Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009
Diritto della banca e del mercato finanziario
3/2011
Saggi
ISSN 1722-8360
di particolare interesse in questo fascicolo
• Derivati e fallimento
• Finanziamenti bancari alle imprese in crisi
• Covered bonds
• Sintesi di giurisprudenza
luglio-settembre
3/2011 anno xxv
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luglio-settembre
3/2011 anno XXV
Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è coordinato dal prof. Vittorio Santoro.
Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria
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SOMMARIO 3/2011
PARTE PRIMA Saggi I contratti derivati nel fallimento, di Serenella Rossi
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Prescrizione e anatocismo negli affidamenti bancari. I principi giuridici stabiliti nella sentenza della Cassazione S.U. 23 novembre 2010, n. 24418: quelli enunciati e quelli impliciti, di Roberto Marcelli
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Dibattiti Finanziamenti bancari alle imprese in crisi fra prededuzione e subordinazione – Incontro di studio del 18 marzo 2011, con interventi di Lucia Calvosa, Salvatore Maccarone, Fabrizio Maimeri, Alessandro Nigro, Stefania Pacchi, Antonio Piras, Gaetano Presti, Maurizio Sciuto, Giuseppe Terranova, Daniele Vattermoli
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Rassegne Sintesi di giurisprudenza (III trimestre 2010)
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PARTE SECONDA Legislazione Modifiche al t.u. bancario – D. lgs. 30 dicembre 2010, n. 239, recante attuazione della direttiva 2009/111/ CE riguardante gli enti creditizi collegati ad organismi centrali, taluni elementi dei fondi propri, i grandi fidi, i meccanismi di vigilanza e la gestione delle crisi, con osservazioni di Francesco Mazzini
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Documenti e Informazioni Profili giuridici dei covered bonds, la “nuova stella” del mercato delle ABS, di Antonella Brozzetti
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Norme
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redazionali
PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ
SAGGI
I contratti derivati nel fallimento* Sommario: 1. Premessa. – 2. Il dibattito in corso negli Stati Uniti sulla disciplina dei contratti derivati nel fallimento: le norme del Bankruptcy Code. – 2.1. I dubbi avanzati dalla dottrina sull’effettiva capacità della disciplina di prevenire e contenere il rischio sistemico. – 2.2. I possibili effetti collaterali della protezione accordata al contraente in bonis: il disincentivo al controllo sulle condizioni del debitore. – 2.3. Segue. Il pericolo di comportamenti opportunistici. – 2.4. Segue. La regola del closeout e il possibile pregiudizio alla conservazione del valore degli assets dell’impresa. – 3. Contenuti e funzione della disciplina italiana: la legittimità delle clausole di close-out netting ed alcune questioni interpretative controverse. – 4. Impressioni e prospettive. – 5. Le norme fallimentari e le misure di contrasto e prevenzione delle crisi finanziarie. – 6. L’auspicabile riforma della disciplina dei contratti derivati nel fallimento: protezione dei mercati e par condicio creditorum.
1. Premessa. Gli effetti del fallimento sui contratti derivati e sui crediti da essi generati sono oggetto, nel nostro diritto interno, di una disciplina piuttosto scarna e poco appariscente. La legge fallimentare italiana non si occupa infatti espressamente e direttamente dei contratti derivati che siano stati stipulati dal fallito, né nelle norme relative ai contratti pendenti, né in quelle che stabiliscono gli effetti del fallimento per i creditori. Se ne occupa, tuttavia, l’art. 203, t.u.f. che, fatta eccezione per il caso di cui all’art. 90, t.u.b. (continuazione dell’esercizio dell’impresa negli istituti di credito), dichiara applicabile “agli strumenti finanziari derivati, a quelli analoghi individuati ai sensi dell’art. 18, co. 5, lett. a), alle operazioni a termine su valute nonché alle operazioni di prestito titoli, di pronti contro termine e di riporto” l’art. 76, l.fall.
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Questo saggio è destinato agli Studi in ricordo di Pier Giusto Jaeger.
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Questa norma, come è noto, dispone lo scioglimento dei contratti di borsa a termine alla data della dichiarazione di fallimento di uno dei contraenti se il termine scade in data successiva e prevede altresì che la differenza fra il prezzo contrattuale e il valore delle cose o dei titoli alla data di dichiarazione di fallimento sia versata al fallimento se il fallito risulta in credito, o sia ammessa al passivo nel caso contrario. Quanto alla determinazione del saldo del rapporto, l’art. 203, t.u.f. stabilisce inoltre che, per gli strumenti finanziari e le operazioni indicati nel proprio co. 1, «può farsi riferimento anche al costo di sostituzione dei medesimi, calcolato secondo i valori di mercato alla data di dichiarazione di fallimento o di efficacia del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa». Sulla materia incidono tuttavia in modo significativo, come si vedrà meglio in seguito, le disposizioni introdotte dal d.lgs. 170/2004, relative ai contratti di garanzia finanziaria (in attuazione della Dir. 2004/47/CE – cd. Direttiva Collateral), che consentono l’escussione delle garanzie, nonché l’interruzione dei rapporti e il pagamento del saldo netto dei contratti di garanzia finanziaria e dei contratti che li comprendono, anche in caso di apertura di procedure concorsuali di liquidazione. La dottrina italiana ha dedicato a tali disposizioni un’attenzione essenzialmente finalizzata a verificarne le modalità e i limiti di applicazione, nonché il rapporto con la disciplina comune, parzialmente derogata nel caso di specie, e solo raramente ne ha colto le implicazioni di tipo più strettamente “finanziario” 1. Viceversa, negli Stati Uniti, il tema è stato ed è tuttora oggetto di intenso scrutinio nonché di vivace dibattito quanto agli effetti di sistema indotti dalla disciplina vigente, a seguito di un ampio intervento del legislatore che ha provveduto, con numerose e successive riforme, a regolare la materia in modo organico e compiuto, varando un nutrito corpo di disposizioni visibilmente finalizzate ad offrire una significativa (e crescente) protezione alla parte in bonis di una gamma sempre più vasta di contratti finanziari, e di contratti derivati nello specifico 2, al
1 Così invece Perrone, La riduzione del rischio di credito negli strumenti finanziari derivati, Milano, 1999, che ringrazio per la lettura di questo scritto quando era ancora in bozze ed il proficuo colloquio che ne è seguito. In una analoga prospettiva v. anche, ma più recentemente, Laudonio, Le clausole di close-out netting nel d.lgs. 170/2004, in Dir. fall., 2007, p. 540 ss. 2 Sulle modifiche progressivamente apportate all’originaria disciplina del Bankruptcy Code in materia di contratti finanziari, nel segno del crescente rafforzamento della tutela
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dichiarato fine di garantire stabilità ai mercati e pertanto di perseguire interessi di indiscusso rilievo generale. Il contenuto e le finalità di tale riforma sono state attentamente osservate anche degli studiosi di diritto e di finanza i quali ne hanno, in un primo tempo, condiviso l’impostazione, anche considerando la crescente massa di operazioni in derivati e le necessarie esigenze di liquidità del sistema, ma, recentemente, nell’ambito della riflessione sulle possibili cause della crisi finanziaria e dei grandi dissesti che ne sono conseguiti, hanno iniziato a riesaminarne in chiave critica il fondamento e l’adeguatezza. La relativa disciplina è pertanto attualmente posta sotto stretta osservazione perché sospettata di dare adito a comportamenti inefficienti o di eccessivo azzardo, di accelerare o di incrementare i dissesti, disperdendo valore e creando instabilità negli stessi mercati. Ed in effetti, come si vedrà, le regole relative alle conseguenze del fallimento sui contratti di tipo finanziario si rivelano un versante assai delicato della disciplina della crisi dell’impresa e di rilievo strategico per gli equilibri di sistema, soprattutto ove applicate ai contratti derivati di credito. Questi ultimi, infatti, sono generalmente stipulati e negoziati nei mercati c.d. over the counter, cioè in mercati non regolamentati, poco trasparenti quanto alla formazione dei prezzi e non soggetti ai
della parte in bonis cfr. Sissoko, The Legal Foundation of Financial Collapse, in www. ssrn.com, 2009, p. 2 ss. L’a. segnala come tale operazione sia stata realizzata attraverso la previsione di definizioni sempre più ampie dei contratti esentati dalla disciplina comune, idonee a giustificare la disapplicazione delle norme del Code in tutti i casi di contratti derivati, indipendentemente dalla loro natura di contratti tipizzati, standardizzati o regolamentati. Sulla particolare tecnica definitoria adottata dalla disciplina di esenzione riservata ai contratti finanziari dalle successive riforme del Code cfr. anche Morrison - Riegel, Financial Contracts and the New Bankruptcy Code: Insulating Markets from Bankrupt Debtors and Bankruptcy Judges, in www.ssrn.com, 2006, i quali osservano come il legislatore abbia applicato un principio di prevalenza della forma sulla sostanza, mediante la predisposizione di un elenco casistico composto di figure contrattuali tipizzate dalla prassi, munito di una clausola di chiusura che estende la disciplina di esenzione a tutti quei contratti che manifestino una qualche somiglianza con quelli specificamente indicati. Tale tecnica di redazione delle norme (usata dal nostro stesso legislatore che, nell’elenco degli strumenti finanziari di cui all’art. 1, t.u.f., descrive talune fattispecie per rinvio ad altre con analoghe “caratteristiche”) mutua le fattispecie da quelle che la prassi dei mercati ha elaborato, senza ri-valutarle (ed eventualmente ri-definirle) su base funzionale, privando lo stesso organo giudicante di tale facoltà, e con ciò configurando un regime di esenzione che pare concesso più che a specifici contratti, al mercato dei contratti finanziari in generale.
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controlli né alle discipline di prevenzione delle insolvenze di mercato normalmente previsti dagli ordinamenti. Si tratta inoltre molto spesso di contratti non standardizzati, talora illiquidi perché privi di un mercato secondario e come tali non suscettibili di avere esecuzione nell’ambito di sistemi di compensazione e garanzia, stipulati da imprese anche diverse dagli intermediari finanziari autorizzati. Tutto ciò rende questo sistema di scambi assai poco controllabile e pertanto particolarmente idoneo ad innescare processi di crisi suscettibili di ulteriori e pericolose espansioni.
2. Il dibattito in corso negli Stati Uniti sulla disciplina dei contratti derivati nel fallimento: le norme del Bankruptcy Code. Per comprendere i termini del dibattito statunitense sulle possibili conseguenze di sistema legate alle diverse opzioni normative ed interpretative in materia di disciplina dei derivati nel fallimento, occorre dare un sintetico sguardo ai contenuti delle disposizioni che in quell’ordinamento regolano la materia. Come detto pocanzi, la disciplina del Bankruptcy Code in materia di contratti derivati si connota per un trattamento di protezione massima del contraente in bonis. In caso di fallimento di uno dei contraenti, infatti, i contratti derivati (la quasi totalità dei tipi di contratti derivati normalmente stipulati sui mercati) di cui è parte il fallito sono esentati da molte di quelle disposizioni, applicabili ai contratti e ai crediti comuni non privilegiati, che pongono limiti e vincoli alle iniziative del contraente in bonis finalizzate al recupero del suo credito al di fuori delle regole del concorso. Innanzitutto a tali contratti è inapplicabile il divieto di risoluzione automatica in caso di assoggettamento di una delle parti a procedura concorsuale, con piena validità, pertanto, delle clausole di close-out normalmente in essi contenute ed operanti in caso di insolvenza o di procedura concorsuale. Pure inapplicabile è il c.d. automatic stay, cioè il divieto di azioni esecutive sul patrimonio del fallito al di fuori del consenso degli organi della procedura. Nemmeno applicabile è la regola che sancisce l’inefficacia degli atti compiuti dal fallito in pregiudizio dei creditori. Più specificamente il Code riconosce i diritti nascenti dal master netting agreement, contratto normativo che regola i rapporti tra le parti aderenti e che prevede lo scioglimento automatico del contratto (e/o
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l’accelerazione della conclusione dei contratti stipulati) in presenza di indici di insolvenza e in caso di fallimento di uno dei contraenti, con il conseguente set-off, cioè la chiusura di tutti i rapporti in essere tra le parti, e il cross product netting, cioè la compensazione dei reciproci pagamenti sebbene nascenti da contratti diversi ove questi siano tutti regolati dal master agreement (v. USC, tit. 11, §§ 362, 546, 538, come modificati dal § 907 del BAPCPA – Bankruptcy Abuse Prevention and Consumer Protection Act- del 2005). Pertanto, ove sia dichiarato il fallimento di una delle parti del contratto, la controparte opera il close-out netting e se, come generalmente avviene, dispone di garanzie finanziarie in titoli o in cash, può escuterle liberamente. Quali i motivi dichiarati di questa opzione legislativa? Le ragioni che si invocano a suo sostegno richiamano essenzialmente due ordini di considerazioni. In primo luogo c’è la preoccupazione di contenere il rischio sistemico in cui una generalizzata carenza di liquidità dovuta alla gestione di tali contratti nell’ambito della procedura potrebbe condurre i mercati finanziari 3. In effetti, se non fosse applicabile la regola del close-out, quindi lo scioglimento del contratto in caso di fallimento di una delle parti, sarebbe applicabile la disciplina generale, con la conseguente possibilità per il curatore fallimentare di scegliere, sulla base della profittabilità di ciascuna posizione, quali contratti proseguire e quali sciogliere (c.d. cherry picking). Ciò esporrebbe la controparte non solo alla perdita dei contratti più vantaggiosi, ma soprattutto all’incertezza e all’attesa delle decisioni degli organi della procedura. Se si considera che il mercato dei derivati è assai concentrato e che gli operatori sono esposti con altri contratti verso
3 Sulle motivazioni ufficialmente poste a base della disciplina speciale riservata ai contratti derivati dal Bankryptcy Code, v. Edwards - Morrison, Derivatives and the Bankruptcy Code: Why the Special Treatment?, in www.ssrn.com, 2004, e Bliss - Kaufman, Derivatives and Systemic Risk: Netting, Collateral, and Closeout, in www.ssrn.com, 2005, p. 3, Sissoko, The Legal Foundation, cit, p. 13 ss. Il Rapporto del President’s Working Group on Financial Markets del 1999 giustifica le esenzioni dalle norme concorsuali comuni concesse ai contratti derivati dichiarando che «these rights, in general, contribute to the stability of markets as a whole by reducing the potential size of credit exposures and thus lowering the probability that the inability of one market participant to meet their obligations will cause others to be unable to meet their obligations (i.e. domino effects)».
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altre controparti, l’impossibilità di liquidare prontamente e con certezza le posizioni implicate nella procedura concorsuale potrebbe mettere in difficoltà il funzionamento dell’intero sistema. La tecnica del netting (nelle forme sia del netting by novation, che in tali contratti opera periodicamente con funzione novativa del rapporto, determinando il saldo dei reciproci pagamenti, sia del close-out netting, che opera nel caso in cui si verifichi uno degli eventi di default indicati nel master agreement quali causa di scioglimento anticipato del contratto) presenta poi l’indubbio vantaggio di ridurre notevolmente il rischio dell’operazione, dal momento che ciascuna delle parti risulta esposta soltanto per la differenza ottenuta dal saldo risultante dalla compensazione delle reciproche posizioni di debito e credito. Si sostiene che questa soluzione aumenti la liquidità complessiva del sistema e che ciò sia positivo perché riduce l’ammontare del capitale immobilizzato nell’impresa e lo rende disponibile per ulteriori investimenti 4. Sotto altro profilo si sottolinea come la generalizzazione della regola del close-out per i contratti derivati a seguito del fallimento di una delle parti non appare particolarmente pregiudizievole per il soggetto fallito, che si assume svolga attività imprenditoriale, per via della loro naturale fungibilità che li rende intrinsecamente estranei al c.d. going concern dell’impresa. Si osserva che tali contratti possono essere facilmente sostituiti, che sono privi di una specificità funzionale e pertanto privi di peculiare rilievo nell’ambito degli assets dell’impresa fallita. Ne consegue che il loro scioglimento anticipato non potrebbe pregiudicare in alcun modo il valore dell’impresa anche laddove si voglia tentare il risanamento della stessa o la cessione in blocco dell’azienda.
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In tal caso, infatti, gli Accordi di Basilea II consentivano alle banche di ridurre legittimamente il proprio patrimonio di vigilanza. Sulla funzione del close-out netting nella gestione del rischio cfr. Perrone, La riduzione, cit., p. 52 ss., Caputo Nassetti, I contratti derivati finanziari, Milano, 2007, p. 146 ss.; De Biasi, Un nuovo master agreement per strumenti finanziari sofisticati, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, p. 644 ss.; Minneci, La stabilità degli effetti indotti dalle clausole di close-out netting, in Contr., 2009, p. 501 ss. Sul progressivo riconoscimento degli effetti del close-out netting nella mitigazione del rischio da parte del Comitato di Basilea e sulle conseguenti decisioni di riduzione dei coefficienti patrimoniali richiesti alle banche cfr. Laudonio, Le clausole, cit., p. 544.
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2.1. I dubbi avanzati dalla dottrina sull’effettiva capacità della disciplina di prevenire e contenere il rischio sistemico. Nonostante la ferrea determinazione del legislatore federale ad implementare la segnalata disciplina speciale per i contratti derivati nel fallimento e a sostenerne le ragioni, le considerazioni appena esposte, e le soluzioni normative che vi hanno trovato fondamento, sono attualmente oggetto di crescenti dissensi da parte degli osservatori, che ne evidenziano alcuni profili di inefficacia e, soprattutto, importanti effetti collaterali potenzialmente pericolosi. In primo luogo si mette in discussione l’effettiva capacità di tali norme di prevenire effetti dannosi per il sistema. Non è chiaro infatti quale tipo di rischio sistemico il legislatore abbia inteso contrastare nella loro implementazione 5. Se il rischio sistemico temuto è quello della propagazione dell’insolvenza di un contraente alle sue controparti, si osserva che tale eventualità può, paradossalmente, materializzarsi proprio in applicazione della speciale disciplina prevista dal Code, che finirebbe, presenti certe condizioni, per generare effetti addirittura controproducenti per la stabilità dei mercati e la solvibilità delle imprese. Il rischio di insolvenze a catena appare infatti alimentato non solo e non tanto dalle caratteristiche intrinseche di tali contratti, quanto dalle dimensioni assunte dal fenomeno dei derivati al momento attuale, e pertanto dall’elevato valore aggregato dei contratti in circolazione (basti pensare che nel 2007 il valore nozionale dei derivati in essere superava il valore del PIL mondiale). Se si considera inoltre che tali contratti sono generalmente negoziati tra pochi e grandi operatori, è evidente che l’insolvenza di una delle parti possa avere conseguenze esiziali sulle controparti. Tuttavia, si osserva, proprio la legittimità riconosciuta al close-out netting e l’agevole escussione delle garanzie che assistono quei contratti hanno l’effetto di favorire tale concentrazione, dal momento che quelle tecniche di esecuzione del contratto sono tipicamente congeniali, e specificamente funzionali, alla regolazione di una pluralità di rapporti tra i medesimi operatori 6. Più in generale si segnala che, se l’obbiettivo perseguito dalla disciplina speciale è quello di agevolare la gestione del rischio per le parti
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Cfr. Bliss- Kaufman, Derivatives, cit., p. 16 ss. Bliss - Kaufman, Derivatives, cit., p. 18.
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contraenti, le conseguenze di tale opzione possono risultare assai pericolose sul piano sistemico perché legittimano le banche e le altre istituzioni finanziarie che negoziano simili contratti ad operare con ridotte riserve patrimoniali, esponendosi in tal modo a condizioni di maggiore instabilità 7. Non pare, quindi, che basti proteggere gli operatori dalle perdite per prevenire il rischio sistemico. Al contrario, proprio il “mito” della liquidità, posto a fondamento di tali esenzioni, finisce per rendere gli equilibri di sistema più precari, consentendo agli operatori (in particolare alle banche) di ridurre le cautele tipicamente adottate per proteggersi dal rischio di default (adeguata capitalizzazione ed accurata gestione del rischio) 8. Ed in effetti, si sostiene, il rischio sistemico si è materializzato pur nella vigenza (ed in applicazione) delle speciali disposizioni del Code che hanno in tal modo dimostrato la loro inidoneità a garantire il risultato ad esse affidato. Si porta come esempio il caso del dissesto del fondo hedge Long Term Capital Management, titolare di contratti derivati dal valore nozionale complessivo di più di un trilione di dollari. La corsa alla chiusura di tali contratti da parte della maggioranza delle controparti rischiava di generare un crollo di fiducia dei mercati ed ulteriori iniziative di liquidazione anche di contratti diversi ed estranei al dissesto di LTCM, tanto da richiedere un intervento di sostegno della FED. In definitiva, si argomenta che il ricorso massiccio al close-out, ove il valore dei contratti sia molto rilevante, può esporre il sistema finanziario ad un rischio analogo a quello che le stesse disposizioni del Code vorrebbero scongiurare 9.
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Cfr. Sissoko, The Legal Foundation, cit., p. 16. C. Sissoko, The Legal Foundation, cit., p. 20. 9 Cfr. Edwards - Morrison, Derivatives, cit., p. 9 ss. Gli autori sottolineano anche come non vi siano prove sufficienti per ritenere che l’applicazione a simili contratti della disciplina fallimentare di diritto comune abbia l’effetto di incrementare il rischio sistemico o di alimentare il rischio di contagio e le insolvenze a catena; v. inoltre Partnoy - Skeel jr., The Promise and Perils of Credit Derivatives, in www.ssrn.com, 2007, p. 1049. Per Bliss - Kaufman, Derivatives, cit., p. 20 ss., se la concessione di collateral e la possibilità del netting svolgono comunque una funzione positiva perché consentono di migliorare la gestione del rischio di credito e di controparte, il close-out rappresenta un importante fattore di rischio sistemico perché pone il debitore nell’urgenza di liquidare il collateral e di sopportare i costi della stipula di nuovi contratti, rischiando di compromettere la gestione della crisi e le possibilità del suo superamento. 8
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Si consideri inoltre che la salvaguardia concessa alle clausole del master agreement dalle regole fallimentari fa sì che siano legittime anche le iniziative di liquidazione adottate dalle controparti nel periodo precedente la dichiarazione di insolvenza, con l’effetto di accelerare il dissesto dell’impresa in difficoltà e di impedire eventuali operazioni di ristrutturazione 10. Questa eventualità è tanto più rilevante quando, come nel caso di LTCM, l’acquisto di contratti derivati sia stato operato con ampio ricorso alla leva finanziaria (si consideri che il valore nozionale dei derivati in essere era di circa 1,5 trilioni di dollari a fronte di un patrimonio netto di 2,5 bilioni di dollari), come è frequente in simili operazioni e giustificato proprio dalla legittimazione del netting (che ha l’effetto di ridurre la porzione di patrimonio esposta al rischio). 2.2. I possibili effetti collaterali della protezione accordata al contraente in bonis: il disincentivo al controllo sulle condizioni del debitore. Su altro versante si osserva che la soluzione adottata dal Code può generare comportamenti inefficienti nella misura in cui riduce gli incentivi al monitoraggio sulle condizioni di rischio della controparte. In effetti, la speciale protezione accordata ai contratti derivati nel fallimento della controparte attribuisce una sorta di privilegio ex lege ai crediti nascenti da tutti i contratti rientranti nelle descritte tipologie (che in tal modo acquisiscono di fatto un grado di seniority superiore a quello di altri crediti pure garantiti) e in questi casi, come sempre avviene quando il creditore goda di una qualche specifica garanzia, il monitoraggio sulle condizioni di rischio del debitore si riduce inevitabilmente. Questo dato, in sé considerato, è particolarmente grave poiché gli operatori finanziari, parti tipiche di questi contratti, sono i soggetti normalmente più attrezzati ad esercitare il controllo sulle condizioni e sulle iniziative del debitore e questa attività di verifica può indirettamente giovare ai creditori cd. non adjusting e a quelli involontari, incapaci di controllare e valutare il rischio che corre il proprio credito e/o di rinegoziarne le condizioni 11.
10
Cfr. Bliss - Kaufman, Derivatives, cit., p. 6. Edwards - Morrison, Derivatives, cit., p. 31, sottolineano altresì come la speciale tutela prevista per i crediti nascenti da contratti derivati nel fallimento comporti un aumento dei costi per le stesse imprese laddove i creditori comuni ed adjusting, conside11
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Senza contare che la protezione concessa in questi casi al creditore di fronte al fallimento della controparte lo induce normalmente, e sistematicamente, ad opporsi alle proposte di sistemazione e superamento della crisi che il debitore possa presentare, con ciò contribuendo a determinare soluzioni di liquidazione e di disgregazione dell’impresa che potrebbero altrimenti essere evitate12.
2.3. Segue. Il pericolo di comportamenti opportunistici. La riduzione delle attività di monitoraggio del debitore sulla controparte, indotta dalle norme sopra richiamate, acquista connotati ancor più preoccupanti di fronte alla possibilità che ne risultino pure agevolati comportamenti opportunistici e di eccessivo azzardo, a danno della massa dei creditori. Si porta ad esempio il caso della AIG, grande impresa di assicurazioni che aveva venduto un’ingente quantità di credit default swaps relativi a strumenti finanziari collegati a mutui subprime (subprime mortgage linked securities) per un valore nozionale pari ai due terzi del suo equity value. Al tempo stesso aveva investito massicciamente negli stessi titoli esponendo buona parte del suo patrimonio allo stesso rischio che si era impegnata a coprire con i credit default swaps. Al momento del crollo dei prezzi degli immobili e della crisi dei mutui subprime, AIG si è tro-
rato lo specifico rischio di postergazione cui sono esposti, richiedano speciali garanzie e corrispettivi più elevati per la concessione del credito. In senso analogo Roe, The Derivatives Market’s Payment Priorities as Financial Crisis Accelerator, in www.ssrn.com, 2010, p. 12 ss., che pure sottolinea come la protezione concessa dal Code alla parte in bonis concentri il rischio di controparte sui soggetti meno in grado di controllarlo, cioè gli altri creditori e lo stesso Stato, candidato a sopportare le perdite ove decida di intervenire con iniziative di sostegno o salvataggio, ma estraneo ad un rapporto contrattuale con la parte insolvente e non sempre titolare di poteri di controllo e regolazione su di essa; v. anche Partnoy - Skeel jr., The Promise, cit., p. 1032 ss. 12 Cfr. Edwards - Morrison, Derivatives, cit., p. 13. La situazione evoca quella, analoga, del c.d. empty credit, cioè del credito comunque garantito da un’operazione di hedging (come ad es. la stipulazione di un CDS) in cui la dissociazione tra interesse economico e diritti afferenti alla posizione creditoria crea un evidente disincentivo nel creditore empty a sostenere le possibili soluzioni di salvataggio o risanamento dell’impresa insolvente (cfr. Hu - Black, Debt, Equity, and Hydrid Decoupling: Governance and Sistemic Risk, in www.ssrn.com, 2009; Hu, “Empty Creditors” and the Crisis, in Wall Street Journal, 10 aprile 2009).
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vata a subire enormi perdite del suo portafoglio titoli ed al tempo stesso esposta a coprire le perdite di terzi sulla base degli swaps che aveva venduto 13. L’operazione è in odore di frode ai creditori unsecured di AIG laddove la correlazione tra la propria possibile insolvenza e la contestuale attivazione dei diritti spettanti ai compratori degli swaps fosse nota e deliberatamente perseguita da AIG. In tal caso, infatti, sia AIG, sia gli acquirenti degli swaps avrebbero guadagnato nell’operazione: la prima per aver incassato il corrispettivo di quei contratti e i secondi per la protezione garantita alle loro posizioni creditorie dalla legge fallimentare vigente. La perdita sarebbe stata invece traslata sui creditori estranei all’operazione e privi di altre garanzie o protezione. In un caso come questo vi sono altre responsabilità implicate: quelle delle agenzie di rating che avevano dato valutazione positiva all’operazione e del sistema dei controlli su un’impresa comunque soggetta a vigilanza, pertanto obbligata a gestire ed investire il proprio patrimonio secondo regole e vincoli ben precisi, regole che AIG in questo caso aveva verosimilmente eluso. Resta certo, tuttavia, che la protezione offerta alle controparti dei contratti derivati dalla disciplina fallimentare vigente ha provveduto a depotenziare quella ulteriore attività di controllo sulla situazione del debitore che in altre condizioni il creditore avrebbe verosimilmente effettuato.
