Saggi
ISSN 1722-8360
di particolare interesse in questo fascicolo Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009
Diritto della banca e del mercato finanziario
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Diritto della banca e del mercato finanziario
• Costituzione economica e mercati finanziari • Anatocismo bancario • Credit default swap • L’attuazione della direttiva sulla prestazione di servizi di pagamento
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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è coordinato dal prof. Vittorio Santoro. Nell’anno 2015, hanno fornito le loro valutazioni ai fini della pubblicazione i prof. Laura Ammannati, Marta Bozina, Mario P. Chiti, Aldo A. Dolmetta, Paolo Giudici, Emanuele Lucchini Guastalla, Marco Miletti, Cinzia Motti, Stefano Pagliantini, Alessandro Palmieri, Andrea Perrone, Andrea Pisaneschi, Antonio Piras, Michele Sandulli, Lorenzo Stanghellini, Onofrio Troiano, Alberto Urbani.
Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria
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SOMMARIO 2/2016
PARTE PRIMA Saggi “Costituzione economica” e diritto amministrativo nel Codice delle assicurazioni, nel T.U. bancario e nel T.U. dell’intermediazione finanziaria, di Sandro Amorosino Il recesso dalle banche popolari ovvero: “rapina a mano armata”, di Luigi Salamone Considerazioni (sparse) su banche e attività bancarie, di Antonella Brozzetti Le distorsioni strutturali dei credit default swap e il rischio di controparte. Ripercussioni sulla stabilità dei mercati e spunti per una revisione normativa, di Luigi Scipione
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Commenti Contratti bancari e anatocismo – Trib. Parma, 24 luglio 2015; Trib. Torino, 17 luglio 2015; Trib. Milano, 5 aprile 2015 e 25 marzo 2015 L’art. 120, comma 2, t.u.b. tra ordinanze di tribunale e modifiche normative, di Fabrizio Maimeri
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PARTE SECONDA Legislazione Nuovi interventi per il sistema bancario – D.l. 24 gennaio 2015, n. 3 (convertito con modificazioni nella l. 24 marzo 2015, n. 33): Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti Commento al d.l. 24 gennaio 2015, n 3. Parte seconda: l’attuazione “parziale” della Payment Accounts Directive, di Ciro G. Corvese
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Norme
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redazionali
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PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, casi e soluzioni, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ
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“Costituzione economica” e diritto amministrativo nel Codice delle assicurazioni, nel T.U. bancario e nel T.U. dell’intermediazione finanziaria* 1. Tre rapide notazioni preliminari: I).queste riflessioni traggono occasione dal decennale del Codice delle Assicurazioni Private e quindi si proiettano necessariamente in una dimensione diacronica, cercando di dare una visione dinamica delle traiettorie evolutive recenti dei tre sistemi ordinamentali: bancario, finanziario in senso stretto ed assicurativo. Si anticipa che tali linee evolutive sono parallele, ma si tratta di parallele asimmetriche, perché una di esse si è “allungata”; II) .pur scontando, ed analizzando, tale asimmetria evolutiva si farà riferimento alle invarianti che caratterizzavano tutti e tre gli ordinamenti finanziari per verificare se nel mutato, e ancora mutante, scenario evolutivo siano, o meno, rimasti validi alcuni paradigmi o modelli ricostruttivi e come debbano essere aggiornati o cambiati. L’ipotesi ricostruttiva, ormai consolidata nel diritto positivo, è incentrata sulle forti simmetrie, ed analogie, sotto il profilo pubblicistico, tra i tre sistemi regolatori ed organizzatori; analogie che trovano il loro fondamento nell’art. 47 della Costituzione (tutela del risparmio) e nella “costituzione economica” europea relativa ai mercati finanziari, specie dopo le evoluzioni istituzionali imposte dalla crisi finanziaria; III).il c.a.p. ha compiuto 10 anni, il t.u.b. 22, il t.u.f. 17; tutti e tre
* Relazione introduttiva al Seminario organizzato il 1° ottobre 2015 in Banca d’Italia dall’IVASS su Diritto commerciale e diritto amministrativo nel Codice delle Assicurazioni Private, nel Testo Unico Bancario e nel Testo Unico dell’Intermediazione Finanziaria, nell’ambito del Ciclo di seminari per la celebrazione del decennale del c.a.p. Lo scritto è dedicato a Mario Pilade Chiti, antesignano dello studio del diritto amministrativo europeo, ch’è immanente nel diritto bancario, del mercato mobiliare e delle assicurazioni.
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hanno visto mutare profondamente gli scenari economico-finanziari e politico-istituzionali nei quali, in tempi diversi, erano stati concepiti, a cominciare dallo scenario europeo, sempre più pervasivo1. Tutti e tre – per usare la terminologia dell’edilizia – hanno subito, via via, robusti interventi di manutenzione straordinaria, se non di ristrutturazione, determinati da tre concorrenti fattori: a) la crisi e la successiva evoluzione dei mercati; b) le risposte strategiche europee e le conseguenti regolazioni europee, di varia caratterizzazione; c) le scelte politico-normative interne. Tutti fattori che, nel loro insieme, hanno provocato un mutamento degli equilibri sostanziali delle e tra le regolazioni. Più in generale la crisi finanziaria ha indotto una riorganizzazione, più o meno profonda, del sistema di poteri pubblici che sovraintendono, a scala europea e nazionale, ai tre mercati finanziari ed alle loro interconnessioni. 2. Dalle constatazioni iniziali e dagli effetti dei tre fattori di mutamento discende la necessità di partire dagli elementi costitutivi, di diritto pubblico “generale” – o, se si vuole, di costituzione economica – dei tre settori, individuandone i minimi comuni denominatori. Tali elementi vanno visti alla luce dei tre, accennati, macrofattori di mutamento. Il primo fattore da considerare – senza per questo rispolverare l’obsoleta correlazione, di derivazione marxiana, tra strutture economiche, quali ormai sono i mercati finanziari2, e sovrastrutture giuridiche – è ovviamente la crisi finanziaria, con il fallimento delle precedenti deregolazioni e, in parte, delle regolazioni e dei regolatori; crisi che in questa sede viene in rilievo come presupposto, o meglio come insieme di presupposti cogenti, del nuovo ordinamento finanziario della UE3. Le nuove architetture europee sono state pensate e costruite in funzione preventiva di nuovi “tsunami” [che poi la costruzione sia un po’ barocca, anzi “rococò”, come avrebbe detto Paolo Ferro-Luzzi, è un discorso “di merito”, piuttosto complesso]. Il secondo fattore da esaminare attiene alla nuova “costituzione finan-
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M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2011. Galgano, Lex mercatoria, Bologna, 2010. 3 V., per tutti, Capriglione e Troisi, L’ordinamento finanziario della UE dopo la crisi, Torino, 2014, cap. I. 2
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ziaria europea”, intesa qui esclusivamente con riferimento all’insieme dei mercati finanziari (e non alla politica finanziaria, al fiscal compact4). Sotto questo profilo sono da segnalare due dati fondamentali: a) alla tradizionale funzione delle regolamentazioni di fonte europea, ordinate alla massima armonizzazione delle regolamentazioni “finanziarie” nazionali, si è aggiunta, negli anni più recenti, una seconda dimensione, propriamente istituzionale, incentrata sulla creazione di una costellazione di Autorità europee, che “si occupano” sia dei vari macromercati finanziari che dei rischi sistemici ad essi inerenti. In quest’ambito si deve accennare all’accennata asimmetria tra le traiettorie evolutive parallele dei tre settori. Per il settore bancario al percorso comune parallelo si è aggiunto un ulteriore “tratto di strada”, un’innovazione strutturale: il processo di Banking Union – di grande rilievo sul piano della “costituzione economica” europea, intesa in senso sostanziale – con la concentrazione in più organismi europei, a cominciare dalla BCE, delle funzioni di supervisione bancaria e di risoluzione delle crisi, relativamente alle banche “maggiori”. La rilevanza di tale nuova dimensione istituzionale non era pienamente percepibile, ancora nel 2010, finché non è divenuta realtà compiuta5. Sta di fatto che già a fine 2013 lo scenario era radicalmente mutato, ed ancora mutante6.. Il punto focale, nell’ottica del giuspubblicista, non è solo la riallocazione dei poteri, ma anche la correlata riconfigurazione delle funzioni stesse (di cui si dirà); b) anche rimanendo nella “dimensione normativa” si deve rilevare che la regolamentazione europea, in senso lato, è venuta, e verrà sempre più, espandendosi e, per così dire addensandosi, cioè articolandosi, per ogni tematica, in molteplici livelli o strati: dalle direttive quadro, ai regolamenti delegati alla Commissione e, ancora scendendo “per li rami”, a standard tecnici di implementazione, ancora imputati alla Com-
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V. Amorosino, La “costituzione economica”: note esplicative di una nozione controversa, in Riv. trim. dir. econ., n. 4/2014. 5 Nella Storia della legislazione bancaria, finanziaria e assicurativa, Venezia 2011, curata da Banca d’Italia, le “storie parallele” dei tre settori, ampiamente ricostruite da Galanti, D’Ambrosio e Guccione, si fermavano sulla soglia delle novità europee. 6 V., per tutti, il Quaderno della Consulenza Legale di Banca d’Italia, n. 75, marzo 2014, Dal TUB alla B.U. Tecniche normative ed allocazione dei poteri; la “primogenitura” spetta, tuttavia, a Guarracino.
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missione, ed a “Linee Guida”, adottate dalle tre autorità europee di settore, qualificabili come atti di indirizzo conformativi (substitute law), più che come semplice soft law7. Ciò comporta conseguenze strutturali anche per gli altri due settori finanziari, non investiti frontalmente dalla “ristrutturazione pesante” che ha riguardato l’ordinamento bancario, il quale è divenuto ormai un’organizzazione composita8. Ed invero: - .non solo la normazione interna, a cominciare da quella legislativa – definita subprimaria già 20 anni fa da Alberto Predieri9 – ha sempre meno spatium decidendi sostanziale quanto ad oggetti e contenuti; -.ma il moltiplicarsi, e sovrapporsi, delle griglie regolamentari ha anche un effetto strutturale: la pervasività delle regole di vario livello, con estesissimi allegati tecnici, disciplina e procedimentalizza, in modo sovente sovrabbondante, non solo i comportamenti dei regolati, ma anche i poteri amministrativi, ed in particolare la discrezionalità – tecnica [Cons. St., Sez. VI, 26 marzo 2015, n. 1595] e “non tecnica” – delle autorità di vigilanza, intesa come ambito valutativo tipico delle loro funzioni. Con una schematizzazione tendenziale: più supervisione mediante regole “multistrati” (sempre più di fonte europea) e meno margini di oscillazione nella vigilanza nazionale, sia regolatoria (caratterizzata da discrezionalità in senso proprio), sia operativa, modulata secondo canoni tradizionali di discrezionalità tecnica. È vicenda ricorrente nella scienza dell’amministrazione che la mutazione quantitativa e qualitativa della regolazione si riverberi nella sfera organizzatoria e comportamentale delle strutture amministrative. D’altra parte, già quindici anni fa, in una tematica di grande rilievo per i tre settori finanziari, G. Amato teorizzava che la creazione di autorità indipendenti «ha assestato il colpo finale alla tradizionale nozione di
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V. per tutti, in tema, Galanti e Rosatone, Il CAP e il futuro della vigilanza sulle assicurazioni; D’Ambrosio, La vigilanza europea e nazionale in Manuale di diritto del mercato finanziario, a cura di Amorosino, Milano, 2014 e Capolino, Il Testo Unico Bancario e il diritto dell’Unione Europea, nel Quaderno della Consulenza Legale di Banca d’Italia, cit. 8 Cassese, La nuova architettura finanziaria europea, nel Quaderno della Consulenza Legale di Banca d’Italia, cit. 9 Commento all’art. 6 in Commentario al T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova 1994.
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discrezionalità amministrativa come bilanciamento tra interessi pubblici primari e secondari»10. L’affermazione va verificata, peraltro, alla luce della natura anfibia della “discrezionalità” delle Autorità “finanziarie”, su cui si tornerà più avanti. Il terzo fattore che ha concorso a modificare il quadro in cui sono inseriti il t.u.b., il t.u.f. ed il c.a.p. è costituito dalle scelte politico – normative nazionali. Ci si riferisce specificamente alle scelte autonome del legislatore nazionale, prescindendo quindi dai plessi normativi essenzialmente di recepimento delle regole europee (da ultimo i d.lgs. n. 72/2015, in materia bancaria e finanziaria, e n. 74/2015, in materia assicurativa); è da aggiungere che il recepimento avviene frequentemente “per via diretta”, da parte delle Autorità di vigilanza nazionali, mediante regolamentazioni variamente denominate (regolamenti, istruzioni, comunicazioni). Su questo versante viene in rilievo innanzitutto la legge sulla tutela del risparmio (n. 262/2005), il cui intento è stato, per quanto qui interessa, quello di finalizzare l’assetto ed il funzionamento delle tre Autorità “finanziarie” ad un’efficiente e trasparente tutela dei mercati e dei risparmiatori. Limitandoci ad alcune vicende più recenti è da segnalare che i decisori politici nazionali si sono concentrati sulla sfera organizzatoria sia delle Autorità che degli operatori del mercato, in particolare: - .con la rivalutazione del capitale della Banca d’Italia e le connesse ricadute sulla sua governance11; -.con la riforma delle banche popolari12 e di credito cooperativo; -.con la trasformazione dell’ISVAP in IVASS, che ha dato vita ad un inedito modello di governance, integrata con quella di Banca d’Italia, criticato da qualche studioso13;
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Amato, La protezione degli interessi pubblici e la regolazione delle attività economiche ora in Id, Le istituzioni della democrazia, Bologna, 2014, p. 265 ss. 11 V., per tutti, AA.VV., La rivalutazione del capitale della Banca d’Italia, a cura di Capriglione e Pellegrini, Padova 2014; Alpa, La rivalutazione del capitale della Banca d’Italia e le regole del diritto privato in Riv. trim. dir. econ., n. 3/2014 e M. Cardi, La riforma della Banca d’Italia in Libro dell’anno del Diritto 2015 dell’Enciclopedia Treccani. 12 V. AA.VV. La riforma delle banche popolari, a cura di Capriglione, Padova, 2015. 13 Volpe Putzolu, Commento all’art. 5 in Id., Commentario breve al diritto delle assicurazioni, Padova, 2013.
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-.con il superamento del divieto per le imprese “non finanziarie” di acquisire partecipazioni rilevanti nelle banche, e viceversa14. -.infine, mediante atti qualificabili come soft law, quale il “Protocollo d’intesa” tra il MEF e l’ACRI in materia di fondazioni di origine bancaria15. Ognuno di questi testi meriterebbe approfondimenti. Ai fini di questa rapida panoramica ci si limita a richiamare le innovazioni precettive del legislatore, e del governo, nazionale e a segnalarne il tratto unificante: l’intento di incidere – razionalizzandola e modernizzandola – sulla sfera organizzatoria delle Autorità o di categorie di soggetti rilevanti per il mercato bancario (fondazioni e banche popolari). 3. I molteplici elementi pubblicistici “generali” cui s’è accennato costituiscono lo scenario ed, al contempo, il parametro del necessario riesame dei paradigmi ed istituti di diritto amministrativo che accomunano i tre settori. Da quanto s’è detto discendono alcune coordinate generali di inquadramento del vigente regime amministrativo, strutturalmente analogo per tutti e tre i settori finanziari: I) la dimensione europea dei mercati e delle regolazioni ha mandato definitivamente nella soffitta della dogmatica – per motivi sia spaziali/ quantitativi sia per la realtà trasversale, a vasi perfettamente intercomunicanti, dei mercati finanziari – la teoria degli ordinamenti sezionali, concepita – sostanzialmente – con riferimento a realtà di mercati non evoluti, chiusi e separati. Qualcuno potrà obiettare che ciò era accaduto già da tempo, ma, in realtà, la rupture è divenuta irreversibile solo negli ultimi lustri. Prima erano “rimaste sulla scena” (e in parte permangono) le strutture tipiche degli ordinamenti sezionali: la normazione speciale, l’organizzazione (stretta attorno ad un’Autorità nazionale, dotata di poteri regolamentari e di vigilanza) ed il numero delimitato dei soggetti regolati appartenenti a ciascun ordinamento di settore. Successivamente i mercati sconfinati, e in Europa unificati dalla normazione comunitaria, e, poi, l’inserimento delle Autorità nazionali “di riferimento” in un sistema di istituzioni europee, che governa direttamente
14 V. Amorosino, La fine della storica separazione tra banche ed imprese, in Id. Diritto & Economia. Intersezioni e modelli, Napoli, 2009, p. 3 ss. 15 Su cui v. Clarich, Il protocollo d’intesa tra MEF e ACRI, ovvero uno strumento inedito di regolazione consensuale atipica, in Giorn. dir. amm. n. 3/2015, p. 295 ss.
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il grosso del mercato bancario e che, negli altri due settori, indirizza e controlla la vigilanza nazionale, hanno determinato il definitivo superamento di questo storico modello. II) “Tramontato” l’ordinamento sezionale, come definire oggi i tre ordinamenti amministrativi dei mercati finanziari? E quali ne sono i principi primi, le stelle polari? Innanzitutto è da rilevare che proprio il concorso dei tre fattori soprarichiamati – l’integrazione tra i tre mercati, la costruzione unitaria europea della loro regolamentazione e vigilanza e la legislazione italiana più recente, dalla legge sulla tutela del risparmio in avanti – hanno accentuato la convergenza, l’assimilazione dei modelli regolatori relativi ai tre settori (Sintomatica in questo senso è stata la quasi sovrapposizione delle governance della Banca d’Italia e dell’IVASS). Naturalmente restano le differenziazioni delle discipline sostanziali, dovute alla diversità dei settori/mercati che ne sono gli oggetti [e resta anche, per il c.a.p., l’infelice scelta iniziale che ne ha fatto «un codice monco perché è mancata la capacità di ricomprendervi la disciplina completa dei contratti di assicurazione»]16. I principi costitutivi restano la tutela del risparmio, declinata su tutti i versanti, con recenti accentuazioni della trasparenza e correttezza nei rapporti con la clientela, e la correlata organizzazione giuridica, da parte dell’UE e degli Stati, dei mercati finanziari per renderli uniformi, efficienti, affidabili, aperti, concorrenziali e competitivi (a scala globale). Per quanto riguarda specificamente la tutela della concorrenza è da sottolineare, nell’ordinamento italiano, la riallocazione, nel 2005, di tale funzione, relativamente al campo bancario, dalla Banca d’Italia all’AGCM (che già era competente in campo finanziario ed assicurativo). A dieci anni di distanza non si può dire che ciò abbia provocato le disfunzioni all’epoca da taluno temute, anche perché è molto aumentata, medio tempore, la collaborazione tra le Autorità. Qualche studioso ha rilevato, in generale, uno «scarso grado di apertura del mercato finanziario, ed in particolare del comparto bancario,
16 Così, da ultimo, Gambaro, Parole introduttive al Codice delle assicurazioni private, a cura di Candian e Carriero, Napoli, 2014, p. XVII; ma v. già, nel 2006, sul punto, le contrapposte opinioni di Volpe Putzolu, L’evoluzione della legislazione in materia di assicurazioni e Amorosino, Profili sistemici e pubblicistici del Codice delle assicurazioni in AA.VV., Il nuovo codice delle assicurazioni, a cura di Amorosino e Desiderio, Milano, 2006, pp. 3-35.
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alla concorrenza sia per il suo assetto oligopolistico sia per il prevalere di esigenze di stabilità»17, ma tale opinione non può essere condivisa. Non sembra, infatti, che i processi di concentrazione bancaria – determinati dalla necessità di contenere i costi, rafforzare i patrimoni, ed acquisire dimensioni competitive sui mercati “sconfinati” – abbiano messo capo ad oligopoli (resi impossibili proprio dall’esistenza di un affollato, apertissimo mercato bancario europeo). Né si può parlare di prevalenza della stabilità sulla contendibilità perché nella crisi finanziaria attuale l’intento delle Autorità “finanziarie” europee e nazionali, è di avere operatori di mercato caratterizzati da solidità ed efficienza, che sono i presupposti dell’appetibilità e, quindi, di contese reali per il controllo. In altre parole: in anni di crisi il parametro non può essere la contendibilità “in astratto”; III) Volendo dare una “definizione d’insieme” all’organizzazione amministrativa italiana dei tre mercati si può dire che essa presenta: –– per il settore bancario una struttura composita (o congiunta), con una normazione secondaria e terziaria, e con poteri di supervisione diretta, prevalentemente europei ed in parte nazinali; –– e per gli altri due settori una struttura a base nazionale, ma con crescente pervasività della determinante regolatoria europea, di hard law e di substitute law, ed anche di poteri di indirizzo e controllo delle Autorità europee (ESMA ed EIOPA) nei confronti di quelle nazionali. Al di là dell’attribuzione di funzioni dirette – alla BCE in campo bancario, ed alle altre Autorità europee in tutti e tre i settori – s’è poi molto rafforzato il principio di collaborazione amministrativa18, sia in senso verticale (tra autorità europee e nazionali) sia in senso orizzontale, tra le autorità “di settore” (ad entrambi i livelli). È un principio “codificato” con forza, sia in sede europea che nel t.u.b., nel t.u.f. e nel c.a.p., indispensabile a fluidificare il funzionamento del complesso sistema dei poteri. Si è quindi realizzata, tra il versante europeo e quello nazionale, una simmetria di modelli che vede ai vertici dei tre ordinamenti amministrativi di settore, sia europei che nazionali, delle autorità tecniche e, in particolare – la contitolarità delle funzioni (in campo bancario) tra i due livelli – e, invece, in campo finanziario ed assicurativo – lo stretto coor-
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Di Gaspare, Diritto dell’economia e dinamiche istituzionali, Padova, 2015, p. 379. Sulla quale il primo a scrivere fu Bazoli, La collaborazione amministrativa, 1964.
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dinamento e collaborazione tra i due livelli, con una crescente egemonia europea. Al centro dei sistemi regolatori e del “supersistema finanziario” si confermano, dunque, e si rafforzano, le Autorità indipendenti a struttura tecnica che possono esser ancora definite amministrative solo in senso lato (nel senso che sovraintendono, con strumenti amministrativi, ai vari settori), sia sul versante europeo che su quello interno. L’indipendenza, a base tecnica, dev’essere effettiva rispetto ai governi, europeo e nazionali, ma non può esserlo rispetto alla decisione politica, intesa come determinante degli indirizzi strategici, che spetta alle istituzioni rappresentative, ancora una volta europee e nazionali19. La terza, innovativa, caratteristica delle Autorità, oltre alla tecnicità ed all’indipendenza, è la crescente molteplicità dei campi di attività cui ciascuna di esse sovraintende. La quarta (correlata alla terza) è la pluralità di funzioni loro attribuite: da quella regolamentare, a quella di supervisione operativa (mediante procedimenti amministrativi specifici), a quella di intervento – correttivo o di rigore – nelle situazioni anche potenzialmente “pericolose”, a quella sanzionatoria. Per quanto riguarda i campi di intervento ampliamenti o rafforzamenti sono da segnalare per tutti e tre i settori. Per fare solo qualche esempio si pensi – per il t.u.b. – alla nuova disciplina degli intermediari finanziari non bancari; per quanto riguarda il t.u.f. (e le regolamentazioni da esso derivate), all’attuazione, a lungo attesa, dell’organizzazione dei consulenti finanziari indipendenti ed alla disciplina dei derivati complessi; per il c.a.p., infine, al complicato processo di attuazione di “Solvency II”. In sintesi: in capo alle Autorità “finanziarie” si è determinata una concentrazione di compiti e di poteri che non si riscontra nelle amministrazioni ordinarie. IV) L’architettura portante di questi sistemi amministrativi è costituita – s’è visto – dalla regolamentazione, sempre più multilivello (UE + Stati membri) e multistrato (primaria, nelle sue varie declinazioni, secondaria e terziaria, specie tecnica). Su questo versante è da notare un qualche deficit di percezione da parte degli studiosi: mentre ormai è pacificamente riconosciuta la fun-
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Sul primato della politica v. Irti, Del salire in politica. Il problema tecnocratico, Torino, 2014.
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zione determinante e crescente della normazione europea, del primo e degli ulteriori livelli, viceversa è meno valorizzato il ruolo essenziale svolto dalla regolamentazione nazionale secondaria e terziaria, in massima parte “prodotta”, di diritto o di fatto, dalle Autorità di settore. Questo insufficiente “riconoscimento”, in sede scientifica non riguarda tanto la regolamentazione prodotta da Banca d’Italia, ch’è stata l’archetipo delle altre, quanto quella prodotta dalla CONSOB e, soprattutto, quella dell’ISVAP/IVASS, che – viceversa – sono state e sono essenziali per dare corpo precettivo (e talora “anima” concreta) ai verba generalia enunciati, rispettivamente, nel t.u.f. e nel c.a.p. Forse all’origine di ciò è la qualificazione originaria di regolamentazione di vigilanza che ne faceva uno strumento servente all’attività operativa eponima delle tre Autorità. La ridotta sensibilità della dottrina all’importanza della funzione regolamentare in senso stretto, e della sua evoluzione quantitativa e qualitativa, soprattutto nell’ultimo decennio, ha impedito di coglierne la funzione di giunto cardanico20 nell’ambito dei rispettivi sistemi di diritto amministrativo. Si tratta, più precisamente, del ruolo essenziale della regolamentazione nel determinare la svolta delle tecniche di vigilanza21. Come s’è anticipato la pervasività della regolamentazione imbriglia, anche eccessivamente, gli operatori di mercato e le loro scelte imprenditoriali ma, di converso, costituisce un’autolimitazione del modo di procedere e di decidere delle Autorità (ci si riferisce innanzitutto ai regolamenti che disciplinano i procedimenti amministrativi da esse gestiti). E l’innovazione riguarda ambedue i versanti del rapporto tra regolatori e regolati. La regolamentazione deve, o dovrebbe, essere proporzionale e chiara, al fine di assicurare, almeno in certa misura, la prevedibilità, dei comportamenti dei regolatori. D’altro lato essa deve responsabilizzare ex ante i regolati rimettendo alla loro autonomia – intesa come autoorganizzazione ed autoregolamentazione – l’adeguata attuazione delle prescrizioni di fonte pubblica.
20 Si perdoni il ricorso alla metafora meccanica: Galgano, Le insidie del linguaggio giuridico, Bologna, 2010, metteva in guardia dalla pericolosità delle metafore nella scienza giuridica. 21 Capriglione in Manuale di diritto bancario e finanziario, Padova, 2015, p. 150 ss.
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Questa nuova impostazione dovrebbe propiziare il passaggio da una vigilanza relativamente “libera” (nell’ambito dei fini di legge) ad una supervisione più “incanalata” e prevedibile, con una riduzione dello spazio di discrezionalità amministrativa in senso proprio, cioè della possibilità di scegliere come “governare” più interessi pubblici potenzialmente in conflitto (ad esempio – per rimanere a tematiche d’apice – tra la contendibilità e la stabilità). V) La questione di quali tipi di poteri esercitano le Autorità è l’anello di congiunzione giuridico tra la funzione di regolamentazione e quelle di vigilanza operativa. Si discute se si tratti d’un potere discrezionale, nel senso amministrativistico di facoltà di scegliere, nell’ambito dei fini e criteri indicati dalla legge, le soluzioni ritenute più consone agli interessi pubblici e privati in gioco; oppure sia l’esercizio di una discrezionalità tecnica, vale a dire una valutazione non discrezionale che consiste nella acquisizione e qualificazione di fatti e dati sulla base di criteri tecnicoscientifici22 e nella successiva decisione. Il problema è complicato, in quanto: -. da un lato esistono diverse gradazioni d’intensità della discrezionalità23 ed è noto che le norme primarie dei tre settori lasciano amplissimi spazi di decisione alle Autorità “finanziarie”, anche in ragione del diffuso ricorso, da parte del legislatore, a concetti/finalità indeterminati; -. dall’altro che anche le valutazioni a base tecnica possono essere molto variabili ed opinabili, a seconda delle attitudini e degli orientamenti dei valutatori, pur mettendo capo ad esiti parimenti plausibili; -. dall’altro ancora che le valutazioni discrezionali si intrecciano sovente con le valutazioni tecniche, rendendo difficile distinguere l’una dall’altra. Ne discende – per quanto qui interessa – che nell’esercizio delle funzioni, sia di regolamentazione sia di vigilanza operativa, da parte delle Autorità “finanziarie”, non è agevole operare una netta separazione tra la sfera propriamente discrezionale e quella tecnica (che è, comunque, in queste materie, altamente valutativa). La realtà presenta una sorta di continuum, fatto di molte sfumature, caratterizzato da un doppio flusso e reciproco influsso: le impostazioni/ scelte generali condizionano la valutazione dei dati tecnici e – specular-
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Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2013, p. 120. Rossi, Principi di diritto amministrativo, Torino, 2010, p. 273 ss.
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mente – l’analisi e valutazione dei dati tecnici, aggregata su base sistemica, condiziona le scelte generali. Prova indiretta ne è che anche le regolamentazioni “terziarie”, soprattutto le regole tecniche, sono soggette alla procedura di consultazione imposta dalla legge n. 262/2005 in quanto – pur in modo diverso dalle regolamentazioni secondarie (regolamenti e Istruzioni generali) – possono anch’esse incidere fortemente sull’autonomia delle imprese finanziarie, o sulle società quotate e “diffuse”. E – passando alla vigilanza operativa – anche l’esercizio del potere di valutazione tecnica deve avvenire in modo trasparente e dunque controllabile. Di qui la necessaria delineazione di procedure amministrative delle Autorità rispettose dei principi del giusto procedimento, indipendentemente dalla loro caratterizzazione, discrezionale o tecnica, in modo da rendere le decisioni trasparenti e sindacabili da un giudice (sindacato giurisdizionale, volta a volta, “debole” o “forte”). VI) Quanto s’è venuto dicendo ha comportato una revisione di alcuni dei tipi di funzioni attribuite alle Autorità “finanziarie”. Per quanto riguarda i procedimenti precettivi24, mediante i quali si pongono regole di comportamento, si può dire, schematizzando, che alla riduzione “in senso verticale” del potere di scelta, determinata dalla crescente pervasività delle regolamentazioni europee, ha fatto da contrappunto un’espansione “in orizzontale” dei campi di intervento, specie per quanto riguarda il settore bancario (per fare un solo esempio: la governance delle banche25), ma anche per quello finanziario in senso stretto (si pensi alle comunicazioni CONSOB che si aggiungono ai regolamenti) e per quello assicurativo (si pensi solo alla “cascata” di regolamenti conseguente al c.a.p. ed alle ulteriori, sopravvenienti “novità” normative europee). Nei limiti sopraccennati sussiste tuttora, per quanto riguarda la sfera precettiva, una rilevante discrezionalità. Venendo alla vigilanza singolare, operativa, la prima tipologia di essa – quella autorizzatoria all’ingresso nel mercato delle società operanti nei tre campi finanziari – si è definitivamente assestata sul modello accertativo, vale a dire della verifica della sussistenza, o meno, dei requisiti richiesti dalla regolamentazione; residua, dunque, in materia uno spazio
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Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1993, Vol. II. Costi, Il testo unico bancario, oggi, nel Quaderno della Consulenza Legale di Banca d’Italia, cit. 25
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di valutazione tecnica delimitato da parametri sovraordinati (ad esempio: in tema di plausibilità dei programmi iniziali di attività). Viceversa sembrano sostanzialmente “confermati” i modelli e le procedure relativi alla vigilanza informativa ed ispettiva e, a valle di esse, alla c.d. vigilanza correttiva, che occorre tener distinta da quella sanzionatoria. Una prassi diffusa – che trova “copertura normativa” in alcune disposizioni del t.u.b., t.u.f. e c.a.p., le quali autorizzano vari tipi di interventi, “in corso d’opera”, nei confronti delle singole società – vede le Autorità di settore, soprattutto all’esito di ispezioni, impartire alle società vigilate prescrizioni correttive recanti le misure da adottare per eliminare le disfunzioni e per poter rimanere competitivamente sul mercato. È questo un ambito nel quale le valutazioni tecniche mettono capo all’indicazione delle misure correttive da adottare, le quali in molti casi sono obbligate, ma in altri potrebbero avere delle alternative (ciò che conferma la ontologica variabilità ed opinabilità di tali valutazioni, il che, peraltro, non ne inficia la legittimità, purché siano argomentate e ragionevoli e fondate su un’esatta rappresentazione della realtà). Ciò indipendentemente, o parallelamente, dall’avvio di eventuali procedimenti sanzionatori delle disfunzioni riscontrate; procedimenti che sono caratterizzati da “discrezionalità tecnica” e debbono rispettare i principi generali del procedimento sanzionatorio26. Per quanto riguarda i procedimenti ordinati a prevenire, rimediare o metter fine (con la liquidazione coatta) alle situazioni critiche è da sottolineare la particolarità del settore bancario, dovuta all’istituzione del SRM – Single Resolution Mechanism, sistema complesso che vede da un lato il Single Resolution Board 27 e dall’altro la direttiva BRRD – Banking Recovery and Resolution Directive, che disciplina le procedure di prevenzione e gestione delle crisi. Anche nel nuovo sistema sembra destinata ad essere confermata una componente discrezionale (pur sempre sulla base di valutazioni tecniche) delle misure di intervento previste, le quali non possono prescindere dalla ponderazione di interessi pubblici e privati. VII) Da ultimo è necessario accennare alla tendenza ad esternalizzare alcune attività rilevanti ai fini della supervisione.
26 V. Travi, Incertezza delle regole e sanzioni amministrative in Dir. amm. n. 4/2014, p. 627 ss. 27 v. Brescia Morra e Mele, Una vera rivoluzione: il Single Resolution Mechanism in FinRiskAlert, 12 marzo 2014.
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In proposito si possono evidenziare tre “filoni”: a). la responsabilizzazione dei soggetti vigilati, alla cui autonomia – pur incisivamente conformata28 dalle regolamentazioni amministrative – viene rimessa la specifica definizione, in sede di autoregolamentazione, delle strutture organizzative e delle procedure interne idonee al raggiungimento degli obiettivi e delle performances prescritti; b).la doverosa collaborazione di vari organismi esterni con le Autorità di vigilanza. Si tratta di una rete di “sensori esterni”, di alert, che fungono da antemurale della vigilanza amministrativa. Sono, volta a volta, organi societari degli intermediari (in senso lato), società di revisione, società di gestione dei mercati finanziari; c).il correlato affidamento ad organismi esterni di vario genere, privati “o semi pubblici”, di funzioni regolatorie, dunque d’interesse pubblico: dalle società di gestione di mercati finanziari, all’Arbitro Bancario e Finanziario, alle società di revisione, alle associazioni di categoria che adottano codici di comportamento. In tutti e tre i casi si rinvengono forme di autoregolamentazione in senso lato: dai regolamenti degli organi e procedure di controllo interni dei “soggetti finanziari”; ai regolamenti delle società di gestione del mercato; alla stratificazione della “giurisprudenza dei precedenti” dell’ABF (la cui uniformità è affidata al coordinamento dei tre collegi); alle procedure interne “codificate” delle società di revisione, ai codici di comportamento delle associazioni quali ABI, ANIA, Assogestioni, Assonime, etc. Tutte queste forme di autoregolazione o “codificazione privata” sono mediatamente rilevanti, come parametri di valutazione dei comportamenti dei vigilati, ai fini dell’esercizio dei poteri amministrativi delle Autorità, oltre che a fini civilistici, e dunque sono qualificabili come regole private di interesse pubblico.
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Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1995.
Il recesso dalle banche popolari ovvero: “rapina a mano armata” * Sommario: 1. Introduzione. – 2. Per iniziare: la sciatteria redazionale. – 3. Cause del recesso del socio. Il recesso dalle popolari cooperative come conseguenza del factum principis. – 4. La funzione del recesso nel vigente diritto societario e nel diritto bancario. – 5. Le altre cause di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio. – 6. Le esigenze del diritto bancario: la «neutralità» del rimborso della quota di liquidazione. La soglia della limitazione (c.d. computabilità delle azioni nel capitale primario di classe 1). – 7. (Segue): la computabilità degli strumenti finanziari. – 8. Modalità operative della limitazione. – 9. Conclusione.
1. Introduzione. La storia si ripete1. Anche questa tappa della storia delle banche popolari – la riforma del 2015, che porta coattivamente le più grandi fuori dal codice organizzativo della cooperativa – si presta ad una descrizione in chiave cinematografica: come nel terzo successo del giovane Stanley Kubrick (Rapina a mano armata, USA, 1956), il plot narrativo non è lineare e non è soprattutto oggettivo; le vicende vengono mostrate in prospettiva soggettiva, con sviluppi frammentari a partire da ciascuno dei personaggi. Dunque, una riforma frammentaria, disallineata dal sistema, sciatta redazionalmente. Una riforma che non riesce a dettare – almeno nella materia di cui mi occuperò – una disciplina equilibrata tra diritto societario, diritto bancario, istanze costituzionali.
* L’articolo apparirà anche in un numero monografico di IANUS – Rivista di studi giuridici telematici dell’Università di Siena, dedicato alla memoria del prof. Gustavo Minervini, sul tema della riforma delle banche popolari. 1 Non è mai elegante citare se stessi, ma il presente lavoro si pone in continuità con il mio Le banche popolari ovvero: «la mutualità che visse due volte» (evoluzione, diritto vigente, tipologia sociale tra «forma» e «sostanza» di società cooperativa), in Banca, borsa, tit. cred., 2004, I, p. 594 ss.
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2. Per iniziare: la sciatteria redazionale. Inizio censurando la sciatteria redazionale alla quale il nostro legislatore ci ha da tempo abituati, ma contro la quale è sempre civile reagire. Segnalo almeno, a margine dell’art. 28, co. 2 ter, t.u.b., nella versione vigente, da ultimo novellata dall’art. 1, co- 15, d.lgs. 12 maggio 2015, n. 722: I) un uso del tutto atecnico dell’espressione «assicurare»; II) l’incostanza della nomenclatura già da altri ben messa in luce (fondi propri; patrimonio a fini di vigilanza; patrimonio di vigilanza; patrimonio di vigilanza di qualità primaria; etc.) riferita ai valori dell’attivo patrimoniale da mantenere a fini di vigilanza3; III) la formule deprecabilmente ellittiche come «computabilità delle azioni», che sta per «computabilità del patrimonio corrispondente alle azioni»4; IV) l’introduzione di un co. 2-ter nell’art. 28 t.u.b. quando non c’è un co. 35; V) uno svarione grammaticale di cui preferisco dire alla fine. Inutile infierire: la disposizione è passata attraverso tre autopsie – pardon: tre versioni redazionali – nel corso di pochi mesi: quella del decreto legge; quella della legge di conversione; quella del citato d.lgs. 72/2015.
3. Cause del recesso del socio. Il recesso dalle popolari cooperative come conseguenza del factum principis. Mi occuperò di recesso dalle banche popolari, soffermandomi in particolare sui profili speciali concernenti la liquidazione della partecipazione sociale, profili che come vedremo sono comuni alle ulteriori fat-
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Lo si trascrive per comodità di chi legge: «2-ter. Nelle banche popolari e nelle banche di credito cooperativo il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione, morte o esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò sia necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d’Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi». 3 Cfr. Urbani, Brevi considerazioni in tema di scioglimento del rapporto sociale limitatamente al singolo socio nella riforma della disciplina delle anche popolari, in La riforma delle banche popolari, a cura di Capriglione, ed. Padova, 2015, p. 253 ss. 4 Cfr. Urbani, Brevi considerazioni, cit., p. 254. 5 Cfr. Urbani, Brevi considerazioni, cit., p. 253.
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tispecie di scioglimento del rapporto limitatamente ad un singolo socio (morte ed esclusione). Anzitutto, sull’ambito soggettivo di applicazione della nuova norma: mi riferisco all’art. 28, co. 2-ter, t.u.b., nella versione vigente (cit.); nonché alle disposizioni regolamentari di vigilanza emanate da Banca d’Italia (istruzioni di vigilanza: vedasi Circolare n. 285 del 9 giugno 2015, parte III, cap. 4, sez. I, par 4). Rassegnando i testi normativi, non si danno allo stato disposizioni equivalenti per le società bancarie per azioni, mentre la stessa regola si applica tanto alle banche popolari cooperative quanto alle banche di credito cooperativo (b.c.c.). Le cause di recesso del socio desumibili dal rinvio alle regole codicistiche sulle società cooperative e, tramite queste, a quelle sulle società per azioni, possono tratteggiarsi al modo che segue. Se in materia di cooperative si parla di cause ammesse dalla legge o dall’atto costitutivo, senza ulteriore specificazione (art. 2532 c.c.), l’art. 2437 c.c. elenca tre gruppi di casi quasi tutti incompatibili con la continuazione dell’esercizio dell’attività bancaria. Esclusi i casi di mutamento dell’oggetto sociale (anche secondo la formula oggi più circostanziata: la banca che smette di fare la banca viene liquidata); di trasferimento della sede legale all’estero6; la revoca dello stato di liquidazione è un fatto che di per sé non porta ad automatico ripristino dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria e di conseguenza il discorso che verrà sviluppato più avanti sulla limitazione al diritto al rimborso resterebbe privo di senso. Anche le modificazioni statutarie incidenti sul criterio di determinazione del valore dell’azione in caso di recesso mi pare materia assorbita dalla disciplina bancaria di carattere prudenziale, quindi sottratta all’autonomia statutaria. Limitate sono le ricadute operative delle modifiche statutarie concernenti i diritti di voto e i diritti di partecipazione: se la società resta una banca popolare cooperativa, occorre in ogni caso osservare la disciplina imperativa dell’art. 30 t.u.b.; se la banca popolare si trasforma in società per azioni, occorre comunque osservare la (diversa) disciplina bancaria imperativa. E così pure quelle inerenti la proroga del termine statutario.
6 A meno di trasferire la sede legale all’estero per evitare di doversi trasformare in s.p.a.: una sorta di delocalizzazione al contrario (= il «corpo» dell’azienda rimane in Italia mentre la «testa» viene portata altrove), qualora l’ordinamento straniero (membro UE) prescelto consenta la persistenza in Italia della vocazione territoriale della banca cooperativa. Una opzione che però nessuno finora ha praticato; ciò che lascia congetturare difficoltà che allo stato sfuggono a chi scrive.
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Un senso può invece riconoscersi al recesso per modificazione della clausola statutaria concernente la circolazione della partecipazione sociale, pur nel quadro limitativo dell’art. 30 (co. 5, 5-bis, 6) t.u.b.; nonché di quelle dell’art. 2497 quater c.c., quando la società sia soggetta ad attività di direzione e coordinamento di altra società od ente (se e nella misura nella quale una cooperativa possa risultare soggetta ad altrui attività di direzione e coordinamento). Infine, trattandosi di società cooperativa, restano ferme le cause statutarie di recesso (art. 2532 c.c.). Detto questo, è la trasformazione della società che interessa, soprattutto perché, a certe condizioni, diviene obbligatoria per legge: mentre infatti secondo il codice civile la dimensione dell’impresa non impone mai la scelta d’un tipo determinato di società, nel diritto bancario del 2015 la capitalizzazione preclude la scelta di taluni tipi societari nella misura nella quale l’investimento sia minore di ammontare determinato; mentre - si diceva – il codice civile non pone limiti verso l’alto, il diritto bancario impone che la banca popolare cooperativa non superi certe soglie dimensionali, dell’organizzazione di impresa come del patrimonio. Nel diritto riformato nel 2015, per le banche popolari la trasformazione potrebbe essere conseguenza non di una libera scelta, ma del factum principis. Quando la trasformazione è necessitata, le conseguenze sui diritti individuali del socio dovrebbero esigere la ponderazione più intensa possibile.
4. La funzione del recesso nel vigente diritto societario e nel diritto bancario. Mentre nel diritto societario comune del 1942, abrogato, il diritto di recesso era pensato come una extrema ratio di tutela del socio, in quei casi in cui l’investimento avrebbe mutato radicalmente le condizioni del rischio di impresa, tutela sempre eccezionale rispetto all’alienazione della partecipazione, nel diritto riformato del 2003 assume un’altra configurazione, di tutela della minoranza. Una sorta di alternativa tra voice ed exit: in caso di inutilità dell’esercizio di diritti di voice, al socio è data la possibilità di far ascoltare le sue ragioni attraverso l’exit (o la semplice minaccia di esercitare il diritto)7. Di conseguenza, radicale il mutamento del
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Angelici, La riforma delle società di capitali. Lezioni di diritto commerciale2, Padova, 2006, p. 85 ss.; Id., La società per azioni, I, Principi e problemi, nel Trattato dir. civ. comm.,
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procedimento di liquidazione del valore di rimborso della partecipazione sociale. Da un diritto che si basava sull’utilizzo delle risorse patrimoniali delle stessa, si è passati ad un diritto che anzitutto impone alla società di ricercare sul mercato un nuovo socio e, solo come ultima ratio, rimborsa il socio attingendo a risorse patrimoniali della società. Se però così deve essere, ne viene che il socio abbia diritto all’integrale rimborso della partecipazione, quand’anche ciò implichi lo scioglimento della società. Nel diritto bancario, invece, anche in quello più recente del 2015, non pare proprio che le cose stiano così. Dal diritto comune (dunque, non soltanto dal codice civile) è consentito, forse è obbligatorio allontanarsi ogniqualvolta debbano perseguirsi obiettivi di vigilanza prudenziale: così si esprime l’art. 28, co. 2-ter, t.u.b., secondo cui la limitazione può operare «anche in deroga a norme di legge». Di conseguenza, il recesso deve rimanere – nei modi e per le ragioni che vedremo – una eventualità del tutto eccezionale e neutra rispetto alla patrimonializzazione della società bancaria. In questo senso la disciplina dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b., che non pone limiti all’esercizio del recesso in quanto tale, ma regola il rimborso della partecipazione sociale. Quale radicamento “costituzionale” per le nuove regole nazionali? Queste in effetti sono a serio rischio di contrasto con gli articoli 42 e 45 co. 1 Cost. (quest’ultimo se considerate soprattutto le b.c.c., ma non soltanto)8. Credo che una spiegazione vi sia nei testi dell’Unione Europea, ma ritengo espositivamente più producente occuparmene solo dopo essermi soffermato sulle altre cause di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio.
5. Le altre cause di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio. Se è dunque il rimborso della quota di liquidazione che può pregiudicare la consistenza patrimoniale della società bancaria, il legislatore del 2015 ne ha esteso la portata all’ipotesi dell’esclusione del socio. Pure questa dovrebbe essere neutra in relazione alla integrità patrimoniale.
già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, 2012, p. 62 ss. 8 In quel senso v. Trib. Napoli, 24 marzo 2016 (ordinanza-R.G.N. 27552/2015). La pronuncia omette tuttavia ogni considerazione, delle fonti dell’Unione Europea, mentre travisa l’art. 47 Cost.
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Certo, qui gli interrogativi circa la copertura costituzionale si pongono ancor più insistentemente, poiché mentre il recesso è atto volontario di fuoriuscita dalla compagine sociale – dunque il socio può valutare in questo caso la propria convenienza ed eventualmente decidere di non recedere ma di alienare la partecipazione sociale –, l’esclusione attua una fuoriuscita coattiva, che il socio subisce, sia per gravi inadempienze alla legge o al contratto sociale (più cause assimilabili), sia per inadempienze al rapporto mutualistico, e/o (analogamente) per mancanza o perdita di requisiti della partecipazione sociale. E forse è proprio su questo versante che si deve ricercare un aggancio sistematico: il socio che non partecipi al programma mutualistico, come da tutela dell’art. 45, co. 1, Cost., può essere escluso e l’esclusione dalla cooperativa bancaria – al pari del recesso – non deve alterare i valori ai quali è legata la gestione sana e prudente della banca. Infine, sulla morte del socio. Questo evento – che ai sensi dell’art. 2534 c.c. nelle cooperative determina cessazione della partecipazione sociale a meno di subingresso degli eredi purché consenzienti ed aventi titolo – risulta anch’esso esposto alla limitazione al diritto di rimborso nella più recente versione dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. ora vigente; limitazione inserita, poi soppressa, quindi reinserita: non penso che il sostegno sistematico sia diverso da quello (tutt’altro che sicuro) delle prime due.
6. Le esigenze del diritto bancario: la «neutralità» del rimborso della quota di liquidazione. La soglia della limitazione (c.d. computabilità delle azioni nel capitale primario di classe 1). La copertura costituzionale dipende – piaccia o meno – dalle fonti dell’Unione Europea e non certamente da quelle interne. Si potrebbe anche opinare, senza manifesta infondatezza, che le stesse siano entrate nel nostro ordinamento attraverso l’art. 47 Cost., là dove esso evoca poteri di «disciplina», di «coordinamento» e di «controllo» dell’«esercizio del credito». Anzitutto, si pensi al divieto di tutte le distribuzioni «pericolose» di elementi dell’attivo patrimoniale. Tale divieto è nell’art. 141 par. 1 CRD IV (questo l’acronimo anglosassone per: Direttiva n. 2013/36/UE del 26 giugno 2013, ora trasposta in Italia con decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72); benché la direttiva non parli testualmente né di recesso né di esclusione, ma soltanto di generiche «distribuzion[i] tal[i)] da diminuire il
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capitale primario di classe 1»9 e benché la disposizione ricordata, se non vedo male, non sia stata oggetto di trasposizione nel nostro ordinamento (se non parziale, proprio con riferimento all’art. 28, co. 2-ter, t.u.b.). In stretta correlazione sta l’art. 29 CRR10 (l’acronimo anglosassone sta
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Per comodità del lettore, si trascrivono di seguito in nota i testi delle disposizioni citate nel testo. Art. 141 par. 1 CRD IV: «Gli Stati membri vietano agli enti che soddisfano il requisito combinato di riserva di capitale di effettuare una distribuzione in relazione al capitale primario di classe 1 tale da diminuire il capitale primario di classe 1 ad un livello che non consenta più di soddisfare il requisito combinato di riserva di capitale». 10 V. Art. 29 CRR: «Strumenti di capitale emessi da società mutue e cooperative, enti di risparmio ed enti analoghi. 1. Gli strumenti di capitale emessi da società mutue e cooperative, da enti di risparmio e da enti analoghi sono considerati strumenti del capitale primario di classe 1 soltanto se le condizioni di cui all’articolo 28 con le modifiche derivanti dall’applicazione del presente articolo sono soddisfatte. 2. Per quanto riguarda il rimborso degli strumenti di capitale sono soddisfatte le seguenti condizioni: a) ad eccezione dei casi di divieto imposto dalla normativa nazionale applicabile, l’ente può rifiutare il rimborso degli strumenti; b) se la normativa nazionale applicabile vieta all’ente di rifiutare il rimborso degli strumenti, le disposizioni che governano gli strumenti autorizzano l’ente a limitare il rimborso; c) il rifiuto di rimborsare gli strumenti o, se del caso, la limitazione del rimborso degli strumenti non possono costituire un caso di default da parte dell’ente. 3. Gli strumenti di capitale possono comprendere un massimale o una restrizione sul livello massimo delle distribuzioni soltanto nei casi in cui tale massimale o restrizione sono stabiliti nel quadro della normativa nazionale applicabile o dello statuto dell’ente. 4. Quando gli strumenti di capitale conferiscono ai loro possessori, in caso di insolvenza o di liquidazione, diritti sulle riserve dell’ente limitati al valore nominale degli strumenti, tale limitazione si applica nella stessa misura ai possessori di tutti gli altri strumenti del capitale primario di classe 1 emessi da tale ente. La condizione fissata al primo comma non pregiudica la possibilità, per una società mutua o cooperativa, un ente di risparmio o un ente analogo, di riconoscere, all’interno del capitale primario di classe 1, strumenti che non attribuiscono al possessore diritti di voto e che soddisfano tutte le condizioni seguenti: a) il credito del possessore degli strumenti senza diritto di voto in caso di insolvenza o liquidazione dell’ente è proporzionale alla quota del totale degli strumenti di capitale primario di classe 1 rappresentata da detti strumenti senza diritto di voto. b) negli altri casi gli strumenti sono considerati strumenti di capitale primario di classe 5. Quando gli strumenti di capitale conferiscono ai loro possessori, in caso di insolvenza o di liquidazione, un credito sulle attività dell’ente stabilito o soggetto ad un massimale, tale limitazione si applica nella stessa misura a tutti i possessori di tutti gli strumenti del capitale primario di classe 1 emessi da tale ente. 6. L’ABE elabora progetti di norme tecniche di regolamentazione per specificare la natura delle limitazioni del rimborso che si rendono necessarie quando la normativa nazionale applicabile vieta all’ente di rifiutare il rimborso degli strumenti di fondi propri.
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per: Regolamento n. 575/2013/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013): la disposizione, espressamente dedicata alle cooperative, prevede testualmente nel par. 2 ipotesi in cui l’ente abbia facoltà di rifiuto o di limitazione del rimborso «degli strumenti del capitale primario di classe 1» qualora, nella sostanza, non siano soddisfatte le condizioni previste dal precedente art. 28 CRR, di cui si vedano in particolare le regole limitative delle distribuzioni (par. 1, lett. h)11. Il cita-
L’ABE presenta i progetti di norme tecniche di attuazione alla Commissione entro 1 febbraio 2015. Alla Commissione è delegato il potere di adottare le norme tecniche di regolamentazione di cui al primo comma conformemente agli articoli da 10 a 14 del regolamento (UE) n. 1093/2010». 11 V. Articolo 28 CRR: «Strumenti del capitale primario di classe 1. 1. Gli strumenti di capitale sono considerati strumenti del capitale primario di classe 1 solo se sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) gli strumenti sono emessi direttamente dall’ente, previo accordo dei proprietari dell’ente o, se autorizzato ai sensi della normativa nazionale applicabile, dell’organo di gestione dell’ente; b) gli strumenti sono versati e il loro acquisto non è finanziato dall’ente, né direttamente né indirettamente; c) gli strumenti soddisfano tutte le condizioni seguenti per quanto riguarda la loro classificazione: i) hanno i requisiti per essere considerati capitale ai sensi dell’articolo 22 della direttiva 86/635/CEE; ii) sono classificati come patrimonio netto ai sensi della disciplina contabile applicabile; iii) sono classificati come patrimonio netto ai fini della determinazione di un’insolvenza in base al bilancio, se del caso ai termini della normativa nazionale in materia di insolvenza; d) gli strumenti sono indicati chiaramente e separatamente nello stato patrimoniale del bilancio dell’ente; e) gli strumenti sono perpetui; f) il valore nominale degli strumenti non può essere ridotto né ripagato, ad esclusione dei seguenti casi: i) la liquidazione dell’ente; ii) operazioni discrezionali di riacquisto degli strumenti o altre operazioni discrezionali di riduzione del capitale, a condizione che l’ente abbia ricevuto l’approvazione preliminare dell’autorità competente in conformità con l’articolo 77; g) le disposizioni che governano gli strumenti non indicano, né esplicitamente né implicitamente, che il valore nominale degli strumenti sia o possa essere ridotto o ripagato in casi diversi dalla liquidazione dell’ente, e l’ente non dà altre indicazioni in tal senso prima o al momento dell’emissione degli strumenti, ad eccezione del caso degli strumenti di cui all’articolo 27, se il rifiuto dell’ente di rimborsare tali strumenti è vietato dalla normativa nazionale applicabile; h) gli strumenti soddisfano le condizioni seguenti per quanto riguarda le distribuzioni: i) non vi sono trattamenti di distribuzione preferenziali in merito all’ordine di pagamento delle distribuzioni, neanche in relazione ad altri strumenti del capitale primario di
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to art. 29 CRR – disposizione dettata da Regolamento comunitario e non da Direttiva, quindi immediatamente precettiva – sembra a chi scrive il diretto referente costituzionale della disposizione interna.
classe 1, e le condizioni che governano gli strumenti non prevedono diritti preferenziali per il pagamento delle distribuzioni; ii) le distribuzioni ai possessori degli strumenti possono provenire soltanto da elementi distribuibili; iii) le condizioni che governano gli strumenti non comprendono un massimale né altre restrizioni sul livello massimo delle distribuzioni, ad eccezione del caso degli strumenti di cui all’articolo 27; iv) il livello delle distribuzioni non è determinato sulla base dell’importo per il quale gli strumenti sono stati acquistati all’emissione, salvo nel caso degli strumenti di cui all’articolo 27; v) le condizioni che governano gli strumenti non impongono all’ente alcun obbligo di effettuare distribuzioni ai loro possessori e l’ente non è altrimenti assoggettato a tale obbligo; vi) il mancato pagamento delle distribuzioni non costituisce un caso di default da parte dell’ente; vii) l’annullamento delle distribuzioni non impone all’ente alcuna restrizione; i) rispetto a tutti gli strumenti di capitale emessi dall’ente, gli strumenti del capitale primario di classe 1 assorbono la prima parte delle perdite, proporzionalmente la più cospicua, man mano che esse si verificano e ciascuno strumento assorbe le perdite nella stessa misura di tutti gli altri strumenti del capitale primario di classe 1; j) gli strumenti sono di categoria inferiore a tutti gli altri crediti in caso di insolvenza o liquidazione dell’ente; k) gli strumenti conferiscono ai loro possessori un credito sulle attività residue dell’ente, che, in caso di liquidazione e dopo il pagamento di tutti i crediti di primo rango, è proporzionale all’importo di tali strumenti emessi e non è né fisso né soggetto ad un tetto massimo, ad eccezione del caso degli strumenti di capitale di cui all’articolo 27; l) gli strumenti non sono coperti né sono oggetto di una garanzia che aumenti il rango del credito da parte di nessuno dei seguenti soggetti: i) l’ente o le sue filiazioni; ii) l’impresa madre dell’ente o le sue filiazioni; iii) la società di partecipazione finanziaria madre o le sue filiazioni; iv) la società di partecipazione mista o le sue filiazioni; v) la società di partecipazione finanziaria mista e le sue filiazioni; vi) qualsiasi impresa che abbia stretti legami con gli enti di cui ai punti da i) a v); m) gli strumenti non sono oggetto di alcuna disposizione, contrattuale o di altro tipo, che aumenti il rango dei crediti a titolo degli strumenti in caso di insolvenza o liquidazione. soddisfatta a prescindere dal fatto che gli strumenti siano inclusi nel capitale aggiuntivo di classe 1 o nel capitale di classe 2 ai sensi dell’articolo 484, paragrafo 3, purché abbiano pari rango. 2. Le condizioni di cui al paragrafo 1, lettera i), si considerano soddisfatte anche in caso di riduzione permanente del valore nominale degli strumenti aggiuntivi di classe 1 o di classe 2.
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A completamento, si consideri (anche) l’art. 78 CRR: anzitutto, il par. 1, che pone severi limiti al riacquisto e al rimborso di titoli di partecipazione variamente incidenti sul capitale primario di classe 1 e/o sul capitale aggiuntivo di classe 1; quindi, il par. 3, secondo il quale, quand’anche si versi in una ipotesi nella quale per il diritto nazionale il rimborso sia obbligatorio, l’autorità con funzione di vigilanza bancaria ha il potere, nella sostanza, di limitarlo (con evidente limitazione della sovranità del Paese membro e buona pace del diritto costituzionale interno)12. Ancora:
La condizione di cui al paragrafo 1, lettera f), si considera soddisfatta anche in caso di riduzione del valore nominale dello strumento di capitale nell’ambito di una procedura di risoluzione o come conseguenza di una riduzione degli strumenti di capitale richiesta dall’autorità preposta alla risoluzione responsabile dell’ente. La condizione di cui al paragrafo 1, lettera g), si considera soddisfatta a prescindere dal fatto che le disposizioni che governano lo strumento di capitale indichino esplicitamente o implicitamente che il valore nominale dello strumento sarebbe o potrebbe essere ridotto nell’ambito di una procedura di risoluzione o come conseguenza di una riduzione degli strumenti di capitale richiesta dall’autorità preposta alla risoluzione responsabile dell’ente. 3. La condizione di cui al paragrafo 1, lettera h), punto iii), si considera soddisfatta a prescindere dal fatto che lo strumento paghi un multiplo di dividendo, purché tale multiplo di dividendo non gravi in modo sproporzionato sui fondi propri. 4. Ai fini del paragrafo 1, lettera h), punto i), la distribuzione differenziata riflette unicamente diritti di voto differenziati. A tale riguardo, distribuzioni più alte si applicano soltanto a strumenti del capitale primario di classe 1 con minor numero di diritti di voto o senza diritti di voto. 5. L’ABE elabora progetti di norme tecniche di regolamentazione per specificare quanto segue: a) le forme e la natura del finanziamento indiretto degli strumenti di fondi propri; b) se e quando le distribuzioni multiple graverebbero in modo sproporzionato sui fondi propri; c) il significato di “distribuzioni preferenziali”. L’ABE presenta i progetti di norme tecniche di attuazione alla Commissione entro 1 febbraio 2015 Alla Commissione è delegato il potere di adottare le norme tecniche di regolamentazione di cui al primo comma conformemente agli articoli da 10 a 14 del regolamento (UE) n. 1093/2010». 12 V. Art. 78 CRR: «Autorizzazione delle autorità di vigilanza a ridurre i fondi propri. 1. L’autorità competente autorizza un ente a riacquistare integralmente o parzialmente o a rimborsare, anche anticipatamente, strumenti del capitale primario di classe 1, strumenti aggiuntivi di classe 1 o strumenti di classe 2 nei casi in cui è soddisfatta una delle condizioni seguenti: a) prima o al momento dell’azione di cui all’articolo 77, l’ente sostituisce gli strumenti di cui all’articolo 77 con strumenti di fondi propri di qualità uguale o superiore, a condizioni sostenibili per la capacità di reddito dell’ente;
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l’art. 77 CRR prevede una procedura autorizzatoria per ridurre i «i fondi propri», tra i quali quelli rappresentativi di capitale primario di classe 1,
b) l’ente ha dimostrato, con piena soddisfazione dell’autorità competente, che i suoi fondi propri, in seguito all’intervento in questione, superano i requisiti di cui all’articolo 92, paragrafo 1, del presente regolamento e il requisito combinato di riserva di capitale quale definito all’articolo 128, punto 6, della direttiva 2013/36/UE di un margine che l’autorità competente può ritenere necessario ai sensi dell’articolo 104, paragrafo 3, della direttiva 2013/36/UE. 2. Nel valutare ai sensi del paragrafo 1, lettera a), la sostenibilità degli strumenti di sostituzione per la capacità di reddito dell’ente, le autorità competenti esaminano in che misura tali strumenti del capitale di sostituzione sarebbero più onerosi per l’ente di quelli che sostituirebbero. 3. Se un ente interviene come stabilito dall’articolo 77, lettera a), e il rifiuto di rimborso degli strumenti del capitale primario di classe 1 di cui all’articolo 27 è proibito dalla normativa nazionale applicabile, l’autorità competente può derogare alle condizioni di cui al paragrafo 1 del presente articolo a condizione che l’autorità competente imponga all’ente, su una base appropriata, di limitare il rimborso di tali strumenti. 4. Le autorità competenti possono autorizzare gli enti a rimborsare gli strumenti aggiuntivi di classe 1 o gli strumenti di classe 2 prima di cinque anni dalla data di emissione solo se sono soddisfatte le condizioni di cui al paragrafo 1 e alla lettera a) o b) del presente paragrafo: a) esiste una variazione nella classificazione regolamentare di tali strumenti che potrebbe comportarne l’esclusione dai fondi propri oppure una riclassificazione come fondi propri di qualità inferiore e sono soddisfatte entrambe le condizioni seguenti: i) l’autorità competente considera tale variazione sufficientemente certa; ii) l’ente dimostra, con piena soddisfazione delle autorità competenti, che la riclassificazione regolamentare degli strumenti in questione non era ragionevolmente prevedibile al momento della loro emissione; b) esiste una variazione nel regime fiscale applicabile a detti strumenti che l’ente dimostra, con piena soddisfazione delle autorità competenti, essere rilevante e non ragionevolmente prevedibile al momento della loro emissione. 5. L’ABE elabora progetti di norme tecniche di regolamentazione per specificare quanto segue: a) il significato di “sostenibile per la capacità di reddito dell’ente”; b) la “base appropriata” sulla quale limitare il rimborso di cui al paragrafo 3; c) la procedura e i dati da fornire affinché un ente possa chiedere all’autorità competente l’autorizzazione a svolgere le azioni di cui all’articolo 77, tra cui la procedura da applicare in caso di rimborso di azioni distribuite a membri di società cooperative, nonché il periodo di tempo necessario al trattamento di tale domanda. L’ABE presenta tali progetti di norme tecniche di regolamentazione alla Commissione entro 1 febbraio 2015. Alla Commissione è delegato il potere di adottare le norme tecniche di regolamentazione di cui al primo comma conformemente agli articoli da 10 a 14 del regolamento (UE) n. 1093/2010».
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attraverso «rimborso», «riacquisto», «ripagamento»13; la procedura viene poi integrata da speciali regole qualora l’ente che provveda al rimborso di strumenti di capitale primario di classe 1 sia una cooperativa (art. 78, par. 5, lett. c, CRR)14. In questa sede basterà dire che quando si nomina il «capitale primario/ aggiuntivo di classe 1» è banale ma non inopportuno invitare a mettere temporaneamente da parte il codice civile e pensare –detto in termini atecnici – a valori dell’attivo bancario da mantenere in funzione di una gestione sana e prudente (secondo lo speciale regime delle società bancarie)15. Insomma, il parametro sulla base del quale limitare il diritto al rimborso non è costituito (o non è costituito soltanto) dalle poste del patrimonio netto, come composto secondo le regole del bilancio di esercizio stabilite dal codice civile; bensì nella misura dell’attivo bancario elaborata secon-
13 V. art. 77 CRR: «Condizioni per ridurre i fondi propri Un ente chiede la preventiva autorizzazione all’autorità competente per unop o entrambe le seguenti alternative: a) riacquistare integralmente o parzialmente o rimborsare gli strumenti del capitale primario di classe 1 emessi dall’ente in maniera consentita dalla normativa nazionale applicabile; b) effettuare il rimborso, anche anticipato, il ripagamento o il riacquisto degli strumenti aggiuntivi di classe 1 o degli strumenti di classe 2, a seconda dei casi, prima della loro scadenza contrattuale». 14 Per contro, nel considerando n. 89 alla CRD IV (cit.) non troviamo la copertura «costituzionale» della disposizione limitativa italiana, perché si enfatizza la necessità/ opportunità di limitare soltanto le distribuzioni di utili o di altre e le componenti variabili delle remunerazioni («Un ente creditizio o un’impresa di investimento che non rispetta pienamente il requisito combinato di riserva di capitale dovrebbe essere oggetto di misure intese a garantire che esso ricostituisca tempestivamente i livelli dei fondi propri. Al fine di preservare il capitale, è opportuno imporre limiti proporzionati alle distribuzioni di utili a carattere discrezionale, compresi i pagamenti di dividendi e i pagamenti delle componenti variabili delle remunerazioni. Per garantire che tali enti o imprese dispongano di una strategia credibile per ricostituire i livelli dei fondi propri occorre che siano tenuti a elaborare e a concordare con le autorità competenti un piano di conservazione del capitale che definisca come saranno applicati i limiti alle distribuzioni e altre misure che l’ente o l’impresa intende adottare per assicurare il rispetto di tutti i requisiti relativi alle riserve di capitale»). 15 Al contrario, non (mi) sembra pertinente il richiamo al principio del bail in (risoluzione interna). Esso, per come è emerso nei testi normativi dell’Unione Europea, riguarda tutt’altro, vale a dire le crisi bancarie e le conseguenti procedure concorsuali: in quel senso tuttavia v. ad es. Di Ciommo, Il diritto di recesso nella riforma delle banche popolari, in La riforma delle banche popolari, a cura di Capriglione, Padova, 2015, p. 101 ss.; Petronzio, La riforma della disciplina delle banche popolari nel d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, in www.dirittobancario.it (Febbraio 2015), p. 6.
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do speciali criteri prudenziali. Si tratta di criteri che non mirano – rectius: non mirano soltanto – a far emergere l’utile o la perdita di gestione, come per definizione tendono le norme di diritto comune; l’obiettivo di fondo va ravvisato semmai nella prevenzione delle crisi bancarie. Ebbene, credo – con il conforto ora delle Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia (si veda il 9° Aggiornamento del 9/6/2015 alla Circolare n. 285 del 17/12/2013, Parte III, Capitolo 4, Sezione III, par. 116) – che la grandezza di riferimento sia proprio il «capitale primario di classe 1»: lo intendo in senso tecnico, secondo la nomenclatura e le regole di formazione dei testi comunitari. Stimo che a questo si riferisca il nostro legislatore, imponendo nel suo linguaggio “eterodosso” la limitazione del rimborso qualora non risulti assicurata la «computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria». Tradotto: diviene obbligatorio limitare il diritto del socio qualora nella situazione patrimoniale in
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V. il 9° Aggiornamento del 9/6/2015 alla Circolare n. 285 del 17/12/2013, Parte III, Capitolo 4, Sezione III, par. 1: «SEZIONE III. RIMBORSO DEGLI STRUMENTI DI CAPITALE. 1. Limiti al rimborso di strumenti di capitale Lo statuto della banca popolare e della banca di credito cooperativo attribuisce all’organo con funzione di supervisione strategica, su proposta dell’organo con funzione di gestione, sentito l’organo con funzione di controllo, la facoltà di limitare o rinviare, in tutto o in parte e senza limiti di tempo, il rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale del socio uscente per recesso (anche in caso di trasformazione), esclusione o morte, secondo quanto previsto dalla disciplina prudenziale applicabile. Tale facoltà è attribuita, ai sensi dell’articolo 28, comma 2-ter, TUB anche in deroga alle disposizioni del codice civile in materia e ad altre norme di legge. L’organo con funzione di supervisione strategica assume le proprie determinazioni sull’estensione del rinvio e sulla misura della limitazione del rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale tenendo conto della situazione prudenziale della banca. In particolare, ai fini della decisione l’organo valuta: — la complessiva situazione finanziaria, di liquidità e di solvibilità della banca o del gruppo bancario; — l’importo del capitale primario di classe 1, del capitale di classe 1 e del capitale totale in rapporto ai requisiti previsti dall’art. 92 del CRR, ai requisiti specifici di fondi propri di cui alla Parte Prima, Titolo III, Capitolo 1, Sezione 3, Paragrafo 5, al requisito combinato di riserva di capitale ai sensi della Parte Prima, Titolo II, Capitolo 1. Resta ferma l’autorizzazione dell’autorità competente per la riduzione dei fondi propri della banca, secondo quanto previsto dall’art. 77 CRR e dal regolamento delegato n. 241/2014. Ai sensi dell’art. 78, par. 3, CRR, quando il rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale è limitato in conformità del presente paragrafo, l’autorizzazione può essere concessa anche se le azioni e gli strumenti rimborsati non sono sostituiti con strumenti di fondi propri di qualità uguale o superiore. Resta fermo quanto previsto dall’art. 78, par. 1, lettera b), CRR».
