, cit., 46. Nello stesso ordine di idee, vedi anche Allorio, Relazione, cit., 26 s. Contra, affermando invece “la necessità” di “un giudice specializzato [in materia di lavoro]”, Martone, Intervento cit., 83.

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(specie all’epoca) del contenzioso civile, ma anche (e direi soprattutto, come notava Virgilio Andrioli) a ragioni schiettamente “politiche”63, reputandosi che molti pretori fossero pregiudizialmente orientati a favore dei lavoratori e quindi, in definitiva, non imparziali64: timori espressi a volte con una certa prudenza65, in altri casi invece con notevole enfasi66. Ecco allora che, ripercorrendo tale dibattito, si ha la sensazione di un’occasione persa: le “tendenze politiche” (come le definiva ancora Andrioli)67 di alcuni studiosi più conservatori68 impedirono probabilmente che si approfittasse dell’imminenza della riforma del rito del lavoro per avviare (melius, per riprendere, perché dell’argomento si era già discusso in passato) un pacato e ampio confronto scientifico sul valore (e le prospettive) della collegialità del giudice di primo grado a fronte dell’ingravescente crisi del processo civile69, questione, peraltro, la cui centralità nell’ottica riformatrice non sfuggiva ad autorevole dottrina, la quale denunciava l’inadeguatezza di quei progetti di nuove (e generali) leggi processuali che, “guardando alla sola disciplina del procedimento”, trascurassero “il problema del giudice chiamato ad attuarla”70.

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Vedi Andrioli, Intervento, cit., 129, il quale osservava, appunto, che “i dubbi espressi sulla «competenza funzionale» dei pretori si appalesano […] espressione non di preoccupazioni dommatiche o sistematiche, ma di tendenze politiche, che vanno contestate non in sé […], ma se si nascondono dietro il paravento delle preoccupazioni, di cui ho fatto parola [mio il corsivo]”. 64 In quest’ordine di idee, anche se fuori dal contesto del dibattito sul nuovo processo del lavoro, si possono ricordare le durissime intemerate che Salvatore Satta rivolgeva in quegli anni a una parte della giurisprudenza pretorile (Quaderni del diritto processuale civile, VI, Padova, 1973, spec. 185 ss., 192 ss., 234 ss.). 65 Penso ad Allorio, Relazione, cit., 24 ss., il quale, se da un lato riteneva che l’intenzione di attribuire le controversie individuali di lavoro alla competenza del pretore fosse criticabile perché destinata a scontrarsi con problemi “organizzativi” (op. cit., 24 s.), dall’altro paventava (op. cit., 26) che “quel gruppetto di magistrati” il quale, formando la nuova pretura del lavoro, si sarebbe occupato solo di questo genere di controversie, potesse diventare “un gruppo, un gruppetto di potere”, incline magari a “interpretare a senso unico” le norme di diritto del lavoro (e non dubiterei che il “senso unico” evocato da Allorio fosse da intendere in direzione favorevole ai lavoratori e non alla parte datoriale). Concetti che lo stesso autore ribadiva, questa volta con maggiore nettezza, nel saggio Trent’anni di applicazione del Codice di procedura civile, cit., LXXXIX. 66 Mi riferisco, per esempio, a Fazzalari, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 134 s. e Id., Intervento, in Aa.Vv., La riforma del processo in materia e previdenza e assistenza, cit., 42 s., il quale definiva la scelta del legislatore “demagogica”, frutto di un “colossale equivoco”, laddove muoveva dall’assunto secondo il quale “il giudice più giovane e meno esperto sia, per ciò stesso, per il carisma della giovinezza, più sensibile alle istanze sociali, più aperto ai bisogni della società in cui vive”. 67 Vedi Andrioli, Intervento, cit., 129. 68 Se è vero che pure gli studiosi di campo “progressista” favorevoli alla scelta del pretore come giudice del lavoro indulsero talvolta a considerazioni di ordine non tecnico ma sociologico o politico (per esempio, Cappelletti, Una procedura nuova per una nuova “giustizia del lavoro”, cit.: vedi supra alla nota 57), va detto però che non mancarono comunque (a differenza, direi, dei loro contraddittori) di argomentare la loro opinione anche sotto il profilo tecnico. 69 Il rilievo mosso nel testo – vale a dire la constatazione di un approccio prevalentemente “politico” e non “scientifico” alla questione dell’alternativa fra giudice collegiale e giudice individuale – non mi pare possa valere, invece, per Fabbrini, Diritto vigente, precedenti e progetti di riforma intorno al processo individuale di lavoro, cit., 25, il quale criticava la “monocraticità” prospettata nel progetto di nuovo rito del lavoro, muovendo da considerazioni (magari non condivisibili ma) certamente sistematiche e da dati statistici, ossia negando da un lato che la collegialità contribuisse (se non “in minima parte”) alle lungaggini processuali, dall’altro sostenendo l’importanza della “incidenza del collegio sul contenuto delle sentenze emesse dal tribunale”. 70 Sono parole di Denti, Riforma o controriforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 1973, spec. 284 ss., spec. 287.

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4. Le preclusioni e il nuovo modello decisorio. Dal punto di vista schiettamente tecnico, uno degli aspetti della riforma del processo del lavoro che suscitò maggiori contrasti riguardò la proposta di introdurre un rigido sistema di preclusioni. Per cogliere appieno la portata di tale innovazione, va ricordato che all’epoca (e come sarebbe stato ancora fino alle riforme degli anni Novanta)71 il processo ordinario di cognizione dinanzi al tribunale era regolato in modo tale da consentire alle parti – per effetto della novella del codice di rito attuata dalla c.d. “contro riforma” del 195072 – di dedurre prove, produrre documenti, proporre eccezioni di merito e di rito, precisare e modificare le proprie domande, durante tutto il corso del giudizio davanti al giudice istruttore fino alla rimessione della causa al collegio73. Ecco allora che, a fronte di questa disciplina (assai liberale), appare comprensibile che la scelta del legislatore del 1973 di imporre alle parti l’onere, a pena di decadenza, di “calare le carte”74 (o, con le parole di Andrioli, di “vuotare il sacco” o di “scoprire le batterie”)75 già nella fase introduttiva del giudizio – permettendo loro, dopo tale momento, di “modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate” solo in caso di “gravi motivi” e “previa autorizzazione del giudice”76, e di dedurre ulteriori prove esclusivamente dimostrando la “impossibilità” di averlo potuto fare prima (con diritto dell’altra parte alla controprova)77 – suscitasse reazioni contrastanti, trattandosi di una novità assai significativa e gravida di conseguenze, non soltanto da un punto di vista sistematico, ma anche perché costringeva gli avvocati a un radicale mutamento di mentalità (e, più concretamente, di strategie difensive) nell’adempimento del loro ministero78. Una parte della dottrina – direi minoritaria, anche se autorevole – avversò dunque tale innovazione, affermando nella sostanza che il legislatore, mosso dalla “smania di rapidità”, avrebbe sacrificato il “bene” al “presto”79, o sostenendo che le preclusioni avrebbero po-

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A partire dalla l. 26 novembre 1990, n. 353. Mi riferisco, naturalmente, alla “famigerata” l. 14 luglio 1950 n. 581, cui adde il d.pr. 17 ottobre 1950, n. 857. 73 Lo stesso regime valeva pure per i procedimenti che si svolgessero dinnanzi al pretore o al conciliatore, in forza del rinvio di cui all’art. 311 c.p.c. nel testo allora vigente. 74 Cfr. Proto Pisani, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, cit., 229. 75 Così, Andrioli, Osservazioni introduttive sul progetto di riforma del procedimento del lavoro, cit., 78. 76 Vedi art. 420, comma 1, c.p.c. Ricordo, peraltro, che il testo del progetto originario (quello che fu argomento di discussione al convegno di Bologna del giugno 1971: vedi supra alla nota 1) non prevedeva nemmeno questa limitata possibilità di “aggiustamento” del thema decidendum, prospettando, dunque, un sistema di preclusioni ancora più rigoroso di quello che sarebbe stato recepito nella riforma del 1973. 77 Cfr. art. 420, comma 5 e 7 c.p.c. 78 Il rilievo è di Acone, Intervento, cit., 102. Anche Andrioli, Osservazioni introduttive sul progetto di riforma del procedimento del lavoro, cit., 76 evidenziava come la riforma avrebbe comportato, sul piano della professione forense, “la rottura di atavici modi di sentire”, ma pure “radicali modificazioni nell’organizzazione degli studi”. 79 Così, Allorio, Relazione, cit., 28 s. (suo il primo virgolettato di questo periodo), con particolare riferimento alle preclusioni istruttorie. In proposito, va detto che l’avversione di quest’insigne studioso al sistema delle preclusioni riguardava il processo civile in generale e non era limitata al solo (nuovo) rito del lavoro (vedi infatti, con più ampia motivazione, Allorio, Trent’anni di applicazione del Codice di procedura civile, cit., CXII ss.). 72

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tuto “ingiustamente rendere più difficile quella difesa che è sacra per tutti”80: uno sfavore che trovò sponda anche in alcuni esponenti del mondo forense e della magistratura81. Di contro, altri studiosi elogiarono la scelta del legislatore osservando come il “potenziamento della fase preparatoria”, nel quale si concretava un sistema di preclusioni “rigide”, e il conseguente “potenziamento della prima udienza di trattazione o discussione” avrebbero reso il postulato chiovendiano della “concentrazione” del processo non più un “mito” ma qualcosa di “praticamente realizzabile”82, o affermando che tale sistema rispondeva “in apicibus” “ad un’esigenza di moralizzazione del processo, nel quale non si deve vedere un deteriore gioco degli scacchi, ma il mezzo di rendere sollecitamente ragione a chi l’ha”83 84. Non mancarono, poi, autori che, pur apprezzando in linea di principio l’introduzione delle preclusioni nelle controversie di lavoro, criticarono la rigidità dell’impianto normativo, ritenendo preferibile un meccanismo di “termini preclusivi adattati, con flessibilità discrezionale, dal giudice alle concrete circostanze del caso”: un’idea forse suggestiva, ma della cui difficile realizzazione era ben consapevole lo stesso proponente85. Un ultimo (breve) cenno merita ancora uno degli aspetti oggettivamente più innovativi della riforma del rito del lavoro, ossia la decisione mediante lettura del dispositivo in udienza86. Ebbene, sorprende notare come i primi commentatori del progetto da cui sarebbe scaturita la novella del 1973 non dedicassero a tale novità (mutuata dal processo penale)87 l’attenzione che sarebbe stato ragionevole attendersi. Se questo è vero, i giudizi furono comunque quasi tutti negativi: così – nel solco delle critiche nette espresse da Giovanni Fabbrini, relatore al convegno bolognese del ’71 – opinione diffusa era che “chiedere al giudice di pronunciare in udienza il dispositivo, come immediata risposta alla discussione orale svolta dalle parti” fosse irragionevole, presuppo-

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Sono parole di Carnacini, Intervento, cit., 137 s. Vedi, per esempio, Converso, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 43 ss., spec. 45; Gionfrida, Intervento, cit., 35; Fornario, Intervento, cit., 66. 82 Così, Proto Pisani, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, cit., 229 s. 83 In tal senso, Andrioli, Osservazioni introduttive sul progetto di riforma del procedimento del lavoro, cit., 78. A favore dell’introduzione di un sistema di preclusioni, vedi anche, con varietà di sfumature, Martone, Intervento, cit., spec. 82 s. 84 Nel dibattito che accompagnò l’introduzione del processo del rito del lavoro emerge spesso, negli scritti dei fautori della riforma, l’esigenza di “moralizzare” il processo (oltre al passo di Andrioli evocato nel testo, vedi anche Cappelletti, Una procedura nuova per una nuova “giustizia del lavoro”, cit., 290), esigenza sulla quale, peraltro, non esprimevano particolari riserve nemmeno gli oppositori della nuova legge: ciò significa dunque che, all’epoca, era opinione comune (o almeno diffusa) che la giustizia civile fosse esercitata o praticata in modo “immorale” o “amorale”. E oggi allora? Quale giudizio “etico” meriterebbe l’attuale situazione del processo civile? Un approccio al tema della crisi della giustizia civile che in tempi come i nostri, in cui molti considerano l’accusa di “moralismo” fra le più offensive, nessuno si sentirebbe di affrontare … Eppure. 85 Questa proposta era stata avanzata da Cappelletti, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 64. 86 Sull’argomento resta ancora fondamentale l’ampio studio di Guarnieri, Sulla lettura del dispositivo in udienza nel processo del lavoro, in Riv. dir. proc., 1983, 220 ss. e 481 ss. 87 Come notavano diversi autori: Micheli, Intervento, cit., 54; Andrioli, Osservazioni introduttive sul progetto di riforma del procedimento del lavoro, cit., 79; Cappelletti, Una procedura nuova per una nuova “giustizia del lavoro”, cit., 293. 81

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nendo nel magistrato una capacità di sintesi e di vaglio del materiale di fatto e di diritto della controversia semplicemente irrealistica88. Perplessità e scetticismo, conviene ribadirlo, che caratterizzarono la pressoché totalità degli interventi su questo particolare profilo della riforma89 (seppure con qualche importante eccezione)90, ma che la successiva esperienza del processo del lavoro dimostrerà infondati: ed infatti il meccanismo decisorio previsto dall’art. 429, comma 1, c.p.c. sarà applicato senza troppi problemi, grazie anche – come osservava vent’anni dopo Romano Vaccarella, tracciando un bilancio della legge n. 533/1973 – ad alcuni “espedienti” escogitati nella prassi, volti a consentire che il giudice pronunci la decisione solo quando si trovi nelle condizioni per farlo91.

5. Conclusioni. La ricognizione fin qui svolta, per quanto necessariamente sintetica e parziale92, consente di formulare alcune rapide conclusioni. Innanzitutto va ribadito che la riforma del processo del lavoro del 1973 rappresentò un momento assai divisivo per la dottrina italiana che – come mai era avvenuto in pre-

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Vedi Fabbrini, Diritto vigente, precedenti e progetti di riforma intorno al processo individuale di lavoro, cit., 24, il quale sosteneva che per applicare il meccanismo decisorio previsto dalla novella “il cervello del giudice” avrebbe dovuto essere “al tempo stesso una raccolta permanentemente aggiornata di legislazione, una biblioteca di dottrina, un repertorio completo di giurisprudenza, un acutissimo strumento critico per il vaglio del materiale probatorio raccolto e una macchina calcolatrice per i conteggi matematici tanto spesso necessari in materia di lavoro”. A fondamento del proprio dissenso, l’insigne studioso toscano aggiungeva poi un’altra considerazione, ovvero che “costringere il giudice […] a emettere subito la sua decisione, dovendola in seguito corredare di una motivazione in fatto e in diritto” poteva risolversi in “una sorta di incentivo […] a scegliere le soluzioni più piatte e conformistiche per non incontrare poi soverchie difficoltà in sede di stesura della motivazione”. 89 In tal senso, Micheli, Intervento, in Aa.Vv., Incontro sul progetto di riforma del processo del lavoro, cit., 54; Acone, Intervento, cit., 106, il quale suggeriva il correttivo di non subordinare alla richiesta delle parti il termine per il deposito di note delle parti previsto dall’attuale comma 2 dell’art. 429 c.p.c.; Pera, Intervento, cit., 38, osservando che il meccanismo decisorio sottovalutava la complessità delle cause di lavoro; l’opinione di questi autori era condivisa pure da Converso, Intervento, cit., 45; Fornario, Intervento, cit., 67; dubbioso sul punto, invece, Verde, Intervento, cit., 110. 90 Mi riferisco, segnatamente, ad Andrioli, Osservazioni introduttive sul progetto di riforma del procedimento del lavoro, cit., 79, secondo cui “la deliberazione del dispositivo a chiusura del dibattimento e senza soluzione di continuità, ad instar del processo penale, nel quale non ci si verrà a raccontare che siano in contesa beni meno gelosi del salario” sarebbe stata coerente e inevitabile corollario dei tre principi chiovendiani (oralità, concentrazione e immediatezza), cui la novella era lodevolmente ispirata; conf., Florio, Intervento, cit., 115 s. 91 Così, Vaccarella, Il processo ed i problemi del lavoro, cit., 14, il quale ricordava come, dopo una prima “fase eroica” del processo del lavoro (è verosimile ritenere che l’insigne studioso intendesse riferirsi al periodo immediatamente successivo all’introduzione della riforma nel quale, effettivamente, i pretori applicavano alla lettera il disposto del primo comma dell’art. 429 c.p.c., decidendo la causa al termine della prima e unica udienza di comparizione, trattazione e discussione), la prassi avesse “reagito” al meccanismo decisorio troppo “esigente” previsto dalla norma poc’anzi evocata “attraverso […] espedienti, primo fra tutti la «spontanea» richiesta di rinvio della discussione fino a quando … il [giudice] non fosse stato in grado di decidere”. 92 Anche se ragioni di spazio hanno impedito di darne conto più diffusamente, ho già ricordato (alla nota 45), per esempio, che notevole attenzione suscitarono tra i primi commentatori della novella (e ancor prima del progetto da cui sarebbe derivata) l’introduzione della regola della provvisoria esecutività delle sentenze di condanna a favore del lavoratore (art. 431, comma 1, c.p.c.) o quello delle ordinanze per il pagamento di somme (art. 423 c.p.c.)

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La riforma del processo del lavoro del 1973 nel dibattito della dottrina dell’epoca

cedenza93 – si spaccò nettamente nel giudicare la scelta legislativa, dando la stura a una polemica dai toni insolitamente aspri (e non priva, talora, di puntuti attacchi “personali”). In quest’occasione, dunque, non si ripeté quel che avvenne all’indomani della caduta del fascismo, quando il vivace dibattito sull’opportunità di conservare o abrogare il codice di rito del 1940/42 vide la processualcivilistica italiana compattamente schierata a difesa di quest’ultimo: per la prima volta la comune ascendenza chiovendiana, l’eredità di valori, principi e concetti derivanti da questa risalente (ma ancora vivissima) esperienza culturale non resse alle ruvide contrapposizioni ideologiche (o ideali) tipiche di quel periodo; una divisione di opinioni, aggiungerei, che trovava una sorta di “accelerante” nel drammatico accentuarsi della crisi della giustizia civile che giusto in quegli anni iniziava a configurarsi come vera e propria emergenza sociale, sollecitando riflessioni, proposte e rimedi su cui le idee degli studiosi della nostra disciplina si rivelarono assai eterogenee94. Ecco allora che in tale contesto la discussione sul nuovo rito del lavoro si caratterizzò – almeno nell’immediato95 – per l’ampio spazio che vi trovarono argomenti di ordine “politico” (ma anche “organizzativo” e, in definitiva, “pratico” o “empirico”), e ciò a discapito di un approccio sistematico; e se è certamente vero che quest’ultimo, per maturare, ha bisogno di tempi più lunghi, pare innegabile che il livello scientifico del dibattito – pur offrendo anche contributi di indiscutibile valore96 - non sempre rispecchiò la brillante tradizione della nostra dottrina. Ulteriore conseguenza di un confronto così polarizzato fu che – durante la discussione sul progetto da cui sarebbe scaturita la legge n. 533 del 1973 – la polemica finì col focalizzarsi, in un primo momento, più sull’opportunità della riforma nel suo complesso (lo ripeto, fortemente auspicata da alcuni, ma con uguale nettezza avversata da altri) che sui contenuti tecnici (salvo quelli, direi, concernenti i profili di costituzionalità), i quali, peraltro, si confidava potessero essere emendati nel corso dei successivi passaggi parlamentari (come, in parte, effettivamente avvenne). Detto ciò, vorrei chiudere osservando come rileggere gli scritti in cui si articolò quel dibattito di mezzo secolo fa evochi un’epoca di grandi entusiasmi e passioni che coinvolsero pure il mondo del diritto processuale civile, fino ad allora tendenzialmente impermeabile ai fermenti che attraversavano la società; ma direi anche che proprio l’introduzione del “nuovo” rito del lavoro – la cui elaborazione, conviene ribadirlo, non coinvolse direttamente la “scienza”, ma fu opera delle forze sociali – determinò il definitivo radicarsi di

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E, direi, come più non si ripeterà in seguito: se è vero, infatti, che altre importanti riforme susciteranno reazioni contrastanti, il dibattito assumerà un tono meno “manicheo” e “passionale”, comunque, più attento ai profili tecnici e “scientifici” che a quelli “ideologici” o di politica legislativa. 94 In proposito, mi permetto di rinviare a Vullo, Il convegno di Sorrento del 1971: alle origini delle riforme del processo civile, in Giusto proc. civ., 2021, 285 ss. 95 La precisazione è importante: negli anni successivi alla sua introduzione, il rito del lavoro sarà oggetto di particolare attenzione da parte degli studiosi del processo civile, anche grazie a una manualistica alla quale contribuiranno autori di altissimo livello (per ricordarne alcuni, Denti, Fabbrini, Proto Pisani, Tarzia, Vocino, Verde, Montesano, Vaccarella, Luiso etc.). 96 Nell’ottica che qui interessa, pescando da entrambi gli schieramenti (quello favorevole e quello contrario alla riforma), ricorderei, rispettivamente l’ampio saggio di Proto Pisani, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, cit. e la relazione di Fabbrini, Diritto vigente, precedenti e progetti di riforma intorno al processo individuale di lavoro, cit.

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Enzo Vullo

quella “tensione” riformatrice che da allora caratterizzerà per decenni la nostra migliore dottrina, sempre più impegnata non soltanto sul piano dell’elaborazione dei concetti, ma pure (e in certi periodi, forse, soprattutto) su quello della formulazione di proposte concrete per restituire efficienza e credibilità a una giustizia civile da decenni in stato di avvilente dissesto97.

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In particolare, fondamentale, sotto molti aspetti, fu il contributo della dottrina alla (cruciale) riforma attuata dalla l. n. 353 del 1990, molte disposizioni della quale – com’è noto – trovano i loro “lavori preparatori” negli studi di insigni esponenti della nostra disciplina.

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Giovanni Leone

Il risarcimento del danno liquidato in via equitativa per occupazione illegittima può essere inferiore all’indennità di occupazione legittima? Note sparse in tema di “scelta” del giudice per il conseguimento dei danni per occupazione illegittima Il presente contributo, muovendo da una recente pronuncia della IV sezione del Consiglio di Stato, evidenzia come le attuali norme che regolamentano l’espropriazione per pubblica utilità siano suscettibili di una pluralità di interpretazioni che conducono spesso ad esiti valutativi talora paradossali. This paper, starting from a recent ruling of the IV section of the Council of State, highlights how the current rules governing expropriation for public utility are susceptible to a plurality of interpretations that often lead to sometimes paradoxical evaluative results.

Curiosamente, quando mi accade di leggere sentenze che riguardano procedure espropriative, criteri di determinazione di indennità di esproprio, occupazioni illegittime o usurpative, risarcimento dei danni, acquisizione sanante, per una strana associazione di idee sono richiamate alla mia memoria – ed il ricordo è assai vivo – alcune storie che mi venivano raccontate durante le lezioni di catechismo, che tratteggiavano i re di Israele ed in particolare Davide, che voleva costruire il tempio dedicato al Signore, e Acab, che voleva invece ampliare il palazzo reale. Storie di altri tempi, qualcuno potrebbe obiettare, perché gli avvenimenti narrati nell’Antico Testamento risalgono a tempi remoti che nulla hanno a che vedere con le misere vicende umane che sono oggetto delle vertenze odierne.

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Nulla di tutto questo, risponderei, in quanto Davide1 e Acab2 volevano realizzare opere pubbliche. Un tempio rientra, oggi, nelle opere di urbanizzazione secondaria3 (all’epoca, di certo, veniva reputata indispensabile opera di urbanizzazione primaria) e l’allargamento del palazzo reale, il quale era sede non solo residenziale del sovrano e delle sue numerose mogli e concubine (all’epoca ciò era non solo consentito, ma largamente approvato), ma anche degli uffici che reggevano la cosa pubblica. Ebbene, Davide, dopo aver individuato il terreno più idoneo, si rivolse a tale Ornan, che ne era proprietario, chiedendo quale fosse il prezzo. Costui, non si sa se perché onorato di tale scelta, oppure perché preoccupato delle reazioni che avrebbe potuto provocare un suo rifiuto (peste e malattie varie si erano da poco abbattute sulla popolazione), non solo accondiscese alla richiesta del suo re, ma replicò che nulla avrebbe voluto; anzi, avrebbe sacrificato vari animali per rendere gloria al Signore. Viceversa, il re Acab, in presenza del rifiuto di Nabot, suo vicino, a cedergli il terreno per le necessità sopra descritte, istigato dalla moglie Gezabele, se ne impossessò dopo aver eliminato, fisicamente, il malcapitato ed ostile confinante. Due procedure ablative, si potrebbe dire: la prima, svoltasi in modo del tutto regolare, in quanto l’autorità (probabilmente l’unica autorità di Israele, in cui si fondevano i poteri legislativi, giudiziari ed amministrativi) dopo la scelta del suolo ove realizzare l’opera pubblica4 – quindi, dopo la pronuncia della dichiarazione di pubblica utilità – e l’attivazione del subprocedimento di offerta e concordamento dell’indennità di espropriazione, acquisisce del tutto legittimamente il bene; la seconda, svoltasi in modo anomalo, in quanto, una volta – anche in questa circostanza – individuata l’area occorrente per l’ampliamento del palazzo reale, la procedura si arresta in presenza del rifiuto alla cessione volontaria e, in mancanza di una norma espressa (v’è da supporre che non esistesse il principio di legalità, o che comunque una norma che costringesse i proprietari dei suoli a subire la potestà espropriativa), dà luogo ad un’occupazione illegittima o, per essere più “tecnici”, ad un’occupazione usurpativa. Oggi – ma già il legislatore nazionale ebbe modo di disciplinare la materia con la legge cd. generale sull’espropriazione per pubblica utilità n. 2359 del 25 giugno 1865 – la situazione è profondamente modificata. La procedura espropriativa è disciplinata dal Testo

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Dal sito www.vatican.va: dal Libro delle Cronache 21-25: “Ornan disse a David: “Prendilo, e il re, mio signore, faccia quello che pare bene ai suoi occhi; guarda, io ti do i buoi per gli olocausti, gli attrezzi per trebbiare come legna, e il grano per l’offerta; tutto ti do”. Ma il re David disse a Ornan: “No, io comprerò da te queste cose per il loro intero prezzo; poiché io non offrirò all’Eterno ciò che è tuo, né offrirò un olocausto che non mi costi nulla”. E Davide diede a Ornan come prezzo del luogo il peso di seicento sicli d’oro”. 2 Più complessa è la vicenda di Acab e Nabot. Quest’ultimo era proprietario di una vigna confinante con il palazzo reale. Acab chiese di permutarla con una vigna a suo avviso migliore o di acquistarla pagando il “giusto prezzo”. Ma Nabot sdegnosamente rifiutò affermando di averla avuta in eredità dai suoi antenati. La moglie di Acab, Gezabele (“sei o non sei tu il re di Israele?”), stizzita da tale comportamento irriguardoso, non pensò di meglio che ordire una congiura diffamando pubblicamente Nabot, che fu lapidato. Sicché Acab poté acquisire, senza nulla pagare (immagino che fu disposta una sorta di confisca), l’agognata vigna. Per chi volesse leggere l’intero episodio potrà consultare il sito www.lachiesa.it ed in particolare il Libro dei Re, 1-21, che così termina: “Appena ricevette questa notizia, Gezabele disse al re Acab: Puoi andare a prender possesso della vigna che Nabot si rifiutava di cederti: ormai è morto! A queste parole, Acab si alzò subito e andò a impadronirsi della vigna di Nabot”. 3 Art. 44 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 ss. mm. ii. 4 Che sarà costruita, come noto, da suo figlio Salomone.

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unico, approvato con d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, l’indennità di esproprio va corrisposta sulla scorta del controvalore del bene, concordato o determinato da una commissione, oppure ancora, in caso di dissenso, da un giudice; e l’occupazione illegittima può essere convertita attraverso la cd. acquisizione sanante. La quale non è un’invenzione del legislatore (o di coloro che hanno redatto dapprima l’art. 435 e poi l’art. 42-bis6 del d.P.R. n. 327 cit.), ma l’aggiornata evoluzione della figura elaborata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, che aveva affermato il principio secondo cui, se l’amministrazione espropriante commette qualche errore (es., tutta presa dalla costruzione dell’opera pubblica, trascura di corrispondere l’indennità di esproprio al proprietario), avrebbe potuto pur sempre attivare un nuovo procedimento a sanatoria, istituto da sempre presente nel nostro ordinamento7. Istituto, quest’ultimo, mal digerito dall’interpretazione creativa della Corte di Cassazione8 che, anche qui con grande fantasia, costruì la figura dell’accessione invertita, in virtù della quale il fatto illecito (ossia l’apprensione del suolo senza corrispondere il tantumdem al proprietario) unitamente alla costruzione dell’opera pubblica avrebbe comportato il trasferimento dell’area privata all’ente pubblico. Costruzione bislacca, che solo dopo vari decenni fu giudicata dalla CEDU, con le note sentenze Scordino del 2007, un unicum violativo di qualsiasi principio elementare di rispetto del diritto di proprietà. Attualmente, mediante il richiamato art. 42-bis, s’è consolidato un sistema che assicura (o meglio, dovrebbe assicurare) al proprietario espropriato sia l’indennità spettante per la sottrazione del suolo, sia la tutela giudiziaria qualora l’indennità non sia ritenuta congrua. V’è da rilevare che il sistema non appare del tutto privo di aporie e inconvenienti. Dalla determinazione dell’indennità all’effettivo conseguimento delle somme spettanti trascorrono troppi anni: non è giustificabile un sistema che, in nome della celere realizzazione delle opere pubbliche, consenta all’amministrazione di entrare in possesso delle aree occorrenti senza aver previamente o in tempi rapidi corrisposto al proprietario quanto di sua spettanza, ma comunque non quanto determinato unilateralmente dalla stessa amministrazione. Se è vero che l’opera pubblica è espressione di una necessità teleologica, che assicuri la soddisfazione dell’interesse pubblico in tempi brevi, non è detto che il diritto del proprietario al conseguimento del controvalore del bene debba essere soddisfatto soltanto dopo l’esperimento di un procedimento amministrativo prima ed eventualmente giudiziario poi, che potrebbe rivelare anche qualche amara sorpresa per l’amministrazione espropriante. Difatti, non sono pochi i casi in cui quest’ultima si accorge, dopo anni di vertenze, che probabilmente non avrebbe scelto quell’area che le è venuta a costare un importo tale da costringerla a dichiarare addirittura il dissesto (se trattasi di ente locale). Si vuol dire,

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Dichiarato incostituzionale con sentenza della Consulta n. 293 del 2010. Che invece ha passato indenne lo scrutinio di legittimità costituzionale: Corte cost., n. 71 del 2015. 7 Si può consultare la numerosissima giurisprudenza sul punto in G. Leone e A. Marotta, L’espropriazione per pubblica utilità. Rassegna di giurisprudenza, Padova, 1993, 383 ss. 8 Sez. Un. n. 1464 del 26 febbraio 1983 e tante successive. Si rinvia, per l’esame della genesi di questa figura, a G. Leone e A. Marotta, L’espropriazione per pubblica utilità, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, Padova, vol. XXVII, 573 ss. 6

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in altre parole, che sarebbe preferibile escogitare un sistema che assicuri al proprietario il corrispettivo di quanto occorra per la costruzione dell’opera pubblica ben prima che si dia corso alla sua esecuzione. Ma questa è un’altra storia, com’è un’altra storia il criterio di determinazione dell’indennità che è fortemente condizionato, secondo larghi settori della giurisprudenza, alla valutazione del bene dalla presenza dei cd. vincoli conformativi, che diminuiscono drasticamente il valore del bene da apprendere9. Altro aspetto che appare contraddittorio è costituito dalla “complicazione” sulla individuazione del giudice competente per la determinazione dell’indennità, o meglio della somma spettante a titolo di risarcimento dei danni nel caso in cui l’occupazione sia divenuta illegittima. Infatti, scaduta l’occupazione legittima, il proprietario per conseguire il risarcimento del danno è tenuto a rivolgersi al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 30 del c.p.a., in considerazione del fatto che l’amministrazione ha pur sempre esercitato un potere (Corte cost. n. 204 del 2004). Ma cosa accade se nel corso del processo di primo o di secondo grado l’amministrazione decide di avvalersi dell’art. 42-bis del T.U. espropri emanando il provvedimento di acquisizione sanante? Secondo la pacifica giurisprudenza il proprietario che intenda contestare l’ammontare della somma dovuta a titolo sia di trasferimento del bene, che dell’indennità di occupazione legittima ed illegittima,10 deve rivolgersi al giudice ordinario, con buona pace del giudizio intrapreso davanti al giudice amministrativo11 che sarà dichiarato improcedibile con perdita di tempo e danaro; e ciò ancorché una quota del quantum sia stata accertata attraverso una consulenza tecnica di ufficio in relazione al periodo di occupazione illegittima. Nel passato, in situazioni analoghe, ossia di decreto di espropriazione emesso nel corso del processo con il quale era stata intrapresa l’azione risarcitoria, la Cassazione, per attuare il principio di effettività della tutela, inventò la figura della conversione dell’azione risarcitoria in azione di opposizione all’indennità12; evitando, in tal modo, che il proprietario incorresse nella decadenza per non aver proposto tempestivamente (nel termine di trenta giorni) l’opposizione all’indennità

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Su tale aspetto mi permetto di rinviare ai miei scritti sull’argomento: Indennità di espropriazione: tutto risolto? Ovvero sulla (in) esistenza dei vincoli espropriativi e conformativi, in Scritti in memoria di Franco Pugliese, 2010 e in Riv. Giur. edil., 2008, 285; L’indennità di espropriazione e l’apologo di Menenio Agrippa, in Riv. dir. priv., 2021, di prossima pubblicazione. 10 Secondo le Sezioni unite 25 luglio 2016, n. 15283 (punto 7 della motivazione) v’è una imprecisione lessicale nell’art. 42bis, là dove si parla della quantificazione dell’indennizzo a titolo risarcitorio (“Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma”), sottraendo in tal modo la quota parte del risarcimento dalla giurisdizione del giudice amministrativo. ovviamente, trattasi di una scelta assolutamente condivisibile, allo scopo di evitare che, in caso di opposizione, il (già) proprietario sia costretto per una parte a rivolgersi al giudice ordinario e per altra parte al giudice amministrativo. questa interpretazione è stata di recente contestata da Cass., 24 dicembre 2020, n. 29625, che ha rimesso la questione all’esame delle Sezioni unite. 11 Ex multis Cons. Stato sez. IV, 3 settembre 2019, n.6074; Cass., Sez. Un., 21 febbraio 2019, n. 5201. Per quest’ultima decisione, come per le altre, l’indennità “avente ad oggetto l’interesse del cinque per cento del valore venale del bene, dovuto, ai sensi del comma 3, u.p., di detto articolo, ‘a titolo di risarcimento del danno’, giacché esso, ad onta del tenore letterale della norma, costituisce solo una voce del complessivo indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al precedente comma 1, secondo un’interpretazione imposta dalla necessità di salvaguardare il principio costituzionale di concentrazione della tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti ablatori”. 12 Cass., 30 dicembre 1968, n. 4086, in Giust. civ., 1968, I, 613.

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di esproprio. La situazione si è poi complicata allorquando la competenza è trasmigrata alla corte d’appello, e il giudizio risarcitorio era ancora pendente dinanzi al Tribunale in primo grado. Giurisprudenza, poi, superata da quella creativa della figura della accessione invertita o acquisitiva. Tuttavia, non di questo intendo ora parlare. L’occasione che ha sollecitato la mia attenzione è stata provocata da una recente pronuncia della IV Sezione del Consiglio di Stato 23 luglio 2020, n. 470913 in tema di determinazione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno per il periodo di occupazione illegittima (che, nel linguaggio comune, anche se atecnico, si denomina indennità14 per occupazione illegittima). Con tale decisione la IV Sezione ha affermato che la somma dovuta per il danno patrimoniale subito a seguito di un’occupazione sine titulo per effetto dell’annullamento giurisdizionale (nella specie era stata disposta la restituzione del bene, quindi non era stata pronunciata l’acquisizione sanante) va quantificata e liquidata sulla scorta della dimostrazione del danno subìto e non sulla base del parametro 5%. Ma andiamo con ordine. Riferisce la sentenza in commento che la controversia era insorta a causa di due decreti di occupazione che avevano interessato un suolo di proprietà del ricorrente, succedutisi a breve distanza di tempo (2009 e 2010). Peraltro, il secondo decreto (del 2010), che aveva superato il primo, implicitamente revocandolo, veniva impugnato anche da un altro proprietario, il quale riusciva ad ottenerne l’annullamento dal TAR adito. Il terreno poi, stante la mancata realizzazione dell’opera pubblica programmata, veniva restituito al proprietario-ricorrente, il quale aveva chiesto, oltre all’annullamento dei due atti ablativi, anche il risarcimento del danno, invocando il criterio previsto dal comma 3 dell’art. 42-bis del T.U. espropri del 2001 (ossia il 5% del valore venale del bene). Qui abbiamo una prima singolarità: il decreto di occupazione del 2009, avente una durata di due mesi e mezzo, è stato ritenuto legittimo dal TAR; il secondo ricorso, invece, che concerneva un decreto di occupazione avente una durata legittima di circa tre anni e due mesi, è stato dichiarato improcedibile. Per quale ragione? Perché, così si legge nella sentenza, era stato annullato da una sentenza ottenuta da altro proprietario in altro contenzioso. Il TAR L’Aquila, adito da tale sig. C., aveva annullato con sentenza n. 128 del 2011 la dichiarazione di pubblica utilità ed il decreto di occupazione. Successivamente, con la sentenza n. 491 del 2017, in luogo di richiamare il proprio precedente e procedere all’annullamento degli atti impugnati, il TAR dichiara improcedibile il ricorso proposto da tale sig. Ad. Ro., in quanto gli atti impugnati erano stati annullati dalla sentenza n. 128; poi respinge il ricorso nella parte in cui Ad. Ro. aveva chiesto la condanna dell’ente locale, occupante del suo suolo, al risarcimento dei danni per occupazione illegittima. Per la

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Cons. Stato, Sez. IV, 23 luglio 2020, n. 4709, in Riv. Giur. Ed., 2020, I, 1320. È di tutta evidenza che il termine “indennità” si correla ad un danno giusto (non iniuria datum) di tal che non sarebbe appropriato definirlo in questa guisa.

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verità non si ravvede l’esistenza di un principio che comporti un effetto estensivo di una pronuncia di annullamento conseguito da soggetto in favore di un altro, il quale avrebbe anche potuto proporre motivi diversi da quelli che erano stati accolti nel primo giudizio15. Senonché, poiché il TAR non aveva accolto la domanda risarcitoria per “mancanza di prova”, tale decisione è stata gravata con atto di appello. In particolare, il giudice di prime cure aveva ritenuto non applicabile il criterio, invocato dal proprietario/ricorrente, dell’art. 42-bis del T.U. citato, assumendone la non pertinenza al caso di specie. La decisione in commento ha respinto il primo motivo, con il quale il ricorrente s’era lamentato della pronuncia di improcedibilità del ricorso introduttivo, senza esaminarne la fondatezza, sostenendo che il TAR s’era limitato ad asserire che il primo decreto di occupazione, pur impugnato, del 2009 era stato in un certo qual senso superato dal secondo decreto del 2010. Sicché il ricorrente avrebbe potuto rivolgersi al giudice (ordinario) dell’indennità ai sensi dell’art. 50 del T.U. Vero è che de minimis non curat praetor, però è anche vero che v’è da supporre il ricorrente avesse interesse a conseguire una sentenza tale da consentirgli di conseguire non l’indennità di occupazione legittima, ma il risarcimento del danno, sia pure per un periodo breve. Il secondo motivo, con il quale era stata dedotta l’erroneità della pronuncia del giudice di primo grado perché era stata negata al proprietario il risarcimento del danno arrecatogli da un decreto di occupazione pur dichiarato illegittimo, viene dichiarato inammissibile ed infondato. L’inammissibilità discende, secondo i giudici di Palazzo Spada, dal fatto che era stata allegata per la prima volta in appello una censura non articolata in primo grado, violando in tal modo l’art. 104 del c.p.a. Senonché, almeno secondo quanto si legge nella sentenza di appello, il ricorrente in primo grado, per dimostrare l’ammontare del danno ricevuto, aveva depositato sia una perizia estimativa, sia la copia di un’istanza di permesso di costruire, che era stata respinta dal Comune in quanto l’area risultava occupata per la realizzazione di un’opera pubblica. Sembra di comprendere che l’appellante in tal modo avesse cercato di dimostrare il danno subìto sia nella sua entità economica, sia nella possibile edificazione del suolo, atteso che l’ente locale non aveva respinto l’istanza per inedificabilità, ma a causa della impossibilità (momentanea) di realizzare il progetto. Ad ogni buon fine la sentenza scende anche ad esaminare il merito del mezzo di gravame e lo dichiara infondato per la ragione che l’impossibilità materiale di poter sfruttare l’area oggetto della procedura ablativa non avrebbe potuto essere addotta per ottenere il risarcimento del danno: non sarebbe stato dimostrato, in altre parole, l’“effettivo pregiudizio economico”. In ogni caso, il danno si sarebbe potuto attenuare, se non eliminare del tutto, potendo l’interessato, stante la restituzione dell’area, ripresentare il progettato intervento edificatorio. La risposta non convince.

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La giurisprudenza pare pacificamente assestata sul principio che solo l’annullamento di un provvedimento avente natura di atto generale, quale, ad esempio, un regolamento, possa avere effetti nei confronti di altro provvedimento.

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Non convince per la semplice ragione che non si ravvede quale possa essere lo strumento probatorio che il cittadino, che avanza un’azione risarcitoria, possa allegare per dimostrare di aver subìto il danno di cui chiede il giusto ristoro. Infatti, come visto, nel caso di specie, il ricorrente aveva depositato in primo grado una “relazione peritale di stima”, attestante il valore del suolo occupato, e in più un’istanza di permesso di costruire per un suolo verosimilmente edificabile. Non si vede cos’altro egli avrebbe potuto depositare e dimostrare. Poiché tali atti e documenti probatori sono stati ritenuti insufficienti, sarebbe stato onere del giudice, a mio avviso, riferire, motivatamente, quale altra tipologia di prova occorreva allegare. Insomma, si vuol dire che le sentenze del giudice amministrativo devono avere un effetto conformativo non solo per il futuro comportamento dell’amministrazione, ma anche per le future richieste che il privato coinvolto nella vicenda descritta, ritenendo di aver sofferto un danno, intenda promuovere un giudizio provando utilmente l’ammontare del pregiudizio subito. In caso diverso, la sentenza sembra assumere una motivazione monca; essa avrebbe dovuto così essere formulata: “non è sufficiente quello che hai provato, in quanto avresti dovuto dimostrare in quest’altro modo il danno che hai patito”. Qui non si intende richiamare la nota e nutrita giurisprudenza che ha approfondito, anche sulla scorta della letteratura giuridica, la distinzione tra danno-evento e dannoconseguenza. Se vogliamo aderire all’orientamento dominante16, dobbiamo escludere che l’occupazione dichiarata illegittima, ossia il fatto illecito, sia ex se produttiva di danno (conseguenza). Però, la giurisprudenza e la dottrina vengono incontro alla parte che, indubbiamente, ha un’immaginabile difficoltà di carattere probatorio per dimostrare in sede giudiziaria che la sottrazione del bene le abbia arrecato una diminuzione patrimoniale; e lo fa con l’invocabilità dell’istituto delle presunzioni. Ogni bene, a seconda della sua natura della sua qualità e delle sue potenzialità potrebbe incrementare il patrimonio del proprietario. Quindi, 1, 10 o 100 spetta al proprietario a meno che non si accerti che il bene in questione non possiede alcun valore apprezzabile di fatto e, quindi, giuridicamente. Di questo si parlerà di qui a poco. La sentenza in esame, tuttavia, lascia perplessi anche per altre ragioni. L’appellante aveva criticato la sentenza di primo grado, la quale aveva escluso di poter applicare il criterio o parametro equitativo del cinque per cento annuo sul valore del bene quale mancato godimento del bene stesso nel periodo in cui era stato illegittimamente appreso, in quanto tale criterio è previsto dall’art. 42-bis, comma 3 del T.U. espropri per l’acquisizione sanante, e non sarebbe operante per la fattispecie esaminata. Le perplessità emergono sia per ragioni di metodo, sia per motivi di merito. Quanto al metodo, la Sezione, dopo aver richiamato la nutrita giurisprudenza che ha applicato il criterio forfettario ed equitativo del 5%, ritiene, “dopo maturo esame e re melius perpensa”, che la “impostazione vada tuttavia rimeditata”, senza però sottoporre la que-

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Ex multis Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972.

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stione all’Adunanza plenaria. Invero, il codice del processo amministrativo, con l’art. 9917, ha vieppiù esaltato il ruolo nomofilattico della Plenaria, prevedendo che la Sezione, che intenda discostarsi da precedenti consolidati, possa non decidere la vertenza secondo la propria opinione, e con ordinanza esponga la propria opinione sottoponendola alla Plenaria stessa18. Vero è che la norma distingue la fattispecie della maturata opinione del contrasto con i precedenti (comma 1: “può rimettere”) da quella del dissenso con la soluzione adottata in precedenza dalla Plenaria (comma 3: “rimette a quest’ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”). Appare superfluo in questa sede illustrare le ragioni che hanno condotto all’istituzione di un organo giurisdizionale tenuto a dirimere i reali o virtuali contrasti che possono, anzi, è lecito19 che emergano tra le varie Sezioni ed anche all’interno della stessa Sezione su specifiche questioni. Ciononostante, è altresì vero che, in tal guisa, il legislatore ha cercato di conseguire una qual certezza del diritto che possa consentire a tutti gli operatori del diritto di conoscere l’orientamento giurisprudenziale prima di intraprendere un giudizio20. In caso diverso, si dovrebbe mettere in discussione proprio il ruolo e la funzione del giudice nomofilattico, che si chiami Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, Sezioni Unite della Cassazione o Sezioni Riunite della Corte dei Conti21. Ma anche le ragioni di merito non convincono. Innanzi tutto, il Collegio si chiede se sia configurabile una responsabilità risarcitoria ed in particolare un danno derivante dall’occupazione senza titolo di un fondo allorché il proprietario si sia limitato nel ricorso “ad allegare la mera lesione della facoltà di godimento del bene, senza ulteriormente specificare e descrivere i pregiudizi patrimoniali che da essa sono scaturiti”. In altre parole, si chiede il giudice d’appello se il fatto illecito (accertato per effetto ed a seguito dell’annullamento del decreto di occupazione) di per sé possa generare un pregiudizio patrimoniale, oppure occorra ulteriormente specificare e descrivere i pregiudizi scaturiti dal fatto illecito stesso. La domanda, a mio sommesso avviso, appare pleonastica. Il fatto illecito, ex se, è generatore di danno-evento, come detto sopra; una volta accertato, sarà il giudice a stabilire in quale misura il danno abbia prodotto una lesione nella sfera giuridica del danneggiato sulla base delle prove fornite, anche in via presuntiva, oppure in via subordinata, con ricorso all’equità. Essere proprietario di un bene significa poter tenere tutta una serie di comportamenti. Se taluno viola il diritto di proprietà appropriandosi della res sine titulo arreca di certo un danno, anche solo psicologico o morale, non esclusivamente patrimoniale

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Comma 1: “La sezione cui è assegnato il ricorso, se rileva che il punto di diritto sottoposto al suo esame ha dato luogo o possa dare luogo a contrasti giurisprudenziali, con ordinanza emanata su richiesta delle parti o d’ufficio può rimettere il ricorso all’esame dell’adunanza plenaria. L’adunanza plenaria, qualora ne ravvisi l’opportunità, può restituire gli atti alla sezione”. 18 Del resto, l’art. 374, comma 3, c.p.c., applicabile, a mio avviso ai sensi dell’art. 39 del codice del processo amministrativo (“rinvio esterno”), a quest’ultimo dispone: “Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”. 19 Art. 101, c. 1, Cost.: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. 20 Ovviamente, lascio da parte tutte le questioni in tema di révirement. 21 Sul ruolo nomofilattico della Plenaria si veda il bel volume di E. Follieri e A. Barone, I principi vincolanti dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sul Codice del processo amministrativo, Padova, 2015.