2.4. Segue. La regola del close-out e il possibile pregiudizio alla conservazione del valore degli assets dell’impresa. L’ultima obiezione che viene mossa alla disciplina in esame riguarda più strettamente la regola del close-out, cioè lo scioglimento del contratto in caso di fallimento di una delle parti.
13
Cfr. Squire, The Opportunistic Use of Derivatives and Other Contingent Claims, in www.ssrn.com, 2009, p. 17 ss. L’autore sottolinea come tali operazioni, basate su un alto livello di correlazione tra gli eventi cui è subordinata l’escussione degli impegni di assicurazione o garanzia assunti e gli eventi suscettibili di produrre decrementi del proprio patrimonio, siano, non solo potenzialmente lesive degli interessi dei creditori non garantiti dell’impresa insolvente, quanto intrinsecamente idonee ad aumentare il rischio di insolvenza degli operatori che vi sono coinvolti nonché ad aumentare il rischio sistemico ove tali operatori svolgano attività di hedging nei confronti di altre imprese finanziarie (v. p. 25).
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Si osserva infatti che la chiusura di questi contratti non è sempre ininfluente sul valore dell’impresa fallita o insolvente e potrebbe pregiudicare la conservazione del valore dei suoi assets quando i contratti derivati siano stati stipulati con finalità essenzialmente assicurativa 14. La speciale disciplina prevista dal Code dovrebbe quindi essere oggetto di un’applicazione selettiva e successiva ad una valutazione su base funzionale dei contratti derivati in essere. La decisione sulle sorti dei contratti cui la disciplina speciale sia giudicata inapplicabile dovrebbe essere rimessa al curatore della procedura 15. Si conviene tuttavia sul fatto che il Code offre ben poco margine ad una simile interpretazione. La disciplina speciale è infatti riferita ad una serie di contratti individuati per tipologia e sulla base delle loro caratteristiche strutturali. Ed in effetti, non sembra facile operare tale discriminazione su base funzionale se si considera che anche i contratti derivati stipulati con reale finalità di copertura dal rischio di credito o dalla fluttuazione del valore di un’entità di riferimento hanno, o possono avere, una componente speculativa, ad esempio quando il costo della protezione sia a sua volta collegato a variabili aleatorie dalle cui oscillazioni il venditore di protezione si ripromette di trarre un profitto o quando il contratto stipulato
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Partnoy - Skeel jr., The Promise, cit., p. 1050 ss.; Lubben, Derivatives and Bankruptcy: The Flawed Case for Special Treatment, in www.ssrn.com, 2009, p. 20 ss.; Faubus, Narrowing The Bankruptcy Safe Harbor for Derivatives to Combat Systemic Risk, in www.ssrn.com, 2010, secondo il quale, se è vero che il close-out dei contratti produce un vantaggio in termini di liquidità per la parte in bonis, tale vantaggio è superato dal pregiudizio che subirebbe l’impresa insolvente quando il contratto presenti un going concern surplus, abbia cioè uno specifico valore per l’impresa che lo ha stipulato, valore non recuperabile se l’impresa è costretta a cessare il rapporto e/o a ricostituirlo con altra controparte. Ciò accade tipicamente nel caso in cui il contratto derivato sia stipulato con finalità di hedging, ciò che dovrebbe condurre, in particolare nel caso di procedure concorsuali con finalità di risanamento, a disapplicare, in tali contratti, le esenzioni di cui al Bankruptcy Code e a ricondurli alla disciplina comune, con assoggettamento all’automatic stay e al cherry picking da parte del debitore. Questo nella prospettiva non solo di tutelare l’interesse dell’impresa in crisi, ma anche di prevenire il rischio sistemico che si può generare dalla sottrazione alle imprese di assets essenziali per la loro attività. 15 Lubben, Derivatives, cit., p. 24, che propone di limitare la speciale disciplina prevista dal Code alle sole procedure di liquidazione dell’impresa insolvente e ai soli contratti stipulati da operatori finanziari, che per ciò stesso si presumono avere finalità speculativa, applicando invece la disciplina comune nell’ambito delle procedure di ristruttuazione dell’impresa (di cui al Chapter 11) e relativamente ai contratti stipulati da imprese non finanziarie.
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con finalità di protezione si inserisca in una filiera di ulteriori rapporti in cui il protection seller si copre a sua volta dal rischio assunto con l’intento di speculare sulle possibili differenze di valore tra i contratti di cui è parte.
3. Contenuti e funzione della disciplina italiana: la legittimità delle clausole di close-out netting ed alcune questioni interpretative controverse. Come detto in apertura, l’unica disposizione che, nel diritto italiano, regola in modo diretto ed esplicito la sorte dei contratti derivati in caso di fallimento di una delle parti appartiene alla disciplina del t.u.f., e quindi all’ambito di una normativa dedicata all’attività degli intermediari finanziari Gli interpreti ritengono tuttavia che la norma sia di generale applicazione, e pertanto non limitata ai contratti di cui sia parte un intermediario finanziario o stipulati nell’ambito della prestazione di servizi finanziari, dal momento che l’art. 203, t.u.f., dichiara applicabile l’art. 76, l.fall. agli strumenti finanziari derivati in sé considerati, senza ulteriori precisazioni e quindi anche ai contratti stipulati tra soggetti non intermediari (o non intermediari autorizzati) 16. Dal punto di vista oggettivo, si tratta di capire a quali contratti esattamente la norma si riferisca e a tal fine occorre basarsi sulla definizione di “strumenti finanziari derivati” di cui al co. 3 dell’art. 1, t.u.f., che a sua volta rinvia alle fattispecie di cui al co. 2, lett. d-i e j) ed al co. 1 -bis, lett. d. Se ne ricava un ampio elenco di tipologie contrattuali, ulteriormente ampliato dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 164/2007. La norma sembra pertanto applicabile alla generalità dei tipi contrattuali di derivati attualmente conosciuti, compresi tutti i contratti derivati di credito. Infatti, se prima della novella del 2007 poteva, ad esempio, porsi in dubbio la natura di strumento finanziario di alcuni tipi di credit default
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Perrone, La riduzione, cit., p. 109; Finardi - Ruggeri, Interest Rate Swap e fallimento, in Contr., 2003, p. 97; Doria Di Benedetto - Stecconi, Commento all’art. 203, in Il testo unico dell’intermediazione finanziaria. Commentario, diretto da Rabitti Bedogni, Milano, 1998, p. 1110 ss; Girino, I contratti derivati, Milano, 2001, p. 389, Id, I contratti derivati, Milano, 2010, p. 594.
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swap collegati a crediti non incorporati in strumenti finanziari o valori mobiliari, oggi, la lett. f) della citata norma pare includere nella definizione anche tali contratti (laddove menziona «altri contratti derivati (…) connessi a beni, diritti, obblighi, indici e misure diversi da quelli indicati nelle lettere precedenti, aventi le caratteristiche di altri strumenti finanziari derivati»). Quanto agli accordi di close-out netting, le norme citate non vi fanno alcun esplicito richiamo e lascerebbero pertanto impregiudicata la verifica della loro compatibilità con la disciplina fallimentare. Il legislatore vi provvede tuttavia nel d.lgs. 170/2004, in materia di contratti di garanzia finanziaria, che contempla espressamente tale clausola, ammettendone così la validità e specificando che «ha effetto in conformità di quanto dalla stessa previsto, anche in caso di apertura di una procedura di risanamento o di liquidazione nei confronti di una delle parti». Dichiara inoltre espressamente inapplicabili ai contratti di garanzia finanziaria, nonché alle garanzie finanziarie prestate in conformità al decreto, l’art. 203, t.u.f. e l’art. 76, l.fall. La clausola di close-out netting cui è applicabile la richiamata disciplina è quella contenuta in un contratto di garanzia finanziaria o in un contratto che comprende un contratto di garanzia finanziaria (art. 1, lett. f). Dal momento che molti contratti derivati sono assistiti da garanzie finanziarie, la clausola in esame sarà per essi valida ed operante. La disciplina riguarda tuttavia soltanto i contratti stipulati tra i soggetti qualificati di cui all’elenco riportato all’art. 1 e cioè le autorità pubbliche, le banche centrali, gli enti finanziari sottoposti a vigilanza prudenziale, le controparti centrali, gli agenti di regolamento o le stanze di compensazione ed altresì i soggetti privati diversi dalle persone fisiche purché la controparte sia uno dei soggetti in precedenza indicati. Non è chiaro se da tali disposizioni possa desumersi un generale riconoscimento della validità della clausola di close-out netting anche al di fuori dei contratti espressamente menzionati dal citato decreto (nel caso, ad esempio, di un contratto derivato non assistito da un contratto di garanzia finanziaria) o laddove pattuita tra soggetti diversi da quelli indicati all’art. 1 (ad esempio tra imprese che non siano enti finanziari vigilati). Né è chiaro come la disciplina speciale sui contratti di garanzia finanziaria si rapporti alle disposizioni comuni della legge fallimentare in materia di compensazione tra debiti e crediti di cui sia titolare la parte in bonis nei confronti del fallito, nonché alla disciplina della revocatoria ordinaria e fallimentare.
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Quanto al primo problema, va notato che l’art. 76, l.fall. rende già operante all’interno del rapporto un meccanismo di tipo compensativo 17 “tra il prezzo contrattuale e il valore delle cose o dei titoli alla data della dichiarazione di fallimento”. Tale regola viene poi adattata agli strumenti finanziari dall’art. 203, co. 2, t.u.f., ove si stabilisce che, per determinare il saldo del rapporto, «può farsi riferimento anche al costo di sostituzione degli strumenti finanziari stessi, calcolato secondo i valori di mercato alla data di dichiarazione di fallimento o di efficacia del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa», con ciò evocando una tecnica di determinazione del saldo tipica delle clausole di close-out netting (c.d. criterio del mark to market). Nulla è detto invece a proposito del c.d. cross product netting, cioè della compensazione (in senso proprio) di tutte le posizioni in essere tra le parti, anche derivanti da contratti diversi, prevista generalmente dai master agreements. Tuttavia la nostra legge fallimentare contiene una disciplina generale che ammette la compensazione dei crediti vantati dalla parte in bonis con eventuali debiti verso il fallito (art. 56, l.fall.), sebbene la subordini ad alcuni limiti e condizioni finalizzate ad evitarne l’uso in frode ai creditori (segnatamente vietandola quando il credito sia stato acquistato per atto tra vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell’anno anteriore). Proprio questa disciplina, indipendentemente da ogni previsione contrattuale, potrebbe legittimare il netting di tutti i debiti e crediti nei confronti del fallito di cui risulti titolare la parte in bonis a seguito delle operazioni di scioglimento di ciascun contratto in applicazione degli artt. 203, t.u.f. e 76, l.fall. Infatti, i debiti eventualmente risultanti a carico della parte in bonis dalla determinazione del saldo di ciascun contratto sarebbero comunque anteriori alla dichiarazione di fallimento, dovendosi individuare la loro fonte non già nello scioglimento del contratto, ma nell’atto negoziale che ha generato le corrispondenti obbligazioni 18.
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Si tratterebbe, in tal caso, di una compensazione meramente contabile, perché riguardante situazioni nascenti dal medesimo rapporto e pertanto non di una compensazione in senso tecnico. 18 Cfr. Lamanna, Commento all’art. 56, in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio, Bologna, 2007, p. 809 ss. Questa conclusione è in linea con l’orientamento ormai dominante presso la giurisprudenza di legittimità, che, a partire dai primi anni ’90, ritiene sufficiente che il credito opposto in compensazione ex art. 56, l.fall., trovi il suo “fatto genetico”, o “radice causale” in un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento (cfr. Cass., 30 marzo 1991, n. 3006, in Giur. comm. 1992, II, p. 727 ss., con nota adesiva
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Al tempo stesso non troverebbe applicazione il limite di cui al secondo comma dell’art. 56, l.fall., dal momento che i crediti accertati in base alle operazioni di determinazione del saldo sarebbero comunque sorti in via originaria, e non acquistati in via derivativa, come invece parrebbe richiesto dalla norma appena richiamata 19. Il dato normativo potrebbe tuttavia prestarsi ad un’altra e diversa lettura. Pur con qualche forzatura, si potrebbe ritenere infatti che le disposizioni di cui agli artt. 203, t.u.f. e 76, l.fall., in quanto norme speciali, esauriscano la disciplina delle sorti dei contratti di tipo finanziario nel fallimento e che pertanto, operata la determinazione del saldo di ogni singolo rapporto, esso debba seguire necessariamente la destinazione indicata nell’art. 76, l.fall., e cioè essere versato al fallimento, se il fallito risulta in credito, ammesso al passivo nel caso contrario, con esclusione della possibilità di operare compensazioni con altre posizioni risultanti dalla chiusura di analoghi contratti. Si potrebbe altresì ritenere, secondo un’interpretazione che privilegia la ratio del limite di cui al secondo comma dell’art. 56, l.fall., che il credito nascente (pertanto acquistato anche a titolo originario) da qualsiasi atto inter vivos stipulato nell’anno anteriore al fallimento sia insuscettibile di compensazione per contrasto con la disposizione richiamata 20.
di Stanghellini, Nuovi presupposti per la compensazione fallimentare, ivi, p. 734 ss. e successivamente Cass. S.U., 2 novembre 1999, n. 755 e Cass., 16 novembre 1999, n. 775, entrambe in Il fallimento, 2000, 524 ss.; nonché Cass., 5 novembre 1999, n. 12318, in Il fallimento, 2000, 1144 ss.; Cass., 24 luglio 2000, n. 9678, in Il fallimento, 2001, 664 ss.; Cass, 28 agosto 2001, n. 11288, in Il fallimento, 2002, 615 ss., con nota di Badini Confalonieri, Problemi applicativi del nuovo orientamento giurisprudenziale in tema di compensazione nel fallimento: il fatto genetico del credito del socio escluso, ivi a p. 616 ss., il quale sottolinea come la giurisprudenza di legittimità tenda a ritenere sufficiente, per l’applicazione della norma in tema di compensazione, che «alcuni fatti costitutivi del credito, purché sufficientemente qualificati», si siano verificati anteriormente alla dichiarazione di fallimento, con ciò segnalando, nei casi dubbi, un’opzione di favore per la compensazione). 19 Deve trattarsi di un “acquisto” in senso stretto per Scalini, La compensazione nel fallimento, Milano, 1998, p. 54. Per Rosapepe, Effetti nei confronti dei creditori, in Trattato di diritto fallimentare, diretto da Buonocore e Bassi, Padova, 2010, p. 314, il termine “acquisto” può essere inteso in senso ampio, tuttavia dovrà comunque trattarsi di un atto idoneo a provocare il “trasferimento” del credito, con esclusione quindi degli acquisti a titolo originario. 20 Così Perrone, La riduzione, cit., p. 115, prima dell’entrata in vigore della disciplina speciale in materia di contratti di garanzia finanziaria e delle norme sul close-out netting ivi contenute. La tesi può peraltro essere tuttora riproposta per quei contratti derivati
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Tale divieto potrebbe addirittura risultare inderogabile e pertanto destinato ad imporsi anche sulla volontà delle parti nei rapporti non soggetti alla disciplina speciale in tema di garanzie finanziarie (e alla conseguente legittimazione ex lege del netting) in considerazione del vulnus che la compensazione procura alla par condicio creditorum e che pertanto potrebbe essere consentita solo ove chiaramente autorizzata 21. C’è da osservare, tuttavia, che una diversa valutazione in punto di validità della clausola di close-out netting a seconda che i contratti che la contengono siano o no assistiti da garanzie finanziarie risulterebbe difficile da giustificare sul piano sistematico, e viceversa si potrebbe proprio far valere l’evidente favor del recente legislatore verso gli accordi di
cui non acceda un contratto di garanzia finanziaria e comunque esclusi dall’applicazione della disciplina speciale. Sul punto si potrebbero inoltre richiamare le perplessità della dottrina ad ammettere alla compensazione quei crediti che nascano dallo scioglimento del contratto avvenuto nel momento della dichiarazione di fallimento, o successivamente ad esso per decisione del curatore (come, ad esempio, i crediti da restituzione), trattandosi, in tal caso di crediti sorti ex nunc in forza dello scioglimento del rapporto e non direttamente originati dal negozio risolto. Sul punto cfr., tra gli altri, Panzani, Compensazione e fallimento: esigibilità e liquidità del credito e obbligazioni restitutorie in caso di scioglimento del contratto pendente, in Il fallimento, 2000, p. 537 ss., il quale tuttavia conclude a favore della compensabilità anche di questi crediti richiamando l’art. 72, l.fall., che attribuisce natura concorsuale al credito da restituzione del compratore in bonis. 21 Sul carattere inequivocabilmente derogatorio della compensazione al principio della par condicio creditorum, al punto da porre in dubbio la sua legittimità costituzionale, cfr. Satta, Diritto fallimentare, Milano, 1990, p. 185, nt. 37; analogamente Giacalone, Compensazione ex art. 56 e tutela della par condicio creditorum, in Il fallimento, 1997, p. 201 ss. che pertanto nega l’ammissibilità di interpretazioni estensive della richiamata disciplina. Sulla residualità del principio della par condicio creditorum, come criterio generale di “ordine nelle procedure concorsuali”, destinato a cedere solo “di fronte al riconoscimento di interessi prevalenti meritevoli di tutela” cfr. P.G. Jaeger, Par condicio creditorum, in Giur. comm., 1984, I, p. 88 ss., ivi a p. 104. La spiegazione del ruolo della par condicio creditorum nelle procedure concorsuali proposta da Jaeger è condivisa da Tarzia, Par aut dispar condicio creditorum?, in Riv. dir. proc., 2005, p. 1 ss., ivi a p. 6. In senso analogo, Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, Giuffré, 2002, p. 13, il quale afferma che la regola della par condicio creditorum, pur se oggetto di un progressivo ridimensionamento ad opera del legislatore, conserva comunque il carattere di regola generale e “naturale”, rispetto alla quale le cause di prelazione devono ritenersi limitate a quelle specificamente previste dalla legge. Ed infine, anche chi come Colesanti, Mito e realtà della “par condicio”, in Il fallimento, 1984, p. 32, concepisce la funzione della regola richiamata in termini estremamente riduttivi, reputandola soltanto «uno dei possibili modi di attuazione del concorso», ne ammette il carattere di criterio comunque «tendenziale» di disciplina del concorso, in assenza di deroga da parte del diritto positivo (ivi a p. 36).
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compensazione stipulati nell’ambito dei contratti di garanzia finanziaria (e dei contratti che comprendono una garanzia finanziaria) per giustificare conclusioni del tutto favorevoli ad ammetterne la legittimità anche per fattispecie affini, riconoscendone così una generale operatività. Resta da capire se ed in che termini siano applicabili, alle operazioni di netting, le regole in tema di revocatoria previste dalla legge fallimentare 22. Se si accoglie quella impostazione che considera qualificante e dirimente, ai fini della revocatoria, l’effetto lesivo della par condicio creditorum, e pertanto revocabile ogni atto che possa avere simili conseguenze, allora anche la compensazione volontaria, così come gli atti negoziali posti in essere tra le parti allo scopo di creare i presupposti per la compensazione legale potrebbero essere suscettibili di revocatoria in quanto lesivi delle ragioni degli altri creditori 23. Questa tesi porterebbe a considerare senz’altro revocabili gli accordi di compensazione, quindi anche gli accordi di close-out netting, stipulati nel periodo sospetto (addirittura nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento se si considera la compensazione un mezzo non normale di pagamento, con conseguente applicazione dell’art. 67, co. 1, n. 2, l.fall.), con esclusione tuttavia delle compensazioni avvenute in forza di negozi stipulati in data anteriore, poiché è il negozio, e non l’effetto estintivo prodotto dalla compensazione, l’oggetto dell’eventuale azione revocatoria 24. Quanto ai contratti assistiti da garanzie finanziarie di cui al d.lgs. 170/2004, le clausole di close-out netting che vi sono contenute
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Prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 170/2004, la dottrina si era posta il problema di verificare la tenuta delle operazioni di netting, effettuate ai sensi del Master Agreement, in caso di apertura di una procedura concorsuale per una delle parti legate dal contratto, rilevando il rischio di assoggettamento a revocatoria del netting by novation, per l’effetto di sostituzione dell’obbligazione originaria tipicamente prodotto, e dibattendo sull’applicabilità delle norme sulla revocatoria fallimentare al close-out netting, laddove il Master Agreement contenente la relativa pattuizione fosse stato stipulato in epoca anteriore al periodo sospetto (cfr. Girino, I contratti, cit., p. 281 (ed. 2001) e p. 400 (ed. 2010); Perrone, Gli accordi di close-out netting, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, p. 51 e p. 69). 23 Cfr. Celentano, Gli effetti del fallimento per i creditori, in Fallimento ed altre procedure concorsuali, a cura di Fauceglia e Panzani, Torino, 2009, p. 336 ss.; 24 Olivieri, Compensazione e fallimento, in Gli effetti del fallimento sui crediti, Milano, 2004, p. 49 ss., ivi a p. 56. Sulla possibilità di considerare la compensazione un mezzo non normale di pagamento cfr. Censoni, Revocatoria, cit., p. 1092, ove altre valutazioni in merito alla revocabilità del pactum de compensando e alla eventuale specifica rilevanza degli atti estintivi attuati nella sua esecuzione. Sul punto v. anche Foschini, La compensazione, cit., p. 250.
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sono visibilmente ed inequivocabilmente sottratte all’applicazione delle norme fallimentari comuni, mediante il riconoscimento della loro piena validità ed efficacia anche in caso di apertura di procedure concorsuali, secondo l’art. 7 del citato decreto. Non si può tuttavia escludere che tale salvaguardia sia da riferire ai limiti nascenti dalle disposizioni comuni in tema di compensazione nel fallimento e non riguardi le disposizioni in tema di revocatoria. Se così fosse, ove i contratti di garanzia finanziaria, o anche i soli accordi di netting, fossero stati stipulati nel periodo sospetto, le norme in tema di revocatoria potrebbero ancora trovare applicazione.
4. Impressioni e prospettive. La normativa italiana in materia di contratti derivati nel fallimento si presenta frammentaria e disorganica, ciò nondimeno anche nel nostro ordinamento, sebbene con qualche discontinuità, si è venuto delineando un regime speciale che, prevedendo dapprima lo scioglimento e la liquidazione immediata dei contratti derivati in caso di apertura di una procedura concorsuale e, successivamente, legittimando le clausole di close-out netting contenute nei contratti di garanzia finanziaria (e nei contratti assistiti da tali garanzie), con possibilità di immediata escussione del collateral, ha scelto di proteggere in via prioritaria l’interesse della parte in bonis alla liquidazione del contratto, coprendola da ogni rischio legato all’insolvenza della controparte. In verità, l’estensione della regola del close-out agli strumenti finanziari derivati in caso di fallimento di una delle parti, di cui all’art. 203, t.u.f., è avvenuta sulla scorta di un orientamento dottrinale che già prima dell’intervento del legislatore proponeva l’applicazione analogica dell’art. 76, l.fall. alla fattispecie, giustificandola con le stesse esigenze di conservazione e protezione del patrimonio del fallito poste a fondamento della norma in questione, nonché con l’intento di evitare comportamenti “speculativi” degli organi della procedura, possibili ove fosse applicato l’art. 72, l.fall. 25.
25 Cfr. Perrone, Gli accordi, cit., p. 67, e la dottrina citata alla nt. 44; v. altresì i riferimenti al dibattito sull’applicazione analogica dell’art. 76, l.fall. a fattispecie di contratti diverse dai contratti di borsa a termine in Girino, I contratti, cit., p. 382 ss. e De Biasi, Un nuovo master agreement, cit., p. 649.
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Non è da escludere, tuttavia, che il legislatore del t.u.f. abbia scelto questa soluzione innovandone implicitamente la ratio, in considerazione delle esigenze di liquidità dei mercati che essa soddisfa per allinearsi, almeno in parte, a regole già vigenti negli altri ordinamenti dei paesi evoluti e sulla base delle stesse motivazioni che sottostanno a tali discipline 26. Vero è che lo ha fatto piegando a tale scopo una norma, l’art. 76, l.fall., la cui ratio originaria era rivolta a proteggere non tanto l’interesse dei mercati, quanto l’integrità del patrimonio del fallito dal rischio connaturato ai contratti a termine 27. Ciò nondimeno, che lo scioglimento automatico e la successiva liquidazione del contratto in caso di fallimento di una delle parti siano ormai concepiti come funzionali soprattutto alle esigenze di stabilità della controparte in bonis è reso evidente dalla successiva evoluzione della disciplina, che attua una direttiva comunitaria fortemente influenzata dalle istanze del mondo finanziario, al punto da tradurre nel testo normativo formule e soluzioni elaborate dalla prassi degli operatori e già presenti negli accordi quadro redatti dai relativi organismi associativi 28. Ed infatti, il legislatore italiano attua la Direttiva Collateral stabilendo la disapplicazione degli artt. 203, t.u.f. e 76, l.fall., ed omettendo ogni, anche parziale, esplicita salvaguardia delle norme comuni relative all’invalidità/inefficacia degli atti compiuti dal fallito nel periodo anteriore
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Sulla vigenza di una regola di scioglimento e liquidazione automatica dei contratti derivati nel fallimento e sulla legittimazione delle stesse clausole di close-out netting in alcuni ordinamenti stranieri già in epoca anteriore all’entrata in vigore del t.u.f. cfr. Perrone, Gli accordi, cit., p. 60; Id, La riduzione, cit., p. 92 ss. 27 Cfr. Caputo Nassetti, I contratti derivati finanziari, Milano, 2007, p. 479; Doria Di Benedetto - Stecconi, Commento all’art. 203, cit., p. 1110; Ragusa Maggiore, Il riporto bancario e il riporto proroga di fronte al fallimento, in Banca, borsa, tit. cred., 1982, I, p. 1027. 28 Sul processo di formazione della Direttiva Collateral e sulla sua tendenziale aderenza ai modelli elaborati dalle associazioni di intermediari finanziari, produttori di una vera e propria soft law successivamente tradotta in legge dalle autorità comunitarie ed attuata negli stessi termini dai legislatori nazionali cfr. Laudonio, Le clausole, cit., p. 542 ss. L’a. segnala l’intensa attività di lobbying svolta dall’ISDA e da altre associazioni di intermediari sugli organi comunitari per l’acquisizione nella legge delle regole contenute nei loro modelli contrattuali senza sostanziali limiti e variazioni, ciò che ha generato un vero e proprio diritto di categoria, di fonte sostanzialmente privata, funzionale ad esigenze di parte, recepite dal legislatore comunitario sulla base del mero conforto di qualche legal opinion attestante la sua compatibilità con i principi inderogabili vigenti negli ordinamenti europei.
