Diritto della banca e del mercato finanziario 2/2010

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Saggi

ISSN 1722-8360

Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

2/2010

Diritto della banca e del mercato finanziario

di particolare interesse in questo fascicolo

• Mercati finanziari e regolazioni sovranazionali • La crisi del gruppo bancario • Le partecipazioni nelle banche • Sintesi di giurisprudenza

aprile-giugno

Pacini Editore

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aprile-giugno

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2/2010 anno XXIV



Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

Comitato di direzione Carlo Angelici, Franco Belli, Mario Bussoletti, Gino Cavalli, Salvatore Maccarone, Fabrizio Maimeri, Alessandro Nigro, Mario Porzio, Niccolò Salanitro, Vittorio Santoro, Luigi Carlo Ubertazzi. Comitato di redazione Sido Bonfatti, Antonella Brozzetti, Vincenzo Caridi, Ciro G. Corvese, Giovanni Falcone, Elisabetta Massone, Francesco Mazzini, Filippo Parrella, Gennaro Rotondo. Segreteria di redazione Daniele Vattermoli Direttore responsabile Alessandro Nigro La sede della rivista è presso la Segreteria del Ce.Di.B. Via dei Crociferi, 44 - 00187 Roma L’amministrazione è presso: Pacini Editore SpA Via Gherardesca - 56121 Ospedaletto - Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 www.pacinieditore.it - info@pacinieditore.it

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Sommario 2/2010

PARTE PRIMA Saggi L’incidenza delle regolazioni internazionali ed europee sui rapporti civilistici nei mercati finanziari, di Sandro Amorosino

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La disciplina della crisi del gruppo bancario tra vincoli di partenza ed evoluzione del contesto normativo, di Antonella Brozzetti

» 195

Le mobili frontiere della disciplina antiriciclaggio, di Alberto Urbani

» 243

I Confidi nel sistema finanziario italiano, di Giuseppe Boccuzzi

» 255

» 291

Commenti

Cancellazione dal registro delle imprese ed estinzione delle società – Cass., SS. UU., 22 febbraio 2010, n. 4062

» 325

Ancora sulla cancellazione ed estinzione delle società: verso l’epilogo della “storia infinita”?, di Alessandro Nigro

» 340

Rapporto banca-industria e tramonto della separatezza, di Alessandro Benocci


Rassegne Sintesi di giurisprudenza (II trimestre 2009)

PARTE SECONDA

pag. 349

Legislazione D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 21 – Attuazione della direttiva 2007/44/CE, che modifica le direttive 92/49/CEE, 2002/83/ CE, 2004/39/CE, 2005/68/CE e 2006/48/CE per quanto riguarda le regole procedurali e i criteri per la valutazione prudenziale di acquisizioni e incrementi di partecipazioni nel settore finanziario Le partecipazioni nelle banche. Prime note sul decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 21, di Gennaro Rotondo Norme

redazionali

»

85

»

93

» 115


PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, rassegne, miti e realtĂ



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L’incidenza delle regolazioni internazionali ed europee sui rapporti civilistici nei mercati finanziari * 1. Come incidono le regolazioni (nel senso lato della locuzione: compresi i principi e gli indirizzi, oltre le regole in senso proprio ), internazionali (soprattutto in prospettiva) ed europee (da almeno tre decenni), sui rapporti civilistici – contrattuali e societari – che caratterizzano i mercati finanziari (intesi, comprensivamente, come mercato bancario, mobiliare e del controllo societario, ed assicurativo )? Per inquadrare il tema sono utili quattro tematizzazioni. Le prime due riguardano le regolazioni sopranazionali. Le seconde due la configurazione strutturale degli ordinamenti “finanziari”. I) Come ha drammaticamente evidenziato la crisi finanziaria del 20089 non esiste ancora un tessuto regolatorio unitario a scala globale , frutto di decisioni politiche assunte in organismi internazionali, più o meno istituzionalizzati. Tale tessuto è in lenta, e faticosa, gestazione a causa delle divaricazioni degli interessi nazionali. Ad oggi, come si dirà, siamo in presenza di indirizzi, rivolti essenzialmente a pubblici poteri – soprattutto governi ed autorità di vigilanza (regulators) – che necessitano dell’“interposizione” regolatoria delle normative europee e nazionali per arrivare ad incidere *

Testo della relazione tenuta al V Convegno Nazionale della SISDIC – Società Italiana degli Studiosi del Diritto Civile, sul tema L’incidenza del diritto internazionale sul diritto civile, svoltosi a Capri il 25-27 marzo 2010. V., per tutti, Rangone., voce Regolazione nel Dizionario di diritto pubblico, a cura di Cassese, vol. V, p. 5057 ss., Milano, 2006. Sia consentito il rinvio a Amorosino, Principi generali e poteri pubblici nell’organizzazione dei mercati finanziari in Id., Regolazioni pubbliche, mercati, imprese, Torino, 2008. Sarcinelli, Nuove regole e mercati finanziari, in Banc. 2009, p. 31, e Capriglione, Crisi a confronto (1929 e 2009), Padova 2009, cap. II.

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sull’organizzazione giuridica dei mercati finanziari (ivi compresi i rapporti civilistici). Tali indirizzi hanno provenienze diverse: da organizzazioni fluide – come il G8 o il G20 – o invece da organismi tecnico-politici istituzionalizzati – come il Financial Stability Board, presieduto da Draghi. Dagli organismi internazionali dei regulators di settore (Comitato di Basilea, IOSCO, IAIS) vengono invece proposizioni vincolanti (v. oltre). II) Al contrario la dimensione regolatoria europea è immanente – è un dato troppo scontato per doverlo illustrare – ma proprio per questo è indispensabile articolare le riflessioni – partendo dalla “costituzione economica europea”, fonte di potestà regolatorie molto incisive e “scendendo per li rami” – per mettere a fuoco i rapporti tra norme europee, soprattutto direttive, e fonti nazionali, in primis legislative (che Predieri qualificava come subprimarie, per scolpire il grado di condizionamento del legislatore nazionale, il quale è quasi sempre un legislatore delegato), ma anche regolamentari in senso lato. Veniamo ai fattori strutturali. III) Com’è noto la struttura degli ordinamenti finanziari italiani è caratterizzata oltre che dalle immanenti direttive europee, di settore (ad esempio: la MiFID) o oggettuali (ad esempio: in tema di OPA), da testi unici o codici di settore, i quali vengono sostanzialmente integrati – con ampia discrezionalità – da parte di regolamenti, sia ministeriali (per fare un esempio recente: in tema di onorabilità di esponenti delle imprese assicurative), sia, soprattutto, delle autorità di vigilanza. Ne consegue che tra le regole sopranazionali – essenzialmente europee – in queste materie e le regolamentazioni nazionali “speciali” (si sarebbe detto una volta) dei tre mercati finanziari, si stabilisce un rapporto diretto, non mediato dal codice civile (salvo che come “sponda” in materia societaria). La marginalizzazione del codice civile è tanto più significativa in

Come rileva De Nova, Le fonti di disciplina del contratto e le autorità indipendenti, in L’autonomia privata e le autorità indipendenti, a cura di Gitti, Bologna, 2006. Predieri, Commento all’art. 6, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova 1994. Sulla marginalità del codice civile nella disciplina dell’impresa bancaria v. FerroLuzzi, Lezioni di diritto bancario, Torino, 2004, vol. I, p. 73. Un ragionamento analogo può farsi per quanto concerne il diritto del mercato finanziario, ch’è essenzialmente contenuto nel t.u.f. e nei regolamenti, della CONSOB o emanati congiuntamente da Banca d’Italia e CONSOB. Diverso discorso è da farsi per il Codice delle assicurazioni private in quanto i compilatori non hanno voluto trasporre in esso la disciplina dei contratti as-

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quanto il “canale diretto” di recepimento nell’ordinamento interno delle norme comunitarie è costituito non solo da fonti legislative, ma anche da regolamentazioni secondarie, soprattutto delle autorità indipendenti – che costituiscono la parte maggiore di questi ordinamenti peculiari – e trova “riscontri” perfino in atti terziari (deliberazioni, comunicazioni, determinazioni, norme tecniche delle stesse autorità). Si ha – in sintesi – un duplice effetto: di “scavalcamento” della “legge civile” per antonomasia e di recepimento diretto, negli ordinamenti peculiari di settore, anche mediante atti predettivi secondari e terziari. IV) Un’ulteriore complicazione, ormai strutturale, è costituita dalla progressiva integrazione, anche cross border , dei tre mercati finanziari – bancario, mobiliare ed assicurativo – con la creazione, ad esempio, di conglomerati ; integrazione che determina la diffusione orizzontale immediata, tra i tre “vasi comunicanti”, dei fenomeni e dei trends di mercato e la conseguente necessità di sempre più stretti coordinamenti (sia orizzontali, tra più regulators, che verticali, dai singoli Stati all’Unione Europea) tra le autorità di vigilanza finanziarie. Sul versante civilistico vengono qui in rilievo innanzitutto i complessi rapporti della disciplina dei conglomerati con quella dei gruppi, la quale – ancora una volta – è peculiare per quanto attiene ai gruppi finanziari. Analizziamo, in estrema sintesi, questi quattro profili, ed i loro intrecci. 2. Alla rilevata carenza di norme (nel senso stretto, di precetti regolatori di comportamenti) internazionali di organizzazione giuridica di mercati che, nell’era della tecnofinanza 10, sono globali, si può applicare una qualificazione giuridica di teoria generale, quella di funzione negativa, la quale, secondo la definizione di Bobbio 11, è una funzione – nel nostro

sicurativi contenuta nel codice civile; in tema sia consentito il rinvio a Amorosino, Profili sistemici e pubblicistici del codice delle assicurazioni private, in Id., Regolazioni, cit. Per la nozione, di teoria generale, di atto precettivo v. Giannini, Introduzione al diritto costituzionale, Roma, 1983. In materia v., da ultimo, Sabbatelli, La supervisione sulle banche, Padova, 2009, p. 64 ss. Sui quali v., per tutti, il recente, elaborato, lavoro di Troiano, I conglomerati finanziari, Padova, 2009, cap. I e III. 10 Irti, Il diritto nell’età della tecnica, Napoli, 2007. 11 Bobbio, L’analisi funzionale del diritto, in Dalla struttura alla funzione, Milano, 1977, p. 88 ss.

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caso di regolamentazione universale dei mercati finanziari – che sarebbe postulata, richiesta dalla realtà socioeconomica e che non viene svolta, o per inerzia del soggetto pubblico preposto o – nel nostro caso – per assenza di consenso politico-tecnico dei decisori (in primis i vertici degli Stati del G20) su testi precettivi, vincolanti per tutti gli Stati che si sono accordati (l’unitas ordinis perseguita mediante accordi internazionali, di cui parlava Kelsen 12, suggestivamente evocato da Femìa 13). L’assenza di una hard law, valida almeno per i paesi del G20, è in parte supplita dall’esistenza di più reti internazionali delle autorità indipendenti di settore, organizzate nel Comitato di Basilea (per le banche centrali), nello IOSCO (per le autorità di vigilanza sui mercati mobiliari) e nella IAIS (per le autorità di vigilanza sulle assicurazioni). Queste reti sono, a loro volta, parte di una galassia di organismi internazionali: “lo spazio giuridico globale è pieno di regimi regolatori settoriali, ciascuno con il suo regime e con un apparato” 14; sono quindi possibili e spesso compresenti una pluralità di “affiliazioni” 15. Le organizzazioni dei regulators finanziari discutono e decidono indipendentemente dagli Stati e producono delle forme di substitutive law, che possono essere anche molto incisive (si pensi, ad esempio, agli standards di capitalizzazione delle banche o agli indicatori contabili uniformati di “Basilea 2”). È preferibile, a questo proposito, l’espressione substitutive law rispetto a quella, più generica, soft law 16 perché le decisioni assunte negli organismi internazionali dei regulators vincolano strettamente i loro componenti nazionali. Più precisamente: la loro attuazione negli ordinamenti interni condiziona la stessa legittimazione delle autorità nazionali a continuare a far parte dell’organismo internazionale decidente. (Natu-

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Kelsen, La teorie juridique de la convention, in Rev. Int. Phil. Dr., 1940. Femìa, Pluralismo giuridico e costruzione dell’unitarietà in sede applicativa, relazione al Convegno della SISDIC L’incidenza del diritto internazionale, relazione tenuta al V Convegno Nazionale della SISDIC – Società Italiana degli Studiosi del Diritto Civile, sul tema L’incidenza del diritto internazionale sul diritto civile, svoltosi a Capri il 25-27 marzo 2010, testo dattiloscritto. 14 La citazione è tratta da Cassese, Il diritto globale, Torino, 2009, Cap. II. 15 Busnelli, Le persone nel diritto internazionale (dalle “obbligazioni negative” a quelle “positive” degli Stati imposte dal diritto internazionale a favore dei singoli), relazione al Convegno SISDIC, cit. 16 V., sinteticamente, De Bernardin, voce Soft law, in Dizionario di diritto pubblico, cit., vol. VI; più diffusamente v. AA.VV. Soft law e hard law nelle società postmoderne, a cura di Somma, Torino, 2009. 13

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ralmente ciò vale nella misura in cui il “riversamento” negli ordinamenti nazionali dipende direttamente da decisioni degli stessi regulators nazionali che aderiscono alle varie reti). Le decisioni degli organismi internazionali di settore non sembra possano esser ricomprese tra le semplici raccomandazioni o tra gli accordi non vincolanti, che costituiscono le fonti internazionali di soft law 17. Rientrano – invece – a pieno titolo in una forma di soft law gli indirizzi che vengono adottati dal Financial Stability Board 18. In sintesi: i decisori pubblici nazionali sono tenuti a “dare corpo”, nei rispettivi ordinamenti, agli indirizzi – a base tecnica, ma certo non neutri in termini geoeconomici 19 – o, in altri casi, a riversarvi, come s’è accennato, le proposizioni precettive che sono state definite in sede internazionale. Nell’operare il “riversamento” esistono margini di mediazione o di adattamento? Si deve rispondere in modo empirico: a seconda dei casi, perché dipende dal grado di specificazione degli inputs di fonte internazionale. Analogo discorso – di conseguenza, “a cascata” – deve farsi sull’incidenza che possono avere sugli assetti e rapporti civilistici questi indirizzi o precetti – intermediati dai regulators nazionali – volti ad assicurare standards uniformi ed elevati di trasparenza, efficienza e stabilità dei mercati finanziari, a tutela dei risparmiatori (che sono i valori di riferimento). Per rimanere all’esempio fatto: gli standards di capitalizzazione delle banche costituiscono palesemente un limite – esterno, ma molto incisivo – all’autonomia imprenditoriale (come in tutti gli altri casi in cui vengono prefissati, per un certo tipo di operatori o per certi tipi di operazioni, coefficienti e soglie di tipo quantitativo). Altri esempi possono riguardare limitazioni ad un certo tipo di operazioni o all’uso di certi strumenti finanziari (ad esempio: alcuni tipi di derivati). In conclusione: esiste una pluralità di inputs, di assai varia rilevanza

17 Cfr. Condorelli, voce Fonti (diritto internazionale) in Dizionario di diritto pubblico, cit., vol. III. Con specifico riferimento al macrosettore finanziario v. Lemma, Soft law e regolazione finanziaria in Nuova Giur. Civ. Comm. 2006, n. 11, p. 600 ss. e, con ampiezza di inquadramento, Galanti, Il sistema delle fonti in Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, a cura di Galanti, Padova, 2008. 18 Sia consentito il rinvio a Amorosino, Coordinamento, cit. 19 Cfr. Savona, Il governo dell’economia globale, Venezia, 2009.

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o vincolatività giuridica, di fonte internazionale: dalle statuizioni degli organismi reticolari di settore agli indirizzi politico-tecnici sino agli indirizzi propriamente tecnici (guidelines, standards, best practices, ecc.) 20 i quali, attraverso filtri regolatori di vario genere, condizionano in modo altrettanto diversificato l’autonomia privata. Sono fonti reali 21, non statali ma “non privatistiche”, indubbiamente tecnocratiche 22, mediate dalle discipline nazionali (ma anche comunitarie). 3. L’incidenza del diritto dell’Unione europea sugli ordinamenti nazionali è, notoriamente, multiforme. Si può dire che essa inizia dalla “costituzione economica europea”, che tra i suoi principi annovera – quanto ai fini – quello (generale) di libertà economica e quello (intersettoriale) di tutela del risparmio, cui si aggiunge un principio organizzatorio d’apice, che assegna un ruolo centrale ad autorità indipendenti di regolazione di molti mercati 23. I principi devono trovare applicazione nell’organizzazione e funzionamento dei mercati. Il primo principio – la libertà economica – come ha rilevato Merusi 24 – si concretizza nella pari opportunità dei contraenti che si incontrano nei mercati, la quale si declina nella tutela della concorrenza e nella tutela dei contraenti più deboli (parità di condizioni nel negoziare in un mercato aperto). Il secondo è una qualificazione e specificazione del primo in campo finanziario: la tutela del risparmio si concretizza, sul versante dei rapporti pubblicistici, nella attribuzione di forti poteri autoritativi di vigilanza, a partire dalla vigilanza regolamentare. Sul versante dei rapporti civilistici si concreta – per fare solo qualche esempio – nella tutela del contraente non professionale 25, sia che

20 In tema v. per tutti Capriglione, Fonti normative in L’ordinamento finanziario italiano, a cura di Capriglione, II ed., Padova, 2010. 21 Costi, L’ordinamento bancario, IV ed., Bologna 2007, p. 554 ss. 22 Galgano, Forme di regolazione dei mercati internazionali, relazione al V Convegno della SISDIC cit. e, amplius, in Lex mercatoria, Bologna, 2010, cap. XI. 23 Longobardi, Le autorità amministrative indipendenti nel diritto globale, in www. amministrazioneincammino.it (2009). 24 Il potere normativo delle autorità indipendenti in L’autonomia privata, cit. 25 Alpa, Gli obblighi informativi precontrattuali nei contratti di investimento finanziario. Per l’armonizzazione dei modelli regolatori e per l’uniformazione delle regole

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apporti risparmio (o chieda credito) 26; o si accinga ad investimenti 27; o stipuli un contratto assicurativo 28 o sottoscriva strumenti assicurativi-finanziari 29; o nella tutela del socio, o investitore, “polvere” nelle vicende della governance e del controllo societario 30. Entrambi i principi trovano il loro precipitato nel terzo: l’affidamento ad autorità indipendenti della parte più sostanziosa dei poteri di regulation (composta dalla regolamentazione e dall’enforcement, il quale – si ricorda – inizia con l’ammissione ad operare nel mercato, prosegue con la vigilanza sull’operatività, passa per la conformazione dell’attività o dell’organizzazione di imprese (in caso di disfunzioni) e giunge alle sanzioni o all’amministrazione straordinaria o alla liquidazione coatta amministrativa. Qual è il collegamento di questi principi “costituzionali” europei con la disciplina dei rapporti civilistici? È un collegamento immediato e forte e riguarda la legittimazione stessa dei poteri delle autorità di regolazione (le quali nel sistema interno prendono il nome significativo di autorità di vigilanza). Solo una legittimazione che discende direttamente dalla “costituzione economica europea” (e, “per li rami”, anche dall’art. 41 Cost. “riveduto e corretto”) giustifica, infatti, l’attribuzione di poteri così incisivi ad organismi che non hanno legittimazione, né responsabilità, democraticorappresentativa. E, per quanto qui interessa, ricordo che Merusi qualifica questa attività pubblicistica come sostitutiva di negozi giuridici concorrenziali, nel senso che il mercato e la concorrenza non sono più lasciati all’autonomia privata, ma l’autorità indipendente fa quello che i privati non possono, o non vogliono, fare.

di diritto comune in Scritti in onore di Francesco Capriglione, Padova, 2010, Tomo I, p. 699 ss. 26 Morera, I profili generali dell’attività negoziale dell’impresa bancaria in Brescia Morra e Morera, L’impresa bancaria, Napoli, 2006. 27 Pellegrini, Le imprese di investimento in L’ordinamento, cit. 28 Cerini, Il contratto di assicurazione: problemi e riflessioni tra Codice delle assicurazioni, regolamenti e diritto europeo in La regolazione assicurativa. Dal Codice ai provvedimenti di attuazione, a cura di Marano e Siri, Torino, 2009, p. 3 ss. 29 Sampognaro e Siri, I prospetti di offerta dei prodotti finanziari-assicurativi in La regolazione, cit. 30 Tarantola, Il sistema dei controlli interni nella governance bancaria (relazione tenuta il 6 giugno 2008 ad un Convegno DEXIA Crediop; il testo è consultabile sul sito della Banca d’Italia).

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Un’autorità che – mediante i propri regolamenti o deliberazioni, ma anche interventi in casi singoli – può, ad esempio: imporre attraverso un prospetto informativo (il cui contenuto deve approvare) di fornire una massa di informazioni al potenziale contraente; oppure intervenire sulla operatività delle imprese finanziarie per garantirne la stabilità o per modellarne la governance (ad onta dell’autonomia societaria e perfino del codice civile, come s’è visto in materia di governance bancaria 31); o, ancora, predeterminare la struttura dei contratti e le modalità di svolgimento dei rapporti contrattuali (ad esempio: tra intermediari ed investitori) 32, o arbitrare lo svolgimento di un’OPA 33. E tutto ciò in forza dei principi di costituzione economica europea dell’inveramento dei quali le autorità di vigilanza finanziaria nazionali dovrebbero essere una sorta di “armata a cavallo” di avanguardia. Sin qui si tratta di una legittimazione già consolidata. Ad essa si affianca una legittimazione per così dire in progress, affidata o affidanda direttamente – in funzione dei valori “costituzionalizzati” in Europa di tutela del risparmio e di efficiente e corretto andamento dei mercati finanziari – ad autorità europee. Si tratta, nel gergo dei pubblicisti studiosi del diritto comunitario 34, di agenzie europee. Nei settori che qui interessano – sulla base del “Rapporto De Larosière” 35 – avremo un nuovo complesso sistema di queste agenzie. Si avrà – per la vigilanza microprudenziale – un Sistema Europeo delle Autorità di Vigilanza Finanziaria (ESFS), composto dalle autorità nazionali di vigilanza, e da tre nuove autorità europee: l’EBA (autorità bancaria europea), l’EIOPA (autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni) e l’ESMA (autorità europea per i valori mobiliari).

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Costi e Vella, Banche, governo societario e funzioni di vigilanza – Quaderno di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale della Banca d’Italia – Roma, 2008. 32 Di Amato, I servizi di investimento, in Diritto del mercato finanziario, a cura di Amorosino, Milano, 2008. 33 Cfr. Lener, voce Offerta pubblica di acquisto, in Il diritto. Enciclopedia Giuridica, vol. 10, Milano, 2007; aggiornato alle più recenti evoluzioni normative è Tucci, Offerte pubbliche di acquisto in L’ordinamento, cit. 34 v. E. Chiti, Le trasformazioni delle agenzie europee in Riv. Trim. Dir. Pubbl., n. 1/2010, p. 57 ss. 35 Masera, La crisi globale: finanza e regolazione alla luce del rapporto De Larosière, in Scritti in onore di F. Capriglione, cit.

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A livello macroprudenziale la supervisione spetterà ad un Comitato Europeo per il rischio sistemico (ESRB). L’implementazione della nuova architettura di sistema sarà, prevedibilmente, piuttosto laboriosa. In sintesi – sulla base del principio di sussidiarietà, anche ascenden36 te , che informa i Trattati europei – si è deciso di collocare in sede europea una sorta di superregulation, in quanto in particolare le tre nuove autorità saranno responsabili dell’elaborazione di standards tecnici vincolanti e di orientamenti interpretativi, del controllo dell’applicazione uniforme della normativa comunitaria, della composizione di eventuali divergenze tra i regolatori nazionali. Le ricadute potrebbero essere essenzialmente di due tipi: – da un lato un processo di ulteriore puntualizzazione e specificazione, ad opera delle nuove Autorità, delle regole europee, riguardanti i rapporti di mercato, finora contenute essenzialmente nelle direttive; – dall’altro la creazione di un sistema di vigilantes sull’enforcement uniforme delle regole europee. L’effetto complessivo – sempre schematizzando – potrà essere un ancor maggiore grado di penetratività, immediata ed uniforme, delle regole europee ed una maggiore conformazione dei mercati nazionali. Sulla scorta dei maestri del diritto amministrativo 37 si conferma – dunque – che il tipo di organizzazione dei pubblici poteri ha riflessi immediati sulla struttura dei sistemi recettivi, in particolare quando si ha a che fare con regolazioni di mercati. 4. Si può ora passare dalle tematiche della legittimazione – nella “costituzione economica europea” – degli invasivi poteri delle autorità di regolazione sull’autonomia delle imprese finanziarie e della nuova organizzazione della regolazione, incentrata su agenzie europee, alla sfera propriamente precettiva delle “regole europee” inerenti alla configurazione dei mercati, e quindi anche ai rapporti civilistici. Per marcare la decisività di questa influenza è sufficiente, in retrospettiva, ricordare che da una trentina d’anni decise mutazioni sono derivate, nella normazione italiana, dalle prime direttive in materia bancaria 38:

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v. Tizzano, Le competenze dell’Unione e il principio di sussidiarietà, in Dir. Un. Eur., n. 3/1997, p. 229 ss. 37 v. Giannini, Diritto amministrativo, III ed., Milano, 1993, vol. I. 38 In tema v. per tutti Costi, L’ordinamento, cit.

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la stessa configurazione delle banche come imprese, operanti in un mercato (e non in un settore amministrato in modo dirigistico) e la correlata adozione del modello societario (in luogo dei modelli pubblicistici) è di stretta derivazione comunitaria 39. E vicende analoghe si sono avute per la disciplina dei contratti e (più in generale) dei servizi finanziari (ad esempio: di investimento) e dei rapporti societari per le “quotate” e per le imprese di assicurazione (che un tempo, se non erano pubbliche, erano qualificate di interesse pubblico) 40. In limine a questa problematica è indispensabile accennare alla peculiarità della produzione delle regole europee in tema di mercati finanziari. In una serie di deliberazioni il Consiglio europeo e la Commissione hanno deciso di adottare la c.d. “procedura Lamfalussy” per la definizione delle regole relative ai mercati dei servizi finanziari. La procedura è basata su quattro livelli – codecisione, comitati 41, cooperazione ed enforcement; è prevista l’adozione di direttive di primo livello (recanti i principi) e di secondo livello (applicative) 42. Ai fini di queste note rileva l’effetto cumulativo che deriva dall’adozione di questa complessa procedura “a cascata, il quale è duplice: una maggiore compattezza ed incisività della regolamentazione ed un forte coordinamento dell’enforcement pubblico. Con una conseguente maggiore incisività, in generale, sull’organizzazione giuridica dei tre mercati e, in particolare, sulla conformazione dei rapporti civilistici. In questo scenario alcuni esempi possono essere più utili di qualsiasi intavolazione astratta per mostrare – oltre all’incisività – l’estrema varietà dei modi di “assorbimento” interno delle norme europee. Primo esempio. Nel luglio 2008 il Comitato Interministeriale per

39 v. Galanti, La storia dell’ordinamento bancario e finanziario italiano fra crisi e riforme in Diritto delle banche, cit, p. 88 ss. 40 Volpe Putzolu, L’evoluzione della legislazione in materia di assicurazioni, in Il nuovo codice delle assicurazioni, a cura di Amorosino e Desiderio, Milano, 2006; e, più di recente, Donati e Volpe Putzolu, Manuale di diritto delle assicurazioni, IX ed., Milano, 2009, cap. I. 41 v. Sabbatelli, Il nuovo volto dei comitati di terzo livello in Scritti in onore di F. Capriglione, cit., vol. I. 42 v. Carozzi, Il metodo Lamfalussy: regole e vigilanza del mercato finanziario europeo, Roma – Bancaria 2007 e, prima, Antonucci, La vigilanza bancaria nell’Unione europea: fra cooperazione e metodo Lamfalussy in Studi in onore di P. Schlesinger, Tomo V, Milano, 2004.

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il Credito ed il Risparmio, con due deliberazioni correlate (n. 276 e n. 277): – ha dato atto che, in forza di due direttive europee, in particolare la 2007/44/CE, in tema di partecipazioni al capitale delle banche da parte di imprese non finanziarie e – specularmente – della partecipazione delle banche al capitale di imprese “non finanziarie” – doveva essere modificato il Testo Unico Bancario laddove (art. 19, co. 6) precludeva – con una soglia massima del 15% – partecipazioni, in fatto, di controllo al capitale delle banche da parte di imprese industriali; – ha rimesso alla Banca d’Italia di adottare una nuova regolamentazione della materia. In pratica è stato del tutto superato il principio di separazione tra banca ed industria 43, che aveva il suo fondamento storico nella crisi degli anni ’30 44. È di immediata evidenza l’incidenza che la rimozione delle limitazioni può avere – nel medio periodo – sul mercato del controllo delle società bancarie e, simmetricamente, del controllo di società “non finanziarie”. La precisazione sulla non imminenza, salvo eccezioni, delle operazioni di acquisizione del controllo è dovuta alla presente crisi finanziaria, che impone alle imprese, sia finanziarie sia “non finanziarie”, di rafforzare le rispettive patrimonializzazioni piuttosto che, e prima di, investire capitali all’infuori del proprio core business 45. È interessante accennare alla singolarità del modo di recepimento nell’ordinamento interno delle nuove regole comunitarie in materia. Si è registrato, infatti, una sorta di “concorso di fonti”: – da un lato (pars destruens) l’art. 14 del d.l. n. 185/2008, convertito nella legge n. 2/2009, ha abrogato i co. 6 e 7 dell’art. 19 del t.u.b. (che poneva il tetto del 15% alla partecipazione al capitale sociale delle società bancarie) 46; – dall’altro (pars construens) il Governatore della Banca d’Italia, con una nota circolare in data 12 maggio 2009, ha affermato l’integrale, diretta applicabilità della direttiva 2007/44 nell’ordinamento italiano.

43 Per il quadro normativo previgente v., per tutti, M. Pellegrini, La separatezza banca – industria in L’ordinamento, cit., I ed., 2005. 44 Sia consentito il rinvio a Amorosino, La fine della storica separazione tra banche ed imprese in Diritto & Economia. Intersezioni e modelli, Napoli, 2009. 45 In tema v. lo studio di La Licata, La struttura finanziaria della società bancaria, Torino, 2008. 46 v. Cardi, Mercati e istituzioni in Italia, Torino, 2009, p. 132.

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E, dunque, con una circolare del Governatore, che ha “dichiarato” l’immediata vigenza della direttiva è stata segnata la fine della storica separazione tra banche ed industrie 47. Il secondo esempio riguarda uno dei servizi finanziari. La Direttiva MiFID ha qualificato il servizio di consulenza finanziaria come autonomo e non solo accessorio ai servizi di investimento, com’era nel t.u.f. (d.lgs. n. 58/1998). La MiFID prevede che l’attività di consulenza “pura” possa esser svolta anche da persone fisiche e, addirittura, che per il contratto di consulenza non sia indispensabile la forma scritta. Il legislatore italiano è intervenuto a due riprese, con un decreto e poi con un decreto “correttivo”, configurando un elenco (albo?) dei consulenti finanziari indipendenti e preponendo alla gestione di esso un organismo – figura giuridica atipica, ma connotata in termini pubblicistici (una sorta di succedaneo di ordine professionale). Di conseguenza la CONSOB ha recentemente adottato un apposito regolamento che disciplina da un lato l’organizzazione e le funzioni/poteri dell’organismo e dall’altro i comportamenti dei consulenti indipendenti (con tali e tante prescrizioni che il contratto di consulenza sarà inevitabilmente scritto). Anche in questo caso le regole europee hanno configurato un mercato in parte nuovo, con una sua specifica organizzazione 48. Il terzo esempio riguarda la responsabilità da prospetto, la quale trova ora la sua disciplina nell’art. 94 del t.u.f., come modificato dal d.lgs. n. 51/2007, “sotto l’influenza del regolamento CE n. 809/2004” 49, e sancisce la responsabilità dell’emittente, dell’offerente, del garante, ecc. per i danni subiti dall’investitore che abbia fatto ragionevole affidamento – ecco un caso di sussunzione nell’ordinamento interno del principio in-

47 In tema, v. l’approfondito lavoro di Boccuzzi, Gli assetti proprietari delle banche. Regole e controlli, Torino, 2010. Alle due fonti sopracitate ha fatto seguito, da ultimo, il d.lgs. 27 gennaio 2010 n. 21. 48 In tema v. Paracampo, Le società di consulenza finanziaria: una disciplina in itinere; Amorosino, Profili pubblicistici dell’attività di consulenza finanziaria; Sciarrone Alibrandi, Il servizio di “consulenza in materia di investimenti”: profili ricostruttivi di una nuova fattispecie; Ciraolo, I caratteri del servizio di consulenza in materia di investimenti, alla luce della normativa di recepimento della MiFID, tutti in Scritti in onore di F. Capriglione, cit. 49 La citazione è tratta da Giudici, Il «private enforcement» nel diritto dei mercati finanziari in Funzioni del diritto privato e tecniche di regolazione del mercato, a cura di Maugeri e Zoppini, Bologna, 2009, p. 307.

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ternazionale di ragionevolezza, di cui parla Galgano 50 – sulla veridicità e completezza delle informazioni contenute nel prospetto. Il quarto esempio riguarda la responsabilità civile delle banche e delle imprese di investimento che intermediano gli investimenti finanziari delle famiglie e che dovrebbero esserne i protective gatekeepers. Anche questa materia è stata ampiamente riformata – a seguito del recepimento della MiFID e della direttiva di secondo livello 2006/73 – mediante modifiche al regolamento CONSOB intermediari con deliberazione del 29 ottobre 2007 (Abbiamo qui un altro caso di recepimento diretto mediante atti regolamentari). Quinto esempio: la responsabilità civile da mancata OPA obbligatoria 51. Anche in questo caso il recepimento della direttiva OPA (2004/25) ha portato a modificare il rapporto tra azione pubblica, della CONSOB ed azione civile, riducendo lo spazio per il private enforcement 52. Gli esempi fatti riguardano varie dimensioni dei rapporti civilistici: i primi due l’organizzazione giuridica di nuovi mercati finanziari (come la consulenza), oppure del mercato del controllo di società che gestiscono imprese finanziarie; il terzo ed il quarto i rapporti tra emittenti, ma soprattutto intermediari, ed i risparmiatori 53; il quinto – in tema di OPA – entrambi i “versanti”, quello del controllo societario e quello della tutela dei risparmiatori. È la dimostrazione empirica della varietà dei modi di incidenza delle regole europee ed anche delle procedure di recepimento di esse nell’ordinamento interno.

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Nella relazione Forme di regolazione, cit. In tema v. Tucci, La violazione dell’obbligo di offerta pubblica d’acquisto. Rimedi e tutele, Milano 2008. 52 v., ancora, Giudici, Il «private enforcement», cit. 53 In tema v. da ultimo Tarantola, La Banca d’Italia e la tutela del consumatore nei servizi bancari e finanziari, relazione al Convegno La riforma del codice del consumo: la tutela del consumatore-cliente nei servizi bancari e finanziari organizzato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Roma 19 marzo 2010 (consultabile sul sito della Banca d’Italia). 51

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La disciplina della crisi del gruppo bancario tra vincoli di partenza ed evoluzione del contesto normativo* Sommario: 1. Osservazioni introduttive. – 1.1. Segue: origini e vincoli di partenza della disciplina dei gruppi bancari. – 1.2. Segue: contenuto del lavoro. – 2. Alcune caratteristiche della disciplina del gruppo bancario condizionanti l’esame delle disposizioni sulla crisi del medesimo: a) la forza attrattiva (sempre più ridimensionata) della disciplina delle banche rispetto alle società aventi natura non bancaria. – 2.1. Segue: b) la rilevanza, sul piano di applicazione soggettivo, dei confini normativi del gruppo. – 3. I presupposti oggettivi dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa della capogruppo. – 3.1. Le integrazioni (e i dubbi) di cui alla l. 190/2008. – 4. Ulteriori rilievi circa la forza attrattiva della disciplina bancaria: a) con riferimento alla interdipendenza tra crisi della capogruppo e crisi delle società del gruppo. – 4.1. Segue: b) nei confronti della fattispecie (improbabile) del gruppo “di fatto”. – 5. Funzioni e poteri dei commissari straordinari e dei commissari liquidatori: i riflessi della disciplina dei gruppi societari nonché dei provvedimenti c.d. anticrisi. – 6. Qualche considerazione d’assieme. – 6.1. Un inquadramento dell’attività di direzione e coordinamento funzionale all’intelligenza delle norme sulla disciplina della crisi del gruppo. – 6.1.1. Il rilievo del diritto comune dei gruppi. – 6.1.2. La riorganizzazione della vigilanza su base consolidata. – 6.1.3. L’interesse di gruppo tra diritto speciale e diritto comune. – 6.1.4. Il profilo della responsabilità della capogruppo. – 6.2. I connotati oggi attribuibili alla disciplina sulla crisi del gruppo bancario.

1. Osservazioni introduttive. Il modello organizzativo di gruppo si è sviluppato nel mercato finanziario, coniugandosi con quello alternativo di banca universale, ed è stato una scelta obbligata nei casi di riserve legali di attività a favore di alcuni intermediari. La progressiva formazione di gruppi, anche intersettoriali, ha determinato rischi aggiuntivi per le imprese finanziarie in essi integrate, ha fatto emergere difficoltà nell’avere una visione e

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Destinato agli Studi in onore del Prof. Umberto Belviso.

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conoscenza reale dell’esposizione complessiva al rischio nonché – è il punto che qui interessa più da vicino – maggiori pericoli di trasmissione delle crisi all’interno del conglomerato, ed ha posto quindi particolari esigenze di rafforzamento delle discipline settoriali. Esigenze soddisfatte con interventi sia ex post, in corrispondenza di fenomeni di instabilità bancaria (si pensi alla crisi della B.C.C.I. e all’emanazione della direttiva 95/26/CE), sia ex ante, al fine di prevenire gli effetti destabilizzanti derivanti dalle difficoltà finanziarie incontrate dagli intermediari integrati in un “conglomerato finanziario” (direttiva 2002/87/CE) ed altresì di favorire un approccio di controllo dei rischi di tipo consolidato (accordo c.d. di “Basilea II”, confluito nelle direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE). In linea di principio, ma anche sul piano concreto (vista la tenuta del nostro sistema bancario alla recente crisi dei mercati finanziari internazionali), il processo di regolamentazione ha dotato le autorità di vigilanza di strumenti idonei a valutare nel complesso la situazione anche prospettica di ogni intermediario, sia come singolo sia come appartenente ad un gruppo, focalizzati sulla solvibilità degli stessi ma anche sulla gestione delle crisi. Infatti, seppure il ripetersi nel tempo di fenomeni di instabilità bancaria, originati da cause molteplici, denota la difficoltà di costruire un apparato di regolamentazione e di supervisione capace di assicurare la stabilità finanziaria (non a caso a livello europeo si è subito messo in moto il meccanismo di revisione delle direttive settoriali), va però sottolineato che la presenza all’interno della normativa creditizia di adeguati strumenti di identificazione e risoluzione delle crisi rappresenta un prerequisito indispensabile per guidare e/o arginare gli effetti delle stesse .

Si vedano gli atti del convegno organizzato dalla Banca d’Italia su Financial market regulation after financial crises: the historical experience, Roma, 15-17 aprile 2009, reperibili sul sito http://www.bancaditalia.it/studiricerche/convegni/atti/Financial_Market_ Regulation. La mente corre verso il cambiamento di rotta dell’ordinamento inglese – che a seguito della recente tempesta finanziaria ha subito il crollo di numerose banche nazionali – con l’introduzione mediante il Banking Act del 12 febbraio 2009 di una legge concorsuale speciale per le banche (in precedenza ad una crisi bancaria veniva, infatti, applicato il diritto fallimentare comune di cui all’Insolvency Act del 1986). Sulla nuova Bank Insolvency procedure si veda ampiamente De Poli, Crisi finanziaria e salvataggio delle banche inglesi. Il Banking Act 2009, suppl. al n. 1/2009 della Riv. trim. dir. economia, disponibile sul sito www.rtde.luiss.it, in part. p. 23 ss.

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Il fatto che la crisi dei mercati finanziari del 2008 abbia trovato il suo detonatore nella scelta (scriteriata, ma obbligata) del governo americano di lasciar fallire la Lehman Brothers, banca di investimento a capo di un gruppo avente ramificazioni internazionali , la vicenda della Northern Rock e in particolare l’insicurezza che ha colpito i depositanti dopo la decisione della Bank of England di “comunicare” al pubblico la concessione di assistenza finanziaria alla banca in crisi (facendo perno sul suo ruolo di Lender of last resort) – per citare solo alcuni degli aspetti particolarmente significativi – portano a puntare lo sguardo proprio sugli strumenti a disposizione delle autorità di vigilanza per la risoluzione delle crisi e sul loro utilizzo. L’emanazione coordinata e condivisa a livello internazionale di apposite legislazioni anticrisi dimostra che la loro presenza è necessaria ma può non essere sufficiente . 1.1. Segue: origini e vincoli di partenza della disciplina dei gruppi bancari. L’ordinamento italiano si caratterizza per la presenza di una disciplina delle crisi relative al gruppo bancario contenuta negli artt. 98-105 t.u.b., la cui fonte si trova negli artt. 32-40 del d.lgs. 356/1990 che a loro volta davano attuazione all’indicazione di predisporre una «disciplina delle situa-

La bibliografia sul punto è ormai amplissima, in particolare si possono vedere OnaI nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole non scritte, Bari, 2009; Montanaro, Tonveronachi, Il secondo pilastro di Basilea 2. Prove di stress per le banche o per la vigilanza, in Banca, impresa, soc., 2009, p. 73 ss.; Siclari, Crisi dei mercati finanziari, vigilanza, regolamentazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2009, p. 45 ss., ove diffusi riferimenti. Sul tema Vattermoli, Chapter 11 e tutela dei creditori (note a margine del caso Lehman Brothers, in Dir. banc., 2009, II, p. 67 ss. Anche se il fallimento del gruppo Lehman mette in guardia gli intermediari sul piano del moral hazard, i numerosi interventi di nazionalizzazione e di salvataggio di banche, lasciano intendere che la presenza di una disciplina sulla crisi di fronte ad un conglomerato bancario di grandi dimensioni acquisisca una valenza prevalentemente simbolica, alla stregua cioè di segnale per il mercato circa l’esistenza di poteri a disposizione delle autorità di vigilanza volti a tener sotto controllo le difficoltà emerse nel conglomerato coinvolto. Torna anche alla mente la saggezza sottesa al richiamo einaudiano sul “non far romore” allorquando si interviene in campo bancario. Seppure la tempesta finanziaria internazionale ha lasciato inalterata la struttura del settore creditizio italiano, va infatti tenuto presente che sono emerse remore rispetto alla facoltà per le banche di attingere ai primi sistemi di ripatrimonializzazione introdotti con la legislazione d’urgenza dell’autunno 2008, dettate non solo dalla loro scarsa appetibilità, ma anche dal timore di compromettere la fiducia e reputazione nei loro riguardi da parte del mercato; sul punto cfr. Onado, Crisi dei mercati finanziari e intervento statale, in Corr. giur., 2008, p. 1633. do,

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zioni di crisi» con riferimento al gruppo, presente nell’art. 5, lett. d), della l. delega 218/1990 . In quegli anni il legislatore nazionale apparve piuttosto lungimirante in quanto, in forma del tutto autonoma rispetto al contesto comunitario, volle affiancare uno specifico trattamento delle crisi inerenti al “gruppo bancario” ai più tradizionali strumenti di vigilanza consolidata informativa e regolamentare allora in fase di rielaborazione in sede europea e poi confluiti nella direttiva n. 92/30/CEE. Dietro quegli articoli v’era, more solito, la regia della Banca d’Italia. In un volume apparso nel febbraio del 1989, muovendo dalla «solidarietà dei risultati economici, per cui la crisi di una componente si ripercuote sulle altre», l’autorità di vigilanza chiedeva un’integrazione dei propri poteri conoscitivi e di intervento nei confronti del gruppo bancario. Prospettava, quindi, una disciplina che, accanto a strumenti di ordine informativo e regolamentare, prevedesse «procedure di gestione delle crisi aziendali: – relativamente a programmi di riassetto per il risanamento nel caso di crisi reversibile; – relativamente a procedure estintive di tipo concorsuale nel caso di crisi irreversibile» .

I relativi materiali normativi si possono consultare in Banca D’Italia, La ristrutturazione della banca pubblica e la disciplina del gruppo creditizio, in Quaderni di ricerca giuridica, n. 26, gennaio 1992, cfr. l’appendice, p. 227 ss. e in part. la Relazione illustrativa al d.lgs. 356/1990, p. 321 ss. Cfr. Banca D’Italia, Intermediazione finanziaria non bancaria e gruppi plurifunzionali: le esigenze di regolamentazione prudenziale, “Temi di discussione del servizio studi”, n. 113, febbraio 1999, cit., rispettivamente, pp. 177 e 179. La crisi ha fatto emergere a livello europeo la lacuna relativa all’assenza di una organica legislazione comunitaria sui gruppi operanti nel mercato finanziario. Il nostro paradigma, fondato su una gestione coesa ed accentrata del gruppo bancario, potrebbe rappresentare un valido punto di partenza per la regolamentazione dei conglomerati cross-border. La Banca d’Italia sta nuovamente svolgendo un’azione importante su tale linea, promuovendo l’idea: a) dell’adozione del modello italiano che poggia sul riconoscimento del ruolo di coordinamento della capogruppo e fornisce un quadro di riferimento sulla distribuzione di diritti e responsabilità tra le componenti del gruppo; b) dell’attribuzione alla capogruppo della funzione di interagire con il collegio dei supervisori e il conseguente compito di far adottare alle imprese appartenenti al gruppo le indicazioni fornite da quest’ultimo; cfr. Carosio, Indagine conoscitiva sugli strumenti di vigilanza europea dei mercati finanziari, creditizi e assicurativi, Audizione al Senato della Repubblica del 16 dicembre 2009, in www.bancaditalia.it, p. 16. Anche in sede ABI si sottolinea come la proposta della Commissione di introdurre a livello comunitario il concetto di “gruppo bancario”, risponde ad un auspicio dell’Associazione bancaria che vede nella normativa civilistica italiana il riconoscimento di una gestione accentrata dei gruppi, idonea “in tempi normali” a ridurre “i costi di compliance” nonché “a sfruttare le economie di scala e di scopo” e soprattutto, “in tempi di crisi”, a “minimizzare i costi di insolvenza e mantenere la fiducia del mercato”: cfr. Faissola, Indagine conoscitiva europea sugli strumenti

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In effetti la stessa storia bancaria di quel decennio, costellata da scandali e crisi di importanti gruppi nazionali (in primis il Banco Ambrosiano, ma poi anche il Banco di Napoli e la BNL), spingeva verso un rafforzamento a tutto campo dei controlli sulle banche articolate in gruppo . In linea con gli originari vincoli di partenza delineati dall’art. 5 della l. 218/1990, la normativa sulla crisi del gruppo bancario, ripresa poi in modo sostanziale nel t.u.b. del 1993, risente della peculiarità della fattispecie gruppo così come introdotta nell’ordinamento creditizio ed ha quindi un connotato ben definito: a) considera solo i profili strettamente funzionali alle esigenze della vigilanza – e in ispecie quello della salvaguardia della stabilità del conglomerato e soprattutto della tutela della fiducia del pubblico verso la sua componente bancaria (tanto che, se tale fiducia non corre il rischio di essere compromessa, le imprese a valle del gruppo aventi diversa natura restano assoggettate alle procedure concorsuali loro proprie); b) delimita i confini del nucleo del gruppo bancario isolando solo le società con stretta affinità qualitativa; c) è rispettosa dell’autonomia patrimoniale delle società appartenenti al gruppo 10. La disciplina sul gruppo bancario avrà il pregio di fare da battistrada al legislatore successivo che, per la redazione sia del t.u.f. del 1998, sia – soprattutto – del codice delle assicurazioni private (c.a.p.) di cui al d.lgs. 209/2005, si appoggerà appieno sul paradigma regolamentare previsto nel t.u.b. Una spinta determinante verso la “omogeneizzazione” della disciplina riferita agli intermediari organizzati in gruppo è arrivata dalla direttiva

di vigilanza europea dei mercati finanziari, creditizi e assicurativi, Audizione al Senato della Repubblica del 9 dicembre 2009, in www.abi.it, p. 5. Per un’efficace sintesi della storia bancaria del nostro paese si rinvia a Belli, Corso di legislazione bancaria, Tomo I, Legislazione bancaria italiana (1861-2010), Pisa, 2010, passim. Come nota Sandulli, sub artt. 98-105, Introduzione, in Commento al d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385. Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Belli, Contento, A. Patroni Griffi, Porzio, Santoro, Bologna, 2003, vol. 2, p. 1657 ss., le norme non si presentano come disciplina sulla «crisi del gruppo bancario», quanto invece su «una crisi nel gruppo bancario», cit. p. 1663. 10 La disciplina della crisi dei gruppi bancari «non modifica le regole della responsabilità patrimoniale delle singole società» e non ne «cancella la separazione patrimoniale», così Costi, L’ordinamento bancario4, Bologna, 2007, cit. p. 839. Per un commento recente alle disposizioni del t.u.b. richiamate in questo lavoro si rinvia a Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina e Santoro (a cura di), Commentario al testo unico bancario e creditizio, Milano, 2010.

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2002/87/CE sui conglomerati finanziari (recepita con il d.lgs. 142/2005), la quale ha introdotto un nuovo sistema di controllo di tipo “supplementare”, presupponendo alla sua base l’esistenza di discipline di vigilanza che considerassero in modo uniforme la realtà di gruppo degli intermediari appartenenti al settore bancario, dei servizi di investimento ed assicurativo. Il legislatore italiano è stato quindi costretto a colmare il gap presentato da questi ultimi due sub-settori rispetto alla normativa bancaria 11. In definitiva, sul piano normativo, dopo il codice delle assicurazioni del 2005 e il d.l. 27 dicembre 2006, n. 297, convertito dalla l. 23 febbraio 2007, n. 15, è stato raggiunto il risultato di una forte consonanza relativamente alla vigilanza sugli intermediari articolati in gruppo impostata su quella a suo tempo dettata per le banche (dalla completa uniformità si dissocia solo il t.u.f. ove manca un collegamento tra vigilanza consolidata e disciplina delle situazioni di crisi) 12. Ad un livello ancor più generale, va infine notato che la filosofia sottesa alla disciplina del gruppo contenuta nel t.u.b. orienterà anche la revisione del diritto comune che porrà come fulcro degli artt. 2497-2497-septies c.c. la «direzione e coordinamento di società», “attività” che, sia nel diritto comune sia in quello speciale, si configura come linfa vitale per il gruppo.

11 Per una prima lettura della disciplina dei gruppi presente nel t.u.b. e nel t.u.f., alla luce anche della normativa sui conglomerati finanziari, sia consentito rinviare a Brozzetti, Assetti organizzativi e vigilanza consolidata nel settore bancario, dell’intermediazione finanziaria e dei servizi di investimento. Profili evolutivi, Stamperia della Facoltà di Economia, Siena, 2007, cap. 2 e 3. 12 In sede di redazione del c.a.p. è stata introdotta una disciplina sul gruppo modellata interamente su quella creditizia, dando seguito ad un’esplicita indicazione in tal senso proveniente anche dal Consiglio di Stato, preoccupato che natura e portata dei controlli nel mercato finanziario fossero impostati su basi uniformi (si veda Cons. Stato, Sez. cons. per gli atti normativi, Adunanza n. 11603/05 (parere), 14 febbraio 2005, cfr. in part. il par. 5.1). Rispetto al tema che ci occupa, va notato che la stessa Relazione illustrativa al capo VII del titolo XVI del codice – ove sono contenute le norme sulla crisi del gruppo assicurativo – muove proprio dalla «utilità delle corrispondenti misure previste nel testo unico bancario» ai fini dell’introduzione di «una specifica disciplina relativa alle misure di risanamento e di liquidazione per l’insieme del gruppo assicurativo», ritenute «particolarmente necessarie nel caso di articolazione dell’attività attraverso un insieme di società non necessariamente soggette allo statuto dell’impresa assicurativa» (il parallelismo con le norme del t.u.b. viene sottolineato e “sfruttato” da tutti i commentatori del codice). Il legislatore nazionale ha altresì ritoccato la appena “abbozzata” disciplina dei gruppi contenuta nel t.u.f. al momento del recepimento delle direttive del 14 giugno 2006, n. 2006/48/CE e n. 2006/49/CE, avvenuto con la citata l. 15/2007, senza però sanare l’incongruenza segnalata nel testo.

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1.2. Segue: contenuto del lavoro. Nelle pagine che seguono si esamina la disciplina sulla crisi del gruppo bancario alla luce dei provvedimenti anticrisi del 2008-’09 nonché dell’evoluzione normativa che ha toccato sia i profili societari che il sistema dei controlli. Una caratteristica di tale disciplina è di poggiare in gran parte sui presupposti e sul procedimento previsti per l’amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta delle banche. Infatti, l’incipit sia dell’art. 98 sia dell’art. 99 stabiliscono: «Salvo quanto previsto dal presente articolo, alla capogruppo di un gruppo bancario si applicano le norme del presente titolo, capo I» e rispettivamente rinviano poi alla sezione I dedicata all’amministrazione straordinaria (artt. 70-77) e III relativa alla liquidazione coatta (80-95). Mutatis mutandis, il rinvio è riproposto negli stessi termini dal co. 1 degli artt. 100-101 con riferimento anche al trattamento delle crisi delle singole componenti a valle del gruppo bancario. Seppure di grande importanza, il profilo della interconnessione con le norme riguardanti l’amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta amministrativa proprio di una banca verrà però appena sfiorato. Nei paragrafi iniziali si affrontano alcuni aspetti delineanti le caratteristiche di fondo della regolamentazione del gruppo bancario e strumentali all’esame della crisi del medesimo. Si procede poi ad un sintetico richiamo delle disposizioni relative ai presupposti soggettivi ed oggettivi delle procedure nonché ai compiti dei commissari. Il lavoro termina con alcune considerazioni d’assieme centrate sulle ricadute che la portata oggi attribuibile all’attività di direzione e coordinamento spettante alla capogruppo di un gruppo bancario può avere sulla disciplina della crisi.

2. Le caratteristiche della disciplina del gruppo bancario funzionali all’esame delle disposizioni sulla crisi del medesimo: a) la forza attrattiva (sempre più ridimensionata) della disciplina delle banche rispetto alle società aventi natura non bancaria. Sul piano metodologico va premesso che all’interno della disciplina delle situazioni di crisi del gruppo assumono rilievo i provvedimenti applicati ex artt. 98 e 99 alla società posta al vertice del medesimo: banca o società finanziaria (secondo le indicazioni dell’art. 60), in quanto essa rappresenta il perno su cui ruotano anche le disposizioni riguardanti le componenti a valle del gruppo bancario, che in senso bidirezionale condizionano le, e sono condizionate dalle, sorti della capogruppo (artt. 100-102).

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Una caratteristica della disciplina del gruppo bancario presente anche nelle norme dedicate alla crisi del medesimo è quella di ricondurre nell’alveo dei controlli propri delle banche le società finanziarie capogruppo; il principio vale altresì per quelle finanziarie e strumentali componenti del gruppo. In origine l’anzidetta peculiarità aveva carattere innovativo, ma si è progressivamente smorzata a seguito dell’assoggettamento degli intermediari non bancari a forme di vigilanza rese sempre più equivalenti a quelli delle banche 13. Essa trovava la sua ratio nel presupposto di bancabilità del gruppo impostato su un “rilevante” peso della componente bancaria 14. Dopo le modifiche apportate agli artt. 60 e 61 t.u.b. dalla l. 15/2007 anche questa filosofia ispiratrice si è appannata. Infatti, in linea con la ormai definitiva “settorializzazione” della vigilanza consolidata e la conseguente ridefinizione del vertice di un gruppo c.d. omogeneo avvenuta con l’introduzione nel diritto comunitario (attraverso la direttiva 2002/87/CE) della nuova figura della società di partecipazione finanziaria mista intorno alla quale si costruisce la fattispecie del conglomerato finanziario, l’art. 60 dispone ora che il requisito di bancabilità del gruppo sia soddisfatto qualora al suo interno vi sia almeno un ente creditizio 15. È quindi la presenza della banca in sé (ma il discorso vale anche all’interno degli altri sub-settori del sistema finanziario) che diventa elemento necessario (anche se non sufficiente, in quanto resta comunque fissato un requisito di finanziarietà del gruppo) per far scattare la forza attrattiva verso le forme di vigilanza proprie dell’intermediario interessato. Anche le società non bancarie appartenenti al gruppo registrano il progressivo ridimensionamento della portata innovativa della disci-

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E non si tratta solo degli intermediari finanziari: da ultimo si veda il caso della società di partecipazione finanziaria mista al vertice di un conglomerato finanziario, attratta dalla regolamentazione in alcuni profili di vigilanza, tra cui anche quelli di disciplina delle crisi: cfr. l’art. 13, co. 2, d.lgs. 142/2005. Su tali aspetti si rinvia a Brozzetti, Il sistema di vigilanza supplementare sui conglomerati finanziari nel d.lgs. n. 142 del 2005 (parte II), in Dir. banc., 2007, I, p. 393 ss., in part. p. 448 ss.; più in generale sulla nuova figura della società di partecipazione finanziaria mista cfr. altresì Id, Un nuovo livello di vigilanza prudenziale sugli intermediari articolati in gruppo: prime riflessioni sul d.lgs. n. 142 del 2005, attuativo della direttiva 2002/87/CE sui conglomerati finanziari (parte I), ivi, 2007, I, p. 81 ss., in part. p. 122 ss. 14 Cfr. Bonfatti, sub art. 99, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia2, a cura di Capriglione, Padova, 2001, t. II, p. 785 ss., p. 787. 15 Per approfondimenti sul punto sia consentito il rinvio a Brozzetti, Assetti, cit., p. 100 ss.

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plina sul gruppo creditizio, ormai ristrettasi sulle società strumentali e sugli intermediari non vigilati ad esso appartenenti. Infatti, la regolamentazione del mercato finanziario ha comportato la loro sottrazione al diritto comune e l’assoggettamento agli istituti dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa tipici delle banche o aventi caratteristiche simili. A titolo di esempio si ricordano l’art. 107, co. 6, t.u.b. rispetto agli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale autorizzati all’esercizio di servizi di investimento o che abbiano acquisito fondi con obbligo di rimborso per un ammontare superiore al patrimonio, nonché gli artt. 56-58 t.u.f. (che a loro volta riprendono un’innovazione introdotta con il d.lgs. 415/1996) con riferimento agli intermediari operanti nel comparto dei servizi e delle attività di investimento. La forza attrattiva che seppure sfumata continua a contraddistingue la disciplina della crisi del gruppo bancario chiude il cerchio di quanto già previsto in sede di vigilanza “fisiologica” sul medesimo. Rispetto alle capogruppo-banche, a causa della peculiare veste assunta, detta disciplina determina comunque una rimodulazione e dilatazione dei presupposti da cui può scaturire la sottoposizione ai consueti provvedimenti di rigore. La scelta di sottrarre la crisi di soggetti non bancari inseriti in un conglomerato creditizio agli strumenti previsti dal diritto comune, da alcuni criticata alla luce della «fase di privatizzazione» che ha investito il sistema bancario ed anche dei «principi della normativa europea» 16, mi pare che trovi un decisivo avallo nei comportamenti adottati durante l’attuale crisi dei mercati finanziari, arginata con strumenti speciali proprio in forza della peculiarità che storicamente contraddistingue lo svolgimento dell’attività bancaria. Del resto già al momento dell’introduzione di una disciplina a tutto campo del gruppo creditizio, il legislatore individuava la sua ratio oltre che «nell’interesse della stabilità del gruppo» anche nella «tutela dell’intermediazione creditizia» 17. Quanto sinora detto sull’appannamento della vis attractiva non intendeva quindi sminuire a livello sistematico l’importanza del principio sottostante a questa scelta legislativa, da cui conseguono effetti di grande rilievo.

16 In tal senso si vedano di recente Giorgianni, Tardivo, Manuale di diritto bancario2, Giuffrè, Milano, 2009, p. 258 s. 17 Art. 5, co. 1, lett. d), della l. delega 218/1990.

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2.1. Segue: la rilevanza, sul piano di applicazione soggettivo, dei confini normativi del gruppo. Il capo II del tit. IV del t.u.b. è dedicato al “gruppo bancario” e anche le disposizioni ivi contenute fanno riferimento ad esso (artt. 98-99) ovvero alle “società del gruppo” (art. 100-104), il che porta a circoscrivere, ormai riterrei senza alcun dubbio 18, il loro campo di applicazione soggettivo alle società rientranti nel nucleo del conglomerato così come definito dagli artt. 60-61 e risultante dall’iscrizione all’albo. Iscrizione non rappresentante però un requisito indispensabile per la configurabilità, ex art. 105, di un gruppo o di una componente anche “di fatto”, che però con l’altro condivide i connotati di base. Dal campo di applicazione degli artt. 98-105 rimarranno dunque fuori tutte le società ed enti che non hanno le caratteristiche per far parte del nucleo del gruppo, e rientranti invece, ai sensi dell’art. 65, nell’orbita delle varie forme di vigilanza su base consolidata previste nei successivi articoli. Il connotato societario e quello della nazionalità propri del vertice del gruppo portano ad escludere dal suo perimetro le persone fisiche o giuridiche (come le fondazioni bancarie) nonché i soggetti esteri controllanti. Rispetto invece all’attività esercitata vi sono esclusioni derivanti: 1) dal principio ormai ferreo della “settorializzazione” della vigilanza rispetto ai gruppi “omogenei”, che tiene fuori, ovviamente, le imprese di assicurazione (art. 82 c.a.p.), ma anche le imprese di investimento e le società di gestione del risparmio articolate in gruppo ex art. 11, co. 1, lett. b), t.u.f. 19; 2) dalla non riconducibilità dell’attività svolta nella definizione della lett. b), dell’art. 59 t.u.b., ciò che accade ad esempio alle società di mediazione creditizia 20.

18 Sulla necessità di delimitazione dei confini del gruppo alle società che esercitano attività inserite nel ciclo del settore finanziario di riferimento è interessante la Relazione illustrativa al codice delle assicurazioni private, ove proprio sulla base di questo principio viene giustificata la scelta del mantenimento nel testo normativo della procedura di liquidazione nel gruppo assicurativo: cfr. p. 39. 19 Sul punto permane però qualche dubbio: alcune prime considerazioni in Brozzetti, Assetti, cit., in part. p. 282 ss. 20 Per approfondimenti si veda Bollettino della Banca d’Italia, n. 8, agosto 2002, p. 40. Sul punto si rinvia anche a Maccarone, Riforma delle società e banche, in Abi, La riforma del diritto societario e le banche. Nuovi modelli, nuovi strumenti: opportunità e criticità¸

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Siccome a valle del gruppo bancario il legislatore considera irrilevante il requisito della nazionalità, questo profilo condizionerà la lettura delle disposizioni relative alla crisi delle componenti del gruppo diverse dalla capogruppo e in particolare: dell’art. 98, co. 2, lett. b), 4, 5 e 6; dell’art. 99, co. 3-5; degli artt. 100-105. L’assenza di indicazioni specifiche nelle disposizioni ora richiamate, comunque singolare, può trovare giustificazione con il fatto che la fattispecie è trattata in altri ambiti disciplinari: a) rispetto ai gruppi operanti in più paesi, soccorre l’art. 69 t.u.b., e in particolare il co. 1 ter, che agisce sul piano della collaborazione tra autorità di vigilanza; b) riguardo invece alle banche operanti in ambito comunitario, viene in aiuto la disciplina relativa alle procedure di crisi e risanamento prevista agli artt. 95 bis – 95 septies t.u.b.; c) vanno inoltre tenute presenti le possibili interferenze tra disciplina dei gruppi “omogenei” e quella dei conglomerati finanziari. Pur nella diversità di approccio della vigilanza (quella supplementare più che sul gruppo insiste sull’impresa “regolamentata” articolata in gruppo), è necessario infatti considerare che la direttiva 2002/87/CE (i) allarga sul piano soggettivo i confini della vigilanza con l’attrazione al suo interno della società di partecipazione finanziaria mista, (ii) fa saltare il requisito della nazionalità proprio del vertice dei gruppi omogenei, (iii) amplia i modi e le forme di collaborazione tra autorità di vigilanza internazionali, incrementandone anche i bagagli informativi 21. Di fronte a mercati ormai senza barriere fisiche, non si può comunque fare a meno di notare l’assenza di un quadro normativo organico. Al riguardo si prospettano però alcune novità, dato che il c.d. Rapporto de Larosière ha avviato la discussione sulla ridefinizione dell’apparato dei controlli sul sistema finanziario europeo e, in particolare, sull’ulteriore armonizzazione al livello comunitario della legislazione sugli strumenti di gestione delle crisi. Una importante concretizzazione si registra con la Comunicazione della Commissione del 20 ottobre 2009 relativa ad un quadro europeo per la gestione transfrontaliera delle crisi nel settore bancario,

a cura di Granata e Maimeri, Roma, 2004, p. 59 ss., l’Autore esamina i riflessi di tale esclusione sul piano della disciplina civilistica del gruppo (p. 67). 21 Si è già ricordata a nota 13 la possibilità di applicazione ad una SPFM delle disposizioni relative alle crisi bancarie. Sui conglomerati finanziari si veda ora l’accurato studio di Troiano, I conglomerati finanziari. Le forme di vigilanza, Padova, 2009, ove diffusi riferimenti.

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che apre nuove prospettive di indagine all’interno delle quali può trovare valorizzazione l’esperienza normativa italiana in tema di gruppi 22.

3. I presupposti oggettivi dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa della capogruppo. Sul piano dei presupposti relativi all’amministrazione straordinaria della capogruppo di un gruppo bancario disciplinata all’art. 98 23, nonché alla liquidazione coatta amministrativa della medesima società, prevista dall’art. 99 24, è possibile individuare uno zoccolo duro sul piano oggettivo integrato con talune differenze derivanti dalla diversa natura e finalità delle due procedure. Trattasi infatti di misure di rigore (disposte su proposta della Banca d’Italia con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze) impostate su un diversificato grado di criticità raggiunto dalla crisi aziendale e diametralmente opposte sul piano sostanziale e procedurale, le quali però possono essere anche collegate, nel senso che all’amministrazione

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Per approfondimenti si vedano altresì The High-Level Group on Financial Supervision EU, Chaired by J. de Larosière, Report, Brussels, 25 February 2009, in part. pp. 32 ss. e 66 s.; Financial Stability Forum, FSF Principles for Cross-border Cooperation on Crisis Management, 2 April 2009; Commissione Delle Comunità Europee, Vigilanza finanziaria europea, COM(2009) 252, Bruxelles, 27 maggio 2009. Sul rafforzamento della c.d. “legislazione di infrastruttura”, relativa alle procedure per la prevenzione e risoluzione delle crisi dei gruppi cross-border cfr. in part. Saccomanni, Attività conoscitiva nell’ambito dell’esame della Comunicazione della Commissione Europea sulla vigilanza finanziaria europea, Audizione del direttore generale della Banca d’Italia presso la VI Commissione della Camera dei Deputati (Finanze), 15 settembre 2009, p. 14 ss.; cfr. anche nt. 7. Naturalmente il dibattito va oltre il contesto europeo: si veda di recente UNCITRAL, Legislative Guide on Insolvency Law, Part three, Treatment of enterprise groups in insolvency, Working Group V, april 2010, in http://www.uncitral.org/uncitral/en/commission/ working_groups/5Insolvency.html. 23 Sull’amministrazione straordinaria della capogruppo si vedano in dottrina da ultimo, e quindi anche al fine di altri riferimenti bibliografici, Capolino, Coscia, Galanti, La crisi delle banche e delle imprese finanziarie, in Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, a cura di Galanti, Padova, 2008, p. 873 ss., p. 1028 ss.; Costi, L’ordinamento4, cit., p. 840 ss.; Giorgianni, Tardivo, Manuale 2, cit., p. 274 ss.; Sandulli, Valensise, sub art. 98, in Commento cit. a nt. 9, p. 1667 ss. 24 Di recente sulla liquidazione coatta amministrativa della capogruppo si vedano in dottrina, anche al fine di altri riferimenti bibliografici, Capolino, Coscia, Galanti, La crisi, cit., p. 1046 ss.; Costi, L’ordinamento4, cit., p. 842 ss.; Giorgianni, Tardivo, Manuale 2, cit., p. 293 ss.; U. Patroni Griffi, sub art. 99, in Commento, cit. a nt. 9, p. 1697 ss. in the

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straordinaria può seguire la liquidazione. In linea di massima, la prima ha carattere “compositivo” della crisi ed è diretta al suo superamento con ritorno all’attività operativa, mentre la seconda è impostata su base concorsuale ed è finalizzata all’eliminazione dal mercato di un soggetto non più idoneo all’esercizio dell’attività sua propria. Il tema è complesso e sempre in termini generali si segnala che la dottrina prevalente tende a sottolineare il carattere non concorsuale dell’amministrazione straordinaria e la sua natura di “gestione coattiva”, e che invece sono più articolate le posizioni riguardo alle funzioni (estintiva dell’impresa, liquidativa dei rapporti pendenti, soddisfacimento paritetico dei creditori su base concorsuale) della liquidazione coatta amministrativa. Gli artt. 98 e 99 affrontano esplicitamente l’aspetto dei presupposti che sottostanno all’emanazione dei relativi provvedimenti, appoggiandosi in primo luogo su quelli propri di una banca, vale a dire: a) la presenza di irregolarità nell’amministrazione, ovvero di violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie che ne regolano l’attività; b) la previsione di perdite del patrimonio; c) lo scioglimento o la liquidazione coatta richiesta con istanza motivata dall’ente stesso. Le differenze fondamentali sul piano formale e sostanziale tra le due misure di rigore si rinvengono nel fatto che: 1) i presupposti sub a) e b) sono qualificati dal connotato della gravità nell’amministrazione straordinaria e invece da quello dell’eccezionale gravità nella liquidazione coatta amministrativa (il profilo della “gravità” è di grande rilievo e verrà ripreso più volte nelle pagine che seguono e soprattutto alla fine di queste note); 2) relativamente al presupposto sub c), invece, nel caso dell’amministrazione straordinaria la richiesta può provenire «dagli organi amministrativi ovvero dall’assemblea straordinaria», mentre nell’ipotesi della liquidazione forzata si aggiungono anche i commissari straordinari ed i liquidatori. Si tratta di una variante importante tra le due procedure che conferma quanto i dati empirici possono già dimostrare: l’amministrazione straordinaria rappresenta spesso l’anticamera della liquidazione forzata 25, il che rende frequente il caso che siano gli stessi commissari nominati dalla Banca d’Italia a constatare l’impossibilità di un ritorno alla gestione ordinaria e a fare istanza di assoggettamento alla procedura coattiva.

25 Per approfondimenti si vedano Armento, Belli, Bertelli e Brozzetti, Un ventennio di crisi bancarie in Italia (1963-1985), in Banche in crisi. 1960-1985, a cura di Belli, Minervini, A. Patroni Griffi, Porzio, Roma-Bari, 1987, p. 59 ss., in part. p. 84 ss.