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o materiale, il cui ammontare potrà essere opportunamente dimostrato. L’effetto giuridico dell’apprensione indebita è sanzionabile dall’ordinamento, soprattutto se il soggetto che l’esegue viola i principi di legalità e di buona amministrazione cui per obbligo costituzionale deve ispirarsi la condotta della p.a. Insomma, non occorre dimostrare di aver subito un illecito se il provvedimento amministrativo è stato annullato, oppure se la sua efficacia è venuta meno. Dovrà invece essere dimostrato l’ammontare del danno. Alla domanda il Collegio dà risposta affermativa, giacché dichiara di voler condividere l’orientamento del Consiglio di Stato per quanto riguarda l’an, ciò in ragione della applicazione dell’istituto della presunzione semplice (art. 2729 c.c.), secondo cui la perdita del godimento del bene si traduce di regola nella perdita del valore d’uso di quel bene. Il motivato punto di frizione con il consolidato orientamento precedentemente assunto dal Consiglio di Stato – e, ancor prima, dalla Corte di Cassazione fin quando la giurisdizione in materia di risarcimento dei danni provocati da occupazione illegittima era assegnata al giudice ordinario – muove invece dall’analisi del comma 3 dell’art. 42-bis, il quale, come noto, statuisce un procedimento diretto all’acquisizione sanante al patrimonio comunale dei suoli occupati abusivamente ed ha uno specifico ambito di operatività avente un contenuto speciale che la sentenza in esame ritiene insuscettibile di applicazione analogica. Invero, essa esclude che il comma 3, che contempla le modalità di determinazione del quantum dovuto per il periodo di occupazione illegittima, possa estendersi ai casi in cui l’amministrazione, dopo aver detenuto illegittimamente il bene, lo restituisca. Anche questo passaggio motivazionale merita un’osservazione: il legislatore, con l’art. 43 prima e con l’art. 42-bis poi, ha introdotto una figura che, nel consentire il trasferimento del bene illecitamente detenuto, ne ha anche regolato i criteri di determinazione del risarcimento con riferimento ai principi generali dell’ordinamento. Oltre al danno non patrimoniale, commisurato nella misura 10% del valore venale del bene, ed al controvalore del bene, da quantificarsi alla data del trasferimento (ossia del provvedimento di acquisizione), egli ha statuito che debba essere corrisposta anche la somma relativa al mancato utile per tutto il periodo dell’occupazione illegittima. E quale parametro ha indicato quello che la tradizionale giurisprudenza22, sin dal 1865, ha utilizzato facendo riferimento agli interessi legali da calcolarsi sull’ammontare o controvalore del bene che il proprietario del bene stesso avrebbe ricavato quale mancato utile. Salvo che non si riesca a dimostrare – il che non è agevole – un danno superiore. Del resto, la seconda parte del comma 3 dell’art. 42-bis precisa che “Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma”.

22

Sul punto si rinvia a G. Landi e A Quaranta, Rassegna di giurisprudenza sulla espropriazione per pubblica utilità, Milano, Giuffré, 1973, p. 281 ss., che richiamano Cass., Sez. Un., 7 maggio 1948, n. 672; nonché a G. Leone e A. Marotta, Espropriazione per pubblica utilità, cit. p. 426 ss.

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Quindi, il parametro del 5% di cui al comma 3 dell’art. 42-bis non è l’applicazione di una norma speciale, ma, anzi, la conferma di un criterio forfettario ed equitativo che ha costantemente ispirato i giudici di merito e di legittimità investiti del problema. Essi, ben vero, erano investiti non di certo per la contestazione di questo criterio o parametro, di semplice applicazione, quanto per altri profili. Questo criterio empirico dettato dalla giurisprudenza del calcolo degli interessi legali23 fu scolpito da una nota sentenza delle Sezioni unite24, le quali sottolinearono che, poiché il proprietario dal momento dell’intervenuta occupazione perde ogni possibilità di sfruttamento, sia agricolo che edificatorio del suolo, l’indennizzo a titolo di occupazione deve essere determinato sulla scorta del criterio degli interessi legali sul valore del terreno in base alla sua concreta attitudine. La ratio del criterio di calcolo dell’indennizzo è individuabile, dunque, nel mancato reddito o utilizzo, sofferto dal proprietario a causa dell’indisponibilità del bene, ed il riferimento al saggio degli interessi si spiega con l’attribuzione all’avente diritto di una somma pari ai frutti civili che l’importo equivalente al controvalore del bene avrebbe prodotto se fosse stato corrisposto immediatamente. Insomma, a mio avviso il legislatore, nel 2011, allorquando ha scritto l’art. 42-bis non ha voluto far riferimento agli interessi legali, giacché in quel periodo erano ben miseri (1,5%), ma ad un criterio forfettario non agganciato tanto alla moneta, quanto al mancato utile che il bene avrebbe potuto produrre per la durata dell’occupazione. Se volessimo per un solo momento affermare che il criterio dell’indennità di occupazione (legittima quanto illegittima, salvo che in quest’ultimo caso sarebbe pur sempre possibile provare, come detto, un danno più significativo) oggi va ragguagliato al saggio legale degli interessi dovremmo veder riconoscere al proprietario di un suolo occupato lo 0,01, ossia riconoscere che il bene (occupato) non avrebbe in pratica fruttato alcunché. Con questo si vuol dire che una cosa è la politica monetaria nazionale e/o europea, che impone il saggio degli interessi legali a seconda dei momenti storici che attraversa il Paese, altro è il reddito ricavabile da un bene. La prova dell’assunto è rinvenibile nel diverso (e assai più rilevante) saggio degli interessi di mora che l’ordinamento prevede con l’art. 2 del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 (recante attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali). Debito di valuta e non debito di valore, peraltro. Dopo aver assodato e abiurato il parametro del comma 3 dell’art. 42-bis, ritenuto norma speciale, la sentenza in esame ritiene che vadano invece applicate “tutte le disposizioni riguardanti l’illecito aquilano” di cui all’art. 2043 c.c.; il legislatore, secondo la Sezione, ha dettato il criterio di quantificazione dell’indennità di occupazione legittima con l’art. 50, comma 1, ossia pari all’8,33% del valore del bene (“Nel caso di occupazione di un’area, è dovuta al proprietario una indennità per ogni anno pari ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell’area e, per ogni mese o frazione di mese, una in-

23 24

Cfr. Carbone, L’occupazione da istituto autonomo a momento del procedimento ablatorio, in Corr. giur., 1996, 915 ss. 15 marzo 1982, n. 1673, in Giur. it., 1983, I, 121.

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dennità pari ad un dodicesimo di quella annua”), e quello dell’indennità di occupazione illegittima nell’ambito dell’acquisizione sanante ex art. 42-bis (con il criterio del 5%); tuttavia esso non ha anche normato il criterio di determinazione dell’indennità o del risarcimento nel caso di restituzione del suolo occupato dovuto per un ripensamento sulla utilità dell’opera pubblica progettata o per altre ragioni. In questi casi, vanno applicati, secondo il collegio, gli articoli 2043, 2056 e 1226 del codice civile. Ossia, “esemplificativamente, potrà tenersi conto della maggiore o minore estensione dell’area occupata, della durata dell’occupazione, dell’uso che fino a quel momento ne aveva fatto il proprietario (se, ad es., è un imprenditore o un agricoltore o comunque è un soggetto che impiega o può impiegare proficuamente quel bene per scopi produttivi) oppure al bene stesso (destinazione urbanistica del bene occupato, il contesto territoriale e il tessuto economico in cui esso è inserito, la possibilità, in atto o in potenza, di adoperare quel bene per scopi economici o di svago)”. Posto che non esiste un solo criterio utile che consente di fare applicazione dell’equità, che si possa applicare il cd. valore locativo o il saggio legale annuale di interessi computato sul valore venale del bene, “anche per evitare il differimento della definizione della controversia, è preferibile che, in sede di liquidazione equitativa del danno, il giudice amministrativo quantifichi l’importo nel suo preciso ammontare (evitando così la fissazione di parametri più o meno determinati o comunque opinabili, la cui applicazione implica ulteriori insorgenze di controversie nella successiva quantificazione, se del caso, in sede di giudizio d’ottemperanza, pur se nulla vieta la fissazione di un parametro percentuale che possa tener conto dei tassi annui degli interessi legali)”, la sentenza ha ritenuto equo liquidare per tre anni e due mesi di occupazione la somma di euro cinquemila, giustificando tale importo perché “il pregiudizio lamentato è semplicemente quello relativo alla perdita del mero godimento del bene, non essendone stato (ammissibilmente e fondatamente) allegato uno più specifico; il bene in questione, al momento dell’occupazione e in precedenza, non era adibito ad alcun uso produttivo; il bene occupato non si prestava neppure ad usi di mero svago o diletto, trattandosi, come emerge dal verbale di immissione in possesso, di un fondo sul quale ‘insistono sterpaglie ed arbusti’; l’occupazione si è protratta per un tempo non eccessivamente lungo ed è stata seguita da una restituzione disposta in sede amministrativa; non rileva in questa sede la dedotta vocazione edificatoria; l’istanza per il rilascio del permesso di costruire non può rilevare quale possibile prova da far valere nel giudizio risarcitorio, non essendovi concreti elementi che inducano a ritenere che vi fosse una reale intenzione di procedere allo sfruttamento delle potenzialità edificatorie del fondo (e, d’altra parte, non risulta che dopo la restituzione del terreno, vi siano state iniziative in questo senso)”. Mi permetto di esprimere il mio dissenso da ciascuna e da tutte queste asserzioni. Innanzi tutto, ciò che il Consiglio di Stato reputa un’esemplificazione sulla maggiore o minore estensione dell’area e sulla durata dell’occupazione non sono parametri che ampliano o riducono il danno, ma “fattori” che danno poi luogo al “prodotto” della moltiplicazione aritmetica, che vanno a loro volta moltiplicati per un altro fattore, ossia il valore attribuito al bene secondo la scienza dell’estimo, che potrebbe valutare uno spicchio di terreno in misura assai maggiore rispetto ad un suolo avente una vasta ampiezza e vice-

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versa: dipende da cosa e da come il perito valuta il bene e l’incidenza del decreto di occupazione. La durata dell’occupazione, a sua volta, è soltanto un altro fattore dell’operazione aritmetica e non influisce sulla “qualità” del danno, che dipende dalla natura intrinseca del bene. Inoltre, alcuna influenza possono avere l’uso che il proprietario stesse facendo del suolo al momento della sua apprensione pubblica e la sua natura professionale (se sia costruttore o agricoltore), per la semplice ragione che il suolo stesso può trovarsi incolto per svariate ragioni: il proprietario per quell’anno ha deciso di effettuare il “riposo” sabbatico delle colture, oppure, venuto a conoscenza della dichiarazione di pubblica utilità, ha immaginato che fosse una spesa inutile coltivarlo25; oppure ancora il suolo è rimasto incolto in previsione di un suo prossimo utilizzo edificatorio. Alla stessa stregua nessuna influenza potrebbe avere la natura imprenditoriale o meno del soggetto: un agricoltore potrebbe, in conformità alla normativa urbanistica, voler sfruttare l’edificabilità del suo bene; ed al contempo un imprenditore edile potrebbe voler utilizzare il terreno per intraprendere una attività con un’azienda agricola. Contano, a mio avviso, e anche ad avviso della giurisprudenza maggioritaria, la natura del suolo, la destinazione impressa dallo strumento urbanistico, la presenza o l’assenza di vincoli: quello che, in altre parole, sia lecito realizzare. Va condiviso, invece, quanto la sentenza esprime sulla possibilità di calcolare il danno in base al parametro del valore locativo o sul saggio legale. Ma con la precisazione che ciò vale in astratto per quanto riguarda i tassi annui degli interessi legali, come sopra detto, giacché attualmente il tasso è dello 0,01%, rispetto a quello dello scorso anno che era dello 0,05%, ossia di gran lunga inferiore al 5% praticato sino al 31 dicembre 1998, che era parametrato dall’art. 1284 c.c. nella sua versione originaria (la prima modifica si ebbe con la legge n. 353/1990). L’aggancio della giurisprudenza all’art. 1284 citato non era una mera e formale osservanza di una norma civilistica, quanto l’indicazione di un parametro al quale ancorare la remuneratività della moneta. Senonché, trattandosi di obbligazione discendente non da un debito di valuta ma da un fatto illecito, è sembrato equo alla giurisprudenza, in ciò totalmente condiviso dalla dottrina, indicare il danno annuo nella misura del 5% del valore (monetario) attribuito al bene sottratto26. Pertanto, l’assunto di voler determinare il danno nella misura del tasso annuo degli interessi legali attuale, significa negare l’esistenza del danno-conseguenza e incentivare la proliferazione delle occupazioni illegittime. Il criterio del 5% adottato dal legislatore per l’acquisizione sanante non è niente altro che una mera ricognizione di quanto statuito dalla giurisprudenza in via presuntiva. Riconoscere una percentuale diversa e soprattutto inferiore (nonché un parametro equitativo) vuol dire operare non solo e non tanto una disparità di trattamento, ma incentivare l’amministrazione occupante a non avvalersi dell’art.

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Talvolta accade il contrario, nel senso che proprietario di un suolo agricolo, in previsione della prossima presa di possesso e della redazione del verbale di consistenza, monta in breve tempo serre e vasi di fiori per incrementare il valore del suo bene. 26 È noto che i canoni di locazione variano in misura notevole rispetto al bene da locare (abitazioni, industrie, negozi commerciali, uffici), alla zona ove è ubicato, alla tassazione più o meno favorevole, ecc.

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42-bis e a conseguire una condanna – meramente – risarcitoria, in quanto con l’acquisizione sanante (ossia con un provvedimento di natura di certo legittimante) viene assicurata la corresponsione di un importo calcolato nella misura del 5% sul valore del bene, mentre, se trattasi di condanna all’occupazione illegittima, senza sanatoria, la condanna potrà essere commisurata al tasso legale (0,01%) se non al criterio equitativo, che, come nel caso di specie, ha quantificato l’importo in 5.000 euro. È assai singolare che, con una sentenza quasi coeva27, la Cassazione ha riformato una sentenza della Corte d’appello di Venezia, la quale aveva riconosciuto il risarcimento del danno da occupazione illegittima adottando il criterio dell’equità, accogliendo il motivo del ricorso proposto dall’amministrazione (già) occupante, che aveva invocato il criterio (ovviamente per lei più favorevole) dettato dal comma 3 dell’art. 42-bis, ossia il 5%. Nella motivazione di quest’ultima pronuncia si legge che “Ove non si ritenga necessario uno sterile omaggio all’onere dell’allegazione in materia aquiliana, va quindi osservato che, quanto meno nella materia lato sensu inerente alle espropriazioni per pubblica utilità, la durata pluriennale delle occupazioni rende ardua anche la mera indicazione, che non sia meramente assertiva, delle destinazioni che il danneggiato avrebbe inteso dare al bene occupato da altri soggetti.” La conclusione alla quale pervengono i giudici di Piazza Cavour appare ineccepibile: “non potendosi escludere il simultaneus processus (davanti alla Corte di appello, in parte a seguito di impugnazione, in parte come giudice competente in unico grado) in relazione a pretese di natura indennitaria e risarcitoria relative a un’occupazione legittima divenuta illecita senza soluzione di continuità, il ricorso a un criterio valutativo che si avvalga della (sostanzialmente) medesima praesumptio hominis o iudicis si impone per evidenti ragioni sostanziali e procedurali.” Insomma, se inizia un processo per risarcimento del danno ed uno per opposizione all’indennità non appare coerente che per la valutazione dell’indennità di occupazione legittima e del danno da occupazione illegittima relativa allo stesso bene possa farsi ricorso a parametri diversi. Il Consiglio di Stato, nella decisione in esame, non convince neppure allorquando adotta il metodo equitativo (art. 1226 c.c.) della liquidazione del danno, quando quest’ultimo non può essere provato nel suo preciso ammontare. Ebbene, nella fattispecie in esame l’appellante, che aveva asserito di aver subito il fatto illecito, aveva pur depositato una stima peritale. Non si vede per quale ragione il giudice non ne abbia voluto tener conto, né sono state esternate le ragioni per le quali non abbia nominato, ai sensi dell’art. 65 e ss. del codice del processo amministrativo, un verificatore oppure un consulente tecnico di ufficio. Non si vede, infine, per quale ragione il Consiglio di Stato, dopo aver dichiarato che la fattispecie di causa della scadenza dell’occupazione, della restituzione dell’area occupata per non essere stata realizzata l’opera pubblica, non era stata disciplinata, abbia voluto far ricorso al criterio dell’equità (peraltro singolarmente utilizzato) e non ricorrere al principio

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7 settembre 2020, n. 18566.

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dettato dall’analoga (analogia legis, quindi) figura disciplinata dall’art. 42-bis, comma 3, che, nel por fine ad una situazione di illegalità, alla stessa stregua della restituzione, pur sempre detta il criterio di determinazione dell’indennità di occupazione (legittima ed illegittima), con l’unica variante dell’opera pubblica costruita (che, a questo punto, sarebbe l’elemento premiante per un criterio di determinazione del quantum di certo superiore. Le fattispecie attengono alla stessa materia, lato sensu espropriativa, medesimi sono i soggetti che si contrappongono amministrazione da un lato e proprietario dall’altro e medesimo è il bene (trasformato in un caso e intonso nell’altro). Ebbene in situazioni analoghe non si comprende il motivo di un trattamento differenziato e la necessità di ricorrere al criterio equitativo (che tale in definitiva non è). Non convince neppure l’assunto secondo cui è opportuno “evitare il differimento della definizione della controversia”. Sposare tale, sia pure astrattamente, giusta preoccupazione, dovrebbe condurre all’obbligo di decidere tutte le controversie risarcitorie affidando al giudice il potere di liquidazione del danno attraverso la valutazione equitativa. Insomma, tale metodologia si scontra con il principio di effettività della tutela che è caposaldo, oltre che del codice, dei principi di garanzia che il processo esprime. Secondo il costante insegnamento della giurisprudenza della Cassazione, giudice naturaliter del danno (ante legem n. 205/2000), al criterio di determinazione equitativa del danno è consentito ricorrere soltanto in presenza di un’impossibilità motivata dalla grande difficoltà di procedere all’esatta quantificazione del danno, non già per surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore28. Non sembra che fosse impossibile o materialmente arduo accertare l’ammontare del danno subito facendo ricorso alla scienza dell’estimo per la valutazione dell’intero fondo occupato e poi, sull’importo individuato, calcolare la percentuale relativa all’indennità di occupazione (illegittima). Soprattutto quando la giurisprudenza, nelle vertenze in materia di risarcimento del danno per occupazione illegittima, suggerisce da tempo i criteri che non possono essere abrogati per evitare il differimento della definizione delle controversie29. Ciò che colpisce di questa vicenda è stato anche l’ammontare risarcitorio liquidato dal Consiglio di Stato: euro 5.000 per tre anni e due mesi di occupazione illegittima, ossia poco più di centotrentotto euro al mese. Si dirà: il terreno era incolto (sul suolo, riferiscono i giudici amministrativi, insistono “sterpaglie ed arbusti”). Ma ciò non rileva. Viceversa, aveva ed ha rilievo il metodo di determinazione del criterio, che non può, a mio sommesso avviso, essere lasciato alla scienza del giudice, senza alcuna previa operazione estimativa degna di questo nome. Il paradosso al quale conduce la sentenza in esame è il seguente: sarebbe stato più utile per il proprietario ricorrere all’autorità giudiziaria ordinaria (Corte d’appello) chiedendo la condanna dell’ente (già) occupante al pagamento dell’indennità di occupazione legittima,

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Cfr. ex multis, Cass., 10 luglio 2003, n. 10850. Tra l’altro il processo di secondo grado sembra sia durato meno di tre anni.

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che, in osservanza dell’art. 50, comma 1, del T.U. espropri, è pari, per ogni anno, ad un dodicesimo di quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell’area. Per due anni di occupazione egli avrebbe percepito un sesto del valore del terreno. Secondo quanto leggesi nella sentenza di primo grado impugnata davanti al Consiglio di Stato (TAR Abruzzo, I, n. 491 del 2017, che aveva “esteso” l’annullamento disposto con la sentenza n. 128 del 2011 conseguita da un terzo soggetto), il suolo in questione trovasi in zona B12 del Piano regolatore generale di Teramo che, secondo quanto il curioso annotatore ha potuto accertare mediante lettura sul sito internet comunale, prevede un indice di edificabilità di mc 1,7/ mq. Il perito di parte aveva quantificato il valore del suolo in € 182,76 (ciò si legge nella sentenza): quindi, l’area occupata (mq. 1.378) valeva oltre 250mila euro. Il 5% annuo è pari a € 12.600 circa che, per i tre anni di occupazione danno oltre 37mila euro (mentre, se calcolati con l’8,33% – o in dodicesimo del valore – il risultato è di € 41 mila). Che è ben lungi dall’importo di cui alla sentenza in esame (5mila euro)30. Quale è la morale (c’è sempre una morale) derivante dalla vertenza in esame? Sarebbe inutile per coloro che si trovano nella medesima situazione di Nabot rivolgersi al giudice del risarcimento (peraltro affrontando tre giudizi, uno di annullamento e due – tra primo e secondo grado – di risarcimento) per cercare di far valere l’illegittimità di una occupazione d’urgenza (pagando anche un consistente contributo unificato); è preferibile, seguendo (solo in parte) l’esempio di Ornan, rivolgersi direttamente alla Corte d’appello per conseguire il giusto prezzo relativo all’indennità di occupazione legittima.

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È noto che ai sensi del comma 5 dell’art. 11 della legge n. 413 del 1991 su tale somma va operata una ritenuta del 20%.

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Luca Maria Tonelli

Le nuove Norme Integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale: fra recepimento della costante giurisprudenza in materia di interventi di terzo in giudizio, alcune importanti innovazioni e… non pochi rischi applicativi Sommario :

1. Premessa. – 2. L’intervento di terzi in giudizio nelle modifiche apportate alle Norme Integrative. – 2.1. Gli aspetti sostanziali: l’art. 4 delle “nuove” Norme Integrative – 2.2. Gli aspetti procedurali dell’intervento di terzi: la dicotomia degli interventi. – 3. L’art. 4-ter: l’amicus curiae. – 4. L’audizione degli esperti. – 5. La fissazione del numero degli avvocati per parte presenti nell’udienza pubblica per lo svolgimento in modo sintetico delle proprie conclusioni: il novellato comma 2 dell’art. 16 NI. – 6. L’applicazione al giudizio in via principale delle novità previste nel giudizio in via incidentale. – 7. Conclusioni.

Il presente contributo mira a ricostruire le principali innovazioni apportate alle Norme Integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale con la delibera dell’8 gennaio 2020, evidenziandone al contempo i non pochi rischi applicativi. The essay aims to reconstruct the main innovations made to the Supplementary Rules for judgments before the constitutional Court with the resolution of January 8, 2020, highlighting at the same time the many applicative risks.

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Luca Maria Tonelli

1. Premessa. Il 2020 ha rappresentato indubbiamente un anno di svolta per la fisionomia del giudizio costituzionale, in virtù delle modifiche apportate con la delibera dell’8 gennaio 2020 alle Norme Integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale1. L’anno passato ha costituito, altresì, il punto di arrivo di un lungo percorso di riflessione della Corte sul dibattuto tema degli interventi di terzi e degli amici curiae, su cui essa ha avuto modo di confrontarsi con la dottrina, organizzando il 18 dicembre 2018 un seminario dal titolo “Interventi di terzi e «amici curiae» nel giudizio di legittimità costituzionale delle leggi, anche alla luce dell’esperienza delle altre Corti nazionali e sovranazionali”2. Le modifiche alle Norme Integrative concernono, specificamente, l’ammissibilità degli interventi di soggetti terzi nel giudizio di legittimità costituzionale (art. 4), l’accesso da parte degli intervenienti agli atti del processo a quo (art. 4-bis), l’introduzione dell’istituto degli amici curiae (art. 4-ter), la possibilità di ascoltare in camera di consiglio esperti di chiara fama (art. 14-bis) e la fissazione (seppur non rigida) del numero degli avvocati presenti nella pubblica udienza per lo svolgimento in maniera sintetica dei motivi delle proprie conclusioni dopo la relazione (art. 16, secondo comma). Il comune denominatore di tali modifiche è costituito, per stessa ammissione del Giudice delle leggi, dalla volontà di aprirsi alla società civile3, per una giustizia costituzionale ispirata a una maggiore trasparenza degli aspetti procedurali e al dialogo con soggetti che possono fornire alla Corte medesima elementi utili per decidere su determinate questioni di particolare complessità4. Che la Corte costituzionale si sarebbe “aperta” alla società civile era chiaro5. Lo dimostrano soprattutto il “Viaggio nelle scuole” e il “Viaggio nelle carceri”6, con cui il giudice

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Pubblicata in Gazzetta Ufficiale, Serie generale, n. 17 del 22 gennaio 2020. Rileva Luciani, L’incognita delle nuove norme integrative, in Rivista AIC, n. 2/2020, 402, sub nt. 1, che la scelta di pubblicare, come già avvenuto in passato, le modifiche alle Norme Integrative sulla Serie generale, anziché sulla Serie speciale, riservata alle diverse pronunce giurisdizionali della Corte, sta ad indicare che «dell’attività normativa della Corte costituzionale si valorizza il primo aspetto (l’essere normativa) più del secondo (l’essere della Corte costituzionale)». 2 Così, fra i tanti, Grisolia, Le modifiche alle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, in Osservatorio sulle fonti, n. 1/2020, 6; Conti, La Corte costituzionale si apre (non solo) alla società civile. Appunti sulle modifiche apportate dalla Corte costituzionale alle norme integrative in data 8 gennaio 2020, ivi, 89; Lecis, La svolta del processo costituzionale sotto il segno della trasparenza e del dialogo: la Corte finalmente pronta ad accogliere amicus curiae e esperti dalla porta principale, in Diritti comparati, 23 gennaio 2020, 3; Luciani, L’incognita delle nuove norme integrative, cit., 403 e D’Atena, Sul radicamento della Corte costituzionale e sull’apertura agli “amici curiae”, in Consulta Online, numero speciale (2 luglio 2020), Liber amicorum per Pasquale Costanzo, 3. 3 Si v. il comunicato stampa della Corte costituzionale dell’11 gennaio 2020 dall’emblematico titolo “La Corte si apre all’ascolto della società civile”. Sul punto cfr. Ridola, “La Corte si apre all’ascolto della società civile”, in Federalismi.it, n. 2/2020, IV. 4 4 Mettono in evidenza tali finalità nell’apertura della Corte Finocchiaro, Verso una giustizia costituzionale più “aperta”: la Consulta ammette le opinioni scritte degli “amici curiae” e l’audizione di esperti di chiara fama, in Sistema penale, 23 gennaio 2020, 2 e Lecis, La svolta del processo costituzionale sotto il segno della trasparenza e del dialogo: la Corte finalmente pronta ad accogliere amicus curiae e esperti dalla porta principale, cit., 5-6. 5 Cfr. anche Luciani, op. loc. ult. cit. 6 Ivi, 404.

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costituzionale è voluto «uscire dal palazzo e incontrare il Paese reale»7, «per comunicare con il Paese, per conoscere e farsi conoscere»8. Le ragioni che hanno spinto la Corte a fare questo importante passo possono essere individuate, da un lato, nella volontà di «dare una risposta alle sempre più pressanti istanze di partecipazione che provengono dalla società civile»9 – necessaria in uno Stato di democrazia pluralista come il nostro – «rendendo più articolato e diretto il rapporto tra la Corte e cittadini»10 e, dall’altro, nell’obiettivo (ovviamente non dichiarato) di rafforzare la propria legittimazione e il proprio consenso nella società stessa11. Occorre ora esaminare le singole modifiche apportate dalla suddetta delibera dell’8 gennaio 2020 per comprendere quali innovazioni sono state apportate al giudizio di legittimità costituzionale e quali potrebbero essere, in concreto, i rischi nell’applicazione di tali modifiche.

2. L’intervento di terzi in giudizio nelle modifiche apportate alle Norme Integrative.

2.1. Gli aspetti sostanziali: l’art. 4 delle “nuove” Norme Integrative. L’art. 1 della delibera della Corte costituzionale di modifica delle Norme Integrative ha sostituito l’art. 4, concernente l’intervento di terzo in giudizio12. I primi cinque commi, nella nuova formulazione dell’art. 4, riprendono in realtà la disciplina previgente13: infatti, l’unica novità in questi commi sembrerebbe trovarsi nel terzo comma di detto articolo, ove è stato soppresso l’inciso che riserva alla Corte il potere di decidere sull’ammissibilità degli interventi14; tale inciso trova ora un’autonoma collocazio-

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Comunicato di Stasio, Responsabile della Comunicazione della Corte costituzionale, Il viaggio raddoppia e riparte dalle periferie. Comunicato stampa del 13 marzo 2019. 9 Grisolia, Le modifiche alle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 6. 10 Ibidem. 11 Si v., ancora, Grisolia, op. loc. ult. cit. e anche Masciotta, Note a margine delle nuove norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, ivi, 194. 12 Per un’ampia disamina, in generale, dell’intervento di terzo nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale si rinvia a Giuffrè, L’intervento di terzo nel giudizio costituzionale incidentale, in AA.VV., Studi in onore di Giuseppe Ragusa Maggiore, vol. I, Padova, 1997, 501 ss. 13 Si riporta il testo dei primi cinque commi dell’art. 4 delle NI, così come sostituiti dall’art. 1 della delibera dell’8 gennaio 2020: «1. L’intervento in giudizio del Presidente del Consiglio dei ministri ha luogo con il deposito delle deduzioni, comprensive delle conclusioni, sottoscritte dall’Avvocato generale dello Stato o da un suo sostituto. 2. Il Presidente della Giunta regionale interviene depositando, oltre alle deduzioni, comprensive delle conclusioni, la procura speciale rilasciata a norma dell’art. 3, contenente l’elezione del domicilio. 3. Eventuali interventi di altri soggetti hanno luogo con le modalità di cui al comma precedente. 4. L’atto di intervento è depositato non oltre venti giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’atto introduttivo del giudizio. 5. Il cancelliere dà comunicazione dell’intervento alle parti costituite». 14 L’inciso, espunto dalla Riforma delle NI del 2020, presente al terzo comma era così formulato: «[…] ferma la competenza della Corte a decidere sulla loro ammissibilità […]». 8

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ne nell’aggiunto sesto comma, dedicato esclusivamente al vaglio di ammissibilità di detti interventi15. L’innovazione vera e propria è rappresentata dal nuovo settimo comma posto a chiusura del citato articolo. Tale comma sancisce che «Nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio». Si tratta, in realtà, di una modifica più a carattere ricognitivo che a carattere innovativo16, dal momento che essa si limita a recepire e a formalizzare un orientamento consolidato della stessa Corte, in virtù del quale, nei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale, venivano ammessi ad intervenire solamente i «soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanzialmente dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura»17. Che si tratti di una modifica dal carattere più ricognitivo che innovativo, lo ha affermato lo stesso Giudice delle leggi, sostenendo, nella prima ordinanza successiva all’entrata in vigore delle nuove Norme Integrative, che «tale disposizione recepisce la costante giurisprudenza di questa Corte in merito all’ammissibilità dell’intervento nei giudizi in via incidentale di soggetti diversi dalle parti del giudizio a quo, dal Presidente del Consiglio dei ministri e del Presidente della Giunta regionale», rammentando che «in base a tale giurisprudenza, l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente deve derivare dall’immediato effetto che tale pronuncia produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo»18. La Corte, nell’adottare tale integrazione, sembrerebbe aver accolto la proposta avanzata da una parte della dottrina19, secondo cui, una tale interpretazione del previgente art. 4 nell’individuare chi possa intervenire in giudizio dovrebbe essere contenuta nelle Norme Integrative e non affermata in semplici, ancorché costanti, precedenti giurisprudenziali. Tale modifica appare necessaria anche ai fini della certezza del diritto: un conto è richiamare un indirizzo giurisprudenziale (anche se consolidato) nelle pronunce; altro è fare affidamento su una disposizione formulata in termini generali e astratti, che formalizza tale giurisprudenza costante. La scelta di disciplinare tale aspetto processuale nelle Norme Integrative appare, inoltre, coerente con l’ambito materiale proprio di tale fonte, cui spetta

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Art. 4, sesto comma, NI: «La Corte decide sull’ammissibilità degli interventi». Come ritiene la dottrina dominante: cfr. Conti, La Corte costituzionale si apre (non solo) alla società civile, cit., 79; Masciotta, Note a margine delle nuove norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 195; Finocchiaro, Verso una giustizia costituzionale più “aperta”: la Consulta ammette le opinioni scritte degli “amici curiae” e l’audizione di esperti di chiara fama, cit., 2; Luciani, L’incognita delle nuove norme integrative, cit., 418 e Pugiotto, Le nuove norme integrative della Corte costituzionale allo stato nascente, ivi, 431. 17 Si v., ex multis, Corte cost., sentt. n. 180 e n. 217 del 2018, n. 13 del 2019, e ordd. allegate alle sentenze n. 243 e n. 286 del 2016, n. 29 del 2017, n. 194 del 2018, n. 141 del 2019. 18 Corte cost., ord. n. 37 del 2020. Analogamente Corte cost., ordd. n. 111 e n. 202 del 2020. 19 Specialmente da Carnevale, Intervento, in Pizzorusso-Romboli, Le Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale dopo quasi mezzo secolo di applicazione. Atti del Seminario di Pisa del 26 ottobre 2001, a cura di Famiglietti-Malfatti-Sabatelli, Torino, 2002, 292. 16

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– ai sensi dell’art. 14, comma 1, e dell’art. 22, comma 2, della L. n. 87 del 1953 – integrare le norme processuali. La Corte, in tal modo, ha colmato la lacuna della disposizione di cui all’art. 25 della L. n. 87 del 1953, che non stabilisce i termini entro i quali l’intervento di un terzo nel giudizio costituzionale può considerarsi ammissibile20. La modifica in questione, dunque, non ha apportato sostanziali novità, giacché ha provveduto a recepire un indirizzo giurisprudenziale consolidato in materia di intervento di terzi. Non pare di potersi condividere, pertanto, le posizioni di quella parte della dottrina che ha visto in tali modifiche un «ampliamento dell’intervento nel giudizio incidentale»21 e la fine delle «non poche oscillazioni e [delle] molte incertezze che hanno contraddistinto le decisioni del giudice costituzionale»22. Non sembra, neppure, convincente l’assunto secondo cui «non è da sottovalutare l’introduzione di una definizione normativa dell’interesse che legittima l’intervento del terzo, poiché la positivizzazione consente alla Corte di interpretare la norma in senso più o meno restrittivo»23, dal momento che – come più volte detto – la disposizione di cui all’art. 4, settimo comma, si limita a recepire una giurisprudenza ormai consolidata nel tempo. Discorso diverso sarebbe stato se la Corte avesse formulato in maniera più dettagliata e specifica che cosa debba intendersi per «interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio». La modifica in esame merita qualche considerazione anche per ciò che non ha contribuito a modificare. Ci si riferisce, in particolare, alla persistente volontà di non ammettere, quali terzi intervenienti, le parti di altri analoghi giudizi, nel caso in cui il giudice decida di sospendere il giudizio in attesa della decisione della Corte costituzionale, anziché sollevare un’autonoma questione di legittimità costituzionale24. Ciò avviene perché a volte i giudici, per ragioni di economia processuale, preferiscono semplicemente sospendere il giudizio, aspettando che la Corte si pronunci, piuttosto che sollevare analoga ordinanza di rimessione alla stessa. Si tratta della cd. “sospensione impropria”25. La Corte appare restia ad ammettere tali interventi, poiché, in tali casi, – a parere della Corte stessa – verrebbe meno la natura

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Come ritiene anche Conti, op. ult. cit., 85. Così Ridola, op. loc. ult. cit. 22 Cfr. Grisolia, Le modifiche alle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 9. 23 Così Masciotta, op. loc. ult. cit. 24 Sul punto si v. amplius Luciani, op. ult. cit., 418 ss. Nella manualistica dedicata alla giustizia costituzionale si rinvia a Malfatti-PanizzaRomboli, Giustizia costituzionale, Torino, 2018, 122. In dottrina, inoltre, sono state avanzate esplicite proposte volte a modificare le Norme Integrative, affinché venissero considerati come terzi ammessi ad intervenire “chi, pur avendone titolo, non si era costituito nel giudizio a quo per una causa a lui non ascrivibile” e “chi, pur non avendo titolo per costituirsi nel processo a quo, sia titolare di un interesse sostanziale alla definizione della questione di costituzionalità, in quanto suscettibile di ricevere un pregiudizio dalla decisione stessa”: così Concaro-D’Amico, Proposte di modifica delle Norme integrative, in Pizzorusso-Romboli, Le Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale dopo quasi mezzo secolo di applicazione, cit., 459-460. 25 Cfr., ancora, Luciani, op. ult. cit., 419. Sulla cd. “sospensione impropria” nel processo amministrativo si v., per tutti, Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2018, 274. 21

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incidentale del giudizio costituzionale26, con la conseguenza che «l’accesso delle parti al detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo»27. Ma, in ragione delle avvenute modifiche alle Norme Integrative, il cui sostrato è rappresentato dall’apertura del processo costituzionale, e, in virtù del principio dell’utilità degli apporti al giudizio stesso da essa introdotto, quanto ritenuto dalla Corte non sembrerebbe essere del tutto corretto per due ordini di motivi. Il primo è che l’esclusione di siffatti interventi nel giudizio di costituzionalità comporterebbe una lesione del fondamentale diritto alla difesa ex art. 24 Cost., in quanto impedirebbe a soggetti direttamente coinvolti dalle vicende del giudizio a quo di poter far valere le proprie ragioni; il secondo, è che l’apporto che tali intervenienti potrebbero fornire al processo costituzionale sarebbe particolarmente qualificato proprio per la circostanza che essi sono direttamente coinvolti dalle vicende del processo a quo28. Una possibile soluzione a tale problematica potrebbe essere individuata in una interpretazione più sistematica delle Norme Integrative, le quali hanno introdotto la possibilità per gli amici curiae di presentare opinioni a condizione che offrano elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso. Parimenti, allora, in applicazione del principio di utilità degli apporti al processo costituzionale introdotto dalle Norme Integrative, dovrebbe essere consentito l’intervento dei terzi così come sopra identificati, i quali, grazie alla loro diretta conoscenza della questione, sarebbero assolutamente in grado di fornire utili contributi alla Corte costituzionale29. Quanto, invece, all’intervento in giudizio del Presidente del Consiglio dei ministri o del Presidente della Giunta regionale non è cambiato nulla30. L’art. 4, commi 1 e 2, riprende – come si è detto – la disciplina previgente. Non pare condivisibile, pertanto, l’opinione di una parte della dottrina, la quale ritiene ora che anche tali soggetti debbano dimostrare la titolarità di un interesse qualificato per poter essere ammessi al giudizio di costituzionalità31. Non è mancato, inoltre, chi – pur ritenendo non fondata una simile ricostruzione – ha sostenuto che «la tesi, invero, non manca di qualche aggancio testuale, quale la rinnovata collocazione topografica del comma 6 […] e del comma 7 (ora posto a chiusura dell’articolo, a rimarcarne la portata generale)»32. Osservando attentamente l’art. 4, però, si può notare come esso sia divisibile in due parti. La prima, costituita dai primi due commi,

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Così Malfatti-Panizza-Romboli, op. loc. ult. cit. Cfr. Corte cost., ord. allegata alla sentenza n. 272 del 2012. Il rischio sotteso è anche quello che la Corte possa stabilire quale sia il giudizio principale e prendere una decisione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza al posto del giudice a quo. 28 Luciani, op. ult. cit., 420. 29 Ibidem. 30 Così anche Pugiotto, Le nuove norme integrative della Corte costituzionale allo stato nascente, cit., 432. 31 Come, invece, ritiene Tani, La svolta Cartabia. Il problematico ingresso della società civile nei giudizi dinnanzi alla Corte costituzionale, in la costituzione.info, 18 febbraio 2020, 2. 32 Pugiotto, op. loc. ult. cit. 27

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riguarda gli interventi del Presidente del Consiglio e del Presidente della Giunta regionale. La seconda, invece, inizia con il comma 3, il quale testualmente recita che «eventuali interventi di altri soggetti hanno luogo con le modalità di cui al comma precedente». Qui si fa riferimento ad altri soggetti, ossia a soggetti diversi dal Presidente del Consiglio e dal Presidente della Giunta regionale. Pertanto, in base a tale divisione del predetto articolo, i commi successivi al terzo non possono far altro che disciplinare le modalità degli interventi di soggetti diversi sia dalle parti, sia dagli interventi del Presidente del Consiglio o di quello della Giunta regionale33.

2.2. Gli aspetti procedurali dell’intervento di terzi: la dicotomia degli interventi.

Da un punto di vista eminentemente procedurale, la delibera della Corte costituzionale in esame ha previsto, nella disciplina dell’intervento di terzo, un regime diversificato34, a seconda che il soggetto interveniente necessiti, ai fini del suo intervento, di prendere contezza sin da subito degli atti processuali del giudizio a quo, oppure no35. L’art. 4-bis NI prevede, infatti, che, qualora il soggetto che intenda intervenire in giudizio voglia prendere visione e trarre copia degli atti processuali, debba depositare, contestualmente all’atto di intervento, un’apposita istanza di fissazione anticipata e separata della sola questione riguardante l’ammissibilità dello stesso. Una volta depositata tale istanza, il Presidente della Corte, sentito il giudice relatore, fisserà con decreto una specifica camera di consiglio. Il cancelliere comunicherà immediatamente il decreto alle parti costituite e all’istante, i quali avranno dieci giorni di tempo dalla comunicazione dello stesso per depositare sintetiche memorie concernenti la sola questione dell’ammissibilità dell’intervento36. La Corte, all’esito della camera di consiglio, deciderà sull’ammissibilità o meno dell’intervento proposto con ordinanza. I terzi ammessi a intervenire potranno, dunque, consultare gli atti processuali e trarne copia prima della trattazione fissata per la decisione. Qualora, invece, l’interveniente non presenti l’istanza di fissazione anticipata e separata della sola questione concernente l’ammissibilità del suo intervento, continuerà ad applicarsi la precedente prassi, in base alla quale la decisione sull’ammissibilità dell’intervento sarà assunta in via preliminare all’udienza di trattazione del merito. In tal caso, il terzo

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Pugiotto per smentire la tesi che vuole che anche per gli interventi in giudizio del Presidente del Consiglio e del Presidente della Giunta regionale debba essere dimostrata la loro titolarità di un interesse qualificato preferisce richiamare le pronunce successive all’entrata in vigore delle nuove Norme Integrative. Cfr. Pugiotto, op. loc. ult. cit. 34 Parlano di regime diversificato degli interventi Luciani, op. ult. cit., 421-422 e Conti, op. ult. cit., 86. Luciani, inoltre, reputa che tali «meccanismi [siano] piuttosto barocchi» (ibidem). 35 La Corte costituzionale ha recepito la proposta sulla razionalizzazione delle modalità di accesso agli atti da parte dei terzi intervenienti avanzata in dottrina da T. Groppi. Si v. Groppi, Interventi di terzi e amici curiae. Dalla prospettiva comparata uno sguardo sulla giustizia costituzionale italiana, in Consulta Online, n. 1/2019, 139 ss. 36 Non pare che, al momento, le parti possano illustrare oralmente in camera di consiglio le proprie ragioni: così anche Conti, op. ult. cit., 88.