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cui versa nel concreto la banca sia necessario attingere anche al capitale primario di classe 117. Escluderei per contro, salvo errori, che il legislatore – pur esprimendosi confusamente – abbia inteso legare la portata della limitazione a grandezze composite e di maggiore entità, quali il «capitale aggiuntivo di classe 1» (art. 61 CRR)18 quando non addirittura alla posta dei «fondi propri» (art. 72 CRR)19.
7. (Segue): la computabilità degli strumenti finanziari. Non diverse ragioni sistematiche sorreggono l’estensione, operata dalla legge nazionale, della portata della limitazione agli strumenti finanziari. Si può discutere quanto si vuole se il legislatore interno abbia tenuto a mente la nozione lata di strumento finanziario di cui alla CRD IV oppure la fattispecie presente al codice civile in tema di società cooperative (art. 2526 c.c.); resta però certo che i portatori di strumenti finanziari emessi da cooperative hanno una posizione qualificabile come sociale, nel senso di non essere classificabili come creditori: potendo infatti vantare prerogative sulle riserve divisibili e sugli utili (art. 2545-quinquies, co. 2 e 4, c.c.), essi hanno un diritto di partecipazione alla riappropriazione del netto residuo, mentre non sono titolari di diritti di restituzione20. Di
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A mio modesto avviso, ciò non determina l’esigenza di una riclassificazione contabile del diritto sulla quota di liquidazione a diritto di credito dell’ex socio: l’eventuale accantonamento di risorse dirette a far fronte all’obbligo di liquidare la quota di liquidazione non transita affatto per le poste dell’indebitamento della società, perché il diritto alla riappropriazione mantiene la propria natura: cfr. tuttavia Sepe, Finalità e disciplina del recesso nella riforma delle banche popolari: prime riflessioni, in La riforma delle banche popolari, a cura di F. Capriglione, cit., pp. 122-123. Da questo punto di vista, occorre seguire un criterio coerente con quanto avviene in occasione della liquidazione della società, circostanza nella quale si attua il diritto alla riappropriazione del socio e non un diverso diritto di restituzione: v. infra a nt. 25. 18 V. Art. 61 CRR: «Capitale aggiuntivo di classe 1. Il capitale aggiuntivo di classe 1 di un ente è costituito dagli elementi aggiuntivi di classe 1 dopo la detrazione degli elementi di cui all’articolo 56 e dopo l’applicazione dell’articolo 79.» 19 V. Art. 72 CRR: «Capitale di classe 2. Il capitale di classe 2 di un ente è costituito dagli elementi di classe 2 dell’ente dopo le detrazioni di cui all’articolo 66 e dopo l’applicazione dell’articolo 79». 20 Per tutti v. Capo, Strumenti finanziari e società cooperative, in Profili patrimoniali e finanziari della riforma, a cura di Montagnani, Milano, 2004, p. 45; Cusa, Il socio
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conseguenza, l’equiparazione ai soci di cooperativa di credito impone una parziale disapplicazione, per effetto dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b., di un’altra importante disposizione, quella dell’art. 2526, co. 3, c.c., che assimilerebbe il regime del recesso dei portatori di strumenti finanziari a quello dei soci di s.p.a.: non si deroga ai criteri codicistici finché gli stessi non intacchino il capitale primario di classe 1.
8. Modalità operative della limitazione. Come opera, tecnicamente, la speciale limitazione per adesso gravante soltanto sulle banche popolari cooperative e sulle b.c.c.21 (non anche sulle banche società per azioni)? Qui è necessario tener distinta la disciplina legale, da quella secondaria, emanata, con il 9° aggiornamento del 9 giugno 2015 della circolare Banca d’Italia n. 285 del 17 dicembre 2013 (cit.), avente per oggetto le disposizioni di vigilanza per le banche. L’impressione è che le disposizioni di vigilanza dedicate all’istituto della limitazione del rimborso siano piuttosto scarne: esse assumono carattere conformativo degli statuti delle società bancarie, come vedremo. La legge parla anzitutto di «limitazione» del diritto al rimborso: dunque, non è consentito escludere del tutto il diritto. Come deve interpretarsi la «limitazione»? Nessun dubbio che essa operi nel senso di circoscrivere il diritto al rimborso per la parte che attinga ad attivo patrimoniale necessario a formare il capitale primario di classe 1; mentre non pare trovare uguale limitazione per l’eccedenza. Ci si potrebbe chiedere come ci si debba regolare nel caso in cui il rimborso impegni esclusivamente il detto capitale primario: a stretta logica, il diritto dovrebbe essere escluso, ma bisogna subito aggiungere che una banca le cui poste dell’attivo siano ridotte al punto da formare soltanto capitale primario di classe 1 realisticamente sarebbe già sottoposta alle misure preventive di vigilanza.
finanziatore nelle cooperative, Milano, 2006, p. 31 ss., p. 167 ss.; Onza [e Salamone], sub art. 1 t.u.i.f. – Definizioni, in: Delle promesse Unilaterali. Dei titoli di credito, a cura di Lener, nel Commentario al cod. civ. a cura di Gabrielli, Torino, 2015, p. 568; Marasà, Voto plurimo, voto maggiorato e cooperative, in Banca, borsa, tit. cred., 2016, I, p. 4 ss.. 21 Sul punto non sembra incidere la riforma in itinere delle b.c.c., di cui al momento della chiusura del presente lavoro è noto soltanto il d.l. 14 febbraio 2016, n. 18, in attesa di conversione.
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La «limitazione» si intuisce che possa atteggiarsi almeno in due varianti: secondo una prima, che direi di secca limitazione di ordine quantitativo, il diritto del socio non dovrebbe avere incidenza almeno per la parte gravante sul capitale primario di classe 1, con conseguente rimborso circoscritto all’eccedenza. La seconda variante, invece, riguarda la facoltà attraverso rinvio del pagamento al socio: eventualmente, in soluzione unica, ma differita nel tempo, ovvero attraverso una sorta di «rateizzazione», immaginata per non gravare, parimenti, sul capitale primario di classe 1. In entrambe le ipotesi di rinvio, prudenza vuole l’iscrizione in bilancio d’una riserva che imponga l’accantonamento di utili in misura corrispondente a quanto necessario per far fronte ai ratei del rimborso. Non sarebbero intaccati né capitale primario di classe 1, né altre poste dell’attivo già esistenti al momento dello scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio. Peraltro, ravviserei prudente l’iscrizione dell’anzidetta riserva anche nella prima variante, della limitazione “secca” o “quantitativa”, la quale potrebbe a mio modesto avviso ingenerare una disparità di trattamento tra socio uscente e soci superstiti, facendo gravare esclusivamente sul primo il deficit di patrimonializzazione al momento della cessazione della partecipazione sociale. La riserva che imponga dunque accantonamento di utili negli esercizi successivi rende necessaria la ricostituzione di un attivo sufficiente a far fronte a futuri rimborsi (possibilmente non più limitati): è sano pensare, cioè, che sia doveroso provvedere affinché “il sacrificio di uno non abbia a ripetersi per altri in futuro”. Sotto un certo profilo, si tratta anche di un’idea coerente con quanto si prevede in tema di distribuzione di utili e rendimenti (art. 104, par. 1, lett. i22; Considerando n. 89 CRD IV [cit.]) e in tema di remunerazioni delle cariche sociali (art. 92 CRD IV23) e del personale
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V. Art. 104, par. 1, lett. i, CRD: «1. Ai fini dell’articolo 97, dell’articolo 98, paragrafo 4, dell’articolo 101, paragrafo 4, e degli articoli 102 e 103, nonché dell’applicazione del regolamento (UE) n. 575/2013, le autorità competenti hanno almeno i seguenti poteri: (…); i) limitare o vietare le distribuzioni o il pagamento di interessi da parte di un ente agli azionisti, ai soci o ai detentori di strumenti di capitale aggiuntivo di classe 1 se il divieto non costituisce un caso di default da parte dell’ente». 23 V. Art. 92 CRD: «Politiche di remunerazione. 1. Le autorità competenti assicurano l’applicazione del paragrafo 2 del presente articolo e degli articoli 93, 94 e 95 da parte degli enti a livello di gruppo, di impresa madre e
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(art. 450 CRR24); sicché aggiungerei che a seguito della limitazione
filiazioni, comprese quelle site nei centri finanziari offshore. 2. Le autorità competenti assicurano che gli enti, nell’elaborare e applicare le politiche di remunerazione complessive, che comprendono stipendi e benefici pensionistici discrezionali, per le categorie di personale tra cui l’alta dirigenza, i soggetti che assumono il rischio (“risk taker”), il personale che svolge funzioni di controllo e qualsiasi dipendente che riceva una remunerazione complessiva che lo collochi nella stessa fascia di remunerazione dell’alta dirigenza e dei soggetti che assumono il rischio le cui attività professionali hanno un impatto rilevante sul loro profilo di rischio, rispettino i seguenti principi, secondo modalità e nella misura appropriate alle loro dimensioni, organizzazione interna e alla natura, ampiezza e complessità delle loro attività: a) la politica di remunerazione riflette e promuove una gestione sana ed efficace del rischio e non incoraggia un’assunzione di rischi superiori al livello di rischio tollerato dell’ente; b) la politica di remunerazione è in linea con la strategia aziendale, gli obiettivi, i valori e gli interessi a lungo termine dell’ente e comprende misure intese ad evitare i conflitti d’interessi; c) l’organo di gestione dell’ente, nella sua funzione di supervisione strategica, adotta e riesamina periodicamente i principi generali della politica di remunerazione ed è responsabile della sorveglianza della sua attuazione; d) l’attuazione della politica di remunerazione è soggetta, almeno una volta l’anno, ad un riesame interno centrale e indipendente mirante a verificare il rispetto delle politiche e delle procedure di remunerazione adottate dall’organo di gestione nella sua funzione di supervisione strategica; e) i membri del personale impegnati in funzioni di controllo sono indipendenti dalle unità operative soggette al loro controllo, dispongono della necessaria autorità e sono retribuiti conformemente al conseguimento degli obiettivi legati alle loro funzioni, indipendentemente dai risultati conseguiti dagli ambiti dell’impresa soggetti al loro controllo; f) la remunerazione dei responsabili di alto livello delle funzioni di gestione dei rischi e della conformità è direttamente controllata dal comitato per le remunerazioni di cui all’articolo 95 o, se tale comitato non è stato istituito, dall’organo di gestione, nella sua funzione di supervisione strategica; g) la politica di remunerazione stabilisce, tenendo conto dei criteri nazionali in materia di determinazione dei salari, una chiara distinzione tra i criteri per determinare: i) la remunerazione fissa di base, che dovrebbe riflettere innanzitutto l’esperienza professionale e le responsabilità organizzative pertinenti quali indicate nella descrizione delle funzioni figurante nelle condizioni di impiego; e ii) la remunerazione variabile, che dovrebbe riflettere le prestazioni sostenibili e corrette per il rischio e le prestazioni che vanno oltre il lavoro richiesto per rispondere alla descrizione delle funzioni quale figurante nelle condizioni di impiego». 24 V. Art. 450 CRR: «Politica di remunerazione. 1. In merito alla politica e alle prassi di remunerazione dell’ente relative alle categorie di personale le cui attività professionali hanno un impatto rilevante sul profilo di rischio dell’ente, l’ente pubblica almeno le seguenti informazioni: a) informazioni relative al processo decisionale seguito per definire la politica di remunerazione, nonché numero di riunioni tenute dal principale organo preposto alla vigilanza sulle remunerazioni durante l’esercizio, comprese, se del caso, informazioni sulla
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del rimborso patita da un socio, sia obbligatorio – proprio in virtù di queste disposizioni – adottare misure di moderazione nei compensi spettanti ai titolari delle cariche sociali (in primo luogo agli amministratori) e, poi, al personale dipendente (anche qui, guardando in primo luogo alle retribuzioni dei dirigenti apicali).
composizione e sul mandato del comitato per le remunerazioni, il consulente esterno dei cui servizi ci si è avvalsi per definire la politica di remunerazione e il ruolo delle parti interessate; b) informazioni sul collegamento tra remunerazione e performance; c) le caratteristiche di maggior rilievo del sistema di remunerazione, tra cui le informazioni sui criteri utilizzati per la valutazione delle performance e l’adeguamento ai rischi, le politiche di differimento e i criteri di attribuzione; d) i rapporti tra le componenti fissa e variabile della remunerazione stabiliti conformemente all’articolo 94, paragrafo 1, lettera g), della direttiva /2013/36/UE e) informazioni sui criteri di valutazione delle performance in virtù dei quali sono concesse opzioni, azioni o altre componenti variabili della remunerazione; f) i principali parametri e le motivazioni per qualsiasi regime di remunerazione variabile e di ogni altra prestazione non monetaria; g) informazioni quantitative aggregate sulle remunerazioni, ripartite per linee di attività; h) informazioni quantitative aggregate sulle remunerazioni, ripartite per alta dirigenza e membri del personale le cui azioni hanno un impatto significativo sul profilo di rischio dell’ente, con indicazione dei seguenti elementi: i) gli importi della remunerazione per l’esercizio, suddivisi in remunerazione fissa e variabile e il numero dei beneficiari; ii) gli importi e le forme della componente variabile della remunerazione, suddivisa in contanti, azioni, strumenti collegati alle azioni e altre tipologie; iii) gli importi delle remunerazioni differite esistenti, suddivisi in quote attribuite e non attribuite; iv) gli importi delle remunerazioni differite riconosciuti durante l’esercizio, pagati e ridotti mediante correzioni delle performance; v) i nuovi pagamenti per trattamenti di inizio e di fine rapporto effettuati durante l’esercizio e il numero dei relativi beneficiari; vi) gli importi dei pagamenti per trattamento di fine rapporto riconosciuti durante l’esercizio, il numero dei relativi beneficiari e l’importo più elevato riconosciuto per persona; i) il numero di persone remunerate con 1 milione di EUR o più per esercizio, per remunerazioni tra 1 e 5 milioni di EUR ripartite in fasce di pagamento di 500 000 EUR e per remunerazioni pari o superiori a 5 milioni di EUR ripartite in fasce di pagamento di 1 milione di EUR; j) a richiesta dello Stato membro o dell’autorità competente, la remunerazione complessiva per ciascun membro dell’organo di gestione o dell’alta dirigenza. 2. Nel caso di enti che sono significativi per dimensioni, organizzazione interna e natura, portata e complessità delle attività, le informazioni quantitative di cui al presente articolo sono inoltre messe a disposizione del pubblico a livello dei membri dell’organo di gestione dell’ente. Gli enti rispettano le disposizioni di cui al presente articolo, secondo modalità appropriate alle loro dimensioni, alla loro organizzazione interna e alla natura, portata e complessità delle loro attività, fatta salva la direttiva 95/46/CE».
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Non escluderei infine che le due modalità – limitazione quantitativa e rinvio – possano anche combinarsi. Le contromisure, contabili e remunerative, sarebbero identiche. Ma quale giustificazione sistematica può invocarsi per la limitazione? Per mettere in rilievo la specialità del diritto societario bancario occorre partire da un assunto costante: la regola basilare del diritto societario (non soltanto italiano) vuole la posizione di residual claimant del socio. Una regola notoriamente analizzata, interpretata secondo diverse declinazioni, ma che fuori da ogni possibilità di contestazione affonda le radici nei più generali principi giuridici di sopportazione del rischio di impresa. Quindi: se un creditore vanta spettanze, queste debbono essere soddisfatte in ogni caso con priorità rispetto a quelle dei soci25. Fin qui il diritto comune. Il diritto societario speciale spinge ora alle estreme conseguenze la posizione del socio: non si preoccupa soltanto di tutelare la posizione dei creditori le cui prerogative già siano costituite al momento del recesso o dell’esclusione del socio; al contrario, impone una valutazione di prospettiva, nel senso della necessità giuridica di adottare preventivamente misure affinché i diritti del socio non pregiudichino anche i creditori di domani, la stabilità del sistema bancario e persino i rischi sistemici (v. Considerando n. 5126; Considerando
25 I quali hanno diritto a riappropriarsi solo di un residuo, se esistente: le contestazioni sorgono infatti su questioni nominalistiche, perché spesso cultori del diritto societario non riescono ad intendersi sul senso della parola “socio”: basterebbe sostituire quest’espressione con quella di soggetto sfornito di specifiche prerogative di restituzione e caratterizzato soltanto dal diritto alla riappropriazione di residuo patrimoniale. Cfr. Spada, La provvista finanziaria tra destinazione e attribuzione, in Il diritto delle società oggi: innovazioni e persistenze. Scritti in onore di Giuseppe Zanarone, a cura di Benazzo, Cera e Patriarca, Torino, 2011, p. 3 ss. 26 V. Considerando n. 51 CRD IV: «La crisi finanziaria ha dimostrato l’esistenza di legami tra il settore bancario e i cosiddetti “sistemi bancari ombra”. Alcuni sistemi bancari ombra hanno l’utilità di mantenere i rischi separati dal settore bancario ed evitano quindi potenziali effetti negativi sui contribuenti e un effetto sistemico. Tuttavia, una migliore comprensione delle operazioni dei sistemi bancari ombra e dei loro legami con i soggetti del settore finanziario e norme più rigide che assicurino la trasparenza, una riduzione del rischio sistemico e l’eliminazione delle prassi scorrette sono necessari per la stabilità del sistema finanziario. Segnalazioni aggiuntive da parte degli enti possono essere utili in tal senso, ma è altresì necessaria una nuova regolamentazione specifica».
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n. 8727; art. 134 CRD IV28). Si vuole dire che non si può legittimamente disporre della parte di patrimonio sociale che deve comunque mantenersi affinché gli obiettivi della vigilanza prudenziale non vengano mancati: nel diritto bancario la posizione di residual claimant comporta non soltanto l’assorbimento di perdite di gestione già realizzate, ma anche di perdite o ammanchi di liquidità possibili. In conclusione, il criterio patrimoniale, temperato dal valore di mercato della partecipazione, o in alternativa il valore medio di quotazione – i criteri dell’art. 2437 ter c.c. – non sono immediatamente utilizzabili, se non riveduti e rettificati alla luce dei principi prudenziali. Una cosa mi pare altrettanto certa, però: ogniqualvolta ci si debba allontanare dai criteri dell’art. 2437 ter c.c., sembra doveroso ripartire il sacrificio tra socio uscente e consoci superstiti, secondo modalità varie (es. come detto limitazioni alla distribuzione di eventuali utili, etc.). La necessità giuridica di siffatta ripartizione mi pare un principio di diritto fondato sulla parità di trattamento dei soci, oltreché – espressamente o implicitamente – dalle fonti dell’Unione Europea sopra citate. Il meccanismo pare simmetrico a quello del soprapprezzo sulla
27 V. Considerando n. 87 CRD IV: «Gli Stati membri dovrebbero poter riconoscere il coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico fissato da un altro Stato membro e applicarlo agli enti autorizzati a livello nazionale per le esposizioni situate nello Stato membro che stabilisce il coefficiente. Lo Stato membro che stabilisce il coefficiente dovrebbe poter altresì chiedere al CERS di emanare una raccomandazione di cui all’articolo 16 del regolamento (UE) n. 1092/2010 per lo Stato o gli Stati membri che sono in grado di riconoscere il coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico affinché lo facciano. Tale raccomandazione è soggetta alla regola “conformità o spiegazione” stabilita all’articolo 3, paragrafo 2 e all’articolo 17 di tale regolamento». 28 V. Art. 134 CRD IV: «Riconoscimento di un coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico. 1. Altri Stati membri possono riconoscere il coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico fissato conformemente all’articolo 133 e possono applicare tale coefficiente agli enti autorizzati a livello nazionale con riferimento alle esposizioni situate nello Stato membro che fissa tale coefficiente. 2. Se gli Stati membri riconoscono il coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico per gli enti autorizzati a livello nazionale, essi informano la Commissione, il CERS, l’ABE e lo Stato membro che fissa tale coefficiente. 3. Nel decidere se riconoscere un coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico, lo Stato membro tiene conto delle informazioni presentate dallo Stato membro che fissa tale coefficiente conformemente all’articolo 133, paragrafi 11, 12 o 13. 4. Uno Stato membro che fissa un coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico conformemente all’articolo 133 può chiedere al CERS di emanare una raccomandazione di cui all’articolo 16 del regolamento (UE) n. 1092/2010 per lo Stato o gli Stati membri che possono riconoscere il coefficiente della riserva di capitale a fronte del rischio sistemico».
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partecipazione di nuova emissione, che diviene obbligatorio quando è limitato il diritto di opzione: là, come diceva Vivante29, il nuovo socio deve «mettersi al pari con i vecchi» – deve cioè contribuire a formare non solo il capitale nominale, ma anche le riserve, costituitesi anche grazie al sacrificio dei vecchi soci, che potrebbero avere destinato parte dei loro conferimenti a riserva da sopraprezzo anch’essi o avere consentito all’accumulazione di utili a riserva. Nel caso delle banche popolari, qualora il recesso porti ad una limitazione del rimborso del recedente, ci troviamo dinanzi al sacrificio di un socio, che sarà necessario riequilibrare con il sacrificio dei consoci che non recedono, obbligandoli ad un’accumulazione supplementare di utili. Sotto il profilo procedimentale, infine, merita ricordare che le Istruzioni di Vigilanza emanate da Banca d’Italia (si veda il 9° Aggiornamento del 9/6/2015 alla Circolare n. 285 del 17/12/2013, Parte III, Capitolo 4, Sezione III, par. 1 [cit.]) introducono un passaggio estraneo al sistema di legge: le banche popolari cooperative e le banche di credito cooperativo cui si applica la regola dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. sono tenute ad introdurre una clausola statutaria che detti non soltanto i criteri (di quantificazione) della limitazione, ma altresì gli aspetti del procedimento da seguirsi all’interno della singola banca. L’organo della vigilanza ha optato per una disposizione (regolamentare) di carattere conformativo: anziché stabilire con un precetto inderogabile criteri e procedura, ha lasciato libere le banche davanti agli obiettivi di sana e prudente gestione, riservandosi di controllare ex post. Risulta evidente che in caso di mancata introduzione della clausola statutaria la limitazione non potrà operare; ma darei per scontato che le reazioni siano nell’ordine dei provvedimenti sanzionatori che le Autorità creditizie sono legittimate ad adottare nell’ambito dell’attività di vigilanza avverso ipotesi di gravi irregolarità gestionali. La funzione decisionale viene rimessa all’organo di supervisione strategica, su proposta dell’organo di gestione, sentito l’organo di controllo. Sorprende negativamente un dato: una decisione così importante su diritti del socio viene rimessa ad organi diversi dall’assemblea dei soci (fermo restando, ovviamente, che questa è chiamata alla modifica statutaria che introduce la clausola relativa a criteri e procedura della limitazione del rimborso). Vero è che non si tratta ancora di diritti individuali: tale è ad esempio il diritto al
29 Vivante, Trattato di diritto commerciale, II, Le società commerciali, Milano, 1903, p. 208: «Questo sovrapprezzo, salvo il caso di deliberazioni contrarie, non può considerarsi come un profitto dell’impresa sociale, ma come un’aggiunta di conferimento fatta dai nuovi azionisti per mettersi al pari con i vecchi».
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pagamento della quota una volta esaurito il procedimento di liquidazione; mentre tutte le prerogative inerenti il procedimento di liquidazione sono ascrivibili all’area dei diritti collettivi (organizzativi). Vero è che il codice civile rimette la prima determinazione della quota di liquidazione all’organo amministrativo (art. 2437-ter, co. 2, c.c.). Vero è che i soci realisticamente voterebbero – con metodo “democratico” (= capitario), trattandosi di cooperative – in massa contro ogni ipotesi di limitazione, andando contro ogni interesse della banca e del sistema bancario. Vero è, infine, che l’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. autorizza qualsiasi deroga alle fonti di rango primario; tutto questo concesso, non è chi non veda come – ferma restando la praticabilità della consulenza tecnica preventiva ai sensi dell’art. 696-bis c.p.c. – manchi ad es. una tecnica di riequilibrio giudiziaria come quella prevista dal codice civile, per il caso di contestazione (art. 2437-ter, co. 6, c.c.), sicché insisto a chiedermi come mai identiche limitazioni non siano imposte alle società per azioni bancarie, così non restando che prendere atto di una conclamata deriva positiva verso una forma di neo-istituzionalismo delle cooperative bancarie.
9. Conclusione. Anzitutto, dirò dello svarione grammaticale, cui accennavo in apertura: nell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b.: non è difficile notare l’omissione di un congiuntivo. È una nota comica: non è dato sapere chi abbia scritto la legge, ma per questo errore grammaticale dev’essere un romano. Peccato che anziché andare gli Italiani a risciacquare i panni in Arno, vengano oggi i Toscani ad imbrattarli nella mota del Tevere … È scorretto raccontare la fine di un thriller, ma non posso accomiatarmi da Voi se non ricordando che “Rapina a mano armata” finiva molto male. Protagonista arrestato, personaggi di contorno uccisi, bottino disperso al vento. Nella nostra vicenda, come finirà per i soci delle banche popolari?
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Considerazioni (sparse) su banche e attività bancaria* Sommario: 1. Crisi e “potere del credito”: le banche al centro del problema. – 2. Le banche e il modello italiano. – 2.1. Una domanda aperta. – 3. La banca e una specificità che spesso rischia di sbiadirsi. – 4. Banche e riforme. – 4.1. Paradigmi nazionali sotto stress. – 5. Molti nodi sono ancora fermi al pettine e difficili da sciogliere (la difficoltà di tenere a mente la storia e le lezioni via via impartite).
1. Crisi e “potere del credito”: le banche al centro del problema. Nella coda dell’estate del 2011 e quasi in corrispondenza con il terzo anniversario del fallimento di Lehman Brothers, la crisi finanziaria mostrava un nuovo volto: è emerso il legame perverso (una sorta di “mostruosa fratellanza siamese”, per dirla con Raffaele Mattioli) tra salvataggi bancari e crisi degli stati che li avevano attuati, ed è esploso il problema dei debiti sovrani. L’Italia, uscita indenne dalla precedente tempesta finanziaria, è stata colpita da crisi di fiducia e le nostre banche sono finite nell’occhio del ciclone (difficoltà nel funding, inceppamento della cinghia di trasmissione della politica monetaria, e via andare), divenendo viepiù parte in causa nella ricerca delle ragioni della recessione che ancora oggi ci attanaglia. La crisi ha evidenziato quello che può definirsi il potere del credito per un paese, come il nostro, caratterizzato da un capitalismo con scarsità di capitali e di tipo relazionale, all’interno del quale la banca ha da sempre assunto, gioco forza, un ruolo egemonico. Pensando alla storia economica e alla funzione avuta dal sistema bancario nel nostro paese mi ha fatto riflettere l’incipit di un intervento
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Lo scritto trae spunto dalle relazioni di apertura dei lavori delle due giornate di convegno su “Banche e attività bancaria nel TUB: qualche riflessione su un ventennio di regolamentazione, immaginando il “futuribile” (per dirla con Franco Belli)”, tenutosi a Siena il 19 e 20 settembre 2014, i cui atti sono in corso di stampa nella Collana Studi del Ce.Di.B., edita da Giuffrè.
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del direttore generale della Banca d’Italia nonché presidente dell’IVASS, Salvatore Rossi: «L’Italia ha smarrito la via dello sviluppo economico da molto tempo. Lo dice il senso comune, lo confermano i dati»1. La frase si pone in diretto collegamento con l’obiettivo, divenuto prioritario per il nostro paese, di riparare il meccanismo del credito all’economia, attratto dalla crisi in un circolo vizioso. La cronaca dà risalto a soluzioni che, a mio avviso, hanno per un verso il sapore del dejà-vu e per altro verso quello di escamotage non privo di rischi. Ricordo anche un intervento a Milano di Mario Draghi sul rafforzamento del sistema finanziario europeo, in cui il presidente della BCE si sofferma sui guasti dei modelli bancocentrici, questione da sempre molto in voga in Italia, particolarmente – direi – negli anni antecedenti l’emanazione del t.u.b. Draghi propone una diversificazione delle fonti di finanziamento dell’economia reale, accenna poi alla liberalizzazione del credito avallando l’attrazione in questa attività, fra le altre, delle imprese di assicurazione; tra le forme suggerite resta ferma la sua propensione verso la securitisation2, una delle materie prime alla base dei programmi di quantitative easing-QE. Ebbene, in Italia la staffetta tra banche e assicurazioni risulta già avviata: la troviamo dentro al c.d. decreto competitività3. Il nostro paese ha quindi deciso di smantellare uno dei pochi baluardi ancora presenti nella partizione di funzioni all’interno del mercato finanziario. Si aprono però scenari incerti. Il fatto che le banche continueranno a svolgere un ruolo importante nelle operazioni di finanziamento (devono infatti trattenere «un significativo interesse economico nell’operazione fino alla scadenza della stessa»: art. 22, co. 4, lett. b) lascia intravedere come questa risposta alla stretta creditizia (il c.d. credit crunch) non sia immune da rischi di moral hazard per la struttura del sistema finanziario italiano e per la possibile connessione con lo strumento delle cartolarizzazioni:
1
S. Rossi, Una finanza per lo sviluppo, Sondrio, 2014, p. 2. Draghi, Strengthening the financing side, Keynote speech at the Eurofi Financial Forum, Milan, 11 September 2014, passim. 3 Si veda l’art. 22, co. 3 ss., del d.l. 24 giugno 2014, n. 91, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 116. Per un commento si rinvia a Corvese, La “novità” normativa introdotta dal Decreto Competitività (d.l. n. 91/2014) in tema di disciplina degli intermediari finanziari ex artt. 106 ss del Tub ed i riflessi sulla operatività delle imprese di assicurazione, in corso di stampa negli atti del già citato convegno senese del 19-20 settembre 2014. 2
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illuminante al riguardo un articolo di Milani apparso su lavoce.info4. La diffusa commistione tra banche ed assicurazioni e le riserve sollevate da un modello di banca “OTD” (originate to distribute)5, rendono infatti la soluzione proposta insidiosa e soprattutto miope: una delle peculiarità delle banche (ben descritta ed insegnata da Franco Belli) è costituita dalla funzione sociale del credito propria del sistema bancario. A mio avviso il segnale che si intravede dietro questa offerta di un canale di finanziamento presentato come alternativo alle banche, è quello di un ulteriore svuotamento dell’attività bancaria dalla parte dell’erogazione del credito, il quale segue quello già realizzatosi sul piano della gestione dei mezzi di pagamento6. «Queste banche mi cambiano sempre», afferma Belli nella lezione di commiato agli studenti del 1° giugno 2012, ed è normale che sia così. C’è però un’aria tempestosa che si sta agitando sulle stesse, da tener ben presente: dal nord si stanno infatti levando venti che parrebbero confermare la messa in discussione non solo del ruolo ma addirittura della loro esistenza. In un convegno austriaco dedicato al futuro del sistema finanziario mi ha stupito il titolo di una relazione e il relatore. Europe without banks? viene chiesto ad Erkki Liikanen, un personaggio ormai entrato nella schiera dei “riformatori” delle regole per aver presieduto il gruppo che ha stilato il report dell’ottobre 2012 sulla riforma strutturale del sistema bancario europeo. Il governatore della banca centrale finlandese coglie la provocazione sottesa al tema affidatogli e sottolinea invece il ruolo determinante delle banche per il consolidamento dell’Europa. Ribadisce però la necessità di attuare cambiamenti per fronteggiare eccessive dimensioni e complessità dei colossi finanziari7. L’accento resta quindi fermo su due dei punti cruciali di un sistema finanziario ormai globale. Mi ha colpito anche la domanda, presente in un rapporto dell’ESRB,
4
C. Milani, Se le assicurazioni finanziano le imprese, pubblicato il 12 settembre 2014. Sia consentito il rinvio a Brozzetti, Legislazione d’emergenza e possibili «cortocircuiti». Qualche riflessione intorno all’art. 8 della legge n. 214 del 2011, in Mercati e banche nella crisi: regole di concorrenza e aiuti di stato, a cura di Colombini e Passalacqua, Napoli, 2012, p. 283 ss. 6 Per i profili evolutivi sul tema si veda Sciarrone Alibrandi, Le banche e il sistema dei pagamenti, in corso di stampa negli atti del già citato convegno senese del 19-20 settembre 2014. 7 Liikanen, Europe without banks? The future of financial sector, Keynote speech at the Alpbach Financial Market Symposium, Alpbach, Austria, 28 August 2014. 5
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Is Europe Overbanked?8, peraltro intrisa di “retorica”: studiando il fenomeno delle G-SIFI ho notato come la diffusione del “gigantismo” delle banche sia in effetti un problema soprattutto europeo9. Da tale rapporto si evincono fatti ormai noti, rimarcati in molti degli studi compilati dai vari gruppi di esperti. Il Comitato per il rischio sistemico punta l’indice sui rischi connessi alla radicale trasformazione del sistema bancario europeo degli ultimi venti anni, la quale ha portato (i) ad una rapida crescita delle dimensioni, (ii) ad una maggiore concentrazione, e (iii) ad una notevole leva finanziaria tra le banche più grandi. Interessante è poi il richiamo a ricerche empiriche dimostranti come le banche universali comportino costi sociali più alti rispetto agli intermediari specializzati. Alla notazione fa poi da pendant il rimedio: è necessario procedere ad un riequilibrio della struttura finanziaria dell’UE, riducendo peso ed importanza delle banche. Mi sembra che il cerchio si possa chiudere. Le ricette in atto della liberalizzazione del credito (del resto non proprio una novità: ricordo che in Italia già il t.u.b. ebbe il merito di prestare attenzione all’intermediazione finanziaria non bancaria) e della valorizzazione del modello di banca “OTD” potrebbero in effetti prestarsi al raggiungimento dell’obiettivo di ridimensionare il dominio bancario, ma – come detto – non sono affatto convincenti in quanto restano ancorati alla palude in cui è maturata la crisi del 2007-200810. Preoccupa il dover osservare come, nonostante i diversi anni trascorsi dall’esplosione della crisi, i punti nodali ben evidenziati nel rapporto de Larosière del 2009, ove si associava al too big to fail sia il too big to manage sia il too big to supervise, restino ancora aperti. Proposte efficaci in tal senso vengono periodicamente riproposte o si fermano allo stadio di suggerimenti: la mente va all’esperienza americana e, ad esempio, all’idea della Federal Reserve di modificare il Dodd-Frank Act introducendo un “limite di concentrazione” all’interno del sistema finanziario11
8
Si veda European Systemic Risk Board (ESRB)-Advisory Scientific ommittee (ASC), Report, June 2014, p. 10. 9 Brozzetti, Le istituzioni finanziarie di rilevanza sistemica (c.d. SIFIs): qualche primo appunto sul framework regolamentare, in Scritti per Franco Belli, tomo I, Atti del Convegno di Siena del 9-10 maggio 2013, a cura di Brozzetti, Corvese, Maccarone, Nigro e Santoro, Pisa, 2014, p. 155 ss., cfr. p. 168 ss. 10 Particolarmente efficace al riguardo il libro di Onado, I nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole non scritte, Bari, 2009. 11 La proposta è del maggio 2014 e la strada indicata sarebbe quella di vietare
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oppure alle recenti posizioni di alcuni economisti favorevoli alla reintroduzione del Glass Steagall Act12.
2. Le banche e il modello italiano. Se mettiamo insieme i perduranti limiti del sistema bancario europeo e lo smarrimento cui accennava Salvatore Rossi, appare di estrema attualità un dibattito, anche per il nostro paese, sulla portata della regolamentazione e sulle ragioni che hanno fatto perdere alle banche il loro peso nel sostegno dello sviluppo economico13. Un punto fermo, a mio avviso, potrebbe guidare la riflessione: i connotati del nostro modello. Vorrei ricordare che solo pochi lustri fa, Pierluigi Ciocca e Gianni Toniolo, nella Introduzione ai volumi usciti nel 1999 sulla Storia economica d’Italia, sottolineavano e davano conto della valenza del caso italiano sul piano internazionale. Anche Franco Belli nel libro del 2003 pensato per il corso di legislazione bancaria, riprendeva un saggio di Pietro Bevilacqua ivi pubblicato14, ove si metteva in discussione il “paradigma emulativo” (fondato sulla contrapposizione binaria avanzato-arretrato oppure sviluppato-sottosviluppato), anche alla luce del fatto che l’Italia
aggregazioni da cui scaturiscano colossi finanziari con passività superiori a 10 volte quelle del totale consolidato delle società finanziarie, queste ultime definite in maniera molto ampia: cfr. Federal Reserve System, Concentration Limits on Large Financial Companies, 12 CFR Part 225 Regulation XX; Docket No. R-1489 RIN 7100-AE 18. 12 La notizia è tratta da S. Johnson, Riportare in vita la riforma Glass-Steagall, articolo apparso su Il Sole-24 Ore del 5 novembre 2015. Segnalo che a maggio giravano invece notizie su tentativi di sminuire la portata del Dodd Frank Act, dove aveva trovato spazio la c.d. Volker rule (qualche cenno più avanti nel testo): cfr. Despite the Lessons of the Financial Crisis, Putting America’s Economy at Risk Again, disponibile al link http:// www.huffingtonpost.com/phil-angelides/despite-the-lessons-of-th_b_7345668.html 13 Sul tema si rinvia agli atti del Convegno già citato su Banche e attività bancaria nel TUB: qualche riflessione su un ventennio di regolamentazione, immaginando il “futuribile” (per dirla con Franco Belli), i quali propongono: 1) una discussione su temi “classici” della legislazione bancaria, in una temperie in cui le banche e l’architettura della loro vigilanza/supervisione si trovava al centro di un epocale momento di transizione; 2) una riflessione sul modello regolamentare italiano, anche nei suoi profili evolutivi, messo sotto stress dall’incalzante processo di revisione del diritto europeo e dalla realizzazione dell’Unione bancaria. 14 Bevilacqua, La “storia economica” e l’economia, in Storia economica d’Italia, vol. I, Interpretazioni, a cura di Ciocca e Toniolo, Roma-Bari, 1999, pp. 159 ss.
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aveva ormai superato l’Inghilterra in termini di PIL. Se dopo poco meno di 150 anni dall’unificazione il nostro paese, uno degli ultimi, si ritrovava tra i grandi stati ricchi della terra e sorpassava l’Inghilterra, il paese arrivato primo al decollo industriale e quindi preso a modello, stava a significare che – pur con tutti gli italici difetti – eravamo riusciti ad inventarci un prototipo (basato sul ruolo congiunto delle banche e dell’intervento pubblico) in grado di farci competere ad armi pari con i grandi della terra. Date le premesse (il bancocentrismo) l’attenzione degli studiosi non poteva che andare sul sistema del credito e sul ruolo dello Stato. Nell’invito e nella locandina di un convegno organizzato a Siena nel settembre del 2014 appariva una vignetta fatta da Emilio Giannelli al prof. Belli (dopo la sua nomina a preside della facoltà di Economia) che affermava: «sarò franco», a quella vignetta era stata posta accanto la frase «sopra la banca l’Italia ci campa, senza la banca l’Italia ci crepa», ricorrente nei libri pensati da Belli per i suoi studenti15. Ebbene tale frase riassume gli esiti di quel dibattito e può mettere in guardia per il futuro. Rispetto al superamento del paradigma emulativo, oggi possiamo aggiungere che qualche altra soddisfazione riguardo all’Inghilterra ce la siamo presa in tempi anche più recenti. Sappiamo che le turbolenze finanziarie del 2008 hanno messo ben in luce la “peculiarità” dell’impresa bancaria e posto all’indice modelli di supervisione c.d. light touch e filosofie regolamentari fiduciose nelle doti equilibratrici delle libere forze del mercato. L’Inghilterra, patria del liberismo, ha dovuto scegliere la strada della nazionalizzazione delle banche ed è rientrata tra quei paesi che hanno profondamente rivisto il proprio impianto regolamentare, abbandonando un assetto dei controlli ruotante sul single regulator e costruendo una governance della supervisione valorizzante la Bank of England. Si è andato così delineando un sistema bipolare di vigilanza che, rispetto al controllo del credito, molto richiama – dandogli quindi ragione – quello italiano. Lo dico per inciso: mi sarebbe piaciuto leggere cosa avrebbe aggiunto Belli (in una nuova edizione del libro del 2010) in merito alla critica e al superamento del “paradigma emulativo”. 2.1. Una domanda aperta. L’obiettivo di queste considerazioni sparse sarebbe quello di far emergere il senso di una domanda oggi scontata: cosa è successo alle
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Nel libro del 2010 – Belli, Corso di legislazione bancaria, cit. – si trova a p. 93.
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banche e alla regolamentazione del nostro paese se oggi partecipiamo al gruppo del G8 solo per lignaggio politico?16. La risposta non è facile in quanto molteplici sono gli eventi che hanno interessato il nostro sistema bancario, buona parte provenienti dalla Comunità europea.
3. La banca e una specificità che spesso rischia di sbiadirsi. Nel 1993 con il testo unico bancario viene aperta la strada dell’ampliamento dei confini dell’attività delle banche la quale andrà poi ad intersecarsi con lo sviluppo di forme nuove di intermediazione (si assiste ad un incremento di quella a carattere mobiliare) e con la prestazione di servizi finanziari che soppianteranno le tradizionali tipologie di prestiti. Le banche diversificano così la loro operatività in altri settori del mercato finanziario, rafforzano i legami con le imprese di assicurazione (si formano i conglomerati finanziari), sulla spinta anche delle autorità di vigilanza avviano un processo di concentrazione volto a proteggerle dai colossi esteri17. C’è voluta la crisi del 2007-2008 per richiamare l’attenzione sulle derive seguite dalle banche e dalla regolazione del sistema finanziario, sulla peculiarità dell’attività bancaria e in particolare sul ruolo “magico” del credito, anche in ragione del processo di “creazione di moneta” sotteso all’esercizio della stessa. La contezza della specificità dell’impresa banca si acquisisce se si tengono presenti le “funzioni di interesse pubblico” (uso volontariamente la formula “metagiuridica” scelta dal legislatore degli anni Trenta) che, nel rispetto della natura imprenditoriale della banca, coinvolgono l’attività della medesima. Quella specificità sembrava un dato scontato; ma si è visto che così non è. La tendenza a dimenticarsene, allontanandosi dalle lezioni che la storia via via impartisce, è ricorrente. Come non ricordare un intervento di Padoa Schioppa, pubblicato nel 2000 su Banca, impresa, soc., intitolato, in modo provocatorio, L’autorizzazione bancaria è ancora necessaria?, titolo in sé emblematico della filosofia c.d. market friendly, allora – e a lungo – imperante.
16 Su tale curiosità poggiava la scelta di mettere al centro di alcune delle relazioni tenute dagli autorevoli relatori intervenuti al già richiamato convegno senese del settembre 2014 i profili evolutivi del sistema bancario e dell’attività delle banche. 17 Per una visione d’assieme si veda di recente G. Sabatini, Il cammino del settore bancario verso l’Europa: sviluppi e criticità, in corso di stampa negli atti del già citato convegno senese del 19-20 settembre 2014.
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La ricerca del «paradigma tipico e tradizionale della banca» è uno dei punti salienti negli studi di Franco Belli. Ricordo che nella Premessa al lavoro del 1985 sui servizi bancari18 intravedeva una «metamorfosi progressiva e per certi versi dirompente» dello stesso, prospettava «una possibile obsolescenza dei concetti stessi di attività e di impresa bancaria», si sforzava però di dare ad essi un possibile contenuto. Nelle pagine finali parlava di «rifondazione della legge bancaria», sollevava il dubbio se il collegamento teleologico raccolta del risparmio-erogazione del credito avesse «fatto il suo tempo», intravedeva una “autonomizzazione” della funzione monetaria in sé rispetto all’intermediazione creditizia. Concludeva il suo lavoro citando, in maniera però “avalutativa”, la nuova legge bancaria francese n. 8446 del gennaio 1984, che era stata oggetto di approfondimento nella mia tesi di laurea, con lui attentamente esaminata e molto discussa. In effetti colpiva la definizione, decisamente tautologica di banca: «L’ente creditizio è una società che pone in essere a titolo professionale operazioni bancarie». Quella legge individuava altresì le operazioni bancarie: raccolta di fondi tra il pubblico, concessione di credito e gestione di mezzi di pagamento, anche questi ultimi oggetto di specifica definizione. La legge bancaria francese appariva di particolare interesse anche perché coglieva l’occasio del recepimento della prima direttiva di coordinamento, la 77/780/CEE, per rompere con il passato, in larga parte simile al nostro, e riorganizzare profondamente assetto e controllo del sistema bancario nazionale, muovendo nella direzione della “banque à vocation universelle”. Il che dà anche spiegazione delle future scelte comunitarie confluite nella seconda direttiva di coordinamento del 1989, alla base del t.u.b.: l’Europa, forte dell’esperienza storica tedesca e poi di quella francese, ha spinto su quella strada anche il nostro paese, ove il modello di banca “tuttofare” è stato coniugato con quello del gruppo plurifunzionale, voluto dalle nostre autorità di vigilanza, in quanto idoneo a salvaguardare i principi di specializzazione del nostro ordinamento, preservato anche dalla commistione con il settore industriale dalla preponderante presenza delle banche pubbliche. La “lunga” attesa verso una rivisitazione della legislazione bancaria è testimoniata dal libro del 1993 dal titolo Verso una nuova legge bancaria. Un sistema creditizio in transizione: 1985-1992. Lo scritto ha il pregio di fissare nella mente “i fatti e i motivi” che portarono «al superamento […]
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Belli, I servizi bancari, in Trattato dir. priv., diretto da Rescigno, vol. 12, Obbligazioni e contratti, t. 4, Torino, 1985, p. 941 ss., cfr. p. 944.
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della ‘gloriosa’ legge bancaria del 1936»; Belli sottolinea come non fu solo superamento di contenuti, ma soprattutto di ratio. È dello stesso anno anche la monografia dedicata al decreto attuativo della seconda direttiva di coordinamento, anticamera del t.u.b.: dello stesso forniva una lettura analitica, attenta e critica19. In quegli anni fu anche responsabile di un’unità operativa del “Progetto finalizzato CNR sull’organizzazione e il funzionamento della Pubblica Amministrazione”, diretto da Sabino Cassese, i risultati della quale sono confluiti nel volume, uscito nel 1995, su La disciplina amministrativa del credito e della finanza (nel passaggio dalla legislazione del 1936-1938 al testo unico del 1993). L’imprescindibile intreccio tra pubblico e privato che fa della banca un’impresa “speciale” attraversa in modo trasversale gli scritti del prof. Belli ed emerge con particolare efficacia nel suo Corso di legislazione bancaria del 2010, fortemente intriso di diritto, storia ed economia. Il testo unico bancario, comunque “figlio” della nostra esperienza storica, poco prima dell’avvio della banking union ha festeggiato il suo 21° compleanno con diversi maquillage (ne ho contati 45 fino all’aprile del 2014) più o meno invasivi, una meta direi importante – un tempo rappresentava il raggiungimento della “maggiore età” – per un bilancio a larghe vedute della sua vigenza in un momento di realizzazioni di modifiche a dir poco dirompenti20. Su di un piano generale può ribadirsi che il t.u.b., una delle poche riforme della nostra legislazione bancaria che non nasce da una crisi sistemica, ha ben retto al processo di revisione delle regole. Anche grazie ad esso la legislazione bancaria è andata sempre più acquisendo una propria specificità dentro al diritto dell’economia, accanto (per dirla con Franco Belli) «a sorelle più grandi e più robuste» come il «diritto privatocommerciale, da un lato, e quello pubblico-amministrativo dall’altro»21. Il «nuovo diritto bancario»22 si è posto in rapporto anche dialettico con
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Direttive CEE e riforma del credito. Il decreto n. 481/92: prime riflessioni e materiali, Milano, 1993. 20 Per un tentativo in tal senso si vedano i saggi degli Autori contenuti in Banca d’Italia, Dal Testo unico bancario all’Unione bancaria: tecniche normative e allocazione di poteri (atti del convegno tenutosi a Roma il 16 settembre 2013), Quaderni di ricerca giuridica, n. 75, marzo 2014. Per un efficace sguardo d’assieme si veda da ultimo Capolino, Il TUB: l’esperienza sul campo e le sfide future, in corso di stampa negli atti del già citato convegno senese del 19-20 settembre 2014. 21 Così Belli nel paragrafo Avvertenza e istruzioni per l’uso che apre l’edizione del 2004 della Legislazione bancaria italiana (1861-2003) edita da Giappichelli. 22 Questa è l’espressione utilizzata dal Prof. Abbadessa – durante l’apertura dei lavori del Convegno “Sistema creditizio e finanziario: problemi e prospettive (in ricordo di
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il codice civile (penso al tema della corporate governance)23; rispetto al diritto comune ha fatto da apripista a nuove soluzioni: la mente corre alla disciplina dei gruppi24. Il fatto che le diverse raffiche di crisi abbiano dimostrato come l’impianto del t.u.b. sia risultato solido sul piano della garanzia della stabilità sistemica, sposta su altri piani la ricerca delle ragioni per cui le banche non riescono più a far fronte alla funzione che, nel nostro e in molti altri paesi, storicamente compete loro.
4. Banche e riforme. L’individuazione del perimetro dell’attività bancaria e una visione a tutto tondo sulla sua regolamentazione, nei relativi profili evolutivi, trova interessanti spunti negli scritti del Prof. Belli, che avrebbe potuto raccontarle delle belle sui limiti di un processo regolamentare di risposta alla crisi, a dir poco timido e non lungimirante. La crisi finanziaria ha innescato una riforma del quadro normativo in un contesto di stretta interazione tra piano “internazionale” (G20, FSB, BCBS e IMF, organismi c.d. di soft law spesso però de facto legislatori di prima istanza)25, “nazionale regionale” (Unione Europea, le cui linee di rinnovamento hanno trovato ispirazione oltre che nel Rapporto de Larosière, nei lavori dei gruppi guidati da Liikanen e Van Rompuy) e “nazionale domestico” (si pensi alle significative modifiche dell’apparato normativo che, anche sulla spinta dei mirati studi di Volcker e di Vickers, hanno coinvolto USA e Inghilterra).
Franco Belli)”, svoltosi a Siena il 9 e 10 maggio 2013 – per indicare una disciplina che trova a Siena la propria origine negli anni Sessanta nella neonata Facoltà di Scienze economiche bancarie, grazie a Paolo Vitale, Franco Belli ed altri studiosi che in tale Facoltà sono gravitati, i quali hanno dato vita ad uno studio delle banche con connotazioni spiccatamente interdisciplinari. 23 Da ultimo si veda Donato, La specialità della società bancaria alla luce della nuova disciplina della vigilanza europea sulla governance, in corso di stampa negli atti del già citato convegno senese del 19-20 settembre 2014. 24 Sia consentito il rinvio a Brozzetti, Concentrazione bancaria: da mito a incubo? Il ruolo della regolamentazione rispetto alla forma del gruppo, Pisa, 2011 (liberamente scaricabile come e-book al link http://www.pacinieditore.it/?p=9486) 25 Per una ricognizione dell’assetto dei consessi internazionali si veda Salerno, Il sistema di regolamentazione finanziaria globale: potenziali scenari dopo la crisi finanziaria internazionale, in Dir.banc., 2011, I, p. 123 ss.
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Batteri e virus (abbondanza di liquidità, bassi tassi, elevato indebitamento pubblico e privato, eccessiva finanza strutturata) sono però ancora in circolo e pronti a scatenare una nuova epidemia. Dimensioni e complessità dei colossi bancari sono diventati un problema a carattere europeo per lo stesso sviluppo economico. L’obiettivo, prospettato dai forum della vigilanza internazionale, relativo al the ending del TBTF per le global SIFIs26, appare difficilmente conciliabile con le necessità di ristrutturazioni e consolidamenti dei sistemi bancari nazionali connesse al passaggio al meccanismo unico di supervisione, poiché si prefigura una nouvelle vague di fusioni ed acquisizioni per rispondere ai rischi di patrimonializzazione di banche con bilanci gonfi di sofferenze ed esposte sui debiti sovrani. Colpisce in particolare il ritardo con cui in Europa si è presa in considerazione una risposta alla crisi orientata anche al riassetto strutturale e, in particolare, al profilo del c.d. “ring-fencing”. La proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, nata dall’accennato Report Liikanen del 2012, sulle misure strutturali volte ad accrescere la resilienza degli enti creditizi dell’UE è del gennaio 2014 e segue il G20 di San Pietroburgo dell’anno precedente che ha sollecitato l’attenzione del FSB verso riforme più incisive. Va però tenuto presente che, già sulla scorta di tale Rapporto, Francia, Germania, ed altri paesi, hanno intrapreso un’opera di ridiscussione della commistione tra banca commerciale e banca di investimento. Tema che chiama anche in causa il problema del sistema bancario ombra (o “fantasma” come direbbe Merusi) e più in generale quello dei confini della regolamentazione e dell’assetto della vigilanza/supervisione in un contesto che non può che essere globale27. 4.1. Paradigmi nazionali sotto stress. Negli ultimi anni sono giunte in porto talune delle riforme annunciate in sede europea che hanno aperto scenari solo immaginabili qualche anno fa. a) A parte il varo del pacchetto CRD IV (direttiva 2013/36/UE e regolamento UE 575/2013), che racchiude il nuovo codice bancario europeo,
26 Si veda FSB, Progress and Next Steps Towards Ending “Too-Big-To-Fail” (TBTF), Report of the Financial Stability Board to the G-20, 2 September 2013. 27 Su tali temi da ultimo si vedano Amorosino, I quattro gradi della vigilanza: globale, europea, nazionale ed interna (delle banche): connessioni verticali e trasversali; Nigro, Dalla banca alla banca; Recine, I confini dell’attività bancaria e della regolamentazione: il dibattito in Europa, tutti in corso di stampa negli atti del già citato convegno senese del 1920 settembre 2014 (il saggio di Nigro è anche apparso in questa Rivista, 2015, I, p. 11 ss.).
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ampiamente annunciato e discusso (nella sostanza si dà attuazione a Basilea III), può ricordarsi che nel 2014 ha preso avvio il Meccanismo unico di supervisione (MUV o, nell’acronimo inglese, SSM-single supervisory mechanism). Istituito dal Regolamento 1024/2013/UE del Consiglio, il SSM è divenuto operativo dal 4 novembre 2014 con l’attribuzione alla BCE del potere di definire le linee di condotta per l’implementazione delle pratiche di vigilanza delle competenti autorità nazionali e di intervento diretto su tutti gli istituti di credito ritenuti “più significativi”. Il trasferimento di consegne si è svolto in concomitanza con la pubblicazione degli esiti di una preventiva valutazione approfondita dei rischi rilevanti per la vigilanza (c.d. comprehensive assessment), consistita in un esame accurato della qualità degli attivi di tali istituti (AQR-asset quality review) ed in una prova di stress riferita a scenari macroeconomici avversi. La Banca d’Italia è dunque confluita nella rete di supervisione costruita con l’SSM ed ha ristretto il suo raggio di azione – rimodulato sulla base delle regole fondanti l’accentramento della vigilanza nella BCE – sulle banche “meno significative”. Sempre nel 2014 si è avuto l’accordo in sede UE sugli altri due pilastri dell’Unione bancaria: il meccanismo di risoluzione delle crisi e sulla revisione del sistema di garanzia dei depositi, accordo non proprio scontato nel contesto di euroscetticismo dilagante allora presente. Dal 1° gennaio 2016 è entrato in funzione anche il secondo pilastro dell’unione bancaria poggiante su un complesso (e molto discutibile) meccanismo di risoluzione unico delle crisi (MRU meglio noto con l’acronimo inglese SRM-single resolution mechanism, adottato peraltro nella stessa versione italiana della regolamentazione europea) e su un fondo unico di risoluzione (SRF-single resolution fund), disciplinati dal regolamento UE n. 806/2014. La gestione della crisi delle banche more significant sottoposte alla vigilanza della BCE e di quelle con operatività transfrontaliera viene centralizzata nel Comitato di risoluzione unico (SRB), cui spetta il controllo sulle manovre di salvataggio o di “fallimento” di una banca dell’eurozona. L’SRM ha trovato il necessario pendant nelle direttive 2014/59/UE sul risanamento e sulla risoluzione delle banche (meglio nota con l’acronimo inglese di BRRD-bank recovery and resolution directive) e 2014/49/UE, che ha rivisto le disposizioni riguardanti i sistemi di garanzia dei depositi (cd. deposit guarantee scheme directive-DGSD), recepite ai sensi della legge n. 114 del 9 luglio 2015, legge di delegazione europea 2014 (di particolare interesse i d.lgs. nn. 180 e 181 del 16 novembre 2015). b) Nel 2015 si è presa maggiore consapevolezza della complicata interazione tra (i) la nuova strada tracciata con la posa dei pilastri su cui si
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regge l’unione bancaria, che per i paesi dell’eurozona ha smantellato la valenza dei parametri classici del mutuo riconoscimento e del controllo da parte del paese di origine (supportati ormai soprattutto dal principio di sussidiarietà)28, e (ii) la recezione nel nostro ordinamento, tramite il d.lgs. n. 72 del 12 maggio 2015, del vigente codice bancario/finanziario europeo racchiuso nel pacchetto CRDIV. Si è anche avuta una migliore definizione del c.d. single rulebook, pensato per livellare il campo da gioco in cui si muovono tutte le banche dell’UE e costituito da un set di norme prudenziali vincolanti e uniformi racchiuso nei regolamenti e nelle direttive comunitari nonché nelle disposizioni di secondo livello previste dalle norme tecniche di regolamentazione e di attuazione adottate dalla Commissione su proposta delle autorità del sistema europeo di vigilanza finanziaria (SEVIF). In un intervento dal titolo The Single Rulebook in banking: is it ‘single’ enough? del settembre 2015 il presidente Enria comunica come l’Autorità bancaria europea (ABE/EBA), tra “regulatory technical standards” (RTS) e “implementing technical standards” (ITS) abbia raggiunto la soglia di 122 provvedimenti, cui si aggiungono 46 guidelinee29. In buona sostanza è divenuta concreta realtà un’UE che marcia su più binari; il nuovo ordinamento giuridico delle banche si distingue da quello degli altri comparti del mercato finanziario in quanto è costruito su insiemi di norme la cui rappresentazione grafica comporta articolate ricerche di proprietà e caratteristiche degli elementi costitutivi. La crisi ha infatti favorito una tecnica legislativa comunitaria che può colpire in modo sia orizzontale sia verticale i sistemi finanziari dei singoli stati membri, a seconda della loro partecipazione/aderenza o meno alla moneta unica. Grazie all’utilizzo (sempre più diffuso) del regolamento dotato di diretta applicabilità negli stati membri nonché della direttiva impostata sul principio dell’armonizzazione massima (è il caso della CRDIV), che mina la “tradizionale” discrezionalità nel passato connotante il suo recepimento, l’Europa può entrare ormai (diciamo così) senza chiedere permesso nell’ordinamento giuridico di ogni paese dell’Unione. Con l’unione bancaria sono stati quindi sgretolati i principi, con cui a lungo ci siamo confrontati, dell’armonizzazione minima e dell’home
28 Antonucci, Despecializzazione e principio di proporzionalità, in Riv. trim. dir. econ., 2014, [inserire numero fasciclo?], p. 236 ss. (in corso di stampa anche negli atti del già citato convegno senese del 19-20 settembre 2014). 29 Sui profili problematici del nuovo assetto dei controlli si vedano di recente Ferrarini e Recine, Verso un testo unico bancario europeo. The Single Rulebook and the role of the ECB in prudential supervision, in Bancaria, 2015, n. 6, p. 2 ss.
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country control. Si è aperta una nuova fase per il progetto Europa Unita sognato e avviato nel 1957: l’impianto regolamentare è divenuto a geografia variabile e a “cerchi concentrici” 30. Per il nostro paese si è chiusa una stagione normativa (breve, rispetto alla previgente), la quale ha sicuramente dato buoni frutti: il sistema bancario sviluppatosi in quel “vino vecchio negli otri nuovi” (per dirla con Minervini), è stato in grado di reggere all’ondata iniziale di fallimenti a catena provocati dalla crisi. Parrebbe anche aver sin qui retto alla forza di quest’onda d’urto derivante dalle riforme europee. È però del tutto mutata la visuale e l’ottica di lettura delle sue disposizioni; va soprattutto riposizionato il ruolo delle autorità creditizie, ridimensionati e riorganizzati nei loro poteri; il CICR assume ormai (come auspicato da molti) un ruolo del tutto marginale, mentre la Banca d’Italia oltre ad essere stata depotenziata con l’SSM è stata anche costretta dall’SRM a rivedere l’ottica unitaria del controllo, inaugurato con la legge bancaria del 1936-’38, a seguito della costituzione nel settembre 2015 della nuova Unità di risoluzione e gestione delle crisi separata dal Dipartimento Vigilanza bancaria e finanziaria. Per coloro (diciamo) affezionati, come chi scrive, al paradigma degli anni Trenta, consola la circostanza che “il tetto” resti lo stesso. Il fatto che la Banca d’Italia, nelle sue diverse articolazioni, assuma il ruolo di supporto e di referente della BCE per le banche italiane e che, anche a seguito della realizzazione al suo interno di una struttura a parte per la vigilanza sulle assicurazioni, disponga della facoltà di esportare la sua esperienza di supervisore con connotati di all-finance, lascia aperta la possibilità di non disperdere gli insegnamenti desumibili dalla storia bancaria del nostro paese. Posto infatti che la ricerca delle migliori prassi regolamentari è al centro del nuovo assetto di regolazione/supervisione istituito a livello europeo, nel nuovo contesto delineatosi resta importante non dimenticare: 1) .i punti di forza presenti nelle regolamentazioni nazionali, anche quelli sopravvissuti al vento europeo grazie al principio dell’armonizzazione “minima”. È questo che in Italia ha consentito di salvaguardare presidi, a mio avviso, rilevanti per la stabilità del sistema; penso ad esempio alla possibilità di affiancare alla banca universale – verso cui, come accennato, esprimeva il proprio favor il legislatore comunitario – il
30 L’espressione è di Mancini, Dalla vigilanza nazionale armonizzata alla Banking Union, in Quaderni di ricerca giuridica della Consulenza Legale della Banca d’Italia, n. 73 del 2013, p. 10.
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modello di gruppo (ora ripescato all’interno delle proposte sulle riforme strutturali), nonché al braccio di distanza tra industria e banca; 2).i baluardi presenti nella regolamentazione nazionale a rischio di sgretolamento per possibili sottovalutazioni dei rischi insiti nello svolgimento dall’attività bancaria; penso all’impatto delle nuove disposizioni europee su sistemi consolidati (come quello italiano) di gestione delle crisi bancarie e alle distorsioni (adozione di diversi pesi e misure per i paesi dell’eurozona) emerse nella recente soluzione di stati di malessere di banche italiane31. Ovviamente l’Europa rappresenta anche un’opportunità per cogliere i possibili arricchimenti che dalle altre esperienze possono arrivare. 3) .Nel 2015 si sono anche delineate altre tabelle di marcia che prefigurano ulteriori riforme comunitarie centrate sull’obiettivo di preservare la stabilità finanziaria nel mercato unico. La consapevolezza che un’unione bancaria priva del terzo pilastro costituito da uno schema europeo di assicurazione dei depositi nonché di un comune “backstop” per il SRF difficilmente potrebbe spezzare – come più volte sottolineato nelle sedi ufficiali – il legame tra banche e debiti sovrani e tenere indenni dai costi dei salvataggi bancari i cittadini dei singoli paesi dell’eurozona (tanto si vuole far credere), ha spinto la Commissione a presentare il 24 novembre 2015 la Comunicazione Towards the completion of the Banking Union ed una proposta legislativa su detto schema (EDIS-european deposit insurance scheme).
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Mi riferisco alla corsa ad evitare l’impatto potenzialmente devastante conseguente all’applicazione della regola del bail-in per la soluzione della crisi di alcune banche italiane: cfr. il d.l. del 22 novembre 2015, n. 183, contenente Disposizioni urgenti per il settore creditizio e il comunicato stampa della Commissione europea su Aiuti di Stato: la Commissione approva i piani di risoluzione di quattro piccole banche italiane: Banca Marche, Banca Etruria, Carife e Carichieti, Bruxelles, 22 novembre 2015. La regola del bail-in ha sollevato molte riserve, tra gli ultimi si vedano Baglioni A., Se l’ostacolo all’assicurazione europea dei depositi è il bail-in, in http://www.lavoce.info/archives/38613/ se-lostacolo-allassicurazione-europea-dei-depositi-e-il-bail-in/, 27 novembre 2015 e Catricalà, Intervista sul decreto c.d. salva-banche, in http://www.dirittobancario.it/ news/attualita/intervista-ad-antonio-catricala-sul-decreto-cd-salva-banche, 1 dicembre 2015. Per una visione d’assieme sul nuovo sistema di soluzione delle crisi bancarie si vedano per tutti Maccarone, La crisi delle banche dal testo unico bancario alle nuove regole europee, in corso di stampa negli atti del già citato convegno senese del 19-20 settembre 2014 e Santoro, Bank Recovery and Resolution: An Italian Point of View, in Open review of management, banking and finance, 2015, n. 1, p. 1 ss. (una versione più recente – con il titolo Prevenzione e “risoluzione” della crisi delle banche - al link www. regolazionedeimercati.it/sites/default/files/Santoro%20SRM.pdf).
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La realizzazione dell’unione bancaria procede anche di pari passo con una nuova spinta all’Europa sul fronte del rafforzamento dell’unione monetaria ed economica (UME) istituita con il Trattato di Maastricht del 1992. Nella Comunicazione del 21 ottobre 2015, On steps towards Completing Economic and Monetary Union sono state infatti esaminate le modalità per garantire alla moneta unica la presenza di un sistema finanziario completamente integrato ed unito, presupposto ritenuto essenziale sia per il meccanismo di trasmissione della politica monetaria sia per garantire la fiducia nei confronti delle banche dell’eurozona. La promozione della crescita europea poggia anche sulla strada aperta con un progetto, che vuole essere “di portata storica”, relativo alla creazione di un’unione dei mercati dei capitali per tutti i 28 paesi comunitari. Il dibattito sviluppatosi nel 2015 ha trovato un primo punto di approdo nel Capital Markets Union Action Plan della Commissione uscito a settembre. L’intento è di diversificare le fonti di capitale per le imprese e favorire gli investimenti transfrontalieri, arricchendo così le possibilità di finanziamento dell’economia e riducendo il costo di indebitamento per le imprese europee.
5. Molti nodi sono ancora fermi al pettine (la difficoltà di tenere a mente la storia e le lezioni via via impartite). Il dibattito sul finanziamento all’economia e sul ruolo delle banche resta in effetti sempre aperto e chiama in causa anche gli esiti dell’AQR che hanno evidenziato il problema delle sofferenze (non performing loans) – divenuto ormai sistemico come si evince dai alcuni recenti studi del FMI32 – le quali assorbono capitale di vigilanza ripercuotendosi sulla capacità delle banche di concedere prestiti e quindi di promuovere lo sviluppo33. In primo piano resta anche il tema dei confini dell’attività delle banche nonché quello delle modalità di soluzioni delle loro crisi. Gli scandali sulla manipolazione del mercato e la recente vicenda delle ingenti perdite del colosso Deutsche Bank, danno ulteriore risalto ai rischi con-
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Da ultimo si può vedere il Global financial stabiliy report del 23 ottobre 2015 a p. 34 ss. 33 Per una visione ampia sul tema si rinvia a Gualandri, Tra regole e sostegno all’economia: quale ruolo per le banche dopo la crisi, in corso di stampa negli atti del già citato convegno senese del 19-20 settembre 2014.
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nessi al gigantismo degli intermediari, ma anche ai limiti del modello tuttora vincente di banca “universale”. È diventata realtà la regola del bail-in per i fallimenti bancari, pur nella consapevolezza dei rischi di crisi di fiducia sottostanti alla sua applicazione. Si fa affidamento sulla possibilità dei fondi di garanzia dei depositi nazionali di sostenere le crisi e si scardina una delle basi fondanti la solidità dei sistemi finanziari: le banche hanno svolto la funzione di motore del sistema economico grazie al loro ruolo di anello di congiunzione tra raccolta ed impieghi, fondato sulla certezza dei depositanti di riavere indietro in ogni momento il loro denaro. In buona sostanza il superamento del modello di banca “tradizionale” c.d. OTH (originate to hold) e l’assenza di limiti all’operatività delle banche si sta portando dietro il crollo di quella sorta di “contratto sociale” con lo stato che sin qui le aveva contraddistinte. Resta forte il dubbio se i rimedi introdotti riusciranno a rispondere agli obiettivi posti o se invece si andrà ad incrementare la schiera dei casi di fallimento delle regole. Emblematico in tal senso quello sulle sanzioni contro le manipolazioni del mercato – dei cambi, del LIBOR – inflitte a banche globali: si è visto infatti che restando i benefici più alti dei rischi l’attività è seraficamente proseguita nel tempo34. Ciò anche alla luce del fatto che i dati sembrano dimostrare che i salvataggi statali delle banche possono anche produrre vantaggi per le finanze pubbliche35. La crisi del 2007/2008 ha determinato cambiamenti culturali e normativi che a mio avviso hanno dato ragione e risalto a quei modelli di
34 Lo nota Masciandaro nell’articolo Escludere le banche che manipolano il mercato, pubblicato su Il Sole-24 Ore, del 22 maggio 2015, pp. 1 e 4 35 Salvare le banche? Un affare per gli Stati, in Il Sole-24 Ore del 14 giugno 2015, p. 19. È un dato di fatto che i costi degli interventi pubblici in favore delle banche ha avuto forti incidenze sul PIL (sono ammontate al 5 per cento in Spagna, al 5,5 nei Paesi Bassi, all’8,2 in Germania, a oltre il 22 in Grecia e in Irlanda; trasferimenti in favore delle banche sono stati assai elevati anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito: per approfondimenti si veda, BCE, L’impatto fiscale degli interventi a sostegno del settore finanziario durante la crisi, in Bollettino economico, n. 6, 2015, p. 79 ss.), ma è altresì vero che per alcuni paesi, come l’Italia, malgrado la sfavorevole congiuntura economica, «gli interventi sul mercato del credito hanno generato per lo Stato un flusso di ricavi netti positivi sotto forma di interessi e commissioni»: così Panetta, Indagine conoscitiva sul sistema bancario italiano nella prospettiva della vigilanza europea in riferimento all’esame degli Atti del Governo n. 208 e n. 209 relativi al risanamento e risoluzione degli enti creditizi e imprese di investimento, Audizione al Senato della Repubblica, 6a Commissione permanente (Finanze e tesoro), del Vice Direttore Generale della Banca d’Italia, Roma 29 ottobre 2015.