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Sia nell’art. 98 sia nell’art. 99 il rinvio alla disciplina propria di una banca si presenta all’interprete con carattere del tutto incidentale. In effetti il legislatore ribadisce un aspetto prevedibile già alla luce del co. 1 degli artt. 98 e 99. L’inserimento appare, però, quanto mai opportuno perché, da un lato, conferisce alle disposizioni in esame un assetto compiuto sul piano dell’individuazione delle condizioni che possono innescare le relative procedure e, dall’altro lato, risulta funzionale all’inquadramento degli ulteriori presupposti specifici, questi sì qualificanti la fattispecie gruppo, da cui prendono origine le relative misure di rigore. Detto rinvio rispetto ad una banca-capogruppo lascia intendere che restano salve le discipline “tradizionali”, necessariamente da integrare con (e riadattare al-) le indicazioni contenute negli artt. 98 e 99 26. La procedura ordinaria “deve” cioè cedere il passo di fronte alle peculiarità connaturate alla postazione di vertice che la capogruppo riveste. Basti pensare che la stessa regolamentazione amministrativa (sempre più condizionata dagli accordi internazionali) oltre ad essere ispirata alla neutralità delle norme prudenziali circa le scelte organizzative degli intermediari, individua a monte i propri destinatari facendo ormai perno sulla distinzione tra banche appartenenti o meno ad un gruppo 27, e rende così ardua se non impossibile – considerata altresì la doverosità e soprattutto la sempre maggiore complessità (lo si accennerà più avanti) dell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento – la decontaminazione tra presupposti tradizionali e quelli specifici derivanti dal ruolo che la capogruppo assume. Il rinvio anzidetto serve inoltre ad attrarre all’interno della procedura propria di un ente creditizio anche la società avente natura fi-

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Sul punto cfr. in particolare Bonfatti, sub art. 99, cit., p. 793. Il profilo non è pacifico in dottrina. Un punto fermo è che sulla base delle deroghe al regime ordinario previsto per la singola banca, la procedura sia dell’art. 98 che dell’art. 99, assume un connotato di specialità. Solo in parte però la dottrina ritiene che la procedura speciale debba trovare applicazione anche in caso di assoggettamento della capogruppo a misure di rigore fondate esclusivamente sui presupposti tipici della singola banca: di recente, si vedano, anche al fine di ulteriori riferimenti, M. Parrella, Le crisi bancarie, in Il governo delle banche in Italia: commento al Testo Unico bancario ed alla normativa collegata, a cura di Razzante e Lacaita, Torino, 2006, p. 595 ss., cfr. nt. 37 p. 604 e nt. 81 p. 616; con riferimento alla liquidazione coatta amministrativa, U. Patroni Griffi, sub art. 99, cit., p. 1669. 27 Emblematiche sono le Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, Circolare n. 263 del 27 dicembre 2006, e successivi aggiornamenti, cfr. in particolare il tit. I, cap. 1, sez. II.

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nanziaria al vertice del gruppo, sottraendola così al diritto comune e in particolare a quelle misure (fallimento e concordato preventivo) impostate sulla presenza di uno stato di insolvenza che invece può anche mancare nell’attivazione della procedura bancaria. In tal caso, i presupposti “ordinari” previsti agli artt. 70 e 80 dovranno essere modulati sulle caratteristiche dell’attività propria della società finanziaria capogruppo. Uno sguardo alla realtà del fatto regolato aiuta l’interprete. I dati empirici mostrano che il cerchio degli intermediari finanziari che hanno assunto tale veste si è andato ormai restringendo (anche per scelte iniziali delle autorità di vigilanza) solo sulla figura della società di partecipazione finanziaria 28, che il t.u.b. considera all’interno della categoria degli intermediari di cui all’art. 106. Ebbene anche se l’assunzione del ruolo di capogruppo e la conseguente iscrizione all’albo dei gruppi determina il suo assoggettamento ad alcuni profili di disciplina proprie delle banche, la diversa natura dell’attività esercitata richiede che i presupposti anzidetti siano calibrati 29 sugli aspetti disciplinari che dalle banche possono migrare anche verso una capogruppo che svolge direttamente (e nei fatti ormai solo una determinata specie di) attività finanziaria. Negli artt. 98 e 99 appaiono decisamente più articolate le varianti che contraddistinguono i presupposti oggettivi qualificanti la fattispecie gruppo bancario. Dette norme condividono solo le «inadempienze nell’esercizio dell’attività prevista dall’art. 61, co. 4», le quali – al pari di quanto poc’anzi visto – debbono però essere «gravi» nell’amministrazione straordinaria (art. 98, co. 2, lett. a) e «di eccezionale gravità» nella liquidazione coatta amministrativa (art. 99, co. 2). Nel co. 4 dell’art. 61 si legge: «La capogruppo, nell’esercizio dell’attività di direzione e di coordinamento, emana disposizioni alle

28 Si consideri che dei 77 gruppi iscritti all’albo a fine giugno 2009, 6 hanno al proprio vertice una società di partecipazione finanziaria ed il resto una banca. Nella storia dei gruppi bancari, così come ricostruibile dai dati forniti dalla Banca d’Italia, dal 1992 al giugno 2009 sono state iscritte all’albo come capogruppo: 182 società aventi natura bancaria, 25 quella di finanziaria di partecipazione, 3 quella di “finanziaria altra” e solo 1 quella di intermediazione finanziaria. 29 Su tali aspetti si rinvia allo studio di Sandulli, Valensise, sub art. 98, cit., p. 1668 ss.; ulteriori riferimenti anche in Capolino, Coscia, Galanti, La crisi, cit., p. 1029 testo e note. È stato notato (ma, per quanto osservato nel testo, l’affermazione non appare del tutto condivisibile) che l’assoggettamento della società finanziaria alle misure di rigore delle banche può anche prescindere dal suo ruolo di capogruppo: U. Patroni Griffi, sub art. 99, cit., p. 1698.

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componenti del gruppo per l’esecuzione delle istruzioni impartite dalla Banca d’Italia nell’interesse della stabilità del gruppo» 30. Considerato che l’introduzione della disciplina sul gruppo bancario risponde a specifiche esigenze della vigilanza e che le norme sulla crisi ne rappresentano il naturale complemento, le inadempienze (e quindi i mancati adempimenti ad un obbligo) sanzionate dagli artt. 98 e 99 si riferiscono al ruolo direttivo e di coordinamento che la capogruppo è tenuta a svolgere per rispondere a quelle esigenze 31. Il presupposto in esame ha assunto grande rilievo sul piano sistematico perché ha permesso, alle autorità creditizie e agli interpreti, di incasellare l’attività della capogruppo strumentale alla vigilanza nel binomio “potere/dovere”, il cui mancato, parziale o scorretto esercizio se contraddistinto dal raggiungimento di una “certa” soglia di gravità (la cui valutazione è però rimessa alle autorità creditizie), viene diversamente “sanzionato” dalle norme anzidette 32. Ciò dà anche un senso alla “ripetizione” sul piano normativo, evidenziata e indagata dalla dottrina 33, che caratterizza il presupposto de quo, riconducibile nella già richiamata violazione delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie prevista in sede di procedure individuali. L’art. 99 non aggiunge nessun altro presupposto qualificante il gruppo bancario come tale alla base della liquidazione coatta amministrativa del vertice del medesimo 34.

30 Per un’efficace definizione della “attività di direzione e coordinamento” si vedano Ferro-Luzzi, Marchetti, Riflessioni sul gruppo creditizio, in Giur.comm., I, 1994, p. 419 ss., in part. p. 449. 31 Più diretto sul punto appare il codice delle assicurazioni (art. 275), che peraltro si discosta dal t.u.b. anche riguardo al profilo dell’emersione dell’attività di direzione e coordinamento (cfr. Brozzetti, Gruppo partecipazioni e vigilanza nel codice delle assicurazioni del 2005. Prima lettura, anche alla luce della disciplina bancaria, in Dir. banc., 2006, I, p. 219 ss., in part. p. 289 s.) 32 La qualificazione del potere della capogruppo come “dovere” è criticata da Sandulli, Valensise, sub art. 98, cit., p. 1681 ss., si vedano anche i riferimenti bibliografici ivi indicati. 33 In tal senso Bavetta, Profili esegetici e sistematici della liquidazione coatta amministrativa del gruppo bancario, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, p. 187 ss., p. 188 ss.; Belviso, L’accertamento giudiziario dello stato di insolvenza nella disciplina del gruppo bancario, in La crisi del gruppo bancario, a cura di Bavetta, Milano, 1997, p. 89 ss., attribuisce a tale presupposto il valore di una “sottolineatura”, p. 91. 34 Il fatto che il presupposto riguardante la liquidazione forzata della capogruppo poggi solo su di un «fatto proprio» è stato letto nell’ottica «dell’autonomia giuridica» che continua a caratterizzare tale società: Antonucci, Diritto delle banche3, Milano, 2006, p. 344, ma anche, lo si vedrà più avanti, le componenti del gruppo.

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Per l’assoggettamento della capogruppo ad amministrazione straordinaria l’art. 98 si colloca su una strada diversa e al co. 2, lett. b), così come modificato dal d.lgs. 37/2004 35, indica come ulteriore requisito proprio del gruppo bancario in quanto tale il pericolo di “crisi diffusa” proveniente dalla base del gruppo, riscontrabile allorquando una delle sue componenti «sia stata sottoposta alla procedura del fallimento, [dell’amministrazione controllata 36,] del concordato preventivo, della liquidazione coatta amministrativa, dell’amministrazione straordinaria ovvero ad altra analoga procedura prevista da leggi speciali, nonché quando sia stato nominato l’amministratore giudiziario secondo le disposizioni del codice civile in materia di denuncia al tribunale di gravi irregolarità nella gestione e possa essere alterato in modo grave l’equilibrio finanziario o gestionale del gruppo». In mancanza di inadempienze “gravi” nell’attività di direzione e coordinamento il legislatore ha quindi ritenuto che alla base dell’attivazione della procedura di amministrazione straordinaria a carico della capogruppo ci potesse anche essere la presenza di uno stato di crisi conclamato di una delle società da essa controllata, avente ripercussioni sulla stabilità del gruppo (come accennato nel § 2.1, detta società potrebbe avere sede all’estero). La disposizione trae origine dall’art. 32 del d.lgs. 356/1990, allora particolarmente lungimirante in quanto con l’introduzione dell’espressione altra analoga procedura prevista da leggi speciali lasciava aperta la porta a successive misure di salvaguardia 37. La formulazione di tale presupposto dà adito a qualche dubbio interpretativo perché non sembra immediato se il corollario dell’alterazione dell’equilibrio finanziario o gestionale del gruppo si debba riferire solo alla fattispecie di cui all’art. 2409 c.c. oppure anche a quelle che la precedono 38. La lettura estensiva, che il tenore letterale (anche se non impeccabile) può consentire, risulta sistematicamente più coerente. Trova

35 Prima della modifica la lett. b) era così formulata: «una delle società del gruppo bancario sia stata sottoposta alla procedura […] dell’art. 2409, terzo comma, del codice civile […]»; si veda anche nt. 39. 36 La procedura dell’amministrazione controllata, in precedenza regolata agli artt. 187193 l.fall. è stata cancellata con il d.lgs. 5/2006, il cui artt. 147, co. 2, ha soppresso tutti i relativi riferimenti all’interno della l.fall.; la presenza nella norma in commento ed altresì nell’art. 100 rappresenta quindi un’incongruenza che il legislatore dovrebbe rimuovere. 37 Prima della ricordata integrazione normativa, notavano la disomogeneità delle procedure menzionate che rendeva non del tutto evidente la portata della disposizione, Sandulli, Valensise, sub art. 98, cit., p. 1687. 38 Sollevano il dubbio di recente Giorgianni, Tardivo, Manuale2, cit., p. 276, i quali sembrano propendere per un’interpretazione restrittiva fondata sulla lettera della norma.

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conforto nei criteri direttivi della l. 218/1990 (art. 5, co. 1, lett. d, n. 3) ribaditi nella Relazione all’art. 32 citato ove si afferma che l’inserimento di tale presupposto di gestione straordinaria della capogruppo intendeva fronteggiare un «caso di crisi c.d. diffusa», prospettabile allorquando si verificassero congiuntamente due circostanze: «la sottoposizione di una componente del gruppo ad una procedura coattiva» e «la possibilità che la situazione di crisi si riflett[esse] in modo grave sugli equilibri di natura finanziaria o gestionale del gruppo stesso». Ma soprattutto mi sembra in linea con la precisazione introdotta tramite il decreto correttivo del t.u.b. seguito alla riforma societaria 39, il cui intento è stato quello di conferire maggiore coerenza alle ipotesi di crisi prospettabili per una delle società del gruppo. In effetti, eliminando il rilievo delle ipotesi di irregolarità che seppur “gravi” non comportano la nomina del commissario giudiziale (prevista solo nei casi più gravi), il legislatore ha livellato la soglia minima di criticità, rendendo così più omogenee le procedure richiamate dalla lett. b) dell’art. 98. Come si afferma nella Relazione al d.lgs. 37/2004, nell’ipotesi di sottoposizione di una società del gruppo a procedimento ex art. 2409 c.c., è stata «ristretta la portata applicativa della disciplina», considerando la «sola ipotesi di avvenuta nomina dell’amministratore giudiziario, ritenuta unico elemento sintomatico della sussistenza di gravi irregolarità non facilmente sanabili e tali da legittimare l’avvio della procedura di amministrazione straordinaria» della capogruppo 40. Della disposizione in commento va altresì notata la possibilità di alternativa tra gli effetti innescabili a livello di gruppo, idonea ad incrementare ulteriormente lo spettro di intervento – e altresì la discrezionalità – delle autorità di vigilanza. Infatti, può essere coinvolto sia l’“equilibrio finanziario”, che fa orientare lo sguardo soprattutto sulla struttura dei costi e quindi sulle condizioni economico-patrimoniali del conglomerato 41,

39 La lett. b) dell’art. 98 è stata sostituita dall’art. 9.31 del d.lgs. 6/2003 inserito dall’art. 2, co. 1, del d.lgs. 37/2004. Per un primo commento si vedano fra gli altri Colavolpe, La disciplina delle crisi delle banche e delle società del gruppo bancario: le modifiche apportate al testo unico bancario dal d.lgs. 6 febbraio 2004 n. 37, in Dir. fall., 2006, p. 135 ss. e Bonaccorsi Di Patti, sub art. 98, in Il coordinamento della riforma del diritto societario con i testi unici della banca e della finanza (Commento ai d.lgs. n. 37 e n. 310 del 2004), a cura di Maimeri, Milano, 2006, p. 231 s. 40 Di recente si è occupato del tema della denuncia al tribunale ex art. 2409 App. Torino, 29 maggio 2007, in Società, 2008, 1245 ss., con Il commento di Marchisio, ricco di altri riferimenti bibliografici. 41 In proposito sono interessanti le Istruzioni della Banca d’Italia riferite alle banche, ove si rinviene un unico riferimento all’equilibrio finanziario all’interno della valutazione

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sia l’“equilibrio gestionale”, che chiama in causa elementi di funzionalità attinenti al piano amministrativo e coinvolgente gli aspetti organizzativi del gruppo cui sono connessi anche riflessi di ordine patrimoniale 42. Il legame tra capogruppo e sue controllate è oggetto di attenzione da parte del legislatore su più direzioni: dalla base al vertice, tramite l’art. 98; ma anche in senso opposto, attraverso gli artt. 100 e 101. Pertanto, il profilo (problematico) della crisi diffusa e in parallelo la rilevanza delle ricadute sull’equilibrio finanziario e gestionale del gruppo verrà ripreso più volte nelle pagine che seguono 43. 3.1. Le integrazioni (e i dubbi) di cui alla l. 190/2008. Sul fronte dei presupposti per l’attivazione delle misure di rigore in commento, si è accennato nel § 1 all’introduzione di alcune novità tramite i provvedimenti anticrisi dell’autunno 2008. Emanati con la tecnica confusionaria caratterizzante ormai da tempo le nostre leggi, le misure urgenti per garantire la stabilità del sistema creditizio e la continuità

da parte della vigilanza delle strategie di posizionamento sul mercato che un’impresa si prefigge (in particolare con riferimento all’articolazione territoriale: cfr. Tit. III, aprile 1999, cap. 2, sez. I), ove alle banche ed ai gruppi è richiesto di effettuare tali scelte «perseguendo le strategie di posizionamento sul mercato che l’impresa si è prefissata, congiuntamente con gli obiettivi di redditività e di efficienza e nel rispetto delle condizioni di “equilibrio finanziario”», e di valutare la convenienza economica di operazioni della specie «tenendo conto, in particolare, nell’impatto sulla struttura dei costi e della capacità dell’assetto organizzativo di sostenere un eventuale ampliamento della rete» (cit. par. 1). Il criterio di lettura si adatta al nostro profilo di indagine; dalle Istruzioni si potrebbe anzi trarre un aspetto “sanzionatorio” dell’amministrazione straordinaria conseguente al comportamento di una capogruppo che non abbia saputo valutare correttamente le proprie strategie espansive di gruppo, tanto da comprometterne la stabilità (cfr. infra § 6.2). 42 La vigilanza dedica particolare attenzione al profilo in esame all’interno del sistema dei controlli interni. Tra i compiti della capogruppo le Istruzioni indicano proprio quello di dotare «il gruppo di un sistema dei controlli interni che consenta l’effettivo controllo sia sulle scelte strategiche del gruppo nel suo complesso sia “sull’equilibrio gestionale” delle singole componenti», e si forniscono interessanti elementi di dettaglio idonei ad identificare ulteriormente il contenuto di quest’ultimo (cfr. Tit. IV, aprile 1999, cap. 11, sez. III, cit. par. 1.2). Un più diretto riferimento al gruppo ed ai suoi aspetti organizzativi si trova anche nelle istruzioni più recenti che, all’interno del processo di revisione e valutazione prudenziale, condizionano il ruolo della Banca d’Italia alla finalità di accertare che sia le banche che i gruppi bancari «si dotino di presìdi di natura patrimoniale e organizzativa appropriati rispetto ai rischi assunti, assicurando il complessivo “equilibrio gestionale”» (Nuove disposizioni, cit., tit. III, cap. 1, sez. III, par. 1). Altri approfondimenti infra § 6.1.2. 43 Il profilo è molto discusso in dottrina: alcuni riferimenti infra, § 6.2.

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nell’erogazione del credito alle imprese e ai consumatori si sostanziano nei decreti: a) n. 155 e del 9 ottobre 2008, convertito con la l. 4 dicembre 2008, n. 190; b) n. 157 del 13 dicembre 2008 (abrogato, e al contempo sostanzialmente ripreso, dalla l. 190 cit.); c) n. 185 del 29 novembre 2008, convertito con la l. 28 gennaio 2009, n. 2. La ratio dell’intervento normativo è stata soprattutto quella di: 1) garantire alle banche fondamentalmente sane l’accesso ad un’adeguata provvista di liquidità, in modo da assicurare la non interruzione del normale funzionamento del sistema del credito e dei pagamenti; da notare che nel caso di specie si tratta soprattutto di interventi statali a carattere temporaneo attivabili entro il 2009; 2) far fronte con sistemi più elastici a crisi conclamate di istituzioni creditizie; punto di particolare interesse in questa sede, rispetto al quale va evidenziato che, non essendo l’ampliamento dei criteri vincolato a scadenze temporali, si effettua un’integrazione indiretta dei presupposti per l’applicazione delle tradizionali misure di salvaguardia. La normativa è molto complessa e solleva dubbi interpretativi su più fronti 44, ma in questa sede ci si limita a dar conto solo dei riflessi rispetto al tema trattato. L’art. 2, co. 1, della l. 190/2008 stabilisce che la presenza di «una situazione di grave crisi» di banche “o di gruppi bancari italiani” (integrazione aggiunta in sede di conversione), «anche di liquidità», recante «pregiudizio alla stabilità del sistema finanziario», consente l’applicazione delle «procedure di cui al titolo IV» t.u.b., ove è contenuta la “disciplina delle crisi” sviluppata negli artt. 70-105, e comprendente pertanto anche le norme relative al gruppo bancario che qui interessano. Sul piano formale va sottolineata una differenza con il d.l. n. 155, che faceva riferimento agli «art. 70 e seguenti». Un rinvio “aperto” che avrebbe potuto sollevare qualche dubbio sul piano della portata. Invero, l’interprete trovava ausilio nella Relazione illustrativa, da cui traspariva che l’intenzione del legislatore fosse quella di ampliare solo «le ipotesi di ricorso alla procedura di amministrazione straordinaria e gestione provvisoria di banche», aggiungendo il presupposto dei gravi problemi di liquidità alla tradizionale presenza di “gravi” irregolarità nell’ammi-

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Per un commento, anche molto critico, ai provvedimenti sul salvataggio delle banche si vedano in particolare Dolmetta, Pacchetti legislativi per il salvataggio delle banche, in Società, 2009, p. 339 ss. e Rispoli Farina, Note a margine dei «Tremonti bond», ivi, 2009, p. 769 ss.

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nistrazione, violazioni normative o statutarie, o perdite patrimoniali. Il coinvolgimento delle sole procedure riferite a crisi “reversibili” veniva ulteriormente ribadito nella Relazione nel punto in cui si affermava: «La fattispecie ha dunque una connotazione di maggiore flessibilità rispetto a quelle già esistenti, riferendosi a una situazione di “grave crisi” e prescindendo dalla necessità di perdite, essendo sufficiente una crisi di liquidità». Si specificava ancora: «l’ampliamento è giustificato dal requisito aggiuntivo del possibile impatto sistemico della crisi». Durante i lavori parlamentari, il rinvio nei termini anzidetti è stato criticato ed è emersa l’opportunità di «meglio circoscrivere le norme cui la disposizione in commento intende[va] fare riferimento» 45. In sede di conversione, due sono state le novità che qui interessano: l’aggiunta sul piano soggettivo “dei gruppi bancari italiani” 46 agli enti creditizi nonché la delimitazione del richiamo legislativo all’intero titolo IV t.u.b. La l. 190/2008 conferma, quindi, l’ampliamento della portata della discrezionalità delle autorità di vigilanza sul piano della valutazione dei presupposti – le caratteristiche intrinseche riguardanti l’esercizio dell’attività bancaria rendono alquanto blanda la chiave di lettura riguardante l’impatto sistemico –, delimita in modo più congruo il raggio normativo degli interventi, ma non scioglie il dubbio su quali siano le diverse procedure applicabili tra quelle contenute negli artt. 70-105 t.u.b. Procedure che, lo si è visto, proprio all’interno della disciplina del gruppo bancario trovano la massima contaminazione. Il fatto che l’art. 2 della legge 190 si riferisca alle “procedure” di cui al titolo IV porterebbe infatti ad abbracciare sia quelle di risanamento sia quelle di liquidazione. Il riferimento solo alle prime (preferibile) troverebbe conforto nello spirito che anima i provvedimenti normativi anzidetti volto ad “incrementare” le possibilità di intervento delle autorità di vigilanza in un preciso contesto di crisi dei mercati finanziari internazionali, al caso di seri problemi di liquidità di una banca (situazione certamente meno pesante rispetto ai presupposti che consentono di disporre l’ammini-

45 Cfr. Camera dei deputati – XVI Legislatura, Dossier di documentazione, n. 63, del 15 ottobre 2008, p. 11. 46 Va notato che il riferimento al t.u.b. rende priva di senso la specificazione della nazionalità italiana riferita al “gruppo bancario”. Posto infatti che tale terminologia individua una fattispecie giuridicamente ben determinata, ove le componenti estere sono ricomprese solo a valle del medesimo ed in tali casi, come accennato, la disciplina delle crisi risulta essere piuttosto frammentaria.

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strazione straordinaria) 47 i quali potrebbero ripercuotersi sulla stabilità sistemica: la natura apparirebbe quella di intervento preventivo volto a ristabilire le condizioni per una sana gestione. Gli anzidetti presupposti sarebbero poi difficilmente conciliabili con il fine “estintivo” dell’impresa e con il carattere di gravità “eccezionale” che contraddistingue i requisiti sottostanti all’attivazione di una procedura di rigore estremo come la liquidazione. La chiave di lettura restrittiva troverebbe conferma anche nell’art. 2, co. 2, della l. 190/2008, il quale autorizzava il Ministero dell’Economia e delle Finanze ad effettuare, fino al 31 dicembre 2009, operazioni di patrimonializzazione delle banche così come previste all’art. 1 di tale legge. Quest’ultimo articolo consentiva la ricapitalizzazione di banche o «società capogruppo di gruppi bancari italiani» 48, attraverso la sottoscrizione o la garanzia di aumenti di capitale dalle medesime deliberati e in presenza di «una situazione di inadeguatezza patrimoniale accertata dalla Banca d’Italia», di «un programma di stabilizzazione e rafforzamento […] della durata minima di trentasei mesi », nonché di altri presupposti (cui si accennerà nel § 5, sub A.2). Ebbene, il co. 2 dell’art. 2 citato estendeva le anzidette operazioni anche agli enti sottoposti alle procedure di cui al precedente co. 1, ma aggiungeva che la relativa competenza spettasse «in via esclusiva ai commissari straordinari […]», lasciando così intendere che ci si trovava all’interno della procedura dell’amministrazione straordinaria. In linea con la ratio della legge, l’estensione delle operazioni sul capitale previste dall’art. 1 sembrava quindi interessare banche o società capogruppo sottoposte esclusivamente a procedure di risanamento (e nella specie esclusivamente ad amministrazione straordinaria). In effetti, interventi di ricapitalizzazione non avrebbero avuto senso per soggetti posti in liquidazione. Senonché, l’esperienza internazionale di operazioni di nazionalizzazione finalizzate al recupero di banche ormai insolventi e soprattutto l’assoluta mancanza di chiarezza del disposto normativo, unita agli ampi margini di valutazione da parte dell’organo di vigilanza qualificanti l’at-

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Va notato che le Istruzioni dedicano particolare attenzione al rischio di liquidità, che in genere viene ricondotto all’impossibilità che l’intermediario (banca, impresa finanziaria o SIM) «non sia in grado di adempiere alle proprie obbligazioni alla loro scadenza» (a titolo di esempio, rispetto alle banche, cfr. Nuove disposizioni, cit., tit. III, cap. 1, all. A). 48 Anche l’estensione delle operazioni di ricapitalizzazione ai gruppi bancari italiani è avvenuta in sede di conversione del d.l. 155/2008: si vedano l’art. 1, co. 1, ult. periodo, e l’art. 2, co. 2, della l. 190/2008.

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tivazione delle misure di rigore in esame 49, avrebbero potuto consentire interventi di ripatrimonializzazione (alias di “salvataggio”) dello Stato a vantaggio anche di imprese ormai decotte la cui crisi avesse messo a repentaglio la stabilità del sistema finanziario 50. Dubbi sussistevano anche riguardo al campo di applicazione soggettivo in rapporto con la concessione degli aiuti statali. Il riferimento normativo ai “gruppi bancari” nonché alle relative “società capogruppo” sarebbe stato idoneo a ricomprendere tutte le sue componenti (e del resto i problemi di liquidità che si manifestano sotto forma di inadempimento ai propri impegni avrebbero potuto caratterizzarle tutte). Il nuovo presupposto della grave crisi di liquidità unito al pericolo della stabilità sistemica avrebbe però potuto far orientare lo sguardo solo sulla componente bancaria del gruppo 51. In tal modo però sarebbe stata sminuita l’innovazione apportata in sede di conversione (tutte le banche appartenenti ad un gruppo sarebbero state infatti già attratte nel raggio di azione dei provvedimenti anticrisi) e disattesi i connotati della fattispecie gruppo. Pertanto le operazioni di ricapitalizzazione avrebbero potuto riguardare anche le società finanziarie, in ispecie capogruppo (argomentando sulla necessità dell’impatto sistemico della crisi ed ex co. 2 dell’art. 2, cui si accennerà infra § 5, sub A.2). Un ultimo punto da porre in rilievo in questa sede è che l’intervento normativo oltre a intervenire sui presupposti alla base di provvedimenti di rigore riversava solo sui commissari straordinari nuovi ed interessanti poteri (lo si vedrà più avanti).

4. Ulteriori rilievi circa la forza attrattiva della disciplina bancaria: a) con riferimento alla interdipendenza tra crisi della capogruppo e crisi delle società del gruppo. Gli artt. 100 e 101 muovono dallo stato di assoggettamento della capogruppo ad amministrazione straordinaria o a liquidazione coatta am-

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Rispetto alla valutazione della gravità di una crisi fondata su una situazione di illiquidità dell’intermediario si consideri che la Banca d’Italia dispone degli strumenti idonei ad identificare, e soprattutto prevenire, scenari critici di tensione di liquidità già in forza della sua attività di lender of last resort. 50 Per un esame (critico) degli strumenti e delle modalità di intervento presenti nei provvedimenti anticrisi si veda ampiamente Dolmetta, Pacchetti, cit., p. 344 ss. 51 Solo alle banche e alle capogruppo bancarie fa in effetti riferimento la Banca d’Italia nella sua Relazione al Parlamento e al Governo del 2009, cfr. p. 247.

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ministrativa disposte sulla base dei presupposti “tradizionali” e/o “speciali” accennati e si interessano delle situazioni di crisi in cui potrebbero incorrere le «società del gruppo». Il pericolo di crisi diffusa viene affrontato muovendo dalla capogruppo e tali norme, in coerenza con quanto stabilito per la società finanziaria al vertice, dispongono l’adozione degli schemi propri della disciplina creditizia da parte delle componenti non bancarie del gruppo, e nella loro applicazione fanno salvi gli aspetti dalle medesime trattati. In primo luogo, l’assoggettamento della capogruppo ad una misura di rigore comporta che le crisi delle società componenti il gruppo che dovessero sopraggiungere in un secondo momento vengano sottratte alle discipline loro proprie – art. 2409, fallimento e liquidazione coatta regolate dalla legge fallimentare o da altri leggi speciali – per essere attirate, a seconda dei casi, nelle procedure di commissariamento (art. 100) o di liquidazione forzata (art. 101) previste dal t.u.b. Le due disposizioni fissano però talune condizioni e prevedono che l’assoggettamento alla procedura di rigore interessata possa essere richiesta alla Banca d’Italia anche «dai commissari straordinari e dai commissari liquidatori della capogruppo». In secondo luogo, il legislatore considera il caso in cui, al momento dell’assoggettamento della capogruppo ad una misura di rigore, presso le società del gruppo esistano già stati conclamati di crisi, ma circoscritti, non aventi cioè ripercussioni sull’equilibrio finanziario o gestionale del gruppo (argomentando ex art. 98, co. 2, lett. b, e art. 102). In dette ipotesi, il co. 2 sia dell’artt. 100 sia dell’art. 101 introduce il principio della conversione dalle procedure proprie delle società del gruppo in quelle tipicamente bancarie. La conversione avviene in “modo oggettivo”, nel senso che (i) non è previsto nessun intervento valutativo da parte né del tribunale, né della Banca d’Italia, (ii) a differenza di quanto accade nella prima fattispecie, non è subordinata alla sussistenza dei requisiti sottostanti in via ordinaria all’applicazione dell’amministrazione straordinaria ad una banca, e non è condizionata dall’assenza di un previo accertamento dello stato di insolvenza 52.

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Cfr. la Relazione all’art. 100 t.u.b. Per approfondimenti si vedano Costi, L’ordinamento4, p. 844 ss. nonché, dato che le disposizioni del t.u.b. sono ripresi anche dal c.a.p., Liberatori, sub art. 278, in Il codice delle assicurazioni private. Commentario al d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, diretto da Capriglione, con la coll. di Alpa e Antonucci, 2007, vol. III, p. 592 ss.

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In caso di assoggettamento delle società appartenenti al gruppo bancario alla procedura di amministrazione straordinaria l’art. 100, considera poi l’ipotesi che la società interessata sia sottoposta al controllo di autorità diverse da quelle creditizie e stabilisce che il relativo provvedimento sia «adottato sentita l’autorità che esercita la vigilanza, alla quale, in caso di urgenza, potrà essere fissato un termine per la formulazione del parere». La portata della disposizione al livello interno ha trovato sempre meno possibilità di applicazione dopo il passaggio alla Banca d’Italia del controllo sugli intermediari finanziari non bancari (su cui in precedenza agiva anche l’UIC) e la sempre più spinta collaborazione che lega ormai questa con la Consob riguardo agli intermediari del mercato mobiliare, e considerato altresì che le imprese di assicurazione restano al di fuori dei confini del gruppo bancario. Nell’art. 100 sono anche affrontati alcuni aspetti emblematici della filosofia che ha ispirato la disciplina sulla crisi del gruppo bancario (ribaditi nella Relazione illustrativa all’art. 34, d.lgs. 356/1990): rispondere all’esigenza di «assicurare l’autonomia rispetto alle altre procedure coesistenti all’interno del gruppo, ciò che rappresenta un riflesso dell’autonomia patrimoniale delle componenti il gruppo», garantendo però «le opportune forme di coordinamento tra dette procedure in maniera idonea a conseguire efficacemente l’obiettivo della stabilità del gruppo nel suo complesso». Le coordinate che regolano la procedura della capogruppo con quella delle società del gruppo sono in effetti così impostate: 1) la durata dell’amministrazione straordinaria è indipendente l’una dall’altra (co. 4); pertanto, il venir meno del presupposto sottostante all’applicazione dell’art. 100 (ritorno in bonis ovvero chiusura della liquidazione forzata della capogruppo) non potrà avere alcuna ripercussione sui termini della procedura fissati per la società controllata; 2) i commissari straordinari, d’intesa con i commissari straordinari o liquidatori della capogruppo, possono disporre, al «fine di agevolare il superamento di difficoltà finanziarie», la «sospensione dei pagamenti nelle forme e con gli effetti previsti dall’articolo 74, i cui termini sono triplicati» (co. 5; del tutto in linea con quanto fissato dal co. 7 dell’art. 98). Sul punto, la citata Relazione all’art. 34, sottolineava «le evidenti ripercussioni che la moratoria» potesse avere «sull’equilibrio finanziario globale del gruppo e la necessità di ricondurre le relative valutazioni all’interno di una considerazione complessiva circa i programmi di risanamento del gruppo nel suo insieme». In buona sostanza, l’esigenza che la crisi del gruppo, nonostante l’autonomia patrimoniale che caratterizza le singole società, sia affrontata in modo integrato ed unitario al fine di salvaguardare la stabilità del grup-

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po, viene meno solo nel caso in cui: a) la capogruppo non sia interessata da una misura di rigore (amministrazione straordinaria o liquidazione forzata); b) non c’è il rischio che si sviluppi una crisi di gruppo ex artt. 98, co. 2, lett. b) 53. In caso di crisi c.d. circoscritta vale il principio della salvaguardia delle procedure proprie delle singole società appartenenti al gruppo (art. 102). L’evento dell’assoggettamento di una componente del gruppo ad una di tale procedure non viene però lasciato a se stesso, essendo previste: a) l’immediata comunicazione alla Banca d’Italia, da parte dell’autorità amministrativa o giudiziaria che ha emesso i relativi provvedimenti; b) l’instaurazione di un dialogo informativo verso la Banca d’Italia da parte delle autorità amministrative o giudiziarie «che vigilano sulle procedure» con riguardo ad «ogni circostanza, emersa nello svolgimento delle medesime, rilevante ai fini della vigilanza sul gruppo bancario». L’intento del legislatore è di immediata evidenza: porre le autorità creditizie nella condizione di agire ed arginare in tempo eventuali ricadute sulla stabilità del gruppo interessato, disponendo le stesse degli strumenti di intervento preventivo e cautelari idonei a reggerne le fila. 4.1. Segue: b) nei confronti della fattispecie (improbabile) del gruppo “di fatto”. La forza attrattiva delle misure di rigore tipicamente bancarie e al contempo quella espansiva delle disposizioni sulla crisi del gruppo agisce anche nei confronti di un intero gruppo bancario c.d. di fatto ed altresì di singole società possibili componenti di un gruppo la cui presenza è già nota alle autorità. L’art. 105 fissa il requisito della mancata iscrizione all’albo previsto dall’art. 64 t.u.b., pur ricorrendone le condizioni. In merito v’è chi ritiene che, trattandosi di violazioni di legge di eccezionale gravità in presenza di un gruppo di fatto e di gravità più leggera nel caso di una componente di fatto, la Banca d’Italia dovrebbe procedere con l’assoggettamento della capogruppo, su cui incombe l’obbligo di iscrizione, rispettivamente alla procedura di liquidazione forzata e a quella di amministrazione straordinaria 54, ed invece chi propone un’interpreta-

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Per l’individuazione “in negativo” cfr. la Relazione all’art. 37 del d.lgs. 356/1990. Cfr. Castiello D’Antonio, Risanamento e liquidazione di gruppi assicurativi (artt. 275-282), in Il nuovo codice delle assicurazioni. Commento sistematico, a cura di Amo54

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zione (sistematicamente più condivisibile) volta a considerare l’eventuale presenza di «effetti distorsivi rispetto al principio della sana e prudente gestione, ed ai generali e specifici principi di vigilanza» 55. L’art. 105 fa da contraltare al potere della Banca d’Italia di procedere all’iscrizione d’ufficio prevista dal co. 3 dell’art. 64 56, e la sua portata è stata anche indagata nel quadro della ricostruzione dei connotati della fattispecie gruppo bancario, riguardo alla natura costitutiva ovvero dichiarativa dell’iscrizione all’apposito albo 57. La rilevanza della fattispecie del gruppo “di fatto” si ferma soprattutto al piano scientifico 58, in quanto su quello concreto appare ormai di difficile realizzazione. Infatti, a seguito dell’ampliamento dei poteri conoscitivi, autorizzativi nonché della formazione di un’ampia rete di scambi informativi tra diverse autorità di vigilanza, a livello sia nazionale che europeo, in merito agli assetti proprietari a monte e di quelli partecipativi a valle di una banca (ma si consideri che il discorso può essere generalizzato all’intero mercato finanziario), la Banca d’Italia è stata posta nella condizione di individuare e conoscere il gruppo addirittura ancor prima che si costituisca 59. Il che rende agevole l’eventuale iscrizione d’ufficio e del tutto marginale l’ipotesi regolata dalla disposizione ora in esame.

rosino e L. Desiderio, Milano, 2006, p. 505 ss., in part. p. 522 s., ma si tratta di un’opinione isolata. 55 Sandulli, sub art. 105, in Commento, cit. a nt. 9, p. 1782. 56 Nota la “coerenza” tra le due disposizioni Calandra Buonaura, La banca: l’impresa e i contratti, in Trattato di diritto commerciale diretto da Cottino, vol. VI, parte I, Padova, 2001, p. 316. 57 Sul punto si vedano Sandulli, sub art. 105, in Commento, cit., p. 1780, ove diffusi riferimenti, nonché De Vitis, sub art. 282, in Il codice, cit., p. 607 ss. Ad avviso di chi scrive solo con l’iscrizione il gruppo acquisisce uno specifico nomen juris idoneo ad identificare un determinato soggetto dell’ordinamento finanziario, diventando così una fattispecie giuridicamente rilevante ai fini della vigilanza consolidata e non solo (per alcuni riferimenti Brozzetti, Assetti, cit., p. 156 ss.). 58 Al profilo accennato si può aggiungere il problema della “banca di fatto”: cfr. Costi, L’ordinamento4, cit., in part. p. 848 s.; si veda anche il contributo di Santoro, in La crisi del gruppo bancario di fatto e della banca di fatto appartenente ad un gruppo, La crisi, cit. a nt. 33, p. 165 ss., in part. p. 168 ss., esteso anche al ruolo che la disposizione assume riguardo alla crisi delle società del gruppo. 59 Basti vedere le Istruzioni relative alla concessione dell’autorizzazione alla costituzione di una banca: cfr. Tit. I, cap. I, sez. V (sul legame tra disciplina delle partecipazioni e formazioni dei gruppi ci si è ampiamente soffermati in Brozzetti, Assetti, cit., pp. 36 ss., 105 ss., 156 ss., 167 ss.).

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5. Funzioni e poteri dei commissari straordinari e dei commissari liquidatori: i riflessi della disciplina dei gruppi societari nonché dei provvedimenti c.d. anticrisi. In caso di assoggettamento della capogruppo ad una misura di rigore, gli artt. 98 e 99 si differenziano dalla disciplina tradizionalmente applicabile alle banche, oltre che per i presupposti anche per i poteri degli organi della procedura, integrati e rivisti al fine di consentire una gestione unitaria di gruppo sotto la cabina di regia insediata presso la capogruppo. La disciplina tipica delle banche mantiene comunque la sua funzione integrativa – in forza del rinvio presente nel co. 1 sia dell’art. 98 che 99 – e rispetto al profilo in esame diventano rilevanti alcune delle novità ad essa apportate con il d.lgs. 37/2004 ed in generale con la riforma dei gruppi societari di diritto comune. Inoltre, i poteri e le funzioni dei commissari straordinari nominati presso una capogruppo, trattati nei commi 4-8 dell’art. 98 60, hanno trovato, seppure in via transitoria (lo si è accennato), alcune specificazioni nei provvedimenti anticrisi dell’autunno 2008. A.1) Dell’art. 98 interessa sottolineare le “interdipendenze” (per usare l’espressione utilizzata dal legislatore nella Relazione illustrativa al t.u.b.) create dalla conformazione del gruppo bancario sotto il profilo gestionale ed economico tra le sue diverse componenti. I commissari, sentito il comitato di sorveglianza e previa autorizzazione della Banca d’Italia, dispongono anzitutto della facoltà di revocare o sostituire, anche in parte, gli amministratori delle società del gruppo «al fine di realizzare i mutamenti degli indirizzi gestionali che si rendano necessari» (co. 4). Si tratta di un aspetto ricollegabile all’inquadramento delle aspettative circa un esercizio efficace dell’attività di direzione e di coordinamento propria della capogruppo, su cui vanno ora tenuti presenti anche i riflessi della riforma societaria. Va infatti condivisa l’opinione di chi afferma che i nuovi amministratori dovranno pur sempre farsi

60 Sul tema si può rinviare da ultimo a Capolino, Coscia, Galanti, La crisi, cit., p. 1042 ss., nonché, data la similitudine con le disposizioni del codice delle assicurazioni private, a De Vitis, sub art. 275, in Il codice, cit., p. 545 ss., in part. p. 555 ss., ove ulteriori riferimenti. Si ricorda che, in forza del rinvio contenuto nel co. 4 dell’art. 99, i commi 5 e 6 dell’art. 98 si applicano anche nel caso di assoggettamento della capogruppo alla procedura di liquidazione coatta amministrativa.

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garanti dell’interesse della società presso cui sono insediati, rispondendo all’interesse di gruppo espresso dai commissari straordinari, ma solo nei limiti fissati dall’art. 2497 c.c. 61. Il punto della “conciliazione” degli interessi, assume particolare criticità anche in un’altra angolazione. L’art. 103 t.u.b., sempre nell’ottica della realizzazione di una unicità di gestione nella soluzione della crisi di gruppo, stabilisce che, pur restando ferme le disposizioni in merito agli organi della procedura di amministrazione straordinaria contenute nell’art. 71 (stesso principio è ribadito, con il rinvio però all’art. 81, in ipotesi di liquidazione forzata della capogruppo rispetto ai suoi commissari liquidatori), le autorità creditizie possono nominare «le medesime persone» negli organi dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa di società appartenenti allo stesso gruppo, «quando ciò sia ritenuto utile per agevolare lo svolgimento delle procedure» (co. 1). L’articolo riprende un principio già adottato in altri provvedimenti normativi, ridimensionandone però l’automatismo della coincidenza personale 62, tramite l’attribuzione della relativa scelta alla Banca d’Italia. Invero, il legislatore sembra mitigare il problema dell’emersione di casi di conflitto di interessi derivante dalla comunanza di persone presso diverse procedure e al co. 2 dell’art. 103 stabilisce, anzitutto, un dovere di informativa: in tale ipotesi il commissario (straordinario o liquidatore che sia) deve comunicare la sua condizione conflittuale agli altri commissari (che però potrebbero anche non esistere, ed in tal caso si dovrà rivolgere solo), al comitato di sorveglianza e alla Banca d’Italia. In caso di omissione, se del conflitto sono a conoscenza i membri del comitato di sorveglianza, si dispone che saranno questi a fare la relativa comunicazione. Al comitato di sorveglianza la norma consente di prescrivere speciali cautele e di fornire specifiche indicazioni riguardo l’operazione in conflitto, che se non osservate determineranno la responsabilità dei commissari (straordinari ovvero liquidatori). In buona sostanza, il legislatore si appoggia fortemente sul ruolo strategico e alla fin fine determinante della Banca d’Italia che, pur mantenendo «la facoltà di revocare o sostituire i componenti gli organi delle procedure» (si ricorda che l’art. 103 è inserito tra le disposizioni comuni e pertanto ha portata generale), si vede attribuita anche la possibilità di «impartire direttive o disporre,

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Costi, L’ordinamento4, cit., p. 842. A cominciare dalla disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato d’insolvenza (cfr. infra nt. 68). 62

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ove del caso, la nomina di un commissario per compiere determinati atti». La disposizione va incontro all’autonomia tra le componenti del gruppo, e non sembra idonea a stravolgere i principi di ordine generale fissati dall’art. 2497 c.c., semmai, dal coinvolgimento di diversi soggetti, traspare un tentativo di ricerca della soluzione che contemperi le diverse esigenze delle parti interessate (il punto verrà ripreso anche fra breve sub B, ulteriori osservazioni anche nel § 6.1.4). Ritornando all’esame dell’art. 98, va ancora ricordato che ai commissari straordinari della capogruppo è attribuita la facoltà di richiedere alle società componenti il gruppo «i dati, le informazioni e ogni altro elemento utile per adempiere al proprio mandato» (co. 6). Il dialogo informativo all’interno del gruppo è uno degli aspetti qualificanti la sua struttura giuridica e tale norma è del tutto in sintonia con il co. 4 dell’art. 61, che anzi trova in questa sede ulteriori ambiti e specificazioni. I commissari straordinari possono inoltre fare istanza per la dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza a carico delle società appartenenti al gruppo, ciò in sostituzione degli organi di tali società (art. 98, co. 5), potere che si affianca a quello di chiedere alla Banca d’Italia l’assoggettamento ad amministrazione straordinaria ovvero a liquidazione coattiva (subordinata peraltro proprio all’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza) previsto, rispettivamente, dal co. 1 degli artt. 100 e 101. Il legislatore tiene presente anche la complessità della struttura finanziaria all’interno di un gruppo e dispone che i commissari straordinari possono disporre la sospensione dei pagamenti «al fine di agevolare il superamento di difficoltà finanziarie» (art. 98, co. 7). La disposizione trova il necessario pendant nel co. 5 dell’art. 100 (già accennato nel § 4) e si muove nel senso di impostare su basi concordate la gestione della crisi nel gruppo, attirando i commissari straordinari o liquidatori della capogruppo nelle decisioni relative alle società controllate. A.2) Nel § 3.1, si è visto che la l. 190/2008 ha integrato (ed ha aperto alcuni dubbi circa) i presupposti alla base dell’applicazione di misure di rigore ai gruppi bancari italiani e si è accennato al fatto che questa può coniugarsi con la possibilità di un intervento statale poggiante su un sistema di aiuti finanziari, delimitato dalla scadenza di fine 2009. Anche se tale possibilità è ormai decaduta, l’eccezionalità dell’intervento spinge a qualche riflessione sui riflessi avuti da tale legge rispetto alla disciplina dei gruppi. In sintesi, gli artt. 1 e 2 disciplinavano operazioni di salvataggio di fronte a casi di difficoltà conclamate (i) nel primo caso a seguito dell’accertamento da parte della Banca d’Italia di una situazione di “inadeguatezza patrimoniale”, (ii) nel secondo, invece, in presenza di una crisi più

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grave da cui fosse scaturita l’attivazione di una procedura straordinaria. In entrambe le ipotesi la partecipazione (temporanea) dello Stato assumeva la forma di azioni senza diritto di voto, privilegiate nella distribuzione dei dividendi e riscattabili da parte dell’emittente 63. In particolare il co. 2 dell’art. 2 autorizzava il Ministero dell’economia e delle finanze ad effettuare le operazioni di ricapitalizzazione previste al precedente art. 1, oltre che a vantaggio delle banche anche a favore «delle società capogruppo di un gruppo bancario sottoposte alle procedure di cui al co. 1» 64 dell’art. 2 anzidetto. La disposizione specificava che in detta fattispecie l’aumento di capitale dovesse essere deliberato «in via esclusiva dai commissari straordinari, sentito il Comitato di sorveglianza», e che la delibera dei commissari fosse preventivamente autorizzata dalla Banca d’Italia. Aggiungeva infine che il «provvedimento autorizzatorio integra[va] la valutazione di cui all’articolo 1, co. 2» della legge citata. Nel concreto, in presenza di una situazione di inadeguatezza patrimoniale emersa in fase diciamo fisiologica, ai sensi dell’art. 1, co. 2, vi doveva essere la predisposizione di un piano di risanamento valutato e ritenuto “adeguato” dalla Banca d’Italia 65, che doveva anche giudicare la politica dei dividendi così come approvate dall’assemblea per il periodo di durata del programma di stabilizzazione e rafforzamento. In caso invece di intervento di ricapitalizzazione pubblica all’interno della procedura di amministrazione straordinaria, il co. 2 dell’art. 2, stabiliva che l’avallo preventivo concesso dalla Banca d’Italia alla delibera dei commissari straordinari assorbisse la fase di valutazione descritta nel co. 2 dell’art. 1. Tuttavia, nel silenzio normativo era da presumere che il compito dei commissari straordinari risultasse comunque condizionato dalle anzidette prescrizioni normative. Anche se l’intervento ministeriale doveva essere per vincoli europei limitato nel tempo, ha rappresentato indubbiamente una novità di rilievo la previsione di una ipotesi di ricapitalizzazione estesa e condizionata all’assoggettamento ad amministrazione straordinaria della capogruppo

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Per approfondimenti sul punto si veda in particolare Dolmetta, Pacchetti, cit., p. 340 ss. 64 Questa parte è stata aggiunta in sede di conversione del d.l. 155/2008. 65 L’art. 1 si riferiva ad «un programma di stabilizzazione e rafforzamento della banca [o della capogruppo italiana] interessata della durata minima di trentasei mesi», essendo più breve il periodo di durata dell’amministrazione straordinaria (che può arrivare ad un massimo di due anni), lo stesso avrebbe condizionato la ripresa della gestione ordinaria da parte del vertice del gruppo.

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del gruppo bancario (banca o società finanziaria che fosse). Il fatto che l’operazione sul capitale sottoscritto o garantito dal Ministero avvenisse in detto contesto aveva difatti l’effetto singolare di estromettere dai poteri decisori gli organi “ordinari” della capogruppo, e in particolare l’assemblea dei soci. L’aumento era infatti deliberato dai commissari seppure con il parere (che non risultava comunque vincolante) del comitato di sorveglianza, previa autorizzazione della Banca d’Italia, il cui provvedimento andava ad integrare la complessa valutazione fissata dalla legge 66. B) Rispetto alle funzioni ed ai poteri attribuiti ai commissari liquidatori nominati a seguito dell’assoggettamento della capogruppo alla procedura di liquidazione forzata e regolati dall’art. 99, merita un cenno l’esperibilità dell’azione revocatoria intragruppo c.d. aggravata prevista dal co. 5 dell’art. 99 (richiamato anche dal co. 3 dell’art. 101 per le società in liquidazione forzata appartenenti al gruppo bancario). La norma amplia il c.d. periodo sospetto previsto dall’art. 67 l.fall. 67, stabilendo che gli atti indicati ai nn. 1-3 debbono riferirsi ai cinque anni anteriori il provvedimento di liquidazione coattiva (il periodo normale è invece di un anno), mentre per gli atti indicati al n. 4 e al co. 2, si arriva ai tre anni precedenti (la regola è invece di 6 mesi). Come sottolineato nella Relazione illustrativa al t.u.b., la disposizione non fa altro che riprendere i più lunghi termini stabiliti in altre leggi speciali 68. La dottrina giustifica la protrazione dei termini con la considerazione che nei rapporti intragruppo (i) assume minore importanza «la necessità di assicurare certezza ai rapporti giuridici, e che impone un limite temporale alla revocabilità di un atto», (ii) sia più agevole «porre in essere atti in frode ai creditori» 69. Lo strumento ben si concilia con il principio di autonomia patrimoniale

66 A quanto consta gli strumenti previsti dalla l. 190/2008 non sono stati attivati; si segnala che scarsa appetibilità hanno avuto anche i c.d. Tremonti bonds (emessi ai sensi dell’art. 12 del d.l. 185/2008) sottoscritti solo da: Montepaschi, Banco Popolare, Popolare di Milano e Credito valtellinese. 67 Sul punto si veda di recente A. Nigro, sub art. 67, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e Sandulli, Torino, 2006, vol. 1, p. 371 ss. 68 Il riferimento va alla l. 95/1979, c.d. legge Prodi relativa all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi – la cui procedura è stata sostituita con il d.lgs. 270/1999 (va menzionata anche la c.d. l. Marzano 39/2004) –, poi ripresa dalla l. 430/1986, riguardante le società fiduciarie. Si ricorda che la disciplina bancaria è ora riproposta anche nel c.a.p. del 2005: cfr., anche al fine di ulteriori riferimenti, De Vitis, sub art. 275, cit., p. 572 ss. 69 Costi, L’ordinamento4, cit. p. 843.

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che caratterizza le società del gruppo, ma emerge nei fatti la limitatezza di una scelta normativa che affida solo a strumenti recuperatori il rimedio contro operazioni di tal sorta 70. Scelta che però, più in generale, caratterizza anche la disciplina societaria dei gruppi. Con riferimento alle funzioni dei commissari liquidatori, un altro aspetto da segnalare ricollegabile alla riforma del diritto societario riguarda il potere previsto in sede di disciplina “ordinaria” delle banche dall’art. 84 t.u.b. che tratta delle azioni di responsabilità 71. In questa sede interessa in particolare il co. 5, così come modificato dal d.lgs. 37/2004 al fine (come si legge nella Relazione) di «trasporre nel testo unico le disposizioni degli artt. 2394-bis e 2497, ultimo comma, del riformato» c.c. 72. La disposizione attribuisce ai commissari liquidatori, fra l’altro, la competenza ad esercitare la «azione del creditore sociale contro la società o l’ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento», «sentito il comitato di sorveglianza, previa autorizzazione della Banca d’Italia». Il contenuto dell’art. 2497 risulta così rimodellato con specifiche integrazioni conseguenti alle peculiarità dell’ordinamento creditizio 73. In merito all’azione prevista dall’art. 2497 va notato che la dottrina ne ha evidenziato la natura surrogatoria volta a reintegrare il patrimonio sociale, argomentando proprio sulla base del passaggio dell’attribuzione delle azioni previste sia da tale disposizione sia dall’art. 2394-bis dai creditori sociali agli organi delle procedure concorsuali 74.

70 Sul punto cfr. Cercone, Le procedure per la crisi dei gruppi bancari, in La crisi dell’impresa bancaria. Profili economici e giuridici, a cura di Boccuzzi, Milano, 1998, p. 347 ss. Per approfondimenti sul co. 5 dell’art. 98 si veda ampiamente Bonfatti, sub art. 99, cit., p. 796 ss., cui adde di recente M. Parrella, Le crisi, cit., p. 618 ss. ove altri riferimenti. 71 Sul piano dei vincoli che incontra l’attività dei commissari liquidatori può anche ricordarsi che in caso di insolvenza della capogruppo fra le sue passività dovranno ricomprendersi anche quegli impegni (ora fissati dall’art. 24, par. 1, lett. d, dir. 2006/48/CE) di natura fideiussoria assunti nei confronti dei creditori delle filiazioni di natura finanziaria oggetto di mutuo riconoscimento: sul punto cfr. L. Desiderio, Il regime delle crisi delle banche e dei gruppi bancari: novità e riordino della disciplina nel Testo Unico, in Dir. banc., 1993, I, p. 556 ss., p. 569. 72 Si veda l’art. 9.27, co. 1, d.lgs. 6/2003, inserito dall’art. 2, co. 1, d.lgs. 37/2004. 73 Nel diritto speciale non v’è esplicito richiamo all’azione che l’art. 2497 attribuisce anche ai “commissari straordinari”; il silenzio è giustificabile alla luce della natura non concorsuale attribuibile all’amministrazione straordinaria delle banche (a differenza di quanto accade nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi) e quindi con il permanere della relativa azione in capo ai creditori sociali. 74 Si veda A. Nigro, Diritto societario e procedure concorsuali, in Il nuovo diritto delle società (Liber amicorum Gian Franco Campobasso) diretto da Abbadessa, Porta-

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L’intervento del legislatore nel 2004 si è limitato alle integrazioni delle disposizioni sulle crisi applicabili ad una singola banca, senza coinvolgere (e il punto può sembrare singolare) le norme ove l’attività di direzione e coordinamento della capogruppo bancaria viene per così dire “sanzionata”. La giustificazione può rinvenirsi nel fatto che, a seguito della forza attrattiva che la regolamentazione della crisi del gruppo ha nei confronti della disciplina “ordinaria”, era sufficiente intervenire solo nel punto in cui l’esercizio delle azioni di responsabilità da parte dei commissari trova la sua integrale regolamentazione. Si è fatto già cenno sub A.1) al problema del conflitto di interessi derivante dalla possibile presenza degli stessi commissari in diverse procedure (principio previsto dall’art. 103), ebbene va sottolineato che la trasposizione all’interno dell’art. 84 dell’ultimo comma dell’art. 2497 è idoneo ad accentuarne la portata. Sul punto non si può che prendere nuovamente atto della soluzione di compromesso tra contrapposte esigenze adottata dal diritto speciale, che si appoggia sui meccanismi della responsabilizzazione del comitato di sorveglianza e (soprattutto) del mantenimento sotto la lente della Banca d’Italia di questo nuovo potere attribuito ai commissari liquidatori.

6. Qualche considerazione d’assieme. Tra gli strumenti di intervento a disposizione della Banca d’Italia volti a far sì che gli intermediari ristabiliscano gestioni aziendali corrette ed efficienti, l’amministrazione straordinaria rappresenta la soluzione più intrusiva. È dunque altamente probabile che la stessa intervenga allorquando permangano le gravi irregolarità e anomalie riscontrate (si pensi al ruolo ancillare della vigilanza informativa e ispettiva) e nonostante il presumibile «impegno dei responsabili dei soggetti vigilati» verso il risanamento di «gestioni aziendali problematiche», la preven-

le, Torino, 2006, vol. 1, p. 177 ss., in part. p. 200 s. (il punto in dottrina è comunque controverso: cfr. di recente Casadei, Gruppi di società nel codice civile, in Dig. disc. priv., sez. comm., Aggiornamento, vol. 4,Torino, 2008, p. 314 ss.,in part. p. 332 s.). Nota l’imprecisione della norma nell’uso al singolare della figura del creditore (ed anche la sua ripetitività rispetto ad un precetto già chiaramente definito) Cavalli, Appunti sulle norme di coordinamento in materia di disciplina delle crisi bancarie, in Dir. banc., 2004, II, p. 67 ss., in part. p. 75 s.; di recente si veda altresì Colavolpe, La disciplina, cit., p. 146 s.

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zione di «deterioramenti tecnici», la garanzia del «rispetto della normativa bancaria» 75. Le cause “tradizionali” sfocianti nell’adozione dell’amministrazione straordinaria o della liquidazione forzata sono fondate sia su profili di illegalità sia su carenze di natura patrimoniale ed ora anche su tensioni di liquidità. In caso di coinvolgimento del vertice di un gruppo bancario assume rilievo anche il giudizio sulla qualità del coordinamento e del controllo esercitato, sulla capacità di governo delle componenti il gruppo e sul grado di integrazione tra le medesime. Il peso ormai schiacciante assunto all’interno delle fonti dalle regole di vigilanza elaborate dalle autorità creditizie orienterà lo sguardo soprattutto sulle deviazioni dalle medesime. In generale, il legislatore richiede la sussistenza di un connotato di “gravità”, semplice o rinforzata, per la valutazione della quale non fornisce indici prestabiliti. Trattasi di scelta risalente nel tempo (la mente va alla l. banc. del 1936-’38) che determina la sostanziale devoluzione della valutazione dello stato di crisi alle autorità creditizie 76. La regolamentazione, soprattutto in via amministrativa, può aiutare l’interprete a trovare linee guida ai fini della individuazione delle mancanze che possono sfociare in un provvedimento di rigore. I connotati oggi attribuibili alla disciplina sulla crisi “nel” gruppo bancario (§ 6.2) chiamano necessariamente in causa i tratti fisiologici dell’attività di direzione e coordinamento e il mutato contesto di diritto comune in cui è ora inserita (§ 6.1). 6.1. Un inquadramento dell’attività di direzione di coordinamento funzionale all’intelligenza delle norme sulla disciplina della crisi del gruppo. L’attività di direzione e coordinamento della capogruppo di un gruppo bancario è in diretta connessione con le esigenze della vigilanza, ed è ovvio che ad un loro incremento corrispondano impegni maggiori per la capogruppo: si pensi al condizionamento obbligato delle direttive comunitarie – 2006/48/CE e 2006/49/CE – nonché a quello sempre meno “facoltativo” delle linee guida elaborate nei fori della vigilanza interna-

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Per le frasi virgolettate cfr. la Premessa al volume contenente le Istruzioni di vigilanza per le banche, par. 1. 76 Profilo accettato anche dalla giurisprudenza: per approfondimenti si rinvia a Maimeri, La crisi dell’impresa bancaria, in Ce.di.b, Giurisprudenza bancaria (2003-2005), Milano, 2005, p. 159 ss., in part. p. 166 s.

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zionale. Inoltre tale attività deve tener conto delle possibilità e dei limiti presenti nel diritto comune 77. 6.1.1. Il rilievo del diritto comune dei gruppi. Il potere della capogruppo deve ormai rapportarsi con una normativa generale sull’attività di direzione e coordinamento di società. Al «superiore interesse alla stabilità del gruppo» bancario nonché ai requisiti di «equità e ragionevolezza» (per usare le parole della Banca d’Italia) si sono affiancati altri canoni valutativi condizionanti in generale l’esercizio di tale potere. L’art. 2497 c.c. dispone l’obbligo: a) del rispetto nell’agire nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui dei «principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società» eterodirette, pena la responsabilità nei confronti dei soci di queste ultime per «il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale» nonché dei creditori sociali per «la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società»; b) del ristoro di eventuali sacrifici subiti dalla controllata alla luce del «risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento» ovvero di operazioni ad hoc. L’art. 2497 bis e l’art. 2497 ter incidono sul piano della trasparenza degli assetti di gruppo e delle modalità di contemperamento degli interessi; numerose altre disposizioni ove rileva una posizione di controllo societario (ad es. gli artt. 2381, 2403-bis, 2428 c.c.) contribuiscono a delineare quantomeno i contorni di uno “statuto” legale dei gruppi di società, idoneo a completare (e per certi versi a rafforzare) il sistema organizzato a fini di vigilanza già presente all’interno del mercato finanziario 78. Posto che nel codice civile l’esercizio scorretto e abusivo di attività di direzione e coordinamento è sanzionato sul piano risarcitorio e non con procedure di rigore estremo (come ad es. il fallimento) al contrario di quanto invece accade nell’ordinamento bancario dove si può arrivare alla liquidazione forzata, va comunque risolto il problema dell’interazione tra i due corpi di norme. Ad avviso di chi scrive i punti fermi della disciplina societaria dei gruppi da tener presente sono in sintesi estrema: 1) il legislatore di diritto comune non si è spinto al punto di eliminare la distinta soggettività delle società controllate, ritenendo legittimo il sacrificio degli interessi dei quali la società è portatrice solo in presenza

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Per lo meno in origine (discussa è stata poi la prima applicazione delle norme nelle Istruzioni del 1992) mostrano questa consapevolezza le stesse autorità di vigilanza: Banca d’Italia, Relazione annuale per l’anno 1990, cfr. p. 292. 78 I temi accennati sono sviluppati in Brozzetti, Assetti, cit., in part. p. 184 ss.

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di riscontrabili benefici derivanti dall’appartenenza al gruppo 79; 2) le norme sanciscono una responsabilità per esercizio abusivo dell’attività di direzione e coordinamento che presuppone una “influenza attiva”, consapevole e condivisa tra le componenti del gruppo 80; 3) quella disciplina ha portata generale ed i principi cui la stessa si ispira condizionano anche il “potere/dovere” di esercitare un’attività di direzione e coordinamento funzionale alle esigenze della vigilanza così come interpretate dalle autorità creditizie 81. In merito diviene alla fin fine strategico anche il ruolo guida assunto e assumibile dalle autorità di vigilanza. 6.1.2. La riorganizzazione della vigilanza su base consolidata. L’importanza sistemica che può avere la crisi di una banca articolata in gruppo ha portato le autorità di controllo a guidare e controllare lo svolgimento dell’attività di direzione e di coordinamento, nonché a correggerne il tiro in presenza di comportamenti non conformi alle esigenze della vigilanza. In particolare, la riforma attuata con le due delibere CICR del 2 agosto 1996 ha posto le basi per una riorganizzazione della vigilanza su base consolidata, che nel tempo si è poi arricchita con altre integrazioni e specifici interventi su aspetti prudenziali, assetti organizzativi e governo societario 82.

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Sulla necessaria presenza di vantaggi compensativi si veda da ultimo Trib. Roma, 5 febbraio 2008, in Società, 2009, p. 491 ss. con Il commento di V. Scognamiglio, cui si rinvia per gli ulteriori approfondimenti bibliografici. 80 In tali termini si veda di recente Trib. Milano, 23 aprile 2008, in Società, 2009, 78 ss., con Il commento di Fico, cui si rinvia per gli ulteriori riferimenti. 81 L’applicazione delle norme civilistiche alle capogruppo di gruppi omogenei rispetto all’adempimento del potere di direzione e coordinamento in funzione strumentale alle esigenze della vigilanza non risulta così pacifica: in senso limitativo si veda di recente Castiello D’Antonio, Risanamento, cit., p. 514. Delle difficoltà di coordinamento tra corpi di norme diversi dà ampiamente conto, sempre di recente, Giovannini, La responsabilità per attività di direzione e coordinamento nei gruppi di società, Milano, 2007, p. 227 ss.; cui adde, per gli ulteriori approfondimenti, i diffusi riferimenti ivi previsti. Ad avviso di chi scrive è emblematico che la stessa Banca d’Italia richiami l’attenzione «sull’esigenza che, al fine di presidiare adeguatamente i rischi legali connessi alle fattispecie di responsabilità disciplinate» dal codice civile agli artt. 2497 ss., le società capogruppo «adottino idonei accorgimenti affinché l’attività di direzione e coordinamento sia improntata a principi di “corretta gestione societaria e imprenditoriale”», ciò anche «in coerenza con i criteri di equità e ragionevolezza richiesti dalle Istruzioni di vigilanza»: cfr. Banca d’Italia, Riforma del diritto societario. Indicazioni di vigilanza per il settore bancario, in Boll. vig., 2004, n. 3, p. 7 ss., cit. p. 13. Si veda anche il § 6.1.4. 82 Dell’importanza delle delibere CICR del 1996 si è dato conto in Brozzetti, sub artt. 60-61, in Commento, cit. a nt. 9, cfr. in part. p. 988 ss.

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Nel complesso si registra un forte potenziamento dell’attività diretta (per certi versi “invasiva”) della Banca d’Italia sul gruppo, ma altresì il ruolo di ausilio alla capogruppo nello svolgimento del potere/dovere di direzione e coordinamento finalizzato alle prerogative della vigilanza 83. Fin dal 1992 le Istruzioni della Banca d’Italia dedicano ampio spazio ai principi e alle modalità di esplicazione del potere direttivo della capogruppo. Merita un particolare riferimento il Tit. IV, cap. 11, dedicato ai controlli interni, ove sono ribadite, con qualche nuova specificazione, le originarie aspettative circa le funzioni tipiche della capogruppo in merito alla tipologia dei controlli da esercitare sul gruppo (strategici, gestionali, e tecnico-operativi) 84 nonché al dovere di improntare l’attività direzionale al criterio (già richiamato) di “equità e ragionevolezza”. Sono profili di grande rilevanza per l’assetto organizzativo del gruppo, collegati anche con l’intenso sviluppo che hanno assunto tra gli strumenti di vigilanza quelli a carattere prudenziale volti a fronteggiare i molteplici rischi cui è esposta l’attività bancaria e finanziaria. Aspetti che, in parallelo con l’evoluzione delle metodologie di gestione e misurazione dei rischi nonché dei nuovi indirizzi che informano l’attività di supervisione, hanno trovato ulteriori sviluppi nella Circolare n. 263 del 2006 ove sono recepiti anche i cambiamenti organizzativi imposti da “Basilea 2” e dalla normativa sui conglomerati finanziari. La circolare tiene presente l’assetto del gruppo e la sua complessità e copre materie cruciali per la salvaguardia della sua stabilità. Nella parte

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Per averne un’idea si veda di recente Banca d’Italia, Poteri di direzione e coordinamento della capogruppo di un gruppo bancario nei confronti delle società di gestione del risparmio appartenenti al gruppo, 23 ottobre 2009. 84 Il controllo strategico, considera «l’evoluzione delle diverse aree in cui il gruppo opera e dei rischi incombenti sul portafoglio di attività esercitate», insomma deve trattarsi di un controllo sia «sull’espansione delle attività svolte dalle società appartenenti al gruppo (crescita o riduzione per via endogena) sia sulle politiche di acquisizione e dismissione da parte delle società del gruppo (crescita o riduzione per via esogena)». Il controllo gestionale è «volto ad assicurare il mantenimento delle condizioni di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale sia delle singole società del gruppo sia del gruppo nel suo insieme», esigenze queste che «vanno soddisfatte preferibilmente attraverso la predisposizione di piani, programmi e budget (aziendali e di gruppo), e mediante l’analisi delle situazioni periodiche, dei conti infrannuali, dei bilanci di esercizio delle singole società e di quelli consolidati; ciò sia per settori omogenei di attività sia con riferimento all’intero gruppo». Infine, il controllo tecnico-operativo, è «finalizzato alla valutazione dei vari profili di rischio apportati al gruppo dalle singole controllate» (è scontato notare la diretta connessione tra questo aspetto e la fattispecie della crisi c.d. diffusa). Cfr. Istruzioni (aprile 1999), Tit. IV, cap. 11, sez. III, cit. par. 1.1.

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introduttiva si richiede ad esempio agli organi di governo societario «di individuare gli orientamenti strategici e le politiche di gestione del rischio, verificarne nel continuo l’efficacia e l’efficienza, definire i compiti e le responsabilità delle varie funzioni e strutture aziendali, assicurare, più in generale, l’adeguato presidio di tutti i rischi a cui l’intermediario può essere esposto». L’autorità di vigilanza si premura anche di definire all’interno delle singole tipologie di rischio considerate, i relativi aspetti organizzativi dando un’indicazione circa i canoni gestionali di efficienza, efficacia e correttezza. Una struttura di gruppo complica certamente gli aspetti organizzativi, ma le (analitiche) indicazioni della vigilanza rappresentano il contesto entro cui valutare la corretta esplicazione del potere direttivo spettante alla capogruppo. Una caratteristica della nuova regolamentazione prudenziale sta nella previsione di margini di flessibilità che lasciano anche agli organi societari più ampi spazi di intervento, responsabilizzando così maggiormente la capogruppo nell’esercizio dell’attività sua propria. Ciò in linea con il rinnovo della filosofia del controllo prudenziale: si pensi alla possibilità riconosciuta agli intermediari di sviluppare propri modelli interni per la misurazione dei presidi patrimoniali a fronte dei diversi rischi considerati, al processo di autovalutazione dell’adeguatezza patrimoniale e agli obblighi di informativa al pubblico. In buona sostanza le istruzioni più recenti confermano, accentuandolo, sia il ruolo centrale e di grande responsabilità che assume la capogruppo 85, sia lo stretto legame che intercorre tra questa e l’autorità di vigilanza.

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Basti ricordare: a) il processo interno per la determinazione dell’adeguatezza patrimoniale (ICAAP), che sposta sulla capogruppo il compito di determinare il capitale adeguato per l’intero gruppo; responsabilità che non appare sminuita dal fatto che in ciò risulti coadiuvata dalla Banca d’Italia tenuta a riesaminare l’ICAAP e a formulare un giudizio complessivo e se necessario delle misure correttive (SREP); b) l’attrazione verso la capogruppo del processo di informativa al pubblico con tutti gli oneri che ciò comporta; c) le decisioni strategiche a livello di gruppo in materia di gestione del rischio di non conformità rimesse agli organi aziendali del vertice; aspetto questo particolarmente interessante per il legame che può instaurarsi con i presupposti da cui scaturiscono le procedure di crisi; d) sul piano della struttura organizzativa e dei controlli interni (Disposizioni del 4 marzo 2008), l’onere di «assicurare, attraverso l’attività di direzione e coordinamento, la coerenza complessiva dell’assetto di governo del gruppo, avuto riguardo soprattutto all’esigenza di stabilire adeguate modalità di raccordo tra gli organi, le strutture e le funzioni aziendali delle diverse componenti del gruppo, in special modo quelle aventi compiti di controllo» (cit. par. 1).