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interveniente potrà argomentare dapprima solo sull’ammissibilità del suo intervento; successivamente la Corte sospenderà l’udienza e si ritirerà per decidere circa l’ammissibilità dell’intervento in camera di consiglio, al termine della quale si pronuncerà con ordinanza37. Se l’ordinanza sarà di ammissione dell’intervento del terzo, quest’ultimo potrà chiedere alla Corte un rinvio per consentirgli di prendere visione degli atti processuali, cui finora non poteva avere accesso38. Nel caso in cui il terzo ammesso non chieda il rinvio, sarà ammesso a dedurre, alla ripresa dell’udienza, anche sul merito. È stato obiettato tuttavia in dottrina che tale differenziazione nella trattazione degli interventi di terzi «non appare ragionevole, perché è possibile ritenere che la Corte, sin dalla sua prima giurisprudenza in materia, abbia inteso riunire la decisione sull’intervento del terzo alla decisione sul merito per non privarsi sul piano sostanziale dell’apporto collaborativo che il terzo poteva consegnare alla decisione della questione di legittimità costituzionale»39. Verrebbe meno, in sostanza, quel contributo collaborativo e conoscitivo che rappresenta la cifra delle modifiche che la Corte ha apportato alle Norme Integrative, ispirate – come più volte ricordato – all’apertura della società civile. Ad ogni modo, anche questa modifica delle Norme Integrative appare più ricognitiva di una precedente prassi, che innovativa40. La novella, infatti, si limita a codificare quanto previsto nelle Istruzioni e direttive del Presidente della Corte costituzionale del 21 dicembre 2018 alla Cancelleria (prot. n. 61/B), con cui il presidente Lattanzi intendeva porre fine alla prassi, fino ad allora invalsa, che consentiva ai terzi, che chiedevano di intervenire, l’accesso agli atti del processo principale, prima della decisione, da parte della Corte costituzionale, sull’ammissibilità dell’intervento stesso41. Questa pratica ha fatto sì che anche gli interventi destinati ad essere successivamente dichiarati inammissibili entrassero a far parte del giudizio costituzionale, consentendo ai soggetti intervenienti di parteciparvi ufficiosamente, presentando memorie di intervento, consci che – nonostante una eventuale pronuncia di inammissibilità dello

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Così, ex multis, Luciani, op. loc. ult. cit. e Conti, op. ult. cit., 86. Come ricorda Luciani, op. loc. ult. cit. 39 Così Conti, op. ult. cit., 87. Luciani, inoltre, non comprende come mai la dottrina maggioritaria sia così scandalizzata dal fatto che veniva consentito, prima del provvedimento del Presidente della Consulta, ai soggetti intervenienti l’accesso agli atti processuali: è quello che accade normalmente nel processo amministrativo e nessuno se ne è mai lamentato (cfr. Luciani, op. ult. cit., 422). 40 Non pare di potersi condividere, pertanto, quella interpretazione avanzata in dottrina da Conti, La Corte costituzionale si apre (non solo) alla società civile, cit., 87 e qualificata “pignola” e “speciosa” dallo stesso autore, per cui la valutazione dell’ammissibilità dell’intervento del terzo da parte della Corte costituzionale sarebbe ora richiesta solamente per il terzo interveniente che intenda prendere visione e trarre copia degli atti processuali: in questo senso anche Pugiotto, Le nuove norme integrative della Corte costituzionale allo stato nascente, cit., 433. Per confutare una simile tesi, non occorre nemmeno scomodare la giurisprudenza sul punto successiva all’entrata in vigore delle nuove Norme Integrative, come fa – invece – Pugiotto, op. loc. ult. cit., poiché è sufficiente richiamare il sesto comma dell’art. 4 NI, che vale per ogni tipo di intervento di terzo (ovviamente diverso dal Presidente del Consiglio o dal Presidente della Giunta regionale). 41 Sintetizza la prassi precedente alle Istruzioni e direttive del Presidente della Corte costituzionale alla Cancelleria del 21 dicembre 2018, Lecis, La svolta del processo costituzionale sotto il segno della trasparenza e del dialogo: la Corte finalmente pronta ad accogliere amicus curiae e esperti dalla porta principale, cit., 3-4. La novella ha, dunque, il pregio – se non altro – di «rendere trasparente una pratica che per molto tempo si è collocata nella “zona grigia” del processo costituzionale»: così Masciotta, Note a margine delle nuove norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 197. 38

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stesso – gli atti di intervento sarebbero stati letti comunque dagli assistenti di studio dei giudici e forse anche presi in considerazione ai fini della decisione42. La scelta di emanare un simile provvedimento, anziché modificare le Norme Integrative o addirittura la L. n. 87 del 1953, aveva suscitato non poche perplessità in dottrina43, la quale non ha mancato di sottolineare il carattere “anomalo” di tale provvedimento, in quanto, con esso, veniva a delinearsi un “preoccupante” nuovo equilibrio fra il principio monocratico e il principio collegiale nell’assetto interno alla Corte, con conseguente rafforzamento del primo a discapito del secondo. La decisione di modificare le Norme Integrative – richiedendo, dunque, un coinvolgimento del collegio – parrebbe aver ripristinato la centralità del collegio e, pertanto, merita di essere salutata con favore. In conclusione, si può notare come la ratio sottesa alla novella che ha introdotto l’art. 4-bis sembrerebbe essere stata quella di salvaguardare e garantire la «riservatezza degli atti processuali»44, ratio che sembra essere assurta a principio generale di tutti i processi e, quindi, anche di quello costituzionale.

3. L’art. 4-ter: l’amicus curiae. L’introduzione dell’istituto dell’amicus curiae – previsto nell’art. 4-ter NI – rappresenta, forse, la novità più importante (e più discussa in dottrina) che ha prodotto la delibera dell’8 gennaio 2020 della Corte45. Si tratta di un istituto che affonda le proprie origini nel diritto inglese del XV secolo46. In tale ordinamento giuridico, l’amicus curiae si caratterizza (ancor oggi) per essere una figura che interviene spontaneamente nel corso di una controversia e il cui scopo è essere al completo servizio non delle parti, ma delle Corti, contribuendo a fornire ad esse utili e ulteriori elementi di conoscenza e di informazione. L’amicus curiae, pertanto, si contraddistingue per non avere alcun interesse nell’ambito della controversia dedotta in giudizio dalle altre parti e per offrire un valido aiuto nella risoluzione della controversia stessa47. Diversamente accade negli U.S.A., ove l’amicus curiae è considerato un soggetto che interviene in giudizio per condizionare la decisione della Corte. Nel sistema statunitense,

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Come ricorda Conti, op. loc. ult. cit. Così Ruggeri, Nota minima a riguardo di una procedimentalizzazione anomala dell’intervento del terzo nei giudizi di costituzionalità, in Consulta Online, n. 3/2018, 616. 44 Ritengono che questa sia la ratio sottesa al nuovo art. 4-bis NI, Finocchiaro, Verso una giustizia costituzionale più “aperta”, cit., 3-4 e Conti, op. ult. cit., 88. 45 L’inserimento dell’istituto dell’amicus curiae nel giudizio costituzionale è stato fortemente auspicato da una parte della dottrina: v., per tutti, Groppi, Interventi di terzi e amici curiae, cit., 136. Sull’amicus curiae, nella dottrina italiana, si rinvia a Barbisan, Amicus curiae: un istituto, nessuna definizione, centomila usi, in Rivista AIC, n. 4/2019, 115 ss. 46 Cfr. Masciotta, op. ult. cit., 198. 47 Ibidem. 43

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infatti, l’attività delle Corti (e quindi anche della Supreme Court) è influenzata molto dalle lobbies di associazioni, gruppi, enti esponenziali di categoria e ONG, che, grazie anche ai notevoli mezzi economici di cui dispongono, hanno l’obiettivo di far valere interessi privati nei giudizi in cui prendono parte48. La delibera dell’8 gennaio 2020 ha introdotto – come detto –, con l’art. 4-ter, l’istituto dell’amicus curiae nel giudizio di legittimità costituzionale, prevedendo che «entro venti giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità, possono presentare alla Corte un’opinione scritta». Le opiniones non devono superare le 25.000 battute, spazi inclusi, e devono essere tramesse al Giudice delle leggi tramite posta elettronica alla cancelleria, che deve confermare di averle ricevute sempre tramite posta elettronica. Il Presidente della Consulta decide sull’ammissione delle opiniones con decreto, sentito il giudice relatore. Il decreto del Presidente è comunicato dalla cancelleria, mediante posta elettronica, alle parti almeno trenta giorni prima dell’udienza o della camera di consiglio e deve essere pubblicato anche sul sito web della Corte. L’ultimo comma dell’art. 4-ter specifica, fugando ogni dubbio al riguardo, che «le formazioni sociali e i soggetti istituzionali le cui opinioni sono state ammesse con il decreto […] non assumono la qualità di parte nel giudizio costituzionale, non possono ottenere copia degli atti e non partecipano all’udienza»49. Occorre, innanzitutto, osservare che la scelta di prevedere un limite massimo di lunghezza delle opiniones trova il suo precedente nell’ordinamento statunitense, nel quale è previsto che gli scritti degli amici curiae non possano superare una certa lunghezza50. La dottrina italiana, sul punto, ritiene che tale previsione sia coerente con il principio della sinteticità degli atti processuali51, argomentando che uno scritto breve è più congeniale per non appesantire il lavoro dei giudici costituzionali e dei loro assistenti di studio52 e

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Sull’evoluzione del ruolo dell’amicus curiae negli U.S.A. si rinvia a Banner, The myth of the neutral amicus: American Courts and their friends, 1790-1890, in 20 Const. Commentary, 2003, 111. Sul pericolo di una trasformazione dell’amicus curiae in “inimicus curiae” si v. Pasetto, Stati Uniti, in Passaglia (a cura di), L’intervento di terzo nei giudizi di legittimità costituzionale, Roma, 2018, 88. Rileva il rischio di un «passaggio da un’‘amicizia neutra’ ad un’‘amicizia interessata’» anche Groppi, Interventi di terzi e amici curiae. Dalla prospettiva comparata uno sguardo sulla giustizia costituzionale italiana, cit., 127. 49 Sta in ciò la differenza sostanziale e processuale tra l’intervento di terzo e l’amicus curiae: l’intervento del terzo nel giudizio costituzionale mira a garantire il diritto di difesa di chi ha un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio; l’amicus curiae, invece, dovrebbe dare alla Corte contributi informativi e elementi utili per la risoluzione della controversia, avendo una funzione collaborativa e di supporto al giudice. Pertanto gli amici non divengono parti nel giudizio e non possono partecipare all’udienza. Mette bene in luce questa differenza tra i due istituti sopra richiamati Masciotta, op. ult. cit., 201. 50 Si v., ancora, Masciotta, op. ult. cit., 200. 51 Il principio di sinteticità degli atti processuali trova la sua massima espressione nel codice del processo amministrativo (D.Lgs. n. 104 del 2010), il cui art. 3, secondo comma, assegna al Presidente del Consiglio di Stato l’incarico di fissare il limite massimo della lunghezza degli atti del processo (previsti, da ultimo, nel decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 dicembre 2017, n. 167). Riguardo al limite delle 25.000 battute, spazi inclusi, per le opiniones degli amici curiae, vi è da chiedersi se ad esse si possa applicare, in via analogica, quanto previsto dall’art. 13-ter c.p.a., in virtù del quale il giudice non è tenuto ad esaminare la parte degli atti che eccede i limiti fissati dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato. 52 Finocchiaro, Verso una giustizia costituzionale più “aperta”, cit., 5.

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che, di solito, «chi ha qualcosa da dire non ha bisogno di scrivere molto per manifestare la propria opinione»53. Dal punto di vista soggettivo, legittimati a inviare le opinioni sono le «formazioni sociali senza scopo di lucro» e i «soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi». Si tratta – come è stato subito notato in dottrina54 – di una locuzione altamente generica e di amplissima portata, idonea a ricomprendere, oltre che le associazioni di categoria, i consigli professionali e le associazioni ambientaliste, anche i sindacati e i partiti politici. Secondo un’interessante analisi, inoltre, l’apertura della Corte alla società civile, tramite l’istituto dell’amicus curiae, dovrebbe estendersi fino a comprendere anche soggetti caratterizzati da una posizione di terzietà55, come – ad esempio – il Garante per la protezione dei dati personali o il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, qualora vi siano dei giudizi di legittimità costituzionale vertenti in tali ambiti. Ad ogni modo, le opiniones per essere ammesse nel giudizio devono fornire elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso56. Viene ora da chiedersi quale possa essere effettivamente l’apporto fornito dagli amici curiae. Che solo grazie ad essi la Corte possa ricavare preziosi ulteriori elementi non sembra essere affermazione del tutto corretta, dal momento che essa non vive affatto separata o isolata dalla società, quasi come in una bolla di sapone, ma è anzi in questa fortemente radicata57. Il Giudice delle leggi, inoltre, non ha certo bisogno di questo strumento per reperire e acquisire informazioni: la Corte dispone, infatti, di un Servizio studi altamente qualificato, di assistenti di studio, nonché di una amplissima rassegna stampa giornaliera da cui trarre elementi conoscitivi58. E si può sostenere, ancora, che le informazioni pervenute da questi soggetti possano essere tutt’altro che oggettive e imparziali, poiché essi potrebbero offrire visioni parziarie e soggettive dei fatti a loro più congeniali59. Dunque, anche con il contributo informativo che gli amici potranno dare, la Corte non è affatto

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Così Conti, La Corte costituzionale si apre (non solo) alla società civile, cit., 93. Contra Luciani, L’incognita delle nuove norme integrative, cit., 406, per il quale il fatto che «le “formazioni sociali senza scopo di lucro” e i “soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi” possono presentare solo un’“opinione scritta” di poche pagine (“25.000 caratteri, spazi inclusi”), […] può servire semplicemente a esplicitarne in forma di manifesto (da affiggere più nello spazio pubblico esterno che nell’aula d’udienza del Palazzo della Consulta) la loro posizione su una questione che li interessa, essendo assai difficile articolare in così poco spazio un ragionamento accurato su questioni complesse». Per Luciani, dunque, un apporto informativo così congegnato – che dovrebbe essere alla base dell’istituto dell’amicus curiae – non pare molto utile. 54 Luciani, op. ult. cit., 411-413 e Conti, op. ult. cit., 91-92. 55 Si v. Masciotta, Note a margine delle nuove norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 201. 56 Lo richiede – come detto – il terzo comma dell’art. 4 ter, che funge da filtro per le opinioni scritte presentate dagli amici. In questo modo la Corte ascolterà chi ha qualcosa da dire, solamente nel caso in cui essa stessa ritenga che chi ha presentato l’opinio meriti di essere ascoltato: così, anche, Conti, op. ult. cit., 92. 57 Luciani, op. ult. cit., 406. 58 Ibidem. Si può, allora, condividere quanto sostenuto da Conti, La Corte costituzionale si apre (non solo) alla società civile, cit., 9394, secondo cui «la possibilità di depositare opinioni per chi ha qualcosa da dire non serve tanto alla Corte per ottenere le opinioni di chi le deposita effettivamente con un atto stringato e che non ha bisogno neppure di un indirizzo di posta certificata per essere inviato. Servono soprattutto alla Corte per difendersi dai critici che parlano con il senno del poi, ai quali da qui in avanti potrà essere chiesto perché, se avevano qualcosa da dire, non lo hanno fatto, dal momento che avevano a disposizione uno strumento assai agile per farlo». 59 Ivi, 407, sub nt. 23.

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dispensata dal ricercare da sé le informazioni e gli elementi utili6060. Anzi, dovrà spendere molto più tempo a verificare la genuinità di quelle che provengono dai “suoi” amici. Questo rischio aumenterebbe nel caso in cui a presentare le opinioni dovessero essere i partiti politici: questi sono, per loro natura, alla ricerca di un consenso elettorale e di parte e, pertanto, poco attendibili in un giudizio che ha un impatto rilevante sulla tutela dei diritti61. La Corte dovrà anche poi difendersi dalle forti pressioni esercitate da questi soggetti, che cercheranno di trasformare «il processo costituzionale nella passerella di chi dovrebbe competere su palcoscenici diversi»62, col pericolo di ingenerare la convinzione che la pronuncia non sia altro che il risultato di «un arbitraggio fra contrapposte posizioni politiche»63. La disposizione, poi, in esame prevede al terzo comma che spetta al Presidente della Corte – sentito il giudice relatore – decidere sull’ammissibilità delle opinioni64. La decisione circa l’ammissibilità delle opiniones, dunque, è assunta inaudita altera parte. In questa fase non si ha un contraddittorio, perché le parti del processo non possono partecipare alla decisione e conseguentemente non possono contestare sia la legittimazione degli amici, sia la concreta utilità dell’apporto dato dagli “amici della Corte”65. È evidente come un simile potere attribuito al Presidente della Corte rappresenti un rafforzamento della figura del primus inter pares del collegio a discapito del collegio stesso66. Tale circostanza comporterebbe un’eccessiva esposizione del Presidente, che porterebbe con sé il rischio della personalizzazione67dell’Istituzione-Corte, con conseguente politicizzazione delle funzioni della Corte stessa. Da quanto detto, si evince come l’istituto dell’amicus curiae possa presentare notevoli rischi applicativi «in un contesto generale che tende alla polarizzazione, [dove] appaiono indispensabili accorgimenti che impediscano alla Corte di essere “catturata”, e finanche travolta, da tali tendenze»68, che potrebbero trasformare «la discussione fra i giudici in una passerella narcisistica o in una corrida politica»69o che, peggio ancora, potrebbero trasfor-

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Come, invece, ritiene Lecis Cocco-Ortu, L’allargamento del contraddittorio ai soggetti portatori di interessi collettivi nel giudizio incidentale: qualche riflessione a partire dall’esperienza francese, in Bocconi Legal Papers, n. 1/2013, 21. 61 Cfr. Luciani, L’incognita delle nuove norme integrative, cit., 412. 62 Luciani, op. ult. cit., 413. Ridola, “La Corte si apre all’ascolto della società civile”, cit., VII, ammonisce infatti che «l’apertura all’ascolto della società esige […] un giudice costituzionale molto forte, molto autorevole, capace di resistere ai venti e ai venticelli che ogni giorno rischiano di trascinarlo da una parte o dall’altra». 63 Luciani, op. loc. ult. cit. Ruggeri, La “democratizzazione” del processo costituzionale: una novità di pregio non priva però di rischi, in Giustizia insieme, 12 gennaio 2020, 5 del paper, ritiene che, con l’introduzione dell’istituto dell’amicus curiae, il rischio «è quello di esporre la stessa Corte a critiche strumentali che potrebbero indirizzarsi verso i suoi verdetti, ora da questa ed ora da quella fazione politica che punti ad asseverare presso una pubblica opinione culturalmente non attrezzata ed emotivamente esposta la tesi secondo cui il giudice non rimane insensibile alle suggestioni esercitate da gruppi di pressione, invitati a rappresentare il proprio punto di vista a mezzo di un breve scritto». 64 Conti, op. ult. cit., 91. Nello stesso senso Luciani, op. ult. cit., 411. 65 Così Masciotta, op. ult. cit., 200. 66 Come rilevano, ex multis, Luciani, op. ult. cit., 411 e Conti, op. ult. cit., 93. 67 Sulla personalizzazione del potere si v. l’interessante contributo di Pombeni, La personalizzazione della politica, in XXI secolo. Il mondo e la storia, direttore T. Gregory, Roma, 2010, 101-108. 68 Così Groppi, op. ult. cit., 142. 69 Luciani, op. ult. cit., 408.

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mare la Corte in un’agorà70. Per poter verificare la concretizzazione di tale rischio occorrerà valutare, nel tempo, l’esperienza applicativa di questa “apertura”.

4. L’audizione degli esperti. L’altro istituto di particolare interesse, introdotto dalla delibera della Corte dell’8 gennaio 2020, che sembrerebbe esprimere talune criticità, è rappresentato dall’audizione degli esperti71, disciplinata dall’aggiunto art. 14-bis. Tale articolo prevede che la Corte costituzionale, qualora ritenga necessario acquisire informazioni concernenti specifiche discipline, può disporre con ordinanza che vengano sentiti in camera di consiglio esperti di chiara fama, a cui le parti costituite possono – con l’autorizzazione del Presidente – rivolgere domande. La cancelleria della Corte avvertirà le parti dieci giorni prima di quello in cui si terrà la camera di consiglio. Questa innovazione è stata salutata con favore da molta parte della dottrina, che vede nell’audizione degli esperti un forte ampliamento dei poteri istruttori della Corte72, ponendola in condizione di acquisire conoscenze su questioni tecniche particolarmente complesse, utili ai fini della risoluzione della questione di legittimità costituzionale73. Altri, invece, sostengono che un simile mezzo istruttorio fosse già a disposizione della Corte stessa, in virtù dell’art. 13 della L. n. 87 del 1957, a mente del quale «La Corte può disporre l’audizione di testimoni e, anche in deroga ai divieti stabiliti da altre leggi, il richiamo di atti o documenti»: così l’audizione degli esperti non sarebbe altro che una particolare forma di testimonianza74. Tuttavia, ciò che solleva più di qualche perplessità è la collocazione di questo nuovo articolo. La scelta di inserirlo dopo l’art. 14 NI, disposizione riguardante la chiusura dell’istruttoria, sembrerebbe far intendere che l’audizione degli esperti di chiara fama costituisca un istituto completamente diverso rispetto all’assunzione delle prove disciplinate, per l’appunto, dagli artt. da 12 a 14 NI75. La decisione di disporre l’audizione, da quanto si evince, è attribuita al collegio. Ciò è in linea con quanto sancito dall’art. 12 NI, il quale prevede che la Corte, ossia il collegio, decida con ordinanza l’ammissione dei mezzi di prova, ma – al contempo – si discosta

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Come teme Ridola, op. ult. cit., VI. Un invito a prevedere tale istituto era stato avanzato da Marcenò, La solitudine della Corte costituzionale dinanzi alle questioni tecniche, in Quad. cost., n. 2/2019, 393 ss. 72 Sui poteri istruttori della Corte si v. Groppi, I poteri istruttori della Corte costituzionale nel giudizio sulle leggi, Milano, 1997; D’Amico, La Corte costituzionale e i fatti: istruttoria e effetti delle decisioni, in Riv. Gruppo di Pisa, n. 1/2017 e D’Amico-Biondi (a cura di), La Corte costituzionale e i fatti: istruttoria e effetti delle decisioni. Atti del Convegno di Milano del 9-10 giugno 2017, Napoli, 2018. 73 Così Masciotta, Note a margine delle nuove norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 201-202 e Iannuzzi, La camera di consiglio aperta agli esperti nel processo costituzionale: un’innovazione importante in attesa della prassi, in Oss. cost. AIC, n. 2/2020, 14. 74 Cfr. Luciani, L’incognita delle nuove norme integrative, cit., 415, sub nt. 64. 75 Così, anche, CONTI, La Corte costituzionale si apre (non solo) alla società civile, cit., 95. 71

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nettamente dal modello tipico previsto per l’istruttoria vera e propria, in quanto l’art. 13 NI assegna al giudice designato per l’istruzione, coadiuvato dal cancelliere che redige il verbale, il compito di assumere i mezzi di prova: nel caso dell’audizione degli esperti, invece, l’assunzione di tale mezzo di prova avviene davanti all’intero collegio riunito in camera di consiglio76. Le parti costituite possono essere presenti e, previa autorizzazione del Presidente, possono anche rivolgere domande agli esperti. In mancanza di un’esplicita previsione, si è posto l’interrogativo se gli altri giudici possano porre direttamente quesiti agli esperti. Parte della dottrina ha risolto positivamente il quesito, sostenendo che possa trovare applicazione, nel giudizio costituzionale, quanto avviene in via di prassi nel processo amministrativo, ove il giudice a latere comunica tramite il presidente del collegio77. Quanto all’identificazione degli “esperti di chiara fama” sorgono alcune questioni interpretative. In primo luogo, si è posto il problema di chi debbano essere tali esperti. Poiché la norma in esame si limita a stabilire che la Corte può, qualora lo ritenga opportuno, ascoltare esperti al fine di ricavare informazioni su «specifiche discipline», ci si è chiesti in dottrina se questi potessero essere anche dei giuristi specializzati nei vari campi del diritto78. Nel silenzio della norma e nella genericità della locuzione impiegata nell’art. 14-bis NI, la risposta potrebbe essere anche affermativa, sennonché nella Relazione della presidente Cartabia79 si legge che «la Corte può convocare esperti di chiara fama di altre discipline»: si tratta, a ben vedere, nell’intenzione della Corte costituzionale, di esperti provenienti da altre e diverse discipline rispetto a quelle giuridiche80. In secondo luogo, poiché tale nuovo istituto presenta innumerevoli punti di contatto con il potere istruttorio di cui è dotato il Bundesverfassungsgericht81, occorre interrogarsi se gli esperti da ascoltare possano essere esclusivamente persone fisiche oppure possano essere anche persone giuridiche, come – per l’appunto – accade nell’ordinamento tedesco82. Al momento sembrerebbe che la Corte sia più propensa ad interpretare la disposizione in senso restrittivo, ossia ritenendo che possano essere ascoltati solo espertipersone fisiche, ma non si può escludere che, in futuro, la Consulta possa aprire l’istituto

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Ivi, 94. Come propone Conti, op. loc. ult. cit. 78 In deroga al principio iura novit curia. V. Luciani, op. ult. cit., 416. Possibilista prima della Riforma delle Norme Integrative era Costanzo, Brevi osservazioni sull’amicus curiae davanti alla Corte costituzionale italiana, in Consulta Online, n. 1/2019, 122, il quale aveva avanzato la proposta di ascoltare esperti anche in materie giuridiche. 79 Cfr. la Relazione sull’attività della Corte costituzionale nel 2019, 3. 80 Come fa notare Luciani, op. loc. ult. cit. 81 Osservano questa analogia sia Masciotta, op. ult. cit., 202, sia Lecis, La svolta del processo costituzionale sotto il segno della trasparenza e del dialogo: la Corte finalmente pronta ad accogliere amicus curiae e esperti dalla porta principale, cit., 5. 82 Masciotta, op. loc. ult. cit. 77

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dell’audizione degli esperti anche a enti di ricerca, interpretando l’art. 14-bis in maniera più estensiva e più in analogia con quanto avviene in Germania83. Per poter essere ascoltati dalla Corte gli esperti devono essere di “chiara fama”. La disposizione, non fornendo alcun criterio di selezione, lascia un amplissimo margine di discrezionalità al collegio nella scelta dell’esperto, col pericolo che «sarà “esperto di chiara fama” quello che la Corte, per il tramite dell’invito, qualificherà come “esperto di chiara fama”»84. Si noti, inoltre, che l’art. 14-bis si guarda bene dall’impiegare il termine “consulente tecnico d’ufficio” o “perito”85, preferendo la più vaga e generica dizione di “esperto”: questa scelta lessicale forse si spiega per non dover così prevedere una consulenza tecnica di parte86. Come detto all’inizio del paragrafo, anche l’audizione degli esperti non è priva di rischi applicativi. Innanzitutto, perché la decisione di ascoltare un esperto anziché un altro non è priva di implicazioni, in quanto il Giudice delle leggi potrebbe esporsi alla critica «di aver optato per un indirizzo invece che per un altro sulla base di un pre-giudizio»87. La scelta di un esperto può, infatti, presupporre implicitamente l’adesione ad una certa visione, di cui quest’ultimo è espressione88. Invero, come è stato fatto notare da Marta Cartabia a proposito dell’uso parsimonioso dei mezzi istruttori da parte della Corte costituzionale, vi è un rischio nella «difficoltà ad individuare i soggetti qualificati a cui chiedere i dati necessari: poiché anche le conoscenze scientifiche e tecniche sono spesso controverse e sono esse stesse oggetto di divergenze di opinioni, nell’accingersi a chiedere informazioni la Corte fatica ad individuare soggetti

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83 Ibidem. Propone, invece, di avvalersi dell’apporto informativo delle «sedi collettive della ricerca» Iannuzzi, La camera di consiglio aperta agli esperti nel processo costituzionale, cit., 25. 84 Iannuzzi, op. ult. cit., 15. 85 Come, invece, avrebbe voluto una parte della dottrina favorevole a tale apertura: si v., per tutti, Marcenò, La solitudine della Corte costituzionale dinanzi alle questioni tecniche, cit., 404. Notano questa scelta di fondo della Corte costituzionale, anche, Masciotta, Note a margine delle nuove norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 202 e Finocchiaro, Verso una giustizia costituzionale più “aperta”: la Consulta ammette le opinioni scritte degli “amici curiae” e l’audizione di esperti di chiara fama, cit., 5. 86 Così espressamente Finocchiaro, op. loc. ult. cit. Rileva un problema di garanzia del contraddittorio Schillaci, La “porta stretta”: qualche riflessione sull’apertura della Corte costituzionale alla “società civile”, in Diritti comparati, 31 gennaio 2020, p. 5, dal momento che «alle parti non è data facoltà di interloquire con la Corte in merito alla scelta dei medesimi o, al limite, di proporre esse stesse la convocazione di esperti, fermo restando l’apprezzamento del collegio. Anche in questo caso, peraltro, una maggiore coerenza con il diritto processuale “comune” – il pensiero va, come ovvio, all’istituto della consulenza tecnica – avrebbe forse assicurato un maggiore equilibrio. Esistono materie nelle quali, infatti, l’estrema complessità tecnica si accompagna a una altrettanto estrema sensibilità sul piano etico, la quale può rinviare, non di rado, a contrapposte opzioni di principio suscettibili di incidere sull’approccio alle questioni oggetto di audizione. In mancanza, è inevitabile che l’apprezzamento della “chiara fama” degli esperti resti affidato alla responsabilità del collegio laddove invece una qualche forma di contraddittorio avrebbe forse potuto fornire elementi di maggiore garanzia». 87 Luciani, L’incognita delle nuove norme integrative, cit., 416-417. 88 In questo senso, oltre a Luciani, op. loc. ult. cit., anche Ridola, “La Corte si apre all’ascolto della società civile”, cit., VIII, il quale ritiene che l’audizione degli esperti «richiederà l’adozione di una prudente prassi applicativa, in particolare quanto ai criteri nella scelta degli esperti, al fine di garantire che si squaderni innanzi alla Corte e alle parti del giudizio un quadro il più possibile ampio, contraddittorio e realmente inclusivo, delle controversie scientifiche sul tappeto, sullo sfondo delle quali si intravedono spesso, ad esempio sui temi eticamente più sensibili, su quelli della bioetica o della finanza pubblica, conflitti identitari e religiosi, squilibri e diseguaglianze, sacche di marginalità e di discriminazione».

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neutri, disinteressati, non coinvolti nell’esito delle decisioni poste al suo esame»89. La mancanza di obiettività dei pareri degli esperti potrebbe, dunque, far sì che l’audizione degli esperti, anziché fornire alla Corte costituzionale un apporto significativo nelle questioni particolarmente tecniche, diventi un «campo di scontro tra opposti “ideologismi”»90. Bisogna aggiungere, infine, che l’audizione degli esperti, più che avvicinarsi alle verificazioni o alla consulenza tecnica d’ufficio, parrebbe somigliare molto di più alle audizioni nelle commissioni parlamentari91; ciononostante sembrerebbe esclusa una possibile sovrapposizione o confusione di ruoli col potere legislativo92, in quanto diverse sono le finalità di tali istituti. La Corte sarà chiamata ad utilizzare in modo molto attento tale strumento, altrimenti correrà il rischio di una possibile eccessiva politicizzazione delle sue pronunce o, quantomeno, il rischio che così vengano percepite dall’opinione pubblica.

5. La fissazione del numero degli avvocati per parte

presenti nell’udienza pubblica per lo svolgimento in modo sintetico dei motivi delle proprie conclusioni: il novellato comma 2 dell’art. 16 NI. La delibera della Corte dell’8 gennaio 2020 ha modificato anche l’art. 16, secondo comma, NI93. La previgente disposizione affermava che «dopo la relazione, i difensori delle parti svolgono in modo sintetico i motivi delle loro conclusioni». L’art. 4 della succitata delibera ha novellato tale comma, il quale ora prevede: «Dopo la relazione, i difensori, di regola non più di due per parte, svolgono in modo sintetico i motivi delle loro conclusioni». Si tratta di una piccolissima innovazione che – pur lasciando un certo margine di flessibilità (come testimonia l’inciso «di regola»)94 – ha, tuttavia, il pregio di porre fine alle oscillanti prassi derivanti dalle decisioni dei vari Presidenti sul numero dei difensori che possono svolgere in maniera sintetica le proprie conclusioni sulla questione oggetto del giudizio di costituzionalità95.

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Cartabia, Qualche riflessione di un giudice costituzionale intorno al problema dell’intreccio tra diritto, scienza e tecnologia, in BioLaw Journal, n. 1/2017, 11. 90 Tani, La svolta Cartabia. Il problematico ingresso della società civile nei giudizi dinnanzi alla Corte costituzionale, cit., 4. Nello stesso senso, seppur con toni diversi, Grisolia, Le modifiche alle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 10. 91 Come osserva Conti, La Corte costituzionale si apre (non solo) alla società civile, cit., 96. 92 Ibidem. 93 Sul punto si v. Luciani, op. ult. cit., 402, sub nt. 2; Conti, op. ult. cit., 96-97 e Finocchiaro, Verso una giustizia costituzionale più “aperta”: la Consulta ammette le opinioni scritte degli “amici curiae” e l’audizione di esperti di chiara fama, cit., 2. 94 Come nota Luciani, op. loc. ult. cit. 95 Per Conti, op. loc. ult. cit., questa modifica non fa che confermare l’idea «di un processo costituzionale che diventa sempre più conciso, in cui si è consapevoli che il principio di oralità può essere mantenuto solo se viene contenuto nei limiti della tollerabilità».

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6. L’applicazione al giudizio in via principale delle novità previste nel giudizio di legittimità in via incidentale.

L’art. 23 NI96 prevede che «nei giudizi regolati dal presente capo [ossia i giudizi di legittimità costituzionale in via principale di cui al Capo Secondo delle Norme Integrative] si applicano gli artt. 4, commi da 1 a 6, 4-bis, 4-ter, 5, 6, 7, 8, 9, commi 2, 3 e 4, e da 10 a 17». Tutte le novità introdotte con la delibera modificativa della Corte costituzionale riguardanti il giudizio di legittimità in via incidentale si applicano anche ai giudizi di legittimità costituzionale in via principale, con un’unica eccezione: non è richiamato, nell’art. 23, il comma 7 dell’art. 497. La ragione per cui tale comma dell’art. 4, concernente l’intervento del terzo, non è ritenuto applicabile ai giudizi in via principale, è che esso, come si evince dalla sua stessa formulazione, è stato pensato appositamente per il giudizio in via incidentale98. Non va dimenticato, inoltre, che il giudizio in via d’azione si caratterizza per essere un giudizio a parti esclusive, non essendo consentito – secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale – l’intervento di soggetti diversi dal ricorrente e dal resistente99. In generale, si può sostenere che – nonostante il richiamo operato dall’art. 23 NI ad alcune innovazioni introdotte, con la delibera dell’8 gennaio 2020, per i giudizi in via incidentale – il giudizio di legittimità costituzionale in via d’azione non cambierà molto. Il Giudice delle leggi ha affermato, di recente, che le «modifiche delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale apportate con la delibera di questa Corte dell’8 gennaio 2020 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 17 del 22 gennaio 2020), non incid[ono] (…) sui requisiti di ammissibilità degli interventi nei giudizi in via principale»100, confermando – in tal modo – che «la riforma delle Norme integrative non tocca la questione dell’allargamento del contraddittorio»101 in tale giudizio. Una simile scelta, tuttavia, non appare condivisibile. Se l’obiettivo della riforma delle Norme Integrative era quello di aprire al massimo il processo costituzionale, terzi compresi, non si comprende perché tale apertura dovrebbe

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Articolo così sostituito dall’art. 5 della delibera della Corte costituzionale dell’8 gennaio 2020. Invero si può osservare che l’art. 23 rende applicabili al giudizio in via principale sia l’art. 4, comma 6, sia l’art. 4-bis NI, per cui si potrebbe anche sostenere che gli interventi di terzi non sarebbero in astratto preclusi in tale giudizio: così anche Dal Canto, Il giudizio in via principale nella novella delle Norme integrative del gennaio 2020, in Consulta Online, n. 2/2020, 327 e Luciani, L’incognita delle nuove norme integrative, cit., 420, sub nt. 97. Nondimeno, la mancanza per tale giudizio di una norma analoga a quella prevista per il giudizio in via incidentale, ossia quella enunciata nel settimo comma dell’art. 4 NI, rende assai difficile una simile ipotesi (ibidem). Secondo Masciotta, Note a margine delle nuove norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 205, «è probabile che la Corte abbia escluso l’applicabilità di tale disposizione proprio perché il requisito dell’interesse qualificato avrebbe consentito l’intervento di Regioni co-interessate o contro-interessate alla decisione costituzionale nel giudizio in via d’azione». 98 Cfr. Conti, La Corte costituzionale si apre (non solo) alla società civile, cit., 97 e Dal Canto, Il giudizio in via principale nella novella delle Norme integrative del gennaio 2020, cit., 325. 99 Come ricorda Dal Canto, op. loc. ult. cit. 100 Corte cost., sent. n. 56 del 2020, punto 1.1 del Considerato in diritto. 101 Dal Canto, op. ult. cit., 327. 97

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essere consentita solamente nel giudizio in via incidentale e non anche in quello in via principale. Può benissimo accadere (ed è accaduto nei fatti) che Regioni terze possano avere un interesse ad intervenire in un giudizio in via principale in cui lo Stato impugni una legge regionale di contenuto identico ad una propria legge ovvero in un giudizio in via principale in cui ad essere impugnata è una legge statale ritenuta lesiva anche delle loro competenze. La Corte finora non ha mai ammesso un simile tipo di intervento, sostenendo che «nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale non è ammessa la presenza di soggetti diversi dalla parte ricorrente e dal titolare della potestà legislativa il cui atto è oggetto di giudizio contestazione»102. Anche per quanto concerne la possibilità di consentire agli Enti locali di intervenire in giudizio, quando nel giudizio in via d’azione vengano impugnate una legge dello Stato o una legge della Regione ritenute lesive delle sfere di attribuzioni loro costituzionalmente attribuite, il Giudice delle leggi ha ripetutamente ribadito che tale giudizio di legittimità costituzionale «si svolge esclusivamente tra soggetti titolari di potestà legislativa»103e che, pertanto, saranno, nel primo caso, le Regioni a impugnare la legge statale104; nel secondo sarà lo Stato a impugnare la legge regionale lesiva delle attribuzioni degli Enti locali, in virtù anche dell’art. 9, terzo comma, della L. n. 131 del 2003, il quale prevede che la questione di legittimità costituzionale possa essere sollevata dal Governo «anche su proposta della Conferenza Stato-Città e autonomie locali»105. Inammissibili continueranno a essere, anche, le richieste di intervento nel giudizio in via principale di soggetti privati, seppure tale giudizio abbia sempre più a che fare con la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali. Per loro non resterà che percorrere la strada aperta dall’art. 4-ter, qualora questi posseggano i requisiti per presentare le opiniones, cioè l’essere «formazioni sociali senza scopo di lucro» o «soggetti istituzionali portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità»106. Tuttavia, la chiusura mostrata dalla Corte soprattutto nei confronti degli interventi proposti dagli Enti locali, quando vengono impugnate leggi statali o regionali ritenute lesive delle sfere di competenza loro costituzionalmente attribuite, pare criticabile in un ordinamento che, a seguito della Riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001, si caratterizza per una forte valorizzazione del ruolo e delle funzioni degli Enti locali accanto

102

Cfr. Corte cost., sent. n. 219 del 2013, punto 4 del Considerato in diritto. L’ammissibilità di un intervento da parte delle Regioni cointeressate o contro-interessate nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale è stata caldeggiata in dottrina da Angiolini, Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, in Id. (a cura di), Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, Torino, 1998, 7 e da Gianfrancesco, L’intervento delle regioni terze e dei terzi interessati nel giudizio in via d’azione, in Angiolini (a cura di), Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, cit., 232. 103 Corte cost., sent. n. 220 del 2013, punto 4 del Considerato in diritto. 104 Sul tema si v. Corte cost., sent. n. 195 del 2019, punto 11 del Considerato in diritto: «le Regioni sono legittimate a denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali, indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale». 105 V. ancora Dal Canto, op. ult. cit., 326. 106 Ivi, 327-328.

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a quelle delle Regioni, a tal punto che – secondo alcuni – la forma di Stato italiana in senso verticale dovrebbe essere quella dello Stato policentrico delle autonomie107. Non aver colto l’occasione della modifica delle Norme Integrative per consentire agli Enti locali di intervenire nei giudizi in via principale, quando la questione di costituzionalità concerne aspetti di loro competenza, appare penalizzante nei confronti degli Enti locali stessi. Per ovviare a tale mancanza, sarebbe necessario che il Parlamento si faccia carico della questione e intervenga per risolvere la stessa.

7. Conclusioni. Le novità introdotte con la delibera della Corte costituzionale, fin qui esaminate, sollevano delle perplessità anche alla luce di alcune considerazioni di carattere più generale. Innanzitutto, una delle ragioni sottese alle modifiche delle Norme Integrative è stata quella di “aprire” le porte del giudizio di legittimità costituzionale a chi avesse qualcosa da dire. Se così è, non si comprende perché la Corte, da un lato si sia aperta alle opiniones provenienti dagli amici curiae e dall’altro, abbia chiuso inspiegabilmente la porta a quei soggetti che, pur avendo sicuramente qualcosa da dire, non sono stati dalla Corte stessa ammessi a intervenire in giudizio per il solo fatto che il giudice, nell’ambito di giudizi analoghi rispetto a quali sia stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, anziché sollevare un’autonoma questione di legittimità costituzionale, decida di sospendere il giudizio in attesa della decisione della Corte costituzionale. Parrebbe quasi un controsenso: i terzi esclusi, incolpevoli, che si trovano in tale situazione, non potranno contribuire a fornire al Giudice delle leggi quegli stessi contributi che esso va cercando dai “suoi” amici, con tutti i possibili rischi che si è cercato di evidenziare. Così come appare un’occasione persa il non aver approfittato della modifica delle Norme Integrative per consentire, in modo esplicito, alle Regioni terze co-interessate o contro-interessate di intervenire nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale In secondo luogo, problemi maggiori potrebbero porsi per quanto concerne l’apertura all’apporto informativo-conoscitivo che gli amici curiae e gli esperti di “chiara fama” potranno dare alla Corte. Una simile apertura da parte della Corte costituzionale non deve far pensare all’immagine di una Corte che vive completamente avulsa dalla realtà, risucchiata nel vortice dell’autoreferenzialità e che, pertanto, ha bisogno dell’aiuto fornito da soggetti istituzionali portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità e da formazioni sociali senza scopo di lucro o che, ancor di più, necessita dell’ascolto degli esperti. Non si dimentichi che, negli anni, la Corte ha dovuto affrontare innumerevoli

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L’espressione «Stato policentrico delle autonomie» è di Olivetti, Lo Stato policentrico delle autonomie, in Groppi-Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, Torino, 2001, 37 ss.

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questioni particolarmente scottanti, anche sul piano etico, come l’aborto108, la procreazione medicalmente assistita109e, da ultimo, il “fine vita”110, senza l’ausilio fornito dagli amici o dagli esperti, ausilio che oggi è previsto nelle Norme Integrative. Nel risolvere simili questioni, infatti, la Corte ha confidato nei propri mezzi e ha dimostrato di essere molto attenta ai temi sottostanti queste questioni così complesse. La suddetta apertura dovrebbe, dunque, costituire un possibile ulteriore approfondimento di conoscenze, comunque già in possesso della Corte. Inoltre, non bisogna dimenticare il rischio paventato da parte della dottrina, secondo cui l’apertura agli amici curiae, oltre a quanto già si è evidenziato nel § 3, rischierebbe di «precipita[re] la Corte non nel circuito mediatico, ma nel circo mediatico, costringendola a immergersi in una discussione pubblica imbarbarita, dalla quale, in questi ultimi anni, risulta davvero difficile uscire vivi»111. Il rischio più preoccupante, nel presente periodo storico, è quello che una “irruzione” degli interessi politico-sociali nel giudizio di legittimità costituzionale possa portare l’attività della Corte a uno «schiacciamento eccessivo […] verso il polo politico del suo operato»112. Occorrerà anche vedere quanto la Corte si avvarrà effettivamente della collaborazione offerta dagli amici e, soprattutto, quanto impiegherà il nuovo mezzo istruttorio dell’audizione degli esperti. L’uso così parsimonioso fino ad oggi dei mezzi istruttori di cui il Giudice delle leggi dispone113, non sembra far pensare ad un grande utilizzo anche di questo nuovo strumento. Andrebbe, pertanto, superata definitivamente la scarsa propensione della Corte nell’utilizzare i mezzi istruttori. Sarebbe meglio che la Corte facesse un uso più intenso dei poteri istruttori già esistenti, soprattutto in quei giudizi molto complessi, dove la Corte costituzionale dovrà assicurare effettivamente la tutela dei diritti e degli interessi legittimi114. Si può, altresì, osservare che l’apertura della Corte agli apporti provenienti dalla società civile perseguita con le “nuove” Norme Integrative avrebbe dovuto essere accompagnata dall’introduzione, anch’essa da tempo auspicata in dottrina, da parte del legislatore (costituzionale?)115dell’opinione dissenziente: si tratta di un istituto fondamentale in «una

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Cfr. Corte cost., sent. n. 27 del 1975. Si v. Corte cost., sentt. n. 151 del 2009, n. 162 del 2014, n. 96 del 2015, n. 229 del 2015 e n. 84 del 2016. 110 Corte cost., sent. n. 242 del 2019. 111 Così Luciani, Intervento al Seminario “Interventi di terzi e «amici curiae» nel giudizio di legittimità costituzionale delle leggi, anche alla luce dell’esperienza delle altre Corti nazionali e sovranazionali”, organizzato dalla Corte costituzionale il 18 dicembre 2018. 112 Così Pinardi, La Corte e il suo processo: alcune preoccupate riflessioni su un tema di rinnovato interesse, in Giur. cost., n. 3/2019, 1935. 113 Per un uso maggiore dei poteri istruttori nel giudizio costituzionale si è espressa Marcenò, La solitudine della Corte costituzionale dinanzi alle questioni tecniche, cit., 396 s. 114 Come da tempo si propone per i giudizi aventi per oggetto le leggi-provvedimento: così, fra i tanti, si v. Zammartino, Le leggi provvedimento nelle giurisprudenze delle Corti nazionali e europee tra formalismo interpretativo e tutela dei diritti, in Riv. AIC, n. 4/2017, 33 e, se si vuole, anche Tonelli, Il giudizio di legittimità costituzionale è adeguato a tutelare efficacemente i diritti e gli interessi legittimi lesi da una legge-provvedimento? Un confronto tra processo amministrativo e giudizio di legittimità costituzionale, alla ricerca del giudice che assicuri una effettiva tutela, in Gazz. Amm., n. 1/2020, 7. 115 Sulla scelta dello strumento normativo (Norme Integrative, legge ordinaria o legge costituzionale) più idoneo a introdurre la dissenting 109

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giustizia costituzionale “porosa” alle istanze della società»116, nella quale si ritiene essenziale «rendere pubbliche le posizioni dei giudici dissenzienti specie nei casi più discussi e controversi, dove sia più difficile comprendere il percorso seguito dalla Corte»117. Ma per arrivare a questo compiuto risultato, occorrerebbe prima superare quel primato che riveste il principio di collegialità che caratterizza il nostro sistema di giustizia costituzionale118, cui però la Corte costituzionale non sembra essere propensa a rinunciarvi119: come si suole dire «i giudici della Corte, come singoli, sono tutto nel collegio e nulla al di fuori»120. Resta da capire, anche, in che direzione stia andando il giudizio di legittimità costituzionale, ossia se si può ancora parlare di un giudizio di diritto oggettivo o se si stia trasformando in un giudizio di diritto soggettivo121. L’irrompere dei fatti nel giudizio di legittimità costituzionale, alla luce delle modifiche alle Norme Integrative, comporta che il giudizio costituzionale tuteli in via diretta anche le situazioni giuridiche soggettive, che costituiscono – però – l’oggetto del giudizio principale da cui scaturisce la questione di legittimità costituzionale. Cambia, dunque, la configurazione del giudizio sulle leggi. Tuttavia, così facendo, si corre il rischio di dimenticare la differenza ontologica che sussiste tra i due giudizi, quello principale e quello incidentale. Quello principale, incardinato davanti all’autorità giudiziaria, ha come finalità sua propria quello di tutelare in modo pieno ed effettivo le situazioni giuridiche soggettive oggetto della controversia, mentre quello incidentale, instaurato – a seguito del sollevamento della questione di legittimità costituzionale – davanti alla Corte ha il precipuo obiettivo di controllare la conformità della norma oggetto della questione di legittimità costituzionale rispetto alla Costituzione122. Se così è, allora pochi dovrebbero essere i fatti che entrano nel giudizio di legittimità costituzionale, ovverosia solo quelli strettamente necessari a verificare tale conformità. Da ultimo, occorre fare un cenno a quello che sembrerebbe essere l’intento di fondo (sia pure non espressamente dichiarato123) di questa modifica delle Norme Integrative,

opinion nel nostro sistema di giustizia costituzionale si v. Mortati (a cura di), Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e internazionali, Milano, 1964; Panizza, L’introduzione dell’opinione dissenziente nel sistema di giustizia costituzionale, Torino, 1998; Malfatti-Panizza-Romboli, Giustizia costituzionale, cit., 78-79 e Zagrebelsky-Marcenò, Giustizia costituzionale, II, Bologna, 2018, 45-46. 116 Così Ridola, “La Corte si apre all’ascolto della società civile”, cit., IX. Sulla dissenting opinion si cfr. il recente studio di Caravita Di Toritto, Ai margini della dissenting opinion. Lo «strano caso» della sostituzione del relatore nel giudizio costituzionale, Torino, 2021. 117 Grisolia, Le modifiche alle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 12. 118 Si v., sul punto, Zagrebelsky-Marcenò, Giustizia costituzionale, II, cit., 43 ss. 119 La Corte, riunendosi nel maggio del 2002, ha deliberato di non accogliere la proposta formulata dalla Commissione studi e regolamenti volta a introdurre l’opinione dissenziente. 120 Zagrebelsky-Marcenò, op. ult. cit., 45. Occorre, però, segnalare che è stata presentata alla Camera dei deputati, nell’attuale Legislatura, una proposta di legge (A.C. n. 2560) che modifica l’art. 18 della L. n. 87 del 1957, prevedendo la possibilità di esprimere un’opinione dissenziente rispetto a quella del collegio. 121 Qualifica il giudizio di legittimità costituzionale come un giudizio “concreto” Marcenò, op. ult. cit., 393-394. 122 Per il carattere oggettivo del giudizio di legittimità costituzionale propendono, fra i tanti, Andrioli, L’intervento nei giudizi incidentali di legittimità costituzionale, in Giur. cost., 1957, 282; Virga, Diritto costituzionale, Milano, 1979, 514; Romboli, Il giudizio costituzionale incidentale come processo senza parti, Milano, 1985, 55 e Paladin, Diritto costituzionale, Padova, 1998, 736. 123 Come rileva Luciani, op. ult. cit., 408.