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insegnamento della legislazione bancaria con forte afflato storico. È il caso del corso tenuto dal Prof. Belli nella facoltà senese di Economia confluito nel “manuale” del 2010. Nel corso di legislazione bancaria, così come da lui impostato, si prende coscienza della “peculiarità” dell’attività bancaria, del ruolo della fiducia all’interno del sistema finanziario, bene prezioso la cui compromissione scatena le crisi e la cui assenza – lo stiamo sperimentando ormai da anni – fa perdere i colpi anche al motore dell’economia; si capisce l’importanza della funzione intermediatrice delle banche e il loro ruolo di sostegno dello sviluppo economico. Se le banche si allontanano dal ruolo di collante tra unità in surplus e quelle in deficit, se si interrompe anche quel raccordo tra politica monetaria-banche-economia reale (penso al ruolo avuto dalla BCE negli ultimi anni) la quale consente di far affluire i fondi alle imprese, evapora l’accennata funzione sociale del credito. Nel corso di legislazione bancaria si coglie l’importanza di collocare gli sviluppi normativi nello scenario storico-economico del loro tempo. Sono fermamente convinta che i processi ed i meccanismi che hanno portato la BCE ad assumere un ruolo di primo piano all’interno della nuova architettura di vigilanza europea, la fatica con cui si sta procedendo alla realizzazione di un’Europa realmente unita (la banking union inaugura un processo di integrazione a velocità differenziate, racchiudendo al suo interno solo 19 dei 28 paesi che costituiscono la Comunità europea), possono essere meglio intesi se si hanno presenti anche i percorsi seguiti dal nostro paese dopo l’unificazione nazionale per la formazione di quella che Paolo Vitale36 chiama l’organizzazione a sistema delle banche, passaggio cruciale per lo sviluppo economico italiano. C’è quindi anche bisogno di modelli di studio della legislazione bancaria (e del mercato finanziario in generale) non fondati sulla “cultura dell’attimino”, direbbe Belli, che aprano la mente e aiutino a guardare lontano. Sono rimasta incantata da una Sua frase che esprime appieno il Suo modo di essere professore e con cui vorrei chiudere queste riflessioni sparse: «Mi piace conoscere il passato, vivere il presente ed insegnare il futuro».
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Pubblico e privato nell’ordinamento bancario, Milano, 1977, passim.
Le distorsioni strutturali dei credit default swap e il rischio di controparte. Ripercussioni sulla stabilità dei mercati e spunti per una revisione della normativa Sommario: 1. Premessa. – 2. Caratteristiche e funzionamento del contratto di credit default swap. – 2.1. (Segue): la struttura contrattuale. – 2.2. (Segue): la standardizzazione contrattuale dei cds: l’ISDA Master agreement. – 2.3. (Segue): significato di credit event. – 2.4. (Segue): estinzione anticipata (c.d. “early termination”). – 2.5. (Segue): Le nuove 2014 Credit derivatives definitions. – 3. Disciplina del contratto di cds nell’ordinamento italiano. – 4. Vendite allo scoperto e naked sovereign credit default swap: “armi a doppio taglio”. – 5. La valenza “segnaletica” dei cds. – 6. I cds come acceleratori di instabilità finanziaria. – 7. Sostenibilità del debito sovrano nell’Eurozona e titoli derivati. – 8. Il nuovo quadro normativo di riferimento. – 9. L’istituzione delle central clearing parties per la “normalizzazione” del mercato dei cds. Profili generali. – 9.1. Il modello USA. – 9.2. Il modello paneuropeo. – 10. Il sistema di clearing per mitigare il rischio di controparte. – 11. La dimensione sistemica delle ccp. – 12. Verso un’armonizzazione delle regolamentazioni USA e UE. Alcuni spunti critici. – 13. Conclusioni.
1. Premessa. Prima del manifestarsi della crisi finanziaria del 2008, i cds (acronimo di cedit default swap)1 erano un prodotto esoterico, ammantato di mistero, noto solo a un ristretto numero di investitori esperti e studiosi
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Cfr., ex multis, Mahadevan, Musfeldt, Naraparaju e Patkar, Credit derivatives insights: Handbook of Credit Derivatives and Structured Credit Strategies. Morgan Stanley (sixth edition), 2012, passim. I cds rappresentano la forma plain vanilla, ovvero più standardizzata, dei derivati su crediti ed anche quella più diffusa sul mercatoi. Per sfatare una prima leggenda, è utile sottolineare che lo strumento in questione è sì nuovo ma non recentissimo: la sua origine risale, infatti, all’inizio degli anni Novanta, mentre la sua forma definitiva si ha nel 1997, con il primo cds dell’era moderna che vide protagoniste Jp Morgan e la European Bank for Reconstruction and Development come controparti.
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specializzati. Utilizzati originariamente come componenti elementari di prodotti strutturati complessi, questi strumenti sono diventati sempre più versatili e adottati per assolvere diverse finalità, quali il trasferimento del rischio creditizio, la remunerazione delle linee di credito sino all’hedging dei prodotti correlati. Oggi sono sinonimo di speculazione incontrollata, avidità sfrenata e in ultima analisi di instabilità di sistema2. Le riflessioni che verranno sviluppate nel presente lavoro affondano le proprie radici nella storia recente. Numerosi studi sull’argomento hanno posto in risalto come l’opacità dei meccanismi di distribuzione del rischio creditizio abbia rappresentato una delle cause della crisi finanziaria in atto. I cds sono stati imputati come corresponsabili sia del crollo dell’American International Group (AIG) nel 20083, sia della crisi del debito sovrano greco4. Agli albori della crisi dei mutui sub-prime il
2 Cfr. Farabullini, Aspetti quantitativi del mercato dei credit default swaps, in Banc., 2009, p. 4. 3 Il caso dell’AIG è particolare in quanto la crisi non fu determinata dal default di altre istituzioni, che avrebbe comportato il pagamento delle protezioni vendute, ma dal solo fatto di averle vendute. Secondo l’analisi svolta dalla Commissione Europea, Communication from the Commission, Ensuring efficient, safe and sound derivatives markets, Brusselles, 3 July 2009, COM (2009) 332, Bear Sterns, Lehman Brothers e AIG avevano posizioni rilevanti nel mercato dei derivati e, seppure la loro insolvenza sia stata originata da eventi estranei al mercato dei derivati, i cds ed i derivati conclusi da questi tre operatori hanno svolto un ruolo determinante nel diffondere la crisi finanziaria all’economia globale. Sulle implicazioni sistemiche del caso AIG cfr., tra gli altri, McNamara, Financial Markets Uncertainty and the Rawlsian Argument for Central Counterparty Clearing of OTC Derivatives, in Notre Dame Journal of Law, Ethics & Public Policy, vol. 28, issue 1, p. 224 ss.; Roe, The Derivatives Market’s Payment Priorities as Financial Crisis Accelerator, 63 Stanford Law Review, 2011, p. 539 ss.; Id., Clearinghouse Overconfidence, in Cal. L. Rev., 6, 2013, 101, p. 1649 ss, disponibile all’indirizzo web http://scholarship.law.berkeley. edu/californialawreview/vol101/iss6/3; Ferguson e Johnson, The God that Failed: Free Market Fundamentalism and the Lehman Bankruptcy, in 7 Economists’ Voice 2010, 1, p. 5; Cochrane e Zingales, Lehman and the Financial Crisis, in Wall Street Journal, September 15, 2009, at A21; Friedman, Two Roads to Our Financial Catastrophe, in N.Y. Rev. Books, April 29, 2010, p. 27; Congressional Oversight Panel, The AIG Rescue, Its Impact on Markets, and the Government’s Exit Strategy, June 10, 2010, reperibile all’indirizzo www.cop.senate.gov. 4 Cfr. Jarrow, The Role of ABS, CDS and CDOs in the Credit Crisis and the Economy, in Annual Review of Financial Economics, 3, 2011, p. 235 ss.; Borsa Italiana s.p.a, La Crisi Finanziaria della Grecia, 5 febbraio 2010; Banca Centrale europea, Bollettino mensile, Frankfurt am Main, 11 febbraio 2010, p. 31; Capriglione, Eurosclerosi e globalizzazione: (Contro un possibile ritorno all’euroscetticismo), in Riv. trim. dir. eco., 2011, 1, pp. 17 ss., 26 ss., 32 ss., 38. Per ulteriori spunti di analisi cfr. anche Nigro, Crisi finanziaria, banche,
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volume dei titoli assicurati è cresciuto in maniera esponenziale. Le società hanno utilizzato i cds, piuttosto che per ridurre i propri rischi, per aumentare la propria esposizione; i protection sellers hanno continuato a vendere protezioni, non curandosi della rischiosità delle posizioni che stavano assumendo, forti del giudizio loro attribuito dalle agenzie di rating. Quando la crisi è implosa, come virus silenti i cds si sono attivati facendo rimbalzare le perdite da un istituto all’altro lungo la fitta ragnatela di interrelazioni in cui ogni perdita ne genera un’altra5. La diffusione incontrollata dei cds sui mercati finanziari mondiali è da ascriversi, in particolare, a due fattori: alla loro libera negoziabilità al di fuori dei mercati regolamentati (over the counter) e, in secondo luogo, alla possibilità per gli speculatori di operare anche “allo scoperto”, cioè di negoziare i cds e scommettere sul fallimento di un emittente pur non possedendo direttamente i bond di quest’ultimo (in questo caso, nel gergo finanziario, si parla di cosiddetti “naked cds” cioè di titoli finanziari “nudi”). Nel presente lavoro, dopo aver descritto l’operazione di cds ed aver compiuto un tentativo di inquadramento di questo strumento nel nostro ordinamento giuridico, si passerà ad illustrare, alla luce dei legami tra il mercato delle obbligazioni sovrane e quello dei cds, l’annosa querelle tra chi propone un’eliminazione dei naked cds e chi, invece, ne sostiene l’importanza e l’indispensabilità per il funzionamento dei mercati, cercando di trarne utili spunti di analisi. Quindi, sulla base degli elementi acquisiti, si procederà ad analizzare il ruolo “destabilizzante” che tali strumenti hanno ricoperto nelle “tempeste” finanziarie abbattutesi tra il 2010 e il 2012 sul debito sovrano di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia6. Gli insegnamenti della crisi e le sfide che pone il contesto impongono una duplice riflessione: la prima sull’efficacia di quanto si è fatto fino ad ora in tema di trasparenza per garantire maggiori tutele; la seconda
derivati, in Dir. banc., 2009, 1, p. 13 ss.; nonché le riflessioni contenute in Aa.Vv., The Great Financial Crisis, a cura di Masera, Roma, 2009. 5 In pratica, la “febbre” dei cds si trasmette ai bond (sottostante) e, con il conseguente aumento dei tassi, abbassa le stime sulle azioni degli istituti bancari che ne sono in possesso, ripercuotendosi di conseguenza anche sui mercati finanziari. 6 Cfr. Alex Yihou, Chung-Hua e Chih-Chun, The Impact of Major Events from the Recent Financial Crisis on Credit Default Swaps, in Journal of Fixed Income, 2012, Vol. 21 Issue 3, p. 31 ss.; Barcellona, Strumenti finanziari derivati: significato normativo di una «definizione», in Banca, borsa, tit. cred., 2012, p. 544 ss.
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se non sia necessario, per rimediare al problema della tempistica e del coordinamento degli interventi, ripensare gli approcci di vigilanza in chiave globale al fine di garantire, attraverso l’armonizzazione delle regolamentazioni in materia, maggiore flessibilità ed adattabilità all’evoluzione del contesto. Vengono, a tal fine, richiamate alcune delle posizioni più stimolanti emerse nel dibattito in corso. Un’analisi sulla efficacia degli interventi di regolamentazione intrapresi sulle due sponde dell’Atlantico, cui si farà riferimento, non può prescindere da una conoscenza dei meccanismi che sono alla base di un cds. Si è deciso, pertanto, di dare al presente lavoro un taglio prevalentemente operativo, mettendo in evidenza gli ambiti di applicazione del credit default swap e le tecniche di gestione a scopi di copertura, arbitraggio e speculazione. Il tecnicismo, a cui si sarà costretti a ricorrere, potrà dare i suoi benefici nell’aiutare a meglio comprendere una concreta applicazione, prima fisiologica, poi patologica, del derivato creditizio.
2. Caratteristiche e funzionamento del contratto di credit default swap. I derivati di credito (credit derivatives), di cui i cds configurano una delle fattispecie più significative, hanno mutato in profondità i mercati creditizi, soprattutto negli ultimi anni. Una domanda naturale, di conseguenza, riguarda la direzione futura della loro evoluzione. Concepiti inizialmente come un formidabile veicolo di redistribuzione dei rischi, oggi costituiscono uno strumento altrettanto formidabile di propagazione di quegli stessi rischi, e possono per tale motivo determinare effetti sistemici su vasta scala, «finendo per avvelenare i pozzi dell’economia reale»7.
7 Così Tarolli, Il fallimento del mercato e i suoi antidoti: la proposta di Regolamento CE ed i sistemi di controparte centrale, in Riv. dir. banc., 2, 2012, p. 1, per il quale, «[d]etto altrimenti, i derivati di credito creano una fitta e invisibile rete di “mutue dipendenze”, capace in presenza di fenomeni anche isolati di insolvenza di determinare pericolose emorragie in danno di un numero potenzialmente indefinito di soggetti». Con specifico riguardo al ruolo dei derivati creditizi nel contesto dell’analisi delle cause della crisi finanziaria, v., invece, Financial Crisis Inquiry Commission (‘‘FCIC’’), Final Report of the National Commission on the Causes of the Financial and Economic Crisis in the United States, January 2011, pp. 50 s., reperibile all’indirizzo www.gpo.gov; Dickinson, Credit Default Swaps: so dear to us,
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Il cds è un contratto derivato la cui funzione primigenia è quella di trasferire l’esposizione creditizia verso un determinato soggetto, una società o uno Stato (reference entity), relativamente ad un determinato valore nominale di riferimento, con la particolarità di non intaccare la relazione debitore-creditore sottostante. In questa accezione originaria il credit default swap viene largamente utilizzato per la strutturazione di portafogli di credito, attraverso la creazione di credit linked notes (cln) e collateralized debt obligations (cdo). Il cds ha inoltre ispirato molte strutture ibride dal funzionamento simile, quali gli equity default swap (eds) e altri prodotti che consentono lo scambio di debito contro capitale8.
so dangerous, disponibile all’indirizzo www.ssrn.com; Barcellona, Note sui derivati creditizi, market failure o regulation failure?, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, IV, p. 653 ss.; e Scannella, I credit derivatives nell’economia dei sistemi finanziari tra innovazione e criticità, in Il Risparmio, 2011, II, p. 91 ss. 8 Come spiega Signorini, Indagine conoscitiva sugli strumenti finanziari derivati, Camera dei Deputati Roma, 15 giugno 2015, p. 3, «Gli strumenti finanziari derivati (futures, forward, opzioni e swap) sono contratti il cui valore dipende dall’andamento di una o più variabili (il “sottostante”): tassi di interesse, azioni o indici azionari, merci, tassi di cambio1. I derivati di credito (come i credit default swaps) consentono di negoziare il rischio di insolvenza associato a determinate attività finanziarie». Dunque, i credit derivatives, a differenza degli altri prodotti finanziari derivati, non “derivano” il loro valore da tassi, valute o merci, bensì da crediti, oppure dal merito di credito di uno o più reference entity. Questa loro caratteristica consente, tra gli altri aspetti, sia il trasferimento del rischio di credito da un soggetto ad un altro senza l’alienazione della proprietà del credito sottostante – evitando quindi le problematiche, in particolar modo legali, relative alla cessione del credito – sia il mantenimento, nell’ambito dell’attività bancaria, dei rapporti con la clientela, il cui rischio di credito è stato ceduto ad altri. «Uno swap anomalo – come è stato definito da Delfini, Questioni in tema di validità degli strumenti finanziari derivati: dagli IRS ai CDS, in Riv. diritto bancario, 2013, p. 9, – perché, a differenza degli swap più tradizionali (si pensi all’IRS Interest rate swap), non si ha qui uno scambio di flussi finanziari di segno opposto, regolato in via differenziale a momenti prestabiliti, ma una copertura di rischio (…) insomma, una replica, talvolta più sofisticata finanziariamente, dei fondamentali del sinallagma del contratto di assicurazione». Non è possibile in questa sede dare conto delle complesse problematiche che ruotano intorno alle categorie in questione. Per una più ampia disamina sul tema si rinvia a Id., I derivati e la causa negoziale. L’“azzardo” oltre la scommessa: i derivati speculativi, l’eccezione di gioco e il vaglio del giudizio di meritevolezza (prima parte), in Contr. impr., 2014, p. 571 ss.; Barcellona, Contratti derivati puramente speculativi: fra tramonto della causa e tramonto del mercato, in Swap tra banche e clienti. I contratti e le condotte, a cura di Maffeis, Milano, 2014, pp. 118 ss.; Di Raimo, Dopo la crisi, come prima e più di prima (il derivato finanziario come oggetto e come operazione economica), in Swap tra banche, cit., p. 41 ss.
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Con il termine rischio di credito si intende la possibilità che la controparte non faccia fronte ai propri obblighi contrattuali in modo tempestivo. Ciò può essere dovuto a: a).un inadempimento, ovvero la temporanea incapacità del soggetto di effettuare dei pagamenti a causa di difficoltà momentanee; b) .un’insolvenza, con la quale il soggetto non è più materialmente in grado di onorare i propri debiti in modo permanente. Tale possibilità può derivare dal tempo mancante alla scadenza del contratto e dalla variabilità attesa del prezzo o del tasso su cui un rischio sia basato. Con i credit derivatives il rischio di credito corrispondente ad una determinata esposizione viene di fatto eliminato o meglio trasferito ad un altro soggetto non direttamente esposto. Tuttavia, a sua volta, il titolare di un derivato ha anche la possibilità di guadagnare da un eventuale default o inadempimento. Benché, dal punto di vista della legittimità causale, questo strumento finanziario si presti principalmente ad essere utilizzato nel settore bancario ed assicurativo per eliminare o mitigare i rischi di credito su determinate attività detenute in portafoglio (funzione di hedging)9, in una normale logica di scambio la sua sfera di applicazione può ampliarsi sino ad assumere una dimensione speculativa (come nell’ipotesi di acquisto di un cds naked, cioè senza detenere un’esposizione creditizia verso la reference entity, o nel caso di vendita di protezione senza detenere posizioni di segno opposto) ovvero dare luogo ad arbitraggi (tra il mercato obbligazionario e quello dei cds) sul profilo creditizio di terzi (funzione di trading)10. Così configurati, i cds rappresentano una sorta di contratto di assicurazione contro il “rischio di fallimento” dei titoli sottostanti, con un prezzo correlato alla probabilità di default dell’emittente.
9 Cfr. Scardovi, Pellizon e Iannacone, Pianificare il credito e gestirne il rischio con i credit derivatives, in Banche e banchieri, 1998, 1, pp. 103 ss. Le banche, solitamente, sono state tra i maggiori compratori di protezione creditizia e le compagnie di assicurazione tra i maggiori venditori. Il settore assicurativo non è regolamentato nello stesso modo di quello bancario e tende a vedere i rischi di credito da un punto di vista attuariale piuttosto che da un punto di vista finanziario. Di conseguenza, le compagnie di assicurazione sono più propense delle banche ad assumersi i rischi di credito. 10 Sull’uso speculativo dei credit derivatives si rinvia a Baldinelli, Caso Enron: analisi e questioni aperte, LUISS, Archivio Ceradi, Roma, giugno-settembre 2002.
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Tant’è che dottrina11 ed operatori di settore, quali la British Bankers’ Association, fanno rientrare i cds, insieme ai credit default options, nella più ampia categoria dei default products. Entrambi consentono di traslare un rischio di credito, senza trasferire l’asset sottostante, mentre il pay off dell’operazione, quantificato e corrisposto al verificarsi di un credit event (in ipotesi, per l’appunto, un default event), in ambo i casi viene determinato al momento della stipula del contratto12. Quanto alla loro negoziazione, i cds sono considerati storicamente titoli over the counter, poiché non scambiati sui mercati regolamentati – con transazioni bilaterali, registrate solo nella contabilità degli intermediari, spesso prive di garanzia sul rischio poiché non esiste una controparte centrale e non esiste un sistema di compensazione e garanzia – e non sottoposti, pertanto, alla stessa disciplina dei titoli standardizzati13. Il mercato otc ammette alla negoziazione modelli contrattuali che solo accidentalmente possono uniformarsi ai prodotti c.d. exchange traded, vigendo su queste piazze una piena libertà delle forme. La mancanza di una forma standardizzata fa sì che tale contratto possa assumere caratteristiche differenti a seconda delle esigenze delle parti. Soggetti ammessi alle negoziazioni otc sono esclusivamente investitori e intermediari finanziari istituzionali. A tale maggiore libertà di movimento fanno da contraltare, oltre al comprensibilmente ben maggiore rischio di controparte, una liquidità di mercato fortemente limitata (essendo le negoziazioni condotte sulla base di rapporti “uno a uno”) e costi di transazione sensibilmente alti. Sicché, come spesso accade in ambito finanziario, il prodotto derivato, nato per scopi specifici – in questo caso assicurativi –, in una determinata fase del suo ciclo di vita si è staccato dal suo sottostante diventando un prodotto indipendente, oggetto di specifiche contrattazioni
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Si veda, in particolare, Carozzi, Contratti derivati finanziari e di credito, Lezioni tenute presso la LUISS, Roma, 23 febbraio 2003. 12 Per un approfondimento in relazione a tali aspetti si rimanda a Caputo Nassetti e Fabbri, Trattato sui contratti derivati di credito, aspetti finanziari, logiche di applicazione, profili giuridici e regolamentari, Milano, 2001, p. 59. Benché da un punto di vista giuridico, la struttura sia piuttosto semplice: «Il cds può essere definito come quel contratto in forza del quale il promittente, verso pagamento di un premio, si impegna ad eseguire un pagamento predeterminato in favore di un promissario al verificarsi di un evento futuro ed incerto (credit event), che esprime il deterioramento del profilo creditizio di un terzo». 13 Al riguardo v. Sepe, La contrattazione over-the-counter, in Riv. trim. dir. eco., 2011, I, pp. 46 ss.
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che, seppur collegato al contesto originale per dinamiche di pricing e fondamentali, ha iniziato a godere di vita propria14. 2.1. (Segue): la struttura contrattuale. Si potrebbe considerare il credit default swap come l’equivalente di una polizza di assicurazione. Nella sua versione essenziale il contratto di cds prevede che A (protection seller) si impegni a pagare una somma di denaro verso B (protection buyer), il quale desidera ridurre la propria esposizione creditizia verso C (reference entity), se entro un periodo di tempo concordato C diviene insolvente rispetto ad un credito di riferimento (reference obligation). Dunque, A si sostituisce a B nel rischio di credito su C e, per corrispettivo, ne riceve un premio15. Nel contratto di cds viene individuato il capitale nozionale, pari al valore nominale delle obbligazioni o del pool di asset il cui rischio si intende trasferire, in base al quale viene calcolato l’ammontare del premio periodico, espresso in punti base annui, versato dal protection buyer fino alla scadenza del contratto o fino al verificarsi dell’evento creditizio (credit event). In altri termini, l’acquirente di un cds, in cambio del pagamento di un premio periodico (periodic fee), ricava un profitto in caso di deterioramento del merito di credito della reference entity16; l’acquisto di un cds implica quindi l’assunzione di una posizione “corta” (sarebbe a dire una
14 Come sottolinea Marcelli, Derivati esotici e margine di intermediazione: riflessi di convenienza e congruità, in Riv. Dir. banc., 16 novembre 2012, «Dall’esame dei derivati esotici, collocati in maniera diffusa ed indifferenziata da taluni primari intermediari presso imprese di varia estrazione, dimensione e connotazione economico-finanziaria, si trae l’impressione che i preordinati e complessi costrutti, di fatto, più che incontrare le esigenze degli operatori economici, abbiano teso funzionalmente a favorire esigenze di pricing e/o di gestione del portafoglio dell’intermediario». 15 Il “premio” può essere corrisposto alla stipula del contratto (pagamento upfront) o tramite pagamenti periodici corrisposti per la durata del contratto. 16 Per convenzione, i cds sono quotati in termini di premio annuo in percentuale del valore nozionale dell’obbligazione sottostante. A determinate condizioni, tale premio dovrebbe coincidere all’incirca con lo spread creditizio (rendimento meno tasso privo di rischio) dell’obbligazione di riferimento di pari scadenza. Per questo motivo è ragionevole attendersi che il premio presenti una relazione trasversale piuttosto stretta con il rischio di credito dell’attività sottostante, espresso dal rating. In effetti, sembra esservi una relazione costantemente negativa tra rating e premi su cds riferiti ad entità sovrane, come si vedrà più avanti.
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posizione di investimento che beneficia di un calo del prezzo di mercato) sul rischio di credito della reference entity17. Se l’acquirente di un cds ha invece un’esposizione verso la reference entity (tipicamente un titolo obbligazionario, ma anche crediti per cassa o di firma), l’acquisto del cds consente di coprire il rischio di credito su quella esposizione. Il venditore di cds riceverà il premio periodico e, nel caso in cui si verifichi un cosiddetto “evento creditizio” relativo alla reference entity, dovrà compensare il compratore di protezione per la perdita subita18. Dopo la stipula iniziale di un contratto cds, il suo status nel tempo può variare per una serie di motivi (al di là del caso di estinzione per un evento creditizio). Il primo è la cosiddetta novazione, ovvero la sostituzione di una delle due controparti originarie del contratto con una terza controparte; un secondo è l’esercizio della clausola che permette la conclusione anticipata del contratto (early termination). Naturalmente, ognuna delle due controparti può “chiudere” dal punto di visto economico la posizione realizzando un’operazione di segno contrario (offsetting transaction); ciò però non annulla dal punto di vista giuridico i precedenti contratti. Questa ultima tipologia di “chiusura” delle posizioni, che nella prassi determina un elevato numero di transazioni allorché fra il venditore e l’acquirente “ultimo” di protezione vi sia una lunga catena di posizioni offsetting intermedie, è di fatto quella maggiormente diffusa sul mercato.
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Invero, come osservano Amadei, Di Rocco, Gentile, Gracco e Siciliano, I credit default swap. Le caratteristiche dei contratti e le interrelazioni con il mercato obbligazionario, Discussion papers Consob, Roma, febbraio 2011, p. 6, «l’assunzione di una posizione corta sul rischio di credito può essere realizzata anche attraverso la vendita allo scoperto di un titolo obbligazionario della reference entity. Questa operazione può essere però più complessa o più rischiosa rispetto all’acquisto di un cds per almeno due motivi (che saranno più diffusamente analizzati oltre): 1) la vendita allo scoperto trova un limite nella scarsa diffusione del mercato del prestito titoli su alcuni strumenti obbligazionari; 2) il contratto di prestito titoli ha tipicamente una durata a breve termine e quindi deve essere rinegoziato periodicamente, generando un rischio legato alla volatilità del costo del prestito titoli. L’acquisto di un cds consente invece di prendere una posizione corta per un lungo periodo di tempo (tipicamente 5 o 10 anni) senza incorrere nei problemi operativi e nei rischi tipici di una vendita allo scoperto di obbligazioni». 18 Oltre a contratti cds relativi ad una specifica reference entity (single name cds), hanno trovato larga diffusione anche contratti su indici rappresentativi di un paniere di emittenti (index o basket cds). Nel caso di specie ciascuna reference entity concorre per la stessa quota al valore nominale complessivo del contratto.
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Il discorso è diverso nel caso in cui vi sia una controparte centrale, cioè un soggetto che si interpone fra le controparti di ogni contratto (attraverso un processo di novazione). In tal caso viene effettuata una compensazione multilaterale delle posizioni fra i diversi operatori e viene determinato per ogni operatore un saldo bilaterale compensato verso la controparte centrale. In questa ipotesi, l’acquisto di un cds seguito da una vendita di pari importo (offsetting transaction) darebbe luogo ad una vera e propria posizione nulla verso la controparte centrale. Al verificarsi dell’evento creditizio indicato dalle parti nel contratto, lo swap viene liquidato con le modalità di settlement previste. Tipicamente esistono due tipi di settlement: i) la modalità cash prevede che il venditore di protezione effettui un pagamento alla controparte pari alla differenza tra il valore iniziale e quello finale del reference bond19; ii) la modalità physical prevede l’acquisto da parte del protection seller a un prezzo prestabilito all’inizio del contratto (o con modalità prestabilite di determinazione del prezzo) del reference bond interessato dal credit event20. Da notare, nell’ambito di questo quadro di indagine, che da quando il numero dei contratti cds è diventato un multiplo degli strumenti di debito sottostanti, la consegna fisica è caduta in disuso a favore del regolamento per contanti. 2.2. (Segue): la standardizzazione contrattuale dei cds: l’ISDA Master Agreement. Sotto l’aspetto dell’adempimento degli obblighi contrattuali, data la necessità di effettuare transazioni finanziarie in condizioni di certezza, gli operatori dei mercati otc: i) aderiscono, in via facoltativa, ad organismi internazionali volti a
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In tal caso il contratto prevede la liquidazione per differenza in contanti, senza lo scambio dei titoli sottostanti (c.d. cash settlement): il venditore è tenuto a corrispondere al compratore la differenza tra il valore nominale e il valore di mercato dei titoli sottostanti. Una variante del cash settlement è la modalità binary payout, secondo cui il venditore della protezione si impegna a pagare, al verificarsi del credit event, un ammontare fisso prestabilito al momento della stipula del contratto. 20 In altre parole, in caso di mancato pagamento degli interessi o del capitale da parte dell’emittente, il contratto di credit default swap prevede che colui che ha comprato la protezione debba consegnare alla controparte il titolo-carta ottenendone il valore nominale.
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garantire il corretto svolgimento delle negoziazioni in cui gli operatori sono le controparti stesse dei contratti (i.e., International Swaps and Derivatives Associations – ISDA, i cui membri si impegnano a rispettare protocolli di condotta commerciale); ii) stipulano “contratti quadro” (accordi bilaterali), che disciplinano le condizioni generali applicabili ai singoli contratti conclusi (tali condizioni sono oggetto di negoziazione tra le parti in funzione della rispettiva forza contrattuale al fine di mitigare il rischio di controparte); iii) stipulano contratti “credit support annex” (csa) che impegnano le parti a calcolare periodicamente le reciproche posizioni in derivati ed a regolarle eseguendo un netting tra posizioni creditorie e debitorie, previo deposito di garanzie. Le iniziative più significative per la definizione di un quadro di riferimento comune applicabile ai contratti su strumenti derivati che si concludono al di fuori dei mercati regolamentati, sono state promosse dall’International Swaps and Derivatives Association (ISDA) con l’adozione del Master Agreement on otc derivatives. La contrattualistica standard predisposta dall’ISDA, nello specifico, si compone: i) di un contratto quadro (il c.d. master agreement) che detta la disciplina generale delle operazioni in derivati, ii) della c.d. schedule con cui le parti prevedono, se del caso, disposizioni aggiuntive o, laddove possibile, derogatorie rispetto a quelle dettate dal Master Agreement e iii) dalle singole confirmation, mediante le quali le parti provvedono alla conclusione dei singoli derivati, stabilendone i parametri essenziali (quali importi di riferimento, data iniziale, scadenza finale, ed altri aspetti ancora). Gli standard contrattuali elaborati dall’ISDA si propongono di ridurre i rischi di controversie che tipicamente insorgono in caso di liquidazione dei contratti al verificarsi di un evento creditizio21. L’ISDA Master Agreement rappresenta una sorta di accordo quadro bilaterale sottoscritto
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Per Villata, La ristrutturazione del debito pubblico greco del 2012: nuove prospettive per l’optio iuris, in La crisi del debito sovrano degli Stati dell’Area dell’Euro. Profili giuridici, a cura di Adinolfi e Vellano, Torino, 2013, p. 128, le regole (e le relative interpretazioni ermeneutiche) «adottate nel contesto dell’ISDA si pongano nel quadro di un richiamo volontario delle parti a “un diritto non statale” secondo le parole del considerando n. 13 del regolamento Roma I, ma la volontà del legislatore comunitario è ancora ferma nell’ascrivere simili ipotesi al modello della recezione materiale. Ne discende che simile riferimento non vale a consentire una deroga alle disposizioni imperative della lex contractus (…)».
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dalle controparti22, il cui scopo è semplificare i rapporti di natura corrente, minimizzando gli obblighi contrattuali di volta in volta necessari per completare transazioni in derivati, fornendo nel contempo una matrice legale uniforme in caso di inadempienza o insolvenza di una delle parti. Nello specifico, da un punto di vista contrattuale, un cds tipico viene documentato secondo il cosiddetto Master confirmation agreement on credit default swaps, ossia un documento di sei pagine redatto in base a uno schema uniforme, i cui termini e condizioni riprendono quelli contenuti nelle definitions. Il ricorso a questo modello ha consentito di raggiungere un elevato grado di standardizzazione nel mercato, di migliorare la trasparenza e l’efficienza delle negoziazioni, contribuendo così a ridurre il clima di incertezza. Per le stesse ragioni l’ISDA ha definito anche le clausole relative agli elementi caratteristici dei contratti e il procedimento per determinare la lista delle deliverable obligations ossia i titoli che possono essere consegnati in caso di physical settlement a seguito dell’accertamento della presenza di un evento creditizio23. Al fine di consentire una più agevole liquidazione dei contratti, è stato introdotto l’accennato principio di compensazione dei pagamenti su contratti di segno opposto fra due controparti, nonché la possibilità per i contraenti di scegliere la modalità di liquidazione per contanti (cash settlement)24 con riferimento al prezzo che scaturisce da un meccanismo di asta25.
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Per l’operatività con la Repubblica Italiana, in particolare, si è avuto cura di redigere un contratto standard in linea con i criteri guida del mercato, ma soggetto al diritto italiano, con specifico riferimento al codice civile e alla disciplina delle obbligazioni contrattuali. Questa specificità è particolarmente significativa, in quanto rappresenta una tutela di grande rilevanza nell’eventualità di contenziosi. 23 Di norma, cinque sono gli elementi fondamentali di una tipica Confirmation: 1) il “sottostante” o reference entity; 2) la scadenza del contratto (completamente flessibile ed aperta alla negoziazione delle parti); 3) le “obbligazioni coperte” (quelle specificate dalle parti nel contratto); 4) il “paniere dei consegnabili” (l’insieme dei titoli di credito tra i quali il protection buyer può scegliere per soddisfare i propri obblighi di consegna nei confronti del protection seller al verificarsi di un credit event); 5) la definizione di credit event (l’insieme degli eventi che attivano il regolamento del contratto di copertura). 24 Con riferimento a tale aspetto, l’adesione al Master Agreement consente, ad esempio, alle controparti di: a) definire l’ammontare netto da trasferire a seguito dell’aggregazione di tutte le partite in credito e debito esistenti nei confronti della stessa controparte; b) chiudere tutte le posizioni riconducibili ad una controparte in default, compensando e conducendo le obbligazioni che ne risultano ad un pagamento unico (close-out netting). 25 L’ISDA ha il compito di determinare i valori di recupero, e in ultima istanza i
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Va opportunamente segnalato che, soprattutto nell’ipotesi dei contratti su entità non sovrane stipulati in base a tale clausola, la compensazione richiesta dagli acquirenti della protezione è stata talvolta superiore alle perdite da essi effettivamente subite. Siffatte ingiustificate richieste sono state all’origine, nel 2001, di una versione modificata della clausola (ulteriormente affinata nel 2003), che molti venditori di protezione hanno incluso nei contratti di cds su obbligazioni bancarie e societarie. E invero, sull’ISDA Master Agreement si sono innestati, nel corso degli ultimi anni, diversi supplementi e 11 appendici al fine di disciplinare i termini specifici dei differenti, numerosi contratti derivati. Nell’aprile del 2009 l’ISDA ha proposto l’adozione del cosiddetto Big Bang protocol, uno standard che ha visto l’adesione su base volontaria di oltre 2000 soggetti fra banche, hedge fund e investitori istituzionali26 e che, incorporando anche le precedenti iniziative, si fonda in particolare: i).sull’obbligatorietà (per gli aderenti al protocollo), e non più facoltà, dell’impiego dell’asta per determinare il prezzo di liquidazione dei contratti cds (precedentemente l’asta era prevista solo su base volontaria, risultando particolarmente disomogenea l’estensione dell’area dei partecipanti)27; ii).sull’attribuzione del compito di definire alcuni degli elementi di liquidazione dei contratti (in particolare, accertamento del credit event e individuazione dei titoli da consegnare) ad un Determination committee (Dc)28.
pagamenti finali dei cds, attraverso un’asta sui titoli in default. Queste aste hanno però delle caratteristiche particolari dal momento che i detentori di cds sono più numerosi dei detentori di titoli. Gli strumenti finanziari in default difficilmente convertibili in liquidità circolano di fatto poco sui mercati, per cui le transazioni sul mercato dell’asta sono relativamente deboli se comparate al valore dei cds. 26 Sulla scia di una continua evoluzione del mercato, il 14 luglio 2009 l’ISDA ha integrato il Big Bang protocol al fine di standardizzare il regolamento dei cds nei casi di ristrutturazione del debito. Tale ultimo protocollo ha preso il nome di Small Bang protocol. 27 Sull’obbligatorietà dell’impiego dell’asta per determinare il prezzo di liquidazione dei contratti cds, Amadei, Di Rocco, Gentile, Gracco e Siciliano, I credit default, cit., p. 14, sottolineano che «le modifiche apportate dall’ISDA abbiano reso più sicuro ed efficiente il ricorso al regolamento per differenziale monetario, creando le premesse per la crescita dell’utilizzo dei cds per finalità di tipo speculativo, in quanto concentrando la liquidità nell’ambito del processo d’asta si rende più efficiente il processo di price discovery, riducendo al contempo i rischi di short squeeze (per i contratti regolati con consegna fisica)». 28 Come illustrato da Villata, La ristrutturazione, cit., p. 128, competenza del Dc è
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Nel caso dei cds sovrani, il default di un Paese implica il pagamento da parte del venditore dell’ammontare dei bond coperti nel contratto. La reference entity è lo Stato che ha emesso le obbligazioni, definite reference obligation. Il periodo di validità della protezione è esplicitato come effective date o termination date. Di norma, il contratto prevede che un intermediario (calculation agent)29 sia incaricato di verificare che il credit event si sia realizzato e di definire l’ammontare del compenso da corrispondere al verificarsi di tale evento. 2.3. (Segue): significato di “credit event”. Più che di default, quando si descrive l’accadimento che tecnicamente origina la prestazione e la controprestazione oggetto del contratto si deve invece fare riferimento al concetto di credit event. Il significato di credit event non è esaurito dalla figura del mero inadempimento, ma risponde, piuttosto, ad un concetto giuridico ampio, tendente a rappresentare una situazione di grave difficoltà economica. Occorre sottolineare che la ratio del credit event è sostanzialmente differente da quella del tradizionale event of default (caso di inadempi-
quello di formulare regole di ‘interpretazione autentica’ delle definitions su richiesta degli operatori del settore, «secondo un modello ben noto al contesto della lex mercatoria, nel quale i componenti del settore del commercio internazionale considerato contribuiscono, attraverso la prassi, alla formazione delle regole del settore medesimo e alla loro interpretazione». Il valore “costrittivo” per le parti di siffatte interpretazioni è garantito «da un impegno convenzionalmente assunto nel menzionato Big Bang protocol degli operatori partecipanti a un determinato mercato a regolare i cds tramite il dispositivo stabilito dall’ISDA». In particolare, come specificato da Amadei, Di Rocco, Gentile, Gracco e Siciliano, Ibidem, tali comitati, che hanno assunto il ruolo in precedenza attribuito ad una delle controparti contrattuali, e che si identificava nella figura del calculation agent, prendono «decisioni vincolanti nei confronti degli aderenti al protocollo riguardo ai criteri ed alle modalità di accertamento della presenza di un evento creditizio, individuano le obbligazioni consegnabili, stabiliscono se vi sia la necessità di svolgere l’asta per la determinazione del prezzo di settlement dei contratti e ne determinano le relative modalità operative». 29 Su tali aspetti cfr. Girino, I contratti derivati2, Milano, 2010, pp. 141 s., il quale riconosce l’arbitrarietà delle valutazioni di (variazione di) merito creditizio delle reference entities, che si traducono in credit events: «la decisione è di norma rimessa ad un soggetto giuridicamente distinto (notification agent o calculation agent), ancorché pur sempre appartenente al gruppo dell’emittente stesso e di regole investito di discrezionalità assoluta nello stabilire se un evento di credito abbia avuto luogo (…) e quindi nel decidere se farlo valere o meno nei confronti dei sottoscrittori finali».
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mento), in quanto quest’ultimo ha lo scopo di far decadere il debitore dal beneficio del termine al verificarsi dei primi segnali che possono preludere ad un suo futuro stato di insolvenza e, quindi, tende ad essere il più ampio possibile, a tutela e a vantaggio del creditore. Il credit event, al contrario, ha il fine di rilevare nel modo più oggettivo possibile le situazioni che rappresentano un tangibile ed inequivocabile segno di insolvenza del debitore, poiché da queste determinazioni dipenderà il sorgere della prestazione pecuniaria dovuta dal venditore della protezione. Proprio in ragione della genericità del concetto di “grave difficoltà economica” si impone una verifica dello stesso fondata su criteri oggettivi, ancorati a parametri legali e finanziari condivisi dalle parti, basata su eventi pubblicamente verificabili. A questo fine, le clausole contrattuali relative al credit event fanno riferimento sia a public avaible information (cioè alla diffusione della notizia di realizzazione della condizione attraverso fonti di informazione accreditate), sia alla c.d. materiality clause (che impone il pagamento solo in presenza di un nocumento effettivamente esistente per il protection buyer, e non per un qualunque deterioramento della capacità creditizia della reference entity)30. L’ISDA, a tale proposito, individua con accuratezza differenti tipologie di eventi creditizi che determinano la liquidazione dei contratti. Le fattispecie riconosciute sono le seguenti: 1) .bankruptcy (definizione che riprende quella contenuta nell’ISDA Master Agreement31);
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Affinché il pagamento sia dovuto, il manifestarsi di uno degli eventi menzionati deve essere accompagnato da un significativo deterioramento del valore del titolo di riferimento. Questa clausola, nota come materiality, serve a garantire che il pagamento venga effettuato solo se l’evento dannoso risulti sostanziale. Per questo motivo, al fine di ridurre al minimo gli elementi discrezionali di giudizio, si ricorre alle c.d. “soglie di rilevanza” che fanno scattare il pagamento solo dopo significative variazioni della qualità del credito (trascurando le piccole variazioni di valore che possono verificarsi nel corso del tempo o inadempienze tecniche che non intaccano il merito creditizio dell’emittente). 31 La definizione ISDA, attraverso i suoi paragrafi, delimita le situazioni che possono rientrare nell’evento di “bancarotta”. La stessa definizione, infatti, nella versione 2003, è stata privata di una clausola che, in diverse occasioni, aveva creato situazioni di incertezza sul mercato nel determinare se un evento di bancarotta si fosse o meno verificato. È considerata bancarotta una delle seguenti tipologie di evento creditizio della reference entity: 1) fallimento; 2) dichiarazione di insolvenza o riconosciuta incapacità a pagare i debiti per quanto dovuto; 3) ammissione a procedure concorsuali; 4) nomina di
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2). obligation acceleration (condizione che si verifica quando l’emittente non onora una obbligazione avente scadenza precedente, rendendo immediatamente rimborsabile anche una avente scadenza successiva); 3). obligation default (evento che si verifica quando l’obbligazione, ancorché non scaduta, potrebbe divenire immediatamente rimborsabile in presenza di default dell’emittente); 4). failure to pay (si verifica quando l’emittente si rifiuta di pagare quanto dovuto su una o più obbligazioni, per un ammontare totale non minore al payment requirement, che lo standard ISDA quantifica nel controvalore di $ 1mln)32; 5). repudiation/moratorium (quando l’emittente o una autorità governativa disconosce la validità dell’obbligazione); 6) restructuring [comprende i casi di ristrutturazione del debito con modifica delle condizioni, in peius per il creditore. La definizione descrive con chiarezza questo evento che, sintetizzando, rappresenta un accordo tra la reference entity e gli “holder” di qualunque obbligazione (accordo che non deve essere previsto ab initio nei termini dell’obbligazione stessa) in merito ad una riduzione di capitale o interessi, un differimento nel pagamento di capitale o interessi, cambiamento nella graduatoria di pagamento (subordinazione) cambiamento della valuta (eccetto “permitted currency”]. Vi è ampio consenso in dottrina sul fatto che l’evento creditizio della ristrutturazione sia, tra quelle sopra indicate, la fattispecie più difficile da negoziare in un contratto di cds33. In linea generale, ciò è dovuto a due fattori. Anzitutto, la ristrutturazione può spesso configurarsi come un evento creditizio “soft”, in cui la perdita per il detentore delle obbligazioni di riferimento non è certa. In secondo luogo, poiché la ristrutturazione mantiene spesso in essere una complessa struttura per scadenze delle obbligazioni dell’ente referente (contrariamente ai casi di insolvenza o fallimento, ove vi è un’accelerazione nell’adempimento
un amministratore o liquidatore per tutte le attività; 5) processi di espropriazione della proprietà o parte di essa. 32 In tal caso viene concesso un margine di tempo per provvedere al pagamento pari a tre giorni lavorativi o, se specificato, un periodo di tolleranza (grace period). 33 Cfr. Fitch Investors Service, Credit events in global synthetic CDOs: yearend 2003 update, Fitch Credit Products Special Report, June 2004; O’Kane, Pedersen e Turnbull, The restructuring clause in credit default swap contracts, Lehman Brothers Fixed Income Quantitative Credit Research Quarterly, vol. 1°trim./2°trim. 2003, pp. 45 ss.
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del debito), è possibile che sussistano passività con scadenze diverse e notevoli differenze di valore. Il punto nodale è che tali circostanze non necessariamente configurano un danno nei confronti dei creditori. Ciò fu evidente, ad esempio, nel settembre del 2000 quando Conseco, una compagnia d’assicurazione americana, estese la scadenza di alcuni prestiti e ne modificò la cedola, generando un credit event. Il caso fu emblematico poiché non si poté riscontrare alcun danno patrimoniale a carico dei detentori del debito ristrutturato, che invece furono favoriti dalle modifiche decise dall’emittente. I protection buyer si trovarono così a poter beneficiare sia della copertura accesa che del debito ristrutturato34. Per giunta, il restructuring è l’unico credit event per il quale si possono inviare credit event notices multiple (fino alla concorrenza dell’intero valore nozionale35). Il buyer può decidere di escutere solo una parte del contratto
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Il dibattito dottrinale che ne seguì ha portato l’ISDA a distinguere diverse tipologie contrattuali, che differiscono per la disciplina applicata alla ristrutturazione: i) no restructuring (XR): contratti nei quali la ristrutturazione non determina un credit event valido per il cds in oggetto; ii) full restructuring (R): la ristrutturazione è considerata a tutti gli effetti un evento creditizio e l’acquirente di protezione non ha limiti nella scelta dei bond consegnabili. iii) modified restructuring (MR): tipologia introdotta nel 2001; funziona come la full restructuring, ma limita le obbligazioni consegnabili a quelle aventi una maturity inferiore o pari a 30 mesi a partire dal momento della ristrutturazione. iv) modified-modified restructuring (MMR): integrazione della MR introdotta nel 2003, estende la durata delle obbligazioni consegnabili a 60 mesi successivi la ristrutturazione del debito. In tutti i casi descritti è comunque previsto un ammontare di debito, pari generalmente a 10 milioni di dollari, che deve essere interessato da un processo di ristrutturazione per dare luogo ad un credit event. Tali modifiche, escludendo dalla consegna le obbligazioni con scadenza più lontana, evitano che i protection buyer possano sfruttare le condizioni di mercato, ad esempio tassi di interesse elevati, per consegnare obbligazioni con valore quotato molto sotto la pari. La piena libertà nella scelta dei titoli consegnabili è comunque garantita all’acquirente nel caso in cui il credit event venga rilevato dal debitore stesso. Ancora oggi esistono profonde divisioni tra le due sponde dell’Atlantico per quanto riguarda la ristrutturazione. Lo standard per le reference entit europee è il Modified Restructuring; quello per le reference entities degli U.S., dell’Australia e della Nuova Zealanda è il Modified Modified Restructuring. L’esistenza di differenze tra i due standard (Mod R) e (Mod Mod R) è fisiologicamente riconducibile ai tipi di mercato in cui si opera: infatti in Europa, rispetto ad altre piazze finanziarie, è più comune restringere la trasferibilità di uno strumento di debito, così come, sempre nel mercato europeo, i bond ed i loan hanno scadenze maggiori di 30 mesi. 35 Ossia il parametro di riferimento per il calcolo dei flussi di pagamento, che fornisce una misura del volume delle negoziazioni ed è tendenzialmente prefissato per la durata
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e lasciare la “rimanenza” in essere come se fosse un contratto separato. Questo privilegio, utile nel caso di hedging di posizioni, viene consentito esclusivamente al buyer: solo se è il compratore a reclamare l’evento, si applicano le restrizioni sulle deliverable obligations (per tipo e scadenza). Nel caso di emittenti sovrani la definizione di evento creditizio è diversa, poiché non vi è una disciplina applicabile alla bankruptcy di uno Stato. I cds su titoli pubblici sembrano, infatti, aver recepito in misura minore la nuova formulazione, e ciò probabilmente perché nel caso di specie la probabilità di attivare una ristrutturazione in assenza di un reale deterioramento della situazione finanziaria è considerata molto bassa. Nei mercati emergenti la maggior parte dei cds su obbligazioni sovrane è orientata al titolo sottostante in termini di indicazione del “credit event” e di titolo consegnabile, e l’ipotesi di una ristrutturazione “opportunistica” è ritenuta meno percorribile nel caso di obbligazioni ad ampia diffusione. L’elenco dei credit events, deputato a generare i rimborsi, è stato ampliato dall’ISDA, includendo nuove formule di salvataggio delle banche che prevedono l’apporto anche di soggetti privati. Le nuove crisi finanziarie scoppiate dal 2007 con il crack della Lehman Brothers fino a quelle europee del debito sovrano hanno reso improcastinabile un aggiornamento delle definizioni di event of default e soprattutto hanno messo in evidenza alcuni difetti dei contratti cds. La ristrutturazione del debito della Grecia, nel 2012, il sequestro da parte del governo olandese di obbligazioni del prestatore di garanzie SNS Reaal NV, nel febbraio 201336, e da ultimo il salvataggio dell’istituto portoghese Banco Espirito Santo37 nel 2014, hanno pertanto indotto gli enti regolatori a modificare i contratti dei cds.
del contratto, ma non rappresenta direttamente né l’esposizione né il rischio di ciascuna delle due parti. 36 Il governo olandese ha nazionalizzato SNS Bank, istituto di credito che versava in gravi difficoltà, espropriandone il debito subordinato. Gli obbligazionisti hanno visto così azzerare il valore dei titoli sui quali avevano acquistato il cds ma non hanno potuto beneficiare del rimborso in quanto le regole vigenti non prevedevano tra gli eventi del default l’esproprio. 37 Riguardo, invece, alla vicenda dell’istituto portoghese Banco Espirito Santo (BES), i cds subordinati non hanno funzionato. In questo caso, è stato deciso dalle autorità portoghesi il trasferimento di tutti gli attivi non incagliati, i depositi e i titoli di debito senior in una nuova entità (“good bank”), mentre tutti gli altri asset (i crediti deteriorati o tossici, il debito subordinato e il capitale proprio) sono rimasti nella vecchia struttura di dismissione (“bad bank”). Con riguardo ai cds, il ricorso al bail-in ha fatto sì che i contratti si trasferissero alla nuova banca.
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In particolare, le principali innovazioni introdotte sono due: 1) l’aggiunta di un evento di credito denominato “Intervento governativo”, e 2) la rimozione della clausola di “default incrociato”. In virtù di queste novità, i contratti cds permetteranno ai loro possessori una maggior copertura anche nell’ipotesi di insolvenza di istituti bancari come nei casi sopra menzionati. Oltre alle fattispecie universalmente riconosciute, esistono altre situazioni di mercato che possono, per volontà delle parti, costituire un credit event. Tali circostanze non sono riconosciute universalmente ed entrano dunque in gioco solo se specificatamente incluse nel contratto. Tra queste, il downgrade è sicuramente un accadimento degno di nota ed è solitamente considerato un evento creditizio in numerosi contratti strutturati. Le parti sono libere di accordarsi sulle modalità di rilevazione: quali e quante agenzie di rating sono rilevanti, tipologia di rating, tipo ed intensità di downgrade. Legato al downgrade è anche un altro evento contemplabile delle parti, definito upon merger. Questo si verifica quando il rating di una società nata dalla fusione della reference entity con uno o più soggetti risulta inferiore a quello dell’emittente originario. Il cross default, altro credit event minore, prevede invece l’allargamento, in caso di mancato rimborso di un’obbligazione, dello stato di insolvenza a tutti i rapporti posti in essere dall’emittente. 2.4. (Segue): estinzione anticipata (c.d. early termination). A prescindere da un accordo intercorso tra le parti, l’estinzione anticipata di un cds può dipendere anche dal verificarsi di determinati eventi patologici appositamente previsti in contratto. L’art. 6 dell’ISDA Master Agreement prevede la clausola generale di “early termination”, sarebbe a dire di risoluzione e/o cessazione anticipata delle “asset swap transactions” regolate nella cornice ISDA38. Tale clausola trova applicazione, anzitutto, nei seguenti casi di “event of de-
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Ai sensi della section 6 (a) del Master Agreement, al verificarsi di uno degli events of default (sopra specificati) con riferimento ad una delle parti contrattuali (c.d. defaulting party) la parte in relazione alla quale l’evento non si è verificato (c.d. non-defaulting party) ha diritto di risolvere (to terminate) la documentazione contrattuale a condizione che abbia inviato alla defaulting party una comunicazione scritta, con preavviso di 20 giorni lavorativi, specificando l’evento che si è verificato ed indicando, nel rispetto del suindicato preavviso, la data in cui tutti i derivati in essere a tale data sono terminati in anticipo rispetto alla rispettiva scadenza naturale prevista nelle relative confirmations.
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fault” definiti all’art. 5, lett. a (come integrati nella Schedule e dagli altri documenti contrattuali): i) “failure to pay or deliver”, i.e. mancato pagamento e/o mancata consegna di somme o titoli dovuti in base agli accordi, senza che il relativo inadempimento sia rimediato entro 3 giorni lavorativi dall’avviso di inadempimento; ii) “breach of agreement”, i.e. altri inadempimenti diversi da quelli di cui al punto che precede, non rimediati entro 13 giorni lavorativi dal relativo avviso di inadempimento; iii) “credit support default”, i.e. inadempimenti relativi ai c.d. “credit support documents” tra cui, in particolare, il credit support annex che disciplina, tra l’altro, gli obblighi di col lateralizzazione); iv) “misrepresentation”, i.e. violazione delle dichiarazioni e garanzie rese dalle parti nel contesto dei vari accordi; v) “default under specified transactions”, i.e. inadempimento, ripudio, contestazione e/o rifiuto di una parte di adempiere ad altre specifiche operazioni richiamate, indicate come “specified transactions” (con ciò intendendosi altri contratti derivati, di swap, opzioni e altre operazioni tra le medesime parti, combinazione delle stesse, il tutto come definito nell’art. 14 dell’ISDA Master Agreement); vi) “cross default”, i.e. l’inadempimento di una delle parti (o di entità del gruppo ad essa facenti capo come specificato nella schedule) rispetto ad altri contratti di finanziamento o altre operazioni di indebitamento, nel caso in cui tali inadempimenti superino la soglia di $ 10.000.000; vii) “bankruptcy”, i.e. fallimento, procedure concorsuali o ipotesi di scioglimento, e altri casi in cui una parte dichiara e/o manifesta per iscritto la propria incapacità o impossibilità di pagare; viii) “merger without assumption”, con ciò intendendosi casi di operazioni di fusione o concentrazione, senza assunzione della responsabilità da parte dell’entità risultante dalla fusione per i debiti e/o le passività della parte contrattuale. La early termination (art. 5, lett. b, e art. 6, lett. b, dell’ISDA Master Agreement) si applica anche nel caso di termination event, vale a dire, ai sensi degli artt. 5 e 14 dell’ISDA Master Agreement: i) l’illegality, i.e. l’illegittimità sopravvenuta delle prestazioni e/o obbligazioni contemplate negli accordi, per effetto di nuove leggi o provvedimenti normativi o interpretazioni sopravvenute di precedenti disposizioni normative; ii) il ricorrere di ipotesi di tax event, i.e. cambiamenti della legislazione fiscale e/o per provvedimenti delle autorità sopravvenuti rispetto alla firma degli accordi, che importino un onere fiscale aggiuntivo rispetto alla struttura originaria della transazione; ovvero iii) di tax event upon merger, i.e. i casi in cui l’onere fiscale aggiuntivo sia conseguenza di un’operazione di fusione o concentrazione; iv) credit event upon merger, i.e. sulla base dello schedule, part. I, lett. d, il sostanziale deterioramento
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del merito creditizio di una delle parti a seguito di operazione di fusione e/o concentrazione. Per completezza si ricorda che alcune volte la documentazione contrattuale può prevedere ipotesi di scioglimento anticipato automatico (c.d. automatic early termination) al ricorrere di specifiche ipotesi di insolvenza/fallimento. In questi casi, al verificarsi dell’evento la risoluzione opera automaticamente anche se la non-defaulting party non è a conoscenza dell’evento da cui dipende lo scioglimento automatico del derivato. Più in generale da sottolineare – come avverte la dottrina39 – che in sede di definizione del contratto le parti sono libere di subordinare la sua attivazione al verificarsi di uno o più eventi creditizi, oppure di non applicare la documentazione ISDA, con la conseguente necessità, al fine di evitare controversie, di specificare i credit event con estrema accuratezza40. Attualmente sono presenti clausole di risoluzione anticipata al valore di mercato, dove tale facoltà è riconosciuta ad entrambe le parti contraenti a date predefinite, in alcuni casi persino senza che sia necessario il verificarsi di una qualche condizione (c.d. “break clauses”). È possibile affermare che la struttura del portafoglio di operazioni assoggettate a clausole di risoluzione anticipata è il risultato di una strategia di modifica che, in particolar modo negli ultimi anni, ha mirato ad eliminare – quando possibile – le clausole stesse, sia che fossero legate a condizioni di credito, sia che fossero più semplicemente opzioni bilaterali di risoluzione anticipata. Con riferimento precipuo ai titoli sovrani, preme segnalare che la previsione di clausole bilaterali di risoluzione anticipata, sorte in un periodo storico in cui il merito di credito degli Stati era sensibilmente più elevato di quanto non sia oggi, va opportunamente valutata in un’accezione prudenziale, a fronte di un possibile deterioramento del merito di credito delle controparti in derivati: «[t]ra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, l’inserimento di clausole di questo tipo, soprattutto nel caso di operazioni con una vita medio-lunga, era inteso principalmente come finalizzato a proteggere gli emittenti dall’esposizione creditizia nei confronti del sistema bancario, percepito come molto più rischioso
39 In tal senso Boido, Gli strumenti di mitigazione del rischio di credito: i derivati creditizi, in Analisi finanziaria, 52/2003, p. 6. 40 Si veda a tal riguardo il caso riportato da Telesca, Analysis of credit default swap, applications and legal issues, in www.dirittobancario.it, novembre 2003, p. 8, nt. 24.
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rispetto ai sovrani. Nel corso degli anni successivi, come noto, il quadro di riferimento per la valutazione del rischio di credito ha subito notevoli mutamenti e, pertanto, si è proceduto ad eliminare quando possibile la maggior parte delle clausole apposte»41. 2.5. (Segue): le nuove 2014 Credit derivatives definitions. Nel corso del 2014, l’International Swap Dealer Association ha proceduto a rivedere e aggiornare le “2003 ISDA Credit derivatives definitions”, documento inclusivo delle definizioni e regole di base che disciplinano i contratti di credit default swap42. In particolare, con le nuove 2014 Credit derivatives definitions è introdotta una serie di nuove definizioni che si sono resa necessarie a seguito di vari eventi verificatesi sui mercati dei derivati di credito, specie in relazione alla crisi dei debiti sovrani. Come anche chiarito dall’ISDA nel proprio comunicato, tra le principali novità si segnalano: i) talune nuove definizioni concernenti il verificarsi di eventi di bail-in da parte di entità governative per la ristrutturazione di debiti sovrani utilizzate quali obbligazioni di riferimento; (ii) la creazione di nuovi meccanismi di settlement tramite cui, al verificarsi di eventi di credito in relazione ai debiti sovrani,
41 Cfr. Cannata, Indagine conoscitiva sugli strumenti finanziari derivati, Audizione avanti la Commissione Finanze della Camera dei Deputati, 10 febbraio 2015, p. 18. Un esempio significativo può essere rinvenuto nella presenza di una clausola di estinzione anticipata contenuta nel contratto quadro (ISDA Master Agreement) sottoscritto nel gennaio 1994 tra la Repubblica Italiana e la banca Morgan Stanley, unica nel suo genere in quanto applicabile non ad una singola operazione, ma ricomprendente tutte le operazioni sottoscritte con quella controparte. La clausola prevedeva un Additional termination event, ovvero il diritto di risoluzione anticipata dei contratti derivati in essere al verificarsi del superamento di un limite prestabilito di esposizione della banca nei confronti della Repubblica Italiana. 42 Il documento, “2014 ISDA Credit Derivatives Definitions”, che raccoglie tutte le definizioni maggiormente usate nelle operazioni in derivati di credito documentate tramite contrattualistica ISDA, pubblicato nel febbraio 2014, è entrato in vigore il successivo 22 settembre, data a partire dalla quale hanno iniziato ad essere scambiate sul mercato contratti regolati dalle definizioni aggiornate, c.d. cds2014, in aggiunta ai contratti regolati dalle precedenti definizioni del 2003, c.d. cds2003. Come si legge nel News release ISDA - August 21, 2014, «By adhering to the Protocol, market participants agree to amend transactions within the scope of the Protocol with all other adhering parties to incorporate the 2014 Definitions into the documentation for those transactions in place of the 2003 Definitions».
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sia possibile regolare l’esposizione derivante dall’operazione tramite delivery dei nuovi titoli che sono stati convertiti al posto del (o che derivano dal) del debito sovrano originario43; iii) la predisposizione di nuovi specifici standard di obbligazioni di riferimento che diventino il benchmark di mercato per operazioni simili sul mercato dei derivati di credito44. Resta inteso che tali definizioni si applicheranno sulle nuove operazioni in derivati di credito grazie all’apposita dichiarazione di applicabilità inserita dalle parti nella documentazione dell’operazione (schedule o confirmation), ovvero, per le operazioni già esistenti, qualora le parti decidano concordemente di modificarne tramite negoziazione bilaterale ovvero grazie all’adesione ad un apposito protocollo che sarà implementato e diffuso sul punto dall’ISDA. I nuovi termini contrattuali sono rivolti a garantire all’acquirente un maggiore livello di protezione rispetto allo schema previgente, che in quanto tale richiede un costo e quindi un prezzo, per chi acquista, più elevato. Per gli aspetti che qui interessano, i contratti cds2014 prevedono alcuni ulteriori cambiamenti in merito alla presenza o meno di un credit event al verificarsi di un’eventuale uscita dall’area euro di uno degli Stati membri. Rispetto a tale evenienza, infatti, le nuove definizioni ravvisano l’esistenza di un credit event solo se l’uscita dall’Eurozona si accompagnasse ad una riduzione dell’ammontare di interessi o capitale dovuto sui titoli di debito, tenuto appropriatamente conto del tasso di cambio a cui sarebbero ufficialmente convertiti gli ammontari dovuti45. L’intervento del governo è quindi un utile complemento per la ristrutturazione e fornisce certezza ai partecipanti al mercato quando le autorità assumono determinate decisioni di bail-in in materia di istituzioni finanziarie, tenu-
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Nel citato documento dell’ISDA si legge, per l’appunto, «Sovereign cds asset package delivery for CDS contracts on sovereign reference entities: introduces the ability to settle a credit event by delivery of assets into which sovereign debt is converted». 44 Come precisato dall’ISDA, si tratta, nello specifico, di «Standard reference obligation: allows for the adoption of a standardized reference obligation across all market-standard cds contracts on the same reference entity and seniority level». 45 Dal News Release dell’ISDA, 21 febbraio 2014, cit., si apprende che «Bail-in/financial terms for credit default swap (cds) contracts on financial reference entities: incorporates a new credit event triggered by a government-initiated bail-in and a provision for delivery of the proceeds of bailed-in debt or a restructured reference obligation, and more delineation between senior and subordinated cds».
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to conto, tra l’altro, che la nuova legislazione europea in materia di risoluzione ordinata delle crisi bancarie ha facilitato questi tipi di intervento che non erano espressamente previsti sotto le previgenti definitions di restructuring credit event. Ai sensi delle nuove definizioni, un trigger event di natura governativa include l’annuncio di modifiche vincolanti delle condizioni contrattuali di un’obbligazione della referency entity quando queste hanno ad oggetto: «a reduction or postponement of principal or interest or further subordination of the Obligation, an expropriation, transfer or other event which mandatorily changes the beneficial holder of the Obligation, or a mandatory cancellation, conversion or exchange of the Reference Entity’s Obligations». Tuttavia, mentre government intervention e restructuring in una certa misura si sovrappongono, vi sono differenze notevoli tra i due eventi di credito. È importante sottolineare che un government intervention credit event può essere attivato indipendentemente dal fatto che vi sia stato un deterioramento del merito di credito del soggetto di riferimento e ciò, anche se questo tipo di credit event non sia stato espressamente previsto dai termini dell’obbligazione. La percezione di una maggiore protezione offerta dai contratti cds 2014 è principalmente imputabile all’introduzione del concetto di asset package delivery, volto ad ovviare a situazioni in cui l’effettivo indennizzo ricevuto dai soggetti che avevano comprato protezione tramite contratti cds (c.d. “valore di recupero”) non era stato in linea con le perdite sofferte dagli investitori in titoli di debito del medesimo emittente. Più in generale tali situazioni si generano quando diviene impossibile determinare le perdite secondo il metodo classico, che adotta il prezzo di mercato di altri titoli dello stesso emittente e della stessa tipologia, e si è forzati a fare riferimento ad un’altra categoria di titoli, di fatto implicando indennizzi ben inferiori alle perdite effettivamente sofferte. Infine, il “CoCo supplement to the 2014 ISDA credit derivatives definitions” (pubblicato il 15 settembre 2014), consente alle parti di ampliare il campo di applicazione di eventi attivati da un intervento governativo. Tra le ipotesi più ricorrenti vi è l’azione o anche solo l’annuncio ufficiale da parte di un governo rivolto a introdurre modifiche vincolanti in relazione a determinati obblighi di restituzione del prestito. In particolare, si segnalano: i) una riduzione permanente o temporanea della quantità di capitale pagabile al rimborso; ii) una conversione del capitale in azioni o in un altro strumento, se il coefficiente patrimoniale specificato scende al di sotto di un certo livello.
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Le parti possono specificare un trigger percentuale per determinare quali CoCo bond potranno beneficiarne; si ricorrerà, invece, ad un fallback, se non è specificata alcuna percentuale trigger.
3. La disciplina del contratto di cds nell’ordinamento italiano. Da un punto di vista giuridico, la struttura di un cds è piuttosto semplice ma determina l’insorgenza di una serie di problematiche che coinvolgono gli elementi essenziali del contratto nonché l’ammissibilità e l’introducibilità dello stesso nel nostro ordinamento. Ad oggi non esiste ancora una dottrina che ne delinei specificamente le strutture tipiche e le possibili applicazioni pratiche. Premessa la provenienza anglosassone del contratto di cds e dimostrata in dottrina la non riconducibilità della sua struttura alle fattispecie contrattuali proprie del codice civile, si è ritenuto opportuno analizzare a quale disciplina tale strumento possa essere assoggettabile. In virtù anche di quanto sin’ora esposto, si evidenzia come il cds configuri un’ipotesi di contratto innominato e atipico. Il codice civile ex art. 1322, co. 2, c.c. prevede che le parti possano concludere contratti atipici, purché questi realizzino interessi meritevoli di tutela alla luce dell’ordinamento; per causa meritevole di tutela, si intende ex art. 1343 c.c. quella la cui funzione tipica non sia contraria alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume. Sotto questo profilo, si deve ammettere la tutelabilità da parte del nostro ordinamento dei cds e la conseguente applicabilità ad essi delle norme generali sul contratto ex art. 1323 c.c.46: 1).se la causa del contratto di cds si rinviene nell’assunzione del rischio del deterioramento del profilo creditizio del reference entity da parte del protection buyer; 2) .se mediante ciò si ottiene una redistribuzione del rischio di credito; 3) .se l’utilità sociale che si vuole perseguire tramite questa re-distribuzione del rischio di credito consiste nel rendere più efficienti i mercati finanziari e con ciò neutralizzare, almeno parzialmente, i rischi finanziari; 4).se questa funzione non è contraria alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume.
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In tal senso v. Grieco, I credit derivatives: profili generali, pubblicato su www. tidona.com, 3 febbraio 2003, p. 1.