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6.1.3. L’interesse di gruppo tra diritto speciale e diritto comune. La Banca d’Italia definisce la capogruppo come il suo “interlocutore” diretto ai fini della vigilanza consolidata e fin dalle origini ha impostato il perseguimento della stabilità del gruppo sulla costruzione di un conglomerato fortemente “coeso”, portando la capogruppo a superare le barriere organizzative presenti tra le società componenti il gruppo nonché a gestire nel complesso il gruppo in modo efficiente. In definitiva, però, nella regolamentazione amministrativa il principio dell’interesse alla stabilità del gruppo – che vincola l’azione delle autorità di vigilanza e al contempo rappresenta il termometro che misura l’intensità del potere di direzione nel conglomerato bancario – si avverte in sottofondo, in quanto risulta perseguito mediante la determinazione oggettiva di regole e di criteri, spesso minimi, che sia le banche sia i gruppi bancari (ed ormai tutti i soggetti appartenenti al mercato finanziario) devono osservare per fronteggiare i rischi inerenti all’attività finanziaria. Nonostante la presenza “endemica” del conflitto di interessi all’interno dei gruppi societari, talune delle tensioni che la disciplina del gruppo bancario aveva creato sin dal momento della sua emanazione, per la possibilità che del potere di direzione e coordinamento potessero essere proposte letture del disposto normativo forti (che ritenevano sempre legittimo il sacrificio dell’interesse della controllata per esigenze di vigilanza) ovvero deboli (volte a ricercare un sistema di mediazione tra la necessità di dare attuazione alle istruzioni emanate dalla Banca d’Italia ai fini di stabilità del gruppo ed interesse sociale della controllata, totalmente salvaguardato dalle regole di diritto comune allora vigenti), hanno trovato una certa ricomposizione nell’evoluzione dei controlli sugli altri intermediari finanziari, sempre più modellati su quelli propri delle banche 86. La sostanziale omogeneizzazione della regolamentazione che ha coinvolto le imprese appartenenti al mercato finanziario ha permesso una condivisione anche delle finalità perseguite dalla vigilanza ed ha avuto l’effetto di agevolare l’esplicazione del potere direttivo della capogruppo teso a dare applicazione alle istruzioni della Banca d’Italia. Ad avviso di chi scrive l’attività della capogruppo incanalata verso il perseguimento della stabilità del gruppo ha assunto caratteristiche e dimensioni tali da intersecare questo interesse con quello del gruppo

86 Il profilo è stato già affrontato in Brozzetti, sub artt. 60-61, cit., p. 966 ss. cui si rinvia per i riferimenti bibliografici, e ripreso in Id., Assetti, cit., p. 240 ss., ove ulteriori approfondimenti.

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tout court, ora rilevante anche sul piano civilistico. La salvaguardia della stabilità va incontro all’interesse delle imprese del gruppo a sopravvivere all’interno di un mercato finanziario che per funzionare necessita di complesse regolamentazioni e di sanzioni per i comportamenti inadeguati 87. Di certo l’interesse alla stabilità non va “confuso” con l’interesse di gruppo regolato dal codice 88 ma va altresì tenuto presente: 1) che l’evoluzione della regolamentazione ne ha scolorito i tratti differenziali in quanto in un mercato finanziario sempre più complesso l’interesse sistemico alla stabilità del gruppo, così come perseguito dalla Banca d’Italia (che nel concreto – lo si è accennato – si preoccupa di fornire agli intermediari ed ai gruppi le coordinate per muoversi sui binari di una gestione sana e prudente), può amalgamarsi con quello “privatistico” del gruppo se non altro perché una gestione sana e prudente configura un pre-requisito per continuare ad operare in quel mercato 89; 2) gli stessi artt. 2497 e seguenti costruiscono quest’ultimo sul contemperamento degli interessi, la cui applicazione all’ordinamento bancario determina quanto meno una “contaminazione” tra interessi scaturente dalla peculiarità dell’attività esercitata. 6.1.4. Il profilo della responsabilità della capogruppo. Un aspetto problematico è indubbiamente quello della responsabilità della capogruppo per un esercizio scorretto e abusivo della sua attività di direzione e di coordinamento, che può snodarsi non solo all’interno del diritto speciale sulla base delle disposizioni qui commentate, ma anche di quello comune.

87

Come afferma la Banca d’Italia nella Premessa al volume contenente le Istruzioni di vigilanza per le banche: «La stabilità, l’efficienza e la competitività sono obiettivi relativi al sistema finanziario nel suo complesso. La sana e prudente gestione, riferendosi ai singoli soggetti vigilati, costituisce, al contempo, finalità della vigilanza e regola di condotta per gli intermediari; “essa rappresenta altresì un limite ai vincoli che le autorità hanno il potere di porre agli intermediari per il conseguimento delle finalità sistemiche”», cit. par. 1. 88 Lo sottolinea Castiello D’Antonio, Risanamento, cit., p. 512; di recente si veda anche Giovannini, La responsabilità, cit., p. 260 ss. (le cui argomentazioni non appaiono del tutto condivisibili in quanto si tralascia ad esempio l’impatto sistematico del co. 5 dell’art. 84 t.u.b.). 89 Come ha sottolineato il governatore «le banche imprudenti prima o poi finiscono in dissesto e smettono anche di far credito»: Draghi, Indagine conoscitiva sulle tematiche relative al sistema bancario e finanziario, Audizione del Governatore alla Camera dei Deputati del 17 marzo 2009, in www.bancaditalia.it, cit., p. 15.

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La citata Circolare n 263 del 2006 ribadisce, in linea con quanto già accadeva in precedenza, che nei confronti delle banche facenti parte di un gruppo bancario che rispetti i requisiti a livello consolidato siano applicabili regole prudenziali più attenuate 90. La presenza di margini di apprezzamento e di manovra connessi all’applicazione delle regole di vigilanza nel governo del medesimo da parte del suo vertice fa così emergere uno dei punti critici “storici” nello studio della disciplina del gruppo bancario, relativo alla concreta possibilità di tensione tra diversi interessi. Rispetto al passato ritengo che su tale aspetto la capogruppo trovi un quadro di riferimento specifico nell’art. 2497 c.c. Del resto, la presenza del co. 5 dell’art. 84 t.u.b. rappresenta una riprova, ed anche una significativa innovazione, che il profilo della responsabilità civilistica interagisce con l’ordinamento del credito, ed in particolare con una delle misure di rigore qui richiamata 91. Ebbene, la disciplina di diritto comune apporta una sorta di self restraint in quella speciale, nella misura in cui impone alla capogruppo nuovi obblighi, primo fra tutti quello di improntare l’attività di direzione e coordinamento ai principi generali di trasparenza e di contemperamento degli interessi, ed introduce opportune ricadute in termini di responsabilità a seguito della violazione dei medesimi. Al fine di fronteggiare e contenere il nuovo “rischio responsabilità” 92, non si può fare a meno di ricercare un efficace sistema di direzione basato, diciamo così, sul modulo del consenso piuttosto che su quello del comando tout court 93. Impostare la direzione e il coordinamento sul piano del consenso:

90 Vi sono regole attenuate in materia ad esempio di requisiti patrimoniali e di concentrazione dei rischi: cfr. Nuove disposizioni, cit., tit. I, cap. I, parte II, sez. I, par. 1. 91 Sul punto si veda anche Cera, Capogruppo bancaria e nuovo diritto societario. Prime valutazioni, in Dir. banc., 2007, I, p. 171 ss., in part. p. 182. Va accennato che il profilo della responsabilità della capogruppo può essere condizionato dalla possibile dissociazione tra “gruppo bancario” (i confini che rilevano ai fini delle norme qui commentate sono quelli degli artt. 60 e 61 e non quelli ampliati, volti a considerarne gli assetti reali, degli artt. 65 e 69) e “gruppo civilistico” (impostato sulle previsioni degli artt. 2497-sexies e 2497-septies), dalla quale discende che la responsabilità di cui all’art. 2497 c.c. possa anche non coinvolgere (solo) la capogruppo del gruppo bancario (il tema è stato approfondito in Brozzetti, Assetti, cit., p. 216 ss.). 92 Termine presente in una lettera circolare dell’ISVAP del 21 dicembre 2004; al “rischio legale” fa anche riferimento il ministro dell’economia e delle finanze nel d.m. del 27 dicembre 2006, riconducendolo all’interno dei rischi operativi: cfr. l’art. 5. 93 Tema sviluppato in più sedi, da ultimo in Brozzetti, Assetti, cit., p. 240 ove riferimenti ed ulteriori approfondimenti.

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1) non vuol dire negare per la capogruppo la possibilità (i) di esercitare le prerogative che la posizione di controllo le riconosce (e quindi di dirigere in modo unitario dal punto di vista economico – della realizzazione cioè dei piani strategici, finanziari ed operativi – l’attività delle imprese integrate nel gruppo: se così non fosse verrebbe snaturata l’essenza del gruppo e le stesse disposizioni di vigilanza su base consolidata potrebbero essere di difficile attuazione) e in tale quadro di sacrificare l’interesse della controllata (ormai è lo stesso diritto comune che entro certi limiti lo consente) 94, ovvero (ii) di regolare le relazioni di potere all’interno del gruppo (vale a dire di definire tramite un regolamento condiviso con le imprese componenti il conglomerato i rapporti societari endogruppo); 2) bensì intende dare particolare peso e far emergere quegli aspetti di mediazione, di gestione di gruppo partecipata e trasparente 95, che mi pare condizionino a monte l’esercizio di un’attività di direzione e coordinamento improntata a canoni di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società ad essa assoggettata nonché volta ad equilibrare vantaggi e svantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo 96. Aspetti di mediazione che, lo si è sottolineato nel § 5, sono riscontrabili anche all’interno delle norme sulla crisi del gruppo ove in presenza di aspetti di gestione problematici si cerca di coinvolgere il comitato di sorveglianza e si introduce il vaglio della Banca d’Italia. Tendenze soft sono anche rinvenibili nelle più recenti istruzioni di vigilanza. Ad esempio, in merito alla gestione e controllo dei rischi all’interno del gruppo, dopo aver posto l’accento sulla necessaria consapevolezza da parte degli organi aziendali (con funzione di supervisione strategica nonché di gestione) delle singole componenti del gruppo rispetto sia alle politiche definite dagli organi della capogruppo sia alla loro

94 Anche se legittimo ritengo che non trovi un aggancio con quella che è la regolamentazione (anche in via amministrativa) del gruppo bancario il dubbio se l’attività della capogruppo finalizzata all’applicazione delle istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia debba restare fuori dalla portata delle norme del codice civile volte a proteggere l’interesse dei soci della controllata e dei suoi creditori sociali. Del tutto condivisibile risulta l’opinione di chi esclude un esonero di responsabilità fondato soltanto su un provvedimento dell’autorità di vigilanza Costi, L’ordinamento4, cit., p. 631. 95 Penso in particolare sia all’art. 2497-bis, co. 4 e 5, sia e soprattutto all’art. 2497-ter del codice civile che introducono un certo modo di essere dell’attività direttiva che nella trasparenza trova un parametro cui necessariamente debba commisurarsi. 96 Per una lettura molto riduttiva del “modulo del consenso” cfr. De Lillo, sub art. 87, in Il codice, cit., p. 318 ss.

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responsabilità dell’attuazione «in modo coerente con la propria realtà aziendale» delle strategie delineate dal vertice del gruppo, le Istruzioni affermano che a tal fine «è necessario che la capogruppo coinvolga e renda partecipi, nei modi ritenuti più opportuni, gli organi aziendali delle controllate delle scelte effettuate in materia di procedure e politiche di gestione dei rischi» 97. Il profilo della responsabilità chiama in causa anche quello della individuazione della relativa natura ed i connessi e rilevanti aspetti probatori. Il tema è (ed è stato) molto dibattuto in dottrina, divisa tra l’orientamento di chi la considera di stampo extracontrattuale e quello di chi ne sostiene il carattere contrattuale 98, ad avviso di chi scrive preferibile rispetto alla fattispecie gruppo bancario per i connotati, decisamente sempre più rafforzati dalla regolamentazione, di “indispensabile” doverosità dell’attività di direzione e coordinamento. 6.2. I connotati oggi attribuibili alla disciplina sulla crisi “del” gruppo bancario. In generale, (i) muovendo dalla considerazione della permanente peculiarità rivestita dallo svolgimento dell’attività bancaria all’interno di una struttura conglomerale (ribadita dai recenti provvedimenti anticrisi) nonché dalla sempre più accentuata complessità che tale svolgimento è andato assumendo nel tempo (se ne è avuto sentore nei precedenti paragrafi), (ii) considerati le interdipendenze tra crisi della capogruppo, le crisi circoscritte alle componenti il gruppo, gli strumenti posti in essere al fine di sterilizzare il rischio di espansione della crisi al gruppo nel suo complesso, (iii) ritengo che la lettura dei presupposti legittimanti l’assoggettamento della capogruppo ad una misura di risanamento o di liquidazione caratteristici della fattispecie gruppo bancario possa scostarsi con difficoltà da un sostanziale ancoraggio a serie carenze di una capogruppo sul piano del ruolo che l’ordinamento le attribuisce: il modo in cui lo stesso viene assolto è in stretta correlazione con la salvaguardia della stabilità del gruppo.

97 Si vedano le Nuove disposizioni, cit., tit. I, cap. 1, parte IV, cit. par. 3; principio che trova conferme anche in altri profili come ad esempio quello della “funzione di conformità”. 98 Per un sintetico ed aggiornato inquadramento si veda da ultimo Righini, Responsabilità della capogruppo e tutela dei possessori di warrants azionari (nota a Trib. Milano, 13 febbraio 2008), in Giur. comm., 2009, II, 773 ss., in part. 777 ss.; alcune considerazioni anche in Brozzetti, Assetti, cit., p. 233 ss.

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In tale ottica, le rilevanti inadempienze all’attività di direzione e coordinamento (di cui agli artt. 98, co. 2, lett. a, e 99, co. 2) si pongono di certo in rapporto diretto con la veste di referente della Banca d’Italia proprio del vertice di un gruppo bancario e funzionale alle esigenze del controllo pubblico sul mercato finanziario. Ma anche l’altro presupposto, di cui all’art. 98, co. 2, lett. b), presume disfunzioni nell’organizzazione a gruppo di una delle imprese a questo appartenenti, il cui assoggettamento ad una procedura concorsuale o di gestione coattiva coniugato con gravi ricadute sull’equilibrio (e quindi sulla stabilità) del gruppo non può non rappresentare il sintomo o l’effetto di una amministrazione imprenditorialmente scorretta che la capogruppo “controllante” può aver determinato oppure non è riuscita a prevenire. Non a caso ogni qual volta si affaccia il pericolo di una crisi diffusa potenzialmente idonea a compromettere la stabilità del gruppo, qualsiasi origine essa abbia, il legislatore fa scattare la forza attrattiva della disciplina propria delle banche rispetto alle componenti non creditizie, e si preoccupa di precostituire gli strumenti idonei a consentire una gestione unitaria della crisi stessa da parte dei commissari insediati presso la capogruppo e sotto la cabina di regia delle autorità creditizie. Poco dopo l’emanazione di quelle norme si osservava che la capogruppo in effetti potesse essere ritenuta «responsabile, almeno in termini oggettivi dell’equilibrio finanziario e gestionale del gruppo» 99. Si sottolineava altresì come un «giudizio di inadeguatezza degli organi di gestione della capogruppo» accomuni i presupposti tipizzanti l’amministrazione straordinaria della medesima 100. Anche all’interno delle società non bancarie del gruppo, il discrimine tra applicazione della procedura amministrativa al posto o in sostituzione di quella giurisdizionale ruota intorno alla salvaguardia della stabilità del gruppo nel suo complesso, la quale rischia di essere compromessa se non si attuano misure frenanti gli effetti domino caratterizzanti in generale le crisi bancarie 101. Solo se non ci sono ripercussioni sull’equilibrio di gruppo le vicende delle società non bancarie controllate

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Costi, L’ordinamento 2, cit., p. 713 (nella IV ed. cfr. p. 841). Martorano, L’amministrazione straordinaria della capogruppo, in La crisi, cit. a nt. 33, p. 61 ss., in part. p. 67. 101 Giustamente si osserva come è la “trasmissione” dei «germi della crisi» tra le componenti del gruppo che può “compromettere” «la stessa stabilità del gruppo»: Maffei Alberti, Piras, La crisi dei gruppi bancari, in Diritto della banca e del mercato finanziario 2, vol. I, I soggetti, Bologna, 2003, p. 304 ss., cit. p. 305. 100

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vengono lasciate all’interno del diritto comune e fallimentare; è solo in tal caso che la crisi può davvero ritenersi un fatto non proprio della capogruppo. Le norme dedicate alla crisi del gruppo bancario creano una particolare interconnessione tra salvaguardia della stabilità del gruppo cui (indirettamente) deve tendere l’attività di direzione e coordinamento della capogruppo e lo stato di compromissione dell’equilibrio finanziario o gestionale del gruppo 102, e fanno emergere a forza l’intento di ricondurre interamente sotto la lente e la cura delle autorità creditizie lo svolgimento delle misure di rigore necessarie, valorizzando così la salvaguardia degli interessi cui la vigilanza da parte delle medesime è destinata. Autorità che nel tempo hanno ritenuto indispensabile ampliare di contenuti il “controllo strategico” attribuito sin dalle origini alla capogruppo (cfr. il § 6.1.2) e rivolto proprio al mantenimento delle condizioni di “equilibrio economico, finanziario e patrimoniale” sia delle singole società del gruppo sia del gruppo nel suo insieme. In definitiva, mi pare che, se si tiene presente la nuova temperie in cui la disciplina sulla crisi del gruppo bancario è inserita, caratterizzata dal riconoscimento della possibilità di perseguire un interesse di gruppo anche sul piano civilistico nonché da un cospicuo rafforzamento del ruolo direttivo della capogruppo per le finalità di vigilanza,

102 V’è chi postula «l’identificazione dell’equilibrio finanziario e gestionale con la stabilità del gruppo»: L. Desiderio, Sub art. 98, in Commentario, cit. a nt. 14, p. 780 ss., cit. p. 783. Sul tema ricchi ed articolati riferimenti bibliografici in Sandulli, Valensise, sub art. 98, cit., p. 1686 ss., che evidenziano però il carattere non sanzionatorio della procedura. Di recente, i presupposti speciali tipici della crisi del gruppo sono stati ritenuti «in realtà molto diversi tra loro», in considerazione del fatto che una situazione di crisi diffusa è «per definizione esterna alla capogruppo», da Regoli, Dettoni, Disposizioni sul risanamento e sulla liquidazione nel gruppo assicurativo (artt. 275-282), in Commentario al codice delle assicurazioni. Decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, a cura di Bin, Padova, 2006, p. 749 ss., p. 758; la categoricità dell’affermazione non sembra però conciliabile con il rilievo (a p. 759) del necessario “nesso causale” tra il presupposto della crisi di una componente e la conseguente ripercussione sulla stabilità del gruppo – di cui all’art. 275 del codice delle assicurazioni (che riprende l’art. 98, co. 2, lett. b) –, giustificato con il fatto che il codice (al pari del t.u.b.) fa salve le procedure proprie delle singole componenti il gruppo nel caso in cui da quella crisi non scaturiscano effetti rilevanti sul gruppo. L’assenza di gravi ricadute immediate di tali procedure sull’equilibrio di gruppo determina l’indifferenza delle norme verso la posizione e il ruolo della capogruppo, ma non altrettanto può dirsi nel caso inverso in cui la capogruppo viene assoggettata ad amministrazione straordinaria. La questione non è comunque lineare, come già segnalato nel § 3.

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si possa trarre dalle norme anche una responsabilità di quest’ultima sul piano soggettivo. Una lettura più “moderna” dell’art. 98 potrebbe allora essere quella secondo cui la scelta normativa di assoggettare in caso di crisi diffusa la capogruppo ad amministrazione straordinaria si giustifica con la presenza di un malfunzionamento del potere di direzione e di coordinamento che pur non ritenuto “grave” 103 (altrimenti si rientrerebbe nell’ambito dell’altro presupposto) abbia determinato pericolose disfunzioni sul piano organizzativo o finanziario del gruppo, ritenute sanabili mediante un intervento correttivo, diciamo in seconda battuta, che muova proprio dal vertice del gruppo. D’altro canto, stante il presupposto della forte coesione che deve legare le società ad esso appartenenti per le finalità della vigilanza (così come condizionate dall’evolversi dei tempi), l’innesco di gravi ripercussioni sulla stabilità del gruppo derivanti da una crisi periferica contiene già in sé la prova quanto meno dell’incapacità e dell’inefficienza dell’attività direttiva della capogruppo. La procedura aperta presso la società del gruppo interromperebbe il filo che lega la capogruppo alle sue controllate anche a fini di vigilanza, impedendo così interventi volti ad arginare e sanare gli effetti diffusivi della crisi. L’assoggettamento della capogruppo ad amministrazione straordinaria diventa così lo strumento sia per rimediare alla “inadeguatezza” della stessa, sia per consentire il ripristino di quel legame in un contesto nuovo e al fine di attivare tutti gli strumenti idonei a risolvere lo stato di crisi in cui versa il gruppo bancario. Quanto detto, ad avviso di chi scrive, porterebbe anche a mettere in discussione la completa assenza di un disegno sanzionatorio nella sostituzione degli organi di gestione ordinaria di una

103 Del resto, come già accennato, la mancata individuazione sul piano normativo di standard di riferimento che identifichino il concetto di “gravità”, può attribuire sufficiente flessibilità anche all’interpretazione delle norme.

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capogruppo che non abbia saputo adempiere al ruolo che la legge le attribuisce 104.

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104 Non sembrerebbe quindi più aderente alla realtà del fatto regolato la Relazione illustrativa all’art. 32 del d.lgs. 356/1990, la quale, con riferimento all’assoggettamento della capogruppo ad amministrazione straordinaria in presenza del pericolo di una crisi diffusa, afferma: «In questa fattispecie la capogruppo non è direttamente interessata dai fattori di crisi rappresentati dalle irregolarità o dalle perdite patrimoniali. L’apertura della gestione straordinaria presso [la stessa] si giustifica con l’esigenza di far fronte ad una crisi che origini dalla periferia del gruppo e sia suscettibile di investire il gruppo nel suo complesso, attraverso l’insediamento di organi straordinari presso il centro del conglomerato dal quale è possibile esercitare la direzione del gruppo, e quindi, porre in essere le iniziative più efficaci in vista del superamento delle sue difficoltà. Ciò risulta coerente con la natura non sanzionatoria della procedura di gestione straordinaria, che assume invece carattere cautelare rispetto alle esigenze di tutela della funzionalità e della stabilità del gruppo creditizio». In senso conforme anche M. Parrella, Le crisi, cit., p. 605, secondo cui l’assoggettamento della capogruppo ad amministrazione straordinaria in presenza di “crisi diffusa” risponderebbe ad un intento sanzionatorio che va ad aggiungersi al profilo cautelare della medesima (si veda anche quanto osservato supra nota 41). Va però sottolineato che in dottrina (cfr. anche nota 102) e giurisprudenza è dominante l’idea della natura non sanzionatoria di tale procedura: si rinvia a Maimeri, La crisi, cit., p. 163 ss. ove diffusi riferimenti.

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Le mobili frontiere della disciplina antiriciclaggio* Sommario: 1. La riforma della disciplina italiana antiriciclaggio recata dal d.lgs. n. 231/2007 e l’opzione sottesa a favore di vincoli sempre più stringenti. – 2. Il revirement: verso un allentamento delle regole? – 3. Dal decreto correttivo al c.d. «scudo fiscale»: nella direzione di una maggiore “polifunzionalità” della normativa antiriciclaggio? – 4. (Segue) Le difficoltà applicative conseguenti ad un uso ultroneo delle prescrizioni e i dubbi sul piano dei risultati.

1. La riforma della disciplina italiana antiriciclaggio recata dal d.lgs. n. 231/2007 e l’opzione sottesa a favore di vincoli sempre più stringenti. È opinione ricorrente (e condivisibile) che la disciplina italiana c.d. antiriciclaggio sia da sempre una delle più avanzate a livello mondiale. Ne costituisce una riprova indiretta, tra le altre, la circostanza che nel corso degli anni, quando si è posta la necessità di recepire le diverse direttive comunitarie che si sono susseguite in materia, il nostro ordinamento giuridico o aveva addirittura già anticipato le prescrizioni sovranazionali o, al più, ha necessitato soltanto di modeste integrazioni, al punto che il recepimento stesso ha costituito per la verità soprattutto l’occasione per adeguamenti ispirati all’esperienza applicativa fino a quel momento maturata . Come a tutti noto, verso la fine del 2007 – cogliendo ancora una volta lo spunto dalla necessità di dare attuazione a direttive dell’Unione Europea – l’assetto complessivo delle disposizioni in materia è stato aggiornato nel suo insieme a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 21 no-

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Il presente contributo è destinato agli Scritti in onore di Francesco Capriglione. Per il caso esemplificativo del d.lgs. 26 maggio 1997, n. 153, di recepimento della direttiva n. 91/308/CEE, Urbani, Forme di tutela del cliente, in L’ordinamento finanziario italiano, a cura di Capriglione, Padova, 2005, p. 330. 1

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vembre 2007, n. 231, che ha sostituto per intero la precedente disciplina riveniente, almeno nei suoi tratti fondamentali, dal d.lgs. 3 maggio 1991, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla l. 5 luglio 1991, n. 197, usualmente citata come «legge antiriciclaggio». Certo non si è trattato, ancora, del varo del tanto auspicato testo unico in materia, per l’approvazione del quale si sono purtroppo lasciati spirare senza costrutto, a più riprese, i termini assegnati da leggi delega orientate in tale direzione , ma è evidente come il decreto legislativo di riforma abbia comunque proceduto ad una opportuna opera di razionalizzazione e di riordino degli svariati interventi normativi che, negli anni, si erano venuti sovrapponendo l’uno sull’altro non sempre secondo un disegno coerente ed organico. Non è questa la sede per analizzare, nemmeno nei tratti essenziali, i contenuti della riforma in questione . In termini generali, possiamo qui limitarci soltanto ad evidenziare come l’impianto generale approntato a suo tempo dalla legge del 1991 e costruito sui tre “pilastri” fondamentali della c.d. canalizzazione delle operazioni, degli obblighi di identificazione e di registrazione e degli obblighi di segnalazione delle operazioni sospette sia stato confermato dalla novella, pur se con le innovazioni derivanti, da un lato, dalla considerazione autonoma degli obblighi di identificazione – sussunti in quelli di «adeguata verifica della clientela» – rispetto a quelli di registrazione, dall’altro, dal diverso ordine espositivo degli adempimenti in questione . Ciò non significa, naturalmente, che non manchino anche importanti profili di novità, a partire da un approccio che, tenendo conto del criterio di proporzionalità enunciato in modo esplicito dall’art. 3, co. 3, gradua le prescrizioni in ragione del rischio di riciclaggio sotteso alla singola posizione , senza contare, dal diverso punto di vista dell’assetto istituzionale delle Autorità, l’intervenuta

Sul punto sia consentito rinviare ancora ad Urbani, Disciplina antiriciclaggio e ordinamento del credito, Padova, 2005, p. 50 ss. e p. 281 ss. Per un primo esame complessivo del d.lgs. n. 231/2007 v., per tutti, Razzante, Commentario alle nuove norme contro il riciclaggio, Padova, 2008. Cfr., nell’ordine, gli artt. 1, 2 e 3 della l. n. 197/1991. Sul cui possibile significato cfr. Urbani, Nota introduttiva al d.lgs. n. 231/2007, in Commentario breve al diritto delle cambiali, degli assegni e di altri strumenti di credito e mezzi di pagamento4, a cura di Salamone e Spada (già Pellizzi e Partesotti), Padova, 2008, p. 842. In argomento, v. Fratangelo, L’approccio basato sul rischio nella normativa antiriciclaggio, in Banc., 2009, n. 2, p. 70 ss.; Petrillo, La prevenzione e il contrasto al riciclaggio: da una gestione passiva a una gestione attiva degli adempimenti, sulla stessa Rivista, 2009, n. 5, p. 74 ss.

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Alberto Urbani

soppressione dell’Ufficio Italiano dei Cambi (UIC) e l’attribuzione delle relative competenze all’Unità di Informazione Finanziaria (UIF), neocostituita presso la Banca d’Italia . Come si è detto, tuttavia, nel complesso l’armamentario giuridico approntato sin dai primi anni Novanta per il contrasto di questa tipica manifestazione dell’economia criminale è stato ampiamente confermato. Per il prosieguo delle nostre riflessioni merita peraltro di essere evidenziato soltanto un ulteriore punto specifico della riforma in parola. Nella disciplina previgente quando, per l’insorgenza di determinati obblighi, era stabilita una soglia quantitativa minima di rilevanza, questa era stata fissata in modo uniforme dapprima in venti milioni di lire e poi, in seguito all’adozione dell’euro quale divisa nazionale, in 12.500 euro ; con il d.lgs. n. 231/2007, invece, tale uniformità è venuta meno: infatti, prima delle repentine modifiche di cui diremo tra breve, nel testo originario del provvedimento modificativo, per un verso, gli obblighi di registrazione intervenivano qualora l’operazione da annotare fosse di importo maggiore di 15.000 euro, con un innalzamento dunque rispetto ai precedenti 12.500 euro, dall’altro, però, si assisteva ad una drastica riduzione del limite di rilevanza ai fini dell’obbligo di c.d. canalizzazione delle operazioni, portato a soltanto 5.000 euro. Se si considera che i vincoli riguardanti le limitazioni all’uso del contante e dei titoli al portatore, stante la loro applicabilità generalizzata, incidono direttamente sui comportamenti di chiunque si trovi a trasferire somme di importo rilevante, mentre gli obblighi di registrazione gravano soltanto su talune categorie di soggetti individuate dalla normativa in questione, appare ragionevole osservare che, da questo punto di vista, la novella del 2007 ha (meglio: aveva) reso dunque sensibilmente più stringenti i controlli ordinamentali sulla circolazione della ricchezza. Tale impressione, del resto, sembra trovare conferma in più punti del decreto, come ad esempio nelle nuove disposizioni concernenti gli assegni: si pensi soltanto alla previsione ora introdotta che impone il rilascio di moduli già muniti della clausola di non trasferibilità, salvo il diritto del cliente di chiedere il rilascio di moduli in forma libera ma pagando,

V., rispettivamente, gli artt. 62 e 6 del d.lgs. n. 231/2007. Per una critica, oggi superata, all’iniziale mancato arrotondamento della soglia di legge, che aveva portato all’applicazione alla regola generale di conversione così fissando il limite a 10.329,14 euro, con evidenti difficoltà di memorizzazione e dunque di rispetto da parte della collettività, v. Partesotti, Lezioni sui titoli di credito4, Bologna, 2001, p. 158.

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Saggi

in questo secondo caso, la somma di 1,50 euro per ciascun modulo: cfr. art. 49, co. 4 e 10, d.lgs. n. 231/2007 ; parimenti, i primi commenti al decreto hanno da subito evidenziato una semplificazione del “percorso” giuridico richiesto al soggetto tenuto a segnalare operazioni sospette di riciclaggio, nell’evidente intento di incrementare le segnalazioni, nel numero ma ancor più nella qualità 10.

2. Il revirement: verso un allentamento delle regole? Se è vero, come poc’anzi ricordato, che il d.lgs. n. 231/2007, pur semplificando il quadro delle disposizioni che disciplinano il contrasto del riciclaggio, in senso tecnico non costituisce ancora l’auspicato testo unico della materia e pertanto non rappresenta ancora il punto d’approdo di una sua sistemazione organica, è ciò nondimeno significativo che a poco più di diciotto mesi dalla sua piena entrata in vigore 11 tale provvedimento abbia già subìto numerose modifiche. Orbene, taluni di questi interventi erano ampiamente previsti o comunque prevedibili, come nel caso del recentissimo d.lgs. 25 settembre 2009, n. 151, frutto della facoltà data al Governo dall’art. 1, co. 5, della l. 25 gennaio 2006, n. 29, legge comunitaria per il 2005 12, di dettare disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi emanati nell’esercizio delle deleghe conferite dalla stessa legge. In altri casi, però, tali modificazioni conseguono a scelte derivanti viceversa esclusivamente dalle diverse valutazioni compiute dal nuovo Esecutivo insediatosi a seguito dell’avvio della XVI legislatura. Ciò vale, in particolar modo, per il d.l. 25 giugno 2008, n. 112, approvato a brevissima distanza dall’insediamento del nuovo Governo e convertito,

Sulle novità in materia di assegni recate dalla riforma, v. Briolini, La nuova disciplina degli assegni dopo il decreto antiriciclaggio (d.lgs. 231/2007), in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, p. 391 ss.; Bassi, Questioni in tema di assegni non trasferibili per effetto della disciplina “antiriciclaggio”, ivi, 2008, I, p. 538 ss. 10 In argomento, si vedano le puntuali osservazioni di Morera, Sul sospetto di riciclaggio e sull’obbligo di segnalazione: un cambio di prospettiva significativo, in Banc., 2009, n. 1, p. 69 ss. 11 Ricordiamo infatti che, ai sensi dell’art. 64 del d.lgs. n. 231/2007, fatta eccezione per alcune disposizioni entrate immediatamente in vigore il 29 dicembre 2007, la previgente disciplina antiriciclaggio è stata per lo più abrogata con decorrenza dal 30 aprile 2008. 12 Trattasi – si ricorda – della stessa legge che, all’art. 22 – con il pendant dell’art. 21 – conteneva la delega che avrebbe portato all’emanazione del d.lgs. n. 231/2007.

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con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2008, n. 133. Per quanto ora qui più interessa, l’art. 32 del decreto-legge ha modificato l’art. 49 del d.lgs. n. 231/2007 appena entrato in vigore, riportando la soglia oltre la quale si applicano le limitazioni all’uso dei contanti e dei titoli al portatore dai 5.000 euro, cui si è poc’anzi accennato, ai precedenti 12.500 euro; se si considera che questa decisione si accompagna ad una analoga riguardante il saldo dei libretti bancari o postali al portatore nonché alla soppressione dell’obbligo di integrare la girata apposta sull’assegno con l’indicazione del codice fiscale del girante, se ne ricava l’impressione di un vero e proprio revirement del legislatore delegato, in base all’assunto – implicito, ma evidente – della eccessiva rigorosità del limite d’importo introdotto dalla riforma del 2007 in rapporto ai benefici attesi sul piano del contrasto dell’economia criminale 13. Sennonché, se è vero che una rondine non fa primavera, è altrettanto certo che una foglia che cade non fa autunno. Fuor di metafora, se anche deve registrarsi l’obbiettiva infelicità della scelta legislativa di attenuare le disposizioni antiriciclaggio nel contesto di un provvedimento recante «disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», sarebbe ad ogni modo affrettato guardare soltanto al d.l. n. 112/2008 per concludere, per ciò stesso, che, a livello normativo, nel nostro paese si sarebbe in poco tempo affermata la tendenza al “contenimento” delle prescrizioni antiriciclaggio, asseritamente considerate un possibile ostacolo al libero dispiegarsi dell’economia sana: un giudizio compiuto e sereno è possibile soltanto guardando all’insieme delle misure che modificano, in via diretta o quale conseguenza indiretta, l’assetto e la funzionalità complessiva dell’insieme di regole dettate per il contrasto del riciclaggio del denaro “sporco”. In siffatta prospettiva, indicazioni di segno opposto sembrano provenire in effetti dal già ricordato ultimo d.lgs. 25 settembre 2009, n. 151, nel momento in cui ad esempio modifica l’art. 14 del d.lgs. n. 231/2007 estendendone l’applicazione anche a qualsivoglia «offerta di giochi, scommesse o concorsi pronostici con vincite in denaro» (art. 7, d.lgs. n. 151/2009) e non più invece, come in passato, soltanto alla case da gioco, eventualmente anche on line. Non mancano tuttavia nello stesso provvedimento, di nuovo ed in parallelo, anche misure che viceversa

13 Sul punto, cfr. Urbani, Postilla di aggiornamento ex d.l. n. 112/2008, in Commentario cit., s.p.

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riducono ancora una volta la portata applicativa delle prescrizioni antiriciclaggio: il riferimento è al rilevante disposto dell’art. 6 del recente decreto, che aggiunge un co. 3-bis all’art. 12 del d.lgs. n. 231/2007 in base al quale «I componenti degli organi di controllo, comunque denominati, per quanto disciplinato dal presente decreto e fermo restando il rispetto del disposto di cui all’articolo 52, sono esonerati dagli obblighi di cui al titolo II, capi I, II e III». In tal caso, però, la ratio sottesa all’intervento limitativo in parola pare doversi ravvisare non tanto in un autonomo ripensamento del nuovo Esecutivo in chiave riduttiva dei vincoli preesistenti, quanto piuttosto nell’intento specifico di ovviare ad un effetto indiretto della disciplina antiriciclaggio possibile già in seguito alle modifiche introdotte con il d.lgs. n. 56/2004, effetto sicuramente trascurato e non voluto dai riformatori dell’epoca: nel momento in cui, infatti, gli obblighi di collaborazione vennero estesi, tra gli altri, anche ai c.d. professionisti contabili (rectius: ai «soggetti iscritti nell’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e nell’albo dei consulenti del lavoro», oltre che nell’albo dei consulenti del lavoro, secondo la nuova formulazione dell’art. 12, co. 1, lett. a), del d.lgs. n. 231/2007, come modificato dall’art. 6, lett. a), del d.lgs. n. 151/2009) 14, sorgeva il timore che diverse società – prime tra tutte proprio quelle intenzionate ad occultare pratiche di riciclaggio – potessero optare – pur ovviamente nei limiti loro consentiti dalle disposizioni vigenti 15 – per la nomina di componenti degli organi di controllo non appartenenti a categorie tenute a specifici adempimenti in materia, specie con riguardo alla segnalazione di operazioni sospette. La recente modifica intende dunque evitare in radice questa possibile scelta “al ribasso”, con ciò peraltro senza attenuare (almeno con riguardo alla magna pars dei «destinatari» del d.lgs. n. 231/2007) i controlli interni in funzione antiriciclaggio, come attesta l’esplicita salvezza del disposto dell’art. 52, il cui primo comma fa carico agli organi di controllo interno e di gestione, comunque denominati, di «vigila[re] sull’osservanza delle norme in esso contenute».

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Come ricorda la Relazione illustrativa alla bozza di quello che sarebbe diventato il d.lgs. n. 151/2009, la rettifica consegue all’intervenuta confluenza dei dottori commercialisti e dei ragionieri e periti commerciali nel nuovo unico albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili, secondo quanto previsto dal d.lgs. 28 giugno 2005, n. 139. 15 Cfr. ad es., per la società per azioni, l’art. 2397 c.c., valevole anche per la società in accomandita per azioni in forza dell’art. 2454, per la società a responsabilità limitata per effetto del rinvio di cui all’art. 2477, co. 4, c.c. e per la società cooperativa ex artt. 2519 e 2543 c.c.

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3. Dal decreto correttivo al c.d. «scudo fiscale»: nella direzione di una maggiore “polifunzionalità” della normativa antiriciclaggio? Al tempo stesso, nel corso degli ultimi mesi le cronache hanno riferito di un rinnovato, convergente e massiccio impegno delle pubbliche autorità teso all’emersione dei capitali detenuti da soggetti residenti in Italia presso banche operanti fuori i confini nazionali, soprattutto in quei paesi considerati, per varie ragioni, più attenti nel garantire effettività di tutela al segreto bancario. Si è letto così, ad esempio, di un raggiunto accordo con la Repubblica di San Marino in materia di cooperazione economica e di trattative in corso per la conclusione di un accordo di collaborazione finanziaria 16 nonché di indagini giudiziarie su presunti coinvolgimenti di banche locali in attività di riciclaggio accompagnate da provvedimenti di rigore delle autorità creditizie italiane nei confronti di controllate di casa nostra 17, ovvero, su un altro fronte, di controlli a tappeto condotti dalla Guardia di Finanza presso le filiali in Italia di banche svizzere 18, che hanno anche portato a formali proteste diplomatiche da parte delle autorità elvetiche 19.

16 Trattasi, per la precisione, dell’Accordo italo-sammarinese in materia di cooperazione economica, firmato il 31 marzo 2009 e dal contenuto assai ampio e diversificato (il testo è reperibile sul sito www.libertas.sm), il cui art. 1 prevede impegni reciproci di collaborazione finanziaria, rinviando peraltro sul punto specifico ad un separato accordo, che si annunciava immediato (come si evince dal Comunicato diramato dal ministero degli affari esteri in data 1 aprile 2009, in www.esteri.it) ma che in realtà al momento non risulta ancora stipulato. 17 Ci si riferisce, in particolar modo, alla vicenda che ha visto coinvolti i vertici della Cassa di Risparmio della Repubblica di San Marino, nonché di società fiduciarie e finanziarie a questa collegate: per informazioni di stampa v., per tutti, Elli, Delta (Cassa San Marino), arrestati cinque manager, in Il Sole 24 ore, 5 maggio 2009, p. 42; in Italia, la vicenda ha avuto tra gli altri effetti l’adozione dei provvedimenti di gestione provvisoria, prima, e di amministrazione straordinaria, poi, nei confronti di Delta S.p.A., holding finanziaria controllata dalla medesima Cassa, nonché di SediciBanca, S.p.A. avente a sua volta Delta come unico azionista: cfr. d.m. 27 maggio 2009, in Gazz. Uff. 3 agosto 2009, n. 178, e Comunicato stampa della Banca d’Italia in data 29 maggio 2009. 18 Cfr. ad esempio quanto riportato da Sensini, Controlli a tappeto degli 007 del fisco nelle banche svizzere, in Il corriere della sera, 28 ottobre 2008, p. 20; Crescione, Blitz del Fisco in oltre 70 banche, in Il Sole 24 ore, 28 ottobre 2009, p. 7, il quale riferisce anche di analoghe contemporanee verifiche presso sportelli bancari nei dintorni della Repubblica di San Marino. 19 Terlizzi - Marroni, La Svizzera protesta: una «razzia» nelle banche, in Il Sole 24 ore, 29 ottobre 2009, p. 5.

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Dal punto di vista degli strumenti giuridici utilizzati, non pare dubbio che con riguardo almeno ad alcune di tali iniziative, il nostro ordinamento ha fatto leva sul disposto dell’art. 36, co. 6, del d.lgs. n. 231/2007 – norma peraltro riproduttiva del previgente art. 2, co. 4, ult. periodo, l. n. 197/1991 –, il quale prevede espressamente che «I dati e le informazioni registrate ai sensi delle norme di cui al presente Capo – ossia gli elementi ricavabili dagli archivi unici informatici approntati dagli operatori per adempiere ai prescritti obblighi di registrazione – sono utilizzabili a fini fiscali secondo le disposizioni vigenti». A ben guardare, si realizza però in tal modo una sorta di, almeno parziale, eterogenesi dei fini per i quali la normativa antiriciclaggio era stata a suo tempo pensata e concepita, dal momento che, sul piano applicativo e fattuale, l’attenzione delle autorità sembra posta sempre più spesso – è questo il punto – sulle possibili sinergie con il contrasto all’evasione fiscale piuttosto che sulla lotta al money laundering in senso stretto. Tale constatazione, ovviamente, non intende in alcun modo mettere in discussione il fermo potere-dovere dei Pubblici Uffici di repressione dei comportamenti fiscalmente riprovevoli; soltanto, come detto, si vogliono evidenziare i crescenti caratteri di polifunzionalità 20 che di tal modo finiscono per assumere gli strumenti antiriciclaggio, secondo una prassi evolutiva da un lato, per la verità, paventata da tempo dal ceto bancario (preoccupato per i possibili risvolti in termini di minore appetibilità dei propri servizi rispetto ad altri paesi, anche a noi vicini), dall’altro da sottoporre a valutazione in un’ottica più generale e sistematica, essendo ricorrente almeno nell’ambito dell’ordinamento finanziario l’opinione secondo la quale l’attuale assetto delle regole che disciplinano le attività del settore è improntato a caratteri di sostanziale tassatività teleologica 21. Il tema del rapporto tra contrasto del riciclaggio e lotta all’evasione fiscale si manifesta di grandissimo spessore e lascia intendere con chiarezza indubbi tratti sinergici tra le

20 In generale, sulla questione della possibile “polifunzionalità” dei poteri di vigilanza cfr. – ma prima delle radicali riforme dell’ordinamento finanziario realizzate nel nostro Paese soprattutto con il Testo unico bancario e con quello della finanza – Torchia, Il controllo pubblico della finanza privata, Padova, 1992, p. 261 ss.; in seguito, alla luce del t.u.b., v. invece i rilievi di Capriglione, L’ordinamento finanziario verso la neutralità, Padova, 1994, p. 123 ss. 21 In contrasto, ad esempio, con la ben nota “elasticità” della previgente legge bancaria. Sul punto, per tutti, si vedano le considerazioni di Capriglione, L’impresa bancaria tra controllo e autonomia, Milano, 1983, p. 51 ss.

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due azioni 22, ma proprio per tali ragioni sarebbe particolarmente opportuno un intervento legislativo di largo respiro e di chiarificazione anche sul piano sistematico, evitando al contrario soluzioni che, ancorché animate da nobili intenti, rischiano comunque di essere condizionate da mutevoli esigenze contingenti. In proposito, è bene forse evidenziare per inciso che il ricordato art. 36, co. 6, assume palesemente significato non tanto sul piano della repressione dei reati tributari (se così fosse, infatti, la norma risulterebbe inutile, dal momento che l’attuale configurazione dell’art. 648-bis c.p., che oggi individua i c.d. reati presupposto in qualunque «delitto non colposo», già consente di intervenire in questa direzione 23), né per legittimare il libero accesso con mere finalità di accertamento ai dati registrati negli archivi unici informatici, bensì, secondo la ricostruzione che appare preferibile 24, per condizionare al rispetto delle «disposizioni vigenti» – si pensi ai diritti e alle garanzie del contribuente ai sensi dell’art. 12 della l. 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente – l’utilizzabilità di tali informazioni nell’ambito dei procedimenti finalizzati all’accertamento delle imposte.

4. (Segue) Le difficoltà applicative conseguenti ad un uso ultroneo delle prescrizioni e il dubbio sul piano dei risultati. Le iniziative nel campo dell’emersione dei capitali detenuti all’estero cui si è poc’anzi accennato sono state assunte pressoché in contemporanea con l’adozione delle misure legislative concernenti il c.d. «scudo fiscale». Invero, il convincimento piuttosto diffuso che la rinnovata at-

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Significative, in proposito, le parole delle Istruzioni operative per la segnalazione di operazioni sospette (c.d. “Decalogo”), provv. del Governatore della Banca d’Italia del 12 gennaio 2001, Introduzione, par. 1: «Le violazioni delle norme tributarie sono strumento utilizzato per precostituire fondi di provenienza illecita da reinserire nel circuito economico ovvero possono rappresentare una delle manifestazioni di più articolate condotte criminose volte a immettere in attività economiche apparentemente lecite disponibilità derivanti da altri illeciti. Operazioni connesse a condotte che non costituiscono delitto sotto il profilo fiscale possono comunque costituire strumento per occultare attività criminose di altra natura». 23 Cfr. ancora Istruzioni operative cit., ibidem. 24 Si vedano in proposito le puntuali riflessioni di Buratti, I rapporti tra evasione fiscale e riciclaggio: profili di contiguità sostanziale e procedurale, in Normativa antiriciclaggio e segnalazione di operazioni sospette, a cura di Cappa e Morera, Bologna, 2008, p. 196 ss. e partic. p. 201 ss.

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tenzione per il primo profilo possa svolgere un ruolo prodromico e funzionale al buon successo dello «scudo» – per quanto naturalmente non suffragabile sul piano giuridico-formale – è forse assai più che una congettura. Rimanendo tuttavia aderenti al dato normativo, è lo stesso legislatore che dimostra di avere ben presenti i punti di contatto tra la disciplina antiriciclaggio e il recente provvedimento tributario, affrontando ex professo la delicata questione ma scegliendo di non incidere direttamente sul testo del d.lgs. n. 231/2007 antiriciclaggio. Come noto, infatti, in proposito l’art. 13-bis, co. 3, del d.l. 1 luglio 2009, n. 78, all’esito della conversione avvenuta mediante la l. 3 agosto 2009, n. 102, precisa che «Il rimpatrio ovvero la regolarizzazione […] non comporta l’obbligo di segnalazione di cui all’art. 41 del decreto legislativo…, relativamente ai rimpatri ovvero alle regolarizzazioni per i quali si determinino gli effetti di cui al comma 4, secondo periodo». Sul punto si è pronunciata anche una circolare dell’Agenzia delle entrate, la quale ha «fa[tto] presente che le operazioni di rimpatrio e di regolarizzazione non costituiscono di per sé elemento sufficiente ai fini della valutazione dei profili di sospetto per la predetta segnalazione, ferma rimanendo la valutazione degli altri elementi previsti dall’articolo 41 del medesimo decreto legislativo n. 231 del 2007» 25. In argomento, si avverte tangibilmente l’obbiettiva difficoltà dell’Agenzia di fornire chiarimenti in ordine ai rapporti tra gli artt. 36, co. 6, e 41 del d.lgs. n. 231/2007, da un lato, e l’art. 13-bis, co. 3, del d.l. n. 78/2009, dall’altro. In effetti, le recenti misure sembrano porre il nostro ordinamento tra due fuochi: da una parte, se si opina che il rimpatrio dei capitali mediante ricorso allo «scudo» lascia impregiudicato il dovere della banca di segnalare ogni operazione sospetta di riciclaggio, le misure in discorso rischiano di apparire poco appetibili e dunque di non sortire i risultati attesi, tant’è che l’art. 13-bis, co. 3, sembra evidentemente trovare la sua ragion d’essere proprio nell’intento di evitare una simile lettura; all’opposto, però, se si ritiene che la ripetuta disposizione si ponga come norma speciale di portata derogatoria rispetto all’art. 36, co. 6, d.lgs. n. 231/2007 26, si assiste nei fatti ben più che ad un allentamento delle ma-

25 Così la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 43/E del 10 ottobre 2009, Emersione di attività detenute all’estero. Articolo 13-bis del decreto legge 1 luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e successive modificazioni, par. 9. 26 È l’opinione espressa da Piazza, Scudo fiscale ai nodi operativi, in Il Sole 24 ore, 13 novembre 2009, p. 36.

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glie dei controlli in funzione antiriciclaggio, con esiti a dir poco discutibili in una materia che come noto trova proprio nel costante, rigoroso ed uniforme piano di supervisione sulla circolazione della ricchezza uno dei suoi punti di forza più qualificanti. Per vero, la circolare in parola non sembra porsi in posizione neutrale tra le due cennate possibili interpretazioni della novella sullo «scudo», aggiungendo – rispetto al testo dell’art. 13-bis, co. 3, cit. – l’inciso «di per sé», che lascia intendere di presupporre la piena vigenza dell’obbligo per gli intermediari di segnalare eventuali operazioni sospette. In altre parole, l’Erario parrebbe voler così precisare che non può prospettarsi una sorta di presunzione di “sporcizia” del denaro rientrato, invitando ad una attenta valutazione caso per caso da condursi alla luce dei consueti canoni comportamentali prescritti dall’art. 41 del d.lgs. n. 231/2007 27. D’altronde, la stessa scelta legislativa di lasciare formalmente inalterato il testo del “decreto antiriciclaggio” può forse spiegarsi anche con il fondato timore che, stante la matrice comunitaria della normativa di contrasto del money laundering ricordata in apertura, una sua ancorché temporanea “sospensione” avrebbe dato luogo a possibili censure di incompatibilità con i vincoli sovranazionali. Da questo ultimo punto di vista, dunque, persino un ipotetico intervento interpretativo autentico che allentasse gli obblighi di collaborazione attiva risulterebbe potenzialmente di dubbia legittimità 28. In realtà, le difficoltà interpretative ed applicative cui si è appena accennato sono assai frequenti e, in un certo senso, da mettere in conto quando disposizioni approntate a fini specifici vengono “piegate” al con-

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Nulla quaestio invece – una volta che la segnalazione di operazione sospetta sia stata inoltrata – in ordine ad un eventuale esame in corsia preferenziale da parte delle Pubbliche Autorità delle operazioni c.d. “scudate”, come parrebbe aver prospettato lo stesso Ministero dell’economia e delle finanze secondo quanto riferito da Iorio - Mobili, La GdF alza il tiro sul riciclaggio, in Il Sole 24 ore, 2 novembre 2009, p. 37: si tratterebbe infatti, in tal caso, di una mera scelta gestionale interna, rimessa alla libera valutazione degli Uffici. 28 Appare pertanto corretto, al contrario, l’auspicio autorevolmente formulato a livello istituzionale per un chiarimento sul piano normativo nel segno opposto della permanente operatività delle prescrizioni antiriciclaggio: «È opportuno un intervento interpretativo che, nell’ambito del cosiddetto scudo fiscale, dissipi ogni incertezza sugli obblighi di segnalazione di operazioni sospette da parte degli intermediari; che ribadisca la regolare applicazione della normativa antiriciclaggio» (così il Governatore della Banca d’Italia Draghi, in occasione del suo Intervento alla Giornata mondiale del risparmio del 2009, Roma, 29 ottobre 2009, p. 13 del dattiloscritto.

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temporaneo utilizzo per obbiettivi diversi. Sembrano non poter essere sottaciute, ancora una volta, le perplessità che discendono dal rilevare come, al verificarsi di un punto d’intersezione tra esigenze fiscali ed obbiettivi di contrasto del riciclaggio del denaro, le prime tendano nei fatti a prevalere sulle seconde: a prescindere da qualsiasi valutazione sul piano etico e pur rifuggendo da facili moralismi, appare ragionevole osservare che ci si trova di fronte ad un segnale di politica del diritto socialmente discutibile (potendo dare adito al convincimento che, in fondo, pressanti necessità di bilancio possono trovare soddisfazione tramite il ricorso a risorse sulla cui provenienza non mette conto di indagare con eccessiva attenzione) ma anche opinabile sul piano dei risultati (dal momento che i capitali a suo tempo generati in modo illecito ed ora reimmessi nell’economia legale nazionale alterano le condizioni di parità concorrenziale tra gli operatori economici a detrimento, non necessariamente soltanto nel medio-lungo termine, proprio di coloro che negli anni hanno mantenuto comportamenti virtuosi e corretti). Di certo, ed in conclusione, la rilevata mobilità delle frontiere della disciplina antiriciclaggio – alternativamente presidiate con rigore o rese di fatto meno difficilmente permeabili; sottoposte a sollecitazioni teleologiche ampliate ovvero concentrate sulla repressione dei soli fenomeni rilevanti sul piano penale – non può giovare alla certezza delle regole e dunque, in ultima istanza, anche alla tutela dell’economia “sana”, che era e resta l’obiettivo fondante dell’intero impianto degli strumenti di contrasto del money laundering.

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I Confidi nel sistema finanziario italiano * Sommario: 1. Premessa. – 2. Profili soggettivi, strutturali e operativi dei confidi. – 3. La riforma del 2003 e le tipologie soggettive di confidi. – 4. I confidi iscritti nell’apposita sezione dell’elenco generale ex art. 106 t.u.b. – 4.1 Ambito operativo e requisiti. – 4.2 Lo sviluppo dei confidi di secondo livello: i fondi interconsortili. – 5. I confidi iscritti nell’elenco speciale ex art. 107 t.u.b. – 5.1 I requisiti per l’iscrizione nell’elenco speciale. – 5.2 L’ambito operativo. – 5.3 La disciplina di vigilanza. – 6. Le banche confidi. – 7. Le regole prudenziali per i confidi ex art. 107 e per le banche confidi. – 7.1 Le regole sul patrimonio di vigilanza. – 7.2 I requisiti patrimoniali. – 8. Fusioni e trasformazioni dei confidi. – 9. I confidi e l’utilizzo di fondi pubblici. – 9.1 I fondi di garanzia per gli interventi a favore di piccole e medie imprese e di imprese artigiane. Le misure adottate a seguito della recente crisi finanziaria. – 9.2 Il fondo di garanzia per gli interventi a favore di imprese agricole e della pesca. – 9.3 I Fondi antiusura. – 10. Conclusioni.

1. Premessa. La recessione che ha interessato l’economia italiana negli ultimi anni, in parte determinata dalla crisi finanziaria internazionale, ha posto al centro dell’attenzione dei policy maker il problema del finanziamento delle piccole e medie imprese, che costituiscono la struttura portante del nostro sistema economico. In periodi di restrizione creditizia, accanto alla ricerca di modalità alternative di finanziamento da parte degli operatori, è preoccupazione dei responsabili della politica economica attivare strumenti e meccanismi idonei ad agevolare l’accesso al credito delle imprese. In tale direzione muovono le numerose iniziative, di natura pubblica e privata, per assicurare un adeguato flusso di credito all’economia. Tra le prime,

* Il presente lavoro è destinato agli Scritti in onore di Francesco Capriglione. Le opinioni espresse sono riferibili esclusivamente all’Autore e non impegnano l’Istituto di appartenenza.

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assumono rilievo le misure di ricapitalizzazione delle banche fondamentalmente sane (art. 12 del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni nella l. 28 gennaio 2009, n. 2), il rifinanziamento dei fondi di garanzia per i crediti alle piccole e medie imprese, l’ampliamento delle possibilità operative della Cassa Depositi e Prestiti per la costituzione, unitamente a banche e altri soggetti privati, di una Società di Gestione del Risparmio avente lo scopo di gestire un fondo comune destinato alla ricapitalizzazione delle PMI; tra le seconde, vanno annoverati, tra l’altro, gli stanziamenti autonomamente effettuati dalle banche e da altri soggetti finanziari per il sostegno creditizio e il riequilibrio finanziario delle PMI. In un sistema bancario che si caratterizza per la progressiva crescita dimensionale degli intermediari, le banche locali – e soprattutto le banche di credito cooperativo – hanno ampliato la propria sfera di azione verso i piccoli operatori economici, occupando gli spazi di mercato lasciati liberi dalle grandi banche impegnate in impegnativi e complessi processi di concentrazione e ristrutturazione. Ad esse si rivolgono le annunciate iniziative governative per la costituzione di una banca del Mezzogiorno, ritenuta uno strumento idoneo ad accrescere l’assistenza finanziaria all’economia meridionale, facendo leva, tra l’altro, sul ruolo e sulle connotazioni istituzionali e operative delle banche di credito cooperativo, sulla loro capillare presenza sul territorio e sulla loro capacità di stabilire relazioni più personalizzate e durature con le piccole e medie imprese. In questo scenario, significativo rilievo assumono i consorzi di garanzia collettiva dei fidi (confidi), nati alcuni decenni or sono con lo scopo di agevolare l’accesso al credito delle PMI, attraverso la concessione di garanzie collettive a favore delle banche finanziatrici. Il fenomeno dei confidi, dopo la sistemazione normativa operata con la riforma del 2003, rappresenta un ambito di approfondimento di sicuro interesse per la dottrina, giuridica ed economica, in relazione allo specifico contributo che detti soggetti possono dare allo sviluppo economico. Di recente, a conferma dell’importanza della materia, è intervenuto il disposto dell’art. 11 del d.l. n. 185/2008, che ha ribadito la funzione dei confidi quale strumento per lo sviluppo dei crediti alle PMI e alle imprese artigiane, attraverso il loro potenziamento finanziario e la previsione della garanzia statale di ultima istanza per i finanziamenti accordati a valere sul fondo di garanzia gestito dal Mediocredito Centrale.

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2. Profili soggettivi, strutturali e operativi dei confidi. Nell’ambito dei soggetti operanti nel settore finanziario un ruolo crescente vanno assumendo i confidi (consorzi di garanzia collettiva dei fidi), la cui disciplina e sistemazione organica nell’ordinamento finanziario è stata realizzata con la riforma operata dall’art. 13 della l. 24 novembre 2003, n. 326, che ha convertito, con modificazioni, il d.l. 30 settembre 2003, n. 269 (recante disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici). Prima della riforma i confidi non avevano una chiara collocazione nel nostro sistema normativo; nonostante la loro comparsa in Italia risalga agli anni Cinquanta e il considerevole sviluppo registrato nei decenni successivi, soprattutto nei periodi di crisi economica in cui più forte è l’esigenza del sostegno finanziario alle piccole e medie imprese, la figura dei confidi – come soggetto erogatore di garanzie di tipo mutualistico avente lo scopo di favorire l’accesso al credito dei piccoli operatori – tardava ad ottenere un preciso inquadramento nell’ordinamento della finanza. Il fenomeno, comunque, era da tempo oggetto di attenzione e di analisi da parte della dottrina, considerate le molteplici implicazioni che l’attività dei confidi presenta sotto i profili economico e giuridico . A parte alcuni indiretti riferimenti normativi contenuti in interventi legislativi degli anni Settanta, è negli anni Novanta che inizia il processo di riconoscimento normativo dei confidi sotto i profili sia della loro collocazione nell’ordinamento finanziario sia della operatività, per il ruolo di veicolo che detti soggetti venivano a svolgere nell’ambito degli interventi pubblici di sostegno a determinati settori di attività o a determinati soggetti in difficoltà economica (provvedimenti di sostegno a favore di

Vittoria, I consorzi fidi come strumenti di una politica di sostegno delle imprese minori, in Riv. Trim. dir. proc. civ., 1980; Masini, I Consorzi di garanzia fidi: una prospettiva di analisi gestionale, in Il Risparmio, 1985, Vol. 1; Cabras, Le garanzie collettive per i finanziamenti alle imprese, Milano, 1986; Mosco, Attuale disciplina e prospettive di evoluzione dei consorzi e delle cooperative di garanzia, in Giur. comm., I, 1994; Nafissi, Bilancio di esercizio dei confidi (Cooperative e Consorzi di Garanzia Collettive Fidi) ai sensi del d.lgs. 87/92, Fedartfidi, 1999; Ruozi, Anderloni, Preda, Rapporti sui Consorzi e sulle cooperative di garanzia collettiva fidi, Milano, 1986; Cacciamani, La situazione e le prospettive dei confidi attraverso l’analisi di bilancio, in Banc., 1999, n. 2; Bersani, confidi e congiuntura economica. Rilevazioni 1984-94, 1997; Comana, Gli organismi di garanzia collettiva dei fidi: un nuovo ruolo nel rapporto banca-impresa?, in Banche e Banc., 1991, n. 3, pp. 159-168; Cataldo, Il ruolo dei fondi di garanzia: riflessi sul sistema bancario, in Riv. Banc., 1996, n. 1.

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piccole e medie imprese, fondi antiusura). Si ricordano, sinteticamente: – la l. 197/1991 (art. 6) che, nel contesto di una disciplina mirante alla prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio, delinea una regolamentazione dei soggetti, definiti residuali, che operano nel mercato finanziario (in tale ambito, ai confidi veniva richiesto l’adempimento dei soli obblighi relativi alla limitazione dell’uso del contante e dei titoli al portatore, con esclusione delle disposizioni riguardanti gli obblighi di identificazione e registrazione nonché di segnalazione delle operazioni sospette) ; – gli artt. 29 e 30 (quest’ultimo successivamente soppresso) della l. 5 ottobre 1991, n. 317 (Interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese), che definisce l’attività dei consorzi e delle cooperative di garanzia collettiva fidi e le condizioni per l’ammissione ai benefici statali previsti dalla legge medesima; – il testo unico bancario (d.lgs. 1.9.1993, n. 385), che all’art. 155, co. 4, qualifica i consorzi di garanzia collettiva dei fidi come soggetti operanti nel sistema finanziario, imponendo loro, come unico obbligo, l’iscrizione in un’apposita sezione dell’elenco tenuto dall’UIC ai sensi dell’art. 106, co. 1, t.u.b.; – la l. 108/96, che individua i confidi come possibili beneficiari dei contributi statali per la prevenzione del fenomeno dell’usura; – i provvedimenti normativi che disciplinano l’erogazione di fondi pubblici anche a favore di soggetti abilitati a concedere cogaranzie e controgaranzie nell’ambito di operatività dei confidi.

Antonucci, Gli intermediari finanziari “residuali” dalla legge antiriciclaggio al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, in Rass. econ. 1994; Carriero, Disciplina e operatività degli intermediari finanziari, in Studi sugli intermediari finanziari non bancari, a cura di Rispoli Farina, Napoli, 1998; Perassi, Commento al d.l. n. 143/1991, convertito dalla l. n. 197/1991, in Nuove leggi civ., 1993; Clemente, Art. 106. Elenco generale, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova, 2001, p. 844 ss.; Cotterli, La disciplina degli intermediari finanziari nella legge n. 197 del 5 luglio 1991, in Banca, impresa soc., 1992; Portale, Normativa antiriciclaggio e finanziarie di gruppo, in Riv. Soc., 1992; Inzitari (a cura di), Commento alla legge 197 del 1991, in Nuove Leggi civ., 1993; Belviso, Gli “intermediari finanziari” (tra storia e nomenclatura), in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizio, a cura di Belli, Contento, Patroni Griffi, Porzio, Santoro, Bologna, 2003, p. 1785 ss.; Urbani, Art. 155. Soggetti operanti nel settore finanziario, in Commentario al testo unico, 2001, p. 1178 ss.; Cirasole, Gli intermediari Finanziari Residuali ex artt. 106 e 107 t.u.b., Milano, 2007.

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Come è stato rilevato , i confidi si presentavano come una realtà frammentata e composita, caratterizzata al proprio interno da aree di debolezza, soprattutto sotto il profilo organizzativo, che ha impedito di rispondere appieno alle aspettative degli associati e delle banche finanziatrici. Inoltre, la mancata inclusione dei confidi tra gli intermediari finanziari se, da un lato, ha avuto il positivo effetto del mancato assoggettamento a forme di vigilanza, dall’altro, ha rappresentato un limite allo sviluppo e alla diversificazione delle attività soprattutto da parte di quelle realtà più dinamiche e consolidate presenti nel comparto. Numerosi sono stati i tentativi di pervenire a una più organica regolamentazione del settore verso la fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Duemila, soprattutto a seguito della pubblicazione da parte del Comitato di Basilea, nel 2001, del documento concernente la revisione dell’Accordo sul capitale delle banche del 1988 , che aveva acceso un dibattito in merito alle preoccupazioni sui possibili effetti negativi sulle PMI derivanti dal nuovo quadro regolamentare. Gli esiti sono stati negativi, in relazione alla non chiara collocazione, nelle varie proposte legislative, della figura dei confidi nell’ambito dei soggetti finanziari e al loro assoggettamento ai controlli prudenziali previsti dal testo unico

Schena, Il ruolo prospettico dei confidi nel rapporto banca-impresa: mitigazione del rischio e supporto informativo, Working Papers n. 2004/25, Università dell’Insubria, Varese, luglio, 2004; In argomento anche Ruozi, Ancora sul rapporto fra banche e PMI: prospettive dei consorzi fidi, in Banche banc., 2002, n. 5; Mega, Il ruolo dei confidi territoriali nel rapporto banca, impresa e istituzioni, Atti del convegno Credito e Piccola Impresa, Grosseto, 4 aprile 2003; Ferri, Credito e PMI: da un’indagine confidi più ombre che luci, Federconfidi, Indagine congiunturale dicembre 2003-gennaio 2004. Per il dibattito sul nuovo regime prudenziale cfr. Associazione Bancaria Italiana, L’impatto di Basilea 2 sull’attività dei confidi, in Banc., n. 9, 2002, pp. 74-81; Sironi, Basilea 2. Quali implicazioni per disponibilità e prezzo del credito, in Economia e Management, 2003, n. 4. Gai, Analisi degli effetti su un campione di PMI fiorentine dei nuovi requisiti patrimoniali previsti da Basilea 2. Il ruolo dei confidi, Finart Fidi, 2004; Bocchi - Lusignani, Le nuove regole di Basilea 2: prime valutazioni di impatto sul rapporti Banca-Impresa in Italia, in Banca, impresa, soc., 2004, n. 2, pp. 209-237; Gai, Prospettive per le garanzie dei confidi verso le PMI popola riforma del settore e Basilea 2, in Riv. banc., n. 1, 2005; Caselli, Il destino delle imprese italiane dopo Basilea 2: la sfida del riposizionamento della funzione finanziaria, in Banc., 2005, n. 1, pp. 54-62; Caselli, L’impatto del nuovo Accordo di Basilea sui confidi: opportunità e minacce, in Impresa & Stato, n. 68, 2004; Vallascas, Le garanzie nella nuova regolamentazione sull’adeguatezza patrimoniale nelle banche: problemi e prospettive per i confidi, in Il Risparmio, 2005, n. 1.

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bancario per detti soggetti . Il punto di arrivo di tale processo si ha con la riforma del 2003, che consente di pervenire a una definitiva sistemazione normativa di tali soggetti finanziari. Sul piano operativo, l’attività di garanzia collettiva dei fidi si estrinseca essenzialmente nella concessione di garanzie a favore di banche e intermediari finanziari per la copertura totale o parziale delle perdite derivanti dai finanziamenti da questi concessi a piccole e medie imprese. Per lo svolgimento di tale attività i confidi utilizzano i contributi versati dagli associati che vanno ad alimentare i fondi collettivi (i c.d. fondi rischi) . Gli interventi dei confidi hanno luogo, tipicamente, al momento del mancato pagamento da parte dei debitori principali, attraverso la corresponsione di una somma in acconto, con un conguaglio al termine delle procedure esecutive. Le garanzie possono assumere due diverse forme: – garanzie personali (fideiussioni), a favore di singole imprese consorziate; – depositi monetari costituiti presso una banca a copertura di una quota delle eventuali perdite sopportate dall’intermediario su un portafoglio di crediti. In sostanza, tale tipologia di intervento è effettuata sulla base di un “moltiplicatore”, definito contrattualmente con ogni singola banca, che pone in relazione l’ammontare del fondo monetario e l’importo complessivo dei crediti garantiti. L’attività dei confidi richiama un argomento centrale del dibattito teorico sull’intermediazione finanziaria e su una delle sue principali espressioni di fondo: il rapporto banca-impresa, che assume una connotazione peculiare specie nelle fasi di crisi economica, come quella che sta attualmente attraversando l’economia italiana e internazionale a seguito della crisi finanziaria, con effetti di restrizione del credito soprattutto a favore dei piccoli e medi operatori. I confidi si presentano sul mercato del credito come offerenti di servizi essenziali alle piccole e medie imprese, in quanto consentono: a)

Bianchi, Audizione innanzi alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato sui disegni di legge n. 193, n. 1176, n. 1207, n. 1267, recanti norme in materia di consorzi di garanzia collettiva dei fidi, Roma, 10 ottobre 2002. Sulla natura giuridica dei fondi rischi e della garanzia collettiva rilasciata dai confidi, Costi, Consorzi-fidi e cooperative di garanzia, in Consorzi-fidi e cooperative di garanzia, a cura di Bione e Calandra Bonaura, Milano, 1982; Vittoria, Profili, cit.; Bianchi, Consorzi e cooperative di garanzia collettiva dei fidi: recenti iniziative legislative, in Studi in memoria di Pietro De Vecchis, I, Roma, 1999.

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di ampliare le capacità di credito; b) di ridurre il costo del denaro, negoziando collettivamente con i soggetti finanziatori (banche e intermediari finanziari) tassi e condizioni ; c) di accrescere la trasparenza e la certezza delle condizioni contrattuali; d) di disporre, in generale, di consulenza finanziaria e di orientamento personalizzata; e) di integrare il livello di cultura finanziaria delle piccole imprese, fornendo assistenza specialistica. Come è stato rilevato, in tale ambito di assistenza alle PMI, i confidi assolvono una importante funzione di presidio, favorendo l’accesso al credito da parte di soggetti economici non in grado di offrire le garanzie tradizionali, nonché nella prevenzione e nella lotta al fenomeno dell’usura, che assume un maggiore rilievo nei momenti di restrizione creditizia. Di particolare rilievo è altresì l’ambito dei servizi che i confidi possono offrire alle banche, grazie all’ampio patrimonio informativo di cui essi dispongono sulle imprese consorziate, che consente valutazioni più efficienti sulla sostenibilità finanziaria dell’investimento, sulle prospettive di sviluppo territoriale e di settore, nonché di ottenere informazioni sull’azienda e sulla sua reputazione, in virtù del rapporto di fiducia che normalmente si instaura tra confidi ed associato e della radicata presenza sul territorio. In questo senso il ruolo svolto dai confidi riduce sensibilmente le asimmetrie informative esistenti nell’esercizio della funzione creditizia, con conseguenti vantaggi per le banche in termini di miglioramento dello screening e della valutazione del merito creditizio delle imprese, individuazione di clientela selezionata, riduzione dei costi informativi, attività di monitoraggio sulle imprese associate sia a livello individuale sia attraverso il c.d. peer monitoring e, infine, la riduzione dell’assorbimento del capitale regolamentare per effetto della garanzia ricevuta .