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all’apertura della procedura concorsuale, che pure la citata Direttiva autorizzava (art. 8, co. 4) 29. L’effetto ampiamente derogatorio alle istanze di tutela tipicamente perseguite dalla disciplina concorsuale è pertanto evidente, sebbene non privo di criticità sul fronte sistematico. La legittimità delle clausole di netting viene infatti a coesistere con una disciplina comune della compensazione dei debiti della parte in bonis con i crediti vantati nei confronti del fallito che evidentemente la ammette in via di eccezione alla regola del concorso perché la immagina applicata a situazioni occasionali ed in ogni caso la circonda di particolari cautele volte ad evitarne l’utilizzo a scopi fraudolenti, considerando la sua capacità di alterare la par condicio creditorum. È pertanto difficile trovare compatibile con il tradizionale impianto di valori della disciplina comune vigente in materia concorsuale una compensazione di massa di numerose e rilevanti posizioni di debito e credito la cui applicazione è per giunta collegata, dalla clausola di closeout netting, proprio all’insolvenza o al fallimento del contraente 30. Ed in effetti, l’insieme delle disposizioni in materia di garanzie finanziarie e la legittimazione della clausola di close-out netting predispongo-
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Cfr. Laudonio, Le clausole, cit., p. 558. Cfr., prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 170/2004, Perrone, Gli accordi, cit., p. 73, che giustamente osservava come la legittimazione del close-out netting avrebbe avuto «come conseguenza la compressione della par condicio creditorum ben oltre i limiti stabiliti dall’art. 56, l.fall.». Ed in effetti, solo se destinata ad operare in situazioni occasionali ed entro limiti dimensionali circoscritti la compensazione nel fallimento può essere giustificata in base a ragioni di “equità” sostanziale, secondo quanto ritenuto dalla dottrina tradizionale (per la spiegazione della norma in ragione di esigenze meramente equitative e di autotutela, cfr., tra gli altri, Pajardi - Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, Foschini, La compensazione nel fallimento, Napoli, 1965, p. 183 ss., Satta, Diritto fallimentare, cit., p. 185). Laddove, invece, la compensazione operi sistematicamente e, direi, “istituzionalmente”, per un’intera tipologia di contratti, che corrisponde ad un intero comparto (quello delle attività finanziarie finalizzate al trasferimento del rischio), per giunta rivelando una specifica capacità di incrementare il rischio sistemico, una sua spiegazione in termini di equità appare piuttosto discutibile. E sul punto si può notare come la dottrina favorevole all’espansione dell’ambito di operatività della compensazione nel fallimento (cfr., ad es., Colesanti, Variationes sérieuses sul tema della compensazione nel fallimento, in Riv. dir. civ., 2002, p. 735 ss.) motivi questa opzione essenzialmente considerando la sostanziale incapacità delle procedure concorsuali di assicurare una effettiva protezione dei creditori (ciò che legittimerebbe una più ampia autotutela dei creditori), e pertanto nell’ambito di valutazioni generalissime, che non considerano il potenziale pregiudizio ad interessi di sistema ove la regola della compensazione sia applicata in particolari contesti ed a determinate tipologie di contratti. 30
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no una sorta di garanzia reale ex lege a favore della parte in bonis, sottratta a tutte le regole e i limiti di diritto concorsuale comune in materia di pagamenti e garanzie 31. Ciò si giustifica soltanto ammettendo che il legislatore, prima comunitario, poi nazionale, abbia dato priorità assoluta alla stabilità di quegli accordi sul presupposto che le formule pattizie in grado di contenere e controllare il rischio di credito e il rischio di controparte (come tipicamente sono le garanzie finanziarie e le stesse clausole di netting) nelle operazioni concluse sui mercati finanziari siano realmente idonee a garantire, oltre che la stabilità, lo sviluppo delle negoziazioni e la crescita della ricchezza collettiva, e che l’interesse al raggiungimento di questi obbiettivi giustifichi il sacrificio dell’interesse dell’impresa in crisi (ad esempio a conservare in vita i contratti finanziari utili e profittevoli) e dei suoi creditori non privilegiati 32. Tuttavia, sulla tenuta di queste valutazioni e sulle opzioni normative che vi hanno trovato fondamento vengono attualmente espressi dubbi e perplessità sempre maggiori e da più parti si fa osservare che l’eccesso di protezione garantito da molti ordinamenti agli interessi degli operatori finanziari sul mercato dei derivati di fronte ai casi di insolvenza non è privo di responsabilità nella genesi della recente crisi finanziaria. Queste considerazioni potrebbero pertanto giustificare un atteggiamento di maggiore cautela dello stesso interprete di fronte alla disciplina
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In generale, per l’assimilazione della compensazione fallimentare ad una garanzia atipica v., tra gli altri, Foschini, La compensazione, cit., p. 33 ss. e p. 53 ss.; più recentemente, Censoni, Revocatoria fallimentare e compensazione, in Giur. comm., 1990, I, p. 1068, ivi a p. 1070, che ricorda (v. nota 6) la derivazione di tale impostazione dal diritto tedesco; Fabiani, La giustificazione delle classi nei concordati e il superamento della par condicio creditorum, in Riv. dir. civ., 2009, p. 711, ss., ivi a p. 722, Garrido, Preferenza e proporzionalità nella tutela del credito, Milano, 1998, p. 182. Con specifico riferimento alle clausole di close-out netting cfr. Minneci, La stabilità, cit., p. 501, nt. 3, e la dottrina ivi citata. 32 Sul fronte della disparità di trattamento dei creditori che tale regime produce, si osserva come la regola della par condicio creditorum, pur se ampiamente ridimensionata nella sua funzione di principio ordinatore del concorso dalle recenti innovazioni normative, non pare perdere, tuttavia, la sua natura di regola generale e comunque sovraordinata, ciò che consentirebbe al legislatore di potervi derogare solo per precise esigenze di pubblico interesse che giustifichino una soluzione di “diseguaglianza”. A favore di questa ricostruzione rileverebbe già la riserva di legge in tema di cause legittime di prelazione di cui alla norma che regola la responsabilità patrimoniale (art. 2741 c.c.), ma anche, secondo alcuni, il rilievo costituzionale della regola della par condicio quale espressione del più generale principio di uguaglianza di cui all’art. 3, Cost. (cfr. Fabiani, La giustificazione, cit., p. 716 ss., Tarzia, Par aut dispar, cit, p. 7 ss.).
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tuttora vigente, favorendo soluzioni interpretative meno liberali e più restrittive delle facoltà e dei privilegi concessi alla parte in bonis. E pertanto, laddove non sia applicabile la disciplina di cui al d.lgs. 170/2004 (ad esempio nei contratti stipulati da soggetti non qualificati ai sensi del comma 1 del citato decreto o nei casi di contratti derivati non assistiti da garanzie finanziarie), e se all’art. 76 l.fall. non è estranea un’esigenza di tutela del patrimonio del fallito, si potrebbe pensare di escludere dallo scioglimento automatico almeno i contratti derivati che conservino comunque un valore per l’impresa fallita (come quelli stipulati per finalità assicurative) e si potrebbe altresì escludere la compensazione dei saldi risultanti allo scioglimento dei contratti laddove il relativo patto sia stato stipulato nell’anno anteriore all’apertura della procedura, ritenendo in tal caso operante il limite di cui secondo comma dell’art. 56, l.fall. Inoltre, nei casi in cui si applichi la disciplina speciale in materia di garanzie finanziarie, la salvaguardia concessa dall’art. 8, co. 4 della Direttiva Collateral alle norme nazionali in materia di atti in frode ai creditori potrebbe portare almeno a ritenere ancora soggetti ad azione revocatoria gli accordi di close-out netting che siano stati stipulati con dolo nel periodo sospetto 33. Tuttavia, queste conclusioni, non solo resterebbero dubbie sul fronte del diritto interno (ad es., la legge fallimentare esclude dallo scioglimento automatico il contratto di assicurazione, ma fa salvo il patto contrario, così come il d.lgs. 170/2004 pare nel complesso orientato ad offrire la più ampia protezione alla volontà contrattuale contro ogni azione capace di infirmare quanto pattuito dalle parti in simili contratti), ma sarebbero il frutto di un’interpretazione che contamina la funzione originaria e tipica di alcune norme fallimentari (la protezione degli interessi della massa) con esigenze di tutela in parte ad essa estranee e destinate ad essere valutate in una prospettiva di sistema più complessa. In primo luogo, infatti, la materia dei derivati è una fattispecie che ha rilievo globale e transnazionale e la disciplina relativa dovrebbe essere tra quelle tipicamente candidate ad un’armonizzazione massima nei diversi ordinamenti. Non avrebbe infatti molto senso puntare su soluzioni di diritto nazionale più restrittive, volte a limitare l’applicazione di quelle clausole
33 Così Laudonio, Le clausole, cit, p. 558 ss., il quale limita questa soluzione all’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, osservando che la Direttiva, al XVI° Considerando, pare escludere dalla protezione solo i negozi stipulati con specifico intento di frode.
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dei master agreements che altrove si vedono riconosciuta piena legittimazione. Nelle operazioni in derivati di carattere transnazionale ciò finirebbe per incentivare fenomeni di arbitraggio normativo o forum shopping, con l’effetto di penalizzare ingiustificatamente le imprese che partecipino ad operazioni per le quali sia comunque applicabile una più rigorosa disciplina nazionale 34. Quel che più conta è però l’impressione che in questa materia la prospettiva sistematica in cui va ricostruita la funzione della disciplina fallimentare si arricchisca di elementi ulteriori e speciali rispetto agli obbiettivi tipicamente perseguiti dalle norme concorsuali di diritto comune. Soprattutto, mi pare che la disciplina dei derivati nel fallimento acquisti il ruolo di una variabile ad evidente impatto macroeconomico, al di là degli interessi tradizionalmente protetti dalla disciplina fallimentare, cioè quelli dell’impresa in crisi e dei suoi creditori, e che ciò richieda una valutazione delle soluzioni adottabili nell’ambito della disciplina fallimentare che tenga conto di queste nuove e speciali implicazioni.
5. Le norme fallimentari e le misure di contrasto e prevenzione delle crisi finanziarie. Il dibattito in corso negli Stati Uniti sull’adeguatezza delle norme fallimentari attuali in materia di contratti derivati ad indurre risultati vantaggiosi per il sistema ha messo in luce il loro possibile impatto su interessi diversi ed ulteriori rispetto a quelli che le norme in tema di procedure concorsuali sono normalmente preordinate a garantire. Di ciò, del resto, il recente legislatore era pienamente consapevole e deliberatamente ha innovato la disciplina per renderla funzionale al soddisfacimento di istanze peculiari, segnatamente alla tutela della stabilità dei mercati e degli operatori finanziari, giudicate prevalenti rispetto all’interesse dell’impresa in crisi e dei suoi creditori ordinari, e prioritarie laddove ai mercati fosse comunque consentito di svilupparsi anche attra-
34 Si consideri che le questioni relative agli effetti del fallimento sui contratti di tipo finanziario sarebbero assoggettati alla legge del luogo in cui è stata aperta la procedura concorsuale; sul punto cfr. Perrone, La riduzione, cit., p. 92.
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verso tecniche finanziarie e formule negoziali capaci di generare speciali e più intense situazioni di rischio per gli operatori. E penso si debba riconoscere che la scelta del legislatore di ridurre al minimo, per la parte in bonis, il rischio legato all’insolvenza della controparte sia del tutto coerente con (e funzionale a) precise opzioni di politica economica che hanno ritenuto di poter legittimare la creazione di profitti attraverso un generalizzato trasferimento del rischio, secondo formule ideate e praticate dagli operatori finanziari, patrocinate dagli economisti e da ultimo avallate dal legislatore. Il ricorso massiccio ai contratti derivati, e ai credit default swaps nella specie, consente una generale copertura del rischio di credito che si realizza attraverso la stipulazione diffusa e moltiplicata di simili contratti. Questa soluzione ha il vantaggio di aumentare la liquidità del sistema perché libera risorse da destinare ad ulteriori attività finanziarie e consente alle imprese, anche a quelle bancarie, di operare in condizioni di elevata leva finanziaria. Questo assetto, si osserva tuttavia, non tollera insolvenze proprio perché la liquidità è generata dall’effetto leva. Pertanto, laddove l’insolvenza si materializzi, i suoi effetti potenzialmente destabilizzanti per i mercati debbono essere neutralizzati o con interventi di sostegno dello Stato o delle autorità competenti (con oneri a carico della collettività), o comunque attraverso una disciplina fallimentare che consenta la rapida uscita della parte in bonis dai contratti stipulati con l’impresa investita dalla crisi e protegga i crediti connessi a tali rapporti dalla falcidia concorsuale e dalle lungaggini della procedura (con oneri, in tal caso, a carico dei creditori non privilegiati). Pare quindi evidente che fino a quando tali scelte di fondo sugli obbiettivi che s’intendono perseguire nei (e attraverso i) mercati finanziari vengano comunque confermate, una disciplina orientata alla protezione massima del contraente in bonis di contratti derivati in caso di fallimento della controparte si riveli verosimilmente indispensabile per garantire l’equilibrio complessivo del sistema. È noto tuttavia che le opzioni operate nell’ultimo decennio in materia di mercati finanziari dai governi degli Stati Uniti e di alcuni paesi industrializzati sono attualmente in fase di revisione e con esse l’eccessiva deregolamentazione ed un troppo incondizionato avallo all’uso del leverage. E sul punto sono ormai numerose le proposte di correzione che vengono prospettate su più fronti. Tra queste una più attenta disciplina degli intermediari finanziari, con l’estensione della regolazione ai mer-
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cati OTC e a quegli operatori attualmente non vigilati che tuttavia offrono sui mercati prodotti e servizi potenzialmente rischiosi (hedge funds e simili) 35 la previsione per tutti gli operatori finanziari di requisiti di patrimonializzazione simili a quelli richiesti alle banche (eventualmente agganciandoli al ciclo del credito), l’imposizione, in generale, di rapporti debt/equity meno sbilanciati per le imprese in modo da ridurre il ricorso alla leva finanziaria. La riforma dei mercati finanziari approvata dal Senato americano nel luglio 2010 ha accolto gran parte di queste sollecitazioni e proposte, elaborando un ampio corpo di regole, ancora da tradursi in una normativa di dettaglio, in cui è previsto il rafforzamento dei poteri di controllo degli organismi di vigilanza sui mercati (Fed, CFTC, Sec), nuovi e più severi requisiti di capitale per le banche determinati in funzione dello specifico livello di rischio assunto, la concentrazione delle negoziazioni sui derivati in mercati regolamentati e la loro esecuzione mediante stanze di compensazione e sistemi garanzia, ciò che dovrebbe assicurare, da un lato maggiore trasparenza, evidenziando il grado di esposizione al rischio dei singoli operatori, nonché le possibili correlazioni e le interconnessioni pericolose, dall’altro regole di esecuzione non discrezionali capaci di contenere il rischio di insolvenza degli operatori. Se le soluzioni prospettate si riveleranno efficaci, la disciplina dei contratti derivati nel fallimento perderebbe parte della sua importanza. Se i controlli delle autorità competenti riuscissero a contenere il rischio del possibile corto circuito sistemico legato alla immissione di
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Da segnalare è l’opportunità di prevedere una riserva di attività per le operazioni in derivati, richiedendo ai soggetti autorizzati rigorosi requisiti di capitalizzazione (quali margini o riserve tecniche) e il rispetto di adeguate regole prudenziali. In questo senso, correttamente, Barcellona, Note sui derivati creditizi: market failure o regulation failure?, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, I, p. 652 e p. 670, il quale ricorda come l’esenzione dei contratti di swap, connessi o no a strumenti finanziari, dalla disciplina dei mercati finanziari, così come la sottrazione dei contratti derivati all’applicazione della disciplina comune in materia di gioco e scommessa e ai controlli della CFTC (Commodities Futures Trade Commission) siano state specificamente previste dal Commodities Futures Modernization Act del 2000. La situazione non è molto diversa nel nostro ordinamento, dove le operazioni in derivati non effettuate nei confronti del pubblico non rientrano nell’ambito di applicazione delle norme del t.u.f., mentre l’art. 23, co. 5, di quello stesso testo dichiara l’art. 1933 c.c. (che sancisce la non azionabilità dei crediti generati da gioco o scommessa) inapplicabile agli strumenti finanziari derivati in genere.
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strumenti finanziari pericolosi, se la liquidità necessaria ai mercati fosse assicurata con mezzi diversi dallo stesso debito, se le negoziazioni dei contratti derivati fossero concentrate in sistemi di scambi vigilati e garantiti, non vi sarebbe nemmeno più bisogno di utilizzare a tal fine le norme di diritto concorsuale, sempre che la loro reale ed attuale finalità sia quella – dichiarata – di proteggere i mercati e non già quella – sospettata – di favorire comunque gli intermediari che vi operano e le loro associazioni. Anzi, si potrebbe osservare che, ove fossero modificate le condizioni di contesto normativo mediante la fissazione di regole e controlli finalizzati a contenere l’instabilità dei mercati, e pertanto la protezione dal rischio sistemico fosse affidata ad altri strumenti, la sopravvivenza delle attuali regole fallimentari in materia di contratti derivati finirebbe per garantire soltanto un ingiustificato privilegio corporativo, accrescendo i dubbi sulla loro legittimità. Non solo, ma ci si potrebbe a questo punto chiedere se il processo virtuoso di revisione della disciplina delle attività finanziarie non possa annoverare fin da subito una riforma delle norme fallimentari in materia, in una prospettiva che intenda sperimentare un nuovo e più promettente equilibrio tra l’interesse del mercato alla pronta liquidazione dei contratti finanziari e la necessità di contenere la propensione ad una eccessiva assunzione di rischio che l’esenzione dalle regole concorsuali comuni potrebbe indurre negli operatori.
6. L’auspicabile riforma della disciplina dei contratti derivati nel fallimento: protezione dei mercati e par condicio creditorum. Il testo della riforma dei mercati finanziari recentemente approvata negli Stati Uniti (c.d. Dodd-Frank Act) non prevede alcun intervento di modifica delle norme fallimentari applicabili ai contratti finanziari e questa scelta è già stata valutata criticamente da alcuni interpreti che, viceversa, iniziano a proporre soluzioni di radicale revisione, se non di abrogazione integrale della disciplina tuttora vigente. In particolare, sulla scorta della rilevazione degli effetti di disincentivo al monitoraggio sulle condizioni di rischio del debitore indotti dalle esenzioni concesse dalle norme fallimentari alla parte in bonis, di sottolinea l’opportunità di un ritorno all’applicazione di un regime di inefficacia delle operazioni “preferenziali” compiute nel periodo sospetto che riguardi la stessa costituzione di garanzie finanziarie, normalmente richieste ed incrementate proprio a fronte del deterioramento delle con-
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dizioni finanziarie della controparte e pertanto molto spesso in situazioni prossime all’insolvenza 36. Si propone altresì di limitare la legittimità del netting alle sole posizioni nascenti dallo stesso contratto derivato con esclusione di quelle generate da rapporti contrattuali diversi e tra loro indipendenti, sebbene stipulati tra le stesse parti e regolati da un unico contratto normativo 37. La stessa regola che dispone lo scioglimento automatico e l’immediata liquidazione dei contratti derivati viene messa in discussione, non solo sulla base del pregiudizio che l’improvvisa contrazione della liquidità può arrecare al valore dell’impresa e alle sue chances di risanamento, ma anche per l’assenza di prove certe sui benefici di sistema che ad essa si ritengono associati, non essendo affatto dimostrato che tali benefici, pure ove esistenti, siano tali da superare i costi che tale opzione impone al sistema in termini di dispersione di valore e di inefficiente gestione del rischio da parte degli operatori 38. Le soluzioni proposte meritano considerazione, anche se non è da escludere che la ricerca e l’elaborazione di nuove e più efficaci regole possa presentare qualche difficoltà di tipo tecnico, considerate le caratteristiche della materia che ne è oggetto. Ad esempio, l’abolizione della regola del close-out dei contratti in caso di apertura di una procedura concorsuale pone il problema di cercare una soluzione alternativa adeguata alle esigenze che tipicamente si pongono nella fattispecie. Da questo punto di vista, la rimessione al curatore di ogni decisione sulle sorti del contratto potrebbe effettivamente contrastare con l’esigenza di certezza e tempestività nella gestione dei contratti in essere, oltre che con la necessità di contenere il rischio di ulteriore depauperamento del patrimonio del fallito connaturato a contratti tipicamente aleatori. Allo stesso tempo, una regola che stabilisse ex ante un criterio per decidere quali contratti sciogliere e quali continuare, magari in base alla
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Roe, The Derivatives, cit., p. 25 s. Favorevole ad una revisione della disciplina volta a porre qualche limite alla protezione assoluta concessa ai titolari di garanzie finanziare in caso di fallimento della controparte pare anche Sissoko, The legal foundation, cit., p. 25. 37 Roe, The Derivatives, cit., p. 24. 38 Cfr. Roe, The Derivatives, cit., p. 26, secondo il quale, per proteggere la parte in bonis dal pregiudizio legato ai tempi lunghi delle decisioni degli organi della procedura sulla eventuale prosecuzione dei contratti pendenti, basterebbe fissare un termine entro il quale quelle decisioni debbano essere obbligatoriamente adottate (p. 20).
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loro astratta meritevolezza o alla funzione specificamente assolta, potrebbe richiedere accertamenti complessi sulle finalità in concreto perseguite dalle parti poco compatibili con le esigenze di rapidità delle decisioni da assumere, se solo si considera, ad esempio, che in simili contratti le finalità speculative sono spesso frammiste a finalità di copertura o sono il risultato della combinazione di negozi tipici. Si potrebbe invece immaginare una più mirata disciplina del netting, che ponga alcuni limiti alla compensabilità delle reciproche pretese nascenti da tali contratti e che potrebbe risultare non solo coerente con l’esigenza di contenere le inefficienze che si sospettano collegate all’eccessiva protezione del creditore, ma anche funzionale ad orientare gli operatori verso comportamenti più prudenti e forme più sorvegliate di attività. Come si è osservato, la compensazione nel fallimento produce gli effetti di una vera e propria garanzia reale, che opera con modalità tali da assicurare al creditore che se ne avvantaggia una tutela superiore a quella riservata a tutti gli altri creditori, pure garantiti. Si tratta inoltre di un beneficio che l’ordinamento offre gratuitamente al creditore, eliminando per costui anche i costi legati all’acquisizione di una comune garanzia. Si potrebbe obbiettare che gli effetti della compensazione nel fallimento andrebbero assimilati tutt’al più a quelli di una garanzia interna, avente per giunta ad oggetto un bene (il credito verso la controparte in bonis) inserito in un contesto dinamico, quale è il patrimonio del debitore, e pertanto non idonea a disincentivare il creditore dalle attività di monitoraggio. In realtà non è così perché, quando vi sono i presupposti per una compensazione, questa condizione si realizza per entrambe le parti del rapporto. Ciascun soggetto è creditore e debitore dell’altro e l’esposizione dei rispettivi patrimoni in funzione di garanzia è reciproca. Pertanto, tramite la compensazione, il creditore si soddisfa in realtà su quella parte del proprio patrimonio che corrisponde all’importo del suo debito nei confronti della controparte fallita (e che, in mancanza di compensazione, dovrebbe versare a quest’ultima) 39.
39 Poiché, inoltre, gli eventuali crediti del fallito nei confronti della parte in bonis maturano solo nel momento del close-out (e cioè con l’accertamento del valore differenziale del contratto e del suo costo di sostituzione), non sarebbe nemmeno materialmente possibile per il fallito compiere su quei crediti atti di disposizione prima che ne sia operata la compensazione con i suoi debiti verso la controparte (poiché il netting è contestuale al close-out).
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Nelle operazioni in derivati, l’effetto appena segnalato può assumere proporzioni smisurate laddove le parti siano legate da molteplici contratti della stessa natura (un fascio di rapporti aleatori di durata, e tendenzialmente omogenei per le loro caratteristiche essenziali, regolati normalmente su base differenziale a scadenze periodiche) e pertanto tipicamente candidate a trovarsi in posizioni di debito e credito connotate da reciprocità per importi di ammontare molto ingente. E non si può negare che questa caratteristica della compensazione in simili contratti ed in simili contesti possa effettivamente condizionare gli incentivi ad una accurata valutazione e gestione del rischio assunto e pertanto non deve essere trascurata nella ricostruzione degli effetti che la disciplina positiva può indurre sui comportamenti delle parti. I rischi di potenziali inefficienze collegate all’eccessiva proliferazione di garanzie reali sono oggetto di un noto e vastissimo dibattito internazionale, in cui, a fronte dei vantaggi in termini di riduzione del costo di accesso al credito, si evidenziano, in particolare, i rischi di disincentivo al monitoraggio del creditore sulle condizioni del debitore. In questa sede non è possibile dare conto in modo approfondito dei termini e dei risultati di tale elaborazione 40. Ci si limita però a segnalare che, se sul piano teorico resta incerto il saldo del rapporto costi/ benefici prodotti dalla presenza di simili garanzie, il caso dei comportamenti degli operatori finanziari nel mercato dei derivati, come osservato in occasione dei recenti defaults, potrebbe fornire ulteriore materia di osservazione almeno sul piano empirico e giustificare qualche ripensamento sulla protezione concessa alle controparti delle imprese fallite, quantomeno in una prospettiva di precauzione. Se questo è vero, si potrebbe allora pensare di consentire il netting solo nei limiti in cui è strettamente funzionale all’impiego delle tecniche di regolazione ed esecuzione tipiche di simili contratti ed al di fuori delle
40 Cfr., tra i tanti, Bebchuk - Fried, The Uneasy Case for the Priority of Secured Claims in Bankruptcy, in Yale Law Journal, 1996 (105), p. 857 ss., Id, The Uneasy Case for the Priority of Secured Claims in Bankruptcy: Further Thoughts and a Reply to Critics, in Cornell Law Rev., 1997 (82), p. 1279 ss.; Schwarcz, The Easy Case for the Priority of Secured Claims in Bankruptcy, in Duke Law Journal, 1997 (47), p. 425 ss., tutti consultabili sul sito www.ssrn.com. Nella dottrina italiana cfr. Denozza, Riforma delle società e tutela dei creditori, in La corporate governance nelle società non quotate, a cura di S. Rossi e Zamperetti, Milano, 2001, p. 21 ss., Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza, Bologna, 2006, p. 284 ss.; Baccetti, Creditori extracontrattuali, patrimoni destinati e gruppi di società, Milano, 2009, p. 32 ss.
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situazioni di crisi o di insolvenza delle imprese, ad esempio negando legittimità alle clausole di close-out netting previste per il caso di fallimento o di eventi di default che possano rappresentare indici sintomatici di uno stato di insolvenza. C’è tuttavia da osservare che la stabilità delle operazioni rappresenta un’esigenza essenziale quando i contratti siano eseguiti nell’ambito di sistemi organizzati di pagamento e regolamento degli ordini di trasferimento di strumenti finanziari, eventualmente con l’interposizione di una controparte centrale. È quindi difficile immaginare che le regole, già vigenti in molti ordinamenti (v., per il diritto italiano, il d.lgs. 210/2001) che stabiliscono la “definitività” dei pagamenti, degli ordini di trasferimento e delle compensazioni operati nell’ambito di tali sistemi e la loro opponibilità ai terzi, compresi gli organi delle procedure concorsuali, possano essere disattivate senza danno per la funzionalità e la stabilità di tali organizzazioni nonché dei processi ivi gestiti. Risulterebbe quindi inevitabile concedere efficacia e stabilità ad ogni forma di compensazione laddove i contratti derivati stipulati dal fallito siano soggetti ad esecuzione mediante sistemi centralizzati di regolamento titoli, eventualmente con l’intervento di una controparte centrale. Questa soluzione potrebbe anche apparire giustificata considerando che si applicherebbe a contratti normalmente standardizzati, come tali connotati da maggiore trasparenza quanto alla determinazione del loro valore e degli specifici rischi da essi generati, e riguarderebbe operazioni realizzate in un contesto specificamente attrezzato al controllo sulle potenziali insolvenze dei partecipanti. In tali sistemi convergono infatti le negoziazioni effettuate su mercati regolamentati ed intermediate da operatori sottoposti a vigilanza prudenziale, mentre le stesse casse di compensazione e garanzia, mediante la valutazione costante del rischio connesso alle operazioni gestite al fine della determinazione e dell’aggiornamento dei margini richiesti agli operatori, svolgono di fatto un ruolo di regolazione del mercato e di parziale contenimento degli squilibri di sistema 41. Va tuttavia considerato che né gli intermediari operanti nel sistema, nè le controparti centrali sono del tutto immuni dal rischio di insolvenza, mentre, per altro verso, la regola della definitività degli ordini è finalizza-
41 Cfr. Maugeri, Il regime giuridico dei margini e l’operatività in derivati su commodities, in Scambi su merci e derivati su commodities. Quali prospettive?, a cura di Lamandini e Motti, Milano, 2006, p. 703, ss., ivi a p. 722.