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Oggetto del contratto è il rischio di deterioramento del profilo creditizio della reference entity; l’obbligazione fondamentale del protection seller è, dunque, quella di sopportare il rischio di credit event. Incombendo incertezza su una delle prestazioni, l’assunzione di un’alea assurge a causa del contratto, qualificandolo, ai fini del nostro ordinamento, quale contratto aleatorio47. Tale qualificazione ha come conseguenza principale l’applicazione alla fattispecie in esame dell’art. 1469 c.c. che esclude la risoluzione per eccessiva onerosità, nonché dell’art. 1448, co. 4, c.c. che esclude la rescissione per lesione, in quanto non vi è nessuna iniziale corrispondenza economica da tutelare come nei contratti commutativi. Le condizioni in base alle quali viene concluso un contratto di cds sono influenzate dallo standing creditizio del protection seller. Costituendo, quindi, la scelta della parte con cui negoziare uno degli elementi essenziali del cds, risulta palese che ci si trovi in presenza di un contratto intuito personae, con la conseguenza che, nel nostro ordinamento, la posizione del protection seller risulta incedibile (fatto salvo diverso accordo delle parti)48. Per quando riguarda la forma, rifacendosi alla prassi contrattuale, appare evidente che per i cds non sono previste particolari forme né ad substantiam né ad probationem. Per la conclusione degli stessi vi-
47 Adottata questa prospettiva la Corte d’Appello di Milano, sentenza del 18 settembre 2013, quando afferma che: i) il contratto di swap è una «scommessa legalmente autorizzata»; ii) «nel derivato otc l’oggetto è uno scambio di differenziali a determinate scadenze. Ma la sua causa risiede in una scommessa che ambo le parti assumono»; iii) «l’oggetto del contratto swap si sostanzia, in ogni caso, nella creazione di alee reciproche e bilaterali: sicché è inconcepibile che la qualità e la quantità delle alee oggetto del contratto, siano ignote ad uno dei contraenti ed estranee all’oggetto dell’accordo»; iv) «nei derivati over the counter l’intermediario è sempre controparte diretta del proprio cliente e “condivide” pertanto con esso l’alea contenuta nel contratto»; v) l’alea deve essere «razionale per entrambi gli scommettitori»; vi) l’alea è razionale quando «gli scenari probabilistici e le conseguenze del verificarsi degli eventi sono definiti e conosciuti ex ante con certezza da entrambe le parti». Anche il Tribunale di Torino, con la sentenza del 17 gennaio 2014, fa propria tale premessa, mentre, con quella del 18 aprile 2014 lo stesso collegio afferma che c’è scommessa solamente nel caso in cui lo swap sia stato stipulato per fini speculativi. La motivazione sviluppata dalla Corte d’Appello di Milano, è figlia di quella tesi dottrinale che vede nel disposto di cui all’art. 23, co. 5, t.u.f. una qualificazione legislativa “implicita” dei derivati come “scommesse autorizzate”. 48 Così ancora Grieco, I credit, cit., p. 2. In senso conforme si veda pure Instefjord, Risk and hedging: Do credit derivatives increase bank risk?, in Journal of Banking and Finance, 2005, 29(2), p. 333
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gono le regole generali proprie dei contratti consensuali, ovvero essi si concludono nel momento in cui chi ha formulato la proposta viene a conoscenza della altrui accettazione ex art. 1326 c.c. Il cds è un contratto a prestazioni corrispettive; sorge in capo al protection buyer l’obbligo di pagare il premio e in capo al protection seller l’obbligo di un pati; ne consegue che l’eventuale mancanza nell’obbligazione di pagare il premio determina vizio genetico del sinallagma e conseguente nullità del contratto a effetti obbligatori. Si noti, infine, che il CDS è un contratto ad esecuzione differita rispetto al tempo della sua perfezione.
4. Vendite allo scoperto e naked credit default swap: “armi a doppio taglio”. La vendita allo scoperto (short selling) è una operazione con la quale un soggetto vende un titolo che non possiede con l’intenzione di riacquistare un titolo identico in un momento successivo per essere in grado di consegnarlo al compratore. Si distingue in due tipi: la vendita allo scoperto con provvista di titoli garantita (covered short selling), nella quale il venditore ha stipulato accordi per poter prendere a prestito i titoli prima della vendita; e la vendita allo scoperto senza provvista di titoli garantita (uncovered o naked), nella quale il venditore non ha preso a prestito i titoli al momento della vendita allo scoperto49. Oltre alla vendita allo scoperto sui mercati a pronti, si può arrivare ad una posizione corta netta anche attraverso l’uso di derivati, sia che vengano negoziati nei mercati regolamentati che over the counter. Questa pratica, a partire da metà settembre del 2008, è stata in diverse fasi limitata sui principali mercati finanziari perché accusata di contribuire a far crollare i prezzi dei titoli. Il divieto deciso dalle authority è stato, a sua volta, criticato per il fatto di inibire, proprio in una fase particolarmente critica, un’importante fonte di attività dei mercati50. In
49 Una descrizione particolareggiata delle caratteristiche dello short selling e delle opzioni regolamentari sottese alla disciplina di questo fenomeno, è proposta da Consob, Position Paper in tema di short selling, pubblicato il 27 maggio 2009 e disponibile sul sito www.consob.it. 50 Per un’analisi comparata delle misure restrittive adottate nei principali Paesi sia consentito rinviare a Scipione, La crociata dei market regulators contro lo “short selling”. Alcune riflessioni sui possibili interventi di vigilanza a difesa dei mercati e degli
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condizioni normali, la pratica dello short selling contribuisce al buon funzionamento degli scambi di borsa, in termini sia di liquidità sia di contrasto a fenomeni di eccessiva volatilità delle quotazioni51. Quanto alle obbligazioni sovrane una strategia di natura speculativa consiste nel comprare credit default swap di un Paese dell’euro puntando ad allargare gli spread e, per questa via, ad influenzare il mercato dei titoli sottostanti52. D’altro canto, oltre alle vendite allo scoperto sui mercati a pronti, anche le operazioni sui cds possono essere utilizzate per garantire una posizione economica corta (cioè ribassista)53: se l’acquisto di un cds avente finalità di copertura si avvicina funzionalmente al contratto assicurativo, l’acquisto di uno naked (cioè di un cds senza avere la disponibilità del titolo di debito sottostante) rappresenta il modo più semplice per assumere una posizione short sul rischio di credito, alternativo alla vendita allo scoperto dei corrispondenti titoli obbligazionari54. In dottrina si assiste ad una netta contrapposizione tra chi, da un lato, sostiene che i naked cds dovrebbero essere vietati a titolo definitivo, dato che incrementano la volatilità e rendono i default più probabili; e
investitori, in Innovazione e diritto, 2010, 4, pp. 57 ss. 51 Sui rischi associati alle vendite allo scoperto, quali il rischio di sviluppi disordinati del mercato, di abusi di mercato e di mancato regolamento, si veda la «Commission public consultation on short selling – Eurosystem reply», del 5 agosto 2010 (di seguito il «contributo dell’Eurosistema del 2010»), pp. 5 ss., accessibile sul sito www.ecb.europa.eu. 52 Finora, l’unico caso di default di uno Stato sovrano che ha dato luogo ad un credit event si è avuto nel 2008, quando l’Ecuador si rifiutò di pagare 31 milioni di dollari di cedole sulle obbligazioni in scadenza. In quella occasione, l’ISDA applicò per la prima volta il protocollo introdotto nel 2003 per la liquidazione dei cds emessi su titoli di uno Stato insolvente. 53 Se infatti si assume una posizione “long cds” il rischio che si corre è relativo soltanto al premio pagato ed è paragonabile a qualsiasi profilo “long option” con un utile a scadenza potenzialmente illimitato e una perdita massima limitata al solo premio. Una posizione “short cds”, potenzialmente più pericolosa della long (si tratta pur sempre di una posizione short option), in realtà è assai meno rischiosa di una posizione che esprima la medesima view di mercato perseguita con altri strumenti. Chi vende allo scoperto cds, infatti, esprime una visione positiva su un emittente e in caso di andamento contrario, di default cioè, dovrà sopportare, al netto del premio incassato, una perdita pari a 100 – valore residuale del bond defaultato. Per un’analisi più puntuale in relazione a tali aspetti si veda Tradati, Credit default swaps. Caratteristiche contrattuali, procedure gestionali e strategie operative, Milano, 2011, pp. 157 ss. 54 Cfr., in proposito, le osservazioni di Fontana, The persistent negative cds-bond basis during the 2007/2008 financial crisis, mimeo, 2010; Fontana, Scheicher, An analysis of the euro area sovereign cds and their relation with government bonds, working paper Banca Centrale Europea, 2010.
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chi, dall’altro, ritiene che una loro presenza renda i mercati più completi, garantisca una migliore aggregazione delle informazioni ed una maggiore liquidità del mercato obbligazionario, rendendo in generale più facile l’emissione di titoli di debito. È evidente, peraltro, che la presunta tossicità di questi titoli non è assolutamente superiore a quella che si originerebbe prendendo in carico una posizione corrispondente sul mercato azionario o obbligazionario55. Più in generale, è interessante osservare che una posizione “corta” su un titolo può essere sinteticamente definita come una posizione il cui valore aumenta quando il prezzo del titolo sottostante si riduce. In realtà l’acquisto di cds nudi vanta diversi “succedanei” essendo solo una delle diverse modalità operative per assumere una posizione ribassista sul debito degli Stati. Si pensi ad una vendita allo scoperto (assistita da un prestito titoli oppure no); ovvero ricorrendo alla vendita di un contratto future; oppure ancora all’acquisto di un’opzione put o alla vendita di un’opzione call. Va da sé, di conseguenza, che il divieto di assumere una posizione corta ricorrendo al naked short selling è destinato ad essere facilmente aggirato: sarà sufficiente sostituirlo con altre forme tecniche in grado di porre l’operatore nelle medesime condizioni56. Una soluzione al problema consisterebbe, piuttosto, nell’introdurre qualche disposizione di buon senso volta a rendere gli scambi meno anarchici. I veicoli normativi per arrivare alla meta sono già stati individuati: e sono i regolamenti sulle controparti centrali (di cui si parlerà più avanti) e lo short selling57.
55 Acquistare un cds senza detenere un interesse assicurabile sottostante, da un punto di vista economico equivale a vendere allo scoperto un’obbligazione, in quanto l’acquirente otterrà un beneficio in caso di aumento del prezzo del cds. 56 Cfr. Vella, Il rischio: questo sconosciuto, in AGE, 2009, 1, pp. 161 ss.; Rescigno, Il prodotto è tossico: tenere lontano dalla portata dei bambini, in AGE, 2009, 1, pp. 145 ss. D’altra parte, come l’evidenza empirica ha rivelato, i cds possono rappresentare uno strumento più efficiente e immediato per assumere posizioni corte sul rischio di credito rispetto alla vendita allo scoperto di titoli obbligazionari. Su questi aspetti cfr. Coudert, Gex, Credit Default Swap and Bond Markets: Which Leads the Other?, working paper Banca di Francia, 2010; Ashcraft, Santos, Has the cds Market Lowered the Cost of Corporate Debt?, in Journal of Monetary Economics, 2009; Banca Centrale Europea, Credit Default Swap and Counterparty Risk, 2009; Blanco, Brennan, Marsh, An Empirical Analysis of the Dynamic Relation Between Investment Grade Bonds and Credit Default Swaps, in Journal of Finance, 2005; Bolton, Oehmke, Credit Default Swap and the Empty Creditor Problem, mimeo, 2010. 57 In proposito si veda Olivieri. Credito in pressing sulla UE per cambiare le regole sui cds, in Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2011; Id., Regolare i cds per porre freno agli speculatori,
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Il problema di fondo, però, resta sempre lo stesso: la pratica dello short selling può aumentare la volatilità e le reazioni recessive del mercato. Questa preoccupazione si amplifica notevolmente quando si è in presenza di “cds nudi”.
5. La valenza “segnaletica” dei cds. I credit default swaps sono considerati dagli operatori del settore strumenti di “interpretazione del mercato” che si sono dimostrati nel tempo sempre più utili alla comprensione delle dinamiche del mondo obbligazionario. Importanti studi empirici sull’argomento sono giunti a dimostrare che è possibile evidenziare le aspettative implicite della probabilità di default della reference entity – dunque capire quanto si rischia acquistando un bond – a partire dalle quotazioni di mercato dei cds. Le contrattazioni sul mercato secondario dei titoli pubblici e su quello dei derivati ai primi collegato forniscono informazioni utili sulla affidabilità degli emittenti; spesso, tali valutazioni sono più tempestive di quelle elaborate dalle agenzie di rating, tant’è che possono costituire un valido strumento se impiegate dai policy makers per individuare situazioni critiche e strategie di intervento mirate58. Attraverso questo tipo di informazioni è, infatti, possibile costruire una valutazione indipendente sullo stato di salute di un’impresa o di uno Stato, in tempo reale e svincolata da qualsiasi inefficienza tipica del mercato del rating, i cui giudizi risultano di regola statici e tardivi. Il rapporto tra i pagamenti corrisposti nell’anno dal compratore di protezione e il valore nozionale è definito “cds spread” e rappresenta una misura della rischiosità del soggetto di riferimento, come percepita dal mercato59. La letteratura economica ha ampiamente enfatizzato que-
in Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2011, p. 12. 58 Quando, però, come è accaduto, la revisione del rating di uno Stato passa per un’analisi del mercato dei cds, si supera probabilmente il limite. Le ridotte dimensioni e la ridotta trasparenza dei mercati dei cds rischiano infatti di falsare il “sentiment” dei mercati. 59 Non è necessario attendere che un Paese fallisca per subire un attacco speculativo. È sufficiente che vi sia la consapevolezza delle difficoltà che sta vivendo. Quando dipende solo dal rischio di credito (a sua volta funzione della probabilità di default e della perdita attesa, dato il default) il “cds spread” e il “bond spread” (differenza tra il rendimento dei bond emessi dall’entità di riferimento ed un benchmark assunto come
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sto profilo, soprattutto in riferimento al settore corporate, osservando che, in generale, i cds rivestono un ruolo di leader nel processo di price discovery. Le variazioni dei prezzi di tali derivati, infatti, anticipano quelle degli spread obbligazionari60, svolgendo una funzione di garanzia riguardo alla capacità del debitore di far fronte ai propri obblighi. In quest’accezione, dunque, i cds costituiscono una delle migliori fonti di conoscenza61, poiché rendono più facile esprimere un’opinione sul rischio di credito di banche, imprese e Paesi emittenti. Essendo quello dei credit default swaps un mercato otc e come tale carente di trasparenza pre e post trade, l’aumento delle quotazioni viene percepito dagli operatori (sia del mercato dei cds che dell’obbligazionario) come incremento della default probability anziché come semplice
risk-free) devono essere approssimativamente uguali. Esiste una relazione lineare tra i due spread. La differenza, definita come default swap basis, è positiva quando c’è un premio di rischio (cds spread > bond spread). In tal senso, il vantaggio di un cds rispetto al rating è che il cds “quantifica” il rischio e consente di aggiungerlo ai tassi di interesse. Un ampliamento degli spread tra cds e obbligazioni può riflettere un deterioramento della qualità del credito dell’emittente obbligazionario, ma anche rischi di natura diversa connessi alla scadenza di una obbligazione (se vi è uno squilibrio in termini di struttura delle scadenze tra attività – concentrate sul lungo termine – e passività – concentrate sul breve –) o alla valuta in cui è espresso il titolo di debito (quando le passività sono denominate principalmente in valuta estera, mentre le attività sono in valuta interna, un cambiamento repentino nel valore nominale e reale della valuta interna può generare forti perdite). Se le entità di riferimento assolvono i loro obblighi contrattuali, i cds sono un gioco a somma zero: ciò che il venditore perde, viene guadagnato dall’acquirente. Il “rischio della controparte” altera questa simmetria. 60 Per tutti, cfr. Blanco, Brennan, Marsh, An empirical analysis of the dynamic relation between investment grade bonds and credit default swaps, in The Journal of Finance, 60(5), 2005, pp. 2255 ss. Nel caso degli emittenti sovrani, invece, i risultati della letteratura sulla relazione fra cds e spread obbligazionari non sono sempre univoci. 61 Ne deriva, pertanto, che la c.d. “default probability” implicita assurge a indicatore fondamentale per il monitoraggio del rischio di default associato ad un emittente, in quanto incorpora tutta l’informazione disponibile sul mercato riguardo alla solidità finanziaria della reference entity. Il clamoroso caso del fallimento di Lehman Brothers ha dimostrato, a questo proposito, che, se opportunamente valutate e comunicate, le cosiddette “probabilità di default” delle obbligazioni avrebbero rappresentato, con mesi di anticipo, un indicatore affidabile della rischiosità della grande banca d’affari americana. Nel caso Lehman la probabilità di fallimento, analizzando la serie storica delle quotazioni dei cds, cominciò ad aumentare notevolmente già dalla fine di febbraio 2008, attestandosi intorno al 12% tra luglio e agosto dello stesso anno, per poi esplodere in prossimità del 15 settembre. Il mercato interbancario, dunque, già da alcuni mesi prima della data del fallimento, aveva lanciato tutti i segnali necessari sul reale stato di salute della banca e sull’affidabilità delle sue obbligazioni.
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rialzo del “premio al rischio”, ingenerando una serie di reazioni a catena che chiudono il quadro dell’attacco speculativo. Queste conclusioni sono suffragate dall’ulteriore constatazione secondo cui la natura di “swap” del cds, che comporta uno scambio di flussi di cassa tra le controparti, rende la sua valutazione e quindi il suo prezzo di mercato parzialmente immune dalle variazioni dei tassi di interesse. Il cds è, quindi, particolarmente adatto a dedurre la probabilità di fallimento a partire dalle quotazioni di mercato di uno strumento finanziario62. Come è emerso nell’arco della crisi, il valore segnaletico dei cds assume maggiore significatività nel particolare comparto delle obbligazioni sovrane, dove l’obiettivo del trading è quello di sfruttare eventuali oscillazioni di mercato più che augurarsi/assicurarsi il default di uno Stato. Se il valore di scambio del credit default swap di un titolo di stato inizia a crescere vuol dire che il mercato compra assicurazioni contro un default di quel Paese. In altre parole, gli operatori spendono per cautelarsi poiché percepiscono un rischio più elevato.
6. I cds come acceleratori di instabilità finanziaria. La potenziale pericolosità dei derivati finanziari è ormai largamente condivisa ed il suo evidenziarsi ha posto sia a livello mondiale che europeo e dei singoli Stati, la impellente necessità di assicurare maggior trasparenza, governo e controllo di tali strumenti63.
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Fornire una rappresentazione più accurata della relazione teorica tra i prezzi delle obbligazioni e i cds richiede di considerare l’effetto di un gran numero di fattori che influiscono sulle obbligazioni e sui prezzi dei cds. Su questi profili si rinvia, tra gli altri, agli studi di Avino e Cotter, Sovereign and bank CDS spreads: two sides of the same coin for European bank default predictability?, in Journal of International Financial Markets, Institutions and Money, Elsevier, vol. 32(C), 2013, pp. 72 ss.; Fontana e Scheicher, An analysis of euro area sovereign CDS and their relation with government bonds, BCE Working Paper series no 1271/december 2010; Garleanu e Pedersen, Margin-based asset pricing and deviations from the law of one price, in Review of Financial Studies, 24(6), 2011, pp. 1980 ss. 63 Per una disamina critica degli interventi intrapresi per fronteggiare la crisi si vedano, tra i tanti, Capriglione, Crisi a confronto (1929 e 2008). Il caso italiano, Padova, 2009, pp. 57 ss.; e soprattutto Rispoli Farina, La crisi dei mercati finanziari e la riforma dei sistemi di vigilanza. Europa ed Usa in bilico tra politiche di salvataggio e prospettive effettive di riforma, in Studi in onore di Francesco Capriglione, II, Padova, 2010, pp. 1211 ss.
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Come brevemente enunciato nei paragrafi introduttivi, i cds hanno perso da anni la loro connotazione assicurativa: è infatti dal 2003-2004 che i volumi over the counter mossi dai credit default swaps hanno superato il quantitativo dei bond sul mercato. È da allora che il cds da prodotto “assicurativo” si è trasformato in puro derivato. Dal momento che i cds coprono il valore nominale del titolo, il pagamento finale risulta dalla differenza tra il valore nominale di origine e il valore di recupero. Nella prospettiva dei detentori di cds, minori sono i valori di recupero, maggiori sono le perdite e la massimizzazione dei loro guadagni speculativi64. I possibili effetti distorsivi derivanti dall’uso a fini speculativi dei cds possono ricondursi principalmente a due fattispecie: 1). in primis, alla moltiplicazione delle coperture su uno stesso sinistro con il rischio di manovre protese all’inadempimento in quanto il default può procurare benefici maggiori dell’adempimento fisiologico 2). in secundis, alla negoziabilità di naked cds (senza posizione effettiva da ricoprire) con effetti simili a quelli di cui al punto precedente. Seppur con effetti meno destabilizzanti, rivelano altresì: 3) .l’eventuale trasferimento del titolo in default, in caso di acquisto del credito mediante delivery settlement sul titolo, in grado di creare, per i cds di valore eccedente l’esposizione debitoria effettiva, una corsa rialzista di un titolo paradossalmente in default (caso Dana corporation); 4) .la negoziazione dei cds, secondo una dinamica bid/ask, in quanto capace di influenzare indirettamente l’andamento delle esposizioni
64 A livello pratico, un primo schema speculativo potrebbe essere simile al seguente: vendita allo scoperto di titoli pubblici e acquisto di cds. La vendita dei titoli pubblici amplifica i rischi di insolvenza percepiti dagli operatori generando un aumento della domanda e delle quotazioni dei cds che, a loro volta, inducono un’ulteriore caduta del corso dei titoli pubblici; a questo punto, lo speculatore (gli speculatori) verosimilmente, venderanno i cds ad un prezzo più alto e riacquisteranno i titoli ad un prezzo più basso conseguendo un profitto doppio, sulla quotazione dei cds (nel frattempo aumentata) e su quella di bond, acquistati ad un valore basso e rivendibili ad uno più alto, anche in ragione del fatto che la vendita dei derivati allenta la pressione al ribasso sulle obbligazioni con effetto positivo sul prezzo di rivendita. Un altro schema speculativo, potrebbe essere attuato acquistando in grandi quantità cds “naked” a prezzi sempre più elevati, nel tentativo di innescare comportamenti imitativi da parte degli altri operatori (c.d. herding behaviour); questi infatti intenderebbero il “run” sui cds come segnale di un imminente default della reference entitity e, colti dal panico, ridurranno la loro esposizione sui relativi titoli (vendendoli) e/o aumenteranno la copertura acquistando cds. A questo punto, gli speculatori rivenderanno i cds conseguendo un profitto.
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garantite, suscettibili di deteriorarsi per effetto di una mera dialettica di prezzo e non già in dipendenza dell’effettivo deterioramento del merito creditizio della reference entity. Più in generale, ai fini dell’individuazione puntuale del rischio sistemico associato agli strumenti derivati, si consideri quanto sinteticamente segue: le due fondamentali componenti di rischio più o meno fisiologicamente associate allo strumento finanziario in sé – rischio di mercato e rischio di controparte – risultano moltiplicate, da un lato, dall’abnorme valore complessivo del mercato globale dei derivati e, dall’altro, dalla circostanza per cui la stragrande maggioranza di tali strumenti, come abbiamo visto, è fatta oggetto di negoziazioni condotte su piazze finanziarie opache e, almeno fino a ieri, essenzialmente non regolamentate. Il risultato di questo effetto moltiplicativo è quello che, almeno per i profili che qui rilevano, può essere considerato come il cosiddetto “rischio sistemico” associato ai prodotti derivati. In tal senso, pare utile dare profondità a tali ultime notazioni fornendo un’immagine “plastica” del vero fattore determinante di tale rischio sistemico quando riferibile ai credit default swaps. La contropartita di profitti potenzialmente esorbitanti associati ai cds è, infatti, costituita dall’elevato pericolo per la stabilità dei mercati finanziari. In primo luogo, perché i cds, permettendo di creare delle posizioni che rappresentano un multiplo del valore dell’attivo reale a cui fanno riferimento, aumentano in maniera esponenziale le perdite in caso di panico finanziario. Si assiste, in altri termini, ad una potenziale moltiplicazione ad infinitum delle protezioni dal rischio del credito di riferimento pur restando il credito ovviamente sempre il medesimo. Per giunta, la completa “correlazione” tra parte protetta e parte creditrice (dell’ente di riferimento debitore) combinata con la “reiterabilità” dell’acquisto (e/o della vendita) della protezione65, determina la scindibilità della copertura dal rischio di credito rispetto alla titolarità del credito stesso66. Sono queste caratteristiche specifiche del credit default swap che lo rendono intrinsecamente diverso dai due contratti tipici (di assicurazione e di fideiussione) al cui
65 Il cds a copertura dell’insolvenza dell’ente di riferimento può essere reiterato per un numero indeterminato di volte con contratti stipulati dallo stesso acquirente di protezione o anche da altre parti che non hanno alcun credito nei confronti dell’ente di riferimento. 66 Si tenga presente che con il cds la parte interessata può acquisire la copertura dall’insolvenza di una parte terza (“ente di riferimento”) indipendentemente da una perdita propria e, pertanto, anche senza vantare alcun credito nei suoi confronti.
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genus viene tradizionalmente ricondotto, a vantaggio di una potenziale contiguità con la scommessa67. Sicché, «se poi il rischio si materializza nell’evento (il credit event), come gli acquirenti di protezione scorrelati dal debitore (ente di riferimento) si aspettano (e sperano), l’importo totale degli indennizzi dovuti ai sensi di tutte le protezioni accordate sarà di entità del tutto sproporzionata alle dimensioni del danno effettivamente verificatosi (l’inadempienza del debitore di riferimento) con potenziali gravi danni anche per il mercato nel suo insieme»68. Secondariamente, perché i cds e il meccanismo assicurativo che sottostà ad essi creano soltanto l’illusione di diminuire questo rischio. In realtà, infatti, le perdite risultanti da un default si trasferiscono all’entità che ha venduto la protezione sotto forma di cds. Vale a dire che i guadagni di un cds dipendono direttamente dalla capacità delle entità che vendono queste protezioni di rispettare i loro impegni. Ma come la vicenda del colosso assicurativo AIG ha dimostrato, in caso di panico finanziario questo schema non si verifica. In terzo luogo, il legame tra i cds e la dichiarazione di evento relativo al credito o il default incentiva comportamenti fraudolenti che conducono al crollo delle entità o dei Paesi ai quali tali strumento fanno riferimento. Nel settore dei cds, non solo è nato il fenomeno degli «empty creditor»69,
67 Cfr. in particolare Perrone, I contratti derivati over the counter, in I contratti per l’impresa, a cura di Gitti, Maugeri e Notari, Bologna, 2013, pp. 255 ss.; Rucellai, Cartolarizzazione sintetica e credit default swap, in Giur. comm., 3, 2012, I, p. 376; Vitelli, Contratti derivati e tutela dell’acquirente, Torino, 2013, p. 147; Caputo Nassetti, I contratti derivati finanziari, Milano, 2011, pp. 430 ss.; Violante, Profili giuridici del mercato dei crediti in sofferenza, Bari, 2012, pp. 49 s.; Barcellona, Note, cit., pp. 652 ss.; Tarolli, Trasferimento del rischio di credito e trasparenza del mercato: i credit derivatives, in Riv. dir. banc., 2009, pp. 7 ss. 68 Così Rucellai, Cartolarizzazione, cit., p. 378. 69 L’ampliamento di questo mercato ha creato una nuova classe di creditori, quella dei creditori “beneficiari” (back-stop creditors). Questi in caso di fallimento sono assicurati: diventano appunto beneficiari del credit default swap e rispondono pertanto ad incentivi diversi rispetto al resto dei creditori ordinari. L’incremento della diffusione dei cds, dunque, ha un impatto su tutte le legislazioni fallimentari, in particolare quelle orientate al debitore o che privilegiano il mantenimento dell’attività aziendale rispetto alla vendita ex abrupto con liquidazione immediata degli assets. Questo perché, ovviamente, un creditore assicurato ha uno scarso interesse a negoziare un piano di ristrutturazione o ad estendere il riscadenziamento delle posizioni debitorie. Anzi, può essere motivato a boicottare attivamente qualsiasi tentativo in tal senso. Come emerge da uno studio condotto da Bolton e Oehmke, Credit Default Swaps and the Empty Creditor Problem,
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venuto alla ribalta in occasione della crisi greca70, ma si è anche attivato un circuito (non sarebbe corretto definirlo un mercato perché si tratta di transazioni over the counter in mano a pochi oligopolisti) in cui il prezzo della copertura del rischio di credito è slegato da quello implicito nelle quotazioni sul mercato dei titoli di riferimento, al quale sottrae di fatto liquidità: «è come se le risorse dedicate alla copertura della ipotetica possibilità che un prenditore di denaro non sia in grado di onorare i suoi impegni a scadenza (tipico trigger event di un cds) fossero in competizione con quelle da destinare al suo finanziamento»71. Come si è già avuto modo di illustrare, l’acquisto massiccio dei cds spinge al rialzo il prezzo del derivato; il prezzo, nell’assumere un trend crescente, “trasmette” agli operatori finanziari il messaggio di un aumento della probabilità di default dell’emittente del titolo a cui si riferisce il cds. Il mancato possesso del titolo di debito da parte dello speculatore (nel caso dei cds nudi) suggerisce che l’operazione di acquisto di “assicurazioni” è finalizzata a “scommettere” sul fallimento dell’emittente del titolo, così da poter riscuotere l’indennizzo previsto dal derivato72. Spesso non si tratta neppure di “evento” in senso tecnico: quando il credit event è il semplice downgrading del rating di credito si è addirittura di fronte non ad un “fatto”, ma ad una mera opinione (della società
in rfs.oxfordjournals.org at Columbia University Health Sciences Library on February 14, 2011, p. 1, «It also significantly alters the debtor-creditor relation in the event of financial distress, as it partially or fully separates the creditor’s control rights from his cash-flow rights. Legal scholars and financial analysts have raised concerns about the possible consequences of such a separation, arguing that cds may create empty creditors – holders of debt and cds – who no longer have an interest in the efficient continuation of the debtor, and who may push the debtor into inefficient bankruptcy or liquidation». 70 Cfr. Barcellona, Note, cit., p. 653 ss.; Spada e Cossu, Dalla ricchezza assente alla ricchezza inesistente – Divagazioni del giurista sul mercato finanziario, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, 4, p. 405 s. Nel quadro di questo contesto degenerativo, spesso chi si tutela con l’acquisto del cds spinge al fallimento del debitore per speculare ed incassare la prestazione con profitto spropositato (vedi Goldman Sachs che ha comprato i cds sulla Grecia e poi ha venduto al ribasso titoli di stato ellenici per far abbassare il rating e quindi arrivare successivamente alla fase terminale del giudizio di default allo scopo di incassare la prestazione economica). 71 Così Conti, Rischio, regole, responsabilità: il sentiero stretto che ci consegna la crisi, in Banc., n. 5/2012, p. 10. 72 È importante, però, evitare confusioni tra un cds naked e la vendita allo scoperto naked di titoli azionari. Infatti, mentre nel secondo caso i titoli azionari presi in prestito sono venduti, nell’ipotesi di un cds naked non viene realizzata alcuna vendita.
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di rating, le cui affidabilità, oggettività ed accuratezza sono state spesso messe in discussione nel corso della recente crisi finanziaria. Né si tratta di evento “indipendente dalla volontà delle parti” perché quando il protection buyer scommette sul default relativo ad un debito sovrano di cui non possiede titoli in portafoglio, ed è fornito sia della necessaria “potenza di fuoco” finanziaria, sia degli opportuni incentivi economici (grazie alla leva finanziaria, dal default lucrerebbe cifre astronomiche), esso può provocare o agevolare l’evento sul quale ha scommesso73. Non si tratta allora di un rischio, ma … di una profezia che si autorealizza74.
7. Sostenibilità del debito sovrano nell’Eurozona e titoli derivati. Il problema del debito sovrano continua ad agitare vecchi spettri e a sollevare antiche paure. A detta di autorevoli osservatori i cds sul debito sovrano sono in grado di fomentare la speculazione e accrescere i rischi di insolvenza degli Stati. Un giorno la storia potrebbe ricordare il fantasma dei cds come il cavallo di Troia che rischiò seriamente di far cadere molte città-stato dell’economia reale. L’attività nel mercato cds sui titoli di Stato dei Paesi sviluppati si è sensibilmente intensificata allorché gli investitori hanno adeguato la propria esposizione al rischio sovrano. I cds riferiti a soggetti sovrani – che hanno tratto notevole vantaggio dalla standardizzazione delle forme e delle definizioni contrattuali nel 1998 e 1999, nonché dalla ordinata esecuzione in occasione di recenti episodi di inadempienza – sono considerati i derivati creditizi più liquidi nei mercati emergenti. Proprio in virtù di tali caratteristiche, questi strumenti ben si prestano a integrare i mercati delle attività sovrane sottostanti e ad accrescerne l’efficienza75.
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In buona sostanza, se molti investitori scommettono contemporaneamente sul calo di solvibilità di un Paese (ossia sulla sua capacità di rimborsare i titoli del debito sovrano alla loro scadenza) essi stessi finiscono, inesorabilmente, per concorrere a determinare quel medesimo scenario, pioché accentuano il rischio di credito associato a quell’emittente. 74 La bancarotta di Lehman Brothers viene spesso utilizzata quale esempio per mostrare come il mercato dei cds, quando tale strumento è stato utilizzato nella sua forma fisiologica (ossia per l’assicurazione dai rischi di credito), mostri un elevato livello di resilienza. Viceversa, la patologia subentra allorché le informazioni presenti nel mercato dei cds, numerose ed estremamente volatili, vengono utilizzate per trarre profitti dalle difficoltà in cui una società (o uno Stato) possa trovarsi. 75 Si tratta, con tutta evidenza, di un fenomeno relativamente recente, probabilmente
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A cavallo tra il 2010 e il 2011, le apprensioni per la difficile situazione di bilancio della Grecia76, seguite a breve da analoghe tensioni relative ai debiti dell’Irlanda, del Portogallo, della Spagna, e infine anche dell’Italia77 (“piigs”), hanno spinto le Istituzioni europee ad interrogarsi sulla sopravvivenza dell’Eurozona78. I rischi legati ad una reversibilità dell’euro hanno generato circoli viziosi di amplificazione della percezione del “rischio-paese”; il che si è riflesso in un ampliamento significativo degli spread creditizi sulle obbligazioni sovrane e sui cds loro riferiti, con un conseguente deciso rialzo delle quotazioni dei contratti (quando aumenta la percezione del rischio di un emittente ovviamente cresce il prezzo per acquistare protezione rispetto a quel rischio)79. Sono altresì
legato alla crescita delle esigenze di copertura emerse con il forte deterioramento dei conti pubblici nei principali Paesi avanzati ed emergenti come dimostra la corposa letteratura di matrice economica. Sul tema cfr. ex multis Stulz, Credit Default Swaps and the Credit Crisis, in Journal of Economic Perspectives, 2010; Che, Rajiv, Economic Consequences of Speculative Side Bets: The Case of Naked Credit Default Swaps, mimeo, 2010; British Bankers’ Association, Credit Derivatives Report 2002, September 2002; Cantor e Packer, Sovereign Credit Ratings, Current Issues in Economics and Finance, Federal Reserve Bank of New York, June 1995; Dresdner Kleinwort Wasserstein Research, Credit Default Swaps: a Product Overview, September 2002; Fitch Ratings, Global Credit Derivatives: a Qualified Success, 24 settembre 2003; Hull, Predescu e White, The Relationship between Credit Default Swap Spreads, Bond Yields and Credit Rating Announcements, University of Toronto Working Paper, October 2003; Morgan, Emerging Market Credit Derivatives, November 2001; Xu e Wilder, Emerging Market Credit Derivatives: Market Overview, Product Analyses, and Applications, Deutsche Bank Global Markets Research, May 2003; Zhu, An Empirical Comparison of Credit spreads Between the Bond Market and the cds Market, Banca dei Regolamenti Internazionali, in Journal of Financial Services Research, 2006, September 2003. 76 Il caso del default della Grecia, ancor oggi alla ribalta, sembrerebbe ipotizzare una ipotesi di vera e propria falsificazione di bilancio statale attuata (attraverso il make up del debito sovrano) proprio grazie all’utilizzo di alcuni derivati complessi (crosscurrency swaps), che hanno consentito al Paese di convertire in euro le sue emissioni obbligazionarie in dollari e yen. 77 Zingales, Raccolta di capitali e livello di valori. Perché i cds aiutano le banche in difficoltà, in Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2010. 78 La “robustezza” dell’Eurozona è percepita, infatti, come dipendente dalla stabilità del suo membro più fragile (in quanto “anello debole” del sistema). Le difficoltà di un Paese nel far fronte ai propri impegni in termini di servizio del debito, si ripercuoterebbero velocemente sui mercati dei titoli di tutti gli altri Stati membri, compresi quelli più forti, compromettendo la solidità stessa del sistema bancario europeo. Effetti psicologici (herding behaviour) e l’interdipendenza presente nel sistema bancario europeo sono alla base, quindi, del rischio di contagio. 79 Che si è tradotto, pertanto, in un accrescimento dei costi di finanziamento degli
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aumentati i differenziali di credito relativi tra gli stessi emittenti sovrani dell’area dell’euro80. Questa prospettiva è parsa a lungo tutt’altro che teorica, testimoniata nella fase più acuta della crisi – seppur con discontinuità a volte difficili da comprendere sul piano strettamente tecnico – dai differenziali tra i rendimenti dei bund tedeschi e quelli dei titoli di debito emessi dai Paesi meno virtuosi e, forse ancora più eloquentemente, dalle dinamiche dei differenziali tra le quotazioni dei titoli di Stato (proxy del rischio di credito funded) e quelle dei cds (pura copertura unfunded81) dei diversi Paesi dell’Eurozona. Il ricorso alla copertura con acquisto di cds ha rischiato quindi di produrre potenziali effetti negativi anche sul mercato primario e secondario dei titoli di Stato: l’esposizione in derivati si è sommata al portafoglio titoli dei sottoscrittori, limitando la capacità delle banche di assorbire ulteriormente titoli di Stato nella fase di emissione. Al fine di evitare un evento di credito sui cds, le Istituzioni sovranazionali di concerto con il governo ellenico hanno optato per una ristrutturazione “volontaria” del debito greco a partire dal luglio 201182. Hanno
Stati. Su questi aspetti cfr. Di Gaspare, Anamorfosi dello “spread” (globalizzazione finanziaria, guerre valutarie e tassi di interesse dei debiti sovrani, in Riv. dir. eco., 2, 2012, pp. 299 ss.; Zhu, An Empirical Comparison of Credit Spreads between the Bond Market and the Credit Default Swap Market, cit., 2006. 80 Come è stato puntualmente illustrato da Cannata, Indagine, cit., p. 15, «[l]e banche controparti di swap degli stati sovrani, per neutralizzare, o almeno mitigare, il rischio di credito emergente dall’esposizione positiva attesa delle posizioni, si trovavano pressate a ridurre tale esposizione; ciò può avvenire o riducendo l’impegno a sottoscrivere regolarmente le aste dei titoli di Stato nei momenti più critici (cioè quando mancavano investitori finali disponibili ad assorbire l’offerta e quindi i titoli sarebbero rimasti nel portafoglio delle banche), oppure attraverso l’acquisto di cds. Il problema fu che nel corso del 2011 la percezione del rischio dei PIIGS andò via via sempre crescendo, riflettendosi proprio sulle quotazioni dei cds e generando un circolo vizioso». 81 Se nell’operazione di cartolarizzazione sintetica si utilizzano esclusivamente cds, allora la struttura che si configura è definita unfunded poiché non dà luogo a pagamenti iniziali a carico del protection seller. Viceversa, l’utilizzo delle credit-linked note (cln) può dare vita a strutture totally o partially funded in funzione, rispettivamente, dell’emissione di titoli pari al valore del pool di asset il cui rischio di credito si intende trasferire o di un volume di titoli inferiore al valore degli underlying asset. Le cln sono derivati del credito funded poiché il protection seller deve sempre sostenere un esborso iniziale all’inizio dell’operazione; mentre nei contratti cds il pagamento da parte del protection seller è solo eventuale. 82 Per una sintesi di tale processo cfr. Gulati e Zettelmeyer, Making a Voluntary Greek Debt Exchange Work, in Capital Markets Law Journal, 7(2), 2012, pp. 169 ss.; Quintin, Alis…da in wonderland or greek tragedy? The dinamics of default credit swaps and the
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rafforzato questa strategia nel successivo mese di ottobre chiedendo una riduzione volontaria del 50% del NPV83 per la parte di debito detenuta dai creditori privati. Nel 2012 la preoccupazione che l’attivazione dei cds sui titoli greci potesse alimentare un nuovo canale di contagio verso i Paesi della periferia dell’Eurozona84, ha indotto le autorità di settore ad assumere ulteriori provvedimenti in materia. È interessante notare come, in questa fase di marcata instabilità dei mercati, l’ISDA, deputata a decidere in merito all’attivazione e al montante finale di compensazione di un cds, abbia adottato un atteggiamento ambivalente. In un primo momento ha ritenuto che le condizioni particolari in cui avveniva la ristrutturazione del debito greco e le garanzie offerte dal Fondo salva-Stati EFSF non integrassero nessuna delle fattispecie di credit event necessarie allo “scatto” dei risarcimenti sulle esposizioni nette in cds su tali titoli. Per motivare siffatta scelta, l’ISDA ha distinto fra il default dichiarato dalle agenzie di rating e quello dichiarato
‘voluntary’ Greek restructuring of 2011/2012, in Int’lBus l.J., 2012, pp. 277 ss. Essendo l’esercizio della clausola di adesione obbligatoria limitata ai titoli sotto la giurisdizione ellenica, solo questi videro, in una prima fase, attivarsi la copertura dei cds relativi. L’esercizio dell’obbligatorietà dello swap per i creditori renitenti ha avuto una implicazione rilevante: il pagamento dei cds legati ai titoli di Atene. A seguito dei risultati dell’offerta di scambio volontaria e dell’attivazione delle Collective Action Clauses (cac’s) per costringere un ulteriore 10% circa dei detentori mancanti ad aderire alla ristrutturazione del debito, i creditori privati hanno visto riconosciuto il diritto a chiedere il rimborso dei cds sul debito greco che li copriva dal rischio di bancarotta dello Stato greco. In sostanza l’organismo competente in merito all’attivazione dei derivati di copertura del rischio ha sentenziato che la ristrutturazione del debito ellenico non avesse la caratteristica della volontarietà (come, invece, a più riprese sostenuto dalle Istituzioni internazionali, protese a spingere l’ISDA a qualificare il processo di ristrutturazione come volontario, in guisa tale da evitare di far scattare i cds e ridurre di conseguenza l’instabilità dei mercati dei titoli sovrani), ma che si configurasse come un vero e proprio default sovrano. L’ISDA non avrebbe potuto decidere diversamente, pena la destabilizzazione definitiva del mercato dei cds. 83 Il Net-present-value (npv), o upfront, è la differenza tra il valore attuale dei flussi che verranno ricevuti e quelli che verranno pagati. 84 Cfr. Oakley, Greek CDS drama holds lessons for investors, in The Financial Times, 19 March, http://www.ft.com/intl/cms/s/0/0997e7f4-71c4-11e1-b853-00144feab49a. html#axzz2DFC5Vows, accessed 25 November 2012. Molti sostenevano che la ristrutturazione del debito sovrano della Grecia avrebbe rotto un tabù, aprendo potenzialmente la porta ad una serie di ristrutturazioni del debito da parte di altri governi sovrani e, quindi, avviando un nuovo ciclo di contagio, con conseguenti minacce alla stabilità del sistema finanziario dell’Eurozona. Fortunatamente la dichiarazione di un evento di credito nel marzo 2012 non ha creato la temuta agitazione nei mercati finanziari che le autorità del settore temevano.
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dalle nazioni che, secondo l’Associazione, era il solo che potesse configurare il credit event. Soltanto in un momento successivo, per i timori legati a nuove incertezze che il suddetto distinguo tra “default degli Stati” e “default delle agenzie” rischiava di proiettare sui mercati, si è riconosciuto che la Grecia, applicando le Clausole di Azione Collettiva, avesse modificato i termini delle obbligazioni emesse dalla Repubblica Ellenica secondo la legge greca85. A detta dell’ISDA, si era, pertanto, verificato il credit event che faceva “scattare” il pagamento sui contratti di assicurazione contro il default. Nel dibattito sulla crisi greca un elemento che è stato spesso evocato è quello relativo al ruolo giocato dalla speculazione. È d’uopo premettere che accusare la speculazione di essere la “causa” dei problemi della Grecia – e di alcuni altri Paesi dell’area dell’euro – è in parte fuorviante. I problemi derivano fondamentalmente da una situazione critica dei conti pubblici degli Stati, oltre ad altri aspetti di natura strutturale Studi autorevoli condotti sull’argomento sottolineano che, tra i principali fattori che determinano inefficienza nei mercati obbligazionari e dei cds sovrani, rilevante è l’impatto delle condizioni economiche e delle politiche locali attuate dagli Stati. È anche opportuno evidenziare come, sebbene entrambe le variabili in oggetto (spread e cds) siano indicatori della percezione, da parte del mercato, del merito creditizio dell’emittente sovrano (v. supra §. 5), i rispettivi valori sono determinati da flussi di domanda e offerta originati in due mercati molto diversi. La cosiddetta “cds-bond basis” dei Paesi periferici, ad esempio, incorpora costantemente dinamiche di natura speculativa legate ai proble-
85 Sottolinea Villata, Remarks on the 2012 Greek sovereign debt restructuring: between choice-of-law agreementsand new eu rules on derivative instruments, in Riv. dir. inter. priv. proc., 3, 2011, p. 336, che se le obbligazioni fossero state sottoposte a legge ellenica, esse avrebbero avuto «an original sin» atteso che sarebbero potute essere ristrutturate con decisione unilaterale dal governo greco. Per un’analisi più dettagliata degli accadimenti in parola si rinvia, tra gli altri, ai contributi di Choi, Mitu Gulati e Posner, Pricing terms in sovereign debt contracts: a greek case study with implications for the European crisis resolution mechanism, in J.M. Olin Law & Economics Working paper, n. 541, February 2011; Georgakopoulos, Pyres, Haircuts, and CACs: Lessons from Greco-Multilateralism for creditors, May 2012, reperibile sul sito www.ssrn.com; Gulati e Zettelmeyr, Making a voluntary greek debt exchange work, 2012, reperibile sul sito www. ssrn.com; Porzecanski, Behind the Greek default and restructuring 2012, December 2012, reperibile sul sito www.ssrn.com.
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mi dei governi nazionali86. Le condizioni economiche dei Paesi, inoltre, sembrano essere preponderanti rispetto ad altri fattori, quali la liquidità del mercato dei cds. Gli event-study analysis riguardanti la ristrutturazione della Grecia, rivelano altresì che anche l’esposizione degli altri Stati al debito greco passa in secondo piano se confrontata con le condizioni locali. Per salvaguardare reputazione e sostenibilità dei propri sistemi bancari nazionali, gli Stati hanno visto incrementare il loro sovereign credit risk e, contestualmente, peggiorare quello delle loro principali istituzioni bancarie87. Questo è uno dei motivi che stanno alla base della crescente domanda di emissioni obbligazionarie corporate, in cui i differenziali di prezzo (spread) già includono i premi di rischio di default tratti dal mercato dei cds. Corre l’obbligo, pertanto, di precisare che dalla mera analisi del mercato dei cds non si possono estrapolare tout court dati che consentano di modificare o anticipare le probabilità di default di uno Stato sovrano o di un’impresa88. L’indicazione che si può trarre dalla lettura degli anda-
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Pertanto, come sottolinea, Cannata, Approfondimento sui cds della Repubblica Italiana, Audizione avanti la Commissione Finanze della Camera dei Deputati nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle tematiche relative agli strumenti finanziari derivati nella gestione del debito pubblico, 26 febbraio 2015, p. 7, «[d]a queste considerazioni emerge che, ormai, le quotazioni dei cds non trascinano più come un tempo i livelli dei tassi dei titoli di Stato corrispondenti: spread e cds possono sì temporaneamente mostrare sfasature e disallineamenti, anche per il determinarsi di situazioni di arbitraggio che il mercato può sfruttare (pur se ormai solo a copertura dell’esposizione di credito), ma tali divaricazioni tendono a rientrare tanto più rapidamente quanto più efficiente è il mercato sottostante. Infine, la divergenza tra spread e cds, con un aumento di questi ultimi a fronte di una stabilità o una riduzione degli spread, può essere indicativa di una maggiore domanda per i titoli di Stato, e dunque di una situazione moderatamente positiva». 87 I prezzi dei cds sovrani riflettono un sovereign risk crescente a causa di salvataggi, di coperture su asset tossici e di garanzie fornite ad aziende strategiche, rilasciate al fine di consentire a queste ultime di potersi indebitare senza dover subire riduzioni di credibilità. 88 Sebbene i cds possano considerarsi un “barometro” utile per capire il rischio che si assume nell’effettuare un certo investimento – si spiega nel contributo Credit default swap: effetti sull’Italia, in Gnosis, 1/2009 – «quando, invece, vengono assunti come indicatori su cui scommettere, né il dato aggregato del valore “nozionale” dei contratti cds, né il cds spread (ossia il prezzo di un cds) devono essere considerati rappresentativi della inaffidabilità di un Paese». Si aggiunga che «in periodi di turbolenze finanziarie la componente emotiva è così forte nella stima del rischio di certi Paesi che, per alcuni di essi (come l’Italia) il rischio di default è ampiamente sopravvalutato. L’emotività del mercato genera un “extra-spread”, dovuto semplicemente ai pregiudizi negativi verso
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menti del premio di un cds deve essere, invece, “ponderata” con ulteriori elementi, tipo le valutazioni attribuite da agenzie di rating, oppure le statistiche delle variabili “fondamentali” dell’economia interna. All’analisi quantitativa va affiancata, dunque, un’analisi qualitativa ed interpretativa, relativa agli indicatori sociali e di welfare state, all’evoluzione ed alla struttura dell’indebitamento, alla situazione del sistema finanziario interno e, soprattutto, alla valutazione della stabilità politica come indicatore della “coerenza temporale” delle politiche economiche annunciate. Ma questo, come si è già sottolineato, vale solo nell’utilizzo di un cds per la copertura di un rischio di credito. Allorquando, invece, si rilevi una volontà di “cogliere” nei cds un indicatore di potenziale fallimento, verosimilmente si constaterà la presenza nel mercato di eventuali distorsioni o alterazioni dei prezzi realizzate da flussi di contrattazioni opache89.
8. Il nuovo quadro normativo di riferimento. Le speculazioni finanziarie, che hanno vessato i mercati in questi ultimi anni, e specialmente la crisi dei mutui subprime, hanno palesato molti dei limiti della regolamentazione soprattutto in merito alla diffusione degli strumenti derivati ed al loro improprio utilizzo a fini speculativi. Gli eventi descritti hanno messo in luce come i derivati negoziati nei mercati otc abbiano permesso di tessere una fitta rete di legami tra gli attori del sistema finanziario, la cui individuazione è risultata complessa con conseguente difficoltà nel contenere il contagio e l’espandersi dei fallimenti finanziari. Le authority ed i legislatori non sono stati in grado di adeguare con tempestività il quadro degli strumenti ai cambiamenti intervenuti nel
certi Paesi (…) che fa sì che lo spread effettivo sia più elevato rispetto allo spread che un’analisi più obiettiva dei rischi potrebbe suggerire». 89 Per Cannata, Approfondimento, cit., 2, «[è] opportuno rimarcare, a questo punto, che i contratti di cds aventi ad oggetto l’acquisto/vendita di protezione dal rischio di default di Stati sovrani sono principalmente denominati in una valuta estera, differente, quindi, dalla valuta locale dello Stato di riferimento. Ad esempio, i cds aventi ad oggetto il rischio di credito di Paesi dell’Area Euro sono principalmente denominati in dollari americani. La ragione di quanto sopra, risiede nella considerazione che, in caso di default di uno Stato sovrano, è plausibile attendersi movimenti significativi, e potenzialmente un deprezzamento, della valuta in corso in tale Stato, con conseguente impatto sull’effettivo valore della protezione acquistata o venduta. Proprio per tali motivi, normalmente la negoziazione dei cds esclude le controparti domestiche e rileva il valore dell’indennizzo in valuta estera».
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settore dei derivati finanziari, divenuti sempre più complessi e difficilmente incanalabili in fattispecie regolatrici adatte, e più in generale nelle condizioni di mercato, offrendo ricette tradizionali o contraddittorie che hanno spesso appesantito la crisi anziché arginarla90. In occasione del vertice di Pittsburgh del settembre 2009 i leader assunsero l’impegno di definire un efficace quadro normativo di riferimento per disciplinare in maniera organica il mondo dei derivati otc, con lo scopo di rafforzare il sistema finanziario globale, ponendo particolare attenzione all’esigenza di protezione e crescita della stabilità ed integrità dei mercati finanziari91. Ciononostante, nel pieno imperversare della crisi, in Europa le autorità nazionali hanno adottato provvedimenti eccezionali diretti a limitare o vietare le vendite allo scoperto di alcune o di tutte le categorie di azioni e/o cds92. Tali interventi sono stati indotti dalla preoccupazione che, in
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Cfr. Cavalieri, Una riflessione sulle cause e sulla responsabilità della crisi globale, in Riv. trim. dir. eco., 2009, p. 2. 91 In occasione del vertice di Pittsburgh del 26 settembre 2009, i leader del G20 decisero che entro la fine del 2012 tutti i contratti derivati otc standardizzati dovessero essere compensati mediante una Controparte centrale (ccp) e segnalati a repertori di dati sulle negoziazioni. Nel giugno 2010 i leader del G20 riuniti a Toronto riaffermarono il loro impegno ad accelerare l’applicazione di misure forti per accrescere la trasparenza e la vigilanza regolamentare dei contratti derivati otc in maniera uniforme a livello internazionale e non discriminatoria. Alla luce di questi risultati, gli Stati del G20 decisero di attuare entro la fine del 2012 i seguenti impegni politici: i) compensare i contratti derivati otc standardizzati per il tramite di Controparti centrali (obbligo di compensazione); ii) notificare tutte le transazioni con derivati otc ai repertori di dati sulle negoziazioni (obbligo di notifica); iii) negoziare le transazioni standardizzate con derivati otc, se opportuno, su una borsa o su altre piattaforme elettroniche (obbligo di commercio su una piattaforma); iv) subordinare le transazioni con derivati otc compensate bilateralmente (vale a dire non per il tramite di una controparte centrale) a requisiti più severi in materia di capitale. 92 Con l’obiettivo dichiarato di arginare la speculazione e stabilizzare i mercati, la BAFIN (l’autorità tedesca sui mercati finanziari) aveva imposto – a metà maggio 2010 – i seguenti divieti: i) vendite allo scoperto di obbligazioni governative dell’area euro e di alcune imprese finanziarie tedesche, se non legate ad un prestito titoli (naked short selling); ii) scambio di cds su titoli pubblici dell’area euro, non finalizzati a copertura di obbligazioni detenute in portafoglio (naked cds). Gli osservatori più critici hanno giudicato inappropriato e intempestivo l’intervento dell’autorità di vigilanza tedesca, come risulta dai primi commenti pubblicati sulla stampa italiana specializzata: Cherubini, Debito più caro dopo gli stop tedeschi, 21 maggio 2010, disponibile su lavoce.info; Tabellini, Berlino sbaglia ma anche la Bce può fare meglio, in Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2010; R. Sabbatini, Lo short selling divide l’Europa, in Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2010; Debenedetti, Senza alcuna efficacia il divieto di vendite allo scoperto di CDS, in Il Sole
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un momento di notevole instabilità finanziaria, le vendite allo scoperto potessero aggravare la spirale della discesa dei prezzi dei titoli (in particolare degli istituti bancari e assicurativi) in misura tale da minacciarne la solidità finanziaria e creare rischi sistemici. Data l’assenza di una soluzione condivisa a livello comunitario93, l’assunzione di risposte divergenti, se non confliggenti, degli Stati membri, ha alimentato sui mercati un clima di generalizzata arbitrarietà, inducendo gli investitori ad aggirare le restrizioni vigenti in una giurisdizione semplicemente effettuando le stesse operazioni in un’altra ove queste non fossero operanti. In tal modo si è rinforzata l’immagine di un’area euro divisa al suo interno, incapace di innalzare un argine comune per fronteggiare l’ondata speculativa in atto94.
24 Ore, 21 maggio 2010. Sul punto v. pure la posizione espressa da Beber e Pagano, Reazioni sbagliate: il divieto di vendite allo scoperto, 9 febbraio 2010, disponibile su lavoce.info, secondo cui «qualsiasi opzione regolamentare (restrizione all’operatività o regole di trasparenza) andrebbe, dunque, considerata in un contesto di mercati finanziari sempre più integrati, e spesso con una moneta comune, al fine di evitare comportamenti elusivi dovuti a possibili arbitraggi regolamentari». 93 Sul ritardo con cui si è mosso il legislatore europeo rispetto al dibattito fiorito negli USA e «soprattutto come questo non sia riuscito a portare avanti un suo originale contributo al processo normativo ma abbia sostanzialmente subito passivamente l’approccio adottato all’estero» v. Scalcione, La nuova disciplina dei derivati OTC: un prodotto di impotrtazione, in La crisi dei mercati finanziari: analisi e prospettive, a cura di Santoro, vol. I, Milano, 2013, p. 445. Paradossalmente, importanti iniziative di autoregolamentazione varate nel 2009 hanno inoltre creato i presupposti per facilitare l’utilizzo dei cds per finalità speculative. Segnala la mancanza di coordinamento o di armonizzazione a livello di Unione Europea Cera, La crisi finanziaria, le banche e l’intervento dello Stato fra leggi, ibridismi e prefetti, in AGE, 2009, 1, p. 37; cui adde Scipione, La crociata, cit., p. 80 s. Sulla necessità di seguire un approccio armonizzato, che avvicini le regolamentazioni finanziarie dei diversi Paesi, cfr. Amorosino, Coordinamento e collaborazione nelle attività di vigilanza “finanziaria”, in La crisi dei mercati finanziari, cit., p. 169 ss.; Cardia, Armonizzazione normativa e cooperazione per combattere la crisi in Europa, in Banc., 6/2009, pp. 53 ss.; Stiglitz, La crisi finanziaria internazionale: le regole da riscrivere e le prospettive future, in Banc., 9/2009, pp. 2 ss.; Masera, La crisi globale: finanza, regolazione e vigilanza alla luce del Rapporto de Larosière, in Riv. trim. dir. eco., 3/2009, pp. 147 ss.; Shadab, Guilty By Association? Regulating Credit Default Swaps, in Entreprenurial Bus. L.J., 4, 2009-2010, pp. 412 s.; Di Noia, Micossi, Carmassi e Peirce, Keep It Simple Policy Responses to the Financial Crisis, Centre for European Policy Studies (Ceps), Brussels, Assonime, Roma, 2009. 94 Sostiene che il potenziamento del ruolo dei regolatori non rappresenti una risposta efficace Vitale, Il ruolo dei regolatori: quali prospettive?, in Aa.Vv. La crisi finanziaria: banche, regolatori, sanzioni, Milano, 2010, pp. 38 ss. Sul punto si vedano anche le considerazioni di Gualandri, Crisi finanziaria: quali lezioni per le autorità
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L’obiettivo dichiarato dal legislatore europeo è stato, pertanto, quello di giungere ad un forte coordinamento continentale evitando che i Paesi membri continuassero ad andare in ordine sparso95. Sulla scorta delle decisioni del G20, nel 2010 il Congresso USA ha votato il Dodd-Frank Act, e, a partire dall’estate 2012, nell’Unione europea si è avviato un intervento di riassetto e regolamentazione del settore che si snoda attorno a tre tipologie di provvedimenti: il regolamento (UE) n. 236 del 14 marzo 2012, relativo alle vendite allo scoperto e a taluni aspetti dei contratti derivati aventi ad oggetto la copertura del rischio di inadempimento dell’emittente sovrano; il regolamento n. 648 sugli strumenti derivati otc, le Controparti centrali e i Repertori di dati sulle negoziazioni (c.d. “EMIR” - European Market Infrastructure Regulation); cui si aggiungono i tre regolamenti di esecuzione, n. 1247, 1248 e 1249, pubblicati in G.U.C.E. il 21 dicembre 2012; e i sei Regulatory Technical Standards predisposti da ESMA, EBA o congiuntamente da ESMA, EBA ed EIOPA, in attuazione degli obblighi nascenti dal regolamento EMIR, e adottati dalla Commissione europea come regolamenti delegati di esecuzione, in particolare i nn. da 148/2013 a 153/2013, pubblicati il 23 febbraio 2013 e entrati in vigore il 13 marzo 2013. Sia con riguardo alla disciplina USA sia con riferimento all’EMIR, gli interventi posti in essere poggiano su: i) istituzione di casse di compensazione e clearing houses con l’obiettivo di trasformare il mercato dei cds da over the counter a regolamentato in senso stretto;
di vigilanza, in Banc., 2008, 10, pp. 3 ss., nonché l’intervento di Draghi, Banche e mercati: lezioni dalla crisi, Intervento presso la Foreign Bankers’ Association, The Nederlands, 11 giugno 2008. 95 Per limitare siffatta frammentazione ed aumentare l’efficienza dell’attività di vigilanza e dei mercati in generale, la Commissione europea ha formulato due proposte di regolamento: la prima [Proposta di regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio, COM(2010) 482] tesa a disciplinare il mercato dei derivati, le vendite allo scoperto e, in particolare, la negoziazione di alcuni tipi di credit default swaps; la seconda [Proposta di regolamento europeo su “Gli strumenti derivati otc, le controparti centrali e i repertori di dati sulle negoziazioni”, COM(2010) 484 definitivo, 2010/0250 (COD)] preordinata a rendere più sicuro e trasparente anche il mercato dei derivati negoziati over the counter. Entrambe le iniziative si inserivano a pieno titolo nel processo di revisione della regolamentazione e della vigilanza finanziaria a livello continentale. Per un primo commento si veda R. Sabbatini, Stretta Ue su hedge e derivati, in Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2010; Morino, Le recenti crisi finanziarie, i Credit Default Swap, i derivati otc e la proposta di regolamentazione a livello europeo, in Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2011.
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ii) utilizzo di piattaforme elettroniche per la fase di post trade e per la gestione dei flussi di pagamento; iii) modifica delle convenzioni di pricing e quotazione con liquidazione di parte del premio contestualmente alla stipulazione del contratto. Le nuove norme fanno, pertanto, rientrare gli strumenti finanziari regolati nel loro alveo originario, eliminando in radice la componente di azzardo finanziario che negli ultimi anni avevano incorporato e che ha contribuito attivamente a destabilizzare i mercati finanziari (e dei titoli pubblici in particolare) mondiali ed europei96. In entrambi i casi i regolatori hanno ritenuto opportuno, innanzitutto, sostenere e validare quel processo di regolamentazione tuttora in atto per migliorare le condizioni del mercato dei derivati in termini di maggiore controllo (aumentandone la trasparenza) e minore esposizione (riducendone il rischio della controparte e quello sistemico).
9. L’istituzione delle Central clearing parties per la “normalizzazione” del mercato dei cds. Profili generali. La logica sottesa ai due testi in commento denota un complessivo ripensamento del laissez faire concesso a livello mondiale alle grandi corporation finanziarie internazionali a partire dagli anni Novanta. Un frainteso liberismo che si è risolto nella carenza di regole di controllo contro gli abusi e nell’assenza di severe sanzioni a chi non rispettasse la funzione del mercato. Non ha alcun senso un mercato che forma i suoi prezzi solo sulla base di tecnicismi del momento, senza tenere in alcun conto i valori fondamentali sottostanti il prezzo attribuito a un’azione, piuttosto che a un titolo di Stato o ad una materia prima. Ovviamente, il mercato dei cds non è perfetto. Anzi, non si può nemmeno definirlo, per le ragioni già note, un mercato organizzato, ma solo uno scambio virtuale informale. Le regole esistenti non sono pensate per renderlo trasparente o resistente, ma più redditizio per grandi banche
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Cfr. Awrey, The Dynamics of OTC Derivatives Regulation: Bridging the PublicPrivate Divide, in European Bus. Org. L. Rev., 11, 155, 2010, pp. 185 ss.; Gubler, The Financial Innovation Process: Theory and Application, in Del. J. Corp. L., 36, 55, 2011, p. 87; Baker, Regulating the Invisible: The Case of Over-the-Counter Derivatives, in Notre Dame L. Rev., 85, 2010, pp. 1318 ss.
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e istituzioni finanziarie. Per la prima volta dalla sua nascita, inoltre, è il rischio controparte (counterparty risk) e non il rischio emittente l’elemento che più condiziona l’attività di trading. Tant’è che, nell’orientare le scelte dell’operatore medio, sempre più spesso la valutazione sulla solidità del venditore di protezione ha un ruolo almeno pari a quello della valutazione sull’oggetto dell’assicurazione stessa97. In un mercato concentrato come quello dei cds, il default di un dealer può causare seri problemi per molti altri partecipanti e generare effetti domino e di contagio del default. (V. infra par. 11). Come si è anticipato, sia in Europa che negli Stati Uniti, la principale innovazione normativa è consistita nell’obbligo di utilizzo di organi di compensazione multilaterale, le cosiddette central clearing parties (ccps), preposte al raggiungimento dei risultati sopraindicati98. Il Dodd-Frank Act, l’EMIR e le altre regolamentazioni, tra cui quella asiatica, che richiedono la compensazione (clearing) degli otc derivatives, consentono di espandere il volume delle compensazioni, coinvolgendo la maggior parte delle transazioni over the counter, cds compresi. Questo passaggio rappresenta un profondo cambiamento nella struttura dei mercati e nelle pratiche di trading99. Quando la ccp subentra nell’operazione, il singolo contratto stipulato tra le due parti lascia il posto a due nuovi contratti tra la ccp e ciascuna delle due controparti. Ne consegue che il buyer e il seller non sono più controparti fra loro, ma lo sono entrambe della ccp, con la quale adempiono all’obbligo di clearing. In questo mo-
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Cfr. CPSS (Committee on Payment and Settlement Systems), Market structure developments in the clearing industry: implications for financial stability, CPSS Publications No 92, Bank for International Settlements, November 2010, disponibile all’indirizzo web http://www.bis.org/publ/cpss92.pdf. Durante la crisi del 2008, per la prima volta il rischio controparte, ovvero quello legato all’affidabilità del venditore di protezione, ha superato in termini di importanza il rischio assicurato, quello cioè dell’oggetto del contratto stesso contro il cui default ci si vuole assicurare (c.d. overlapping). 98 Cfr. Angelini, Il credit default swap nella gestione del rischio di credito, Torino, 2013, pp. 63 ss. L’obiettivo che si intende raggiungere con l’introduzione delle ccps non è tanto quello di rendere il mercato degli strumenti otc più regolamentato, quanto quello di limitare le operazioni particolarmente complesse e poco trasparenti. Più nel dettaglio, come è stato dimostrato da molti studi sull’argomento, le ccps possono conseguire considerevoli vantaggi in termini di mitigazione dei rischi attraverso vari modi: collateralization, netting, mutualization, information aggregation e la gestione dei default. Per un commento critico alla disciplina statunitense si rinvia a McNamara, Financial, cit., pp. 244 ss. 99 Cfr. Oldani, Sovereign Risks, Derivatives and Financial Regulation, in Bankpedia Review Special Issue, 2012, pp. 6 s.
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do, l’introduzione delle ccps muta – come si diceva poco sopra – la struttura del mercato che passa da un otc bilaterale, con una rete omogenea, ad un modello eterogeneo in cui si accentrano gli scambi nelle ccps. A ragion del vero, le ccps non costituiscono una novità assoluta. Sono istituzioni di lunga data, da tempo utilizzate sui mercati regolamentati dei futures e delle opzioni e già introdotte nei mercati otc prima della crisi finanziaria100. Non appena entrato in vigore l’EMIR, si è posto il dilemma di come detta normativa dovesse rapportarsi all’analoga disciplina contenuta nel Dodd-Frank Act, che presenta aspetti di maggiore elasticità rispetto alle prescrizioni, per certi versi più rigorose, introdotte dalla regolamentazione europea. Ad avvertire l’esigenza di uniformità dei rispettivi sistemi di clearing e di reporting sono state soprattutto le grandi banche americane operanti sui mercati dei derivati nei Paesi dell’Unione Europea, a cui preme conoscere a quale normativa ed a quale giurisdizione debbano essere sottoposte in tutti i casi in cui si trovino a negoziare derivati otc con controparti europee. Prima di parlare delle ccps, pertanto, si ritiene utile ripercorrere con rapido passo le principali innovazioni in subjecta materia contenute nei due diversi dispositivi regolamentari qui richiamati. 9.1. Il modello USA. Come anticipato, negli Stati Uniti la materia è stata regolata dal Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act, entrato in vigore il 21 luglio 2010 e, in particolare, dal Title VII (Wall Street Transparency and Accountability), suddiviso nelle sezioni “Regulation of Over-the-Counter Swaps Markets” e “Regulation of Security-Based Swap Markets”.
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Al fine di limitare il ricorso alle armi da fuoco come strumento di gestione del rischio di controparte, i membri del Chicago Board of Trade iniziarono a cercare uno strumento che fosse altrettanto efficace ma possibilmente meno violento. Fu così che nacque il 23 settembre 1883 la Chicago Board of Trade Clearing Corporation.(cfr. Culp, The risk management process, Wiley, 2001). La necessità di disporre di un garante del rischio di consegna (dello strumento finanziario e del controvalore in danaro) fu avvertita in primo luogo per gli strumenti a esecuzione differita (“a termine”) in cui le controparti sono esposte al rischio di perdite cumulate sull’intero intervallo temporale fra la pattuizione e l’adempimento. Con il crescere della sensibilità verso i rischi finanziari, e con l’implementazione dei mercati telematici, il sistema di garanzia di modello controparte centrale si è progressivamente esteso anche ai mercati a contante.