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cioè quello di ricercare una legittimazione dell’operato della Corte costituzionale. Invero, tale legittimazione è già garantita alla Corte dalla Costituzione e dall’autorevolezza dei suoi giudici e delle sue pronunce e dall’essere il garante dei diritti e delle libertà fondamentali124. In conclusione, le modifiche apportate alle Norme Integrative potrebbero non essere prive di seri rischi applicativi, per cui non sembrerebbe superfluo l’auspicio di una parte della dottrina che la Corte non si lasci suggestionare dagli apporti che le saranno forniti sia dagli amici curiae, sia dagli esperti di chiara fama125, sebbene solo le prassi applicative potranno sciogliere i numerosi dubbi interpretativi.

124

Così anche Lecis, La svolta del processo costituzionale sotto il segno della trasparenza e del dialogo: la Corte finalmente pronta ad accogliere amicus curiae e esperti dalla porta principale, cit., 7. 125 Così, ex multis, Luciani, op. ult. cit., 413; Ridola, “La Corte si apre all’ascolto della società civile”, cit., VII; Ruggeri, La “democratizzazione” del processo costituzionale: una novità di pregio non priva però di rischi, cit., 5; Tani, La svolta Cartabia. Il problematico ingresso della società civile nei giudizi dinnanzi alla Corte costituzionale, cit., 4; Grisolia, Le modifiche alle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cit., 10 e D’Atena, Sul radicamento della Corte costituzionale e sull’apertura agli “amici curiae”, cit., 9.

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La formazione dello stato passivo davanti al giudice delegato tra esperienza e codice della crisi Sommario :

1. La legge delega 155/2017. – 2. Il principio di esclusività. – 2.1. Il terzo datore di ipoteca. – 2.2. La domanda del promissario acquirente. – 3. Sistemazioni teoriche e architettura bifasica. – 3.1 La natura del procedimento. – 3.2. La struttura del procedimento. – 3.3. La funzione del procedimento. – 3.4. L’oggetto del procedimento. – 4. I diversi ruoli dei protagonisti. – 5. La domanda. – 5.1. Gli effetti della domanda. – 6. Il ruolo del curatore. – 6.1. Il progetto di stato passivo. – 6.2. Le decadenze. – 7. Le prove nella fase sommaria. – 7.1. L’udienza davanti al giudice e lo sviluppo del contraddittorio incrociato. – 8. La decisione del giudice. – 8.1. Il decreto di esecutività dello stato passivo e gli effetti della decisione. – 9. Le domande di rivendica/restituzione. – 10. Conclusioni.

Il contributo analizza il procedimento di accertamento dello stato passivo secondo una logica diacronica mettendo a confronto l’interpretazione assunta nella legge fallimentare e le possibili varianti derivanti dal codice della crisi. The paper analyzes the procedure for ascertaining the passive state according to a diachronic logic by comparing the interpretation assumed in the bankruptcy law and the possible variants deriving from the crisis code.

1. La legge delega 155/2017. La legge delega 155/2017 ha dettato, in tema di formazione dello stato passivo, alcuni dei principi e criteri direttivi contenuti nell’art. 7 dedicato alla liquidazione giudiziale. In particolare, ha previsto “8. Il sistema di accertamento del passivo è improntato a criteri di maggiore rapidità, snellezza e concentrazione, adottando misure dirette a: a) agevolare la presentazione telematica delle domande tempestive di creditori e terzi, anche non residenti nel territorio nazionale, restringendo l’ammissibilità delle domande tardive; b) introdurre preclusioni attenuate gia’ nella fase monocratica; c) prevedere forme semplificate per le domande di minor valore o complessità; d) assicurare stabilità alle decisioni sui diritti

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reali immobiliari; e) attrarre nella sede concorsuale l’accertamento di ogni credito opposto in compensazione ai sensi dell’articolo 56 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267; f) chiarire le modalità di verifica dei diritti vantati su beni del debitore che sia costituito terzo datore di ipoteca; g) adeguare i criteri civilistici di computo degli interessi alle modalità di liquidazione dell’attivo di cui al comma 9”. Ai fini della formazione del passivo, però, torna utile evocare anche l’art. 2, lett. m) là dove si stabiliva: “m) riformulare le disposizioni che hanno originato contrasti interpretativi, al fine di favorirne il superamento, in coerenza con i principi stabiliti dalla presente legge”. Data questa tessitura normativa del legislatore delegante, sin dalla prima impressione, visto il decreto delegato 14/2019 e il c.d. ‘decreto correttivo’ 147/2020, emerge una sostanziale e diffusa non attuazione della delega1. Se poniamo in disparte, almeno per ora, il regime disciplinare delle domande tardive, il capo (a) non è stato attuato perché la presentazione telematica non è innovata; il capo (b) è stato ignorato sì che il sistema delle preclusioni, cui si avrà agio di tornare, è rimasto inalterato; il capo (c) non è stato neppure sfiorato; così pure il capo (e) ed il capo (g). Il legislatore delegato si è concentrato sul capo (d) scrivendo una disposizione con contenuto omissivo e si è invece impegnato prevedendo in più punti la regolazione del capo (f). Senza voler qui prendere posizione su un giudizio di valore, certo l’interprete resta sorpreso dalla scelta e, soprattutto, si interroga sulla ragione per la quale non si sia approfittato della clausola generale con cui si invitava il Governo a risolvere contrasti interpretativi. Le ragioni di queste perplessità sono plurime ma se si volesse sintetizzarle ben si potrebbe postulare che rimuovere incertezze normative sul procedimento di formazione dello stato passivo potrebbe produrre un rilevante beneficio perché la vocazione strumentale del processo non dovrebbe far ombra alla tutela dei diritti che, in questo caso, sono declinati nei diritti dei creditori, individualmente e come massa. Avere incertezze sul procedimento è fonte di aggravio temporale nello sviluppo della procedura concorsuale e sarebbe di gran lunga preferibile accettare una regola per quanto discutibile ma ferma, anziché fomentare discussioni che si snodino nei vari gradi del processo. Svolta questa premessa, procediamo con ordine e verifichiamo sistematicamente le novità del codice della crisi per poi concentrare l’attenzione sui profili applicativi più controversi che soluzione non hanno trovato. Però, per far questo sembra ancor più utile rispettare la sequenza normativa e trattare dapprima la vicenda del terzo datore di ipoteca, poi esaminare le questioni irrisolte in tema di procedimento dinanzi al giudice delegato ed infine trattare la questione degli effetti della decisione del giudice delegato anche al lume dell’art. 204 CCII che con una

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Sui principi della legge delega v., Bozza, L’accertamento del passivo nella procedura di liquidazione giudiziale, in Fallimento, 2016, 1063; sulla mancata attuazione v., Montanari, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: profili generali e processuali, in Riv. dir. proc., 2020, 270.

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veste omissiva dando attuazione alle delega ha inciso sulle decisioni che pertengono alle domande di rivendica/restituzione.

2. Il principio di esclusività. Per affrontare la questione della partecipazione al procedimento di formazione del passivo del titolare di un diritto di garanzia sui beni del terzo datore (di pegno o ipoteca) sottoposto a liquidazione giudiziale è necessario, dapprima, rammentare che quando si esamina il plesso normativo sullo stato passivo, siamo abituati a raccordare tali disposizioni con l’art. 52 l.fall., ora trasformatosi nell’art. 151 CCII. L’importanza di questa norma è a tutti nota perché essa esprime, nello stesso momento, il principio del concorso formale e del concorso sostanziale. Tutti coloro che vantano ragioni di credito verso il debitore (lemma utilizzato anche come sostitutivo di fallito) sono sottoposti al concorso sostanziale nel senso che la loro ragione di credito dovrà essere modulata secondo le regole della procedura, ad esempio in tema di interessi o di cause di prelazione. Questo principio, però, a dispetto di una certa utile semplificazione, merita di essere meglio precisato. Colui che ha maturato un diritto di credito verso il debitore è un creditore concorsuale che può divenire concorrente solo se decide di partecipare al concorso perché il principio di esclusività2 non significa anche obbligatorietà, sì che il creditore anteriore è libero3 di scegliere se aggredire il de-

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Cass., 21 gennaio 2014, n. 1115; Cass. 11 ottobre 2012, n. 17368; Cass., 5 agosto 2011, n. 17035; Cass., 4 settembre 2009, n. 19217, in Dir. fall., 2010, II, 286; in dottrina, in luogo di molti, D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2021, 226; Casa, Natura esclusiva del procedimento di verifica dello stato passivo, in Fallimento, 2020, 403; De Santis, Giudizio di verifica del passivo e pretese di tutela dichiarativa e costitutiva, in Fallimento, 2018, 666; Galletti, Il concorso nel fallimento, in Jorio (a cura di), Fallimento e concordato fallimentare, Milano, 2016, 1280; Spiotta, L’accertamento del passivo, in Jorio (a cura di), Fallimento e concordato fallimentare, Milano, 2016, 1978; Sanzo, Gli effetti del fallimento per i creditori, in Cagnasso-Panzani (diretto da), Crisi d’impresa e procedure concorsuali, Milano, 2016, 1090; Bozza, Lo stato passivo, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Jorio-Sassani, II, Milano, 2014, 615; Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, diretto da Vassalli-Luiso-Gabrielli, II, Torino, 2014, 383; BonfattiCensoni, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2011, 127; Nigro-Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2021, 188; Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2017, 190; Fauceglia, L’accertamento del passivo, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, diretto da Cagnasso-L. Panzani, Milanofiori-Assago, 2016, 1609; Tedeschi, L’accertamento del passivo, in Le riforme delle procedure concorsuali, a cura di Didone, Milano, 2016, 777; Rosapepe, L’accertamento del passivo, in Trattato di diritto fallimentare, diretto da Buonocore-Bassi, III, Padova, 2011, 55. 3 D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 227; Tedeschi, L’accertamento del passivo, in Le riforme delle procedure concorsuali, cit., 810; Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 385. Per Cass., 5 dicembre 2019, n. 31843, il creditore può convenire in giudizio il fallito personalmente, per chiederne la condanna al pagamento di un credito estraneo alla procedura fallimentare, purché dichiari espressamente di voler utilizzare il titolo, dopo la chiusura del fallimento, per agire esecutivamente nei confronti del debitore ritornato in bonis. Diversamente, per Cass., 4 ottobre 2018, n. 24156, l’accertamento di un credito nei confronti del fallimento è devoluta alla competenza esclusiva del giudice delegato ex art. 52 e 93 l.fall. con la conseguenza che, ove la relativa azione sia proposta nel giudizio ordinario di cognizione, deve esserne dichiarata d’ufficio, in ogni stato e grado, anche nel giudizio di cassazione, l’inammissibilità o l’improcedibilità, a seconda che il fallimento sia stato dichiarato prima della proposizione della domanda o nel corso del giudizio, trattandosi di una questione litis ingressus impedientes, con l’unico limite preclusivo dell’intervenuto giudicato interno, laddove la questione sia stata sottoposta od esaminata dal giudice e questi abbia inteso egualmente pronunciare sulla domanda di condanna rivolta nei confronti del fallimento; v., anche,

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bitore una volta che la procedura sia chiusa4. Difatti, se è ben vero che opera il principio di esdebitazione per tutti i crediti anteriori5, è anche vero che esistono delle ipotesi in cui l’esdebitazione non opera e in tali casi il creditore che è rimasto estraneo può confidare nel rivolgersi contro il debitore senza concorrere con altri su un patrimonio per un qualunque motivo non sia stato acquisito dal curatore. La questione è importante perché si riflette sulla regola della efficacia solo endoconcorsuale dell’accertamento del passivo. Se il creditore che vuole rimanere estraneo per agire contro il debitore ha bisogno di un titolo esecutivo può più facilmente conseguirlo in sede extraconcorsuale che utilizzare il risultato dello stato passivo per ottenere un decreto ingiuntivo (v. artt. 120 l.fall. e 236 CCII). Il concorso formale va, dunque, osservato quando il creditore vuol divenire un concorrente che ambisce ad essere soddisfatto sul patrimonio liquidato dal curatore. La norma che incardina il principio di esclusività è quella di cui all’art. 52 l.fall. (art. 151 CCII), tanto è vero che poi, in sede di riparto, nulla può essere ridiscusso quanto al credito ed al rango, potendosi solo operare la graduazione tra i crediti. Tali modalità sono espressive di un procedimento che serve al creditore per munirsi di un titolo per partecipare alle distribuzioni. Il provvedimento con il quale il giudice accoglie la domanda di ammissione al passivo ha l’efficacia di un titolo esecutivo sui generis, in quanto legittima quel creditore a beneficiare dei risultati della liquidazione e come si vedrà infra non può essere considerato un accertamento con contenuto condannatorio. Il principio di esclusività si estende anche al riconoscimento dei diritti – reali e personali – su beni – mobili e immobili – del debitore. Chiunque voglia pretendere la rivendicazione o restituzione di un bene apparentemente ricompreso fra quelli di cui è titolare il debitore deve proporre la domanda nell’ambito del medesimo procedimento di formazione dello stato passivo. Con il codice della crisi si è intervenuti su questa porzione della norma ai fini della efficacia del decreto di esecutività dello stato passivo, come si avrà agio di verificare, poi. Come è evidente, il medesimo procedimento è utilizzato sia per definire la massa attiva che quella passiva, posto che sono due vasi comunicanti: tanto più ampia è la massa attiva tanto maggiori sono le aspettative dei creditori, tanto è più ristretta la massiva passiva tanto maggiori sono le aspettative dei creditori e viceversa.

2.1. Il terzo datore di ipoteca. Ai fini che qui rilevano – cioè un confronto tra il principio di esclusività prima e dopo il codice della crisi – giova concentrare l’attenzione sulle due novità più eclatanti. dovendosi dar atto che nel passaggio dalla legge fallimentare al codice della crisi sono state

Bozza, Lo stato passivo, cit., 621. Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 814. 5 Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 1978. 4

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implementate le ipotesi di esclusività mentre non sono state aggiunte nuove fattispecie di esonero. L’art. 151 CCII ha come oggetto il principio di esclusività del procedimento di formazione dello stato passivo: tale principio risulta ribadito rispetto all’identico art. 52 l.fall., ma in verità deve reputarsi rafforzato posto che saranno attratte al procedimento anche le domande con le quali un creditore di un terzo (debitore principale) chiede di essere collocato nel riparto del debitore assoggettato alla liquidazione giudiziale e che abbia rilasciato garanzia reale. Infatti, l’art. 201 CCII prevede che “Le domande di ammissione al passivo di un credito o di restituzione o rivendicazione di beni mobili o immobili compresi nella procedura, nonché le domande di partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione di beni compresi nella procedura ipotecati a garanzia di debiti altrui, si propongono con ricorso ...”. Si tratta di una scelta che appare del tutto condivisibile per le ragioni a suo tempo enunciate6 e che trova ascendenza nel comma 8 dell’art. 7, L. n. 155/2017 là dove la delega stabilisce che “f) chiarire le modalità di verifica dei diritti vantati su beni del debitore che sia costituito terzo datore di ipoteca”; il delegante, però, ha dato al delegato una disposizione aperta che è stata risolta in modo opposto al formante, in allora, consolidato della Corte di Cassazione, secondo il quale era pacifico che la domanda di ammissione al passivo non fosse necessaria7. Un orientamento a ben vedere granitico divelto da una recentissima (e successiva rispetto al decreto legislativo delegato) decisione8. Nonostante tale decisione e la novella legislativa, non vi è ancora piena condivisione della nuova regola9, specie con riferimento alla questione del contraddittorio sull’accertamento della pretesa del “terzo non creditore”. Dato per scontato che il debitore assoggettato alla liquidazione giudiziale è il soggetto che ha costituito la garanzia (senza essere, al contempo, il debitore), e dato altresì per condiviso (art. 204, comma 5°, CCII) che l’accer-

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Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 1983; Fabiani, Il diritto della crisi e dell’insolvenza, Bologna, 2017, 173; Bozza, L’esclusività dell’accertamento del passivo, cit., 696; Inzitari, Effetti del fallimento per i creditori, in Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare, Bologna-Roma, 1988, 15 ss.; Falagiani, Il fallimento del terzo datore di ipoteca: l’accertamento dei diritti del titolare di prelazione, in Fallimento, 2016, 1225. 7 In luogo di molte, v., Cass., 30 gennaio 2009, n. 2429, in Fallimento, 2009, 1402; in dottrina, Caron-Macario, Gli effetti del fallimento per i creditori, in Trattato di diritto delle procedure concorsuali, Apice (diretto da), I, Torino, 2010, 455. 8 Cass., 10 luglio 2018, n. 18082; Cass., 20 novembre 2017, n. 27504; Cass., 9 febbraio 2016, n. 2540, in Fallimento, 2016, 1217, per la quale i titolari di diritti d’ipoteca sui beni immobili compresi nel fallimento e già costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito, non possono – anche dopo la novella dell’art. 52, 2º comma, l.fall., introdotta dal d.lgs. n. 5 del 2006 – avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo, di cui al capo V della l.fall., in quanto non sono creditori diretti del fallito e l’accertamento dei loro diritti non può essere sottoposto alle regole del concorso, senza che sia instaurato il contraddittorio con la parte che si assume loro debitrice, dovendosi, invece, avvalere, per la realizzazione delle loro pretese in sede esecutiva, delle modalità di cui agli art. 602-604 c.p.c. in tema di espropriazione contro il terzo proprietario”; Cass., 30 gennaio 2019, n. 2657, in Fallimento, 2019, 767, ha, invece, stabilito la regola contraria disponendo che l’accertamento del credito garantito avvenga sempre all’interno del procedimento di formazione dello stato passivo. Sennonché, successivamente, il giudice di legittimità è tornato sui suoi passi riaffermando la regola della esclusione dal procedimento di formazione dello stato passivo; v., Cass., 14 maggio 2019, n. 12816 e Cass., 12 luglio 2019, n. 18790, in www.iusletter.it. 9 Della Santina, L’accertamento del diritto ipotecario nel caso di fallimento del terzo datore, in www.ilcaso.it.; si limitano a prendere atto della nuova disposizione Cecchella, Il diritto della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2020, 312; D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 228.

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tamento produce effetto solo ai fini del concorso anche con riguardo al diritto di partecipare al riparto10, non v’è alcuna ragione di pretendere che al processo partecipi il debitore obbligato, in quanto la decisione sul diritto a partecipare al riparto produce effetti solo all’interno della procedura concorsuale di liquidazione giudiziale11. In questo caso non si forma nessun accertamento sul diritto di credito perché ciò presupporrebbe la presenza nel processo del debitore principale; si forma un accertamento sul diritto a prelevare nel riparto – solo ed esclusivamente sul ricavato del bene sul quale insiste la garanzia – una somma nei limiti del credito vantato verso il debitore principale; in tal senso non sembra condivisibile l’assunto per il quale andrebbe imposto il contraddittorio con il debitore principale12. Si è sostenuto che il diritto del garantito sussiste solo se il credito è scaduto verso il debitore principale e che, diversamente, il garantito potrebbe chiedere una separazione prenotativa13. La tesi è stimolante perché coglie il bisogno di evitare che con la liquidazione e la purgazione della garanzia, il ‘non-creditore’ possa perdere la garanzia, ma al contempo si corre il rischio di favorire una non voluta ‘ammissione con riserva atipica’14. La questione è delicata perché qui si giuoca, proprio, la permanenza della garanzia, tema che non si pone in caso di alienazione – secondo le regole del diritto privato – del bene, perché l’ipoteca segue la vicenda circolatoria. Ove il credito vantato verso il debitore principale non sia scaduto all’apertura del concorso del garante, il diritto al prelievo non sussiste; quando si giunge alla vendita del bene il creditore ha diritto alla comunicazione dell’avvio della procedura di liquidazione15 e così il garante avrà una ulteriore finestra temporale per far valere il diritto al prelievo con una domanda tardiva – senza che sia imputabile un ritardo16 –, ma se ancora non vi è titolo per agire contro il debitore principale ed

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Zulberti, Novità in tema di accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale: riflessioni a prima lettura, www.ildirittodegliaffari. it; Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1665 11 Pagni, Accertamento del passivo e revocatoria: efficacia preclusiva del decreto di esecutività, in Fallimento, 2010, 1392; Fabiani, L’efficacia dello stato passivo, in Fallimento, 2011, 1093. 12 La Corte, nella decisione 2540/2016, cit., ha esplicitamente affermato: “i creditori titolari di un diritto di ipoteca sui beni immobili compresi nel fallimento, costituiti in garanzia dei crediti vantati verso debitori diversi dal fallito, non possono avvalersi del procedimento di verificazione dello stato passivo, di cui al capo 5 della legge fallimentare, in quanto il terzo non è creditore diretto del fallito e l’accertamento dei suoi diritti non può essere sottoposto alle regole del concorso, senza che sia instaurato il contraddittorio con la parte che si assume essere sua debitrice, dovendosi essi avvalere, per la realizzazione dei loro diritti in sede esecutiva, delle modalità di cui agli articoli 602 e 604 c.p.c., in tema di espropriazione contro il terzo proprietario”. 13 Bozza, L’accertamento del passivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fallimento, 2019, 1210; ad una conclusione simile perveniva anche Cataldo, La verifica dell’ipoteca costituita dal fallito a garanzia di debiti altrui nel procedimento di formazione del passivo, in Fallimento, 2019, 771, là dove sosteneva che in sede di riparto dovesse essere disposto un accantonamento. 14 Infatti, per Cass., 18 agosto 2017, n. 20191, in sede di verificazione dello stato passivo, la domanda di rivendica di immobili e impianti non può essere oggetto di ammissione con riserva, posto che quest’ultima, in quanto atipica ed estranea alle ipotesi tassativamente indicate dall’art. 95 l.fall., anche qualora sia disposta dal giudice, va considerata come non apposta, dovendosi intendere il provvedimento giudiziale come di accoglimento pieno del diritto fatto valere. 15 Bozza, Lo stato passivo, cit., 706. 16 Per la condivisibile soluzione di ammettere la domanda tardiva anche dei garanti, pur senza un esplicito riferimento normativo v., Zulberti, Novità in tema di accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale: riflessioni a prima lettura, cit.; Saletti, La tutela giurisdizionale nella liquidazione giudiziale, in Dir. fall., 2018, 640. Parimenti, a me pare che se vi è ritardo incolpevole la somma già distribuita debba essere recuperata a favore del garante nei successivi riparti ma non contro i creditori che hanno incassato i pagamenti.

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occorre ripartire il ricavato non si può attendere oltre e il bene sarà comunque purgato17. Nell’ambito del rapporto che si costituisce fra il creditore garantito e il terzo obbligato, il curatore può sollevare tutte le eccezioni che pertengono al rapporto principale, in quanto la soggezione alla espropriazione presuppone l’esistenza di un debito. Risolta questa criticità, l’imperfezione della Riforma sta, anche, altrove perché sia l’art. 201 che l’art. 204 CCII prendono in considerazione solo la fattispecie dell’ipoteca, dimenticando che identica situazione vale per il terzo datore di pegno; questa omissione, però, deve poter essere colmata dall’interprete facendo ricorso all’analogia18 sussistendone tutti i presupposti, così come per le altre ipotesi di responsabilità senza debito19.

2.2. La domanda del promissario acquirente. Un’ulteriore estensione dell’esclusività del procedimento di formazione dello stato passivo si rinviene nell’art. 173 CCII nella parte in cui si prevede che al medesimo procedimento siano sottoposte le domande con le quali il promissario acquirente chiede alla curatela di dare esecuzione ad un contratto preliminare di compravendita pendente e avente ad oggetto il trasferimento di immobili destinati ad abitazione principale o a sede dell’opificio principale20. Su questa disposizione occorre intendersi: non vi è dubbio che presenta più profili di criticità che di efficienza21; ciò nondimeno, ai fini della ammissione allo stato passivo, la nuova disposizione intende trasferire nella sede della formazione dello stato passivo la pretesa del promissario acquirente di voler sottrarre all’attivo il bene oggetto del preliminare di vendita. Senza che sia qui decisivo ripercorrere un tracciato tanto faticoso quanto ondivago dei giudici di legittimità che ha reso necessario un duplice intervento delle Sezioni unite, occorre rilevare che l’idea da cui è stata partorita la norma era quella di attrarre – in virtù di un rafforzamento del principio di esclusività – alla verifica del passivo anche le domande ex art. 2932 c.c.22.

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Si ipotizzi che la garanzia acceda ad un mutuo trentennale e che il debitore principale faccia regolarmente fronte alle rate periodiche; non credo si possa immaginare di trattenere il ricavato per garantire il creditore ipotecario sino ad estinzione del mutuo. 18 Macagno, Accertamento dei diritti del titolare di garanzia nel fallimento del terzo datore: l’orientamento della S.C. non appare in sintonia con il Codice della crisi d’impresa, in Fallimento, 2020, 533. 19 Zulberti, Novità in tema di accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale: riflessioni a prima lettura, cit. Cfr., Cass., 31 maggio 2019, n. 14892 che ha reso omogenea la fattispecie del terzo vittorioso con l’azione revocatoria ordinaria alla fattispecie della garanzia sui beni di un terzo. 20 “Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 174, il contratto preliminare di vendita trascritto ai sensi dell’articolo 2645-bis del codice civile non si scioglie se ha ad oggetto un immobile ad uso abitativo destinato a costituire l’abitazione principale del promissario acquirente o di suoi parenti ed affini entro il terzo grado ovvero un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa del promissario acquirente, sempre che gli effetti della trascrizione non siano cessati anteriormente alla data dell’apertura della liquidazione giudiziale e il promissario acquirente ne chieda l’esecuzione nel termine e secondo le modalità stabilite per la presentazione delle domande di accertamento dei diritti dei terzi sui beni compresi nella procedura”. 21 Bozza, L’accertamento del passivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 1212. 22 Sulla estraneità alla formazione del passivo della domanda di esecuzione specifica del contratto v., Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 2005.

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In sostanza, si pone in disparte il solco segnato dalla giurisprudenza che faceva salvo il diritto del promissario acquirente se trascritto anteriormente al fallimento23 e lo si dirige verso la fattispecie del ‘preliminare generico’ (art. 172, 1° comma, CCII). Per il ‘preliminare speciale protetto’ (quello per la prima casa o per lo stabilimento produttivo), si stabilisce che il promissario acquirente può evitare lo scioglimento a due condizioni: (i) che il contratto sia stato trascritto e che gli effetti della pubblicità legale non siano esauriti; (ii) che il promissario acquirente manifesti la volontà di esecuzione del contratto presentando la domanda di accertamento del diritto contro la massa dei creditori. Ragionevolmente, questa opzione deve consolidarsi nel termine stabilito per la presentazione delle domande tempestive24; la soluzione, se si vuole macchinosa, ha un pregio, quello di portare dentro la procedura di concorso una pretesa idonea a pregiudicare gli altri creditori per effetto della sottrazione di un bene dall’attivo. La soluzione, per quanto un poco ‘pasticciata’ sembra allinearsi a quel filone giurisprudenziale più recente che vuole attrarre al concorso formale anche le azioni di risoluzione ‘quesite’ prima del fallimento25, da intendersi comprensive sia della vicenda demolitiva-negoziale sia della vicenda restitutoria.26 Mentre per il preliminare generico si richiede che l’iniziativa sia stata avviata prima della liquidazione giudiziale con tutte le formalità di cui agli artt. 2932 c.c. e 145 CCII, nel caso del preliminare speciale protetto, il promissario acquirente può far valere il suo diritto alla esecuzione specifica del contratto anche per la prima volta in corso di liquidazione giudiziale, ma proprio perché non lo ha fatto prima, allora deve transitare per il procedimento di formazione del passivo, nel quale caso il curatore dovrà valutare se il contratto ha i requisiti di cui all’art. 173 CCII e se la trascrizione dell’atto è ancora efficace.

3. Sistemazioni teoriche e architettura bifasica. Prima di passare in rassegna il regime disciplinare del procedimento sommario, e più precisamente, in funzione di verificare il rapporto fra poteri delle parti e poteri del giudice

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Cass. s.u., 7 luglio 2004, n. 12505, in Foro it., 2004, I, 3038; Cass., s.u., 16 settembre 2015, n. 18131, in Foro it., 2015, I, 3488. Bozza, L’accertamento del passivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 1213. 25 Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 1981; v., Cass., 7 febbraio 2020, n. 2990, secondo la quale l’art. 72, 5° comma, secondo periodo l.fall. postula – anche alla luce dei principi di specializzazione, concentrazione e speditezza sottesi agli art. 24 e 52 l.fall., nonché del contraddittorio incrociato tipico del procedimento di accertamento del passivo – che la domanda di risoluzione proposta prima della declaratoria fallimentare, se diretta in via esclusiva a far valere le consequenziali pretese risarcitorie o restitutorie in sede concorsuale, non può proseguire in sede di cognizione ordinaria, ma deve essere interamente proposta secondo il rito speciale disciplinato dagli art. 93 e ss. l.fall.; deve parimenti essere esaminata e decisa dal giudice fallimentare la domanda di risoluzione che costituisca antecedente logico-giuridico della domanda di risarcimento o restituzione, non essendo applicabile in via analogica l’istituto dell’ammissione con riserva ai sensi dell’art. 96, n. 1 e n. 3, l.fall., né potendosi disporre la sospensione necessaria ai sensi dell’art. 295 c.p.c., in attesa della decisione della causa pregiudiziale di risoluzione in ipotesi proseguita in sede di cognizione ordinaria; Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1613. 26 Cass., 7 febbraio 2020, n. 291, in Fallimento, 2020, 772; Montanari, I rapporti tra fallimento e risoluzione giudiziale pendente nella nuova prospettiva della Suprema Corte, in Fallimento, 2020, 777; Id., Sulla translatio in sede di verifica del passivo dell’azione di risoluzione contrattuale pendente alla data del fallimento, in Fallimento, 2013, 1391. 24

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(delegato) è opportuno offrire una succinta sistemazione teorica del procedimento che si concentri sulla natura, sulla struttura, sulla funzione e sull’oggetto nella fase che si svolge davanti al giudice delegato.

3.1. La natura del procedimento. La natura del procedimento è sempre stata vivacemente dibattuta e ciò per una ragione molto semplice; prima della riforma del 2006, il procedimento si svolgeva davanti al giudice delegato ma senza una vera e propria contrapposizione fra parti, in quanto il curatore partecipava al procedimento come mero ausiliario del giudice; in tale contesto vi erano non poche voci che contestavano la natura contenziosa del procedimento e si discorreva di fase amministrativa o di volontaria giurisdizione. Una volta mutata la tessitura normativa è agevole prendere atto della piena natura contenziosa del procedimento, rivelata da una serie di indizi e, prima ancora, dal netto confronto con il procedimento di formazione dello stato passivo nella liquidazione coatta amministrativa. Nella l.c.a. la prima fase non si svolge davanti ad un giudice e non vige il principio della domanda, perché lo stato passivo viene formato d’ufficio (sulla base delle risultanze documentali contabili) dal commissario liquidatore. L’autorità giudiziaria interviene solo in un momento successivo ed eventuale. Viceversa, nel procedimento di accertamento dei crediti nel fallimento ritroviamo tutti i connotati tipizzanti la classica tutela contenziosa27 propria dei giudizi ordinari di cognizione. (i) Il procedimento si svolge davanti ad un giudice, sin dal primo momento; un giudice che decide da una posizione di terzietà ed imparzialità28, sia perché sono largamente venute meno le commistioni fra funzioni gestorie e funzioni giurisdizionali del giudice delegato, sia perché i poteri decisori che gli sono riconosciuti si saldano con quelli che spettano al giudice nelle controversie ordinarie. (ii).Il procedimento inizia con la proposizione di una domanda di parte e la domanda ha il contenuto e produce gli effetti della domanda giudiziale (art. 94 l.fall., art. 202 CCII). Non si tratta di una mera istanza volta a richiedere al giudice di provvedere, ma di una domanda giudiziale sulla quale il giudice ha il dovere di provvedere. (iii).Il giudice nel provvedere deve attenersi ai principi fondamentali del processo civile e in particolare deve rispettare il principio dispositivo (art. 112 c.p.c.)29. La sua decisione è modulata all’interno di un perimetro composto da una parte dalla domanda e dall’al-

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Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1636; Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 1993; Bozza, Lo stato passivo, cit., 602. Ma, v., in senso contrario, Tiscini, I provvedimenti decisori senza accertamento, Torino, 2009, 202, ad avviso della quale predicarne la natura contenziosa imporrebbe una serie di rigidità che compromettono l’efficienza del procedimento. 28 Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1655; Rosapepe, L’accertamento del passivo, cit., 60. 29 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 453.

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tro dalle eccezioni che possono sollevare le parti. Come un qualunque altro giudice può poi sollevare le eccezioni rilevabili d’ufficio. (iv).Il curatore riveste la posizione di parte processuale in senso proprio. Può (rectius, deve) sollevare le eccezioni in senso stretto (cioè quelle riservate alla esclusiva iniziativa di parte); può impugnare le decisioni del giudice. Più in generale il curatore può svolgere nel procedimento tutte e proprio tutte quelle attività che una parte può fare in un processo ordinario di cognizione. (v).Il procedimento, per quanto semplificato, è aperto all’espletamento di attività istruttoria, anche non meramente documentale; possono, infatti, essere assunte prove costituende; questa disposizione è molto significativa in ottica sistematica. Quando si discute del diritto di azione che la Costituzione garantisce ed eleva fra i diritti fondamentali dell’individuo (art. 24 Cost.), si è soliti precisare che il diritto di azione non può mai essere disgiunto dal diritto alla prova. Ecco allora che la previsione di un diritto alla prova ben si coniuga con la qualificazione giurisdizionale di questo segmento del processo concorsuale. (vi).Nel procedimento che si svolge davanti al giudice delegato si assiste ad un conflitto fra il creditore ed il curatore e fra ciascun creditore e tutti gli altri creditori. L’affermazione e cioè il riconoscimento del diritto di credito del singolo, confligge con i diritti altrui perché ogni ammissione al passivo comprime le aspettative di soddisfazione degli altri. Ferma restando l’entità dell’attivo liquidato, la misura del soddisfacimento del credito di ciascuno è inversamente proporzionale al numero e alla quantità dei crediti ammessi. La formazione del passivo è la sede naturale del conflitto alimentato dall’insufficienza delle risorse disponibili30. Possiamo, quindi, concludere che il procedimento che si svolge davanti al giudice delegato ha natura contenziosa. Occorre, ora, interrogarsi in ordine a quale tipologia di tutela contenziosa il procedimento debba essere ascritto.

3.2. La struttura del procedimento. Quanto alla struttura del procedimento, osserviamo che: (i) il procedimento che si snoda davanti al giudice delegato non ha nulla dei procedimenti in camera di consiglio (art. 737 ss. c.p.c.), sia perché non v’è alcun richiamo normativo, sia perché vi è un netto distacco da quel modello processuale, basti pensare alla regolazione di diritti e poteri delle parti; (ii) va, parimenti, escluso che il procedimento appartenga alla categoria dei processi a cognizione piena ed esauriente perché di questi è tipica la precostituzione di tempi e forme del processo; (iii) neppure può essere ascritto al procedimento monitorio in quanto qui il contraddittorio è ben presente sin dal primo momento; (iv) infine possiamo escludere che i tratti siano quelli dei procedimenti cautelari in quanto non si tratta di stabilire la

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Bozza, Lo stato passivo, cit., 816.

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verosimiglianza del diritto [di credito], ma di accertare l’esistenza piena del diritto in base a forme semplificate31. Astretta da questa sequenza di esclusioni, la conclusione obbligata sembrava essere quella della riconduzione del procedimento alla tutela sommaria-semplificata, là dove – per casi tipici – si stabilisce che il giudice possa provvedere, allo stato degli atti in base a modelli speciali di fonti di convincimento (prove o comportamenti processuali, come accade nel procedimento di convalida di sfratto), per rendere rapidamente (ma senza il requisito dell’urgenza) una decisione, idonea a divenire immutabile in assenza di opposizione della parte nei cui confronti è rivolta la domanda32. A quella conclusione è lecito apporre una variante perché il procedimento di formazione del passivo sembra assomigliare al paradigma della tutela dichiarativa33, ma in forme semplificate34, non molto lontano (ideologicamente) dal procedimento sommario di cognizione (art. 702-bis ss. c.p.c.) e, dunque, solo in tale contesto può appartenere alla nomenclatura della tutela sommaria. Infatti, le fonti di convincimento del giudice delegato non sono tipiche, ma assai vicine a quelle del processo ordinario di cognizione, sebbene in un clima di deformalizzazione, con piena coerenza dell’idoneità della decisione all’immutabilità se non impugnata. La struttura del procedimento non è quella dei procedimenti cautelari e neppure lo è (v., infra) la funzione, talché pur essendo solo in parte controverso, con l’art. 201, ult.comma, CCII si è esplicitamente stabilito l’assoggettamento alla sospensione feriale dei termini (diversamente dal resto del comparto del CCII) il che, però, implica di dover verificare se a questa sospensione siano soggette anche le domande di credito relative a rapporti di lavoro35.

3.3. La funzione del procedimento. Per quanto attiene alla funzione del procedimento, è evidente che in raccordo col principio di esclusività, lo scopo della formazione dello stato passivo è quello di selezio-

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Bozza, Lo stato passivo, cit., 791. Aldilà dei termini utilizzati (‘camerale ibrido’), mi pare vi sia consonanza in Cecchella, Il diritto della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, cit., 317, là dove si parla di procedimento a cognizione piena speciale. 33 Bozza, L’accertamento del passivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 1203; Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 831. 34 Bozza, Lo stato passivo, cit., 605. 35 Infatti, per Cass., s.u., 5 maggio 2017, n. 10944, la disciplina della sospensione feriale dei termini processuali non si applica ai giudizi relativi all’ammissione allo stato passivo del fallimento di crediti derivanti da un rapporto di lavoro subordinato. A favore della sospensione prima del Codice v., Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 786; Bozza, Lo stato passivo, cit., 727; Cass., 24 luglio 2012, n. 12960, in Fallimento, 2013, 423. A mio avviso, poiché il procedimento di formazione dello stato passivo è unitario, talché vi è un solo decreto di esecutività, è del tutto priva di coerenza la tesi che vuole non assoggettato alla sospensione dei termini l’esame delle domande di credito relative a rapporti di lavoro. Difatti, anche se questi termini non fossero sospesi, la decisione non potrebbe che intervenire dopo la fine della sospensione, risultando necessario l’esame di tutte le domande. Una volta stabilito questo, mi parrebbe assurdo e soprattutto privo di razionalità imporre al lavoratore la presentazione della domanda di ammissione qualora i trenta giorni anteriori alla adunanza maturassero durante il periodo 1°-31 agosto di ogni anno. 32

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nare quali sono i creditori che possono aspirare ad essere soddisfatti con il ricavato della liquidazione e quali sono i titolari di diritti su cose rientranti nella disponibilità materiale (e non giuridica) del fallito. Con la dichiarazione di fallimento si apre il concorso fra i creditori, ma non è detto che i creditori vogliano parteciparvi; proprio per questo è apprestato il procedimento di accertamento dei crediti, sì che se i creditori non manifestano la volontà di partecipare, non ha alcun senso che la procedura di fallimento abbia a proseguire. L’art. 118 n. 1 l.fall. (art. 233 CCII), stabilisce che la mancata presentazione di domande al passivo è una delle cause che conducono alla chiusura del fallimento. Nel medesimo contesto processuale sono devolute le domande con le quali coloro che rivendicano diritti su beni incompatibili con gli apparenti diritti del fallito, possono chiedere che detti beni siano a loro attribuiti e dunque di fatto sottratti all’esecuzione concorsuale. Come la formazione dello stato passivo è funzionale a selezionare quali sono i debiti da soddisfare, specularmente lo stesso procedimento è destinato ad accertare quali sono i beni con i quali soddisfare quei debiti. I beni che costituiscono la massa attiva sono quelli inventariati e quelli che sopravvengono per effetto dell’esercizio di azioni recuperatorie, ma da questi vanno tolti quelli che in realtà, a dispetto dell’apparenza, spettano a terzi. Quando si conclude il procedimento di formazione dello stato passivo, si individua contestualmente (salve le domande tardive) tanto la massa debitoria quanto il complesso dei beni sui quali i creditori possono fare affidamento come garanzia del loro credito. In un certo qual senso è come se il procedimento di formazione dello stato passivo fungesse anche da procedimento di formazione dello stato attivo, quanto meno per sottrazione [dei beni rivendicati da terzi].

3.4. L’oggetto del procedimento. Resta ora da esaminare quale sia l’oggetto del procedimento di accertamento del passivo visto dal prisma del singolo creditore. Per esplorare questo tema, si può partire da due punti fermi: (a) il debitore non è parte del procedimento; (b) il decreto che rende esecutivo lo stato passivo – e le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei giudizi di impugnazione – produce[cono] effetto solo ai fini del concorso. Questi sono i due punti cardinali che rappresentano l’architrave delle teorie che ruotano attorno all’individuazione dell’oggetto del processo. In ogni processo è presente un oggetto che è normalmente segnato dal diritto soggettivo (o status) in contesa; si tratta dunque di stabilire quale sia il diritto che il creditore fa valere nel momento in cui presenta la domanda di ammissione al passivo. Oggetto del processo non è il diritto di credito; non lo può essere perché il fallito non è parte del processo36, né lo può essere perché altrimenti verrebbero meno i principi della

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Cass., 21 gennaio 2020, n. 1197.

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concorsualità che sono proprio quei principi che si è voluto invocare da parte di chi ha chiesto l’apertura del fallimento. E fra i principi della concorsualità trovano uno spazio importante le regole sull’opponibilità degli atti e dei negozi e le regole sull’inefficacia derivante dall’esercizio delle azioni revocatorie. Chi presenta la domanda di ammissione al passivo oltre a dimostrare l’esistenza del credito deve anche far valere (i) una ragione di credito che si sia formata prima del fallimento e (ii) una ragione di credito che derivi da un atto o negozio che non sia affetto da vizi di inefficacia concorsuale. Le regole della concorsualità sono la trasposizione nel fallimento di regole che già si trovano nell’esecuzione individuale e che hanno a che vedere con i principi in tema di efficacia sostanziale del pignoramento (artt. 2913 ss. c.c.). Quei principi sono massimizzati nel fallimento con la conseguenza che il titolo che sta al fondo della domanda di ammissione deve essere (a) un titolo opponibile perché formatosi prima dello spossessamento (art. 42 l.fall., art. 142 CCII) – intendendosi il “prima” nel rispetto delle formalità di cui all’art. 45 l.fall. e 145 CCII – e (b) non revocabile (artt. 64 ss. l.fall., 163 ss. CCII). Oggetto del processo non è soltanto il diritto di credito perché altrimenti non si spiegherebbero questi condizionamenti per l’ammissione e d’altra parte, nel rapporto fra creditore e debitore fallito non si vede per quale motivo il creditore dovrebbe essere pregiudicato da una pronuncia di esclusione dallo stato passivo, motivata dalla non concorsualità del credito, aspetto che esaurisce la sua funzione là dove non vi sia più una collettività di soggetti coinvolti. All’opposto, dobbiamo anche escludere che oggetto del processo sia proprio il c.d. diritto al concorso, posto che l’art. 96 l.fall. ci dice che la decisione ha effetti solo ai fini del concorso. Si tratta, allora, di capire se sia autonomamente configurabile un diritto al concorso37 e cioè il diritto processuale di partecipare ai riparti. Il processo dichiarativo ha per oggetto diritti soggettivi e status, ma questi diritti soggettivi devono sempre avere un contenuto sostanziale (in disparte quei processi che vedono come oggetto un fatto, come il giudizio per querela di falso); poi, per decidere del diritto al concorso bisognerebbe prima decidere sul diritto di credito, ed è per questo che talora si è affermato che il diritto di credito sarebbe una questione pregiudiziale (art. 34 c.p.c.) – da risolvere secondo la tecnica dell’accertamento, solo, incidentale38 – rispetto al diritto al concorso e più esattamente una forma di pregiudizialità logica39; pregiudizialità al quadrato se il diritto di credito è pregiudicato da questioni che attengono al rapporto (al titolo). Per accogliere una domanda di ammissione al passivo occorre accertare che esiste un credito, che quel credito è opponibile e non è revocabile.

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Ricci, Efficacia ed oggetto delle sentenze sulle opposizioni e sulle impugnazioni nella formazione del passivo fallimentare, in Riv. dir. proc., 1992, 1080. 38 Fauceglia, L’accertamento del passivo, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali, cit., 1636; Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 2045. 39 Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1666; Bozza, Lo stato passivo, cit., 608.