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ta ad assicurare stabilità al sistema di pagamento e regolamento titoli e non necessariamente al beneficiario finale delle operazioni ivi trattate. Ed in effetti la regola della definitività preclude la possibilità di dichiarare nulli o inefficaci gli ordini immessi ed eseguiti nel sistema, mentre gli effetti che essi producono al suo esterno dovrebbero restare soggetti all’applicazione della disciplina comune, civile e concorsuale 42. Ciò potrebbe portare a considerare una soluzione che, pur salvaguardando la definitività del netting eventualmente operato dal sistema in sede di close-out, sancisca l’inefficacia di tale compensazione per la controparte in bonis. Quest’ultima risulterebbe in tal modo obbligata, mediante un sistema di conguagli, a versare al fallimento le somme a suo debito che risultino ancora dovute e ad insinuarsi al passivo per l’intero suo credito. Il possibile incremento del rischio di propagazione delle insolvenze connesso ad una limitazione del netting potrebbe essere bilanciato e contenuto da regole finalizzate a convogliare i contratti derivati verso sistemi di compensazione e garanzia 43. Infatti, in un contesto capace di assicurare una maggiore sorveglianza sulla solvibilità dei partecipanti, la limitazione delle possibilità di netting dovrebbe rappresentare un fattore di rischio assai modesto quanto al possibile contagio delle insolvenze e al conseguente pericolo di instabilità sistemica, risultando viceversa coerente con l’esigenza di indurre maggiore prudenza negli operatori, pure frequentemente evocata in ogni dibattito sulla riforma. Con il ripristino di alcuni limiti alla compensazione, la disciplina dei contratti derivati nel fallimento vedrebbe nuovamente espandersi la regola della par condicio creditorum, cui verrebbe in tal caso affidata una specifica missione. Risulterebbe infatti non solo e non tanto funzionale
42 Così Perassi, L’attuazione della direttiva 98/26/CE sulla definitività degli ordini immessi in un sistema di pagamento e regolamento titoli, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, I, p. 816, ss., ivi a p. 818. Sul punto cfr. anche Perrone, La riduzione, cit., p. 72, a proposito della natura dei contratti ammessi a sistemi di compensazione e garanzia. L’a. ritiene che il contratto con la clearing house sia comunque un contratto esecutivo di un originario rapporto che continua ad intercorrere tra gli operatori, come desumibile dalla stessa normativa regolamentare (Disposizioni Consob-Banca d’Italia) che afferma la possibilità di far valere l’invalidità e/o l’inefficacia delle obbligazioni nascenti dai citati contratti nei confronti dei (soli) contraenti originari. 43 Sembra questo l’orientamento adottato dalla riforma americana che dispone l’obbligatorietà del clearing per i contratti di swap, con l’eccezione dei contratti stipulati con finalità di hedging da imprese che non svolgano attività finanziaria, sotto il controllo di organismi pubblici di vigilanza (v. la sec. 723 del Dodd-Frank Act).
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a regolare il concorso dei creditori con criteri di equità e ad evitare che la falcidia concorsuale sia distribuita in modo diseguale, quanto a contenere il pericolo che certe operazioni di tipo finanziario possano garantire profitti sicuri agli operatori e consegnare le perdite all’intera collettività44.
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In questa prospettiva, l’interesse pubblico, quale interesse superiore, destinato a prevalere sulla regola della par condicio, e pertanto a comprimerla ove sia necessario per realizzare obbiettivi di portata generale (cfr. Jaeger, Par condicio creditorum, cit., p. 104), potrebbe, parimenti, ritrovarsi a fondare il ripristino di quella stessa regola laddove l’espansione e l’estremizzazione dei privilegi si sia rivelata foriera di squilibri e inefficienze di sistema. La regola, in tal caso, perderebbe la sua neutralità etico-politica e si connoterebbe per finalità specifiche, di indubbio interesse generale, prossime a quei valori di giustizia ed equità sociale che le carte costituzionali degli stai contemporanei normalmente collocano in delle regole concorsuali e della stessa regola della par condicio creditorum alla luce dei precetti costituzionali, tra i quali il principio di uguaglianza sostanziale, cfr. Jaeger, op. cit., p. 105, s.).
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Prescrizione e anatocismo negli affidamenti bancari. I principi giuridici stabiliti dalla sentenza della Cassazione S.U., 23 novembre 2010, n. 24418: quelli enunciati e quelli impliciti * Sommario: 1. Premessa. – 2. Dies a quo della prescrizione dell’azione di ripetizione. – 3. Le rimesse solutorie e l’art. 1194 c.c. – 4. Le rimesse solutorie e il saldo extra fido. – 5. Gli affidamenti in conto e la Delibera CICR 9 febbraio 2000. – 6. La natura degli affidamenti e l’accertamento del fido disponibile. – 7. La capitalizzazione semplice: risvolti economici. – 8. Il provvedimento legislativo mille proroghe, legge n. 10/11, di conversione del d.l. n. 225/10. – 9. Sintesi e conclusioni. – Appendice metodologica: criteri e modalità operative di ricalcolo.
1. Premessa. La Cassazione, nella sentenza S.U. 23 novembre 2010, n. 24418 1, ha stabilito due importanti principi, in tema di prescrizione e capitalizzazione degli interessi in conto corrente, con risvolti di apprezzabile rilievo nei procedimenti di recupero dell’anatocismo bancario. La sentenza in parola tuttavia, se da un lato viene ad indurre chiarezza su taluni aspetti sui quali si sono a lungo confrontate e divise le Corti di merito 2, dall’altro solleva significativi problemi operativi connessi con l’applicazione dei menzionati principi ai rapporti di conto intrattenuti con le banche. Nell’applicazione ai casi concreti insorgono dubbi e perplessità sulle modalità di accertamento dei saldi di conto entro ed oltre il fido, sui
* Elaborato predisposto con la collaborazione, per la parte giuridica, dell’avv. Bruno De Ciccio e, per la parte operativa, del dott. Alberto Bonomo e dott. Antonio Giulio Pastore. 1 In Dir. banc., 2011, I, 303, con nota di Marcelli. 2 Cfr. Marcelli. Decorrenza dei termini di prescrizione decennale, 2009, in http://www. assoctu.it.
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criteri di attribuzione delle rimesse solutorie e di individuazione dei pagamenti prescritti. In questo lavoro si affrontano alcuni problemi giuridici che si incontrano sul piano operativo, che si rende necessario dirimere per consentire ai consulenti tecnici di curare una corretta ricostruzione dei rapporti di conto: vengono altresì proposte soluzioni operative di calcolo che, tuttavia, abbisognano di una verifica giurisprudenziale. In tema di prescrizione è stata recentemente inserita, nel provvedimento legislativo “mille-proroghe” (l. n. 10/11 di conversione del d.l. n. 225/10), un’interpretazione normativa alquanto singolare, che mira ad introdurre per il conto corrente una deroga ai principi stabiliti dalla Cassazione. Al co. 61 dell’art. 2 si prevede: «In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge». Nella formulazione letterale il disposto normativo appare confliggere con consolidati principi giuridici: oltre a significative riserve costituzionali, per gli interessi sul credito entro il fido la ripetizione dell’indebito sembra conservare il termine di prescrizione alla chiusura del rapporto. Perplessità e dubbi, di natura anche costituzionale, sono stati sollevati da numerosi Tribunali.
2. Dies a quo della prescrizione dell’azione di ripetizione. «Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati» (Cass. S.U., 23 novembre 2010, n. 24418). Appare subito evidente come l’enunciato del principio sia parziale: si limita a stabilire solo la disciplina del termine di prescrizione in presenza di rimesse aventi natura ripristinatoria, lasciando impliciti, nelle argomentazioni riportate nella sentenza, rilevanti elementi di valutazio-
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ne dei versamenti aventi natura solutoria. Si viene a modificare e ridimensionare la precedente posizione giurisprudenziale che, nel rimettere perentoriamente all’estinzione del saldo di chiusura del conto il decorso della prescrizione decennale, non lasciava alcuno spazio a deroghe ed eccezioni. La sentenza in esame, pur riconoscendo formalmente l’unicità del rapporto di conto, non disconosce completamente l’autonomia delle singole operazioni di prelievo e versamento. Operando un distinguo fra i due rapporti – conto corrente e apertura di credito 3 – circoscrive solo a quest’ultima il rinvio del termine di prescrizione del pagamento degli interessi all’estinzione del saldo di chiusura. Per l’operatività che esula dall’apertura di credito, alle rimesse viene riconosciuta una natura di pagamento, con riflessi di pregnante rilievo, oltre che nel termine di prescrizione, nell’applicazione dell’art. 1194 c.c. e, conseguentemente, nella stessa natura anatocistica dei relativi interessi. La Suprema Corte richiama nella sentenza la pregressa giurisprudenza con la quale si è più volte affermato come il conto corrente configuri un contratto unitario che dà luogo ad un unico rapporto giuridico, sicché è solo con la chiusura del conto che si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti (Cass., 9 aprile 1984, n. 2262, in Foro it., Repertorio, 1984, voce Cassazione civile, 81; Cass., 14 maggio 2005, n. 10127, in Riv. dir. comm., 2005, 163). Aggiunge tuttavia che l’unitarietà del rapporto non è, di per sé solo, elemento decisivo, per l’individuazione nell’estinzione del saldo di chiusura del conto, del momento da cui decorre il
3 Il conto corrente bancario o di corrispondenza si configura principalmente nella prestazione da parte della banca di un servizio di cassa e di gestione del denaro, riconducibile allo schema del mandato senza rappresentanza. L’apertura di credito si qualifica come il contratto con il quale la banca si obbliga a tenere a disposizione del cliente una somma di denaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato, che il cliente può utilizzare in tutto o in parte secondo le proprie necessità, ripristinando con versamenti il credito disponibile e riconoscendo alla banca gli interessi, commisurati al tasso e all’ammontare del credito effettivamente utilizzato nel periodo. L’apertura di credito costituisce un contratto distinto dal contratto di conto corrente di corrispondenza, ha una vita autonoma, con separati momenti di apertura e chiusura. Per l’apertura di credito non si impiega, di norma, un’autonoma registrazione contabile, bensì essa viene inserita nel conto corrente, determinando di fatto una disponibilità ulteriore che si unisce a quella creata dal correntista mantenendo tuttavia la distinzione. In sede di pignoramento o di sequestro da parte dei creditori del cliente, il debito della banca oggetto di procedura è quello risultante a credito del cliente, senza tener conto della disponibilità creata con l’apertura di credito (Cass., 11 marzo 1992, n. 2915, in Foro it., 1992, I, 2725).
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termine di prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito 4. La sentenza in esame viene ad introdurre in tal modo un varco, nel quale opera l’art. 1194 c.c.: per i rapporti di conto che presentano scoperti di conto, pregnanti elementi di valutazione vengono espressi, più che dall’enunciato del principio, nelle argomentazioni che precedono e conducono allo stesso. A norma dell’art. 1422 c.c., mentre la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale è imprescrittibile, la ripetizione di quanto indebitamente versato a titolo di interessi illegittimamente computati è soggetta alla prescrizione decennale 5. Per la ripetizione dell’indebito il termine di prescrizione comincia a decorrere, ai sensi dell’art. 2935 c.c., dal giorno in cui il diritto alla ripetizione può essere fatto valere e coincide con quello del pagamento all’intermediario bancario. Anche quando rapporti di durata implicano prestazioni di denaro ripetute nel tempo – quali locazioni o somministrazioni periodiche di
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Una ordinanza del Tribunale di Verbania del 23 settembre 2010 (inedita), aiuta a comprendere meglio gli elementi che sviliscono una visione unitaria del rapporto: «ritenuto che il contratto di conto corrente bancario non è un univoco contratto dall’uniforme contenuto negoziale ma è uno schema negoziale aperto, soltanto integrato dalle disposizioni del codice civile, che sempre più si caratterizza come strumento attraverso il quale si perfezionano e trovano esecuzione molteplici negozi giuridici nei quali la banca può assumere nei confronti del proprio cliente varie vesti dai vari contenuti obbligatori – ora di semplice custode del denaro del correntista il quale, in ogni momento, può prelevare le proprie somme ‘custodite’ sul proprio conto corrente presso la banca; ora di mandataria di ordini di pagamento, è questo ad esempio il caso delle domiciliazioni bancarie delle utenze varie operate dal correntista sul proprio conto o il caso del pagamento degli assegni tratti sul proprio conto dal correntista e girati a terzi; ora di mutuante laddove ponga a disposizione del cliente somme di denaro da potersi utilizzare anche al di là della provvista sussistente sul conto vanno tenuti distinti gli atti di versamento operati dal correntista sul proprio conto corrente, laddove incrementino la provvista; per quanto detto appare riduttivo ed apodittico affermare che tutte le operazioni in conto corrente costituiscano semplici variazioni quantitative dell’unico originario rapporto costitutivo tra la banca ed il cliente, mentre appare più convincente ed anche aderente alla realtà dei traffici economico-giuridici, distinguere le varie operazioni eseguite sul conto corrente attribuendo loro il significato di solutio o di mero incremento della provvista a seconda della loro autonoma ed effettiva destinazione». 5 Né si può ritenere che operi la prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 2948 n. 4 c.c. prevista per il pagamento degli interessi e, in generale, di tutto ciò che deve corrispondersi periodicamente in ragione d’anno o in termini più brevi. Si ritiene che la norma si riferisca agli interessi richiesti dal creditore, accessori al capitale dovuto dal debitore, non alla ripetizione di interessi pagati e non dovuti e, quindi, alla ripetizione di un indebito oggettivo. Parimenti non può ritenersi applicabile l’art. 2947 c.c. non trattandosi di credito risarcitorio per fatto illecito della banca.
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cose – l’unitarietà del rapporto contrattuale non impedisce di qualificare indebito ciascun singolo pagamento ed è sempre da quest’ultimo che sorge il diritto alla ripetizione e, di riflesso, il decorso della prescrizione. Infatti, ai sensi dell’art. 2935 c.c., il termine di prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto alla ripetizione può essere fatto valere 6. Il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione può avere luogo solo quando interviene un atto giuridico definibile come pagamento, che si pretende essere indebito, perché prima di quel momento non è configurabile alcun diritto di ripetizione. Il termine di prescrizione inizia pertanto a decorrere non dalla data della decisione che abbia accertato la nullità del titolo giustificativo del pagamento, ma da quella del pagamento stesso (Cass., 13 aprile 2005, n. 7651). Né può costituire pagamento, nel caso di interessi bancari, la semplice registrazione in conto; la sentenza precisa: «ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati dalla banca al correntista (…) comporta un incremento del debito del correntista, o una riduzione del credito di cui ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento, nei termini sopra indicati: perché non vi corrisponde alcuna attività solutoria del correntista medesimo in favore della banca». La banca registra in un unico conto, oltre alle poste modificative del credito, anche gli interessi e competenze che maturano trimestralmente, senza riferimento ad alcuna rimessa di pagamento. Quest’ultima, quando interviene, viene portata a deconto del capitale di credito.
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Si può prescindere dalla natura della rimessa quando ad agire nei confronti della banca è il fideiussore: «In tali casi, è forse corretto affermare che il fideiussore, la cui obbligazione di garanzia diviene esigibile solo al momento in cui la banca abbia revocato gli affidamenti concessi al debitore principale e sia receduta dal contratto di credito in essere, è posto concretamente in grado di far valere le eccezioni già spettanti al correntista solo allorché la banca richieda il pagamento del saldo debitorio finale; sicché la prescrizione del suo diritto allo scorporo di interessi e competenze addebitate illecitamente in conto non può che decorrere dalla data in cui egli sia messo concretamente in condizione – con la richiesta di escussione della garanzia prestata – di prenderne cognizione. Ma nel caso di specie i (…) sono stati evocati in giudizio non solo quali fideiussori del marito e padre (…), ma anche quali suoi eredi a titolo universale: sicché essi rinvengono nel patrimonio ereditario, in quanto tali, i diritti e le obbligazioni che già facevano capo al de cuius e nella consistenza giuridica che avevano – anche sotto il profilo della perdurante decorrenza dei termini di prescrizione – al momento della successione» (Trib. Novara, Sent. n. 145/06, inedita).
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Il saldo del conto viene così impropriamente influenzato dagli interessi appostati in conto dalla banca, che inducono una limitazione nella facoltà di maggior indebitamento, ma che non configurano un pagamento anticipato degli stessi. Il correntista potrà agire per ottenere una rettifica delle risultanze del conto, per recuperare una maggiore disponibilità di credito entro i limiti di fido concessogli, ma non potrà agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, non ha ancora avuto luogo. Nel conto assistito da apertura di credito, la presenza di un passivo che non configuri uno scoperto costituisce un debito del correntista non immediatamente esigibile e le rimesse non hanno una funzione solutoria, ma soltanto una funzione di ripristino della disponibilità 7. Il credito concesso dalla banca con il fido rimane alla stessa indisponibile sino alla scadenza. L’apertura di credito, analogamente al mutuo 8, è un contratto di durata, sviluppato su più atti esecutivi che conservano una sostanziale unitarietà nel rapporto giuridico. La serie successiva di addebiti e accrediti non dà luogo a singoli rapporti (costitutivi od estintivi), ma determina solo variazioni quantitative dell’unico originario rapporto costituito tra banca e cliente: solo alla chiusura si regolano i debiti e i crediti conseguenti (Cass., 6 febbraio 2004, n. 2301, in Giust. civ., 2004, I, 1479; Cass., 14 maggio 2005, n. 10127, in Riv. dir. comm., 2005, 163; Cass., 10 settembre 2010, n. 19291). Prima della chiusura del conto – o della revoca/scadenza dell’apertura di credito – il titolare del conto può solo avanzare una domanda di accertamento costitutivo, volta alla determinazione del saldo 9.
7 D’altra parte la previsione contrattuale prevista nel regolamento del conto corrente – all’articolo riferito alle aperture di credito in conto e agli affidamenti nella forma di castelletto con regolamento in c/c che la banca ritenesse eventualmente di concedere –preclude l’imputazione preventiva delle rimesse agli interessi maturati sul fido: «il correntista può utilizzare in una o più volte la somma messagli a disposizione e può con successivi versamenti ripristinare la sua disponibilità». 8 Anche per la prescrizione applicabile al contratto di mutuo la Cassazione (Cass., 10 settembre 2010, n. 19291) ha previsto: «È pacifico, infatti, che nella specie, trattandosi di contratto di mutuo, e quindi di contratto di durata, in cui l’obbligo di restituzione del capitale sia differito nel tempo, i singoli ratei non costituiscono autonome e distinte obbligazioni, bensì l’adempimento frazionato di un’unica obbligazione. Ne consegue che la prescrizione decennale, applicabile al caso in esame, non può che decorrere dalla scadenza dell’ultimo rateo previsto nel piano di ammortamento e, perciò, come è stato ritenuto dai giudici di merito, dal giorno successivo alla data di scadenza per il pagamento dell’ultima rata del mutuo stesso e cioè dal 26.11.90». 9 Mastromarino, Il dies a quo della prescrizione dei diritti dell’indebitamento nel conto corrente bancario, in Guida al Diritto, 2010, sez. Focus.
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L’apertura di credito si inserisce in un conto corrente nel quale confluiscono plurimi servizi offerti dall’intermediario bancario: questi ultimi esulano dal rapporto di apertura di credito e per essi i termini di prescrizione si pongono in maniera diversa. A differenza dell’apertura di credito, per il conto corrente bancario non è prevista l’inesigibilità e l’indisponibilità sino alla chiusura: infatti, vengono per esso richiamate alcune norme del conto corrente ordinario (artt. 1826, 1829, 1832 c.c.), ma si esclude proprio l’art. 1823 c.c. relativo all’inesigibilità del saldo. Per i versamenti effettuati su un conto passivo privo di apertura di credito, o quando gli stessi siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti di fido, si configura un effettivo pagamento, tale da poter formare oggetto di ripetizione, ove indebito, individuando il dies a quo della prescrizione nella data di annotazione in conto 10. Da quanto esposto emerge chiaramente come, con la sentenza in esame, il focus dell’attenzione, per l’elemento dirimente il termine di decorrenza della prescrizione, viene a risultare sostanzialmente spostato dal carattere unitario del rapporto bancario alle modalità di funzionamento del rapporto stesso. A differenza del credito compreso nel fido, nel “conto scoperto” l’eccedenza del fido costituisce un credito della banca esigibile in qualsiasi momento: in tali circostanze le rimesse che affluiscono sul conto vengono ad assumere la veste di pagamenti aventi l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca.
3. Le rimesse solutorie e l’art. 1194 c.c. La sentenza precisa: la circostanza che «il saldo passivo del conto sia influenzato da interessi illegittimamente fin lì computati, si traduce in un’indebita limitazione di tale facoltà di maggior indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di interessi». La registrazione in conto degli interessi non configura un indebito pagamento degli stessi ma soltanto una indebita limitazione del credito: solo con la rimessa effettuata sul conto scoperto – saldo passivo in
10 In tema di revocatoria fallimentare, si impiega il termine “conto passivo” per indicare il saldo passivo compreso entro il fido e “conto scoperto” per indicare il saldo passivo in assenza di apertura di credito o la quota sconfinante il limite di fido.
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assenza di fido o saldo passivo debordante il fido – si realizza un pagamento anticipato di interessi. Per il vero il principio di diritto stabilito nella sentenza, conseguente alla problematica portata all’attenzione della Cassazione, si limita alla sola circostanza di versamenti in conto passivo aventi una funzione ripristinatoria, ma le argomentazioni sviluppate avvalorano, nel caso complementare di versamenti in conto scoperto, l’applicazione dell’art. 1194 c.c. La sentenza in parola, attribuendo un valore dirimente alla natura solutoria o ripristinatoria delle rimesse in conto, viene a riconoscere implicitamente il criterio di priorità, posto a tutela del creditore con l’art. 1194 c.c. Prima di ripianare il credito, il pagamento deve essere rivolto a ripianare gli interessi. Apparirebbe, al contrario, assai stridente con la tutela del creditore, prevista dal menzionato articolo 1194 c.c., che, in una situazione di extra-fido, la rimessa in conto fosse rivolta a ripianare l’esubero del credito concesso, liquido ed esigibile, mentre il pagamento degli interessi, parimenti liquidi ed esigibili, venisse posposto alla chiusura del conto. Per altro il relativo pagamento, a prescindere che sia fatto nel decennio o precedentemente, non risulta ripetibile in quanto legittimo. Il divieto di anatocismo preclude ogni forma di capitalizzazione degli interessi: questi non possono, salvo le circostanze previste dall’art. 1283 c.c., trasformarsi in capitale, ma non sussiste alcun impedimento a convenire la liquidazione trimestrale degli stessi 11. Con la liquidazione degli
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«Devesi osservare che la regolamentazione pattizia del rapporto di conto corrente bancario, fino al mutato orientamento giurisprudenziale in materia di capitalizzazione trimestrale, contemplava all’art. 7 co. 2 n.u.b. la previsione della contabilizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal correntista: ‘i conti che risultino, anche saltuariamente, debitori vengono chiusi contabilmente, in via normale, trimestralmente (…) applicando agli interessi dovuti dal correntista e alle competenze di chiusura valuta data di regolamento del conto’. Ora, se è vero che la clausola summenzionata deve ritenersi affetta da nullità, per come sopra evidenziato, avuto riguardo, tra l’altro, alla parte in cui prevede il c.d. anatocismo bancario per violazione dell’art. 1283 c.c., vero è anche che la detta clausola nelle sue due articolazioni segnalate (co. 2 e 3) mantiene una sua rilevanza giuridica ai fini della ricostruzione della comune volontà negoziale delle parti, con particolare riferimento alla debenza degli interessi dovuti dal correntista sulle somme messegli a disposizione dalla banca. Non può infatti seriamente dubitarsi del fatto che gli interessi in questione risultino dovuti, alla stregua della pattuizione citata, a cadenza trimestrale, in forza della chiusura contabile del conto prevista per l’appunto
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interessi, conseguente alla rimessa solutoria, non si configura alcuna capitalizzazione. Considerando separatamente capitale (credito/debito) ed interessi via via maturati, senza commistione fra le due categorie di appostazioni, le rimesse che intervengono in presenza di extra-fido, vengono a costituire, secondo i dettami della sentenza, effettivi pagamenti. Tali pagamenti, impiegati prioritariamente a ripianare interessi esigibili, non contravvengono al rispetto dell’art. 1283 c.c. e non determinano alcun diritto a refusione di indebito soggetto a prescrizione decennale. La confusione con la capitalizzazione insorge per il sistema contabile di registrazione ordinariamente impiegato dalle banche, che fonde e confonde in un unico conto poste aventi natura giuridica diversa. Tenendo distinto capitale e interessi, si palesa e chiarisce il portato della sentenza e l’applicazione dell’art. 1194 c.c. Per un conto, ad esempio, affidato per € 1.000, che presenta un saldo a debito di € 1.500 e interessi pregressi di € 200, una rimessa di € 100 costituisce un pagamento, rivolto a ridurre gli interessi prima di essere utilizzato per ripianare l’extra fido liquido ed esigibile.
La giurisprudenza prevalente tuttavia ritiene che, per l’applicazione del criterio legale di imputazione dell’art. 1194 c.c., si renda necessario che sia il capitale che gli interessi risultino liquidi ed esigibili 12. In talune
alla fine di ogni trimestre. Il fatto, poi, che la clausola in esame non possa ritenersi operante ai fini della capitalizzazione trimestrale non toglie che essa valga ad individuare la debenza degli interessi alla fine di ogni trimestre. Non appare configurabile nel sistema alcuna norma che precluda alle parti di prevedere una scadenza trimestrale della obbligazione da interessi per la messa a disposizione di somme di denaro da parte dell’istituto bancario» (Così Tribunale di Catania, 5-6 agosto 2010, inedita). 12 Un credito è liquido quando è determinato, o facilmente determinabile, nel suo ammontare, è esigibile quando non è sottoposto a condizione o termine ovvero, se subordinato a controprestazione, quando questa è stata eseguita.
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pronunce si è anche rilevata l’assenza di un’espressione della volontà delle parti, desumibile anche per presunzione, mentre le banche, di regola, contabilizzano gli accrediti senza alcuna distinzione fra ripianamento di capitale e ripianamento di competenze, ma il co. 2 dell’art. 1194 c.c. non sembra lasciare spazio a letture diverse. La Cassazione, in una sentenza del 2003 (Cass., 16 aprile 2003, n. 6022) puntualizza: «La disposizione dell’art. 1194 c.c. secondo la quale il debitore non può imputare il pagamento al capitale piuttosto che agli interessi o alle spese senza il consenso del creditore, presuppone che tanto il credito per il capitale quanto quello, accessorio per gli interessi e le spese, siano simultaneamente liquidi ed esigibili» 13. Ben si comprende che, per un capitale ed interessi liquidi ed esigibili, il debitore debba, di regola, prima pagare gli interessi e poi il capitale, per evitare pregiudizio al creditore. Per gli interessi relativi all’apertura di credito tuttavia il capitale diviene liquido ed esigibile solo alla scadenza: un’inderogabile e incondizionata applicazione del co. 2 dell’art. 1194 c.c. è suscettibile di ingenerare il pagamento di interessi prima della scadenza dell’apertura di credito, realizzando di fatto, in violazione dell’art. 1283 c.c., quell’anatocismo che la Cassazione aveva ravvisato nei rapporti di conto corrente. In precedenti sentenze la Cassazione aveva riferito la simultanea esigibilità e liquidità del capitale ed interessi, oltre che per il co. 1 anche per il co. 2 dell’art. 1194 c.c.. Relativamente ad una problematica attinente ai versamenti effettuati in sede di esecuzione forzata, la Cassazione ha avuto modo di precisare: «Ma non possono trovare applicazione nemmeno quelli legali quale appunto quello contenuto nel secondo comma dell’art. 1194 c.c., in quanto come già ritenuto da questa Corte (Cass. 26/10/60, n. 2911), la norma in esame secondo cui il pagamento fatto in conto di capitale ed interessi, debba essere imputato prima agli interessi, presuppone pur sempre la simultanea esistenza della liquidità ed esigibilità di un credito per capitale e di un credito per spese e interessi per cui in mancanza di tale simultaneità l’art. 1194 non trova alcuna possibilità di applicazione. Questa linea interpretativa seguita dal giudi-
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Cfr. anche Cass., 27 luglio 2001, n. 10281, in Foro it., Repertorio, 2001, voce Obbligazioni in genere, 26; Cass., 1 luglio 1994, n. 6228, in Rassegna giuridica dell’energia elettrica, 1996, 467; Cass., 18 ottobre 1991, n. 11014, in Foro it., Repertorio, 1991, voce Obbligazioni in genere, 28; Cass., 8 marzo 1988, n. 2352, in Foro it., Repertorio, 1988, voce Assegno, 191.