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Nel Dodd-Frank Act, il provvedimento ritenuto più innovativo è rappresentato proprio dall’obbligo di contrattazione dei derivati standard tramite borse elettroniche o central clearing parties e la creazione di swap execution facilities (sef), ossia piattaforme di mercato autorizzate per l’esecuzione degli swaps sotto il controllo della Commodity Futures Trading Commission (CFTC)101. In particolare, il Titolo VIII, rubricato “Payment, Clearing and Settlement Supervision”, è dedicato alla regolamentazione dei mercati otc. Secondo quanto stabilito, alcune istituzioni finanziarie, registrate presso la Securities and Exchange Commission (Sec), hanno il compito di svolgere centralmente le operazioni di pagamento, compensazione e regolamento delle transazioni finanziarie. Chiaramente, queste attività non comprendono la possibilità di postare offerte o vendite, quotazioni o altre attività pre-trade, ma riguardano soltanto le attività post-trade. Nell’obbligo è compresa la quasi totalità degli strumenti derivati, inclusi i cds. Il numero delle classi interessate dal provvedimento è decisivo al fine della valutazione dell’efficienza relativa all’utilizzo delle ccps. L’attività di controllo sull’operato delle central clearing parties è svolta innanzitutto dalla Sec, per le istituzioni registrate presso di essa, in collaborazione con la Cftc e le singole federal bank. Il “Board of Governors” svolge, invece, un’attività di vigilanza sugli istituti che non rientrano sotto la giurisdizione di alcuna delle istituzioni sopra citate. Spetta alla Fed il compito di stabilire gli standard di rischio accettabili per gli operatori che eseguiranno transazioni tramite compensazione multilaterale. Inoltre, per ridurre l’opacità delle posizioni aperte in derivati nei confronti dei regulators ed eliminare quindi il maggior ostacolo all’esercizio di una efficace attività di vigilanza, si impone la trasmissione degli estremi dei contratti derivati otc conclusi o esistenti ai c.d. trade repository. 9.2. Il modello paneuropeo. Al fine di ridurre il rischio di controparte il legislatore europeo introduce nei mercati otc europei l’obbligo di compensazione multilaterale
101 Sul punto cfr. Scalcione, The Derivates Revolution. A Trapped Innovation and a Blueprint for a Regulatory Reform, Roma, 2011, p. 218 ss. Sembra utile precisare che la disciplina dei derivati introdotta con il Dodd Frank Act, pur risultando innovativa nei contenuti, si muove in sostanziale continuità rispetto al quadro legislativo esistente inserendo una serie di modifiche al Securities Exchange Act del 1934 ed al Commodity Exchange Act del 1936 (CEA).
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tramite central clearing parties per determinate classi di derivati standard e per gli scambi di derivati otc il cui valore superi determinate soglie. Ovviamente, se per una determinata classe di derivati non esiste alcuna ccp autorizzata o registrata, l’obbligo si estingue. Per quelle negoziazioni di valore inferiore agli standard e coinvolgenti almeno una controparte non finanziaria, a carico delle quali non viene previsto, come detto, il sopracitato obbligo di compensazione presso una ccp, viene nondimeno introdotto l’obbligo di adottare misure di “risk mitigation” (note con le espressioni anglosassoni di timely confirmation, portfolio reconciliation and compression, dispute resolution, marking-to-market and markig-tomodel)102, volte a temperare e monitorare il rischio operativo ed il rischio di credito di controparte (art. 11, par. 1, lett. b, e art. 11, par. 3)103.
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Si tratta, nello specifico, di: a) “conferme tempestive”, il cui scopo è di concordare tutti i termini dell’operazione in un arco di tempo contenuto al fine di evitare che residuino termini e condizioni sui quali non è stato trovato un accordo tra le parti; b) “valutazioni giornaliere”, che consentono di valutare ad intervalli temporali ravvicinati il valore delle operazioni in strumenti finanziari derivati in essere; c) “riconciliazione dei portafogli”, il cui fine è disporre di un allineamento puntuale circa le evidenze reciproche tra le controparti con riferimento alle operazioni in derivati in essere; d) “compressione dei portafogli”; e) “risoluzione delle dispute”, per risolvere eventuali discordanze anche relativamente all’ammontare del “collateral” che una controparte dovrà all’altra. Invero, come sottolinea Guccione, Il difficile equilibrio tra stabilità finanziaria e prociclicità delle garanzie collaterali: l’art. 41(1), ultimo periodo, del Regolamento (UE) n. 648/2012, relazione al V Convegno annuale “Orizzonti del diritto commerciale” sul tema “L’impresa e il diritto commerciale: innovazione, creazione di valore, salvaguardia del valore nella crisi”, Roma, 21-22 febbraio 2014, p. 2, «[n]essuna delle tecniche di risk mitigation indicate dal regolamento può considerarsi davvero innovativa, essendo da tempo impiegate dai gestori dei servizi di controparte centrale anche per operazioni concluse nel mercato otc. Innovative sono invece, oltre alla già ricordata clearingobligation, le norme che disciplinano le singole tecniche, fissando le condizioni in presenza delle quali esse potranno essere impiegate dalla ccp e le “finalità” che dovranno essere tenute in considerazione dai soggetti coinvolti nella regolamentazione secondaria, e dalle stesse controparti centrali nello svolgimento della propria attività». 103 Riferendoci alle definizioni contenute nell’art. 2 del regolamento in parola, per “Controparte centrale” è da intendersi la persona giuridica la quale, debitamente e preventivamente autorizzata dalle autorità nazionali competenti, «si interpone tra le controparti di contratti negoziati su uno o più mercati finanziari agendo come acquirente nei confronti di ciascun venditore e come venditore nei confronti di ciascun acquirente» (art. 2, n. 1); per “compensazione”, invece, si fa riferimento alla «procedura intesa a determinare le posizioni, tra cui il calcolo delle obbligazioni nette, e ad assicurare
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Quanto all’ambito soggettivo, l’EMIR trova differente applicazione a seconda della categoria cui appartiene la controparte di uno strumento finanziario derivato. Sono tenute alla compensazione obbligatoria con ccps le “controparti finanziarie” e le “controparti non finanziarie” qualificate sulla base del superamento della soglia di compensazione e del c.d. hedging test104. L’obiettivo è di estendere i presidi di vigilanza e trasparenza alle negoziazioni in derivati otc di controparti non finanziarie che per quantità e per finalità delle relative posizioni in derivati otc non rispondano ad esigenze di copertura dei rischi funzionalmente connesse all’attività principale. Degna di nota è altresì l’istituzione dell’obbligo di trading sui mercati, ossia sulle market venues, cui si accompagna la previsione che attribuisce all’ESMA il compito di individuare i derivati o le classi di derivati che debbono costituire oggetto di una obbligation to trade105.
la disponibilità degli strumenti finanziari o del contante, o di entrambi, per coprire le esposizioni risultanti dalle posizioni»; per quanto riguarda le definizioni di “controparte finanziaria” e “controparte non finanziaria”, esse si rinvengono all’art. 2, nn. 8 e 9. 104 L’art. 4 reg. n. 648/2012 ha, infatti, introdotto due classi di controparti. Nella prima, che si riferisce alle c.d. “Controparti finanziarie” (Cf), ricadono: i) l’impresa di investimento ai sensi della MiFID); ii) l’ente creditizio secondo la Direttiva bancaria UE; iii) la compagnia assicurativa e quella riassicurativa; iv) gli UCITS e le relative società di gestione del risparmio; v) i Fondi pensione e di investimento alternativi gestiti da Fondi di investimento alternativi (Fia), autorizzati o registrati secondo la direttiva UE di riferimento. Per esclusione, nella seconda, afferente alle c.d. “controparti non finanziarie” (ncf), si ricomprende qualunque soggetto giuridico stabilito nell’UE che non possa qualificarsi come Controparte finanziaria. 105 Cfr. Hull, OTC derivatives and central clearing: can all transaction be cleared? in Financial Stability Review, 2010, 14, p. 71; Meucci, La protezione dell’investitore nel quadro dei più recenti interventi comunitari: la proposta di direttiva Mifid 2 e il regolamento EMIR, in Persona e mercato – Materiali e commenti, 2013, pp. 331 s. Secondo Sasso, Il ruolo delle central clearing counterparties (ccps) nella nuova riforma del mercato dei derivati otc, in Giur. comm, 2012, p. 8, «[p]er individuare quali tipi di contratti derivati possono essere compensati mediante ccps, il legislatore comunitario ha proposto un duplice approccio. Da un lato, con un approccio bottom-up (dal basso verso l’alto) l’autorità di vigilanza competente nello Stato membro in questione detta alla ccp autorizzata nel proprio territorio le classi di derivati otc di cui questa si deve occupare e comunica all’autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) la decisione. Quest’ultima ha il potere di confermare questa scelta ed armonizzarla a livello europeo» (v. art. 5, § 2, reg. n. 648/2012). Dall’altro, con un approccio top-down (dall’alto verso il basso) la ESMA di sua propria iniziativa, in consultazione con lo European Systemic Risk Board (ESRB), identifica tutta una serie di contratti che dovrebbero essere compensati attraverso ccps autorizzate nei vari Paesi e che ancora non lo sono. Di conseguenza comunica le decisioni prese a tutte le autorità competenti nei vari paesi UE
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Per quanto attiene al grado di liquidità “sufficiente” che concorre a far scattare l’obbligo di accentramento degli scambi nelle trading venues dichiarate eleggibili [i mercati regolamentati, i multilateral trading facilities (mtf) e le neonate organized trading facilities (otf)106], l’ESMA, nel fissare i requisiti tecnici applicativi, tiene conto delle caratteristiche dei mercati di riferimento per ciascuna giurisdizione, i quali vengono valutati sulla base di alcuni parametri quali il numero e il tipo di partecipanti, l’entità e la frequenza media delle operazioni eseguite negli stessi. Inoltre, al fine di garantire il maggior grado di trasparenza possibile, l’ESMA deve tenere un registro pubblico, dove iscrivere le classi di derivati soggette a obbligo di compensazione, le ccps autorizzate e ogni altra comunicazione ufficiale. Come per gli Stati Uniti, le ccps non svolgono attività di raccolta dati ma hanno “obblighi di segnalazione”. Il Reg. 648/2012 prevede la trasmissione delle informazioni relative alla conclusione, modificazione o cessazione dei contratti nonché l’obbligo di comunicare informazioni complete su ogni singola transazione conclusa ai trade repository (tr)107 (art. 9). Se si riflette su quello che ha sempre rappresentato uno dei principali fattori di pericolosità intrinseca dei mercati otc, ossia l’opacità delle negoziazioni, ben si comprende la ratio delle disposizioni in parola: assicurare la tracciabilità delle operazioni e un flusso costante di informazioni inerenti agli scambi108.
affinché le ccps siano autorizzate a gestirli. Questo controllo incrociato delle autorità sul mercato dei valori mobiliari serve a ricomprendere e riclassificare la più vasta gamma possibile di contratti derivati otc. 106 Definite Swap execution facilities nel Dodd-Frank Act. 107 Cfr. Scalcione, La nuova disciplina, cit., pp. 440 ss. Il trade repository è un’entità, autorizzata da ESMA, che opera come registro di informazioni con l’obiettivo di raccogliere e mantenere i dettagli delle operazioni otc. Rappresenta uno strumento per monitorare e migliorare la trasparenza dei mercati. Per altri spunti di analisi si vedano, pure, le riflessioni di Romano, La riforma dei derivati ‘‘Otc’’ negli Usa: dalle regole di common lawn al Dodd-Frank Act, in La crisi dei mercati finanziari: analisi e prospettive, a cura di Santoro, vol. II, Milano, 2013, pp. 285 ss.; Green, Trade Reporting Requirements: EMIR vs. Dodd-Frank and Making Sense of Your Global Obligations, 2013, disponibile all’indirizzo web http://derivsource.com/articles/trade-reporting-requirements-emir-vsdodd-frank-and making-sense-your-global-obligations. 108 Obblighi informativi, specificamente posti in capo, stavolta, alle sole controparti stipulanti contratti derivati otc non sottoposti all’obbligo di compensazione mediante ccp, sono inoltre previsti dall’art. 11, par. 1, lett. a), ove, in particolare, si prevede la tempestiva comunicazione alla propria controparte acquirente delle condizioni dello stipulando
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A differenza degli Stati Uniti, inoltre, ogni Stato membro deve designare un’autorità di supervisione che faccia capo all’ESMA e applichi l’EMIR nel proprio territorio di competenza. Un’altra importante differenza risiede nel fatto che i destinatari dell’obbligo sono soltanto i maggiori dealers per gli Stati Uniti, mentre per l’Unione Europea lo sono anche gli investitori e le imprese minori. I nuovi standard europei definiscono una serie di norme di comportamento e di elementi prudenziali per le Controparti centrali tra cui: requisiti di margine, stanziamento di fondi di default, apparati di gestione del rischio di liquidità, di cui si dirà poco più avanti109.
10. Il sistema di clearing per mitigare il rischio di controparte. Il G-20 pone le ccps al centro della salvaguardia del sistema finanziario mondiale: «The European Commission has identified ccp-clearing as the main tool to manage counterparty risks and the G20 shares this view. Currently, ccps provide services on a European basis but remain regulated at national level, as there is no Community legislation covering ccps. While the ESCB-CESR recommendations have started a process of converging national approaches, they are not binding. In view of the ccps systemic importance, the Commission intends to propose legislation governing their activities so as to eliminate any discrepancies among national legislations and ensure safety, soundness and proper governance…». Assoggettate al controllo degli organi di vigilanza del Paese in cui risiedono, tipicamente le ccps sono entità private «che si occupano di fornire servizi di compensazione e scambio ai propri membri riducendo
contratto e la reciproca tempestiva conferma della conclusione dell’operazione. 109 In attuazione dei nuovi obblighi nascenti dall’EMIR, l’autorità di vigilanza finanziaria europea (ESMA) ha emanato una serie di norme tecniche di regolamentazione, pubblicate il 23 febbraio 2013 sulla G.U.U.E. ed in vigore a partire dal 15 marzo 2013. Le norme vanno nella direzione di un maggior grado di trasparenza e controllo, attraverso la definizione dei dettagli delle operazioni in strumenti derivati che dovranno essere segnalati ai repertori dati. L’ESMA, in particolare, ha esteso le disposizioni in materia di accesso da parte delle autorità competenti per garantire che queste siano in grado di assolvere i propri mandati. Per maggiori dettagli cfr. La Malfa, Nuovo Regolamento EMIR sui derivati otc: i commenti ISDA agli RTS dell’ESMA approvati il 07.02.2013 dal Parlamento europeo, in Dirittobancario.it, 2013, pp. 1 ss.
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così il rischio ed ottimizzando l’efficienza delle transazioni nei periodi di post-trade e pre-settelement»110. In linea con gli abituali schemi di vigilanza utilizzati, a livello europeo, la disciplina EMIR fissa, per le ccps, dei requisiti soggettivi e delle regole di condotta nella prestazione dell’attività di compensazione111. Oltre a determinare le posizioni nette (creditorie o debitorie) dei partecipanti, richiedono il versamento di margini a garanzia delle posizioni aperte112 e assicurano il buon esito delle contrattazioni I vantaggi sono evidenti: la riduzione del rischio di controparte, la semplificazione del meccanismo di esecuzione dei contratti, la maggior trasparenza dei contratti e il maggior controllo sui mercati grazie alla supervisione di autorità come l’ESMA113 (cui è affidato il compito di suggerire standard tecnici da seguire al fine di migliorare l’efficienza dei servizi offerti dalle Controparti centrali). Per effetto dell’accentramento degli scambi, ciascun membro ha una
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Così Sasso, Il ruolo, cit., 2. V. reg. delegato nn. 152 e 153 del 23 febbraio 2013. Al fine di migliorare l’attività svolta, le ccps hanno sottoscritto l’European Code of Conduct for Clearing and Settlement, un insieme di regole stipulate volontariamente, che prevede: i) tre livelli di interazione tra le ccps, con finalità di riduzione del rischio di controparte e facilitazione degli scambi; ii) scambio di informazioni riservate; iii) firma di accordi di mutua assicurazione. 112 Come è noto, la Controparte centrale si tutela dal conseguente rischio assunto raccogliendo garanzie (in titoli e contante, cc.dd. margini) commisurate al valore dei contratti garantiti e al rischio inerente. 113 Sui vantaggi di una compensazione con Controparti centrali v. Bank for International Settlements (BIS), Central counterparties for over-the-counter derivatives, in BIS Quarterly Review, September 2009; Id., OTC Derivatives: settlement procedures and counter party risk management – Report by the Committee on Payment and Settlement Systems and the Euro Currency Standing Committee of the central banks of the Group of Ten countries, Basilea, September 1998; Duffie e Zhu, Does a Central Clearing Counterparty Reduce Counterparty Risk, in Rev. Asset Pric. Stud., 2011, 1, pp. 74 ss.; Gregory, Counterparty Credit Risk: The New Challenge for Global Financial Markets, Chichester: Wiley 2010, pp. 167 ss.; Carruzzo e Little, OTC Derivatives Clearing: How Does It Work and What Will Change?, in The Hedge Fund L. Rep., Vol. 4, No. 24, July 14, 2011, reperibile all’indirizzo www.hflawreport.com, nonché Sasso, Il ruolo, cit., p. 10. L’autore osserva, tra gli altri aspetti, che «la ccp svolgerebbe una funzione di controllo degli operatori sul mercato, richiedendo per tutti garanzie iniziali (up front) e maggiori garanzie nei casi in cui il rischio di default aumentasse o quelle esistenti non fossero più sufficienti. Gli affidamenti dati, in questo modo, sarebbero già a disposizione della ccp nel caso in cui una controparte non riuscisse ad onorare i propri impegni. Si garantirebbe, dunque, una sorta di rete di protezione (safety net) capace di evitare che il crollo di un partecipante al mercato possa produrre automaticamente il crollo a catena degli altri partecipanti mettendo a repentaglio l’intero sistema finanziario». 111
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singola esposizione netta con la ccp, a prescindere dal numero di transazioni che ha in essere, con vantaggi in termini di collaterale richiesto, di gestione del default e di significativa riduzione delle posizioni rischiose tra i membri (c.d. “multilateral netting”)114. In effetti, in mancanza di un garante, la valutazione del rischio riguarda essenzialmente la capacità della controparte di far fronte alle proprie obbligazioni. Del resto, proprio la pratica delle negoziazioni bilaterali dei mercati otc sarebbe alla base della crescita smisurata del settore dei cds, dato che l’assenza di una regolamentazione appropriata ne avrebbe accresciuto vertiginosamente l’ammontare. Mette conto ricordare che i cds non sono contabilizzati tra le passività del bilancio del venditore della protezione swap. Questa natura “fuori bilancio” del contratto (tipica dei derivati) può generare “passività sistemiche”, allorquando un investitore funga da venditore di protezione in un alto numero di contratti senza rivelare tali accordi, accumulando in tal modo una fortissima esposizione a potenziali insolvenze, “invisibili” agli organi regolamentari e agli altri operatori del mercato. L’esposizione totale di un venditore di protezione viene a non avere più alcun limite e pochi episodi di insolvenza possono rivelarsi sufficienti per esaurire il capitale di un investitore sovraesposto. In tal caso, i contratti cds sottoscritti diventano nulli lasciando gli acquirenti delle corrispondenti protezioni esposti ad ulteriori insolvenze (c.d. rischio della controparte). Oltre al rischio della controparte e al rischio di mercato (il rischio, cioè, che il contratto di cds aumenti o diminuisca di valore), vi sono almeno altri due rischi non-sistemici che è opportuno prendere in considerazione: il rischio giuridico (ossia la possibilità che le controparti si trovino coinvolte in azioni legali) e l’assignment risk (rischio contro cessione, che si riferisce al pericolo che una controparte operi una cessione dei cds senza il consenso dell’altra parte). Sebbene molti dei con-
114 Le ccps consentono di “nettizzarre” multilateralmente le esposizioni, così che un certo livello di protezione dal rischio viene raggiunto con un minor ammontare di collaterale, o, viceversa, un certo livello di collaterale può consentire un più alto livello di protezione dal rischio”. Il meccanismo è alquanto semplice, dato che il “netting”, calcola le obbligazioni nette assunte dagli intermediari nei confronti di ogni controparte o del sistema; ogni intermediario ha, pertanto, un saldo unico legalmente netto nei confronti della ccp. La compensazione multilaterale, proprio perché interviene fra più soggetti che possono essere contemporaneamente sia debitori che creditori diminuisce l’esposizione globale del credito del sistema, e di conseguenza, il rischio, che perciò genera una minor richiesta di capitale a garanzia (il collaterale).
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tratti di cds richiedano il consenso della controparte prima della cessione, la pratica di trasferimento senza consenso (no-consent assignment) è cresciuta fino a circa il 40% del volume delle contrattazioni di cds. Tale modo di agire rende incerta l’identità delle controparti, minandone le valutazioni del rischio. In assenza di una Clearing house per i cds, gran parte della capacità di resilienza del mercato è assicurata dagli adeguamenti giornalieri delle garanzie collaterali al variare del valore dell’accordo (con l’aumentare o il diminuire delle possibilità di insolvenza della reference entity). Questa pratica aiuta a contenere, ma non ad eliminare, il rischio della controparte. Ad esempio, se un contratto di cds aumenta di valore a causa dell’innalzamento delle possibilità di default della reference entity, il venditore dei cds deve fornire maggiori garanzie collaterali. Se il contratto diminuisce di valore, le garanzie collaterali vengono restituite al venditore di cds. Questa pratica di liquidazione, che considera il valore dei titoli secondo le quotazioni di mercato (“mark-to-market”) su base giornaliera, riduce le possibilità di arrivare ad un singolo e ingente pagamento finale nel caso in cui si prospetti un’imminente possibilità di insolvenza. Le pratiche standard mostrano altresì che le controparti spesso debbano offrire ulteriori garanzie collaterali nel caso in cui anche la loro condizione finanziaria peggiori.
11. La dimensione sistemica delle ccps. L’aumento del volume di transazioni intermediate dalle ccps, in seguito all’introduzione dell’obbligo di compensazione, associato al gran numero di interazioni transfrontaliere che ne caratterizza l’operatività su scala internazionale115, hanno accresciuto negli ultimi anni l’importanza sistemica di tali “infrastrutture”. La ccp per definizione rialloca e concentra il rischio. Pertanto, può potenzialmente ridurre o aumentare il rischio sistemico in un mercato116.
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La stessa architettura dei collegamenti tra entità finanziare cambia e viene ad addensarsi sulle ccps. Di conseguenza anche gli obblighi informativi e di gestione del rischio divengono più stringenti. 116 Senza alcuna pretesa di riuscire a dar conto di una letteratura molto ampia e ricca di risultati, cfr., tra i tanti, McNamara, Financial Markets, cit., pp. 281 ss.; Pirrong, Clearing and Collateral Mandates: A New Liquidity Trap?, in J. Applied Corp. Fin., 24, 2012, pp. 67 ss.; Id., A Bill of Goods: CCPs and Systemic Risk, 11, disponibile all’indirizzo web: http:// web.law.columbia.edu/sites/default/files/microsites/law-economics-studies/Pirrong_
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Similmente alle borse, le ccps gestiscono centralmente le transazioni all’interno del mercato. Con una differenza sostanziale, però, dato che le ccps non mostrano le quotazioni relative agli strumenti finanziari, bensì si interpongono tra le controparti nel bilateral clearing, assumendosi gli obblighi riguardanti le due posizioni dell’accordo originario (acquirente e venditore) secondo il noto meccanismo della novation117. Per effetto di tale “novazione”, in caso di fallimento di una delle due parti la ccp deve registrare la perdita e ripagare la parte creditrice del fallito, ovviamente avvalendosi non solo di risorse proprie ma, come vedremo, anche di risorse raccolte tra i membri sotto forma di depositi e collateral118. Tale meccanismo presenta pertanto evidenti incrinature, come quella legata all’incremento della concentrazione dei rischi in capo alle ccps, e dell’aumento dell’interdipendenza all’interno del sistema finanziario tra le Controparti centrali e i loro membri e tra le stesse ccps per via degli accordi di interoperabilità. Tali accordi permettono agli operatori che sono membri di due diverse ccps di effettuare scambi tra loro: l’operatore effettuerà perciò la transazione attraverso la sola ccp di cui è membro, la quale a sua volta entrerà in una transazione con l’altra ccp che contatterà a sua volta il proprio membro; si ottiene così che le due ccps siano coinvolte in una transazione di matching. Pertanto, è l’intero sistema che viene esposto a un accrescimento del rischio non sempre bilanciato da adeguate coperture patrimoniali.
Paper.pdf; Acharya e Bisin, Counterparty Risk Externality: Centralized Versus Over-theCounter Markets, 2011, pp. 37 ss., disponibile all’indirizzo web: http://papers.ssrn.com/ sol3/papers.cfm?abstract_id=1788187;. Kress, Credit Default Swaps, Clearinghouses, and Systemic Risk: Why Centralized Counterparties Must Have Access to Central Bank Liquidity, in Harv. J. Legis., 49, 2011, pp. 91 s.; Chamorro-Courtland, The Trillion Dollar Question: Can a Central Bank Bailout a Central Counterparty Clearing House which is “Too Big to Fail”?, in Brook. J. Corp. Fin. & Com. L., 6, 2012, pp. 433 ss. 117 Come spiega Sasso, Il ruolo, cit., p. 10, «[q]uando la compensazione avviene con Controparte centrale (ccp), questa assume in modo originario le posizioni derivanti dal contratto concluso attraverso un processo che è definito nel diritto anglosassone come “novation”. Attraverso la novation, il singolo contratto iniziale che caratterizza lo scambio tra le due controparti è terminato e sostituito da due nuovi contratti stipulati tra la ccp e le due controparti contrattuali. La ccp subentra dunque nel contratto tra le controparti e le obbligazioni originarie del primo contratto cessano di esistere per essere sostituite da quelle derivanti dai contratti tra controparti e gestore». 118 Il dibattito sulla possibilità di accesso diretto da parte delle ccps, data la loro rilevanza sistemica, alla liquidità delle Banche centrali è ben illustrato da Romano, La riforma, cit, pp. 298 ss.
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A causa della mutualizzazione, perdite o carenze di liquidità, nel caso di default di un componente, possono diffondersi rapidamente agli altri partecipanti; e, come se non bastasse, tale interrelazione non si limiterebbe alle sole ccps, visto che a loro volta, queste sono collegate con altre istituzioni finanziarie, tra tutte le banche. Le crisi finanziarie, anche recenti, hanno dimostrato l’efficacia del sistema ccp. Sono comunque in corso riflessioni sulla opportunità di implementare più stretti elementi di valutazione sulle reali capacità delle ccp di mitigare il rischio di credito a livello sistemico, dato che un loro eventuale default potrebbe pregiudicare non soltanto la tutela dei singoli partecipanti al mercato, ma anche la stabilità delle principali piazze finanziarie119. La forte correlazione tra le attività svolte da ccps diverse potrebbe avere effetti devastanti qualora una di esse si dovesse trovare in una situazione d’instabilità. Tutto ciò provocherebbe un effetto domino causato dal contagio delle altre istituzioni, azzerando in tal modo tutti i progressi raggiunti a seguito della ri-regolamentazione finanziaria. Soprattutto perché, in caso di insolvenza di una Controparte centrale, le esposizioni originerebbero un enorme rischio di liquidità ovvero il timore che la ccp non riesca a monetizzare i propri beni, e ciò anche se tali asset fossero pienamente garantiti. Per il Dodd-Frank Act, le ccps sono Systemically important financial infrastructures (Sifi’s). Trattandosi, pertanto, di operatori da classificare come “too big to fail”120, siffatte istituzioni sono soggette a severe regole di condotta, a norme comuni, a requisiti prudenziali e ad obblighi or-
119 Di opinione diversa Bonollo e Simonetti, Cosa porta con sé l’EMIR, pubblicato sul sito FinRiskAlert, secondo cui alle ccps sono richiesti requisiti talmente stringenti per cui, almeno in teoria, difficilmente potrebbe verificarsi un loro default. Tant’è che «[l]’introduzione di una ccp per una particolare classe di derivati è efficiente se e solo se l’opportunità del multilateral netting per questa classe domina – in termini di riduzione dell’effetto contagio – l’opportunità di bilateral netting degli altri derivati non cleared. Questo si verifica quando il numero clearing partecipants è sufficientemente più elevato rispetto alle esposizioni sui derivati che continuano ad essere bilaterally netted. Si può dimostrare che il numero delle classi di derivati uncleared dalla ccp deve essere minore di circa un quarto del numero dei partecipants». 120 Si veda in proposito Longo, Mercati esposti a grandi rischi sistemici, in Il Sole 24 Ore, 16 novembre 2014. Le normative prudenziali prodotte dopo la crisi del 2007, sebbene frutto di un lodevole percorso, potrebbero tuttavia generare «nuovi rischi sistemici “collaterali”, in capo proprio alle Controparti centrali».
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ganizzativi armonizzati121. Nonostante, infatti, storicamente i fallimenti di ccps siano stati pochi, il loro impatto sui mercati si è rivelato quasi sempre significativo122. Se a questo si aggiunge che le norme ordinarie riferite ai fallimenti non sono direttamente applicabili a tali soggetti, completare il quadro normativo con disposizioni relative al salvataggio e alla risoluzione delle ccps diventa una priorità. Attualmente l’EMIR richiede già alle ccps l’attuazione di politiche di risk management che in caso di default siano in grado di limitarne l’impatto sul mercato (requisiti patrimoniali, modalità di ripristino delle attività in caso di crisi), e ne delinea il sistema di gestione del rischio, cosiddetto waterfall, che prevede il versamento da parte dei partecipanti di margini necessari alla copertura delle eventuali perdite. La Controparte centrale si dota di un sistema di salvaguardia finanziaria basato su diversi livelli di protezione: requisiti di adesione, sistema dei margini, risorse patrimoniali e finanziarie. In caso di insolvenza di un partecipante, la ccp utilizza specifiche procedure per coprire le perdite, basate – oltre che sui margini degli aderenti – anche su appositi fondi mutualistici (default fund)123 nonché sull’utilizzo del proprio patrimonio.
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Sul punto cfr. Signorini, Indagine, cit., p. 6. Nel 1974 è fallita Caisse de Liquidations, nel 1983 è toccato a Kuala Lumpur Commodity Clearing House e, più recentemente (1987), la Hong Kong Future Guarantee Corporation è fallita all’indomani del crollo del mercato azionario, determinando la chiusura dello Stock and Future Exchange in Hong Kong. 123 I default fund coprono i rischi di perdite causati da eventuali default di controparti aventi posizioni aperte su strumenti finanziari che abbiano subito variazioni di prezzo, eccezionali, non coperte dai margini iniziali. Generalmente, il contributo ai default fund è computato su base proporzionale della “Esposizione non coperta” (enc) utilizzando la media mensile dei margini iniziali versati da ciascun partecipante), ed è ricalcolato una volta al mese. Al contrario dei “margini iniziali”, i default fund hanno natura mutualistica tra i partecipanti. È interessante rilevare che gli stress test effettuati dalle ccps sono finalizzati a: i) valutare la vulnerabilità – in circostanze estreme – del livello delle garanzie, costituite dai “margini iniziali”, in presenza di variazioni di volatilità dei corsi di ampiezza eccezionale, ma ragionevolmente plausibili; ii) quantificare la enc dall’“intervallo di confidenza” utilizzato per la quantificazione dei “margini iniziali” che deve essere coperta dai deault fund. La metodologia di stress test utilizzata consente di valutare le conseguenze dell’evento ipotizzato, ma non fornisce alcuna indicazione riguardo la «probabilità» che l’evento stesso si verifichi; infatti, a differenza di quanto accade per il sistema dei “margini iniziali”, basato sulla definizione e l’utilizzo di «intervalli di confidenza», lo stress test, fondandosi su circostanze estreme, consente un uso limitato dei normali strumenti statistici ed è basato principalmente su ipotesi di logica ed esperienza con la finalità di fornire una misura del rischio connesso allo scenario di volta in volta definito. 122
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Come anticipato, infatti, i soggetti che operano tramite Controparti centrali devono costituire garanzie sufficienti alla copertura dei costi teorici di liquidazione che le ccps sosterrebbero per chiudere le posizioni del membro insolvente, che vanno sotto forma di margini iniziali, margini di variazione e margini aggiuntivi infragiornalieri. Tali risorse – insieme al default fund del membro insolvente – costituiscono il primo buffer del sistema waterfall di gestione del rischio di insolvenza. Nel caso in cui queste risorse non fossero sufficienti, il regolamento delle ccps può prevedere una serie di strumenti aggiuntivi volti a evitare l’insolvenza della ccp (loss-allocation rules). In particolare, il waterfall permette di allocare le eventuali perdite in modo veloce, ordinato, trasparente e determinato ex-ante tra le ccps stesse e i loro membri in modo da non compromettere il funzionamento dei mercati. Gestendo il default e limitandone l’impatto sul mercato le ccps ne riducono il rischio di propagazione, creano l’incentivo per i membri a monitorare i rischi assunti dalle stesse ccps, mitigando così il rischio sistemico. Si aggiunga che la maggior parte delle Controparti centrali dell’Ue hanno inoltre stabilito regole aggiuntive (rights of assessment), volte a coprire le perdite eccedenti e a evitare l’insolvenza della ccp. Restano però dei dubbi sull’efficienza della risposta del legislatore europeo. Dal lato formale, è evidente la complessità dell’impianto multilivello della regolamentazione proposta al mercato. Dall’altro, resta il dubbio sostanziale sull’opzione legislativa di fondo di rendere obbligatorio un meccanismo di gestione del rischio e di trasparenza informativa, basato su ccps e trs, che tradisce forse una eccessiva fiducia nelle capacità autocorrettive del mercato fondate su decisioni razionali di investimento degli operatori. La compensazione centrale obbligatoria, poi, non sterilizza il rischio di controparte ma lo trasferisce in blocco alle ccps 124.
124 In questi termini v. Lucantoni, Derivati Otc, prove di regolamentazione, p. 3, disponibile al sito web: www.fchub.it. Secondo quanto illustrato nel lavoro di Roe, Clearinghouse Overconfidence, in Cal. L. Rev., 6, 2013, 101, pp. 1646 s., sono almeno due i motivi che spiegano perché le stanze di compensazione non rappresenterebbero la soluzione ottimale per contenere gli effetti del rischio sistemico: «First, a clearinghouse cannot usually contain the central systemic risk of financial contagion from an undercollateralized counterparty’s failure, because it cannot eliminate the targeted loss from the economy. It generally can only transfer the loss elsewhere (…) Indeed, the policy rationale behind clearinghouses is that some institutions are far too systemically connected to be allowed to fail. The clearinghouse will, however, dampen the consequences of such a failure, making it acceptable. But removing one channel for the risk and loss to spread can readily just push the risk and loss into another connected channel, endangering other vital institutions». In secondo luogo, prosegue l’Autore, «the clearinghouse is defenseless
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Sicché una vera riduzione del rischio di controparte si presenta solo in ipotesi di pluralità di ccps operanti nella post-negoziazione. Ma v’è di più. La presenza di una Controparte centrale ai fini di compensazione delle singole posizioni se, da un lato, scongiura l’effetto domino legato al default di un singolo partecipante al mercato, trasferendo la perdita sugli altri partecipanti, dall’altro, potrebbe disincentivare il monitoraggio sull’affidabilità delle Controparti. Con il duplice esito, inverso a quanto previsto dal legislatore, di (i) un drastico aumento della asimmetria informativa nei mercati con compensazione centralizzata rispetto a quella bilaterale, dove la controparte finanziaria ha maggiori incentivi a valutare (e quindi prezzare) il rischio di controparte, e (ii) dell’assegnazione alle ccps dei derivati troppo rischiosi da compensare con relazioni bilaterali. Alla luce del ruolo strategico che le ccps rivestono nell’assicurare il buon funzionamento dei mercati e in considerazione anche del forte aumento della concentrazione dei rischi al loro interno, la prossima sfida che si impone in sede europea riguarda la definizione di un quadro legislativo sovranazionale volto, per un verso, a richiedere alle ccps un livello di risk management più elevato e alle banche che partecipano al loro capitale una più profonda attività di due diligence; e per l’altro, a disciplinare l’uscita ordinata dal mercato di una ccp (recovery and resolution plans – r&r), ovvero a individuare un insieme di regole che assicuri la continuità e la stabilità del sistema, quale complemento delle politiche di gestione dei default a livello di singola ccp introdotte dall’EMIR125.
against other potent channels of systemic risk beyond the failure of a vital stand-alone financial institution. Congress and the regulators needed to match up clearinghouses’ potential uses against the core problems in the financial crisis, but did not do so. The clearinghouse is primarily targeted to contain the failure of a single firm from spreading through the interconnected financial system. But the financial crisis was not induced by the failure of a single firm. Multiple major institutions failed simultaneously, and others tottered dangerously». 125 Dopo l’adozione dei regolamenti EMIR e CSDR, la Commissione Europea sta predisponendo una direttiva nell’ambito della regolamentazione delle Financial Market Infrastructures (FMI’s). Anche il Financial Stability Board considera questo tema una priorità. Su tali aspetti v., pure, Iosco, Risk Mitigation Standards for Non-centrally Cleared OTC Derivatives, 28 January 2015; available at: https://www.iosco.org/library/pubdocs/ pdf/IOSCOPD469.pdf.
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12. Verso un’armonizzazione delle regolamentazioni USA e UE. Alcuni spunti di riflessione. La dialettica tra differenziazione e unificazione, e tra tecnica e politica, varia all’interno dei diversi modelli. Senza dubbio, il fatto di trovarci di fronte ad un mercato, quello dei derivati, che ha bruciato le tappe del suo sviluppo e che ha potuto contare su un lungo periodo di condizioni ottimali senza che i suoi meccanismi operativi potessero essere testati in momenti di tensione, ha impedito che si verificasse un naturale sviluppo di processi adattivi e di regolamentazione attraverso un cammino di “prova ed errore”. Sebbene il costrutto disciplinare proposto al livello europeo si inserisca in una strategia concordata a livello internazionale in seno al G20, si rafforza il convincimento che qualunque regolazione affidabile dei mercati finanziari globali dovrà per forza di cose essere coordinata su un palcoscenico globale. Gli accadimenti che si susseguono sulla scena mondiale impongono – partendo dalle legislazioni vigenti – di raggiungere in tempi rapidi un’armonizzazione delle regole fra le due sponde dell’Atlantico126. Le discrepanze normative fra le varie piazze finanziarie e le iniziative isolate rischiano infatti di proiettare nuove incertezze sugli operatori127. Come emerge dal dibattito in corso, sarà indispensabile, infatti, trovare la giusta alchimia fra la necessità di rendere più competitivo il
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Sui punti di contatto tra i due corpi disciplinari v. Davini, Dal G20 di Pittsburgh del 2009 al Regolamento EMIR, in dirittobancario.it, 18 febbraio 2013. Come auspica Sasso, Il ruolo, cit., p. 18, «Queste riforme devono essere implementate uniformemente evitando divergenze che possano creare contraddizioni e conflitti tra regimi giuridici differenti. Il rischio sarebbe di generare opportunità cosiddette di regulatory arbitrage tra gli investitori che sfrutterebbero le incongruenze lasciate dalla legge per eludere i vari limiti imposti nei diversi Paesi. Per questo stesso motivo, il progressivo dibattito sulle riforme deve essere condotto in un’ottica comparata, tenendo conto delle misure prese anche dagli altri Paesi, in particolare gli Stati Uniti». 127 In dottrina cfr. De Minico, Regolatori e regole dei mercati finanziari. Usa ed Europa a confronto, in De Luca, Fitoussi e McCormick, Capitalismo prossimo venturo, Milano, 2010, pp. 365 ss. Secondo Sasso, Il ruolo, cit., p. 17, secondo cui «[l]’ampiezza di azione delle normative sulle transazioni in questione e sugli operatori dei mercati otc, il regime delle esenzioni concesse, la determinazione delle classi di prodotti finanziari che dovranno essere assoggettate a compensazione con Controparti centrali e la coordinazione della supervisione internazionale dei mercati otc sono tutti problemi che il legislatore internazionale non ha definito nei dettagli». Saranno inoltre decisive le linee guida prudenziali per la gestione del credito e della liquidità in capo alle ccps e le procedure in caso di inadempimento di una controparte che dovranno essere chiare ed efficaci.
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mercato, fornendo prima di tutto maggiore trasparenza e chiarezza, eliminando quelle asimmetrie informative che sono spesso alla base di comportamenti errati degli agenti, e l’obbligo di garantire un livello elevato di sicurezza nelle negoziazioni. Sicurezza che però, sia ben chiaro, non potrà tradursi in una sterile chiusura dai connotati europeistici, ma che dovrà invece garantire agli operatori la possibilità di affidarsi a regole chiare ed omogenee nell’applicazione su scala planetaria128. Cruciale si rivelerà, altresì, l’individuazione di un minimo comun denominatore in grado di coagulare il consenso del maggior numero di interlocutori su scala internazionale. del resto, l’estensione dell’ambito spaziale e funzionale della regolamentazione dei mercati otc deve mirare, in primo luogo, ad evitare pericolosi arbitraggi da parte degli operatori129. Di modo che, per un verso, la fissazione a livello globale di nuove regole, ivi compresa l’adozione di legal standard minimi, potrà impedire che la concorrenza tra ordinamenti dia luogo ad una corsa al ribasso, capace di travolgere qualsiasi valore e tutela130; per l’altro,
128 Nel complesso, l’intervento legislativo attuato in sede europea presenta luci e ombre, che in più occasioni hanno fatto parlare di una “riforma incompleta”. Basti osservare che gli operatori possono sottrarvisi semplicemente valicando il confine europeo. Sul rischio di vanificare oggetto, spirito e finalità del sistema EMIR, cfr. Girino, EMIR extra-UE ovvero l’illusione dell’antielusione, in dirittibancario.it, marzo 2014, p. 2 ss. Anche il Titolo VII del Dodd-Frank adotta una simile strategia nella Section 722, dove si precisa che lo statuto si applica alle transazioni relative agli swap effettuate al di fuori degli Stati Uniti, se tali attività «have a direct and significant connection with activities in, or effect on, the commerce of the United States». Come regola di Common law, questa strategia è tesa a scoraggiare le Controparti offshore dal cercare di coinvolgere istituzioni degli Stati Uniti nel trading speculativo su otc compiuto in altre sedi. 129 La “Procedura di riconoscimento delle Controparti centrali stabilite nei Paesi terzi” di cui all’art. 25 del regolamento n. 648/2012, mira a consentire alle ccps stabilite e autorizzate nei Paesi terzi le cui norme sono equivalenti a quelle pervenute dallo stesso regolamento, di prestare servizi di compensazione ai partecipanti diretti o alle sedi di negoziazione stabiliti nell’Unione. Pertanto, la procedura di riconoscimento e la decisione di equivalenza ivi previste contribuiscono alla realizzazione dell’obiettivo generale del reg. n. 648/2012 di ridurre il rischio sistemico estendendo il ricorso a controparti centrali sicure e solide per la compensazione dei contratti derivati otc, anche se stabilite e autorizzate in un Paese terzo. Su questi aspetti si veda, di recente, la decisione d’esecuzione (UE) 2015/2040 della Commissione del 13 novembre 2015. 130 Per Mittaridonna, Derivati: questi (s)conosciuti, in Nomodos, 12 gennaio 2014, il regolamento EMIR risulterebbe, sotto vari aspetti (tacendo del problema sanzionatorio), più severo rispetto al Dodd-Frank Act: «per sommi capi, gli obblighi di reciproca conferma della conclusione dell’operazione si applicano, secondo il regime statunitense e a differenza di quello europeo, unicamente ai soggetti operanti professionalmente nel
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l’intensificazione del livello di collaborazione e di integrazione tra le autorità di controllo, europee e americane, infine, servirà ad ovviare a difetti di coordinamento e a ridurre i costi di transazione istituzionale che possono pregiudicare la tempestività e l’appropriatezza della supervisione pubblica sui mercati131. Se quindi non sembrano esserci spazi realistici per sottrarsi a misure di stampo pubblicistico, si ritiene che i rischi della concorrenza tra ordinamenti possano essere affrontati elaborando best practices internazionali largamente condivise – ma, nel contempo, non troppo generiche e fumose, onde evitare che possano essere facilmente eluse – ed introdu-
campo dei derivati; le norme del Dodd-Frank Act non trovano applicazione agli equity derivatives (cioè i derivati aventi come base prodotti azionari); esenzioni dall’obbligo di compensazione mediante Controparte centrale sono previste, dalla normativa americana, sulla base di certi schemi negoziali e non, come accade in sede europea, sulla scorta di standardizzati livelli valoriali». Altre differenze sostanziali, emergono in merito alle modalità di comunicazione ai tr. Un interessante confronto tra l’EMIR e il Dodd-Frank Act su questi profili è fornito da Bonollo e Simonetti, Cosa porta con sé l’EMIR, cit., secondo cui «[n]egli Stati Uniti ci sono tre tr incaricate di collezionare i dati sui derivati otc: le Swap Data Repository (Sdr). Esse si occupano dei derivati di credito, tassi, forex exchange, equity commodity. Secondo il Dodd-Frank Act una sola delle controparti deve adempiere all’obbligo di comunicazione alla Sdr del contratto stipulato. Tale obbligo non riguarda i derivati quotati e nel caso di un contratto tra una finanziaria e una non finanziaria, la seconda è esentata dalla comunicazione. In ogni caso non si ha una doppia comunicazione sullo stesso contratto come invece avviene con l’EMIR. Un aspetto che può causare problemi di mismatching nel caso in cui le due controparti usino modelli diversi di valutazione o procedano alla valutazione in istanti differenti. Senza tener conto di errori materiali che possono sorgere nel mapping dei dati anche a causa della grande quantità di campi richiesti nelle comunicazioni (85 tracciati per ESMA ma i tr ne richiedono anche di più). Un esempio che mostra tutta la complessità della comunicazione sui contratti derivati è fornito dal caso asiatico laddove abbiamo più di una tr per giurisdizione, ognuna dei quali è regolata dal regolatore locale con differenti requisiti e caratteristiche per le comunicazioni. Anche in questo caso il reporting è double-sided. I problemi di armonizzazione tra i dati sono significativi». 131 Cfr. G. Romano, La riforma, cit., p. 256 s. Si ritiene opportuno evidenziare come, in questo processo, gli Stati Uniti abbiano di fatto guidato, quasi in assoluta autonomia, il processo volto ad identificare i principi ordinatori della nuova disciplina. Per Scalcione, La nuova disciplina, cit., p. 412. Negli USA «si è adottato un approccio che potremo definire di coordinamento regolamentare “regulatory coordination” anziché di cooperazione “regulatory cooperation”. In altri termini si definisce un approccio regolamentare e se ne cerca di coordinare l’esportazione in tutto il mondo, per limitare le conseguenze dell’isolamento che altrimenti deriverebbe dall’avere adottato in modo pioneristico nuove formule regolamentari e per ridurre i rischi di arbitraggio regolamentare».
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cendo, in sede di cooperazione, meccanismi discriminanti e penalizzanti nei confronti dei Paesi che non dovessero aderirvi132. Va da sé che, di fronte ad uno scenario tanto vasto quanto eterogeneo al suo interno, fondamentale nella discussione sulla nuova architettura delle norme finanziarie internazionali dei derivati è la transizione verso un modello istituzionale nel quale la gestione economica e finanziaria di questi “fenomeni” venga prevalentemente affidata ad un’entità sovrastatale unica. Nel luglio 2013 è stato siglato uno storico accordo tra l’agenzia statunitense Commodity Futures Trading Commission (CFTC) e la Commissione Europea con cui si è pervenuti al reciproco riconoscimento giuridico delle rispettive normative regolamentari vigenti sulle due sponde dell’Atlantico in materia di derivati. Lo sfondo politico generale sul quale è stato concluso il trattato è quello delle trattative per la creazione di una grande area di “libero scambio” transfrontaliero (Trans-Atlantic Free Trade Area – TAFTA) al quale gli Stati Uniti desiderano fare aderire quanto prima tutti i Paesi dell’Unione Europea. L’intesa raggiunta, sposando il cosiddetto principio di “uguaglianza delle tutele”, ha di fatto sancito una parziale equivalenza ed interscambiabilità delle rispettive regole. Non è facile prevedere nel dettaglio come siffatta interscambiabilità tra le distinte normative potrà trovare effettiva e concreta applicazione nei rispettivi mercati, ma quel che è già chiaro, alla luce di tale accordo, è che d’ora in poi le banche d’affari statunitensi potranno negoziare prodotti derivati con i propri clienti europei agendo in un quadro di
132 Nel report del Financial Stability Board, OTC Derivatives Market Reforms Ninth Progress Report on Implementation, 24 July 2015, pp. 28 s., tra gli aspetti che, pur essendo stati già oggetto di analisi, devono tuttavia essere ancora implementati, si segnalano le azioni da intraprendere per armonizzare gli obblighi di reporting e avvio di discussioni multilaterali per la gestione di temi regolamentari su base cross-border. Con riferimento, invece, alla fase di implementazione delle riforme, nel report si evidenziano i seguenti profili: a) le riforme relative agli obblighi di trading e di capitale aggiuntivo con riguardo a derivati non soggetti a obblighi di clearing centralizzati sono in uno stato maggiormente avanzato; b) sono stati fatti dei passi in avanti per promuovere un clearing centralizzato di derivati otc standardizzati; c) solo alcune delle giurisdizioni facenti parte del Financial Stability Board hanno promosso l’esecuzione di contratti standardizzati su piattaforme di trading regolamentate; d) la maggior parte delle giurisdizioni ha da poco avviato processi di implementazione, in linea con il quadro BCBS-IOSCO, con riguardo ai requisiti di margine applicabili ai derivati che non sono oggetto di clearing centralizzato; e) la disponibilità e l’utilizzo di infrastrutture centralizzate per supportare l’utilizzo di derivati otc continua ad incrementare.
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“legalità”. In sostanza, in ogni operazione in derivati otc avente carattere transfrontaliero (in cui cioè siano coinvolti come rispettive controparti un soggetto nordamericano ed uno europeo), i grandi operatori pur restando soggetti alla giurisdizione del proprio Paese, potranno applicare almeno in parte la normativa di fonte europea fintantoché essa venga ritenuta omogenea ed equivalente a quella americana.
13. Conclusioni. L’attuale livello di globalizzazione si contrappone alla frammentazione politica e amministrativa che non sempre rende possibile dare risposte incisive e immediate alle esigenze di regolamentazione del mercato. L’Eurosistema ha mostrato appieno i suoi limiti, connessi alla carenza di una coesione necessaria per superare momenti di crisi, come quello che si è attraversato a causa della speculazione. La presenza di situazioni patologiche ha agito da catalizzatore nel fare emergere i limiti che contraddistinguono le «costruzioni» geo-economiche non sufficientemente sedimentate su comuni fondamenti politico-giuridici e su una consolidata unione culturale133. Come si è già rimarcato, per lungo tempo l’emissione e la negoziazione di cds sono avvenute in un quadro normativo nazionale ed internazionale di tendenziale liberalizzazione “selvaggia”. I rischi posti in generale da tali derivati sono da imputarsi principalmente alla struttura oligopolistica del mercato, alla difficoltà di valutare in modo appropriato i diritti e gli obblighi derivanti da tali contratti, dalla mancanza di solide strutture di gestione del rischio e della dimensione sproporzionata assunta dal mercato rispetto a quello dei sottostanti.
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Con le novità legislative varate nel 2012, è indubbio che nel Vecchio Continente la vigilanza accentrata sui mercati finanziari sia stata potenziata, anche se il ruolo dei controllori nazionali sostanzialmente non è mutato. Si aggiunga che alla luce delle recenti innovazioni sopraggiunte a livello istituzionale per fronteggiare la crisi del debito sovrano, l’accordo politico del 2011 che ha portato alle attuali regole risulta essere già datato: nel settore creditizio il modello di Unione bancaria europea registra il potenziamento dell’authority europea (BCE soprattutto, ma anche EBA), con una forte limitazione dell’autonomia delle authorities locali (Banche centrali nazionali). Probabilmente, in un futuro non lontano e in un’ottica di integrazione reale dei mercati finanziari continentali, si dovrà procedere ad una revisione della normativa attuale nella direzione di un maggior accentramento dei poteri a livello europeo anche in materia di derivati.
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Il clima di inflessibilità che si va consolidando a livello internazionale è la risposta alle gravi distorsioni che hanno reso il sistema finanziario globale fragile e instabile. A partire dal marzo 2010, le autorità di regolamentazione dei diversi Stati hanno spinto per l’introduzione di una disciplina di rigore nelle sedi in cui venivano scambiati gli strumenti derivati. Per inciso, non si può negare che i provvedimenti adottati abbiano avuto un impatto positivo sulle condizioni del mercato dei cds. Come si è illustrato hanno contribuito in larga misura a garantire un regime di trasparenza, a ridurre il rischio di controparte e a consentire una più attenta gestione del rischio sistemico per le autorità regolatorie. Ciò detto, per gli aspetti che qui rilevano, va anche ricordato che il regolamento 236/2012 ha introdotto una serie di misure intese a migliorare la trasparenza, a ridurre determinati rischi associati alle vendite allo scoperto effettuate in assenza della disponibilità di titoli e a garantire un approccio normativo comune in tutti gli Stati membri. In particolare, il regolamento vieta alle persone fisiche o giuridiche di concludere contratti cds scoperti o nudi in debito sovrano (c.d. naked credit default swaps su emittenti sovrani), per evitare il rischio che tali strumenti vengano usati per speculare sul declino del valore del debito pubblico in modo tale da aggravarlo. Nel contempo però si esonerano dal divieto i cds su emittenti sovrani se usati per scopi di copertura legittimi, e si consente alle autorità competenti di sospendere temporaneamente il divieto nei casi in cui il mercato delle obbligazioni sovrane possa subire ripercussioni negative. Tuttavia, non poche perplessità accompagnano la progressiva, faticosa e ipertrofica crescita dell’EMIR134. L’introduzione di un sistema di centralized clearing nei mercati dei derivati otc rischia di rallentare l’innovazione finanziaria. Difatti, oltre a uniformare i processi di clearing, trading e settlement, la regolamentazione vigente tende a standardizzare
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Vegas, Incontro annuale con il mercato finanziario, Discorso del Presidente della Consob, Roma, 14 maggio 2012, p. 9, «La complessità dei fenomeni da regolare ha favorito una tecnica legislativa di estremo dettaglio. La natura di compromesso di molti dei nuovi atti legislativi europei può rendere difficile la trasposizione delle nuove regole a livello nazionale e non garantisce necessariamente il livellamento del piano di gioco (level playing field) che si vorrebbe realizzare e, in particolare, l’obiettivo di disporre di un unico sistema di regole (single rule book). Il tutto nell’illusione che una esasperata tassonomia possa ricondurre sotto controllo fenomeni e prodotti sempre più diversificati. Il risultato è una legislazione vastissima e la cui attuazione può rivelarsi difficile».
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Luigi Scipione
anche i contratti sui derivati. Il primo pilastro della disciplina di questo imponente complesso normativo (la compensazione centralizzata) si colloca in una prospettiva basata sul concetto di standardizzazione, di per sé strutturalmente incompatibile con quello che è (dovrebbe essere) l’abito su misura del derivato otc e, dunque, con la sua naturale refrattarietà all’ingabbio nel costrutto uniforme. Orbene, questo tipo di approccio, che costituisce indubbiamente una soluzione ottimale per i mercati “maturi” (derivati su cambi, su tassi d’interesse), può agire come un freno, oltre che per i cds, anche per nuove categorie di strumenti, come i bespoke derivatives, che sono generalmente scambiati in mercati illiquidi135. Anche per queste ragioni si avverte il bisogno di una struttura giuridica idonea e flessibile che possa adeguarsi ai mutamenti della realtà finanziaria. Ciononostante, il processo di riforma dei mercati finanziari non è ancora ultimato. Molto resta ancora da fare per ricondurre i mercati otc sotto un quadro normativo ampiamente condiviso e garantire che il sistema finanziario non corra più i rischi evidenziati dalla recente crisi. Prima della grande crisi del 2008, Warren Buffet (noto finanziere statunitense) definì i derivati come «armi finanziarie di distruzioni di massa»136. Altrettanto severo deve ritenersi il giudizio espresso dal Servizio di Sicurezza Interna – AISI, che ha sottolineato la necessità di predisporre un efficace servizio di «intelligence economico-finanziaria contro il ‘virus’ dei derivati», non avendo remore nel definire la finanza derivata come «un germe silenzioso e persuasivo».
135 Si tratta, come specificato nella section 723 (Clearing) del titolo VII, (Wall Street trasparency and accountability) del Dodd-Frank Act, di «contratti derivati “confezionati su misura” in base alle esigenze dei sottoscrittori. Essi sono contratti difficilmente standardizzabili e riguardano transazioni concluse con controparti non finanziarie. Essi non dovranno necessariamente adeguarsi agli standard di trasparenza richiesti dal legislatore ma dovranno sottostare a più severi oneri di capitale e margini di garanzia». 136 Così Buffet, What Worries Warren. Avoiding a ‘‘Mega-Catastrophe’’, in The Fortune, March 3, 2003. Nel report annuale agli azionisti Buffet scriveva: «Se i contratti derivati non vengono collateralizzati o garantiti, il loro reale valore dipende anche dal merito di credito delle controparti. Allo stesso tempo, comunque, prima che il contratto sia onorato, le controparti registrano profitti e perdite – spesso di enorme entità – nei loro bilanci senza che un singolo centesimo passi di mano. La varietà dei contratti derivati trova un limite solo nell’immaginazione dell’uomo (o talvolta, a quanto pare, del folle)». Dello stesso avviso Soros, The three steps to financial reform, in The Financial Times, 16 June 2009, a detta del quale i cds si presentano come «instruments of destruction which ought to be outlawed».
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Se non è propriamente esatto affermare che i derivati finanziari siano una delle cause principali e dirette della crisi, non è tuttavia azzardato individuare nel loro impiego incontrollato sui mercati una delle manifestazioni più evidenti della intrinseca pericolosità del principio di libertà incontrollata della circolazione di capitali, vale a dire di uno dei principali dogmi del pensiero unico neo-liberale oggi vigente. Nella storia, tutti i mercati finanziari, dopo un periodo di vertiginosa ed euforica crescita, hanno conosciuto un momento di riflusso e di razionalizzazione dell’offerta attraverso un percorso evolutivo naturale. Forzare queste tappe in una situazione come quella attuale potrebbe decretare, se non la scomparsa, un eccessivo ridimensionamento di tale strumento, un downsizing che ecceda la volontà degli organi di sorveglianza e che lo rileghi in un contesto periferico con implicazioni negative, a cascata, su tutti i mercati collegati. Sia ben chiaro, non è il prodotto in sé ad essere negativo o malsano, ma l’utilizzo che ne viene fatto: non è lo strumento ad avere nelle sue caratteristiche intrinseche una rischiosità eccessiva, ma è chi vi ricorre a determinarne sempre e comunque il risultato finale. Con riferimento precipuo ai credit default swaps, il pericolo più grave oggi avvertito è che “misure draconiane” di una regolamentazione per alcuni tratti “simbolica” possano privare gli operatori del mercato finanziario di un preziosissimo strumento, per il quale, al momento, non si intravedono alternative. Vi è dunque il rischio concreto che si butti il bambino (la liquidità dei mercati, essenziale per evitare gli infarti delle crisi di fiducia) con l’acqua sporca (le speculazioni che asciugano la liquidità e fanno pagare all’economia reale i propri fallimenti). Per questi motivi si è dell’idea che una iperegolamentazione del settore possa spingersi oltre la legittima volontà di disciplinare tale strumento e di orientarlo verso un ordinato sviluppo che di fatto non paralizzi la sua operatività. I potenziali effetti destabilizzanti dell’attività speculativa tramite cds potrebbero, invece, essere monitorati e disincentivati tramite obblighi di trasparenza sugli scambi, opportunamente graduati, come è già accaduto in occasione della revisione della MiFID. Tecnicamente il cds è un’opzione e come tutte le opzioni può essere usato con diversi livelli di aggressività137. Questo semplice, ma il-
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Sulla razionalità economica dei cds e, quindi, sulla meritevolezza del loro riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico si rinvia all’analisi di Vasudev, Credit
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luminante assunto, permette di ribaltare vecchi stereotipi e di aprirsi a nuovi scenari. «I cds non sono lo sterco del diavolo, sono uno strumento finanziario utile, che può servire per migliorare non solo la stabilità finanziaria, ma anche il modo di gestire aziende e nazioni». Metterli al bando farebbe più male che bene. Qualunque tentativo in questo senso è pregiudizievole, perché distoglierebbe l’attenzione dall’utile obiettivo di disciplinare il mercato dei cds per renderlo ancor più trasparente, stabile ed efficiente138.
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derivatives and the Dodd-Frank Act - Is the Regulatory Response Appropriate?, relazione tenuta in occasione della Sixth Singapore International Conference on Finance, 17-18 July 2012, e pubblicata in Journal of Banking Regulation, 2014, 15, pp. 56 ss. 138 Così Zingales, Chi combatte i cds teme solo la verità del mercato, in Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2010. Si veda pure Brangantini, Rendiamo i cds strumenti per mani esperte, in Corriere della Sera – Corriere Economia, 23 maggio 2011, p. 9; Borsa Italiana, Cds e Spread due chiavi di lettura del mercato, 10 agosto 2011; Mussari, Monti e Micoli, Gli strumenti della crisi: i derivati finanziari. Aspetti giuridici, tecnici e psicologici, 2011, p. 15, ove è presente il rilievo per cui nello strumento derivato, in quanto «comoda forma di duplicazione ed anche di clonazione apparente della ricchezza», sarebbe insita una tentazione «quasi diabolica [che] ha sfidato e messo in crisi molti dei parametri di razionalità economica tradizionali».
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COMMENTI
Contratti bancari e anatocismo I Tribunale
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Parma, ord. 24 luglio 2015; Pres. Rogato, Rel. Vittoria
Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Tutela interessi collettivi – Procedura – Periculum in mora – Insussistenza (Cod. cons., art. 140, co. 8) È da escludere la sussistenza del periculum in mora sia con riguardo ai contratti in essere, sia con riguardo ai contratti futuri: sotto il primo profilo, non vi sono elementi da cui desumere che la banca non sia in grado di restituire le somme che l’introduzione della nuova disciplina dovesse dichiarare non dovute, tanto più che l’iniziativa introdotta con il presente giudizio non è sovrapponibile all’intera platea dei soggetti interessati, essendo indubbio che il problema dell’anatocismo riguarda tutti i clienti della banca, non solo i consumatori. Quanto alla tutela inibitoria richiesta per i contratti ancora da concludere, la richiesta risulta ormai pressoché assorbita dall’iniziativa di Banca d’Italia, che, con la circolare/delibera del 15 luglio 2015, nel rivedere le indicazioni in tema di trasparenza, ha imposto agli intermediari di eliminare ogni riferimento, quale fonte normativa, alla delibera CICR 9 febbraio 2000 e a clausole di anatocismo costruite su quella regolamentazione. Il termine del 15 ottobre 2015 inserito in quel testo giova alle banche per l’aggiornamento e la rimeditazione delle condizioni generali e dei formulari, così che il periculum lamentato dai reclamanti non può, al momento, dirsi attuale. (1) II Tribunale
di
Torino, ord. 17 luglio 2015; Pres. Scotti, Rel. Grillo
Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Legittimazione ad agire – Clausole contrarie alla correttezza dei rapporti contrattuali – Sussistenza (Cod. cons., art. 139)
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Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Tutela interessi collettivi – Procedura – Giusti motivi di urgenza – Insussistenza (Cod. cons., art. 140, co. 8) Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Tutela interessi collettivi – Procedura – Fumus boni iuris – Insussistenza (Cod. cons., art. 140, co. 8) Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Tutela interessi collettivi – Procedura – Periculum in mora – Insussistenza (Cod. cons., art. 140, co. 8) Non è condivisibile l’assunto secondo cui la violazione di una norma imperativa può essere fatta valere dal singolo consumatore e non può essere oggetto di azione collettiva, ammissibile solo nel caso in cui la condotta non sia colpita da una nullità, in quanto l’art. 2 cod. cons. riguarda tutte le condotte inique e scorrette a prescindere dal fatto che le stesse violino una norma imperativa e siano colpite dalla sanzione di nullità. (2) Anche in considerazione del richiamo alle norme del codice di procedura civile, l’inibitoria cautelare in materia consumeristica richiede la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, nella logica dei “giusti motivi di urgenza” richiesti dalla norma. Tali motivi non possono essere individuati nella semplice diffusività del danno (in quanto in tal caso vi sarebbe perfetta coincidenza fra l’ordinaria azione inibitoria di merito concessa alle associazioni a tutela dei consumatori e l’azione inibitoria cautelare), ma è necessario un connotato ulteriore. I giusti motivi di urgenza devono essere individuati esclusivamente nella necessità di assicurare una tutela tempestiva agli interessi dei consumatori non garantita dal giudizio ordinario e la valutazione di detti “giusti motivi” non può prescindere dall’accertamento congiunto dei due requisiti richiesti per l’emissione di misure cautelari, non essendo ammissibile una tutela generalizzata per il solo fatto che potrebbero essere stipulati altri contratti contenenti la clausola che prevede intreressi anatocistici. (3) Quanto al fumus boni iuris, la sua ricorrenza è fortemente controvertibile per lo stesso tenore letterale dell’art. 120 t.u.b., che non intende essere immediatamente precettivo in quanto rimanda a una delibera CICR; per il dato letterale che utilizza espressioni contenute in una norma specifica in materia bancaria, che quindi potrebbero anche essere interpretate in senso tecnico e non nel senso di semplice conteggio; per il disposto dell’art. 161, co. 5, t.u.b.; per il possibile contrasto con la normativa comunitaria, per negare il quale non ha pregio il rilievo che l’anatocismo nei rapporti bancari non sia previsto in tutti i paesi dell’Unione, atteso che una norma restrittiva presente in un paese non può giustificare analoga norma in Italia. (4)
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Trib. Milano
Quanto al periculum in mora, la sua ricorrenza è da escludersi perché la banca aveva inviato a tutti i correntisti una comunicazione in cui dava atto della modifica legislativa e li informava di essere in attesa della delibera CICR, così dimostrando di volersi uniformare alle nuove norme: perché l’effettività della tutela dei consumatori a fronte della lesione di diritti patrimoniali di modesta entità è garantita pienamente dall’azione di classe. (5) III Tribunale
di
Milano, ord. 3 aprile 2015; Pres. Cosentini, Rel. Ferrari
Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Legittimazione ad agire – Clausole contrarie alla correttezza dei rapporti contrattuali – Sussistenza (Cod. cons., art. 139) Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Legittimazione ad agire – Clausole contrarie alla correttezza dei rapporti contrattuali – Capitalizzazione interessi passivi – Illegittimità – Sussistenza (Cod. cons., art. 139) Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Tutela interessi collettivi – Procedura – Giusti motivi di urgenza – Sussistenza (Cod. cons., art. 140, co. 8) Contratti bancari – Anatocismo – Divieto – Sussistenza (D.lgs. 385/1993, art. 120-bis, co. 2) Contratti bancari – Anatocismo – Divieto – Sussistenza – Delibera del CICR – Inutilità (D.lgs. 385/1993, art. 120-bis, co. 2) Va affermata la legittimazione delle associazioni dei consumatori a far valere la correttezza, la trasparenza e l’equità nei rapporti contrattuali (art. 2, lett. e) cod. cons.) quando sì è in presenza di una clausola nulla; diversamente opinando, infatti, si giungerebbe alla conclusione paradossale per cui le condotte negoziali originate da clausole nulle e, quindi, da ritenersi massimamente gravi, non sarebbero al contempo qualificabili come contrarie al precetto della correttezza, riscontrabile invece con riferimento a comportamenti non espressamente disciplinati e, quindi, tendenzialmente etichettabili come meno gravi. (6) Va parimenti affermata la legittimazione delle associazioni dei consumatori a richiedere l’inibitoria della clausola relativa alla capitalizzazione degli interessi
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nel conto corrente in ordine all’addebito dei soli interessi passivi, dal momento che la qualificazione di tale addebito come condotta contraria al precetto della correttezza trova il suo presupposto fondante nell’art. 127 t.u.b., in forza del quale le nullità previste dal titolo VI, ricomprendente anche la disciplina in materia di interessi nei rapporti bancari, operano soltanto a vantaggio del cliente della banca, oltre a poter essere rilevate d’ufficio dal giudice. (7) I “giusti motivi di urgenza” quale presupposto richiesto dal comma 8 dell’art. 140 cod. cons. per far valere il diritto consumeristìco nelle forme della cautela, possono concretarsi nella potenziale reiterabilità della lesione, a ragione della capacità delle clausole contestate di continuare a produrre i loro effetti in quanto inserite in contratti di durata, aggravando in tal modo il prospettato effetto pregiudizievole a carico dei consumatori. (8) Il vigente disposto dell’art. 120, co. 2, t.u.b. circoscrive la portata della capitalizzazione degli interessi periodicamente conteggiati, escludendo che tale operazione contabile possa consentire alcun prodotto anatocistico: ciò anche alla luce dell’implicita rinnovata manifestazione di volontà del legislatore in tal senso, desumibile dalla scelta di non convertire in legge il d.l. 24.6.2014, n. 91, il quale aveva reintrodotto la legittimità dell’anatocismo bancario (sia pure imponendo una periodicità di capitalizzazione non inferiore all’anno). Siffatta interpretazione si impone in forza del dato letterale della norma, in quanto se è vero che il legislatore non ha esplicitato il significato attribuito al termine “capitalizzare”, apparentemente utilizzato contraddittoriamente, altrettanto vero è che il dato normativo è lapidario là dove precisa che gli interessi non possano produrre ulteriori interessi, che viceversa vanno conteggiati solo sulla sorte capitale. (9) L’operatività dell’art. 120, co. 2, t.u.b. non è condizionata all’intervento del CICR, dal momento che, una volta riconosciuto come l’articolo in esame vieti in toto l’anatocismo bancario, nessuna specificazione tecnica di carattere secondario potrebbe limitare la portata o disciplinare diversamente la decorrenza del divieto, pena, diversamente opinando, annettere che una norma primaria possa in tutto o in parte o anche solo temporaneamente essere derogata da una disposizione secondaria ad essa sotto ordinata. (10) IV Tribunale
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Milano, ord. 25 marzo 2015; Pres. Cosentini, Rel. Brat
Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Legittimazione ad agire – Clausole contrarie alla correttezza dei rapporti contrattuali – Sussistenza (Cod. cons., art. 139) Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Legittimazione ad agire – Tutela interessi collettivi – Sussistenza (Cod. cons., artt. 139-140)
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Trib. Milano
Contratti bancari – Clausole anatocistiche – Associazione consumatori – Tutela interessi collettivi – Procedura – Giusti motivi di urgenza – Sussistenza (Cod. cons., art. 140, co. 8) Contratti bancari – Anatocismo – Divieto – Sussistenza (D.lgs. 385/1993, art. 120-bis, co. 2) Contratti bancari – Anatocismo – Divieto – Sussistenza – Delibera del CICR – Inutilità (D.lgs. 385/1993, art. 120-bis, co. 2) L’art. 139 cod. cons. prevede la legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori nei casi previsti dal precedente art. 2 e, segnatamente, laddove riconosce ai consumatori il diritto “alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità” (lett. e): ora, l’applicazione della clausola anatocistica – divenuta illegittima a seguito della novella dell’art. 120 t.u.b. – attiene specificatamente alla “correttezza (…) dei rapporti contrattuali”, considerato che detta nozione comprende tutte quelle condotte contrarie alla buona fede, tra cui è annoverata anche l’applicazione di una clausola contrattuale divenuta illegittima per intervento del legislatore. (11) La legittimazione ad agire per la tutela di interessi collettivi del consumatore va affermata in quanto la predetta qualifica di “collettività” si trae dalla circostanza che la clausola anatocistica di cui si chiede l’inibitoria è inserita tra le condizioni generali di conto corrente, rivolto ad un’indeterminata collettività che, per la caratteristica di essere on line, ha un ancor maggiore grado di diffusività, tenuto conto della pervasività degli strumenti informatici. (12) I “giusti motivi di urgenza” al fine di attivare in via cautelare l’azione inibitoria ai sensi dell’art. 140, co. 8, cod. cons. debbono tener conto delle concrete esigenze di una collettività indeterminata di consumatori, che dall’applicazione di una norma divenuta nulla può subire pregiudizi concreti, che difficilmente possono trovare puntuale ristoro; essi quindi ricorrono quando occorre assicurare quella tempestività di tutela che meglio risponde alle tempistiche del mercato, spesso non coincidenti con i tempi processuali. (13) L’art. 120, co. 2, t.u.b., mentre al punto a) ha preso in esame il conteggio degli interessi debitori e creditori, stabilendone la stessa periodicità, al punto b) ha chiarito che gli interessi così conteggiati in ogni caso non possono produrre ulteriori interessi: ciò va nel senso della rigorosa esclusione dell’anatocismo nei rapporti bancari, sulla base della mera interpretazione letterale, in forza della quale è difficile assegnare all’espressione “gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre interessi ulteriori” significato diverso dall’eliminazione dell’anatocismo. (14) Se non può trascurarsi l’anomalia prima facie di interessi che, una volta capitalizzati, possano essere infruttuosi, vi è anche da rilevare come ben possa essere data evidenza contabile ad un saldo finale modulato separatamente con
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riferimento allo stato passivo o attivo del conto capitale e degli interessi maturati sullo stesso nel medesimo arco temporale, senza che questi ultimi possano essere incorporati nel primo per le operazioni contabili conseguenti: è proprio in tale ambito che deve essere confinato l’intervento regolamentare del CICR, cui è assegnato lo specifico compito di esprimersi in ordine alle specifiche tecniche bancarie contabili, senza, tuttavia, disporre in termini diversi dal divieto di anatocismo, che, pertanto, è da ritenersi operante a decorrere dall’1.1.14. (15)
I (Omissis) Il provvedimento reclamato va confermato, potendo condividersi la considerazione – già fatta propria dal Giudice di prime cure – che difetta il periculum, lamentato dalla reclamante. A prescindere dalla interpretazione che si voglia dare all’art. 120 t.u.b.1, sì come modificato dalla l.