Per un’analisi degli effetti delle garanzie rilasciate dai confidi sul costo del credito per le imprese associate, Colomba, Gambacorta, Mistrulli, L’attività dei consorzi di garanzia collettiva dei fidi in Italia, in Banc., n. 7/8, 2006. Da tale analisi è emerso che, a parità di altre condizioni, le imprese associate ai confidi ottengono tassi di interesse sui finanziamenti in conto corrente più bassi in media di 0,2 punti percentuali rispetto alle altre imprese; l’effetto è più marcato per le aziende meridionali aderenti ai confidi (0,7 punti), soprattutto quelle mono affidate (0,8 punti). Inoltre, Migliardi - Parini, I confidi: caratteristiche di un nuovo ruolo strategico nel finanziamento delle PMI. Performance e prospettive nel caso Liguria, in Economia e Diritto del Terziario, 2008. Nella ricerca di Colomba, Mistrulli, Gambacorta (2006) è stato rilevato che le imprese assistite da garanzie rilasciate dai confidi, hanno una probabilità di ingresso in sofferenza di 1 punto percentuale più bassa rispetto alle altre aziende con simili caratteristiche; la probabilità scende di 3 punti se l’impresa è residente nel Mezzogiorno.

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3. La riforma del 2003 e le tipologie soggettive di confidi. La riforma introdotta con l’art. 13 della l. 326/2003 (c.d. “legge quadro” dei confidi) è di ampia portata; costituisce un momento di svolta per il settore dei confidi a motivo dell’avvenuta definizione sia di importanti profili normativo-istituzionali della categoria, sia di rilevanti aspetti operativi, che aprono la strada ad una riorganizzazione del settore, già in parte avviata in conseguenza delle ordinarie dinamiche di mercato. I principali profili innovativi dell’intervento di riforma riguardano l’introduzione di requisiti di capitale – da rispettare nel continuo – per la generalità dei confidi, allo scopo di accrescerne il grado di solvibilità e promuoverne la capacità di sviluppo dell’attività di concessione di garanzie; la previsione di benefici fiscali per le operazioni di fusione tra confidi in vista di un consolidamento del sistema; la possibilità, concessa ai confidi di maggiori dimensioni, di costituire fondi di garanzia interconsortile – alimentati dai contributi versati dai confidi aderenti – abilitati a concedere ai confidi controgaranzia e cogaranzie, sviluppando in tal modo il sistema delle garanzie di secondo livello e, quindi, il “sistema a rete”, a vantaggio degli organismi di minori dimensioni. La sistemazione normativa della materia si incentra su importanti aspetti definitori, contenuti nel co. 1; innanzitutto rileva la definizione di “confidi”, che la legge qualifica nella loro natura giuridica come “i consorzi con attività esterna, le società cooperative, le società consortili per azioni, a responsabilità limitata o cooperative, che svolgono l’attività di garanzia collettiva dei fidi” e nell’oggetto, l’attività di garanzia collettiva dei fidi, come “l’utilizzazione di risorse provenienti in tutto o in parte dalle imprese consorziate o socie per la prestazione mutualistica e imprenditoriale di garanzie volte a favorirne il finanziamento da parte delle banche e degli altri soggetti operanti nel settore finanziario”. La definizione sopra riportata si riferisce ai confidi di primo livello (o di primo grado); la legge, tuttavia, riconosce anche i confidi di secondo grado, intendendo per tali “i consorzi con attività esterna, le società cooperative, le società consortili per azioni, a responsabilità limitata o cooperative, costituiti dai confidi ed eventualmente da imprese consorziate o socie di questi ultimi o da altre imprese”. I confidi sono costituiti da piccole e medie imprese industriali, commerciali, turistiche e di servizi, da imprese artigiane e agricole, come definite dalla disciplina comunitaria, ossia da quelle imprese che soddisfano i requisiti in materia di aiuti di Stato a favore delle piccole e medie imprese determinati con decreti del Ministro delle Attività produttive (ora Ministro dello Sviluppo Economico) e del Ministro delle Politiche

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agricole, alimentari e forestali (art. 13, co. 1 e 8, l. 326/2003) . Vi possono partecipare anche imprese di maggiori dimensioni purché complessivamente non rappresentino più di un sesto della totalità delle imprese consorziate o socie. Inoltre, gli enti pubblici e le imprese di maggiori dimensioni che non possono far parte dei confidi e dei confidi di secondo grado, possono sostenerne l’attività attraverso contributi e garanzie non finalizzati a singole operazioni; essi, quindi, non possono assumere la veste di consorziati o soci, né possono usufruire delle attività sociali, ma i loro rappresentanti possono partecipare agli organi elettivi dei confidi con le modalità stabilite dagli statuti, a condizione peraltro che la maggioranza dei componenti di ciascun organo sia riservata all’assemblea dei soci (art. 13, co. 10). La scelta più rilevante compiuta dal legislatore della riforma è stata quella di consentire ai confidi le più ampie opzioni strategiche circa la figura istituzionale di intermediario finanziario, tra quelle previste dal nostro ordinamento, da assumere per lo svolgimento dell’attività, cui corrispondono profili strutturali e operativi diversi nonché differenti configurazioni e profondità della regolamentazione e dei controlli di vigilanza 10. Ne sono conseguite, quindi, tre tipologie di confidi: – i confidi iscritti nell’apposita sezione dell’elenco generale ex art. 106 t.u.b., ai sensi dell’art. 155, co. 4 del t.u.b. (confidi tradizionali), che svolgono esclusivamente l’attività di garanzia collettiva dei fidi e i servizi a essa connessi o strumentali a favore delle PMI aderenti, nel rispetto delle riserve di attività previste dalla legge (co. 2 e 37); – i confidi iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107 t.u.b. (intermediari di garanzia), cui è consentita una più ampia diversificazione

Sono definite “piccole e medie imprese” le imprese che hanno meno di 250 occupati e hanno un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro, oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro (art. 2 del decreto del Ministro delle Attività produttive del 18 aprile 2005, pubblicato nella G.U. n. 238 del 12 ottobre 2005, attuativo della Raccomandazione della Commissione Europea 2003/361/CE del 6 maggio 2003). In Italia risultano associate ai confidi quasi un milione di piccole imprese. L’operatività degli enti in parola è più diffusa nelle regioni centro-settentrionali. I confidi sono invece poco sviluppati nel Mezzogiorno in termini di valore complessivo delle garanzie, numero di imprese aderenti e dimensione media dei confidi, ma il fenomeno è in crescita. 10 Luchini, La nuova disciplina dei consorzi fidi: aspetti civilistici, in Le società, vol. 24, fasc. 9, pp. 1109-1112.

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dell’operatività, sottoposti a un regime di vigilanza prudenziale sostanzialmente equivalente a quello delle banche (co. 32); – le banche di garanzia collettiva dei fidi (banche confidi), costituite in forma di società cooperativa che, in base al proprio statuto, esercitano prevalentemente l’attività di garanzia collettiva dei fidi a favore dei soci (co. 29).

4. I confidi iscritti nell’apposita sezione dell’elenco generale ex art. 106 t.u.b. 4.1. Ambito operativo e requisiti. L’iscrizione nell’apposita sezione dell’elenco generale risponde ad una finalità di mero censimento dei confidi, anche di secondo grado, rientranti in questa categoria, in quanto l’iscrizione non abilita ad effettuare le altre operazioni riservate agli intermediari finanziari iscritti nel citato elenco e non rende applicabili le disposizioni relative agli intermediari finanziari (Titolo V del t.u.b.). La regolamentazione di detti soggetti ha una portata minimale ed è essenzialmente di carattere civilistico. Essi pertanto, non sono sottoposti ai controlli della Banca d’Italia, neanche a quelli volti a verificare il possesso dei requisiti di legge, ai fini della cancellazione dall’elenco di quei soggetti che ne sono privi. A seguito di recenti interventi legislativi sono, peraltro, applicabili ai confidi della specie: I) la disciplina antiriciclaggio, per espressa statuizione dell’art. 11, co. 2, lettera b) del d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231; II) la normativa di trasparenza (pur in assenza di un richiamo esplicito a detti soggetti), in quanto applicabile a tutte le operazioni e servizi, disciplinati ai sensi del titolo VI del t.u.b., aventi natura bancaria e finanziaria offerti dagli intermediari; in questa direzione si sono orientate le recenti disposizioni emanate in materia dalla Banca d’Italia 11. Tale scelta normativa, considerato il disegno complessivo della nuova regolamentazione di trasparenza, porta conseguentemente alla conclusione che ai confidi si applichi anche l’obbligo di adesione all’Arbitro Bancario Finanziario, il nuovo sistema di risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia

11 Banca d’Italia, Disposizioni in materia di trasparenza delle operazioni e servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti, 29 luglio 2009.

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bancaria e finanziaria istituito dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 128-bis del t.u.b. e della delibera CICR n. 275 del 29 luglio 2008 12. In generale, il tema della regolamentazione degli intermediari finanziari è oggetto di ampio dibattito; si ravvisa l’esigenza di una revisione della normativa degli intermediari finanziari ex art. 106 t.u.b., dei mediatori creditizi e degli agenti in attività finanziaria allo scopo di rideterminarne i requisiti per l’iscrizione, rafforzare i controlli, prevedere più efficaci misure sanzionatorie a tutela dei consumatori. È da vedere se e in che misura la categoria dei confidi ex art. 106 sarà interessata da modifiche normative nell’ambito della rimodulazione della disciplina delle attività e dei soggetti operanti nel settore finanziario di cui al Titolo V e all’art. 155 del testo unico bancario, prevista dalla legge comunitaria 2008 13. L’ambito operativo degli intermediari della specie è definito dalla legge, la quale dispone che i confidi svolgono esclusivamente l’attività di garanzia collettiva dei fidi e i servizi a essa connessi o strumentali a favore dei soggetti aderenti, nel rispetto delle riserve di attività previste dalla legge, mentre i confidi di secondo grado svolgono l’attività di garanzia e i servizi connessi o strumentali a favore dei confidi e delle imprese a essi aderenti e delle imprese consorziate o socie di questi ultimi. Recependo le indicazioni rivenienti dalla prassi operativa, la legge prevede che nell’esercizio di tale attività i confidi possono prestare garanzie personali e reali, stipulare contratti volti a realizzare il trasferimento del rischio, nonché utilizzare in funzione di garanzia depositi indisponibili costituiti presso i finanziatori delle imprese consorziate o socie. Accanto ai requisiti di forma giuridica, i confidi sono tenuti a rispettare determinati requisiti di capitale. In particolare, è previsto che il fondo consortile o il capitale sociale non può essere inferiore a 100.000 euro,

12 Banca d’Italia, Disposizioni sui sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia di operazioni e servizi bancari e finanziari. Arbitro Bancario Finanziario, 18 giugno 2009. 13 L. 7 luglio 2009, n. 88, pubblicata in Gazzetta Ufficiale 14 luglio 2009, n. 161. L’art. 33 della legge contiene la delega al Governo per l’attuazione della direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE e previsione di modifiche e integrazioni alla disciplina relativa ai soggetti operanti nel settore finanziario di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, ai mediatori creditizi ed agli agenti in attività finanziaria. In attuazione della delega il Ministero dell’Economia e delle Finanze - Dipartimento del Tesoro ha sottoposto a pubblica consultazione uno schema di decreto legislativo per la modifica del Titolo V del testo unico bancario. Il testo normativo è disponibile sul sito internet http://www.dt.tesoro/it/regolamentazione.settore_finanziario/.

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fermo restando per le società consortili l’ammontare minimo previsto dal codice civile per le società per azioni (120.000 euro, ai sensi dell’art. 2327 c.c.). Il co. 13 prevede limiti al possesso di quote o azioni per ciascun partecipante, nel senso che la quota di partecipazione di ciascuna impresa non può essere superiore al 20% del fondo consortile o del capitale sociale, né inferiore a 250 euro. Pertanto, per i confidi costituiti in forma di società cooperativa non si applicano i limiti previsti dall’art. 2525, co. 2, c.c.; in tal senso dispone espressamente il co. 17, che disapplica anche il co. 1 dell’art. 2525 c.c. in tema di valore nominale di ciascuna quota o azione. Il patrimonio netto dei confidi, comprensivo dei fondi rischi indisponibili, non può essere inferiore a 250.000 euro, di cui almeno un quinto deve essere costituito da apporti dei consorziati o dei soci o da avanzi di gestione. Il decreto disciplina le ipotesi in cui, per effetto di perdite, il patrimonio o il capitale si riducano al di sotto dei minimi stabiliti, prevedendo rimedi non dissimili da quelli stabiliti dal codice civile. Infatti, ove in sede di approvazione del bilancio, il patrimonio risulti diminuito per oltre un terzo al di sotto del limite di 250 mila euro, gli amministratori devono sottoporre all’assemblea gli opportuni provvedimenti. Se entro l’esercizio successivo la diminuzione del patrimonio non si è ridotta a meno di un terzo dell’importo minimo, l’assemblea che approva il bilancio deve deliberare l’aumento del capitale sociale o del fondo consortile in misura tale da ridurre la perdita a meno di un terzo ovvero; in mancanza, deve deliberare lo scioglimento del confidi. Se, invece, per effetto della perdita di oltre un terzo del capitale sociale o del fondo consortile, questo si riduce al di sotto del minimo legale (100.000 euro), gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea per la riduzione del capitale sociale o del fondo e il contemporaneo aumento a un importo superiore al minimo legale, o lo scioglimento del confidi. La normativa prevede determinate garanzie a tutela del capitale sociale o del fondo consortile, nonché al rafforzamento del patrimonio. Il co. 18, infatti, dispone che i confidi non possono distribuire avanzi di gestione di ogni genere e sotto qualsiasi forma alle imprese consorziate o socie, neppure in caso di scioglimento del consorzio, della cooperativa o della società consortile, ovvero nei casi di scioglimento del rapporto sociale o consortile limitatamente a un singolo socio o consorziato (recesso, decadenza, esclusione o morte). Nella medesima direzione la normativa (co. 19) prevede che ai confidi costituiti sotto forma di società cooperativa non si applicano l’obbligo

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di devoluzione ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione di una quota degli utili netti annuali, previsto dall’art. 2545-quater c.c., e gli artt. 11 e 20 della l. 31 gennaio 1992, n. 59. Del pari, non trova applicazione ai confidi l’obbligo, sancito dall’art. 2514, co. 1, c.c., di devoluzione ai fondi mutualistici, in caso di scioglimento della società, dell’intero patrimonio sociale, dedotti soltanto il capitale sociale e i dividendi eventualmente maturati. Come precisato, detta devoluzione è da effettuarsi al fondo interconsortile di garanzia cui il confidi aderisce o, in mancanza, ai Fondi di garanzia di cui ai co. 20, 21 e 23. 4.2 Lo sviluppo dei confidi di secondo livello: i fondi interconsortili. Come già accennato, una particolare figura introdotta dalla riforma allo scopo di sviluppare il “sistema a rete” degli operatori del settore, è quella del fondo interconsortile, disciplinato dai commi da 20 a 24 della legge quadro. È previsto che i confidi che riuniscono complessivamente non meno di 15 mila imprese e garantiscono finanziamenti complessivamente non inferiori a 500 milioni di euro possono istituire, anche tramite le loro associazioni nazionali, fondi di garanzia interconsortili destinati alla prestazione di controgaranzie o cogaranzie ai confidi. Peraltro, i confidi che riuniscono cooperative e loro consorzi possono istituire fondi interconsortili se associano non meno di 5.000 imprese e garantiscono finanziamenti non inferiori a 300 milioni di euro. I fondi interconsortili sono gestiti da società consortili per azioni o a responsabilità limitata, il cui oggetto sociale preveda in via esclusiva lo svolgimento di tale attività, ovvero dalle società finanziarie costituite dai confidi aventi per finalità lo sviluppo delle imprese operanti nel commercio, nel turismo e nei servizi (ai sensi dell’art. 24 del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 144). In deroga all’art. 2602 c.c., le società consortili possono essere costituite anche dalle associazioni nazionali di rappresentanza. I confidi aderenti ad un fondo di garanzia interconsortile sono tenuti a versare annualmente a tale fondo, entro un mese dall’approvazione del bilancio, un contributo obbligatorio pari allo 0,5 per mille delle garanzie concesse nell’anno a fronte dei finanziamenti erogati, salvo che gli statuti dei fondi interconsortili non prevedano un contributo più elevato. I confidi che non aderiscono a un fondo di garanzia interconsortile versano annualmente una quota pari allo 0,5 per mille delle garanzie concesse nell’anno a fronte dei finanziamenti erogati, al Ministero dell’Economia e delle Finanze, che affluiscono al bilancio dello Stato. Con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, una somma pari al-

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l’ammontare complessivo di detti versamenti è assegnata annualmente al Fondo di garanzia costituito presso il Mediocredito Centrale (vedi infra par. 8.1). Inoltre, è previsto che i confidi operanti nel settore agricolo versano annualmente la quota alla Sezione speciale del Fondo interbancario di garanzia (successivamente confluito nell’ISMEA; vedi infra par. 8.2).

5. I confidi iscritti nell’elenco speciale ex art. 107 t.u.b. 5.1 I requisiti per l’iscrizione nell’elenco speciale. La disciplina dei confidi ex art. 107 t.u.b., contenuta nel co. 32 della legge di riforma, realizza un accurato innesto di numerose disposizioni dopo il co. 4 dell’art. 155 del t.u.b. Ai fini dell’iscrizione nell’elenco speciale, il co. 4-bis dell’art. 155 t.u.b. prevede che il Ministero dell’Economia e delle Finanze, sentita la Banca d’Italia, determina i criteri oggettivi, riferibili al volume di attività e ai mezzi patrimoniali, in base ai quali sono individuati i confidi che sono tenuti a chiedere l’iscrizione nell’elenco speciale 14 (criteri, quindi, diversi da quelli previsti in via generale dagli intermediari ex art. 107, stabiliti dal Ministro del Tesoro con decreto del 13 maggio 1996 e successive modificazioni e integrazioni) 15.

In attesa delle determinazioni ministeriali, il decreto (co. 57) ha previsto la possibilità di una iscrizione provvisoria all’elenco speciale per i confidi che hanno un volume di attività finanziaria pari o superiore a 51 milioni di euro o mezzi patrimoniali pari o superiori a 2,6 milioni di euro, entro il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore del decreto medesimo, previa verifica degli altri requisiti da parte della Banca d’Italia. Agli intermediari che hanno ottenuto l’iscrizione provvisoria è consentito di adeguarsi ai requisiti minimi per l’iscrizione previsti dalla disciplina generale entro tre anni da detta iscrizione. In caso di mancato adeguamento ai requisiti minimi nel termine stabilito, la Banca d’Italia procede alla cancellazione dell’intermediario. La disposizione dispone, infine, una limitazione operativa alle società in questa fase, prevedendo che le medesime possono svolgere, esclusivamente nei confronti delle imprese consorziate o socie, le sole attività indicate nell’art. 155, co. 4-quater, del t.u.b. (vedi infra). 14

15 In argomento, Antonucci, Art. 107, cit. p. 1806 ss.; Criscuolo, Gli intermediari finanziari non bancari. Attività, regole, controlli, in Giur. comm., 1995, Carretta, La re-

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Detti criteri sono stati stabiliti dal Ministero dell’Economia e delle Finanze con decreto del 9 novembre 2007, ai sensi del quale sono tenuti a chiedere l’iscrizione i confidi che abbiano un volume di attività finanziaria pari o superiore a 75 milioni di euro, a condizione che i medesimi presentino all’atto dell’iscrizione i requisiti prudenziali e organizzativi stabiliti dalla Banca d’Italia, tenendo conto della particolare natura dell’attività svolta da tali intermediari. Nel decreto è altresì stabilito che in mancanza dei requisiti o di mancata adozione di una delle forme societarie previste dall’art. 106 t.u.b. (società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata o società cooperativa), il confidi è cancellato dall’elenco generale. Le condizioni quantitative suddette devono essere accertate con riferimento ai dati dell’ultimo bilancio approvato ed essere mantenute per i sei mesi successivi alla chiusura dell’esercizio a cui il bilancio si riferisce. Il provvedimento, infine, rinvia alla Banca d’Italia l’emanazione delle disposizioni attuative per l’accertamento dei requisiti 16. La Banca d’Italia ha disciplinato i requisiti di iscrizione con proprie disposizioni in data 29 febbraio 2008 17. Nella medesima sede ha dettato altresì istruzioni in tema di operatività e di normativa degli intermediari finanziari applicabili ai confidi. Le Istruzioni definiscono: I) le componenti dell’aggregato “volume di attività finanziaria” da prendere in considerazione ai fini dell’accertamento del requisito quantitativo per l’iscrizione nell’elenco speciale; II) gli elementi che devono essere contenuti nella domanda di iscrizione,

golamentazione degli intermediari finanziari, in La nuova legge bancaria, a cura di Ferro-Luzzi e Castaldi, Milano, 1996, p. 1742 ss.; Nel medesimo volume, Setola, Criteri per l’individuazione dei soggetti tenuti all’iscrizione nell’elenco speciale, p. 1755 ss; Filotto, Aspetti problematici, p. 1760 ss.; Troiano, I soggetti operanti nel settore finanziario, in L’Ordinamento finanziario Italiano, a cura di Capriglione, Padova, 2005, p. 465 ss. 16 L’art. 3 del decreto contiene una disposizione transitoria, in base alla quale i confidi che alla data di entrata in vigore delle disposizioni della Banca d’Italia abbiano un volume di attività finanziaria pari o superiore a 75 milioni di euro, ma non possiedono i requisiti prudenziali e organizzativi, si adeguano a tali requisiti e richiedono l’iscrizione nell’elenco speciale entro dodici mesi dalla predetta data. In mancanza, i confidi, nei successivi diciotto mesi, devono ricondurre il volume di attività al di sotto della soglia quantitativa di 75 milioni di euro o, in caso contrario, sono cancellati dall’elenco generale. 17 Banca d’Italia, Istruzioni di Vigilanza per gli Intermediari Finanziari iscritti nell’Elenco Speciale. Circolare n. 216 del 5 agosto 1996 – 9 aggiornamento del 28 febbraio 2008.

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tra cui, in particolare, l’attestazione dell’avvenuta verifica dei requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza in capo agli esponenti aziendali, dei requisiti di onorabilità dei partecipanti al capitale, della sussistenza del requisito del volume di attività finanziaria e del suo mantenimento nei sei mesi successivi, nonché del rispetto dei requisiti prudenziali e organizzativi. A fine marzo 2009 sono scaduti i termini transitori previsti dal decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 9 novembre 2007, decorsi i quali i confidi che abbiano un volume di attività finanziaria pari o superiore a euro 75 milioni devono presentare istanza di iscrizione all’elenco speciale di cui all’art. 107 t.u.b. Su istanza anche delle associazioni di categoria dei confidi, che hanno rappresentato le oggettive difficoltà incontrate dai confidi per il riassetto organizzativo necessario alla trasformazione in intermediario di garanzia ex art. 107, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con decreto del 5 marzo 2009, ha prorogato il termine al 31 dicembre 2009. Il provvedimento ha altresì stabilito che il medesimo termine si applica ai confidi per i quali si verifichino le condizioni previste dall’art. 2, co. 3, del suddetto decreto ministeriale (condizioni quantitative accertate con i dati di bilancio e mantenimento di esse per i sei mesi successivi). 5.2 L’ambito operativo. I confidi iscritti nell’elenco speciale esercitano “in via prevalente” l’attività di garanzia collettiva dei fidi. Essi possono svolgere, prevalentemente nei confronti delle imprese socie o consorziate, le attività di: – prestazione di garanzie a favore dell’amministrazione finanziaria dello Stato, al fine dell’esecuzione dei rimborsi di imposte alle imprese consorziate o socie; – gestione, ai sensi dell’art. 47, co. 2, del t.u.b., di fondi pubblici di agevolazione; – stipula, ai sensi dell’art. 47, co. 3, del t.u.b., di contratti con le banche assegnatarie di fondi pubblici di garanzia per disciplinare i rapporti con le imprese consorziate o socie, al fine di facilitarne la fruizione. Ai fini della determinazione della prevalenza dell’attività di garanzia collettiva dei fidi, le istruzioni di vigilanza stabiliscono che essa è rispettata qualora dall’ultimo bilancio approvato (redatto ai sensi del d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 87) risultino verificate due condizioni: che l’ammontare dei ricavi derivanti dall’attività di garanzia collettiva dei fidi e dalle attività connesse e strumentali sia superiore al 50% del totale dei ricavi;

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che l’ammontare nominale delle garanzie collettive dei fidi sia superiore al 50% del totale dell’attivo. Le medesime disposizioni prevedono che per attività connesse e strumentali si intendono le attività accessorie che consentono di sviluppare l’attività esercitata (ad es., la prestazione del servizio di informazione commerciale) e le attività che hanno carattere ausiliario a quella esercitata (ad es., studio, ricerca e analisi in materia economica e finanziaria, gestione di immobili a uso funzionale). Sono da ricomprendersi tra le suddette attività anche le attività di informazione, di consulenza e di assistenza alle imprese consorziate o socie per il reperimento e il miglior utilizzo delle fonti finanziarie, nonché le prestazioni di servizi per il miglioramento della gestione finanziaria delle stesse imprese. I confidi, inoltre, possono svolgere, in via residuale, le attività riservate agli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale (assunzione di partecipazioni, concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, prestazione di servizi di pagamento e di intermediazione in cambi), entro il limite del 20% del totale dell’attivo, stabilito dalle istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia. Tale limite ha formato oggetto di ampio dibattito tra gli operatori del settore, in questa fase di trasformazione, in quanto ritenuta troppo bassa e, quindi, penalizzante per i confidi che si accingono a trasformarsi in intermediari ex art. 107, soprattutto quelli che hanno volumi operativi di poco superiori alla soglia quantitativa prevista per la trasformazione; in particolare, sono state espresse preoccupazioni in merito alla possibilità di conseguire l’equilibrio economico, dato anche l’insieme dei costi aggiuntivi che la trasformazione in sé comporta, ivi compresi quelli connessi all’assoggettamento alla vigilanza. La questione sollevata presenta indubbiamente elementi di fondatezza, ma è da ritenere che la scelta regolamentare rifletta la preoccupazione dell’autorità di vigilanza che lo svolgimento in maggiore misura di attività non tipiche dei confidi possa comportare assunzione di rischi non pienamente valutabili, con possibili effetti destabilizzanti sulla categoria. 5.3 La disciplina di vigilanza. Ai confidi ex art. 107 t.u.b. sono applicabili, per espressa disposizione legislativa (art. 155, co. 4-sexies), le norme previste dagli artt. 107, co. 2, 3, 4 e 4-bis, 108, 109, 110 e 112 del t.u.b. Pertanto, sono applicabili ai confidi ex art. 107 t.u.b. le disposizioni di vigilanza regolamentare vigenti nei confronti degli intermediari finanziari iscritti all’elenco speciale di cui all’art. 107 t.u.b., intermediari definiti

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“a rischio sistemico” o, forse, in modo più appropriato, “near banks” 18, essendo la loro regolamentazione assimilabile sostanzialmente al modello vigente per le banche, tant’è che il complesso della disciplina applicabile viene a configurare un sistema di vigilanza c.d. “equivalente”. Si fa riferimento alle disposizioni in tema di adeguatezza patrimoniale e di contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni, di organizzazione amministrativa e contabile e controlli interni, nonché di informativa da rendere al pubblico sulle predette materie 19. Per quanto concerne il requisito dell’adeguatezza patrimoniale, trovano applicazione le disposizioni di vigilanza in tema di patrimonio di vigilanza e di requisiti patrimoniali applicabili agli intermediari finanziari (Capitolo V), introdotte nel nostro ordinamento allo scopo di rendere il regime prudenziale di detti intermediari equivalente allo schema applicabile alle banche ai sensi della disciplina di Basilea 2 20. In merito al patrimonio di vigilanza, si applicano le disposizioni dettate dalla Sezione II. Per il calcolo dei requisiti patrimoniali, assume rilievo la normativa stabilita dalla Sezione III, Par. 3.1.2., concernente la ponderazione delle esposizioni. Per i requisiti organizzativi, si applicano agli intermediari di garanzia le disposizioni in tema di organizzazione amministrativa e contabile e controlli interni, dettate dal Capitolo VI. Nelle medesime materie la Banca d’Italia può adottare nei confronti dei confidi provvedimenti specifici, ossia requisiti più stringenti a fronte

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Antonucci, Diritto delle banche, Milano, 2000, p. 108. In tema di vigilanza prudenziale, si richiama la delibera CICR del 29 marzo 1994 (con cui sono stati dettati criteri generali in materia di adeguatezza patrimoniale ed altre misure per il controllo dei rischi) e le disposizioni di vigilanza emanate dalla Banca d’Italia con il Provvedimento del Governatore del 30 settembre 1997. In materia di organizzazione amministrativa e contabile e di controlli interni, assume rilievo la delibera CICR del 25 luglio 2000. Si richiamano, infine, la delibera CICR del 29 marzo 1994 riguardante l’applicazione agli intermediari ex art. 107 del sistema di centralizzazione dei rischi, nonché la delibera del CICR del 3 maggio 1999 concernente l’istituzione di un archivio accentrato per la rilevazione dei rischi di importo contenuto. Sulla regolamentazione degli intermediari ex art. 107 cfr. Perassi, Art. 107. Elenco speciale, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova, p. 852 ss.; Artale, Criscuolo, Panico, Le attività, i soggetti, i collaboratori esterni, in Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, a cura di Galanti, Padova, 2008, p. 366 ss.; Iacobelli, Vigilanza regolamentare, in La nuova legge, cit., p. 1775 ss; Troiano, I soggetti, cit. p. 476 ss. 20 Associazione Bancaria Italiana, Il ruolo della garanzia dei confidi nel nuovo quadro regolamentare, Documento Basilea 2, ABI, n. 4, 15 febbraio 2008. 19

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di situazioni di anomalia gestionale, ovvero, con riferimento a determinati tipi di attività, può dettare disposizioni volte ad assicurarne il regolare esercizio. Ai confidi 107 si applicano, altresì, gli istituti della vigilanza informativa e ispettiva, concernenti rispettivamente il potere della Banca d’Italia di richiedere agli intermediari segnalazioni periodiche e ogni altro dato e documento necessari ai fini delle valutazioni di competenza, nonché il potere di effettuare ispezioni presso l’intermediario. Altro istituto di vigilanza rilevante, mutuato dalla normativa bancaria (art. 78 t.u.b.), riguarda il potere attribuito alla Banca d’Italia, nei casi di violazioni di legge o di disposizioni di vigilanza, di imporre il divieto in intraprendere nuove operazioni e di disporre la riduzione delle attività, nonché vietare la distribuzione di utili o di altri elementi del patrimonio. Sono altresì applicabili ai confidi ex art. 107 le disposizioni in tema di requisiti di onorabilità dei partecipanti al capitale, con conseguente sistema sanzionatorio per i casi di inosservanza della disciplina (art. 108 t.u.b.) 21, di requisiti di professionalità, onorabilità ed indipendenza degli esponenti aziendali (art. 109 t.u.b.) 22, nonché gli obblighi di comunicazione alla Banca d’Italia da parte dei titolari di partecipazioni rilevanti nel capitale dell’intermediario e i relativi rimedi di natura civilistica, amministrativa e penale per i casi di violazione delle disposizioni (art. 110 e 139 t.u.b.) 23. Un importante complemento della vigilanza informativa e ispettiva, ai fini dell’efficacia dell’azione di supervisione, è costituito dalle comunicazioni del collegio sindacale (art. 112 t.u.b.) 24. La disposizione impone l’obbligo all’organo di controllo di informare senza indugio la Banca d’Italia, di tutti gli atti o fatti, di cui venga a conoscenza nell’esercizio dei

21 Donativi, Restino, Art. 108. Requisiti di onorabilità dei partecipanti, in Testo unico delle leggi in materia bancaria, cit. p. 1827 ss.; Perassi, Art. 108. Requisiti di onorabilità dei partecipanti, in Commentario al Testo unico, cit., p. 859 ss. 22 Mazzini, Articolo 109. Requisiti di professionalità e di onorabilità degli esponenti aziendali, in Testo Unico delle leggi in materia bancaria, cit., p. 1831 ss.; Perassi, Art. 109. Requisiti di professionalità e di onorabilità degli esponenti aziendali, in Commentario al testo unico, cit., p. 863 ss. 23 Motti, Art. 110. Obblighi di comunicazione, in Testo unico delle leggi in materia bancaria, cit., p. 1840 ss.; Criscuolo, Art. 110. Obblighi di comunicazione, in Commentario al testo unico, cit., p. 867 ss. 24 Lucantoni, Comunicazioni del collegio sindacale, in Testo unico delle leggi in materia bancaria, cit., p. 1855 ss.; Criscuolo, Oliveiro, Art. 112. Comunicazioni del collegio sindacale, in Commentario al testo unico, cit., p. 877 ss.

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propri compiti, che possano costituire una irregolarità nella gestione o una violazione delle norme che disciplinano l’attività degli intermediari finanziari. A seguito della riforma del diritto societario, che ha introdotto nel nostro ordinamento una pluralità di modelli di amministrazione e controllo, l’art. 112 t.u.b. prevede che lo statuto degli intermediari assegni all’organo che svolge la funzione di controllo i relativi compiti e poteri. Anche per i confidi si realizza, in tal modo, il raccordo funzionale tra collegio sindacale e Banca d’Italia, che costituisce un ulteriore presidio per la sana e prudente gestione dell’intermediario. Infine, analogamente a quanto previsto per gli intermediari finanziari ex art. 107 t.u.b., anche per i confidi ex art. 107 la Banca d’Italia può disporre la cancellazione dall’elenco speciale qualora risultino gravi violazioni di norme di legge o delle disposizioni emanate ai sensi della legge 326/2003. Il procedimento di cancellazione e i relativi effetti sono disciplinati dall’art. 111, co.3 e 4 25. Completano il quadro normativo applicabile agli intermediari della specie, le disposizioni in tema di trasparenza delle operazioni e dei servizi finanziari (Titolo VI del t.u.b. e relative disposizioni di vigilanza), nonché la normativa in materia di antiriciclaggio, come detto modificata a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, che ha riordinato l’intera disciplina in tema di prevenzione e di contrasto del riciclaggio e di finanziamento del terrorismo.

6. Le banche confidi. Il co. 29 dell’art. 13 della l. 326/2003 introduce la particolare categoria delle banche confidi, stabilendo che l’esercizio dell’attività bancaria in forma di società cooperativa a responsabilità limitata è consentito, ai sensi dell’art. 28 del t.u.b., anche alle banche che, in base al proprio statuto, esercitano prevalentemente l’attività di garanzia collettiva dei fidi a favore dei soci. Ai sensi del co. 30, alle banche della categoria si applicano, in quanto compatibili, talune disposizioni dello stesso art. 13 (co. da 5 a 11 e da 19 a

25 Principe, Cancellazione dall’elenco generale, in Testo unico delle leggi in materia bancaria, cit., p. 1843 ss.; Criscuolo, Art. 111. Cancellazione dall’elenco generale, in Commentario al testo unico, cit., p. 871 ss.

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28) 26 e le specifiche norme dettate dal t.u.b. per le banche di credito cooperativo (artt. da 33 a 37), che ne qualificano l’inquadramento nell’ambito delle società cooperative a mutualità prevalente. Il modello di riferimento degli operatori del comparto s’identifica, quindi, con quello delle BCC, con le modifiche rese necessarie dalle peculiarità operative dei confidi. Le disposizioni del t.u.b. applicabili alle banche confidi concernono: – la forma giuridica (società cooperativa per azioni a responsabilità limitata), la denominazione, la nomina degli organi sociali (salvo quanto stabilito dal co. 10 della legge confidi) e il valore nominale delle azioni (art. 33); – la disciplina dei soci (numero minimo, requisiti per l’ammissione a socio, regola del voto capitario, limite al possesso azionario (art. 34); – l’operatività prevalente a favore dei soci e la disciplina statutaria, sulla base dei criteri indicati dalla Banca d’Italia, delle attività, delle operazioni di impiego e di raccolta e della competenza territoriale (art. 35, co. 2); – le operazioni di fusione con banche di diversa natura (art. 36); – la speciale disciplina della ripartizione degli utili (art. 37). La legge confidi fa rinvio alle disposizioni attuative della Banca d’Italia, tenuto conto delle specifiche caratteristiche operative delle banche confidi. Tali disposizioni sono state emanate con provvedimento del Governatore del 28 febbraio 2008, le cui previsioni integrano per molti aspetti la normativa primaria per adeguarne il contenuto alle Istruzioni di vigilanza per le banche di credito cooperativo (Titolo VII, Capitolo 1, della Circolare n. 229 del 21 aprile 1999). In tale ambito rientrano le disposizioni in tema di attività esercitabili, partecipazioni detenibili, deleghe in materia di erogazione del credito, destinazione degli utili. In merito alla costituzione di banche confidi e alla trasformazione di confidi in banche, le disposizioni di vigilanza prevedono l’applicazione delle istruzioni di vigilanza in materia di autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria (Titolo I, Capitolo 1, della Circ. n. 229 del 21 aprile 1999). Il capitale minimo richiesto per la costituzione di una banca confidi è pari a 2 milioni di euro, come previsto per le banche di credito

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Va peraltro considerato che i commi 25, 26 e 27 sono stati abrogati dall’art. 1, co. 880, della l. 27 dicembre 2006, n. 296 e che il co. 28 è stato abrogato dall’art. 11, co. 7, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modifiche dalla l. 14 maggio 2005, n. 80. Tali interventi legislativi hanno altresì apportato modifiche e integrazioni ad altre disposizioni della legge quadro.

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cooperativo, e deve essere rappresentato unicamente da capitale sociale interamente versato e da riserve pienamente disponibili (riserva legale, riserva per sovrapprezzo azioni). Possono diventare soci e clienti di banche confidi i soggetti residenti, aventi sede o operanti con carattere di continuità nella zona di competenza territoriale delle banche medesime. Per le persone giuridiche si tiene conto dell’ubicazione della sede legale, della direzione, degli stabilimenti o di altre unità operative. Ai fini della sussistenza della condizione dell’“operare con carattere di continuità” nella zona di competenza territoriale, le disposizioni di vigilanza chiariscono che detta condizione è soddisfatta qualora la zona medesima costituisca un “centro di interessi” per l’aspirante socio, che può sostanziarsi nello svolgimento di un’attività lavorativa (dipendente o autonoma) o nell’esistenza di altre forme di legame con il territorio, purché di tipo essenzialmente economico. Gli statuti delle banche possono prevedere limitazioni o riserve a favore di particolari categorie di soggetti tra i quali acquisire i propri soci. In ogni caso le banche sono tenute ad adottare politiche aziendali tali da favorire l’ampliamento della base sociale, conformando a tale obiettivo la determinazione del sovrapprezzo azioni che il socio deve versare al momento dell’ammissione. Ai sensi dell’art. 34, co. 4, t.u.b., il numero dei soci non può essere inferiore a 200 e ogni socio non può possedere azioni per un valore nominale complessivo superiore a 50.000 euro. Circa l’ambito geografico di operatività, le banche confidi indicano nel proprio statuto la zona di competenza territoriale, entro la quale acquisiscono i soci, assumono rischi nei confronti della clientela e aprono o trasferiscono succursali. La zona di competenza territoriale ricomprende la provincia in cui la banca ha la sede legale e le province ad essa limitrofe. Trova applicazione nei confronti delle banche confidi anche la disciplina in tema di sedi distaccate 27, quelle sedi cioè che sono insediate in province non ricomprese nella zona di competenza territoriale. Tali province devono essere nominativamente indicate nello statuto. In tal caso la competenza territoriale della banca confidi si estende alla provincia in cui è insediata la sede distaccata 28.

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Provvedimento del Governatore della Banca d’Italia del 23 marzo 2007, n. 311041, pubblicato nel Bollettino di Vigilanza della Banca d’Italia n. 3/2007, p. 21 ss. 28 Le disposizioni di vigilanza prevedono che per l’apertura di una sede distaccata la banca: I) abbia posto in essere nella nuova provincia una rete di rapporti con clientela

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In deroga a tali disposizioni, la normativa prevede una disposizione transitoria in base alla quale per i confidi costituiti alla data di entrata in vigore delle disposizioni medesime, la zona di competenza territoriale si estende anche alle province ove essi avevano aperto unità locali alla data del 31 dicembre 2006, secondo le risultanze del registro delle imprese. Un peculiare rilievo rivestono le disposizioni in tema di operatività prevalente, di operatività con non soci e fuori della competenza territoriale, che rispecchiano in gran parte la normativa secondaria vigente per le banche di credito cooperativo. Il requisito dell’attività prevalente nel settore della garanzia collettiva dei fidi, previsto dagli statuti, ricalca quello dei confidi ex art. 107 t.u.b. È peraltro previsto che la Banca d’Italia possa autorizzare, per periodi determinati, singole banche di garanzia collettiva a una operatività prevalente a favore di soggetti diversi dai soci, unicamente quando sussistano ragioni di stabilità. In merito all’operatività con non soci, gli statuti delle banche confidi prevedono che le esposizioni non destinate ai soci sono assunte nei confronti di soggetti che siano comunque residenti o operanti nella zona di competenza territoriale. Gli statuti possono comunque prevedere che una quota non superiore al 5% del totale delle esposizioni sia assunta al di fuori della zona di competenza territoriale (“plafond dell’operatività fuori zona”). Al pari di quanto previsto per le BCC, non rientrano nel limite della competenza territoriale le esposizioni nei confronti di intermediari vigilati e le esposizioni a ponderazione zero. Le disposizioni stabiliscono, infine, che le banche confidi non possono assumere, direttamente o indirettamente, esposizioni verso i soci sostenitori (co. 10), né nei confronti del gruppo di soggetti ad essi connessi, così come definiti dalla disciplina relativa alla concentrazione dei rischi (Titolo V, Capitolo 5, delle Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale delle banche).

ivi residente o operante e abbia raccolto almeno 200 adesioni da parte di nuovi soci; II) rispetti la disciplina in materia di requisiti patrimoniali; III) sia dotata di una organizzazione e di un sistema di controlli interni adeguati, in relazione ai rischi connessi alle differenti caratteristiche della nuova area di insediamento. Le medesime disposizioni prevedono, inoltre, che in relazione alla realizzazione di operazioni di concentrazione, la Banca d’Italia può autorizzare una banca di garanzia collettiva a estendere la propria zona di competenza territoriale alle province rientranti nella zona di competenza territoriale delle banche confidi partecipanti alle operazioni stesse.

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Per quanto concerne la destinazione degli utili, per effetto del combinato disposto dei co. 19 e 30, non si applica alle banche di garanzia collettiva l’obbligo di devoluzione ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione una quota degli utili annuali pari al 3%. Circa la disciplina prudenziale, alle banche confidi si applicano le disposizioni dettate in via generale per le banche in tema di patrimonio di vigilanza e di requisiti patrimoniali (circolare n. 263 del 27 dicembre 2006). In tale ambito, le garanzie rilasciate dalle banche confidi – al pari di quelle concesse dai confidi ex art. 107 t.u.b. – sono riconosciute ai fini dell’attenuazione del rischio di credito a fronte dei finanziamenti bancari alle imprese (Basilea 2) 29.

7. Le regole prudenziali per i confidi ex art. 107 e per le banche confidi. 7.1 Le regole sul patrimonio di vigilanza. In merito al patrimonio di vigilanza, uno dei principali problemi emersi in sede applicativa concerne la computabilità dei fondi pubblici nel patrimonio di vigilanza. In proposito, la normativa prevede che, ove nei bilanci dei confidi siano presenti poste non specificamente riconducibili alle categorie individuate dalle disposizioni in materia di patrimonio di vigilanza, la Banca d’Italia ne valuta la computabilità nel patrimonio sulla base dei seguenti criteri: – piena disponibilità, in modo da poter essere utilizzate senza limitazioni per la copertura dei rischi e delle perdite aziendali; – stabilità nel tempo, avendo a riferimento i limiti minimi di durata stabiliti per la computabilità nel patrimonio di vigilanza degli strumenti innovativi di capitale, degli strumenti ibridi di patrimonializzazione e degli strumenti subordinati; – grado di subordinazione rispetto agli altri creditori in caso di liquidazione dei confidi. Con circolare n. 1251434 del 25 novembre 2008 la Banca d’Italia ha fornito al sistema chiarimenti in merito alla computabilità nel patrimonio di vigilanza dei fondi pubblici gestiti dai confidi. È stato precisato che

29 Associazione Bancaria Italiana, Il ruolo della garanzia dei confidi nel nuovo quadro regolamentare, Documento Basilea 2, ABI, n. 4, 15 febbraio 2008.

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alcune tipologie di fondi pubblici attribuiti ai confidi non sono computabili in quanto presentano vincoli di destinazione che li rendono non pienamente disponibili, essendo gli stessi utilizzabili soltanto a copertura delle perdite che si manifestano su determinati portafogli di attività e non su tutte le perdite aziendali, ovvero, sono affidati ai confidi in semplice gestione. L’approccio dell‘autorità di vigilanza è, quindi, basato sulla verifica caso per caso dei requisiti di computabilità, anche sulla base delle attestazioni rilasciate dall’ente pubblico erogante. Le linee interpretative indicate dalla Banca d’Italia considerano, comunque, quanto disposto dall’art. 1, co. 134, della l. 24 dicembre 2007, n. 244 (finanziaria 2008) che, nel consentire ai confidi di imputare a fondo consortile, capitale sociale o apposita riserva i fondi rischi e gli altri fondi o riserve patrimoniali costituiti da contributi dello Stato, delle regioni e di altri enti pubblici, esistenti alla data del 30 giugno 2007, ha espressamente e ope legis eliminato ogni preesistente vincolo di destinazione su detti fondi. Pertanto, per tali categorie di fondi, contabilizzati nel bilancio dei confidi al 30 giugno 2007, la Banca d’Italia ha precisato che non effettuerà alcuna verifica di computabilità, salvo la verifica della effettiva pertinenza ai confidi dei fondi di cui trattasi, e in particolare che non si tratti di somme per le quali l’intermediario svolge esclusivamente un servizio di gestione per conto dell’ente erogante. Con riferimento ad alcuni fondi di origine comunitaria, disciplinati da Regolamenti europei e gestiti dalle Regioni sulla base di apposite convenzioni (c.d. Fondi DOCUP), la nota della Banca d’Italia precisa che gli stessi non possono essere computati nel patrimonio di vigilanza dei confidi, in quanto aventi specifica destinazione. È fatta salva la possibilità che, al termine degli interventi finanziari effettuati con i fondi della specie, la quota residua, se disponibile per l’ente pubblico gestore e in assenza di vincoli di destinazione derivanti dalla normativa comunitaria, sia attribuita ai confidi e imputata ai mezzi patrimoniali. 7.2 I requisiti patrimoniali. Prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina di vigilanza prudenziale, cioè nel regime normativo di Basilea 1, le garanzie personali rilasciate dai confidi iscritti nell’apposita sezione dell’elenco generale ex art. 106 t.u.b. non potevano essere riconosciute come idonee ai fini della riduzione del rischio di credito delle banche finanziatrici. Infatti, in tale quadro normativo erano riconosciuti come strumenti validi ai fini della mitigazione del rischio di credito unicamente le garanzie rilasciate dal settore pubblico o da intermediari bancari e, successivamente, da SIM.

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Le garanzie rilasciate nella forma del deposito monetario, d’altro canto, non venivano riconosciute come garanzie reali, nonostante la presenza di una somma di denaro a copertura delle prime perdite del pool di imprese affidate, in quanto detti depositi non erano considerati nella piena disponibilità della banca finanziatrice e non riferibile a un singolo credito, come richiesto dalle disposizioni. Con le disposizioni attuative di Basilea 2 30, e in particolare in base a quanto previsto dalla direttiva comunitaria in materia (Capital Requirements Directive CRD), le possibilità di riconoscimento degli strumenti di attenuazione del rischio di credito (Credit Risk Mitigation – CRM) si sono ampliate. La nuova normativa, peraltro, ha dettato una disciplina più puntuale in merito ai requisiti giuridici, economici e organizzativi per l’ammissibilità di detti strumenti a fini prudenziali, nonché in ordine alle modalità di calcolo per la determinazione dell’effetto di riduzione del rischio derivante dall’utilizzo degli strumenti di copertura. Inoltre, la possibilità di adottare le tecniche di CRM è riconosciuto a tutte le banche, indipendentemente dal metodo prescelto per il calcolo dei requisiti patrimoniali a fronte del rischio di credito, ancorché con talune differenze in merito ai profili applicativi. Nel nuovo quadro normativo si sono ampliate anche le possibilità di riconoscimento delle garanzie rilasciate dai confidi 31. Infatti, sono stati esplicitamente riconosciuti come idonei per la riduzione del rischio di credito delle banche gli schemi di garanzia mutualistica che, al momento del mancato pagamento del debitore garantito, prevedono solo il versamento immediato di un acconto – corrispondente ad una stima attendibile delle perdite economiche che la banca potrebbe subire – anziché dell’intera esposizione garantita. Le modalità del riconoscimento variano a seconda che le banche calcolino i requisiti patrimoniali con la metodologia standard o attraverso

30 Banca d’Italia, Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, Circolare 263 del 27 dicembre 2006 dicembre 2006, attuative della direttiva 2006/48/CE del 14 giugno 2006. In argomento Boccuzzi, Rischi e garanzie nella regolazione finanziaria, Bari, 2006; Vallascas, Le garanzie nella nuova regolamentazione sull’adeguatezza patrimoniale nelle banche: problemi e prospettive per i confidi, in Il Risparmio, 2005, n. 1, pp. 83-132; De Lisa, Vallascas, Marchesi, L’impatto delle garanzie sul pricing dei prestiti: una analisi di sensitività nel quadro della direttiva che recepisce Basilea 2, in Banc., 2006, n. 2, pp. 44-59. 31 Associazione Bancaria Italiana, Il ruolo della garanzia dei confidi nel nuovo quadro regolamentare, Documento Basilea 2, n. 4, 15 febbraio 2008.

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metodologie avanzate basate sul sistema dei rating interni (IRB, di base o avanzato). Le banche che utilizzano la metodologia avanzata calcolano internamente tutti i parametri di rischio e hanno, in tale ambito, autonomia nel determinare gli effetti delle garanzie, reali e personali, sulla probabilità di default o sull’ammontare delle perdite in caso di insolvenza. L’utilizzo di tali metodologie, peraltro, è soggetto alla preventiva autorizzazione della Banca d’Italia, chiamata a valutare la validità e l’affidabilità dei sistemi interni di misurazione dei rischi, già validati all’interno dell’azienda sulla base di criteri e procedure stabiliti dalle disposizioni di vigilanza. Per le banche e gli intermediari finanziari che utilizzano il metodo standardizzato, le garanzie personali rilasciate dai confidi vigilati (banche e intermediari di garanzia collettiva ex art. 107) diventano strumenti utili ai fini della credit risk mitigation, potendosi applicare la ponderazione preferenziale prevista per gli intermediari vigilati (attualmente pari al 20%) 32. Per essere riconosciute a fini prudenziali, le garanzie, a loro volta, devono possedere determinati requisiti oggettivi (la garanzia deve essere diretta, esplicita, incondizionata, escutibile tempestivamente o, in alternativa, con versamento di una somma idonea a titolo di acconto). Infine, per le garanzie rilasciate dai confidi che resteranno iscritte all’elenco ex art. 155, co. 4 del t.u.b., le garanzie personali potranno essere rilevanti a fini prudenziali solo nella misura in cui le stesse siano assistite da una controgaranzia idonea, rilasciata cioè da stati sovrani e banche centrali, enti del settore pubblico ed enti territoriali, banche multilaterali di sviluppo 33. Per l’altra forma di garanzia, basata sullo schema del deposito monetario, è possibile applicare le regole relative alle operazioni di cartolarizzazione, cioè alle strutture tranched covered, nelle quali il rischio di credito associato a un’esposizione viene suddiviso in segmenti caratterizzati da un diverso grado di esposizione alle perdite. Nel caso di specie, i confidi coprono la quota di “prima perdita” mediante i fondi monetari su un “pool” di finanziamenti (tranche junior), rimanendo a carico della banca solo la parte eccedente dell’esposizione (tranche senior).

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La ponderazione applicabile agli intermediari vigilati è determinata in funzione del rating attribuito allo Stato sovrano in cui hanno sede (un notch in meno). 33 Banca d’Italia, Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, Circolare 263 del 27 dicembre 2006, Titolo II, cap. 2, parte prima, sez. III, par. 5.5.

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Per quanto riguarda il calcolo del requisito patrimoniale da parte dei confidi vigilati, le istruzioni di vigilanza prevedono che ove le operazioni presentino le seguenti caratteristiche: – diverso grado di subordinazione del finanziatore e del confidi nelle perdite, in quanto il confidi sopporta le “prime perdite” sul pool di finanziamenti garantiti (operazioni tranched secondo la normativa delle cartolarizzazioni); – presenza nella convenzione con il soggetto finanziatore di clausole che chiariscono in modo incontrovertibile che la garanzia fornita dal confidi è pari all’ammontare del fondo monetario; – il requisito patrimoniale della banca confidi o del confidi ex art. 107 a fronte del rischio di credito delle attività garantite è pari all’ammontare dei fondi monetari, al netto delle eventuali rettifiche di valore. In tal caso la banca non deve costituire un ulteriore requisito patrimoniale a fronte dell’esposizione verso l’intermediario per i fondi ivi depositati. È altresì specificato nelle istruzioni di vigilanza che nel caso in cui, a fronte delle perdite garantite da fondi monetari, siano presenti nel passivo specifici fondi vincolati (in genere alimentati da fondi pubblici), ove detti fondi rispettino i requisiti di ammissibilità previsti dalla normativa prudenziale in materia di strumenti di attenuazione del rischio di credito, i medesimi possono essere trattati come un deposito in contanti a protezione delle esposizioni derivanti dalle anzidette garanzie costituite mediante fondi monetari.

8. Fusioni e trasformazioni dei confidi. In un quadro normativo che riconosce agli operatori del settore la più ampia libertà di scelta delle forme organizzative con le quali svolgere l’attività tipica e ne incentiva il processo di consolidamento, è prevista la possibilità per i confidi di trasformarsi in uno dei tipi associativi indicati dalla legge e nelle banche confidi, anche qualora siano costituiti sotto forma di società cooperativa a mutualità prevalente o abbiano ricevuto contributi pubblici o privati di terzi. Nella medesima direzione, la legge prevede che i confidi possano realizzare processi di concentrazione attraverso fusioni con altri confidi comunque costituiti. Alle fusioni possono partecipare anche società, associazioni, anche non riconosciute, fondazioni e consorzi diversi dai confidi, purché il consorzio o la società incorporante o che risulta dalla fusione sia un confidi o una banca confidi. Alla fusione tra confidi si applicano le ordinarie disposizioni civilistiche in tema di fusioni societarie. È previsto che, qualora gli statuti dei

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confidi partecipanti alla fusione e il progetto di fusione prevedano per i consorziati uguali diritti, indipendentemente dall’ammontare delle singole quote di partecipazione, non è necessario redigere la relazione degli esperti prevista dall’art. 2501-sexies del codice civile. Il rapporto di cambio sarà pertanto effettuato sulla base del valore nominale delle quote di partecipazione, secondo un criterio di attribuzione proporzionale. Le deliberazioni assembleari necessarie per le trasformazioni e le fusioni sono adottate con le maggioranze previste dallo statuto per le deliberazioni dell’assemblea straordinaria. Le trasformazioni e le fusioni non comportano in alcun caso per i contributi e i fondi di origine pubblica una violazione dei vincoli di destinazione eventualmente sussistenti. Le società cooperative che divengono confidi sotto un diverso tipo associativo a seguito di fusione o di trasformazione non sono soggette all’obbligo di devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (art. 11, co. 5, della l. 31 gennaio 1992, n. 59), a condizione che nello statuto del confidi risultante dalla fusione o dalla trasformazione sia previsto l’obbligo di devoluzione del patrimonio ai predetti fondi mutualistici in caso di eventuale successiva fusione o trasformazione del confidi stesso in enti diversi dal confidi ovvero dalle banche confidi. Ai fini delle imposte sui redditi i confidi, comunque costituiti, si considerano enti commerciali. Un’importante disposizione introdotta dalla riforma riguarda la possibilità per le banche, le banche confidi e i confidi ex art. 107, anche in occasione delle trasformazioni e delle fusioni, di imputare al fondo consortile o al capitale sociale i fondi rischi e gli altri fondi o riserve patrimoniali costituiti da contributi dello Stato, delle regioni e di altri enti pubblici, senza che ciò comporti violazione dei vincoli di destinazione eventualmente sussistenti, che permangono, salvo quelli a carattere territoriale, con riferimento alla relativa parte del fondo consortile o del capitale sociale. È comunque stabilito che le azioni o quote emesse in contropartita dell’imputazione costituiscono azioni o quote proprie delle banche o dei confidi, con la conseguenza che non attribuiscono alcun diritto patrimoniale o amministrativo e non sono computate nel capitale sociale o nel fondo consortile ai fini del calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea. Tale ultima statuizione riflette una scelta giusta e coerente del legislatore, in quanto imputando alla società o al consorzio le azioni o quote di cui trattasi, consente di non fare beneficiare i soci di apporti finanziari che hanno natura pubblicistica.

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9. I confidi e l’utilizzo di fondi pubblici. I confidi hanno natura privatistica e la loro attività si qualifica per l’assenza dello scopo di lucro. Nell’ambito della propria operatività i confidi sono beneficiari di fondi pubblici per il sostegno di determinati settori di attività o soggetti in difficoltà. Analisi recentemente condotte hanno posto in rilievo che più della metà dei fondi di garanzia dei confidi ha origine pubblica (Stato, Regioni e altri enti locali, Unione Europea, Camere di Commercio). Come già rilevato, l’attribuzione di fondi non implica la partecipazione degli enti pubblici agli organi dei confidi e, quindi, una responsabilità nella relativa gestione, essendo i contributi predeterminati e non correlati agli impegni presi dai confidi; sono stati, conseguentemente, richiamati i possibili effetti negativi in termini di deresponsabilizzazione dei partecipanti ai confidi e di moral hazard. L’attività dei confidi è, quindi, strettamente collegata agli interventi di sostegno dello Stato e degli altri enti pubblici a favore di determinate categorie produttive e di soggetti. Essi, in buona sostanza, costituiscono un veicolo per l’erogazione di contributi idonei a sostenere i predetti operatori. Le attribuzioni di fondi sono stabilite da leggi speciali, che disciplinano i presupposti e le modalità degli interventi di sostegno. La materia presenta profili di complessità, data la numerosità delle normative che si susseguono nel tempo per realizzare gli specifici obiettivi di incentivazione voluti dal legislatore. Per quanto concerne gli intermediari di garanzia collettiva, abilitati a gestire fondi pubblici prevalentemente nei confronti delle imprese consorziate o socie, l’art. 155, co- 4-quater, richiama l’applicabilità dell’art. 47, co. 2, t.u.b., ai sensi del quale l’assegnazione e la gestione dei fondi pubblici di agevolazione creditizia e la prestazione di servizi a essi inerenti, sono disciplinate da contratti stipulati tra l’amministrazione pubblica e le banche (e, quindi, i confidi) da questa prescelte, che disciplinano anche le modalità idonee a superare i conflitti di interesse tra l’attività svolta per conto proprio e l’attività di gestione dei fondi. È altresì applicabile, l’art. 47, co. 3, t.u.b., il quale prevede che la banca cui è attribuita la gestione di un fondo pubblico di agevolazione è tenuta a stipulare, a sua volta, contratti con altre banche (o confidi), approvati dall’amministrazione pubblica competente, per disciplinare la concessione, a valere sul fondo, di contributi relativi a finanziamenti da queste erogati 34.

34 Rispoli Farina, Articolo 47. Finanziamenti agevolati e gestione di fondi pubblici, in Testo unico delle leggi in materia bancaria, cit., p. 676 ss.

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9.1 I fondi di garanzia per gli interventi a favore di piccole e medie imprese e di imprese artigiane. Le misure adottate a seguito della recente crisi finanziaria. Il co. 25 dell’art. 13 della l. 326/2003 prevedeva il conferimento del Fondo di garanzia per le PMI, istituito presso il Mediocredito Centrale ai sensi dell’art. 2, co. 100, lett. a) della l. 23 dicembre 1996, n. 662, a una apposita società per azioni costituita dallo Stato, avente per oggetto esclusivo la gestione del fondo medesimo. I successivi co. 26 e 27 disciplinavano il funzionamento della società e il ruolo dei confidi nella medesima. Dette disposizioni, come detto, sono state abrogate da successivi interventi legislativi, per cui trova applicazione la previgente disciplina. Gli interventi del Fondo consistono essenzialmente in garanzie dirette a fronte di esposizioni di banche e di intermediari finanziari ex art. 107 t.u.b. e in controgaranzie a fronte delle garanzie rilasciate da confidi. Inoltre, il Fondo può rilasciare cogaranzie a favore dei confidi e altri fondi di garanzia sulla base di apposita convenzione. I confidi operano, altresì, nell’ambito di operatività del Fondo di garanzia di cui all’art. 2, co. 100, lett. b), della l. n. 662/1996, istituito presso l’Artigiancassa s.p.a. per gli interventi a favore di imprese artigiane. Nel quadro delle iniziative volte a sostenere l’economia reale nell’attuale congiuntura sfavorevole, con l’art. 11 del d.l. 29 dicembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito nella l. 28 gennaio 2009, n. 2, e con il d.l. n. 5/2009 (c.d. decreto incentivi) sono state adottate misure per il potenziamento finanziario dei confidi. Gli accennati provvedimenti dispongono il rifinanziamento del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese gestito dal Mediocredito Centrale di cui all’art. 15 della l. 7 agosto 1997, n. 266, i cui interventi sono estesi alle imprese artigiane; è previsto che i rappresentanti delle organizzazioni nazionali della categoria sono chiamati a far parte dell’organo competente a deliberare in materia di concessione delle garanzie. La disposizione in parola prevede, altresì, che il 30 per cento delle risorse stanziate sia riservato agli interventi di controgaranzia del Fondo a favore dei confidi. Un ulteriore aspetto di rilievo dell’intervento di cui trattasi è rappresentato dal fatto che gli interventi di garanzia del Fondo di garanzia istituito ai sensi dell’art. 2, co. 100, lett. a), della legge n. 662/1996 sono assistiti dalla garanzia di ultima istanza dello Stato sui crediti concessi alle piccole e medie imprese e alle imprese artigiane garantiti dai confidi

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e controgarantiti dal Fondo 35. Le disposizioni in parola, rese operative con un successivo decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 36, che ha definito criteri, condizioni e modalità del rilascio delle garanzie, avranno un positivo effetto sulla operatività dei confidi, anche sotto il profilo del trattamento prudenziale. A quest’ultimo riguardo, infatti, come precisato da una circolare della Banca d’Italia di agosto 2009, ai fini del calcolo dei requisiti patrimoniali, in presenza dei requisiti richiesti per le garanzie personali dalla normativa sulla mitigazione del rischio di credito, la quota dei finanziamenti alle piccole e medie imprese erogati dalle banche e dagli intermediari finanziari ex art. 107 t.u.b. (che adottano la metodologia standardizzata), garantita dai confidi e controgarantita dal Fondo di garanzia, avrà ponderazione pari a zero in quanto assistita dalla garanzia dello Stato. Le banche che adottano una metodologia basata sui rating interni potranno sostituire la probabilità di default del debitore e degli altri garanti con quella dello Stato italiano. La predetta circolare esplicativa prevede, altresì, che il predetto trattamento potrà essere applicato anche ai fini della concentrazione dei rischi, la cui disciplina permette di tenere conto di eventuali forme di protezione del credito riconosciute dalle disposizioni in materia di credit risk mitigation. L’ultimo comma dell’art. 11 del d.l. n. 185/2008 prevede, infine, che la dotazione del Fondo di cui alla legge n. 266/1997 potrà essere incrementato con contribuiti delle banche, delle Regioni e di altri enti e organismi pubblici. Sul punto è da menzionare l’art. 2, co. 2, lett. b) del decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 25 febbraio 2009 37, attuativo delle misure di ricapitalizzazione delle banche per il sostegno all’economia, secondo il quale nell’ambito del protocollo d’intenti che le banche devono sottoscrivere con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, le banche medesime devono assumere l’impegno in merito al contributo per rafforzare la dotazione del Fondo di garanzia per i finanziamenti erogati alle piccole e medie imprese.

35

Il Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese presso il Mediocredito Centrale, istituito dalla l. 23 dicembre 1996, n. 662 (disciplinato dal d.m. 23 settembre 2005) può concedere, tra l’altro, controgaranzie ai confidi. 36 Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 25 marzo 2009, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 30 aprile 2009. 37 d.m. 25 febbraio 2009, pubblicato nella G.U. del 7 marzo 2009, n. 55, contenente “Criteri, modalità e condizioni della sottoscrizione degli strumenti finanziari di cui allo stesso articolo” (cioè dell’art. 12 del d.l. 29 novembre 2008, n. 185).

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9.2 Il fondo di garanzia per gli interventi a favore di imprese agricole e della pesca. Un altro ambito di intervento dei confidi è quello a favore delle imprese agricole, a fronte del quale i confidi possono usufruire della garanzia della Sezione speciale del Fondo interbancario di garanzia, istituita con l’art. 21 della l. 9 maggio 1975, n. 153. Detta Sezione, per effetto dell’art. 17 del d.lgs. 29 marzo 2004, n. 102, è stata incorporata nell’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (ISMEA), di cui al d.p.r. 31 marzo 2001, n. 200, che è subentrato nei relativi rapporti giuridici attivi e passivi38. Tale garanzia può essere concessa a fronte di finanziamenti bancari a medio e lungo termine a favore di imprese agricole e della pesca e, al fine di favorire l’accesso di dette imprese al mercato dei capitali, a favore di banche e intermediari finanziari ex art. 107 t.u.b. a fronte di prestiti partecipativi e partecipazioni nel capitale di dette imprese assunte da banche, da intermediari finanziari e da fondi di investimento chiusi. L’ISMEA può intervenire, altresì, mediante rilascio di controgaranzia e cogaranzia in collaborazione con confidi, altri fondi di garanzia pubblici e privati, anche a carattere regionale. Con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 24 marzo 2006 è stato previsto che le garanzie di cui trattasi sono assistite dalla garanzia dello Stato quale garanzia di ultima istanza, da attivarsi in caso di mancato adempimento da parte dell’Istituto garante. Ne consegue che, ai fini del trattamento prudenziale dei finanziamenti assistiti dalla garanzia statale, in presenza degli altri requisiti previsti dalla circolare della Banca d’Italia n. 263 del 27 dicembre 2006, trova applicazione la disciplina delle tecniche di attenuazione del rischio di credito e, pertanto, alle esposizioni in parola può applicarsi la ponderazione pari a zero ai fini della disciplina sia del coefficiente di solvibilità sia della concentrazione dei rischi. 9.3 I Fondi antiusura. Particolarmente importante, infine, quale settore di intervento dei confidi, è quello rappresentato dalla gestione del “Fondo di prevenzione

L’attività di rilascio di garanzie, cogaranzie e controgaranzie è stata dall’ISMEA affidata in gestione alla Società Gestione Fondi per l’Agroalimentare (SGFA), interamente posseduta dalla prima. 38

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del fenomeno dell’usura” 39, finalizzato, insieme al “Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura”, a combattere il fenomeno dell’usura rispettivamente in chiave preventiva e repressiva 40. Il “Fondo di prevenzione” eroga due tipi di contributi: il primo, destinato ad appositi fondi speciali costituiti dai confidi, istituiti dalle associazioni di categoria imprenditoriali e dagli ordini professionali; il secondo, a favore di fondazioni e associazioni per la prevenzione del fenomeno dell’usura, iscritte in un apposito elenco tenuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. La concessione dei contributi ai confidi è subordinata alla costituzione da parte di questi di speciali fondi anti-usura, distinti e separati dai fondi rischi ordinari, destinati ad accrescere la disponibilità di credito a favore delle piccole e medie imprese a elevato rischio finanziario, garantendo fino all ’80 per cento dei finanziamenti concessi da banche e intermediari finanziari. Il ruolo delle banche e dei confidi in questo particolare ambito operativo è di particolare rilievo. Un apposito “protocollo nazionale” stipulato con le categorie interessate, sotto il coordinamento del Ministero dell’Interno, mira a potenziare i rapporti tra le due categorie di intermediari ai fini di una migliore gestione dei fondi attribuiti ai confidi.

10. Conclusioni. Per effetto della riforma e della definizione della disciplina prudenziale il settore dei confidi si trova di fronte alla necessità di adottare scelte strategiche, che riguardano non solo i singoli operatori, ma anche la categoria nel suo complesso. In altri termini, occorre che le linee di sviluppo vengano chiaramente disegnate e attuate in una logica di sistema, che porti ad una ridefinizione degli assetti strutturali ed operativi delle strutture di primo e di secondo livello 41. Il processo di cambiamento è già in atto, attraverso un significativo sviluppo delle operazio-

39 Il “Fondo di solidarietà” provvede all’erogazione di mutui senza interessi, di durata non superiore a cinque anni, a favore di soggetti che esercitano attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o comunque economica, ovvero una libera arte o professione, i quali dichiarino di essere vittime del delitto di usura. 40 In argomento, Carosio, Prevenzione dell’usura ed evoluzione dei mercati creditizi, Senato della Repubblica, II Commissione Permanente, Roma 27 marzo 2007. 41 Schena, Il ruolo, cit., p. 4.

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ni di concentrazione tra gli operatori. Infatti, a marzo 2006, secondo i dati dell’Ufficio Italiano dei Cambi, operavano in Italia 1048 confidi, con un’operatività concentrata particolarmente nelle regioni settentrionali, dove maggiore è la presenza di piccole e medie imprese, mentre il fenomeno è meno sviluppato nel Mezzogiorno. Al 30 giugno 2009, i confidi iscritti nell’elenco di cui all’art. 155 t.u.b. si sono ridotti a 768. Sembra delinearsi la tendenza, sostenuta anche dalle associazioni dei confidi, verso la trasformazione in intermediari ex art. 107 t.u.b.; al contrario, non vi sarebbero in atto iniziative volte alla trasformazione in banche confidi o alla loro costituzione ex novo. È evidente che la scelta della trasformazione in intermediario ex art. 107 o della fusione implica decisioni che richiedono una visione chiara delle problematiche da affrontare, degli investimenti da realizzare, del reperimento delle risorse patrimoniali anche in vista del rispetto dei requisiti di capitale, dell’impianto della struttura organizzativa, della governance e dei sistemi di controllo interno 42. Con la crescita delle dimensioni e della complessità operativa, gli assetti di governo assumono rilevanza cruciale, costituendo, per così dire, un prerequisito per una sana e prudente gestione dell’intermediario. Innanzitutto, in linea con la filosofia sottesa alle disposizioni in tema di governo societario delle banche 43 – che assumono uno specifico e significativo punto di riferimento – andranno attentamente disegnati equilibrati assetti per assicurare la funzionalità degli organi sociali, secondo un principio di proporzionalità, correlati alla complessità operativa e dimensionale dell’intermediario: si avrà pertanto riguardo alla composizione e alla numerosità degli organi sociali, alla chiara individuazione e distribuzione dei compiti e delle responsabilità, alla coerente configurazione del sistema delle deleghe e di reporting agli organi sociali e fra gli organi sociali. Un’enfasi particolare andrà riposta sul sistema dei controlli interni e sulla capacità dell’intermediario di gestire i molteplici rischi connessi alla propria attività, con particolare focalizzazione sui rischi di credito – tipici di un confidi – e sui rischi operativi connessi al rilevante ricorso

42 Gai, La trasformazione del confidi in intermediario vigilato: potenzialità, criticità e possibili soluzioni, in Banche e banc., 2006, n. 3, pp. 187-198. 43 Banca d’Italia, Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche, marzo 2008, emanate in attuazione del decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 5 agosto 2004, assunto in via d’urgenza in qualità di Presidente del CICR, su proposta della Banca d’Italia.

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all’esternalizzazione di funzioni aziendali, anche nel settore dei controlli, e alle scelte dei modelli distributivi. Ne consegue che tali scelte strategiche – di natura finanziaria e organizzativa – dovranno trovare piena rappresentazione e coerenza nel piano industriale da porre a base del complessivo progetto, destinato ad assumere rilievo sia sul piano interno, come guida dell’azione gestionale, ma anche in sede di presentazione alla Banca d’Italia dell’istanza per la trasformazione in confidi ex art. 107 o in banca confidi. Evidentemente, la trasformazione e la fusione in vista della crescita dimensionale non sono scelte obbligate, ma opzioni che l’ordinamento ha voluto fornire agli operatori per un riposizionamento sul mercato, alla luce delle potenzialità che esso presenta, valutandone compiutamente i costi e i rischi, ed adeguando la dotazione di capitale e l’organizzazione interna ai più elevati standard richiesti dalla normativa prudenziale. Tali opzioni sono ancora più importanti nell’attuale contesto e nella prevedibile prospettiva di un ruolo sempre più rilevante e strategico dei confidi nel finanziamento delle piccole e medie imprese, come dimostrano i più recenti provvedimenti legislativi a sostegno dell’economia.