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ce di merito, non è smentita da Cass. 4/7/87, n. 5874 ed è confermata da Cass. 26/7/86 n. 4798» (Così Cass., 28 settembre 1991, n. 10149). Appare pertanto coerente con il consolidato orientamento della Cassazione che il criterio legale dettato dal co. 2 dell’art. 1194 c.c. – «Il pagamento fatto in conto di capitale e d’interessi deve essere imputato prima agli interessi» – risulti applicabile, in quanto entrambi i crediti, per capitale ed interessi, siano liquidi ed esigibili. La liquidità che consente al correntista di disporre del saldo si deve accompagnare alla esigibilità del capitale e degli interessi che, per l’apertura di credito – tenuta nella sentenza separata e distinta dal conto corrente – si realizza esclusivamente al termine del rapporto. Il riferimento al termine del rapporto, esteso nelle precedenti sentenze della Cassazione all’intero coacervo dei rapporti negoziali che confluiscono nel rapporto di conto corrente bancario, con la sentenza in esame viene ad essere circoscritto alla sola apertura di credito, come ultimo baluardo posto a presidio dell’anatocismo, la cui ‘perversione’ si configura appunto nella trasformazione di interessi in capitale, prima che questo venga a scadenza, determinando una lievitazione geometrica del debito. In stretta aderenza al principio richiamato, nei rapporti bancari affidati l’esigibilità e liquidità di capitale ed interessi ricorre simultaneamente solo per il credito che deborda il fido e per gli interessi ad esso relativi, mentre tale simultaneità, per il credito entro il fido ed i relativi interessi, è differita, come detto, all’estinzione del saldo di chiusura del rapporto o dell’apertura di credito. Secondo quanto discende dalla sentenza occorre tenere distinti gli interessi relativi al credito oltre il fido che, se pagati, risultano legittimi e non ripetibili, da quelli relativi al fido, i quali, congiuntamente a quelli sul credito in extra fido rimasti non pagati, dovranno essere considerati, unitamente al saldo capitale, alla chiusura del conto o alla prima rimessa dopo la revoca/scadenza dell’affidamento 14. La rimessa oltre il fido verrebbe prioritariamente rivolta a saldare gli interessi relativi al credito debordante il fido, poi a quest’ultimo e da ultimo, per l’eventuale parte residua, andrebbe a ricostituire la disponibilità entro il fido.
14 Gli interessi relativi all’apertura di credito, con la revoca/scadenza del fido, divengono, congiuntamente al credito stesso, liquidi ed esigibili: venendo meno il fido, ogni rimessa diviene solutoria e viene attribuita prioritariamente a ripianare gli interessi.
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Per la situazione contabile rappresentata in tabella, una rimessa di € 250 estingue prima gli interessi relativi al debito in extra fido (€ 20), poi lo stesso extra fido (€ 200) e, per la parte residua (€ 30) riduce l’esposizione all’interno del fido, ripristinando il margine disponibile. Gli interessi relativi al fido rimangono invariati. Viene in tal modo coniugato, con maggiore equilibrio, un contemperamento tra lo spirito perseguito dall’art. 1194 c.c. e quello perseguito dall’art. 1283 c.c. Un’attenta distinzione della diversa natura delle due forme di credito, entro il fido ed oltre il fido, rispondenti a due distinti rapporti negoziali, nonché il puntuale rispetto, per capitale e interessi, del criterio di simultaneità stabilito dalla menzionata sentenza della Cassazione del 2003, appaiono, per altro, coerenti con la seconda parte della sentenza in esame, che fa discendere dalla nullità della previsione negoziale degli interessi trimestrali l’esclusione di ogni forma alternativa di capitalizzazione e il rinvio alla chiusura del pagamento degli interessi. In un’interpretazione che trascuri la simultanea presenza di liquidità ed esigibilità del credito e degli interessi, non operando alcuna distinzione in questi ultimi, anche un piccolo debordo del fido verrebbe a precludere la ricostituzione del credito accordato, se prima non fossero interamente saldati tutti i pregressi interessi e competenze.
Come si evidenzia nell’esempio, anche in presenza di un modesto scoperto di conto (€ 1.000 di fido e € 10 di extra fido) le successive rimesse verrebbero interamente rivolte a saldare interessi e competenze
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pregressi (€ 202), sino al loro completo ripianamento, prima di pagare il credito in scoperto e passare a ricostituire il margine di fido. Con tale interpretazione verrebbe in buona parte vanificata la norma imperativa disposta dall’art. 1283 c.c. I riflessi economici, in tale lettura, risulterebbero del tutto analoghi alla capitalizzazione: venendo meno la simultaneità di scadenza del credito e degli interessi, il pagamento anticipato di questi ultimi produrrebbe implicitamente ulteriori interessi sino alla scadenza del credito stesso. Quanto all’imputazione delle rimesse occorre poi osservare che, nel sistema contabile ordinariamente impiegato dalla banca, il pagamento degli interessi viene registrato con l’appostazione in dare del relativo importo: non risulta alcuna imputazione agli stessi delle successive rimesse solutorie. Tuttavia si potrebbe attribuire al “foglio competenze”, che accompagna l’estratto conto, un’espressione della volontà della banca di imputare ad interesse le prime successive rimesse; il saldo del conto, espresso nell’estratto trimestrale, costituirebbe l’attestazione del credito in essere e l’implicita quietanza ex art. 1199 c.c. del capitale rifuso, al netto degli interessi pagati. Pur considerando che spetta al debitore l’imputazione delle rimesse, dall’illecita attribuzione delle rimesse agli interessi ad opera della banca deriverebbe un pagamento ripetibile entro l’ordinario termine prescrizionale dei dieci anni decorrente dalla rimessa stessa. Emerge tuttavia, dalla prospettazione contabile resa al cliente, che la banca, proprio con l’addebito alla fine del trimestre, imputa direttamente al capitale gli interessi maturati, senza attendere alcuna rimessa di pagamento: a riprova, gli interessi successivi, per la parte anatocistica, vengono fatti decorrere dalla fine del trimestre, non dalla prima rimessa di pagamento. Si potrebbe sostenere che l’art. 1194, co. 1, c.c. prevede sì che «il debitore non può imputare il pagamento al capitale, piuttosto che agli interessi e alle spese, senza il consenso del creditore», ma che è la stessa banca creditrice a registrare sul capitale le variazioni derivanti da rimesse, addebitando invece gli interessi in sede di chiusura periodica 15.
15 «Come spiega autorevole pensiero, nei rapporti tra banca e correntista oggetto dell’annotazione sono soltanto somme e non crediti reciproci, giacché l’annotazione della somma produce modifica della quantità di moneta di cui il correntista può, ex art. 1852 c.c., ‘disporre in qualsiasi momento’. I pagamenti, quindi, non avvengono
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Risultando questi ultimi addebiti privi di un valore di pagamento, non si porrebbe alcun problema di prescrizione e il relativo termine pertanto verrebbe rimesso all’estinzione del saldo di chiusura del conto. Al di là dei possibili costrutti di attribuzione delle rimesse, rimane la risultanza fattuale che, all’atto dell’operazione in conto, viene esplicitato il negozio giuridico da cui origina la rimessa, ma non viene, di regola, fornita alcuna indicazione sull’impiego e destinazione della rimessa stessa. Dall’assenza di una esplicita indicazione alla rimessa solutoria consegue l’applicazione dell’art 1194 c.c., co. 2, nel rispetto del menzionato principio di contestualità della esigibilità e liquidità del credito. Prima della revoca dell’apertura di credito solo gli interessi relativi al credito in extra fido possono risultare oggetto di pagamento legale ex art. 1194 c.c. Per gli interessi relativi al credito entro il fido e per quelli anatocistici, poiché l’addebito operato dalla banca non costituisce pagamento, ma semplicemente un’indebita registrazione in conto limitativa del credito disponibile, non sorge problema di prescrizione e il termine per
in moneta legale, ma mediante semplici ‘annotazioni’ e, cioè, registrazioni contabili, con il che si può ben dubitare che si perfezioni il ‘pagamento’ di cui all’art. 1194 c.c., che, come spiega il più autorevole pensiero, consiste in un ‘ricevimento di pagamento’ in senso tecnico accompagnato dalla imputazione fatta dal debitore ai sensi dell’art. 1193 c.c., giacché il potere di imputazione del pagamento compete al solo debitore. Del resto, non si vede come applicare alla fattispecie oggetto del presente giudizio l’art. 1194, 1° comma, c.c. che prevede, appunto, come ‘il debitore non può imputare il pagamento al capitale, piuttosto che agli interessi e alle spese, senza il consenso del creditore’, quando è la stessa banca creditrice, al contrario, che ha deciso, invece, di conteggiare chiaramente sul capitale le variazioni derivanti da rimesse addebitando poi gli interessi scalari in sede di chiusura periodica» (così Trib. Torino, 5 ottobre 2007, in Foro It., 2008, I, 646 ss.).
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l’azione di ripetizione rimane di conseguenza attestato all’estinzione del saldo di chiusura del conto o alla prima rimessa dopo la revoca/ scadenza del fido. La rimessa solutoria – intervenuta in un conto scoperto – viene prioritariamente rivolta al pagamento degli interessi sul credito in extra fido: il capitale (credito/debito) non si modifica, rimane invariato. In tali circostanze si ha un versamento che, in luogo di essere rivolto al capitale, va a ripianare gli interessi: non si configurano interessi che divengono capitale attraverso l’addebito in conto operato dalla banca. Il risultato finale (saldo del conto) è identico, ma i risvolti giuridici risultano apprezzabilmente diversi. La precisazione introdotta dalle Sezioni Unite sulla natura delle rimesse, nel trascinare con sé un’implicazione solutoria degli interessi ex art. 1194 c.c., di fatto esclude che si determini anatocismo nelle circostanze di rimesse su un conto scoperto. Diversa sarebbe l’implicazione qualificando come pagamento degli interessi l’addebito in conto, configurandosi in tal caso un effettivo passaggio a capitale degli stessi. Nella tabella, a sinistra viene riportata la registrazione ordinariamente impiegata dalla banca, dove gli interessi si capitalizzano al momento dell’addebito determinando anatocismo, a destra viene riportata l’applicazione dell’art. 1194 c.c., con il quale con la rimessa si viene a saldare agli interessi, senza operare alcuna capitalizzazione. Riconducendo il pagamento degli interessi non al momento della registrazione a debito degli stessi, bensì alla successiva rimessa solutoria, non si configura più alcun anatocismo: con la rimessa solutoria, gli interessi relativi all’extra fido risultano regolarmente pagati e, di riflesso, non ripetibili perché legittimi. Al contrario, gli interessi relativi al fido, come anche quelli anatocistici, configurano all’atto dell’addebito in conto non un pagamento, ma semplicemente indebite appostazioni limitative del credito disponibile. Non risulterebbe, per le rimesse successive, alcuna esplicita imputazione, né potrebbero essere riconosciute ad interessi, trattandosi, come detto, soltanto di indebite appostazioni. Di riflesso non sembra porsi per tali appostazioni alcun problema di prescrizione non risultando intervenuto alcun indebito pagamento. Queste, si ritiene, costituiscano le innovative modifiche non espresse nell’enunciato, ma sostanzialmente implicite nella sentenza in esame. Limitando al solo caso di rimessa ripristinatoria la decorrenza della prescrizione decennale dall’estinzione del saldo di chiusura del conto, la sentenza da un lato esclude dalla prescrizione gli addebiti degli interessi
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in quanto non costituenti pagamenti, dall’altro introduce, a contrariis, uno spazio giuridico, seppur definito e circoscritto (extra fido), nel quale l’anatocismo finanziario diviene legale 16. Questa deroga al divieto dell’anatocismo, che discende dalla sentenza, prescinde dalla prescrizione: i suoi effetti si esplicano sull’intero periodo del rapporto, rendendo legittimo, con la rimessa solutoria, il pagamento degli interessi relativi all’extra fido, sia semplici che anatocistici 17. In tal modo si vengono a ridimensionare le precedenti pronunce della Cassazione, che avevano ravvisato proprio in tale forma di costrutto logicocontabile la fattispecie degli interessi anatocistici vietati dall’art. 1283 c.c., considerata dalla Cassazione stessa «norma imperativa, che presidia l’interesse pubblico ad impedire una forma, subdola, ma non socialmente meno dannosa delle altre, di usura» (Così Cass., 6 maggio 1977, n. 1724) 18. Occorre per altro osservare che la sentenza delle Sezioni Unite qualifica come rimesse solutorie i versamenti «eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire ‘scoperto’) cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento». La sentenza, in un altro passo, riporta: «intanto questi ultimi (i versamenti) potranno essere considerati alla stregua di pagamenti, tali
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Risultando tipica del conto corrente l’alternanza e frequenza di poste a debito e a credito, qualora ricorra un saldo in extra fido, l’annotazione degli interessi a debito troverebbe un pronto pagamento alla prima rimessa a credito: la circostanza, come mostrato nella tabella, non darebbe luogo ad una formale capitalizzazione, vietata dall’art. 1283 c.c., ancorché nella sostanza economica si realizzerebbe una fattispecie del tutto analoga all’anatocismo. 17 La menzionata deroga risulterebbe, di fatto, congiungersi con la Delibera C.I.C.R. del 9 febbraio 2000, con la quale l’anatocismo è stato sostanzialmente ripristinato: alle registrazioni nel conto corrente risulterebbe, per altro, riconosciuto un effetto di pagamento. All’art. 2 della Delibera si riporta: «Nel conto corrente l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con la periodicità contrattualmente stabiliti. Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità». 18 «Tale tesi inficia in radice l’operatività, nella fattispecie in esame, dell’art. 1283 c.c., giacché si risolve nel sostenere che, per estinguere gli interessi passivi, che maturano giorno per giorno, verrebbero utilizzate le poste attive del conto corrente (o le aperture di credito concesse dalla banca al cliente). Se così fosse però, ovviamente alcun anatocismo maturerebbe (il debito da interessi verrebbe, infatti, immediatamente estinto) il che contraddice specificamente quanto statuito dalle Sezioni Unite che, come detto, hanno individuato nel contenuto delle clausole contrattuali de quibus proprio la fattispecie degli interessi anatocistici stabiliti in violazione della norma di cui all’art. 1283 c.c.» (così Trib. Torino, 5 ottobre 2007, in Foro It., 2008, I, 646 ss.).
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da poter formare oggetto di ripetizione (ove risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca». La natura solutoria della rimessa è pertanto individuata dalla ricorrenza di due elementi qualificanti: la rimessa interviene quando il saldo del conto presenta uno scoperto oltre il fido (o un passivo in assenza di fido) e la rimessa ha l’effetto, oltre che lo scopo, di determinare uno spostamento patrimoniale a favore della banca. Lo spostamento patrimoniale in favore della banca si può determinare solo per l’ammontare massimo corrispondente al credito in extra fido (o per l’ammontare del passivo in assenza del fido) e agli interessi ad esso relativi, maturati e scaduti: solo tali poste sono infatti liquide ed esigibili. Ogni altro spostamento risulterebbe solo apparente, non avendo la rimessa, per il corrispondente ammontare, una natura solutoria: non si determinerebbe alcun spostamento, né quindi azione di ripetizione soggetta a prescrizione. Per un fido di € 100 ed un extra fido di € 20, ad esempio, una rimessa di € 50 assolve lo scopo sopra indicato non per l’intero importo, bensì solo per la quota che può determinare un legale spostamento patrimoniale in favore della banca. Tale quota è data dal credito in extra fido (€ 20) e dagli interessi sullo stesso maturati e divenuti liquidi ed esigibili: per la somma di tali valori la rimessa costituisce un pagamento, mentre per la parte residua assolve una funzione ripristinatoria, non rivestendo né lo scopo, né tanto meno l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca (Cfr. Cass., 8 gennaio 2004, n. 76, in Giur. it., 2005, 278). Risulterebbe improprio e contrario allo spirito della norma ritenere solutoria l’intera rimessa, destinandola a ripianare, seppur illegittimamente, anche gli interessi relativi al fido e quelli anatocistici. Solo per l’importo massimo liquido ed esigibile una rimessa può essere rivolta ad un eventuale irregolare pagamento che, se intervenuto nel periodo prescritto, non sarebbe ripetibile. Ma, come sopra riportato, non intervenendo per gli interessi alcuna specifica imputazione delle rimesse di pagamento, risulterebbe arbitrario attribuire queste ultime prioritariamente a ripianamento degli interessi relativi al credito entro il fido, indebitamente appostati in conto. Venendo meno la funzione di pagamento degli addebiti trimestrali, non risultano interessi illegittimamente pagati e ripetibili entro i dieci anni. In assenza di specifiche imputazioni delle rimesse, solo gli interessi relativi al credito in extra fido possono risultare oggetto di pagamento ex
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art. 1194 c.c., legittimo e quindi non ripetibile, quale che sia il momento in cui interviene 19. Per la distinzione fra le operazioni aventi natura ripristinatoria della provvista e quelle aventi invece funzione di effettivo pagamento del debito verso la banca, le Sezioni Unite richiamano i criteri sanciti in precedenti pronunce espresse in tema di revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario (regime ante riforma) 20. Venendo richiamato espressamente il carattere solutorio o ripristinatorio del versamento, appare consequenziale mutuare dalle revocatorie anche il criterio del saldo disponibile che non corrisponde necessariamente né al saldo per valuta, né al saldo contabile 21: risulterebbe oltremodo
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Si può al più valutare se ritenere compresi nel pagamento l’effetto anatocistico degli interessi e l’eventuale parte di interesse ultralegale non convenuti, computati sull’extra fido e addebitati, che, in quanto illegittimi, diverrebbero irripetibili decorsi i dieci anni dal pagamento. In questa circostanza la rimessa di pagamento verrebbe rivolta, in parte, a ripianare interessi che si reputano liquidi ed esigibili ma che risultano illegittimi. Al contrario, per gli interessi sul credito entro il fido, che liquidi ed esigibili non sono, a meno di specifiche imputazioni che di norma non ricorrono, non si può configurare alcuna attribuzione di rimesse di pagamento agli stessi, siano essi semplici o anatocistici. 20 Cass., 6 novembre 2007, n. 23107, in Foro it., 2008, I, 1947, ha chiarito: «pur se elaborata ad altri fini, detta distinzione non può non venire in evidenza anche quando si tratti di stabilire se è o meno configurabile un pagamento, asseritamente indebito, da cui possa scaturire una pretesa restitutoria ad opera del solvens; pretesa che è soggetta a prescrizione solo a partire dal momento in cui si può affermare che essa sia venuta ad esistenza». Si vedano anche Cass., 18 ottobre 1982, n. 5413, in Foro it., 1983, I, 69 e Cass., 23 novembre 2005, n. 24588, in Foro it, Repertorio, 2005, voce Fallimento, 437). 21 Recentemente la Cassazione (Cass., 14 aprile 2010, n. 8953, in www.gadit.it), in tema di azione revocatoria delle rimesse bancarie, ha avuto modo di ribadire: «Per quanto riguarda il criterio da utilizzare al fine di determinare quali sono i versamenti aventi natura ripristinatoria della provvista, escludendone, quindi, la natura solutoria il criterio da utilizzare secondo il costante e consolidato orientamento di questa Suprema Corte di Cassazione è quello del saldo disponibile. Questa Suprema Corte ha, infatti, reiteratamente affermato che le rimesse sul conto corrente dell’imprenditore poi fallito sono legittimamente revocabili tutte le volte in cui il conto stesso, all’atto della rimessa risulti “scoperto”, tale dovendosi ritenere sia il conto non assistito da apertura di credito che presenti un saldo a debito del cliente, sia quello scoperto a seguito di sconfinamento dal fido accordato al correntista. Pertanto, al fine di accertare se una rimessa del correntista sul proprio conto corrente sia destinata al pagamento di un proprio debito verso la banca, ovvero solo a ripristinare la provvista sul conto corrente, occorre fare riferimento al saldo disponibile del conto, vale a dire all’effettiva disponibilità di danaro liquido da parte del correntista nel momento in cui effettua la rimessa, non al “saldo contabile”, che riflette la registrazione delle operazioni in ordine puramente cronologico, né al “saldo per valuta”, che è effetto del posizionamento delle partite in base alla data di maturazione degli interessi (cfr. tra
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incongruo che, per il ‘gioco’ delle valute, un addebito risultasse anteposto ad un precedente accredito, determinando un momentaneo e fittizio scoperto di fido. Analogamente applicabili risulterebbero gli ulteriori criteri ordinariamente impiegati nella determinazione delle poste revocabili 22.
4. Le rimesse solutorie e il saldo extra fido. Si osserva che, ai fini della distinzione dei saldi entro il fido da quelli oltre il fido, non è sufficiente riordinare le operazioni appostate nell’estratto conto secondo i criteri che presiedono, nelle revocatorie delle rimesse bancarie, la data disponibile, risultando tale saldo inficiato dagli interessi indebitamente contabilizzati. La circostanza che la banca abbia indebitamente registrato a fine trimestre gli interessi determina un’impropria riduzione del credito disponibile o un aumento del credito concesso in extra fido, ma non modifica la natura del saldo legale, dal quale ricavare la funzione solutoria o ripristinatoria della successiva rimessa. Una indebita registrazione non può modificare la natura legale del saldo, né si può ritenere che, decorso il decennio, tale saldo diventi legittimo 23. La Cassazione (Cass., 1 ottobre 2007, n. 10692, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 707), seppur per altre finalità, ha avuto modo di affermare: «Una volta esclusa la validità della clausola sulla cui base sono stati calcolati gli interessi, soltanto la produzione degli estratti a parti-
le molte in tal senso: Cass. n. 4762 del 2007; Cass. n. 26171 del 2006; Cass. n. 24588 del 2005; Cass. n. 24084 del 2004; Cass. n. 12 del 1996; Cass. n. 2744 del 1994)». 22 Ad esempio, in presenza di un conto scoperto, sarebbero da escludere le rimesse aventi la precipua funzione di fornire la provvista per l’esecuzione di specifici ordini di pagamento, mancando in tal caso il carattere solutorio del versamento (partite bilanciate). 23 «Il titolare del conto può proporre, anche prima della chiusura del contratto, una domanda di accertamento costitutivo, volta alla sola rideterminazione del saldo. L’accertamento costitutivo del saldo, infatti, incide nel rapporto di durata in corso, modificandolo e rendendolo conforme al diritto, senza bisogno della chiusura preventiva del conto corrente e di una condanna di restituzione. La domanda di accertamento del saldo è volta a ottenere l’esatta determinazione delle somme a credito e a debito delle parti, sulla base dell’intera documentazione (disponibile), dall’inizio dei rapporti di conto corrente al tempo della domanda: detta azione di accertamento è imprescrittibile (cfr. art. 1422 c.c.) e si può chiedere la modifica delle poste all’interno del rapporto, così e come accade in altri contratti di durata (come la somministrazione)» (Così Tanza e Nuzzaci, Dal “diritto delle banche” al “diritto bancario”, in http//www.diritto.net).
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re dall’apertura del conto corrente consente, attraverso una integrale ricostruzione del dare e dell’avere con l’applicazione del tasso legale, di determinare il credito della banca, sempreché la stessa non risulti addirittura debitrice, una volta depurato il conto dalla capitalizzazione degli interessi non dovuti. Allo stesso risultato, evidentemente, non si può pervenire con la prova del saldo, comprensivo di capitali ed interessi, al momento della chiusura del conto. Infatti, tale saldo non solo non consente di conoscere quali addebiti, nell’ultimo periodo di contabilizzazione, siano dovuti ad operazioni passive per il cliente e quali alla capitalizzazione degli interessi, ma a sua volta discende da una base di computo che è il risultato di precedenti capitalizzazioni degli interessi». Per l’individuazione delle rimesse solutorie, aventi una funzione di pagamento, si pone il problema di ricostruire il corretto scalare del rapporto di conto, che esprima la legale natura, passiva o di scoperto del saldo, alla quale risulta interconnessa la natura solutoria o ripristinatoria della rimesse successive. La banca ha appostato in conto interessi indebiti, modificando il saldo: l’effettivo e legale credito posto a disposizione del correntista è dato esclusivamente dal saldo delle rimesse e dei pagamenti (oltre agli eventuali interessi a credito), che ricomprenda altresì solo gli interessi riferiti all’extra fido, legittimamente coperti da rimesse solutorie di pagamento 24. L’accertamento della nullità della capitalizzazione trimestrale è imprescrittibile e comporta il venir meno della clausola ex tunc, vale a dire dal momento iniziale, travolgendo ogni effetto successivo: la situazione contabile prospettata nel tempo va necessariamente rettificata. Se si ritenesse applicabile il disposto dell’art. 2, co. 61, della l. 10/2011, risulterebbero consolidati e resi irripetibile gli addebiti degli interessi e dell’anatocismo appostati nei conti nel periodo precedente il decennio ed il saldo banca coinciderebbe con il saldo rettificato. Si renderebbe comunque necessario – quanto meno per il periodo relativo al decennio di prescrizione – enucleare tutti i restanti interessi, semplici e anatocistici, posponendo i primi – ricalcolati sul nuovo saldo
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Qualora si ritenga invece che le rimesse solutorie possano essere regolarmente imputate a tutti gli interessi, semplici ed anatocistici, calcolati dalla banca, il saldo capitale andrà rettificato, ricomprendendo nello stesso detti interessi, nei limiti della natura solutoria della rimessa, che rimane determinata dall’ammontare delle poste esigibili, costituite dal credito in extra fido e dei relativi interessi maturati.
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rettificato – alla chiusura del conto o alle rimesse successive alla revoca/ scadenza dell’apertura di credito. Se, al contrario, nel ricalcolo del saldo si lasciassero invariati tutti gli illegittimi addebiti delle competenze bancarie, si avrebbe una rappresentazione contabile assai discosta da quella legale. Queste appostazioni assumerebbero progressivamente nel tempo una dimensione ragguardevole, che potrebbe anche travalicare il fido stesso: in tali circostanze lo “scoperto di fido” risulterebbe solo apparente, dovuto alla confusione di interessi illegittimi e capitale. La commistione, in conto, del capitale di credito posto a disposizione e utilizzato dal correntista con gli interessi non ancora divenuti capitale e con gli illegittimi interessi anatocistici assimila in un unico saldo poste aventi natura giuridica diversa. Tale commistione riflette la sovrapposizione e confusione di operazioni che attengono ai diversi rapporti negoziali caratterizzanti il conto corrente e l’apertura di credito. Ciò che configura la circostanza di un pagamento o, alternativamente, di un ripristino della provvista, non può essere affidato al saldo risultante dalle appostazioni contabili curate dalla banca, ma deve discendere esclusivamente dal legittimo saldo capitale. Enucleando a parte gli interessi maturati e lasciando in conto solo quelli legittimamente coperti da rimesse di pagamento, il saldo a debito rettificato che si ottiene consente di accertare la corretta natura passiva o di scoperto. Il saldo così rettificato può risultare nel tempo apprezzabilmente inferiore rispetto al saldo banca, evidenziando in tal modo che, ad apparenti saldi scoperti, corrispondono più propriamente solo saldi passivi. Tenendo separata la linea capitale dalla linea interessi, rimane più agevole la rielaborazione. In una trasparente rappresentazione contabile, la distinzione del capitale dalle competenze accessorie, l’accertamento del corretto saldo capitale e l’individuazione dell’esatta natura delle rimesse intervenute nel conto consentono la giusta attribuzione delle rimesse alle finalità contemplate nella sentenza delle Sezioni Unite: ripristino della provvista, pagamento degli interessi, riduzione del capitale di credito. Preliminarmente, sul piano operativo si renderà opportuno, dopo aver riordinato l’estratto conto per data di disponibilità, scindere il saldo del conto in saldo capitale, comprensivo degli interessi a credito, saldo interessi a debito e saldo delle ulteriori competenze. Gli interessi a credito non vanno confusi con quelli a debito: l’annotazione in conto è legittima e la capitalizzazione è contestuale. Per l’individuazione delle rimesse solutorie, in un processo iterativo, il saldo capitale andrà volta per volta rettificato con gli interessi legittimamente pagati nel periodo, ricalcolati sul credito in extra fido e “pas-
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sati” a capitale 25 all’atto dell’ultima rimessa solutoria (con la produzione successiva di interessi legittimi). Gli interessi che risultano invece non pagati, risultando appostazioni prive di efficacia giuridica, vanno esclusi dal capitale rettificato, ricalcolandoli sullo stesso, in regime di capitalizzazione semplice, e riportandoli alla chiusura del conto o in scomputo delle prime rimesse successive alla revoca/scadenza del fido 26. Le altre spese del conto, se regolarmente contrattualizzate, si ritiene debbano seguire la sorte degli interessi relativi al credito in extra fido: divenendo anch’esse periodicamente liquide ed esigibili devono essere ricomprese nelle rimesse di pagamento e spesate dopo gli interessi. Per le CMS invece – sempre che non vengano ritenute nulle per indeterminatezza e/o assenza di causa – sia che vengano intese come un accessorio degli interessi, sia che vengano intese come la remunerazione per l’obbligo di tenere a disposizione il credito (Cfr. Cass., 6 agosto 2002, n. 11772, in Foro it., Repertorio, 2002, voce Contratto in genere, 488), si renderà opportuno suddividerle, come gli interessi, nella quota parte relativa all’extra fido, pagabile con la rimessa solutoria e quota parte relativa al fido, pagabile alla scadenza.