1 La modifica apportata ha – sino ad oggi – ricevuto almeno tre letture. Secondo un primo orientamento, il legislatore avrebbe introdotto il divieto di capitalizzazione degli interessi e, soprattutto, di (ogni forma di) anatocismo. Tale interpretazione risulta ad oggi caldeggiata dalle associazioni dei consumatori e risulta essere stata già recepita da alcune pronunce giurisprudenziali. Così, secondo la giurisprudenza prevalente, la norma avrebbe introdotto il divieto che gli interessi periodicamente capitalizzati possano produrre interessi ulteriori potendo questi – nelle successive operazioni di capitalizzazione – essere calcolati esclusivamente sulla sorte capitale. Questa versione se, da un lato, trova conferma nella dichiarata intenzione del legislatore (v. Dossier Camera Deputati, ove l’espressa indicazione che la
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«nuova norma tende a introdurre il divieto dell’anatocismo nell’ordinamento bancario») e nelle recenti obiezioni sollevate in sede europea (ove i timori delle istituzioni per le divergenze rispetto ad una prassi tollerata in altri paesi), dall’altro canto impatta su una formulazione incapace di fornire (a) all’interprete un precetto di chiara intelligibilità (b) agli operativi indicazioni sicure sui limiti delle deroghe cui sembrerebbe alludere. Secondo un’altra opzione interpretativa, sarebbe ancora ammessa (almeno) una (forma di) capitalizzazione, dovendo il CICR definire le modalità operative per il computo degli interessi sulla quota capitale. Su questa linea interpretativa, alcuni commentatori hanno annotato «che la nuova lett. b) del comma 2 dell’art. 120 t.u.b. sembra mantenere in vita, sia pure per una sola volta, la capitalizzazione, dal momento che testualmente si riferisce a interessi “capitalizzati”, cioè che si sono trasformati in capitale. Sembrerebbe infatti che nel rapporto di conto si sia verificata una capitalizzazione, ma che dopo, vale a dire “nelle successive operazioni di capitalizzazione” (quelle dei trimestri seguenti, sembra doversi intendere), non possono prodursi “ulteriori” interessi composti. Ammesso che sia questa l’interpretazione di un così criptico passaggio normativo ne sfugge il senso (perché una volta sola e non mai??),
Tribunale di Parma
n. 147/13 al secondo comma, l’in-
troduzione della nuova disciplina
mentre ne è di immediata comprensione la complessità contabile. Occorre infatti affiancare al conto capitale un conto interessi, al fine di tenere separati nel tempo i due saldi e ciò, ovviamente, sia per i rapporti a credito sia per quelli a debito per la banca. Una conseguenza certa è quindi la profonda modifica del sistema contabile e di software delle banche, con costi che non è difficile prevedere su quali soggetti vengono a scaricarsi. Si immagini un deposito: chi impedisce al depositante, all’indomani della contabilizzazione separata, di trasferire gli interessi sul conto capitale, in modo che essi, di fatto, tornino a divenire, per l’appunto, capitale? E allora a che servono i due conti? E per contro: in un’operazione di fido in conto corrente, avendo due saldi da farsi rimborsare, che sorte darà banca alla rimessa accreditata? L’imputerà prima al capitale e poi agli interessi, come consente l’art. 1194 c.c.? e se la rimessa è superiore agli interessi addebitati, darà due imputazioni contabili a fronte di un’unica rimessa?». Secondo un terzo orientamento quello ufficiale del Consiglio Nazionale del Notariato, Ufficio Studi, questione n. 80 – 2014/C), «è come se la nuova lettera b) dell’art. l20 t.u.b. avesse stabilito come limite invalicabile per la futura delibera CICR, che gli interessi che scadono periodicamente vengono assimilati, quanto al trattamento giuridico, al capitale, il quale peraltro sarebbe in- fruttifero, in conformità alla deroga dell’art. l282, comma 1, c.c. (“i crediti di somme di denaro producono interessi di pieno diritto salvo che la legge o il titolo dispongano diversamente”). Il che probabilmente spiegherebbe la previsione secondo cui “gli interessi ulteriori sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”». Considerate le difficoltà ricostruttive, si è quindi fatta avanti l’idea che l’introdu-
zione del divieto di anatocismo sarebbe “sospensivamente condizionata” all’emanazione del regolamento del CICR, sino al quale dovrebbe tenersi per buona la disciplina previgente, già fissata dalla delibera 9 febbraio 2000, recepita nei contratti in corso – in uno con la formulazione letterale: in effetti, la formulazione letterale non ha ripristinato tout court un divieto, così come desumibile dall’art. 1283 c.c. (come era stato interpretato dalla S.C. alla fine degli anni novanta del secolo scorso), ma si è limitata a demandare la predisposizione di una disciplina al CICR, di cui ha circoscritto, pesantemente, i poteri delegati. Questo elemento letterale, in uno con l’incapacità di ricavare un univoco precetto immediatamente applicabile, impedirebbero, quindi, una definizione immediata dell’effetto abrogativo, necessariamente “appeso” all’esercizio del potere regolamentare delegato. La complessità della situazione risulta vieppiù aggravata dalle vicende dell’art. 31, d.l. n. 91/14 che – dopo pochi mesi dall’entrata in vigore della l. n. 147/13 – aveva riscritto l’art. 120 t.u.b., (a) reintroducendo la capitalizzazione annuale degli interessi; (b) prevedendo, con norma transitoria, che si applicassero ai rapporti pendenti la delibera CICR 9 febbraio 2000, così procedendo al richiamo (in senso formale) ad un provvedimento già abrogato, evidentemente perché la modifica del 2013 non poteva dirsi auto applicativa. È senz’altro da escludere che quella norma – decaduta a seguito della mancata conversione del d.l. n. 91/14 – possa avere natura e funzione meramente interpretativa, in quanto destinata a ri-espandere una norma abrogata, non certo a definire l’ambito applicativo della norma abrogante. Come chiarito, infatti, dalla C. Cost., affinché una norma interpretativa possa
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ha riflessi di natura sostanziale diversi, a seconda che si guardi alla disciplina dei contratti già in essere o a quella dei futuri contratti: tale diverso impatto interagisce, a sua volta, in maniera disomogenea con l’iniziativa (le iniziative) dell’odierna reclamante. In particolare, il primo profilo richiede la necessità di indagare la complessa questione di quali siano gli effetti della introduzione di una disciplina cogente sui rapporti di durata già in corso2; il secondo
essere considerata costituzionalmente legittima è necessario che si limiti a chiarire la portata applicativa di una disposizione precedente, che non integri il precetto di quest’ultima e che non adotti un’opzione ermeneutica non desumibile dall’ordinaria esegesi della stessa. Sulla impossibilità di fare salvi – anche con norma di legge – gli effetti di un d.l. non convertito assertivamente prodotti dal provvedimento, v. inoltre C. n. 20349/04. 2 È giusto il caso di annotare che la questione – normalmente archiviata sulla base del richiamo all’art. 1339 c.c. – non può trovare soluzione mediante un richiamo (netto e preciso) ad indicazioni sistemiche univoche. Così, C. n. 1689/06 ha ritenuto che le modifiche cogenti alla disciplina della fideiussione omnibus determinassero la nullità sopravvenuta delle obbligazioni assunte dal garante dopo la modifica intervenuta con l. n. 154/92, sicché non più coperte da un valido titolo negoziale. Secondo alcuni commentatori, la modifica della disciplina cogente potrebbe tutt’al più incidere sugli effetti contrattuali (arg. ex art. 1458 c.c.). Secondo altri commentatori, sarebbe più
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profilo pretende che si definisca lo
utile invocare la categoria della inesigibilità di una prestazione. pure sorta in base ad un titolo – al momento della conclusione dal contratto – valido ed efficace. Ha invocato l’art. 1339 c.c., seppure schiudendo le porte ad una possibile rinegoziazione delle condizioni contrattuali C. n. 1139l/97, intervenuta in tema di contratti assicurativi, toccati dall’espansione dei minimi di garanzia dei massimali di polizza (con contestuale diritto dell’assicurazione di pretendere un supplemento di premio). Ha introdotto un meccanismo di rinegoziazione, seppure “eterodiretta”, in tema di mutui, il d.l. n. 7/07, conv. L. n. 40/07, art. 7: «È nullo qualunque patto, anche posteriore alla conclusione del contratto, ivi incluse le clausole penali, con cui si convenga che il mutuatario, che richieda l’estinzione anticipata o parziale di un contratto di mutuo per l’acquisto della prima casa, sia tenuto ad una determinata prestazione a favore della banca mutuante. 2. Le clausole apposte in violazione del divieto di cui al comma 1 sono nulle di diritto e non comportano la nullità del contratto. 3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano ai contratti di mutuo stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto. 4. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo, per acquisto della prima casa si intende l’acquisto effettuato da una persona fisica della casa dove intende stabilire la propria residenza. 5. L’Associazione Bancaria Italiana e le associazioni dei consumatori rappresentative a livello nazionale, ai sensi dell’art. 137 cod. cons., definiscono, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, le regole generali di riconduzione ad equità dei contratti di mutuo in essere mediante, in particolare, la determinazione della misura minima dell’importo della penale dovuta per il caso di estinzione an-
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spettro dei poteri inibitori da riconoscersi alle associazioni dei consumatori. Orbene, è pur vero che, in via generale, un ente rappresentativo degli interessi dei consumatori è legittimato a proporre tutte quelle domande che sono volte ad eliminare gli effetti delle violazioni in danno degli utenti medesimi e ad imporre al trasgressore compor-
ticipata o parziale del mutuo. 6. In caso di mancato raggiungimento dell’accordo di cui al comma 5, la misura della penale idonea alla riconduzione ad equità è stabilita dalla Banca d’Italia e costituisce norma imperativa ai sensi dell’art. 1419, comma 2, c.c. ai fini della rinegoziazione dei contratti di mutuo in essere. 7. In ogni caso le banche non possono rifiutare la rinegoziazione dei contratti di mutuo stipulati prima della data di entrata in vigore del presente decreto, nei casi in cui il debitore proponga la riduzione dell’importo della penale entro i limiti stabiliti ai sensi dei commi 5 e 6». Si consideri infine che, mentre l’art. 1339 c.c. presuppone una norma che veicola un precetto puntuale, la nuova formulazione dell’art. 120 t.u.b. non introduce solo un divieto, ma descrive un più complesso procedimento di revisione delle norme di carattere secondario, già prima demandate alla regolamentazione del CICR. Esclusa la potenzialità espansiva di tipo analogico delle norme di “congiuntura”, per definizione “eccezionali” (ai sensi dell’art. 12 disp. prel. c.c.), si dovrà quindi concludere che l’unica potenzialità espansiva del precetto introdotto con l. n. 147/2013 è da riconoscere al divieto di produzione di interessi su interessi, unico precetto realmente, ad oggi, intelligibile.
tamenti conformi alle regole di correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali (…) le domande di restituzione e di risarcimento dei danni conseguenti agli illeciti concorrenziali, nei limiti in cui facciano valere l’interesse comune all’intera categoria degli utenti dei servizi assicurativi ad ottenere una pronuncia di accertamento su aspetti quali l’esistenza dell’illecito, della responsabilità, del nesso causale tra l’illecito e il danno, dell’esistenza ed entità potenziale dei danni (a prescindere dalle peculiarità delle singole posizioni individuali), ed ogni altra questione idonea ad agevolare le iniziative individuali, sollevando i singoli danneggiati dai relativi oneri o rischi (cfr. C. n. 17351/11). In base alle norme vigenti (artt. 37, 139, 140 cod. cons.) alle associazioni dei consumatori va riconosciuta la legittimazione a chiedere in giudizio: - di inibire l’uso delle condizioni generali di contratto di cui sia accertata l’abusività ai sensi del Titolo Primo3, Parte Terza, cod. cons. (i.e.
3 Si può osservare che l’inibitoria richiesta in questa sede diverge dal disposto dell’art. 37 cit. e per la semplice ragione che la clausola vessatoria è una clausola che può essere (valida ed efficace) alle condizioni prescritte dall’art. 34. In questo caso, la Associazione chiede che sia inibito l’uso di una clausola tout court ritenuta nulla.
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ai sensi degli art. 33 ss. cod. cit.); - di inibire atti e comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori (cfr. artt. 20 ss. cod. cons.). Bisogna tuttavia riconoscere che le iniziative delle Associazioni a tutela dei consumatori possono essere accolte, sino al limite ultimo costituito dalla impossibilità di sovrapporre gli effetti della tutela collettiva alle iniziative, demandate alla volontà del singolo, volte ad avere effetti recuperatori, che incidono sul patrimonio del singolo, individuo, consumatore. In questa prospettiva, è da escludere che si dia il periculum lamentato dall’associazione, sia con riguardo ai contratti in essere, sia con riguardo ai contratti futuri ancora di là da venire. Quanto ai contratti in essere, non vi sono elementi da cui desumere che l’Istituto di Credito non sia in grado di restituire le somme che l’introduzione della nuova disciplina dovesse dichiarare non dovute. Tale soluzione risulta vieppiù ragionevole, ove si ponga mente al fatto che l’iniziativa introdotta non è sovrapponibile all’intera platea dei soggetti interessati, essendo indubbio che il problema dell’a-
Stante tuttavia il dato sistemico ricavabile dall’art. 139 cod. cons. che ha integrato e potenziato le iniziative a carattere inibitorio, è possibile sostenere la potenzialità espansiva in via analogica dell’art. 37.
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natocismo riguarda tutti i clienti dell’Istituto di credito, non solo i consumatori, i cui interessi sono, istituzionalmente, affidati alla rappresentanza dell’ente collettivo4. Quanto, invece, alla tutela inibitoria richiesta, in proiezione, sui contratti ancora da concludere, anche senza speculare sulla distinzione tra clausole vessatorie e clausole nulle, la richiesta risulta, ormai, pressoché assorbita dall’iniziativa di Banca d’Italia, che, con la circolare/delibera del 15 luglio 2015 – abbandonando la prudenza che aveva caratterizzato l’intervento del 17 ottobre 2014 – nel rivedere le indicazioni in tema di trasparenza ha imposto agli intermediari di eliminare: - ogni riferimento, quale fonte normativa, alla delibera CICR 9 febbraio 2000, - ogni riferimento a clausole di anatocismo costruite su quella regolamentazione. Nella confusione che caratterizza l’attuale quadro normativo, il termine (15 ottobre 2015) inserito in quel testo giova agli Istituti di credi-
4 La considerazione rende conto della asimmetria che si crea tentando di estendere, sic et simpliciter, la disciplina delle clausole vessatorie, che per definizione concerne la stipula di patti in deroga al diritto scritto siglati dai consumatori, ai patti tout court nulli, che possono coinvolgere tutte le categorie di contraenti, professionisti o consumatori che siano.
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to per l’aggiornamento e la rimeditazione delle condizioni generali e dei formulari, così che il periculum lamentato dai reclamanti non può, al momento, dirsi attuale. Per tutto quanto detto, il reclamo va rigettato, tanto più che, al di fuori di un quadro regolamentare unico e coerente, l’intervento giudiziale rischia di creare disparità tra operatori economici, colpendo solo le banche che siano state convenute in giudizio (e dal momento in cui il provvedimento è stato emesso). La complessità della materia, l’ambiguità dei testi legislativi, e le oscillazioni giurisprudenziali suggeriscono di compensare integralmente tra le parti le spese di entrambe le fasi del giudizio cautelare. (Omissis) II (Omissis) 7. La reclamata ha ribadito l’eccezione di carenza di legittimazione attiva in capo [all’associazione]. Sul punto il Collegio ritiene corretta la valutazione del giudice di prime cure alla luce delle seguenti argomentazioni. Le clausole che prevedono interessi anatocistici in violazione di legge devono considerarsi clausole scorrette e inique, a prescindere dal fatto che possano essere considerate clausole vessatorie. Il Collegio non condivide l’assunto della reclamata secondo cui
la violazione di una norma imperativa può essere fatta valere dal singolo consumatore e non può essere oggetto di azione collettiva, ammissibile solo nel caso in cui la condotta non sia colpita da una nullità, in quanto l’art. 2 cod. cons. colpisce tutte le condotte inique e scorrette a prescindere dal fatto che le stesse violino una norma imperativa e siano colpite dalla sanzione di nullità. D’altra parte la ratio della tutela consumeristica deve essere individuata nella diffusività del comportamento scorretto tale da coinvolgere una “massa” di consumatori. Né a sostegno dell’interpretazione della reclamata può invocarsi l’art. 37 cod. cons., atteso che tale norma non si pone in antitesi con l’art. 139 cod. cons., ma è volta semplicemente a rafforzare la tutela dei consumatori in quelle ipotesi in cui la condotta non sarebbe illecita ex se (tanto è vero che le clausole vessatorie tra professionisti non sono nulle, nel caso in cui risultino specificamente sottoscritte), ma lo diventa qualora la controparte di un professionista sia un consumatore. Non convince neppure l’assunto che la materia del credito sarebbe disciplinata solo dal t.u.b. e sottratta al codice del consumo. Innanzitutto il codice del consumo disciplina, seppur per aspetti peculiari, il credito al consumo, elemento questo da cui può evincersi che la materia del credito è
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ricompresa nell’ambito di detto codice, anche considerato che nessuna norma espressamente esclude la materia del credito dalla tutela consumeristica. Privo di pregio è poi il richiamo all’art. 32-bis t.u.f. che ha esteso la tutela delle associazioni dei consumatori alla materia dell’intermediazione finanziaria, atteso che non vi sono dubbi che già prima della sua entrata in vigore nei casi previsti dall’art. 2 cod. cons. trovava applicazione l’art. 139 cod. cons. L’art. 32-bis t.u.f. ha, infatti, esteso la tutela degli interessi collettivi degli investitori a ipotesi diverse da quelle previste dall’art. 2 e, cioè, anche alle ipotesi in cui la condotta della banca integra un semplice inadempimento, che seppur relativo a rapporti individuali, incidendo su di una pluralità di soggetti (ad esempio la vendita generalizzata di titoli rischiosi senza un’adeguata e specifica informazione caso per caso), può essere tutelato con un’azione collettiva. 8. Nel merito il reclamo non è fondato. 8.1. L’art. 140 cod cons. recita al comma 1: “I soggetti di cui all’articolo 139 sono legittimati nei casi ivi previsti ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti richiedendo al tribunale: a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) di adottare le misure idonee a
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correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate”. A sua volta il comma 8 di detto articolo dispone: “Nei casi in cui ricorrano giusti motivi di urgenza, l’azione inibitoria si svolge a norma degli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies c.p.c.”. Ora, anche in considerazione del richiamo alle norme del codice di procedura civile, si desume che l’inibitoria cautelare in materia consumeristica richiede la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora. La peculiarità del periculum in mora che in materia consumeristica non presuppone l’esistenza di un pregiudizio grave e irreparabile, non deve tuttavia far dimenticare che è comunque necessaria la sussistenza di “giusti motivi di urgenza”. Tali motivi, come sottolinea anche la giurisprudenza di merito, non possono essere individuati nella semplice diffusività del danno, in quanto in tal caso vi sarebbe perfetta coincidenza fra l’ordinaria azione inibitoria di merito concessa alle associazioni a tutela dei consumatori e l’azione inibitoria cautelare, ma è necessario un connotato ulteriore. Tuttavia ritiene il Collegio che
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non sia condivisibile sotto questo profilo la conclusione a cui è giunto il Tribunale di Milano (Trib. Milano, ord., 25 marzo 2015) secondo cui i giusti motivi di urgenza devono essere individuati esclusivamente nella necessità di assicurare una tutela tempestiva agli interessi dei consumatori. La Direttiva CE 98/27/CE del 19 maggio 1998 che ha sancito la necessità di assicurare una tutela tempestiva agli interessi dei consumatori non ha automaticamente equiparato effettività con tempestività. Infatti è pur vero che nel secondo considerando si legge: “considerando che i meccanismi esistenti attualmente sia sul piano nazionale che su quello comunitario per assicurare il rispetto di tali direttive non sempre consentono di porre termine tempestivamente alle violazioni che ledono gli interessi collettivi dei consumatori”. Tuttavia è altresì vero che l’art. 2 espressamente recita: “1. Gli Stati membri designano gli organi giurisdizionali o le autorità amministrative competenti a deliberare su ricorsi o azioni proposti dagli enti legittimati a norma dell’articolo 3 ai seguenti fini: a) ordinare con la debita sollecitudine e, se del caso, con procedimento d’urgenza, la cessazione o l’interdizione di qualsiasi violazione; b) se del caso, prevedere misure quali la pubblicazione, integrale o parziale, della decisione, in una forma ritenuta adeguata e/o
la pubblicazione di una dichiarazione rettificativa al fine di eliminare gli effetti perduranti della violazione; c) nella misura in cui l’ordinamento giuridico dello Stato membro interessato lo permetta, condannare la parte soccombente a versare al Tesoro pubblico o ad altro beneficiario designato nell’ambito o a norma della legislazione nazionale, in caso di non esecuzione della decisione entro il termine fissato dall’organo giurisdizionale o dalle autorità amministrative, un importo determinato per ciascun giorno di ritardo o qualsiasi altro importo previsto dalla legislazione nazionale al fine di garantire l’esecuzione delle decisioni. 2. La presente direttiva non osta all’applicazione delle regole di diritto internazionale privato sulla legge applicabile e comporta, di norma, l’applicazione della legge dello Stato membro in cui ha origine la violazione o della legge dello Stato membro in cui la violazione produce i suoi effetti”. Da tali considerazioni discendono due principi: da un lato, deve essere applicata in ogni caso la legge dello stato in cui ha luogo la violazione o la stessa produce i suoi effetti; dall’altro, la tutela cautelare è possibile solo nel caso in cui l’effettività della tutela non sia erogabile in modo tempestivo con il giudizio ordinario, nel senso che il tempo necessario per addivenirvi è incompatibile con il diritto stesso violato da pratiche inique o
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scorrette. Al fine di stabilire quando l’effettività possa essere soddisfatta solo con il ricorso alla tutela cautelare è necessario valutare i caratteri del diritto in relazione al quale è posta in essere la pratica scorretta, proprio perché l’ordinamento non si limita a richiamare l’urgenza (che comunque deve essere obiettiva) ma richiede che i motivi di urgenza siano “giusti”, espressione questa che deve essere opportunamente valorizzata sotto il profilo ermeneutico. La valutazione dei giusti motivi di urgenza in materia consumeristica non può quindi prescindere dall’accertamento congiunto dei due requisiti richiesti per l’emissione di misure cautelari e cioè il fumus boni iuris ed il periculum in mora, non essendo ammissibile una tutela generalizzata per il solo fatto che potrebbero essere stipulati altri contratti contenenti la clausola che prevede interessi anatocistici. D’altra parte, per i contratti già stipulati la stessa reclamante ammette che i pregiudizi patiti dai consumatori sono modestissimi. Secondo i principi generali che governano l’esercizio della discrezionalità cautelare, il grado di presenza dei due requisiti può compensarsi reciprocamente nell’ambito di un calibrato apprezzamento della fattispecie concreta, nel senso che nel caso in cui il fumus boni iuris sia denotato da un
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elevatissimo grado di probabilità potrebbe esser sufficiente un periculum attenuato, ma pur sempre sussistente, mentre ove il fumus sia dubbio ovvero si versi nella semplice possibilità della presenza di un diritto violato, la tutela sarebbe riconoscibile solo ove il rischio di pregiudizio interinale sia elevato. Tale esigenza, poi, si fa ancor più forte allorché venga richiesta, come nel caso di specie, una tutela cautelare di natura prettamente anticipatoria e non meramente assicurativa. 8.2. Nel caso di specie, contrariamente a quanto asserito dalla reclamante, la cui opinione per il vero si fonda anche sulla prevalente giurisprudenza di merito, il fumus boni iuris è infatti discutibile sulla base delle seguenti argomentazioni. L’art. 120 t.u.b. nuovo testo recita al capoverso ”Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”. La giurisprudenza di merito (ex
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multis, le decisioni citate del Tribunale milanese) non solo ritiene detta norma immediatamente applicabile, ma sostiene che preveda il divieto di capitalizzazione degli interessi. Tuttavia, tale interpretazione, che si fonda sulla seconda parte della lettera b) del comma 2 dell’art. 120 t.u.b., si pone in contrasto rispetto al dato letterale, contenuto nella prima parte della norma. È vero che l’art. 120 nella nuova versione, a differenza della precedente, la quale rimetteva al CICR di stabilire modalità “per la produzione degli interessi scaduti”, si limita a prevedere che il CICR stabilisca modalità e criteri per la produzione di interessi, ma la differenza è più apparente che reale, atteso che nella nuova versione semplicemente sono posti dei limiti e cioè il divieto di anatocismo. Improprio è il richiamo alla relazione illustrativa, che si riferisce, come ben ha osservato la reclamata, ad altro disegno di legge e irrilevante sembra poi il fatto della mancata conversione del d.l. 91/14 che reintroduceva l’anatocismo, a prescindere dal fatto che tali elementi possono anche essere interpretati in senso contrario rispetto a quanto asserito dalla giurisprudenza di merito maggioritaria. In particolare si potrebbe anche argomentare che la norma, proprio in base all’interpretazione letterale, non intende essere im-
mediatamente precettiva in quanto rimanda ad una delibera CICR le modalità ed i criteri per la produzione degli interessi, ponendo peraltro dei limiti alla normativa di rango inferiore e cioè prescrivendo che la stessa dovrà osservare il divieto di anatocismo. A ciò si aggiunge il dato letterale, che espressamente fa riferimento a interessi periodicamente capitalizzati e a successive operazioni di capitalizzazione, espressioni che, essendo contenute in una norma specifica in materia bancaria, potrebbero anche essere interpretate in senso tecnico e non nel senso di semplice conteggio. L’interpretazione data dalla giurisprudenza di merito maggioritaria, infatti, è una interpretazione sostanzialmente abrogatrice della prima parte della norma. Inoltre proprio dalla mancata conversione del decreto legge si potrebbe argomentare che la norma non era, allo stato, necessaria non essendo ancora stata emanata la delibera CICR ed essendo ancora in vigore la vecchia delibera. Non solo ma oltre al dato strettamente testuale, vi sono altri elementi che potrebbero far ritenere non applicabile la norma fino al momento dell’emanazione della delibera CICR. Un primo elemento è costituito dal disposto dell’art. 161, comma 5, t.u.b., articolo non modificato secondo cui: “Le disposizioni emanate dalle autorità creditizie ai sensi
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di norme abrogate o sostituite continuano a essere applicate fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati ai sensi del presente decreto legislativo”. Sul punto è sostanzialmente ininfluente che la legge 147/13 preveda l’entrata in vigore il 1° gennaio 2014 in quanto l’entrata in vigore della legge (per completezza osserva il Collegio che trattandosi della legge di stabilità per il 2014 è ovvio che fosse entrata in vigore il 1° gennaio 2014) non esclude l’applicabilità dell’art. 161 t.u.b. cit., né la necessità dell’emanazione della delibera CICR. Un secondo elemento è costituito dal possibile contrasto dell’interpretazione proposta dalla prevalente giurisprudenza di merito con la normativa comunitaria. Sul punto il Collegio osserva che non è condivisibile l’assunto della reclamante secondo cui la sentenza Caixa Bank France/Ministero Economia sarebbe irrilevante nel caso di specie. Nonostante l’ipotesi concretamente ricorrente fosse diversa, detta pronuncia affermava un principio generale secondo cui comporta restrizione della libertà di stabilimento un divieto che costituisca per le società di Stati membri diversi dall’Italia un serio ostacolo per la loro attività in Italia; occorre poi tener conto del fatto che il pagamento di interessi anatocistici da parte dei correntisti costituisce una forma importante di remunerazione per le banche.
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Né rileva, come documentato (peraltro con qualche imprecisione) dal rapporto “Study on interest rate restriction in the EU. Final Report”, che l’anatocismo nei rapporti bancari non sia previsto in tutti i paesi dell’Unione, atteso che una norma restrittiva presente in un paese non può giustificare analoga norma in Italia. Pertanto, tutto ciò considerato, l’interpretazione corretta della norma appare fortemente controvertibile, essendo quindi assai dubbio se prevalgano le considerazioni accolte dal Tribunale di Milano e dalla prevalente giurisprudenza di merito o le contrapposte considerazioni sopra riepilogate. Il requisito del fumus boni iuris è perciò attenuato e insufficiente a integrare i “giusti motivi” richiesti per la concessione della cautela. 8.3. Ma anche il profilo del periculum in mora è assolutamente attenuato alla luce delle seguenti argomentazioni. Il giudice di prime cure ha ritenuto insussistente il periculum sulla base di tre argomentazioni e precisamente: a) il tempo trascorso fra l’inizio della condotta contestata alla resistente e la proposizione della azione inibitoria; b) la condotta della convenuta la quale aveva documentato di aver comunicato a tutti i correntisti al 31 dicembre 2014 le modifiche apportate riferendo di essere in attesa della delibera CICR;
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c) la natura degli interessi tutelati, interessi di natura esclusivamente patrimoniale facilmente reintegrabili dalla convenuta. Il Collegio non condivide la prima argomentazione sub a) del giudice di prime cure secondo cui il decorso di un notevole lasso di tempo dall’inizio della condotta contestata prima dell’introduzione del giudizio cautelare aveva fatto venir meno quelle esigenze di tempestività dell’intervento giudiziale. Infatti il protrarsi di una condotta che si assume antigiuridica da parte della banca avrebbe giustificato, comunque, la successiva proposizione dell’azione, essendo giuridicamente irrilevante la precedente tolleranza, tanto più che [l’associazione] agisce a tutela di interessi altrui come ente esponenziale. In ogni caso nella fattispecie concreta la mancata tempestiva proposizione dell’azione può giustificarsi sia per l’attesa della delibera CICR, sia per la necessità di verificare l’esito delle azioni intraprese. Sono condivisibili invece le altre argomentazioni del giudice di prime cure. Quanto al rilievo sub b) infatti la reclamata aveva inviato una comunicazione a tutti i correntisti (circostanza questa non tempestivamente contestata dall’[associazione], ex art. 115 c.p.c., la quale solo nel reclamo e, quindi, tardivamente affermava che di tale circostanza non vi era prova) in cui dava atto
della modifica legislativa e li informava di essere in attesa della delibera CICR. Le critiche sul punto della reclamata non paiono convincenti, poiché la Banca, richiamando la norma, e con essa il divieto di produzione di ulteriori interessi sugli interessi capitalizzati, ed affermando di essere in attesa della delibera CICR aveva dimostrato ampiamente di volersi uniformare alle disposizioni normative. Tale condotta elide fortemente il periculum in mora, stante la disponibilità della reclamata ad adeguarsi alla disciplina normativa sopravvenuta. Anche l’ulteriore argomentazione sub c) del giudice di prime cure è condivisibile. Infatti l’interesse collettivo leso, rilevante ai fini della tutela cautelare, si sostanzia nella lesione di un diritto patrimoniale di lieve entità. La giurisprudenza aveva ritenuto di ravvisare i giusti motivi nel fatto che “le somme di cui si discute, pari a pochi euro molto difficilmente potrebbero formare oggetto di un giudizio nel merito attivato dai clienti uti singuli, risultando vanificata la tutela che invece la legge ritiene di concedere a tali interessi” (Trib. Roma, 30 aprile 2008), principio questo ripreso dalla giurisprudenza di merito successiva. Tale principio, però, è stato enunciato quando non era ancora entrato in vigore l’art. 140-bis cod. cons.
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Occorre infatti ricordare che la legge n. 244 del 24 dicembre 2007 aveva introdotto nel codice del consumo l’art. 140-bis a norma del quale “le associazioni di cui al comma 1 dell’articolo 139 e gli altri soggetti di cui al comma 2 del presente articolo sono legittimati ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti richiedendo al tribunale del luogo in cui ha sede l’impresa l’accertamento del diritto al risarcimento del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori o utenti nell’ambito di rapporti giuridici relativi a contratti stipulati ai sensi dell’articolo 1342 del codice civile, ovvero in conseguenza di atti illeciti extracontrattuali, di pratiche commerciali scorrette o di comportamenti anticoncorrenziali quando sono lesi i diritti di una pluralità di consumatori o di utenti”; tale articolo non è mai divenuto operativo e dopo una serie di rinvii è stato sostituito dalla nuova versione. La norma attualmente in vigore prevede espressamente la legittimazione di ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa. Pertanto non solo i singoli componenti della classe possono agire per la tutela collettiva, ma possono agire le associazioni di consumatori su mandato degli stessi. E l’oggetto dell’azione di classe è costituito dall’accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle
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restituzioni in favore degli utenti consumatori. La norma specifica che l’azione tutela: “a) i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione omogenea, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile; b) i diritti omogenei spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto o servizio nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale; c) i diritti omogenei al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali”. Conseguentemente alla luce dell’attuale quadro normativo l’effettività della tutela dei consumatori a fronte della lesione di diritti patrimoniali di modesta entità è garantita pienamente dall’azione di classe, azione che per le sue caratteristiche consente una tutela tempestiva e completa. Solo nel caso in cui l’azione di classe non potesse tutelare i consumatori, con un giudizio da effettuarsi caso per caso, sarebbero ravvisabili quei giusti motivi necessari richiesti come condizione di ammissibilità dell’inibitoria cautelare, situazione, questa, che non ricorre nel caso di specie. È poi irrilevante l’argomentazione di stampo storico-sociologico secondo cui in concreto le azioni
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di classe esperite in Italia non hanno sortito gli esiti sperati, atteso che tale circostanza è da imputare non allo strumento giuridico in sé, ma a circostanze assolutamente esterne, del tutto ininfluenti sulla sua astratta idoneità a fornire una tutela effettiva e tempestiva agli interessi dei consumatori. Il reclamo, in difetto del periculum e in una situazione di fumus obiettivamente controvertibile, deve quindi essere respinto. 9. Stante l’assoluta novità di molte delle questioni trattate e comunque in considerazione dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale prevalente di segno contrario, le spese tra le parti devono essere integralmente compensate. (Omissis) III (Omissis) Tutto ciò premesso, ritiene il Tribunale che il reclamo oggi in esame sia fondato e, pertanto, meriti di trovare accoglimento, con conseguente riforma dell’ordinanza cautelare impugnata. Preliminarmente occorre soffermarsi sulla legittimazione attiva dell’Associazione […]. Sul punto viene in rilievo l’applicazione del combinato disposto degli artt. 2 e 139 cod. cons. L’art. 139 citato, come noto, prevede che le associazioni dei consumatori, inserite negli elenchi indica-
ti all’art. 137, siano legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi, ai sensi dell’art. 140, in caso di violazioni del codice del consumo o delle norme specificamente richiamate e, in ogni caso, “oltre a quanto disposto dall’art. 2”. Quest’ultima norma prevede un’elencazione di diritti fondamentali dei consumatori, tra cui è annoverato anche il diritto “alla correttezza, trasparenza e all’equità nei rapporti contrattuali” (cfr. lett. e); il legislatore nazionale, recependo quanto previsto dall’Unione Europea, ha, quindi, inteso dare risalto a valori quali la buona fede in senso oggettivo, l’obbligo di clare loqui, comunicando alla controparte ogni informazione rilevante nella stipulazione e nell’esecuzione del negozio, e infine all’equità nella pendenza di un rapporto negoziale cd. “asimmetrico”, in cui le parti normativamente “deboli” necessitano di una tutela effettiva. Poste queste premesse, occorre verificare se la doglianza inerente l’applicazione da parte degli istituti di credito di una clausola asseritamente divenuta nulla a seguito di una sopravvenienza normativa, possa essere sussunta nella violazione dell’obbligo di correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali, cui è tenuta la banca e al cui rispetto ha diritto il consumatore. Sul punto le resistenti hanno sostenuto che non sussista legitti-
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mazione attiva dell’[Associazione], in quanto l’applicazione della clausola asseritamente invalida non violerebbe il diritto alla correttezza nei rapporti contrattuali, essendo viceversa la nullità l’unica eventuale sanzione applicabile. La tesi non può essere condivisa. Se, infatti, di regola la violazione del precetto di correttezza nell’ambito dei rapporti contrattuali è stata invocata a fronte di condotte che, pur non trovando una disciplina sanzionatoria specifica, sono state reputate lesive degli interessi comunque meritevoli di protezione vantati dalla controparte, a maggior ragione deve ritenersi sussistente una violazione dell’obbligo di correttezza con riferimento a condotte che traggano origine da previsioni negoziali espressamente sanzionate nella forma più grave, ossia la nullità; diversamente opinando, infatti, si giungerebbe alla conclusione paradossale per cui le condotte negoziali originate da clausole nulle e, quindi, da ritenersi valutate come massimamente gravi, non sarebbero al contempo qualificabili come contrarie al precetto della correttezza, riscontrabile invece con riferimento a comportamenti non espressamente disciplinati e, quindi, tendenzialmente etichettabili come meno gravi. La nullità, infatti, è la sanzione che colpisce la previsione pattizia (la clausola che risulti in contrasto
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con il testo normativo entrato in vigore è nullo), mentre l’attuazione di detta clausola, in quanto è applicazione di un patto invalido (ab origine o per nullità sopravvenuta), integra un’autonoma condotta, che può astrattamente porsi in contrasto con l’interesse della controparte e, quindi, con il dovere di correttezza. Per quanto attiene, poi, alla collettività dell’interesse, che l’art. 139 richiede quale presupposto per la legittimazione delle associazioni consumeristiche, deve ritenersi che il requisito sia insito nella diffusività della clausola asseritamente invalida, in quanto inserita dall’operatore qualificato nelle condizioni generali di contratto e per ciò idonea ad incidere indistintamente su tutti i rapporti contrattuali in cui essa venga in applicazione. Sotto tale profilo, pertanto, non assume rilievo particolare analizzare il dato numerico dei contratti di conto corrente attualmente in corso con i due istituti di credito resistenti, né tanto meno pretendere di distinguere fra tali rapporti quelli che risultino stipulati da consumatori e, ancora, quelli fra essi che presentino un saldo debitorio e conseguentemente l’addebito di interessi passivi anatocistici; il mantenimento nelle condizioni generali di contratto delle clausole oggi contestate, infatti, di per sé racchiude e concreta il connotato della diffusività e conseguentemente della collettività dell’inte-
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resse patrocinato dall’Associazione oggi reclamante, anche in considerazione della potenzialità lesiva da quest’ultima prospettata, ben potendo un rapporto oggi a credito passare un domani a debito ed essere esposto all’applicazione della clausola anatocistica contestata. Le considerazioni esposte, riferite al tenore degli interessi prospettati e alle misure invocate, portano, pertanto, a riconoscere la legittimazione attiva dell’associazione di consumatori che si affermi titolare di un “diritto alla correttezza nei rapporti contrattuali”, laddove ne lamenti la lesione in ragione dell’applicazione ad opera della controparte di una clausola asseritamente nulla, anche in ragione di una, intervenuta, modifica legislativa. Né tale legittimazione potrebbe essere messa in discussione là dove, come nel caso di specie, la reclamante abbia inteso censurare la condotta persistente delle banche di applicazione della clausola anatocistica, asseritamente divenuta nulla, limitatamente all’addebito di interessi passivi. Premesso, infatti, che la scelta selettiva della condotta da censurare effettuata dalla Associazione consumeristica svuota di contenuto l’obiezione che così facendo si finirebbe con il danneggiare, anziché con il preservare, gli interessi della maggioranza dei consumatori, che verosimilmente vantano un saldo creditorio e quindi sono per-
cettori di interessi anatocistici, anziché obbligati alla loro corresponsione (censura anch’essa articolata al fine di negare la legittimazione attiva della reclamante); deve in ogni caso rilevarsi come la qualificazione dell’addebito di interessi anatocistici passivi, quale condotta contraria al precetto della correttezza, trovi il suo presupposto fondante nell’art. 127 t.u.b., in forza del quale le nullità previste dal Titolo VI, ricomprendente anche la disciplina in materia di interessi nei rapporti bancari, operano soltanto a vantaggio del cliente della banca, oltre a poter essere rilevate d’ufficio dal giudice. Se, pertanto, la norma in questione di fatto, sul presupposto di una nullità di protezione rilevabile esclusivamente da una sola parte del contratto, specifica e conferma la legittimazione delle associazioni consumeristiche proprio con riferimento alla domanda nel termini selettivi prospettati, il denunciato conseguente potenziale squilibrio contrattuale, rappresentato dalla mancata speculare censura quanto alla condotta di corresponsione di interessi anatocistici creditori ad opera delle banche, esula dall’oggetto del presente procedimento, divenendo ininfluente rispetto alla riconosciuta legittimazione attiva dell’Associazione consumeristica. L’accertamento sopra esposto comporta la necessità di procedere in seconda battuta a verificare la sussistenza o meno dei presup-
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posti che giustifichino la scelta dell’[Associazione] ad agire in via cautelare, considerata la contestazione anche sotto tale ultimo profilo. Occorre a tal proposito soffermarsi sul requisito dei “giusti motivi di urgenza”, quale presupposto richiesto dal comma 8 dell’art. 140 cod. cons. per far valere il diritto consumeristico nelle forme della cautela. Preliminarmente si osserva che, secondo l’orientamento prevalente, che si condivide, i “giusti motivi di urgenza” sono altro rispetto al pregiudizio grave ed irreparabile richiesto dall’art. 700 c.p.c.; per comprendere detto requisito occorre infatti avere riguardo non solo all’interpretazione letterale, ma anche a quella sistematica, considerando la collocazione della norma e, in particolare, la ratio di essa e la sua matrice comunitaria. A tal proposito deve ritenersi che i giusti motivi di urgenza non possano essere identificati o comunque ritenuti sussistenti per il solo carattere di diffusività della disciplina o della condotta che si assume lesiva degli interessi dei consumatori, dal momento che tale connotato è già di per sé presupposto stesso della legittimazione “ordinaria” delle associazioni consumeristiche, le quali, infatti, intanto possono agire autonomamente, in quanto operino “a tutela degli interessi collettivi dei consumatori” (art. 139 cod. cons.); il richiamo alla collettività dell’in-
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teresse del consumatore, infatti, necessariamente si ricollega e implica una portata diffusa dell’interesse in esame, che diversamente non potrebbe assumere carattere “collettivo”. Se, pertanto, si ritenesse di identificare i “giusti motivi di urgenza” con la mera diffusività della condotta o della clausola lesiva, ciò comporterebbe che, una volta riconosciuta la legittimazione ad agire delle associazioni consumeristiche, queste sarebbero sempre legittimate anche ad agire in via cautelare, dal momento che i presupposti dell’azione ordinaria e di quella di urgenza finirebbero per coincidere. Sennonché una simile soluzione interpretativa non solo non sarebbe conciliabile con il dato normativo, che con riferimento alle azioni delle associazioni consumeristiche annovera tanto la tutela ordinaria che quella cautelare, ma entrerebbe in contrasto anche con i principi fondanti del nostro ordinamento processuale, là dove l’azione cautelare è sempre prefigurata come forma di tutela straordinaria, in presenza di requisiti tassativi, a fronte della tutela in via ordinaria. Se così è, quindi, si deve concludere che il presupposto atto a giustificare il ricorso alla tutela cautelare, ossia i “giusti motivi di urgenza” non possa essere individuato nel mero carattere diffuso dell’interesse tutelato, ma vada ri-
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cercato in un connotato ulteriore, il quale, peraltro, come anticipato, non deve essere identificato nel pregiudizio irreparabile ex art. 700 c.p.c. In particolare, l’interpretazione sistematica della norma di origine comunitaria porta a ritenere concretato il motivo di urgenza nella potenziale reiterabilità della lesione, discendente non solo e non tanto nella astratta idoneità della clausola nulla a essere inserita in nuovi stipulandi contratti perfezionati con il richiamo alle medesime condizioni generali di contratto, ma soprattutto nella capacità delle clausole contestate di continuare a produrre i loro effetti in quanto inserite in contratti di durata, aggravando in tal modo il prospettato effetto pregiudizievole a carico dei consumatori. Ebbene, nel caso in esame non solo la clausola oggetto di doglianza è stata inserita nelle condizioni generali dei contratti stipulati e nell’esecuzione di essi è tuttora applicata (circostanza incontestata ex art. 115 c.p.c.), ma deve altresì rilevarsi come le banche resistenti non abbiano mai dedotto nel corso del procedimento di voler eliminare o correggere detta previsione dal testo delle convenzioni stipulande. Tali considerazioni, quindi, confortano non solo la legittimazione ad agire della ricorrente, ma anche la sussistenza dei presupposti per giustificare l’invocazione di
una tutela d’urgenza. Si tratta, a questo punto, di passare all’esame del merito della contestazione e, quindi, verificare se effettivamente l’art. l, comma 629, della legge n. l47/20l3, modificando il comma 2 dell’art. 120 t.u.b., abbia reso illegittima a decorrere dal 1° gennaio 2014 qualsiasi prassi anatocistica nei rapporti bancari e, per quanto qui di interesse, abbia vietato l’addebito di interessi anatocistici passivi. La norma testualmente dispone: “All’articolo 120 del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, il comma 2 è sostituito dal seguente: «2. Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale»”. Al di là del rimando a una successiva delibera del CICR, di cui si dirà infra, la portata dispositiva della norma si racchiude in quanto articolato alle lettere a) e b), trattandosi di paletti invalicabili nella disciplina tecnica che potrà essere
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adottata in via secondaria. Quanto al primo punto, il legislatore ha indicato come necessario che gli interessi, tanto debitori che creditori, siano conteggiati con la medesima periodicità; l’utilizzo del termine “conteggiati” allude inequivocabilmente a una mera operazione contabile, rivolta in sostanza a indicare con quale periodicità gli interessi debbano essere quantificati e, quindi, siano suscettibili di essere annotati in conto, con tutte le possibili conseguenze che ne discendono sotto il profilo della loro esigibilità (sia pure da parte del solo cliente della banca ex art. 1852 c.c.), anche in una prospettiva di mera compensazione fra interessi di segno opposto. Alla lettera b) il legislatore ha, invece, voluto chiarire i limiti del conteggio indicato al punto precedente, precisando che gli interessi così conteggiati e, quindi, annotati in conto, se in tal modo vengono capitalizzati, ossia come si è detto sono suscettibili di essere pagati nei limiti sopra indicati, in ogni caso non possano produrre interessi ulteriori, che viceversa, vanno conteggiati solo sul capitale originario. In sostanza la norma circoscrive la portata della capitalizzazione degli interessi periodicamente conteggiati, escludendo che tale operazione contabile possa consentire alcun prodotto anatocistico. L’interpretazione esposta deve considerarsi vincolata non solo e non tanto in considerazione e alla
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luce dei dati ermeneutici desumibili dalla relazione parlamentare al disegno di legge (inequivocabilmente diretta a vietare in radicc qualsiasi forma di anatocismo nei rapporti bancari), nonché dall’implicita rinnovata manifestazione di volontà del legislatore in tal senso, desumibile dalla scelta di non convertire in legge il d.l. 24 giugno 2014, n. 91, il quale aveva reintrodotto la legittimità dell’anatocismo bancario (sia pure imponendo una periodicità di capitalizzazione non inferiore all’anno); ma soprattutto tale interpretazione si impone in forza del dato letterale della norma, in quanto se è vero che il legislatore non ha esplicitato il significato attribuito al termine “capitalizzare”, apparentemente utilizzato contraddittoriamente, altrettanto vero è che il dato normativo è lapidario là dove precisa che gli interessi non possano produrre ulteriori interessi, che viceversa vanno conteggiati solo sulla sorte capitale. La norma, pertanto, non può che essere intesa come rivolta a vietare l’anatocismo nei rapporti bancari, di fatto introducendo in tale ambito una disciplina speciale più rigorosa della normativa ordinaria dettata dall’art. 1283 c.c. (con l’effetto che, se dal 2000 al 2013 la normativa speciale era rivolta ad ammettere nei rapporti bancari l’anatocismo in misura più ampia rispetto alla regola generale, oggi l’art. 1283 c.c. è derogato per i rapporti bancari in termini di maggior
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rigore, capovolgendo la disciplina previgente). Si tratta, tuttavia, di verificare se tale innovazione legislativa sia effettivamente decorrente dall’1 gennaio 2014 o, viceversa, necessiti per la sua operatività del successivo intervento di formazione tecnica secondaria ad opera del CICR, come sostenuto dalle banche resistenti. A detta di queste ultime, supportate da parere espresso dalla stessa Banca d’Italia, il nuovo comma 2 dell’art. 120 t.u.b. rimarrebbe sospensivamente condizionato all’intervento del CICR, in conformità al rimando effettuato nella parte introduttiva della norma. La tesi non può essere condivisa, se solo si consideri che, una volta riconosciuto come l’articolo in esame vieti in toto l’anatocismo bancario, nessuna specificazione tecnica di carattere secondario potrebbe limitare la portata o disciplinare diversamente la decorrenza del divieto, pena diversamente opinando ammettere che una norma primaria possa in tutto o in parte o anche solo temporaneamente essere derogata da una disposizione secondaria ad essa sotto ordinata. Per ragioni sostanzialmente equivalenti non potrebbe neppure essere condivisa la tesi che vorrebbe rimettere al successivo intervento del CICR la stessa interpretazione del nuovo comma 2 dell’art. 120 t.u.b., in quanto così
facendo si vorrebbe attribuire a un organo del potere esecutivo il compito di attribuire significato a un atto legislativo, in palese violazione dei più elementari principi in materia di separazione dei poteri dello Stato. Peraltro, il fatto che il legislatore del 2013 abbia rimesso al CICR di stabilire “modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni paste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria” e non più “modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi”, come previsto nel previgente comma 2 dell’art. 120 t.u.b., comunque consente uno spazio di manovra di una disciplina tecnica secondaria da parte del Comitato interministeriale, chiamato a specificare la disciplina sulla materia degli interessi in generale e non più sui soli interessi anatocistici, come si è visto ormai vietati. Se, pertanto, si deve concludere come effettivamente dall’1 gennaio 2014 non sia più consentita alcuna prassi anatocistica nei rapporti bancari, deve rilevarsi come la condotta serbata dai due istituti di credito resistenti, i quali pacificamente hanno continuato ad addebitare interessi anatocistici passivi anche dopo la novella, concreti quel comportamento contrario ai doveri di correttezza nei rapporti contrattuali che l’art. 2, lett. e) cod. cons. annovera fra i diritti fondamentali del consumatori e alla cui tutela sono legittimate le
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associazioni consumeristiche. Per tali ragioni, pertanto, in totale riforma dell’ordinanza cautelare impugnata, deve essere accolta la domanda diretta a scongiurare che la prosecuzione della condotta lesiva posta in essere dalle due banche convenute possa protrarre il danno ingiusto arrecato agli interessi dei consumatori. Misure adeguate per soddisfare l’esigenza di tutela espressa sono, quindi, innanzitutto l’ordine diretto a inibire ex art. 140 lett. a) cod. cons. all[e banche resistenti] di dare corso a qualsiasi ulteriore forma di capitalizzazione degli interessi passivi con riferimento ai contratti di conto corrente già in essere o che verranno in futuro stipulati con consumatori e appartenenti alle tipologie individuate dalla ricorrente e che di seguito si indicano: (…). Vertendosi in ambiti commerciali in cui la pubblicità del provvedimento può senz’altro contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate, secondo quanto indicato dall’art. 140, lett. c), cod. cons., va ordinato alle resistenti di provvedere entro 15 giorni dalla pubblicazione del presente provvedimento a inserire sulla home page del rispettivo sito web avviso riportante il dispositivo della presente ordinanza; nonché di darne comunicazione nel medesimo termine a ciascun correntista consumatore con le stesse modalità contrattualmente pattuite per la trasmissione degli estratti conto.
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Per le medesime finalità di cautela, infine, va ordinato alle resistenti di curare entro 30 giorni la pubblicazione a proprie spese in dimensioni non inferiori a mezza pagina del dispositivo dell’ordinanza sui quotidiani “Il Corriere della Sera”, “La Repubblica” e “Il Sole 24 Ore”. Le esigenze cautelari sopra evidenziate, compatibili con un potenziale nocumento in termini economici circoscritti, quanto a ciascun cliente consumatore, non impongono la previsione di penali per il ritardo nell’ottemperanza alle prescrizioni impartite con la presente ordinanza, non risultando le stesse indispensabili al fine di assicurare la tutela alla quale è preordinata l’ordinanza in parola. Le spese del procedimento, compreso la fase di prime cure, seguono la soccombenza, con l’effetto che le odierne resistenti vanno condannate a rifondere in via tra di loro solidale la reclamante della somma complessiva di euro 6.440,00, oltre iva e cpa. (Omissis) IV (Omissis) All’esito dell’udienza di discussione, il Collegio osserva: 2) la legittimazione attiva dell’Associazione (…) rispetto al ricorso d’urgenza de quo è fondata sulla disposizione di cui all’art.
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139 cod. cons., che prevede la legittimazione delle associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell’elenco di cui all’art. 137 ad agire ai sensi dell’art. 140, a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti nelle materie trattate dal codice, “oltre a quanto disposto dall’art. 2” ed oltre alle ipotesi specificamente previste alle lettere a) e b) del primo comma dell’articolo in questione. Quanto al requisito soggettivo, l’inserimento dell’Associazione (…) nell’elenco di cui all’art. 137 è provato dal decreto del 19.12.13 prodotto dalla parte ricorrente (doc. n. 2). Con riferimento alla legittimazione ad agire ex art. 140, occorre esaminare se l’azione di inibitoria della capitalizzazione degli interessi passivi applicati dalla banca resistente sul conto corrente (…) in forza di una clausola contrattuale, di cui si assume l’illegittimità, sia riconducibile alle ipotesi contemplate dall’art. 139 e dall’art. 37, per le quali l’Associazione è legittimata ad agire ex lege, a tutela degli interessi collettivi dei consumatori. La legittimazione di cui all’art. 37 presuppone che la clausola che prevede l’anatocismo possa considerarsi clausola vessatoria, secondo quanto previsto dagli artt. 33 e seguenti. Tale assunto non è condivisibile, posto che non è ravvisabile uno squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti nella clausola relativa alla capitalizzazione con pari perio-
dicità degli interessi attivi e passivi (la vessatorietà della clausola anatocistica era stata, invece, affermata dalla giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, quando la clausola prevedeva la diversa periodicità della capitalizzazione degli interessi attivi e passivi, che determinava uno squilibrio tra le parti contrattuali); né detta clausola è sussumibile in alcuna delle ipotesi di cui all’art. 33. Quanto all’art. 139, nella parte in cui prevede la legittimazione ad agire delle associazioni di cui all’art. 137 nei casi previsti dall’art. 2, il Collegio rileva, in primo luogo, che tale ultima disposizione riconosce ai consumatori ed agli utenti, tra l’altro, il diritto “alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali” (lett. e). Ora, l’applicazione della clausola anatocistica – che parte ricorrente assume essere divenuta illegittima a seguito della novella dell’art. 120 t.u.b. – attiene specificatamente alla “correttezza … dei rapporti contrattuali”, considerato che la nozione di correttezza dei rapporti contrattuali comprende tutte quelle condotte contrarie alla buona fede, tra cui è annoverata anche l’applicazione di una clausola contrattuale divenuta illegittima per intervento del legislatore. Né è condivisibile la prospettazione [della banca], che esclude la legittimazione attiva della ricorrente sul presupposto dell’inidoneità di una disposizione nulla a violare il
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diritto alla correttezza dei rapporti contrattuali. Ed, invero, il dovere di correttezza e buona fede oggettiva costituisce espressione di un principio di solidarietà sociale prevista dall’art. 2 Cost., che impone di comportarsi, anche a salvaguardia dell’interesse della controparte contrattuale, secondo canoni di reciproca lealtà, non espressamente tipizzati, ma enucleabili volta volta a seconda del programma contrattuale in essere. Se, quindi, la violazione di tali doveri è riscontrabile anche in assenza di una specifica disposizione normativa, a fortiori, in astratto, l’applicazione di una disposizione normativa divenuta nulla costituisce essa stessa violazione del dovere di buona fede nei termini sopra indicati. A tale proposito, i giudici di legittimità hanno osservato che “il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 della Costituzione, impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico delle parti contrattuali, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge; ne consegue che la sua violazione costituisce di per sé inadempimento e può comportare l’obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato” (v. Cass. civ. n. 21250/08;
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v. anche Cass. civ. n. 2855/2005). Ne deriva che l’applicazione di una clausola contrattuale divenuta nulla in ragione dello ius superveniens integra una condotta senza dubbio contraria a buona fede e correttezza, in quanto consente il sorgere ed il consolidarsi di rapporti contrattuali contra ius. Per quanto concerne, poi, il carattere collettivo dell’interesse, è sufficiente osservare che la clausola in questione è inserita tra le condizioni generali del conto corrente […], ossia di un conto corrente non solo rivolto ad un’indeterminata collettività, al pari dei conti correnti tradizionali, ma anche che, proprio per la caratteristica di essere online, ha un ancora maggiore grado di diffusività, tenuto conto della sempre maggiore pervasività degli strumenti informatici. Ne consegue che sussiste certamente la legittimazione attiva dell’[Associazione], associazione dedicata a garantire effettività al diritto alla correttezza dei rapporti contrattuali che – in ragione dell’applicazione di una clausola nulla in quanto non adeguata alla mutata disposizione legislativa in punto anatocismo – ben possono essere fonte di danni per i consumatori; essendo dato ovvio il possibile passaggio di un rapporto di conto corrente da una condizione attiva ad una condizione passiva, con conseguente addebito della clausola anatocistica superata in ragione dello ius superveniens.
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Né, infine, la legittimazione attiva può essere esclusa in ragione del petitum di cui al ricorso, indirizzato a colpire la disposizione normativa de qua limitatamente all’addebito di interessi passivi. Legittimamente, infatti, l’odierna ricorrente ha chiesto l’inibitoria con riferimento agli addebiti dei soli interessi passivi, come, del resto, consentito dall’art. 127 t.u.b., che ammette la derogabilità delle disposizioni del titolo VI “solo in senso più favorevole al cliente”, e che afferma che “le nullità previste operano soltanto a vantaggio del cliente”, in coerenza con il favor verso il consumatore nell’ambito delle condizioni contrattuali delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Deve quindi essere riconosciuta la legittimazione dell’associazione ricorrente ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori alla correttezza, intesa come legittimità, dei rapporti di conto corrente. Una volta affermata la piena legittimazione attiva dell’odierna parte ricorrente, debbono essere vagliati i presupposti attinenti al fumus boni iuris ed all’urgenza. 3) Con riguardo al fumus boni iuris, è necessario prendere le mosse dal dato normativo di cui all’art. 1, comma 629, l. n. 147/13 che così recita: “il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’atti-
vità bancaria, prevedendo in ogni caso che: a. nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b. gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”. Ora, mentre il legislatore al punto a) ha preso in esame il conteggio degli interessi debitori e creditori, stabilendone la stessa periodicità, al punto b) ha chiarito che gli interessi così conteggiati in ogni caso non possono produrre ulteriori interessi che vanno, quindi, calcolati esclusivamente sul capitale. La disposizione in esame non può che leggersi, quindi, nel senso della rigorosa esclusione dell’anatocismo nei rapporti bancari, sulla base della mera interpretazione letterale, in forza della quale è difficile assegnare all’espressione “gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre interessi ulteriori” significato diverso dall’esclusione dell’anatocismo; ciò anche alla luce della correlazione con il successivo periodo, che impone di calcolare gli interessi capitalizzati, ossia annotati in conto, esclusivamente sulla sorte capitale. In tal senso depone anche il raffronto con la precedente versione del comma 2 dell’art. 120, che rimetteva al CICR di stabilire criteri e modalità “per
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la produzione di interessi sugli interessi scaduti”, espressione che all’art. 1283 c.c. definisce l’anatocismo, e che oggi non è più riproposta nella norma in esame, che si limita a parlare di “produzione di interessi”. Tale interpretazione è peraltro coerente con la relazione di presentazione della proposta di legge alla Camera, nella quale era espressamente chiarito che la proposta di legge intendeva sancire l’illegittimità della prassi bancaria dell’anatocismo. Non solo, ma la voluntas legis è ulteriormente riscontrabile nella mancata conversione in legge dell’art. 31 d.l. n. 91/14, il quale aveva reintrodotto la legittimità dell’anatocismo bancario. Orbene, a fronte di simili risultanze, non è condivisibile l’opzione proposta dalla banca resistente, che ha escluso l’immediata precettività della norma e ne ha subordinato l’applicabilità ad un intervento di normazione secondaria ad opera del CICR. Ed, invero, gli interrogativi circa la mancata capitalizzazione, la sorte degli interessi attivi con relativa capitalizzazione, il conteggio degli interessi di mora in aggiunta alle rate già comprensive degli interessi come ad esempio nei contratti di mutuo ed in quelli di leasing (come esemplificativamente assunto dalla reclamata a pag. 12 della memoria di costituzione) sono del tutto svincolati dal paletto invalicabile imposto dal legislatore ed incentrato sull’esclusione dell’ana-
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tocismo bancario e costituiscono, per l’appunto, il terreno sul quale si misurerà l’intervento del CICR. Ed, infatti, se, certamente, non può trascurarsi l’anomalia prima facie di interessi che, una volta capitalizzati, possono essere infruttuosi, vi è anche da rilevare come ben possa essere data evidenza contabile ad un saldo finale modulato separatamente con riferimento allo stato passivo e attivo del conto capitale e degli interessi maturati sullo stesso nel medesimo arco temporale, senza che questi ultimi possano essere incorporati nel primo per le operazioni contabili conseguenti: ad avviso del Collegio è, infatti, proprio in tale ambito che deve essere confinato l’intervento regolamentare del CICR, cui è assegnato lo specifico compito di esprimersi in ordine alle specifiche tecniche bancarie contabili, senza, tuttavia, disporre in termini diversi dal divieto di anatocismo, che, pertanto, è da ritenersi operante a decorrere dall’1.1.14. Né possono ricavarsi elementi di segno contrario dalla riforma dell’art. 120 t.u.b. di cui al d.lvo n. 342/99, che rimandava a futura delibera CICR di stabilire “modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati”; ciò in quanto in quel caso la norma di legge dava legittimità ad una prassi anatocistica vietata dal codice civile, sulla scorta di una granitica giurisprudenza di legittimità e di merito, con la conse-
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guenza che non vi era alcuna urgenza nel rendere operativa con norma regolamentare una modalità di conteggio degli interessi più gravosa per il correntista. Nel caso in esame, invece, l’eliminazione legislativa dell’anatocismo è destinata ad operare nelle operazioni bancarie in corso a vantaggio del correntista e, proprio sempre e in forza del principio del favor per il consumatore di matrice comunitaria, ampiamente applicato nell’ordinamento positivo, non può una norma regolamentare procrastinare l’entrata in vigore di una simile disposizione di legge. L’esame del fumus comprende anche la necessaria verifica circa la correttezza dell’operato dell’istituto bancario odierno resistente, che, pur dopo l’entrata in vigore della legge sopra citata, ha continuato ad applicare la clausola anatocistica secondo le modalità di cui alla precedente delibera CICR del 9 febbraio 2000: ciò al fine precipuo di accertare se un simile operato possa essere considerato non scorretto alla luce della disposizione normativa citata che, sulla scorta di alcune opinioni dottrinarie, necessiterebbe di un ulteriore intervento normativo, sia pure anche solo in termini meramente attuativi di secondo grado. La verifica deve articolarsi su due versanti, dovendosi, da un lato, rilevare il grado di pretesa oscurità della nuova disposizione legislativa e, dall’altro, eventuali direttive impartite o circolari emanate da Ban-
ca d’Italia. Quanto al primo profilo, si osserva che la disposizione di legge, pur con un’indiscutibile ambiguità quanto al significato ed alla portata del riferimento alla capitalizzazione degli interessi di cui al punto a), è comunque chiara nell’escludere ogni forma di anatocismo, per quanto sopra detto con riguardo al punto b). Né ragionevolmente emerge una qualche forma di subordinazione logica o temporale del dato normativo ad un successivo intervento regolamentare del CICR. Quanto al secondo profilo, il Collegio osserva come nessuna circolare o raccomandazione sia stata emanata a tale proposito dalla Banca d’Italia, che, come Autorità di Vigilanza, si occupa ex art. 5 t.u.b., dell’osservanza delle disposizioni normative in materia di trasparenza e correttezza, mediante richiesta di documentazione, ispezioni, monitoraggio dei siti internet, interventi di sensibilizzazione e richiami, irrogazione di sanzioni. A tale proposito, il Collegio è a conoscenza di un parere espresso dalla Banca d’Italia e comparso esclusivamente sulla rivista giuridica online Il Caso.it, nel quale l’Autorità di Vigilanza, in risposta ad un esposto del 17 ottobre 2004, avrebbe affermato che, poiché la legge n. 147/13 ha riformulato parzialmente l’art. 120 t.u.b., “le modalità ed i criteri di attuazione del nuovo quadro normativo sono attualmente in via di definizione”. Ora, è significativo puntualizzare,
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in primo luogo, che il predetto parere – si ribadisce consultabile solo sulla citata rivista e non sul sito istituzionale di Banca d’Italia – non ha carattere di raccomandazione generale, non essendo stato diffuso ed essendo rivolto solo all’interlocutore che aveva inoltrato specifica richiesta; in secondo luogo, che dal contenuto di tale affermazione, per come riportata, non emerge affatto alcuna indicazione circa la permanenza in vigore della clausola anatocistica, come disegnata dalla delibera CICR del 9 febbraio 2000. Una volta eliminato ogni plausibile intervento di raccomandazione dell’Organo di Vigilanza – alla luce del quale potrebbe essere diversa la valutazione circa la non scorrettezza della condotta della banca – è agevole concludere come, sulla scorta della mera interpretazione letterale del dato normativo de quo, gli istituti di credito ben possano escludere dalle condizioni economiche qualsiasi clausola anatocistica, sia per i contratti in essere, sia per quelli ancora da stipulare. È, difatti, ragionevolmente esigibile, da parte di un operatore professionale qualificato come un istituto di credito, dotato di uffici legislativi interni e direzionali, una condotta prudenziale che è, oltre tutto, in linea con il favor per il consumatore, come ormai introdotto da oltre un ventennio di disposizioni legislative e regolamentari anche nel settore bancario. La
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scelta, invece, di mantenere in essere una disposizione contrattuale a seguito dell’intervento abrogativo del legislatore concreta quella condotta omissiva che, proprio per le competenze specialistiche esigibili dall’operatore professionale, è contraria alla correttezza dovuta nei rapporti contrattuali ed evidenziata proprio dal disallineamento rispetto al testo di legge. Ad avviso del Collegio, pertanto, non sussistendo alcuna giustificazione della condotta omissiva dell’odierna resistente, non può concludersi che per la scorrettezza dell’operato [della banca]. Da ciò deriva il positivo riscontro del fumus boni iuris, costituito dalla violazione del dovere costituzionalmente rilevante di operare secondo correttezza. 4) Quanto al requisito dell’urgenza, il Collegio osserva che significativamente il comma 8 dell’art. 140 cod. cons. così statuisce: “nei casi in cui ricorrono giusti motivi d’urgenza, l’azione inibitoria si svolge a norma degli articoli da 669-bis a 669-quaterdecies del codice di procedura civile”. Orbene, tale dicitura, distinguendosi nettamente dal “pregiudizio imminente e irreparabile” richiesto dal legislatore al fine dell’accoglimento del ricorso ex art. 700 c.p.c., impone all’interprete la ricerca di un contenuto diverso che dia ragione di simile differenza. Ad avviso del Collegio, i giusti motivi di urgenza di cui alla disposizione citata deb-
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bono essere letti nell’ambito della cornice europea di cui alla Direttiva 98/27/CE del 19 maggio 1998, che ha più volte sancito la necessità di assicurare una tutela tempestiva degli interessi dei consumatori, giungendo a far coincidere l’effettività della tutela anche, tra l’altro, con la sua tempestività. In una tale direzione induce il secondo considerando della direttiva de qua, che, significativamente, pone l’accento sulla necessità di un tempestivo intervento prima legislativo e poi giurisdizionale per assicurare la cessazione delle violazioni degli interessi collettivi dei consumatori, con l’impiego dei seguenti termini: “considerando che i meccanismi esistenti attualmente sia sul piano nazionale che su quello comunitario per assicurare il rispetto di tali direttive non sempre consentono di porre termine tempestivamente alle violazioni che ledono gli interessi collettivi dei consumatori”. Ed, ancora, l’art. 2 della direttiva, intitolato “provvedimenti inibitori” codifica le finalità proprie dei procedimenti de quibus, evidenziando la necessità di: “a) ordinare con la debita sollecitudine e, se del caso, con procedimento d’urgenza, la cessazione o l’interdizione di qualsiasi violazione; b) se del caso, prevedere misure quali la pubblicazione, integrale o parziale, della decisione, in una forma ritenuta adeguata e/o la pubblicazione di una dichiarazione rettificativa al fine di eliminare gli effetti perdu-
ranti della violazione; c) nella misura in cui l’ordinamento giuridico dello Stato membro interessato lo permetta, condannare la parte soccombente a versare al Tesoro pubblico o ad altro beneficiario designato nell’ambito o a norma della legislazione nazionale, in caso di non esecuzione della decisione entro il termine fissato dall’organo giurisdizionale o dalle autorità amministrative, un importo determinato per ciascun giorno di ritardo o qualsiasi altro importo previsto dalla legislazione nazionale al fine di garantire l’esecuzione delle decisioni”. Orbene, proprio tenendo presenti gli obiettivi del legislatore comunitario, il presupposto di cui all’art. 140, comma 8, deve essere inteso in termini decisamente più ampi rispetto al pregiudizio irreparabile di cui all’art. 700 c.p.c.: ed, infatti, è utile porre l’attenzione alla corrispondente terminologia comunitaria che, con il ricorso al concetto di “debita sollecitudine” ed all’espressione “se del caso con procedimento d’urgenza”, legittima un’interpretazione decisamente estensiva delle ipotesi applicative del procedimento d’urgenza, in ragione delle specifiche esigenze consumeristiche volta volta esaminate. In particolare, reputa il Tribunale che “i giusti motivi di urgenza” debbano tenere conto delle concrete esigenze di una collettività indeterminata di consumatori, che dall’applicazione di una norma divenuta nulla può subire pre-
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giudizi concreti, che difficilmente possono trovare puntuale ristoro. Una lettura a maglie più ampie del presupposto in questione, quindi, assicura quella tempestività di tutela che meglio risponde alle tempistiche del mercato, spesso non coincidenti con i tempi processuali. Ammettere, quindi, una maggiore ampiezza nella valutazione del requisito in questione significa, nel caso in esame, evitare il protrarsi di situazioni contra legem ed il cristallizzarsi di danni, il risarcimento dei quali si appalesa costoso e, di conseguenza, disincentivante, tenuto conto di valutazioni economiche del tutto legittime. Così ragionando, infatti, la funzione inibitoria assegnata dal legislatore all’azione spiegata ai sensi dell’art. 140, comma 8, svolge una funzione preventiva rispetto al prodursi dei predetti danni, imponendo agli istituti di credito un obbligo di astensione per l’avvenire da comportamenti accertati come antigiuridici. Obbligo di astensione dall’inserimento nei nuovi contratti e dalla reiterata applicazione in quelli già stipulati di una disposizione pattizia riproducente un testo normativo abrogato. Nello stesso senso si sono, del resto, già pronunciati alcuni giudici di merito, rilevando come l’azione inibitoria consumeristica rappresenti un’ipotesi eccezionale di tutela preventiva “per la cui esperibilità non necessita neanche la ricorrenza del presupposto del danno
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risarcibile. Emerge con evidenza, inoltre, come l’azione inibitoria, secondo la volontà del legislatore comunitario e nazionale, riguardi interessi non di natura individuale, bensì collettiva, la cui estensione rappresenta il parametro normativo indispensabile per valutare non solo la fondatezza della pretesa attivata, ma anche il pericolo che un intervento ritardato svuoti nella sostanza la ratio della tutela” (Trib. Roma, 23 maggio 2008; Trib. Roma, 17 aprile 2009). Sulla base delle sopra esposte motivazioni, risulta, pertanto, integrato il presupposto dell’urgenza dell’inibitoria esperita. 5) Rimane, infine, da affrontare, sul fronte dell’accoglimento del ricorso, il tema delle modalità di attuazione della richiesta inibitoria. A tale proposito, il ricorso deve essere accolto, ovviamente, nella parte relativa alla inibitoria di ogni forma di capitalizzazione degli interessi passivi maturati nell’ambito del contratto […]; restano assorbite le ulteriori richieste relative all’inibitoria della predisposizione, diffusione, utilizzo ed applicazione dell’art. 6 delle condizioni generali di contratto e di ogni analoga clausola adottata negli altri contratti di conto corrente e nei fogli informativi delle condizioni economiche. Con riferimento, invece, all’effettività dell’inibitoria ed alla pubblicità da assegnare all’ordinanza di accoglimento – rimedi previsti dall’art. 140, comma 1, lett. b) e c)
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e comma 8 cod. cons. – il Tribunale rileva come l’ampiezza delle disposizioni legislative de quibus consenta al giudice, mediante misure atipiche, di fornire la risposta più adeguata al caso in esame e più aderente ad un’effettiva protezione degli interessi dei consumatori. A tale proposito, la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha già osservato “come secondo una costante giurisprudenza in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascun Stato membro stabilire le modalità procedurali per garantire la salvaguardia dei diritti di cui i soggetti godono ai sensi dell’ordinamento comunitario in forza del principio dell’autonomia processuale degli Stati membri a condizione tuttavia che tali modalità non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario” (Corte di Giustizia della Comunità europea causa C-168/05). Trasfondendo tali principi nel caso di specie, quindi, è certamente da accogliere l’ordine alla resistente di pubblicare sulla home page del proprio sito internet avviso con il dispositivo della presente ordinanza diretto ad informare tutti i consumatori che, con decorrenza 1° gennaio 2014, per il contratto di conto corrente denominato […], è vietata qualsiasi forma di anatocismo riferita agli interessi passivi. Non deve essere,
invece, accolta la richiesta circa l’informativa ad ottenere, per ogni correntista, il ricalcolo del saldo del proprio conto corrente, trattandosi di diritto soggettivo nella disponibilità di ogni singolo consumatore. Deve, inoltre, essere ordinato alla resistente di inviare comunicazione avente le stesse modalità di trasmissione degli estratti conto e, quindi, cartacea per gli estratti inviati in via cartacea, online per gli estratti comunicati per posta elettronica, diretta ad informare tutti i consumatori che, a partire dal 1° gennaio 2014, è vietata ogni clausola anatocistica riferita agli interessi passivi. È necessario, infine, anche l’accoglimento dell’ordine di pubblicare il dispositivo della presente ordinanza su tre quotidiani a diffusione nazionale. A tale proposito, il Tribunale reputa necessaria la pubblicazione del dispositivo sui quotidiani “Il Corriere della Sera”, “La Repubblica”, “Il Sole 24 Ore”, avuto riguardo alla diffusione sia territoriale, sia sociale delle tre testate giornalistiche, ed alla nota attenzione alle questioni economiche riservata da “Il Sole 24 Ore”. Ritiene necessario e sufficiente disporre la pubblicazione in dimensioni non inferiori a mezza pagina, in considerazione del pur necessario risalto da assegnare ad una questione interpretativa dotata di rilevante tecnicismo, non immediatamente percepibile dal consumatore medio, ma ciò non
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di meno, foriera di non trascurabili pregiudizi economici. Non si ravvisano, invece, i presupposti per la previsioni di penali per ogni inadempimento o per ogni giorno di ritardo nell’osservanza del presente provvedimento.