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Rapporto banca-industria e tramonto della separatezza ∗ Sommario: 1. Crisi finanziaria e rapporto banca-industria come fatto economico da regolamentare. – 2. Le parti del rapporto banca-industria: soggetti e ruoli. – 3. La manifestazione del rapporto banca-industria: tipi e direzioni. – 4. I problemi di regolamentazione del rapporto banca-industria: maggiore o diversa concentrazione dei conflitti di interessi. – 5. Le soluzioni regolamentari adottate. – 5.1. La disciplina tedesca e la disciplina inglese: così diverse, così simili. – 5.2. La disciplina italiana ante 2009: separazione dei soggetti. – 5.3. La disciplina italiana post 2009: commistione dei soggetti e commistione dei ruoli. – 6. Le soluzioni regolamentari alternative: per un ritorno alla separazione, ma dei ruoli.

1. Crisi finanziaria e rapporto banca-industria come fatto economico da regolamentare. Il mercato finanziario lega indissolubilmente famiglie, intermediari finanziari e imprese industriali. La crisi di un settore si ripercuote necessariamente anche sugli altri, investendo l’intero sistema economico e produttivo. Se la Grande Depressione del 1929 originava da una crisi dell’economia reale che si era trasmessa all’economia finanziaria, quella odierna origina da un catastrofico default di molti intermediari finanziari che si è trasmesso alle imprese industriali su scala letteralmente globale. In entrambi i casi gli effetti sono stati gravissimi. Come in passato, allora, il rapporto esistente tra finanza e industria merita un ripensamento. Una delle cause di maggiore deflagrazione della odierna crisi è stata infatti la proliferazione all’interno del sistema finanziario di una confusione di ruoli e di una conflittualità di interessi

Le riflessioni contenute nel presente saggio costituiscono aggiornamento di quelle sviluppate in dettaglio in Benocci, Fenomenologia e regolamentazione del rapporto banca-industria. Dalla separazione per soggetti alla separazione per ruoli, Pisa, 2007, cui sia consentito il rinvio.

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divenute prima endemiche e poi «epidemiche» . Il rapporto tra banca e industria rappresenta tradizionalmente una delle manifestazioni più sintomatiche tanto di quella confusione, quanto di quella conflittualità. Dopo la crisi del 1929 gli incroci azionari tra banca e industria sono stati fortemente limitati. Le direttive comunitarie emanate poco prima della crisi del 2008 li hanno nuovamente liberalizzati e il legislatore italiano ha prontamente recepito la liberalizzazione con provvedimenti cosiddetti “anticrisi”. La lezione del passato non va dimenticata, ma va evidentemente aggiornata. Probabilmente non è più consigliabile una stretta separatezza tra banca e industria, perché l’interdipendenza tra i due settori è ritenuta oggi necessaria «per far ripartire l’economia nel suo complesso» . Tuttavia, ritengo che la recente liberalizzazione del rapporto banca-industria sotto il “profilo partecipativo” dovrebbe essere accompagnata da un contrappeso sotto il “profilo creditizio”, rappresentato da una disciplina dei fidi bancari in grado di selezionare gli affidatari in modo progressivamente più restrittivo sia a seconda della rilevanza della partecipazione detenuta dalla o nella banca, sia a seconda dell’attività, industriale o meno, esercitata dall’affidatario, in modo che il tramonto del principio di separatezza nella sua più recente versione di “separazione dei soggetti” non offra il destro a nuove commistioni pericolose e possa invece essere edulcorato in una più efficiente versione di “separazione dei ruoli”. La tesi richiede si proceda per ordine. In particolare, è necessario indagare quali siano gli specifici problemi di regolamentazione posti dal fatto economico del rapporto banca-industria e quali siano – ovvero siano state – le soluzioni regolamentari adottate, in modo da verificare se siano o meno plausibili soluzioni regolamentari alternative o correttive. A questo fine, è necessario premettere che l’analisi giuridica di un fatto umano – anche se sub specie di fatto economico – presenta delle costanti: è opportuno che si verifichi quali siano i soggetti che abitualmente lo pongono in essere e quali siano le sue più frequenti manifestazioni.

Rossi, Il conflitto epidemico, Milano, 2003, pp. 27 ss. Associazione Disiano Preite per lo studio del diritto d’impresa, Banche e imprese: alla ricerca di nuovi equilibri, in Banca, borsa, tit. cred., 2006, II, pp. 234 ss., p. 235.

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2. Le parti del rapporto banca-industria: soggetti e ruoli. I soggetti che abitualmente pongono in essere il fatto economico del rapporto banca-industria sono naturalmente le stesse parti del rapporto: da un lato, il “soggetto” industriale, da intendere convenzionalmente come società commerciale esercente attività di produzione o di scambio di beni e servizi; dall’altro, il “soggetto” bancario, da intendere come s.p.a. o s.c.a.r.l. esercente attività di raccolta del risparmio tra il pubblico ed esercizio del credito. Come parti del rapporto, banca e industria sono “soggetti” che non si differenziano né dal punto di vista della natura (nella maggior parte delle ipotesi, sono entrambe imprese collettive e societarie) né dal punto di vista della dimensione (nella maggior parte delle ipotesi, sono entrambe imprese medio-grandi), ma si differenziano dal punto di vista dell’oggetto a causa della diversa attività esercitata. Tuttavia, la differenza sotto il profilo dell’attività esercitata si ripercuote fortemente sul “ruolo”, radicalmente distinto, rivestito da banca e industria all’interno del mercato finanziario , banca e industria sono collocati nei circuiti di mercato finanziario con “ruoli” istituzionali diversi e rappresentati rispettivamente da quello statico e attuale di creditore e di debitore e da quello dinamico e potenziale di erogatore di fondi e di

A questo proposito, occorre tenere conto che il mercato finanziario può essere sinteticamente rappresentato come quel luogo ideale dove il risparmio viene trasferito dai settori nei quali viene prodotto ai settori nei quali viene utilizzato; il mercato finanziario serve quindi a mettere sostanzialmente in collegamento due estremi: il primo è rappresentato dai settori in surplus ed è costituito istituzionalmente dalle famiglie, configurabili come produttori netti di risparmio; il secondo è rappresentato dai settori in deficit ed è costituito istituzionalmente da Stato e imprese (potremmo dire industrie), configurabili come utilizzatori netti di risparmio. I fondi che vengono scambiati nel mercato finanziario possono essere trasferiti dai settori in surplus ai settori in deficit attraverso due circuiti alternativi: il circuito diretto e il circuito indiretto. Con il circuito diretto, i settori in surplus finanziano i settori in deficit attraverso l’acquisto da parte dei risparmiatori di titoli emessi da Stato e imprese e negoziati sul mercato primario o secondario. Con il circuito indiretto, i settori in surplus affidano i propri fondi a intermediari finanziari come le banche, i quali, al contrario degli enti produttivi, non vengono finanziati per produrre, bensì per rifinanziare i settori in deficit. Sul mercato creditizio, allora, i risparmiatori depositano il loro risparmio presso intermediari bancari che si obbligano a rimborsarlo maggiorato degli interessi concordati e i capitali così raccolti vengono poi impiegati dagli intermediari bancari in finanziamenti a Stato e imprese. Cfr. Goodhart, Hartmann, Llewellyn, Rojas-Suàrez e Weisbrod, The Rationale for Regulation, in Financial Regulation. Why, How and Where Now?, a cura di Goodhart, Hartmann, Llewellyn, Rojas-Suàrez e Weisbrod, London-New York, 1998, pp. 10-11.

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prenditore di fondi. Allo stesso tempo, chi assume il ruolo di erogatore di fondi è anche gravato dall’obbligo di restituzione a vista dei risparmi raccolti, con conseguenti rischi di instabilità, contagio e corsa agli sportelli e rischi di opacità e inefficienza del sistema; ne segue la necessità che la banca sia in grado di esercitare il ruolo affidatole dal collocamento nel mercato finanziario con la prudenza e l’indipendenza sufficiente a garantire – per dirla con Schumpeter – la selezione dei soli soggetti meritevoli di affidamento . L’applicazione a questa circostanza delle categorie concettuali suggerite dalla letteratura sugli agency problems consente di rilevare per banca e industria – singolarmente considerate – la presenza ineliminabile di alcuni rilevanti problemi di corporate governance. In entrambe le organizzazioni societarie, possiamo osservare che i cosiddetti portatori del rischio al residuo sono una categoria non coincidente o solo parzialmen-

Rispetto a un ente industriale, infatti, le peculiarità degli intermediari bancari possono individuarsi proprio nella natura dei contratti bancari e nella conseguente e relativa struttura di bilancio; soprattutto con l’affermazione del modello di banca universale, gli enti creditizi offrono contratti con i quali si invita il pubblico dei risparmiatori a depositare somme di denaro liquide e di valore certo che andranno a finanziare investimenti illiquidi e di valore incerto: le banche sono configurabili come intermediari caratterizzati da passività a breve termine con valore nominale certo e attività generalmente a lungo termine, rischiose e poco liquide. Ne segue che, a fronte di una difficoltà della banca alla smobilizzazione dei propri investimenti, il cliente ha invece la facoltà di ritirare il deposito senza obbligo di preavviso, con la conseguenza di dotare il bilancio e la gestione della banca di una rischiosità e di una instabilità che sono endogene al singolo intermediario e che, conseguentemente, diventano proprie dell’intero sistema. Se questi caratteri producono il vantaggio della possibilità di espansione del credito sotto forma monetaria e di conseguente centralità delle banche all’interno di un sistema finanziario, gli stessi caratteri fanno contemporaneamente anche sì che le situazioni di insolvenza o di carenza di liquidità di una singola banca inducano, al contrario che nei settori industriali, una riduzione di reputazione dell’intero sistema fino a poter indurre i clienti della singola banca in crisi a ritirare i propri risparmi contribuendo alla diffusione di fenomeni di panico bancario; il rischio è che la crisi del singolo intermediario sia contagiosa, in quanto – avvertita la perdita di garanzie da parte dell’intero sistema – anche i clienti delle altre banche potrebbero procedere a cosiddetto deposit run con la conseguenza che l’intero mercato finanziario potrebbe rischiare una degenerazione che, visto il ruolo centrale rivestito dalle banche, potrebbe determinare una spaccatura non risarcibile nel sistema dei pagamenti, bloccando l’intero sistema economico e produttivo. Cfr. Fama, What’s Different about Bank, in Journal of Monetary Economics, 1985, I, pp. 29 ss. Schumpeter, Theorie der Wirtschaftilichen Entwicklung: Eine Untersuchung uber Unternehmegewinn, Kapital, Kredit, Zins und den Konjunkturzyklus, Munich, 1911, pp. 1 ss.; Schumpeter, Business Cycles: a Theoretical, Historical and Statistical Analysis of the Capitalist Process, London-New York, 1939, pp. 1 ss.

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te sovrapponibile alla categoria dei soggetti di diritto sostanzialmente in grado di orientare i processi decisionali. I residual claimants sono cioè diversi dai decision makers: tra i primi, possiamo comprendere soci di maggioranza, soci di minoranza, creditori sociali e, nel caso delle banche, anche la collettività; tra i secondi, i fattori di regolamentazione, assetti proprietari e conoscenze specifiche suggeriscono di comprendere prevalentemente i soci di maggioranza . Tuttavia, residual claimants

La letteratura che si è interrogata su quali siano i soggetti di diritto che sono sostanzialmente in grado di orientare i processi decisionali all’interno di una società commerciale ha dato risposte che riteniamo possano dipendere da tre sostanziali fattori: regolamentazione, assetti proprietari e conoscenze specifiche. (A) Con riferimento alla “regolamentazione”, la disciplina italiana consente di ritenere che i decision makers di una società commerciale sono coloro che compongono l’organo con funzioni deliberative, cioè i soci sedenti in assemblea; dunque, la volontà manifestata formalmente dalla società è la volontà manifestata sostanzialmente dai soci. (B) Con riferimento anche all’aspetto degli “assetti proprietari”, osserviamo che il livello medio di concentrazione del capitale in un sistema produttivo è il risultato delle caratteristiche del contesto economico e finanziario considerato, ma il modello organizzativo della società commerciale è uno strumento duttile in grado di essere utilizzato sia per l’impresa a proprietà concentrata sia per l’impresa a proprietà diffusa; se questo è vero, stabilire quali siano i decision makers di una società commerciale è un quesito che non può trovare una risposta ex ante. Dal punto di vista degli assetti proprietari delle società commerciali, possiamo rappresentare diversi scenari. In presenza di una società unipersonale o di una società pluripersonale a proprietà fortemente concentrata, “regolamentazione” e “assetti proprietari” fanno sì che i decision makers siano rappresentati dalla categoria generale dei soci; i soci sono titolari del diritto di voto e, tramite il relativo esercizio in assemblea, collettivamente orientano la volontà assembleare che è volontà sociale. In presenza di una società a proprietà mediamente concentrata o di una società a proprietà mediamente diffusa, “regolamentazione” e “assetti proprietari” rendono possibile la compartecipazione, da un lato, di un ristretto numero di grandi soci che, generalmente rassicurati dalla limitazione del rischio individuale, assumono l’iniziativa economica e ambiscono all’acquisizione del governo societario (c.d. soci imprenditori) e, dall’altro lato, di una massa di piccoli soci che, generalmente rassicurati dalla possibilità del pronto smobilizzo, sono animati solo da intenti di investimento e sono solitamente apatici, assenteisti e disinteressati alla gestione della cosa sociale (c.d. soci risparmiatori); la circostanza che l’organizzazione societaria sia dominata dal principio maggioritario rende tendenzialmente proporzionale la relazione tra proprietà e controllo e conferisce il comando a chi, in modo solitario o congiunto, è in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un’influenza dominante in assemblea; dunque, i decision makers sono rappresentati dalla categoria generale dei “soci di maggioranza”. In presenza di una società a proprietà fortemente diffusa, “regolamentazione” e “assetti proprietari” rendono impossibile l’esistenza di un gruppo stabile di soci in grado altrettanto stabilmente di nominare, revocare, esercitare azioni di responsabilità e determinare il compenso degli amministratori; ne segue che non esisterà un gruppo stabile di soci che sia in grado di vigilare sull’operato degli stessi “amministratori” che, conseguentemente, costituiranno la categoria di decision makers. (C) Con riferimento anche al-

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e decision makers costituiscono categorie di portatori di interessi con funzioni di utilità non necessariamente convergenti . Allora, in tutte le

l’aspetto delle “conoscenze specifiche”, la letteratura specializzata è solita porre due distinte premesse: la prima è che, all’interno dei processi decisionali di tutte le organizzazioni (e quindi anche delle società commerciali), è possibile distinguere due momenti: la direzione (iniziativa e realizzazione) e il controllo (ratifica e sorveglianza); la seconda è che, all’interno di tutte le organizzazioni (e quindi anche delle società commerciali), è possibile distinguere tra organizzazione “complessa” e organizzazione “non complessa” a seconda che i relativi processi decisionali richiedano o non richiedano conoscenze specifiche. Anche con riferimento alle conoscenze specifiche, il modello organizzativo della società commerciale può essere considerato uno strumento particolarmente duttile e, ancora una volta, la duttilità rappresenta un ostacolo all’individuazione ex ante di quali siano i soggetti di diritto sostanzialmente in grado di orientare i processi decisionali; tuttavia, la combinazione dei fattori di “regolamentazione”, “assetti proprietari” e “conoscenze specifiche” consente di declinare le argomentazioni di quella letteratura e di rappresentare tre distinti scenari. Il primo scenario è rappresentato dalla presenza di una società “non complessa” a proprietà concentrata: in questo caso, è presente un gruppo stabile di soci di maggioranza che è in grado di esercitare il governo societario ed è solito mantenere sia la direzione sia il controllo del processo decisionale; in questo caso, dunque, i decision makers sono i “soci di maggioranza”. Il secondo scenario è rappresentato dalla presenza di una società “complessa” a proprietà concentrata: in questo caso, i soci di maggioranza sono soliti delegare la direzione dei processi decisionali agli amministratori, ma sono soliti mantenerne il controllo; in questo caso, dunque, i decision makers sono i “soci di maggioranza” e, su delega di questi, gli “amministratori”. Il terzo scenario è rappresentato dalla presenza di una società “complessa” a proprietà diffusa: in questo caso, un gruppo stabile di soci di maggioranza è assente e l’assemblea di tutti i soci è solita delegare la direzione dei processi decisionali agli amministratori e il relativo controllo ai sindaci; in questo caso, dunque, i decision makers sono, su delega delle maggioranze assembleari formatesi di volta in volta, gli “amministratori” e i “sindaci” della società. Sulla scorta delle considerazioni svolte, ci sembra di poter sostenere che, in tutti gli scenari descritti, i soggetti di diritto che, con le dovute distinzioni, sono sostanzialmente in grado di orientare i processi decisionali sono sempre i medesimi e sono rappresentati dalla categoria dei soci di maggioranza. Anche in presenza di società a proprietà fortemente diffusa e in presenza di società “complesse” (meglio, anche in assenza di maggioranze assembleari stabili e in assenza di soci dotati delle necessarie competenze specifiche), è pur sempre vero che gli organi di direzione e controllo sono espressione della maggioranza assembleare, che continuerà – anche se non in maniera stabile come negli altri casi – ad essere il dominus del rapporto di mandato. Cfr. Berle e Means, The Modern Corporation and Private Property, New York, 1932, pp. 3 ss.; Fama e Jensen, Separation of Ownership and Control, in Journal of Law and Economics, 1983, I, pp. 301 ss.; Jensen e Meckling, Theory of the Firm: Managerial Behaviour, Agency Costs and Ownership Structure, in Journal of Financial Economics, 1976, I, pp. 305 ss.; Easterbrook e Fischel, The Economic Structure of Corporate Law, Cambridge MA, 1991, pp. 8 ss.; Fama e Jensen, Agency Problems and Residual Claims, in Journal of Political Economy, 1983, I, pp. 288 ss. Infatti, i creditori sociali sono portatori del rischio di vedere inadempiuta la prestazione oggetto del diritto di credito e, conseguentemente, hanno interesse a conseguire

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società commerciali è ravvisabile un certo numero e un certo tipo di rapporti principale-agente che si caratterizzano per la circostanza che l’agente è incaricato dal principale di gestire il suo interesse con una certa discrezionalità. Questi rapporti generano dei costi rappresentati dal rischio di opportunismo dell’agente nei confronti del principale. Vista la possibile presenza di funzioni di utilità divergenti, è possibile che l’agente adotti una condotta diversa rispetto a quella che permetterebbe di perseguire l’interesse del principale : sono così possibili manifestazioni di opportunismo dei soci nei confronti dei creditori sociali; manifestazioni di opportunismo dei soci di maggioranza nei confronti dei soci di minoranza; manifestazioni di opportunismo degli amministratori nei confronti dei soci di maggioranza; e, nel caso delle banche, sono possibili anche manifestazioni di opportunismo della banca nei confronti della fiducia ad essa accordata dalla collettività, che può essere tradita se la banca non garantisce indipendenza e prudenza nella selezione degli affidati; che può essere tradita, cioè, se la banca devia rispetto alla condotta imposta dalla funzione schumpeteriana del credito e dal “ruolo” ad essa attribuito dalla sua collocazione nel mercato finanziario .

quell’adempimento; i soci di minoranza sono portatori del rischio di sopportare la perdita del capitale investito e, conseguentemente, hanno interesse a conseguire degli utili; anche i soci di maggioranza sono evidentemente portatori del rischio di sopportare la perdita del capitale investito, ma è evidente che il maggior rischio assunto e il maggior potere esercitabile li abilita ad avere interesse a conseguire non solo utili, ma anche benefici privati connessi alla detenzione del controllo societario, come il prestigio o il sostanziale potere di influenza politica; osserviamo, dunque, che ciascuna categoria di residual claimants ha una propria funzione di utilità non necessariamente convergente con quella delle altre categorie. Cfr. Grossman e Hart, Take-Overs Bids, the Free Rider and the Theory of Corporation, in Bell Journal of Economics, 1980, I, pp. 42 ss.; Grossman e Hart, The Costs and Benefits of Ownership: A Theory of Vertical and Lateral Integration, in Journal of Political Economy, 1986, II, pp. 691 ss., p. 699. Berle e Means, The Modern Corporation and Private Property, cit., pp. 3 ss.; Fama e Jensen, Separation of Ownership and Control, cit., pp. 303 ss. Dunque, se la presenza dei descritti agency costs può essere rilevata per tutte le società commerciali (bancarie o industriali che siano), la presenza di una banca rende possibile la rilevazione di un’ulteriore manifestazione dei costi di agenzia. Il ruolo rivestito dalla banca all’interno del mercato finanziario messo in luce dalla funzione schumpeteriana del credito consente di rilevare come, in presenza di una banca, oltre a soci di maggioranza, soci di minoranza e creditori sociali, possa considerarsi presente una categoria ulteriore e speciale di residual claimant: la collettività. Se è vero che la presenza di una società bancaria dà luogo a coinvolgimento non solo di interessi privati e individuali, ma anche di interessi pubblici o collettivi rappresentati dall’interesse alla tutela degli investitori, alla stabilità, alla concorrenza, alla trasparenza e correttezza e, in

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Anche singolarmente considerate, banca e industria presentano quindi ineliminabili problemi di governo societario, rappresentati da una strutturale e quindi ordinaria concentrazione di conflitti di interessi; in quanto tale, questa ordinaria concentrazione di conflitti di interessi non può considerarsi un problema di regolamentazione di una disciplina dedicata al rapporto banca-industria, visto che, un rapporto banca-industria, non può dirsi nemmeno instaurato.

definitiva, alla sana e prudente gestione dell’intermediario, allora è anche vero che, in presenza di una banca, siamo in ogni caso in presenza di interessi che, ricorrendo alle categorie di teoria generale del diritto, possono essere annoverati nell’ambito dei cosiddetti interessi diffusi: l’interesse non presenta un punto di riferimento oggettivo rappresentato da un bene suscettibile di appropriazione individuale e risulta essere imputabile a tutta la collettività. Se titolare dell’interesse da tutelare è la collettività, è evidente che l’impossibilità materiale alla titolarità dei poteri e delle facoltà di tutelarlo impone che tali poteri e facoltà siano attribuiti ad un soggetto di diritto distinto e materialmente idoneo: questo soggetto è generalmente individuabile nello Stato e, in particolare, nelle autorità di vigilanza configurate come organi preposti alla tutela degli interessi pubblici di mercato finanziario della stabilità, della concorrenza e della trasparenza e correttezza. In Italia, tipicamente e rispettivamente la Banca d’Italia, l’Agcm e la Consob. In presenza di una banca, quindi, esiste un altro e distinto residual claimant che, su delega della collettività, è rappresentato dalle autorità di vigilanza; pur con qualche eccesso di approssimazione, possiamo sostenere che le autorità di vigilanza sono portatrici di un rischio residuo che è quello che la collettività sopporti delle perdite indotte dalla sopravvenuta instabilità del sistema, dalla perdita di competitività, dalla possibile opacità e scorrettezza dei comportamenti degli intermediari e dalla possibilità, in definitiva, di perdere il benessere economico detenuto o acquisito. In presenza di una banca, dunque, i relativi decision makers – rappresentati prevalentemente dai relativi soci di maggioranza – sono chiamati a gestire non solo i tradizionali interessi propri; non solo i tradizionali interessi non propri degli azionisti di minoranza; e non solo i tradizionali interessi non propri dei creditori sociali; ma sono chiamati anche a gestire eccezionalmente altri interessi non propri e di natura pubblica, imputabili alla collettività e sostanzialmente tutelati dalle autorità di vigilanza. Allora, è evidente che accanto ai costi di agenzia tipici di ogni società commerciale, la presenza di una società bancaria rivela l’esistenza di un rapporto principale-agente dove principal è l’autorità di vigilanza su delega della collettività e agent è la banca come soggetto di diritto; quindi, la manifestazione del relativo agency cost è quella del possibile opportunismo della banca nei confronti della fiducia ad essa accordata dalla collettività; fiducia che può essere tradita se la banca non garantisce indipendenza e prudenza nella selezione degli affidati. Cfr. Jaeger e Marchetti, Corporate governance, in Giur. comm., 1997, III, pp. 625 ss., Jaeger, L’interesse sociale, Milano, 1964, pp. 11 ss.; Enriques, Il conflitto di interesse nella gestione delle banche, in Il governo delle banche in Italia, a cura di Riolo e Masciandaro, Roma, 1999, p. 335; Jensen e Meckling, Theory of the Firm, cit., pp. 305 ss.; Davies, Introduction of Company Law, Oxford, 2002, pp. 45 ss.; Oppo, Diritto privato e interessi pubblici, in Riv. dir. civ., 1994, I, pp. 31 ss., passim.

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3. La manifestazione del rapporto banca-industria: tipi e direzioni. Passando dalla descrizione delle parti del rapporto alla descrizione della sua possibile manifestazione, osserviamo che l’instaurazione di un rapporto banca-industria può manifestarsi secondo varietà indeterminate, ma comunque riconducibili a determinate componenti fenomenologiche, frutto dell’incrocio di due criteri distintivi: il criterio tipologico, che consente di distinguere rapporto “creditizio-obbligatorio” e rapporto “partecipativo-reale” a seconda della situazione giuridica soggettiva di cui banca e industria sono parte – diritto soggettivo privato relativo o diritto soggettivo privato assoluto – e il criterio direzionale, che consente di distinguere rapporto “banca verso industria” e rapporto “industria verso banca” a seconda della posizione – attiva o passiva – rivestita da banca e industria nella situazione giuridica soggettiva considerata. Quando parliamo di rapporto di tipo “creditizio” ovvero di tipo “obbligatorio”, facciamo riferimento a tutte quelle manifestazioni del rapporto tra banca e industria riconducibili alla situazione giuridica soggettiva denominata “diritto soggettivo relativo”; più specificatamente, facciamo riferimento a tutte quelle manifestazioni del rapporto tra banca e industria riconducibili alla situazione giuridica soggettiva rappresentata dal “diritto di credito”, in quanto manifestazione prevalente del “diritto soggettivo relativo”. Facciamo quindi riferimento all’ipotesi istituzionale secondo la quale la banca fa la banca e l’industria fa l’industria; cioè la banca raccoglie il risparmio e finanzia l’industria e l’industria utilizza il finanziamento e produce beni e servizi; facciamo riferimento all’ipotesi in cui, dal punto di vista statico, il soggetto bancario riveste il ruolo istituzionale di creditore del soggetto industriale e il soggetto industriale riveste il ruolo istituzionale di debitore del soggetto bancario, mentre, dal punto di vista dinamico, il soggetto bancario riveste istituzionalmente il ruolo di erogatore di fondi in favore del soggetto industriale e il soggetto industriale riveste istituzionalmente il ruolo di prenditore di fondi dal soggetto bancario. Quando parliamo di rapporto di tipo “partecipativo” ovvero di tipo “reale”, facciamo invece riferimento a tutte quelle manifestazioni del rapporto tra banca e industria riconducibili alla situazione giuridica soggettiva denominata “diritto soggettivo assoluto”; più specificatamente, vogliamo fare riferimento a tutte quelle manifestazioni del rapporto tra banca e industria riconducibili alla situazione giuridica soggettiva rappresentata dal “diritto reale”, in quanto il diritto reale è – rispetto agli altri diritti soggettivi assoluti rappresentati dai diritti della personalità – manifestazione prevalente del “diritto soggettivo assoluto” nel campo

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delle relazioni economiche. Facciamo quindi riferimento ad un’ipotesi meno tradizionale, in forza della quale la banca partecipa al capitale dell’industria e l’industria partecipa al capitale della banca; dal punto di vista statico, il soggetto bancario riveste il ruolo di socio del soggetto industriale e il soggetto industriale riveste il ruolo di socio del soggetto bancario, che è come dire che la banca fa l’industria e l’industria fa la banca; dal punto di vista dinamico, infatti, il soggetto bancario riveste eccezionalmente un ruolo che nel mercato finanziario è istituzionalmente rivestito dal soggetto industriale (quello di prenditore di fondi) e il soggetto industriale riveste eccezionalmente un ruolo che nel mercato finanziario è istituzionalmente rivestito dal soggetto bancario (quello di erogatore di fondi).

4. I problemi di regolamentazione del rapporto banca-industria: maggiore o diversa concentrazione dei conflitti di interessi. Una volta preso atto del fatto economico rappresentato dalle varie e possibili manifestazioni del rapporto banca-industria, è possibile procedere oltre e individuarne i relativi problemi di regolamentazione. A questo fine, è possibile procedere individuando: (1) quali siano le condizioni generalmente ricorrenti in un sistema finanziario affinché il rapporto tra settore bancario e settore industriale trovi occasione di instaurazione; (2) quali siano le esternalità derivanti dall’instaurazione delle varie componenti fenomenologiche del rapporto banca-industria per verificare la presenza o meno di eventuali problemi di regolamentazione. Con riferimento al primo aspetto, la letteratura economica afferma che i sistemi market based possono considerarsi sistemi finanziari orientati alla separatezza tra banca e industria, mentre i sistemi credit based possono considerarsi sistemi finanziari orientati alla commistione. Nei sistemi market based, la diffusione della proprietà e la robustezza del mercato dei capitali renderebbero i rapporti tra banca e industria più inclini ad una spontanea autonomia. Nei sistemi credit based, la concentrazione della proprietà e la robustezza del mercato del credito renderebbero i rapporti tra banca e industria più inclini ad una spontanea interdipendenza 10. Pur scontando una certa approssimazione, è possibile sostene-

10 Sul confronto tra modelli di capitalismo, vedi Albert, Capitalisme contre capitalisme, Paris, 1991, pp. 23 ss.; Barca, Bianco, Cannari, Cesari, Gola, Manitta, Salvo e Si-

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re che è ravvisabile una certa relazione biunivoca tra caratteri di un sistema finanziario e caratteri del conseguente rapporto banca-industria: nel passaggio dai sistemi finanziari market based ai sistemi finanziari credit based, assistiamo ad un corrispondente passaggio da una tendenziale separatezza a una tendenziale commistione tra banca e industria. Con riferimento al secondo aspetto, è necessario distinguere, da un lato, le esternalità scaturenti dall’instaurazione di “singole” componenti fenomenologiche del rapporto banca-industria e, dall’altro, le esternalità scaturenti dall’instaurazione “congiunta” delle stesse componenti fenomenologiche. Le esternalità derivanti dall’instaurazione di “singole” componenti fenomenologiche sono sostanzialmente positive o neutre. Possiamo distinguere tre ipotesi. In primo luogo, deve essere considerata l’instaurazione di un rapporto di tipo solo creditizio: in questo caso, siamo evidentemente in presenza di una banca che concede un finanziamento in favore di un’industria senza che, contemporaneamente, la banca sia socia di quell’industria o quell’industria sia socia della banca 11. In secondo luo-

Assetti proprietari e mercato delle imprese, Bologna, 1994, pp. 2 ss.; Mayer, The Influence of Financial System on the British Corporate Sector, in The Separation of Industry and Finance and the Specialization of Financial Institutions, a cura di Porta, Milano, 1990, pp. 83 ss.; Porta, The Separation of Finance and Industry: a Comparative Analysis. Introduction, in The Separation of Finance and Industry and the Specialization of Financial Institutions, a cura di Porta, Milano, 1991, pp. 205-208; Barca, Imprese in cerca di padrone. Proprietà e controllo nel capitalismo italiano, Bari, 1994, p. 147; Manne, Mergers and the Market for Corporate Control, in Journal of Political Economy, 1965, I, pp. 110 ss., p. 124; Easterbrook e Fischel, The Economic Structure of Corporate Law, cit., pp. 112 ss. 11 In caso d’instaurazione di un rapporto di tipo solo creditizio (nella direzione banca-industria, unica direzione qui contemplata), siamo di fronte a un’ipotesi assolutamente ordinaria, nella quale la banca riveste il solo ruolo di creditore dell’industria e l’industria il solo ruolo di debitore della banca; così facendo, cioè, banca e industria rivestono ruoli istituzionali che determinano una produzione di effetti neutri o positivi. Se la banca finanzia semplicemente l’industria, infatti, i residual claimants della vicenda complessiva sono la collettività, i creditori sociali della banca, i creditori sociali dell’industria, i soci di minoranza della banca, i soci di minoranza dell’industria, i soci di maggioranza dell’industria e, infine, i soci di maggioranza della banca; questi rivestono contemporaneamente due ruoli: direttamente, quello di soci di maggioranza della banca e, indirettamente, quello di creditori sociali dell’industria; i decision makers, invece, non sono sempre la stessa categoria di soggetti, in quanto, a gestire gli interessi dei residual claimants della banca, sono tenuti ordinariamente i soci di maggioranza della banca, mentre, a gestire gli interessi dei residual claimants dell’industria, sono tenuti ordinariamente i soci di maggioranza dell’industria. La concentrazione dei conflitti d’interessi, gnorini,

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go, deve essere considerata l’instaurazione di un rapporto di tipo solo partecipativo nella direzione banca-industria: in questo caso, dobbiamo rappresentare la circostanza che una banca partecipi al capitale di un’industria senza che, contemporaneamente, quella banca sia anche creditrice di quell’industria 12. In terzo luogo, deve essere considerata l’ipotesi

allora, è quella ordinaria. 12 In caso di instaurazione di un rapporto di tipo solo partecipativo nella direzione banca-industria (e, in particolare, un rapporto partecipativo di controllo), è evidente che la banca riveste il solo ruolo di socio di controllo dell’industria e l’industria riveste il solo ruolo di società controllata dalla banca. Anche in questo caso, si producono effetti essenzialmente positivi: possono essere favoriti processi di salvataggio di imprese industriali sane, ma in temporanea difficoltà; possono essere favorite acquisizioni di competenze di gestione industriale; può essere favorita la riduzione delle asimmetrie informative. Se la banca controlla semplicemente l’industria, infatti, i residual claimants della vicenda complessiva sono la collettività, i creditori sociali della banca, i creditori sociali dell’industria, i soci di minoranza della banca, i soci di minoranza dell’industria e, infine, i soci di maggioranza della banca; questi rivestono contemporaneamente due ruoli: direttamente, quello di soci di maggioranza della banca e, indirettamente, quello di soci di maggioranza dell’industria; in ogni caso, i decision makers sono sempre i soci di maggioranza della banca. Possiamo trarre ulteriori indicazioni. Come residual claimants, i soci di maggioranza della banca sono portatori di due distinti interessi complementari: in quanto diretti soci di maggioranza della banca, essi hanno interesse a conseguire, oltre ad eventuali benefici privati, soprattutto degli utili rappresentati dalla differenza tra interessi riscossi sui fondi erogati alle industrie e interessi pagati sui depositi raccolti presso il pubblico e, quindi, hanno interesse a “vendere credito” e a offrire fondi; in quanto indiretti soci di maggioranza dell’industria, essi hanno interesse a conseguire utili rappresentati dalla tradizionale differenza tra ricavi e costi di produzione e hanno interesse, dunque, alla remunerazione del capitale di rischio o di debito a disposizione e, quindi, hanno interesse ad avere a disposizione capitali da investire e, in definitiva, hanno interesse a domandare fondi. Come residual claimants, dunque, i soci di maggioranza della banca hanno contemporaneamente interesse ad offrire e a domandare fondi; è confermato, dunque, che i soci di maggioranza della banca sono portatori di funzioni di utilità complementari. Come decision makers, tuttavia, i soci di maggioranza della banca non sono in grado di realizzarli fuori dalle regole ordinarie di mercato; non sono in grado, cioè, di far contemporaneamente offrire fondi alla banca e domandare fondi all’industria e ciò, in ragione della premessa che il rapporto deve essere solo partecipativo e non può contemporaneamente sussistere un rapporto anche creditizio; ne segue che, come diretti soci di maggioranza della banca, dovranno offrire fondi a industrie diverse da quella controllata e, come indiretti soci di maggioranza dell’industria, dovranno domandare fondi a banche diverse da quella controllante; ne segue che i soci di maggioranza della banca dovranno comportarsi non solo come ordinari decision makers della banca, ma anche come ordinari decision makers dell’industria: considerando l’industria controllata, allora, possiamo dire che il relativo socio di controllo è configurabile, nonostante la natura bancaria a monte, come socio di controllo di natura industriale pura a valle. Ne segue che, nella loro qualità di decision makers della banca, i soci di maggioranza

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di un rapporto di tipo solo partecipativo nella direzione industria-banca: in questo caso, l’industria partecipa al capitale di una banca senza che, contemporaneamente, ne sia anche debitrice 13. In tutte queste ipotesi,

della banca sono chiamati a gestire e a tutelare non solo interessi propri, ma anche interessi non propri e potenzialmente in conflitto di una variegata compagine di residual claimants (collettività, creditori sociali della banca, soci di minoranza della banca) che, tuttavia, non sono né maggiori né diversi rispetto a quanto avviene nelle ipotesi ordinarie; ne segue ancora che, nella loro qualità di decision makers dell’industria, i soci di maggioranza della banca sono chiamati a gestire e a tutelare non solo interessi propri, ma anche interessi non propri e potenzialmente in conflitto di una variegata compagine di residual claimants (creditori sociali dell’industria, soci di minoranza dell’industria) che, tuttavia, non sono né maggiori né diversi rispetto a quanto avviene nelle ipotesi ordinarie. La concentrazione dei conflitti di interessi, allora, è quella ordinaria. 13 In caso di instaurazione di un rapporto di tipo solo partecipativo nella direzione industria-banca (e, in particolare, un rapporto partecipativo di controllo), è evidente che l’industria riveste il solo ruolo di socio di controllo della banca e la banca riveste il solo ruolo di società controllata dall’industria. Anche in questo caso, allora, si producono effetti essenzialmente positivi: possono essere favoriti processi di capitalizzazione del sistema bancario mediante l’apporto di nuovi mezzi patrimoniali alle banche e possono essere favoriti gli apporti di nuove qualità manageriali; e poi, ancora una volta, riduzione di asimmetrie informative, economie di diversificazione e crescita sostenibile. Se l’industria controlla semplicemente la banca, infatti, i residual claimants della vicenda complessiva sono la collettività, i creditori sociali dell’industria, i creditori sociali della banca, i soci di minoranza dell’industria, i soci di minoranza della banca e, infine, i soci di maggioranza dell’industria; questi rivestono contemporaneamente due ruoli: direttamente, quello di soci di maggioranza dell’industria e, indirettamente, quello di soci di maggioranza della banca; in ogni caso, i decision makers sono sempre i soci di maggioranza dell’industria. Possiamo trarre ulteriori indicazioni. Come residual claimants, i soci di maggioranza dell’industria sono portatori di due distinti interessi complementari: in quanto diretti soci di maggioranza dell’industria, essi hanno interesse a conseguire utili rappresentati dalla tradizionale differenza tra ricavi e costi di produzione e hanno interesse, dunque, alla remunerazione del capitale di rischio o di debito a disposizione e, quindi, hanno interesse ad avere a disposizione capitali da investire e, in definitiva, hanno interesse a domandare fondi; in quanto indiretti soci di maggioranza della banca, essi hanno interesse a conseguire, oltre ad eventuali benefici privati, soprattutto degli utili rappresentati dalla differenza tra interessi riscossi sui fondi erogati alle industrie e interessi pagati sui depositi raccolti presso il pubblico e, quindi, hanno interesse a “vendere credito” e a offrire fondi. Come residual claimants, dunque, i soci di maggioranza dell’industria hanno contemporaneamente interesse a domandare e ad offrire fondi; è confermato, dunque, che i soci di maggioranza dell’industria sono portatori di funzioni di utilità complementari. Come decision makers, tuttavia, i soci di maggioranza dell’industria non sono in grado di realizzarli fuori dalle regole ordinarie di mercato; non sono in grado, cioè, di far contemporaneamente domandare fondi all’industria e offrire fondi alla banca e ciò, in ragione della premessa che il rapporto deve essere solo partecipativo e non può contemporaneamente sussistere un rapporto anche creditizio;

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la gestione della banca e la gestione dell’industria sono caratterizzate da una concentrazione di conflitti di interessi né quantitativamente maggiore né qualitativamente diversa rispetto alle ipotesi di mancata instaurazione del rapporto; questo avviene perché il rapporto dà luogo a una relazione tra “soggetti” che non arriva a essere una relazione tra “ruoli” e, dunque, non ne produce la relativa confusione. La concentrazione dei conflitti di interessi è quella ordinaria e, in quanto tale, non costituisce uno specifico problema di regolamentazione che deve essere risolto da una disciplina sui rapporti tra banca e industria 14. Le esternalità derivanti dall’instaurazione “congiunta” delle componenti fenomenologiche del rapporto banca-industria sono invece sostanzialmente negative. Possiamo distinguere due ipotesi. In primo luogo, deve essere considerata l’instaurazione di un rapporto di tipo creditizio in presenza di un rapporto di tipo partecipativo nella direzione ban-

ne segue che, come diretti soci di maggioranza dell’industria, dovranno domandare fondi a banche diverse da quella controllata e, come indiretti soci di maggioranza della banca, dovranno offrire fondi a industrie diverse da quella controllante; ne segue che i soci di maggioranza dell’industria dovranno comportarsi non solo come ordinari decision makers dell’industria, ma anche come ordinari decision makers della banca: considerando la banca controllata, allora, possiamo dire che il relativo socio di controllo è configurabile, nonostante la natura industriale a monte, come socio di controllo di natura bancaria pura a valle. Ne segue che, nella loro qualità di decision makers dell’industria, i soci di maggioranza dell’industria sono chiamati a gestire e a tutelare non solo interessi propri, ma anche interessi non propri e potenzialmente in conflitto di una variegata compagine di residual claimants (creditori sociali dell’industria, soci di minoranza dell’industria) che, tuttavia, non sono né maggiori né diversi rispetto a quanto avviene nelle ipotesi ordinarie; ne segue ancora che, nella loro qualità di decision makers della banca, i soci di maggioranza dell’industria sono chiamati a gestire e a tutelare non solo interessi propri, ma anche interessi non propri e potenzialmente in conflitto di una variegata compagine di residual claimants (collettività, creditori sociali della banca, soci di minoranza della banca) che, tuttavia, non sono né maggiori né diversi rispetto a quanto avviene nelle ipotesi ordinarie. La concentrazione dei conflitti di interessi, allora, è quella ordinaria. 14 Porta, Assetti proprietari dell’impresa bancaria: un confronto fra i diversi modelli, in Coop. cred., 1997, II, pp. 257 ss., p. 262; Cranston, Principles of Banking Law, Oxford, 2002, p. 34; Lucarini, La separatezza tra banca e industria: il punto di vista di un giurista, in AGE, 2004, I, pp. 63 ss.; Bianchi, Riflessioni sulla “separatezza” fra banca e industria, in Banche e banc., 1986, XII, pp. 859 ss.; Cesarini, I rapporti tra banca e industria nell’ultima opera di A. Confalonieri, in Il Risparmio, 1998, III, pp. 515 ss., p. 520; Guaccero, La partecipazione del socio industriale nella società bancaria, Milano, 1997, pp. 41 ss.; Costi, Banca e industria, in La nuova legge bancaria, a cura di Rispoli Farina, Napoli, 1995, p. 123.

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ca-industria: in questo caso, la banca controlla l’industria finanziata 15.

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Prendiamo in considerazione l’ipotesi di instaurazione di un rapporto di tipo creditizio in presenza di un rapporto di tipo partecipativo nella direzione banca-industria. Dal punto di vista statico, la banca riveste il ruolo di creditore dell’industria e, contemporaneamente, riveste il ruolo di socio dell’industria; se la partecipazione della banca al capitale dell’industria è di ammontare sufficiente a consentire alla banca di esercitare un’influenza dominante nell’assemblea dell’industria, è evidente che, dal punto di vista dinamico, la descritta ipotesi di instaurazione congiunta induce in ogni caso la banca a rivestire contemporaneamente il ruolo istituzionale di erogatore di fondi e il ruolo eccezionale di prenditore di fondi. Quali sono le conseguenze? Se la banca controlla l’industria finanziata, allora i residual claimants della vicenda complessiva sono la collettività, i creditori sociali della banca, i creditori sociali dell’industria, i soci di minoranza della banca, i soci di minoranza dell’industria e, infine, i soci di maggioranza della banca; questi rivestono contemporaneamente tre ruoli: direttamente, quello di soci di maggioranza della banca e, indirettamente, quello di creditori sociali dell’industria e quello di soci di maggioranza dell’industria; in ogni caso, i decision makers sono sempre i soci di maggioranza della banca. Possiamo trarre ulteriori indicazioni. Come residual claimants, i soci di maggioranza della banca sono portatori di tre distinti interessi complementari: in quanto diretti soci di maggioranza della banca, essi hanno interesse a conseguire, oltre ad eventuali benefici privati, soprattutto degli utili rappresentati dalla differenza tra interessi riscossi sui fondi erogati alle industrie e interessi pagati sui depositi raccolti presso il pubblico e, quindi, hanno interesse a “vendere credito” e a offrire fondi; in quanto indiretti creditori sociali dell’industria, poi, essi hanno interesse a conseguire l’adempimento della prestazione oggetto del diritto di credito e hanno interesse a che le industrie affidate conservino la propria garanzia patrimoniale e si mantengano in bonis, in modo da poter fare affidamento sulla loro solvibilità e sulla relativa capacità di restituzione dei fondi e di pagamento degli interessi e, quindi, hanno interesse ad offrire fondi; in quanto indiretti soci di maggioranza dell’industria, infine, essi hanno interesse a conseguire utili rappresentati dalla tradizionale differenza tra ricavi e costi di produzione e hanno interesse, dunque, alla remunerazione del capitale di rischio o di debito a disposizione e, quindi, hanno interesse ad avere a disposizione capitali da investire e, in definitiva, hanno interesse a domandare fondi. Come residual claimants, dunque, i soci di maggioranza della banca hanno contemporaneamente interesse a offrire e a domandare fondi; è confermato, dunque, che i soci di maggioranza della banca sono portatori di funzioni di utilità complementari. Come decision makers, inoltre, i soci di maggioranza della banca sono in grado di realizzarli fuori dalle regole ordinarie di mercato; sono in grado, cioè, di far contemporaneamente offrire fondi alla banca e domandare fondi all’industria e, a tale fine, esiste l’evidente possibilità che venga deliberata una concessione di credito a condizioni ingiustificatamente privilegiate a prescindere dal corretto scrutinio del merito creditizio. Tuttavia, abbiamo visto più sopra che, nella loro qualità di decision makers, i soci di controllo della banca sono chiamati a gestire e a tutelare non solo i propri interessi, ma anche gli interessi non propri di una variegata compagine di residual claimants: quelli della collettività, quelli dei creditori sociali di banca e industria e quelli dei soci di minoranza di banca e industria che, come specificato più sopra, fanno capo a categorie con autonome funzioni di utilità e possono costituire interessi in conflitto con quelli perseguiti dai soci di maggioranza della banca. Se la banca controlla l’industria

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In secondo luogo, deve essere considerata l’instaurazione di un rapporto di tipo creditizio in presenza di un rapporto di tipo partecipativo nella direzione industria-banca: in questo caso, l’industria controlla la banca finanziatrice 16. In entrambe le ipotesi, la gestione della banca e la ge-

finanziata, dunque, i soci di maggioranza della banca sono chiamati a gestire interessi quantitativamente maggiori (anche se non qualitativamente diversi) rispetto agli interessi che sono chiamati a gestire nell’ipotesi di mancata instaurazione del rapporto. Ne segue che, quando un soggetto bancario riveste contemporaneamente il doppio ruolo di erogatore di fondi e di prenditore di fondi, sono ravvisabili dal punto di vista economico una maggiore concentrazione di agency costs e dal punto di vista giuridico una maggiore concentrazione di situazioni di conflitto di interessi; ne segue ulteriormente che, se i soci di maggioranza di una banca deliberano a favore dell’industria controllata e affidata una concessione di credito a condizioni privilegiate, la delibera è adottata in presenza di quella maggior concentrazione di conflitti di interessi e ne seguono i potenziali danni visti più sopra. 16 Prendiamo in considerazione l’ipotesi di instaurazione di un rapporto di tipo creditizio in presenza di un rapporto di tipo partecipativo nella direzione industria-banca. Dal punto di vista statico, l’industria riveste il ruolo di debitore della banca e, contemporaneamente, riveste il ruolo di socio della banca; se la partecipazione dell’industria al capitale della banca è di ammontare sufficiente a consentire all’industria di esercitare un’influenza dominante nell’assemblea della banca, è evidente che, dal punto di vista dinamico, la descritta ipotesi di instaurazione congiunta induce l’industria a rivestire contemporaneamente il ruolo istituzionale di prenditore di fondi e il ruolo eccezionale di erogatore di fondi. Quali sono le conseguenze? Se l’industria controlla la banca finanziatrice, allora i residual claimants della vicenda complessiva sono la collettività, i creditori sociali dell’industria, i creditori sociali della banca, i soci di minoranza dell’industria, i soci di minoranza della banca e, infine, i soci di maggioranza dell’industria; questi rivestono contemporaneamente tre ruoli: direttamente, quello di soci di maggioranza dell’industria e, indirettamente, quello di soci di maggioranza della banca e, ancora indirettamente in questo suo ultimo ruolo, quello di creditori sociali dell’industria cioè di se stessi; in ogni caso, i decision makers sono sempre i soci di maggioranza dell’industria. Possiamo trarre ulteriori indicazioni. Come residual claimants, i soci di maggioranza dell’industria sono portatori di tre distinti interessi complementari: in quanto diretti soci di maggioranza dell’industria, essi hanno interesse a conseguire utili rappresentati dalla tradizionale differenza tra ricavi e costi di produzione e hanno interesse, dunque, alla remunerazione del capitale di rischio o di debito a disposizione e, quindi, hanno interesse ad avere a disposizione capitali da investire e, in definitiva, hanno interesse a domandare fondi; in quanto indiretti creditori sociali dell’industria cioè di se stessi, poi, essi hanno interesse a conseguire l’adempimento della prestazione oggetto del diritto di credito e hanno interesse a che l’industria affidata conservi la propria garanzia patrimoniale e si mantenga in bonis, in modo da poter fare affidamento sulla sua solvibilità e sulla relativa capacità di restituzione dei fondi e di pagamento degli interessi e, quindi, hanno interesse ad offrire fondi; in quanto indiretti soci di maggioranza della banca, infine, essi hanno interesse a conseguire, oltre ad eventuali benefici privati, soprattutto degli utili rappresentati dalla differenza tra interessi riscossi sui fondi erogati alle indu-

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stione dell’industria sono caratterizzate da una concentrazione di conflitti di interessi quantitativamente maggiore e qualitativamente diversa rispetto alle ipotesi di mancata instaurazione del rapporto; questo avviene perché il rapporto dà luogo a una relazione tra “soggetti” che arriva a essere anche una relazione tra “ruoli” e che, così facendo, produce la commistione dei ruoli di creditore e socio controllante in capo alla banca ovvero di debitore e socio controllante in capo all’industria; in entrambe le ipotesi, cioè, produce la confusione dei ruoli di erogatore di fondi e di prenditore di fondi; la concentrazione dei conflitti di interessi è quindi di grado maggiore e diverso e rende possibile l’adozione di delibere di concessione di credito a condizioni privilegiate e indipendenti dalla selezione del merito creditizio che, a loro volta, producono effetti negativi o pericoli di effetti negativi sia microeconomici sia macroeconomici 17.

strie e interessi pagati sui depositi raccolti presso il pubblico e, quindi, hanno interesse a “vendere credito” e a offrire fondi. Come residual claimants, dunque, i soci di maggioranza dell’industria hanno contemporaneamente interesse a domandare e a offrire fondi; è confermato, dunque, che i soci di maggioranza dell’industria sono portatori di funzioni di utilità complementari. Come decision makers, inoltre, i soci di maggioranza dell’industria sono in grado di realizzarli fuori dalle regole ordinarie di mercato; sono in grado, cioè, di far contemporaneamente domandare fondi all’industria e offrire fondi alla banca e, a tale fine, esiste l’evidente possibilità che venga deliberata una concessione di credito a condizioni ingiustificatamente privilegiate a prescindere dal corretto scrutinio del merito creditizio. Tuttavia, abbiamo visto più sopra che, nella loro qualità di decision makers, i soci di controllo dell’industria sono chiamati a gestire e a tutelare non solo i propri interessi, ma anche gli interessi non propri di una variegata compagine di residual claimants: quelli della collettività, quelli dei creditori sociali d’industria e banca e quelli dei soci di minoranza di industria e banca che, come specificato più sopra, fanno capo a categorie con autonome funzioni di utilità e possono costituire interessi in conflitto con quelli perseguiti dai soci di maggioranza dell’industria. Se l’industria controlla la banca finanziatrice, dunque, i soci di maggioranza dell’industria sono chiamati a gestire interessi quantitativamente maggiori e qualitativamente diversi rispetto a quelli che sono chiamati a gestire nell’ipotesi di mancata instaurazione del rapporto. Ne segue che, quando un soggetto industriale riveste contemporaneamente il doppio ruolo di prenditore di fondi e di erogatore di fondi, sono ravvisabili dal punto di vista economico una maggiore e diversa concentrazione di agency costs e dal punto di vista giuridico una maggiore e diversa concentrazione di conflitti di interessi; ne segue ulteriormente che, se i soci di maggioranza di un’industria fanno deliberare alla banca controllata e affidante – e a favore di se stessi – una concessione di credito a condizioni privilegiate, la delibera è adottata in presenza di quella maggiore e diversa concentrazione di conflitti di interessi e ne seguono i potenziali danni visti più sopra. 17 Cfr. Santoro, I rapporti di partecipazione tra banca e industria, in Le direttive comunitarie in materia bancaria e l’ordinamento italiano, a cura di Brozzetti e Santoro, Milano, 1990, p. 156; Messori, La separatezza fra industria e banca: il punto di vista di

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La maggiore o diversa concentrazione di conflitti di interessi rappresenta dunque il fondamentale e specifico problema di regolamentazione del rapporto banca-industria; se così è, la sua soluzione può essere data da una disciplina che assicuri una “separazione dei ruoli” tra il “soggetto” bancario e il “soggetto” industriale. Ma come?

5. Le soluzioni regolamentari adottate. Le tecniche regolamentari tradizionalmente utilizzate per far fronte a concentrazioni ordinarie di conflitti di interessi, solitamente riscontrabili nella gestione di una singola società commerciale (sia essa industriale o bancaria), possono ritenersi le seguenti quattro: (1) libertà o facoltà di compiere operazioni in conflitto di interesse; (2) obblighi di condotta che devono essere adempiuti per compiere legittimamente operazioni in conflitto di interessi; (3) divieti di compiere operazioni in conflitto di interessi; (4) incompatibilità tra potenziali portatori di interessi in conflitto, in modo da rendere materialmente impossibile il compimento di operazioni in conflitto di interesse 18. Le tecniche regolamentari effettivamente utilizzate nei vari ordinamenti europei per far fronte a concentrazioni maggiori o diverse di conflitti di interesse – e riscontrabili in presenza di un rapporto banca-indu-

un economista, in AGE, 2004, I, pp. 43 ss., pp. 52-53; Clark, The Regulation of Financial Holding Companies, in Harvard Law Review, 1979, pp. 787 ss., p. 803; Goodhart, The Central Bank and the Financial System, London, 1995, pp. 142-155; Macey e Miller, Corporate Governance and Commercial Banking, in Stanford Law Review, 1995, pp. 48 ss., p. 73; Born, International Banks in the 19th and 20th Centuries, Stuttgart, 1983, p. 311; Zazzaro, Assetti proprietari delle banche e attività economica: possiamo affidarci a Coase?, in AGE, 2004, I, pp. 11 ss., p. 18; Brozzetti, Linee evolutive della disciplina delle partecipazioni degli enti creditizi (con particolare riferimento al rapporto banca-industria), in Prospettive di evoluzione del mercato finanziario, a cura di Banco di Roma, Roma, 1992, p. 71; Ciocca, Su alcuni motivi che consigliano di tenere la banca “separata” dall’industria, in Econ. e pol. ind., 1987, V, pp. 93 ss., p. 96; Cranston, Principles of Banking Law, cit., p. 32; Hirsch, The Regulation of Financial Conglomerates and “Contagion Risk”, in Financial Strategies and Public Policies, a cura di Mikdashi, London, 1993, pp. 86-88; Hadjemmanuil, Banking Regulation and the Bank of England, London, 1996, p. 254; Goodhart, Hartmann, Llewellyn, Rojas-Suàrez e Weisbrod, The Rationale for Regulation, cit., pp. 4 ss. 18 Per un’esposizione nell’opposto ordine decrescente d’incidenza sull’autonomia privata e per un’esposizione parzialmente diversa rispetto a quella proposta nel corpo del testo, cfr. Enriques, Il conflitto di interesse, cit., p. 336.

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stria – sono abbastanza limitate e prevalentemente orientate a rimettere il rapporto banca-industria alla libera determinazione del mercato (con utilizzo quindi della prima tecnica, cioè la c.d. regola della libertà/facoltà). L’affermazione sembra valere trasversalmente e sembra valere anche per quelle esperienze regolamentari (Germania e Regno Unito) che, a causa di una forte contrapposizione nei risultati finali, hanno assunto dignità di modelli paradigmatici antitetici. 5.1. La disciplina tedesca e la disciplina inglese: così diverse, così simili. La disciplina tedesca, per esempio, mostra un deciso orientamento alla commistione: questo risultato è senz’altro la conseguenza dei caratteri del sistema finanziario sottostante, che, presentando i tratti di un sistema credit based, favorisce la manifestazione di un rapporto bancaindustria spontaneamente commistionato, ma deriva anche dalla circostanza che la legislazione nazionale regola il rapporto banca-industria in termini sostanzialmente permissivi 19. La disciplina inglese mostra invece

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Sotto il profilo creditizio, in Germania, dopo una prevedibile origine all’insegna di un’ampia libertà, già dal KWG 1934 sono previsti alcuni limiti all’affidamento da parte delle banche in favore delle industrie che, arrivando ai nostri giorni e sotto la spinta comunitaria, si intensificheranno corrispondentemente fino ad arrivare agli attuali livelli del KWG 1998. Sotto il profilo partecipativo, invece, la tradizionale configurazione del sistema tedesco come credit based e la conseguente maggiore debolezza del mercato dei capitali rendeva l’industria bisognosa di un rapporto con il settore bancario non solo sotto il profilo squisitamente creditizio, ma anche sotto il profilo partecipativo; pertanto, la commistione tra i settori era spontanea già a livello economico e la regolamentazione non ha mai posto limiti alla possibilità di reciproche forme di partecipazione e controllo; sono state poste solo alcune regole prudenziali a partire dal KWG 1961 che, sotto forma di divieto di superare soglie percentuali parametrate ai mezzi propri della banca partecipante anziché al capitale sociale dell’industria partecipata, hanno consentito di “mantenere” elevato il già spontaneo livello di integrazione tra settore creditizio e settore industriale. Cfr. Feldenkirehen, Banking and Economic Growth: Bank and Industry in Germany in the 19th Century and their Changing Relationship during Industrialization, in German Industry and German Industrialization, a cura di Lee, London, 1991, pp. 47 ss.; Bruckner e von Pfostl, Sistemi bancari, vigilanza delle banche e Basilea II in Italia, Germania e Australia, in Banche e banc., 2003, IV, pp. 289 ss., p. 292; Fohlin, Regulation, Taxation and the Development of the German Universal Banking System, 1884-1913, Pasadena, 2001, pp. 22 ss.; Büschgen, Das Universalbankensystem. Ein Gutachten, Frankfurt am Main, 1971, pp. 7 ss.; Hahn, Struktur der Bankwirtschaft, Berlin, 1981, p. 15 ss.; Schmidt e Tyrell, What Constitutes a Financial System in General and the German Financial System in Particular?, in The German Financial System, a cura di Krahnen e Schmidt, Oxford-New York, 2004, pp. 31 ss.; Hackethal, German

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un forte orientamento alla separatezza: tuttavia, questo effetto non è dovuto a un atteggiamento di chiusura dell’ordinamento a ipotesi di commistione, ma è la conseguenza delle caratteristiche del relativo sistema finanziario, che, configurandosi come market based, costituisce terreno fertile per la manifestazione di un rapporto tra banca e industria spontaneamente separato 20. Dunque, disciplina inglese e disciplina te-

Banks and Banking Structure, in The German Financial System, a cura di Krahnen e Schmidt, Oxford-New York, 2004, pp. 73 ss.; Bruzzone, The Separation of Finance and Industry: a Comparative Analysis. Germany, in The Separation of Finance and Industry and the Specialization of Financial Institutions, a cura di Porta, Milano, 1991, p. 214; Hackethal, German Banks and Banking Structure, cit., p. 74; Schmidt e Tyrell, What Constitutes a Financial System, cit., pp. 31 ss.; Guinnane, Delegated Monitors, Large and Small: Germany’s Banking System, 1800-1914, in Journal of Economic Literature, 2002, I, pp. 73 ss., pp. 73 ss.; Hilferding, Das Finanzkapital, Franfurt am Main, 1909, pp. 1 ss.; Schumpeter, Business Cycles, cit., pp. 1 ss.; Gerschenkron, Economic Backwardness in Historical Prospective, Cambridge MA, 1962, pp. 1 ss. 20 Sotto il profilo creditizio, la banca inglese può accendere fidi a favore dell’industria senza limiti e senza condizioni sia nel periodo di assenza di una legge bancaria sia sotto la vigenza del BA 1979; con il BA 1987, può finanziare l’industria senza limiti semplicemente adempiendo alcuni obblighi informativi: non è lo Stato che dice alla banca quando fermarsi, ma è il mercato che si auto-limita in presenza di inefficienze nella crescita dei profitti; se si pensa che il sistema inglese aveva generato già sul piano economico una specializzazione funzionale del credito, l’atteggiamento è assolutamente comprensibile; in relazione ai rischi di mismatching delle scadenze, infatti, la specializzazione funzionale garantiva il sistema finanziario in modo comparativamente migliore di quanto poteva avvenire in un sistema fondato sulla banca universale, dove la necessaria compresenza di confusione temporale sia sul piano della raccolta sia sul piano degli impieghi rendeva quei rischi comparativamente più alti. Sotto il profilo partecipativo, poi, la tradizionale configurazione del sistema inglese come market based e la conseguente robustezza del mercato dei capitali riduceva l’esigenza di un rapporto partecipativo e reciproco tra banca e industria; pertanto, la separatezza tra i settori era spontanea già a livello economico e la regolamentazione non sentì l’esigenza di porre limiti, ma si limitò solo a porre delle regole prudenziali di “mantenimento” che, con gli anni e con l’adesione alla UE, si sono intensificate, ma senza cambiare la consolidata natura, nemmeno sotto i vigenti FSMA 2000 e BA 2009. Cfr. Hadjemmanuil, Banking Regulation and the Bank of England, cit., pp. 80-85; Cranston, Principles of Banking Law, cit., p. 31; Ryder, The Banking Act 1979, London, 1979, pp. 3-4; Ellinger, Lomnicka e Hooley, Modern Banking Law, Oxford, 2002, pp. 65-71; Hitchins, Hogg e Mallett, Banking: an Industry Accounting and Auditing Guide, London, 1996, pp. 3-9; Reid, All-Change in the City: the Revolution in Britain’s Financial Sector, London, 1988, p. 158; Davies, Reforming Financial Regulation: Progress and Priorities, in Regulating Financial Services and Markets in the 21st Century, a cura di Ferran e Goodhart, Oxford, 2001, pp. 17-21; Davies, Law and Financial Regulation, in Company Financial and Insolvency Review, 1999, I, pp. 1 ss., pp. 2 ss.; Davies, FSA’s Strategy in Applying its Powers under the New Regime, in Journal of International Financial Markets, 1999, I, pp. 51 ss.; Fawcett, Examining the Objec-

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desca producono due effetti contrapposti che sono il frutto, però, di un medesimo atteggiamento nei confronti delle spinte spontanee del mercato, che, in entrambe le ipotesi, sono ugualmente “assecondate” e che, essendo diverse a monte, si mantengono distanti anche a valle. 5.2. La disciplina italiana ante 2009: separazione dei soggetti. Il caso italiano è radicalmente differente. Infatti, la disciplina italiana ha tradizionalmente mostrato una forte peculiarità; come in Germania, il sistema finanziario italiano ha costantemente presentato caratteri credit based e, come in Germania, vi si è storicamente affermato un rapporto banca-industria spontaneamente commistionato; differentemente sia dalla Germania sia dal Regno Unito, tuttavia, la regolamentazione italiana ha tradizionalmente “avversato” le spinte spontanee del mercato e, come nel Regno Unito, ha prodotto un effetto di separatezza tra banca e industria 21. In definitiva, la regolamentazione italiana ha tradizionalmente dato luogo a una sorta di tertium genus che si è caratterizzato perché, se la regolamentazione inglese ha “mantenuto separate” banca e industria e la regolamentazione tedesca ha “mantenuto commistionate” banca e industria, la regolamentazione italiana ha “separato” banca e industria che sarebbero state “altrimenti commistionate”. Come è noto, le ragioni di tale avversione hanno un’origine storica almeno risalente alle crisi susseguitesi nei primi decenni del secolo scorso e ai relativi strumenti di risanamento, rappresentati dalla creazione

tives of Financial Regulation – Will the New Regime Succeed? A Practinioner’s View, in Regulating Financial Sercices and Markets in 21st Century, a cura di Ferran e Goodhart, Oxford, 2001, pp. 37 ss.; Briault, The Rationale for a Single National Financial Services Regulator, London, 1999, pp. 1 ss.; Lomnicka, Reforming UK Financial Services Regulation: the Creation of Single Regulator, in Journal of Banking Law, 1999, II, pp. 480 ss.; Walker, Capital Adequacy, in Banking and Financial Services Regulation, a cura di Blair, London, 2002, pp. 421 ss. 21 Cfr. Guaccero, La partecipazione, cit., p. 1; M. Nigro, Profili pubblicistici del credito, Milano, 1969, p. 1; Vitale, Pubblico e privato nell’ordinamento bancario, Milano, 1971, p. 62; Vella, L’esercizio del credito, Milano, 1990, passim; Porzio, La disciplina giuridica dell’esercizio del credito, Napoli, 1991, p. 11; Toniolo, Industria e banca nella grande crisi, 1929-1935, Milano, 1978, pp. 1 ss.; Belli, Note a margine della nuova normativa di vigilanza sul rapporto banca-industria, in Dir. banc., 1988, III, pp. 472 ss., p. 473; Brescia Morra, sub Art. 19, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova, 2002, pp. 158 ss.; Brescia Morra, Società per azioni bancaria: proprietà e gestione, Milano, 2000, pp. 33 ss.

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di IMI e IRI e dall’approvazione della legge bancaria del 1936. La legge bancaria del 1936 è infatti ritenuta comunemente la fonte di diritto positivo che ha fissato il principio di separatezza tra banca e industria. In effetti, la ratio di una parte di quella legge è ispirata all’esigenza di separare gestione bancaria e gestione industriale; tuttavia, questo tipo di obiettivo viene perseguito attraverso una regolamentazione che riguarda soltanto il rapporto di tipo partecipativo e riguarda soltanto la direzione banca-industria. D’altra parte, nel sistema bancario fortemente amministrato risultante dalla legge del 1936, il capitale bancario si presentava come non contendibile sia perché l’industria non aveva liquidità sufficiente, sia perché gran parte delle banche avevano natura pubblica o privata-cooperativa, sia perché la proprietà delle più grandi banche private non cooperative era detenuta comunque dello Stato per il tramite dell’IRI. Il recente processo di privatizzazione del capitale bancario, unitamente al rafforzamento del settore industriale e al processo di integrazione europea, hanno reso necessario un nuovo rafforzamento del principio di separatezza. Tra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta si consolida una regolamentazione del rapporto banca-industria che troverà nel t.u.b. la sua stabile sedes materiae e, nella regola dell’incompatibilità, la tecnica costantemente utilizzata per far fronte alle concentrazioni maggiori o diverse di conflitti d’interesse, riscontrabili in presenza di un rapporto banca-industria 22. Vediamo in dettaglio. Sotto il profilo partecipativo e nella direzione banca-industria, l’art. 53, co. 1, lett. c), t.u.b. afferma che «la Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR, emana disposizioni di carattere generale aventi ad oggetto […] le partecipazioni detenibili» da parte delle banche; dunque, la regolamentazione delle partecipazioni delle banche è costituita da una disciplina speciale posta sostanzialmente a livello di fonte secondaria dalle istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia. Dopo aver stabilito alcune regole sulle partecipazioni complessivamente detenibili dalle banche e alcune regole sulle partecipazioni detenibili dalle banche in altre banche e in altre società finanziarie, le istruzioni di vigilanza regolano le partecipazioni detenibili dalle banche in imprese non finanziarie e quindi le partecipazioni in imprese industriali. Le istruzioni di vigilanza introducono tre discipline: una disciplina generale per le banche che potremmo definire “ordinarie”, una disciplina speciale per

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Cfr. Costi, Banca e industria, cit., p. 189; Ciocca, Su alcuni motivi, cit., p. 95.


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le banche cosiddette “abilitate” (le banche con patrimonio di vigilanza superiore a un miliardo di euro rispettose dei requisiti di adeguatezza patrimoniale) e una disciplina speciale per le banche cosiddette “specializzate” (le banche con struttura del passivo dello stato patrimoniale caratterizzata prevalentemente da raccolta a medio-lungo termine e con preclusione di raccolta a vista). A fronte di differenti limiti all’ammontare del totale delle partecipazioni industriali detenibili (rispettivamente il 15, il 50 e il 60% dei fondi propri della banca) e di differenti limiti di concentrazione all’ammontare della singola partecipazione industriale detenibile (rispettivamente il 3, il 6 e il 15% dei fondi propri della banca), le istruzioni di vigilanza hanno solitamente fissato un limite di separatezza all’ammontare della singola partecipazione industriale e hanno fissato tale limite in misura uguale per tutte le banche e, in particolare, in misura pari al 15% del capitale dotato di diritto di voto dell’industria partecipata. Le istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia pongono quindi un’incompatibilità tra qualifica bancaria e titolarità di una partecipazione superiore al 15% del capitale sociale dell’industria 23. Sempre sotto il profilo partecipativo, ma nella direzione industria-banca, è opportuno preliminarmente tener conto della normativa comunitaria. La prima direttiva che ha affrontato il tema degli assetti proprietari delle banche è stata la direttiva 1989/646/CEE, sostanzialmente trasfusa nella direttiva 2000/12/CE e ora nella direttiva 2006/48/CE, così come modificata dalla direttiva 2007/44/CE. Prima della novella del 2007, la direttiva 2006/48/CE si limitava a fissare delle soglie partecipative del capitale sociale dell’ente creditizio (10, 20, 33, 50% ovvero la soglia di controllo) al superamento delle quali il socio della banca aveva un dovere di segnalazione in favore delle autorità di vigilanza. La presenza di

23 In linea di principio, la regolamentazione italiana ha consentito una partecipazione della banca al capitale industriale, ma la partecipazione doveva essere contenuta entro certi limiti e comunque non doveva essere tale da consentire alla banca di controllare l’industria partecipata. Ciò, per la preoccupazione che un’industria controllata da una banca diventasse «una semplice sezione industriale di quest’ultima» e fosse «sottratta allo scrutinio del merito di credito» e quindi si potesse trovare «in condizioni d’ingiustificato vantaggio anche nei confronti delle imprese industriali concorrenti». Tradizionalmente, l’ordinamento bancario ha consentito la partecipazione della banca al capitale industriale per consentire un maggior apporto di mezzi patrimoniali e competenze manageriali, ma, da un lato, ha posto dei limiti per prevenire problemi di smobilizzo e liquidità e, dall’altro lato, ha comunque impedito la possibilità di controllo per evitare distorsioni nell’allocazione del credito bancario e coinvolgimento nel rischio di impresa industriale. Cfr. Costi, L’ordinamento bancario, Bologna, 2007, passim.