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In realtà, come si è mostrato, anche se il risultano è identico, non si configura un vero e proprio passaggio a capitale: risultando la rimessa rivolta al pagamento di detti interessi, il capitale di credito prestato dalla banca non si riduce dell’importo corrispondente. 26 Qualora si ritenga invece che le rimesse solutorie possano essere regolarmente imputate a tutti gli interessi, semplici ed anatocistici, calcolati dalla banca, nel procedimento iterativo di ricostruzione del saldo del conto, occorre distinguere il periodo prescritto dal successivo. 1. Per il periodo prescritto, le appostazioni a debito operate dalla banca risultano irripetibili se coperte da rimesse di pagamento. Ogni rimessa avente natura solutoria, va a ripianare prioritariamente sia gli interessi semplici che gli interessi anatocistici, entro il limite massimo della quota solutoria della rimessa. L’eccedenza della rimessa, come le altre rimesse ripristinatorie, vanno a modificare il saldo in linea capitale che, a sua volta, in funzione della natura passiva o scoperta dello stesso, consente di stabilire la natura, oltre che la misura, solutoria o ripristinatoria della successiva rimessa. 2. Per il periodo non prescritto, ogni rimessa avente natura solutoria, va a ripianare solo gli interessi semplici relativi al credito in extra fido. L’eventuale eccedenza della quota solutoria, congiuntamente alle rimesse ripristinatorie, vanno a modificare il saldo in linea capitale, sul quale valutare, in funzione della natura passiva o scoperta dello stesso, la conseguente natura solutoria o ripristinatoria della successiva rimessa. Alla chiusura del conto, tutti gli interessi semplici che non hanno trovato copertura in una rimessa di pagamento, previo ricalcolo sul capitale rettificato, vengono, nella stessa data, sommati al saldo in linea capitale determinando l’effettivo saldo finale.
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Nell’usuale organizzazione contabile adottata dalle banche, nella quale rifluiscono in un unico saldo poste di capitale e poste di competenze, si devono distinguere le diverse fattispecie:
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a) il saldo va in extra-fido a seguito della presenza delle competenze trimestrali addebitate dalla banca. In tale circostanza non si configura un credito da parte della banca di somme oltre il limite di fido: il versamento che interviene successivamente non assolve una funzione solutoria. Il saldo evidenzia un importo oltre il fido solo per impropria rappresentazione contabile, mentre l’esposizione del credito effettivamente utilizzato risulta, di diritto, entro il fido e il versamento assolve una mera funzione ripristinatoria: l’illegittima registrazione degli interessi giustificherebbe il diritto alla sua enucleazione, non un diritto restitutorio del successivo versamento in conto. Il termine di prescrizione, non risultando la rimessa solutoria, rimane relegato all’estinzione del saldo di chiusura del conto. b) il saldo va in extra-fido a seguito di addebiti disposti dal correntista, a cui si aggiungono interessi, commissioni e spese addebitati dalla banca. Il primo versamento in conto assume la veste di pagamento per una quota massima pari alla somma di capitale in extra fido e relativi interessi. Tale pagamento va a ripianare, di diritto, ex art. 1194 c.c., solo gli interessi addebitati per la quota riferita al credito in extra fido utilizzato. Gli interessi in capitalizzazione semplice, riferiti al credito entro il fido, devono essere ricalcolati e posposti alla chiusura, mentre la componente di capitalizzazione (anatocistica) deve invece essere espunta in quanto illegittima e ripetibile. La decorrenza della prescrizione per l’azione di ripetizione è rimessa all’estinzione del saldo di chiusura del conto. c) il saldo del conto, a seguito delle rimesse, oltre a ripristinare il credito concesso dalla banca, va in attivo. La rimessa che conduce il conto in attivo assume comunque la veste di provvista: gli interessi a debito maturati sono relativi ad un affidamento non ancora esigibile 27. La decorrenza della prescrizione per l’azione di ripetizione è rimessa all’estinzione del saldo di chiusura del conto.
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Anche la quota di rimessa corrispondente alla parte in attivo assume la veste di provvista. La sentenza delle Sezioni Unite qualifica come rimesse solutorie solo quelle che intervengono in un conto passivo: «potranno essere considerati alla stregua di pagamenti (…) qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo (o, come in simili situazioni si preferisce dire ‘scoperto’) cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista»; di converso, un versamento eseguito su un conto in attivo, cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista – come anche la quota parte attiva di un versamento eseguito su un conto passivo – non assume la veste di pagamento ma va a costituire una provvista.
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d) il conto non è affidato e presenta scoperti. La prima rimessa in conto assume la veste di pagamento e va a ripianare, di diritto, ex art. 1194 c.c., gli interessi addebitati, per la quota strettamente riferita, in capitalizzazione semplice, al credito concesso ed utilizzato (maggiorato dei precedenti pagamenti legittimi di interessi), mentre l’eventuale quota riveniente dall’effetto della capitalizzazione, indebitamente computata in conto, deve essere espunta. La prescrizione per l’azione di ripetizione dell’anatocismo decorre dall’estinzione del saldo di chiusura del conto.
La metodologia dianzi esposta andrà adeguatamente verificata e confrontata con le posizioni che dottrina e giurisprudenza assumeranno sui risvolti giuridici dei criteri applicativi impiegati. La materia risulta significativamente permeata da un elevato tecnicismo giuridico, che impone un’opportuna sinergia fra consulente tecnico e giudice. Qualora si condividano i principi e i criteri illustrati, onde evitare incongruenze nel complesso processo di ricalcolo del saldo rettificato, si rende opportuno, nella formulazione del quesito al CTU, precisare le specificità tecnico-giuridiche che presiedono l’incarico peritale.
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Nella tavola sopra riportata sono sinteticamente riportate le principali indicazioni da fornire nel quesito posto al CTU, secondo i diversi principi giuridici adottabili. Riferendosi più strettamente ai principi dettati dalle Sezioni Unite (Cass. S.U., 23 novembre 2010, n. 24418), al CTU andrà precisato:
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Per l’individuazione degli interessi ed altri oneri oggetto di rimesse solutorie nel corso del rapporto, nonché degli interessi ed oneri da considerare, invece, al termine del rapporto o della scadenza/revoca dell’affidamento, si dovrà procedere a: 1) ordinare l’estratto conto, determinando per ciascuna operazione la data disponibile, secondo gli usuali criteri previsti per la revocatoria delle rimesse bancarie; 2) individuare il saldo capitale del conto, enucleando a parte gli interessi a debito e le altre competenze addebitate dalla banca; 3) ricostruire il saldo capitale rettificato. Si modificherà, volta per volta, in un processo iterativo, il saldo capitale per tener conto delle rimesse che assumono la veste di pagamento, nella misura massima del credito in extra fido e dei relativi interessi e competenze divenute esigibili. Tali rimesse verranno prioritariamente rivolte a ripianare gli interessi e competenze relative al credito in extra fido, prima di essere rivolte a quest’ultimo 28; 4) gli interessi ricalcolati sul capitale entro il fido, unitamente ai residui interessi sull’extra fido, mantenuti separati dal capitale rettificato, verranno riportati – in regime di capitalizzazione semplice – alla chiusura del conto o in scomputo delle prime rimesse successive alla revoca/scadenza dell’affidamento; 5) (qualora si ritenga applicabile la Delibera CICR 9/2/00), previo accertamento delle condizioni di adeguamento previste all’art. 7, gli interessi maturati a partire dal III trimestre ’00 verranno calcolati nei termini e modalità convenuti. Non trascurabile è la circostanza che, anche per i conti posti a cavallo della Delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2001, gli interessi semplici maturati precedentemente alla Delibera, vanno posti in pagamento al termine del rapporto o in scomputo delle prime rimesse successive
28 Qualora si ritenga di comprendere nel pagamento anche l’effetto anatocistico degli interessi e l’eventuale parte di interesse ultralegale non convenuti, computati sull’extra fido e addebitati, il quesito va integrato nei termini: “Se le rimesse risultano intervenute in data antecedente il decennio di prescrizione, il pagamento deve ricomprendere anche gli interessi anatocistici e ultralegali calcolati dalla banca sull’extrafido; al contrario, se intervenute successivamente vanno riferite esclusivamente ai legittimi interessi e competenze ricalcolati sull’extrafido stesso”.
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alla revoca/scadenza dell’affidamento. Privo di fondamento risulterebbe l’addebito di tali interessi al 30 giugno 2000, con la conseguente produzione di interessi capitalizzati trimestralmente. Il d.lgs. 342/99 e la successiva Delibera C.I.C.R. del 9 febbraio 2000 lasciano immutati gli effetti già prodotti dalle clausole stipulate, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriori. Come precisato dalla sentenza in esame, tali effetti sono rinviati al pagamento del saldo finale, alla chiusura del conto e/o dell’apertura di credito. Nelle modalità e termini dianzi esposti, se risulta inapplicabile agli addebiti degli interessi il menzionato art. 2, co. 61, della l. n. 10/2011, per conti ultradecennali che presentino significativi saldi in extra fido il ricalcolo del saldo di conto, secondo i criteri che si evincono dalla sentenza in esame, conduce a recuperi significativi, non molto discosti da quelli conseguibili con la procedura di ricalcolo seguita sino ad oggi: il pagamento anticipato degli interessi relativi all’extra fido ha, di regola, un impatto assai limitato sul saldo finale rettificato.
Nel grafico sopra riportato sono rappresentati il fido (€ 100.000) e il saldo risultante dagli estratti conto della banca (in rosso), il saldo capitale depurato degli interessi a debito e delle altre competenze (in blu) e, infine, il saldo capitale rettificato (in verde), che rappresenta le effettive risultanze del conto, secondo i criteri di calcolo dianzi esposti. Come si può rilevare, a parte il periodo sino alla prima metà del 1992, le rimesse sul saldo capitale rettificato si collocano entro il fido e gli interessi a debito vengono conseguentemente posposti, in regime di ca-
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pitalizzazione semplice, al termine del rapporto (dicembre 2005). Delle competenze addebitate dalla banca – rappresentate dalla distanza fra il saldo banca (in rosso) e il saldo capitale (in blu) – solo una parte limitata viene ricompreso nel saldo rettificato (verde), per lo più al termine del rapporto. L’applicazione del menzionato art. 2, co. 61, della l. 10/2011 agli interessi illecitamente addebitati in conto ridurrebbe drasticamente i margini di recupero, sino a renderli esigui considerando l’effetto dell’entrata in vigore della Delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000. Parimenti modesti risulterebbero i margini di recupero se, pur non applicando il menzionato art. 2, co. 61, si ritenesse che le rimesse solutorie, ancorché nei limiti del credito liquido ed esigibile (credito in extra fido ed interessi), risultino imputabili a tutti gli interessi (semplici ed anatocistici) nel tempo addebitati dalla banca. La generalizzata applicazione dell’art. 1194 c.c., e la distinzione delle rimesse solutorie e ripristinatorie riferita al mero saldo riportato nell’estratto conto prodotto dalla banca, condurrebbero ad una serie continua di rimesse solutorie, con un saldo ricalcolato al termine del rapporto assai prossimo al saldo banca.
Delle competenze addebitate dalla banca – rappresentate dalla distanza fra il saldo banca (in rosso) e il saldo capitale (in blu) – la parte prevalente viene ricompresa nel saldo rettificato (verde): la differenza, al termine del rapporto, risulta assai modesta (€ 14.000 su un totale competenze di € 230.000 nell’esempio rappresentato).
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5. Gli affidamenti in conto e la delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000. I conti oggetto di esame nella sentenza delle Sezioni Unite iniziavano e terminavano prima dell’entrata in vigore della Delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000; pertanto si è fatto riferimento esclusivamente alla disciplina antecedente il 22 aprile 2000. Tuttavia la giurisprudenza di merito sempre più frequentemente ritiene che, con la dichiarata illegittimità dell’art. 25, co. 3, del d.lgs. 342/99 ad opera della Corte Costituzionale (sentenza 17 ottobre 2000, n. 425, disponibile sul sito web www.cortecostituzionale.it), è venuto meno il presupposto legittimante l’art. 7 della delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000, finalizzato a disciplinare i rapporti in essere al momento dell’entrata in vigore della delibera stessa, per i quali rimane applicabile il regime precedente. Né l’art. 25, co. 2, conferisce al C.I.C.R. il potere di prevedere disposizioni di adeguamento, con effetti validanti la sorte delle condizioni contrattuali stipulate anteriormente 29. Con tale interpretazione, per i conti preesistenti la Delibera si applicherebbero i criteri esposti sino alla scadenza del rapporto. Qualora si ritenesse invece applicabile la Delibera C.I.C.R. anche ai rapporti preesistenti, rimarrebbe limitata agli interessi pregressi la men-
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Per i rapporti precedenti non vi sarebbe possibilità alcuna per la banca di modificare unilateralmente le condizione contrattuali, imponendo la parità nella periodicità degli interessi per il periodo successivo alla delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000. Tale variazione non costituisce una modifica ai sensi dell’art. 118 t.u.b. ma una illegittima sanatoria di una clausola nulla. L’art. 25, co. 3, d.lgs. 342/99, nel prevedere, per le clausole contenute nei contratti precedenti, la validità e l’efficacia sino alla delibera C.I.C.R. in parola, ne disponeva l’adeguamento, attribuendo al C.I.C.R. stesso il compito di stabilire le modalità ed i tempi. Dichiarato illegittimo tale comma, le clausole anatocistiche precedenti rimangono nulle e viene meno il presupposto legittimante l’art. 7 della delibera C.I.C.R. «La fondatezza del mezzo di gravame è quindi evidente, dal momento che la norma dichiarata costituzionalmente illegittima (il 3° comma dell’art. 25 d.lgs. 342/99), quale che sia la natura del vizio accertato, cessa di avere efficacia (e non può quindi più essere applicata) dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione (art. 136, primo comma, Cost.). Il venir meno di tale disposizione, eliminando l’eccezionale salvezza della validità e degli effetti delle clausole già stipulate, lascia queste ultime, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sotto il vigore delle norme anteriormente in vigore, alla stregua delle quali, per quanto si è detto, esse non possono che essere dichiarate nulle, perché stipulate in violazione dell’art. 1283 c.c.» (Così Cass., 22 febbraio 2005, n. 3589). Cfr. Marcelli, L’anatocismo dopo la Delibera C.I.C.R. del 9/2/00: fatta la pentola il diavolo c’è cascato dentro, in http://www.assoctu.it.
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zionata metodologia di ricalcolo, mentre per i nuovi interessi addebitati a partire dal 30 giugno 2000, data dalla quale iniziano a decorrere gli effetti dell’adeguamento, occorrerebbe riferirsi all’art. 2, co. 1, della delibera C.I.C.R. che prescrive: «Nel conto corrente l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con la periodicità contrattualmente stabiliti. Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità». L’art. 2, co. 1, della delibera C.I.C.R. sembra legittimare il pagamento degli interessi con l’addebito degli stessi in conto. Ciò verrebbe a derogare i principi stabiliti dalla Cassazione: a partire dalla Delibera per gli interessi si verrebbe a prescindere dalle rimesse e la stessa registrazione in conto verrebbe ad assolvere la funzione di pagamento degli stessi, decurtando di fatto e di diritto le disponibilità di credito preesistenti. Con la registrazione in conto degli interessi, questi diverrebbero implicitamente capitale e il nuovo saldo produrrebbe da subito interessi. Tuttavia, in un’applicazione letterale della norma, che conservi e rispetti la diversa natura del rapporto di conto e del rapporto di apertura di credito, sulla quale la pronuncia delle Sezioni Unite fonda il criterio di imputazione delle rimesse di pagamento, il dettato dell’articolo sembra riguardare esclusivamente il richiamato rapporto di conto corrente, riferendo il vincolo della pari periodicità agli interessi a credito e a quelli a debito che intervengono nello scoperto di conto 30. La separata disciplina prevista dalla pronuncia delle Sezioni Unite sembra impedire, nella lettura dell’art. 2 della delibera, l’assimilazione tout-court dell’apertura di credito al conto corrente, in una concezione unitaria della gestione del rapporto: nell’apertura di credito, come anche nelle altre forme di affidamento in conto, diverse sono le cause, diversi i periodi di riferimento, diverse le discipline regolanti i contratti. Né l’art. 1 della delibera sembra consentire, di per sé, una lettura che estenda la produzione degli interessi sugli interessi ad ogni forma di affidamento in conto corrente 31.
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La formulazione degli artt. 4 e 6 delle Norme uniforme bancarie prevedono la possibilità di un’elasticità di cassa non configurabile come un’apertura di credito. 31 L’art. 1 della delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000 prevede: «(Ambito di applicazione) Nelle operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito poste in essere dalle banche e dagli intermediari finanziari gli interessi possono produrre a loro volta interessi secondo le modalità e i criteri indicati negli articoli che seguono». Gli articoli che seguono trattano esclusivamente il conto corrente e i finanziamenti con piano di rimborso rateale.
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In una non recente sentenza del Tribunale di Milano (6 settembre 2006, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, 335) si è ritenuto che solo ricorrendo un’unitarietà della causa si possa giustificare un’interferenza delle discipline, estendendo all’apertura di credito le clausole espressamente stabilite per il conto corrente: «allorquando tra la banca ed il cliente sia stato sottoscritto un unico contratto avente ad oggetto un rapporto di conto corrente ‘affidato’ (da apertura di credito), è possibile estendere all’apertura di credito sullo stesso concessa le clausole normative relative agli interessi ultralegali ed alla capitalizzazione trimestrale espressamente previste nel contratto di conto corrente». Nella sentenza si è ravvisata, nei tempi e modalità di formazione, una manifestazione negoziale configurante un unico contratto, definito “conto corrente affidato”, giustificando in tal modo l’estensione all’apertura di credito della disciplina applicabile al conto corrente. Nel commentare la sentenza (cfr. Guarini, In tema di contratto di conto corrente affidato, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, p. 337) si è osservato: «Un attento esame della giurisprudenza sembrerebbe confermare che solo l’’unitarietà’ della causa può giustificare l’integrazione del regolamento negoziale, dettato per l’apertura di credito, con clausole negoziali espressamente pattuite per il solo conto corrente; e viceversa, in presenza di più contratti che, seppur collegati, mantengono una loro ‘autonomia’ sotto il profilo ‘strutturale’, è da escludere ogni possibile interferenza circa la disciplina applicabile. (…) L’idea di fondo è dunque incentrata sul rilievo che la qualificazione della fattispecie non possa essere fatta a priori, analizzando gli schemi negoziali tipici, ma debba essere fatta a posteriori, attraverso l’esame dell’intero regolamento negoziale posto in essere dalle parti, nonché nell’assunto che in presenza di più contratti che mantengono la propria ‘individualità’, ciascuno rimane assoggettato alla disciplina del tipo corrispondente» 32.
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Si può ritenere che non sia propriamente corretto affermare che l’apertura di credito sia connessa al contratto di conto corrente, quasi ne fosse un accessorio. A riprova si è richiamato, da parte di taluni autori, quanto espresso da Cass., 5 dicembre 1996, n. 10848, in Il fallimento, 1997, 805: «detta stretta connessione non esiste affatto, né sul piano della disciplina giuridica dei contratti bancari, né notoriamente sulla base della prassi bancaria», adducendo anche che, mentre nella ripartizione tra le parti dell’onere della prova nel giudizio di revocatoria, il fallimento deve provare il versamento solutorio, la banca, in via di eccezione deve provare che il versamento non è revocabile in forza dell’apertura di credito: ove l’apertura di credito fosse connessa al conto corrente, la prova di entrambe le circostanze dovrebbe essere posta a carico del fallimento.
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La Cassazione si è più volte occupata del collegamento fra le due tipologie di negozi: «I due contratti (quello di conto corrente e quello diretto alla creazione della disponibilità) sono strutturalmente autonomi, benché funzionalmente collegati. Il conto corrente di corrispondenza ha natura di contratto misto, alla cui costituzione concorrono, insieme coi principi del mandato, che hanno una posizione preminente nella sua struttura e disciplina, anche elementi di altri negozi» (Cass., 30 ottobre 1968, n. 3637). Anche volendo accogliere la distinzione, curata in dottrina, fra contratti collegati e contratti misti, per questi ultimi recenti sentenze delle Sezioni Unite (Cass. S.U., 31 ottobre 2008, n. 26298 e Cass. S.U., 12 maggio 2008, n. 11656, in Corr. giur., 2008, 1380) hanno ribadito che «per stabilire la disciplina applicabile al contratto di specie, deve individuarsi quale tra i vari elementi causali prevalga sugli altri (secondo la nota teoria della prevalenza, appunto, o dell’assorbimento), fatta salva l’applicabilità della disciplina prevista per gli altri elementi, in quanto compatibile; ovvero della disciplina che risulta dalla sintesi di tutti gli elementi (teoria della combinazione) qualora nessuno di essi possa dirsi prevalere sugli altri». Nel conto corrente affidato, più che al criterio di prevalenza, che implicherebbe un’analisi minuta della genesi e funzionamento dei rapporti e spesso condurrebbe all’apertura di credito piuttosto che al conto corrente, si potrebbe preferire il criterio della combinazione che forse si attaglia meglio alle fattispecie in esame, non ravvisandosi per altro particolari incompatibilità dalla contemporanea applicazione delle norme proprie a ciascun contratto. Frequentemente l’apertura di credito, unitamente alle altre forme usuali di affidamento – anticipi e sconti di carta commerciale 33 – inter-
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Secondo l’orientamento della Suprema Corte, ripetuto in numerose decisioni, il «c.d. “castelletto di sconto” concreta un negozio con il quale la banca si impegna, entro il limite e per il periodo di tempo convenuti, a scontare, a favore di un determinato soggetto, gli effetti e le ricevute bancarie che lo stesso presenterà ad essa. Il negozio, importando l’obbligo per la banca di accettare i documenti creditori che il soggetto le presenterà per lo sconto, ha come unica finalità quella di evitare la negoziazione volta per volta dello sconto di detti documenti, e quindi esso (negozio) è meramente strumentale, e perciò neutro, rispetto alle singole operazioni di sconto che poi verranno concretamente effettuate. Il negozio, difatti, non costituisce apertura di credito perché non pone alcuna somma a disposizione del cliente e non costituisce sconto perché questo sorgerà se e quando il cliente presenterà i documenti da scontare. Il c.d. “castelletto di sconto”, pertanto, rende obbligatorio, anziché facoltativo, per la banca, lo sconto, nei limiti dell’ammontare e del
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viene in un momento successivo, con un contratto per il quale il conto corrente non costituisce elemento essenziale: anche se appoggiato funzionalmente allo stesso, conserva pur tuttavia la propria autonomia negoziale 34. Tali forme di credito, soprattutto le anticipazioni e lo sconto di carta commerciale, vengono spesso gestite in appositi conti di servizio, separati dal conto ordinario e a questo collegati dalle movimentazioni del credito concesso e dall’addebito degli interessi trimestrali. Per una pluralità di negozi, distinti e separati – negli atti, nei tempi di manifestazione e nelle modalità di gestione – seppur collegati funzionalmente, si può ritenere esclusa ogni interferenza fra le discipline che presiedono ciascuno di essi 35. La sentenza della Cassazione S.U. in esame, onde evitare commistioni che pregiudicano l’essenza stessa dell’apertura di credito, ne ha stabilito e presidiato la distinta disciplina giuridica. Per l’apertura di credito non si pone alcun problema di uniformità periodale degli interessi e, trattandosi di un contratto di durata, la produzione di interessi su interessi sul capitale ancora illiquido ed inesigibile impone, salvo specifica deroga normativa, che gli stessi siano esatti al termine del rapporto, unitamente al capitale. Per i finanziamenti con rimborso rateale, si è avvertita l’esigenza di prevedere esplicitamente, all’art. 3 della delibera C.I.C.R., la produzione di interessi, in capitalizzazione semplice, sulle rate scadute (compresa
periodo di tempo convenuti, e pertanto l’unica obbligazione che dal negozio scaturisce a carico della banca è quella di scontare i titoli che il cliente le presenterà» (Così Cass., 11 settembre 1993, n. 9479, in Il fallimento, 1994, 249. Nello stesso senso, Cass., 6 settembre 1997, n. 8662, in Foro it., 1998, I, 1227; Cass., 20 maggio 1997, n. 4473, in Foro it., 1997, I, 2089; Cass., 5 febbraio 1997, n. 1083, in Foro it., 1997, I, 1100; Cass., 28 aprile 1995, n. 4718, in Il fallimento, 1996, 118; Cass., 19 gennaio 1995, n. 559, in Il fallimento, 1995, 1183). Secondo una difforme giurisprudenza di merito, con il castelletto di sconto la banca si obbliga, sino all’ammontare del castelletto, a concedere credito al cliente; tale credito, tuttavia, – ed è questa la particolarità del castelletto di sconto che differenzia tale figura dall’apertura di credito – potrà essere utilizzato soltanto tramite lo sconto di effetti o di altri titoli scontabili (fatture, ricevute bancarie ecc.) a condizione che i titoli presentino i requisiti richiesti dalla banca, la quale, nell’accettarli o meno, opera un giudizio discrezionale. 34 Nel contratto di conto corrente sono già previste all’art. 6, in maniera scarna e sintetica, le condizioni di un’eventuale concessione di credito. Si sostiene tuttavia, da parte di taluni autori, che per il perfezionamento del contratto rimane comunque necessaria, oltre alla manifestazione di volontà della banca, l’espressa accettazione del cliente. 35 Cfr. Cass., 23 gennaio 1984, n. 546 in Riv. dir. comm., 1987, con nota di Gullotta, Rapporti tra conto corrente bancario e successive concessioni di fido.
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quindi la quota interessi). Ciò induce ad escludere, senza un’esplicita previsione, per i finanziamenti a scadenza, la produzione degli interessi, per di più in capitalizzazione composta. Sembra pertanto che, per il distinto rapporto di apertura di credito come per gli altri contratti di durata che conservano una sostanziale unitarietà giuridica, l’esigibilità e liquidabilità dei relativi interessi, in forza dell’ulteriore precisazione fornito dalla sentenza in esame, dovrebbero continuare ad essere riferite alla chiusura del rapporto stesso 36. Né le Sezioni Unite, nel formulare in conclusione delle argomentazioni prospettate il generale principio di diritto riferito alla funzione ripristinatoria delle rimesse, ne ha escluso l’applicazione successivamente alla Delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000. In questa diversa lettura del provvedimento del C.I.C.R. risulterebbe estesa oltre il 2000, alle aperture di credito e agli altri affidamenti in conto, la capitalizzazione semplice prevista dalla sentenza in esame.
6. La natura degli affidamenti è l’accertamento del fido disponibile. Come si è mostrato, il ricalcolo del saldo capitale e la conseguente determinazione del legittimo saldo finale risultano particolarmente delicati e complessi per rapporti affidati che presentano alternativamente saldi a debito entro il fido ed oltre il fido. Per i conti permanentemente entro il fido, le rimesse avranno sempre una natura ripristinatoria, mentre per conti non affidati le rimesse successive agli interessi addebitati avranno sempre una natura solutoria. Quando sullo stesso conto insistono affidamenti di diversa natura si renderà necessario tenere distinta l’apertura di credito dalle altre forme di affidamento, curando uno specifico e distinto esame della documentazione sottostante per sceverare la presenza e misura dei distinti fidi attivi. Frequentemente al cosiddetto “fido di cassa” si affianca un “castelletto di sconto” o un “fido per anticipazione fatture e/o effetti salvo
36 Si potrebbe per contro, osservare che i contratti di apertura di credito, posti in essere successivamente alla Delibera C.I.C.R., prevedono, a norma dell’art. 6, accanto al tasso nominale anche il tasso effettivo annuo. Ciò potrebbe implicare che, comunque, al termine del rapporto, gli interessi da riconoscere siano quelli rivenienti dalla capitalizzazione al tasso effettivo annuo, seppur pagati in un’unica soluzione al termine, unitamente al finanziamento. Per i contratti precedenti varrebbe il tasso nominale convenuto, senza alcuna capitalizzazione.