Le spese processuali, sia del primo, sia del secondo grado, comprensive degli esborsi del contributo unificato, seguono la soccombenza e sono liquidate nei termini di cui al dispositivo.
(1-15) L’art. 120, comma 2, t.u.b. fra ordinanze di tribunale e modifiche normative. Sommario: 1. L’evoluzione dell’art. 120, comma 2, t.u.b. – 2. Il pre-giudizio. – 3. Le ordinanze. – 4. Questioni di merito. – 5. Profili comunitari. – 6. Le nuove Istruzioni di vigilanza in tema di trasparenza. – 6. Le nuove Istruzioni di vigilanza in tema di trasparenza.
Un’associazione dei consumatori ha citato in giudizio talune banche per ottenere l’inibizione di clausole determinative degli interessi, contenute in contratti di conto corrente aperti a consumatori e asseritamente contrarie al disposto del vigente art. 120, co. 2, t.u.b., in via d’urgenza ai sensi dell’art. 140, co. 8, cod. cons. Il procedimento cautelare si compone di un’ordinanza monocratica e di un’ordinanza collegiale che decide sul reclamo della prima. Si sono qui raggruppate talune delle decisioni collegiali (rubricate tutte sotto la data dell’udienza) che offrono un quadro delle questioni in discussione e degli esiti relativi; va detto però che la maggioranza delle ordinanze è a favore delle tesi avanzate dall’associazione istante1. Nonostante ciò, si ritiene utile esporre in sede di commento alcuni degli argomenti della tesi minoritaria, sia per meglio valutare la sostenibilità dell’altra, sia perché la qurelle è tutt’altro che conclusa, essendosi aperta la fase dei procedimenti di merito volta a consolidare il decisum in sede cautelare.
1 Senza alcuna pretesa di completezza nella rassegna, alle tesi delle ordinanze milanesi si sono adeguate le ordinanze dello stesso Tribunale del 16 settembre 2015 e del 5 agosto 2015; sulla stessa linea si sono posti, con analoghi provvedimenti, i Tribunali di Biella (17 settembre 2015), di Cuneo (7 agosto 2015) e di Roma (16 ottobre 2015).
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1. L’evoluzione dell’art. 120, comma 2, t.u.b. Il comma 2 dell’art. 120 t.u.b. costituiva la risposta legislativa al revirement della Cassazione che, dopo decenni di diversa e pacifica interpretazione, disconosceva all’uso di cui all’art. 1283 c.c., il ruolo di fondamento legittimo della deroga al divieto di anatocismo per le banche, disponendo che a detto uso si sostituisse una delibera del CICR e che questa delibera stabilisse la pari periodicità fra interessi attivi e interessi passivi, in modo da eliminare la precedente prassi di interessi attivi per le banche riscossi trimestralmente e di interessi passivi pagati annualmente. Con la delibera CICR del 9 febbraio 2000, che dava attuazione alla norma primaria, l’anatocismo veniva ad assumere un assetto nuovo e più equilibrato, in modo da consentire anche alle banche italiane di continuare a praticare questa tecnica contabile, senza che dovessero residuare, almeno per il futuro, profili problematici significativi. L’art. 120, comma 2, t.u.b. è stato modificato utilizzando una normativa fuorviante quanto a sedes materiae (la legge di stabilità), ma di questo sarebbe ingenuo stupirsi. Poiché l’approvazione della legge di stabilità 2014 doveva avvenire, come accade ormai da molti anni, per voto di fiducia e si doveva quindi comprimerne l’articolato, l’art. 1 comprendeva, fin dal d.d.l. iniziale, i commi 584-585 sulla portabilità (dopo i telefonini e i mutui) dei servizi di pagamento da un conto a un altro (disposizione abrogata dal comma 19 dell’art. 2 del d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito nella legge 24 marzo 2015, n. 33), e il comma 630, che stabiliva l’obbligatorietà dell’adesione delle banche di credito cooperativo al loro sistema di garanzia dei depositanti; nel corso della discussione venne inserito il comma 629 che sostituiva il co. 2 dell’art. 120 t.u.b.; la legge veniva approvata con il n. 147 del 27 dicembre 2013 ed entrava in vigore, come di consueto, dal 1° gennaio 2014. La disposizione introdotta con la legge di stabilità era di difficile comprensione e quindi la correlata delibera del CICR, che avrebbe dovuto completarla, era di assai complicata confezione. In questo contesto il Governo, cogliendo l’occasione, ancora una volta, di un decreto-legge di tutt’altro contenuto, sostituisce di nuovo il co. 2 dell’art. 120 t.u.b. (con l’art. 31, co. 1 del d.l. n. 91/2014, recante «Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea») e inserisce di nuovo nell’ordinamento la capitalizzazione, sia pure diversamente modulata. Peraltro nel corso dei lavori di conversione, appare
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subito particolarmente complicato il mantenimento della disposizione, tanto che essa viene bocciata in Commissione bilancio e definitivamente espunta in sede di legge di conversione 11 agosto 2014, n. 116. Residua però l’approvazione, nella seduta della Camera del 6 agosto 2014, dell’ordine del giorno n. 9/2568-AR/13 che impegna il Governo «ad adottare le opportune iniziative legislative in materia di calcolo degli interessi sugli interessi, in modo tale da allineare l’Italia alle prassi internazionali, correggere le incertezze operative e i vuoti di disciplina dovuti alla vigente normativa e aumentare la trasparenza dei tassi per i clienti, prevedendo che la produzione degli interessi sugli interessi nelle operazioni in conto corrente o in conto di pagamento (nei limitati casi ammessi dal CICR) non possa avvenire con periodicità inferiore all’anno». Insomma, la Camera, potere legislativo che, per la sua parte, ha approvato il “divieto di anatocismo bancario”, impegna il Governo a farsi promotore di un provvedimento di segno contrario: non è il massimo della coerenza né della chiarezza, ma anche di questo è ingenuo stupirsi.
2. Il pre-giudizio. Prima di procedere con l’analisi delle decisioni da commentare, preme, sempre in un ambito che ormai potrebbe definirsi “cronachistico”, se vogliamo risparmiare l’abusato aggettivo “storico”, segnalare le valutazioni emerse nel corso di una riunione tenutasi, in data 6 febbraio 2014, dai magistrati di tribunale addetti alla VI sezione civile, raccolte nella “Relazione riunione sezione”, firmata dal Presidente e diffusa successivamente. L’importanza della corte, la nettezza delle opinioni avanzate, il riflesso che tali opinioni hanno avuto sulle questioni sottoposte alla giurisdizione della sezione ne rendono particolarmente interessante l’esame. Questa attività interna alla sezione (particolarmente solerte rispetto all’entrata in vigore del nuovo co. 2 dell’art. 120 t.u.b. e in grado quindi di smentire la presunta lentezza della giustizia) si inquadra nell’ambito applicativo dell’art. 47-quater del r.d. 30 gennaio 1941 (“Ordinamento giudiziario”), rubricato “Attribuzioni del presidente di sezione”, in cui si dice che il presidente di sezione, fra le altre funzioni, cura «lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno della sezione»: è in questa logica infatti che sembra essere stata convocata la riunione, avviata la discussione in ordine all’art. 120 t.u.b. e stilata poi la Relazione. Si tratta di un documento di conclusioni condivise, valutate in vitro, cioè senza alcun riferimento a un caso concreto ma che possono riprodurlo perfettamente, almeno
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per le questioni di diritto evocate. Insomma, quanto meno un “pregiudizio” nel senso letterale del termine, cui sono sottoposte le banche chiamate avanti a quel Tribunale. Vediamo allora i contenuti della Relazione. Vi si afferma: «la sezione ritiene che, al di là delle espressioni contraddittorie usate, sia indubbia l’intenzione legislativa di abolire l’anatocismo nei contratti bancari; lo si ricava dai seguenti rilievi: a. esplicita è la relazione di presentazione della proposta di legge alla Camera: «la presente proposta di legge intende stabilire l’illegittimità della prassi bancaria in forza della quale vengono applicati sul saldo debitore i cosiddetti interessi composti, o interessi sugli interessi (…); la proposta di legge, che per la prima volta tipizza l’improduttività degli interessi composti, intende mettere la parola fine a un comportamento riconosciuto illegittimo dalla giurisprudenza, ma costantemente tollerato dal legislatore»2; b. l’espressione «produzione di interessi sugli interessi maturati», già presente al co. 2 dell’art. 120 t.u.b., è stata sostituita dall’espressione «produzione di interessi»; c. alla lett. b) del co. 2 il dato saliente è il principio secondo cui «gli interessi ulteriori (…) sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale»; d. alla lett. b) la norma è certamente contraddittoria nella parte in cui menziona interessi «periodicamente capitalizzati», ed esclude la capitalizzazione nelle successive operazioni, facendo intendere un’operazione se non altro iniziale di capitalizzazione; ciò tuttavia non può ricorrere, dato che una volta capitalizzati gli interessi, ossia divenuti capitale, gli stessi non potrebbero che produrre interessi ulteriori; e. verosimilmente l’espressione “capitalizzazione” è impropriamente usata come sinonimo di “conteggio”, in quanto una capitalizzazione anche solo iniziale degli interessi conteggiati renderebbe invisibile che sull’importo capitalizzato maturino ulteriori interessi; una definitiva esclusione dell’anatocismo sembra invece realizzabile solo se, alla concordata scadenza contabile periodica, si proceda separatamente al conteggio algebrico delle poste capitale, in entrata e uscita, e al conteggio algebrico degli interessi attivi/passivi maturati nel singolo periodo con-
2 Davvero singolare l’immagine di un legislatore che tollera qualcosa negato dalla giurisprudenza: ma la magistratura non dovrebbe applicare la legge e non viceversa? Opera una strana inversione logica il Tribunale, che considera il legislatore subordinato agli arret dei giudici.
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tabile, mantenendo anche nel prosieguo colonne di conteggio separate, per il capitale da un lato e per gli interessi dall’altro; f. la previsione che, ai sensi degli artt. 1823 e 1852 c.c., sia inesigibile il credito della banca sino alla chiusura del conto, dovrebbe comportare che solo alla chiusura definitiva del conto potrà procedersi alla somma algebrica del saldo capitale e degli interessi attivi e passivi conteggiati ad ogni chiusura periodica; se invero fosse consentito che, alla scadenza di ciascun periodo contabile, si potesse compensare l’interesse passivo maturato con l’eventuale attivo in conto, si avrebbe un inammissibile “pagamento” del credito della banca, in violazione della sua inesigibilità sino alla chiusura del conto3; g. intesa la nuova norma nei suddetti termini, sembra ultronea la previsione di cui alla lett. a), essendo irrilevante che il conteggio degli interessi sia effettuato contabilmente ogni mese, ogni trimestre, oppure annualmente, dato che nella colonna separata degli interessi va calcolato l’interesse a debito (o credito) giornaliero su ciascun saldo debitorio (o creditorio) giornaliero, per poi sommare alla chiusura del conto tutti i saldi d’interesse giornalieri; effettuare un conteggio con cadenze periodiche annuali o infrannuali (da sommare a fine conto) non modificherà il saldo degli interessi dovuti, ma potrà avere unicamente un effetto di visibilità, e consapevolezza, per il correntista»4.
3 Sembra porsi una sorta di identità fra conto corrente ordinario e conto corrente bancario, predicando per entrambi la esigibilità del saldo solo al momento della chiusura del conto. In realtà, sono proprio gli artt. 1823 e 1852 c.c. a marcare una delle differenze fondamentali fra le due tipologie di conto, dove per l’uno il saldo è indisponibile fino alla chiusura del rapporto, mentre per l’altro è disponibile «in qualsiasi momento». Sulla base di questo equivoco, la Relazione prosegue sostenendo che l’affidato deve pagare gli interessi maturati (e contabilizzati) solo a chiusura del rapporto, vale a dire: la banca mette a disposizione una somma, il cliente la utilizza e gli interessi li paga quando si chiude il conto. Presupposto e conseguenze della tesi sostenuta sembrano a dir poco originali. 4 Ciò detto, la Relazione puntualizza ancora: a) «la sezione ritiene che la previsione normativa sia cogente, anche prima dell’emanazione di futura delibera Cicr, affermando il principio che non sia più possibile, a decorrere dal 1.1.14, che gli interessi maturati producano ulteriori interessi; b) il Cicr potrà esprimersi circa le specifiche tecniche bancarie contabili, eventualmente differenziando a seconda delle diverse tipologie di contratti bancari (es. contratti di conto corrente, mutui, finanziamenti, leasing, ecc.), ma non potrà disporre diversamente dal divieto di anatocismo, che si reputa operante dal 1.1.14 sia per i contratti in corso, sia per i contratti futuri; c) è vero che, in esito alla riforma dell’art. 120 T.u.b. di cui al D.L.vo 342/99, che pari-
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Si è riprodotta nel dettaglio la Relazione, perché su di essa si sono attestate le argomentazioni di molte delle ordinanze annotate, sicché al commento di queste ultime si rinvia per un’analisi di alcune delle affermazioni contenute nella Relazione medesima.
3. Le ordinanze. Di fronte a una lettura della norma così chiaramente manifestata, non sorprende che le controversie in materia siano state incardinate in primo luogo innanzi al giudice che tale lettura aveva fornito. Per la verità, fondandosi su motivi di legittimazione, il ricorso a monte delle due prime ordinanze collegiali annotate era stato respinto dal giudice milanese per motivi di rito5 e solo a seguito del reclamo c’è
menti rimandava a futura delibera Cicr di stabilire “modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati”, tale delibera è intervenuta il 9.2.2000, stabilendo che la stessa fosse operativa, per i contratti in corso, solo a decorrere dal 1.7.2000, ma deve considerarsi che in quel caso la norma di legge dava legittimità a una prassi anatocistica che il codice vietava (come si era espressa la giurisprudenza con pronunce consolidate), e che pertanto non si poneva alcuna urgenza nel rendere operativa, con norma regolamentare, una modalità di conteggio interessi certamente più costosa per il correntista; d) nel caso di specie, invece, l’eliminazione legislativa dell’anatocismo è destinata a riflettersi nelle operazioni bancarie in corso a vantaggio del correntista, e non si può ritenere legittimo che una norma regolamentare possa protrarne nel tempo l’entrata in vigore, a danno del correntista nel cui interesse la norma di legge è stata emanata; e) nell’immediatezza se ne dovrà tenere conto in sede di pronunce monitorie, quando la chiusura del conto, in esito a lettera di recesso della banca, e conseguente passaggio a sofferenza del saldo debitorio, porti una data successiva al 1.1.2014 (potrà sospendersi la pronuncia, chiedendo che la banca conteggi e sottragga gli interessi anatocistici maturati dal 1.1.14 in avanti)». 5 L’ordinanza del 12 gennaio 2015 (poi riformata in sede di reclamo) adduceva le seguenti principali motivazioni: a) l’art. 139 cod. cons. indica, nelle sue varie disposizioni una serie di materie per le quali ammette la competenza delle associazione consumeristiche che non comprendono l’anatocismo, così come non lo comprende la disciplina della commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori di cui alla parte III, titolo III, capo I, sez. IV-bis cod. cons.; b) i ricorrenti fanno altresì rinvio alle pratiche commerciali scorrette (di cui l’anatocismo sarebbe un esempio), che sono quelle contrarie alla diligenza professionale, false o idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio. Ma qui l’addebito – precisa il Tribunale milanese – «è quello di aver continuato ad applicare una chiara e palese clausola contrattuale relativa
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stato un ribaltamento di questi motivi e un accoglimento del merito. Le questioni affrontate dalle quattro ordinanze in commento riguardano la legittimazione del ricorrente; la sussistenza dei motivi di urgenza; la sussistenza del fumus boni iuris. Dopo un breve cenno sui primi due argomenti, si darà maggior spazio alle questioni di merito. La legittimazione del ricorrente si fonda sulla base dell’art. 2, lett. e) cod. cons., che rinvia «alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali». Sul punto vale la pena rilevare che una clausola determinativa di interessi, quale quella di cui si è ottenuta l’inibitoria, non può costituire una pratica commerciale scorretta ovvero una pratica «contraria alla diligenza professionale» o «falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo, qualora la pratica commerciale sia diretta ad un determinato gruppo di consumatori»6: tutto ciò non si attaglia per
all’anatocismo che sarebbe divenuta illecita a causa della citata novella normativa: tale condotta esula completamente dai concetti di contrarietà alla diligenza professionale, falsità, ingannevolezza o aggressività»; c) l’art. 37 cod. cons., anch’essa invocata dai ricorrenti, consente alle associazioni di consumatori di chiedere l’inibizione dall’uso di clausole di cui sia accertata l’abusività ai sensi del titolo in cui l’art. 33 si trova (“clausole vessatorie”). Come è noto, sono vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, ma nel caso di specie – argomenta il Tribunale – non ricorre questa situazione per le clausole di capitalizzazione, una volta che esse sono state riequilibrate attraverso la pari periodicità della capitalizzazione fra interessi debitori e interessi creditori. Inoltre, conclude il giudicante, nell’elenco delle clausole vessatorie non è prevista quella regolante l’anatocismo; trattandosi di disposizione a contenuto economico non è vessatoria (cfr. art. 34, comma 1, cod. cons.); per trasparenza nel contratto bancario devono essere presenti clausole relative ai prezzi del servizio reso. In conclusione, la disciplina dettata in favore del consumatore, e la legittimazione delle relative associazioni, è volta ad assicurare una speciale tutela avanzata per contrastare quelle condotte e pratiche che, pur non violando precise disposizioni di legge, tuttavia sono espressione di un abuso ai danni del contraente debole. Invece, termina il Tribunale, «la fattispecie denunciata nel ricorso è un’altra. Secondo [l’Associazione] la clausola che prevede l’anatocismo passivo sui c/c sarebbe divenuta illecita a partire dal 1/1/2014. Conseguentemente ciascun correntista ha pieno diritto di agire per far accertare l’illiceità e chiedere la ripartizione dell’indebito nelle forme ordinarie, o anche tramite azione di classe, ai sensi dell’art. 140-bis c.p.c. Nella presente fattispecie, invece, non sussiste alcuna delle ipotesi di legittimazione delle associazioni dei consumatori ai sensi del codice del consumo. Deve quindi essere dichiarata l’inammissibilità dei ricorsi e ciò preclude l’esame del merito della controversia». 6 Così, ex plurimis, TAR Lazio, 17 novembre 2013, n. 8313, in Dir. e giur. agr. e am-
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nulla a una clausola contrattuale come quella in esame7. In secondo luogo, sempre la clausola in esame non integra gli estremi della clausola vessatoria e quindi non legittima le associazioni dei consumatori all’inibitoria ai sensi dell’art. 37 cod. cons. Infatti, considerata la definizione di clausola vessatoria di cui all’art. 33, co. 1, cod. cons., sembra difficile poter ascrivere al novero di tali clausole una pattuizione determinativa di interessi che prevede una pari periodicità (per il cliente e per la banca) per la capitalizzazione degli interessi maturati sul conto corrente ed una espressa e specifica approvazione per iscritto, così come disposto dal d.lgs. 342/1999 e dalla delibera CICR del 9 febbraio 2000. Per di più, l’art. 34, comma 2, cod. cons. dispone che la valutazione del carattere vessatorio delle clausole «non attiene (…) all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi», come accade invece per la clausola degli interessi, che dovrebbe considerarsi sottratta anche sotto questo aspetto alla qualificazione di “vessatoria”»8.
biente, 2014, 137, cui adde TAR Lazio, 31 maggio 2011, n. 4909, in Rass. dir. farmaceutico, 2012, 560; Cons. St., 5 settembre 2011, n. 5000, in Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 2826. 7 Del resto, esattamente in questi termini aveva opinato il Tribunale milanese nell’ordinanza 12 gennaio 2015 (poi riformata in sede di reclamo dall’ordinanza collegiale del 25 marzo 2015), laddove aveva affermato che «il riferimento alla correttezza nei rapporti contrattuali (lett. e dell’art. 2 cit.) richiama la normativa comune di cui agli articoli 1175, 1375, 1337, 1338 e 1366 c.c.: si tratta quindi della esigenza che le condotte del professionista siano improntate alla correttezza, specie nelle fasi di informazione, esecuzione ed interpretazione del contratto stipulato, ma la formulazione della norma non autorizza alcun riferimento al contenuto delle clausole contrattuali», ovvero, nella fattispecie de qua, «alla sua asserita invalidità per contrasto con norma imperativa». 8 Né è sufficiente a far saltare questo “equilibrio” l’obiezione che esso sarebbe apparente e non sostanziale perché le banche mantengono i conti della clientela o sempre creditori o sempre debitori, sicché non avrebbe mai modo di funzionare in concreto la predicata pari periodicità, che rimarrebbe un flatus vocis. A sostegno di questo equilibrio soltanto apparente si richiama di solito la giurisprudenza in materia di recesso (Trib. Roma, 21 gennaio 2000, in Banca, borsa, tit. cred., 2000, II, 207; App. Roma, 7 maggio 2002, in Corr. giur., 2002, 1493), dove prevedere gli stessi giorni di preavviso per la banca e per il cliente integra una bilateralità solo formale quando si tratti di un finanziamento. Qui però l’assimilazione non funziona perché la clausola anatocistica è davvero equilibrata, non ricorrendo una situazione concreta come quella del recesso, e anzi, per la non vessatorietà milita il fatto che la giurisprudenza formatasi prima dell’introduzione della pari periodicità, riteneva vessatorie le clausole di capitalizzazione “zoppe” (tre mesi contro un anno), proprio perché «è indubitabile che la banca, nel negare il ricalcolo del saldo del conto corrente espungendo la capitalizzazione trimestrale (…) effettua ancora – sia pure limitatamente ad una parte del rapporto – una unilaterale capitalizzazione degli interessi (…) e la vessatorietà della detta clausola, quanto allo squilibrio, appare del resto confermata dalla stessa previsione contenuta nell’art. 120 t.u.b. e dalla successiva
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Circa la sussistenza dei motivi di urgenza, le stesse massime in commento rendono evidente il diverso orientamento che le ordinanze hanno sul punto. La questione sta nel ricorrere o meno dei “giusti motivi di urgenza” di cui al comma 8 dell’art. 140 cod. cons., che non coincidono con il pregiudizio irreparabile chiesto dal codice di rito per i provvedimenti d’urgenza. E tuttavia, pur scontando questa diversità, non può non esistere, anche qui, il pregiudizio che i consumatori dovrebbero subire se non vi fosse il provvedimento cautelare, giacché altrimenti sarebbe infondato il ricorso a procedure come quella di cui al comma 8 dell’art. 140 cod. cons. Anche a non voler andare alla ricerca della irreparabilità delle conseguenze pregiudizievoli che il provvedimento intende evitare, va valutata, ai fini della sussistenza dell’urgenza, non tanto la circostanza che il presunto comportamento illecito sarebbe derivato il giorno stesso dell’entrata in vigore del nuovo art. 120, co. 2, t.u.b., cioè il 1° gennaio 2014, mentre la richiesta fatta valere nelle ordinanze in esame risale circa a un anno e mezzo dopo9, quanto piuttosto l’inesistenza del pregiudizio che si intenderebbe scongiurare adottando la via dell’urgenza. Esso infatti non si rinviene nell’ammontare delle somme addebitate alla clientela affidata a seguito del meccanismo anatocistico, somme decisamente poco elevate e cui le banche, caso di giudizio ordinario e di condanna, sono certamente in grado di fare fronte; senza contare poi che le banche stesse, una volta che il CICR abbia emanato la prescritta delibera, vi si adegueranno e, conseguentemente, applicheranno ai clienti il testo vigente (e attuato) dell’art. 120, co. 2, t.u.b., a far data dal giorno indicato nel provvedimento medesimo10.
delibera del CICR (…), la quale ha ammesso la capitalizzazione trimestrale solamente a condizione di reciprocità» (Trib. Palermo, 20 febbraio 2008, in Foro it., 2008, I, 2475). 9 È l’argomento che ritiene decisivo l’ordinanza torinese del 16 giugno 2015 (confermata con l’ordinanza collegiale qui annotata), la quale afferma che «proprio il decorso di un notevole lasso di tempo dall’inizio della condotta contestata (gennaio 2014), nella piena notorietà della condotta stessa, prima dell’introduzione del giudizio cautelare faccia venire meno quelle esigenza di tempestività dell’intervento giudiziale sottese alla necessità di tutela del consumatore». Va infatti valutato, in concreto, che il tempo trascorso è valso anche, per l’Associazione istante, a capire l’evoluzione della vicenda, l’atteggiamento del legislatore, l’attesa dell’intervento del CICR, le preventive diffide alle banche, sicché questo argomento potrebbe essere non decisivo, come del resto ritiene anche l’ordinanza torinese in commento. 10 In questa logica ancora una volta si ritrova l’ordinanza del Tribunale torinese del 16 giugno 2015, secondo la quale le considerazioni sull’esistenza del periculum in mora debbono essere valutate «alla stregua della natura degli interessi tutelati (trattasi di in-
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4. Questioni di merito. Si tratta del profilo più interessante dell’intera vicenda, giocato intorno alla tesi per cui il nuovo testo del comma 2 dell’art. 120 t.u.b., entrato in vigore a far data dal 1° gennaio 2014, conterrebbe un divieto di anatocismo bancario immediatamente applicabile, con la conseguenza che sarebbe illecito il comportamento tenuto dal sistema bancario di mantenere la capitalizzazione trimestrale degli interessi nonostante la sussistenza di tale divieto. In altri termini, per l’immediata operatività dell’art. 120 t.u.b. non sarebbe stata necessaria l’emanazione della prevista delibera del CICR. In particolare, il divieto di anatocismo sarebbe così evidente dal tenore letterale della nuova disposizione che sarebbe inutile attendere la delibera del Comitato, la quale non potrebbe recuperare alcun tipo di capitalizzazione ma al più fornire indicazioni tecniche di minor rilievo: di qui la sua inutilità ai fini dell’entrata in vigore del divieto. Preliminarmente conviene sgombrare subito il campo, a questo riguardo, dell’argomento consistente nella mancata conversione del d.l. n. 91/2014 di cui si è già detto supra al § 1. Per un verso, questo fatto confermerebbe la voluntas legis nel non reintrodurre l’anatocismo e quindi nel ribadire il divieto a far data dal 1° gennaio 2014 (vedi le due ordinanze milanesi qui in commento); per altro verso, al contrario, la circostanza che il legislatore sia intervenuto sul tema e, segnatamente, sia intervenuto stabilendo, con norma transitoria, che ai rapporti pendenti si applichi la delibera CICR del 9 febbraio 2000 starebbe a dimostrare che la modifica del 2014 non potrebbe dirsi autoapplicativa (così l’ordinanza del Tribunale di Parma, alla nt. 1). La diversa valutazione della circostanza in parola rende quest’ultima non decisiva, per non dire ambigua, ai fini delle argomentazioni che qui si espongono, sicché sembra miglior partito non attribuire a questo fatto un’importanza decisiva rispetto alla questione in esame: la vicenda della mancata conversione dell’articolo in esame e il successivo ordine del giorno votato dalla Camera segnano un’ulteriore conferma dell’incapa-
teressi di natura esclusivamente patrimoniali facilmente reintegrabili dalla convenuta), natura che, per quanto di per sé non certamente ostativa all’accoglimento dell’istanza cautelare ex art. 140 cod. cons., tuttavia contribuisce ad elidere il periculum in presenza di ulteriori elementi di segno avverso [ad esempio il tempo trascorso prima del ricorso], senza dimenticare l’esistenza di un’azione collettiva tipica per la tutela dei diritti patrimoniali dei correntisti (art. 140-bis cod. cons.) oltre che dell’azione inibitoria presentata in via ordinaria ex art. 140».
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cità del legislatore di tenere una linea coerente, anzitutto con se stesso. A. La formulazione della disposizione di legge. Il nuovo co. 2 dell’art. 120 t.u.b. ha la medesima struttura del previgente, vale a dire consiste in un ordine impartito dal legislatore al CICR di emanare una delibera: prima, una delibera per disciplinare la produzione di interessi sugli interessi; oggi, per disciplinare «la produzione di interessi». Che il risultato finale della disposizione legislativa in esame sia quello di eliminare l’anatocismo bancario non è dubbio; ma ciò può avvenire solo all’indomani della emanazione della delibera del Comitato. Allora, non dell’intimazione di un divieto si tratta, bensì del sollecito a un organo amministrativo perché perfezioni il disposto normativo e consenta un’applicazione corretta dello stesso. Il ritardo con cui detto organo si sta muovendo non è efficiente ai fini di un tempestivo completamento della disposizione normativa e la situazione così creatasi può produrre fastidio e insofferenza; ma il mancato o il ritardato intervento del CICR costituisce un inconveniente, non un argomento giuridicamente rilevante per interpretazioni non confortate dalla lettera e dallo spirito della disposizione, che conducono per di più alla presunta illiceità del comportamento tenuto dalle banche. Né questo carattere di “sollecitazione” e non di “ordine” può essere diversamente valutato da chi ricorda11 che il nuovo co. 2 dell’art. 120 t.u.b. è preceduto da una disposizione così formulata: «all’art. 120 t.u.b., il comma 2 è sostituito dal seguente», disposizione che sarebbe «nitida e, per la verità, non ha nulla di programmatico». Argomento poco consistente, anzitutto perché la norma nuova è introdotta sempre con questa formula rituale dal legislatore e la questione è la natura della norma nuova e non di quella che la introduce; in secondo luogo, perché la norma “introduttiva” rimane fuori dal testo della norma modificata, sicché non ha alcuna rilevanza sull’interpretazione di quest’ultima. L’argomento qui sostenuto è altresì avvalorato anche da un’altra considerazione. Assodata la medesima natura e la medesima struttura del nuovo e vecchio co. 2 dell’art. 120 t.u.b. (pur nella diversità dei contenuti), può essere interessante rammentare cosa è accaduto nel 1999 quando è stato introdotto per la prima volta detto comma. Accadde allora che il comma 2 dell’art. 25 del d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342 (“Modifiche al
Dolmetta, Sul transito dell’anatocismo bancario dal vecchio al nuovo regime, in IlCaso.it, 12 marzo, 2015, p. 5. 11
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d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle legge in materia bancaria e creditizia”) contenesse la formulazione: «dopo il comma 1 dell’art. 120 t.u. è aggiunto il seguente», che introduceva, per l’appunto il comma 2, vecchio testo. A parità di approccio semantico, però, le norme che, come quella dell’art. 25 (rectius dell’art. 120, co. 2, t.u.b.), abbisognavano di un intervento della normativa secondaria, si giovavano dell’art. 38 dello stesso d.lgs., a tenor del quale «i provvedimenti attuativi delle disposizioni contenute nel presente decreto legislativo sono emanati entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del decreto stesso», vale a dire dal 19 ottobre 1999. La differenza perciò, sotto questo profilo, fra vecchio e nuovo comma, è che solo per il primo il CICR era stato, per così dire, “messo in mora”, prevedendo un termine massimo per intervenire12. Il CICR raccolse la sollecitazione, emanò la delibera 9 febbraio 2000, stabilì le nuove modalità per la produzione di interessi sugli interessi nelle operazioni bancarie e, nell’art. 7 di detta delibera, affermò che «le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente delibera [cioè il 22 aprile, sessanta giorni dalla data di pubblicazione in G.U., avvenuta il 22 febbraio 2000, con il fascicolo n. 43] devono essere adeguate alle disposizioni in questa contenute entro il 30 giugno 2000 e i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1° luglio». Si è quindi sempre ritenuto pacifico che lo spartiacque fra anatocismo consentito e anatocismo vietato fosse costituito, per i contratti in essere all’epoca dell’introduzione del co. 2 dell’art. 120 t.u.b., dall’ultimo giorno del secondo trimestre del 2000, vale a dire né dalla data di entrata in vigore della legge primaria che introduceva l’art. 120, co. 2 t.u.b., né dalla data di entrata in vigore della norma amministrativa di corredo, bensì da quella, ancora successiva, da quest’ultima stabilita. Se insomma si è considerato illegittimo l’anatocismo regolato dagli usi fino al momento nel quale non si è completata la fattispecie legislativa avviata con l’introduzione del co. 2 dell’art. 120 t.u.b. (nonostante detto comma fosse entrato in vigore il 19 ottobre 1999), non si capisce perché non si dovrebbe considerare lecito l’anatocismo almeno fino al
Differenza peraltro più formale che sostanziale, se Dolmetta, Commento all’art. 38 d.lgs. 342/1999, in Le nuove modifiche al testo unico bancario, a cura di Dolmetta, Milano, 2000, p. 145, così chiosava il riportato art. 38: «si tratta, conformemente ai principi generali, di termine ordinatorio, disposto dal legislatore per autorizzare la successiva attività di normazione da parte dell’amministrazione». 12
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momento in cui sarà emanata la nuova delibera del CICR. Né sembrano decisive le considerazioni che sono state avanzate per giustificare una diversità fra vecchio e nuovo co. 2, quanto alla loro applicabilità. Nella menzionata Relazione, a firma del Presidente della sezione VI del Tribunale di Milano, si ricorda l’esperienza maturata nel 1999-2000, ma si avverte: «deve considerarsi che in quel caso la norma di legge dava legittimità a una prassi anatocistica che il codice vietava (come si era espressa la giurisprudenza con pronunce consolidate), e che pertanto non si poneva alcuna urgenza nel rendere operativa, con norma regolamentare, una modalità di conteggio interessi certamente più costosa per il correntista». Oggi, invece «l’eliminazione legislativa dell’anatocismo è destinata a riflettersi nelle operazioni bancarie in corso a vantaggio del correntista, e non si può ritenere legittimo che una norma regolamentare possa protrarne nel tempo l’entrata in vigore, a danno del correntista nel cui interesse la norma di legge è stata emanata». Questa posizione è stata del resto fatta propria dalla prima delle ordinanze qui in commento. Pare trattarsi di una lettura sociologicamente orientata del testo di legge, ma giuridicamente inappagante, nel senso che una disposizione non può essere diversamente valutata in funzione degli interessi che favorirebbe e ciò pur riconoscendo la giusta considerazione da attribuirsi al favor verso il consumatore. Altri hanno affermato che attendere il CICR non servirebbe perché il divieto di anatocismo è sancito di per sé dalla norma primaria, sicché la norma attuativa non potrebbe disporre mai nulla di contrario. Ciò è sicuramente vero, ma qui si discute non del significato della disposizione, ma della sua completezza. Anche nel 1999 il CICR non avrebbe potuto vietare l’anatocismo e non poteva che disciplinarne l’applicazione: non per questo però si è ritenuto che l’anatocismo divenisse legittimo con la sola entrata in vigore dell’art. 120, co. 2 t.u.b., senza attendere la delibera del CICR. Qui giunti, può essere utile verificare quale fosse allora (e quale sia provvisoriamente oggi) il contenuto della delibera del Comitato. B. Il contenuto della delibera del CICR Ritornando all’esperienza del 1999-2000, il presupposto dell’anatocismo era cambiato, passando dagli usi di cui all’incipit dell’art. 1283 c.c. (ritenuti insufficienti dal revirement della Cassazione) alla delibera del CICR. Il CICR nella delibera del 2000 ripercorse gli usi previgenti, ma ne dispose modifiche non marginali: prescrisse la clausola contrattuale come fondante dell’anatocismo e ne richiese l’approvazione esplicita; vietò l’anatocismo sul conto chiuso e così via. Queste prescrizioni non potevano essere desunte dal solo tenore letterale dell’art. 120, co. 2 t.u.b., né potevano essere “immaginate” prima dell’emanazione della delibera del 9 febbraio 2000.
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Oggi ancora non abbiamo la nuova delibera del CICR ma solo un documento di consultazione sul testo che la Banca d’Italia intende sottoporre al Comitato. Pur con questi limiti, è possibile affermare che talune indicazioni contenute nella delibera, se certo non fanno rinascere (e non potrebbero) l’anatocismo, completano la disciplina del divieto in modo da renderla applicabile. Valga un esempio per tutti: una volta che siano divenuti esigibili gli interessi maturati su rapporti regolati in conto corrente e su finanziamenti a valere su carte di credito, «il cliente può autorizzare l’addebito degli interessi sul conto o sulla carta; in questo caso, la somma addebitata è considerata sorte capitale». Certo questa prescrizione, non irrilevante nell’applicazione del “divieto di anatocismo”, non può essere che contenuta nella delibera attuativa del disposto di legge e non nel disposto stesso. C. L’“oscurità” della norma primaria e la funzione della delibera del CICR. La già citata dottrina13 ritiene che l’oscurità della disposizione primaria non può rappresentare un buon motivo per attendere la delibera del CICR, giacché siffatto argomento «sembra procedere dall’idea che il CICR abbia – in quanto tale (ovvero per sua propria, necessaria natura) – un potere “completativo” del contenuto precettivo delle norme di legge: idea, questa, che non pare fondata sui dati positivi del vigente sistema». Anzi, afferma la seconda delle ordinanze milanesi in commento, si vorrebbe in tal modo «attribuire a un organo del potere esecutivo il compito di attribuire significato a un atto legislativo, in palese violazione dei più elementari principi in materia di separazione dei poteri dello Stato». Riguardo a questa posizione, si ricorda che la ripetuta delibera del 2000 nelle premesse espressamente afferma di tener conto «dell’esistenza di diverse tesi sulla configurazione della fattispecie dell’anatocismo e dunque sull’ambito di applicazione dell’art. 1283 del codice civile». È fatto quindi non controverso che la delibera del CICR possa essere utile anche a orientare fra diverse opinioni e quindi a risolvere dubbi interpretativi sorti in ordine alla norma primaria. D. La presunta violazione della gerarchia delle fonti. Proseguendo nell’analisi dei motivi di merito che sostengono la tesi della inutilità della delibera del CICR al fine della attuazione concreta dell’art. 120, co. 2, t.u.b., occorre valutare l’argomento, a prima vista
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suggestivo, per cui una disposizione amministrativa non può impedire a una norma primaria di esplicare i suoi effetti. È quanto anche l’ordinanza del Tribunale di Cuneo del 10 agosto 2015 sostiene affermando che prevedere la necessità della delibera del CICR per ritenere applicabile l’articolo modificato “comporterebbe la violazione del sistema della gerarchia delle fonti così come voluta e disegnata nell’assetto costituzionale”. E con ciò si dà seguito alle ordinanze “di rito ambrosiano”. Viene qui in discussione il disposto dell’art. 161, comma 5, t.u.b., a mente del quale le disposizioni amministrative attuative di norme primarie abrogate o sostituite continuano ad essere applicate fino alla data di entrata in vigore di quelle emanate ai sensi delle nuove norme primarie. Con tale disposizione si risolve il problema del vuoto normativo che si determinerebbe a seguito delle abrogazioni di disposizioni primarie: da un lato, l’abrogazione delle disposizioni delegificate viene differita al momento dell’emanazione delle norme sub-primarie destinate a sostituirle; dall’altro, si prevede l’ultrattività, fino alla sostituzione, delle disposizioni di vigilanza emanate in base a norme di legge abrogate. Per effetto di tale disposizione, la delibera CICR 9 febbraio 2000 continua a trovare applicazione ed a regolare la materia di cui si controverte fino a quando non verrà sostituita da quella che il CICR emanerà in attuazione dei principi dettati dal nuovo art. 120, comma 2, t.u.b. E nello stesso senso si è espresso anche l’ordinanza torinese annotata, laddove ha precisato che «è sostanzialmente ininfluente che la legge 147/13 preveda l’entrata in vigore il 1° gennaio 2014, in quanto l’entrata in vigore della legge (per completezza osserva il Collegio che, trattandosi della legge di stabilità per il 2014 è ovvio che fosse entrata in vigore il 1° gennaio 2014) non esclude l’applicabilità dell’art. 161 t.u.b. cit., né la necessità dell’emanazione della delibera del CICR». La norma contenuta nel co. 5 dell’art. 161, t.u.b. assolve, infatti, alla fondamentale funzione di evitare interruzioni o lacune nella operatività dei rapporti bancari in presenza di una normativa “multilivello”, com’è quella che da tempo caratterizza l’attività bancaria e finanziaria, ad alto contenuto tecnico, che prevede il coinvolgimento delle autorità di settore anche nella definizione delle regole di attuazione (si pensi ad esempio alla normativa sull’usura). Come rilevato in dottrina, la singolarità della norma è solo apparente laddove la si consideri parte di un sistema nel quale «una nuova disposizione, in quanto norma sulla produzione, non può avere di per sé effetto caducante sugli atti adottati nel vigore della legge preesistente»; con la conseguenza che la nuova formulazione dell’art. 120, comma 2, t.u.b. – al pari di quella previgente – «in quanto contenente precetti da specificare in
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sede di normazione secondaria, non è immediatamente applicabile»14. Del resto, il meccanismo creato dalla disposizione qui richiamata è esemplato sul modello dell’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, il quale attribuisce a fonti amministrative secondarie l’attuazione e l’integrazione di leggi primarie15. Si tratta di una “filiera” di produzione normativa analoga a quella fatta propria dall’art. 161, co. 5, t.u.b. e per la quale non risultano censure per sospensione nell’applicazione di una disposizione di legge da parte di norma sottordinata e neppure per violazione del principio della gerarchia delle fonti. È evidente quindi che la norma secondaria non può modificare la primaria e quindi, nel caso di specie, il divieto di anatocismo non può essere disatteso; ma è pur necessario che detto divieto sia attuato dalla disciplina amministrativa di corredo16.
Così Montedoro, Commento all’art. 161 t.u.b., in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova, 1994, p. 795. La stessa posizione è stata confermata nell’ultima edizione dell’opera, stampata in quattro volumi per lo stesso editore nel 2012, dove l’a. (IV, p. 2562) precisa: «l’abrogazione immediata, per effetto della nuova normativa, interviene solo sulle previgenti fonti di produzione, mentre la vita dell’ordinamento sezionale sarà ancora regolata dalle “vecchie” disposizioni amministrative (che avranno vigore fino alla compiuta formulazione di un corpus di norme secondarie, regolamenti ed istruzioni, in linea con il nuovo sistema e con i principi della seconda direttiva CEE in materia bancaria)». 15 Il comma 2, oltre a disporre che «per la disciplina delle materie, non coperte da riserva assoluta di legge prevista dalla costituzione», è prevista l’adozione di d.P.R., aggiunge che «le leggi della Repubblica, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del governo, determinano le norme generali regolatrici della materia e dispongono l’abrogazione delle norme vigenti, con effetto dall’entrata in vigore delle norme regolamentari», il comma 3 del medesimo art. 17 stabilisce che «con decreto ministeriale possono essere adottati regolamenti nelle materie di competenza del Ministro o di autorità sottordinate al Ministro, quando la legge espressamente conferisca tale potere. Tali regolamenti, per materie di competenza di più Ministri, possono essere adottati con decreti interministeriali, ferma restando la necessità di apposita autorizzazione da parte della legge. i regolamenti ministeriali ed interministeriali non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo». 16 Non si comprende quanto affermato dalla menzionata ordinanza del Tribunale di Cuneo del 10 agosto 2015, secondo cui «non può trascurarsi come non si tratti nel caso di specie di una mera ‘abrogazione’ o di ‘modifica’, avendosi invece specifica previsione di un divieto che determina necessariamente la abrogazione, per incompatibilità, di tutte le norme dello stesso violative». Non si capisce in cosa si differenzia la fattispecie de qua da quelle per gestire le quali è stato previsto l’art. 161, co. 5, t.u.b.: infatti è proprio quando vi è l’abrogazione di una norma primaria che rende “incompatibile”, con detta abrogazione, le disposizioni secondarie che occorre attendere la modifica di queste ultime per evitare la lacuna regolamentare. È esattamente per situazioni come quella creata dal nuovo art. 120, co. 2, t.u.b. che serve il meccanismo della ultrattività delle 14
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E. L’art. 161, comma 5, t.u.b. sarebbe norma ormai “datata”. Secondo parte della dottrina l’art. 161, co. 5, t.u.b. avrebbe natura transitoria e riguarderebbe solo le norme (primarie) abrogate o sostituite dal d. lgs. n. 385/1993. Se così non fosse, infatti, si verrebbe ad assegnare al CICR «un libero potere di bloccare a tempo indeterminato l’entrata in vigore di una qualunque riforma bancaria (all’unica condizione che la stessa comunque preveda un intervento dell’Autorità amministrativa), come pure di concedere spazi sempiterni di ultrattività a norme di legge ormai venute meno. In realtà, la norma del comma 5 dell’art. 161 ha portata circoscritta, priva dell’ambizione di dettare (in modo assurdo) un regime generale di diritto transitorio bancario. A pensare diversamente, tra l’altro, la disposizione del comma 5 dell’art. 161 sarebbe incostituzionale ex artt. 70, 76, comma 1, 77 cost.»17. Si sono già esaminate le censure collegate con la presunta violazione del principio della gerarchia delle fonti e si è richiamata l’esperienza della legge n. 400/1988; residua l’altra critica collegata al presunto valore temporalmente e contenutisticamente circoscritto del principio di ultrattività delle disposizioni attuative stabilito dall’art. 161, co. 5, t.u.b.. Il fatto di essere circoscritto alle sole disposizioni primarie abrogate dal testo unico per un verso non eliminerebbe, se fossero veri, i timori di incostituzionalità del meccanismo che, pur limitato, sempre in violazione del dettato della Costituzione sarebbe; per altro verso, simile contenimento di effetti non trova fondamento nella lettera dell’art. 161, co. 5, t.u.b., che è formulata in termini generali e astratti18; per altro verso ancora, la dedotta interpretazione si rivelerebbe implicitamente abrogativa di una disposizione di legge, esito che i canoni ermeneutici, se non vietano, circondano di molto sospetto. Del resto, il d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72 (“Attuazione della direttiva 2013/36/UE in materia di accesso all’attività e di vigilanza prudenziale sugli enti creditizi”), all’art. 2, comma 2, così recita: «le delibere adottate
disposizioni amministrative. 17 Dolmetta, Sul transito, cit., p. 6. 18 Non convincono del tutto le contrarie affermazioni della richiamata dottrina: “come emerge dal testo del comma 5, e pure dal contesto dell’intero art. 161, la portata di tale disposizione è limitata alle norme ‘abrogate o sostituite’ dal decreto legislativo istitutivo del testo unico (n. 385/1993, mentre la riserva bancaria di anatocismo è stata eliminata dalla legge di stabilità per il 2014) e trova la sua ragion d’essere nell’ampiezza ed eccezionalità del rinnovamento normativo avvenuto in quella circostanza”: Dolmetta, Sul transito, cit., p. 6, nt. 8.
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dal CICR, i decreti emanati in via d’urgenza dal Ministro dell’economia e delle finanze – Presidente del CICR e i regolamenti emanati dal Ministro dell’economia e delle finanze ai sensi di norme abrogate o modificate dal presente decreto continuano ad essere applicati fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati dalla Banca d’Italia nelle corrispondenti materie. Rimane fermo, altresì, quanto previsto dall’art. 161, comma 5, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385». Una precisazione che, all’evidenza, non avrebbe senso se la portata precettiva della norma richiamata si fosse ormai esaurita. Non può «rimanere ferma» una disposizione che è implicitamente abrogata per aver esaurito la sua funzione19. Più o meno sulla stessa linea è stato osservato che il ripetuto co. 2, nel far riferimento alle modifiche apportate dal “presente decreto”, cioè da quelle di cui al d.lgs. 72/2015, assume un carattere di specialità, laddove il riferimento generico all’art. 161 t.u.b. lascerebbe impregiudicato lo stabilire cosa rimanga “fermo” della disciplina recata dall’art. 161, co. 5, t.u.b.. Anche siffatta critica affronta la questione del coordinamento dei due periodi di cui è composto l’art. 2 in esame: lodevole iniziativa, foriera magari di interessanti conseguenze (quale quella di dimostrare che il nostro legislatore non è tecnicamente attrezzato come dovrebbe, il che è a tutti noto), ma il punto da risolvere è chiedersi cosa voglia dire il secondo periodo, separato dal primo e avente una sua valenza autonoma. Domanda cui, si crede, sia semplice rispondere fondandosi sul
Tuttavia, per negare questa conclusione, la ripetuta ordinanza del Tribunale di Cuneo del 10 agosto 2015 afferma che l’art. 2 del d.lgs. 72/2015 avallerebbe piuttosto la tesi opposta a quella qui sostenuta perché dimostrerebbe «la necessità di specifica, nuova previsione in ogni ipotesi di riforma di particolari aspetti della materia (nel caso di specie l’accesso all’attività di vigilanza prudenziale – che è concetto specifico e circoscritto – sugli enti creditizi) e, conseguentemente che, in sua assenza, le disposizioni attuative emanate dalle autorità creditizie non possono che essere travolte. Tale necessità è tanto certa che anche nel ‘nuovo’ art. 120 t.u.b. si è sentita la necessità di prevedere espressamente nuova delega al CICR per le disposizioni attuative in materia, pur nel rispetto delle prescrizioni così come modificate». Se ben si comprende, la tesi del Tribunale di Cuneo sarebbe che, se vigesse l’art. 161, co. 5, t.u.b., non vi sarebbe stato motivo di scrivere la prima parte del surriportato co. 2, che detto articolo ripropone. Il punto però non è discutere sulla utilità o meno del primo periodo di cui si compone l’art. 2, ma semplicemente affermare la portata del secondo, che ribadisce inequivocabilmente (con la formula “rimane fermo”) la perdurante validità del disposto del testo unico bancario. E su questo “rimanere fermo”, fulcro della questione, il Tribunale non dice nulla, perché non c’è nulla da dire se non prendere atto che l’interpretazione che vuole circoscrivere la portata dell’art. 161, co. 5, t.u.b. è smentita dal legislatore. 19
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tenore letterale della disposizione: continua ad applicarsi (perché non si è mai smesso di farlo) il meccanismo di ultrattività delle disposizioni amministrative in presenza dell’abrogazione o della modifica delle norme primarie su cui le stesse si fondano. F. La delibera del CICR è necessaria perché l’art. 120 t.u.b. non può essere applicato secondo le scelte della singola banca. Come si è accennato, la prevalenza delle ordinanze ritiene che la emananda delibera del CICR non potrebbe mai dire qualcosa di diverso dalla norma primaria, cioè dal divieto di anatocismo bancario da essa stabilito. Poiché nessuna norma attuativa può contenere disposizioni di senso contrario a quella che attua, siffatta tesi postulerebbe che mai potrebbe essere subordinata l’attivazione di una norma primaria all’emanazione di una norma secondaria, il che è manifestamente contraddetto dalla realtà dell’ordinamento e, segnatamente, come rilevato, dall’art. 17 della legge n. 400/1988. Oltre a ciò, una simile posizione finirebbe per attribuire al sistema bancario una sorta di “fai da te applicativo”, nel senso che ogni banca, di fronte al divieto immediatamente attuabile dal 1° gennaio 2014, avrebbe dovuto darvi attuazione in ordine sparso e senza alcun coordinamento di sistema, per l’assenza della prescritta delibera del Comitato Interministeriale. È evidente infatti che, pur dando per acquisito che gli interessi maturati debbono essere contabilizzati separatamente, quando si vada ad applicare un simile precetto, si aprono una serie di possibilità alternative, che conducono a risultati economici ben differenti: di qui l’esigenza di criteri uniformatori, in assenza dei quali si apre la via a uno “spontaneismo” incerto e criticabile. Il “fai da te” non può essere consentito per ragioni che acquistano valenza strutturale dell’ordinamento bancario e giustificano una volta di più il meccanismo della ultrattività delle disposizioni di vigilanza sancito dall’art. 161, co. 5, t.u.b.: la generalità del tema dell’anatocismo, che interessa la assoluta maggioranza delle operazioni bancarie di raccolta e di impiego, investe importanti settori in cui l’uniformità nell’approccio operativo è assolutamente indispensabile. In tema di segnalazioni alla Centrale Rischi della Banca d’Italia, è ovviamente prevista anche quella del credito utilizzato, cioè dell’ammontare del credito erogato al cliente alla data di riferimento della segnalazione. A questo proposito le Istruzioni20 stabiliscono che detto ammontare
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Circolare della Banca d’Italia, n. 139 dell’11 febbraio 1991, 14° aggiornamento del
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corrisponde al capitale erogato comprensivo delle “competenze”, per spese e interessi, «maturate periodicamente sulle aperture di credito in conto corrente al saldo contabile di fine mese» e riferite «alla fine dei periodi di competenza, anche se contabilizzate in data successiva». È evidente che una simile prescrizione non avrà senso e non si saprà come correttamente attivarla laddove, in presenza di un divieto di anatocismo bancario in vigore, non si sapesse quando le competenze (comprensive degli interessi) maturano e quindi se e quando debbano venir segnalate in Centrale. Si dirà che questo è un tema che attiene solo indirettamente a quello del divieto in parola, ma sarebbe una valutazione superficiale, che non tiene nel giusto conto il complessivo equilibrio di un sistema bancario che, nel suo complicato e correlato tecnicismo, non può conoscere lacune o soluzioni non coordinate. Ancor più delicata e del pari collegata è la rilevazione dei tassi medi ai fini della pubblicazione trimestrale, da parte del Ministro dell’economia, del TEGM di ogni tipologia di operazione di affidamento. Nelle Istruzioni emanate dalla Banca d’Italia al riguardo, è previsto che, nel rilevare il Tasso Effettivo Globale per le proprie apertura di credito, ogni banca deve calcolare gli interessi che «sono dati dalle competenze di pertinenza del trimestre di riferimento, ivi incluse quelle derivanti da maggiorazioni di tasso applicate in occasione di sconfinamenti rispetto al fido accordato». Anche a questo riguardo l’osservazione è la medesima: la rilevazione – su cui si basa il TEGM pubblicato dai decreti trimestrali – non si può effettuare senza che sia fornita una uniforme spiegazione tecnica su come trattare gli interessi nell’apertura di credito dopo il divieto di capitalizzazione stabilito dall’art. 120, co. 2, t.u.b.. Sostenere quindi che il divieto di anatocismo bancario è norma in sé completa, che non ha necessità, per essere attuata, di alcun’altra disposizione, nemmeno della delibera del CICR pur espressamente prevista, è affermazione che non risulta corretta, alla quale possono opporsi le considerazioni fin qui svolte che, nella sostanza, si sintetizzano nei seguenti passaggi argomentativi: a) la struttura dell’art. 120, co. 2, t.u.b. rende chiaro che il divieto di anatocismo bancario ha necessità di una delibera del CICR per essere efficacemente adottato; b) solo attraverso la normativa secondaria può essere assicurato quell’uniforme criterio applicativo che, per l’importanza e la “trasver-
29 aprile 2011, cap. II, sez. IV., § 2.
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salità” della capitalizzazione, costituisce il presupposto imprescindibile per assicurare una tenuta soddisfacente all’intero sistema delle regole proprie delle banche e dell’attività bancaria; c) si configura così una conferma dell’importanza, proprio a livello di efficienza del sistema, del meccanismo predisposto, per l’ordinamento bancario, dall’art. 161, co. 5, t.u.b. (confermato dal d.lgs. 72/2015); in analogia con quanto consentito, a livello di ordinamento giuridico, dall’art. 17 della legge n. 400/1988. Posti in luce i contenuti delle ordinanze e i margini di opinabilità delle conclusioni cui giungono, prima di procedere alla valutazione di altri profili si ritiene utile osservare che, dopo le ordinanze in esame, il fronte anatocismo si è, almeno in punto di diritto, diviso in due, nel senso che vi è una tesi giurisprudenziale per la nullità immediata di ogni tipi di capitalizzazione, qualora la capitalizzazione attenga a un rapporto in conto corrente acceso con un consumatore; mentre non si registra nessuna novità sullo stesso fronte (e quindi si seguita a capitalizzare) laddove il rapporto sia intestato a soggetto diverso dal consumatore, non essendovi (ancora) per tale ultima tipologia di rapporto un orientamento analogo. Si tratta di una distinzione introdotta dalle ordinanze in esame, non propria del fenomeno in sé, che è sempre stato neutro, cioè riferito a tutte le operazioni bancarie, a prescindere dalla natura del cliente. Questa prospettiva genera una sorta di doppio binario difficile da percorrere da parte delle banche, sia per la variabilità delle relazioni nel corso del loro sviluppo (un soggetto potrebbe modificare la propria qualifica durante lo svolgersi del rapporto e pretendere per un periodo piuttosto che per un altro l’osservanza del divieto di anatocismo), sia per la difficoltà operativa di portare avanti due procedure informatiche da applicare parallelamente in funzione della tipologia del cliente.
5. Profili comunitari. In alcune delle ordinanze qui in esame è stata affrontata la questione se il divieto assoluto di capitalizzazione degli interessi nei contratti bancari sancito dalla prevalenza di dette ordinanze si ponga in contrasto con le norme e i principi del diritto comunitario. La questione, di per sé esistente, è stata sollevata sulla scia di una lettera inviata dalla Commissione europea al Governo italiano in data 12 giugno 2015, per chiedere chiarimenti sulla questione e dove si legge che «la capitalizzazione degli interessi, in particolare in operazioni quali l’apertura di credito in conto corrente, è pratica comune in tutti gli altri Stati membri dell’Unione, nessuno dei
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quali prevede un divieto simile a quello in questione». Secondo le Autorità comunitarie, infatti, «l’incertezza del quadro giuridico e l’esistenza di un divieto suscettibile di rendere più onerose e complicate alcune operazioni bancarie potrebbero tradursi in ostacoli ingiustificati alla prestazione di servizi bancari da parte di operatori stranieri che operano in Italia». Altrettanto esplicito è il richiamo della Commissione Europea alle criticità che la norma in esame presenta se valutata «alla luce delle regole del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea in materia di libera prestazione dei servizi, libertà di stabilimento e della libera circolazione dei capitali». Il giudizio della Commissione UE sulla compatibilità del nuovo art. 120, co. 2, t.u.b. con l’ordinamento comunitario rimane dunque sospeso in attesa che il Governo italiano fornisca i necessari chiarimenti «sulle ragioni della introduzione di tale divieto e sulla sua esatta portata», da valutare anche alla luce del provvedimento attuativo del CICR. Per completezza, va ricordato che, nell’iter di conversione in legge del d.l. n. 91/2014 il rappresentante della Banca d’Italia, a latere dell’audizione innanzi alle competenti Commissioni del Senato tenutasi il 9 luglio 2014, ha affermato che «qualsiasi paese che non abbia una legislazione islamica accetta l’applicazione degli interessi composti, nessuna economia di mercato può funzionare senza questo meccanismo»21, affermazioni che ribadiscono quanto dal revirement della Cassazione del 1999 si va dicendo, cioè che l’anatocismo è prassi nei paesi industrializzati e quindi è opportuno che l’Italia non si distacchi da essi, creando uno ius singulare foriero solo di difficoltà di mercato nei riguardi di una regolamentazione che deve di per sé (cioè a prescindere dall’azione del legislatore sovranazionale) porre l’omogeneità dei principi (se non della disciplina) fra paesi concorrenti come obiettivo imprescindibile, almeno evitando ipotesi di reverse discrimination. Dalla lettura della nota della Commissione sembra lecito trarre due conclusioni: la prima è che, anche secondo la Commissione europea, la norma primaria non può essere considerata immediatamente applicabile in assenza della disciplina secondaria che ne chiarisca la portata e ne definisca le modalità operative. La seconda, che un divieto assoluto di capitalizzare gli interessi nei rapporti bancari, di per sé, non sarebbe compatibile con i principi posti a fondamento dei Trattati e del diritto
21 Parole riportate in Balestrieri, Anatocismo, l’ora della verità. Assist di Bankitalia a Renzi: “Solo nei Paesi islamici non esiste”, in www.repubblica.it/economia del 9 luglio 2014.
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dell’Unione Europea. Questo secondo aspetto (anch’esso frettolosamente eliminato dalle ordinanze, che se ne sono occupate con motivazione assai sintetica) merita qualche ulteriore approfondimento anche alla luce della giurisprudenza comunitaria e delle specifiche caratteristiche presenti nell’attività bancaria. Infatti, stante il regime della capitalizzazione degli interessi vigente negli altri Stati membri dell’Unione22, il divieto di cui si discute costituisce un rilevante ostacolo alla operatività degli istituti di credito comunitari nel nostro Paese suscettibile di tradursi, a sua volta, in una ingiustificata restrizione del diritto di stabilimento sancito dall’art. 49 Trattato FUE, oltre che in una limitazione della libera prestazione dei servizi e della libera circolazione dei capitali previste rispettivamente dagli art. 56 e 63 del medesimo Trattato. Non è risolutiva infatti l’obiezione che si legge in talune delle ordinanze in commento, per cui manca a livello comunitario una disciplina comune (o comunque armonizzata) in materia di anatocismo e di capitalizzazione degli interessi nelle operazioni bancarie, onde ciascun Paese sarebbe libero di regolarsi come meglio crede in questa materia. È indubitabile – e la lettera della Commissione UE al Governo italiano lo conferma – che l’art. 120, co. 2, t.u.b. incida profondamente sulla operatività delle banche, avendo portata affatto generale in quanto estesa alla disciplina degli interessi in tutti i rapporti con la clientela. Se è vero dunque che non esiste una disciplina comune, a livello comunitario, in materia di computo degli interessi nei rapporti fra banche e clienti, non per questo il legislatore nazionale può dirsi libero di regolare a suo piacimento la materia senza tener conto dei vincoli che derivano dai principi del diritto comunitario in generale, e dalle direttive in materia di libera prestazione dei servizi bancari e finanziari, in particolare. In questo senso, non può sfuggire come i principi in tema di capitalizzazione degli interessi bancari introdotti dal nuovo resto dell’art. 120, co. 2, t.u.b., impongono a tutte le banche, non solo italiane, una serie di costi e di vincoli che non trovano riscontro nei Paesi membri dell’Unione e che appaiono prima face privi di autonoma giustificazione e di adeguata proporzionalità. Ne consegue che – come rilevato nell’ordinanza resa
22 Se ad applicare la capitalizzazione degli interessi siano tutti o non tutti gli Stati UE e sulla validità, al fine di risolvere questo dubbio, delle conclusioni recate dal rapporto “Study on interest rate restriction in the EU. Final report”, si rinvia a quanto ha avuto modo di rilevare l’ordinanza torinese annotata.