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regole di vigilanza informativa era comunque accompagnata anche da regole di vigilanza prudenziale: nella sua versione originale, la direttiva stabiliva che le autorità di vigilanza potevano opporsi al progetto di acquisizione della partecipazione rilevante, se la «qualità» delle persone comunque coinvolte non soddisfaceva l’esigenza di garantire la «sana e prudente gestione»; tenuto conto della circostanza che il quindicesimo considerando della direttiva concedeva agli Stati membri la possibilità di adottare disposizioni più severe di quelle fissate a livello comunitario, ne seguiva la facoltà per il singolo Stato membro di introdurre dei parametri inerenti alla qualità del socio che consentivano limitazioni o restrizioni. Questa facoltà è stata ampiamente esercitata dal legislatore italiano, che ha tradizionalmente ritenuto che la qualità industriale del socio di controllo mettesse a repentaglio la sana e prudente gestione. Fino a oggi, l’art. 19, co. 6, t.u.b., ha infatti affermato che «i soggetti che, anche attraverso società controllate, svolgono in misura rilevante attività di impresa in settori non bancari né finanziari non possono essere autorizzati ad acquisire partecipazioni quando la quota dei diritti di voto complessivamente detenuta sia superiore al 15% o quando ne consegua, comunque, il controllo della banca». L’art. 19 t.u.b. pone quindi un’incompatibilità tra qualifica industriale e titolarità di una partecipazione superiore al 15% del capitale sociale della banca 24. Sotto il profilo creditizio, l’indagine regolamentare pare non consentire l’individuazione di regole attinenti alla separatezza tra banca e industria. Le regole concernenti il profilo partecipativo impediscono già da sole che un medesimo soggetto possa rivestire contemporaneamente la qualifica bancaria e la qualifica industriale; la disciplina italiana ha infatti escluso che una banca possa controllare un’industria e che un’industria possa controllare una banca; stando così le cose, i rapporti creditizi tra banca e industria sono stati regolati a prescindere dalla natura industriale o meno dell’affidatario e, infatti, sono caratterizzati da limiti di affidamento che variano solo a seconda della rilevanza della partecipazione detenuta dalla o nella banca.

24 In forza di questa norma, un’impresa industriale ha senz’altro la facoltà di detenere partecipazioni bancarie, ma le è fatto divieto di acquisire il controllo della banca per lo stesso motivo che ha reso tradizionalmente consigliabile impedire l’acquisto del controllo di un’industria da parte di una banca e, cioè, quello di consentire alla banca di svolgere in autonomia la propria funzione di selezione del merito di credito, che sarebbe compromessa nel caso in cui la banca diventasse una «sezione bancaria» dell’industria. Cfr. Costi, L’ordinamento, cit., passim.

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Possiamo formulare a questo punto una conclusione intermedia: con le dovute cautele, è possibile sostenere che, almeno a partire dalla legge bancaria del 1936, l’ordinamento creditizio italiano è stato generalmente ispirato al principio di separatezza tra banca e industria. La tecnica regolamentare utilizzata è stata quella dell’incompatibilità, che ha visto nella “separazione dei soggetti” lo strumento tradizionalmente idoneo ad assicurare anche una “separazione dei ruoli”, la quale ha consentito di mantenere la concentrazione dei conflitti di interesse al livello ordinario e di evitare le esternalità negative connesse alle possibili manifestazioni del rapporto banca-industria. La bontà dell’equilibrio raggiunto non era quindi trascurabile 25. 5.3. La disciplina italiana post 2009: commistione dei soggetti e commistione dei ruoli. Nel corso del 2008, il principio di separatezza tra banca e industria ha subito una profonda revisione generalmente motivata dalla necessità di adeguamento alla normativa comunitaria. La revisione ha riguardato il solo profilo partecipativo, ma in entrambe le direzioni. Nella direzione banca-industria, è necessario tener conto della delibera CICR n. 276 del 29 luglio 2008. La delibera stabilisce che le banche possono acquisire o detenere partecipazioni industriali nel rispetto della normativa comunitaria, la quale, all’art. 120 della direttiva 2006/48/CE, stabilisce a sua volta che la singola partecipazione industriale detenibile da una banca non può essere superiore al 15% – non del capitale sociale dell’industria partecipata, ma – dei fondi propri della banca partecipante: viene quindi meno il divieto per la

25 La letteratura contenente valutazioni circa l’attitudine della disciplina italiana a dare risposte alle esigenze suscitate dalla presenza di rapporti banca-industria è sconfinata. Ex multis, ci permettiamo di rinviare ad alcune opere di riferimento generale e agli indici bibliografici in esse citati. Cfr. Campobasso, Le partecipazioni al capitale delle banche, in Banca, borsa, tit. cred., 1994, II, pp. 285 ss.; Costi, L’ordinamento, cit., passim; Ferro-Luzzi, Lezioni di diritto bancario, Torino, 2004, passim; Marchetti, Appunti sul regime transitorio delle partecipazioni al capitale di enti di credito (art. 27 comma 7 l. n. 287/1990), in Banca, borsa, tit. cred., 1991, I, pp. 397 ss.; Onado, Il rapporto banca-impresa in Italia. Aspetti teorici e analisi di alcuni indicatori, in Banc., 1980, XII, pp. 1244 ss.; Patroni Griffi, Partecipazioni al capitale delle banche, in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Belli, Contento, Patroni Griffi, Porzio e Santoro, Bologna, 2003, passim; Porzio, I rapporti banca-impresa nella normativa vigente, in Rass. econ., 1987, III, pp. 917 ss.

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banca di far superare alla singola partecipazione industriale la soglia del 15% del capitale sociale dell’industria e viene quindi anche meno la necessaria incompatibilità tra qualifica bancaria e titolarità di una partecipazione superiore al 15% del capitale sociale dell’industria. La banca può cioè controllare l’industria. La regola è stata confermata dai recenti aggiornamenti alle istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia che, oltre a rimuovere il limite di separatezza, hanno anche provveduto ad innalzare il limite di concentrazione e il limite complessivo che, per tutte e banche (ordinarie, abilitate e specializzate), diventano rispettivamente pari al 15% e al 60% dei fondi propri della banca partecipante. Nella direzione industria-banca, è invece necessario tener conto della direttiva 2007/44/CE. La direttiva 2007/44/CE modifica la direttiva 2006/48/CE e stabilisce che «qualsiasi persona fisica o giuridica» che intenda superare le soglie rilevanti del capitale sociale dell’ente creditizio ha il dovere di segnalare tale intenzione alle autorità di vigilanza, le quali possono legittimamente opporsi al progetto, ma tale opposizione può essere disposta «solo se vi sono ragionevoli motivi per farlo in base ai criteri» tassativamente indicati nella norma, con espressa precisazione che «gli Stati membri non possono imporre requisiti più rigorosi di quelli previsti» né possono introdurre parametri diversi o più severi: i criteri di riferimento sono la reputazione del candidato acquirente; la reputazione e l’esperienza dei decision makers del candidato acquirente; la solidità finanziaria del candidato acquirente; la capacità dell’ente creditizio di continuare a rispettare i variegati requisiti prudenziali; il sospetto in ordine allo svolgimento di attività di riciclaggio di proventi di attività illecite o di finanziamento del terrorismo. Tra tali criteri, non compare più la sana e prudente gestione. Con la novella del 2007, viene dunque meno la facoltà per gli Stati membri di impedire quelle acquisizioni che gli stessi Stati membri reputavano idonee a mettere a repentaglio la sana e prudente gestione a causa della particolare qualità degli acquirenti e viene altresì meno la facoltà per gli Stati membri di introdurre un maggior rigore regolamentare rispetto a quello previsto a livello comunitario. L’attuazione della novella introdotta dalla direttiva 2007/44/CE è stata disposta dall’art. 14 del d.l. n. 185/2008 conv. in legge n. 2/2009, ed è stata poi confermata con il d.lgs. n. 21/2010 di definitiva attuazione, i provvedimenti citati hanno abrogato i commi 6 e 7 dell’art. 19 t.u.b.: viene quindi meno il divieto per l’industria di far superare alla singola partecipazione bancaria la soglia del 15% del capitale sociale della banca o la soglia di controllo. Non solo, l’art. 14 si preoccupa anche

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di stabilire che l’autorizzazione all’acquisto di partecipazioni bancarie rilevanti, prevista dall’art. 19 per qualunque soggetto, debba essere rilasciata in favore dei soggetti industriali previo accertamento di alcuni ulteriori presupposti, tra i quali compare espressamente «la competenza professionale specifica nel settore finanziario». La norma ha posto dei dubbi: richiedere una previa competenza nel settore finanziario a un’industria intenzionata ad acquisire partecipazioni bancarie rilevanti rischia infatti di impedire l’ingresso nel settore finanziario proprio alle nuove industrie, che sono necessariamente inesperte; quella richiesta rischia quindi di provocare una cristallizzazione dello status quo che si intendeva liberalizzare; e rischia anche di indurre una paradossale reverse discrimination in sfavore delle industrie italiane e in favore di quelle industrie straniere che siedono in sistemi in cui era consentito maturare esperienza nel settore finanziario. La disposizione ha avuto vita breve ed è stata corrispondentemente abrogata dalle norme transitorie del d.lgs. n. 21/2010 di definitiva attuazione della direttiva 2007/44/CE. In ogni caso (ed è ciò su cui intendiamo porre attenzione), viene meno la manifestazione più esplicita del principio di separatezza banca-industria e, più in particolare, viene meno la necessaria incompatibilità tra qualifica industriale e titolarità di una partecipazione superiore al 15% del capitale sociale della banca. L’industria può cioè controllare la banca. La disciplina vigente sostituisce quindi la tecnica dell’incompatibilità con la c.d. regola della libertà/facoltà e, così facendo, abbandona quelle modalità disciplinari che vedevano nella “separazione dei soggetti” lo strumento tradizionalmente idoneo ad assicurare anche una “separazione dei ruoli”. Rimane allora da chiedersi se la separazione del ruolo bancario dal ruolo industriale debba ancora oggi considerarsi un primario obiettivo di politica del diritto. Nel caso in cui si ritenga quella separazione un’esigenza ormai superata, nulla quaestio: la disciplina vigente lascia infatti libero il campo alle opposte ipotesi di commistione, tanto dei soggetti, quanto dei ruoli. Certo è che, tra i vari aspetti messi in luce dalla recente e corrente crisi finanziaria, deve essere annoverata proprio l’esigenza di garantire maggiormente l’indipendenza e l’imparzialità della banca nella selezione dei soggetti meritevoli di affidamento. Se la separazione della gestione bancaria dalla gestione industriale dovesse ancora ritenersi strumento imprescindibile per soddisfare quell’esigenza, e dovesse quindi ancora ritenersi un valore ispiratore del nostro ordinamento, allora gli interventi normativi recenti non sembrano perfettamente adeguati.

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6. Le soluzioni regolamentari alternative: per un ritorno alla separazione, ma dei ruoli. Gli equilibri raggiunti dalle soluzioni regolamentari finora osservate (tanto quelle permissive come la disciplina inglese, tedesca o italiana post 2009, quanto quelle restrittive come la disciplina italiana ante 2009) sembrano migliorabili. Nonostante che i risultati siano il frutto di interventi di intensità regolamentare opposta (“minima” per le discipline che assecondano, “massima” per le discipline che avversano le spinte economiche del mercato), essi appaiono in ogni caso apprezzabili, ma parzialmente migliorabili attraverso interventi di intensità regolamentare “intermedia”. In precedenza, abbiamo voluto distinguere le possibili manifestazioni del rapporto banca-industria in instaurazioni “singole” e instaurazioni “congiunte” delle relative componenti fenomenologiche; solo le seconde sono tendenzialmente foriere di esternalità negative, mentre le prime producono variegati effetti positivi; nel primo caso, assistiamo a commistioni di soggetti che non danno luogo a commistioni di ruoli, mentre nel secondo caso assistiamo a commistioni di soggetti che danno luogo anche a commistioni di ruoli; si evince che riconoscere la facoltà o la libertà di instaurare commistioni di soggetti che danno luogo a commistioni di ruoli produce esternalità negative e si evince contemporaneamente che separare i soggetti per separare i ruoli consente di eliminare le esternalità negative, ma condanna a sacrificare anche le esternalità positive. La soluzione alternativa potrebbe allora risiedere nel passaggio dai modelli a semplice “separazione dei soggetti” ovvero a semplice “commistione dei soggetti” a un modello a “separazione dei ruoli”. Un modello regolamentare a separazione dei ruoli potrebbe essere realizzato attraverso l’abbandono delle tecniche della libertà e dell’incompatibilità e la contestuale verifica circa l’attitudine delle tecniche degli obblighi di condotta e dei divieti a dare soluzione anche ai problemi di maggiore e diversa concentrazione di conflitti d’interesse, riscontrabili in presenza di un rapporto banca-industria. Con riferimento alla tecnica degli obblighi di condotta, questa può essere declinata come previsione di “obblighi di condotta che devono essere adempiuti per compiere legittimamente operazioni affette da maggiore o diversa concentrazione di conflitti di interesse”; la tecnica degli obblighi di condotta si configura come proposta di subordinare l’operazione di affidamento in favore dell’industria controllata o dell’industria controllante – suggerita rispettivamente dai soci di maggioranza della banca controllante o dai soci di maggioranza dell’industria control-

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lante – alla richiesta e al rilascio di un’autorizzazione al suo compimento da parte di un comitato stakeholders rappresentativo degli altri residual claimants, in modo da rendere presumibilmente non pregiudizievole l’operazione di affidamento 26. Con evidenza, l’uso della tecnica degli

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Infatti, la materiale praticabilità e il possibile utilizzo della tecnica degli obblighi di condotta richiede si proceda preliminarmente all’individuazione, da un lato, delle “operazioni affette da maggiore o diversa concentrazione di conflitti di interesse” e, dall’altro lato, all’individuazione delle “condizioni alla ricorrenza delle quali quelle operazioni non siano pregiudizievoli”. Per quanto concerne il primo profilo, possiamo sostenere che quelle operazioni sono quelle costituenti manifestazione dell’instaurazione congiunta delle componenti fenomenologiche del rapporto banca-industra e quindi sono essenzialmente due: l’operazione di affidamento da parte di una banca in favore di un’industria controllata e l’operazione di affidamento da parte di una banca in favore di un’industria controllante. Per quanto concerne il secondo profilo, rammentiamo che le operazioni affette da conflitto d’interesse in genere non sono in sé pregiudizievoli e, corrispondentemente, non sono pregiudizievoli in sé nemmeno le operazioni affette da maggiore o diversa concentrazione di conflitti d’interessi; in entrambi i casi, le operazioni sono pregiudizievoli se il soggetto agente e delegato persegue il proprio interesse in contrasto con l’interesse e la volontà del soggetto principale e delegante che, non necessariamente, è titolare di una medesima funzione di utilità; laddove il principale presti il consenso all’operazione proposta dall’agente, dunque, è evidente che il compimento dell’operazione non potrà essere pregiudizievole già sulla base di un giudizio ex ante; le condizioni alla ricorrenza delle quali quelle operazioni non saranno pregiudizievoli, dunque, sono necessariamente rappresentate dalla possibilità tecnica di ottenere, anche nell’ambito di una vicenda complessa come l’istaurazione multitipologica e bidirezionale di un rapporto banca-industria, la prestazione di quel consenso; per rendere attuabile quella possibilità, allora, è necessario individuare preliminarmente chi sia, nell’ambito della complessiva vicenda di un’instaurazione congiunta delle componenti fenomenologiche del rapporto banca-industra, il principale e chi sia l’agente. La risposta non ammette dubbi. In caso di operazione di affidamento da parte di una banca sia in favore di un’industria controllata sia in favore di un’industria controllante, il principal è rappresentato dall’insieme dei residual claimants della complessiva vicenda, mentre l’agent è rappresentato dall’insieme dei corrispondenti decision makers: cioè, i soci di maggioranza della banca controllante o dell’industria controllante, che sono portatori di interessi complementari (quello a domandare e quello ad offrire fondi) e sono in grado di realizzarli fuori dalle regole ordinarie di mercato e sono quindi chiamati a gestire non solo interessi propri e non solo interessi non propri ordinari, ma anche interessi non propri quantitativamente maggiori e qualitativamente diversi rispetto a quanto avviene nelle ipotesi ordinarie. Per rendere non pregiudizievole ex ante l’operazione di affidamento in favore dell’industria controllata, dunque, sarebbe necessario che i soci di maggioranza dell’ente controllante o gli amministratori che ne costituiscono espressione proponessero e ottenessero un’autorizzazione al suo compimento da parte degli altri residual claimants. Questo tipo di esigenza potrebbe tradursi nella possibilità di prevedere a carico delle banche o delle industrie controllanti un obbligo – nascente al momento dell’acquisizione del controllo rispettivamente di un’industria o di una banca – di costituire

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obblighi di condotta non dà luogo ad un modello di separazione, né dei ruoli né tanto meno dei soggetti. È una tecnica che dà invece luogo a un modello di commistione, tanto dei soggetti quanto dei ruoli, del tutto simile a quanto avviene nelle discipline vigenti. Tuttavia, saremmo in presenza di una commistione sottoposta al controllo di una compagine rappresentativa della pluralità degli stakeholders e della varietà dei residual claimants, la quale, nell’ipotesi in cui ravvisasse un pregiudizio nell’operazione affetta da conflitto di interesse, potrebbe semplicemente negare l’autorizzazione al suo compimento. In linea teorica, è evidente che l’ipotesi di “commistione vigilata” può anche presentare degli aspetti meritevoli di approfondimento, ma è altrettanto evidente che le modalità pratiche mediante le quali costituire, comporre ed ottenere manifestazioni di volontà da un comitato interno con i caratteri proposti sopra, sono di difficile attuazione. Inoltre, il presupposto del ragionamento che ci sta conducendo all’elaborazione di correttivi alla vigente disciplina è la conservazione della separazione dei ruoli come valore ispiratore del nostro ordinamento e quindi come primario obiettivo di politica del diritto che, nella proposta de qua, non verrebbe comunque perseguito. Merita invece un’attenta riflessione la possibile declinazione della tecnica dei divieti, che potrebbe configurarsi come fissazione di “divieti di compiere operazioni affette da maggiore o diversa concentrazione di conflitti d’interessi”; la tecnica dei divieti si configura come propo-

al proprio interno un comitato stakeholders composto da rappresentanti degli organi di amministrazione e controllo, da rappresentanti dei soci di minoranza dell’ente controllante e dell’ente controllato, da rappresentanti dei creditori sociali dell’ente controllante e dell’ente controllato e da rappresentanti della collettività che, tipicamente, potrebbero essere costituiti da esponenti delle autorità di vigilanza (Banca d’Italia, Agcm e Consob, rispettivamente) preposte alla tutela degli interessi pubblici di mercato finanziario della stabilità, della concorrenza e della trasparenza e correttezza; con la presenza di un comitato stakeholders così costituito, l’operazione di affidamento in favore dell’industria controllata o controllante – necessariamente affetta da maggiore o diversa concentrazione di conflitti di interesse – potrebbe presumersi non pregiudizievole e quindi potrebbe essere consentita subordinatamente all’adempimento da parte dei soci di maggioranza o degli amministratori della banca dell’obbligo di richiedere e ottenere l’autorizzazione al compimento dell’operazione da parte del comitato stakeholders con delibera unanime. Cfr. Easterbrook e Fischel, The Economic Structure of Corporate Law, cit., pp. 166-184; Messori, La separatezza, cit., p. 60; Dacrema, Evoluzione e prospettive nella teoria e nella prassi del rapporto banca/industria, in Banche e banc., 1990, III, pp. 185 ss., p. 202; Jensen e Meckling, Theory of the Firm, cit., pp. 305 ss.; Fama, Agency Problems and the Theory of the Firm, in Journal of Political Economy, 1980, I, pp. 288 ss.; Fama e Jensen, Separation, cit., pp. 301 ss.

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sta di liberalizzare – in linea quindi con le novelle recenti – il rapporto banca-industria sotto il profilo partecipativo (rendere possibile alla banca il controllo dell’industria e all’industria il controllo della banca), ma con un contrappeso sotto il profilo creditizio, rappresentato da una disciplina dei fidi bancari in grado di selezionare gli affidatari in modo progressivamente più restrittivo non solo a seconda della rilevanza della partecipazione detenuta dalla o nella banca (nessuna partecipazione, partecipazione non significativa, partecipazione rilevante, partecipazione di controllo), ma anche a seconda dell’attività (industriale o non industriale) esercitata dall’affidatario e, contemporaneamente, selezionando gli affidatari in modo progressivamente più forte via via che si passa da una categoria all’altra di cliente, e con la possibilità, all’estremo, di vietare l’affidamento al cliente industriale controllato o controllante e di sanzionare conseguentemente le eventuali violazioni del divieto. Sotto quest’ultimo aspetto, deve essere sottolineato come, nello stesso giorno della delibera n. 276, il CICR ha anche emesso la delibera n. 277, espressamente dedicata alle attività di rischio e agli altri conflitti di interesse delle banche: si sarebbe potuto ipotizzare un provvedimento nel senso sopra auspicato; tuttavia, nel limitare al 20% dei fondi propri le attività di rischio delle banche nei confronti di «soggetti collegati», la delibera n. 277 identifica i «soggetti collegati» dando rilevanza ai soli legami partecipativi e non anche a legami partecipativi ulteriormente qualificati dal tipo di attività (industriale o meno) esercitata dal soggetto collegato. Va invece osservato che la concessione di fidi è particolarmente qualificata dal tipo di attività (industriale o meno) esercitata dall’affidatario. Se l’affidatario è un cliente ordinario (sia esso non partecipato o non partecipante, partecipato o partecipante in modo non significativo, partecipato o partecipante in modo rilevante, controllato o controllante), non è nemmeno ipotizzabile un rapporto banca-industria e l’operazione, con le consuete cautele prudenziali, potrà essere senz’altro consentita. Stessa regola vale se l’affidatario è un cliente industriale non partecipato o non partecipante: in questo caso, si instaura un rapporto banca-industria, ma si instaura solo sotto il profilo creditizio con una concentrazione di conflitti di interesse che rimane a uno stadio assolutamente ordinario. Se l’affidatario è un cliente industriale partecipato o partecipante in modo non significativo, si instaura invece un rapporto banca-industria sia creditizio sia partecipativo, ma l’esiguo ammontare della partecipazione impedisce che sia dato luogo a una concentrazione di conflitti di interesse maggiore o diversa dalle ipotesi ordinarie e anche in questo caso l’operazione non incontrerà ostacoli. Anche nell’ipotesi in cui l’affidatario sia un cliente industriale partecipato o partecipante in modo rilevante, si instaura un

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rapporto banca-industria sia creditizio sia partecipativo, ma, nonostante che l’ammontare della partecipazione consenta il superamento di soglie rilevanti del capitale sociale, ancora non determina né un controllo dell’industria né un controllo della banca (se lo determinasse di fatto, ricadremmo nella successiva ipotesi) e impedisce dunque che sia dato luogo a una concentrazione di conflitti di interesse maggiore o diversa dalle ipotesi ordinarie e l’operazione, ancora una volta, non dovrà trovare impedimento. Se invece l’affidatario è un cliente industriale controllato o controllante, la situazione è radicalmente diversa: in questo caso, si instaura un rapporto banca-industria sia creditizio sia partecipativo, che, come abbiamo visto più volte, dà luogo ad una ipotesi di instaurazione congiunta delle componenti fenomenologiche, che produce una concentrazione di conflitti di interesse maggiore e diversa, che è compito del legislatore arginare e che – per lo meno a parere di chi scrive – legittimerebbe il legislatore a proibire e a sanzionare le relative eventuali violazioni 27. Selezionando gli affidatari nel modo descritto, banca e industria avrebbero la libertà di dare origine a commistioni soggettive con produzione dei connessi effetti positivi, ma verrebbe loro impedito di cumulare i ruoli attuali di creditore/debitore e di controllante/controllato e i ruoli potenziali di erogatore di fondi e di prenditore di fondi. Nonostante la natura di socio banchiere a monte o di socio industriale a monte, allora banca e industria si configurerebbero rispettivamente come socio industriale puro a valle e come socio banchiere puro a valle, con maggiore garanzia della funzione schumpeteriana del credito. Il modello di regolamentazione che ne scaturirebbe – a separazione dei ruoli – consentirebbe di eliminare le esternalità negative connesse alla commistione dei ruoli e di conservare gli effetti positivi connessi alla commistione pura

27 Considerando sia la direzione banca-industria sia la direzione industria-banca, gli affidatari potrebbero essere classificati nelle seguenti sedici categorie: (1) cliente ordinario non partecipato, (2) cliente ordinario non partecipante, (3) cliente ordinario partecipato, (4) cliente ordinario partecipante, (5) cliente ordinario partecipato e collegato, (6) cliente ordinario partecipante e collegato, (7) cliente ordinario partecipato e controllato, (8) cliente ordinario partecipante e controllante, (9) cliente industriale non partecipato, (10) cliente industriale non partecipante, (11) cliente industriale partecipato, (12) cliente industriale partecipante, (13) cliente industriale partecipato e collegato, (14) cliente industriale partecipante e collegato, (15) cliente industriale partecipato e controllato, (16) cliente industriale partecipante e controllante.

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e semplice dei soggetti 28. Si potrebbe eccepire che il meccanismo è facilmente eludibile. È vero: si pensi per esempio all’ipotesi in cui una banca A controllante un’industria B e una banca C controllante un’industria D concludano un accordo che preveda erogazioni “privilegiate” di credito da A a D e da C a B. Tuttavia, si può contro-eccepire che, proprio perché l’accordo costituirebbe il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa, accertatane la conclusione in qualsiasi forma, potrebbe esserne accertata l’illiceità della causa ex art 1344 c.c., in quanto negozio in frode alla legge, e potrebbe esserne conseguentemente accertata la nullità ex art. 1418 c.c., con irrogazione delle sanzioni previste per la diretta violazione del divieto. L’ordinamento giuridico non è privo di “anticorpi”.

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28 Sulla possibilità di costruire una disciplina dei fidi bancari tenendo conto non solo dei legami partecipativi con gli affidati, ma anche della natura industriale, finanziaria o ordinaria degli stessi con corrispondente più forte selezione dell’affidamento via via che si passa da una categoria all’altra di affidatario, vedi Messori, La separatezza, cit., p. 60. Su una linea simile, vedi Dacrema, Evoluzione, cit., p. 204 che suggerisce una disciplina dei fidi che dovrebbero graduarsi “a seconda della forza e della natura dei legami in gioco”.

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CoMMENTI

Cancellazione dal registro delle imprese ed estinzione delle società CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, Sezioni Unite Civili, sentenza 22 febbraio 2010, n. 4062; Pres. Vittoria, Rel. Forte, P.M. Iannelli (concl. diff.); Soc. Cooperativa edilizia S. Barbara (avv. Piccinni) c. P.C. (avv. De Marini) (Conferma Trib. Lecce 20 agosto 2008) Società – Liquidazione – Cancellazione dal registro delle imprese – Estinzione della società – Art. 2495 c.c. – Norma interpretativa – Esclusione – Norma innovativa (Cod. civ., art. 2495) Società – Liquidazione – Cancellazione dal registro delle imprese – Estinzione della società – Art. 2495 c.c. – Società di persone – Applicabilità (Cod. civ., art. 2495)

L’art. 2495, co. 2, codice civile, nella parte, inserita dal d.lgs. n. 6/2003, in cui fa conseguire alla cancellazione dal registro delle imprese l’estinzione della società, costituisce norma non interpretativa ma innovativa, applicabile quindi solo a decorrere dalla data dell’entrata in vigore del suddetto d.lgs. (1) La regola posta dall’art. 2495, co. 2, codice civile per le società di capitali trova applicazione anche alle società di persone. (2) (Omissis) Svolgimento del processo – Il Tribunale di Lecce, con la sentenza di cui in epigrafe, nelle cause riunite n.ri 3173 e 3174 del 2007, aventi ad oggetto rispettivamente opposizione all’esecuzione e opposizione agli atti esecutivi di P.C. nei confronti dalla cooperativa edilizia Santa Barbara s.r.l., ha accertato che quest’ul-

tima non aveva il diritto di procedere esecutivamente nei confronti di P.C., non essendo esistente e ha compensato interamente le spese di causa tra le parti per la novità della soluzione adottata a favore del P. Con ricorso del 20 febbraio 2007 il P. aveva proposto opposizione alla esecuzione, in ragione del processo esecutivo immobilia-

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re n. 332/84 promosso nei suoi confronti dalla Cooperativa edilizia Santa Barbara s.r.l., che aveva a lui intimato il precetto in data 30 ottobre 2002 per ottenere il pagamento di Euro 62.344,44, in base a titolo costituito dalla sentenza della Corte d’appello di Lecce n. 439/01, non computando per liquidare il dovuto la detrazione spettante al debitore dell’importo a lui dovuto per la stessa sentenza, che avrebbe dato luogo a un debito complessivo dell’opponente di Euro 27.687,41, somma inferiore a quella pretesa. Deduceva l’opponente che la Cooperativa edilizia Santa Barbara era stata cancellata dal registro delle imprese il (omissis), in base ad un bilancio da cui risultava la inesistenza di qualsiasi credito e di conseguenza la stessa, per l’art. 2495 c.c., come novellato con la riforma del diritto societario del 2003, doveva considerarsi società estinta, perché cancellata. La Cooperativa opposta si costituiva in giudizio il 14 dicembre 2007, deducendo che il debitore aveva chiesto la conversione del pignoramento, proponendo opposizione agli atti esecutivi con ricorso del 27 maggio 2005, nel quale aveva dedotto l’estinzione della Cooperativa stessa, dopo aver proposto altra istanza di conversione rimasta inadempiuta. Il giudice adito aveva dichiarato inammissibile l’istanza di conversione e nominato un c.t.u. che aveva liquidato il credito preteso in Euro 48.461,89, dopo la rettifica di un precedente computo minore, osservando che, a differenza delle fattispecie richiamate dall’opponente, nel caso la società cancellata era creditrice e non debitrice delle somme pretese. Ad av-

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viso della Cooperativa, il liquidatore conservava la rappresentanza di essa per il recupero dei crediti e in tale veste aveva notificato il precetto il 4 novembre 2002, dopo la richiesta di cancellazione della società. Con altro ricorso depositato il 24 maggio 2006, il P. proponeva opposizione agli atti esecutivi, con riferimento ai provvedimenti del giudice dell’esecuzione del 21 marzo 2006, che avevano dichiarato inammissibile la istanza di conversione dell’opponente, per essere insufficiente la cauzione prestata, non potendo devalutarsi il credito a base del processo esecutivo basato su titolo esecutivo costituito da una sentenza. Dopo che il giudice aveva ordinato di rinotificare le istanze di cui al ricorso con atto di citazione, la Cooperativa si costituiva pure in tale procedimento, incontestatamente qualificato di opposizione agli atti esecutivi. Riunite le due cause, di opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi, il giudice unico presso il Tribunale di Lecce, con sentenza del 20 agosto 2008, ha rilevato che la Cooperativa risultava cancellata dal registro delle imprese nel settembre 2004, quando già dal l’gennaio dello stesso anno era operante e vigente l’art. 2495 c.c. Ha quindi affermato che la società doveva ritenersi estinta alla data dei procedimenti esecutivi da essa iniziati, come del resto sarebbe stato anche in caso di cancellazione precedente alla data di entrata in vigore della riforma delle società (1 gennaio 2004), data la interpretazione della norma modificata di cui sopra della sentenza della Cass. n. 18618 del 2006, per la quale l’articolo, regolando solo gli effetti della cancellazione e non le sue


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condizioni o i suoi presupposti, era da applicare retroattivamente e in riferimento a cancellazioni precedenti delle società, non potendo valere l’orientamento in precedenza prevalente, per cui la cancellazione non estingueva la società. Ritenuto quindi che la Cooperativa doveva ritenersi cancellata ed estinta alle date delle due opposizioni, entrambe del 2007, il Tribunale ha pronunciato nei sensi sopra riportati. Per la cassazione di tale sentenza del 20 agosto 2008, notificata al difensore domiciliatario della società in data 17 novembre 2008, quest’ultima ha proposto ricorso articolato in tre motivi e notificato l’11 dicembre 2008, e il P. si è difeso in questa sede con controricorso. Motivi della decisione – 1.1. Il primo motivo di ricorso della Cooperativa denuncia violazione dell’art. 2495 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., co. 1, n. 3, per avere il tribunale erroneamente ritenuto che la novellata norma che precede abbia sancito che la cancellazione della società dal registro delle imprese comporti la irreversibile estinzione della società. Con tale statuizione non si è tenuto conto che la Cooperativa, in quanto inesistente, non poteva neppure evocarsi in causa nella opposizione, non essendo soggetto di diritto, per cui tale opposizione era da dichiararsi inammissibile. La ricorrente richiama la giurisprudenza anche successiva (Cass. 15 gennaio 2007 n. 646 e 2 marzo 2006 n. 4652) per la quale la società cancellata non poteva considerarsi estinta, finché vi erano rapporti pendenti che ad essa facevano capo, per cui nulla era mutato in ordine alla vicenda della

cancellazione per le imprese collettive, che unanimamente in precedenza era stata ritenuta non estintiva delle società di capitale e delle cooperative finché perdurassero rapporti delle stesse. Nel caso, pur sussistendo un’attività giudiziale di recupero crediti della società verso il P. sin dagli anni ’80, solo nell’anno 2002 la Cooperativa era potuta intervenire in una preesistente azione esecutiva in corso. Con il quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., era quindi chiesto di affermare il seguente principio: “L’atto formale di cancellazione di una società dal registro delle imprese che abbia proposto azione per il recupero del proprio credito prima della formalità di cancellazione non determina l’estinzione irreversibile di essa ove non siano esauriti tutti i rapporti giuridici facenti capo alla stessa società”. 1.2. Era poi censurata la sentenza impugnata per violazione dell’art. 75 c.p.c., anche per omessa motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., co. 1, nn. 3 e 5. Anche a ritenere corretto il principio opposto adottato nella decisione di merito, il giudice avrebbe dovuto dichiarare inammissibili le opposizioni proposte il 14 settembre 2007 contro atti provenienti da un soggetto inesistente a decorrere dalla data della cancellazione del (omissis), dovendo ritenere nulla la evocazione in causa di soggetto inesistente. Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., si chiede di affermare: “La chiamata in giudizio di una società formalmente cancellata dal registro delle imprese e quindi estinta, è inammissibile”. 1.3. Il terzo motivo di ricorso lamenta violazione dell’art. 617 c.p.c.,

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in relazione anche all’art. 360 c.p.c., n. 5, perché la opposizione agli atti esecutivi del 2007 si sostanziava nella deduzione del difetto di rappresentanza della società estinta, mentre il precetto era stato notificato nel 2002, prima della cancellazione di cui sopra, con conseguente tardività anche delle contestazioni delle formalità del precetto stesso. Lo stesso ricorrente rilevate le chiare differenze di orientamenti giurisprudenziali di questa Corte sulla questione degli effetti della cancellazione, ne ha chiesto l’assegnazione a queste Sezioni unite ai sensi dell’art. 374 c.p.c. Correttamente la ricorrente rileva la diversità dei principi enunciati da questa Corte in ordine agli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese. Infatti, secondo un indirizzo di questa Corte, l’atto formale di cancellazione di una società dal registro delle imprese, così come il suo scioglimento, con l’instaurazione della fase di liquidazione, non determina l’estinzione della società ove non siano esauriti tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo a seguito della procedura di liquidazione, ovvero non siano definite tutte le controversie giudiziarie in corso con ì terzi, e non determina, conseguentemente, in relazione a detti rapporti rimasti in sospeso e non definiti, la perdita della legittimazione processuale della società e un mutamento nella rappresentanza sostanziale e processuale della stessa, che permane in capo ai medesimi organi che la rappresentavano prima della cancellazione (sono citate in ricorso Cass. 15 gennaio 2007 n. 646, 23 maggio 2006 n. 12114, e 2 marzo 2006 n. 4652).

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Contrapposte a tale primo e unanime indirizzo ermeneutico, sono per la ricorrente, Cass. 28 agosto 2006 n. 18618, 18 settembre 2007 n. 19347 e 20 ottobre 2008 n. 25472, per le quali, a seguito della modifica apportata all’art. 2945 c.c., co. 2, dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4, entrato in vigore il primo gennaio 2004, la cancellazione dal registro delle imprese produce l’effetto costitutivo dell’estinzione irreversibile della società anche in presenza di rapporti non definiti ed anche se è intervenuta in epoca anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina ed ha riguardato una società di persone con conseguente perdita della capacità processuale della società e passaggio della rappresentanza dagli organi che la rappresentavano prima della cancellazione. Sul problema degli effetti della cancellazione sulle società commerciali, di persone e di capitali, e sulla loro estinzione, sono di recente intervenute due ordinanze interlocutorie delle sezioni semplici (Cass. Sez. 3^ 9 aprile 2009 n. 8665 e sez. 1^ 15 settembre 2009 n. 19804) che hanno rimesso al Primo presidente il contrasto di cui al presente ricorso, chiedendo che di esso fossero investite queste Sezioni unite. 2. Il primo motivo di ricorso della Cooperativa, che censura la decisione di merito la quale ha adottato la seconda delle due indicate soluzioni e chiede quindi di applicare il vecchio orientamento ermeneutico che nega l’efficacia estintiva della cancellazione delle società di capitali e delle cooperative, il cui atto costitutivo sia depositato nella cancelleria del tribunale ai sensi dell’art. 2296 c.c. (oggi ufficio del registro delle imprese istituito con


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la l. 29 dicembre 1993, n. 580, art. 8), è logicamente preliminare agli altri due motivi, potendo il suo esito determinare l’assorbimento delle questioni proposte con gli altri motivi, rendendo inammissibile l’impugnazione. 3.1. Come si è detto, fino alla riforma organica della disciplina delle società di capitali e cooperative di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, era stata unanime la scelta ermeneutica dei giudici di legittimità di ritenere la cancellazione dal registro delle imprese dell’iscrizione di una società commerciale, di persone o di capitali, mera pubblicità dichiarativa, che non produceva l’estinzione della società stessa, in difetto dell’esaurimento di tutti i rapporti giuridici pendenti facenti capo ad essa, per cui permaneva la legittimazione processuale di essa e il processo già iniziato proseguiva nei confronti o su iniziativa delle persone che già la rappresentavano in giudizio o dei soci, anche con riferimento alle fasi di impugnazione (con le già citate Cass. n. 646/07, 12114/06, 7972/00, 3221/99, cfr. pure Cass. 21 agosto 2004 n. 16500, 28 maggio 2004 n. 10324, 20 ottobre 2003 n. 15691, 2 agosto 2001 n. 10555, 1 luglio 2000 n. 8842, 15 giugno 1999 n. 5941, 20 ottobre 1998 n. 10380, 16 novembre 1996 n. 10065, tra altre) ovvero negli eventuali procedimenti di esecuzione, relativi ai medesimi rapporti accertati con sentenza costituente titolo esecutivo a base dei crediti da esigere (Cass. 8 agosto 1964 n. 2273). Dal punto di vista formale, la Relazione al libro del lavoro del codice civile, sul neo istituito registro delle imprese (nn. 98 e ss.), afferma che lo stesso (art. 2188 e ss. c.c. modificati dalla citata l. 29 dicembre 1993, n.

580, istitutiva del registro di cui sopra presso le Camere di commercio, sotto la vigilanza del giudice delegato) ha avuto lo scopo “di attuare un sistema completo ed organico di pubblicità legale, idoneo a portare a conoscenza del pubblico l’organizzazione dell’impresa, le sue vicende e le sue trasformazioni” (n. 99). Chiarisce la relazione che l’“iscrizione ha normalmente efficacia dichiarativa. Eccezionalmente, e solo in quanto la legge espressamente lo dichiari, come avviene ad es. per la costituzione delle società per azioni, delle società in accomandita per azioni, delle società a responsabilità limitata e delle cooperative, l’iscrizione ha efficacia costitutiva” (n. 100), e “crea la presunzione juris et de iure” che i fatti iscritti siano noti a tutti (n. 100). Il rilievo di regola solo dichiarativo della pubblicità attuata con l’iscrizione nel registro delle imprese è riaffermato nell’art. 2193 c.c., per il quale le iscrizioni delle vicende societarie rendono opponibili le stesse ai terzi; il regime speciale di pubblicità vuole tutelare la esigenza dei terzi, in specie dei creditori sociali, di conoscere le vicende dell’impresa collettiva e accertare da esse sia la capienza del patrimonio sociale per la responsabilità della società per i debiti di essa che la eventuale estensione di detta responsabilità ai soci, con riferimento alle società che svolgono attività di impresa e si qualificano commerciali, di cui ai capi 3^ e ss. del Titolo 5^ del Libro 5^ del c.c. (art. 2200), siano esse di persone e prive di personalità giuridica (s.n.c. ed s.a.s.) o persone giuridiche (s.p.a., in accomandita p.a., s.r.l. e cooperative ex art. 2325 c.c., art. 2518 c.c. e ss.).

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Le iscrizioni nel citato registro riguardano vicende della impresa collettiva, dalla nascita alla cessazione delle sue attività che determina l’estinzione della società, fino alla quale è esclusa ogni responsabilità dei soci per le società persone giuridiche, il cui patrimonio è totalmente autonomo rispetto a quelli dei soci, costituendo la personalità il limite e la misura della capacità di essere titolare e di gestire i beni conferiti all’impresa collettiva, sussistendo comunque una capacità giuridica delle società iscritte ritenute “soggetti” di diritto diversi e distinti dai soci, anche quando non vi sia la personalità giuridica. Iscritta la cancellazione dell’iscrizione delle società (artt. 2191 e 2192 c.c.), su istanza dei liquidatori o di ufficio, viene comunque meno la opponibilità delle vicende dell’impresa collettiva ai terzi, anche se questa può conservare una soggettività limitata e per singoli atti, non diversa da quella delle società semplici o di fatto (art. 2297 c.c.). In tale contesto normativo anteriore alla riforma del 2003 delle società di capitali, pienamente giustificato era l’indirizzo ermeneutico giurisprudenziale, sostanzialmente unanime in sede di legittimità, favorevole alla prosecuzione della capacità giuridica e della soggettività delle società commerciali, anche dopo la cancellazione della iscrizione nel registro delle imprese e dopo il loro scioglimento e la successiva liquidazione del patrimonio sociale. Tale posizione, oltre a rispettare la natura dichiarativa della pubblicità, garantiva il ceto creditorio con l’affermazione del permanere di una soggettività attenuata e di una limitata prosecuzione della capacità processuale della società la cui iscrizione era stata

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cancellata (su tale tipo di soggettività cfr., in particolare, Cass. 15 giugno 1999 n. 5941 e 13 luglio 1995 n. 7650), consentendosi l’assoggettamento di tale società alla procedura fallimentare anche successivamente all’anno dalla c.d. “formalità” della cancellazione dell’iscrizione a sua volta iscritta, delle società commerciali di persone (art. 2312 c.c.) e di quelle per azioni (art. 2456 c.c.), così semplificando il recupero dei crediti, senza costringere i loro titolari ad agire contro una pluralità di soci, con le incertezze conseguenti, già in rapporto alla loro individuazione, pur a riconoscere loro una posizione rispetto a quella dei creditori particolari dei soci. Mentre di regola i creditori della società, per il principio di responsabilità patrimoniale (art. 2740 c.c.), possono rifarsi sul patrimonio di essa finché è in vita, essi, dopo l’estinzione, non possono che soddisfarsi sui singoli soci, con prelazione sui creditori personali dei soci stessi (art. 2280 c.c., applicabile ai sensi del previgente art. 2452 c.c., co. 1, anche alle società di capitali e per l’art. 2297 c.c., a quelle commerciali di persone, per le quali è prevista la previa escussione del patrimonio sociale ex art. 2268 c.c.), essendo comunque meno garantiti per la soddisfazione dei loro diritti. La posizione giurisprudenziale esposta, costituente ius receptum, era stata criticata da quasi tutta la dottrina, in base alla lettera del combinato disposto dei già vigenti artt. 2312, 2324 e 2456 c.c., norme per le quali, “dopo la cancellazione” delle iscrizioni, sia delle società di persone che di quelle di capitali, “i creditori sociali possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci” delle società in nome col-


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lettivo e di quelli accomandatari delle s.a.s., illimitatamente e nei confronti dei soci delle società persone giuridiche in proporzione alla rispettiva quota di riparto per questa parte così come con l’attuale art. 2495 c.c., (giacché la novella del 2003 per le società con personalità giuridica ha lasciato in sostanza immutata la previgente disciplina). Peraltro la mancata espressa previsione, nella previgente normativa, di un’estinzione della società con personalità giuridica e di una perdita della capacità giuridica e della soggettività delle società commerciali di persone, quale effetto della cancellazione della iscrizione della società, a sua volta iscritta nel registro, e la previsione dell’azione dei creditori sociali anche contro i liquidatori se vi è loro colpa nell’inadempimento e non quali successori dell’impresa collettiva estinta ma per responsabilità extracontrattuale, sono state due circostanze che in diritto hanno concorso a formare il richiamato indirizzo ermeneutico dei giudici di legittimità, che, in rapporto al previgente art. 2456 c.c., per la natura dichiarativa della pubblicità anche in ordine agli atti di scioglimento e di messa in liquidazione della società, affermavano correttamente che, nella scansione degli eventi relativi alla vita della società resi pubblici, non la cancellazione ma solo la cessazione di ogni attività imprenditoriale (art. 2195 c.c.) determinava la estinzione della società. Quest’ultima non era una vicenda resa opponibile ai terzi con la pubblicità della cancellazione, da sola inidonea a produrre l’effetto estintivo, con la conseguenza che, in caso di sopravvenienze attive o passive del-

la società stessa e della pendenza di processi nei quali essa era parte, alla stessa doveva riconoscersi una limitata soggettività e capacità giuridica, come società semplice o di fatto (art. 2268 c.c.), per legittimarla a proseguire il processo. 3.2. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 319 del 21 luglio 2000, ha rilevato come la lettura delle norme sugli effetti della pubblicità della cancellazione delle società espressione dell’allora diritto vivente comportasse una chiara disparità di trattamento tra imprese individuali e imprese collettive ai fini della dichiarazione di fallimento, in quanto per l’imprenditore persona fisica la stessa era consentita entro un anno dalla cancellazione mentre per le imprese collettive rimaneva sempre incerto il momento della loro fine o estinzione, da cui far decorrere il termine di un anno entro cui, ai sensi della previgente l.fall., art. 10, poteva essere dichiarato il loro stato di insolvenza. Per i giudici della legge l’approccio ermeneutico della Corte di Cassazione era irrazionale, perché poteva escludere in fatto la stessa possibilità dello stato d’insolvenza dell’imprenditore collettivo, da accertare in rapporto ad un soggetto non operativo per il quale quindi non potevano sussistere la stessa pluralità di inadempienze che dà luogo a detto stato; così come per l’imprenditore individuale la cancellazione costituiva il momento finale dell’attività d’impresa e quello di decorrenza del termine di un anno di cui all’art. 10, allora vigente del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, anche per le società commerciali, con o senza personalità giuridica, la stessa vicenda doveva determinare l’inizio del termi-

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ne di decadenza, non potendo avere rilevanza le sopravvenienze attive e passive e la pendenza di processi per escludere ai fini del fallimento la loro estinzione. La sentenza della Corte costituzionale è da leggere in collegamento con la precedente decisione n. 66 del 12 marzo 1999, che aveva invano sollecitato i giudici di legittimità a dare una interpretazione del sistema normativo di riferimento costituzionalmente orientata, fissando per ogni impresa una data certa, cioè quella della cancellazione dell’iscrizione della società dal registro delle imprese, quale dies a quo di decorrenza del termine annuale per dichiarare il fallimento della l.fall., citato art. 10, oggi sostituito dall’art. 9, della riforma delle procedure concorsuali (d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5). Proprio il permanere dell’interpretazione prevalente di cui sopra ha determinato la Corte costituzionale a dichiarare illegittimo, perché in contrasto con l’art. 3 della carta fondamentale e con il principio della certezza dei rapporti giuridici, l’art. 10 sopra citato, “nella parte in cui prevede(va) che il termine di un anno dalla cessazione dell’impresa, entro il quale può intervenire la dichiarazione di fallimento, decorra, per l’impresa collettiva, dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società invece che dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese”. Affermare l’irrilevanza di tale pronuncia sulla questione, così come sembra dirsi nell’ordinanza interlocutoria citata n. 8665/2009 della prima sezione civile, per essere essa relativa solo alla disparità di trattamento dell’impresa individuale rispetto a quella collettiva in ordine ai tempi per dichiararne

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il fallimento, non è condivisibile, se si tiene conto del citato dispositivo della sentenza del giudice delle leggi, da cui appare chiaro il rilievo che per essa ha la disciplina della cancellazione della società, da equiparare alla liquidazione di tutti i rapporti facenti capo alla stessa, alla fine della sua capacità giuridica e all’estinzione della sua soggettività o personalità, così equiparando impresa individuale e collettiva ai fini del loro fallimento dopo la cancellazione. Per la Corte costituzionale, nel sistema, così come la cessazione dell’impresa commerciale individuale si presume assolutamente per l’iscrizione della cancellazione di essa dal registro delle imprese (art. 2196 c.c.), per non lasciare indefinito il termine entro cui chiedere il fallimento dell’imprenditore collettivo con ogni conseguenza in rapporto ai singoli soci, è indispensabile individuare l’identico dies a quo del termine annuale di cui alla l.fall., art. 10, per dichiarare il fallimento, facendolo decorrere dalla cancellazione della iscrizione della società nel registro delle imprese, al fine di garantire la certezza dei rapporti e la tutela dell’affidamento dei terzi e riconoscendo la rilevanza di tale pubblicità ai fini dell’estinzione non riconosciuta invece in sede giurisdizionale, in caso di permanenza delle attività d’impresa. Pur potendo il legislatore regolare diversamente l’impresa collettiva e quella individuale, per la eguaglianza dei terzi creditori nelle due fattispecie, la Corte costituzionale è quindi intervenuta sul previgente art. 10 della legge fallimentare, per il quale la cessazione dell’impresa consentiva di dichiarare il fallimento entro un anno da essa solamente “se la insolvenza si è manifestata anteriormente alla me-


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desima o entro l’anno successivo”, rilevando che, come per l’imprenditore individuale, la norma comporta che il termine di cui sopra decorra dalla iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese che rende nota ai terzi la cessazione dell’attività, altrettanto è a dirsi per le società commerciali, per le quali la cancellazione deve produrre il medesimo effetto. Il giudice delle leggi, pur non qualificando la iscrizione della cancellazione delle società costitutiva della estinzione, ha chiarito che, ai fini del fallimento, la qualifica di impresa dei soggetti operanti in forma societaria dovesse presumersi venuta meno con la cancellazione, la quale, per le imprese collettive, comportava anche la fine della loro personalità o soggettività coincidente con la misura della capacità giuridica delle società non persone giuridiche, per cui, solo entro un anno da tale pubblicità, anche sussistendo rapporti pendenti, della società poteva dichiararsi lo stato di insolvenza. 3.3. L’anno successivo alla citata sentenza della Corte Costituzionale c’è stata la legge di delega per la riforma del diritto societario n. 366 del 2001, che all’art. 8, relativo allo scioglimento e alla liquidazione della società, al co. 1, lett. a, prevede che la legge delegata semplifichi le procedure di accertamento delle cause di scioglimento e dei procedimenti di nomina dei liquidatori, dando mandato al legislatore delegato di “disciplinare gli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese”. All’art. 9 della stessa legge relativo alla “cancellazione” della società dal registro si dispone che il futuro decreto legislativo semplifichi e precisi le

circostanze per le quali devono cancellarsi le società di capitali dal registro delle imprese, prevedendo pure “forme di pubblicità della cancellazione dal registro” che, nella legge di delega, è considerata vicenda societaria da iscrivere nel registro, con gli effetti sostanziali e processuali di cui all’art. 2495 c.c., tra i quali, per la prima volta, espressamente si prevede la estinzione della personalità delle società di capitali e di quelle cooperative. La riforma delle società di capitali e cooperative di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, entra in vigore il 1 gennaio 2004 e in essa vi è l’art. 2495 c.c., novellato con il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4, e sostitutivo del previgente art. 2456 c.c., il cui contenuto è rimasto immutato nella previsione del co. 1, delle condizioni e presupposti della cancellazione, costituiti dallo scioglimento della società e dalla procedura di liquidazione, essendosi modificato il solo co. 2, con l’inserimento in esso dell’inciso preliminare “ferma restando l’estinzione della società” dopo la cancellazione e la nuova previsione della notifica, entro un anno da detto effetto estintivo, presso la sede della società estinta, delle domande dei creditori sociali nei confronti dei soci, che risponderanno di tali debiti nei limiti della parte di capitale a ciascuno di loro ripartito o dei liquidatori in colpa per l’inadempimento, con disciplina analoga a quella della notificazione dell’atto riassuntivo della causa ai successori, in caso di morte della parte del processo. La riforma introdotta tiene conto della cancellazione della iscrizione della società come istituto sostanziale da pubblicizzare, di cui alla legge di delega, e prevede che resta “ferma…

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la estinzione della società, dopo la cancellazione”, considerando quindi la prima effetto della seconda, secondo la lettera della legge, che è in palese contrasto con il diritto vivente elaborato da questa Corte, ritenuto emendabile dal giudice delle leggi con una lettura costituzionalmente orientata della previgente l.fall., art. 10. Nessun eccesso vi è stato dai limiti della delega della riforma societaria per la quale erano da disciplinare, come detto, “gli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese”, non precisandosi se questa dovesse essersi avuta prima o dopo l’entrata in vigore della legge delegata che, per i dati testuali dell’art. 2495 c.c., è ultrattiva, e produce i suoi effetti, tra cui quello di estinzione della società per cancellazione, solo dal 1 gennaio 2004, data d’entrata in vigore della novella (cfr. pure art. 223 bis disp. att. c.c.). Non può non rilevarsi che, ai sensi dell’art. 2193 c.c. e della richiamata relazione al codice civile in materia di pubblicità nel registro delle imprese, soltanto la previsione “espressa” per legge può provocare l’effetto estintivo, cioè costitutivo, della cancellazione dell’iscrizione delle società di capitali e cooperative, e tale previsione si è avuta per la prima volta con l’art. 2495 c.c., novellato; ciò comporta che l’estinzione può aversi, per le cancellazioni precedenti alla data di entrata in vigore del 1 gennaio 2004, del d.lgs. n. 6 del 2003, solo a detta data, dovendosi ritenere contestuale per l’avvenire con ciascuna cancellazione successiva, per il principio di ultrattività delle norme, di cui agli artt. 10 e 11 preleggi, e dall’art. 73 Cost., che consentono deroghe espresse a tale

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regola per cui ogni legge e anche l’art. 2495 c.c., opera solo per l’avvenire, salvo a volere riconoscere una natura “interpretativa” che non sembra giustificarsi sulla base della lettera del dato normativo, che, anzi, con l’art. 218 disp. att. c.c., e art. 223 bis disp. att. c.c., u.c., conferma l’ultrattività della disciplina peraltro non contestabile per i profili processuali dell’articolo regolati in base al principio “tempus regit actum”. Resta dunque l’interrogativo se – fermo restando che anche le società cancellate prima di tale data, a partire dal 1 gennaio 2004 debbono considerarsi estinte a causa della entrata in vigore della nuova legge – gli effetti di tale estinzione debbano essere fatti risalire a tale data o a quella della precedente cancellazione. In tale ultimo senso sembra orientata la sentenza n. 18618 del 2006 che, per la prima volta, dà rilevanza ermeneutica generale, nella disciplina dei rapporti tra creditori e società, alla previsione dell’art. 2495 c.c., in rapporto alla pubblicità delle cancellazioni precedenti e anche ai fini del fallimento delle imprese collettive, cui avevano fatto riferimento le sentenze citate della Corte Costituzionale, per rilevare l’incidenza della nuova disciplina della pubblicità nel registro con effetti su altri tipi di società sia pure su un piano meramente processuale. Si afferma infatti, in tale sentenza, che, nell’applicare la l.fall., art. 10, in rapporto ad una società di fatto venuta meno con il trasferimento dell’azienda di questa ad una società di capitali, operato con atto notarile avente data certa e pubblicizzato nel registro delle imprese in cui era iscritta detta società, il termine annuale per la dichiarazio-


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ne di insolvenza della società di fatto non poteva che decorrere da tale richiamata pubblicità, pur essa estintiva della limitata soggettività della società dante causa, a garanzia delle esigenze di certezza nei rapporti con i terzi sottostanti la disciplina legale, cui si era dato rilievo con la sentenza della Corte costituzionale n. 319/2000, tenuto pure conto delle sentenze della stessa Consulta n. 361 del 7 novembre 2001 e 131 dell’11 aprile 2002. Tali interventi del giudice delle leggi avevano dato identico rilievo alla pubblicità della cessazione della attività delle imprese individuali e di quelle collettive, più che alla prosecuzione di questa in fatto, per escludere la violazione di norme costituzionali e del principio di eguaglianza tra i loro creditori e quelli delle società, dopo la riforma del registro delle imprese di cui alla l. n. 580 del 1993. Per la prima volta si afferma dalla Corte di legittimità che il carattere dichiarativo della pubblicità non comporta che la cessazione di fatto dell’attività di impresa possa prevalere sulla cancellazione iscritta nel registro, che rende certa e opponibile ai terzi la diversa data di detta cessazione dell’attività d’impresa, producendo l’opponibilità del venir meno della capacità giuridica della società, anche ai fini della decorrenza del termine annuale per la declaratoria di insolvenza, facendo presumere detto adempimento formale la conclusione dell’attività imprenditoriale, a garanzia dei terzi che dalle iscrizioni degli eventi relativi alle imprese hanno conoscenza “legale” di essi, con ogni riflesso anche processuale di tale affermazione. 3.4. Tuttavia la citata sentenza del 2006 della Cassazione afferma che il

nuovo art. 2495 c.c., “non disciplinando le condizioni per la cancellazione ma gli effetti della stessa, cioè la estinzione della società cancellata, si applica anche alle cancellazioni intervenute in epoca anteriore alla sua entrata in vigore”, senza nulla osservare in ordine alla retroattività o ultrattività degli effetti della legge. Appare evidente l’incidenza sui giudici di questa Corte della legge di delega che tali effetti aveva espressamente chiesto di disciplinare, senza precisare se gli stessi potessero retroagire, ma non escludendo che la legge delegata potesse riferirsi anche a cancellazioni già avvenute, con la conseguenza che per le cancellazioni anteriori all’entrata in vigore della riforma, l’effetto dell’estinzione non poteva che riconoscersi e “restare fermo” alla data del 1 gennaio 2004. Lo stesso novello art. 2495 c.c., è scritto in modo da regolare i soli effetti estintivi a decorrere dall’entrata in vigore della riforma del diritto societario anche in rapporto alle cancellazioni precedenti, avendo carattere di jus superveniens ultrattivo e produttivo di effetti estintivi nuovi, anche per le pregresse cancellazioni, in rapporto a quanto previsto nelle preleggi e in Costituzione (cfr. sul tema Cass. 5 marzo 2007 n. 5048) e non emergendo dal suo contenuto una pretesa natura meramente interpretativa e ricognitiva della norma, che ne avrebbe comportato la retroattività e il superamento per il passato del pregresso diritto vivente superato con la novella. Non può quindi configurarsi l’art. 2495 c.c., introdotto dal d.lgs. n. 6 del 2003, art. 4, che ha sostituito il previgente art. 2456 c.c., come norma interpretativa

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della pregressa disciplina e retroattiva, espressione di una lettura in consapevole contrasto con il precedente ius receptum, che negava natura costitutiva alla cancellazione della iscrizione della società dal registro delle imprese, come afferma invece la citata sentenza di questa Corte n. 25192 del 2008, per la quale la novella costituirebbe solo una lettura orientata costituzionalmente del sistema normativo precedente. Anche la tutela dell’affidamento dei cittadini in rapporto agli effetti della loro conoscenza dell’iscrizione della cancellazione che all’epoca in cui la stessa avvenne non escludeva la continuazione dell’esistenza in vita della società e l’effetto estintivo di cui alla novella, induce a ritenere la irretroattività delle norme, non prevista testualmente dalla legge nei sensi indicati, in conformità alle preleggi e alle norme costituzionali. La citata pronuncia del 2008 deve invece condividersi per la parte in cui afferma che, se per le società con personalità giuridica si riconosce dalla nuova norma la erroneità del pregresso indirizzo giurisprudenziale prevalente, nel sistema è logico riconoscere al novellato art. 2495 c.c. un effetto espansivo che impone un ripensamento della pregressa giurisprudenza anche per le società commerciali di persone, in adesione ad una lettura costituzionale della norma. Le società in nome collettivo e in accomandita semplice non hanno personalità giuridica ma solo una limitata capacità per singoli atti di impresa e, con la cancellazione della loro iscrizione dal registro, come si estingue per l’art. 2495 c.c., la misura massima di detta capacità, cioè la personalità delle

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società che di essa sono dotate, deve logicamente presumersi che venga meno anche detta ridotta capacità delle società di persone, rendendola opponibile ai terzi con una pubblicità solo dichiarativa della fine della vita di essa, della stessa natura cioè di quella della loro iscrizione nel registro a decorrere dal 1 gennaio 2004 e per l’avvenire, come sopra già precisato. Pertanto, anche per le società di persone, può presumersi, che la cancellazione dell’iscrizione nel registro delle imprese di esse comporti la fine della loro capacità e soggettività limitata, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali e le cooperative, anche se in precedenza per esse si era esattamente negata in passato la estinzione della società e della capacità di essa, fino al momento della liquidazione totale dei rapporti facenti ad essa capo, in difetto di una espressa previsione dell’effetto estintivo per le società di capitali. Tale soluzione ermeneutica, oltre che nelle indicate ragioni logiche e sistematiche che inducono a uniformare la disciplina dei diversi tipi di società, trova giustificazione anche nella l.fall., art. 10, come novellato con il citato d.lgs. n. 5 del 2006, art. 9, il cui co. 1 consente, per gli imprenditori individuali e collettivi, come già detto, la dichiarazione di fallimento “entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se la insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo”, con chiaro identico rilievo dell’iscrizione della cancellazione per ogni tipo di società commerciale, sia di persone che di capitali.


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Non si viola in tal modo l’art. 2193 c.c., né il rigido formalismo della relazione al codice sul carattere assoluto della presunzione di conoscenza delle vicende societarie iscritte nel registro, facendo salva la citata l.fall., art. 10, co. 2, la facoltà di dimostrare “il momento dell’effettiva cessazione dell’attività” imprenditoriale, “da cui decorre il termine del co. 1”, per la declaratoria del fallimento, per entrambi i tipi di società, solo nel caso la cancellazione sia stata ordinata di ufficio e non sia quindi dovuta a richiesta dei liquidatori, potendo le società, in tale condizione peculiare, considerarsi cessate ed estinte anche in un momento diverso dalla cancellazione stessa se si dimostri che il provvedimento si fondava su dati di fatto errati. Il riconoscimento alla cancellazione delle società di persone di un effetto solo dichiarativo della estinzione della stesse da riconoscere al primo gennaio 2004 o successivamente, resta confermato dalla disciplina delle azioni dei creditori sociali nei confronti dei soci per debiti della società di persone, riconosciuta dall’art. 2312 c.c., come accade per quelle con personalità giuridica cancellate ed era già previsto dal previgente art. 2456 c.c., e risulta confermato dall’attuale art. 2495 c.c., con una chiara differenza delle due discipline delle azioni nei due casi, connessa alla natura dei due tipi societari. Differenti sono infatti i limiti della responsabilità dei soci, nelle società di persone di regola illimitata, dopo l’escussione del capitale sociale, ai sensi degli artt. 2304 e 2324 c.c. (cfr. pure artt. 2267 e 2268 c.c., per le società semplici), e invece, in quelle di capitali e nelle cooperative, coerentemente con il sistema, limitata fino alla concorrenza di quanto riscos-

so nel riparto del capitale sociale dal socio chiamato a rispondere dei crediti sociali, in ragione dell’accentuata e totale autonomia del patrimonio delle società aventi personalità giuridica, che non consente una soddisfazione che superi quanto di esso è stato ripartito tra i soci e resta comunque destinato a soddisfare i creditori della società, nei limiti della sua capienza anche dopo la ripartizione. Consegue quindi che l’inciso “ferma restando la estinzione della società”, che la novella ha inserito con riferimento espresso alle società di capitali e alle cooperative, integra il presupposto logico, nel sistema, per una lettura della cancellazione delle iscrizioni di società di persone dichiarativa della cessazione della loro attività dal momento dell’entrata in vigore della legge anche per le cancellazioni precedenti e dalla data della cancellazione dell’iscrizione per quelle successive al 1 gennaio 2004, consentendo la previsione espressa di legge dell’estinzione delle società con personalità giuridica di dar luogo a quella interpretazione costituzionalmente orientata delle norme da sempre sollecitata dal giudice delle leggi e favorevole ad un identico trattamento di tutti i creditori delle imprese individuali e collettive di qualsiasi tipo, oggi possibile in ragione della riforma del 2003. Infatti il venir meno della società costituisce il medesimo presupposto della analoga disciplina delle azioni dei creditori delle società contro i soci di cui all’art. 2312 c.c., co. 2, e dell’art. 2324 c.c., soggetti che rispondono per l’eventuale inadempimento, in solido e illimitatamente, previa escussione del patrimonio sociale, ove sia cessata la vita della società.

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Per le società di persone, sembra logico ritenere che l’espressa disciplina della responsabilità dei soci subentrati alla società verso i creditori sociali per effetto della cancellazione ha come presupposto il venir meno della soggettività e della capacità giuridica limitata di esse, parallelo all’effetto costitutivo-estintivo della cancellazione dell’iscrizione delle società di capitali di cui all’art. 2495 c.c., (così le cit. Cass. n. 19347/07, relativa a società consorziate e 29242/08), riaffermandosi, per le società commerciali senza personalità giuridica, la natura dichiarativa dell’effetto al 1 gennaio 2004 per le cancellazioni precedenti l’entrata in vigore della novella e quella contestuale alla pubblicità per quelle future. 3.5. Deve quindi affermarsi il seguente principio di diritto: “L’art. 2495 c.c., co. 2, come modificato dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4, è norma innovativa e ultrattiva, che, in attuazione della legge di delega, disciplina gli effetti delle cancellazioni delle iscrizioni di società di capitali e cooperative intervenute anche precedentemente alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2004), prevedendo a tale data la loro estinzione, in conseguenza dell’indicata pubblicità e quella contestuale alle iscrizioni delle stesse cancellazioni per l’avvenire e riconoscendo, come in passato, le azioni dei creditori sociali nei confronti dei soci, dopo l’entrata in vigore della norma, con le novità previste agli effetti processuali per le notifiche intraannuali di dette citazioni, in applicazione degli artt. 10 e 11 preleggi, e dell’art. 73 Cost., u.c. Il citato articolo, incidendo nel sistema, impone una modifica del diver-

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so e unanime pregresso orientamento della giurisprudenza di legittimità fondato sulla natura all’epoca non costitutiva della iscrizione della cancellazione che invece dal 1 gennaio 2004 estingue di certo le società di capitali nei sensi indicati. Dalla stessa data per le società di persone, esclusa l’efficacia costitutiva della cancellazione iscritta nel registro, impossibile in difetto di analoga efficacia della loro iscrizione, per ragioni logiche e di sistema, può affermarsi la efficacia dichiarativa della pubblicità della cessazione dell’attività dell’impresa collettiva, opponibile dal 1 luglio 2004 ai creditori che agiscano contro i soci, ai sensi degli artt. 2312 e 2324 c.c., norme in base alle quali si giunge ad una presunzione del venir meno della capacità e legittimazione di esse, operante negli stessi limiti temporali indicati, anche se perdurino rapporti o azioni in cui le stesse società sono parti, in attuazione di una lettura costituzionalmente orientata delle norme relative a tale tipo di società da leggere in parallelo ai nuovi effetti costituivi della cancellazione delle società di capitali per la novella. La natura costitutiva riconosciuta per legge a decorrere dal 1 gennaio 2004 degli effetti delle cancellazioni già iscritte e di quelle future per le società di capitali che con esse si estinguono, comporta, anche per quelle di persone, che, a garanzia della parità di trattamento dei terzi creditori di entrambi i tipi di società, si abbia una vicenda estintiva analoga con la fine della vita di queste contestuale alla pubblicità, che resta dichiarativa degli effetti da desumere dall’insieme delle norme pregresse e di quelle novellate, che,


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per analogia iuris, determinano una interpretazione nuova della disciplina pregressa delle società di persone. Per queste ultime, come la loro iscrizione nel registro delle imprese ha natura dichiarativa, anche la fine della loro legittimazione e soggettività è soggetta a pubblicità della stessa natura, desumendosi l’estinzione di esse dagli effetti della novella dell’art. 2495 c.c. sull’intero titolo 5^ del Libro quinto del codice civile dopo la riforma parziale di esso, ed è l’evento sostanziale che la cancellazione rende opponibile ai terzi (art. 2193 c.c.) negli stessi limiti temporali indicati per la perdita della personalità delle società oggetto di riforma”. La scelta di risoluzione del contrasto nel senso dell’effetto estintivo della società cooperativa, a seguito della cancellazione anche anteriore alla vigenza del d.lgs. n. 6 del 2003, sia pure al momento dell’entrata in vigore di essa (1 gennaio 2004), comporta che la Cooperativa Santa Barbara, cancellata il (omissis) su sua domanda del (omissis), dalla data della cancellazione è da ritenere estinta e priva di legittimazione sostanziale e processuale e che per tale motivo ad essa è stato negato dal giudice del merito la sua legittimazione al procedimento esecutivo.

Ciò comporta che la Cooperativa edilizia ricorrente come non era soggetto di diritto allorché ha resistito alle opposizioni proposte dal P. nel 2007 sin dal settembre 2004 e mancava quindi di legittimazione a resistere in quella sede, tale era anche al momento di proposizione del presente ricorso per cassazione, perché persona giuridica ormai estinta ad ogni effetto di legge dalla data dell’iscrizione della cancellazione dal settembre precedente, che ha per legge comportato la contestuale estinzione della società, evento che, se si fosse dichiarato o comunicato dal difensore nel corso del giudizio di merito, ne avrebbe determinato l’interruzione. Pertanto il ricorso per cassazione deve dichiararsi inammissibile, mancando di legittimazione a proporlo la ormai inesistente Cooperativa Santa Barbara. In rapporto alla chiara giustificazione della parte soccombente nel merito nell’insistere nella sua posizione, espressione dell’indirizzo ermeneutico prevalente alla data d’inizio delle azioni a base delle domande decise con la sentenza impugnata, equa appare la compensazione totale delle spese del presente giudizio di cassazione tra le parti. (Omissis)

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(1-2) Ancora sulla cancellazione ed estinzione delle società: verso l’epilogo della “storia infinita”? 1. Approda alle Sezioni Unite della Cassazione il tema dell’effetto estintivo della cancellazione delle società dal registro delle imprese. Vi approda – come si chiarisce nella motivazione della sentenza qui pubblicata, con tutti i necessari riferimenti – in relazione alle divergenze manifestatesi nella giurisprudenza della medesima Corte Suprema, da un lato, sulla questione se l’art. 2495, co. 2 c.c., come modificato dalla riforma del 2003, debba considerarsi disposizione interpretativa, applicabile quindi retroattivamente , o invece disposizione innovativa, applicabile soltanto a decorrere dalla sua entrata in vigore; e, dall’altro, sulla questione se la regola posta dal suddetto art. 2495 debba valere solo per le società di capitali e le società cooperative o anche per le società di persone . La disciplina della cancellazione e dell’estinzione delle società continua dunque a fornire materia di incertezze e di contrasti, le une e gli altri peraltro – sembra a chi scrive di poter rilevare – conseguenza di linee interpretative spesso frutto di idee preconcette e di autentici fraintendimenti delle norme. 2. Frutto proprio di idee preconcette e di fraintendimenti delle norme deve considerarsi l’opinione, formatasi prima della riforma del diritto societario del 2003 e divenuta rapidamente prevalente in giurisprudenza, secondo la quale l’estinzione della società seguiva sì all’esaurimento della liquidazione, ma la liquidazione non poteva dirsi esaurita fino a che vi fossero rapporti (attivi o passivi) da definire . Con la conseguenza di ammettere, anche dopo la chiusura dell’iter formale di liquidazione ed anche dopo la stessa cancellazione della società dal registro delle imprese, la possibilità, anzi la necessità, di riaprire la liquidazione, mantenendosi così in vita la società, ogni qualvolta risultassero attività

Per questo orientamento v., in particolare, Cass., 28 agosto 2006, n. 18618, in Dir. fall., 2008, II, 246, con nota di Conedera e in Giur. it., 2007, 117; Cass., 18 settembre 2007, n. 19347, in Foro it., 2008, I, 2953; Cass., 15 ottobre 2008, n. 25192, in Le società, 2009, 26. Così ancora Cass. n. 25192/2008, cit. La giurisprudenza della Cassazione sul punto era unanime, come si sottolinea nella motivazione della sentenza qui pubblicata, che fornisce anche ampi riferimenti.