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Pertanto, oggetto del processo non può essere solo il diritto di credito né solo il diritto al concorso; l’oggetto del processo è una porzione più ampia del diritto di credito, è il diritto di credito assistito dal requisito della concorsualità. Che questa conclusione sia corretta lo si desume proprio dall’art. 96 l.fall. dove si prevede che gli effetti della decisione non oltrepassano il concorso, il che vuol dire che fuori dal fallimento quella decisione non fa stato fra le parti. Possiamo quindi concludere che oggetto del processo è il diritto di credito nella sua “porzione concorsuale”. Se questo è l’oggetto il giudice deve certamente verificare le caratteristiche ontologiche rappresentate da (i) esistenza e consistenza, (ii) validità del titolo su cui si fonda, (iii) opponibilità del titolo e (iv) efficacia del titolo. All’evidenza le caratteristiche sub (i) e sub (ii) attengono al credito e quelle sub (iii) e sub (iv) alla porzione concorsuale. Queste conclusioni andranno poi riesaminate ai fini della verifica dell’efficacia del decreto che rende esecutivo lo stato passivo e ciò andrà fatto anche e soprattutto con riguardo alle domande di rivendica/restituzione. Ma prima di concludere il discorso non si può dimenticare, come sopra accennato, che il concorso dipende dal credito e il credito dipende dal rapporto. Sennonché se la decisione finale è limitata al concorso, giuoco forza anche gli accertamenti incidentali sulle questioni pregiudiziali, sebbene li si voglia ascrivere alla pregiudizialità logica, resteranno affidati ai limiti interni al concorso. Ed allora se un creditore presenta una domanda di ammissione al passivo, assumendo che il credito derivi dalla nullità del contratto facendo così valere un credito di natura restitutoria, il giudice delegato conoscerà il rapporto e potrà ammettere il credito se riconosca la nullità del contratto, con l’effetto che questa decisione diventerà vincolante, a tutti gli effetti interni al concorso40, talché, fuori dal concorso, il debitore potrà far accertare la validità del contratto ma non potrà agire in ripetizione stante i limiti di stabilità dei riparti. Però, all’interno del concorso, il curatore non potrà rimettere in discussione la nullità/validità del contratto, ad esempio al fine di ottenere la consegna di una cosa; tutto ciò ovviamente, ove si condivida l’approccio metodologico della formazione del giudicato sui fatti-diritti che sono connessi al diritto di credito secondo il crisma della pregiudizialità logica41.

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Pagni, Accertamento del passivo e revocatoria: efficacia preclusiva del decreto di esecutività, in Fallimento, 2010, 1397 Per meglio comprendere il caso, si faccia, invece, l’esempio di un soggetto che chieda l’ammissione al passivo di una somma che trovi titolo nel diritto alla successione ereditaria e che assuma che il debitore sia il de cuius della cui eredità si discute; se sorge controversia sul rapporto successorio, siamo di fronte ad una questione di pregiudizialità tecnica che il giudice delegato potrà risolvere solo incidenter tantum e senza alcun effetto preclusivo anche all’interno del concorso.

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4. I diversi ruoli dei protagonisti. L’inquadramento sistematico della formazione dello stato passivo è necessario per risolvere i molti problemi che scaturiscono da un ordito normativo tutt’altro che armonico e intrinsecamente coerente. Diversamente da quanto accade nella liquidazione coatta amministrativa, il procedimento si svolge ad iniziativa di parte nel senso che è il singolo creditore che deve presentare la domanda e sollecitare il provvedimento del giudice. Da ciò prende avvio il rapporto processuale che vede come parti il creditore e il curatore, mentre in un momento successivo e cioè dopo il progetto di stato passivo prende avvio un ulteriore rapporto processuale tra ciascun creditore e tutti gli altri creditori. Per mettere a fuoco i poteri delle parti e del giudice – nella cornice di questa dualità di rapporti – è utile incentrare l’attenzione su alcuni specifici aspetti: (i) la domanda; (ii) le eccezioni; (iii) le prove; (iv) la posizione del giudice.

5. La domanda. La domanda del creditore presenta i connotati qualificanti della domanda giudiziale42, non solo o non tanto perché l’art. 94 l.fall. (art. 202 CCII) precisa che la domanda produce gli effetti della domanda giudiziale, quanto perché deve uniformarsi ai principi della editio actionis. In merito al petitum, la domanda deve quindi specificare (a) la somma di denaro di cui si chiede il riconoscimento oppure (b) il bene di cui si chiede la rivendicazione o restituzione. Se si tratta di domanda di credito, il creditore può chiedere altresì il riconoscimento di una causa di prelazione (privilegio, pegno e ipoteca) con l’avvertenza che, se si tratta di prelazione riferita ad un singolo cespite, occorre anche fornire la descrizione del bene che costituisce la garanzia; questa descrizione può essere analitica o può rinviare al verbale di inventario redatto dal cancelliere. Non è necessario che il creditore specifichi il grado della prelazione perché questo deriva dalla legge e in particolare dall’ordine di graduazione. Qualora la domanda abbia per oggetto diritti su cose, il terzo è tenuto a specificare esattamente qual è il bene che si vuole sottrarre alla garanzia dei creditori e, se ritiene che vi sia pericolo di una rapida liquidazione del bene, può chiedere la sospensione della vendita del cespite sino alla decisione sulla domanda, considerando che l’attività di liquidazione può essere avviata ancor prima che lo stato passivo sia reso esecutivo. Ma, sempre in ordine al petitum, con il Codice si è aggiunto che la domanda può contenere la richiesta di partecipazione al riparto perché l’istante vanta un diritto di garanzia ipotecaria su un bene del debitore. La domanda deve, però (a pena di inammissibilità)43,

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Tedeschi, L’accertamento del passivo, in Le riforme delle procedure concorsuali, cit., 810. Cass., 9 gennaio 2019, n. 278.

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anche contenere la causa petendi, ovverosia gli elementi di fatto e le ragioni di diritto che giustificano l’accoglimento della domanda44 (con le naturali conseguenze in tema di diritti eterodeterminati), anche con riferimento all’allegazione dell’eventuale titolo di prelazione.

5.1. Gli effetti della domanda. Il ricorso produce gli effetti della domanda giudiziale per tutto il corso del fallimento; tutti e proprio tutti gli effetti della domanda giudiziale di un ordinario processo dichiarativo. Si tratta di effetti sostanziali e processuali. Quanto agli effetti sostanziali, il deposito della domanda comporta l’interruzione della prescrizione e impedisce che maturino le decadenze. Il deposito della domanda segna la pendenza della lite e come per tutte le domande giudiziali il fenomeno interruttivo della prescrizione non è solo quello istantaneo (dal momento dell’interruzione inizia a decorrere un nuovo periodo) ma anche quello permanente45 (la prescrizione è sospesa sino al termine del processo); nel caso specifico l’effetto permanente non è legato al processo di accertamento del credito (e cioè non dura soltanto sino a che viene reso esecutivo lo stato passivo) ma alla procedura di fallimento, sì che il termine prescrizionale è sospeso sino alla chiusura del fallimento46. La domanda di ammissione al passivo produce effetti sui coobbligati e sui garanti (ad esempio, ai fini di cui all’art. 1957 c.c. e 1310 c.c.47). L’effetto di litispendenza rileva anche sul piano processuale (si vedano gli effetti ai fini degli artt. 110, 111, 112 c.p.c.48).

6. Il ruolo del curatore. In corrispondenza delle attività che competono al creditore nella fase introduttiva, vi sono le attività che spettano al curatore. Prima della riforma il curatore, nella formazione dello stato passivo, si atteggiava a semplice ausiliario49 del giudice rappresentando al magistrato le informazioni utili per prendere le decisioni sulle domande di credito. Il mutamento, in un certo senso epocale, del ruolo del curatore è emblematicamente rappresentato dall’essergli stato attribuito il potere processuale di sollevare eccezioni in senso stretto e poi il potere di impugnare le decisioni del giudice delegato. Da questi due

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Bozza, Lo stato passivo, cit., 744; Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 789; Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1626. Per Cass., 4 settembre 2019, n. 22080, ovviamente è il giudice che deve sindacare la sufficiente adeguatezza della indicazione dei fatti. 45 Cass., 17 luglio 2014, n. 16408; Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 2001. 46 Bozza, Lo stato passivo, cit., 772. 47 Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 821; Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 2001. 48 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 464. 49 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 508.

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indici di diritto positivo ricaviamo inoppugnabilmente che il curatore è parte in senso formale e sostanziale del procedimento di formazione del passivo50; infatti, sia la facoltà di opporre eccezioni proprie, sia la facoltà di impugnare sono attività tipiche che l’ordinamento riconosce a chi assume la veste di parte processuale. Si tratta di una parte sui generis perché il curatore nella formazione dello stato passivo cumula poteri che spettavano al debitore e ai creditori, cui si aggiungono doveri che derivano dal fatto che il curatore è pubblico ufficiale e dunque svolge la sua funzione in modo imparziale51 al pari di quanto accade quando è parte di un processo civile il pubblico ministero52. In particolare, il curatore: (i) deve tutelare i diritti del fallito, attesa la sua assoluta carenza di legittimazione nella formazione dello stato passivo; (ii) deve tutelare i diritti dei creditori facendo valere anche diritti a questi spettanti (si pensi alla eccezione conseguente ad azione revocatoria ordinaria), sebbene non in via esclusiva visto che anche i creditori sono protagonisti del procedimento; (iii) deve salvaguardare i diritti dei terzi (ad esempio di colui che abbia proposto come terzo una domanda di concordato fallimentare), assumendo il ruolo di ‘custode’ della legalità nella formazione dello stato passivo53. A questi doveri corrispondono coerenti poteri processuali anche nella fase sommaria che si svolge davanti al giudice delegato Il curatore assume la veste necessaria della parte convenuta in giudizio ma tale posizione è davvero antagonista solo quando sorga un conflitto sul diritto di credito o sul diritto alla cosa54. Quando si tratta di crediti concorsuali, il difetto di cooperazione nella realizzazione dell’obbligazione si è verificato prima del fallimento e ciò impone al cre-

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Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2019, 156; Bozza, L’accertamento del passivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 1203. 51 Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1640. 52 Per Cass., 14 gennaio 2016, n. 535, in sede di accertamento del passivo, il curatore, in quanto parte pubblica (al pari del p.m.), ha il dovere di non nascondere gli elementi di cui sia entrato in possesso per ragioni dell’ufficio esercitato (che è pur sempre quello di assicurare ai creditori la loro par condicio, senza avvantaggiarne ma anche danneggiarne alcuni), specie quando questi siano il risultato del concreto atteggiarsi del principio di vicinanza della prova. 53 Un tema che non risulta particolarmente oggetto di indagine è quello che pertiene al rapporto tra curatore-parte e curatore pubblicoufficiale. A me pare che il ruolo del curatore come pubblico ufficiale si esaurisca nell’ambito dello svolgimento delle funzioni di cui all’art. 31 l.fall.; quando il curatore assume la posizione di parte nel processo – come per vero accade anche per una pubblica amministrazione – il curatore è una parte come tutte le altre sì che i documenti da esso formati non hanno la veste di atti pubblici e parimenti le dichiarazioni rese non sono coperte da pubblica fede; contra, Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 834 che assume sussistere un conflitto di interessi in capo al curatore. A me pare che il curatore debba essere trattato come una parte e ciò lo si apprezza anche con riferimento al giuramento decisorio che il creditore richieda per contrastare l’eccezione di prescrizione presuntiva per un credito professionale v., Trib. Milano, 16 febbraio 2017, in Fallimento, 2018, 222; ma, contra, Cass., 3 agosto 2017, n. 19418 che esclude l’ammissibilità del giuramento; Cass., 24 luglio 2015, n. 15570, in Dir. fall., 2016, 244; Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 514. Secondo la prevalente interpretazione, dunque, il curatore non può prestare giuramento, e ciò per carenza della disponibilità del diritto controverso; se, però, si assume questa interpretazione, si priva il creditore della facoltà di difendersi efficacemente ai sensi dell’art. 2560 c.c. e, in linea di principio, le liti tra il creditore e il curatore non dovrebbero subire distorsioni derivanti dalla posizione del curatore. Certo, si potrebbe obiettare che il curatore si può avvalere delle eccezioni concorsuali, ma qui siamo fuori da quell’area della concorsualità. Qui si postula legittimo sottrarre al creditore un mezzo di prova. In tal senso a me paiono del tutto condivisibili le argomentazioni di Rolfi, Curatore e giuramento decisorio: una decisione che è una occasione perduta, in Fallimento, 2018, 179, ad avviso del quale il curatore può rendere il giuramento de notitia perché ciò non implica alcuna disposizione del diritto dedotto nella lite. 54 Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 835.

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ditore di presentare la domanda, perché soltanto il decreto che rende esecutivo lo stato passivo costituisce il titolo per partecipare alle distribuzioni. Proprio la necessarietà della insinuazione spiega la ragione per la quale il curatore può assumere un atteggiamento non oppositivo rispetto alla domanda. La scelta di qualificare il curatore come parte processuale non porta all’automatica negazione del curatore come terzo rispetto ai rapporti sostanziali. Abbiamo appena visto che il ruolo del curatore è ancipite e ciò spiega perché il curatore non è un mero successore del fallito; in tale contesto, resta ferma la tradizionale visione che, proprio sul presupposto della terzietà del curatore (peraltro già implicita nel conflitto fra creditori anteriori e creditori posteriori al fallimento), impone l’applicazione della regola di opponibilità delle scritture private di cui all’art. 2704 c.c., sì che nei confronti del curatore la data deve essere certa per stabilire l’effettiva anteriorità di una scrittura privata (v., infra). La circostanza che al curatore sia attribuito il ruolo di parte non ci consente, però, di ritenere applicabile l’intero statuto della parte processuale ed in particolare del convenuto in un processo dichiarativo (per quanto semplificato). L’esigenza di accelerare la definizione della formazione dello stato passivo che coinvolge tutti i creditori giustifica ampiamente che per il principio di esclusività del procedimento di accertamento dei crediti, si debba discutere solo dei crediti verso il fallito e non anche dei crediti del fallito verso i creditori; ne consegue l’inammissibilità di domande riconvenzionali promosse dal curatore55.

6.1. Il progetto di stato passivo. Il curatore assume in concreto il ruolo di parte quando è chiamato a predisporre il progetto di stato passivo. Si tratta del documento che racchiude tutte le domande (di credito e di rivendica/restituzione) presentate e tutte le conclusioni rassegnate dal curatore. Il progetto rappresenta il documento sul quale poi il giudice deve assumere le sue decisioni, nonché costituisce anche il modo con il quale il curatore deve prendere posizione sulle domande. Il progetto di stato passivo racchiude un fascio di rapporti processuali bilaterali (con tante comparse di risposta quanti sono i creditori e i rivendicanti56) ma, poi, forma un insieme che dà luogo ad un rapporto processuale complesso di cui sono parte tutti i creditori. Se il curatore si oppone alla domanda – in tutto o in parte, o soltanto alla collocazione del credito, ovvero ancora quando reputa che la domanda stessa sia inammissibile – deve formulare una richiesta contraria all’ammissione. Il curatore dedurrà eccezioni (in senso lato e in senso stretto) o anche mere difese (la negazione dei fatti costitutivi). In quanto

55 56

Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 515. Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1644.

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parte, per il principio della parità delle armi (art. 111 cost.) il curatore dovrebbe anche fornire la prova (documentale nella prima fase) a conforto delle eccezioni. Orbene, queste eccezioni possono essere di due tipologie, quelle che sorgono dal rapporto creditore-debitore e quelle che sorgono dal rapporto creditore-massa dei creditori57.

6.2. Le decadenze. Nella fase sommaria la tessitura normativa non conosce, esplicitamente, alcuna ipotesi di decadenza, né per le allegazioni, né per le prove: infatti, diversamente da quanto stabiliva la legge delega, il legislatore delegato ha preferito non esercitare la delega inasprendo il regime di decadenze. L’utilità delle decadenze sarebbe stata coerente con gli scopi acceleratori del nuovo processo di liquidazione giudiziale58; sennonché, la confermata non necessità della difesa tecnica nella fase sommaria è stata probabilmente la ragione principale del motivo della omessa previsione di decadenze, nel senso che pur essendosi mantenuto il doppio binario di una fase a contraddittorio semplificato e una seconda fase, impugnatoria, a contraddittorio formalizzato non si è voluto introdurre un regime di decadenze che avrebbero potuto colpire una parte non assistita dal difensore. Il progetto di stato passivo è il primo atto difensivo del curatore e, per simmetria con la posizione del ricorrente e con le regole dei processi dichiarativi (art. 167, 416, 702-bis c.p.c.), le eccezioni in senso stretto che spettano al curatore vanno dedotte proprio in occasione della redazione del progetto di stato passivo. Solo con la formulazione di tempestive eccezioni si possono porre le basi per un concreto esercizio del contraddittorio davanti al giudice delegato, preceduto dalla possibilità di presentare osservazioni al progetto di stato passivo. Ma se così dovrebbe essere per allineare questo procedimento ad un sistema ordinato, non va però trascurato che di decadenze a carico del curatore proprio non si parla. L’art. 203 CCII (art. 95 l.fall.) si esprime in modo chiaro: il giudice delegato decide avuto riguardo alle eccezioni del curatore a quelle rilevabili d’ufficio ed a quelle sollevate dagli altri creditori: non vi è alcuna esplicita limitazione alle eccezioni formulate solo con il progetto di stato passivo; non diversamente, a riprova della flessibilità del procedimento, si ritiene irrilevante che il creditore non abbia dedotto osservazioni in replica, posto che si tratta di semplice facoltà il cui non uso non porta ad un fenomeno di acquiescenza59. Il sistema affida, come anticipato, al curatore il potere di rilievo di eccezioni in senso stretto e in senso lato. Orbene, il palinsesto di tali eccezioni è arricchito dalle eccezioni che attengono all’oggetto dell’accertamento e cioè la concorsualità del credito; pertanto,

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Cecchella, Il diritto della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, cit., 319; Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 511. 58 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 532. 59 Cass., 13 marzo 2020, n. 7136; Cass., 9 gennaio 2014, n. 321, in Fallimento, 2014, 773; Cass., 9 maggio 2013, n. 11026; Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 2021.

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nelle eccezioni in senso stretto di matrice concorsuale vanno incluse le eccezioni fondate sulla inefficacia degli atti ai sensi degli artt. 165 e 166 CCII (artt. 66 e 67 l.fall.)60, quelle relative all’esercizio del potere di scioglimento di cui all’art. 72 l.fall. (art. 172 CCII)61, mentre fra quelle in senso lato le eccezioni che attengono alla opponibilità degli atti62. Le prime, quelle fondate sull’inefficacia di un titolo o di una prelazione che sono etichettate (e giustamente stante l’appartenenza al genus della tutela dichiarativa-costitutiva) come eccezioni in senso stretto63 hanno uno spettro di applicazione temporale più esteso perché non soffrono né l’eventuale prescrizione dell’azione, né la decadenza64; poiché il procedimento ha riguardo solo alle pretese creditorie, l’inefficacia – se accolta – impone il mero rigetto della domanda e non anche una statuizione costitutiva (-demolitiva) sul titolo, anche al lume del fatto che non sono ammesse domande riconvenzionali65. Va, invece, reputata eccezione in senso lato quella di inopponibilità del credito perché provato da una scrittura privata priva di data certa66, posto che l’anteriorità del credito va considerato un fatto costitutivo di quella porzione del diritto al concorso che abbiamo delineato a proposito dell’oggetto del processo di formazione dello stato passivo. Più precisamente, è fatto costitutivo l’anteriorità del credito, sì che l’onere della prova è a carico del creditore e questo onere della prova può essere assolto con un documento; poiché, il curatore assume la veste di terzo, la prova per essere efficace deve essere opponibile ed è, dunque, una prova a carico del ricorrente, sì che il relativo difetto può essere rilevato d’ufficio dal giudice.67 Quando si discute di eccezioni, occorre però, fare un passo ulteriore e dedicare attenzione al tema dei fatti-diritti e, di riflesso alle questioni che danno luogo ad accertamenti su diritti incompatibili o pregiudiziali68. Il tema è assai delicato perché coinvolge alcuni dei paradigmi fondamentali dell’ordinamento processuale. In primo piano si pongono i cc.dd. ‘diritti incompatibili’: ad es., al cospetto di una domanda di ammissione al passivo di un creditore derivante da un contratto, il curatore contrappone la nullità o l’annullabilità del contratto. Che queste eccezioni derivanti da fatti-diritti siano ammissibili lo si ricava dalla disciplina, esplicita, in tema di eccezioni revocatorie; pertanto, se il curatore si limita ad eccepire il vizio genetico o funzionale del contratto, il giudice delegato lo esamina – al modo di un accertamento incidentale – ai

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Bozza, Lo stato passivo, cit., 828. Diversamente, è rilevabile anche d’ufficio, se si condivide la natura dichiarativa del relativo giudizio l’eccezione di gratuità del titolo (art. 64 l.fall., art. 163 CCII), v., Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 2028. 61 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 513. 62 M.Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 2019. 63 Cass., 14 dicembre 2016, n. 25728; Cass., 4 aprile 2013, n. 8246. 64 Cass., 19 maggio 2020, n. 9136; Rosapepe, L’accertamento del passivo, cit., 66. 65 Cass., 8 febbraio 2019, n. 3778; Cass., 27 novembre 2013, n. 26504. 66 Cass., 25 gennaio 2021, n. 1520; Cass. 21 giugno 2018, n. 16404; Cass., 20 novembre 2017, n. 27504; Cass., s.u., 20 febbraio 2013, n. 4213; Costantino, La data certa del credito nell’accertamento del passivo: «della corte il fin è la meraviglia», in Foro it., 2011, I, 74; Pagni, in G.Lo Cascio (diretto da), Codice commentato del fallimento, Milano, 2013, sub art. 95, 1183. Diversa è la questione sulla prova della anteriorità del documento digitale perché Cass., 23 maggio 2017, n. 12939, in Fallimento, 2017, 1286, ha sostenuto che è onere del curatore eccepire la violazione delle regole tecniche sulla validazione temporale. 67 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 458. 68 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 414.

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soli fini del rigetto (se il vizio sussiste) della domanda69. Per i diritti pregiudiziali la soluzione appare più complessa perché deriva da una possibile casistica variegata. Ed infatti, se la norma-matrice è quella di cui all’art. 72 l.fall. (art. 172 CCII), se ne può ricavare che la domanda di credito può essere sostenuta quando l’azione costitutiva (ma anche quella dichiarativa-demolitiva, secondo taluno70) è stata radicata prima dell’apertura del concorso, di talché deve escludersi, di riflesso, che la questione pregiudiziale costitutiva possa essere invocata, per la prima volta, davanti al giudice delegato71; la regola della cristallizzazione della massa (art. 45 l.fall., art. 145 CCII, art. 2915 c.c.) impedisce, dunque, di dare rilevanza ai fatti-diritti costitutivi come diritti pregiudiziali72 ove non già ‘quesiti’. Questa soluzione presenta, a dispetto di un possibile affievolimento della tutela del terzo, il vantaggio di concentrare nel procedimento di formazione del passivo anche gli accertamenti pregiudiziali costitutivi73 se azionati prima, dovendosi dar atto che questa è stata la scelta del legislatore, idonea a superare criticità dogmatiche. Come si è sopra precisato, nella fase sommaria non si formano preclusioni e dunque alle parti (tutte) va concesso lo jus variandi, nel senso che all’adunanza il creditore può replicare alle difese del curatore74 e il curatore può a sua volta controreplicare; ciò comporta la possibilità di emendatio per domande ed eccezioni che possono essere modificate anche per effetto del contraddittorio incrociato con tutti i creditori. Così pure, sino all’adunanza è ammessa la produzione di nuovi documenti75.

7. Le prove nella fase sommaria. Nella fase preparatoria del procedimento sino al deposito del progetto di stato passivo trovano spazio solo le prove precostituite e più esattamente le prove documentali e quelle presuntive, fermo restando che il creditore può articolare sin dal ricorso quelle prove costituende che potranno poi trovare spazio solo in adunanza.

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Il problema diventa più serio quando davanti al giudice delegato si discute della domanda proposta dal creditore e il curatore eccepisce il fatto-diritto impeditivo, mentre è pendente in sede di cognizione ordinaria la lite sull’accertamento di quel fattodiritto, posto che in tal caso occorre comprendere quale dei due si atteggi come fatto incompatibile, con i conseguenti riflessi sulla sospensione del processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c., questione da risolvere, a mio avviso, con la sospensione del processo ordinario. 70 De Santis, Giudizio di verifica del passivo e pretese di tutela dichiarativa e costitutiva, cit., 673. Giordano-Tedeschi, Commentario al codice della crisi e dell’insolvenza, Trani, 2021, 586. 71 Questo significa che chi si assume creditore di una somma di denaro di natura restitutoria derivante dall’annullamento di un contratto, non può far valere il suo diritto nel concorso fallimentare se l’azione di annullamento non era stata ‘prenotata’ con una azione introdotta prima dell’apertura del concorso. 72 Ma, in senso diverso, e per una svalutazione dell’impatto della tutela costitutiva, v., Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 425. 73 Ma per De Santis, Giudizio di verifica del passivo e pretese di tutela dichiarativa e costitutiva, cit, 671, la cognizione costitutiva resta affidata al giudice della cognizione ordinaria. 74 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 517. 75 Cass., 11 settembre 2009, n. 19697

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Il creditore deve fornire la prova del fatto costitutivo e il curatore la prova dei fatti estintivi, modificativi ed impeditivi76. Un cenno merita di essere fatto ai documenti contabili. L’art. 2710 c.c., che conferisce efficacia probatoria tra imprenditori, per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa, ai libri regolarmente tenuti, si ritiene non trovi applicazione nei confronti del curatore del fallimento nella sua funzione di gestione del patrimonio del fallito77; la norma, infatti, è limitata alle controversie tra imprenditori che assumano la qualità di controparti nei rapporti d’impresa (e analoga conclusione riguarda la diversa fattispecie dell’art. 2709 c.c.). Il fatto che le scritture non facciano prova non esclude che assumano il valore di argomento di prova e che dunque possano essere valutate dal giudice. Un altro distacco dal regime ordinario, in tema di prova documentale, lo si ricava dal fatto che non essendo il curatore il soggetto che ha sottoscritto i documenti provenienti dal debitore, non è necessario il formale disconoscimento78. Per quanto non espressamente previsto, il principio di non contestazione enunciato nell’art. 115 c.p.c. può trovare un circoscritto spazio nel procedimento di formazione del passivo ove si abbia a mente che nel procedimento di accertamento del passivo non si discute di diritti indisponibili79. Oggetto del processo sono diritti di credito, cioè diritti [oggettivamente] disponibili e al più diritti soggettivamente indisponibili dal curatore, visto che quale organo della procedura non è il titolare della situazione giuridica soggettiva controversa. Ma l’equazione (poiché il curatore non è il debitore non può efficacemente non contestare) pur suggestiva, non dovrebbe resistere ad un serio vaglio critico; difatti, la non contestazione è una regola del processo, non una regola sul diritto sostanziale (non assume, infatti, un valore abdicativo del diritto)80. Ciò dovrebbe comportare che un fatto non contestato dal curatore, debba poi non essere più provato dal creditore, con conseguente rovesciamento dell’onere della prova (relevatio ab onere probandi)81. In assenza, però, di un regime preclusivo82, così come sono ammesse nuove eccezioni del curatore nel giudizio di opposizione al passivo83, parimenti non si può escludere una successiva contestazione del fatto84.

76

Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1642. Cass., 4 dicembre 2020, n. 27902; Cass., 9 maggio 2011, n. 10081; Bettazzi, Efficacia probatoria delle scritture contabili nel fallimento, in Fallimento, 2003, 1170. 78 V., Cass., 13 ottobre 2017, n. 24168, secondo la quale nel giudizio di opposizione ex art. 98, 2° comma, l.fall., al curatore, in riferimento alla documentazione sottoscritto in apparenza dal fallito e prodotta dal creditore a sostegno della domanda di ammissione al passivo, non è applicabile la disciplina sul disconoscimento della scrittura privata di cui agli artt. 214 e 215 c.p.c e sull’onere di verificazione di cui al successivo art. 216 c.p.c., rivestendo il curatore la posizione di terzo rispetto agli atti compiuti dal fallito; con la conseguenza che il curatore può limitarsi a contestare l’opponibilità della scrittura privata. 79 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 528; De Vita, L’onere della prova dei fatti costitutivi del credito nella verifica del passivo fallimentare, in Dir. fall., 2014, II, 400. 80 Bozza, Lo stato passivo, cit., 833. 81 Contra, Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 157; Bozza, Lo stato passivo, cit., 838, ad avviso del quale un aspetto insuperabile è costituito alla assenza della difesa tecnica. 82 Cass., 17 febbraio 2015, n. 3110, in Fallimento, 2015, 948. 83 Cass., 7 dicembre 2020 n. 27940; Cass., 4 dicembre 2015, n. 24723, in Fallimento, 2016, 553; Cass., 18 maggio 2012, n. 7918, in Fallimento, 2012, 1328. 84 Cass., 4 dicembre 2015, n. 24723, cit. 77

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La non contestazione del curatore non impone affatto al giudice delegato di ammettere il credito85, potendo il giudice discostarsi dalla condotta del curatore sia perché fra i fatti allegati – ciò che è decisivo è proprio il rispetto del principio dispositivo in tema di allegazione dei fatti (il c.d. monopolio delle parti sui fatti)86 – ve ne possano essere taluni che diano spazio all’esercizio di eccezioni officiose, sia perché il fatto potrebbe risultare non vero in base ad altri elementi di prova raccolti87. Certo, trattandosi di procedimento contenzioso aperto al contraddittorio tra le parti, deve essere osservato il disposto di cui all’art. 101, 2° comma, c.p.c., con conseguente dovere del giudice di stimolare la difesa delle parti sulla questione rilevata d’ufficio88. Al fondo, il giudice delegato deve valutare i fatti secondo il suo prudente apprezzamento e può, allora, valorizzare anche la non contestazione del curatore, così come una produzione documentale eseguita in modo non compiuto non impedisce che il giudice reputi il credito provato sulla base di una ricognizione complessiva dei fatti89; parimenti la certezza della data di un documento va vista in base alle complessive risultanze probatorie90.

7.1. L’udienza davanti al giudice e lo sviluppo del contraddittorio incrociato.

In adunanza le parti possono esercitare lo jus variandi modificando e precisando domande ed eccezioni e possono chiedere l’assunzione di prove costituende. In particolare, l’adunanza è la sede nella quale può compiutamente realizzarsi quel fenomeno noto come contraddittorio incrociato91, in virtù del quale ciascun creditore oltre che sollecitare l’ammissione del proprio credito, può anche contrastare i crediti altrui92, dandosi così vita ad un processo litisconsortile93.

85

Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1645; Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 529; Ferri, Le eccezioni e le prove, in Fallimento, 2011, 1079; De Simone, Oneri delle parti e preclusioni nell’accertamento del passivo, in Fallimento, 2012, 1220. 86 Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 863; Bozza, Lo stato passivo, cit., 859. 87 Cass., 8 agosto 2017, n. 19734. 88 D’Orazio, La decisione della terza via nell’accertamento del passivo, in Fallimento, 2015, 673; Cass., s.u., 20 febbraio 2013, n. 4213, in Foro it., 2013, I, 1137; Cass., 1° ottobre 2014, n. 20725, in Fallimento, 2015, 668 a proposito dell’opposizione allo stato passivo. 89 Cass., 3 dicembre 2018, n. 31195; Cass., 6 agosto 2015, n. 16554; non mi pare, invece, di poter condividere la tesi di Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 2027 la quale nega in radica l’applicabilità del principio al giudizio di verificazione dello stato passivo. Sul principio del prudente apprezzamento del giudice, in tema di crediti bancari, si postula che il giudice delegato in mancanza di contestazioni del curatore, è tenuto a prendere atto dell’evoluzione storica del rapporto contrattuale come rappresentata negli estratti conto, pur conservando il potere di rilevare d’ufficio ogni eccezione non rimessa alle sole parti, che si fondi sui fatti in tal modo acquisiti al giudizio. 90 Cass., 26 febbraio 2018, n. 4509 ha affermato che ai fini della decisione circa l’opponibilità al fallimento di un credito documentato con scrittura privata non di data certa, il giudice di merito, quando voglia darsi la prova del momento in cui il negozio è stato concluso, ove sia dedotto un fatto diverso da quelli tipizzati nell’art. 2704 c.c. ha il compito di valutarne, caso per caso, la sussistenza e l’idoneità a stabilire la certezza della data del documento, con il limite del carattere obiettivo del fatto, il quale non deve essere riconducibile al soggetto che lo invoca e deve essere, altresì, sottratto alla sua disponibilità 91 Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1657; Ferri, Le eccezioni e le prove, cit., 1077. 92 Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 156; Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 855. 93 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 530.

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Ciascun creditore ha in adunanza l’occasione di replicare alle difese svolte dal curatore nel progetto di stato passivo e di prendere posizione sulle osservazioni ed eccezioni avanzate dagli altri creditori. Può dunque emendare la domanda ovvero smentire le altrui difese; il creditore può depositare documenti integrativi94 e formulare richieste istruttorie; in base al principio di eventualità, le nuove difese (di merito ed istruttorie) dovrebbero essere la conseguenza delle eccezioni del curatore, ma la scelta sembra essere stata diversa e cioè quella di acconsentire ad un modello più elastico, sì che le nuove produzioni possono essere svincolate dalle eccezioni95. L’effetto che si determina è una ritardata cristallizzazione del thema decidendum e del thema probandum sino alla adunanza96. Il creditore può anche richiedere l’ammissione di una prova costituenda, così dovendosi intendere l’espressione ‹‹procedere ad atti di istruzione››, riferita al giudice delegato. Per quanto pertiene alla posizione del curatore, le esigenze di garantire una simmetria nell’ordine delle attività che spettano a ciascuna parte inducono a ritenere che il curatore in udienza possa formulare, ancora, eccezioni in senso lato, visto che tali eccezioni potrebbero essere sollevate d’ufficio dal giudice e quelle in senso stretto che derivino dallo jus variandi spettante al creditore; così pure la richiesta di prove costituende, a conforto di fatti estintivi, modificativi ed impeditivi, può essere articolata dal curatore. Più complessa è la disamina della posizione degli altri creditori. L’unico spunto normativo chiaro è dato dal fatto che i creditori sono legittimati a svolgere osservazioni e a dedurre eccezioni. Quanto alle osservazioni, è ragionevole pensare che si tratti o di deduzione di argomentazioni giuridiche (a supporto della tesi del curatore) o di allegazioni di ulteriori fatti tali da consentire al giudice di sollevare eccezioni in senso lato. Quanto alle eccezioni, poiché non si fa alcuna distinzione, pare preferibile ammettere che i creditori possano svolgere anche le eccezioni in senso stretto, quasi al modo di un legittimato straordinario (art. 81 c.p.c.), non diversamente da quanto accade nell’espropriazione individuale in base all’art. 512 c.p.c.; fra le eccezioni in senso stretto dovremmo includere anche le cc.dd. eccezioni revocatorie97, benché la relativa azione spetti, in via esclusiva, al curatore98. Ciò in quanto l’eccezione revocatoria se accolta produce il medesimo effetto, e nulla di più, di una qualsiasi altra eccezione fondata su un’azione costitutiva; attribuito il potere di sollevare eccezioni, deve essere coerentemente riconosciuto il relativo diritto alla prova.

94

Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1631 Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1649. 96 Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 2009; Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 837; Rosapepe, L’accertamento del passivo, cit., 63; Ferri, Le eccezioni e le prove, cit., 1076; Bozza, Lo stato passivo, cit., 803. 97 Cass., 27 febbraio 2013, n. 4959; contra, Cass., 29 novembre 2011, n. 25323, in Fallimento, 2012, 807. 98 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 523; Pagni, sub art. 95, cit., 1186. 95

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8. La decisione del giudice. Come è cambiato il ruolo del curatore nella formazione dello stato passivo, così si è trasformato il ruolo del giudice delegato. Il giudice delegato nella formazione dello stato passivo è chiamato a svolgere una funzione tipicamente giurisdizionale99, non diversa da quella di un qualunque altro giudice nelle controversie civili. Mentre in passato la commistione di funzioni gestorie e di funzioni giurisdizionali poteva contaminare il ruolo del giudice delegato nell’accertamento del passivo, ora il giudice delegato deve decidere su una domanda e sulle eventuali eccezioni del curatore e degli altri creditori, nella piena osservanza del principio dispositivo, sia quanto ad allegazioni (art. 112 c.p.c.) che quanto alle prove (art. 115 c.p.c.). Il giudice delegato deve provvedere su ogni domanda con un provvedimento (succintamente) motivato, ma nei limiti della domanda e delle eccezioni, fermo restando che in relazione ai fatti allegati dalle parti può anche decidere sulla base di eccezioni rilevabili d’ufficio100. Prima di assumere la decisione può accogliere le richieste istruttorie e disporre l’ammissione di prove costituende. La previsione dell’innesto di prove costituende in un impianto naturalmente votato alla prova documentale, impone che le prove siano consentite in relazione alla possibilità di espletarle senza ritardare le operazioni dello stato passivo. Non si può stabilire preventivamente quali prove costituende siano ammissibili, o meglio sono tutte ammissibili (ovviamente nel rispetto dei limiti oggettivi della singola prova) purché siano espletabili nei tempi di normale definizione del procedimento, considerando che lo stato passivo cumula una serie di sub-processi e che l’uno non può ritardare tutti gli altri101; si tratterà di valutare la compatibilità temporale della prova costituenda con le esigenze acceleratorie della procedura102 guardando alla singola vicenda e non in astratto. Nell’art. 203 CCII (art. 95 l.fall.) si fa riferimento alle prove richieste dalle parti ma ciò non esclude l’ingresso alle prove officiose. Infatti, se applichiamo a questo procedimento i principi del processo dispositivo, un’attività istruttoria suppletiva attribuita al giudice è perfettamente coerente con quanto accade in tutte le liti civili, sì che sarebbe paradossale escludere tale attribuzione nel contesto di un procedimento in cui sono devoluti interessi di una collettività di parti. Assecondando questa linea interpretativa, ne consegue che i poteri istruttori officiosi sono quelli previsti nel catalogo del processo di cognizione e non quelli più ampi previsti per i procedimenti in camera di consiglio103; tra le iniziative

99

Bozza, L’accertamento del passivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 1203. Cass., 3 dicembre 2018, n. 31195. 101 In questo senso resta attuale Cass., 2 dicembre 2011, n. 25872 che escludeva le cc.dd. ‘prove di lunga indagine’. 102 Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 837; Fauceglia, L’accertamento del passivo, cit., 1659; Rosapepe, L’accertamento del passivo, cit., 73. 103 In tale contesto, benché resa in un giudizio di opposizione allo stato passivo non pare condivisibile Cass., 30 settembre 2016, n. 19596, secondo la quale l’art. 421 c.p.c. sui poteri istruttori ufficiosi del giudice è norma relativa al rito del lavoro e non trova applicazione nel giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento, ai sensi dell’art. 98 l.fall., che è retto dalle norme che 100

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officiose, quella dell’ordine di cui all’art. 213 c.p.c., quella della consulenza tecnica d’ufficio, quella dell’ispezione (artt. 118 c.p.c.)104 e, sebbene possa apparire eterodosso, anche quella del giuramento suppletorio; tutto ciò, sia chiaro, nei limiti della compatibilità ‘temporale’105. Poiché abbiamo catalogato la formazione dello stato passivo come espressione della tutela dichiarativa semplificata, è coerente che si applichino appieno i principi (non tutte le regole) dei processi dichiarativi e fra questi il principio del contraddittorio (art. 101 c.p.c.) visto (anche) dalla parte del giudice. Acquisito tutto il materiale probatorio necessario per la decisione e raccolte le domande ed eccezioni, il giudice emette il provvedimento sulla singola domanda. L’esito del procedimento può essere106: (i) Accoglimento della domanda di ammissione del credito o di rivendica/restituzione del bene. (ii) Rigetto integrale della domanda. (iii) Rigetto parziale della domanda, relativamente alla misura del credito o alla sussistenza della causa di prelazione. (iv) Ammissione con riserva. (v) Dichiarazione di inammissibilità della domanda per vizi formali.

8.1. Il decreto di esecutività dello stato passivo e gli effetti della decisione. Terminato l’esame di tutte le domande, il giudice delegato dichiara esecutivo lo stato passivo e ne ordina il deposito in cancelleria. Il provvedimento viene adottato in adunanza e riguarda contestualmente tutte le domande, dovendosi escludere la frazionabilità dello stato passivo, tanto è vero che le singole decisioni assunte su ciascuna domanda si stabilizzano solo ed esclusivamente con la dichiarazione di esecutività107. Il decreto esecutivo vale al pari di una pronuncia decisoria dalla quale scaturiscono immediatamente effetti; infatti, il decreto è immediatamente efficace e regola il successivo sviluppo della procedura, fermo restando che i singoli provvedimenti relativi a ciascuna posizione possono essere ridiscussi nell’ambito dei giudizi di impugnazione. Lo stato passivo, nella parte in cui non è impugnato, è equiparato ad una sentenza passata in giudicato, pur se gli effetti di giudicato108, in questo caso, hanno uno spettro temporale e soggettivo limitato in quanto tali effetti durano solo per tutto il corso della

regolano il giudizio ordinario, anche se si facciano valere diritti derivanti da un rapporto di lavoro subordinato con l’impresa assoggettata alla procedura concorsuale, in quanto i mezzi di prova andrebbero legati al tipo di diritto tutelato (quello di lavoro). 104 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 527. 105 Spiotta, L’accertamento del passivo, cit., 2029. 106 Montanari, Appunti sul processo di fallimento, Torino, 2015, 27. 107 Cass., 18 gennaio 2018, n. 1179; Cass., 15 gennaio 2010, n. 559. 108 Cass., 27 ottobre 2017, n. 25640.

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procedura109 e si diffondono nei confronti dei creditori concorsuali; l’incontrovertibilità, tuttavia, è ‘forte’ perché ad essa si dovrebbe associare il principio per cui non vi è più spazio per la deduzione anche dei fatti non dedotti110. Si tratta, ora, di comprendere quale possa essere la natura del provvedimento decisorio che non è direttamente equiparabile ad una sentenza di accertamento, di condanna o costitutiva. Si è parlato di pronuncia costitutiva immediatamente produttiva di effetti 111 ma se si guarda alla nozione classica ci si avvede che il decreto non crea o demolisce un rapporto giuridico od uno status, se mai trasforma il regime di un credito da concorsuale a concorrente. Tuttavia, postulare che si tratti di pronuncia costitutiva non sembra utile ad alcun fine ed allora, come è peculiare l’oggetto del processo di accertamento del credito, parimenti è peculiare la natura della decisione perché questa conforma il credito secondo le regole concorsuali ma non si limita a questo perché produce, anche, un effetto esecutivo attribuendo a quel credito il titolo per partecipare alle distribuzioni. Potrebbe essere qualificata come decisione costitutiva-esecutiva più che semplice decisione di accertamento mero112. Il decreto di approvazione dello stato passivo, se non impugnato, preclude nell’ambito del procedimento fallimentare ogni questione relativa all’esistenza del credito, alla sua entità, all’efficacia del titolo ed all’esistenza di cause di prelazione. Tant’è che in sede di riparto (art. 110 l.fall.) si discute soltanto della graduazione dei vari crediti, con esclusione di qualsiasi questione relativa all’esistenza, qualità e quantità dei crediti e dei privilegi, atteso che tali questioni devono essere proposte, a pena di preclusione, con le forme delle impugnazioni113; tuttavia, proprio per armonizzazione con i principi in materia di giudicato, si è correttamente affermato che in occasione del riparto, il curatore può eccepire il fatto estintivo del credito che si sia formato dopo il decreto di esecutività114. Le decisioni producono effetti vincolanti all’interno della procedura e si rivolgono anche nei confronti delle successive iniziative del curatore, sì che se un determinato credito è ammesso con prelazione e la decisione non viene impugnata, il curatore non può poi agire per la revoca del titolo da cui origina la prelazione.

109

Cass., 3 dicembre 2020, n. 27709; ciò lo si apprezza con riferimento alla mancata impugnazione del curatore visto che Cass. 14 marzo 2017, n. 6524, ha precisato che nel giudizio di verificazione del passivo è pienamente efficace la regola del giudicato endofallimentare ex art. 96 l.fall., sicché, ove il creditore, ammesso al passivo in collocazione chirografaria, abbia opposto il decreto di esecutività per il mancato riconoscimento del privilegio richiesto senza che, nel conseguente giudizio di opposizione, il curatore si sia costituito ed abbia contestato l’ammissibilità stessa del credito, il giudice dell’opposizione non può, ex officio, prendere nuovamente in considerazione la questione relativa all’ammissione del credito ed escluderlo dallo stato passivo in base ad una rivalutazione dei fatti già oggetto di quel provvedimento, essendo l’ammissione coperta dal predetto giudicato; cfr., anche, Cass., 17 aprile 2020, n. 7898. 110 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 538. 111 Cecchella, Il diritto della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, cit., 323 112 Così, invece, Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 812. 113 Cass., 28 febbraio 2018, n. 4729. 114 Cass., 14 gennaio 2016, n. 525, in Fallimento, 2016, 407; Celentano, Accertamenti del passivo e ripartizioni dell’attivo, in Fallimento, 2011, 1135.

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L’efficacia endofallimentare115 del decreto è identica tanto che la decisione sul credito sia assunta dal giudice delegato quanto dal tribunale in occasione dell’impugnazione. Pertanto, la maggiore qualità della cognizione (quella che ritroviamo nei giudizi di impugnazione) non influisce sull’efficacia della decisione: tuttavia, quella efficacia se si vuole limitata, è protetta – ex latere creditoris - dalla regola ancillare della irripetibilità dei pagamenti eseguiti legittimamente secondo le regole del riparto (art. 114 l.fall., art. 229 CCII)116 ed – ex latere debitoris – dalla esdebitazione117.