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buon fine”: questi affidamenti sono spesso collegati ad un unico conto di corrispondenza. Assume rilievo ciascun affidamento e la natura della rimessa deve essere valutata con riferimento a ciascuno di essi. Ai fini della determinazione dei saldi disponibili, e quindi del carattere solutorio dei versamenti, si rende opportuno non tener conto dei fidi diversi dalle aperture di credito, che non consentono una immediata ed incondizionata disponibilità di credito. A differenza dell’apertura di credito, nel castelletto di sconto e nell’anticipazione la banca non attribuisce la facoltà di disporre immediatamente di una somma di denaro ma si impegna ad accettare per lo sconto, entro una somma predeterminata, i titoli che saranno presentati dall’affidatario 37. In tali circostanze il fido non rappresenta l’ammontare della somma di cui il cliente dispone, bensì il limite massimo entro il quale la banca si impegna ad accettare i titoli presentati. Tali forme di credito assumono la veste di operazioni auto-liquidanti: la banca anticipa una somma di denaro al cliente che gli affida l’incarico di riscuotere il credito verso terzi 38. Quando la banca accetta all’anticipazione una fattura entro il limite del castelletto concordato, registra a debito del conto anticipi il credito anticipato e contestualmente accredita nel conto corrente di corrispondenza la somma anticipata. Al momento dell’incasso della carta commerciale la somma viene accreditata direttamente nel conto anticipi, pareggiando il precedente anticipo. Se invece il credito non va a buon fine la banca addebita l’importo nel conto corrente accreditando il conto anticipi. A questa modalità di base si affiancano altre forme analoghe di contabilizzazione. Nell’anticipazione s.b.f. si accredita il conto di appoggio con valuta differita e contemporaneamente si effettua un giro al conto ordinario con valuta corrente: in tal modo il conto di appoggio presenta saldo zero e valute differenti. Alla scadenza se l’effetto risulta
37 Il cosiddetto “castelletto di sconto”, o il fido per smobilizzo crediti, «non attribuiscono al cliente della banca, a differenza del contratto di apertura di credito, la facoltà di disporre con immediatezza di una determinata somma di danaro, ma sono esclusivamente fonte, per l’istituto di credito, dell’obbligo di accettazione per lo sconto, entro un predeterminato ammontare, dei titoli che l’affidatario presenterà» (Così Cass., 14 luglio 2010, n. 16561, in www.dirittoeprocesso.com). 38 Il conto di riferimento è un mero conto di appoggio, privo di identità autonoma, definito conto indisponibile, la cui esistenza non è neanche indispensabile, potendo la banca regolare le operazioni di anticipo fatture e carta commerciale direttamente in conto (Cfr. Trib. Milano, 12 luglio 2005, n. 8689, in www.tribunale.milano.it).
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insoluto verrà addebitato il conto ordinario. Per i conti dedicati ad anticipi e sconti di effetti e carta commerciale, di regola, non si riscontrano saldi extra fido. Non si può propriamente parlare di ripristino della provvista per l’anticipazione e sconto di carta commerciale accreditata nel rapporto di conto, salvo che queste forme non assumano la veste di apertura di credito. Nella forma ordinaria l’anticipo di carta commerciale e/o titoli è curato in un’unica soluzione, al più in un roll-over di successivi finanziamenti che si auto-liquidano alla scadenza. In tali circostanze non vi è provvista da ricostituire con successive rimesse. Per il conto ordinario l’accredito dell’anticipo si risolve in una ordinaria rimessa che, se interviene in extra fido, assume la funzione di pagamento, non configurandosi alcun margine di provvista da ricostituire. Il credito in extra fido, eccezionalmente concesso dalla banca, può ben essere saldato, unitamente agli interessi, attraverso l’anticipo. Parimenti, alla scadenza della carta commerciale e/o dei titoli, a prescindere che questi siano onorati o meno dal debitore, il credito diviene liquido ed esigibile, congiuntamente ai relativi interessi, e può essere contestualmente saldato, alla stregua di qualunque altro finanziamento scaduto, con le stesse disponibilità dell’apertura di credito 39. Nella prassi bancaria è invalso sempre più frequentemente l’impiego del cosiddetto “fido promiscuo”, altrimenti chiamato “fido mobile”, costituito sostanzialmente dalla somma di un fido di cassa e di un fido s.b.f.:
39 In presenza di un conto di servizio dedicato all’anticipo di carta commerciale, la rimessa nel conto ordinario della somma corrispondente alla fattura anticipata dovrà essere considerata alla stregua di qualunque altra rimessa di pagamento, costituendo un distinto finanziamento che, se accreditato nel conto ordinario, potrebbe, all’occorrenza essere impiegato per saldare interessi e capitale relativi all’extra fido. Analogamente, considerando distinte le due forme di finanziamento, gli interessi relativi alla carta commerciale anticipata, addebitati nel conto ordinario, vengono pagati alla prima rimessa che interviene successivamente, a prescindere dalla circostanza che questa intervenga con il saldo del conto entro il fido o oltre il fido. Ciò in considerazione della natura di credito a breve che contraddistingue l’anticipo di carta commerciale: nel conto di servizio si realizza un continuo roll over di finanziamenti a breve. Tali crediti della banca divengono rapidamente esigibili, congiuntamente ai relativi interessi e quindi appare consequenziale che, oltre al rimborso del credito a breve vengano pagati anche i relativi interessi, utilizzando le prime rimesse che intervengono nel conto ordinario, prima ancora che queste vadano a ricostituire il fido. In tal modo il separato finanziamento, divenuto liquido ed esigibile, viene ripianato utilizzando anche rimesse che all’occorrenza sarebbero andata a ricostituire le disponibilità del conto ordinario.
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l’apertura di credito è costituita da una parte sempre incondizionatamente disponibile (fido di cassa) e da una parte, entro un massimo predefinito, utilizzabile solo nel limite dei crediti/titoli accettati all’incasso. In tali circostanze il fido effettivo risulta appunto “mobile”, variando giorno per giorno in funzione degli effetti presentati all’incasso e di quelli nel frattempo scaduti: la determinazione dell’ammontare delle rimesse solutorie non potrà, in tali casi, prescindere da una puntuale ricognizione del fido attivo, in essere al momento della rimessa, risultante dai movimenti del portafoglio effetti giacenti presso la banca e non ancora scaduti. Gli interessi maturati su tali crediti, evidenziati in conti di servizio, vengono, di norma, girati sul conto ordinario confluendo trimestralmente con gli interessi maturati sullo stesso: nella ricostruzione del capitale rettificato, considerando la natura del credito sottostante (auto-liquidante), tali interessi dovranno essere ricompresi, congiuntamente al credito, alla scadenza di quest’ultimo. Particolare attenzione va prestata alle modalità di funzionamento degli affidamenti concessi: solo una incondizionata disponibilità aggiuntiva, avente le caratteristiche della ripristinabilità e riutilizzabilità, attribuisce carattere ripristinatorio alle rimesse. Determinante risulterà altresì l’accertamento dei distinti contratti di affidamento posti in essere con la banca. In assenza di contratto con la determinazione delle condizioni, si rende applicabile il tasso legale, ma se non risulta provato alcun accordo di affidamento le rimesse risultano intervenute in extra fido, con pagamento, prima del capitale, degli interessi maturati sullo stesso. In tali circostanze risulta preclusa, per il periodo ultradecennale, oltre alla ripetizione dell’anatocismo anche la ripetizione del tasso ultralegale. Per l’ultimo decennio occorre invece distinguere la quota parte di interessi al tasso legale legittimamente saldata – unitamente al’anatocismo – da rimesse di pagamento, da quella relativa agli interessi debordanti il tasso legale che risulterebbe invece ripetibile, a prescindere se vi corrispondano o meno rimesse di pagamento 40.
40 Analoghe considerazioni si pongono in presenza di contratti privi di condizioni. Risultando nulle – anche per i contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della l. 154/92 – le clausole che non prevedono una specifica pattuizione scritta del tasso di interesse o prevedono il riferimento agli usi di piazza, ne consegue l’applicazione dell’interesse legale ex art. 1284 c.c. Per le obbligazioni sorte successivamente alla menzionata legge, se il contratto é stato posto in essere prima, si deve continuare ad applicare il tasso legale ex art. 1284 c.c., in quanto l’art. 161 del t.u.b. prevede, per i contratti in
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Tuttavia la presenza di un’apertura di credito può essere dedotta, per il periodo precedente la l. 154/92, per facta concludentia 41, e successivamente per presunzione dalle eventuali indicazioni presenti nell’atto di fideiussione e/o dall’estratto conto: una reiterata o continua posizione in extra fido, senza che siano intervenuti inviti al rientro può costituire più che un mero indizio 42. Un ruolo rilevante verrebbe ad assumere lo storico della Centrale dei Rischi, che è agevolmente reperibile, quanto meno per il periodo successivo all’1 gennaio 1996, presso la Banca d’Italia 43:
essere, l’applicazione delle norme anteriori (Cass., 8 maggio 2008, n. 11466, Trib. Torino, 21 gennaio 2010 n. 450, inedite). Quest’ultima interpretazione è stata più recentemente oggetto di un’autorevole conferma della Corte Costituzionale (Ord. 18 dicembre 2009, n. 338, disponibile sul sito web www.cortecostituzionale.it). Per i rapporti successivi, in assenza di una forma scritta, il contratto (art. 117, co. 3) è nullo e, se tale nullità è rilevata ai sensi dell’art. 127, co. 2, t.u.b., si ritiene che gli interessi siano da calcolare al tasso legale, sia quelli a debito che quelli a credito (Trib. Udine, 10 maggio 2008, n. 809, in Osservatorio sulla giurisprudenza fallimentare della facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Udine, disponibile sul sito web www.unijuris.it/node/221). 41 La forma scritta per la conclusione dei contratti relativi alle operazioni ed ai servizi bancari è stata disposta dall’art. 3 della legge 154/92, disciplina poi confluita nell’art. 117 t.u.b. L’orientamento giurisprudenziale vigente in precedenza (Cass., 11 marzo 1992, n. 2915, in Foro it., 1992, I, 273; Cass., 23 aprile 1996, n. 3842, in Famiglia e diritto, 1996, 314; Cass., 15 settembre 2006, n. 19941, in Giust. civ., 2007, I, 2460; Cass., 24 giugno 2008, n. 17090, in Contr., 2009, 123) prevedeva che il contratto di apertura di credito potesse essere concluso per facta concludentia e ciò alla luce del comportamento rilevante della banca, consistente nel pagamento di assegni emessi dal cliente senza copertura con la conseguenza che anche il relativo recesso, intervenuto prima dell’entrata in vigore della normativa innanzi richiamata, non richiedeva la forma scritta, potendo essere valida la semplice comunicazione anche verbale della banca al cliente, relativa all’intenzione di recedere dai contratti. I contratti bancari uniformi precedenti la c.d. legge sulla trasparenza bancaria (l.154/92) e la successiva entrata in vigore del t.u.b. riportavano, all’art. 17: «È facoltà dell’Azienda di credito di assumere o meno gli incarichi del Cliente. Col valersi dei servizi dell’azienda di credito si intendono senz’altro accettate dal Cliente le norme e le condizioni da essa stabilite per singoli servizi (come incasso ed effetto documenti, aperture di crediti documentari, incasso cedole e titoli estratti, custodia od amministrazione titoli, ecc.)». 42 «Secondo giurisprudenza consolidata la pattuizione relativa alla trasformazione del conto in apertura di credito può realizzarsi anche per facta concludentia (tra le altre, Cass., n. 14470/05); nella specie – chiarisce il giudice a quo – già una clausola del contratto di conto corrente prevedeva le condizioni per l’apertura di credito e la concessione di continui sconfinamenti, protratti costantemente nel tempo, ha dato luogo al perfezionarsi di tale apertura» (Così Cass., 17 febbraio 2011, n. 3903). 43 Per il periodo precedente l’estrazione dei dati presenta qualche difficoltà, riconducibile ai mutamenti intervenuti nell’organizzazione e gestione del sistema informativo di rilevazione ed archiviazione dei dati stessi.
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alla stregua di una certificazione attesterebbe l’esatto importo del fido accordato in ciascun mese, rimanendo a carico della banca la prova dei tassi e condizioni concordati. D’altra parte la nullità prevista per l’inosservanza della forma scritta opera soltanto a vantaggio del cliente. Diversa appare la situazione in presenza di contratto di conto corrente in forma scritta, privo tuttavia di uno specifico contratto di affidamento. In assenza dell’indicazione del tasso di interesse e/o delle altre condizioni, si renderà applicabile il tasso legale e/o l’art. 117 del t.u.b., mentre, per l’apertura di credito in conto, questa risulta richiamata nell’art. 6 del regolamento di conto. In tali circostanze l’assenza della specifica forma scritta dell’affidamento non porta alla nullità del contratto. Il rigore disposto dal co. 1 dell’art. 117 viene attenuato nel co. 2: il C.I.C.R. può prevedere che particolari contratti possano essere stipulati in forma diversa. In passato, per lungo tempo, non essendo intervenuta alcuna Delibera C.I.C.R. al riguardo, hanno continuato a trovare applicazione, ai sensi dell’art. 161, co. 2 e 5, t.u.b., l’art. 3, co. 2 e 3, l. 154/92 e il d.m. del Tesoro 24 aprile 1992, nonché le istruzioni operative della Banca d’Italia 24 maggio 1992, che prevedevano una deroga alla forma scritta «per le operazioni ed i servizi contemplati in contratti già redatti per iscritto» 44. E il contratto uniforme di conto corrente, all’art. 6 delle “Norme che regolano i conti correnti di corrispondenza e servizi connessi”, prevede espressamente, seppur genericamente, le aperture di credito. Sulla base di tali richiami la Cassazione ha riconosciuto in passato la validità delle disposizioni derogatorie alla forma scritta emanate dalla Banca d’Italia. Cass., 9 luglio 2005, n. 14470 (in Il fallimento, 2006,
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Solo con Delibera del 4 marzo 2003, relativa alla disciplina della trasparenza delle condizioni contrattuali, il C.I.C.R. ha previsto all’art. 10, relativo alla “Forma dei contratti”, che «la Banca d’Italia può individuare forme diverse da quella scritta per le operazioni e i servizi, oggetto di pubblicità ai sensi della presente delibera, che hanno carattere occasionale ovvero comportano oneri di importo contenuto per il cliente». Le nuove disposizioni di trasparenza della Banca d’Italia prevedono che la forma scritta non è obbligatoria per: a) le operazioni e i servizi effettuati in esecuzione di contratti redatti per iscritto; b) le operazioni e i servizi prestati in via occasionale – quali, ad esempio, acquisto e vendita di valuta estera contante, emissione di assegni circolari – purché il valore complessivo della transazione non ecceda 5.000 euro e a condizione che l’intermediario: 1) mantenga evidenza dell’operazione compiuta, 2) consegni o invii tempestivamente al cliente conferma dell’operazione in forma scritta o su altro supporto durevole, indicando il prezzo praticato, le commissioni e le spese addebitate; c) l’emissione di prodotti di moneta elettronica anonimi non ricaricabili, ovvero nei casi previsti dall’articolo 25, co. 6, lett. d), del d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231.
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551) ha infatti stabilito: «La sentenza impugnata ha affermato che sulla base della disciplina di legge (art. 3 legge 154/1992 e art. 117 T.U.B.) il contratto di apertura di credito deve essere redatto per iscritto a pena di nullità e che a nulla rilevano eventuali disposizioni meno restrittive emanate in via amministrativa dalla Banca d’Italia. Tale affermazione non può essere condivisa. Le norme emanate dal C.I.C.R. (nel 1992 in via d’urgenza, in sua sostituzione, dal Ministro del Tesoro) e dalla Banca d’Italia completano ed integrano la norma di legge, in virtù di una facoltà espressamente prevista dalla legge stessa. Non si tratta pertanto di atti amministrativi illegittimi perché contra legem, ma di atti a contenuto ed efficacia normativi, emanati dal C.I.C.R. e dall’Autorità di vigilanza nell’esercizio di un potere espressamente loro attribuito dal legislatore. Tali norme integrano il precetto legislativo e, nei limiti consentiti dalla legge stessa, vi derogano, con la conseguenza che hanno natura di atti normativi, sia pur non di rango primario e debbono pertanto essere conosciute d’ufficio dal giudice, secondo il principio iura novit curia». Il principio viene poi ribadito da Cass., 15 settembre 2006, n. 19941 (in Giust. civ., 2007, I, 2460) e, più recentemente, Cass., 14 aprile 2010, n. 8953 (in www.gadit.it), che, per una revocatoria bancaria relativa al 1996, precisa: «È vero che la banca potrebbe provare l’esistenza dell’apertura di credito anche per “facta concludentia”, ma tale dimostrazione può essere fornita dalla banca soltanto nel caso in cui risulti applicabile la deroga al requisito della forma scritta, prevista nelle disposizioni adottate dal C.I.C.R. e dalla Banca d’Italia ai sensi del citato art. 117 del d.lgs. n. 385 del 1993 (che al comma 2 stabilisce che il C.I.C.R. può prevedere che, per motivate ragioni, particolari contratti possono essere stipulati in altra forma) e, anteriormente, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 154 del 1992, per essere stato tale contratto già previsto e disciplinato da un contratto di conto corrente stipulato per iscritto (cfr. in tal senso Cass., n. 14470 del 2005; Cass., n. 19941 del 2006)». Diversa è la situazione per l’anticipazione e lo sconto bancario. In tema di contratto di sconto bancario, che risulti stipulato per fatti concludenti, non rileva – al fine del sorgere delle obbligazioni derivanti dal contratto, né l’assenza di un contratto di apertura di credito, né la mancanza di un “castelletto di sconto”, atteso che il contratto di sconto non richiede la forma scritta né ad substantiam né ad probationem, ferma restando, ove lo sconto avvenga mediante girata, l’osservanza delle formalità richieste dalla legge di circolazione del titolo. Il “castelletto di sconto”, infatti è un negozio distinto dal contratto di apertura di credito in quanto con esso la banca s’impegna, nel limite e per il tempo concordati, a scontare, a favore di un soggetto determinato, gli effetti e le ricevute bancarie che questo
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le presenterà senza implicare, anche se regolato in conto corrente, alcun trasferimento di denaro al cliente (neppure nella forma della ‘messa a disposizione’) con la conseguenza che detto trasferimento avverrà solo in forza dei singoli negozi di sconto e l’obbligazione restitutoria dello scontatario sorgerà solo ove i documenti scontati rimangano insoluti (Cfr. Cass., 14 luglio 2010, n. 16560, in www.federalismi.it).
7. La capitalizzazione semplice: risvolti economici «L’interpretazione data dal giudice di merito all’art. 7 del contratto di conto corrente bancario, stipulato dalle parti in epoca anteriore al 22 aprile 2000, secondo la quale la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi contemplata dal primo comma di detto articolo si riferisce ai soli interessi maturati a credito del correntista, essendo invece la capitalizzazione degli interessi a debito prevista dal comma successivo su base trimestrale, è conforme ai criteri legali d’interpretazione del contratto ed, in particolare, a quello che prescrive l’interpretazione sistematica delle clausole; con la conseguenza che, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna» (Così Cass. S.U., 23 novembre 2010, n. 24418). La sentenza delle Sezione Unite non ha ritenuto che le ragioni di nullità individuate dalla giurisprudenza per le clausole di capitalizzazione degli interessi debitori registrati in conto investano solo il profilo della loro periodizzazione trimestrale. La giurisprudenza ha escluso di poter ravvisare un uso normativo atto a giustificare una deroga ai limiti posti dall’art. 1283 c.c.: risulta, pertanto, «assolutamente arbitrario trarne la conseguenza che, nel negare l’esistenza di usi normativi di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, quella medesima giurisprudenza avrebbe riconosciuto (implicitamente o esplicitamente) la presenza di usi normativi di capitalizzazione annuale. Prima che difettare di “normatività”, usi siffatti non si rinvengono nella realtà storica che (…) non ha affatto conosciuto una consuetudine né di capitalizzazione annuale, né di necessario bilanciamento con gli usi creditori». La sentenza in argomento perviene, pertanto, alla conclusione che dalla nullità dell’applicazione degli interessi debitori non può derivare alcuna capitalizzazione: in altri termini, mentre per gli interessi a credito rimarrebbe valida la capitalizzazione annuale convenuta, non essendo
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intervenuta per essa alcuna nullità, per gli interessi a debito il relativo ammontare potrà essere esatto solo in sede di chiusura finale del conto. I conti oggetto di esame nella richiamata sentenza della Cassazione iniziavano e terminavano prima dell’entrata in vigore della Delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000; pertanto si è fatto riferimento esclusivamente alla disciplina antecedente il 22 aprile 2000. Come accennato in precedenza, si può ritenere che, per conti posti a cavallo della Delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000, anche per il periodo successivo – qualora non sia intervenuta un’espressa accettazione dei tassi e condizioni – gli interessi (semplici), non coperti da rimesse di pagamento, potranno essere esatti solo in sede di chiusura del conto e/o di revoca/scadenza del rapporto di affidamento. Analoghi riflessi discendono per l’affidamento in conto, laddove si ritenga non ricorrano le condizioni per l’applicazione allo stesso dell’art. 2 della citata Delibera. Nel caso invece si ritengano pienamente applicabili ai rapporti preesistenti le norme di adeguamento previste dalla Delibera C.I.C.R., si determinerebbe una circostanza assai singolare: gli interessi a partire dal III trimestre 2000 risulterebbero esatti all’atto dell’addebito alla fine del trimestre, mentre gli interessi maturati precedentemente la Delibera e non coperti da rimesse solutorie rimarrebbero inesigibili sino alla scadenza del rapporto quando anche il capitale diviene liquido ed esigibile. L’applicazione della capitalizzazione semplice agli interessi maturati in conto comporta la loro imputazione alla fine del rapporto: l’effetto, rispetto alla capitalizzazione annuale, non è di scarso rilievo, risultando l’anatocismo, seppur annuale, assai incidente sul lungo periodo. Mentre con la capitalizzazione semplice il processo di cumulo degli interessi segue un andamento lineare, con la capitalizzazione annuale, la produzione degli interessi sugli interessi induce nel processo di cumulo un andamento esponenziale.
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Ad esempio, per un saldo a debito di € 1.000, ad un tasso del 10% per un periodo di 20 anni, il divario tra i due sistemi di capitalizzazione risulta assai ampio: con la capitalizzazione semplice, ad invarianza di movimenti di conto, dopo 20 anni il saldo a debito passa a € 3.000, mentre con la capitalizzazione annuale il saldo a debito passa a € 6.727.
Il divario fra l’impiego della capitalizzazione semplice e quella annuale risulta tanto maggiore quanto più ampio è il periodo in rassegna e quanto più elevato è il tasso di interesse.
Rispetto alla capitalizzazione annuale, l’incidenza degli interessi in capitalizzazione semplice, dopo un ampio arco di tempo (20 anni) si riduce del 40% per un interesse medio del 5%, del 65% per un interesse medio del 10% e dell’80% per un interesse medio del 15%.
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Il divario del saldo e degli interessi maturati si accresce ancor più se il conto, anziché presentare un andamento costantemente a debito, presenta invece alternativamente saldi a credito e saldi a debito 45.
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Al riguardo si sottolinea come le sentenze in materia di anatocismo riguardano esclusivamente gli interessi a debito: gli interessi a credito mantengono invariato il loro regime di capitalizzazione annuale. Tale circostanza incrementa apprezzabilmente il divario. Mantenendo le ipotesi dell’esempio precedentemente illustrato – periodo di 20 anni, interesse debitore pari al 10% – con un interesse creditore del 0,5%, se si ipotizza l’alternanza di saldi a debito e a credito in modo tale da mantenere un saldo medio a debito di € 1.000 (in linea con l’esempio sopra riportato) si evidenzia una differenza dei saldi che può arrivare a circa il 235%.
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8. Il provvedimento legislativo “mille proroghe”, legge n. 10/2011 di conversione del d.l. n. 225/2010. La l. 26 febbraio 2011, n. 10, di conversione del d.l. n. 225/2010 (provvedimento mille proroghe) stabilisce all’art. 2, co. 61: «In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge». La formulazione del suddetto co. 61 non è scevra di criticità. Oltre a profili di incostituzionalità 46, perplessità e dubbi applicativi si pongono sulla natura delle annotazioni in conto e dei diritti da esse nascenti: in particolare agli interessi e competenze registrati in conto deriva una valenza che la giurisprudenza ha reiteratamente disconosciuto. La norma in parola riconosce una completa autonomia ai diritti di credito e debito nascenti dalle annotazioni in conto. In tal modo si viene a svuotare il principio unitario del rapporto giuridico di conto corrente, reiteratamente ribadito da dottrina e giurisprudenza, trascurando ogni nozione di versamento, pagamento e adempimento. Con l’attribuzione di autonomia ad ogni singola annotazione, si viene a considerare pagamento l’addebito di interessi, venendo meno la distinzione fra domanda di accertamento e azione di ripetizione, nonché il relativo riferimento alla decadenza e prescrizione. Non si comprende come si possa conciliare la novella interpretativa del legislatore con il principio di distinzione delle rimesse solutorie e ripristinatorie. Non si comprende inoltre se gli interessi illecitamente addebitati e immediatamente capitalizzati, divenuti irripetibili con la prescrizione,
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Il Tribunale di Benevento ha immediatamente sollevato, con ordinanza del 10 marzo u.s., la questione di legittimità alla Corte Costituzionale, rilevando, tra l’altro: a) violazione dei limiti generali di efficacia retroattiva delle leggi; b) introduzione di ingiustificate disparità di trattamento; c) violazione del principio della tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti per l’effetto nomofilattico delle pronunce della Corte di Cassazione; d) violazione della coerenza e certezza dell’ordinamento giuridico; e) l’invasione delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario. Già il precedente 3 marzo u.s. la Corte d’Appello di Ancona, con riferimento all’intervento del legislatore delle “mille proroghe” aveva osservato che l’annotazione non abilita, di per sé sola, alla ripetizione dell’indebito e che il disposto legislativo ha indubbia portata innovativa, al di là della dichiarata natura meramente interpretativa.
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trascinano con se anche l’anatocismo prodotto successivamente o se a questo si applichi una distinta prescrizione, a partire dal momento in cui, una volta maturato, viene passato a capitale 47. Analogamente per l’annoso problema relativo al saldo iniziale pari a zero, recentemente ribadito dalla Cassazione 48, l’annotazione a debito all’inizio del decennio diverrebbe incontestabile e irripetibile: ma si può dire altrettanto dell’anatocismo che continua a prodursi nei dieci anni a seguire dagli illeciti addebiti dei precedenti anni, che rimangono pur tuttavia affetti da nullità? Né si comprende il riferimento all’aspetto interpretativo, in evidente contrasto con la pronuncia delle Sezioni Unite, che ha definitivamente posto termine ad ogni possibile opzione ermeneutica 49. Il riferimento si chiarisce invece con la soluzione, in chiave interpretativa, che aveva suggerito la Corte Costituzionale nella sentenza 15 gennaio 2001, n. 425, con la quale aveva ravvisato l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, co. 3, del d.lgs 392/99 (legge salva banche).
47 Per un conto ultradecennale l’illegittimo addebito sul conto di interessi anatocistici, effettuato nel corso degli anni novanta, continua a produrre nuovi interessi anatocistici nel corso degli anni duemila, che risultano soggetti all’azione di ripetizione ex art. 2033 c.c. o all’azione per ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c. In tale eventualità, gli interessi anatocistici maturati nel corso degli anni novanta sarebbero posti al di fuori del decennio, mentre quelli che maturano successivamente negli anni 2000, sugli interessi illegittimamente addebitati negli anni novanta, risulterebbero assoggettabili, unitamente all’eventuale anatocismo maturato sugli interessi addebitati nel corso degli anni 2000, a ripetizione ex art. 2033 c.c. o ad indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. Da un punto di vista tecnico l’elaborazione presenta un’apprezzabile complessità, ma i risvolti economici non sono marginali. 48 Così Cass., 25 novembre 2010, n. 23974, in www.ilsole24ore.com: «una volta esclusa la validità della clausola sulla cui base sono stati calcolati gli interessi, soltanto la produzione relativa degli estratti a partire dall’apertura del conto corrente (…) consente, attraverso una integrale ricostruzione del dare e dell’avere con l’applicazione del tasso legale, di determinare il credito della banca». La Corte chiarisce inoltre: «La banca ricorrente confonde l’onere di conservazione della documentazione contabile con l’onere della prova del credito. Il fatto di non essere tenuta a conservare le scritture contabili oltre i dieci anni dalla loro ultima registrazione non esonera la parte che vi è tenuta dall’onere di provare il proprio credito (…) la banca non ha provato per le ragioni dianzi esposte che alla data dell’1/1/93, cui si riferisce il promo estratto-conto riportato in giudizio, il credito riportato in detto estratto conto e conclusivo dell’andamento dei conti per gli anni pregressi fosse quello effettivo in ragione della più volte citata nullità delle clausole sugli interessi. Del tutto correttamente pertanto la Corte d’appello ha azzerato le dette risultanze in quanto non provate e disposto che il calcolo dei rapporti di dare ed avere venisse calcolato dal CTU a partire dalla detta data del 1993 partendo da zero». 49 Nel caso trattato dalla sentenza delle Sezione Unite solo «La particolare importanza delle questioni sollevate ha indotto ad investirne le sezioni unite».