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o passività non considerate nella liquidazione (sopravvivenze e sopravvenienze attive o passive ), con l’ulteriore conseguenza della assoggettabilità alle procedure concorsuali delle società pur disciolte, liquidate e cancellate , sostanzialmente senza limiti di tempo. Questo orientamento infatti – pur se così consolidato da arrivare ad essere qualificato “diritto vivente” o “diritto positivo”; da arrivare ad influenzare lo stesso legislatore ; da arrivare a meritare di essere a posteriori strenuamente difeso, ancora oggi, dalla sentenza che qui si commenta – da un lato muoveva dall’aprioristica convinzione che basti la persistenza o la sopravvenienza di qualche “scampolo” residuo del patrimonio sociale (beni) o dell’attività sociale (rapporti) a giustificare, anzi ad imporre, la sopravvivenza della società come organizzazione (dell’attività e dell’imputazione) anche quando nessuna attività sia più svolta ed il processo di disorganizzazione (attraverso la liquidazione) sia giunto ad un punto di non ritorno. Dall’altro, come la dottrina maggioritaria non mancava di sottolineare sistematicamente, si poneva in frontale contrasto con il sistema del nostro codice . In questo sistema, dopo la cancellazione delle società dal registro delle imprese o, più in generale, dopo la chiusura dell’iter formale della liquidazione, una reviviscenza della società era impossibile e così la riapertura del procedimento di liquidazione, né per sopravvivenze o sopravvenienze passive né per sopravvivenze o sopravvenienze attive: per le prime, la legge prevedeva – come tuttora prevede – che i creditori sociali dovessero rivolgersi ai soci (cfr. art. 2312, 2456, vecchio testo c.c.), limitatamente, per i soci di società di capitali, alle somme da essi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, o ai liquidatori se il mancato pagamento fosse dipeso da

Sopravvivenze e sopravvenienze sono ovviamente cose diverse, le prime essendo date da elementi già esistenti nel patrimonio della società al momento della cancellazione, le seconde da elementi che, appunto, sopravvengano a quel momento. E v., fra le tante, Cass. 8 gennaio 1997, n. 73, in Foro it., Rep. 1997, voce Fallimento, n. 284; Cass., 9 marzo 1996, n. 1876, in Il fallimento, 1996, 767. L’art. 4 d.lgs. n. 270 del 1999, in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, stabilisce: “La dichiarazione dello stato di insolvenza di una impresa individuale è soggetta alle disposizioni degli art. 10 e 11 della legge fallimentare”. Con questa formulazione s’intendeva implicitamente, ma chiaramente, escludere dall’area di applicazione degli art. 10 e 11 la dichiarazione dello stato di insolvenza appunto di una società o, più in generale, di un’impresa collettiva. Cfr., per tutti, A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, 9**, Torino, 1993, p. 240 ss., ove tutti i riferimenti.

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colpa di questi; per le seconde, operava – come tuttora opera – il diritto dei soci alla quota di liquidazione, diritto che si “estendeva” anche a tali sopravvivenze o sopravvenienze. Per vedere l’affermarsi di questa corretta linea ricostruttiva è stato però necessario attendere l’intervento della Corte costituzionale , la quale, con la sentenza 21 luglio 2000, n. 319 ha finalmente dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 l.fall. nella parte in cui – alla stregua del “diritto vivente” – prevedeva che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento di una impresa collettiva decorresse dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società invece che dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese; ed ha quindi sancito – sub specie della disciplina fallimentare – l’effetto definitivamente estintivo della cancellazione. L’opera della Corte Costituzionale è stata proseguita dal legislatore della riforma del diritto societario, il quale ha riformulato la disposizione in materia di cancellazione, appunto l’attuale art. 2495, co. 2, inserendovi un inequivocabile inciso iniziale “Ferma restando l’estinzione della società”, ispirato all’evidente intento di porre drasticamente fine ad ogni residua tentazione di mantenere aperto il problema. Ed è stata, infine, completata nel 2006-2007 dal legislatore della riforma della legge fallimentare, con la riscrittura dell’art. 10, il quale oggi recita: “Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo” (co. 1) e “In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi è fatta salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell’effettiva cessazione dell’attività da cui decorre il termine del primo comma” (co. 2). C’era da attendersi che ogni incertezza e contrasto fra gli interpreti avesse termine e che fosse definitivamente accettata da tutti l’idea che la cancellazione determina sempre e comunque, necessariamente e definitivamente, l’estinzione della società, indipendentemente dalla eventuale sopravvivenza o sopravvenienza di elementi patrimoniali attivi o passivi, sostanziali o processuali. E ciò non solo per le società di capitali, per le quali la disposizione dell’art. 2495 è stata espressamente posta, ma an-

Che in un primo tempo, peraltro, aveva mostrato di aderire all’orientamento qui criticato: precisamente con la sentenza 20 maggio 1998, n. 180, in Dir. fall., 1998, II, 1033. In Giur. it., 1999, 989, con nota di Cottino.

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che per le società di persone, rispetto all’interpretazione della cui disciplina (identica nei suoi profili essenziali a quella delle società di capitali) l’art. 2495 fornisce un supporto sistematico fondamentale. Ma così non è stato. Da un lato, la giurisprudenza della Cassazione, se ha mostrato di voler in principio recepire, per le società di capitali, la linea chiaramente indicata dal legislatore, si è divisa però sui profili, prima indicati, dell’estensione della regola alle società di persone e della retroattività o meno della nuova disposizione, mostrando su questi piani un persistente attaccamento ai vecchi schemi. Dall’altro, taluni autori e parte della giurisprudenza di merito hanno mostrato di voler rimanere ancorati anch’essi ai vecchi schemi e si sono dedicati, fin da subito, alla ricerca – inevitabilmente ripercorrendo itinerari del passato – di “correttivi” e di “rimedi” al meccanismo estintivo disegnato dalla legge. Così, per un verso, si sono riproposti mezzi di reazione ai diversi segmenti della fase estintiva (per esempio: l’opposizione dei creditori alla cancellazione 10); e, per altro verso e soprattutto, si è ripresa l’idea secondo la quale la cancellazione presupporrebbe il completamento in fatto della liquidazione, che non potrebbe dirsi avvenuto fino a che vi siano rapporti (attivi o passivi) da definire o, secondo una delle più recenti prospettazioni 11, rapporti attivi da definire. Dal che l’affermazione secondo cui l’ufficio del registro (al quale spetta provvedere sulla domanda di cancellazione depositata dai liquidatori) potrebbe – nell’esplicazione del potere generale, che la normativa (art. 2189, co. 2, c.c.; art. 11, co. 6, d.P.R. 7.12.1995, n. 581, recante il regolamento di attuazione della legge istitutiva del registro delle imprese) gli affida, di accertare o controllare il “concorso delle condizioni richieste dalla legge per l’iscrizione” – rifiutare la cancellazione, non solo quando sia stato omesso il procedimento di liquidazione o quando non sia stato depositato e approvato il bilancio di liquidazione, ma anche quando risultino rapporti da definire 12. E quella,

10 Tale “rimedio” era stato prospettato, anteriormente alla riforma del 2003, da Trib. Monza, 12 febbraio 2001, in Le società, 2001, 831, con nota di Finardi ed è ora riproposto, sembrerebbe, da Vaira, in Il nuovo diritto societario, Commentario diretto da Cottino ed altri, Bologna, 2004, p. 2145. 11 Spolidoro, Seppellimento prematuro. La cancellazione delle società di capitali dal registro delle imprese ed il problema delle sopravvenienze attive, in Riv. soc., 2007, p. 840 ss.; nello stesso senso, da ultimo, anche Bussoletti, Lo scioglimento e l’estinzione della società fra apertura, chiusura e riapertura del fallimento, in Riv. dir. soc., 2009, p. 463. 12 Così, fra gli altri, Porzio, La cancellazione, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, 4, Torino, 2007,

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conseguente, secondo cui gli interessati – creditori insoddisfatti, soci, ex liquidatori – potrebbero, sempre in quella ipotesi, ottenere la rimozione della cancellazione sotto forma di cancellazione della stessa ex art. 2191 c.c. o (il che è lo stesso 13) di revoca di essa 14, per (supposto) difetto, appunto, delle “condizioni richieste dalla legge per l’iscrizione” 15. Cancellazione o revoca che produrrebbe poi, ovviamente, la reviviscenza della società, a tutti gli effetti, compresi quello dell’assoggettabilità a fallimento, e con decorrenza ex tunc. 3. Con la sentenza qui commentata le Sezioni Unite certamente forniscono un importante contributo al ristabilimento di corretti itinerari ricostruttivi. Non mi riferisco – debbo subito precisare – all’affermazione secondo la quale l’art. 2495, co. 2, come modificato nel 2003, avrebbe natura innovativa e non interpretativa. Si tratta di affermazione che anzi lascia, per la verità, decisamente perplessi. Essa appare fondata, infatti, esclusivamente sulla volontà di “salvare” a tutti i costi il precedente orientamento e tradisce palesemente vuoi la lettera della disposizione vuoi l’intento del legislatore della riforma: perché se è vero che la disposizione non enuncia espressamente la sua portata interpretativa, non è meno vero che la particolare formulazione adottata (non già “La cancellazione determina l’estinzione…”, bensì “Ferma restando l’estinzione…”) evidenzia che si tratta di norma volta non ad introdurre una regola nuova ma a rendere esplicita una regola già implicita nell’ordinamento; e perché l’obiettivo del legislatore della riforma era quello di porre termine ai contrasti determinatisi fra la giurisprudenza della Cassazione da un lato e la Corte costituzionale e la dottrina maggioritaria dall’altro. Mi riferisco invece alla risposta affermativa che le Sezioni Unite hanno dato alla questione se la regola estraibile dall’art. 2495, co. 2, c.c.

p. 89, nt. 50; Niccolini, in Società di capitali, Commentario a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, p. 1838 s. 13 Bocchini, Manuale del registro delle imprese, Padova, 1999, p. 319. 14 Cfr. ancora Spolidoro, Seppellimento prematuro, cit., passim (seguito in giurisprudenza da Trib.. Como, 24 aprile 2007, in Giur. comm., 2008, II, 1247, con nota di Zorzi, Sopravvenienze attive e cancellazione ex art. 2191 c.c. della cancellazione della società). 15 È appena il caso di osservare che la cancellazione della cancellazione sarebbe in ogni caso ipotizzabile solo con riferimento alle sopravvivenze, ma non certo – come talvolta si afferma – anche con riguardo alle sopravvenienze.

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abbia portata generale e valga anche per le società di persone. Una risposta perentoria, fondata su ragioni sia di ordine logico sia, soprattutto, di ordine sistematico difficilmente confutabili, che dovrebbe segnare il definitivo tramonto di ogni idea di poter “disancorare” l’estinzione della società dalla sua cancellazione dal registro delle imprese. La Cassazione non si è occupata, perchè non rientrava nel thema decidendum, della possibilità di rimuovere la cancellazione della società dal registro delle imprese e di far venire meno quindi, ex post, l’effetto estintivo della medesima, con conseguente “reviviscenza” della società. Ma la costruzione – accolta dalla Suprema Corte – della regola dell’art. 2495 come regola assoluta e rigida ha come ovvio corollario quello della non ammissibilità di simili rimedi, che finiscono con il tradursi operativamente proprio nell’aggiramento, quindi nella negazione, di quella regola 16. 4. Va detto, d’altra parte, che, a prescindere da quanto appena detto, il sistema non lascia oggi alcuno spazio (né, per la verità, lo ha mai lasciato) per “rimedi” o “correttivi” all’effetto estintivo della cancellazione. Non lascia alcuno spazio, in particolare, per i correttivi che vogliano far perno sui poteri dell’ufficio del registro e che ad avviso di chi scrive muovono da una non esatta identificazione della stessa fattispecie estintiva. Occorre sottolineare qui che con l’approvazione del bilancio e del piano di riparto i soci non soltanto approvano l’operato dei liquidatori e li liberano dagli obblighi, quanto alla liquidazione, nei loro confronti, ma anche e soprattutto manifestano la volontà di porre termine definitivamente alla vicenda societaria, sancendo la dissoluzione del rapporto sociale ed il venir meno del vincolo di destinazione sul (residuo) patrimonio sociale. Ed è appunto questa manifestazione di volontà (simmetrica e contraria a quella contenuta nell’atto costitutivo) che viene iscritta, sub specie di cancellazione. Se tutto ciò è esatto, ne risulta che entrano a comporre la fattispecie estintiva – secondo quanto, del resto, la stessa formulazione letterale del primo comma dell’art. 2495, dove si

16 In argomento v. anche i corretti rilievi di Trib. Treviso, 19 febbraio 2009 (in Le società, 2010, 355, con nota di Zagra), che, nel respingere la richiesta di taluni ex soci di una s.r.l. cancellata dal registro di procedere alla cancellazione di tale cancellazione in relazione alla sopravvenienza di un cespite attivo non incluso nella liquidazione, ha sottolineato come deroghe alla rigida regola dell’art. 2495 si presterebbero ad inammissibili manovre di tipo strumentale.

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menziona solo l’approvazione del bilancio e non anche il compimento della liquidazione 17, suggerisce – solo due elementi: l’approvazione del bilancio e del piano di riparto e la cancellazione. Tutto il resto costituisce solo un antecedente che non condiziona affatto il perfezionamento della fattispecie. Resta in particolare irrilevante il mancato completamento, in fatto, della liquidazione e quindi l’esistenza di sopravvivenze e, a fortiori, di sopravvenienze. Le situazioni giuridiche ed i rapporti eventualmente sopravvissuti alla liquidazione cessano, per effetto della manifestazione di volontà dei soci, di far capo alla società e si “tramutano” in situazioni soggettive o rapporti facenti capo ai soci, o meglio agli ex-soci 18. Così è per le situazioni giuridiche passive: e l’art. 2495, co. 2 è chiarissimo al riguardo; così è anche per le situazioni giuridiche attive 19 e per le situazioni ed i rapporti processuali. Tutto questo significa e comporta, da un lato, che l’ufficio del registro può rifiutare la cancellazione solo quando non sia stato depositato

Sotto questo aspetto l’affermazione, sovente ripetuta meccanicamente, secondo cui presupposto o condizione della cancellazione sarebbe il “compimento” della liquidazione appare frutto di una arbitraria contaminazione fra l’incipit del primo comma dell’art. 2492 e dell’art. 2311 (“Compiuta la liquidazione…”) e quello del primo comma dell’art. 2495 e dell’art. 2312 (“Approvato il bilancio finale di liquidazione…”). 18 Una conferma viene dall’ultimo periodo dell’art. 2495, co. 2, aggiunto dalla riforma del 2003, per il quale i creditori, entro un anno dalla cancellazione, possono notificare la loro domanda – sia quella nei confronti dei liquidatori sia, per quel che qui interessa, anche quella nei confronti dei singoli soci – presso l’ultima sede della società. Questa disposizione riecheggia da vicino l’art. 303 c.p.c., a norma del quale “In caso di morte della parte… la notificazione [del ricorso in riassunzione] entro un anno dalla morte può essere fatta collettivamente e impersonalmente agli eredi, nell’ultimo domicilio del defunto”, sottintendendo allora l’assimilabilità, appunto, fra soci ed eredi. 19 Si è prima ricordato come stia affiorando sempre più nettamente la tesi secondo cui potrebbero e dovrebbero trattarsi diversamente, ai fini che qui interessano, elementi attivi ed elementi passivi, nel senso che i soli elementi attivi osterebbero all’estinzione: retro, testo e nt. 11. Il fatto è, però, che, una volta che si muova, come questa tesi muove, dall’idea che la cancellazione presuppone la “compiutezza della liquidazione”, non vi è possibilità di differenziazione: la liquidazione non può dirsi compiuta (e si ricordi la giurisprudenza ante riforma, per questo aspetto rigorosamente coerente) fino a che permanga anche un solo rapporto non definito, sia esso attivo o passivo, sostanziale o processuale; e se per una certa categoria di rapporti la legge detta espressamente la regola della irrilevanza ai fini dell’estinzione questo significa che regola identica deve valere per ogni altra categoria di rapporti (in questi termini v. anche Speranzin, L’estinzione delle società di capitali in seguito all’iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, in Riv. soc., 2004, p. 531). Né ovviamente basta a sorreggere la tesi della distinzione l’osservazione che la soluzione della irrilevanza delle sopravvenienze attive sarebbe una regola inefficiente (in relazione ai problemi pratici che tali sopravvenienze pongono). 17

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o approvato il bilancio di liquidazione; e non anche quando risultino debiti non soddisfatti o attività non liquidate o processi pendenti 20. E, dall’altro, che nell’ipotesi di sopravvivenze o sopravvenienze né i creditori (che siano rimasti insoddisfatti, magari perché ignoti) né i soci né gli ex-liquidatori (che, per esempio, vogliano sottrarsi a responsabilità per aver omesso di liquidare certi beni 21) né qualunque altro interessato possono ottenere la rimozione della cancellazione, sotto forma di cancellazione ex art. 2191 c.c. È il caso di aggiungere che la soluzione qui difesa – quella che vede l’estinzione come non condizionata da sopravvivenze o sopravvenienze di alcun genere e come definitiva ed irretrattabile – per un verso risulta coerente con il sistema generale che ormai innegabilmente privilegia su qualsiasi altra l’esigenza di certezze definitive ed irretrattabili in ordine all’esistenza delle società di capitali (quell’esigenza che ha ispirato la nuova formulazione dell’art. 2495 e la nuova previsione dell’art. 2490, ult. comma; ma che è anche alla base della disciplina della nullità della società, di quelle in materia di fusione, di scissione e di trasformazione e così via); e che, correlativamente, guarda con sfavore ai meccanismi demolitori, a questi preferendo nettamente i meccanismi risarcitori 22. E, per altro verso, risulta confortata dal nuovo art. 10 l.fall. Il primo comma infatti, innanzi tutto, pone per gli imprenditori collettivi una presunzione assoluta di cessazione dell’impresa in relazione alla cancellazione: una presunzione che per le società – stante l’identificazione società/impresa – “regge” solo ove si ritenga che la cancellazione comporti sempre e comunque l’estinzione definitiva. In secondo luogo, prevedendo la possibilità del fallimento di una società estinta perché cancellata, presuppone proprio la possibilità che sopravvivano alla cancellazione sia elementi passivi (debiti) sia elementi attivi (beni): perché se la cancellazione richiedesse necessariamente la definizione delle partite passive, non sarebbe neppure ipotizzabile una manifestazione dello stato di insolvenza successiva alla cancellazione stessa; e se la cancellazione richiedesse necessariamente la definizione delle partite attive mancherebbe l’oggetto stesso del fallimento (che, ricordiamo, è un’esecuzione collettiva che

20 In questo senso v. ora anche Trib. Catania, 9 aprile 2009, in Le società, 2010, 88, con nota di Zanardo. 21 È l’ipotesi in relazione alla quale si è pronunziato Trib. Como, 24 aprile 2007, cit. 22 Nel senso del testo v. peraltro già – con riferimento al regime previgente – Fre’, Società per azioni5, in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 908.

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può prescindere dall’esistenza di un soggetto ma non da quella di un patrimonio). Il secondo comma dell’art. 10 l.fall., poi, là dove consente, nell’ipotesi di cancellazione d’ufficio di una società, di dare la prova che l’attività è cessata in un momento diverso e successivo, cioè in sostanza di “superare” il dato formale della cancellazione, non solo conferma che la cancellazione in quanto tale non presuppone affatto la definizione di tutte le posizioni attive e passive, ma conferma altresì il ruolo determinante che assume, nella vicenda estintiva, l’approvazione del bilancio, la sola presenza della quale conferisce definitività all’estinzione. 5. C’è da augurarsi, comunque, che la Cassazione abbia presto occasione di pronunziarsi anche sulla questione di cui si è appena detto: e che quindi questa ennesima “storia infinita” abbia il suo epilogo.

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Sintesi di giurisprudenza * (II trimestre 2009)

Indice delle materie: I. Banca: A) L’impresa bancaria: profili generali; B) La crisi dell’impresa bancaria; C) Crediti Speciali. II. Borsa e mercato mobiliare: A) Intermediazione mobiliare; B) Emittenti.

I. BANCA Sommario: A) L’impresa bancaria: profili generali. – 1. Attività bancaria e finanziaria. – 1.1. Abusiva attività finanziaria ed esercizio non nei confronti del pubblico. – 2. Vigilanza. – 2.1. Limiti per la banca nella valutazione di un credito oggetto di obbligatoria segnalazione alla Centrale dei rischi. – B) La crisi dell’impresa bancaria. – 3. Amministrazione straordinaria. Motivazione per relationem. – 4. Liquidazione coatta amministrativa. Nomina e conflitto d’interessi del commissario liquidatore. – C) Crediti speciali. – 5. Causa del mutuo di scopo. – 6. Credito fondiario. – 6.1. Credito fondiario e fallimento. – 6.2. Credito fondiario e calcolo degli interessi nell’esecuzione forzata. – 6.3. Credito a medio e lungo termine e agevolazioni fiscali.

* Settantunesima puntata (le precedenti sono pubblicate in Dir. banc., 1990, I, pp. 350 e 551; 1991, I, pp. 160, 459 e 597; 1992, I, pp. 111, 253, 397 e 581; 1993, I, pp. 112, 264, 471 e 594; 1994, I, pp. 125, 255, 383 e 506; 1995, I, pp. 157, 286, 443 e 601; 1996, I, pp. 109, 265, 403 e 554; 1997, I, pp. 129, 318, 478 e 645; 1998, I, pp. 91, 277 e 637; 1999, I, pp. 171, 290, 411 e 545; 2000, I, pp. 143, 331 516 e 671; 2001, I, pp. 89, 229 e 383; 2002, I, pp. 145, 327 e 629; 2003, I, pp. 141, 315 e 471; 2004, I, pp. 321, 447 e 657; 2005, I, pp. 109 e 301; 2006, I, pp. 169 e 533; 2007, I, pp. 163, 343 e 583; 2008, I, pp. 153; 363; 549 e 745; 2009, I, pp. 111; 333; 481; 667; 2010, I, p. 147). Questa sintesi intende offrire una prima informazione sulle sentenze relative alle materia di interesse della rivista, depositate o edite nel periodo di riferimento. Hanno collaborato: Alessandro Benocci (§§ 1 e 2); Cristina Campagna (§§ 3 e 4); Stefano Boatto (§§ 5 e 6); Vincenzo Caridi (§§ 7-9).

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A) L’impresa bancaria: profili generali 1. Attività bancaria e finanziaria. 1.1. Abusiva attività finanziaria ed esercizio non nei confronti del pubblico. Cass., 10 giugno 2009, n. 29500 (in CED Cass. pen. 2009) si pronuncia in materia di abusiva attività finanziaria ai sensi degli artt. 106, 113 e 132 t.u.b. Nella sua versione vigente (quella cioè originata dalle modifiche apportate a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 11/2010 di attuazione della direttiva 2007/64/CE, la c.d. Payment Services Directive o PSD), l’art. 106, co. 1, t.u.b. afferma che «l’esercizio nei confronti del pubblico delle attività di assunzione di partecipazioni, di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma e di intermediazione in cambi è riservato a intermediari finanziari iscritti in un apposito elenco» in precedenza tenuto dall’U.I.C. e adesso, a seguito della soppressione dell’U. I.C. ad opera dell’art. 62 d.lgs. 231/2007, tenuto dall’ufficio informazione finanziaria della Banca d’Italia. L’art. 113 prevede una riserva in favore di soggetti iscritti anche in caso di esercizio delle medesime attività non nei confronti del pubblico, tanto che la norma afferma che «l’esercizio in via prevalente, non nei confronti del pubblico, delle attività indicate nell’art. 106, comma 1, è riservato ai soggetti iscritti in una apposita sezione dell’elenco generale». A tutela dei beni giuridici tutelati dall’ordinamento creditizio, le norme citate sono affiancate dall’art. 132 t.u.b. che afferma che è punito tanto chi «svolge, nei confronti del pubblico, una o più delle attività finanziarie previste dall’art. 106, comma 1, senza essere iscritto nell’elenco previsto dal medesimo articolo», quanto chi «svolge in via prevalente, non nei confronti del pubblico, uno o più delle attività finanziarie previste dall’articolo 106, comma 1, senza essere iscritto nell’apposita sezione dell’elenco generale indicata nell’articolo 113». Ne segue che l’esercizio delle attività finanziarie di cui all’art. 106 – tanto nei confronti del pubblico quanto non – è riservato a soggetti iscritti in appositivi elenchi e ne segue anche che l’esercizio di quelle attività – tanto nei confronti del pubblico quanto non – in violazione di quell’obbligo lede beni giuridici ritenuti dall’ordinamento meritevoli di tutela e tali da giustificare l’irrogazione di una sanzione penale. Su questo aspetto, interviene la sentenza in rassegna. Il fatto sottostante vede infatti una persona fisica condannata dal Tribunale di Cosenza per esercizio abusivo dell’attività finanziaria di concessione di finanziamenti ex art. 132 t.u.b. Dopo la conferma della sentenza di primo grado anche da parte della Corte d’Appello di Catanzaro, la persona fisica condannata ricorre

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in cassazione adducendo la violazione dello stesso art. 132 in quanto la contestazione del reato di abusiva attività finanziaria avrebbe presupposto la prova di un’attività sistematica, professionalmente organizzata e rivolta al pubblico, quando invece ciò che era stato provato era solo che la persona fisica aveva effettuato una serie di prestiti a poche persone in rapporto di amicizia. La Suprema Corte ha respinto il ricorso, richiamando precedenti pronunce (quali Cass. n. 36335/2002 e Cass. 1628/2001) che confermavano la convinzione del giudice di legittimità in ordine al fatto che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 132 t.u.b., non è necessaria né una stabile organizzazione né una professionalità specifica e non è neppure necessario un esercizio nei confronti esclusivamente del pubblico, visto che la norma penale punisce non solo chi viola l’art. 106, ma anche chi viola l’art. 113. 2. Vigilanza. 2.1. Limiti per la banca nella valutazione di un credito oggetto di obbligatoria segnalazione alla Centrale dei rischi. Cass., 1 aprile 2009, n. 7958 (in Diritto & Giustizia, 2009; in Guida al diritto, 2009, XVI, 58, con nota di Sacchettini, in Giust. civ. Mass., 2009, IV, 561) si pronuncia su temi già affrontati in questa rassegna che è meritevole comunque riprendere. In via di premessa, è opportuno rammentare che l’art. 51 t.u.b. impone alle banche di inviare alla Banca d’Italia le segnalazioni periodiche secondo le modalità e nei termini da essa stabiliti. La circolare della Banca d’Italia n. 139/1991 contiene le istruzioni per gli intermediari creditizi in materia di segnalazioni alla Centrale dei rischi. La circolare obbliga le banche ad effettuare in favore della Banca d’Italia una segnalazione mensile avente per oggetto le posizioni di rischio di ciascun cliente e, in sostanziale contropartita, impone alla Banca d’Italia di comunicare alle banche, per ogni nominativo ricevuto, la posizione globale di rischio nei confronti dell’intero sistema creditizio: le posizioni di rischio oggetto di segnalazione si identificano sostanzialmente con quei crediti vantati dalla banca verso il cliente che superino i cc.dd. limiti di censimento indicati dalle stesse istruzioni della Banca d’Italia: tra di essi, vanno sinteticamente annoverati i crediti di ammontare superiore alle soglie monetarie stabilite dalla Banca d’Italia e i cc.dd. «crediti in sofferenza». In materia di segnalazione alla Centrale dei rischi, si pone tradizionalmente il problema di stabilire non tanto cosa si intenda per crediti di ammontare superiore alle soglie monetarie, quanto cosa si intenda per «crediti in sofferenza». Le pronunce giurisprudenziali si occupano solitamente del problema da due angoli visuali contrapposti.

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Alcune stabiliscono quando un credito è oggetto di obbligatoria segnalazione e quindi si occupano di fissare “in positivo” il perimetro dello spazio valutativo della banca. Altre stabiliscono quando un credito è stato oggetto di illegittima segnalazione e quindi si occupano di stabilire “in negativo” i limiti di quello spazio di valutazione. La sentenza in rassegna si pone sulla scia di altre sentenze di merito già commentate (per es., Trib. Trapani, 20 gennaio 2009 oppure Trib. Bologna, 11 luglio 2007) e conferma che la segnalazione alla Centrale dei rischi non è oggetto di una facoltà, ma di un espresso obbligo giuridico e che, se la segnalazione è effettuata in assenza dei previsti presupposti, diviene illegittima e costituisce fonte di responsabilità civile verso il cliente irregolarmente segnalato. Nel caso di specie, Tizio cita una banca dinanzi al Tribunale di Roma in quanto la banca avrebbe segnalato il proprio credito verso Tizio alla Centrale dei rischi a seguito della contestazione di Tizio del proprio debito verso la banca e la conseguente manifestazione di Tizio dell’intenzione di non adempiere. Infatti, Tizio deduceva che, in occasione del procedimento di separazione dalla propria moglie, aveva appreso che la medesima aveva chiesto e ottenuto dalla banca un finanziamento utilizzando rapporti bancari solo a Tizio riferibili. Venuto a conoscenza del fatto, Tizio si rivolgeva alla banca contestando di aver mai chiesto e ottenuto un finanziamento e quindi contestando il debito di restituzione che a lui risultava far capo e quindi, ancora, dichiarando di non voler adempiere a tale obbligo. La banca provvedeva alla segnalazione della posizione alla Centrale dei rischi e Tizio citava in giudizio la banca per chiedere condanna al risarcimento dei danni per illegittima segnalazione. In primo e in secondo grado, il giudice di merito respinge la domanda giudiziale di Tizio: infatti, la segnalazione appariva legittima sia perché l’erogazione di somme era incontestata, sia perché la mancata parziale restituzione era altresì incontestata, e sia perché il rischio di credito – e l’opportunità della conseguente segnalazione – deve (devono) valutarsi anche in considerazione della manifesta volontà di non adempiere. Tizio ricorre in cassazione e la Suprema Corte richiama il dato testuale delle istruzioni della Banca d’Italia in materia di segnalazione alla Centrale dei rischi e, con riferimento all’indicazione dei criteri di garanzia a tutela della clientela debitrice, afferma che l’appostazione a sofferenza di un credito implica una valutazione da parte dell’intermediario della complessiva situazione finanziaria del cliente, che non può scaturire automaticamente né da un mero ritardo di quest’ultimo nel pagamento del debito, né dall’inadempimento di una singola rata, né dalla manifestazione da parte del cliente dell’intenzione di non adempiere, se questa intenzione è giustificata da una seria contestazione del titolo del

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credito vantato dalla banca, ma deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d’insolvenza. B) La crisi dell’impresa bancaria 3. Amministrazione straordinaria. Motivazione per relationem. T.A.R. Lazio, 3 maggio 2007, n. 3889 (in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, 46), conferma la legittimità della motivazione per relationem del provvedimento di apertura dell’amministrazione straordinaria, potendo il Ministero dell’Economia, condivise le risultanze probatorie dell’attività ispettiva svolta dalla Banca d’Italia, dare avvio alla procedura senza necessità di esprimere alcuna autonoma valutazione (così la giurisprudenza consolidata, T.A.R. Lazio n. 1087/2005; T.A.R. Campania n. 249/2005). La Banca di Capranica e Bassano Credito Cooperativo (BCC) in qualità di parti ricorrenti, denunciavano in primo luogo i difetti di motivazione che hanno portato al provvedimento di scioglimento degli organi di amministrazione e di controllo della Banca e che lo stesso istituto era stata oggetto di due ispezioni dalla Banca d’Italia; in particolare, secondo i ricorrenti, la seconda ispezione, che ha comportato la richiesta di commissariamento dell’istituto, era avvenuta a così breve tempo dalla prima da non consentire la riorganizzazione degli uffici. Nello specifico, la Banca d’Italia ha riscontrato gravi irregolarità, ex art. 70 d.lgs. 385/93, in merito alla redazione e alla tenuta dei documenti contabili, nonché al sistema di organizzazione e dei controlli interni; rilievi successivamente confermati nella relazione degli organi straordinari. I ricorrenti lamentavano inoltre che la valutazione negativa della Banca d’Italia circa un accordo concluso con alcuni clienti fosse lesiva dell’autonomia gestionale degli amministratori BCC e, pertanto, danneggiava la professionalità degli stessi. Il T.A.R. ha rigettato il ricorso, poiché gli episodi che hanno comportato l’avvio del provvedimento di amministrazione straordinaria sono da collocare in un più ampio quadro di irregolarità e rilievi. 4. Liquidazione coatta amministrativa. Nomina e conflitto d’interessi commissario liquidatore. T.A.R. Emilia Romagna, Parma, 13 dicembre 2003, n. 759 (in Foro amm., 2009, 63) affronta la questione relativa all’affidamento dell’incarico di commissario liquidatore ad uno dei componenti del comitato di sorveglianza che aveva gestito la Cassa Rurale ed Artigiana Padania di Reggio Emilia, ora in l.c.a., nella precedente fase

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di amministrazione straordinaria. Il giudice amministrativo ha stabilito che, in assenza di elementi che evidenzino un conflitto di interessi, è ben possibile affidare l’incarico di liquidatore ad uno dei membri del precedente comitato di sorveglianza. Il giudice ha altresì precisato che nei procedimenti di scioglimento e messa in liquidazione di un istituto di credito assume principale importanza la tutela dei clienti. C) Crediti speciali 5. Causa del mutuo di scopo. L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale del mutuo di scopo ha evidenziato come elemento essenziale di tale figura contrattuale sia, appunto, la specifica destinazione delle somme erogate. Sulla sua centralità è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione con sentenza 8 aprile 2009, n. 8564 (in Rep. Foro it., 2009, voce Contratto in genere [1740], n. 89). Nel caso sottoposto al Supremo Collegio, una società finanziaria aveva stipulato con altra società attiva nel settore immobiliare due contratti di finanziamento, entrambi garantiti da ipoteca, al fine di consentirle la realizzazione di un complesso edilizio. A seguito dell’inadempimento di quest’ultima, la società finanziatrice esperiva procedura esecutiva. A tale procedura esecutiva la società finanziata proponeva opposizione eccependo, tra l’altro, che parte rilevante della disponibilità derivante dal secondo finanziamento era stata impiegata dalla società finanziatrice all’estinzione di rate scadute sia del primo sia del secondo finanziamento. Tale circostanza risultava sufficiente, nella prospettiva della società opponente, a fondare la domanda di simulazione o, più semplicemente, di accertamento della nullità del secondo contratto di finanziamento poiché, diversamente da quanto dalle parti dichiarato, in concreto funzionale all’estinzione di passività pregresse verso l’ente erogante. In questa logica, il contratto di finanziamento risultava stipulato nel solo interesse della società finanziatrice e, tra l’altro, in danno della società sovvenuta. La società opposta eccepiva a sua volta che la parziale destinazione delle somme all’estinzione delle passività non incideva sulla validità del finanziamento né sulla sua efficacia poiché il contratto di finanziamento, anche a volerlo qualificare come mutuo di scopo, non richiedeva, strictu sensu, che l’erogazione avvenisse a favore della società sovvenuta ma, diversamente e più semplicemente, che l’erogazione avvenisse a favore della realizzazione dell’opera. Il giudice di prime cure, riuniti i procedimenti nel frattempo promossi, accertava, tra l’altro, la nullità del secondo finanziamento, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1344 e 1418 c.c. Per il giudice di prime cure, l’illiceità della causa del contratto di

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finanziamento, e quindi la sua nullità, conseguiva alla qualificazione del contratto medesimo, attesa la sua esecuzione, come strumento elusivo della disciplina imperativa dei contratti di finanziamento edilizi, disciplina che vincola le somme erogate ad una precisa destinazione consistente nella realizzazione delle opere per le quali è convenuto il finanziamento. La sentenza di primo grado veniva confermata anche dalla Corte territoriale secondo cui la nullità del contratto di finanziamento atteneva ad un suo vizio originario: il contratto di finanziamento, allorché l’opera per la quale è concesso non è realizzata in conformità al regolamento contrattuale, è nullo in quanto privo di causa ab origine. La società finanziatrice propone ricorso per cassazione eccependo, tra l’altro, violazione e falsa applicazione degli artt. 1418, 1419, 1344 c.c. e, ratione temporis, dell’art. 23 del d.P.R. 21 gennaio 1976, n. 7 sostenendo che nel caso di specie la nullità quale vizio originario sarebbe stata preclusa dal fatto che l’impiego delle somme alla destinazione di passività pregresse si poneva quale esecuzione di un accordo successivo alla conclusione del contratto di finanziamento. La nullità del contratto di finanziamento, inoltre, avrebbe richiesto l’integrale erogazione del finanziamento convenuto mentre non avrebbe potuto essere fondata nel caso di specie a fronte dell’erogazione per stati di avanzamento dei lavori. La Corte di Cassazione respinge i motivi del ricorso proposti dalla società finanziatrice ricorrente evidenziando come la Corte d’Appello avesse correttamente motivato la sussistenza del vizio di nullità per difetto di causa. Il Supremo Collegio afferma infatti che la causa del mutuo di scopo coincide con l’erogazione di un finanziamento al fine della realizzazione di una determinata opera. Il fatto che l’opera non sia stata realizzata relega ad aspetti del tutto secondari le vicende relative ad accordi, successivi o contestuali alla stipulazione del contratto di finanziamento, attinenti le modalità di impiego delle somme. Con riferimento al caso di specie, la Corte precisa che dal contratto di finanziamento e dalla sua esecuzione emerge l’effettiva volontà contrattuale in cui «le trattenute sulle erogazioni e la loro destinazione al pagamento di precedenti rate scadute erano sin dall’inizio, e quindi sin dall’ideazione del contratto e dalla formazione del consenso delle parti, imprescindibilmente funzionali alla realizzazione dell’opera edilizia da realizzare, nel senso che senza quelle trattenute e senza la relativa destinazione degli importi relativi, il finanziamento non sarebbe mai stato erogato, o comunque non sarebbe stato erogato nella misura sufficiente a consentire la progressiva realizzazione dei lavori, e che nel contesto di tale programma finanziario, sin dall’inizio concepito dalle parti proprio perché funzionale e necessario per la realizzazione dei fabbricati progettati, soltanto le

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concrete modalità attuative delle trattenute sugli importi erogati erano state successivamente concretizzate […]». Per la Corte, quindi, il difetto di causa del contratto di finanziamento deriva dal fatto che l’accordo sull’imputazione delle somme ad estinzione delle passività pregresse attiene al programma contrattuale originario e la stessa Corte esclude che un simile accordo sia conforme alla causa del mutuo di scopo. Che la destinazione delle somme all’estinzione delle passività pregresse non possa rientrare nella causa del contratto di mutuo deriva dal fatto che «i singoli negozi di erogazione del […] mutuo di scopo legale sono stati finalizzati ad estinguere in parte le rate rimaste insolute del primo mutuo ed in parte debitorie arretrate del secondo mutuo, con la conseguenza che la concessione del credito, essendo diretta all’estinzione di un debito pregresso, è valsa a creare in favore del mutuatario una disponibilità non effettiva e reale, ma meramente fittizia». Conformandosi ad un noto precedente (cfr., in particolare, Cass. 17 luglio 1997, n. 6572, in Foro it., 1998, I, 169), la Cassazione conclude che destinazione delle somme erogate ad altro scopo non determina la nullità del contratto solo se l’opera, per la quale il finanziamento è stato concesso, è stata compiutamente realizzata. Sull’essenzialità dell’elemento concernente la realizzazione dell’opera ai fini della validità del negozio si vedano Cass. 3 dicembre 2007, n. 25180, in Contratti, 2008, 561 con commento di Martone; Cass. 21 luglio 1998, n. 7116, in Contratti, 1999, 373 con commento di Goltara; Cass. 26 maggio 2002, n. 4327, in Rep. Foro it., 2002, voce Tributi in genere [610]; Cass. 19 maggio 2003, n. 7773, in Contratti, 2003, 1131 con commento di Perrotti - Giorgi. In dottrina, si vedano, ex multis, Rispoli Farina, voce Mutuo di scopo, Dig. disc. priv. sez. civ., XI, 1994, p. 559; Mazzamuto, voce Mutuo di scopo, Enc. giur., XX, 1990, 2; Teti, I mutui di scopo, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, XII, II ed., Torino, 2007, p. 649.

6. Credito fondiario 6.1. Credito fondiario e fallimento. a) Con sentenza resa in data 22 aprile 2009, pubblicata sul sito www.ilcaso.it, il Tribunale di Roma si pronuncia sulle domande avanzate dalla curatela del fallimento di una società, dichiarato in data 20 marzo 1997, aventi ad oggetto, rispettivamente: a) la revocatoria ai sensi e per gli effetti dell’art. 67, comma 1, n. 1, l.fall. dell’atto di trasferimento della proprietà di un immobile ad altra società, convenuta in revocatoria, perfezionato entro l’anno dalla dichiarazione di fallimento; b) la revocatoria dell’ipoteca, ai sensi e per gli

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effetti dell’art. 67, comma 2, l.fall., concessa dalla società acquirente l’immobile a garanzia di un finanziamento fondiario alla società poi fallita. Il tribunale rigetta entrambe le domande rilevando quanto alla prima l’assenza di ogni dimostrazione con riguardo alla sproporzione fra le prestazioni; e rigetta la seconda sia perché il fallimento non ha provato la scientia decoctionis della banca sia perché, e in ogni caso, l’ipoteca de qua è esentata dalla revocatoria ai sensi dell’art. 39, comma 4, t.u.b. Con riguardo a quest’ultimo profilo, in particolare relativo alla prova della scientia decoctionis, il Tribunale fa notare che essa non poteva desumersi, come preteso dalla difesa del fallimento, dall’esistenza di una ipoteca giudiziale iscritta sull’unità immobiliare oggetto della compravendita posto che «nel rogito si dà atto che l’ipoteca giudiziale “era in corso di cancellazione, giusta atto autenticato nella firma da me notaio in data odierna repertorio […]» sicché la parte acquirente era legittimata a ritenere del tutto superate eventuali difficoltà finanziarie della parte alienate»; né poteva la stessa desumersi dall’esistenza «di una precedente ipoteca volontaria iscritta sul terreno sul quale venne poi costruito l’edificio del quale fa parte la predetta unità immobiliare» posto che «l’ipoteca volontaria sul terreno rientrava in una normale operazione di finanziamento fondiario, cui abitualmente l’imprenditore edile fa ricorso nell’esercizio ordinario della sua attività economica». b) Ai sensi degli artt. 185 disp. att. del c.p.c. e 737 e ss. del c.p.c., il Tribunale di S. Maria Capua Vetere, in qualità di giudice dell’esecuzione, emette in data 29 maggio 2009 ordinanza di sospensione dell’esecuzione immobiliare accogliendo la relativa istanza formulata ai sensi e per gli effetti dell’artt. 616 e 624 c.p.c. (il provvedimento non consta esser stato pubblicato: è tuttavia reperibile nell’Archivio Juris Data di Giuffré). L’esecuzione era stata promossa da una banca a seguito dell’inadempimento di un finanziamento fondiario al fine di ottenere, contro il mutuatario, la vendita forzata dell’immobile ipotecato nel frattempo acquistato, come tale, da terzi. L’opposizione viene proposta dalla società debitrice che adduce le seguenti circostanze di fatto: a) l’ammontare mutuato sarebbe stato utilizzato dalla stessa società mutuataria «al fine di ripianare diverse esposizioni debitorie […] presso la banca [che ha erogato il finanziamento fondiario]»; b) tali esposizioni debitorie sarebbero il risultato dell’applicazione di illegittimi interessi anatocistici nonché di commissioni di massimo scoperto non dovute. Il G.E., aderendo al principio già fatto proprio dalla giurisprudenza di merito (viene citato in proposito il provvedimento del Trib. Bologna 7 aprile 2006 ove si precisa che «il diritto del creditore a soddisfare coat-

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tivamente il proprio credito a seguito dell’inadempimento del debitore gode di una tutela assoluta e la sua realizzazione può essere sospesa solo in base ad elementi – ad es. estintivi del credito successivi al titolo esecutivo – o questioni che fanno ritenere verosimile il venir meno della pretesa azionata»), rileva dapprima come sussistano nel caso di specie i gravi motivi di cui all’art. 624 c.p.c. idonei a fondare un provvedimento di sospensione dell’esecuzione in quanto attinenti principalmente alla (probabile) fondatezza dell’opposizione spiegata. Tali motivi risiederebbero nell’emersione, secondo la documentazione prodotta in causa, della circostanza per cui la concessione del mutuo era finalizzata all’estinzione delle passività pregresse, nonché dall’applicazione, in danno al debitore, di interessi anatocistici illegittimi e di non dovute commissioni di massimo scoperto. Questi fatti, a detta del G.E., farebbero ritenere, fatta salva una più approfondita deliberazione nella fase di merito del giudizio di opposizione, che sussista «un’ipotesi di nullità (per illiceità della causa) del contratto di mutuo […] in quanto stipulato al fine di azzerare saldi negativi di conto corrente, frutto di illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito e di commissioni e spese non dovute». Non è dato conoscere a quali conclusioni sia giunto il giudice di prime cure. Certo è che appare quantomeno criticabile la scelta delle premesse incaricate di giustificare il dubbio di nullità per illiceità della causa del contratto di mutuo. Per ovvie ragioni non certo quelle attinenti illegittimità degli interessi; ma per non meno ovvie ragioni quelle attinenti la destinazione delle somme mutuate a estinguere passività pregresse. Non è infatti revocabile in dubbio, anche per la giurisprudenza di merito oltre che di legittimità, come la controversa questione del mutuo fondiario impiegato per la ristrutturazione del debito dell’imprenditore sovvenuto, non dia luogo alla censura di nullità, neppure sotto il profilo della causa. Si veda, ex multis, in questo senso Cass. 1 ottobre 2007, n. 20622, in Giust. civ., 2008, I, 124 e in Fall. 2008, 95 (per altri riferimenti si rinvia a Giur. banc., 2007, § 1.4; Giur. banc., 2009, § 2.2.). Ma neppure, come in parte illustrato da Trib. Napoli, 12 maggio 2005, in Fall., 2006, 72, è ipotizzabile quella che pure figura la soluzione da tempo proposta dalla giurisprudenza maggioritaria (anche quella poc’anzi illustrata), consistente nel tradurre il prestito de quo in mezzo anomalo di pagamento da ricondurre alla revocatoria secondo quanto previsto dall’art. 67, comma 1, n. 2 l.fall. 6.2. Credito fondiario e calcolo degli interessi nell’esecuzione forzata. Con riferimento alla disciplina del rango e dell’importo degli interessi,

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su crediti derivanti da mutuo fondiario, nell’ambito della procedura esecutiva la Suprema Corte ribadisce la già nota distinzione tra procedura esecutiva individuale e procedura esecutiva collettiva. Nel caso di specie, un istituto mutuante dopo avere iniziato la procedura esecutiva e dopo avere assistito alla predisposizione del progetto di distribuzione, si oppone al provvedimento del G.E. ove calcola gli interessi non sulla base della disciplina assegnata ratione temporis al mutuo fondiario ed equivalente all’art. 55 del R.D. 16 luglio 1905, n. 646, bensì sulla base dell’art. 2855 c.c. La sentenza di primo grado pronunciata dal Tribunale di Crema il 25 febbraio 2003 viene, ancorché solo in parte, confermata dalla Corte d’Appello di Brescia il 16 marzo-14 luglio 2005. Si pronuncia allora la Cassazione con sentenza 5 maggio 2009, n. 10297 (in Rep. Foro it., 2009, voce Credito fondiario [1950], n. 1) che afferma il principio, già seguito dal giudice di prime cure e condiviso dalle corti di merito, in base al quale il trattamento del credito derivante da mutuo fondiario con riferimento agli interessi può essere ricondotto alla disciplina di cui all’art. 2855 c.c. per la sola procedura concorsuale. L’art. 2855 c.c. non si estende al credito fondiario, che continua a mantenere la natura di normativa speciale, fatta eccezione per l’ipotesi in cui la pretesa sia avanzata in fase concorsuale. Al creditore per mutuo fondiario va dunque riconosciuto il diritto al recupero integrale di tutto il dovuto a titolo di interessi al tasso convenzionale e non, invece, legale (e fino ai due anni alla data del pignoramento) come previsto dall’art. 2855 c.c. Per la applicazione dell’art. 2855 c.c. anche in fase di procedura concorsuale si vedano Trib. Milano, 9 settembre 2003 (in Banca, borsa e tit. cred., 2005, II, 64, con nota di Spadaro) Tribunale di Bergamo, 17 novembre 2005 (in www.ilcaso.it) ove si afferma che «l’art. 54 l.fall., […] per i crediti assistiti da ipoteca estende la prelazione agli interessi nei limiti contemplati dall’art. 2855, commi 2 e 3, c.c., […] anche nei riguardi dei crediti per mutuo fondiario, soggetti alla disciplina del r.d. 16 luglio 1905 n. 646, successivamente integrata dal d.p.r. 21 gennaio 1976, n. 7 e dalla lg. 6 giugno 1991, n. 175, atteso che la disciplina non interferisce sui principi che regolano il concorso dei creditori del fallimento, posti dalla legge senza alcun limite o riserva di disposizioni contenute in altre leggi speciali». In questa logica, è coerente ritenere che «la disciplina speciale del credito fondiario anteriore al t.u.b. non contiene alcuna deroga alla disciplina generale dell’art. 2855 c.c. e, pertanto, in una fattispecie regolata dal previgente t.u. credito fondiario, i crediti nascenti dalle operazioni di credito fondiario trovano collocazione privilegiata, tanto nell’esecuzione individuale come nel fallimento, soltanto nei limiti delle due annualità anteriori e quella in corso al giorno del pignoramento».

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6.3. Credito a medio e lungo termine e agevolazioni fiscali. Cass., sez. trib., 16 aprile 2008 (Bollettino trib., 2008, I, 1877), precisa che la facoltà del debitore di adempimento anticipato delle obbligazioni assunte nei contratti di finanziamento a medio e lungo termine, essendo riconosciuta dalla legge come condizione di favore per il soggetto finanziato, non determina la decadenza dai benefici fiscali dell’art. 15 d.P.R. 601/1973 anche nel caso in cui tale facoltà sia esercitabile prima che decorra la durata minima contrattuale considerata dalla normativa agevolativa. Tuttavia, la stessa Cassazione, con sentenza resa in data 9 dicembre 2008, n. 28879 (in Bollettino trib., 2009, 1057), sembra orientata a diversa conclusione allorché statuisce che il privilegio fiscale non trova applicazione allorché il contratto di finanziamento conceda al finanziatore la facoltà di recedere dal contratto prima dello scadere del termine menzionato dalle stesse disposizioni agevolative (i.e., almeno diciotto mesi). Ciò in quanto tale facoltà impedisce di ritenere che il rapporto contrattuale avrà durata minima pari a quella imposta dalla legge. La Cassazione civ. sez. trib. ha altresì statuito con sentenza resa in data 25 febbraio 2009, (in Giust. civ., 2009, 6, 1264) che in tema di agevolazioni tributarie per il settore del credito, le operazioni di finanziamento, alle quali l’art. 15 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 601 accorda un trattamento fiscale di favore, vanno individuate in quelle che si traducono nella provvista di disponibilità finanziarie, cioè nella possibilità di attingere denaro, da impiegare in investimenti produttivi. Ne consegue che il negozio complesso avente ad oggetto un’erogazione di una somma di denaro a titolo di mutuo e la contemporanea costituzione su di essa di un pegno a favore della banca erogatrice, non consentono un investimento produttivo della somma medesima, esula dall’ambito applicativo della disciplina agevolativa in discorso. Tale provvedimento conferma quello reso da Comm. Trib. reg. Catania in data 15 settembre 2003 n. 563/2002.

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II. BORSA E MERCATO MOBILIARE Sommario: A) Intermediazione mobiliare. – 7. Servizi e attività di investimento. – 7.1. Forma dei contratti. – 7.2. Operatore qualificato. – 7.3. Adeguatezza dell’operazione. – 7.4. Conflitto di interessi. – 7.5. Offerta fuori sede. – 7.6. Gestione di portafogli di investimento. - B) Emittenti. – 8. Offerta pubblica di acquisto obbligatoria. – 9. Revisione contabile.

A) Intermediazione mobiliare 7. Servizi e attività di investimento. 7.1. Forma dei contratti. a) Trib. Milano, 11 aprile 2008 (in Società, 2009, 479 ss., con commento di Brutti) ha dichiarato l’invalidità di un ordine di acquisto di strumenti finanziari impartito dai clienti all’intermediario in difetto della forma prevista nel contratto quadro e conseguentemente ha ritenuto privi di causa contrattuale tanto il correlativo addebito sul conto dei clienti, quanto l’inserimento nel dossier titoli di questi ultimi degli strumenti finanziari acquistati in esecuzione del citato ordine, disponendo la restituzione sia delle somme sia dei titoli. In particolare, mentre il contratto quadro di negoziazione, ricezione e trasmissione ordini prevedeva che questi ultimi fossero impartiti per iscritto, ovvero telefonicamente, con registrazione della telefonata, gli ordini contestati dagli attori erano stati impartiti verbalmente. Il che, secondo il tribunale milanese, ha determinato una violazione della forma convenzionale, che, ai sensi dell’art. 1352 c.c., si deve presumere voluta dalle parti per la validità dell’atto. 7.2. Operatore qualificato. Trib. Vicenza (ord.), 12 febbraio 2008 (in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, 203, con nota di Atozzi, La nozione di «operatore qualificato» tra vecchie incertezze interpretative e nuovi assetti normativi), ritenendo insufficiente la dichiarazione del legale rappresentante della società cliente ai fini della qualificazione di quest’ultima come «operatore qualificato» ex art. 31 Regolamento Consob n. 11522 del 1998, ha sospeso, in sede di opposizione, la provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo ottenuto da una banca nei confronti di una società propria cliente sulla base di un contratto di Swap. Il giudice ha in particolare ritenuto che, ai sensi del citato art. 31 del Regolamento Consob n. 11522 del 1998, applicabile ratione temporis ai fatti di causa, la specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari non solo deve essere dichiarata dal legale

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rappresentante dell’ente investitore, ma deve essere effettivamente esistente. Conseguentemente, ogni qual volta – come nel caso di specie – la dichiarazione del legale rappresentante risulta generica, ossia priva di riferimenti alle specifiche operazioni rispetto alle quali sussisterebbe l’esperienza e la conoscenza dichiarate, essa è inidonea a qualificare l’investitore come operatore qualificato e dunque a costituire il presupposto per l’inapplicabilità di buona parte della disciplina sulla prestazione dei servizi di investimento. 7.3. Adeguatezza dell’operazione. a) Trib. Roma, 18 maggio 2007 (in Giur comm., 2009, II, 363 ss., con nota di Marchiandi, La responsabilità degli intermediari nei confronti dell’investitore: il quadro giurisprudenziale) ha rigettato le domande proposte da un investitore nei confronti dell’intermediario, ritenendo l’operato di quest’ultimo conforme alle prescrizioni legislative e regolamentari di settore in tema di coerenza dell’investimento richiesto con le informazioni relative all’esperienza in materia finanziaria e alla propensione al rischio del cliente. Nella motivazione il tribunale capitolino sottolinea in particolare come dall’istruttoria sia risultato che i contratti sottoscritti dall’attore, i quali erano relativi ad operazioni in derivati, recavano l’indicazione di una propensione al rischio del cliente alta, in un caso, e media, in un altro caso, facendo riferimento ad esperienze di investimento nel mercato azionario ed in specie in strumenti finanziari derivati. Inoltre, i contratti facevano espresso riferimento alla circostanza che il cliente era pienamente consapevole circa l’elevato rischio, che si estendeva a perdite anche superiori alle somme originariamente investite, che comportavano le operazioni oggetto di quello specifico contratto. Sulla base di tali risultanze, pertanto, il tribunale ha concluso per la regolarità e legittimità del comportamento dell’intermediario, il quale ha eseguito operazioni di investimenti coerenti con il profilo di rischio rappresentato dall’investitore, le cui perdite pertanto sono state ricondotte alla fisiologia dell’investimento finanziario. b) Trib. Torino, 24 marzo 2006 (in Giur comm., 2009, II, 363 ss., con nota di Marchiandi, cit.) ha respinto la domanda di risarcimento danni proposta da una investitrice nei confronti dell’intermediario attraverso il quale essa attrice aveva investito in obbligazioni emesse da una società del gruppo Parmalat, ritenendo adeguata l’operazione in relazione, per un verso, al rating assegnato ai titoli Parmalat all’epoca in cui detta operazione fu compiuta, e, per altro verso, al profilo di rischio dell’investitrice. In altri termini, il tribunale torinese ha ritenuto l’operazione contestata dall’attrice, caratterizzata da un rischio medio, adeguata tanto

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con riferimento alla tipologia, quanto con riferimento all’oggetto, quanto infine con riferimento alla dimensione. Nella motivazione viene evidenziato, infatti, che l’attrice aveva già in precedenza intrapreso operazioni non finalizzate alla mera conservazione del capitale, ma poste in essere nella prospettiva del suo incremento. Inoltre, l’attrice aveva nel proprio portafoglio titoli con un profilo di rischio anche più alto di quelli Parmalat. Ed in fine, l’investimento contestato dall’attrice era di modesta entità in relazione alla restante parte del patrimonio investito. c) Trib. Torino, 16 febbraio 2006 (in Giur comm., 2009, II, 364 ss., con nota di Marchiandi, cit.) ha precisato che il rifiuto del cliente-investitore di fornire all’intermediario le informazioni in ordine alla propria situazione patrimoniale e finanziaria, ai propri obiettivi di investimento, nonché in ordine alla propria esperienza in materia di investimenti in strumenti finanziari, non libera l’intermediario stesso dall’obbligo di valutare l’adeguatezza dell’operazione che gli venga richiesta, ma limita i dati utilizzabili ai fini di tale valutazione a quelli desumibili dai servizi prestati. Sicché quando, come nel caso di specie, dagli estratti del conto deposito titoli emerga che l’investitore detenga nel proprio portafoglio strumenti finanziari con profilo di rischio medio-alto, deve ritenersi adeguata l’operazione di investimento che consiste nell’acquisto di titoli obbligazionari, come quelli Parmalat, che all’epoca dei fatti presentavano appunto un rischio medio, non potendosi conseguentemente ritenere violato da parte dell’intermediario l’obbligo di avvertire circa l’inadeguatezza dell’operazione. d) Trib. Livorno, 20 giugno 2008 (in Giur comm., 2009, II, 555 ss., con nota di Sangiovanni, Operazioni inadeguate e doveri dell’intermediario finanziario) ha riconosciuto l’inadempimento contrattuale di un intermediario finanziario rispetto ad un contratto di negoziazione di strumenti finanziari e lo ha conseguentemente condannato al risarcimento del danno, quantificato in una somma pari a quella investita, non avendo egli dato prova di aver svolto il servizio di investimento in questione con la diligenza prescritta, essendo anzi risultato dall’istruttoria che l’intermediario aveva proceduto all’acquisto richiesto nonostante l’inadeguatezza dell’operazione e dopo aver fornito all’investitore un avvertimento solo generico di tale inadeguatezza. Il tribunale toscano ha fatto così applicazione di quell’orientamento affermatosi nella giurisprudenza di merito, secondo il quale l’avvertimento all’investitore relativo ad una operazione inadeguata che sia privo di specifici riferimenti alle categorie di inadeguatezza previste dalla normativa di settore (tipologia, oggetto, frequenza e dimensione) non è idoneo a chiarire all’investitore l’effettiva portata in termini di rischio

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dell’operazione richiesta ed integra, pertanto, una grave violazione degli obblighi gravanti sull’intermediario, che, dunque, può, per ciò solo, essere ritenuto inadempiente al contratto. e) App. Milano, 9 ottobre 2007, cit. ha escluso la responsabilità dell’intermediario in presenza di una operazione inadeguata, avendo ritenuto la correttezza dell’operato di quest’ultimo ex art. 29, co. 3, Regolamento Consob n. 11522 del 1998, applicabile ai fatti di causa ratione temporis, in relazione alla circostanza che nel caso di specie era stata data all’investitore una chiara informativa circa l’inadeguatezza dell’operazione ed era stato acquisito il consenso di quest’ultimo all’investimento nonostante la segnalata inadeguatezza dell’operazione. 7.4. Conflitto di interessi. a) Trib. Torino, 24 marzo 2006, cit. ha escluso che l’intermediario, per il solo fatto di essere creditore della società emittente dei titoli negoziati, possa ritenersi in conflitto di interessi. In particolare, il tribunale ha affermato che l’esistenza di una situazione di conflitto di interessi postula che l’intermediario sia portatore di un interesse contrario a quello del cliente. Allo stesso modo il tribunale ha escluso che integri una situazione di conflitto di interessi rilevante ai fini dell’applicabilità della disciplina relativa alla prestazione dei servizi di investimento il fatto che l’intermediario, per evadere l’ordine del cliente, si sia reso acquirente sul mercato di un determinato titolo; ciò in quanto tale situazione, ancora una volta, non importa, di per sé, che l’intermediario sia portatore di un interesse proprio ed ulteriore rispetto a quello del cliente. In senso analogo, nel periodo in rassegna, si veda pure Torino, 16 febbraio 2006, cit. b) Trib. Milano, 14 febbraio 2009 (in Contratti, 2009, 437 ss., con commento di Romeo) ha riconosciuto l’inadempimento dell’intermediario agli obblighi di fonte primaria e secondaria su quest’ultimo gravanti nello svolgimento dei servizi di investimento e lo ha conseguentemente condannato al risarcimento dei danni patiti dall’investitore per effetto dell’operazione di acquisto di obbligazioni “Cirio Holding Sa 6,5%” eseguita dall’intermediario, nel dicembre del 2001, nell’ambito della prestazione del servizio di negoziazione titoli. In particolare, il tribunale milanese ha ritenuto che detta operazione sia avvenuta in violazione della disciplina del conflitto di interessi applicabile ratione temporis, dal momento che la banca intermediaria, nel caso di specie, aveva dato corso all’operazione, senza aver preventivamente informato l’investitore e, dunque, senza aver ottenuto da quest’ultimo un consenso informato, nonostante si trovasse in una palese situazione di conflitto di interessi,

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avendo assunto, oltre al ruolo di prestatore del servizio di negoziazione, la veste di: a) finanziatore dell’emittente i bonds in questione, con diritto di voto nelle assemblee delle società del Gruppo quale creditore pignoratizio; b) lead manager del consorzio di collocamento dei bonds oggetto di giudizio. La sentenza si segnala per il fatto di aver ritenuto irrilevante ai fini del risarcimento l’indagine sul nesso causale tra inadempimento e danno. Secondo i giudici milanesi, infatti, la previsione di un divieto legale di agire senza aver prima informato l’investitore del conflitto e senza aver ricevuto da quest’ultimo una specifica autorizzazione, essendo finalizzata a prevenire il compimento di operazioni potenzialmente dannose per l’investitore, rende possibile, una volta realizzatasi la sua violazione e verificatosi un danno, ritenere in ogni caso integrato il nesso di causa, senza che sia necessario acquisirne la prova. Questa impostazione porta poi il tribunale a riconoscere il danno nell’interesse positivo, ossia nell’intera perdita del capitale investito. 7.5. Offerta fuori sede. a) App. Bologna, 4 giugno 2008 (in Contratti, 153 ss, con commento di Guerinoni), modificando la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di. Bologna, ha escluso la nullità di un contratto quadro avente ad oggetto il servizio di negoziazione, nonché di uno specifico ordine di acquisto impartito in esecuzione di detto contratto quadro, l’uno e l’altro stipulati fuori sede per il tramite di un promotore finanziario, nonostante il fatto che tanto il contratto quadro quanto l’ordine di acquisto non recassero la previsione della facoltà di recesso dell’investitore, come stabilito dall’art. 30. co. 7, t.u.f. Mentre il Tribunale, facendo leva sulla ratio della norma, aveva ritenuto applicabile la nullità contemplata dalla citata disposizione del t.u.f. anche oltre l’ambito dei sevizi di collocamento e di gestione di portafogli, per i quali essa è espressamente prevista, la Corte d’Appello è invece rimasta fedele al dato testuale, sottolineando peraltro come tra il servizio di negoziazione e quello di collocamento vi sia una netta distinzione strutturale. b) In senso opposto a App. Bologna, 4 giugno 2008, cit. si è espresso Trib. Firenze, 11 marzo 2008 (in Contratti, 159 ss, con commento di Guerinoni), il quale ha invece dichiarato la nullità di un contratto di negoziazione concluso fuori sede ex art. 30, co. 7, t.u.f., e cioè per difetto dell’inserimento in esso della facoltà di recesso. Il tribunale fiorentino ha operato un’interpretazione estensiva dell’ambito di applicazione dell’art. 30, co. 7, t.u.f., facendo leva su due elementi. Il primo è costituito dal tenore testuale dell’ultima parte dell’art. 30, co. 6, t.u.f., ove si precisa che la «medesima disciplina si applica alle proposte con-

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trattuali effettuate fuori sede ovvero a distanza»; il secondo è invece costituito dalla delibera Consob 11552/1998. 7.6. Gestione di portafogli di investimento. Trib. Biella, 5 aprile 2007 (in Banca, borsa, tit. cred., 2009, 63 ss., con nota di Lucantoni, La responsabilità contrattuale dell’intermediario per la gestione del portafoglio di investimento in difformità al benchmark indicato dal cliente: l’impatto del recepimento della direttiva MiFID), dopo aver approfonditamente esaminato gli obblighi gravanti sull’intermediario che rende il servizio di gestione su base individuale di portafogli di investimento, ha riconosciuto l’inadempimento della banca ai contratti di gestione di portafogli di investimento portati al suo esame e la ha conseguentemente condannata al risarcimento del danno patito dall’investitore. Accogliendo in pieno le argomentazioni di parte attrice, il tribunale ha ritenuto integrato l’inadempimento dell’intermediario nel fatto che quest’ultimo, nel gestire il patrimonio dell’investitore, aveva adottato una strategia di investimento non coerente con il grado di propensione a rischio e con il profilo di benchmark indicati dal cliente. B. Emittenti. 8.1. Offerta pubblica di acquisto obbligatoria. a) App. Milano, 20 dicembre 2007 (in Giur. comm., 2009, II, 77 ss.) ha escluso che gli azionisti di minoranza siano portatori di alcuna aspettativa giuridicamente rilevante anche qualora coloro che vi erano tenuti, in quanto partecipanti ad un “concerto occulto” che dava la possibilità di controllare una quota di capitale superiore al 30%, non abbiano proceduto alla formulazione dell’offerta pubblica di acquisto. b) Trib. Milano, 29 maggio 2008 (in Giur. comm., 2009, II, 77 ss.) ha stabilito che l’offerta pubblica di acquisto obbligatoria costituisce una vera e propria obbligazione di fonte legale, consistenze in un’“opzione put”, la cui violazione, oltre che attraverso le sanzioni amministrative positivamente previste, può trovare reazione, ad opera degli azionisti di minoranza, anche in sede civile, attraverso una azione tesa a far valere l’inadempimento contrattuale di coloro che, pur obbligati, non hanno lanciato l’OPA. 9. Revisione contabile. 9.1. Responsabilità contrattuale del revisore. Trib. Milano, 25 luglio 2008 (in Società, 2009, 309 ss., con nota di Bonavera, Questioni in tema

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di adempimento dell’incarico affidato alla società di revisione) ha rigettato la domanda di accertamento dell’inadempimento contrattuale del revisore e la conseguente domanda di risoluzione e di risarcimento dei danni proposte dalla società revisionata in sede di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto nei suoi confronti dal revisore. Il tribunale, che ha anche condannato la società opponente ai sensi dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria, ha riconosciuto l’assoluta infondatezza delle contestazioni mosse dall’opponente, rilevando in particolare come esse non si risolvessero in rilievi di carattere tecnico-formale e precisando che alla società di revisione non compete verificare l’adeguatezza del sistema di controllo interno della società revisionata.