9. Le domande di rivendica/restituzione. Il profilo dell’efficacia endoconcorsuale del decreto di esecutività diveniva aspramente critico in presenza delle domande di rivendica/restituzione, posto che non era affatto chiaro quale fosse l’oggetto del processo quando la domanda ha come contenuto una richiesta di rivendicazione o di restituzione del bene118. Qui il diritto in contesa sembrava essere ben scolpito da un diritto reale o da un diritto personale su beni detenuti dal fallito119; ma l’art. 96 l.fall., sanciva l’efficacia infraconcorsuale dei provvedimenti adottati nell’unico contenitore dell’accertamento del passivo; in tale contesto poteva, allora, assumere più pregnanza la tesi per cui oggetto della domanda non era il diritto sulla cosa ma il diritto alla sottrazione del bene dalla liquidazione concorsuale120; sennonché, l’eliminazione della domanda di separazione dei beni poteva giocare a sfavore della tesi, con il risultato che da una parte la domanda sembrava effettivamente fondarsi sul diritto sostanziale sulla cosa e dall’altra parte, però, la decisione non produceva effetti fuori dal concorso. Cogliere il significato di quella disposizione era estremamente problematico e così il codice della crisi è intervenuto modificando l’art. 204, 5° comma, CCII (sostitutivo dell’art. 96 l.fall.). Il risultato che ne è conseguito, è il seguente: il decreto di esecutività produce effetti extraconcorsuali quando l’oggetto della domanda è la rivendicazione o restituzione di una cosa – mobile o immobile –, questo perché la legge limita l’efficacia endoconcorsuale ai diritti di credito e ai diritti al riparto per le garanzie. Sciolto un enigma, però, si è creata una distonia di sistema perché viene emesso un provvedimento con efficacia decisoria nei confronti di qualcuno (il debitore) che non può difendersi. In tale contesto, sembrano, invero, violati gli artt. 24 e 111 cost.121 perché non viene osservato il principio cardine del diritto al

115

D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 227; Zulberti, Novità in tema di accertamento del passivo nella liquidazione giudiziale: riflessioni a prima lettura, cit. 116 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 541. 117 Bozza, Lo stato passivo, cit., 613; Spiotta, Il corretto significato della c.d. “efficacia preclusiva” del decreto di esecutorietà dello stato passivo, in Fallimento, 2016, 413. 118 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 557. 119 Tedeschi, L’accertamento del passivo, cit., 799. 120 Castagnola, Le rivendiche mobiliari nel fallimento, Milano, 1996, 110. 121 Per simili valutazioni v., D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, cit., 226. Di Amato, Diritto della crisi d’impresa,

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La formazione dello stato passivo davanti al giudice delegato tra esperienza e codice della crisi

contraddittorio. L’accoglimento della domanda di rivendica/restituzione porta alla sottrazione di un bene dal patrimonio del debitore senza che questi nulla possa obiettare: il debitore non partecipa alla formazione dello stato passivo ma non può, neppure, impugnarlo122. Ed allora, o si ritiene che per ragioni di sistema e di tutela del contraddittorio, quando il decreto di esecutività produce effetti di vincolo, pari al giudicato, contro il debitore questi possa impugnare lo stato passivo, oppure l’art. 204 CCII è incostituzionale nella parte in cui non consente tutela al debitore. La prima soluzione, però, presenta non pochi profili di criticità dal momento che il debitore comunque perderebbe ‘un grado di giudizio’, quello dinanzi al giudice delegato e, in ogni caso la lettura ortopedica delle norme sulla impugnazione rischia di essere destabilizzante per il sistema perché aprirebbe una diga, senza conoscere gli effetti della breccia. Taluno potrebbe obiettare che, in verità, la nuova regola altro non fa che rendere il sistema concorsuale coerente con l’espropriazione individuale e con i rimedi offerti al terzo che si può opporre al pignoramento ai sensi dell’art. 619 c.p.c.; e così, se nella espropriazione singolare si discutesse solo di accertamento sulla estraneità del bene alla esecuzione, mentre nella liquidazione giudiziale si discute anche del diritto di proprietà123, paradossalmente nell’esecuzione singolare il debitore avrebbe molte più tutele che nella espropriazione collettiva. Infatti, è indubbio che il procedimento di cui all’art. 619 c.p.c. vede coinvolto anche il debitore124, in un procedimento connotato dal rigore del litisconsorzio necessario125. La conferma della efficacia extraconcorsuale si ritrova nell’art. 210, 3° comma, CCII là dove si prevede che il decreto debba anche essere trascritto se il bene rivendicato o restituito è soggetto ad un regime legale di pubblicità; questa disposizione quasi tradisce l’eccesso di delega, posto che il delegante aveva espresso un principio più limitato per dare stabilità solo alle rivendiche immobiliari126.

Milano, 2021, XI, 7. Una diversa censura di costituzionalità è avanzata da Bozza, L’accertamento del passivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 1204, ad avviso del quale ad un identico procedimento fissato per crediti e diritti su cose non possono seguire decisioni con effetti diversi e così, il parametro di costituzionalità vietato sarebbe quello dell’art. 3 cost. 122 Cass., 5 aprile 2013, n. 8431; in verità Nigro-Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit., 270, mettono in luce che la delega imponeva l’efficacia ultraconcorsuale delle sole domande di rivendica e non anche di quelle di restituzione, Villa, La nuova liquidazione giudiziale: effetti per i creditori e accertamento del passivo, in Il diritto degli affari, 2019, 16 123 Menchini-Motto, L’accertamento del passivo e dei diritti reali e personali dei terzi sui beni, cit., 480. 124 Sulla natura litisconsortile del processo v., Cass., 1° giugno 2000, n. 7264; Cass., 22 giugno 1999, n. 6333; Cass., 9 agosto 1997, n. 7413. 125 La presenza del debitore rende, non immediatamente (ma v. infra nel testo) decisiva la questione su quale sia l’oggetto del processo di cui all’art. 619 c.p.c., v., Durello, Contributo allo studio della tutela del terzo nel processo esecutivo, Napoli, 2016, 257 ss. Senza poter prendere posizione su questo dibattito merita al riguardo però segnalare che chi ha sostenuto che l’oggetto sia costituito dal diritto sostanziale del terzo opponente non ha dovuto scontrarsi con il problema che invece si pone nell’ambito della liquidazione giudiziale, considerato che nel giudizio di opposizione ex art. 619 c.p.c. è pacifico che il debitore esecutato è parte necessaria: cfr., sul punto, Metafora, L’opposizione di terzo all’esecuzione, Napoli, 2012, 90, la quale evidenzia come se il thema decidendum dell’opposizione di terzo all’esecuzione fosse la legittimità dell’azione esecutiva con riguardo al suo oggetto non vi sarebbe ragione di ritenere il debitore litisconsorte necessario. Per analoghe riflessioni, si veda altresì Costantino, Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979, 316. Per Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, Milanofiori-Assago, 2016, 2119, l’oggetto dell’opposizione è il diritto di proprietà del terzo quale presupposto della illegittimità dell’esecuzione. 126 Bozza, L’accertamento del passivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, cit., 1204. Giordano-Tedeschi, Commentario al codice della crisi, cit., 876.

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Massimo Fabiani

V’è, dunque, da chiedersi quale possa essere la soluzione interpretativa migliore, non quella ottimale, visto il tessuto normativo. Se si assume che (i) il debitore non partecipa al processo, che (ii) la decisione produce effetti extraconcorsuali, che (iii) la norma sia costituzionalmente legittima, a me pare che il risultato debba essere quello per cui nella lite si dibatte sulla estraneità del bene alla liquidazione (una sorta di ‘novella separazione’)127; se tale estraneità viene affermata, il curatore non deve più custodire il bene e, anche ai fini delle proprie responsabilità, lo deve restituire al terzo che ha visto accogliersi la domanda di rivendica/restituzione. A quel punto, però, il debitore, senza dover attendere la chiusura della procedura, discorrendosi di beni non più compresi nel fallimento/liquidazione giudiziale (artt. 42 e 43 l.fall. e 142 e 143 CCII) potrà agire contro il terzo, senza trascinarsi i vincoli della decisione del giudice delegato. Una siffatta lettura, però, è anche gravida di effetti a favore del terzo perché il rigido limite probatorio di cui all’art. 619 c.p.c. sembra proprio conformarsi ad un bisogno preminente che è quello di estrarre un bene da una esecuzione. Assumere allora che la decisione produce effetti non limitati al concorso, se si riconosce il più limitato spettro del giudizio, consente di superare i dubbi di costituzionalità e consente di offrire maggiori tutele sia al terzo che al debitore.

10. Conclusioni. Una rassegna, più che altro di taglio espositivo con qualche frettolosa incursione dogmatica, potrebbe fermarsi qui. Tuttavia, a me pare che alcune considerazioni finali meritino di essere precisate sia nella prospettiva della ancor possibile lunga vita della legge fallimentare, sia in quella dell’alba di una nuova legge che l’emergenza pandemica sposta sempre più in là. Il procedimento di formazione dello stato passivo rappresenta un momento di svolta rispetto al telaio normativo ante-2006 perché non vi è dubbio che molti dei paradigmi del giusto processo siano stati innestati128, con una conseguente curvatura meno acuta per i diritti delle parti. La fioritura del codice della crisi non pare da questo punto di vista modificare l’impressione se si guarda al plesso normativo del procedimento, mentre una diversa impressione si potrebbe cogliere dall’impianto complessivo e andrebbe nella direzione di un recupero di centralità degli organi della procedura. Ma in disparte queste considerazioni ‘valoriali’ e per restare all’argomento esaminato, a me pare che restino all’orizzonte

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Baccaglini, Limiti probatori e azione di rivendica nel fallimento: un regolamento di confini tra l’art. 621 c.p.c. e le altre norme in materia di divieto di prova per testimoni, in Fallimento, 2016, 704; Durello, Sull’oggetto del giudizio di opposizione di terzo all’esecuzione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 1387; Bozza, Lo stato passivo, cit., 951; Vanz, Le opposizioni in materia esecutiva, in Diritto processuale civile, diretto da Dittrich, III, Milano, 2019, 4123. 128 Sassani, Miti e realtà dell’idea di giusto processo nel diritto fallimentare. Riflessioni sparse in margine al Trattato, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Jorio-Sassani, V, Milano, 2017, 1299.

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– senza che ci si sia accostati ad una coerente soluzione – non poche questioni. Una lettura orientata sulle disposizioni che regolano il procedimento sembrerebbe confortare la postulazione per la quale siamo dinanzi ad un giusto processo, esattamente riconducibile all’alveo dell’art. 111, 2° comma, cost. Ma se ci dotiamo di uno scandaglio e guardiamo un poco più in profondità non possiamo non avvederci che le regole ancillari, il più delle volte prelevate dal codice civile e talora da quello di rito, sembrano spingere il creditore (o il rivendicante) verso un angolo buio, dal quale può svicolare solo con grande avvedutezza e una dose non comune di esperienza. Sì, è vero, il procedimento si svolge davanti ad un giudice terzo e imparziale; sì, è vero, alle parti sono assegnati poteri istruttori più ampi che in passato; sì, è vero, l’assenza di preclusioni nella fase sommaria consente al creditore di difendersi dalle eccezioni del curatore; sì, è vero, il giudice non può esorbitare dai limiti di cui all’art. 112 c.p.c. Sennonché il percorso che impegna il creditore è seminato di tranelli e trabocchetti se solo pensiamo al regime delle prove, prove tutte orientate a favorire la posizione del curatore che può muoversi con agilità spaziando da una eccezione che muove dal rapporto debitore-creditore o da un’altra che muove dal rapporto massa dei creditori-debitore; il curatore può vestire l’abito del terzo e assieme, o subito dopo, disfarsene e indossare quello della parte. Tutto ciò accade, sia ben chiaro, in una cornice di totale legalità perché invocare gli artt. 2704, 2710 c.c., l’art. 621 c.p.c. è non solo potere del curatore, ma dovremmo aggiungere un vero e proprio dovere visto che deve tutelare una varietà di interessi e di parti interessate. Ciò nondimeno, se si ha un poco di sensibilità e se si ha la fortuna di poter guardare le cose tanto dal lato del creditore che del curatore, si avverte un difetto di proporzionalità. È davvero sempre necessario elencare una sfilza di eccezioni e cercare di paralizzare una domanda di credito ad ogni costo? Anche nel rispetto del principio di economia processuale e del principio di proporzionalità forse si dovrebbe rispondere che un uso più accorto degli attrezzi difensivi in dotazione al curatore potrebbe rivelarsi condotta virtuosa. Tuttavia, proprio perché il curatore assume ruoli ancipiti e funge da collettore di interessi plurali, mi rendo conto che suggerire al curatore di assumere un atteggiamento meno rigido potrebbe disvelare una sorta di ‘istigazione’ a compiere condotte anti-doverose. Questa sconfortante conclusione, però, può essere adeguatamente mitigata e nelle superiori considerazioni già si è anticipato quale dovrebbe essere una virtuosa soluzione: proprio in questa materia, dove le regole probatorie sono clamorosamente sbilanciate contro una delle parti, è la regola probatoria dominante a dover essere invocata: è nell’art. 116 c.p.c. la risposta: “Il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento”. E così è il giudice delegato che deve farsi riequilibratore delle regole del giuoco in modo che i risultati dello stato passivo siano, quanto più possibile, vicini alle realtà dell’impresa perché non si può dimenticare che il procedimento di formazione dello stato passivo è, pur sempre, solo uno strumento accessorio al fine ultimo dato dal soddisfacimento dei creditori quale epilogo della crisi di una impresa.

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Giurisprudenza commentata

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Giurisprudenza Cass. civ., Sez. Un., sentenza 6 luglio 2021, n. 4850; Pres. Virgilio; Rel. Ferro Regolamento di giurisdizione – Ordinamento sportivo – Sanzioni disciplinari – Principio di autonomia Il principio di autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, riconosciuto come articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale, facente capo al Comitato olimpico internazionale, è stato declinato dall’art. 1, d.l. 220 del 2003 anche per i rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica, con salvezza dei casi di rilevanza per il secondo di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo. Così che l’art. 2 ha fissato il perimetro della riserva attribuendo all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto: l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive. (1)

(Omissis) Fatti di causa. 1. FOGGIA CALCIO s.r.l. in liquidazione [FOGGIA] propone ricorso per regolamento di giurisdizione nel procedimento n. 8658/2019 avanti al TAR Lazio e contro F.I.G.C. Federazione Italiana Giuoco Calcio [FIGC], LEGA NAZIONALE PROFESSIONISTI SERIE B [LEGA B], U.S. SALERNITANA 1919 s.r.l. [SALERNITANA], COMITATO OLIMPICO NAZIONALE ITALIANO C.O.N.I. [CONI], U.S. CITTÀ DI PALERMO S.P.A. [PALERMO], introdotto per la declaratoria di annullamento dell’intero giudizio sportivo disciplinare promosso dalla Procura federale della FIGC il 15.5.2018, culminato nella penalizzazione di punteggio nel campionato di calcio di serie B) (stagione 2018-19), nonché l’esclusione, a seguito della retrocessione in serie C), dalla partecipazione alla stessa serie B) per il successivo campionato (stagione 2019-20), con richiesta di danni; conseguentemente l’annullamento era domandato per una serie di decisioni di organi disciplinari dell’ordinamento federale, la classifica finale del primo campionato, altre decisioni rese in punto di minori penalizzazioni a carico della società PALERMO, il sistema di licenze nazionali adottato per l’ammissione al secondo campionato (2019-20, in serie C), lo svincolo dei tesserati;

2. ha precisato la ricorrente che: a) avanti al Tribunale di Foggia aveva instaurato giudizio ex art.414 c.p.c. per far accertare in via incidentale la invalidità degli atti che avevano pregiudicato la citata partecipazione alle attività sportive; b) con altro ricorso (n. 54/2019) avanti a TAR Lazio è stata impugnata la decisione del Consiglio Direttivo Lega serie B) laddove ha negato farsi luogo ai play out per il campionato 2018-19, ivi conseguendo decreto presidenziale 23.5.2019 di accoglimento, senza ottemperanza da parte della Lega serie B); 3. la stessa ricorrente ha premesso che le citate contestazioni vertevano su: a) rideterminazione della sanzione di sei punti di penalizzazione, da parte della corte federale d’appello - sezioni unite FIGC e in sede di giudizio di rinvio, oltre due mesi dalla pubblicazione del dispositivo dell’atto impugnato, in apparente violazione del ripristinato precetto, già introdotto con l’art.1 co.3 d.I. 5 ottobre 2018, n.115 non convertito in legge, per effetto dell’art. 1 co. 647 I. 30 dicembre 2018, n. 145; b) illegittima estromissione dai play out del campionato serie B) 2018-19, fatti disputare a due diverse società; c) illegittimità della decisione del Collegio di garanzia-CONI-sezioni unite 6.9.2019 di non impugnabilità avanti al G.A. della non ammissione ai campionati del FOGGIA, lad-

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Giurisprudenza

dove oggetto era la decisione della corte federale d’appello, in giudizio disciplinare asseritamente chiuso a terzi, relativa al Palermo; 4. è dunque invocata la declaratoria di sussistenza originaria della giurisdizione amministrativa quanto al controllo di legittimità dei ‘provvedimenti amministrativi pubblicistici’ nei quali si sostanziano le decisioni degli organi di giustizia delle Federazioni sportive del CONI, con riguardo all’impugnata decisione di esclusione del Palermo, incidendo quella pronuncia – benché disciplinare – su diritti soggettivi rilevanti per l’ordinamento statuale, secondo la configurazione condizionante la partecipazione a competizioni professionistiche; pari giurisdizione è di invocata spettanza del TAR Lazio, e non della giustizia sportiva, ancorché nella forma prodromica introdotta con il citato art.l co. 647 I. 145 del 2018, relativamente all’intero processo subito dalla società e con l’esito di penalizzazione, sanzione che ha provocato in modo diretto la sua esclusione dal campionato; 5. resistono al ricorso FIGC, LEGA B, SALERNITANA, con controricorso; la società FOGGIA ha depositato memoria nella quale, tra l’altro, comunica la sua avvenuta dichiarazione di fallimento ad opera del Tribunale di Foggia; anche la FIGC ha depositato memoria. Ragioni della decisione. Considerato che: 1. premette il Collegio che il dichiarato sopraggiungere della sentenza di fallimento della società ricorrente non condiziona la procedibilità del presente giudizio, dominato dal principio officioso, nonostante l’intervenuta modifica dell’art. 43 l.f., per effetto dell’art. 41 del d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, nella parte in cui recita che “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”; ne deriva che «non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge» (Cass. 27413/2017, 21153/2010);

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2. va preliminarmente rilevato che il ricorso, pur enunciando di voler cumulare le impugnative di plurime delibere della federazione sportiva FIGC, del CONI, della Lega Nazionale Professionisti di serie B), della Lega Pro B e di decisioni degli organi di giustizia sportiva, focalizza la essenziale richiesta di annullamento avverso tutti gli atti connotativi del giudizio disciplinare subito dalla società calcistica Foggia, nonché di quello concluso a carico di altra società (PaIermo); 3. il promuovimento del regolamento di giurisdizione viene così declinato nella finale richiesta di attribuzione della ‘competenza esclusiva’ del giudice amministrativo rispetto alle attività decisorie degli organi della giustizia sportiva; tuttavia non risulta allegata alcuna contestazione, ad opera delle altre parti chiamate nel giudizio avanti al TAR Lazio, circa la spettanza a quel giudice della giurisdizione, per come chiamata al controllo di legittimità degli atti e provvedimenti già in vario modo avversati o non condivisi nell’ordinamento sportivo; la disputa concerne infatti e piuttosto la latitudine dei poteri d’intervento del giudice amministrativo, adito proprio dal ricorrente e del quale le Sezioni Unite dovrebbero affermare una potestà di censura ovvero sostituzione degli atti impugnati, mentre le altre parti delimitano i confini della giurisdizione, che non è contestata, al più stretto ambito provvedimentale risarcitorio, in presenza dei relativi presupposti di merito; 4. da ciò consegue un primo limite contenutistico di ammissibilità del ricorso, per difetto di interesse processuale, poiché tutti gli atti impugnati ed appartenenti alle due categorie che si è qui tentato di riassumere appaiono pacificamente devoluti alla giurisdizione cognitiva del giudice amministrativo, investito anche dell’apprezzamento degli eventuali errori di giudizio riferibili agli enti ed organi dell’ordinamento sportivo e ciò pur quando i secondi avessero adottato pronunce in luogo della predetta giurisdizione statale; va così manifestata continuità al principio, denegativo


Piero Sandulli

per tale ipotesi di una questione di riparto, per cui «le norme contenute nei regolamenti delle federazioni sportive nel prevedere un articolato sistema interno per la risoluzione delle controversie tra soggetti inquadrati nella stessa federazione non importano alcuna deroga alle norme statuali sulla giurisdizione del giudice ordinario in ordine alle dette controversie né sotto il profilo dell’istituzione di una giurisdizione speciale ne’ sotto quello dell’introduzione di un sistema di ricorsi amministrativi pregiudiziale all’azione giudiziaria, l’una e l’altro potendo essere disciplinati soltanto per legge, ma possono eventualmente introdurre solo una questione di competenza ... come tale non proponibile in sede di regolamento di giurisdizione» (Cass. s.u. 7132/1998, 1531/1983); a questa prima conclusione si perviene considerando che, ai sensi dell’art. 386 c.p.c., «la decisione della giurisdizione è determinata dall’oggetto della domanda, che è da identificare non già in base al criterio della c.d. prospettazione (ossia avente riguardo alle deduzioni ed alle richieste formalmente avanzate da/l’istante), bensì sulla base del c.d. petitum sostanziale, quale può individuarsi indagando sull’effettiva natura della controversia, in relazione alle caratteristiche del particolare rapporto fatto valere in giudizio ed alla consistenza delle situazioni giuridiche soggettive su cui esso si articola e si svolge» (Cass. s.u. 1622/2005, 6850/2010); 5. per altro profilo, va riconosciuto che sussiste in materia il difetto assoluto di giurisdizione statuale rispetto alle prerogative degli organi della giustizia sportiva, in continuità con l’indirizzo espresso da queste Sezioni Unite nella sentenza n. 33536 del 2018, secondo cui «in tema di sanzioni disciplinari sportive, vi è difetto assoluto di giurisdizione sulle controversie riguardanti i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni, riservate, a tutela dell’autonomia dell’ordinamento sportivo, agli organi di giustizia sportiva che

le società, le associazioni, gli affiliati e i tesserati hanno l’onere di adire ai sensi del d.l. n. 220 del 2003, conv. in legge n. 280 del 2003, anche ove si invochi la tutela in forma specifica della rimozione della sanzione disciplinare»; il principio, in particolare, può essere ribadito con le integrazioni derivanti dall’intervento legislativo che ha investito l’art. 3 del decreto legge 19 agosto 2003, n. 220, convertito nella legge 17 ottobre 2003, n.280, per come modificato dapprima con l’art.1 co. 3 d.l. 5 ottobre 2018, n.115 (non convertito in legge) e poi, come anticipato, per effetto dell’art.! co. 647 I. 30 dicembre 2018, n. 145, vigente in formulazione definitiva dal 1° gennaio 2019, ma applicabile anche ai processi e alle controversie in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione, come disposto dal relativo co. 650 ancora dell’art. 1 citato; 6. il principio di autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, riconosciuto quale “articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale” è stato declinato dall’art. d.l. 220 del 2003 anche per i “rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica”, con salvezza dei “casi di rilevanza” per il secondo “di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo” (art. 1), così che l’art. 2 ha fissato il perimetro della riserva, attribuendo “all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto: a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive” (co. 1); l’accesso regolatorio dei conflitti risulta conseguentemente canalizzato ove si impone alle società, associazioni, affiliati e tesserati “l’onere di adire, secondo le previsioni degli statuti e regolamenti del

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Giurisprudenza

Comitato olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive di cui gli articoli 15 e 16 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, gli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo” (co. 2); 7. l’art. 3 d.l. cit. disciplina infine il rapporto con la giurisdizione, distribuendo attribuzioni fra giudice ordinario e amministrativo e assicurando, proprio con la menzionata modifica introdotta nel 2018, un assetto di autonomia ed efficacia alla giustizia sportiva; esso così prevede che: a) una volta “esauriti i gradi della giustizia sportiva”, resta ferma la giurisdizione del giudice ordinario su “rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti”, mentre “ogni altra controversia” con oggetto atti del CONI o delle Federazioni sportive non oggetto di riserva ai sensi dell’art. 2, è disciplinata dal codice del processo amministrativo; b) viene però fatto salvo “quanto eventualmente stabilito dalle clausole compromissorie previste dagli statuti e dai regolamenti” del CONI e delle Federazioni, nonché quelle inserite nei contratti di cui all’articolo 4 della legge 23 marzo 1981, n. 91; c) infine, per ciò che qui specialmente rileva, restano “in ogni caso riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ed alla competenza funzionale inderogabile” del TAR - Roma, “le controversie aventi ad oggetto provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche, o comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche” per le quali è sì “esclusa ogni competenza degli organi di giustizia sportiva”, ma “fatta salva la possibilità che lo statuto e i regolamenti del CONI e conseguentemente delle Federazioni sportive di cui gli articoli 15 e 16 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, prevedano organi di giustizia dell’ordinamento sportivo che, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, ... decidono tali questioni anche nel merito ed in unico grado e le cui statuizioni, impugnabili ai sensi del precedente periodo, siano rese in via definitiva entro il termi-

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ne perentorio di trenta giorni dalla pubblicazione dell’atto impugnato. Con lo spirare di tale termine il ricorso all’organo di giustizia sportiva si ha per respinto, l’eventuale decisione sopravvenuta di detto organo è priva di effetto e i soggetti interessati possono proporre, nei successivi trenta giorni, ricorso dinanzi” al TAR Lazio; 8. la norma, nella proposizione principale riportata al superiore punto 7, sub c), dà ulteriormente conto della valutazione di inammissibilità sopra esplicitata relativamente al primo profilo dell’istanza di regolamento di giurisdizione, mentre per la proposizione subordinata rinvia ai limiti, ancora una volta contenutistici, che attengono allo stesso perimetro d’intervento del giudice amministrativo; essi, nonostante la modifica dell’art. 1 co. 647 e 647 della I. n. 145 del 2018, non appaiono mutati rispetto alla rilevazione già effettuata da queste Sezioni Unite con sentenza n. 33536 del 2018, non essendo stato inciso l’art. 133 co. 1 (e 135 co. 1) del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (C.P.A.), quanto alla giurisdizione esclusiva, né sul punto in cui esso l’assegna per le controversie aventi ad oggetto atti del CONI o delle Federazioni sportive non riservate agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ed escluse quelle inerenti i rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti (lett. z), né su quello, meramente riproduttivo della sopra trascritta disposizione del 2018, in cui si menzionano, appunto, le controversie relative ai provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche, o comunque incidenti sulla partecipazione alle relative competizioni (lett. z-septies, art. 133 co. 1 e lett. q-sexies, art. 135 co. 1 C.P.A.); 9. ha così ricordato Cass. s.u. 33536 del 2018 che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 49 del 2011, già aveva ritenuto la non fondatezza della questione di costituzionalità sollevata per


Piero Sandulli

la riserva agli organi di giustizia sportiva della competenza a decidere le controversie aventi ad oggetto le sanzioni disciplinari, con sottrazione del sindacato al giudice amministrativo, ma ha «interpretato il sistema nel senso che laddove il provvedimento adottato dalle federazioni sportive o dal CONI abbia incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico statale, la domanda volta ad ottenere non la caducazione dell’atto, ma il conseguente risarcimento del danno, possa (e debba) essere proposta innanzi al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, non operando alcuna riserva a favore della giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria nemmeno può essere fatta valere»; ne consegue che il citato perimetro della giurisdizione esclusiva facente capo al giudice amministrativo, «nonostante la riserva a favore della giustizia sportiva», qui ribadita, permette di conoscere in via incidentale e indiretta delle sanzioni disciplinari allo scopo di rendere una pronuncia sulla domanda risarcitoria proposta da società, associazione o atleti che ne siano i destinatari; per tali vicende, si è concluso, «l’esplicita esclusione della diretta giurisdizione sugli atti attraverso i quali sono state irrogate le sanzioni disciplinari - a tutela dell’autonomia dell’ordinamento sportivo - consente infatti di agire in giudizio per ottenere il conseguente risarcimento del danno a chi lamenti la lesione di una situazione soggettiva giuridicamente rilevante»; 10. la condivisa lettura riportata è aggiornabile traendo indicazioni convergenti dalla successiva sentenza Corte cost. n. 160 del 2019 che, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 co. 1 lett. b) e 2 del d.l. n. 220 del 2003, ha espresso continuità con l’analoga pronuncia n. 49 del 2011, su cui il sistema delle relazioni fra ordinamenti - anche nel quadro delle relazioni della giustizia sportiva con la giurisdizione - era stato ricostruito dal citato precedente di queste Sezioni Unite; va allora espres-

sa conferma al principio per cui nelle controversie con oggetto – com’è nella specie – sanzioni disciplinari sportive che incidano su situazioni soggettive rilevanti per l’ordinamento statuale la proponibilità della domanda risarcitoria avanti al giudice amministrativo in via esclusiva continua a negare a quella giurisdizione lo svolgimento di una tutela diretta di annullamento, in conformità alla più ampia «previsione di una diversificata modalità di tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi»; si tratta di una forma di «tutela per equivalente, per quanto diversa rispetto a quella di annullamento in via generale assegnata al giudice amministrativo» che risulta «in ogni caso idonea ... a corrispondere al vincolo costituzionale di necessaria protezione giurisdizionale de/l’interesse legittimo ... frutto infatti del non irragionevole bilanciamento operato dal legislatore fra il principio costituzionale di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale e le esigenze di salvaguardia de/l’autonomia de/l’ordinamento sportivo – che trova ampia tutela negli artt. 2 e 18 Cast. – ... che lo ha indotto ... ad escludere la possibilità dell’intervento giurisdizionale maggiormente incidente su tale autonomia»; 11. si può allora precisare che, per effetto dell’art. 1 co. 647 della legge n. 145 del 2018, la disciplina legislativa attinente ai meccanismi di collegamento fra ordinamento sportivo e ordinamento statale si è solo arricchita di un’ulteriore ipotesi, con l’assegnazione alla giurisdizione amministrativa degli inediti casi di cui alla citata lett. z-septies del co. 1 art. 133 C.P.A., cioè le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche o comunque incidenti sulla partecipazione alle corrispondenti competizioni; nemmeno tale inserzione, tuttavia e come accaduto per i comportamenti – ex art. 2, co.1, lett. b) d.l. n. 220 del 2003 – rilevanti sul piano di-

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sciplinare e l’irrogazione e applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive (con riguardo al profilo risarcitorio, secondo l’interpretazione adeguatrice di Corte cost. n.49 del 2011), appare essere stata congegnata come deroga assoluta all’autonomia dell’ordinamento sportivo; 12. di quelle controversie se ne possono infatti occupare tuttora i relativi organi di giustizia rispettivamente istituiti secondo statuto e regolamenti del CONI e poi delle Federazioni sportive; la normativa è invero articolata in primo luogo replicando l’ulteriore vincolo pregiudiziale di necessaria procedibilità e poi, con complessa attribuzione ad essi di decisioni anche nel merito, unico grado di pronuncia, da emettere entro trenta giorni dalla pubblicazione dell’atto impugnato e conseguentemente fissando la giurisdizione amministrativa, nonostante l’enfatica enunciazione del precetto, quale circoscritta, sussistendo i citati requisiti organizzativi di quella sportiva, ad una prerogativa di tendenziale competenza impugnatoria; a differenza della vicenda culminata nella definizione, ospitante il diritto vivente, della giurisdizione amministrativa sulla tutela risarcitoria da illecito ove la questione disciplinare sia stata decisa in violazione di diritti soggettivi o interessi legittimi, nella nuova rivista fattispecie, di natura non disciplinare, il bilanciamento fra ordinamenti è allestito mediante una diretta previsione normativa che, a regime, individua due possibili fasi giustiziali, la prima propria dell’attività degli organi sportivi, la seconda in capo al TAR Lazio in funzione di controllo con tutela anche caducatoria sull’atto degli organi dell’ordinamento sportivo; si tratta di una scelta che, non adottando la sola tutela per equivalente (come nel primo, più generale, ambito), appare a maggior ragione immune da dubbi di compatibilità con gli artt. 103 e 113 Cost., potendosi qui rammentare come lo scrupolo sul preteso astratto carattere costituzionalmente necessitato della tutela demolitoria degli interessi legittimi sia stato

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respinto proprio da Corte cost. n. 160 del 2019, secondo un insegnamento che è utile riprendere al fine precipuo di orientare in termini selettivi il perimetro interpretativo di tale seconda sussistenza della giurisdizione amministrativa; 13. il presente regolamento di giurisdizione è pertanto inammissibile ove impropriamente - e nonostante l’affastellamento delle censure - invochi una diversa tutela di tipo demolitorio in capo al giudice amministrativo, avendo riguardo agli esiti del procedimento disciplinare comunque inteso, cioè sia con riguardo agli atti degli organi di giustizia sportiva disciplinare adottati al culmine delle vicende direttamente attinenti alla società ricorrente, sia per quelli afferenti ad altra società; invero è palese che la nozione di provvedimenti “comunque incidenti sulla partecipazione a competizioni professionistiche”, secondo il testo dell’art. 3 d.l. n. 220 del 2003 (ora art. 133 co. 1 lett. z-septies C.P.A), va interpretata ricercando la più logica vicinanza alla positiva nozione di “provvedimenti di ammissione ed esclusione dalle competizioni professionistiche delle società o associazioni sportive professionistiche”, quale complessiva materia aperta ma nettamente comunque diversa rispetto a quella disciplinare, indicata come espresso oggetto di riserva all’ordinamento sportivo nell’art. 2 co. 1 lett. b) d.I. cit.; in tal modo, è evitato che la codificata connotazione di tipicità delle condotte e dei conseguenti atti a valenza disciplinare diretta venga spostata, in sede di controllo giustiziale, solo in virtù delle mere conseguenze effettuali, sull’accesso alle competizioni, che le relative sanzioni possano comunque assumere, ma che non per questo fanno perdere identità alla fattispecie da scaturiscono; concorre invero a siffatta lettura selettiva la più generale costruzione del rapporto duale fra ordinamenti, all’insegna dell’immutato riconoscimento di autonomia di quello sportivo, così determinandosi l’impossibilità di ricomprendere tra i provvedimenti che incidono sulla par-


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tecipazione alle competizioni altresì tutti quelli da cui comunque derivino (su di esse) meri effetti indiretti, come nel caso delle decisioni della giustizia disciplinare sportiva che, nella presente vicenda, hanno condotto la società Foggia, con le penalizzazioni in classifica riportate, alla retrocessione dapprima nella serie C calcistica o altra società a rimanervi; né può esservi dubbio, come ricordato più di recente da Cass. s.u. 29654/2020, della «inesistenza della giurisdizione statuale, comprendendo il giudizio sulla irrogazione della sanzione anche quello sul procedimento che vi conduce, ivi compresa l’individuazione degli organi competenti»; comprovata responsabilità processuale aggravata, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 96 c.p.c., non potendosi affermare che sia mancato del tutto, nel ricorrente, il riscontro preventivo -–nell’esercizio sia pur minimo di ele-

mentare diligenza – dell’erroneità della propria tesi alla stregua della disciplina positiva e della giurisprudenza (Cass. s.u. 3057/2009); 15. va conclusivamente dichiarata l’inammissibilità del ricorso; vi è luogo a pronunzia sulle spese del giudizio di legittimità, secondo la regola della soccombenza e con liquidazione come meglio da dispositivo. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, liquidate – in favore di ciascun controricorrente – in euro 8.000, di cui euro 200 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge. (Omissis)

Giurisdizione in tema di sanzioni disciplinari sportive Sommario:

1. Posizione del tema. – 2. Valutazione relativa alla giurisdizione. – 3. La legge n. 280 del 2003. – 4. Valutazioni in tema di giurisdizione esclusiva. – 5. L’azione di risarcimento del danno. – 6. La sistematica del riparto. – 7. Conclusioni in tema di danno.

Il presente articolo analizza la decisione delle Sezioni Unite della Suprema Corte del 23 febbraio 2021, con la quale è stato deciso un regolamento di giurisdizione in tema di sanzioni disciplinari sportive. Prendendo le mosse da tale pronuncia, l’Autore ripercorre l’orientamento giurisprudenziale già formatosi in materia ed analizza la normativa esistente in tema di giurisdizione esclusiva in ambito sportivo. This article analyzes the decision of United Sections of the High Court of 23rd of february 2021, with which a jurisdictional regulation was decided on the subject of sporting disciplinary sanctions. Starting from this pronunciation, the Autor traces the jurisprudential orientation formed on the subject and analyzes the existing regulation on the subject of exclusive jurisdiction in the sport field.

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1. Posizione del tema. Con l’ordinanza del 23 febbraio 2021, avente numero di ruolo 4851, le Sezioni Unite civili della Suprema Corte di Cassazione hanno deciso in merito ad un ricorso per regolamento di giurisdizione, promosso in base al dettato dell’articolo 41 del codice di rito civile. Alla Cassazione veniva richiesto di risolvere, in via preventiva, la questione relativa alla giurisdizione del giudice adito: il giudice ordinario del lavoro di Foggia, nel procedimento giurisdizionale finalizzato ad ottenere l’annullamento, in via incidentale (rectius: la disapplicazione) dei provvedimenti di esclusione della società sportiva dal campionato di calcio di serie B, con conseguente richiesta dei danni.

2. Valutazione relativa alla giurisdizione. La Corte di cassazione, nel suo ruolo di giudice della giurisdizione, partendo dal dettato normativo della legge n. 280 del 2003, ha negato (nel caso portato alla sua attenzione) la giurisdizione del giudice ordinario. Invero, alla luce del dettato dell’articolo 3 della legge n. 280 del 2003, la Corte di Cassazione ha riscontrato la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, a norma della lettera Z, dell’articolo 133, del codice del processo amministrativo (decreto legislativo n. 104 del 2010). Ad un tempo la Corte Suprema ha escluso la possibilità, in merito alle questioni azionate con ricorso ex art. 414 c.p.c., di ottenere, da parte in un giudice statale (prescindendo dalla giurisdizione), la tutela dell’annullamento del provvedimento emesso dai giudici esofederali, sedenti presso il CONI, del Collegio di garanzia per lo sport. La ordinanza della Corte di Cassazione offre lo spunto per operare alcune osservazioni, in tema di tutela, delle situazioni giuridiche protette, nell’ambito dello sport, tra giustizia sportiva e giurisdizione statale.

3. La legge n. 280 del 2003. La decisione della Suprema Corte, nell’individuare il giudice statale munito di giurisdizione sul tema dedotto in giudizio (non è chiaro perché sia stato proposto un giudizio innanzi al giudice del lavoro) ripercorrere l’iter argomentativo della legge n. 280 del 2003 e più specificamente il tema, tratto dall’articolo 3, relativo allo sbarco della questione innanzi al giudice statale, esauriti i gradi interni della giustizia sportiva. Prima di entrare nello specifico della decisione annotata è bene ricordare, come fa la stessa Suprema Corte, che la vicenda ha già avuto un doppio vaglio di costituzionalità, ad opera dei giudici della legittimità delle leggi, che con le decisioni numero 49 del 2011

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e numero 160 del 2013 si sono occupati di essa, giungendo alla conclusione della piena legittimità costituzionale del sistema, relativo all’autonomia della giustizia sportiva, dettato dalla legge n. 280 del 2003 che, come è noto, ha convertito in legge, con rilevanti modificazioni, il decreto n. 220 dell’agosto 2003. Pertanto, la Corte di Cassazione ricorda che “il principio di autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, riconosciuto come articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale, facente capo al Comitato Olimpico Internazionale”, è stato declinato dall’art. 1 d.l. 220 del 2003 anche per i “rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica”, con salvezza dei “casi di rilevanza” per il secondo “di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo” (art. 1). Così che l’art.2 ha fissato il perimetro della riserva, attribuendo “all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto: a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive” (co. 1). L’accesso regolatorio dei conflitti risulta conseguentemente canalizzato ove si impone alle società, associazioni, affiliati e tesserati “l’onere di adire, secondo le previsioni degli statuti e regolamenti del Comitato olimpico nazionale italiano e delle Federazioni sportive di cui gli articoli 15 e 16 del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, gli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo” (co. 2). L’art.3 del citato decreto legge disciplina infine il rapporto con la giurisdizione, distribuendo attribuzioni fra giudice ordinario e amministrativo e assicurando, da ultimo con la modifica introdotta con l’art. 1, comma 647, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, un assetto di autonomia ed efficacia alla giustizia sportiva. Esso prevede, per quanto qui di specifico interesse, che una volta “esauriti i gradi della giustizia sportiva”, resta ferma la giurisdizione del giudice ordinario su “rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti”, mentre “ogni altra controversia” con oggetto atti del CONI o delle Federazioni sportive non oggetto di riserva ai sensi dell’art. 2, è disciplinata dal codice del processo amministrativo; la norma consente allora un’ulteriore valutazione sulla fondatezza dei regolamenti di giurisdizione, con riguardo ai limiti contenutistici che attengono allo stesso perimetro d’intervento del giudice amministrativo; essi, anche dopo la modifica del 2018 (qui non rilevante), non appaiono infatti mutati rispetto alla rilevazione già effettuata da queste Sezioni Unite con sentenza n. 33536 del 2018, non essendo stato inciso l’art. 133 co. 1 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (C.P.A.), quanto alla giurisdizione esclusiva (sub lettere z e z-septies)”.

4. Valutazioni in tema di giurisdizione esclusiva. Prendendo lo spunto dai rilievi formulati dalla ordinanza annotata è possibile riprendere alcune valutazioni in tema di giurisdizione esclusiva in ambito sportivo.

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Come è noto la legge n. 280/03, con l’articolo 3, dà vita ad una nuova ulteriore ipotesi di giurisdizione esclusiva in relazione alle vicende insorte nell’ambito sportivo. Senza voler entrare nella valutazione, comunque rilevante, se tale giurisdizione sia conforme ai parametri, sopravvenuti, dettati dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 20041, è invece necessario interrogarci, anche dopo l’addenda intervenuta con il comma 647, dell’articolo 1, della legge di bilancio per il 2019 (legge 30 dicembre 2018, n. 145), circa l’effettivo spessore di questa. Dovendo, anche, verificare se (e per quanta parte) ci si trovi in presenza, invece, di giurisdizione propria del giudice amministrativo, trattandosi di un giudizio su atti amministrativi dai quali scaturiscono sotto il profilo della tutela interessi legittimi. Invero, prendendo le mosse dalla giurisprudenza dei giudici amministrativi che in più circostanze2 ha equiparato la pronuncia dei giudici sportivi, sedenti presso il CONI, ad un atto amministrativo, dovrebbe scaturire la logica conseguenza che l’impugnazione di detta pronuncia (quando essa è possibile3) innanzi ai giudici amministrativi, sia il frutto della corretta e rituale attuazione del riparto di giurisdizione disegnato dalla Carta costituzionale (artt. 24, 103 e 115 Cost.) in quanto non si discute di diritti soggettivi, bensì di interessi legittimi (se i giudici sportivi esofederali abbiano attuato il loro potere secondo imparzialità e buon andamento). Alla luce di questa premessa è chiaro che non si sta tutelando un diritto soggettivo, quello della iscrizione al campionato di calcio o quello della permanenza in esso (vantato nel caso in esame dalla società sportiva di Foggia), bensì della corretta attuazione della procedura di esclusione ad opera della giustizia sportiva. È proprio dell’ulteriore ipotesi di “giurisdizione esclusiva” nata nel mondo dello sport, quella relativa all’esclusione dai campionati, che ha prodotto l’addendo all’articolo 133 del codice del processo amministrativo, la lettera z-septies (ventisettesimo caso di giurisdizione esclusiva), che queste considerazioni trovano ulteriore spessore in quanto non esiste il diritto a partecipare ad un torneo, ma soltanto l’interesse a poterlo fare avendone (e mantenendone) i requisiti. Il controllo dei requisiti tecnici e finanziari di partecipazione compete alle federazioni sportive a cui è stato delegato dal CONI, in base all’articolo 23 dello Statuto del Comitato olimpico, ente pubblico chiamato a promuovere e coordinare lo sport agonistico in Italia.

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Vedila in D&G, 2005, 20, 99, La decisione della Consulta, unitamente alla coeva pronuncia n. 281, del 28 luglio 2004, fa il punto sulla giurisdizione esclusiva in un momento nel quale sembravano prelevare le indicazioni che portavano ad una “giurisdizione per materia”. Sul punto in dottrina vedi: A. Police, Il ricorso di piena giurisdizione davanti al giudice amministrativo, vol. II, contributo alla teoria dell’azione nella giurisdizione esclusiva, Padova, 2001; M. Sanino, Il nuovo riparto delle giurisdizioni “voluto” dalla Corte costituzionale, Roma, 2005, 135. 2 Cfr. Consiglio di Stato, 23 aprile 2011, n. 2485, in Foro amm., CDS 2011, 4, 1339, TAR Lazio, sez. III, 17 aprile 2014, n. 4138, in Guida al dir., 2014, 20, 84, Consiglio di Stato, sez. V, 20 dicembre 2018, n. 7165, in Riv. dir. sport., 2019, 159, con nota di P. Sandulli. In dottrina vedi, sul punto, M. Sanino, Giustizia Sportiva, Padova, 2016, 25. 3 I limiti alla possibilità di impugnare innanzi ai giudici statali, ordinari o amministrativi, sono contenuti nel dettato dell’art. 3 della legge n. 280 del 2003. Sul punto vedi, in dottrina: P. Sandulli, M. Sferrazza, Il giusto processo sportivo, Milano 2015, 17.

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5. L’azione di risarcimento del danno. Collocata nel contesto sopra descritto la tutela, occorre ora riflettere sulla azione di risarcimento del danno, promossa nel giudizio del quale si è chiesta la corretta individuazione della giurisdizione. Le due decisioni della Corte Costituzionale4, in precedenza ricordate, operando sulla medesima lunghezza d’onda, offrono una lettura costituzionalmente orientata della legge n. 280 del 2003 giungendo alla univoca conclusione che decisioni dei giudici sportivi non sono soggette ad una tutela di annullamento, ma, ove se ne accerti la illegittimità, ad una tutela per equivalenti, vale a dire che tali decisioni, fermi i loro effetti di natura disciplinare, possono essere “sanzionate” da una azione risarcitoria da esperirsi, innanzi al giudice amministrativo munito di giurisdizione esclusiva (art. 133, lettera Z del codice di rito amministrativo). Le decisioni dei giudici della legittimità delle leggi sono però relative alla procedura disciplinare “ordinaria” e non ai procedimenti dettati dal comma 647, articolo 1, della legge di bilancio per il 20195. Tale nuovo ed aggiuntivo procedimento, eliminando la tutela da parte degli organi di giustizia sportiva interni alle federazioni, consente ai soli giudici sportivi, sedenti presso i CONI, di occuparsi della questione delle iscrizioni o delle esclusioni dai campionati, prima dell’eventuale ricorso al giudice statale. La legge n. 145 del 2018 qualifica il menzionato ricorso al giudice statale come l’ennesima ipotesi di giurisdizione esclusiva, tuttavia alla luce di un corretto inquadramento della materia della decisione, in unico grado, del Collegio di garanzia per lo sport, nonché della equiparazione di quella decisione ad un atto amministrativo, operata dal Consiglio di Stato e recepita pacificamente dalla giurisprudenza successiva, è necessario chiedersi se effettivamente ci si trovi in presenza di una ipotesi di giurisdizione esclusiva, in virtù della quale i giudici amministrativi giudicano su diritti soggettivi, ovvero, si realizza la giurisdizione propria del giudice amministrativo in quanto l’esame ad esso richiesto integra vaglio sull’atto, dal quale discende un interesse legittimo, quello della partecipazione, sussistendone i requisiti, ad una competizione sportiva. Fatta questa precisazione è necessario esaminare, anche alla luce delle decisioni della Consulta, quale sia la tutela avverso un atto di esclusione, o di mancata iscrizione, viziato. In caso di un errore operato dai giudici sportivi, in grado unico, se l’errore fosse il portato di un atto amministrativo viziato, il risarcimento del danno sarebbe, in ogni caso, per equivalenti monetari e sarebbe, comunque, necessario esperirlo innanzi ai giudici ammini-

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Cfr. Corte costituzionale 11/2/2011, n. 49, in Foro It., 2011, I, 2602, con nota di A. Palmieri; Corte cost., 25 giugno 2019, n. 160, in Riv. dir. proc., 2020, 807, con nota di P. Sandulli. 5 Vedi, sul punto: P. Sandulli, Il nuovo giudizio relativo alle ammissioni e/o esclusioni dalle competizioni, in Riv. dir. sport., 2018, 297.