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dal Tribunale torinese – il divieto in esame costituirebbe «per le imprese di Stati membri diversi un serio ostacolo per la loro attività in Italia» e finirebbe inevitabilmente per ostacolare o comunque per rendere meno attraente per una banca estera la prestazione dei relativi servizi in Italia; il che, per diritto comunitario costante, è sufficiente a configurare una violazione dell’art. 56 del Trattato FUE23.
6. Le nuove Istruzioni di vigilanza in tema di trasparenza. Con provvedimento del 15 luglio 2015 la Banca d’Italia, un biennio dopo la conclusione della relativa consultazione, ha diffuso la nuova versione delle Istruzioni di trasparenza, procedendo, riguardo al tema
23 Cfr. ex multis, Corte di giustizia EU, IV Sez., sent. Costa e Cifone, 16 febbraio 2012, cause riunite C-72/10 e C-77/10. Tale principio è stato chiaramente affermato dalla Corte di Giustizia nel caso Caixa Bank France (richiamato anche dall’ordinanza del Tribunale torinese) dove, con specifico riferimento al divieto di remunerare i depositi in conto corrente previsto dalla normativa francese, i giudici comunitari hanno così statuito: «11. L’art. 43 CE impone l’abolizione delle restrizioni alla libertà di stabilimento. Devono essere considerate tali tutte le misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio di tale libertà (v., segnatamente, sentenze 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, Racc. pag. I-4165, punto 37; 1° febbraio 2001, causa C-108/96, Mac Quen e a., Racc. I-837, punto 26, e 17 ottobre 2002, causa C-98/01, Payroll e a., Racc. Pag. I-8923, punto 26). 12. Il divieto di remunerare i conti di deposito a vista, come quello dettato dalla normativa francese, costituisce per le società di Stati membri diversi dalla Repubblica francese un serio ostacolo all’esercizio delle loro attività in Francia tramite filiali, il che pregiudica il loro accesso al mercato. Conseguentemente, tale divieto si risolve in una restrizione ai sensi dell’art. 43 CE. 13. Infatti, tale divieto colpisce gli enti creditizi, filiali di società straniere, nella raccolta di capitali presso il pubblico, privandoli della possibilità di porre in essere, mediante la remunerazione dei conti di deposito a vista, una concorrenza più efficace nei confronti degli enti creditizi tradizionalmente operanti nello Stato membro di stabilimento, dotati di una rete di agenzie estesa e che dispongono, conseguentemente, di maggiori capacità, rispetto alle dette filiali, nella raccolta di capitali presso il pubblico. 14. In tal senso, per gli enti creditizi, filiali di una società straniera, che intendano fare ingresso sul mercato di uno Stato membro la concorrenza attuata per mezzo del tasso di remunerazione dei conti di deposito a vista costituisce uno dei metodi più efficaci a tal fine. L’accesso al mercato per questi enti viene quindi reso più difficile per effetto di tale divieto». Si tratta di considerazioni e di principi che si prestano a trovare applicazione anche con riferimento al divieto di capitalizzazione degli interessi introdotto dall’art. 120, co. 2, t.u.b..
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qui in discussione, ad espungere ogni riferimento alla capitalizzazione, sia dal testo delle Istruzioni sia dai fogli informativi e dagli altri strumenti di trasparenza. Dette Istruzioni entrano in vigore il 1° e non il 15 ottobre 2015, come ritiene il Tribunale di Parma nell’ultima delle ordinanze su riportate. Questa essendo l’incidenza sul tema fin qui esaminato delle Istruzioni in parola, nella confusione delle interpretazione e nell’ambiguità delle norme, questa damnatio memoriae dell’anatocismo è stata interpretata in vario modo. Intanto vien da dire che questa eliminazione è stata un po’ frettolosa, visto che le Istruzioni dovranno pur coordinarsi con quello che dirà la delibera del CICR e quindi dovranno essere comunque rielaborate perché (ancora una volta) a eliminare l’anatocismo non basta l’art. 120, co. 2, t.u.b.24. Peraltro, l’ordinanza del Tribunale di Parma deduce la conseguenza che la questione controversa sia ormai risolta, avendo l’Organo di vigilanza stabilito che dalla data del 1° (e non 15) ottobre 2015 i contratti
24 La Banca d’Italia aveva avuto modo di intervenire sulla questione controversa, sia pure in modo assolutamente incidentale, mediante la risposta a un esposto del 17 ottobre 2004 (pubblicata in IlCaso.it). In quella sede aveva affermato che «le modalità e i criteri di attuazione del nuovo quadro normativo [costituito dall’ultima versione dell’art. 128, comma 2, t.u.b.] sono attualmente in via di definizione», facendo intendere che finché non fossero stabiliti tali modalità e tali criteri non sarebbe possibile dirsi completato il nuovo quadro normativo. A siffatta interpretazione si è manifestata contraria la prima delle ordinanze annotate, svalutando sia la sostanza sia la forma della risposta, ritenendo che si trattasse di un parere non formale (consultabile solo sul sito internet di una rivista online), riferito e riferibile al solo soggetto che aveva posto il quesito, quindi privo del carattere di raccomandazione generale e ritenendo altresì che dal contenuto di detto parere «non emerge affatto alcuna indicazione circa la permanenza in vigore della clausola anatocistica, come disegnata dalla delibera CICR del 9 febbraio 2000», senza peraltro specificare cosa invece dal medesimo parere emerga. Anzi, poiché – apoditticamente – il parere è da intendersi nel senso che non indica la permanenza in vigore della delibera CICR del 9 febbraio 2000, il Tribunale imputa a un soggetto professionalmente attrezzato come la banca il comportamento omissivo di non aver fatto nulla all’indomani del 1° gennaio 2014, come la norma le imponeva: di qui la conclusione che la clausola anatocistica era diventata nulla e il comportamento del sistema bancario scorretto e contrario alla tutela del consumatore. Siffatta conclusione non è condivisibile perché il comportamento censurato era fondato non su una omissione, bensì su una diversa interpretazione della vicenda, incentrata sulla convinzione che il divieto di anatocismo bancario non fosse ancora operativo, in assenza di una delibera del CICR, non essendo possibile il “fai da te applicativo”. Si è in presenza quindi – lo si ripete – di una diversa interpretazione di dati normativi obiettivamente ambigui, che ha un grado di sostenibilità almeno pari a quella fatta propria dalle ordinanze “di rito ambrosiano”.
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debbono adeguarsi al divieto di anatocismo bancario. Se non si è mal compreso il passaggio dell’ordinanza in esame (peraltro non determinante ai fini del decisum che viene motivato sull’assenza di periculum in mora), si ritiene che le nuove Istruzioni in qualche modo surroghino la delibera del CICR, stabilendo il momento in cui può dirsi operativo ed efficace il nuovo art. 2 dell’art. 120 t.u.b. Se questa è la portata del passaggio argomentativo del Tribunale di Parma, qualche dubbio lo fa sorgere. E ciò perché le Istruzioni di vigilanza in tema di trasparenza non sono la delibera del CICR richiesta dalla nuova norma di legge, ma anche e soprattutto perché le Istruzioni non forniscono le risposte che si aspettano dalla delibera, ovvero le indicazioni che debbono completare il divieto anatocistico, approntando per il sistema bancario quanto necessario per un rispetto efficiente ed uniforme di detto divieto. Del pari, in senso opposto non si può desumere dall’eliminazione dei riferimenti alla capitalizzazione, l’implicita affermazione che il divieto sancito dall’art. 120, comma 2, t.u.b. sia già attuale e operativo. Infatti, le Istruzioni – aggiornate periodicamente e che quindi cercano di tener conto di quello che è avvenuto e che sta per avvenire (nonché dei ritardi con i quali vengono elaborati i testi dei provvedimenti) – hanno eliminato i rinvii alla capitalizzazione proprio nella convinzione che prima del prossimo aggiornamento il disposto del menzionato articolo sarebbe stato completato dalla delibera del CICR. Se quindi non si può dire che la data del 1° ottobre sia quella dalla quale il divieto di anatocismo diviene operativo, così non si può dire che le Istruzioni riconoscano come già operativo detto divieto eliminando il rinvio alla delibera del CICR del 9 febbraio 2000.
7. La proposta di delibera CICR posta in consultazione dalla Banca d’Italia. A fine agosto 2015 la Banca d’Italia ha posto in consultazione, fino al 23 ottobre successivo, la proposta di delibera al CICR per dare attuazione all’art. 120, co. 2, t.u.b.. Si è già avuto occasione di osservare come detta proposta – sicuramente tardiva, che ha consentito la creazione di un vuoto normativo che la magistratura ha provveduto a colmare – avanzi soluzioni di forte contenuto innovativo, che confermano il rilievo della delibera del CICR ai fini dell’applicazione del divieto di anatocismo, così come, quindici anni fa, analoga delibera supportò l’applicazione della capitalizzazione ai rapporti bancari. Quanto al contenuto di detta proposta, ci si limita a sottolineare che,
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ribadendo il divieto di anatocismo bancario (art. 3), si occupa di quando diventano esigibili, nei rapporti regolati in conto corrente, gli interessi quotidianamente maturati e separatamente contabilizzati, disponendo che essi sono conteggiati (oltre che al momento della chiusura) al 31 dicembre di ogni anno e diventano esigibili «decorso un termine di sessanta giorni [o altro superiore eventualmente pattuito contrattualmente] dal ricevimento da parte del cliente dell’estratto conto inviato ai sensi dell’art. 119 t.u.b. o delle comunicazioni previste ai sensi dell’art. 126-quater, comma 1, lett. b), t.u.b.». Una volta divenuti esigibili gli interessi maturati, «il cliente può autorizzare l’addebito degli interessi sul conto» e, «in questo caso, la somma addebitata è considerata sorte capitale» (art. 4, comma 4 della proposta). A una prima lettura dei passaggi qui sintetizzati, sembra evidenziarsi una contraddizione: in un articolo si afferma il divieto di anatocismo bancario e nel seguente si afferma che gli interessi pagati mediante addebito in conto diventano capitale. In realtà la contraddizione è soltanto apparente, giacché la proposta in effetti si concentra sulla individuazione del momento nel quale gli interessi conteggiati diventano esigibili e, conseguentemente, sulle modalità del loro pagamento. Fermo restando che l’obbligazione pecuniaria costituita dagli interessi creditori per la banca può essere estinta con le modalità previste dal codice civile, non v’è dubbio che quella più semplice è costituita dall’addebito sul conto o, meglio, sul conto nel quale è annotata la sorte capitale. Di qui il “passaggio a capitale” degli interessi al momento del pagamento. Questo meccanismo, tuttavia, non rappresenta una forma di anatocismo, ma più semplicemente riflette il funzionamento stesso del conto corrente, per cui gli addebito in conto equivalgono a pagamenti, a cominciare da quelli derivanti da partite dirette fra banca e cliente (interessi, rate di mutui, canoni di cassette di sicurezza, commissioni per servizi resi e così via). Del resto, dato lo sdoppiamento dell’unico conto finora esistente (il conto corrente che si sdoppia in un conto “sorte capitale” e in un “conto interessi”), l’estinzione della posta esigibile sull’uno mediante addebito sul secondo costituisce una normale forma di compensazione fra due rapporti: che la compensazione generi una diminuzione del saldo o un aumento del debito a seconda che il conto “sorte capitale”, al momento dell’addebito, abbia saldo positivo o negativo è una conseguenza sicuramente rilevante, ma che non cambia la natura solutoria dell’addebito. Nessuno dubita del resto che la rata del mutuo addebitata a scadenza generi l’estinzione dell’obbligazione ex mutuo, a prescindere dal segno + o – che abbia il conto medesimo. L’art. 2 della proposta al co. 1 dispone che la delibera «si applica alle
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operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito tra intermediari e clienti» e al co. 2 che «la produzione di interessi nelle operazioni di cui al comma 1 è regolata secondo le modalità e i criteri indicati negli articoli 3 e 4»; sempre nelle operazioni di cui all’art. 2, co. 1 (cioè alle operazioni di raccolta e di impiego) il contratto deve stabilire la stessa periodicità «nel conteggio degli interessi creditori e debitori» (art. 4, co. 2) e la stessa esigibilità è stabilita per gli interessi «attivi e passivi» (art. 4, co. 4). Ci sono quindi elementi sicuri per concludere che la proposta in parola si riferisce sia agli interessi attivi sia agli interessi passivi, essendo preclusa per entrambi i tipi di interesse ogni effetto anatocistico: per essi è negata la possibilità di sommarsi al capitale e devono essere da questo tenuti contabilmente distinti. Siffatta conclusione (la si condivida o meno) è ribadita dalla circostanza che l’art. 1283 c.c. – e le deroghe un tempo previste per le banche e le società finanziarie – non distingue fra interessi debitori e creditori, tant’è che l’applicazione dell’anatocismo consentito è sempre avvenuta a prescindere dal “segno” che gli interessi medesimi presentavano, con la ripetuta caratteristica omogeneizzante, dopo il 2000, della pari periodicità. Vi è poi il problema di come si atteggi il divieto di anatocismo bancario in ordine ai contratti di mutuo. Se di capitalizzazione in senso tecnico non si può parlare nella fase fisiologica del pagamento delle rate di cui al piano di ammortamento, di anatocismo può discutersi laddove sulle rate impagate maturino interessi di mora che, ove calcolati sull’intero ammontare del debito, comprensivo di una quota di interesse, potrebbero far presumere un’ipotesi, per l’appunto, anatocistica. Detto in altri termini, vi è rischio di anatocismo se la rata scaduta si considera ancora costituita da capitale e interessi; non vi è alcun rischio se la rata si intende come un debito unitario, che, a seguito della scadenza, ha perso la sua duplice connotazione e va valutato come un’unica obbligazione pecuniaria pari all’importo complessivo recato. La questione è ben più risalente rispetto alla modifica del co. 2 dell’art. 120 t.u.b. ed è stata esaminata nell’ambito del credito fondiario e, in particolare, della applicazione in quel contesto del disposto dell’art. 2855 c.c. e delle procedure esecutive concorsuali e individuali attivate a seguito dell’inadempimento25. Si può rammentare, ai fini che
25 In dottrina cfr., ex multis, Tardivo, Il credito fondiario nella nuova legge bancaria6, Milano, 2006, p. 278 ss. e Bregoli, Mutuo in ammortamento ed esercizio della prelazione ipotecaria, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, p. 49 ss.
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qui interessano, che, venuta meno la previsione legislativa per cui le rate impagate producevano interessi sull’intero ammontare26, questa possibilità si regge oggi sull’art. 3, co. 1 della menzionata delibera CICR n. 9/2000, per cui «nelle operazioni di finanziamento per le quali è previsto che il rimborso del prestito avvenga mediante il pagamento di rate con scadenze temporali predefinite, in caso di inadempimento del debitore l’importo complessivamente dovuto alla scadenza di ciascuna rata può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi a decorrere dalla data di scadenza e sino al momento del pagamento». A risolvere definitivamente la questione, quindi, sarebbe necessario che la proposta di delibera in esame contenesse qualche precisazione in più, in assenza della quale il dubbio permane, tanto più che (a) l’adesione al divieto di anatocismo bancario appare radicale e pervasiva («nelle operazioni indicate dall’articolo 2, comma 1 [“operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito tra intermediari e clienti”], gli interessi maturati non possono produrre interessi»: art. 3); (b) «per la produzione degli interessi moratori si applicano le disposizioni del codice civile», precisa l’art. 2, co. 3, quasi a dire – ma anche a questo riguardo una maggior chiarezza non guasterebbe – che agli interessi moratori si applica l’art. 1283 c.c., cioè l’anatocismo solo nei limiti di detto articolo; (c) l’unica deroga espressa al divieto sub (a) è quella dell’art. 4, riferita ai “rapporti regolati in conto corrente, conto di pagamento e finanziamenti a valere su carte di credito”, fra i quali è difficile inserire i mutui. Per la verità una precisazione che riproducesse il disposto dell’art. 3, comma 1 della delibera CIUCR n. 9/2000 non sarebbe sovversiva né del divieto di anatocismo né del fisiologico maturare degli interessi sulle obbligazioni pecuniarie: essa infatti poggerebbe la produttività di interessi sul complessivo importo della rata scaduta sul fenomeno «della capitalizzazione degli interessi maturati, dell’assimilazione della somma da questi rappresentata con quella del capitale e quindi dell’ulteriore successiva produzione di interessi dalla somma di danaro complessivamente considerata (capitale iniziale più incrementi successivi). In realtà, una volta ammessa la producibilità di interessi da parte del capitale monetario, non si vede come si possa distinguere, da un punto di vista economico, la produzione di interessi anche per quella parte di
26 Così stabiliva l’art. 38 del r.d. 16 luglio 1905, n. 646, poi richiamato dall’art. 14, co. 2, del d.P.R. 21 gennaio 1976, n. 7, insieme all’art. 16, co. 2, della legge 6 giugno 1991, n. 175, disposizioni definitivamente abrogate dal t.u.b..
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capitale che definiamo giuridicamente come interessi già maturati. Una piena applicazione a questi dell’art. 1282 c.c. non potrebbe che comportare la produzione di pieno diritto degli interessi, che una volta già maturati, altro non sono che una somma di danaro liquida ed esigibile. (…) La piena fungibilità del denaro (…) impedisce, infatti, almeno sotto il profilo strettamente economico, di operare una distinzione tra somme di danaro prodotte quali interessi maturati e somme di danaro costituite come capitale. La completa omogeneità economica della loro natura la assimila nella “forma” di capitale suscettibile, appunto, di produrre interessi»27. Del resto, «al creditore della rata scaduta si possono attribuire anche gli interessi di mora conteggiati sull’intera rata (compresa la “quota” interessi), prendendo semplicemente atto che, nel piano di adempimento, il debito di rata viene espresso in un’unica somma, che diventa esigibile, alle scadenze periodiche, nella sua globalità»28.
Fabrizio Maimeri P.S. Quando la presente nota era composta in bozze, si è registrata una nuova puntata della interminabile fiction in tema di interessi: mentre si attendeva la versione finale della delibera del CICR una volta scaduto il termine per la consultazione sulla proposta e si facevano illazioni di vario tipo su un ritardo che sembrava inspiegabile, nell’articolato relativo alla riforma delle banche di credito cooperativo (d.l. 14 febbraio 2016, n. 18, convertito nella legge 8 aprile 2016, n. 49) il legislatore ha inserito un art. 17-bis che è tornato modificare le lett. a) e b) del co. 2 dell’art. 120 t.u.b., ispirandosi al contenuto della proposta di delibera. Si prevede che gli interessi (debitori e creditori per le banche) si conteggino al 31 dicembre e i secondi (ove riferiti ad aperture di credito in conto corrente) diventano però esigibili solo il 1° marzo dell’anno successivo. A parte ogni questione interpretativa che il nuovo testo propone (a cominciare dalla data della sua concreta applicabilità: continua l’attesa della delibera del CICR, visto che l’incipit del co. 2 non ha subito modifiche?), viene da chiedersi quale sia l’impatto che esso avrà sulle questioni oggetto delle ordinanze annotate e sui connessi giudizi ancora in corso. Si fa infatti fatica a dare un senso alla richiesta di una conferma dell’inibitoria caute-
Inzitari, voce Interessi, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. IX, Torino, 1993, p. 594. Così A. Bregoli, Mutuo in ammortamento ed esercizio della prelazione ipotecaria, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, p. 64. 27 28
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larmente ottenuta in un quadro legislativo cosĂŹ profondamente mutato, passato da un divieto di capitalizzazione assoluto a una possibilitĂ di pagamento degli interessi mediante un addebito in conto ogni anno. Invece di semplificarsi, le questioni si complicano, come del resto accade per la trama di ogni fiction che si rispetti.
Fabrizio Maimeri
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PARTE SECONDA Legislazione, documenti e informazioni
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Nuovi interventi per il sistema bancario D.l. 24 gennaio 2015, n. 3 (convertito con modificazioni nella l. 24 marzo 2015, n. 33): Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti (Omissis) Art. 2 Norme sul trasferimento dei servizi di pagamento connessi al rapporto di conto di pagamento 1. Il presente articolo reca la disciplina sulla trasferibilità dei servizi di pagamento connessi al conto di pagamento detenuto da un consumatore presso un prestatore di servizi di pagamento verso un altro prestatore di servizi di pagamento secondo quanto previsto al capo III della direttiva 2014/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014. 2. Ai fini del presente articolo, per «servizio di trasferimento» si intende il trasferimento, su richiesta del consumatore, da un prestatore di servizi di pagamento ad un altro, delle informazioni su tutti o su alcuni ordini permanenti di bonifico, addebiti diretti ricorrenti e bonifici in entrata ricorrenti eseguiti sul conto di pagamento, o il trasferimento dell’eventuale saldo positivo da un conto di pagamento di origine a un conto di pagamento di destinazione, o entrambi, con o senza la chiusura del conto di pagamento di origine. 3. I prestatori di servizi di pagamento forniscono il servizio di trasferimento tra i conti di pagamento detenuti nella stessa valuta a tutti i consumatori che intendono aprire o che sono titolari di un conto di pagamento presso un prestatore di servizi di pagamento. 4. Il servizio di trasferimento è avviato dal prestatore di servizi di pagamento ricevente su richiesta del consumatore. A tale fine, il consumatore rilascia al prestatore di servizi di pagamento ricevente una specifica autorizzazione all’esecuzione del servizio di trasferimento. 5. Il prestatore di servizi di pagamento ricevente esegue il servizio di trasferimento entro il termine di dodici giorni lavorativi dalla ricezione dell’autorizzazione del consumatore. Nel caso in cui il conto abbia due o più titolari, l’autorizzazione è fornita da ciascuno di essi. 6. Attraverso l’autorizzazione il consumatore:
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a) fornisce al prestatore di servizi di pagamento trasferente e al prestatore di servizi di pagamento ricevente il consenso specifico a eseguire ciascuna delle operazioni relative al servizio di trasferimento, per quanto di rispettiva competenza; b) identifica specificamente i bonifici ricorrenti in entrata, gli ordini permanenti di bonifico e gli ordini relativi ad addebiti diretti per l’addebito in conto che devono essere trasferiti; c) indica la data a partire dalla quale gli ordini permanenti di bonifico e gli addebiti diretti devono essere eseguiti o addebitati a valere sul conto di pagamento di destinazione. Tale data è fissata ad almeno sei giorni lavorativi a decorrere dal giorno in cui il prestatore di servizi di pagamento ricevente riceve i documenti trasferiti dal prestatore di servizi di pagamento trasferente. 7. Ai fini del presente articolo si applicano le definizioni previste dall’articolo 1 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11. 8. Il prestatore di servizi di pagamento ricevente è responsabile dell’avvio e della gestione della procedura per conto del consumatore. Il consumatore può chiedere al prestatore di servizi di pagamento ricevente di effettuare il trasferimento di tutti o di alcuni bonifici in entrata, ordini permanenti di bonifico o ordini di addebito diretto. Il prestatore di servizi di pagamento trasferente fornisce al prestatore di servizi di pagamento ricevente tutte le informazioni necessarie per riattivare i pagamenti sul conto di pagamento di destinazione. Con riguardo alla forma dell’autorizzazione si applica l’articolo 117, commi 1 e 2, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni. 9. Per l’inosservanza di quanto stabilito ai sensi del presente articolo si applicano le sanzioni previste dall’articolo 144, comma 3-bis, del testo unico di cui al decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni. Si applica il titolo VIII del medesimo testo unico di cui al decreto legislativo n. 385 del 1993. 10. Per il periodo di sei mesi dal rilascio dell’autorizzazione, il prestatore di servizi di pagamento trasferente e il prestatore di servizi di pagamento ricevente consentono gratuitamente al consumatore l’accesso alle informazioni che lo riguardano rilevanti per l’esecuzione del servizio di trasferimento e relative agli ordini permanenti e agli addebiti diretti in essere presso il medesimo prestatore di servizi di pagamento. 11. Il prestatore di servizi di pagamento trasferente fornisce le informazioni richieste dal prestatore di servizi di pagamento ricevente e relative all’elenco degli ordini permanenti in essere relativi a bonifici e le informazioni disponibili sugli ordini di addebito diretto che vengono trasferiti e ai bonifici ricorrenti in entrata e sugli addebiti diretti ordinati dal creditore eseguiti sul conto di pagamento del consumatore nei precedenti tredici mesi, senza addebito di spese a carico del consumatore o del prestatore di servizi di pagamento ricevente. 12. Se nell’ambito del servizio di trasferimento il consumatore richiede la chiusura del conto di pagamento di origine, si applica l’articolo 126-septies, commi 1 e 3, del testo unico di cui al decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385.
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13. Fermo restando quanto previsto dai commi precedenti, il prestatore di servizi di pagamento trasferente e il prestatore di servizi di pagamento ricevente non addebitano spese al consumatore per il servizio di trasferimento. 14. I prestatori di servizi di pagamento mettono a disposizione dei consumatori a titolo gratuito informazioni riguardanti il servizio di trasferimento. Il contenuto delle informazioni e le modalità con cui queste sono messe a disposizione del consumatore sono disciplinati ai sensi dei capi I e II-bis del titolo VI del testo unico di cui al decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni. 15. Le disposizioni del presente articolo si applicano, in quanto compatibili e secondo le modalità e i termini definiti dai decreti di cui al comma 18, anche al trasferimento, su richiesta del consumatore, di strumenti finanziari da un conto di deposito titoli ad un altro, con o senza la chiusura del conto di deposito titoli di origine, senza oneri e spese per il consumatore. 16. In caso di mancato rispetto delle modalità e dei termini per il trasferimento dei servizi di pagamento, il prestatore di servizi di pagamento inadempiente è tenuto a indennizzare il cliente in misura proporzionale al ritardo e alla disponibilità esistente sul conto di pagamento al momento della richiesta di trasferimento. 17. All’articolo 116 del testo unico di cui al decreto legislativo 1º settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, dopo il comma 1 è inserito il seguente: «1-bis. Le banche e gli intermediari finanziari rendono noti gli indicatori che assicurano la trasparenza informativa alla clientela, quali l’indicatore sintetico di costo e il profilo dell’utente, anche attraverso gli sportelli automatici e gli strumenti di accesso tramite internet ai servizi bancari». 18. Con uno o più decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia, sono definiti i criteri per la quantificazione dell’indennizzo di cui al comma 16 nonché le modalità e i termini per l’adeguamento alle disposizioni di cui al comma 15 del presente articolo. In sede di prima attuazione, i decreti di cui al primo periodo sono emanati entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. I prestatori di servizi di pagamento si adeguano alle disposizioni del presente articolo sulla trasferibilità dei servizi di pagamento entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. 19. I commi 584 e 585 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 147, sono abrogati. Art. 2-bis Attuazione dell’articolo 11 della direttiva 2014/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014, in materia di agevolazione dell’apertura di un conto transfrontaliero da parte dei consumatori 1. In caso di richiesta di trasferimento del conto di pagamento o del conto corrente presso un istituto bancario o un prestatore di servizi di pagamento di uno Stato membro dell’Unione europea diverso da quello in cui ha sede l’istituto bancario o il prestatore di servizi di pagamento che riceve la richiesta di tra-
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sferimento, l’istituto bancario o il prestatore di servizi di pagamento che riceve la richiesta di trasferimento fornisce al consumatore, in seguito alla sua richiesta e nei termini di cui al paragrafo 2 dell’articolo 11 della direttiva 2014/92/ UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014, la seguente assistenza: a) fornire gratuitamente al consumatore un elenco di tutti gli ordini permanenti di bonifico e degli addebiti diretti ordinati dal debitore al momento attivi, ove disponibile, e le informazioni disponibili sui bonifici in entrata ricorrenti e sugli addebiti diretti ordinati dal creditore eseguiti sul conto del consumatore medesimo nei precedenti tredici mesi. Tale elenco non comporta per il nuovo prestatore di servizi di pagamento alcun obbligo di attivare servizi che non fornisce; b) trasferire l’eventuale saldo positivo del conto detenuto dal consumatore sul conto di pagamento o sul conto corrente aperto o detenuto dal consumatore presso il nuovo prestatore di servizi di pagamento, purchÊ tale richiesta contenga informazioni complete che consentano l’identificazione del nuovo prestatore di servizi di paga-mento e del conto del consumatore; c) chiudere il conto detenuto dal consumatore. (Omissis)
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Commento al d.l. 24 gennaio 2015, n 3. Parte seconda: L’attuazione “parziale” della Payment Accounts Directive Nella prima parte del commento al d.l. n. 3/2015 convertito con modificazioni nella l. n. 33/2015 pubblicata in questa Rivista, 2016, II, p. 3 ss. è stata esaminata la riforma delle banche popolari; in questa seconda parte saranno prese in considerazione due altre misure normative, definite urgenti e, cioè, gli artt. 2 e 2-bis che attuano parzialmente la direttiva 2014/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014 (d’ora in avanti PAD) sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base (in GUCE, 28 agosto 2014, L 257). Nello specifico, con l’art. 2 si dà attuazione al Capo III della direttiva citata fatta eccezione per l’art. 11 che reca nella rubrica “Agevolazione dell’apertura di un conto transfrontaliero da parte dei consumatori e che è stato recepito nel nostro ordinamento con l’art. 2-bis introdotto ex novo in sede di conversione del decreto citato.
1. Premessa. Prima di passare all’esame delle norme citate occorre premettere che la PAD fornisce la disciplina relativa alla trasparenza e alla comparabilità delle spese addebitate ai consumatori per i conti di pagamento detenuti nell’Unione, nonché la disciplina del trasferimento del conto di pagamento all’interno di uno Stato membro e le norme per agevolare l’apertura di un conto di pagamento transfrontaliero da parte dei consumatori. Inoltre viene fissato il quadro di riferimento di norme e condizioni in base al quale gli Stati membri devono garantire nell’Unione il diritto dei consumatori di aprire e utilizzare un conto di pagamento con caratteristiche di base. Con specifico riferimento alla disciplina dei trasferimenti di conti di pagamento, scopo della direttiva è evitare ai consumatori che intendono trasferire i propri conti di pagamento di incorrere in eccessivi oneri amministrativi e finanziari; si intende imporre ai prestatori di servizi di pagamento l’obbligo di offrire ai consumatori una procedura chiara, rapida e sicura per trasferire i conti di pagamento, compresi i conti di pagamento con caratteristiche di base.
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Vi sono stati in passato interventi in tal senso che però non hanno avuto molto successo ed ecco il motivo per cui si è ricorsi alla direttiva. Infatti, come si legge nell’8° Considerando «i principi comuni stabiliti nel 2008 dallo European Banking Industry Committee forniscono un modello di meccanismo per il trasferimento tra conti di pagamento offerti da banche situate nello stesso Stato membro. Tuttavia, data la loro natura non vincolante, tali principi comuni sono stati applicati in modo non uniforme nell’Unione, con risultati inefficaci. Inoltre, i principi comuni disciplinano solo il trasferimento del conto di pagamento a livello nazionale e non riguardano il trasferimento transfrontaliero. Infine, per quanto riguarda l’accesso al conto di pagamento di base, la raccomandazione 2011/442/ UE della Commissione ha invitato gli Stati membri a prendere le misure necessarie per assicurarne l’applicazione al più tardi sei mesi dopo la pubblicazione della raccomandazione. A oggi solo pochi Stati membri rispettano i principi fondamentali di tale raccomandazione». Si deve ricordare altresì che la norma in esame recepisce quanto richiesto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) – nelle proposte di riforma concorrenziale al Parlamento e al Governo, ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza per l’anno 2014, pubblicata nel luglio 2014. Come è riportato nei lavori parlamentari per la conversione in legge del d.l. n. 3/2015, «l’Antitrust, per quanto riguarda l’adozione di strumenti che favoriscano la spinta competitiva innescata dai consumatori di servizi bancari, ha sottolineato che essi devono mirare ad aumentare il tasso di mobilità della clientela, che risulta ancora oggi di modesto rilievo. A parere dell’Autorità sussistono, infatti, problemi di trasparenza e completezza informativa, permangono vincoli non necessari tra servizi bancari e si registrano tempistiche ancora troppo lunghe in caso di trasferimento di alcuni servizi. Relativamente al grado di trasparenza delle informazioni a favore dei clienti bancari, si osserva che, nonostante l’introduzione di indicatori sintetici di costo, la scarsa mobilità registrata e la grande dispersione dei prezzi segnalano il permanere di ostacoli informativi per i consumatori e difficoltà alla mobilità; si reputa necessario fornire ai consumatori adeguati strumenti di comparazione tra il costo del proprio conto e quelli offerti dalle altre banche mediante lo sviluppo di motori di ricerca indipendenti dalle banche (e in concorrenza tra loro). A tal fine appare all’Antitrust necessario integrare le attuali norme contenute nel t.u.b. – titolo VI, capo 1, in materia di trasparenza dei rapporti contrattuali delle condizioni con i clienti, rendendo obbligatorio il termine entro cui il processo di trasferimento di un conto corrente deve
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essere terminato. Tale termine non dovrebbe superare i 15 giorni lavorativi, come previsto dalla proposta di direttiva comunitaria sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base (…). A ciò andrebbe associata una disposizione che obblighi la banca, laddove il trasferimento non venisse concluso entro tale termine per responsabilità della stessa banca, a risarcire il cliente in una misura proporzionata al ritardo e alla disponibilità sul conto corrente. Il trasferimento del conto corrente deve garantire altresì il trasferimento dei servizi e strumenti di incasso/pagamento ad esso associati, senza oneri a carico del correntista. Vanno infine introdotti strumenti che favoriscano lo sviluppo di motori di ricerca indipendenti dalle banche (e in concorrenza tra loro) che consentano un più agevole confronto tra i servizi bancari da parte dei consumatori» (v. https://www.senato.it/japp/ bgt/showdoc/17/DOSSIER/907139 /index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione26-h2_h22&spart=si). Orbene, l’Antitrust fa riferimento al conto corrente e non già, come la PAD, al conto di pagamento ma le osservazioni svolte non cambiano nella sostanza posto che, come è stato correttamente affermato in dottrina, non sembra sia possibile «dubitare del fatto che il conto di pagamento si identifichi rispettivamente nel conto corrente bancario ed in quello postale, infatti, l’uno e l’altro possono essere utilizzati dagli utenti per l’esecuzione dei servizi di pagamento. Si può, dunque, dire che il conto corrente bancario e quello postale (...) sono una specie del contratto che la Direttiva (PSD, ndr) designa quale conto di pagamento» (Santoro). A conclusione di questa premessa, va anche ricordato che la materia oggetto dell’art. 2 in commento era già stata in parte disciplinata dall’art. 1, co. 584 e 585 della l. 27 dicembre 2013 n. 147 (legge di stabilità 2014); disposizioni che hanno introdotto la possibilità di trasferire, senza spese aggiuntive per il cliente, i servizi di pagamento connessi ad un conto di pagamento da un prestatore di servizi ad un altro. L’art. 1, co. 584 della l. 147/2013 dispone che, fermo restando il rapporto di conto istituito presso l’originario prestatore di servizi di pagamento, il cliente potrà trasferire il servizio di pagamento presso un diverso prestatore. Il trasferimento avverrà, senza spese aggiuntive, utilizzando i comuni protocolli tecnici interbancari italiani. Si precisa che al trasferimento dei servizi consegue il subentro, da parte del prestatore di servizi di pagamento di destinazione, nei mandati di pagamento e riscossione conferiti al prestatore di servizi di pagamento di origine, alle condizioni stipulate fra il prestatore di servizi di pagamento di destinazione e il cliente.
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Si stabilisce altresì che detto trasferimento deve perfezionarsi entro il termine di 14 giorni lavorativi da quando il cliente chiede al prestatore di servizi di pagamento di destinazione di acquisire da quello di origine i dati relativi ai mandati di pagamento e di riscossione in essere. L’art. 1, co. 585 della l. n. 147/2013 ha demandato a uno o più decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia la disciplina dei servizi oggetto di trasferibilità, delle modalità e dei termini di attuazione delle norme così introdotte. Tali decreti non sono stati mai emanati ed entrambe le norme sono state ora abrogate dal comma 19 dell’art. 2 in commento
2. Precedente normativo. Al di là delle ultime disposizioni appena citate, la disciplina del trasferimento di servizi di pagamento legati ad un conto di pagamento si collocano all’interno di tutte quelle disposizioni che, nel corso del tempo, il legislatore ha emanato, seppure con riferimento specifico ai contratti bancari, a tutela della concorrenza e dei diritti del consumatore. Il termine “portabilità”, che figurava nella versione dell’art. 2 del d.l. n. 3/2015 prima della conversione, è stato utilizzato per la prima volta con riferimento alla disciplina della surrogazione dei mutui bancari, contenuta nell’art. 8 del d. l. 31 gennaio 2007, n. 7 (Decreto recante «Misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese», più noto come decreto Bersani), che è stata poi trasfusa, parzialmente nell’art. 120-quater del t.u.b. per effetto del d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141. Il d.lgs. n. 141/2010 non ha però abrogato l’art. 8, co. 4-bis del decreto Bersani, che dispone agevolazioni fiscali applicabili al caso in cui il mutuante surrogato subentri nelle garanzie accessorie, personali e reali, accessorie al credito surrogato. In particolare, non si applicano l’imposta di registro, di bollo, le imposte ipotecarie e catastali e le tasse sulle concessioni governative; né trova applicazione l’imposta sostitutiva delle predette forme di prelievo che ordinariamente grava - tra l’altro - sulle operazioni di finanziamento a medio e lungo termine concluse dagli intermediari (v. art. 120-quater, co. 10 del t.u.b.). Il nono comma dell’art. 120-quater del t.u.b. delinea il campo oggettivo di applicazione della norma. Essa trova applicazione: a) nei casi e alle condizioni ivi previsti, anche ai finanziamenti concessi da enti di previdenza obbligatoria ai loro iscritti; b) ai soli contratti di finanziamento conclusi da intermediari bancari e finanziari con persone fisiche o mi-
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cro-imprese; mentre non si applica ai contratti di locazione finanziaria. Innanzitutto, si prevede che la portabilità dei contratti di finanziamento è disciplinata dalle regole sulla surrogazione di cui all’art. 1201 c.c. ed il debitore può esercitare la facoltà di surrogazione anche se il credito non è esigibile o se è stato pattuito un termine a favore del creditore (co. 1). Per effetto della surrogazione il mutuante surrogato subentra nelle garanzie, personali e reali, accessorie al credito cui la surrogazione si riferisce (ad es. ipoteca). La surrogazione comporta il trasferimento del contratto, alle condizioni stipulate tra il cliente e l’intermediario subentrante, con esclusione di penali o altri oneri di qualsiasi natura (co. 2 e 3). L’annotazione della surrogazione presso i registri immobiliari può essere richiesta senza formalità, allegando copia autentica dell’atto di surrogazione stipulato per atto pubblico o scrittura privata; tale atto può essere presentato anche in via telematica (v.art. 8, co. 8 del d.l. 13 maggio 2011, n. 70). Ai sensi del comma 4 dell’art. 120-quater del t.u.b., al cliente non possono essere imposte spese o commissioni per la concessione del nuovo finanziamento, per l’istruttoria e per gli accertamenti catastali, che si svolgono secondo procedure di collaborazione tra intermediari improntate a criteri di massima riduzione dei tempi, degli adempimenti e dei costi connessi. In ogni caso, gli intermediari non applicano alla clientela costi di alcun genere, neanche in forma indiretta, per l’esecuzione delle formalità connesse alle operazioni di surrogazione. Resta salva la possibilità del finanziatore originario e del debitore di rinegoziare il finanziamento in essere, senza spese, mediante scrittura privata anche non autenticata (co. 5). Inoltre, è espressamente prevista la sanzione della nullità di ogni patto, anche posteriore alla stipulazione del contratto, con il quale si impedisca o si renda oneroso per il debitore l’esercizio della facoltà di surrogazione. Trattasi di una nullità relativa che non si estende al contratto. Il comma 7 dell’art. 120-quater del t.u.b., più volte rimaneggiato, disciplina la possibilità di risarcimento del danno da ritardo per il caso di intempestivo perfezionamento della surrogazione prevedendo che, ove la surrogazione non si perfezioni entro il termine di trenta giorni lavorativi dalla data della richiesta – formulata dalla banca surrogata al finanziatore originario - di avvio delle procedure di collaborazione, il finanziatore originario è tenuto a risarcire il cliente in misura pari all’uno per cento del debito residuo del finanziamento per ciascun mese o frazione di mese di ritardo. Resta ferma la possibilità per il finanziatore
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originario di rivalersi sul mutuante surrogato, nel caso in cui il ritardo sia dovuto a cause allo stesso imputabili. Infine, la surrogazione per volontà del debitore e l’eventuale rinegoziazione non comportano il venir meno dei benefici fiscali. Il riferimento a questa disciplina sarà utile per evidenziarne le differenze con le norme oggetto di commento.
3. Trasferibilità dei servizi di pagamento connessi al conto di pagamento: ambito oggettivo di applicazione. Svolte queste osservazioni preliminari veniamo all’esame dell’art. 2 del d.l. n. 3/2015 che reca la disciplina della trasferibilità dei servizi di pagamento connessi al conto di pagamento detenuto da un consumatore presso un prestatore di servizi di pagamento verso un altro prestatore di servizi di pagamento secondo quanto previsto al capo III della PAD (artt. 10-14), ed in particolare si dà attuazione all’art. 10, che nella versione precedente alla conversione in legge del decreto citato veniva applicato esplicitamente, e agli artt. 12 e 13. Le modifiche apportate in sede di conversione alla rubrica della norma hanno eliminato confusioni terminologiche che avrebbero certamente condotto a notevoli dubbi interpretativi; infatti i termini “portabilità”, “conto corrente” ed “istituti bancari” sono stati sostituiti con termini più in linea con l’art. 10 PAD e cioè “trasferimento”, “conto di pagamento” e “prestatore di servizi di pagamento”. Il nuovo testo della norma in commento prende anche le distanza da quanto previsto dall’art. 120-quater del t.u.b. poco prima esaminato perché oggetto del trasferimento sono i servizi di pagamento legati ad un conto di pagamento e non quest’ultimo. Ma procediamo con ordine. Prima di entrare nel dettaglio della norma e per circoscriverne correttamente l’ambito soggettivo ed oggettivo è opportuno soffermarsi sulle definizioni che per essa rilevano. Innanzitutto, come previsto dal settimo comma dell’articolo in commento, si devono applicare le definizioni presenti nell’art. 1 del d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11 (Santoro, 2012), con il quale è stata recepita nell’ordinamento interno la direttiva 2007/64/CE, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, più nota come Payment Services Directive - PSD). Si deve ricordare che il d.lgs. n. 11/2010, modificando il t.u.b., ha introdotto nell’ordinamento italiano la figura degli Istituti di pagamento, intermediari che insieme a banche e Istituti di moneta elettronica effet-
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tuano servizi di pagamento e la cui disciplina è ora contenuta nei Titoli V-bis e Titolo V-ter del t.u.b. Le nozioni che qui rilevano sono quelle presenti nella lett. b), art. 1, del d.lgs. n. 11/2010 e cioè: a) la definizione di “conto di pagamento” ossia un conto intrattenuto presso un prestatore di servizi di pagamento da uno o più utilizzatori di servizi di pagamento per l’esecuzione di operazioni di pagamento e b) l’elenco dei “servizi di pagamento” che consistono nelle seguenti attività: b.1.) servizi che permettono di depositare il contante su un conto di pagamento nonché tutte le operazioni richieste per la gestione di un conto di pagamento; b.2.) servizi che permettono prelievi in contante da un conto di pagamento nonché tutte le operazioni richieste per la gestione di un conto di pagamento; b.3.) esecuzione di ordini di pagamento, incluso il trasferimento di fondi, su un conto di pagamento presso il prestatore di servizi di pagamento dell’utilizzatore o presso un altro prestatore di servizi di pagamento: b.3.1.) esecuzione di addebiti diretti, inclusi addebiti diretti una tantum; b.3.2.) esecuzione di operazioni di pagamento mediante carte di pagamento o dispositivi analoghi; b.3.3.) esecuzione di bonifici, inclusi ordini permanenti; b. 4.) esecuzione di operazioni di pagamento quando i fondi rientrano in una linea di credito accordata ad un utilizzatore di servizi di pagamento: b.4.1) esecuzione di addebiti diretti, inclusi addebiti diretti una tantum; b.4.2.) esecuzione di operazioni di pagamento mediante carte di pagamento o dispositivi analoghi; b.4.3.) esecuzione di bonifici, inclusi ordini permanenti; b.5.) emissione e/o acquisizione di strumenti di pagamento; b.6.) rimessa di denaro; b.7) esecuzione di operazioni di pagamento ove il consenso del pagatore ad eseguire l’operazione di pagamento sia dato mediante un dispositivo di telecomunicazione, digitale o informatico e il pagamento sia effettuato all’operatore del sistema o della rete di telecomunicazioni o digitale o informatica che agisce esclusivamente come intermediario tra l’utilizzatore di servizi di pagamento e il fornitore di beni e servizi. La prima definizione, quella dei conti di pagamento, ha l’obbiettivo precipuo di applicare le norme in materia di servizi di pagamento anche ai prestatori di detti servizi diversi dagli enti creditizi (v. art. 1, lett. g) del d.lgs. n. 11/2010), servizi che sono nella sostanza tutte attività riferibili al tradizionale servizio di conto corrente bancario.
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Con specifico riguardo all’ambito oggettivo e soggettivo della norma in commento, viene in rilievo la definizione di servizio di trasferimento con il quale si intende il trasferimento, su richiesta del consumatore, da un prestatore di servizi di pagamento ad un altro, delle informazioni su tutti o su alcuni ordini permanenti di bonifico, addebiti diretti ricorrenti e bonifici in entrata ricorrenti eseguiti sul conto di pagamento, o il trasferimento dell’eventuale saldo positivo da un conto di pagamento di origine a un conto di pagamento di destinazione, o entrambi, con o senza la chiusura del conto di pagamento di origine (art. 2, co. 2 del d.l. n. 3/2015). Si deve subito notare la differenza con la versione precedente alla conversione in legge dove si faceva riferimento al trasferimento di un conto di pagamento riproducendo la rubrica del Capo III della PAD al cui interno però si trovano norme che consentono, così come lo consente ora la definizione citata, il trasferimento di servizi di pagamento legati ad un conto di pagamento e che quest’ultimo, secondo l’inciso finale della definizione appena riportata, potrebbe anche non essere chiuso. Il terzo comma della norma in esame riprendendo integralmente il contenuto dell’art. 9 della PAD prevede che i prestatori di servizi di pagamento forniscono il servizio di trasferimento tra i conti di pagamento detenuti nella stessa valuta a tutti i consumatori che intendono aprire o che sono titolari di un conto di pagamento presso un prestatore di servizi di pagamento. Sempre con riferimento all’ambito oggettivo, infine, il comma 15 dell’art. 2 del d.lgs. n. 3/2015 lo estende prevedendo che le disposizioni di detta norma si applicano, in quanto compatibili e secondo le modalità e i termini definiti dai decreti di cui al successivo comma 18, anche al trasferimento, su richiesta del consumatore, di strumenti finanziari da un conto di deposito titoli ad un altro, con o senza la chiusura del conto di deposito titoli di origine, senza oneri e spese per il consumatore. Autorizzazione. La norma in commento si sofferma, poi, sulla disciplina dell’autorizzazione che deve essere rilasciata dal consumatore. Infatti, legittimato ad avviare il servizio di trasferimento è il prestatore di servizio di pagamento ricevente sulla base di una specifica autorizzazione all’esecuzione del servizio di trasferimento ricevuta dal consumatore; nel caso in cui il conto abbia due o più titolari, l’autorizzazione è fornita da ciascuno di essi. Circa la forma dell’autorizzazione si applica l’articolo 117, co. 1 e 2 del t.u.b. Attraverso l’autorizzazione il consumatore: a) fornisce al prestatore di servizi di pagamento trasferente e al pre-
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statore di servizi di pagamento ricevente il consenso specifico a eseguire ciascuna delle operazioni relative al servizio di trasferimento, per quanto di rispettiva competenza; b) identifica specificamente i bonifici ricorrenti in entrata, gli ordini permanenti di bonifico e gli ordini relativi ad addebiti diretti per l’addebito in conto che devono essere trasferiti; c) indica la data a partire dalla quale gli ordini permanenti di bonifico e gli addebiti diretti devono essere eseguiti o addebitati a valere sul conto di pagamento di destinazione. Tale data è fissata ad almeno sei giorni lavorativi a decorrere dal giorno in cui il prestatore di servizi di pagamento ricevente riceve i documenti trasferiti dal prestatore di servizi di pagamento trasferente. Il prestatore di servizi di pagamento ricevente è responsabile dell’avvio e della gestione della procedura per conto del consumatore e deve eseguire il servizio di trasferimento entro il termine di dodici giorni lavorativi dalla ricezione dell’autorizzazione da parte del consumatore. Quest’ultimo può chiedere al prestatore di servizi di pagamento ricevente di effettuare il trasferimento di tutti o di alcuni bonifici in entrata, ordini permanenti di bonifico o ordini di addebito diretto. Il nono comma della norma in commento prevede che per l’inosservanza di quanto stabilito ai sensi del presente articolo si applicano: 1) le sanzioni previste dall’art. 144, co. 3-bis del t.u.b. e 2) il Titolo VIII sempre del t.u.b. Ora, premesso che il Titolo VIII comprende anche l’art. 144 e che quindi è del tutto pleonastico il suo esplicito richiamo nel comma in commento, si deve far notare che l’art. 1, co. 51, lett. e) del d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72 che ha recepito nel nostro ordinamento la CRDIV ha abrogato l’art. 144, co. 3-bis del t.u.b. Pertanto, attualmente le sanzioni applicabili sono quelle del Titolo VIII. Informazioni. I commi 10, 11 della norma in commento danno attuazione all’art. 12, co. 1 e 2 della PAD in tema di informazioni. In primo luogo, la prima disposizione disciplina l’accesso alle informazioni da parte del consumatore e prevede che per il periodo di sei mesi dal rilascio dell’autorizzazione, il prestatore di servizi di pagamento trasferente e il prestatore di servizi di pagamento ricevente consentono gratuitamente al consumatore l’accesso alle informazioni che lo riguardano rilevanti per l’esecuzione del servizio di trasferimento e relative agli ordini permanenti e agli addebiti diretti in essere presso il medesimo prestatore di servizi di pagamento. In secondo luogo, il comma 11 recepisce il contenuto dell’art. 12, co. 2 della PAD nel quale sono previsti specifici obblighi di cooperazione
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tra prestatori di servizi di pagamento trasferente e ricevente durante le procedure di trasferimento; si tratta ad esempio di obblighi informativi, utili a riattivare i pagamenti sul nuovo conto di pagamento. Si stabilisce, infatti, che il prestatore di servizi di pagamento trasferente deve fornire le informazioni richieste dal prestatore di servizi di pagamento ricevente e relative all’elenco degli ordini permanenti in essere relativi a bonifici e le informazioni disponibili sugli ordini di addebito diretto che vengono trasferiti e ai bonifici ricorrenti in entrata e sugli addebiti diretti ordinati dal creditore eseguiti sul conto di pagamento del consumatore nei precedenti tredici mesi, senza addebito di spese a carico del consumatore o del prestatore di servizi di pagamento ricevente. Spese. Particolare importanza assume la disciplina delle spese. A tal proposito l’art. 12 della PAD obbliga gli Stati membri ad assicurare che eventuali spese addebitate al consumatore dal prestatore di servizi di pagamento “trasferente” per la chiusura del conto di pagamento detenuto presso di esso siano fissate conformemente a quanto previsto in merito dall’articolo 45, paragrafi 2, 4 e 6 della citata direttiva PSD (2007/64/CE) che prevedono quanto segue: 1) il recesso da un contratto quadro concluso per una durata superiore ai 12 mesi o per una durata indefinita non deve comportare spese per l’utente dei servizi di pagamento, dopo la scadenza di 12 mesi; in tutti gli altri casi le spese per lo scioglimento del contratto devono essere adeguate e in linea con i costi sostenuti (par. 2); 2) le spese per i servizi di pagamento fatturate periodicamente sono dovute, dall’utente dei servizi di pagamento, solo in misura proporzionale per il periodo precedente lo scioglimento del contratto, e se sono pagate anticipatamente, tali spese sono rimborsate in misura proporzionale e 3) viene fatta salva la possibilità per gli Stati membri di prevedere disposizioni più favorevoli per gli utenti. La disciplina comunitaria è stata attuata nei commi 12 e 13 della norma in commento disponendo quanto segue: 1) se nell’ambito del servizio di trasferimento il consumatore richiede la chiusura del conto di pagamento di origine, si applica l’art. 126-septies, co. 1 e 3, del t.u.b. e 2) fermo restando quanto previsto dai commi precedenti, il prestatore di servizi di pagamento trasferente e il prestatore di servizi di pagamento ricevente non addebitano spese al consumatore per il servizio di trasferimento. Con riferimento a questa seconda previsione normativa si deve sottolineare che l’art. 12, co. 4 della PAD dispone che «Gli Stati membri assicurano che eventuali spese addebitate al consumatore dal prestatore di servizi di pagamento trasferente o dal prestatore di servizi di pagamento ricevente per i servizi forniti a norma dell’articolo 10 diversi da
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quelli di cui ai paragrafi 1, 2 e 3 del presente articolo siano ragionevoli e in linea con i costi effettivamente sostenuti dal prestatore di servizi di pagamento». In merito, è stato fatto correttamente notare che «qualora si ritenesse di agevolare ulteriormente il consumatore, andrebbe comunque quantomeno assicurato il rimborso delle spese vive sostenute. Ad esempio, per quanto riguarda il trasferimento degli strumenti finanziari va segnalato che in alcuni casi la banca sostiene delle spese per il trasferimento dei titoli, come nel caso di strumenti finanziari nominativi accentrati presso alcuni depositari centrali esteri o di titoli non dematerializzati il cui trasferimento richiedere l’utilizzo di un portavalori» (Audizione del vice direttore dell’ABI, Gianfranco Torriero, 16 febbraio 2015, consultabile all’indirizzo https://www.abi.it/DOC_Info/Audizioni-parlamentari/Audizione_DL_3-2015_Sistema_bancario_ Investimenti_16genn2015.pdf). Il co. 14 dell’art. 2 del d.l. n. 3/2015 chiude la disciplina delle informazioni e, dando attuazione all’art. 14 della PAD, prevede che i prestatori di servizi di pagamento mettono a disposizione dei consumatori a titolo gratuito informazioni riguardanti il servizio di trasferimento. Il contenuto delle informazioni e le modalità con cui queste sono messe a disposizione del consumatore sono disciplinati ai sensi dei capi I e II-bis del titolo VI del t.u.b.. Conseguenze dell’inadempimento. L’art. 2 in commento prevede anche le sanzioni civilistiche in ipotesi di inadempimento delle obbligazioni suddette. In particolare il co. 16 dell’art. 2 cit., stabilisce che, in caso di mancato rispetto delle modalità e dei termini di cui al già commentato comma 1, il prestatore dei servizi di pagamento inadempiente è tenuto a indennizzare il cliente in misura proporzionale al ritardo e alla disponibilità esistente sul conto di pagamento al momento della richiesta di trasferimento. Con uno o più decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia, sono definiti i criteri per la quantificazione dell’indennizzo di cui al comma 16 nonché le modalità e i termini per l’adeguamento alle disposizioni di cui al comma 15 del presente articolo. In sede di prima attuazione, i decreti di cui al primo periodo sono emanati entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto (comma 18). Due brevi osservazioni sugli effetti dell’inadempimento. Nella versione precedente alla conversione si faceva riferimento al “risarcimento” riprendendo il contenuto dell’art. 120-quater, co. 7 del t.u.b.; ma si deve rilevare che il verbo “indennizzare” usato in sede di conversione è in linea con quanto previsto dal legislatore comunitario
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che si esprime in termine di rimborso (v. art. 13, paragrafo 1 della PAD). La seconda osservazione è legata alla circostanza che l’art. 2 del d.l. n. 3/2015 non individua in modo specifico il soggetto specificamente tenuto al risarcimento (soggetto “trasferente” o “ricevente”). Per risolvere tale questione, si ricorda che la procedura disposta dalla PAD stabilisce con chiarezza obblighi e responsabilità entro i quali ciascun prestatore deve compiere le operazioni richieste o fornire le adeguate informazioni, in modo da potersi individuare il soggetto eventualmente responsabile per il ritardo o per l’inadempimento. Nello specifico, come già detto, l’art. 10, paragrafo 1 della PAD individua nel prestatore di servizi di pagamento ricevente il soggetto responsabile dell’avvio e della gestione della procedura per conto del consumatore. Modifica dell’art. 116 del t.u.b. Il co. 17 dell’art. 2 in commento modifica l’art. 116 del t.u.b. nel quale introduce il co. 1-bis. Prima di analizzare la citata disposizione si ricorda che l’art. 116 cit., prevede al primo comma che «le banche e gli intermediari finanziari rendono noti in modo chiaro ai clienti i tassi di interesse, i prezzi e le altre condizioni economiche relative alle operazioni e ai servizi offerti, ivi compresi gli interessi di mora e le valute applicate per l’imputazione degli interessi. Per le operazioni di finanziamento, comunque denominate, è pubblicizzato il tasso effettivo globale medio previsto dall’articolo 2, commi 1 e 2, della legge 7 marzo 1996, n. 108. Non può essere fatto rinvio agli usi». Il nuovo co. 1-bis dispone che «Le banche e gli intermediari finanziari rendono noti gli indicatori che assicurano la trasparenza informativa alla clientela, quali l’indicatore sintetico di costo e il profilo dell’utente, anche attraverso gli sportelli automatici e gli strumenti di accesso tramite internet ai servizi bancari». In merito a tale integrazione, rilevanti sono le osservazioni svolte in sede di audizione alla Camera dei Deputati da parte del vice direttore dell’ABI il quale ha sottolineato soprattutto le questioni pratiche che dalla norma aggiunta possono derivare. In primo luogo, sono messe in evidenza le conseguenze che discendono direttamente dall’inserimento della modifica nell’art. 116 del t.u.b. rubricato “pubblicità” ed, in secondo luogo, gli effetti derivanti dalla volontà di ampliare i canali di accesso dell’informazione. Per quanto riguarda il primo profilo, è stato evidenziato che «date le caratteristiche e la funzione precipua degli ATM appare difficilmente praticabile la prima ipotesi la quale implicherebbe l’obbligo per le banche a dover pubblicizzare tramite la propria rete di sportelli automatici tutti i loro prodotti di conto corrente offerti ai consumatori e, per ciascuno di
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essi, mostrare tutti gli ISC associati ai “profili utente” ai quali tali prodotti sono offerti. Si immagini la quantità di informazioni che una banca dovrebbe fornire mediante lo schermo dell’ATM, il tempo che un cliente dovrebbe passare di fronte allo sportello automatico per leggere tutte le informazioni, effettuare confronti etc., l’ostacolo che una simile funzione recherebbe alla normale operatività della clientela che troverebbe incrementato significativamente il tempo medio di attesa per effettuare operazioni tradizionali (es: ritiro contanti o pagamenti). Tutto ciò per dare la facoltà di acquisire informazioni che il cliente ottiene già oggi per obblighi di trasparenza, il cui rispetto è già demandato al controllo della Banca d’Italia, mediante i fogli informativi disponibili sui siti delle banche o nelle loro filiali. Circa il secondo profilo, ossia la possibilità per il titolare di carta del circuito Bancomat® che opera presso uno sportello automatico della propria banca di conoscere anche il dato relativo all’ISC del proprio conto, in analogia a una funzione di “interrogazione del conto corrente” già disponibile ancorché con modalità variabile da banca a banca, è stato affermato che “essa appare realizzabile come integrazione di informazioni (es. estratto conto) già rese da ciascuna banca alla propria clientela che ne faccia richiesta (non in circolarità). Si segnala che anche tale informazione è già disponibile al consumatore mediante altri canali (fogli informativi e documento di sintesi periodico) e comunque significativa solo su base annuale». La conclusione cui giunge il vice direttore dell’ABI è che «in entrambe le ipotesi si osserva pertanto che l’incremento informativo che si potrebbe conseguire grazie all’inserimento di una funzione nel pannello di scelta del consumatore presso l’ATM della propria banca appare non giustificare gli elevati costi per la predisposizione di una procedura automatizzata che consenta tale interrogazione e il conseguente adeguamento dell’intero parco ATM sul territorio nazionale nonché – come accennato – l’incremento del tempo di durata delle operazioni tradizionalmente finalizzate ad acquisire con rapidità denaro o informazioni sintetiche sulle movimentazioni del rapporto. Sarebbe comunque necessario prevedere, in sede di conversione del decreto legge, un periodo di tempo per l’adeguamento dei complessi sistemi informativi per tutte le norme previste dall’art. 2». (Audizione del vice direttore dell’ABI, cit.). Auspicio che però non si è verificato! Adeguamento. Circa l’obbligo di adeguamento, i prestatori di servizi di pagamento si dovevano adeguare alle disposizioni dell’art. 2, d.l. n. 3/2015 entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto citato, ossia entro il 26 marzo 2016.
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4. Attuazione dell’art. 11 della PAD: trasferimento di conto in altro paese UE. L’art. 2-bis, inserito in sede di conversione del d.l. n. 3/2015 reca «Attuazione dell’articolo 11 della direttiva 2014/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014, in materia di agevolazione dell’apertura di un conto transfrontaliero da parte dei consumatori». Per interpretare la norma in esame occorre porre mente al 9° considerando della PAD secondo il quale «per supportare una mobilità finanziaria efficace e senza problemi nel lungo termine, è essenziale stabilire un insieme uniforme di norme per far fronte al problema della scarsa mobilità dei consumatori e in particolare per migliorare il confronto tra i servizi e le spese relativi al conto di pagamento e per incentivare il trasferimento del conto, nonché per evitare che i consumatori che intendono aprire e usare un conto di pagamento transfrontaliero siano discriminati sulla base della residenza. Inoltre, è essenziale adottare misure adeguate per promuovere la partecipazione dei consumatori al mercato dei conti di pagamento. Tali misure consentiranno di incentivare l’ingresso nel mercato interno dei prestatori di servizi di pagamento e di garantire condizioni di parità, rafforzando in tal modo la concorrenza e l’allocazione efficiente delle risorse sul mercato dei servizi finanziari al dettaglio dell’Unione, a beneficio delle imprese e dei consumatori. Inoltre, la trasparenza delle informazioni sulle spese e la possibilità di trasferimento del conto, combinati al diritto di accesso al conto di pagamento di base, consentiranno ai cittadini dell’Unione di circolare, e di fare più facilmente i loro acquisti in altri paesi dell’Unione, beneficiando pertanto di un mercato interno pienamente funzionante nel settore dei servizi finanziari al dettaglio, contribuendo all’ulteriore sviluppo di tale mercato». La norma ha quindi come obiettivo quello di agevolare il trasferimento di un conto di pagamento presso un prestatore di servizio di pagamento avente sede in uno Stato membro dell’UE diverso dallo Stato del prestatore di servizio di pagamento ricevente la richiesta di pagamento. Ciò posto, l’art. 2-bis del decreto in commento riproduce in buona sostanza il contenuto dell’art. 11 della direttiva talvolta richiamandolo esplicitamente ma con una sostanziale differenza attinente all’ambito oggettivo di applicazione della norma: l’art. 2-bis a differenza del corrispondente art. 11 della PAD trova applicazione non solo per i conti di pagamento ma anche per i conti correnti. Infatti il co. 1 della norma in commento prevede che in caso di richiesta di trasferimento del conto di pagamento o del conto corrente presso
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un istituto bancario o un prestatore di servizi di pagamento di uno Stato membro dell’Unione europea diverso da quello in cui ha sede l’istituto bancario o il prestatore di servizi di pagamento che riceve la richiesta di trasferimento, l’istituto bancario o il prestatore di servizi di pagamento che riceve la richiesta di trasferimento fornisce al consumatore, in seguito alla sua richiesta la seguente assistenza: a) fornire gratuitamente al consumatore un elenco di tutti gli ordini permanenti di bonifico e degli addebiti diretti ordinati dal debitore al momento attivi, ove disponibile, e le informazioni disponibili sui bonifici in entrata ricorrenti e sugli addebiti diretti ordinati dal creditore eseguiti sul conto del consumatore medesimo nei precedenti tredici mesi. Tale elenco non comporta per il nuovo prestatore di servizi di pagamento alcun obbligo di attivare servizi che non fornisce; b) trasferire l’eventuale saldo positivo del conto detenuto dal consumatore sul conto di pagamento o sul conto corrente aperto o detenuto dal consumatore presso il nuovo prestatore di servizi di pagamento, purché tale richiesta contenga informazioni complete che consentano l’identificazione del nuovo prestatore di servizi di paga-mento e del conto del consumatore; c) chiudere il conto detenuto dal consumatore. Circa i termini entro i quali deve essere prestata l’assistenza si specifica che trova applicazione il paragrafo 2 dell’art. 11 della PAD secondo il quale «fatto salvo l’articolo 45, paragrafi 1 e 6 della direttiva 2007/64/CE e se il consumatore non ha obblighi pendenti sul conto di pagamento, il prestatore di servizi di pagamento presso il quale il consumatore detiene il conto di pagamento conclude la procedura di cui alle lettere a), b) e c) del paragrafo 1 del presente articolo alla data specificata dal consumatore, che deve essere fissata ad almeno sei giorni lavorativi dopo il ricevimento della richiesta del consumatore da parte di tale prestatore di servizi di pagamento, salvo diverso accordo tra le parti. Il prestatore di servizi di pagamento informa immediatamente il consumatore se tali obblighi pendenti impediscono la chiusura del conto di pagamento».
5. De jure condendo. Come già detto, la PAD dovrà essere attuata entro settembre 2016 e senza dubbio la sua attuazione andrà ad incidere sulle norme commentate. Volendo ragionare de jure condendo, il 18 gennaio 2016 il Governo ha licenziato lo schema di disegno di legge recante delega al gover-
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no per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’unione europea (la cd legge di delegazione europea 2015). Relativamente all’oggetto di questo commento, l’art. 13 di tale progetto, volto a recepire le disposizioni della PAD, precisa innanzitutto che il recepimento di detta direttiva rappresenta un’opportunità, anche attraverso la previsione di facoltà da esercitare da parte del Governo, per incidere su tre profili, riconducibili alla materia che nel nostro ordinamento è regolata dalla normativa sulla trasparenza e sulla correttezza dei servizi bancari e finanziari. Il primo profilo riguarda le norme in materia di trasparenza e di comparabilità delle spese addebitate ai consumatori per i conti di pagamento detenuti nell’Unione europea (capo II della direttiva PAD). Si prevede l’adozione di una terminologia standardizzata per i servizi di pagamento più rappresentativi, armonizzata a livello europeo, e l’obbligo per i prestatori di servizi di pagamento di fornire ai consumatori le relative informazioni precontrattuali attraverso un documento standard. Inoltre, sono previste un’informativa annuale standard al consumatore circa le spese sostenute e l’istituzione in ogni Stato membro di almeno un sito internet per il confronto delle offerte presenti sul mercato. Il secondo profilo concerne le norme riguardanti il trasferimento del conto di pagamento all’interno di uno Stato membro e le norme per agevolare l’apertura di un conto di pagamento transfrontaliero da parte dei consumatori (capo III della direttiva PAD). La direttiva PAD mira a introdurre precisi obblighi per i prestatori di servizi di pagamento coinvolti in un’operazione di trasferimento del conto, in modo da assicurare che essa avvenga in modo spedito, entro tempi certi e senza perdite economiche per il consumatore. Infine, il terzo profilo attiene alle norme e alle condizioni in base alle quali gli Stati membri devono garantire il diritto dei consumatori dell’Unione europea di aprire e di usare un conto di pagamento con caratteristiche di base senza avere la residenza nel Paese in cui è situato il prestatore di servizi di pagamento. Inoltre, tali disposizioni consentiranno a tutti i consumatori dell’Unione europea, a prescindere dalla situazione finanziaria, di aprire un conto di pagamento che consenta loro di svolgere operazioni essenziali (capo IV della direttiva PAD). In tale senso, anche a seguito del confronto con la Banca d’Italia, sono state valutate le possibili modifiche da apportare alla normativa nazionale da attuare attraverso i princìpi e i criteri direttivi di delega. La definizione dei princìpi e criteri direttivi dettati al fine di perimetrare la delega legislativa con specifico riferimento all’attuazione delle
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norme di cui al Capo III della PAD sono indicati al comma 1, lett. h) del disegno di legge e sono i seguenti: 1) rivedere, ove opportuno, la disciplina di cui agli articoli 2 e 2-bis in commento prevedendone la confluenza nel t.u.b., e valutandone l’estensione, con gli opportuni adattamenti, anche ai casi in cui il trasferimento non è richiesto dal consumatore ma consegue alla cessione di rapporti giuridici da un intermediario a un altro, al fine di favorire l’efficienza del sistema e l’innalzamento della tutela dei consumatori; 2) prevedere che i prestatori di servizi di pagamento siano tenuti ad assicurare, su richiesta del consumatore, il reindirizzamento automatico dei bonifici ricevuti sul conto di pagamento di origine verso il conto di pagamento di destinazione, per un periodo di 12 mesi dalla ricezione dell’autorizzazione del consumatore; 3) stabilire che, quando il prestatore di servizi di pagamento trasferente cessa di accettare i bonifici in entrata e gli addebiti diretti sul conto di pagamento del consumatore al di fuori dei casi indicati al n. 2) della presente lettera, è tenuto a informare tempestivamente il pagatore o il beneficiario delle ragioni del rifiuto dell’operazione di pagamento e 4) valutare se introdurre meccanismi di trasferimento alternativi, purché siano nell’interesse dei consumatori, senza oneri supplementari per gli stessi e nel rispetto dei termini previsti dalla direttiva 2014/92/UE. In conclusione ci dobbiamo aspettare che con la completa attuazione della PAD le norme oggetto di commento (gli artt. 2 e 2-bis del d.l. n. 3/2015) troveranno giusta collocazione all’interno del Titolo V ter del t.u.b. e che comunque questo inserimento non avverrà senza modifiche ma si dovrà tenere conto dei principi e dei criteri direttivi prima elencati soprattutto con riferimento al primo ed al quarto che impongono la previsione di disposizioni che le norme in commento, attuando quasi pedissequamente il dettato comunitario, non potevano considerare.
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NORME REDAZIONALI
I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)
II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …
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Norme redazionali
4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).
III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile c.c. codice di commercio c.comm. Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall.
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Norme redazionali
legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)
l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.
2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.
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4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesinger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cura di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, Torino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Torino, Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume
IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze.
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