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PARTE seconda Legislazione, documenti e informazioni



legislazione

Partecipazioni nelle banche. D.Lgs. 27 gennaio 2010, n. 21 – Attuazione della direttiva 2007/44/CE, che modifica le direttive 92/49/CEE, 2002/83/CE, 2004/39/CE, 2005/68/CE e 2006/48/CE per quanto riguarda le regole procedurali e i criteri per la valutazione prudenziale di acquisizioni e incrementi di partecipazioni nel settore finanziario. IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione; Vista la legge 7 luglio 2009, n. 88, recante disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria 2008 ed, in particolare, l’articolo 1 e l’Allegato B; Vista la direttiva 2007/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 settembre 2007, che modifica la direttiva 92/49/CEE del Consiglio e le direttive 2002/83/CE, 2004/39/CE, 2005/68/CE e 2006/48/CE per quanto riguarda le regole procedurali e i criteri per la valutazione prudenziale di acquisizioni e incrementi di partecipazioni nel settore finanziario; Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 28 ottobre 2009; Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; Vista la deliberazione del Consiglio del Ministri, adottata nella riunione del 22 gennaio 2010; Sulla proposta del Ministro per le politiche europee e del Ministro dell’Economia e delle Finanze, di concerto con i Ministri degli Affari esteri, della giustizia e dello sviluppo economico; Emana il seguente decreto legislativo: Art. 1 Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 1. Al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, sono apportate le seguenti modificazioni:

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a) all’articolo 1, comma 2, la lettera h-quinquies) è soppressa; b) all’articolo 14, comma 1, lettera d), le parole: «i titolari di partecipazioni rilevanti» sono sostituite dalle seguenti: «i titolari delle partecipazioni indicate all’articolo 19»; c) la rubrica del Capo III del Titolo II è sostituita dalla seguente: «Partecipazioni nelle banche»; d) all’articolo 19: 1) il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. La Banca d’Italia autorizza preventivamente l’acquisizione a qualsiasi titolo in una banca di partecipazioni che comportano il controllo o la possibilità di esercitare un’influenza notevole sulla banca stessa o che attribuiscono una quota dei diritti di voto o del capitale almeno pari al 10 per cento, tenuto conto delle azioni o quote già possedute»; 2) il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. La Banca d’Italia autorizza preventivamente le variazioni delle partecipazioni quando la quota dei diritti di voto o del capitale raggiunge o supera il 20 per cento, 30 per cento o 50 per cento e, in ogni caso, quando le variazioni comportano il controllo sulla banca stessa»; 3) al comma 4 la parola: «rilevanti» è sostituita dalle seguenti: «indicate ai commi 1 e 2»; 4) il comma 5 è sostituito dal seguente: «5. La Banca d’Italia rilascia l’autorizzazione quando ricorrono condizioni atte a garantire una gestione sana e prudente della banca, valutando la qualità del potenziale acquirente e la solidità finanziaria del progetto di acquisizione in base ai seguenti criteri: la reputazione del potenziale acquirente, ivi compreso il possesso dei requisiti previsti ai sensi dell’articolo 25; il possesso dei requisiti previsti ai sensi dell’articolo 26 da parte di coloro che, in esito all’acquisizione, svolgeranno funzioni di amministrazione, direzione e controllo nella banca; la solidità finanziaria del potenziale acquirente; la capacità della banca di rispettare a seguito dell’acquisizione le disposizioni che ne regolano l’attività; l’idoneità della struttura del gruppo del potenziale acquirente a consentire l’esercizio efficace della vigilanza. L’autorizzazione non può essere rilasciata in caso di fondato sospetto che l’acquisizione sia connessa ad operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. L’autorizzazione può essere sospesa o revocata se vengono meno o si modificano i presupposti e le condizioni per il suo rilascio.»; 5) al comma 8 dopo le parole: «nei commi 1» è inserita la seguente: «, 2»; 6) il comma 9 è sostituito dal seguente: «9. La Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR, emana disposizioni attuative del presente articolo, e in particolare disciplina le modalità e i termini del procedimento di valutazione di cui al comma 5, i criteri di calcolo dei diritti di voto rilevanti ai fini dell’applicazione delle soglie previste ai commi 1 e 2, ivi inclusi i casi in cui i diritti di voto non sono computati ai fini dell’applicazione dei medesimi commi, e i criteri per l’individuazione dei casi di influenza notevole»; e) all’articolo 20: 1) il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. La Banca d’Italia stabilisce, a fini informativi, obblighi di comunicazione in ordine a operazioni di acquisto o cessione di partecipazioni in banche»;

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2) al comma 2, le parole: «entro cinque giorni dalla stipulazione ovvero, se non concluso in forma scritta, dal momento di accertamento delle circostanze che ne rivelano l’esistenza» sono soppresse; 3) al comma 3 dopo le parole: «determina altresì le modalità» sono inserite le seguenti: «e i termini»; f) all’articolo 22: 1) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Partecipazioni indirette e acquisti di concerto»; 2) dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1-bis. Ai fini dell’applicazione dei capi III e IV si considera anche l’acquisizione di partecipazioni da parte di più soggetti che, in base ad accordi in qualsiasi forma conclusi, intendono esercitare in modo concertato i relativi diritti, quando tali partecipazioni, cumulativamente considerate, raggiungono o superano le soglie indicate nell’articolo 19»; g) all’articolo 24 il comma 3 è sostituito dal seguente: «3. Le partecipazioni per le quali le autorizzazioni previste dall’articolo 19 non sono state ottenute o sono state revocate devono essere alienate entro i termini stabiliti dalla Banca d’Italia»; h) all’articolo 25: 1) al comma 1, le parole: «di partecipazioni rilevanti» sono sostituite dalle seguenti: «delle partecipazioni indicate all’articolo 19»; 2) il comma 2 è abrogato; 3) al comma 3, le parole: «eccedenti il suddetto limite» sono sostituite dalle seguenti: «eccedenti le soglie indicate all’articolo 19, comma 1»; 4) al comma 4, le parole: «comma 2» sono sostituite dalle seguenti: «comma 3»; i) all’articolo 65, comma 1, lettera h), le parole: «, fermo restando quanto previsto dall’articolo 19, comma 6,» sono soppresse; l) all’articolo 96-bis, comma 4, lettera i), le parole: «di partecipazioni rilevanti ai fini dell’articolo 19» sono sostituite dalle seguenti: «delle partecipazioni indicate nell’articolo 19»; m) all’articolo 108, comma 1, la parola: «rilevanti» è soppressa; n) all’articolo 110, comma 1, la parola: «rilevanti» è soppressa; o) all’articolo 114-ter, comma 1, le parole: «, fatta eccezione per quanto previsto dall’articolo 19, commi 6 e 7» sono soppresse; p) all’articolo 114-quater, comma 1, le parole: «, fatta eccezione per l’articolo 19, commi 6 e 7,» sono soppresse. Art. 2 Modifiche al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 1. Al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 14: 1) al comma 1, le parole: «di partecipazioni» sono sostituite dalle seguenti: «delle partecipazioni indicate nell’articolo 15, comma 1»; 2) il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. Ai fini dell’applicazione del pre-

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sente articolo e dell’articolo 15, per le SICAV si fa riferimento alle sole azioni nominative ed il regolamento di cui al comma 1 stabilisce le ipotesi in cui, al fine dell’attribuzione del diritto di voto, tali azioni sono considerate come azioni al portatore, con riguardo alla data di acquisto»; 3) al comma 3, le parole: «comma 2» sono sostituite dalle seguenti: «comma 1»; 4) al comma 4, le parole: «il limite stabilito ai sensi del comma 2» sono sostituite dalle seguenti: «le soglie previste dall’articolo 15, comma 1»; 5) al comma 7, le parole: «dal comma 2» sono sostituite dalle seguenti: «dall’articolo 15, comma 1»; b) all’articolo 15: 1) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Partecipazioni»; 2) il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. Chiunque, a qualsiasi titolo, intenda acquisire o cedere, direttamente od indirettamente, in una Sim, società di gestione del risparmio, Sicav una partecipazione che comporta il controllo o la possibilità di esercitare un’influenza notevole sulla società o che attribuisce una quota dei diritti di voto o del capitale almeno pari al 10 per cento, tenuto conto delle azioni o quote già possedute, deve darne preventiva comunicazione alla Banca d’Italia. La comunicazione preventiva è dovuta anche per le variazioni delle partecipazioni quando la quota dei diritti di voto o del capitale raggiunga o superi, in aumento o in diminuzione, il 20 per cento, 30 per cento o 50 per cento e, in ogni caso, quando le variazioni comportano l’acquisizione o la perdita del controllo della società»; 3) al comma 2, il primo periodo è sostituito dal seguente: «La Banca d’Italia può vietare entro il termine stabilito ai sensi del comma 5, lettera c), l’acquisizione della partecipazione quando ritenga che non ricorrono condizioni atte a garantire una gestione sana e prudente dell’intermediario, valutando la qualità del potenziale acquirente e la solidità finanziaria del progetto di acquisizione in base ai seguenti criteri: la reputazione del potenziale acquirente, ivi compreso il possesso dei requisiti previsti ai sensi dell’articolo 14; il possesso dei requisiti previsti ai sensi dell’articolo 13 da parte di coloro che, in esito all’acquisizione, svolgeranno funzioni di amministrazione, direzione e controllo; la solidità finanziaria del potenziale acquirente; la capacità dell’intermediario di rispettare a seguito dell’acquisizione le disposizioni che ne regolano l’attività; l’idoneità della struttura del gruppo del potenziale acquirente a consentire l’esercizio efficace della vigilanza; l’assenza di fondato sospetto che l’acquisizione sia connessa a operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo»; 4) al comma 3, il secondo periodo è soppresso; 5) al comma 5, la lettera a) è sostituita dalla seguente: «a) i criteri di calcolo dei diritti di voto rilevanti ai fini dell’applicazione delle soglie previste al comma 1, ivi inclusi i casi in cui i diritti di voto non sono computati ai fini dell’applicazione del medesimo comma, nonché i criteri per l’individuazione dei casi di influenza notevole;»; alla lettera c) sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «nonché per condurre la valutazione prevista al comma 2»; c) all’articolo 19, comma 1, la lettera g) è sostituita dalla seguente: «g) i titolari delle partecipazioni indicate nell’articolo 15, comma 1, abbiano i requisiti di

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onorabilità stabiliti dall’articolo 14 e non ricorrano le condizioni per il divieto previsto dall’articolo 15, comma 2»; d) all’articolo 34, comma 1, la lettera e) è sostituita dalla seguente: «e) i titolari delle partecipazioni indicate all’articolo 15, comma 1, abbiano i requisiti di onorabilità stabiliti dall’articolo 14 e non ricorrano le condizioni per il divieto previsto dall’articolo 15, comma 2»; e) all’articolo 43, comma 1, la lettera e) è sostituita dalla seguente: «e) i titolari delle partecipazioni indicate all’articolo 15, comma 1, abbiano i requisiti di onorabilità stabiliti dall’articolo 14 e non ricorrano le condizioni per il divieto previsto dall’articolo 15, comma 2»; f) all’articolo 43-bis, comma 1, la lettera e) è sostituita dalla seguente: «e) i titolari delle partecipazioni indicate all’articolo 15, comma 1 abbiano i requisiti di onorabilità stabiliti ai sensi dell’articolo 14 e non ricorrano le condizioni per il divieto previsto dall’articolo 15, comma 2». Art. 3 Modifiche alla legge 10 ottobre 1990, n. 287 1. All’articolo 20, comma 5, della legge 10 ottobre 1990, n. 287, le parole: «sessanta giorni» sono sostituite dalle seguenti: «sessanta giorni lavorativi». (2) (2) Comma così corretto da Comunicato 25 febbraio 2010, pubblicato nella G.U. 25 febbraio 2010, n. 46. Art. 4 Modifiche al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 1. Al codice delle Assicurazioni private di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 1, comma 1, la lettera oo) è abrogata; b) all’articolo 14, comma 1, lettera e), la parola: «rilevanti» è sostituita dalle seguenti «indicate dall’articolo 68»; c) all’articolo 59, comma 1, lettera e), la parola: «rilevanti» è sostituita dalle seguenti «indicate dall’articolo 68»; d) all’articolo 68, il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. L’ISVAP autorizza preventivamente l’acquisizione, a qualsiasi titolo, in un’impresa di assicurazione o di riassicurazione di partecipazioni che comportano il controllo o la possibilità di esercitare un’influenza notevole sull’impresa stessa o che attribuiscono una quota dei diritti di voto o del capitale almeno pari al 10 per cento, tenuto conto delle azioni o quote già possedute»; e) all’articolo 68, il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. L’ISVAP autorizza preventivamente le variazioni delle partecipazioni nei casi in cui la quota dei diritti di voto o del capitale raggiunga o superi il 20 per cento, 30 per cento, o 50 per cento ed, in ogni caso, quando le variazioni comportano il controllo dell’impresa di assicurazione o di riassicurazione»; f) all’articolo 68, dopo il comma 2 è inserito il seguente: «2-bis. Ai fini dell’applicazione dei Capi I e II del presente Titolo, si considera anche l’acquisizione di partecipazioni da parte di più soggetti che intendono esercitare in modo concertato i relativi diritti sulla base di accordi in qualsiasi

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forma conclusi, quando tali partecipazioni, cumulativamente considerate, configurino una partecipazione ai sensi dei commi 1 e 2»; g) all’articolo 68, comma 4, la parola: «rilevanti» è sostituita dalle seguenti: «indicate nei commi 1 e 2»; h) all’articolo 68, il comma 5 è sostituito dal seguente: «5. L’ISVAP rilascia l’autorizzazione quando ricorrono condizioni atte a garantire una gestione sana e prudente dell’impresa di assicurazione o di riassicurazione, valutando la qualità del potenziale acquirente e la solidità finanziaria del progetto di acquisizione avuto riguardo anche ai possibili effetti dell’operazione sulla protezione degli assicurati dell’impresa interessata, sulla base dei seguenti criteri: la reputazione del potenziale acquirente, ivi compreso il possesso dei requisiti previsti ai sensi dell’articolo 77; il possesso dei requisiti previsti ai sensi dell’articolo 76 da parte di coloro che, in esito all’acquisizione, svolgeranno funzioni di amministrazione, direzione e controllo nell’impresa; la solidità finanziaria del potenziale acquirente; la capacità dell’impresa di rispettare a seguito dell’acquisizione le disposizioni che ne regolano l’attività; l’idoneità della struttura del gruppo del potenziale acquirente a consentire l’esercizio efficace della vigilanza; l’assenza di fondato sospetto che l’acquisizione sia connessa ad operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo»; i) All’articolo 68 dopo il comma 5 è inserito il seguente: «5-bis. L’ISVAP opera in piena consultazione con le altre Autorità competenti, nei casi in cui il potenziale acquirente sia una banca, un’impresa di investimento o una società di gestione ai sensi dell’articolo 1-bis, primo paragrafo, punto 2) della direttiva 85/611/CEE autorizzato in Italia, ovvero uno dei soggetti di cui all’articolo 204, comma 1, lettere b) o c), ad essi relativi. Si applicano, in tali casi, le disposizioni di cui all’articolo 204, commi 2 e 3»; l) all’articolo 68 il comma 9 è sostituito dal seguente: «9. L’ISVAP determina con regolamento le disposizioni di attuazione sulla base delle rilevanti disposizioni dell’ordinamento comunitario, e in particolare disciplina i criteri di calcolo dei diritti di voto rilevanti ai fini dell’applicazione delle soglie previste ai commi 1 e 2, ivi inclusi i casi in cui i diritti di voto non sono computati ai fini dell’applicazione dei medesimi commi ed i criteri per l’individuazione dei casi di influenza notevole»; m) all’articolo 69, comma 1, la parola: «rilevante» è sostituita dalle seguenti: «indicata dall’articolo 68»; n) all’articolo 70 il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. Ogni accordo in qualsiasi forma concluso, che ha per oggetto o per effetto l’esercizio concertato del voto in un’impresa di assicurazione o di riassicurazione o in una società che la controlla è comunicato all’ISVAP dai partecipanti ovvero dai legali rappresentanti dell’impresa cui l’accordo si riferisce. L’ISVAP stabilisce in via generale i termini e le modalità della comunicazione»; o) all’articolo 70, comma 2, dopo le parole: «accordo stesso» sono aggiunte, in fine, le seguenti: «e stabilire un termine entro il quale le partecipazioni oggetto dell’accordo devono essere alienate.»;

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p) all’articolo 75, comma 1, la parola: «rilevanti» è sostituita dalle seguenti: «indicate dall’articolo 68»; q) all’articolo 77, comma 1, la parola: «rilevanti» è sostituita dalle seguenti: «indicate dall’articolo 68»; r) all’articolo 77 il comma 2 è abrogato; s) all’articolo 77, comma 3, le parole: «il suddetto limite» sono sostituite dalle seguenti: «le soglie di cui al comma 1»; t) all’articolo 77, comma 4, le parole: «comma 2» sono sostituite dalle seguenti: «comma 1»; u) all’articolo 79, comma 4, la parola: «rilevanti» è sostituita dalle seguenti: «indicate dall’articolo 68»; v) all’articolo 188, comma 3, la parola: «rilevante» è sostituita dalle seguenti: «indicata dall’articolo 68»; z) all’articolo 197, comma 3, la parola: «rilevante» è sostituita dalle seguenti: «indicata dall’articolo 68»; aa) la rubrica dell’articolo 204 è sostituita dalla seguente: «(Autorizzazione relativa all’assunzione di partecipazioni in imprese di assicurazione o di riassicurazione)»; bb) all’articolo 204 il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. L’ISVAP, nei casi in cui è previsto il rilascio dell’autorizzazione di cui all’articolo 68, opera in piena consultazione con le Autorità competenti degli altri Stati membri allorché l’acquisizione o la sottoscrizione di azioni sia effettuata da un acquirente che sia: a) una banca, un’impresa di assicurazione, un’impresa di riassicurazione, un’impresa di investimento o una società di gestione ai sensi dell’articolo 1-bis, punto 2, della direttiva 85/611/CEE autorizzati in un altro Stato membro; b) un’impresa madre, come definita secondo le rilevanti disposizioni dell’ordinamento comunitario sulla vigilanza supplementare delle imprese appartenenti ad un conglomerato finanziario, delle imprese di cui alla lettera a); c) una persona, fisica o giuridica, che controlla una delle imprese di cui alla lettera a)»; cc) all’articolo 204, dopo il comma 1, sono aggiunti, in fine, i seguenti: «1-bis. L’ISVAP scambia con le Autorità competenti tempestivamente tutte le informazioni essenziali o pertinenti per la valutazione. A tale riguardo, comunica su richiesta tutte le informazioni pertinenti e, di propria iniziativa, tutte le informazioni essenziali. 2-bis. L’ISVAP nel provvedimento di autorizzazione indica eventuali pareri o riserve espressi dall’Autorità competente a vigilare sul potenziale acquirente». Art. 5 Disposizioni transitorie e finali 1. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto è abrogato l’articolo 14, comma 1, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2. Restano abrogati i commi 6 e 7 dell’articolo 19 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385. Al comma 8-bis

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del medesimo articolo 19, le parole: «e il divieto previsto dal comma 6» restano soppresse. Art. 6 Disposizioni finanziarie 1. Dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. 2. Le Amministrazioni pubbliche interessate provvedono all’adempimento dei compiti di cui al presente decreto con le risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente. Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

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Le partecipazioni nelle banche. Prime note sul decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 21 Sommario: 1. L’attuazione della direttiva 2007/44/CE nell’ordinamento italiano e la nuova disciplina delle “partecipazioni nelle banche”. Delimitazione del campo di indagine. – 2. La regolamentazione degli assetti proprietari delle banche nel testo unico bancario. Profili generali. – 3. L’autorizzazione all’acquisizione di partecipazioni. Dalla “scomparsa” della nozione di partecipazione rilevante all’avvento della “influenza notevole”. – 4. Il procedimento autorizzativo all’acquisizione di partecipazioni nelle banche: le novità introdotte dal decreto n. 21/2010. – 4.1. Segue. La valutazione della domanda di autorizzazione. – 5. Le partecipazioni dei soggetti non bancari né finanziari e il “declino” del principio di separatezza. – 6. Gli obblighi di comunicazione delle partecipazioni nelle banche dopo il decreto di recepimento della direttiva 2007/44/CE. – 7. Le partecipazioni indirette e gli acquisti di concerto. – 8. Le sanzioni per l’inosservanza degli obblighi autorizzativi e di comunicazione.

1. L’attuazione della direttiva 2007/44/CE nell’ordinamento italiano e la nuova disciplina delle “partecipazioni nelle banche”. Delimitazione del campo di indagine. Al termine di un iter che non ha esattamente brillato per linearità e celerità è stata recepita nell’ordinamento italiano la direttiva 2007/44/ CE , con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del d.lgs. 27 gennaio

Il termine per il recepimento era scaduto il 21 marzo 2009, ma sulla vicenda sia consentito rinviare integralmente a quanto già evidenziato in Rotondo, La nuova disciplina delle partecipazioni “non finanziarie” al capitale delle banche: ovvero “prove” di recepimento della direttiva 2007/44/CE, in Dir. banc., 2009, II, p. 217 ss. Direttiva del 5 settembre 2007 che modifica la direttiva 92/49/CEE del Consiglio e le direttive 2002/83/CE, 2004/39/CE, 2005/68/CE e 2006/48/CE per quanto riguarda le regole procedurali e i criteri per la valutazione prudenziale di acquisizioni e incrementi di partecipazioni nel settore finanziario. È la G.U. del 23 febbraio 2010, n. 44, rettifica G.U. n. 46 del 25 febbraio 2010.

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2010, n. 21 recante, appunto, “Attuazione della direttiva 2007/44/CE, che modifica le direttive 92/49/CEE, 2002/83/CE, 2004/39/CE, 2005/68/CE e 2006/48/CE per quanto riguarda le regole procedurali e i criteri per la valutazione prudenziale di acquisizioni e incrementi di partecipazioni nel settore finanziario”. La nuova disciplina, come da rubrica, incide sulla regolamentazione degli assetti proprietari di banche, s.i.m. e imprese assicurative uniformando le norme nazionali ai principi e alle disposizioni di cui alla direttiva 2007/44 attraverso la novella dei tre testi unici di riferimento (t.u.b., t.u.f. e codice delle assicurazioni), ma anche mediante una serie di altre modifiche “collaterali”. In questa sede si prenderanno in considerazione le innovazioni apportate alla disciplina degli assetti proprietari delle banche, sulla quale l’impatto della normativa comunitaria è senza dubbio più dirompente – basti pensare alla “eliminazione” del principio di separatezza industria-banca – e, in particolare, si farà specifico riferimento alle modifiche recate al Capo III del Titolo II del t.u.b.

2. La regolamentazione degli assetti proprietari delle banche nel testo unico bancario. Profili generali. La disciplina delle partecipazioni nelle banche può articolarsi, convenzionalmente, in quattro momenti principali: autorizzatorio (art. 19), definitorio (artt. 22 e 23), informativo (artt. 20 e 21) e comminatoriosanzionatorio (art. 20, co. 2, e art. 24) ; su tutti ha inciso, più o meno sensibilmente, la nuova disciplina. Si tratta, inoltre, di un complesso di regole che risentiva fortemente della netta cesura tra imprese bancarie e finanziarie e soggetti diversi da queste: le prime non incontravano alcun limite partecipativo prestabilito, mentre per i secondi v’era un tetto massimo all’acquisizione di partecipazioni e, in ogni caso, l’impossibilità di pervenire al controllo di una banca .

Articolazione dovuta a Patroni Griffi, Commento sub art. 19, in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Belli, Contento, Patroni Griffi, Porzio, Santoro, Bologna, 2003, I, p. 288 s., il quale specifica che il termine “comminatorio” fa riferimento alla «(…) reazione che di regola segue al giudizio di verifica proprio di qualsiasi tipo di controllo». Impedimento dovuto essenzialmente al timore di situazioni di conflitto di interessi tra proprietà industriale e banca controllata, come evidenzia Antonucci, Diritto delle ban-

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Gennaro Rotondo

Per altro verso, la disciplina italiana risulta essere, ancora oggi (dopo l’intervento di riforma), espressione di un interesse pubblico alla verifica della “qualità” degli azionisti rilevanti e ha la finalità principale di assicurare l’autonomia gestionale della banca rispetto alla proprietà, in coerenza con il principio della sana e prudente gestione . Ne consegue che – anche in base alla normativa secondaria – il perseguimento di tale obiettivo, nell’ambito dei controlli sugli assetti proprietari, è basato su alcuni criteri che mirano a tutelare la banca da eventuali condotte dannose dei partecipanti al capitale (criteri, pervero, cui faceva riferimento già la delibera CICR del 19 aprile 1993, seppure con particolare riguardo alla partecipazione dei soci industriali). Naturalmente, si tratta di disciplina (quella di vigilanza) che dovrà essere sensibilmente rivista alla luce della novella al Capo III del t.u.b. Assume rilevanza, dunque, la qualità dei soggetti partecipanti, anche in relazione a specifiche connotazioni aziendali della banca partecipata, quali: la correttezza nelle relazioni di affari e l’affidabilità della situazione finanziaria dei soggetti partecipanti; gli eventuali legami di ogni natura (anche familiari o associativi) tra il richiedente l’autorizzazione e altri soggetti in grado di influenzare la gestione bancaria; i rapporti di indebitamento che il soggetto dovesse avere con la banca in cui intenda acquisire la partecipazione, motivo per cui l’esposizione delle banche nei confronti del partecipante non può eccedere i limiti previsti dalle norme di vigilanza in materia di concentrazione dei rischi .

che3, Milano, 2006, p. 166 s.; sui profili evolutivi della disciplina delle partecipazioni al capitale delle banche e del principio di “separatezza” si rinvia ai contributi citati in Rotondo, La nuova disciplina, cit., p. 218 ss., part. note 2-4. Interesse, però, che già in passato non si poteva considerare limitato al solo problema dei rapporti partecipativi tra banca e industria, cfr. Costi, Banca e industria, in La nuova legge bancaria. Prime riflessioni sul testo unico in materia bancaria e creditizia, a cura di Rispoli Farina, Napoli, 1995, p. 118. Su cui v. Brescia Morra, Commento sub art. 19, in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova, 2001, p. 160; così, anche la Premessa delle Istruzioni di vigilanza (Sez. I, Par. 1, p. 1). Si v. Istruzioni di vigilanza, Sez. II, Par. 5.2., p. 10. In questo caso, va fatto riferimento alle Istruzioni di vigilanza, Tit. IV, Cap. 5. Si rammenta, altresì, che, qualora la banca entri a far parte di un gruppo non qualificabile come bancario, la Banca d’Italia valuta che l’assetto del medesimo non risulti di ostacolo allo svolgimento dei controlli di vigilanza. Ove appartengano al gruppo società insediate all’estero, la Banca d’Italia valuta se la localizzazione delle stesse o le attività svolte in quei Paesi consentano l’esercizio di un’efficace azione di vigilanza (cfr. Istruzioni, Sez. II, Par. 5.2., p. 10).

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Siffatti parametri di valutazione qualitativa degli aspiranti soci bancari sono stati implementati, dal d.lgs. n. 21/2010, con l’aggiunta dei riferimenti alla reputazione del potenziale acquirente, al possesso dei requisiti di onorabilità e di professionalità degli esponenti aziendali del soggetto partecipante, alla solidità finanziaria del potenziale acquirente, alla capacità della banca di rispettare a seguito dell’acquisizione le disposizioni che ne regolano l’attività, alla idoneità della struttura del gruppo del potenziale acquirente a consentire una corretta vigilanza 10. In generale, la disciplina è diretta, altresì, a monitorare l’accesso alla proprietà, con particolare riguardo ai rapporti rispetto ai quali può sorgere un conflitto di interessi. Obiettivo che, più che mai dopo la novella, deve essere perseguito soltanto mediante la regolazione delle relazioni tra banca e soci, in termini di concessione di credito, condizioni, attività comuni, ecc. 11 In sostanza, sono state rimosse, come era più che auspicabile, le contraddizioni introdotte, nella regolamentazione degli assetti proprietari delle banche, dall’art. 14 della legge n. 2/2009 12 ed è stato creato un sistema che appare, nel complesso, funzionale alle esigenze di regolazione del fenomeno economico e che dovrebbe consentire una valutazione più attenta degli aspiranti soci di una banca, basata su parametri oggettivi e, soprattutto, prescindendo da considerazioni attinenti alla natura (industriale o finanziaria) dell’attività di impresa svolta dal partecipante.

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Parametri introdotti dall’art. 1, co. 1, lett. b), n. 4, del d.lgs. n. 21/2010, che modifica l’art. 19, co. 2, t.u.b. 11 Il problema del conflitto di interessi si esplicitava, soprattutto, attraverso il divieto all’industria di effettuare acquisizioni oltre determinate soglie. Si tratta, invero, di un’impostazione già contenuta nella delibera CICR del 1987 e che necessitava di una rapida trasposizione in legge, solo che a tale scopo venne utilizzata una sede non del tutto conferente, ossia la legge antitrust italiana (n. 287/1990). L’esigenza di celerità nasceva dalla evidente illegittimità costituzionale della delibera CICR, per contrasto con l’art. 41 Cost. in quanto, pur essendo un atto privo di forza di legge, essa poneva limiti alla libertà di iniziativa economica vietando all’industria di detenere una partecipazione di controllo nella banca, così Antonucci, Diritto delle banche3, cit., p. 167. 12 Relativa alla “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 29 novembre 2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale”. Legge che rappresenta il primo (mal riuscito) tentativo di recepimento della direttiva 2007/44/CE ed è stata seguita, poi, dal Provvedimento del Governatore della Banca d’Italia, del 21 maggio 2009, in cui si affermava la diretta applicabilità della normativa comunitaria, ma sul punto si rinvia, diffusamente, a Rotondo, La nuova disciplina, cit., p. 218 ss.

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3. L’autorizzazione all’acquisizione di partecipazioni. Dalla “scomparsa” della nozione di partecipazione rilevante all’avvento della “influenza notevole”. È confermata la regola generale per cui qualsivoglia tipologia di partecipazione che possa realizzare il controllo di una banca (o di una società capogruppo di gruppo bancario) deve essere autorizzata ove raggiunga un determinato limite quantitativo. L’art. 19 13, co. 1, individuava siffatta soglia nella c.d. “partecipazione rilevante”, qualificata attraverso il parametro del 5% del capitale con “diritto di voto”; nozione che era stata modificata dal d.lgs. n. 37/2004 (com’è noto, di coordinamento della disciplina del t.u.b. con la riforma societaria), essenzialmente per tener conto della possibilità di emettere, oltre alle azioni, strumenti finanziari partecipativi (ai sensi degli art. 2346, co. 6, e 2349, co. 2, c.c.) che non rappresentano parti del capitale sociale e non attribuiscono la qualità di socio, ma che consentono di esercitare un’influenza gestionale, talora anche di consistente spessore. Sulla disciplina degli assetti proprietari è poi intervenuto anche il (correttivo) d.lgs. n. 310/2004 per tener conto delle varie forme di controllo individuate dal codice civile, in particolare quelle di matrice contrattuale 14. Ora, invece, il d.lgs. n. 21/2010 [con l’art. 1, co. 1, lett. a)] ha “eliminato” la nozione di “partecipazione rilevante” disponendo la soppressione della lett. h-quinquies dell’art. 1, co. 2, t.u.b. e introducendo nella disciplina italiana le soglie previste dalla direttiva 2007/44/CE, a partire da quella “minima” che viene innalzata al 10%. Nonostante il venir meno del concetto di partecipazione rilevante, il permanere di criteri quantitativi assicura il mantenimento di margini di certezza nell’applicazione della disciplina (da parte delle autorità di vigilanza), ma certo non esclude l’obbligo di richiedere l’autorizzazione per acquisire la titolarità di rapporti partecipativi che prescindano dal possesso di una “parte” del capitale sociale della banca. Inoltre, l’obbli-

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L’art. 19 è stato sostituito dall’art. 9.5, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, inserito dall’art. 2, co. 1, d.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, per adeguare la disciplina del t.u.b. alla riforma del diritto societario. 14 Su questa disciplina consolidata è intervenuto il CICR con la delibera del 19 luglio 2005, n. 1057, recante “Disciplina delle partecipazioni e del controllo in banche e in altri intermediari nonché dei finanziamenti bancari a parti correlate”, in G.U. n. 188 del 13 agosto 2005; cfr. Antonucci, Diritto delle banche4, cit., p. 172.

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go autorizzativo va ritenuto attivabile al ricorrere di un «comportamento commissivo od omissivo imputabile al soggetto in conseguenza del quale egli acquisisce azioni o quote, ovvero il controllo di una banca» 15. Quanto al profilo definitorio, per “partecipazioni” si continuano a intendere «le azioni, le quote e gli altri strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi o comunque i diritti previsti dall’articolo 2351, ultimo comma del codice civile» (art. 1, co. 2, lett. h-quater, t.u.b.). Rientrano poi nel campo applicativo della norma anche i contratti e le clausole statutarie di cui all’art. 19, co. 8-bis. Permane, dunque, il riferimento alle azioni con diritto di voto che esclude la significatività a fini autorizzatori delle categorie di azioni prive ex lege di tale attribuzione (le azioni di risparmio, ad esempio), ma non di quelle che, per accordo delle parti, circolino separatamente dall’esercizio del voto. Tuttavia, anche su questo aspetto potrà incidere la necessaria modifica della disciplina secondaria, così come previsto, del resto, dalle nuove norme 16. La nozione di “partecipazione rilevante” si può ritenere sia stata, per alcuni versi, surrogata da quella di partecipazioni che «comportano il controllo o la possibilità di esercitare un’influenza notevole» (art. 19, co. 1, testo novellato). In sostanza, non tutte le partecipazioni sono significative, ai fini dell’applicazione della normativa, e non lo sono, soprattutto, nelle ipotesi in cui non causino il superamento della soglia del 10% o l’acquisto del controllo. È opportuno rammentare, comunque, che erano qualificate “rilevanti” «le partecipazioni che comportano il controllo della società e le partecipazioni individuate dalla Banca d’Italia in conformità alle deliberazioni del CICR, con riguardo alle diverse fattispecie disciplinate» (art. 1, co. 2 lett.

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Cfr. Patroni Griffi, Commento sub art. 19, cit., p. 291 s., il quale adduce a sostegno di questa tesi il fatto che le Istruzioni (Sez II, Par. 1, p. 4) escludono dall’obbligo di autorizzazione l’acquisizione di obbligazioni e di warrants; contra, Guaccero, La partecipazione del socio industriale nella società bancaria, Milano, 1997, p. 206 ss. 16 Va detto, peraltro, che il Provvedimento del Governatore del 21 maggio 2009 (cit.) fa riferimento alle modalità di calcolo delle soglie rilevanti, indicando i criteri previsti dalle norme comunitarie e le diverse ipotesi di esclusione dal computo dei diritti di voto, che si sostanziano nel non considerare le interessenze detenute temporaneamente, a fini di mera negoziazione e, comunque, quelle che non presentano una rilevante incidenza gestionale (in relazione ai criteri previsti dalla direttiva); cfr. art. 12 della direttiva 2006/48 e artt. 9, 10 e 12, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2004/109, sul punto si rinvia diffusamente al Provvedimento, All. 1, par. 2, p. 2 s.

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h-quinquies, t.u.b.) 17, tenendo conto dei diritti di voto e degli altri diritti che consentono di esercitare un’influenza gestionale sulla società 18; e il CICR 19 aveva individuato le “partecipazioni rilevanti” con riferimento sia alle azioni sia agli strumenti finanziari diversi da queste. È evidente, pertanto, come l’attuale nozione di partecipazione ricomprenda anche la pluralità di strumenti finanziari previsti dalla riforma societaria (azioni, quote, altri strumenti finanziari) che attribuiscono diritti amministrativi o, comunque, almeno il potere di nomina di un componente indipendente dell’organo amministrativo. Ovvio, altresì, che le fattispecie di controllo rilevanti ai fini dell’applicazione della disciplina continuino a trovare il proprio referente nell’art. 23 t.u.b. 20 che, del resto, non ha subito modifiche ad opera del d.lgs. n. 21/2010. La Banca d’Italia, infine, in relazione alla natura della partecipazione e al tipo di influenza esercitabile sulla gestione della società, dovrebbe conservare la facoltà di individuare, in via generale, o in relazione alla particolare struttura finanziaria della banca, ulteriori fattispecie di partecipazione, anche con riferimento ad azioni o strumenti finanziari che attribuiscono diritti diversi da quelli espressamente indicati dalla normativa del Capo III del t.u.b. 21.

17 Anche questa disposizione è stata introdotta dall’art. 9.1, co. 1, lett. a), del d.lgs. n. 6/2003, poi modificato dall’art. 2, co. 1, del d.lgs. n. 37/2004. 18 Cfr. Antonucci, Diritto delle banche3, cit., p. 170; Giorgianni, Tardivo, Diritto bancario. Banche, contratti e titoli bancari, Milano, 2006, p. 241; specificamente, sull’evoluzione del concetto di partecipazione, v. Ferro-Luzzi, Art. 9, co. 1 e 2, l. 281/95: prime considerazioni esegetiche, in Banca, borsa, tit. cred., 1986, I, p. 428. 19 Con la delibera n. 1057/2005, alla quale si deve ancora rinviare, allo Stato, per la definizione delle partecipazioni rilevanti e il calcolo delle stesse, anche con riferimento agli strumenti finanziari diversi dalle azioni; in argomento, v. Giorgianni, Tardivo, Diritto bancario, cit., p. 243 s. 20 In generale, la funzione di referente assolta dall’art. 23 t.u.b. per la qualificazione delle situazioni di controllo era stata già confermata anche dall’art. 7 della delibera CICR n. 1057/2005; sul punto, v. Patroni Griffi, Commento sub art. 19, cit., p. 297 s., il quale evidenziava come non si possa dubitare che la norma di cui all’art. 23 vada applicata per la qualificazione del controllo della società detentrice di una partecipazione rilevante, essendo necessaria anche in questo caso l’autorizzazione ai sensi dell’art. 19 co. 1. 21 Nel far questo, in base all’attuale disciplina secondaria, l’autorità di vigilanza deve prendere in considerazione i casi in cui il diritto di voto sia limitato ad una misura massima o sia scaglionato, eventuali diritti particolari connessi alle partecipazioni stesse, nonché gli effetti del possesso congiunto di azioni e strumenti finanziari ovvero di strumenti finanziari di differenti tipologie (art. 6, delibera n. 1057/2005); v. anche Giorgianni, Tardivo, Diritto bancario, cit., p. 244.

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4. Il procedimento autorizzativo all’acquisizione di partecipazioni nelle banche: le novità introdotte dal decreto n. 21/2010. Per quanto concerne il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione alla partecipazione, l’art. 19, co. 2, t.u.b. faceva ricorso ad un’ampia delegificazione rimettendo gran parte della disciplina di dettaglio alla Banca d’Italia. Anche in questo caso era intervenuto il CICR che, fissate le soglie del 15, 20, 33 e 50% per la reiterazione del vaglio autorizzativo, rimetteva alla Banca d’Italia la competenza a fissarne di ulteriori 22. Quest’ultima ha disposto, infatti, che sono tenuti a richiedere la preventiva autorizzazione i soggetti che intendono acquisire direttamente o indirettamente, a qualsiasi titolo, partecipazioni al capitale di banche e di capogruppo che, tenuto conto di quelle già possedute, diano luogo al superamento delle soglie del 5, 10, 15, 20, 33, 50% del capitale della banca 23. Il nuovo testo dell’art. 19, co. 2 24, fissa direttamente alcune soglie, al di là delle quali l’incremento partecipativo rende necessario il provvedimento di autorizzazione della Banca d’Italia, disciplinando per tale via quanto, nella previgente disciplina, era di competenza del CICR. Ora, la norma prevede che l’autorizzazione preventiva vada acquisita quando la quota dei diritti di voto o del capitale raggiunga o superi «il 20 per cento, 30 per cento o 50 per cento e, in ogni caso, quando le variazioni comportano il controllo sulla banca stessa». Va detto, peraltro, che la direttiva consente anche di mantenere la soglia del 33%, ove fosse già prevista dalle legislazioni nazionali. Non subisce modificazioni la norma che regola il controllo c.d. “a cascata”, di cui all’art. 19, co. 3, secondo la quale è necessaria l’autorizzazione non solo per l’assunzione del controllo della banca, ma anche della società che la controlla 25. Nel caso di discontinuità tra possesso ed esercizio del diritto di voto (ad esempio, nel caso di pegno di azioni), l’art. 19, co. 4, rimette alla Banca d’Italia il potere di individuare i soggetti tenuti a richiedere l’auto-

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Così dispone l’art. 4, della delibera n. 1057/2005. Cfr., in tal senso, Istruzioni, Sez. II, Par. 1, p. 4. 24 Introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. d), n. 2 del d.lgs. n. 21/2010. 25 In argomento, v. Antonucci, Diritto delle banche3, cit., p. 174 s.; e Costi, L’ordinamento bancario, Bologna, 2007, p. 329; mentre sui problemi di coordinamento tra questa norma e l’art. 23 t.u.b. nel previgente regime, con particolare riferimento alle partecipazioni inferiori alla soglia del 5%, v. Patroni Griffi, Commento sub art. 19, cit., p. 298. 23

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rizzazione, quando «il diritto di voto spetta o è attribuito ad un soggetto diverso dal socio», facendo specifico riferimento alle diverse ipotesi in cui la titolarità del diritto derivi dalla disciplina legale ovvero convenzionale 26. La norma è stata modificata dal d.lgs. n. 21/2010 [art. 1, co. 1, lett. d), n. 3] che ha eliminato il riferimento alla rilevanza della partecipazione e ha aggiunto il rinvio al co. 2 del medesimo art. 19 t.u.b. Sul punto, la normativa secondaria 27, attualmente in vigore, pur tenendo conto dell’attribuzione del diritto di voto, obbliga tutti i soggetti coinvolti a richiedere l’autorizzazione (il proprietario insieme al titolare dei diritti e al soggetto controllante), presumibilmente in ragione della problematicità delle situazioni che possono consentire temporaneamente l’esercizio del diritto di voto a un soggetto diverso da quello che detiene la partecipazione. Sopravvive, invece, alle cessate competenze della Banca d’Italia in materia di concorrenza, la disposizione secondo cui un’operazione di concentrazione, rilevante ai sensi della legge n. 287/1990, è oggetto di una specifica e separata comunicazione preventiva alla Banca d’Italia. Il d.lgs. n. 21/2010 (art. 3), infatti, è intervenuto specificando che il termine di 60 giorni previsto per l’adozione dei provvedimenti di competenza della Banca d’Italia e dell’Autorità garante della concorrenza, per quanto di rispettiva competenza in riferimento a concentrazioni bancarie, deve riferirsi a “60 giorni lavorativi”. Mettendo da parte la scarsa rilevanza applicativa di una simile disposizione, va notato, piuttosto, come la bozza di decreto circolante prima dell’approvazione (quella della Presidenza del Consiglio, datata 22 ottobre 2009) sancisse, al medesimo art. 3, la (decisamente più opportuna) abrogazione del co. 5 dell’art. 20 della legge n. 287, eliminando così questa anomala forma di “coordinamento” tra procedure del tutto distinte 28. Per altro verso, si poteva certamente approfittare della circostanza, per introdurre il parere della Banca d’Italia all’Autorità garante della concorrenza, così come previsto per l’ISVAP circa le istruttorie concernenti il settore assicurativo; ma ciò non è avvenuto, sprecando un’occasione per conferire maggiore coerenza sistemica all’applicazione delle norme

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Cfr. Antonucci, Diritto delle banche3, cit., p. 173. Cfr. Istruzioni di Vigilanza, sez. IV, p. 16, e anche la delibera del CICR n. 1057/2005. 28 Per alcune considerazioni critiche sulla competenza congiunta (Banca d’Italia – Autorità garante della concorrenza) in materia di concentrazioni bancarie, introdotta dalla legge sulla tutela del risparmio ed eliminata dal d.lgs. n. 303/2006, e sull’attuale sistema di rapporti tra le due autorità v. Antonucci, Diritto delle banche4, cit., p. 175. 27

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antitrust nel settore finanziario. Resta, comunque, la “sensazione” che il modello di enforcement della disciplina sulla concorrenza nei confronti delle banche sia caratterizzato più da una “cogestione” tra le due autorità che da una autonoma ed esclusiva determinazione da parte dell’Autorità garante della concorrenza. Ma non è questa la sede per approfondire tale aspetto. 4.1. Segue. La valutazione della domanda di autorizzazione. Alla fase di presentazione dell’istanza segue la procedura di valutazione delle richieste di autorizzazione, i cui criteri sono fissati nell’art. 19, co. 5. È questo uno dei profili su cui ha inciso in misura più accentuata la novella al Capo III del t.u.b., delimitando in maniera abbastanza minuziosa l’ambito discrezionale dell’autorità di vigilanza nella fase autorizzativa. Il previgente testo del co. 5 si “limitava” a disporre che la Banca d’Italia concede l’autorizzazione ove ricorrano condizioni atte a garantire la gestione sana e prudente della banca 29. È ampiamente noto che, nella legge italiana, quest’ultimo parametro assume una portata più ampia di quella tradizionalmente delineata dall’ordinamento comunitario – dove la sana e prudente gestione è legata precipuamente al vaglio della qualità personale dei soci – estendendosi al più generale ambito tracciato dall’art. 5 del t.u.b. Circostanza che andava a confermare il carattere complesso e, talora, disorganico della precedente disciplina 30, nel momento in cui elevava a principio generale la sana e prudente gestione, realizzando però una (giuridicamente poco fondata) espansione del potere di normazione secondaria, in difetto di una chiara determinazione di criteri direttivi e parametri di riferimento 31. Si perveniva, dunque, in via interpretativa e attraverso la normativa secondaria, alla conclusione che, nel vaglio delle istanze di partecipazione, la Banca d’Italia dovesse valutare la qualità dei soggetti richiedenti

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Sul punto v., specificamente, Istruzioni, Sez. II, Par. 5.2., p. 10. Carattere messo in evidenza anche da Porzio, Le imprese bancarie, Torino, 2007, p. 149 s. 31 Così, Patroni Griffi, Commento sub art. 19, cit., p. 291 s.; Antonucci, Diritto delle banche3, cit., p. 175 s.; sul punto v. anche Appio, Il nuovo procedimento di autorizzazione per la partecipazione al capitale delle banche fra legge e normazione secondaria, in Giur. comm., 1995, I, p. 785; e Guaccero, La partecipazione, cit., p. 254. 30

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avendo riguardo alla trasparenza degli assetti proprietari e di governo di tali soggetti e dell’eventuale gruppo di appartenenza, all’affidabilità e alla solidità della loro situazione finanziaria, alla correttezza dei comportamenti nelle relazioni di affari 32. Con il nuovo testo del co. 5 dell’art. 19 33 la situazione muta radicalmente ed è adesso direttamente la norma del t.u.b. a tracciare le linee guida su cui deve informarsi l’azione dell’autorità di vigilanza nel valutare l’istanza di acquisizione di una partecipazione. Rimasto immutato il riferimento al rispetto della sana e prudente gestione, quale presupposto per il rilascio dell’autorizzazione, la norma dispone, come si è accennato, che la Banca d’Italia deve valutare la qualità del potenziale acquirente e la solidità finanziaria del progetto di acquisizione in base a specifici criteri: la reputazione del potenziale acquirente, ivi compresi i requisiti di onorabilità; il possesso dei requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza dei futuri esponenti aziendali della banca; la solidità finanziaria del potenziale acquirente; la capacità della banca di rispettare, a seguito dell’acquisizione, le disposizioni che ne regolano l’attività; l’idoneità della struttura del gruppo del potenziale acquirente a consentire l’esercizio efficace della vigilanza 34. Certamente apprezzabile è la oggettivizzazione del riferimento alla sana e prudente gestione che viene realizzata attraverso la (richiamata) elencazione dei criteri da tenere in esclusiva considerazione nel valutare l’aspirante socio. In precedenza, il generico richiamo di questo criterio – evidentemente un parametro “contenitore” dal ridotto livello di specificazione – rischiava di attribuire alle autorità di vigilanza margini di potere discrezionale che potevano sfociare (e in Italia è accaduto) in condotte arbitrarie di condizionamento delle dinamiche di mercato 35.

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La qualità dei richiedenti doveva essere valutata in relazione all’assetto di governo e alla situazione economico-patrimoniale della banca interessata, nonché alla natura dei rapporti che tali soggetti potevano porre in essere con la medesima, cfr. Istruzioni, Sez. II, Par. 5.2.1., p. 10 s. 33 Introdotto dall’art. 1, co. 1, lett. d), n. 4, d.lgs. n. 21/2010. 34 In precedenza, i richiedenti dovevano comprovare il possesso dei requisiti di onorabilità e fornire informazioni secondo le modalità indicate dalla Banca d’Italia. All’uopo, l’organo di vigilanza considerava i legami di qualsiasi natura, inclusi quelli familiari e associativi, tra il richiedente e altri soggetti, anche non soci, e valutava «ogni altro elemento idoneo a incidere sulla sana e prudente gestione della banca nonché sull’esercizio di una efficace azione di vigilanza», così gli artt. 9-11, della delibera n. 1057/2005. 35 Sul punto si v. le considerazioni di Benocci, Commento sub art. 19, in Commentario al testo unico bancario, Torino, 2010, p. 200 ss.

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Tuttavia, e ancora una volta, è necessario rimandare alla futura disciplina secondaria per verificare il grado “effettivo” di uniformità della normativa italiana alle istanze di armonizzazione (massima) recate dalla direttiva. L’art. 19, co. 5, t.u.b., dispone poi che l’autorizzazione non possa essere rilasciata in caso di fondato sospetto che l’operazione sia collegata a finalità di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Da ultimo, il nuovo co. 5 prevede che l’autorizzazione possa essere sospesa o revocata qualora emergano circostanze in presenza delle quali l’acquisizione, a prescindere dalla sua conclusione, sia pregiudizievole per la banca sotto il profilo gestionale 36. Anche in questo caso, l’intervento del d.lgs. n. 21/2010 sembra porsi in chiave delimitativa dei margini di discrezionalità dell’autorità di vigilanza, poiché ha integrato la precedente formulazione con l’aggiunta del riferimento al venir meno o alla modificazione dei presupposti e delle condizioni per il rilascio dell’autorizzazione. In ogni caso, la norma italiana rimarca come il “filtro” della “sana e prudente gestione” non si esaurisca al momento della concessione dell’autorizzazione, ma un potere di intervento – da conciliare però con il più ristretto ambito discrezionale concesso dalla nuova disciplina comunitaria – permanga anche durante societate in capo all’autorità di vigilanza che può ritenere una determinata acquisizione, con il decorrere del tempo, non più conforme ai parametri di riferimento della disciplina.

5. Le partecipazioni dei soggetti non bancari né finanziari e il “declino” del principio di separatezza. Come è noto, la regolamentazione dei rapporti fra imprese non finanziarie e banche costituiva uno dei tratti caratterizzanti l’ordinamento finanziario, nonché l’intero sistema economico italiano. Motivo per cui i co. 6 e 7 dell’art. 19 disciplinavano l’acquisizione da parte di imprese non finanziarie di partecipazioni al capitale di banche, sancendo in via legislativa il principio di “separatezza” fra industria e banca 37. La finalità di quella disciplina, oltre a prevenire commistioni soggettive, era di

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Cfr. Antonucci, Diritto delle banche3, cit., p. 192. V. supra, § 1; mentre per una disamina recente del principio di separatezza tra banca e industria (“a valle” e “a monte”), anche con alcuni spunti comparatistici, v. Benocci, Fenomenologia e regolamentazione del rapporto banca-industria. Dalla separazione dei soggetti alla separazione dei ruoli, Pisa, 2007. 37

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consentire alle banche di svolgere appieno la funzione di valutazione del merito di credito dei soggetti finanziati, sempre perseguendo una gestione “sana e prudente” della banca stessa 38. Va detto, tuttavia, che in materia di controllo degli assetti proprietari delle banche l’ordinamento comunitario non prevedeva alcun limite partecipativo incentrato sulla natura dell’aspirante socio bancario 39, motivo per cui la disciplina italiana – connotata, appunto, dal rigido principio di “separatezza” – si presentava più restrittiva rispetto alle previsioni della seconda direttiva di coordinamento in materia bancaria (646/89/CEE), la quale mirava ad una armonizzazione “minima”, lasciando però ampio spazio discrezionale alle normative nazionali in fase di valutazione dell’accesso alla proprietà bancaria. Nel frattempo, il problema sempre più pressante della contendibilità delle banche, con riferimento, in particolare, ad alcune vicende di fusione transfrontaliera, aveva indotto gli organismi comunitari a fissare con maggiore rigore i criteri di acquisizione delle partecipazioni negli intermediari finanziari, avviando così un percorso che si è concluso con l’emanazione della direttiva 2007/44/CE. In quest’ultima si opta per il criterio dell’armonizzazione massima, ossia si fissano un numero chiuso di condizioni omogenee che devono essere tutte applicate nei diversi ordinamenti degli Stati membri, con riferimento sia alle operazioni nazionali che a quelle transfrontaliere 40. In tal modo, quello che in passato era solo un “orientamento” di neutralità verso la natura dei futuri soci delle banche, con la direttiva 2007/44/CE diviene un obiettivo, imposto a tutti gli Stati membri, finalizzato ad eliminare le differenze esistenti in materia tra le varie legislazioni domestiche.

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Finalità comune, peraltro, a quella, pur diversa, relativa alla partecipazione delle banche nelle imprese industriali; inoltre, evidenziava l’autonomia del criterio della sana e prudente gestione rispetto a quello della separatezza fra banca e industria (distinzione, ora, più che evidente), Manzone, Commento sub art. 19, in La nuova legge bancaria, a cura di Ferro-Luzzi e Castaldi, Milano, 1996, I, p. 348; in argomento v., diffusamente, Patroni Griffi, Commento sub art. 19, cit., p. 301 s.; e Campobasso, Le partecipazioni al capitale delle banche, in Banca, borsa, tit. cred., 1994, I, p. 300. 39 Sul punto v. Campobasso, Le partecipazioni, cit., p. 302 ss.; Patroni Griffi, Commento sub art. 19, cit., p. 302 ss. 40 V. l’art. 19-bis, par. 1, della direttiva n. 2007/44/CE; ne consegue che il ruolo delle autorità di controllo viene “limitato” al compito di “effettuare la valutazione prudenziale nel contesto di una procedura chiara e trasparente e sulla base di un numero limitato di criteri di valutazione chiaramente definiti di natura rigorosamente prudenziale”, così il Considerando 3, dir. 2007/44); cfr. Antonucci, Diritto delle banche4, cit., p. 172 s.

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La direttiva, in primo luogo, ha reciso ogni collegamento tra disciplina delle partecipazioni nelle banche e criteri di qualificazione soggettiva dell’aspirante socio, rendendo così, di fatto, illegittimo il tetto del 15%, imposto dal t.u.b., all’acquisizione della proprietà bancaria da parte di imprese industriali. Sulla base di questi presupposti, il legislatore (con l’art. 14 della citata legge n. 2/2009) aveva già provveduto ad abrogare i co. 6 e 7 dell’art. 19 che, come è ampiamente noto, regolavano la separatezza industria-banca (co. 6) e gli accordi (in qualsiasi forma conclusi) che davano ai soggetti non finanziari la possibilità di esercitare una notevole influenza gestionale. Successivamente, il d.lgs. n. 21/2010 nel dare “corretto” recepimento alla direttiva – estendendo cioè la nuova disciplina delle partecipazioni anche a s.i.m. e imprese di assicurazione – ha confermato le modifiche apportate al t.u.b. dalla legge citata 41. Ancora, va ricordato che la disciplina delle partecipazioni nelle banche si applica anche alle ipotesi di acquisizione (diretta o indiretta) del controllo derivante da un contratto o da una clausola statutaria, ai sensi dell’art. 19, co. 8-bis 42. Disposizione che è stata modificata dall’art. 14 della legge n. 2/2009 (intervento poi confermato dall’art. 5 del d.lgs. n 21/2010) con l’eliminazione del riferimento al co. 6 dell’art. 19 e, quindi, all’applicabilità nel caso di specie del divieto di partecipazione non finanziaria eccedente il 15% del capitale della banca o di controllo.

6. Gli obblighi di comunicazione delle partecipazioni nelle banche dopo il decreto di recepimento della direttiva 2007/44/CE. La disciplina della fase autorizzativa è implementata da una serie di disposizioni dirette a perseguire la trasparenza 43 della compagine societaria delle banche e dei soggetti che le controllano, regole che, integran-

41

In chiave critica, su questa prima attuazione frettolosa e parziale, v. anche Antonucci, Diritto delle banche4, cit., p. 173 s., la quale evidenzia, altresì, come la “fretta” del legislatore abbia avuto, forse, motivazioni riconducibili a vicende di natura più strettamente “politica” (consentire l’incombente acquisizione di Interbanca da parte di General Electric). 42 Questo comma è stato inserito dall’art. 39 del d.lgs. 28 dicembre 2004, n. 310. 43 Sulla connotazione che assume il termine “trasparenza” nell’ambito della disciplina degli assetti proprietari delle banche v. Motti, Commento sub art. 20, in Testo Unico, cit., I, p. 309 s.; Campobasso, Le partecipazioni, cit., p. 285 ss.

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do l’esercizio della funzione di vigilanza, trovano applicazione cumulativa rispetto alle altre norme dirette a monitorare gli assetti proprietari. In tal senso, l’art. 20 t.u.b. è chiaramente in rapporto di strumentalità e in collegamento funzionale con la disciplina relativa alle autorizzazioni 44. L’obbligo di comunicare le partecipazioni rilevanti consente alla banca di conoscere – meglio di quanto sia realizzabile in base al diritto comune – la propria composizione societaria e alla Banca d’Italia di identificare i titolari delle partecipazioni significative, entrando in possesso di un’adeguata “mappatura” della proprietà bancaria e, soprattutto, dei reali assetti di potere all’interno della struttura societaria 45. L’identificazione dei soci rilevanti tende non soltanto ad evitare che l’attività delle banche possa essere indebitamente influenzata da interessi esogeni alla gestione bancaria, ma mira più in generale a garantire un flusso informativo alla Banca d’Italia utile, come si è detto, per un più efficace espletamento delle funzioni di vigilanza. In quest’ottica, l’art. 20, co. 1 46, rimette alla Banca d’Italia la regolamentazione, a fini informativi, degli «(…) obblighi di comunicazione in ordine a operazioni di acquisto o cessione di partecipazioni in banche». La precedente formulazione della norma obbligava chiunque fosse titolare di una partecipazione rilevante al capitale in una banca di darne comunicazione alla Banca d’Italia e alla banca partecipata, mentre le successive variazioni della partecipazione andavano comunicate ove superassero la misura stabilita dalla stessa Banca d’Italia. La novella, dunque, aumenta il grado di amministrativizzazione di questa “porzione” di disciplina delle partecipazioni rimettendo integralmente all’autorità di vigilanza la regolamentazione degli obblighi di disclosure degli assetti proprietari delle banche, con la conseguenza di riattribuire ad essa un ampio margine discrezionale, soprattutto nella determinazione della sfera soggettiva di applicazione della normativa 47.

44

Così, Marchetti, Banche, intermediari finanziari e partecipazioni, in Diritto della banca e del mercato finanziario, Bologna, 2000, p. 158; Motti, Commento sub art. 20, cit., p. 310; Nastasi, Commento sub art. 20, in Commentario al Testo Unico, cit., p. 169 s. 45 Sul punto, v. Costi, L’ordinamento, cit., p. 535; Nastasi, Commento sub art. 20, cit. p. 170. 46 Disposizione sostituita dall’art. 9.6, co. 1, lett. a) del d.lgs. n. 6/2003, inserito dall’art. 2, co. 1, del d.lgs. n. 37/2004; da ultimo, modificata dall’art. 1, co. 1, lett. e), n. 1, del d.lgs. n. 21/2010. 47 Il precedente co. 1 individuava nella maniera più ampia possibile il novero dei soggetti tenuti all’osservanza dell’obbligo delimitando, così, il suddetto ambito discrezionale, sul

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Un ampliamento dell’incidenza discrezionale dell’attività di vigilanza si rinviene anche in punto di definizione dell’ambito oggettivo di applicazione della norma sugli obblighi di comunicazione. Difatti, il previgente co. 1 dell’art. 20 richiedeva che venisse comunicata la titolarità di “partecipazioni rilevanti” e, poi, che le eventuali variazioni dovessero essere comunicate quando superavano «la misura stabilita dalla Banca d’Italia», delimitando cioè già a livello di norma primaria l’oggetto degli obblighi di comunicazione. La norma novellata dispone, invece, che le operazioni di acquisto o di cessione di partecipazioni bancarie devono essere semplicemente comunicate secondo quanto stabilito dalla Banca d’Italia. In sostanza, viene così attribuito all’autorità di controllo un potere regolatorio di carattere generale – relativo all’individuazione delle partecipazioni soggette agli obblighi in questione – posto che la definizione legislativa della nozione di “partecipazione rilevante” (ex art. 1, co. 2, lett. h-quinquies) è venuta meno, come detto, a seguito dell’abrogazione da parte del d.lgs. n. 21/2010 48. L’obbligo di comunicazione non concerne soltanto l’acquisto di una partecipazione “influente” e le sue variazioni, ma si estende anche agli accordi fra soci che determinano o possono determinare effetti coincidenti, di fatto, con quelli derivanti dalla detenzione di un’interessenza. Talché, l’art. 20, co. 2, stabilisce che deve essere comunicato alla Banca d’Italia 49 ogni accordo che realizzi l’esercizio concertato del voto in una banca o in una società che la controlla. Il d.lgs. n. 21/2010 [art. 1, co. 1, lett. e), n. 2] ha espunto il riferimento al termine entro il quale i partecipanti o legali rappresentanti della banca o della società dovevano comunicare l’accordo alla Banca d’Italia (il termine era di cinque giorni dalla stipulazione oppure, se l’accordo non era concluso in forma scritta, dal momento dell’accerta-

punto v. Nastasi, Commento sub art. 20, in Commentario al Testo Unico, cit., p. 171; da ultimo, v. Benocci, Commento sub art. 19, in Commentario al testo unico bancario, cit., p. 211. 48 In tal senso, v. anche Benocci, Commento sub art. 19, in Commentario al testo unico bancario, cit., p. 212. 49 La comunicazione va presentata alla Filiale della Banca d’Italia della Provincia ove ha sede legale la banca cui si riferisce l’accordo di voto. Nel caso in cui la sede legale non coesista con la direzione generale, la comunicazione va presentata alla Filiale ove è insediata quest’ultima. La comunicazione va presentata, altresì, alla Banca d’Italia a Roma, Servizio Concorrenza, Normativa e Affari Generali.

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mento della sua esistenza) 50. In sostanza, l’obbligo di comunicazione sembrerebbe ora esteso a tutta la fase funzionale della banca. Si tratta di un’ulteriore fattispecie in cui la disciplina comunitaria sembra porre l’accento sui profili dinamici della gestione bancaria, ma anche su questo aspetto qualche lume ulteriore sulla “lettura” che ne verrà data in ambito interno potrà essere fornito solo dalla prossima disciplina di vigilanza. L’art. 20, co. 2, inoltre, contiene una nozione di “accordi di voto” ben più ampia di quella (utilizzata in passato) di “sindacati di voto”, ma non incidente ai fini della definizione del rapporto di controllo. Nozione che acquisisce, invece, un rilievo decisamente maggiore in chiave di determinazione della concentrazione di potere di tutti i soci bancari – ora anche non finanziari – proprio perché è venuta meno, con il d.lgs. n. 21/2010, la omologa disposizione prevista dall’abrogato co. 7 dell’art. 19 t.u.b. 51. D’altro canto, oggetto di regolamentazione non è tout court il vincolo al diritto di voto, quanto la metodologia di formazione della volontà del socio, fattispecie che si connota per la esteriorizzazione di una situazione che, solitamente, avrebbe mero rilievo endosocietario 52. L’obbligo di comunicazione riguarda, pertanto, tutti gli accordi che abbiano come oggetto o effetto la concertazione del voto, a prescindere dalla idoneità ad assicurare ai partecipanti all’accordo un’influenza notevole sulla società 53. Per quanto concerne i profili procedurali, l’art. 20, co. 3 (secondo uno schema tipico del t.u.b.) delegifica in larga misura la disciplina (v. già la delibera CICR n. 1057/2005). La norma, nella versione novellata, rimette alla Banca d’Italia la determinazione di presupposti, modalità e termini delle comunicazioni di cui ai co. 1 e 2, anche con riguardo alle ipotesi in cui il diritto di voto spetta o è attribuito a soggetto diverso dal titolare

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In particolare, il riferimento a fenomeni associativi che assumono la connotazione di accordi di voto può imporre trasparenza soprattutto nell’ambito delle banche popolari, ove i sindacati dei soci dipendenti detengono spesso un potere di determinazione della composizione degli organi amministrativi e delle relative scelte gestionali, così Costi, L’ordinamento bancario, cit., p. 538. 51 In senso opposto, ma ovviamente nella vigenza del co. 7, Motti, Commento sub art. 20, cit., p. 317 s. 52 Cfr. Motti, Commento sub art. 20, cit., p. 318 s. 53 In argomento, v. Marchetti, Banche, cit., p. 159 s.; Patroni Griffi, Commento sub artt. 27 ss., in Diritto italiano antitrust, a cura di Frignani, Pardolesi, Patroni Griffi, Ubertazzi, Bologna, 1993, II, p. 1249.

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della partecipazione 54. Il riferimento ai termini, infatti, è stato aggiunto dal d.lgs. n. 21/2010 [art. 1, co. 1, lett. e), n. 3], anche perché è stato eliminato dallo stesso decreto il termine per la comunicazione degli accordi, in precedenza previsto dal co. 2 del medesimo art. 20. È rimasto invariato, infine, il potere della Banca d’Italia di richiedere informazioni ai soggetti “comunque interessati”, finalizzato a rendere effettivo il regime di trasparenza degli assetti proprietari delle banche e delle società che le controllano. Analogamente immutato è l’articolo 21 del t.u.b. 55 che completa la disciplina dei flussi comunicativi verso l’autorità di vigilanza con l’obiettivo di assicurare una adeguata trasparenza degli assetti proprietari delle banche 56.

7. Le partecipazioni indirette e gli acquisti di concerto. Sempre nell’ottica di assicurare il più elevato grado di trasparenza della proprietà bancaria, ponendo attenzione a ogni situazione suscettibile di produrre una significativa influenza sull’assetto gestionale della banca partecipata 57, il t.u.b. predispone una serie di strumenti, tra i quali si può annoverare anche la previsione dell’art. 22 58. Secondo que-

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In questo caso la parola “socio” è stata sostituita con l’inciso “titolare della partecipazione” dall’art. 9.6, co. 1, lett. c), del d.lgs. n. 6/2003, inserito dall’art. 2, co. 1, del d.lgs. n. 37/2004; v. anche Antonucci, Diritto delle banche3, cit., p. 183. 55 L’art. 21 è stato integralmente sostituito dall’art. 9.7, del d.lgs. n. 6/2003, inserito dall’art. 2, co. 1, del d.lgs. n. 37/2004; v., altresì, l’art. 22, della l. 28 dicembre 2005, n. 262. 56 Tali norme si pongono in linea di continuità con la legge bancaria del ’36 e, persino, con principi più risalenti, poiché già negli anni ’20 del ’900 erano state introdotte disposizioni volte a rendere obbligatoria la nominatività dei titoli azionari delle banche. Non è un caso, infatti, che la legge n. 281/1985 sia stata emanata dopo che le vicende del Banco Ambrosiano avevano confermato l’inutilità di perseguire la trasparenza degli assetti proprietari delle banche mediante la mera nominatività obbligatoria dei titoli; sul punto, Tidu, Commento sub art. 21, cit., p. 175; e più diffusamente, Lamanda, L’evoluzione della disciplina del controllo sul sistema creditizio dalla legge bancaria ad oggi, in Quaderni di ricerca giuridica della Banca d’Italia, Roma, 1986, p. 27 ss. 57 Nella previgente disciplina, emergeva anche in questa fattispecie, ancora una volta, la preoccupazione di garantire la separatezza tra banca e impresa non finanziaria, come si evinceva chiaramente dal combinato disposto dell’art. 22 e dell’art. 19, co. 6; cfr. Chiappetta, Commento sub art. 22, in Commentario al Testo Unico, cit., p. 181. 58 Il testo vigente della norma in esame è stato introdotto dall’art. 9.8, del d.lgs. n. 6/2003, inserito dall’art. 2, co. 1, del d.lgs. n. 37/2004.

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sta norma, per determinare l’ammontare complessivo dell’interessenza detenuta si considerano “partecipazioni” anche quelle “indirette”, cioè quelle «(…) acquisite o comunque possedute per il tramite di società controllate, di società fiduciarie o per interposta persona» 59. Il d.lgs. n. 21/2010 [art. 1, co. 1, lett. f), n. 1] è intervenuto sulla disposizione modificandone la rubrica (con l’aggiunta del riferimento agli “acquisti di concerto”) e aggiungendo il co. 1-bis, concernente gli accordi attraverso i quali si possono esercitare in modo concertato i relativi diritti [art. 1, co. 1, lett. f), n. 2], modifica che ha contribuito ad ampliare sensibilmente la valenza sistematica dell’art. 22. La nuova norma dispone che, ai fini dell’applicazione dei Capi III e IV del t.u.b. (quindi, non più delle sole norme sugli assetti proprietari), devono prendersi in considerazione anche gli acquisti di partecipazioni da parte di più soggetti «che, in base ad accordi in qualsiasi forma conclusi, intendono esercitare in modo concertato i relativi diritti, quando tali partecipazioni, cumulativamente considerate, raggiungono o superano le soglie indicate nell’articolo 19». In tal modo, si amplia ulteriormente lo strumentario diretto a perseguire la trasparenza degli assetti proprietari delle banche, anche ricomprendendo le fattispecie negoziali di esercizio di influenza gestionale e operativa 60.

8. Le sanzioni per l’inosservanza degli obblighi autorizzativi e di comunicazione. La disciplina delle partecipazioni nelle banche è implementata, altresì, da un apparato sanzionatorio, articolato sul piano civile (con l’art. 24) 61,

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È stata riunificata in un’unica norma una previsione che sia nella legge n. 281/1985, sia nella legge n. 287/1990, sia infine nel d.lgs. n. 481/1992 era ripetuta più volte a scapito della linearità redazionale; sul punto, v. Antonucci, Diritto delle banche3, cit., p. 171; Chiappetta, op. cit., p. 180 s.; in tal senso, v. anche la Relazione illustrativa al t.u.b. 60 Circa il collegamento tra la fattispecie introdotta dalla novella e le situazioni di controllo “non solitarie”, v. Lamandini, Commento sub artt. 22-23, in Commentario al testo unico bancario, cit., p. 231 s., il quale afferma che il controllo congiunto è la fattispecie più rilevante, dal punto di vista funzionale, tra quelle ricomprese dalla nuova norma e che essa ricorre allorché più soggetti acquistino partecipazioni che, cumulativamente considerate (alla luce di tutte le circostanze concrete), attribuiscono un’influenza dominante congiunta sulla banca. 61 L’art. 24 è stato sostituito dall’art. 9, co. 10, del d.lgs. n. 6/2003, inserito dall’art. 2, co. 1, del d.lgs. n. 37/2004; la rubrica del medesimo è stata poi sostituita dall’art. 41, co. 1, lett. a), del d.lgs. n. 310/2004.

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amministrativo e penale (artt. 139 e 140) 62. Nel complesso, si tratta di un sistema nel quale vengono “congelati” i diritti di voto delle partecipazioni detenibili, ma prive di autorizzazione (in quanto sospesa o revocata), e di quelle per cui sono stati omessi gli obblighi di comunicazione ex art. 20 (cfr. art. 24, co. 1 e 2); mentre per le partecipazioni non detenibili né autorizzabili vi è l’obbligo di alienazione (co. 3). Il d.lgs. n. 21/2010 è intervenuto specificamente su quest’ultimo aspetto [art. 1, co. 1, lett. g)]; il co. 3 dell’art. 24 t.u.b. è stato modificato, infatti, eliminando ogni riferimento al co. 6 dell’art. 19 t.u.b. e confermando, quindi, che l’obbligo di alienazione si estende a tutti casi di mancanza o revoca delle previste autorizzazioni (come aveva già stabilito il d.lgs. n. 37/2004, modificando il medesimo art. 24, co. 3). In precedenza, tale obbligo era previsto solo per le partecipazioni non detenibili, ossia quelle industriali eccedenti la soglia del 15% o di controllo. Rinvenendo nel principio di separatezza tra banca e industria un’esigenza di particolare tutela, per le sole partecipazioni industriali la disciplina prevedeva l’ipotesi di vendita coattiva disposta dal Tribunale, su richiesta della Banca d’Italia (la quale era, dunque, “tenuta” ad attivarsi), nel caso di inosservanza dell’obbligo di alienazione disposto da quest’ultima 63; fattispecie ora rimossa dalla novella all’art. 24, co. 3, apportata dal d.lgs. n. 21/2010. Quanto all’esatta individuazione della partecipazione da alienare, la disciplina si basava su un riscontro quantitativo tendenzialmente definito: dovevano essere alienate le azioni eccedenti la misura del 15% del capitale, da calcolare tenendo conto delle eventuali situazioni di dissociazione tra titolarità e diritto di voto 64. D’altra parte, l’esperienza ha evidenziato che, da sola, la sospensione del diritto di voto può risultare inadeguata ad impedire tutti gli abusi cui può dar luogo l’acquisto di partecipazioni nelle banche senza la necessaria autorizzazione, potendo il titolare dell’interessenza esercitare gli altri diritti spettanti al socio (all’utile, di opposizione ecc.) 65 o, co-

62

Anche gli artt. 139 e 140 sono stati modificati dal citato d.lgs. n. 37/2004, sul punto, Giorgianni, Tardivo, Diritto bancario, cit., p. 249 s. 63 In argomento, v. diffusamente Santoni, sub art. 24, in Commentario al testo unico, cit., p. 201 s.; e Costi, L’ordinamento, cit., p. 336. 64 Cfr. Antonucci, Diritto delle banche3, cit., p. 186; in senso conforme, Manzone, Commento sub art. 24, cit., p. 379. 65 Cfr. Santoni, Commento sub art. 24, cit., p. 201; propende per l’applicabilità della sanzione nel caso in cui il controllo non derivi dalla misura della partecipazione, ma da

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munque, altre forme di ingerenza gestionale. Motivo per cui il co. 3 va a completare l’impianto sanzionatorio, prevedendo l’obbligo di alienare tutte le partecipazioni per le quali non siano state ottenute o siano state revocate le autorizzazioni di cui all’art. 19. Come nel precedente regime sanzionatorio, spetta alla Banca d’Italia definire termini e modalità per l’adempimento di siffatto obbligo.

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vincolo contrattuale, Antonucci, Diritto delle banche3, cit., p. 201; v. anche id., Commento sub art. 24, cit., p. 344.

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Norme redazionali

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …

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Norme redazionali

4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile codice di commercio Costituzione codice di procedura civile codice penale codice di procedura penale decreto decreto legislativo decreto legge decreto legge luogotenenziale decreto ministeriale decreto del Presidente della Repubblica disposizioni sulla legge in generale disposizioni di attuazione disposizioni transitorie legge fallimentare

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c.c. c.comm. Cost. c.p.c. c.p. c.p.p. d. d.lgs. d.l. d.l. luog. d.m. d.P.R. d.prel. disp.att. disp.trans. l.fall.


Norme redazionali

legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)

l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.

2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale Corte di Cassazione Sezioni unite Consiglio di Stato Corte d’Appello Tribunale Tribunale amministrativo regionale

C. Cost. Cass. S. U. Cons. St. App. Trib. TAR

3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.

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Dir. ind. Dir. inform. Econ. e cred. Enc. dir. Enc. giur. Europa e dir. priv. Foro it. Foro nap. Foro pad. Giur. comm. Giur. cost. Giur. it. Giur. merito Giust. civ. Il fallimento Jus Le società Notariato Noviss. Dig. it. Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civ. Quadr. Rass. dir. civ. Rass. dir. pubbl. Riv. banc. Riv. crit. dir. priv. Riv. dott. comm. Riv. not. Riv. coop. Riv. dir. civ. Riv. dir. comm. Riv. dir. internaz. Riv. dir. priv. Riv. dir. proc. Riv. dir. pubbl. Riv. it. leasing Riv. soc. Riv. giur. sarda Riv. trim. dir. proc. civ. Vita not.


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4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze e, successivamente, gli estratti.

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Finito di stampare nel mese di Luglio 2010 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa Telefono 050 313011 • Telefax 050 3130300 www.pacinieditore.it


Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria Cedola di sottoscrizione q Abbonamento 2010 (4 fascicoli): € 105,00 Il prezzo dei singoli fascicoli è di € 30,00 Modalità di Pagamento q assegno bancario (non trasferibile) intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA q versamento su conto corrente postale n. 10370567 intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) q bonifico bancario sul c.c. n. IBAN IT 67 W 01030 14010 000000561171 Banca Monte dei Paschi di Siena (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) q a ricevimento fattura (secondo modalità indicate in fattura) (opzione valida solo per librerie, commissionarie librarie, case editrici e istituti/enti) q carta di credito q MasterCard q VISA Carta n. ...................... Data di scadenza ....................... Nome, Cognome o Ragione Sociale: ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... P. Iva (se in possesso) e C. Fiscale (obbligatorio per tutti): ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Indirizzo ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Firma.................................................................

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