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strativi in base a quanto, per la prima volta, fu statuito dall’art. 35 del decreto legislativo n. 80 del 19986 e rafforzato nelle sue conclusioni dalla coeva sentenza n. 500 del 1999 delle sezioni unite civili della Corte di Cassazione7. Apparentemente, dunque, il tema della giurisdizione trova la stessa soluzione: la competenza giurisdizionale è del giudice amministrativo.

6. La sistematica del riparto. Tuttavia, non per sofismo argomentativo, bensì per rigore di riparto, è necessario approfondire ulteriormente il tema, anche in ossequio ai dettami della decisione n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale8. La domanda, a cui è necessario dare risposta, è legata alla matrice della “giurisdizione esclusiva”. Si tratta di un risarcimento di un danno discendente dalla lesione di un interesse legittimo pretensivo? oppure siamo in presenza di un danno derivante dalla lesione del diritto alla tutela, in un contesto di un giudizio sportivo non conforme alle regole del “giusto processo sportivo”? Nel primo caso saremmo in presenza di una ipotesi “classica” di giurisdizione esclusiva vagliata dalla stessa decisione n. 204 del 2004 e ritenuta in linea con i dettami della Costituzione. Opinando diversamente rientreremmo in un contesto legato ad un ulteriore ampliamento della giurisdizione esclusiva, quella della lettera z-septies, dell’art. 133 c.p.a. della quale, però, appare discutibile la conformità ai limiti individuati dai giudici della legittimità delle leggi. A ben vedere la procedura ideata, nel 2018, dalla legge n. 145, si colloca fuori dai parametri del giusto processo sportivo i cui canoni sono rinvenibili nel punto numero 2 dell’articolo 7, alla lettera H bis del decreto legislativo n. 242 del 1999, così come integrato dal successivo decreto legislativo n. 15 del 2004. Nella procedura ipotizzata dal comma 647 è presente un solo grado di giustizia sportiva ed esso è totalmente sottratto alla giustizia interna alle federazioni sportive.

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Vedi sul punto, M. Sanino, Il nuovo riparto delle giurisdizioni “voluto” dalla Corte costituzionale, Roma, 2005, 29. G. Melis, La storia del diritto amministrativo, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Milano, 2003, 95. 7 Circa gli interessi pretensivi, la cui lesione si configura nel caso di illegittimo diniego del richiesto provvedimento o di ingiustificato ritardo nella sua adesione, dovrà invece vagliarsi la consistenza della protezione che l’ordinamento riserva alle istanze di ampliamento della sfera giuridica del pretendente. Valutazione che implica un giudizio prognostico, da condurre in riferimento alla normativa di settore, sulla fondatezza o meno della istanza, onde stabilire se il pretendente fosse titolare non già di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, bensì di una situazione suscettibile di determinare un oggettivo affidamento circa la sua conclusione positiva, e cioè di una situazione che, secondo la disciplina applicabile, era destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito favorevole, e risultava quindi giuridicamente protetta. Vedi la decisione n. 500 delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione del 27 luglio 1999, in Foro amm., 2000, f. 2, 349, con nota di G. Soricelli. 8 Vedila in Giust. civ., 2004, I, 2217, con nota di P. Sandulli, L’analisi “critica” della Corte costituzionale sulla giurisdizione per materia.

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Siamo in presenza di un modello procedimentale molto lontano dallo schema del giusto processo sportivo. Più propriamente si può considerare l’attività del Collegio di garanzia, sul tema della iscrizione o della revoca di essa alle (o dalle) competizioni, alla stregua di una attività concessoria che trova nella valutazione dei giudici sedenti presso il CONI il suo punto finale. L’accesso al giudice amministrativo avverso tali pronunce è, dunque, non un esercizio di giurisdizione esclusiva su diritti, ma una attività della giurisidizione propria del giudice amministrativo atta a verificare la correttezza della procedura, di iscrizione o di esecuzione dalle competizioni.

7. Conclusioni in tema di danno. Dalla analisi della sentenza annotata può ipotizzarsi un doppio sistema di tutela: quello rispondente ai dettami del giusto processo sportivo, come regolato dal decreto legislativo n. 242 del 19999, dalla legge n. 280 del 200310 e dal Codice di giustizia sportiva varato dal CONI del 201411; e quello più squisitamente “autorizzativo”, in base al quale si individuano le tutele offerte dal giudice sportivo sedente presso il Comitato olimpico ed innanzi ai giudici amministrativi statali, di verifica della correttezza della procedura seguita. Per entrambe queste ipotesi, come correttamente ha osservato l’ordinanza impugnata, la tutela azionabile produce non già l’annullamento della sanzione disciplinare o del diniego di partecipazione, ma soltanto il risarcimento del danno per equivalenti economici, ciò che la dottrina ha definito il “prezzo del dolore”12. Necessita – a mio avviso – di un maggior rigore di inquadramento funzionale la tipologia del risarcimento. Nella ipotesi derivante dalla applicazione, per le sanzioni tecniche e disciplinari, dal portato della legge n. 280 del 200313, siamo effettivamente in presenza di una nuova ipo-

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Vedi sul punto M. Sanino, Giustizia Sportiva, Padova, 2016, 13. Sul punto particolare rilevanza ha la decisione delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione del 23 marzo 2004, n. 5775, in Giust. civ., 2005, 6, I, 1625. 11 Vedi il Codice di giustizia sportiva del CONI, approvato con deliberazione del Consiglio Nazionale del 9 novembre 2015, che modifica il precedente testo del 2014 nell’articolo 2 “principi” si legge: Art. 2 – “1. Tutti i procedimenti di giustizia regolati dal Codice assicurano l’effettiva osservanza delle norme dell’ordinamento sportivo e la piena tutela dei diritti e degli interessi dei tesserati, degli affiliati e degli altri soggetti dal medesimo riconosciuti. 2. Il processo sportivo attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e gli altri principi del giusto processo. 3. I giudici e le parti cooperano per la realizzazione della ragionevole durata del processo nell’interesse del regolare svolgimento delle competizioni sportive e dell’ordinato andamento dell’attività federale. 4. La decisione del giudice è motivata e pubblica. 5. Il giudice e le parti redigono i provvedimenti e gli atti in maniera chiara e sintetica. I vizi formali che non comportino la violazione dei principi di cui al presente articolo non costituiscono causa di invalidità dell’atto. 6. Per quanto non disciplinato, gli organi di giustizia conformano la propria attività ai principi e alle norme generali del processo civile, nei limiti di compatibilità con il carattere di informalità dei procedimenti di giustizia sportiva”. 12 S. Satta, C. Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 567. 13 Cfr. P. Sandulli, M. Sferrazza, Il giusto processo sportivo, Milano, 2015; P. Sandulli, Principi e problematiche di Giustizia sportiva, Roma, 10

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tesi di giurisdizione esclusiva, che appare in linea anche con i presupposti attuativi voluti dalla decisione n. 204/2004 della Corte costituzionale. Nella seconda procedura siamo in presenza, invece, di una giurisdizione propria del giudice statale amministrativo con la quale si esercita il controllo su di un interesse legittimo pretensivo e la domanda accessoria del risarcimento del danno (dalla lezione di detto interesse) non produce, invece, una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva, quella della lettera z-septies dell’articolo 133 cpa, ma essa è retta da ciò che è attualmente contenuto nella lettera Z dello stesso articolo 133, nel quale sono stati sussunti tutti i casi di giurisdizione esclusiva. Nella lettura costituzionalmente orientata resa dalla decisione della Corte Costituzionale n. 49 del 2011 e riconfermata dalla successiva pronuncia n. 160 del 2019, la formula risarcitoria per equivalenti è garanzia dell’autonomia della giustizia sportiva che, alla luce della legge n. 280/03 opera nei campi di “irrilevanza” per lo Stato così come individuati dal coordinato disposto degli articoli 1 e 2 della stessa normativa, vale a dire per le questioni giuridiche insorte da vicende tecniche e da vicende disciplinari. La intangibilità nel merito di dette sanzioni realizza, dunque, la piena autonomia della giustizia sportiva rispetto al controllo del giudice statale. Piero Sandulli

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Giurisprudenza Corte di Cassazione, sezione III civile, sentenza 6 luglio 2020, n. 13851; Pres. A rmano; Est. Graziosi; Catania e altri (Avv. Trigilio) c. Soc. UnipolSai assicuraz. e altri; P.M. Pepe (concl. conf.); conferma App. Catania, 16 maggio 2017, n. 907. Procedimento civile – Interruzione del processo per morte della parte – Riassunzione nei confronti dei successori –– Acquisto della qualità di eredi – Accettazione dell’eredità – Onere della prova – Chiamati all’eredità – Sussistenza (Cod. civ., art. 480, 481, 486, 2697; cod. proc. civ. art. 110, 115, 116, 302, 303) In tema di interruzione del processo per morte di una parte, benché ex art. 2697 c.c. l’acquisto della qualità di erede sia fatto costitutivo del diritto azionato dal riassumente nei confronti del soggetto evocato in giudizio in qualità di successore, deve affermarsi, in forza del criterio di vicinanza alla prova, che spetta al chiamato all’eredità della parte venuta meno dimostrare di non essere divenuto erede. (1)

(Omissis) Svolgimento del processo 1. Con sentenza n. 1778/2016 il Tribunale di Siracusa condannava G.G. e G.V. quali eredi di Gi.Gi., Fondiaria Sai S.p.A. quale impresa designata da FGVS, e Ga.Lu. a risarcire danni derivati da sinistro stradale del (Omissis) a R.G. e R.F. La compagnia, divenuta intanto UnipolSai, proponeva appello, cui resistevano R.G. e R.F.; venivano chiamati e si costituivano pure i figli di G.G., deceduta nelle more, cioè C.G., C.P.S., C.M.T., C.R.M., C.A., C.I. e C.F., i quali eccepivano l’inammissibilità dell’appello nonché la carenza della loro qualità di eredi, non avendo accettato l’eredità della madre, in ogni caso chiedendo di rispondere dell’eventuale debito ereditario pro quota. La Corte d’appello di Catania, con sentenza del 16 maggio 2017, in parziale accoglimento dell’appello, riduceva il risarcimento dovuto a R.G. e R.F. e condannava Ga.Lu. e G.V. nonché – ciascuno fino all’ammontare della quota ereditaria – C.G., C.P.S., C.M.T., C.R.M., C.A., C.I. e C.F. a rimborsare alla compagnia assicuratrice le somme pagate in esecuzione della sentenza. 2. Hanno presentato ricorso C.G., C.P.S., C.M.T., C.R.M., C.A., C.I. e C.F.; nessun intimato si è difeso. (Omissis)

Motivi della decisione 3. Il ricorso presenta un unico motivo, denunciante, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 459 e 2697 c.c. 3.1 Il giudice d’appello ha motivato nel senso che gli attuali ricorrenti “non hanno dimostrato di non aver accettato l’eredità della madre”, onde il contraddittorio sarebbe stato validamente instaurato. Questi però avrebbero “dedotto di non essere eredi”, per cui sarebbe stata la compagnia assicuratrice che avrebbe dovuto provare tale loro qualità legittimante. Infatti “la delazione che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è di per sé sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede”, essendo ben nota la differenza tra chiamato all’eredità ed erede, qualità quest’ultima che si acquista “solo al momento dell’eventuale accettazione”. E l’eccezione della mancata accettazione dell’eredità sarebbe stata tempestivamente sollevata dagli attuali ricorrenti, senza peraltro che la compagnia assicuratrice, loro controparte, abbia poi provato “la loro legittimazione passiva quali eredi e non quali chiamati alla eredità”: onere probatorio che “grava sulla parte che promuove l’azione nei confronti del successore”, come si evincerebbe

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dalla giurisprudenza di legittimità. Di qui la violazione di legge denunciata nel motivo. 3.2 La corte territoriale, in effetti, in riferimento “alla qualità di eredi della parte G.G.”, afferma che, “in caso di morte di una parte processuale, la continuazione del procedimento ad opera della parte non colpita dall’evento interruttivo, notificato (sic) individualmente nei confronti dei chiamati all’eredità, è idoneo (sic) ad instaurare validamente il rapporto processuale tra notificante e destinatario della notifica, se questi riveste la qualità di successore universale della parte deceduta... come è avvenuto nella specie, in cui risultano citati i figli della de cuius; pertanto, deve essere il chiamato all’eredità, che, per il solo fatto di aver ricevuto ed accettato la predetta notifica, non assume la qualità di erede, ha (rectius: ad avere) l’onere di contestare, costituendosi in giudizio, e di dimostrare l’effettiva assunzione di tale qualità ed il conseguente difetto di “legitimatio ad causam”, così da escludere la condizione di fatto che ha giustificato la predetta riassunzione” (qui viene citata Cass. sez. 1, 31 marzo 2011 n. 7517, la cui massima - non riportata dal giudice d’appello – è la seguente: “In tema di interruzione del processo per morte di una delle parti in corso di giudizio, il ricorso per riassunzione ad opera della parte non colpita dall’evento interruttivo, notificato individualmente nei confronti dei chiamati all’eredità, è idoneo ad instaurare validamente il rapporto processuale tra notificante e destinatario della notifica, se questi riveste la qualità di successore universale della parte deceduta ex art. 110 c.p.c.; pertanto, il chiamato all’eredità, per il solo fatto di aver ricevuto ed accettato la predetta notifica, non assume la qualità di erede, ma ha l’onere di contestare, costituendosi in giudizio, l’effettiva assunzione di tale qualità ed il conseguente difetto di “legitimatio ad causam”, così da escludere la condizione di fatto che ha giustificato la predetta riassunzione. Tuttavia tale eccezione, in ragione della sua na-

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tura sostanziale, introduce questione che va risolta nel merito e quindi non può essere denunciata per la prima volta con il ricorso per cassazione”). E nel caso in esame i fratelli C. – afferma ancora la corte territoriale – “non hanno dimostrato di non aver accettato l’eredità della madre, di guisa che il contraddittorio può ritenersi validamente instaurato” (motivazione della sentenza impugnata, pagina 5). Alla giurisprudenza richiamata dalla corte territoriale – si nota fin d’ora – si è conformata la successiva Cass. sez. 3, 10 novembre 2015 n. 22870: “Nell’ipotesi di interruzione del processo per morte di una delle parti in corso di giudizio, la relativa “legitimatio ad causam” si trasmette all’erede, ma il ricorso per riassunzione notificato individualmente nei confronti dei chiamati all’eredità ex art. 486 c.c., è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale tra notificante e destinatario della notifica, se questi riveste la qualità di successore universale della parte deceduta ex art. 110 c.p.c.; ne consegue che i chiamati all’eredità, pur non assumendo la qualità di eredi per il solo fatto di aver accettato la predetta notifica, hanno l’onere di contestare, costituendosi in giudizio, l’effettiva assunzione di tale qualità, così da escludere la condizione di fatto che ha giustificato la riassunzione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto sufficiente all’instaurazione del rapporto processuale la notifica di un atto di riassunzione nei confronti di coloro i quali si trovavano nello stato di fatto legittimante la successione, in virtù dei rispettivi rapporti di coniugio e di filiazione con la parte defunta, in assenza di circostanze ostative evincibili dagli atti e non essendo stata trascritta, prima della notifica della riassunzione, la rinunzia all’eredità dedotta dal coniuge)”. 3.3 Il ricorso richiama, invece, una diversa giurisprudenza di questa Suprema Corte, che si è pronunciata nel senso dell’incombenza dell’onere probatorio dell’assunzione da parte del con-


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venuto della qualità di erede come gravante sulla parte che agisce, fondandosi sul generale principio dell’art. 2697 c.c. e sulla qualifica di elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio la sua qualità (accettabile o meno, ovviamente) di erede (Cass. sez. L, 30 aprile 2010 n. 10525 – che così è massimata: “In tema di successioni “mortis causa”, la delazione che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è di per sé sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede, essendo a tale effetto necessaria anche, da parte del chiamato, l’accettazione, mediante “aditio” oppure per effetto di “pro herede gestio” oppure per la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 485 c.c. Ne consegue che, in ipotesi di giudizio instaurato nei confronti del preteso erede per debiti del “de cuius”, incombe su chi agisce, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., l’onere di provare l’assunzione da parte del convenuto della qualità di erede, la quale non può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, non essendo prevista alcuna presunzione in tal senso, ma consegue solo all’accettazione dell’eredità, espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta, quindi, un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio nella predetta qualità” –, Cass. sez. 2, 6 maggio 2002 n. 6479 – per cui “la delazione che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è di per sé sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede, perché a tale effetto è necessaria anche, da parte del chiamato, l’accettazione mediante “aditio” oppure per effetto di “pro herede gestio” oppure per la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 485 c.c. Pertanto, in ipotesi di giudizio instaurato nei confronti del preteso erede per debiti del “de cuius”, incombe su chi agisce, in applicazione del principio generale contenuto nell’art. 2697 c.c., l’onere di provare l’assunzione da parte del convenuto della qualità di erede, qualità che non

può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, non essendo prevista alcuna presunzione in tal senso, ma consegue solo all’accettazione dell’eredità, espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio nella sua qualità di erede” – e la conforme Cass. sez. 2, 30 ottobre 1991 n. 11634 nonché la non massimata Cass. sez. 5, 24 febbraio 2016 n. 3611). Questo orientamento, in effetti, si è manifestato anche in altri arresti massimati, come Cass. sez. L, 10 marzo 1987 n. 2489, Cass. sez. L, 22 febbraio 1988 n. 1885, Cass. sez. 2, 12 marzo 2003 n. 3696 e, “oltrepassati” quelli indicati dai ricorrenti, nella più recente Cass. sez. L, 30 agosto 2018 n. 21436, che conformemente insegna: “In tema di successioni “mortis causa”, la delazione che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è da sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede, essendo necessaria l’accettazione da parte del chiamato, mediante “aditio” o per effetto di una “pro herede gestio”, oppure la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 485 c.c.; nell’ipotesi di giudizio instaurato nei confronti del preteso erede per debiti del “de cuius”, incombe su chi agisce, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., l’onere di provare l’assunzione della qualità di erede, che non può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, non operando alcuna presunzione in tal senso, ma consegue solo all’accettazione dell’eredità, espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio nella predetta qualità”. 3.4 È evidente che la discrasia tra i due orientamenti deriva – dal momento che si tratta di un fatto costitutivo dell’azione (cfr. in generale S.U. 16 febbraio 2016 n. 2951: “La titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta

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all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto”) – da una divergente percezione della portata dell’art. 2697 c.c. (cfr., nella giurisprudenza sin qui citata, un esempio di inequivoca chiarezza già in Cass. sez. L, 14 febbraio 1988 n. 1885, così plasticamente massimata: “In ipotesi di giudizio instaurato nei confronti del preteso erede per il pagamento dei debiti del de cuius, incombe su chi agisce, in applicazione del principio generale contenuto nell’art. 2697 c.c., l’onere di provare l’assunzione da parte del convenuto della qualità di erede, che non può inferirsi dalla mera chiamata alla eredità, non essendo prevista alcuna presunzione in tal senso, ma consegue solo all’accettazione dell’eredità, espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio nella sua qualità di erede”; conforme era già stata Cass. sez. L, 16 ottobre 1985 n. 5101). La questione, di recente, è stata affrontata ex professo alla luce del principio della prossimità della prova e, ancora più radicalmente, alla luce dei valori costituzionali, ormai per il rito condensati nel novellato (rispetto all’epoca in cui si sviluppò l’orientamento invocato dai ricorrenti) art. 111 Cost., i quali non possono non condurre ad una interpretazione non formale, bensì funzionale – in rapporto, appunto, al conseguimento del processo costituzionalmente (e, al pari, sovranazionalmente) “giusto” – delle regole processuali, tra le quali figura sine dubio anche l’art. 2697 c.c., norma che riparte tra i litigatores l’onere della prova finalizzato all’accertamento sostanziale, costituente l’auspicabile meta del processo. 3.5 Cass. sez. 3, 14 ottobre 2011 n. 21287 è in tal senso assai significativa, ben più che nella massima, nella limpida motivazione. Di fronte a un motivo che si fondava, tra l’altro, proprio sull’art. 2697 c.c., lamentandosi la parte ricor-

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rente del non avere riconosciuto il giudice d’appello – e non averne tratto le conseguenze – l’onere della parte riassumente “di dimostrare la qualità di eredi dei soggetti chiamati in giudizio” (e ciò in un caso emblematico dal punto di vista della possibilità di abuso, da parte del chiamato, della sua posizione: la rinuncia all’eredità era avvenuta oltre tre anni dopo la notificazione dell’atto di riassunzione), questa Suprema Corte individua il problema nella determinazione “della corretta riassunzione del processo dopo la morte della parte” subito chiarendo che “la legittimazione passiva può essere individuata allo stato degli atti, cioè nei confronti dei soggetti che oggettivamente presentino un valido titolo per succedere, qualora non sia conosciuta – o conoscibile con l’ordinaria diligenza – alcuna circostanza idonea a dimostrare che il titolo a succedere sia venuto a mancare (rinuncia, indegnità, premorienza, ecc.)”. E corrobora l’immediato asserto con queste successive, nette argomentazioni: “La funzione dell’atto di riassunzione è ... quella di proseguire il giudizio, mettendo i controinteressati in condizione di venire a conoscenza della lite e di svolgervi le proprie difese, ivi inclusa quella avente ad oggetto l’eventuale sopravvenuta carenza della loro legittimazione o del loro interesse a contraddire. Deve essere perciò condiviso il principio enunciato da Cass. civ. 11 aprile 1984 n. 2331... secondo cui la parte che riassume il giudizio deve diligentemente accertare che i convenuti in riassunzione come eredi siano formalmente investiti del titolo a succedere, e che un tale titolo permanga al momento della riassunzione. Qualora il venir meno del titolo non risulti da atti o fatti agevolmente conoscibili dai terzi (registro delle successioni, trascrizioni nei registri immobiliari, ecc.), ma da cause o da eventi non ancora verificatisi alla data della notificazione dell’atto, la riassunzione è da ritenere regolare, qualora la legittimazione passiva sussista con ri-


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ferimento a quanto legalmente risulta allo stato degli atti. Viene a gravare sui convenuti in riassunzione, in tal caso, l’onere di dimostrare il contrario e se del caso di chiarire la loro posizione in tempo utile... La suddetta interpretazione è... l’unica conforme ai principi in tema di sollecita definizione del processo e di tutela del diritto di difesa, di cui all’art. 111 Cost., ove si consideri che la tesi prospettata dai ricorrenti metterebbe la parte interessata alla riassunzione nella grave difficoltà, se non nell’impossibilità, di procedervi, qualora – essendo stata dichiarata la morte della controparte e interrotto il processo oltre il termine di un anno, entro il quale è ammessa la notificazione dell’atto agli eredi impersonalmente – essa si trovasse non solo a dover accertare la mancanza di un atto di rinuncia di ogni singolo avente titolo all’eredità, ma anche a dover procedere eventualmente ai sensi dell’art. 481 c.c., facendo fissare alle controparti un termine per dichiarare se accettano o rinunciano; procedura che difficilmente potrebbe essere esaurita nel ristretto termine fissato dalla legge per la riassunzione del processo”. 3.6 Il ragionamento di questa pronuncia, strutturato direttamente sull’art. 111 Cost. e quindi su una interpretazione costituzionalmente orientata della ratio dell’istituto di riassunzione processuale, deve ritenersi integrata per quanto concerne proprio l’inserimento in un simile quadro di una funzionale interpretazione dell’art. 2697 c.c., il che è stato operato da Cass. sez. 3, 28 giugno 2019 n. 17445. Anche in questo caso la massima (“Nel processo civile, in caso di morte di una delle parti, ai fini della prosecuzione del processo nei confronti de successori, la verifica della qualità di eredi dei chiamati all’eredità non è necessaria nell’ipotesi in cui l’atto di riassunzione sia ad essi notificato collettivamente e impersonalmente entro l’anno dal decesso, ai sensi dell’art. 303 c.p.c., comma

2, in quanto tale disposizione affranca il notificante dall’onere di ricercare le prove dell’accettazione dell’eredità, la quale può intervenire nel termine di dieci anni dall’apertura della successione, sicché durante detto periodo la parte non colpita dall’evento interruttivo deve essere tutelata attraverso il riconoscimento della “legitimatio ad causam” del semplice chiamato. Per converso, il chiamato all’eredità, pur non assumendo la qualità di erede per il solo fatto di avere accettato la notifica dell’atto di riassunzione, ha l’onere di contestare, costituendosi in giudizio, l’effettiva assunzione di tale qualità così da escludere il presupposto di fatto che ha giustificato la riassunzione”) non entra nella “zona” più significativa della sentenza, attestandosi – inevitabilmente – sul fornire un risultato che, di per sé, corrisponde ad uno degli orientamenti sopra richiamati, ovvero quello seguito dalla corte territoriale. In motivazione, infatti, viene affrontata, pur sinteticamente, la questione – a ben guardare aggirata nell’arresto del 2011 – del plasmare l’applicazione dell’art. 2697 c.c., alla fattispecie. Richiamata Cass. sez. 3, 14 ottobre 2011 n. 21287 (e la susseguente conforme Cass. sez. 2, 19 giugno 2014 n. 21227, non massimata), così intende completare il tema: “Sovvengono ragioni di tutela del diritto di difesa che consentono alla parte non colpita dall’evento introduttivo di proseguire il giudizio nei confronti dei discendenti legittimi della controparte deceduta, senza costringerla ad attività defatiganti di ricerca delle prove dell’accettazione o della rinuncia all’eredità di questi ultimi. D’altronde, il chiamato all’eredità può restare tale per 10 anni (prescrivendosi... in 10 anni il suo diritto di accettare l’eredità) ed è conforme ai principi che, durante detto periodo, la controparte sia tutelata (il che per l’appunto avviene mediante la legitimatio ad causam del semplice chiamato)... sarebbe contrario ai principi del giusto processo (oltre che a evidenti ragioni di economia processuale) af-

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fermare che la parte non colpita dall’evento interruttivo debba iniziare un sub-procedimento (quale quello previsto dall’art. 481 c.c. e art. 749 c.p.c.) affinché l’autorità giudiziaria fissi un termine entro il quale il chiamato all’eredità dichiari se accetti ovvero rinunci all’eredità... in ogni caso, il chiamato all’eredità, pur non assumendo la qualità di erede per il solo fatto di aver accettato la notifica dell’atto..., ha l’onere di contestare, costituendosi in giudizio, l’effettiva assunzione di tale qualità, così da escludere la condizione di fatto che ha giustificato la riassunzione. Sovviene al riguardo il generale principio di vicinanza della prova, in quanto il chiamato all’eredità ha l’agevole possibilità di costituirsi e di allegare di non aver accettato l’eredità, mentre la parte non colpita dall’evento interruttivo si troverebbe nella difficoltà di dimostrare l’effettiva qualità di erede del chiamato, vista la complessità dei fenomeni ereditari e non essendovi un sistema di pubblicità che consenta un controllo da parte dei terzi sull’effettiva acquisizione della qualità di erede da parte del chiamato”. 3.7 Invero, il principio della prossimità o vicinanza della prova (principio ormai pienamente generale, che viene applicato nei più diversi settori: cfr., da ultimo, Cass. sez. 6-3, ord.9 gennaio 2020 n. 297, Cass. sez. 3, 11 novembre 2019 n. 28985, Cass. sez. 5, 17 luglio 2019 n. 19190 e Cass. sez. L, 29 marzo 2018 n. 7830) è il parametro della relatività, in riferimento ai principi costituzionali e sovranazionali, dell’automatismo insito nell’art. 2697 c.c.: non, quindi, un mezzo per eluderlo, bensì un presidio sistemico per impedirne l’abuso, id est la trasformazione del dispositivo processuale in un inaccettabile ostacolo alla tutela dei diritti sostanziali. Il che, infatti, si correla all’intervenuto inserimento dell’art. 24 Cost., identificante gli strumenti processuali garantiti ai litigatores – nel paradigma del giusto processo riconducibile (soprattutto) al novellato art. 111 Cost. e all’art. 6 CEDU: non vale la forma

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dei suddetti strumenti se non è coerente e compatibile con lo scopo del processo, e ciò significa integrale orientamento teleologico delle strutture di rito per conseguire nella maggiore misura raggiungibile la decisione di merito (v. p. es., Cass. sez. 3, 11 febbraio 2009 n. 3362, per cui il principio del giusto processo impone “di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte ovvero ispirate ad un formalismo funzionale non già alla tutela dell’interesse della controparte ma piuttosto a frustrare lo scopo stesso del processo, che è quello di consentire che si pervenga ad una decisione di merito”; e cfr. Cass. sez. L, 1 agosto 2013 n. 3362). Allora la prossimità/vicinanza della prova trae le conseguenze dalla peculiare natura di fattispecie in cui di una ordinariamente agevole possibilità di fornire la prova fruisce una parte soltanto, svincolando dall’usuale canone di ripartizione degli oneri probatori delineato dall’art. 2697 c.c. Ma il condizionante inserimento, appunto, dell’art. 2697 c.c., nel sistema rende insito nella norma il limite al suo dettato letterale, nel senso che la ripartizione come letteralmente prevista deve attuarsi soltanto laddove non generi una disparità tra i litigatores che conduca lo strumento processuale a fuoriuscire dalla necessaria parità funzionale, il rito dunque ostacolando il conseguimento del merito. Il relativismo in tal senso delle singole norme non può, infatti, essere negato e respinto, pena la strumentalizzazione di queste a favore del fenomeno antigiuridico dell’abuso, la cui ipotizzabile configurabilità vale “a contrario” come parametro interpretativo nel settore del rito, in quanto costituisce l’inverso del “giusto processo”. 3.8 Applicando allora l’art. 2697 c.c., nella sua pregnanza sistemica, non può negarsi che la parte, per così dire, vocata alla prova del passaggio o meno del chiamato alla qualità di erede è il chiamato stesso, l’esercizio della sua volontà opzionale generando la stretta prossimità


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alla prova nonché semplificando e accelerando il fenomeno processuale in rapporto a quello che diverrebbe se non venisse adeguato e sintonizzato ad esso anche l’ulteriore fenomeno successorio (in termini di prescrizione e di procedimenti “esterni” specifici). In conclusione, consono ai valori sistemici è l’orientamento più recente, fondato sulla prossimità della prova e al quale questo collegio ritiene di aderire così come ulteriormente chiarito, non apparendo neppure – si nota ad abundantiam – necessario investire il più elevato giudice nomofilattico in quanto proprio la sussistenza di tali valori inibisce con evidenza l’impostazione dell’ulteriore orientamento, insorto in epoca ben

anteriore alla loro introduzione, costituzionale e sovranazionale, appunto nel sistema. In considerazione, allora, del principio della prossimità della prova – presidio ontologicamente sistemico che apporta al canone dell’art. 2697 c.c., una specifica tutela dal suo abuso deve affermarsi che spetta ai chiamati all’eredità di un soggetto deceduto nelle more di un processo, e conseguentemente convenuti in riassunzione, in primis allegare e quindi dimostrare di non esserne divenuti eredi. 4. Pertanto il ricorso deve essere rigettato, non essendovi luogo a pronuncia sulle spese non essendosi difesa alcuna controparte. (Omissis)

L’onere della prova dell’acquisto della qualità di erede da parte dei chiamati all’eredità e la “divergente percezione dell’art. 2697 c.c.” della Suprema Corte Sommario : 1. La vicenda. – 2. La disciplina sostanziale dell’accettazione dell’ere-

dità e la riassunzione del processo nei confronti dei chiamati all’eredità: la distinzione tra la questione della legitimatio ad causam del chiamato in riassunzione e l’accertamento dell’effettiva titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio. – 3. I destinatari della notifica dell’atto di riassunzione: la notificazione “agevolata” ex art. 303, secondo comma, c.p.c. – 4. (Segue) La notificazione individuale e personale ai successori della parte venuta meno: l’individuazione dei soggetti legittimati a contraddire ai fini della regolare riassunzione del processo. – 5. La “discrasia” tra gli orientamenti giurisprudenziali in ordine al riparto dell’onere della prova dell’acquisto della qualità di erede. – 6. Le incongruenze della soluzione proposta dall’orientamento minoritario e il contrasto con le S.U. del 2016: onere della contestazione e onere della prova della titolarità del diritto controverso. – 7. Sui limiti del criterio di vicinanza alla prova.

Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte pone a carico dei chiamati all’eredità, convenuti in riassunzione, l’onere di dimostrare la mancata accettazione dell’eredità della parte venuta meno, pur ammettendo che l’acquisto della qualità di erede è fatto costitutivo del diritto azionato dal riassumente. In forza del criterio di vicinanza alla prova, la Corte introduce un’inversione dell’onere della

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prova in deroga all’art. 2697 c.c. e in aperto contrasto con i dicta affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 2951 del 2016 sulla contestazione e sulla prova della titolarità del diritto sostanziale fatto valere in giudizio. With Judgment no. 13851 of July 6, 2020, the Supreme Court of Cassation dealt with the assignment of the burden of proving the acquisition of the status of heir by the successor of the deceased party during the pendency of a case, stating that the non-acceptance of the inheritance must be proved by the successor, defendant in the proceeding resumed by the counterparty. As a result, by virtue of the so-called principle of “proximity of proof”, the Supreme Court reversed the burden of proof in violation of Article 2697 of the Italian Civil Code and in contrast to the rules affirmed by the Joint Sections with Judgement no. 2951 of February 16, 2016.

1. La vicenda. La sentenza in epigrafe affronta il tema dell’individuazione della parte onerata della prova dell’acquisto della qualità di erede da parte del soggetto evocato in riassunzione, che contesti in giudizio l’intervenuta accettazione dell’eredità della parte venuta meno. Nel caso di specie, uno dei convenuti – condannato dal Tribunale a risarcire all’attore i danni cagionati da un sinistro stradale – decedeva a seguito della proposizione dell’appello da parte della compagnia assicurativa, anch’essa soccombente in primo grado. In sede di gravame, chiamati in riassunzione dalla compagnia, si costituivano i figli della parte venuta meno, contestando la loro qualità di eredi per mancata accettazione dell’eredità. La corte territoriale accoglieva parzialmente l’appello e condannava i convenuti in riassunzione a rimborsare all’assicurazione le somme pagate in esecuzione della pronuncia di primo grado, non avendo essi dimostrato la mancata accettazione dell’eredità. Con la pronuncia in esame, pur chiarendo che l’acquisto della qualità di erede è fatto costitutivo del diritto azionato dal riassumente nei confronti del soggetto evocato in riassunzione, la Corte di cassazione ha confermato la decisione del giudice d’appello, disapplicando il disposto di cui all’art. 2697 c.c. in forza del criterio di vicinanza alla prova: la Corte argomenta intorno “ai principi in tema di sollecita definizione del processo e di tutela del diritto di difesa”, alla necessità di “plasmare l’applicazione dell’art. 2697 c.c. alla fattispecie”, tenendo conto dei “valori sistemici” dell’ordinamento, e conclude che spetta ai chiamati all’eredità, convenuti in riassunzione, “allegare e quindi dimostrare di non esserne divenuti eredi”. La decisione merita un’attenta considerazione per varie ragioni; in primis, per la lettura e l’impiego della vicinanza alla prova quale criterio elusivo e, di fatto, derogatorio della regola di cui all’art. 2697 c.c. Più di una riflessione richiede, però, anche il tema affrontato, poiché la Corte – nel richiamare i precedenti intervenuti sull’onere della prova dell’acquisto della qualità di erede – sovrappone questioni, processuali e sostanziali, che non vanno tra loro confuse

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e dimostra di non tenere debitamente conto dei principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 2951 del 20161. Anche per tale ragione, la “discrasia” giurisprudenziale che la Corte individua non appare compiutamente messa a fuoco e, in definitiva, la soluzione elaborata non convince.

2. La disciplina sostanziale dell’accettazione dell’eredità

e il difficile bilanciamento con l’istituto della riassunzione del processo a seguito di interruzione per venir meno di una parte: la distinzione tra la questione della legitimatio ad causam del chiamato in riassunzione e l’accertamento dell’effettiva titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio. Come spesso accade, anche nel caso in esame, gli inconvenienti pratici nascono dalla difficoltà di dover coniugare la disciplina sostanziale con le dinamiche processuali, assicurando il giusto equilibrio ai diversi diritti in gioco. Nell’ipotesi di interruzione del processo per venir meno di una parte, il compito è in particolar modo arduo, poiché alla necessità del riassumente di avere chiarezza sulle vicende successorie si contrappone la posizione dei chiamati dell’eredità, ai quali la disciplina sostanziale riconosce il diritto di decidere se accettare o meno la delazione anche a distanza di dieci anni dalla morte del de cuius. Più nel dettaglio, come noto, se il giudizio non è proseguito ex art. 302 c.p.c. dai successori universali, l’ordinamento pone a carico della parte non colpita dall’evento interruttivo l’onere di compiere un atto di impulso processuale al fine di evitare l’estinzione del processo per inattività; l’atto di riassunzione deve essere notificato ai successori della parte venuta meno entro un termine perentorio di tre mesi. Ora, sotto il profilo sostanziale, la delazione che segue l’apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è di per sé sola sufficiente all’acquisto della qualità di erede, essendo a tale effetto necessaria l’accettazione da parte del chiamato, ovvero la ricorrenza di particolari condizioni che determinano l’automatico acquisto della qualità di erede (quali quelle di cui agli artt. 485 e 527 c.c.). Tuttavia, l’accettazione è un atto che, da un lato, può intervenire anche a distanza di tempo dalla morte della parte originaria (prescrivendosi in dieci anni il diritto di accettare ex art. 480 c.c.) e, dall’altro, può svolgersi in forme (implicite – art. 477 c. c. – o addirittura tacite – art. 476 c.c.) tali

1

Cass., Sez. un., 16 febbraio 2016, n. 2951, in Foro it., 2016, I, 3947, con nota di Esposito, Le sezioni unite sulla negazione della titolarità del diritto controverso.

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da generare incertezza sulle sorti della delazione, particolarmente in colui che è estraneo alla successione2. Peraltro, nelle more del decorso del termine decennale, la non accettazione dell’eredità non si sostanzia in uno specifico fatto positivo, ma si configura in termini di mancato accadimento di un fatto (i.e. mancato esercizio del diritto di accettare), con ciò differenziandosi dalla diversa ipotesi della rinuncia all’eredità3, da manifestare espressamente nelle forme prescritte dall’art. 519 c.c. Proprio al fine di far cessare lo stato di incertezza che caratterizza l’istituto, l’ordinamento attribuisce a “chiunque vi ha interesse” la legittimazione ad esperire un’actio interrogatoria ex art. 481 c.c. per richiedere la fissazione di un termine entro il quale il chiamato deve dichiarare se accetta o meno l’eredità, a pena di decadenza. Com’è evidente, la “fluidità” delle dinamiche successorie, connotate anche dall’assenza di “un sistema di pubblicità” che consenta un controllo da parte dei terzi sull’effettiva acquisizione della qualità di erede da parte del chiamato4, mal si concilia con il termine trimestrale che la parte non colpita dall’evento interruttivo è tenuta a rispettare se vuole evitare l’estinzione del processo. Il rischio è quello di rendere per la parte onerata eccessivamente difficile la riassunzione del giudizio, con conseguente lesione del principio costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. Si pone, più in generale, l’esigenza di bilanciare il diritto dei chiamati di scegliere se subentrare o meno nel patrimonio del de cuius nelle forme stabilite dal legislatore e nel termine di prescrizione decennale assegnato dall’art. 480 c.c., con il diritto di difesa della parte riassumente e con il principio di ragionevole durata del processo. Nella pronuncia in epigrafe, la Corte affronta il tema muovendo da premesse ingarbugliate. Appare, invece, fondamentale anticipare che le questioni da mettere a fuoco sono diverse e distintamente vanno considerate. Da un lato, viene in rilievo il tema della regolare riassunzione del processo dopo la morte della parte: occorre stabilire se è sufficiente – ai soli fini della regolare riassunzione – che l’atto sia notificato ai chiamati all’eredità, cioè nei confronti dei soggetti che presentano un valido titolo per succedere (discendenti legittimi che si trovano “nello stato di fatto legittimante la successione”5), ovvero sia necessario effettuare la notifica solo nei confronti di coloro che l’eredità hanno in concreto accettato. Dall’altro, si pone la diversa questione dell’accertamento della concreta titolarità (dal lato passivo) del rapporto dedotto in giudizio da parte dei soggetti evocati in riassunzione.

2

Della Pietra, Un caso di (dis)applicazione dell’art. 303, 2° co., c.p.c., in Giur. it., 1991, 11. Concorre ad alimentare l’incertezza anche il disposto di cui all’art. 525 c.c., secondo il quale il chiamato non perde in via definitiva il diritto di assumere la qualità di erede neppure in caso di rinunzia: fatti salvi l’accettazione degli ulteriori delati e i diritti dei terzi sui beni ereditari, il rinunziante può revocare la rinunzia e accettare l’eredità sino a quando non sia decorso il termine decennale di prescrizione di cui all’art. 480 c.c. 4 Così Cass., 28 giugno 2019, n. 17445. 5 Cass., 10 novembre 2015, n. 22870. 3

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Si tratta, in definitiva, della distinzione tra la titolarità del diritto ad agire (e a contraddire) e la titolarità della posizione soggettiva oggetto dell’azione, illustrata e ulteriormente circostanziata “con chiarezza quasi didascalica”6 dalle Sezioni Unite nel 2016: se la sussistenza della legitimatio ad causam è connessa al diritto di azione e va riscontrata esclusivamente sulla base della prospettazione operata dalla parte nella domanda, la questione della titolarità della posizione soggettiva vantata in giudizio attiene al merito della causa e, in quanto elemento costitutivo del diritto fatto valere con la domanda, deve essere allegata e provata dall’attore. Ebbene, quanto all’individuazione dei destinatari dell’atto di riassunzione, si è soliti affermare che, a seguito della morte della parte, “la legitimatio ad causam si trasmette agli eredi, intendendo per tali non i semplici chiamati all’eredità, ma i delati che hanno effettivamente accettato l’eredità”7: la massima, come si vedrà, è fuorviante, poiché la giurisprudenza (nei casi di inapplicabilità della notifica agevolata ex art. 303, secondo comma, c.p.c.) ha, invero, chiarito che deve intendersi regolare la riassunzione effettuata nei confronti dei soggetti che, allo stato degli atti, presentino un valido titolo per succedere, qualora non sia conoscibile con l’ordinaria diligenza alcuna circostanza idonea a dimostrare che il titolo a succedere sia venuto a mancare, e senza che occorra da parte del riassumente alcun accertamento in ordine all’intervenuta accettazione dell’eredità. Quanto, invece, all’accertamento della titolarità passiva del rapporto controverso in capo ai chiamati in riassunzione, i termini della questione richiedono un ulteriore approfondimento, poiché essi variano in ragione: a) della forma della notifica effettuata dal riassumente (personale e individuale agli eredi ovvero impersonale e collettiva ex art. 303, secondo comma, c.p.c.); b) del comportamento processuale che assumerà il convenuto in riassunzione e delle difese che svolgerà in giudizio nell’ipotesi in cui sia citato personalmente e individualmente.

3. L’individuazione dei destinatari della notifica dell’atto di riassunzione: la notificazione “agevolata” ex art. 303, secondo comma, c.p.c.

L’esigenza di ricercare un adeguato bilanciamento tra i diritti in gioco è stata avvertita dallo stesso legislatore e ha trovato espressione nella previsione di cui all’art. 303, secondo comma, c.p.c.: tale norma, sul presupposto della mancata definizione delle dinamiche successorie entro l’anno dal decesso, consente al riassumente di effettuare una notificazione “agevolata” agli eredi, collettiva e impersonale, presso l’ultimo domicilio del defunto entro

6 7

Così Esposito, Le sezioni unite sulla negazione della titolarità del diritto controverso, in Foro it., cit. Cfr. ex multis, Cass., 12 giugno 2006, n. 13571; 8 febbraio 2006, n. 2807; Cass., 30 gennaio 1998, n. 944; 16 ottobre 1981, n. 5427.

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un anno dalla morte della parte; per il periodo successivo, diversamente, gli eredi dovranno essere chiamati in giudizio individualmente e personalmente, sulla base del diverso presupposto dell’avvenuta definizione della fase successoria8. Si tratta, come osservato, di una previsione di fondamentale utilità non solo per la parte non colpita dall’evento interruttivo, ma anche per i chiamati: l’art. 303, secondo comma, c.p.c., da un lato, permette al riassumente di dare immediato impulso al processo senza dover attendere l’accettazione espressa (o la rinuncia) di tutti i chiamati e, soprattutto, senza dover indagare sull’eventuale compimento di atti di accettazione tacita o implicita; dall’altro, “evita che gli eredi non possessori, ove nell’eredità cada anche un solo rapporto litigioso, si vedano posti di fronte all’alternativa accettazione – rinuncia da risolvere in tempi ristretti”9. Come in altre fattispecie, il legislatore si è mostrato consapevole del fatto che la difficoltà di identificare il destinatario di un atto può avere conseguenze irreversibili non solo sul piano della speditezza processuale, ma anche in danno dello stesso diritto che si intende far valere; e, pertanto, ha scelto di sostituire al dato soggettivo della notificazione ad personam, il collegamento oggettivo fra il destinatario dell’atto ed una specifica situazione di fatto10: la valenza sistematica della norma in esame “si concreta appunto in questa che – si noti – è deroga non al principio del contraddittorio (come tale non consentita), bensì alle sue caratteristiche naturali: la personalità e l’individualità della citazione in giudizio. In altri termini, la regola espressa dall’art. 101 c. p. c. è rispettata anche nelle ipotesi in cui la citazione del destinatario non sia personale ed individuale, purché il collegamento oggettivo sopra evidenziato esprima un sufficiente grado di conoscibilità dell’atto e non riduca la vocatio ad una mera forma da attuare in funzione di un contraddittorio solo apparentemente garantito”11. Per quanto d’interesse, occorre evidenziare che la norma richiamata solleva la parte che riassume dall’onere di individuare personalmente tutti i chiamati12, ricorrendo alla tecnica della “autodeterminazione della legittimazione da parte del soggetto citato”13; e ciò si riflette successivamente sul piano probatorio: deve ritenersi che il beneficio della notifica impersonale e collettiva non sia accordato dalla legge soltanto agli effetti della riassunzio-

8

Cass. 28 giugno 2019, n. 17445. Della Pietra, Un caso di (dis)applicazione dell’art. 303, 2° co., c.p.c., cit. 10 Più diffusamente, v. Della Pietra, Un caso di (dis)applicazione dell’art. 303, 2° co., c.p.c., cit., nt. 3, il quale rinvia a Sassani, A proposito di notificazione per pubblici proclami, efficacia soggettiva della sentenza e obiter dieta giudiziali, in Giur. it., 1991, I, 2. 11 Della Pietra, op. ult. cit. 12 Cfr. Cass., 16 novembre 2007, n. 23783, secondo cui la norma stessa, alla stregua del tenore e della ratio, assume la sua più ampia funzione proprio quando alcuni degli eredi, o tutti, non siano noti alla controparte, non tenuta ad una ricerca e ad una indagine specifica ed individuale (cfr. Cass., 18 aprile 1998, n. 3979); tanto che l’atto riassuntivo del processo deve essere notificato agli eredi della parte defunta, ove effettuato impersonalmente e collettivamente ai sensi dell’art. 303 c.p.c., mediante consegna di un’unica copia, stante l’impersonalità del gruppo di soggetti destinatario di esso ed anche se taluni degli eredi siano conosciuti dal promotore della riassunzione ovvero il loro nominativo sia indicato nell’atto stesso (così Cass., 12 novembre 1997, n. 11155). 13 Così Della Pietra, op. ult. cit., richiamandosi alla definizione di Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, sub art. 303. 9

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ne del processo, ma si sostanzi, altresì, in un’agevolazione probatoria di cui beneficia il riassumente nel giudizio. Tali osservazioni trovano conferma anche in giurisprudenza, laddove è chiarito che l’art. 303, secondo comma, c.p.c. consente “una notifica impersonale e collettiva, a prescindere dalla prova dell’acquisizione della qualità di erede”14; e, ancora, che nel caso in cui ci si avvalga della notifica impersonale e collettiva, “non si pone questione di identificazione e verifica della qualità di eredi dei chiamati all’eredità, in quanto l’agevolazione probatoria ivi prevista affranca il notificante dall’onere di eseguire siffatta ricerca specifica ed individuale”15. A fronte di una notifica impersonale e collettiva presso l’ultimo domicilio del defunto, saranno coloro i quali si costituiranno in giudizio ad autodeterminarsi quali destinatari dell’atto di riassunzione, riconoscendo – proprio mediante la costituzione in giudizio – la propria legitimatio ad causam e, al contempo, anche la propria titolarità dal lato passivo del rapporto controverso, ponendo di fatto in essere un comportamento processuale che non sembra essere compatibile con la negazione di tale titolarità: è la stessa costituzione “spontanea” in giudizio a fronte di una notifica impersonale e collettiva dell’atto di riassunzione a poter costituire contegno processuale rilevante anche ai fini del convincimento probatorio circa l’effettiva qualità di erede del chiamato. Ne deriva una fondamentale, duplice semplificazione per il riassumente, sia agli effetti della tempestiva riassunzione sia sotto il profilo della prova della titolarità del rapporto in capo al chiamato nel giudizio riassunto.

4. (Segue) La notificazione individuale e personale ai

successori della parte venuta meno: l’individuazione dei soggetti legittimati a contraddire ai fini della regolare riassunzione del processo. La previsione di cui all’art. 303, secondo comma, c.p.c. per quanto apprezzabile, non vale però a risolvere tutti gli inconvenienti pratici, poiché di tale facoltà la parte non colpita dall’evento interruttivo può avvalersi solo entro l’anno dalla morte del defunto; superato tale periodo, l’art. 303, secondo comma, c.p.c. non può più trovare applicazione e l’unica possibilità per riassumere il giudizio sarà quella di notificare l’atto agli eredi personalmente e individualmente16.

14

Cass., 28 giugno 2019, n. 17445. Cass., 28 giugno 2019, n. 17445; nello stesso senso, anche Cass., 16 novembre 2007, n. 23783. 16 Sebbene la pronuncia non lo espliciti, deve ritenersi sia questa l’ipotesi trattata dalla Suprema Corte nel caso di specie. 15

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Ora, la circostanza che sia decorso un anno dalla morte vale a escludere l’applicabilità dell’art. 303, secondo comma, c.p.c., sul presupposto della definizione delle vicende successorie, ma di per sé non assicura che le operazioni di ricerca individuale e personale dei singoli eredi saranno più agevoli per il riassumente. L’impressione è che, al venir meno dell’agevolazione concessa ex lege, abbia tentato di sopperire la giurisprudenza, ritenendo di dover introdurre dei temperamenti in favore del riassumente onerato della chiamata individuale e personale degli eredi. Al riguardo, però, occorre ancora una volta distinguere. In merito all’individuazione dei destinatari della notifica individuale e personale, non sembra esservi contrasto e la soluzione giurisprudenziale convince: si afferma che, agli effetti della riassunzione, è sufficiente per il riassumente individuare i chiamati all’eredità rispetto ai quali sussistono, “in tesi se non dispone di precisi riscontri documentali, le condizioni legittimanti l’accettazione dell’eredità”17; la parte che riassume deve, quindi, diligentemente accertare che i convenuti in riassunzione come eredi siano formalmente investiti del titolo a succedere e che tale titolo permanga al momento della riassunzione18. Al riguardo, nelle varie pronunce è pedissequamente riportato il principio per cui “la riattivazione del processo, nel caso in cui essa intervenga oltre l’anno da tale evento, è idonea ad instaurare validamente il rapporto processuale tra il notificante ed il destinatario della notifica, se questi riveste la qualità di successore universale della parte deceduta ai sensi dell’art. 110 c.p.c.”, ma nel richiamare “la qualità di successore universale” si fa riferimento a coloro i quali si trovano “nello stato di fatto legittimante la successione”19, ai discendenti legittimi della parte venuta meno20, non ai chiamati che abbiano concretamente accettato l’eredità. Tanto è vero che in tali pronunce si parla di un giudizio instaurato nei confronti del “preteso erede”21, ovvero ancora di una legittimazione che può essere individuata dal riassumente “allo stato degli atti, cioè nei confronti dei soggetti che oggettivamente presentino un valido titolo per succedere, qualora non sia conosciuta – o conoscibile con l’ordinaria diligenza – alcuna circostanza idonea a dimostrare che il titolo a succedere sia venuto a mancare (rinuncia, indegnità, premorienza, ecc.)”22. La questione della legitimatio ad causam va, dunque, risolta ai soli effetti (processuali) della riassunzione e tale conclusione non si pone in contrasto con il diverso profilo della verifica della titolarità del rapporto sostanziale da parte dei chiamati. La discrasia è

17

Cass., 19 giugno 2014, n. 21227; 31 marzo 2011, n. 7517. Cass., 11 aprile 1984, n. 2331; Cass., 14 ottobre 2011, n. 21287. 19 Cass., 10 novembre 2015, n. 22870. 20 Cass., 28 giugno 2019, n. 17445. 21 Così, tra le altre, Cass., 6 maggio 2002, n. 6479. 22 Sulla scorta di tali premesse, si è dunque affermato che, qualora il venir meno del titolo successorio non risulti da atti o fatti agevolmente conoscibili dai terzi (registro delle successioni, trascrizioni nei registri immobiliari, etc.), ma da cause o da eventi non ancora verificatisi alla data della notificazione dell’atto, la riassunzione è da ritenere regolare, qualora la legittimazione passiva sussista con riferimento a quanto legalmente risulta allo stato degli atti, cfr. Cass., 14 ottobre 2011, n. 21287; Cass., 8 ottobre 2014, n. 21227. 18

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solo apparente, poiché – si ripete – le due questioni non sono coincidenti: il problema dell’accertamento della titolarità del rapporto in capo ai soggetti nei cui confronti la causa è riassunta presuppone l’intervenuta riassunzione ed è, dunque, successivo ad essa, potendosi concretamente porre solo una volta riattivato il procedimento quiescente; ma ciò non toglie che, a seguito della riassunzione, laddove il contegno processuale del chiamato lo richieda, l’effettiva titolarità passiva del diritto dovrà essere accertata. Del resto, la funzione dell’atto di riassunzione è proprio quella di consentire la prosecuzione del giudizio, mettendo i controinteressati in condizione di venire a conoscenza della lite e di svolgervi le proprie difese, ivi inclusa quella avente ad oggetto l’eventuale sopravvenuta carenza della loro legittimazione o del loro interesse a contraddire23. Tale lettura sembra agevolare la posizione del riassumente, ma, a ben riflettere, è l’unica possibile: non si tratta di introdurre un temperamento alla disciplina ex lege, ma di distinguere correttamente la legittimazione a contraddire dei chiamati, sussistente se individuabile sulla base della prospettazione dell’attore, dalla effettiva titolarità passiva del rapporto controverso in capo agli stessi, da accertare nel giudizio riassunto, qualora sul punto sorgano contestazioni. È con riguardo a tale ultimo profilo che le criticità sul piano pratico vengono effettivamente in rilievo: può accadere, infatti, che il chiamato, costituendosi in giudizio, non contesti la titolarità del rapporto, ovvero la riconosca espressamente o implicitamente, svolgendo difese incompatibili con la negazione di tale “fatto-diritto”24 (e, in tal caso, non si porrà il problema della relativa prova per il riassumente); ma è parimenti possibile che il chiamato si costituisca contestando di aver accettato l’eredità o eccependo l’intervenuta rinunzia, ovvero che non si costituisca affatto. In tali ipotesi, la questione della titolarità del rapporto dal lato passivo andrà risolta nel merito: sotto il profilo del riparto degli oneri probatori sono quindi sorte delle incertezze in giurisprudenza, fortemente alimentate dalla pronuncia in commento.

5. La “discrasia” tra gli orientamenti giurisprudenziali in

ordine al riparto dell’onere della prova dell’acquisto della qualità di erede. Secondo la ricostruzione operata dalla sentenza in epigrafe, in merito all’individuazione della parte onerata della prova dell’acquisto della qualità di erede da parte dei chiamati

23

Cfr., ex multis, Cass., 14 ottobre 2011, n. 21287; Cass., 8 ottobre 2014, n. 21227. Come osservato da Cass., Sez. un., 16 febbraio 2016, n. 2951, cit.: “sul piano dell’onere probatorio, in base alla ripartizione fissata dall’art. 2697 c.c., la titolarità del diritto è un fatto, appartenente alla categoria dei fatti-diritto, che della domanda costituisce il fondamento”.

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in riassunzione, alcune pronunce si sarebbero discostate dall’indirizzo giurisprudenziale prevalente che onera il riassumente della prova del fatto “intervenuta accettazione dell’eredità” da parte dei soggetti evocati in giudizio. Più nel dettaglio, la giurisprudenza maggioritaria afferma che, in ipotesi di giudizio instaurato nei confronti del “preteso erede”, incombe su chi agisce, in applicazione del principio generale contenuto nell’art. 2697 c.c., “l’onere di provare l’assunzione da parte del convenuto della qualità di erede, che non può inferirsi dalla mera chiamata alla eredità, non essendo prevista alcuna presunzione in tal senso, ma consegue solo all’accettazione dell’eredità, espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio nella sua qualità di erede”25. Diversamente, secondo un orientamento minoritario, i chiamati all’eredità, convenuti in riassunzione, avrebbero “l’onere di contestare, costituendosi in giudizio, l’effettiva assunzione di tale qualità ed il conseguente difetto della legittimazione ad causam e di provare la condizione di fatto idonea ad escludere l’effettiva coincidenza tra la posizione che ha giustificato in astratto la riassunzione nei loro confronti e quella di erede”26. La pronuncia in commento, allineandosi a tale secondo indirizzo, conclude che spetta ai chiamati all’eredità, convenuti in riassunzione, “in primis allegare e quindi dimostrare non essere divenuti eredi”. La ricostruzione del “contrasto” operata dalla Suprema Corte appare approssimativa, per due ordini di ragioni. In primo luogo, la Corte non tiene conto del fatto che la maggioranza delle pronunce richiamate a sostegno dell’orientamento minoritario è, invero, antecedente all’arresto a Sezioni Unite del 2016 (fa eccezione Cass. 17445/2019); ed infatti, in talune decisioni il tema della legitimatio ad causam e quello della titolarità del rapporto controverso paiono ancora sovrapposti. In secondo luogo, messi da parte i principi e le massime estrapolati dalle decisioni citate, dalla loro lettura integrale emerge, invero, che: (i) alcune pronunce non hanno affrontato direttamente la questione della prova della titolarità passiva del rapporto da parte dei chiamati, ma si sono limitate ad affermare la regolarità della riassunzione effettuata nei confronti dei chiamati che, rimasti contumaci nel processo riassunto, avevano dedotto nel successivo grado di giudizio la rinuncia all’eredità intervenuta successivamente alla notifica dell’atto di riassunzione27; (ii) in taluni casi, il giudice, valorizzando il comportamento

25

Così Cass., 30 agosto 2018, n. 21436; 24 febbraio 2016, n. 3611; 30 aprile 2010, n. 10525; 29 marzo 2006, n. 7226; 6 maggio 2002, n. 6479; 12 marzo 2003, n. 3696; 30 ottobre 1991, n. 11634; 22 febbraio 1988, n. 1885; 10 marzo 1987, n. 2489; 16 ottobre 1985, n. 5101. 26 In tal senso, cfr. Cass., 28 giugno 2019, n. 17445; 31 marzo 2011, n. 7517. Vengono richiamate a sostegno di tale orientamento, anche Cass., 10 novembre 2015, n. 22870; 19 giugno 2014, n. 21227; 14 ottobre 2011, n. 21287, ma si tratta di un richiamo improprio in considerazione delle peculiarità dei casi trattati da tali provvedimenti. 27 Cass., 14 ottobre 2011, n. 21287, affronta la questione della regolarità della notifica dell’atto di riassunzione effettuata nei confronti dei chiamati (discendenti legittimi della parte venuta meno) che, rimasti contumaci nel giudizio di primo grado riassunto, avevano eccepito in appello di aver rinunciato all’eredità a più di tre anni dalla notificazione dell’atto. Analogo anche il caso trattato da Cass., 19 giugno 2014, n. 21227 (i.e. rinuncia all’eredità successiva alla notificazione dell’atto di riassunzione e contumacia del chiamato

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processuale ed extraprocessuale dei chiamati e gli ulteriori elementi indiziari emersi in giudizio, ha ritenuto raggiunta in via presuntiva la prova dell’acquisto della qualità di erede28. Dunque, la “discrasia” sul tema, prima dell’avvento di Cass. 13851/2020, era forse più apparente che reale; e un vero contrasto è semmai stato aperto proprio dalla pronuncia in epigrafe, che – argomentando intorno ad una “divergente percezione dell’art. 2697 c.c.” – ha introdotto una vera e propria inversione dell’onere della prova fondata sul principio di vicinanza. Nel caso trattato dalla Corte, i chiamati in riassunzione si erano costituiti in giudizio, contestando l’accettazione dell’eredità; e la Corte, pur ammettendo che il fatto contestato (la titolarità del diritto) era elemento costitutivo della domanda dell’attore, ha posto a carico dei chiamati l’onere di dimostrare il fatto di segno contrario (richiedendo, peraltro, la prova di un fatto negativo, ossia del mancato acquisto della qualità di erede): nella ricostruzione operata da Cass. 13851/2020, in definitiva, il fatto costitutivo mantiene la sua astratta qualificazione, ma, poiché non è ritenuto nella disponibilità dell’attore, questi è sollevato dalla relativa prova, gravando sulla controparte l’onere di fornire la prova contraria. Non è ammissibile un siffatto impiego del principio di vicinanza, per i motivi che si vedranno; ma, più in generale, la soluzione proposta non convince anche per altre ragioni.

6. Le incongruenze della soluzione proposta

dall’orientamento minoritario e il contrasto con le S.U. del 2016: onere della contestazione e onere della prova della titolarità del diritto controverso. Ai soli effetti della riassunzione, la legittimazione a contraddire dei chiamati può essere individuata dal riassumente “allo stato degli atti”, cioè nei confronti dei soggetti che si trovano “nello stato di fatto legittimante la successione”29; ma, ciò non toglie che la titolarità passiva del rapporto controverso resta elemento costitutivo del diritto azionato nei

nel giudizio riassunto): in proposito, precisa la Corte: “la Corte di Appello, pertanto, nel ritenere valido l’atto di riassunzione […], non è incorsa nelle denunciate violazioni di legge, potendosi presumere dal rapporto di filiazione, costituente titolo per la successione legittima ai sensi dell’articolo 565 c.c. e segg., lo stato di fatto legittimante la successione nel processo ai sensi dell’articolo 110 c.p.c., e non evincendosi dagli atti circostanze ostative all’acquisto dell’eredità”. 28 In particolare, Cass., 10 novembre 2015, n. 22870, chiamata a pronunciare in un caso in cui i chiamati in riassunzione, rimasti contumaci nel giudizio riassunto, risultavano aver proposto opposizione all’esecuzione avverso un pignoramento di beni intestati alla defunta madre, azione che “non avrebbero avuto ragione di proporre se non nella qualità di eredi (art. 476 c.c.), essendo l’opposizione di terzo un’azione che va oltre il mantenimento della stato di fatto quale esistente al momento dell’apertura della successione (Cass., 27 giugno 2005 n. 13738, cit.) poiché tesa alla tutela della proprietà su beni ereditari”. 29 Cass., 10 novembre 2015, n. 22870.

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confronti dei chiamati e, una volta riassunto il giudizio, qualora i chiamati in riassunzione non si costituiscano ovvero si costituiscano, limitandosi a negare la loro qualità di eredi, graverà sul riassumente la prova dell’intervenuta accettazione dell’eredità. Tale conclusione è l’unica ad apparire in linea con l’arresto a sezioni unite del 2016, secondo cui la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio è un elemento costitutivo della domanda e spetta all’attore allegarla e provarla, “salvo che il convenuto non la riconosca o svolga difese incompatibili con la sua negazione”. È pacifico che i convenuti in riassunzione non assumono la qualità di erede per il solo fatto di aver ricevuto la notifica dell’atto da parte del riassumente; ma, al riguardo, sarà determinante il comportamento processuale che essi assumeranno nel processo riassunto e le difese che ivi svolgeranno: se, costituendosi in giudizio, i chiamati non contesteranno la loro qualità di eredi (o la riconosceranno espressamente o tacitamente), il fatto “intervenuta accettazione dell’eredità” non dovrà essere dimostrato da parte del riassumente; la mancata contestazione, è noto, esonera l’attore dalla prova del fatto allegato (in questo caso, peraltro, la costituzione in giudizio, accompagnata dalla mancata contestazione della qualità di erede, può assumere la valenza di accettazione dell’eredità per fatti concludenti)30. Diversamente, però, nel caso in cui i chiamati in riassunzione si costituiscano e contestino la titolarità passiva del diritto oggetto di giudizio, l’onere della prova si concretizzerà in capo al riassumente; e così, ugualmente, nel caso di contumacia del convenuto, da leggersi nel nostro ordinamento quale fictio contestatio dei fatti costitutivi allegati dall’attore. Coerentemente con tali premesse, secondo l’indirizzo maggioritario, l’onere della prova va posto a carico del riassumente anche nell’ipotesi di mancata costituzione del convenuto in riassunzione31. Pare allora incomprensibile la diversa soluzione proposta da una parte della giurisprudenza, secondo cui il chiamato avrebbe “l’onere di contestare, costituendosi in giudizio, l’effettiva assunzione di tale qualità … e di provare”32 di non essere erede. I conti non tornano. Senza dilungarsi sul legame tra onere della contestazione e onere della prova, basti qui osservare che “la mancata contestazione di fatti sfavorevoli rendendoli pacifici (accettati, ammessi), esonera la controparte dagli oneri probatori astrattamente gravanti su di essa”; ciò significa e presuppone che oggetto dell’onere della contestazione “non sono indiscriminatamente tutti i fatti sfavorevoli, bensì solo i fatti della cui prova è gravato l’avversario”33. Dunque, se si afferma che il chiamato ha l’onere di contestare il fatto allegato dalla controparte, ciò presuppone che della prova del fatto da contestare sia onerato

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Secondo l’opinione prevalente in dottrina, la legittimazione passiva a stare in giudizio per rappresentare l’eredità, senza che ciò comporti l’accettazione tacita, è concessa dall’art. 486 c.c. solo al chiamato che sia nel possesso di beni ereditari. 31 Cass., 6 maggio 2002, n. 6479; 22 febbraio 1988, n. 1885. 32 In termini, Cass., 28 giugno 2019, n. 17445; 31 marzo 2011, n. 7517. 33 Sassani, L’onere della contestazione, in Giusto proc. civ., 2010, 401 ss.

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il riassumente; la difesa del convenuto che si risolve in un mero diniego della sussistenza del fatto costitutivo semplicemente attualizza l’onere della prova in capo all’attore34. Diverso è, semmai, il caso in cui il chiamato, costituendosi in giudizio, non si limiti a negare la titolarità passiva del diritto, ma eccepisca l’intervenuta rinuncia all’eredità: in tal caso, la difesa del convenuto non integra una “mera difesa”, poiché la parte contrappone al fatto costitutivo un fatto impeditivo che avrà l’onere di dimostrare ex art. 2697, secondo comma, c.c., onde evitare il rigetto dell’eccezione. In alcune pronunce espressive di tale orientamento, sembra, quindi, improprio il richiamo all’onere della contestazione: si insiste con l’affermare che il chiamato deve contestare di essere erede, “costituendosi in giudizio”, o che il chiamato all’eredità “ha l’agevole possibilità di costituirsi e di allegare di non aver accettato l’eredità”, o ancora che il chiamato deve “in primis allegare e quindi dimostrare” di non essere divenuto erede. Ma, a ben vedere, non si onera il chiamato della mera contestazione del fatto ex adverso allegato, ma si pone direttamente a suo carico il rischio della mancata prova del fatto di segno contrario. Muovendo da tale confusione concettuale, si arriva così ad equiparare la mancata costituzione del chiamato alla mancata contestazione del fatto costitutivo (Cass. 28 giugno 2019, n. 1744535 ha confermato la sentenza di condanna pronunciata dal giudice d’appello nei confronti dei chiamati all’eredità, convenuti in riassunzione e non costituitisi in giudizio, affermando, tra l’altro, che essi “erano rimasti contumaci e, conseguentemente, non avevano contestato la loro qualità di eredi”). La ricostruzione sembra, allora, in piena antitesi anche con il dogma della contumacia quale ficta contestatio: il convenuto in riassunzione non deve necessariamente costituirsi per negare la propria qualità di erede poiché anche la mancata costituzione deve intendersi quale contestazione dei fatti allegati dall’attore e, dunque, anche a fronte della contumacia dei chiamati spetterà al riassumente provare quanto allegato. Tali incongruenze risultano ancor più evidenti se si considerano i principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 2951/2016. Con tale pronuncia, dirimendo un contrasto in ordine alla contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio, la Corte ha avallato la tesi secondo cui il fatto che la questione della titolarità del rapporto sostanziale attiene al merito della causa “significa che rientra nel problema della fondatezza della domanda, della verifica della sussistenza del diritto fatto valere in giudizio, ma non significa che la relativa prova gravi sul convenuto e che la difesa con la quale il convenuto neghi la sussistenza della titolarità costituisca un’eccezione, tantomeno in senso stretto”. Ne consegue che incombe alla parte la cui titolarità è contestata fornire la prova di possederla.

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“L’effetto tipico della non contestazione va ristretto ai fatti di cui è effettivamente onerato colui che li allega. La relevatio ab onere probandi correttamente riguarda non tutti i fatti (ivi ricompresi i dati) che l’attore allega a proprio favore, ma solo quelli che esso ha l’onere specifico di provare”, cfr. Sassani, op. ult. cit. 35 In senso analogo, Cass. 31 marzo 2011, n. 7517.

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In definitiva, la difesa con la quale il convenuto – nella specie, il chiamato in riassunzione – si limiti a dedurre, ed eventualmente argomentare (senza contrapporre e chiedere di provare altri fatti), di non essere titolare passivo del diritto azionato, integra una mera difesa; non si tratta di un’eccezione, con la quale si contrappone al fatto costitutivo un fatto impeditivo, estintivo o modificativo, con conseguente onere di provare tale fatto ex art. 2697, secondo comma, c.p.c.36. Le medesime considerazioni – precisano le S.U. – valgono anche in caso di contumacia del soggetto evocato in giudizio, poiché la mancata costituzione “esprime un silenzio non soggetto a valutazione, non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall’altra parte, né altera la ripartizione degli oneri probatori tra le parti; in particolare, la contumacia del convenuto non esclude che l’attore debba fornire la prova dei fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio”. Queste, dunque, le linee guida da seguire per regolare l’onere probatorio dell’acquisto della qualità di erede da parte dei soggetti convenuti in riassunzione37. Con un’ultima precisazione dovuta alla peculiarità della disciplina dell’accettazione ereditaria. È possibile che il chiamato non abbia ancora esercitato il diritto di accettare l’eredità, nel momento in cui il processo viene riassunto nei suoi confronti. La criticità, in tal caso, non riguarda affatto il tema della difficoltà della prova, ma la ricerca di un bilanciamento tra la posizione dei chiamati (che, in astratto, potrebbero rimanere tali per dieci anni) e quella del riassumente (al quale non può, evidentemente, richiedersi di attendere il decorso del termine decennale). Il punto di equilibrio non può che rinvenirsi nell’esercizio da parte del riassumente dell’actio interrogatoria ex artt. 481 c.c. e 749 c.p.c. in corso di giudizio; tale strumento proprio nel caso in esame sembra esplicare a pieno la funzione per la quale è stato introdotto dal legislatore: ossia rispondere all’esigenza della certezza del diritto nei casi in cui il creditore non voglia o non possa attendere il decorso del decennio richiesto per la prescrizione del diritto di accettare e, in ogni caso, per consentire le azioni creditorie38. Dunque, l’onere posto a carico del riassumente “non comporta una prova materialmente impossibile in conseguenza del termine decennale e della forma espressa o tacita previsti per detta accettazione, in quanto l’art. 481 c.c. consente a chiunque vi abbia interesse di acquisire in qualsiasi momento la certezza circa l’accettazione o meno dell’eredità da parte del chiamato”39. In definitiva, il riassumente potrà assolvere l’onere probatorio su di lui gravante, dimostrando, ove ne sia a conoscenza e anche in via presuntiva, il compimento da parte

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Diverso, si è detto, è il caso in cui il chiamato non si limiti a contestare la qualità di erede, ma deduca di aver rinunciato all’eredità: tale difesa, integrando un’eccezione di merito, onera la parte della prova del fatto impeditivo allegato. 37 Come, più di recente, ha condivisibilmente affermato Cass., 16 novembre 2020, n. 25855. 38 Così Trib. Roma, 28 marzo 2018, in Foro it., Le banche dati. 39 Così chiaramente Cass., 7 gennaio 1983, n. 125.

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del chiamato di uno di quegli atti che, per legge, importa l’accettazione tacita o implicita dell’eredità, ovvero l’acquisto automatico della qualità di erede; altrimenti, avrà l’onere di richiedere al giudice la fissazione del termine ex art. 481 c.c. al fine di dirimere ogni dubbio in ordine all’intervenuta accettazione.

7. Sui limiti del criterio di vicinanza alla prova. Nella pronuncia in esame, la Suprema Corte riconosce la natura costitutiva del fatto controverso, ma ritiene di dover “plasmare l’applicazione dell’art. 2697 c.c. alla fattispecie” e intende la vicinanza alla prova quale criterio che consente di svincolarsi “dall’usuale canone di ripartizione degli oneri probatori delineato dall’art. 2697 c.c.”. La Corte ricorre al criterio di vicinanza al fine di derogare alla regola di riparto stabilita dall’art. 2697 c.c., mediante l’introduzione di un’inversione dell’onere della prova che comporta l’esonero per il riassumente dall’onere di provare il fatto costitutivo della sua azione (l’assunzione della qualità di erede da parte del chiamato). Alla relevatio ab onere probandi della parte ab origine gravata della prova consegue il trasferimento in capo al convenuto in riassunzione del rischio della mancata prova del fatto contrario, vale a dire della mancata assunzione della qualità di erede. La decisione costituisce così una perfetta espressione dell’impiego del criterio di vicinanza come “opzione disapplicativa”40 dell’art. 2697 c.c., poiché la Corte si richiama al criterio di vicinanza in termini di regola di riparto degli oneri probatori alternativa a quella di cui all’art. 2697 c.c.: il fatto costitutivo mantiene la sua astratta qualificazione (come espressamente ammesso41), ma anziché farne conseguire l’incombenza del relativo onere probatorio in capo all’attore, l’applicazione del criterio fa sì che della sua dimostrazione la parte sia esonerata. Lo schema generale di riparto, nella pronuncia in epigrafe, viene così dichiaratamente disapplicato poiché il principio modifica la distribuzione dei carichi probatori tra le parti, nonostante l’inequivoca qualificazione del fatto da provare. Tale impiego del criterio, quale regola alternativa di riparto, non è in alcun modo assimilabile al ricorso alle presunzioni semplici di cui all’art. 2729 c.c., destinate ad operare in sede di accertamento dell’esistenza del fatto (e non sul piano della distribuzione degli oneri probatori); né appare sovrapponibile al fenomeno, ancora diverso, delle presunzioni giurisprudenziali: quanto agli effetti, anche queste ultime incidono sulla distribuzione de-

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Così Mondini, Contro il criterio di vicinanza alla fonte di prova come opzione disapplicativa dell’art. 2697 c.c., cit., richiamandosi all’espressione di Cass., 15 maggio 2013, n. 11717. 41 Oltre alla pronuncia in epigrafe, cfr. anche Cass., 15 ottobre 1999, n. 11629, Foro it., 2000, I, 1917, con nota di Scoditti, Danni conseguenza e rapporto di causalità, secondo cui “l’inadempimento resta in astratto un fatto costitutivo a carico del creditore, mentre in concreto il creditore viene esonerato dall’onere della prova e si addossa al debitore l’onere della prova contraria, dell’adempimento, che si pone come fatto estintivo dell’obbligazione”.

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gli oneri quando comportano (non la mera semplificazione dell’oggetto della prova, che in tal caso resta in capo alla parte ab origine onerata42, ma) una vera e propria inversione. La differenza con l’impiego derogatorio del criterio di vicinanza, tuttavia, sembra risiedere in ciò, che nel caso delle presunzioni giurisprudenziali il fatto costitutivo viene giudizialmente presunto, poiché ritenuto verosimile sulla base di un giudizio probabilistico fondato sulle massime di esperienza43; diversamente, nel caso della pronuncia in epigrafe, il fatto costitutivo non si considera neppure presunto secondo l’id quod plerumque accidit: l’inversione appare fondata sulla sola valutazione della disponibilità della prova e, in virtù di ciò, il convenuto è gravato in via primaria del rischio della mancata prova del fatto contrario. Ebbene, un siffatto impiego del principio non può condividersi, perché il canone della vicinanza non può intendersi quale di regola di riparto derogatoria e alternativa a quella desumibile dall’art. 2697 c.c. e dalla disciplina sostanziale cui la norma rinvia, qualora essa consenta di identificare e distinguere in materia inequivocabile i fatti costitutivi dai fatti impeditivi (come nel caso di specie). Posto, infatti, che se è “la norma a qualificare il fatto… l’interprete non ha scelta”44, sul piano della ripartizione degli oneri probatori il criterio di vicinanza è destinato a poter essere applicato solo nei casi dubbi, in cui è “incerto se un fatto appartiene alla fattispecie costitutiva oppure a quella impeditiva”45, vale a dire nelle ipotesi in cui la disciplina sostanziale (cui l’art. 2697 c.c. – quale norma in bianco – rinvia), interrogata secondo criteri logico–formali, non offra risposte univoche in ordine alla qualificazione del fatto da provare. Ciò può accadere se la struttura sintattica della norma sostanziale non consente di ricorrere alla regola “più semplice e affidabile” basata sulla distinzione tra regola ed ec-

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Cfr. Benigni, Presunzioni giurisprudenziali e riparto dell’onere probatorio, Torino, 2014, 202, 203, che rileva la ricorrenza di ipotesi in cui la presunzione giurisprudenziale non determina un’inversione dell’onere della prova, ma incide sul thema probandum che subisce una semplificazione: “a tale modifica consegue che il giudice fonda la decisione su fatti che non sono stati provati pienamente bensì dedotti dall’esistenza di circostanze che non sono sufficienti a fondare una presunzione semplice: posta la tesi da dimostrare – che coincide con la soluzione ragionevole secondo la valutazione giudiziale – si vanno a ricercare elementi che possano, anche se non univocamente, farne ritenere l’esistenza gravando la controparte della prova del fatto contrario”. 43 Quando concedono spazio alle “presunzioni giurisprudenziali”, i giudici non risalgono ad un fatto sconosciuto in virtù del prudente apprezzamento delle circostanze concretamente accertate secondo il meccanismo delle presunzioni semplici previsto dall’art. 2729 c.c., bensì determinano la ripartizione degli oneri probatori delle parti impegnate nella controversia alla luce della “mera ragionevolezza dell’ipotesi affermata”, cfr. Verde, Le presunzioni giurisprudenziali (introduzione a un rinnovato studio sull’onere della prova), in Foro it., 1971, V, 177 ss; Cendon-Ziviz, L’inversione dell’onere della prova nel diritto civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 757, 783; Faccioli, Presunzioni giurisprudenziali” e responsabilità sanitaria, in Contr. e impr., 2014, 83. 44 Patti, Prove: disposizioni generali (Artt. 2697-2698), in Commentario del codice civile, Scialoja-Branca (a cura di), Bologna, 1987, 96 ss. Così, anche Taruffo, L’onere come figura processuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2, 2012, 425 ss., il quale osserva che, negli ordinamenti in cui esistono delle regole generali di riparto, espressamente codificate dal legislatore, come l’art. 2697 c.c. in Italia o l’art. 1315 code civile francese, “è almeno dubbio che il giudice possa tranquillamente disapplicarle adottando criteri diversi per stabilire quale parte aveva l’onere di provare quale fatto. La stessa considerazione vale per ordinamenti, come quello tedesco, in cui non esiste una regola generale scritta, ma essa viene derivata per induzione dalle numerose norme specifiche che disciplinano l’allocazione degli oneri di prova”. 45 Luiso, Diritto processuale civile, I. Principi generali, Milano, 2017, 261.

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cezione46; o laddove spetta all’interprete stabilire su quale parte far ricadere il rischio della mancata prova di un fatto che non appare affatto nel modello normativo47. Si tratta di casi “non risolti dal legislatore”, per decidere i quali “non c’è un’unica soluzione”48, ma una serie criteri volti ad indirizzare l’interprete nella qualificazione del fatto da provare; tra questi, rilievo crescente ha acquisito il cd. “principio” di vicinanza alla prova, secondo cui “essendo incerto se un fatto appartiene alla fattispecie costitutiva oppure a quella impeditiva, si deve si deve scegliere la soluzione in virtù della quale diventa onerato della prova il soggetto per cui la prova è più facile, cioè il soggetto più vicino alla prova”49. A differenza degli altri criteri enucleati in dottrina e astrattamente applicabili in tali ipotesi50, il criterio di vicinanza – di cui il brocardo negativa non sunt probanda costituisce una specificazione51 – consente di assegnare rilievo in sede di riparto degli oneri probatori al tema della migliore attitudine alla prova: valorizzare la prossimità alla prova (o la non eccessività onerosità, come è stato suggerito riprendendo la lettera dell’art. 2698 c.c.52) significa tener conto della possibilità delle parti di conoscere in via diretta o indiretta il fatto controverso, operando una valutazione anche in ordine alla disponibilità della prova, intesa quale «fonte di conoscenza»53, di tale fatto (allo scopo, come di recente osservato dalle S.U., può “risultare necessario procedere ad una verifica concreta, nelle diverse tipologie di controversie, su quale sia la fonte di prova che meglio può offrire la dimostrazione del fatto controverso e su quale sia la parte che più agevolmente può accedere a tale fonte”54). Tale canone di ripartizione non è, evidentemente, contemplato nello schema generale di riparto di cui all’art. 2697 c.c.55 (a differenza dell’art. 64 Cod. proc. amm., ovvero delle

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Dalla struttura della norma si ricava che il legislatore descrive la fattispecie nei seguenti termini: al verificarsi di certi fatti, si verificano taluni effetti, “salvo che, a meno che, tranne che, eccetto che, quando non, se non” si verifichi un dato fatto, il quale si configura, per l’appunto, in termini di fatto impeditivo, cfr. Verde, L’onere della prova, cit., 375 ss.; Luiso, Diritto processuale civile, I, cit., 255 ss. 47 I casi previsti dalla disciplina sostanziale sono necessariamente semplificati rispetto alla ricchezza dell’ipotesi concreta: essendo la norma sostanziale “frutto di un’astrazione a cui si perviene in forza di un eventuale processo di progressiva generalizzazione, resta fuori dall’ipotesi normativa un infinito numero di circostanze che vengono in rilievo soltanto nella concreta vicenda processuale”, così Verde, L’onere della prova nel processo civile, 465 ss.); e in tali casi, l’art. 2697 c.c. “è del tutto o quasi del tutto privo di significato” (Verde, op. ult. cit., 158.). Sottolinea come l’insufficienza di un criterio di riparto che rinvia alla norma sostanziale ai fini della qualificazione dei fatti da provare entro le categorie di cui all’art. 2697 c.c. derivi dall’“ontologica arretratezza del diritto rispetto al flusso continuo della realtà fattuale”, anche Andrioli, voce Prova (dir proc. civ.), in Noviss. Dig. it., XIV, Torino, 1968, 260 ss. 48 Luiso, Diritto processuale civile, I, cit., 256. 49 Luiso, Diritto processuale civile, I, cit., 264. 50 Verde, L’onere della prova, cit., 378-475. 51 Il brocardo costituisce, in realtà, una specificazione del principio di vicinanza secondo Luiso, Diritto processuale civile, I, cit., 264. Per un recente approfondimento sulla prova del fatto negativo, v. Russo, Onere della prova e fatto negativo, in Giur. it., 2018, 11, 2516. In tal senso, anche PATTI, voce Prova (dir. proc. civ.), in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma, 1991, XXV, 5, secondo il quale “lo sfavore nei confronti della prova del fatto negativo corrisponde al principio della migliore attitudine alla prova”. 52 Giussani, Intorno alla vicinanza, facilità e non eccessiva onerosità della prova, in Rass. esecuzione forzata, 2019, 558 s., 53 Comoglio, Le prove, in Trattato di diritto privato diretto da RESCIGNO, Torino, 1985, XIX, 8. 54 Cfr. Cass., Sez. Un., 3 maggio 2019, n. 11748, in. Foro it., 2019, I, 2726. Al riguardo, Piraino, Travisamenti pretori in tema di esonero dalla responsabilità contrattuale tra causalità e vicinanza della prova, in Foro it., 2020, I, 2000, precisa che la vicinanza riguarda la possibilità di conoscere in via diretta o indiretta il fatto e non già la possibilità concreta di acquisire la prova. 55 Osserva Besso, La vicinanza della prova, cit.: “la concentrazione dell’attenzione sul criterio della vicinanza della prova, pertanto, a

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regole di riparto degli oneri probatori previste, ad es., in alcuni ordinamenti ibero-americani), ma non appare privo di base giuridica, essendo coerente con i principî costituzionali di uguaglianza sostanziale e di effettività della tutela (e, dunque, “con l’art. 24 Cost. che, col riconoscere la facoltà di azione e di difesa, impone di interpretare la legge sostanziale in modo da facilitare la prova del fatto controverso”56), nonché riflesso del principio della parità delle armi in giudizio. Per tali ragioni, di fronte a una pluralità di significati plausibilmente ricavabili dalla disposizione nella specie applicabile, sembra corretto privilegiare quello che individua i fatti costitutivi in funzione della maggiore accessibilità ai relativi mezzi di prova da parte dell’attore57; poiché, sebbene limitatamente agli anzidetti casi dubbi, il criterio può operare quale “correttivo” in sede processuale ai possibili problemi di squilibrio tra le parti sul piano sostanziale58, qualora essi si traducano in un’asimmetria informativa rispetto ai fatti da provare. Resta, però, che, sul piano della distribuzione dei carichi probatori, il criterio può trovare applicazione solo in via sussidiaria, quale “parametro finale” cui ricorrere qualora l’analisi formale e concettuale della disciplina sostanziale nella specie applicabile non consenta di comprendere se un determinato accadimento assuma rilievo di fatto costitutivo ovvero se assuma rilievo di fatto impeditivo l’assenza di quell’accadimento59. Laddove, invece, la qualificazione del fatto da provare non sia dubbia (come nel caso trattato dalla sentenza in commento), la vicinanza non consente deroghe alla disciplina applicabile e non può, pertanto, trovare spazio in sede di ripartizione degli oneri, potendo semmai operare sul diverso piano della valutazione delle prove e della formazione del convincimento giudiziale in ordine alla sussistenza del fatto da provare. Il problema della difficoltà della prova può rilevare in termini di abbassamento dello standard di prova esigibile dalla parte onerata al fine di ritenere dimostrato il fatto che non ricade nella sua sfera d’azione60 (in particolare se gli ostacoli alla prova sono imputabili alla condotta di

mio avviso testimonia l’insofferenza della nostra giurisprudenza verso il sistema di accesso alla prova delineato dal nostro codice che, ancorato a una visione di uguaglianza formale delle parti rispetto ai temi da provare, appare del tutto inidoneo a garantire il diritto delle stesse all’accertamento del diritto vantato”. 56 Mondini, Contro il criterio di vicinanza alla fonte di prova come opzione disapplicativa dell’art. 2697 c.c., in Foro it., 2020, I, 3864. 57 Piraino, Travisamenti pretori in tema di esonero dalla responsabilità contrattuale tra causalità e vicinanza della prova, cit. 58 In tal senso, Dolmetta-Malvagna, Vicinanza della prova e prodotti d’impresa del comparto finanziario, in Banca, borsa, titoli di credito, 6, 2014, 659; Id., Vicinanza della prova in materia di contenzioso bancario, in Riv. dir. bancario, 2014, 6, 1.; Ricci, Questioni controverse in tema di onere della prova, in Riv. dir. proc., 2014, 341. 59 Mondini, Contro il criterio di vicinanza alla fonte di prova come opzione disapplicativa dell’art. 2697 c.c., cit. 60 In tema di standard di prova, v. Poli, Gli standard di prova in Italia, in Giur. it., 2018, 11, 2516, il quale, con particolare riferimento ai criteri di valutazione delle prove in sede di accertamento del nesso causale, conclude osservando che “in presenza di situazioni nelle quali si ritiene di non essere in grado di riuscire a “fare giustizia”, per mancanza di strumenti adeguati di conoscenza delle relazioni causali, non è affatto necessario (ed anzi è pericoloso, per le ragioni viste) far ricorso a tale criterio del “più probabile che non”, dovendosi invece operare, piuttosto, da parte della giurisprudenza ove possibile, oppure da parte del legislatore, sui temi generali dell’onere della prova e del principio di vicinanza alla prova, oppure attraverso le c.d. “presunzioni di causalità” o delle presunzioni giurisprudenziali tout court, che pure operano sul piano degli oneri probatori; ovvero ancora sul piano della c.d. causalità giuridica, se non sullo stesso statuto giuridico della c.d. causalità materiale, distinguendo con adeguati principi, ove occorra, a seconda delle specifiche aeree d’intervento”.

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controparte61), ovvero agevolare e concorrere a fondare il ricorso a meccanismi presuntivi: il criterio sembra essere richiamato in questi termini in alcune recenti pronunce in tema di responsabilità sanitaria62, o relative a controversie in materia antitrust63. In tale ordine di idee, è stato evidenziato che il canone può essere utilizzato “per impiegare in modo più flessibile e più aderente alle necessità pratiche altri strumenti, come la presunzione semplice e gli argomenti di prova”, potendo risultare “elemento decisivo per il riconoscimento della verosimiglianza della conclusione basata sull’inferenza dai fatti noti”, poiché, di fronte a circostanze che indirizzano alla dimostrazione di un certo fatto, la mancata offerta di una prova contraria da parte del soggetto più vicino alla fonte di ricostruzione degli eventi rappresenta un dato di gravità e concordanza idonee a far ritenere raggiunta la prova, operando come ulteriore indizio integrante la presunzione o quale argomento di prova rilevante ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c.64. Anche nel caso trattato dalla sentenza in epigrafe, data l’indubbia qualificazione della titolarità del rapporto controverso in termini di fatto costitutivo della domanda del riassumente, i problemi connessi alla difficoltà della prova possono essere risolti mediante il ricorso alle presunzioni semplici e agli argomenti di prova, dovendo il giudice verificare l’assolvimento dell’onere della prova da parte del riassumente, anche valutando, attraverso un ragionamento presuntivo, il comportamento, processuale ed extraprocessuale, tenuto dal chiamato65; ove, invece, il riassumente non sia a conoscenza del compimento di nessuno di tali atti, ovvero il diritto di accettare o meno l’eredità non risulti essere stato esercitato dai chiamati, il vero punto di equilibrio tra la posizione delle parti è da rintracciare nella possibilità (meglio, nell’onere) per il riassumente di richiedere al giudice la fissazione del termine di cui all’art. 481 c.c. Marta Magliulo

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Piraino, op. ult. cit. In tale direzione, sembrerebbe muoversi la giurisprudenza più recente in tema di onere della prova del nesso di causa nelle controversie in materia di responsabilità medica: cfr., per tutte, Cass., 26 novembre 2020, n. 26907: “la prova del nesso causale materiale tra condotta ed evento dannoso può essere fornita dal paziente, quale creditore, anche attraverso presunzioni; siffatto possibile ricorso alla prova presuntiva è in grado di attenuare la condizione di maggiore difficoltà probatoria in cui normalmente versa il creditore della prestazione professionale medica rispetto al creditore di qualunque altra prestazione; la giurisprudenza di questa Corte ha sempre rilevato siffatta difficoltà, agevolando il ricorso alla prova presuntiva”. Evidenzia tale aspetto, Laghezza, Causalità materiale, prova e presunzioni: nuovi equilibri ed inedite incertezze, in Foro it., 2021, I, 528. 63 Sulla semplificazione dell’onere della prova gravante sull’attore nelle azioni di nullità per violazione della normativa antitrust dei contratti di fideiussione omnibus contenenti le clausole censurate dalla Banca d’Italia con il provvedimento n. 55/2005, sia consentito rinviare a Magliulo, Nullità della fideiussione omnibus per violazione della normativa antitrust: fatto costitutivo e smarrimenti giurisprudenziali, in Judicium, 2020, 3. 64 Villa, L’onere di provare il vizio della cosa venduta: un’occasione per una nuova meditazione sulla prova dell’inadempimento, in Corr. giur., 2019, 6, 744 ss. 65 Così Cass., 16 novembre 2020, n. 25885. 62

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