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Nella circostanza la Corte Costituzionale aveva osservato: «Non si tratta, evidentemente, di una norma interpretativa – che pure era stata suggerita nel corso dei lavori parlamentari (seduta del 17 giugno 1999 della sesta Commissione: pag. 35 del relativo verbale) – perché la disposizione, così come strutturata, non si riferisce e non si salda a norme precedenti intervenendo sul significato normativo di queste, dunque lasciandone intatto il dato testuale ed imponendo una delle possibili opzioni ermeneutiche già ricomprese nell’ambito semantico della legge interpretata. Al contrario, con efficacia innovativa e (in parte anche) retroattiva, essa rende “valide ed efficaci”, sino alla data di entrata in vigore della deliberazione del C.I.C.R., tutte indistintamente le clausole anatocistiche previste nei contratti bancari già prima della legge delegata o comunque stipulate anteriormente all’entrata in vigore della suddetta deliberazione». Caduto sotto la censura della Corte Costituzionale il tentativo del 1999 di sanare i precorsi rapporti di conto corrente, si è nuovamente tornati sulla questione, raccogliendo tuttavia nella circostanza l’indicazione fornita. Ma non sembrano ravvisabili, né nell’art. 2935 c.c., né nelle norme che regolano il conto corrente di corrispondenza, opzioni ermeneutiche diverse. Può prestare il fianco all’interpretazione proposta, al più, l’ambito semantico del menzionato art. 2 della Delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000, dove si riporta co. 1: «Nel conto corrente l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con le periodicità contrattualmente stabilite. Il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità». Ma tale interpretazione può allora applicarsi solo ai rapporti di conto corrente bancario posti in essere successivamente alla Delibera stessa. Per il periodo precedente non sembrano sussistere elementi che possano sostenere una diversa lettura della norma. La stessa Cassazione S.U. è stata indotta ad intervenire per «la particolare importanza delle questioni sollevate» non per contrasti ermeneutici. Altra è l’esigenza ravvisata e perseguita con il comma in parola. Le azioni di ripetizione dell’indebito, numerose e diffuse in tutti i Tribunali, vengono recuperando agli utenti bancari copiosi importi, che divengono particolarmente ragguardevoli per rapporti di conto la cui nullità si estende a ritroso nel tempo, ampliandosi frequentemente dall’anatocismo allo stesso contratto di conto e/o alle condizioni praticate. Il provvedimento legislativo mille proroghe, nell’obiettivo di alleviare i maggiori oneri del sistema bancario in previsione dell’entrata in vigore del nuovo accordo di Basilea, per non gravare sul bilancio dello Stato, ha supplito con la bizzarra ‘interpretazione’, che risparmia alle banche il pesante drenaggio derivante dai recuperi dell’indebito.
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Per una lunga schiera di correntisti, ai quali, senza alcun accordo pattizio, sono state imposte condizioni di conto ‘uso piazza, variate ad libitum’ dalle banche, in regime di anatocismo, nel corso del tempo, si è prima mirato a legittimare – a partire dal 2000 – l’anatocismo stesso, attraverso la semplice informazione sulla G.U. e nell’estratto conto. Ora, con un altro passaggio legislativo – questa volta al co. 61 di un “minestrone normativo” – si mira a salvaguardare l’anatocismo praticato precedentemente al 2000, sovvertendo, in via interpretativa, principi del nostro ordinamento che, per lungo tempo, hanno presieduto la nullità, la ripetibilità dell’indebito e la prescrizione. Sino ad oggi la ripetizione delle somme illecitamente addebitate nel corso del rapporto bancario, non poteva essere avanzata prima della chiusura del rapporto stesso per l’assenza di rimesse di pagamento 50. Ora, con l’interpretazione introdotta dal comma in parola, si vorrebbe precludere la ripetizione dell’indebito per le annotazioni cadute in prescrizione, ancorché non siano ancora intervenute rimesse di pagamento. Per di più, considerata la dizione letterale: «In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto legge», anche per i conti chiusi sarebbe preclusa ogni azione di ripetizione. Emerge un’apprezzabile discrasia che palesa, nella cronologia normativa, il pervicace tentativo di non riconoscere i diritti conseguenti alla nullità dell’anatocismo. Absit iniuria verbis, si ritiene che l’intervento interpretativo sia una “farsa” 51 che i giudici di merito, prima ancora delle Supreme Corti, non potranno applicare con supina acquiescenza. L’annotazione degli interessi trimestrali in conto configura una capitalizzazione anatocistica: l’accertamento della nullità è imprescrittibile, la clausola illecita viene meno ex tunc, con tutte le successive annotazioni. Il disposto, seguendo l’osservazione fatta dalla Corte Costituzionale al precedente provvedimento ‘salva banche’, sotto la veste di un’inconsistente chiave interpretativa, introduce per i rapporti bancari una deroga retroattiva, che appare del tutto inapplicabile 52.
50 «Non può pertanto ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giudico, definibile come pagamento, che l’attore pretende essere indebito, perché prima di quel momento non è configurabile alcun diritto di ripetizione» (Così Cass. S.U., 23 novembre 2010, n. 24418). 51 La legge riporta il titolo:«Proroga dei termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie». 52 Per altro il Governo si é impegnato a chiarire la portata della norma secondo cui
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Nell’ultimo ventennio il disegno strategico di condurre gradualmente il sistema bancario alle logiche di mercato ha certamente indotto notevoli elementi di efficienza produttiva dal lato dei costi, ma ha significativamente minato quel rapporto fiduciario che, in precedenza, per lungo tempo aveva presieduto e sorretto il contratto banchiere-imprenditore e banchiere-risparmiatore. Forme estreme di mercato esasperano le logiche di profitto e vengono di fatto a confliggere con i superiori interessi pubblici. Si è venuti assistendo ad un diffuso e preordinato abuso del diritto: nel rispetto più o meno formale dei limiti di legge, si sono venuti a perseguire obiettivi del tutto difformi da quelli per i quali la legge ha riconosciuto speciali diritti all’intermediario bancario. Troppo spesso i comportamenti dell’operatore bancario occupano ed impegnano la Magistratura, chiamata – non per singoli accadimenti ma per circostanze generalizzate – a surrogare e colmare carenze istituzionali. Non si può continuare ad operare con forme contrattuali uniformi di adesione che, impiegando le prerogative di favore che l’ordinamento bancario accorda all’intermediario, consentono forme di prevaricazione, fondate sulla desistenza e ritrosia a percorrere il lungo ed oneroso iter giudiziario per vedere riconosciuti i propri diritti. Il potenziale contenzioso che deriva da ormai pregressi e duraturi comportamenti illegittimi praticati dal sistema bancario, non può essere sanato, ancora una volta, con un provvedimento di legge che pieghi e modifichi principi di diritto posti a presidio dell’ordinamento giuridico. La nullità delle clausole anatocistiche, a cui si accompagnano le forme di nullità dei contratti non sottoscritti e/o condizioni contrattuali riferite ad usi di piazza, non hanno trovato alcuna sanatoria nella Delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000. Per i contratti precedenti a tale Delibera, in luogo di porre in essere un nuovo regolare contratto si è preferito ricorrere all’art. 7 della Delibera stessa, lasciando in tal modo impregiudicata la nullità, senza alcuna forma di adesione scritta alle nuove condizioni stabilite dalla banca. La circostanza, se non fosse sufficientemente chiarita dalla dottrina e giurisprudenza che viene affermandosi sempre più diffusamente, potrebbe risultare oggetto di una più puntuale precisazione della Cassazione, con notevole pregiudizio per le banche, anche per il periodo successivo al 2000.
non si fa luogo alla restituzione di importi già versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione: un’altra “interpretazione” questa volta affidata ad una circolare.
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L’imprescrittibilità della nullità pone il sistema bancario in un rischio legale dai limiti indefiniti 53: l’apprezzabile costo che ne deriva può trovare un confacente temperamento solo in soluzioni conciliative che non coartino i diritti alla ripetizione dell’indebito. Così come si è adottato per la Mifid, si potrebbe introdurre, limitatamente ai conti precedenti il decennio, una nuova contrattualistica di conto corrente che, in condizioni di equilibrio e trasparenza, possa prevedere la liberatoria dei precedenti rapporti di conto, concordando – per un tempo commisurato e proporzionale alla durata dei precedenti rapporti – condizioni di favore sulla tenuta del conto, sul costo delle operazioni, sui servizi connessi e, eventualmente sul tasso, a ripianamento degli importi illegittimamente addebitati in precedenza. Un’equilibrata riconciliazione con l’utente bancario ed un recupero fiduciario del rapporto non può tuttavia prescindere da una più efficace normativa sanzionatoria che presidi compiutamente la delicata funzione assolta dall’operatore bancario. Occorrerà attendere le prime pronunce per valutare il comportamento che adotterà la Magistratura. In particolare, per le numerose vertenze già avviate presso i Tribunali, verrà vagliata l’eccezione di prescrizione nei termini ordinariamente prospettati dalla banca. Quand’anche fosse stata eccepita la prescrizione decennale, questa, di norma, è stata riferita agli addebiti degli interessi e non alle rimesse solutorie, come indicato dalle Sezioni Unite. Il termine prescrizionale non può essere rilevato d’ufficio, ma ex art. 2928 c.c. va richiesto dalla parte interessata attraverso l’eccezione, entro il termine di cui all’art. 166 c.p.c., specificando l’elemento costitutivo, cioè il momento iniziale dell’inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio. Senza un’esatta indicazione delle rimesse solutorie, l’eccezione è passibile di rigetto (cfr. Cass., 8 marzo 2004, n. 4668, in www.diritto.net 54).
53 Una stima della dimensione economica delle ripetizioni, che tiene conto della Sentenza in esame, è riportato in: Marcelli, La dimensione del fenomeno dell’anatocismo e degli interessi ultralegali nei rapporti bancari, 2011, in http://www.assoctu.it. 54 «È onere della banca eccepire l’intervenuta prescrizione precisando il momento iniziale dell’inerzia del correntista in relazione a ciascun versamento extrafido, mentre è compito del giudice accertare quale sia il tipo e la durata della prescrizione stessa e se essa sia decorsa, ma non si potrà sostituire alla difesa della banca specificandone l’elemento costitutivo e demandando detta individuazione al CTU. L’eccezione di prescrizione, in quanto eccezione in senso stretto, deve fondarsi su fatti allegati dalla banca, quand’anche suscettibili di diversa qualificazione da parte del giudice. Nulla la banca ha specificatamente osservato circa la
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9. Sintesi e conclusioni. In tema di prescrizione, precedenti sentenze della Cassazione, nel valorizzare l’aspetto unitario del contratto di conto corrente, avevano perentoriamente ricondotto il termine di decorrenza dell’azione di ripetibilità degli indebiti pagamenti all’estinzione del saldo di chiusura dello stesso (Cass., 6 febbraio 2004, n. 2301, in Giust. civ., 2004, I, 1479; Cass., 14 maggio 2005, n. 10127, in Riv. dir. comm., 2005, II, 163). La recente sentenza delle S.U. n. 24418/10 invece, nell’accentrare l’attenzione sulla nozione di pagamento e sulla natura solutoria e ripristinatoria delle rimesse, viene ad operare un puntuale distinguo fra apertura di credito e rapporto di conto, riconoscendo in quest’ultimo un’autonoma valenza delle rimesse di pagamento, da cui far decorrere la prescrizione, e circoscrivendo esclusivamente al primo il differimento della prescrizione all’estinzione del saldo di chiusura del rapporto.
natura solutoria dei versamenti effettuati dal correntista durante il rapporto, né ha individuato o allegato detti versamenti e gli effetti che hanno avuto nel saldo finale. Ne consegue che la banca, ove eccepisca la prescrizione del credito, ha l’onere di allegare e provare il fatto che, permettendo l’esercizio del diritto, determina l’inizio della decorrenza del termine ai sensi dell’art. 2935 c.c., restando escluso che il giudice possa accogliere l’eccezione sulla base di un fatto diverso, conosciuto attraverso un documento prodotto ad altri fini da diversa parte in causa (Cass. 2009/16326; conf. Cass. 2004/3578). La banca nelle difese anteriori al 2 dicembre 2010 non ha dedotto nulla di specifico in tal senso e non ha prodotto nulla, sia nella memoria di costituzione, con le sue preclusioni di cui all’art. 167 c.p.c., che nelle successive memorie ex art. 183 c.p.c. (prima e seconda). D’altra parte l’elemento costitutivo dell’eccezione di prescrizione è la manifestazione in modo non equivoco della volontà della parte di far valere l’estinzione, a causa del decorso del tempo, del credito o dei crediti nei suoi confronti azionati; conseguentemente, mentre rileva la precisazione della parte circa i crediti o le loro parti effettivamente investiti dall’eccezione, il riferimento al termine – quinquennale, decennale ecc. – ha il valore di mera prospettazione di una tesi giuridica, che non vincola il giudice circa l’individuazione del tipo di prescrizione (Cass. 2000/9825). La generica proposizione dell’eccezione di prescrizione da parte dell’interessato non autorizza il giudice ad individuare d’ufficio il tipo concretamente applicabile, atteso che, da un canto, la prescrizione non è rilevabile d’ufficio, dall’altro, il suo carattere dispositivo comporta, per la parte che la propone, l’onere di tipizzarla (cfr. Cass. 1993/4130), sicché, in mancanza delle specifiche indicazioni di fatto necessarie per rendere comprensibile ed individuabile l’eccezione, l’eccezione medesima non può che essere dichiarata inammissibile (cfr. Cass. 1999/3798; v. anche Cass. 2005/6519; Cass. 1999/850; Cass. S.U. 1989/1607, in cui si rileva che l’eccezione di prescrizione, oltre a non essere rilevabile d’ufficio, deve essere dedotta, a pena di inammissibilità, in modo specifico e tipizzato, non potendo il giudice applicare un tipo di prescrizione diverso da quello richiesto, ciò comportando la violazione sia del principio dispositivo dell’eccezione di prescrizione, sia del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato)».
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L’enunciato del principio riportato nella sentenza delle Sezioni Unite si limita, per il vero, a chiarire la disciplina del termine di prescrizione in presenza di rimesse aventi natura ripristinatoria del credito: l’elemento di novità del provvedimento risulta tuttavia implicito nelle argomentazioni che, a contrariis, vengono ad alimentare e sostenere l’applicazione dell’art. 1194 c.c., e quindi di un diverso termine di prescrizione, in presenza di rimesse aventi una funzione solutoria. Le conclusioni a cui perviene la Cassazione conducono di fatto ad escludere l’anatocismo nelle circostanze di rimesse su conti scoperti. Qualificando il pagamento degli interessi non nell’operazione di addebito, ma nella successiva operazione di rimessa solutoria, giuridicamente non si configura alcun passaggio a capitale di interessi. Si viene in tal modo ad introdurre uno spazio giuridico nel quale l’anatocismo finanziario diviene legale. Il principio stabilito dalla Cassazione in tema di dies a quo della prescrizione dell’azione di ripetizione, pur nel distinguo fra rimesse di pagamento e rimesse di ripristino della provvista, non viene di fatto a pregiudicare apprezzabilmente le azioni di ripetizione dell’anatocismo praticato in passato dalle banche 55. Disconoscendo all’addebito in conto degli interessi una valenza di pagamento, non si ravvisano rimesse specificatamente imputate a tale titolo; al contrario la prospettazione contabile resa al cliente dalla banca riporta tutte le rimesse al capitale. Nelle risultanze operative, all’atto dell’operazione in conto, viene esplicitato il negozio giuridico da cui origina la rimessa, ma non viene, di regola, fornita alcuna indicazione sull’impiego e destinazione della rimessa stessa. Dall’assenza di una esplicita indicazione nella rimessa solutoria consegue l’applicazione dell’art. 1194 c.c., co. 2, nel rispetto tuttavia del principio di contestuale esigibilità e liquidità del credito e degli interessi. Ne consegue che solo gli interessi relativi al credito in extra fido possono risultare oggetto di pagamento legale ex art. 1194 c.c., risultando l’apertura di credito entro il fido illiquida ed inesigibile sino al termine del rapporto. Per gli interessi relativi al credito entro il fido e per quelli anatocistici, poiché l’addebito operato dalla banca non costituisce pagamento, ma semplicemente un’indebita registrazione in conto limitativa del credito disponibile, non sorge un problema di prescrizione anticipata e il termine
55 Per contro l’impiego della data di disponibilità, in luogo della data di valuta, nella ricostruzione del conto, è suscettibile di sopravanzare gli effetti derivanti dalla legale appostazione a pagamento degli interessi sul credito in extra fido.
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di decorrenza rimane attestato all’estinzione del saldo di chiusura del conto o all’atto delle prime rimesse successive alla revoca/scadenza del fido, quando la banca riceve effettivamente il pagamento di detti interessi. Determinante risulta l’accertamento del fido: questo potrebbe essere dedotto per facta concludentia per il periodo precedente la l. 154/92, e, successivamente, per presunzione, dall’estratto conto, dalle eventuali indicazioni presenti nell’atto di fideiussione e, meglio ancora, dallo storico della Centrale dei Rischi 56. D’altra parte una frequente situazione di extra fido, senza che siano intervenuti inviti al rientro, può costituire più che un mero indizio. Si può escludere che possano al riguardo verificarsi, a parti invertite, le circostanze della revocatoria bancaria, dove è richiesto alla banca di provare un regolare contratto scritto di affidamento. L’art. 127 t.u.b. impedisce che possano essere addotte motivazioni di nullità per assenza della forma scritta, se queste non operano a vantaggio del correntista. Il principio stabilito dalla Cassazione nella seconda parte della sentenza, in merito alla capitalizzazione semplice, conseguente alla nullità della previsione della capitalizzazione trimestrale, induce un’apprezzabile lievitazione della dimensione anatocistica ripetibile, in funzione diretta con la durata del rapporto e con l’aliquota del tasso di interesse applicato. Rispetto alla capitalizzazione annuale, su un ampio arco temporale, la riduzione degli interessi a debito può essere mediamente valutata superiore ad un terzo. Il mancato riconoscimento dell’art. 7 della delibera C.I.C.R. 9 febbraio 2000 ai conti accesi in precedenza, che la giurisprudenza sempre più frequentemente viene accogliendo, estende oltre il 2000 la nullità delle condizioni relative alla capitalizzazione trimestrale 57. Il puntuale distinguo sulla diversa natura del rapporto di conto e del rapporto di apertura di credito, sul quale la pronuncia delle Sezioni Uni-
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La Banca d’Italia pone a disposizione, su semplice richiesta dell’avente diritto, lo storico a partire dal 1/1/96: per il periodo precedente l’estrazione dei dati presenta qualche difficoltà, riconducibile ai mutamenti intervenuti nell’organizzazione e gestione del sistema informativo di rilevazione ed archiviazione dei dati stessi. 57 Più pronunce della Cassazione avvalorano l’assunto. Più recentemente Cass., 3 maggio 2011, n. 9695, ha esplicitamente ribadito il principio: «É illegittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi di conto corrente bancario passivi per il cliente, se prevista da clausole anatocistiche stipulate prima del d.lgs. 342/99 e della delibera del CICR prevista dall’art. 25, co. 2 di tale decreto, in quanto siffatte clausole, secondo i principi che regolano la successione delle leggi nel tempo, sono disciplinate dalla normativa anteriormente in vigore e, quindi, sono da considerare nulle in quanto stipulate in violazione dell’art. 1283 c.c., perché basate su di un uso negoziale, anziché sudi un uso normativo».
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te fonda il criterio di imputazione delle rimesse di pagamento, aggiunge un ulteriore varco allo spazio di inapplicabilità della delibera, offerto dal contenuto letterale dell’art. 2 della delibera stessa. Il dettato dell’articolo è riferito esplicitamente al rapporto di conto corrente: non risulta condivisa, né in giurisprudenza né in dottrina, una lettura dell’art. 2 della delibera che assimili tout-court l’apertura di credito al conto corrente, in una concezione accessoria del primo rapporto al secondo 58. Nell’apertura di credito, come anche nelle altre forme di affidamento in conto, diverse sono le cause, diversi i periodi di riferimento, diverse le discipline regolanti i contratti. La sentenza in esame ha puntualmente distinto i due negozi, senza nessuna estensione all’apertura di credito della disciplina del conto corrente. Per il rapporto di apertura di credito, soprattutto se posto in essere in un separato momento, conservando una propria sostanziale unitarietà giuridica, l’esigibilità e liquidabilità dei relativi interessi, nel rispetto della puntuale indicazione fornita dalle Sezione Unite, dovrebbero continuare ad essere riferite alla chiusura del rapporto stesso. All’inapplicabilità dell’art. 7 della menzionata delibera C.I.C.R. ai rapporti preesistenti si aggiungerebbe in tal modo, per i rapporti di affidamento, precedenti e successivi, l’inapplicabilità dell’art. 2 della Delibera stessa. Con la l. n. 10/2011, di conversione del d.l. 225/10 (decreto mille proroghe) è stato inserito un comma relativo alla prescrizione delle operazioni bancarie, che vorrebbe introdurre, mediante una chiave interpretativa, un animus solvendi alle annotazioni in conto, con conseguente decorso della prescrizione. Volta a precludere il recupero di ogni indebito bancario precedente il decennio di prescrizione, la formulazione letterale adottata appare pesantemente viziata. A meno di “stravolgere” generali principi di diritto, per altro ribaditi dalle stesse Sezioni Unite nella citata sentenza 23 novembre 2010, n. 24418, non si vede come possa essere negletta la nullità dell’annotazione di interessi anatocistici: nei termini indicati dalla sentenza esaminata, gli interessi relativi al credito entro il fido, rimangono
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Secondo una corrente di dottrina, solo dall’esame dell’origine e formazione dei contratti in parola si può evincere quell’unitarietà e prevalenza del rapporto di conto corrente sul rapporto di apertura di credito che sole potrebbero forse giustificare l’estensione all’apertura di credito della disciplina del rapporto di conto. Tuttavia nella pratica operativa, l’apertura di credito, come le altre tipologie di finanziamento in conto, spesso non risulta posta in una posizione di subalternità e/o accessorietà del rapporto di conto corrente: talvolta quest’ultimo è prevalentemente dedicato al servizio dell’affidamento concesso.
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esatti non con l’illecita annotazione, ma al termine del rapporto o alle prime rimesse successive alla scadenza/revoca dell’apertura di credito e solo da tale termine può decorrere la prescrizione decennale. Per una valutazione definitiva occorrerà attendere la posizione che assumerà la giurisprudenza: le prime indicazioni non sembrano lasciare spazi applicativi al provvedimento del Governo.
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Appendice metodologica. Criteri e modalità operative di ricalcolo del saldo del conto corrente alla luce della sentenza della Corte di Cassazione S.U., 23 novembre 2010, n. 24418. Premessa. Al fine di rideterminare il saldo di un conto corrente considerando i principi – enunciati e impliciti – della sentenza in questione, si può distinguere il processo operativo in cinque distinte fasi: 1. Preliminarmente è necessario individuare per ciascuna operazione intervenuta in conto la relativa data disponibile e riordinare l’estratto conto per detta data; 2. Si procede a scindere il saldo del conto in linea capitale (e interessi debitori) e linea interessi/competenze; 3. Si ricalcolano gli interessi (con separata indicazione di quelli entro il fido ed extra fido) e le C.M.S. sul saldo capitale (capitalizzazione semplice). Per verifica è utile tenere anche evidenza degli interessi e commissioni di massimo scoperto illegittimi, rivenienti dalla capitalizzazione; 4. Si individuano le rimesse solutorie: il saldo capitale viene, volta per volta, rettificato tenendo conto delle rimesse che, assumendo la veste di “pagamento” di interessi e competenze, non andranno ad intaccare il saldo in linea capitale, bensì ridurranno il saldo relativo agli interessi semplici extra fido, alle C.M.S e alle spese. Sul saldo capitale “rettificato” dovranno quindi essere riconteggiate – in un processo iterativo – gli interessi e C.M.S; 5. Da ultimo si dovrà calcolare il saldo finale rettificato sommando al saldo capitale “rettificato” il totale degli interessi semplici entro il fido ed il residuo non pagato di interessi semplici extra fido, C.M.S. e spese.
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Determinazione natura rimessa. La determinazione della natura di pagamento o meno della rimessa intervenuta in conto è connessa alla quantificazione del saldo disponibile secondo il seguente schema: –– Conto attivo --> la rimessa ha natura di provvista;
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–– Conto passivo (entro il fido) --> la rimessa ha natura di provvista; –– Conto scoperto (oltre il fido) --> la rimessa ha natura solutoria (pagamento); Nel caso di un conto privo di affidamento qualunque rimessa intervenuta in presenza di un saldo negativo riveste la natura di pagamento. Assume la forma di pagamento solo la quota della rimessa corrispondente agli interessi semplici extrafido, alle competenze e al credito in extra fido. Individuazione del saldo disponibile. Per l’individuazione del saldo disponibile, occorre far riferimento alla tipologia dei movimenti registrati sul conto in esame. Per gli addebiti: –– assegni emessi a favore di terzi: data contabile, in quanto, fino al momento in cui il terzo beneficiario non presenta il titolo all’incasso, la banca non è a conoscenza dell’emissione del titolo e non si determina di conseguenza nessun decremento della disponibilità; –– prelevamenti, assegni circolari, disposizioni di pagamento: data contabile (per tali operazioni la data contabile risulta coincidente con la data valuta); –– spese bancarie, bolli ed interessi passivi: data contabile; –– effetti ritirati / insoluti: data contabile. Per gli accrediti: –– versamento di contanti e assegni emessi dalla stessa banca: data contabile; –– accredito di bonifici, ricavo effetti/assegni dopo incasso, accrediti POS: data contabile; –– giroconti: data contabile; –– versamento di assegni bancari e circolari di altre banche, assegni posdatati: data valuta; –– accredito effetti SBF: data valuta; –– rettifica valute e storni: data contabile, una volta appurato che la stessa data è stata adottata per le poste a cui le rettifiche e gli storni si riferiscono. In caso di operazioni plurime andranno computati prima gli addebiti e poi gli accrediti.
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Esempio di ricalcolo. Si consideri un breve conto corrente acceso in data 31 dicembre 1989 ed estinto il 31 dicembre 1992 sul quale insistono le seguenti condizioni: fido € 100.000; tassi debitori medi del periodo; aliquota C.M.S. 0,5%; spese € 50 trimestrali; capitalizzazione trimestrale. Sul conto sono intervenuti i seguenti movimenti:
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1. Prima fase. La prima fase del ricalcolo consiste nell’individuare per ciascuna operazione la data disponibilità secondo gli usuali criteri della revocatoria bancaria e riordinare per detta data l’estratto conto.
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2. Seconda fase. Nella seconda fase occorre separare i movimenti di capitale dalle operazioni di addebito delle competenze passive.
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3. Terza fase. Nella terza fase devono essere rideterminati gli interessi e le C.M.S. sul saldo in linea capitale 59 (ovvero in capitalizzazione semplice).
59 Per semplicità espositiva gli interessi e le C.M.S. sono stati ricomputati sul saldo capitale per data disponibilità . Qualora i giorni valuta siano contrattualmente pattuiti, occorre tener distinto il saldo disponibile funzionale all’individuazione della natura di ciascuna rimessa, dal saldo per valuta sul quale calcolare le competenze rettificate.
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4. Quarta fase. Nella quarta fase dovranno essere individuate le rimesse solutorie e rideterminato il saldo in linea capitale. Dopo ciascun pagamento, modificandosi il saldo capitale dovranno essere ricalcolate le competenze successive. Tale ricalcolo andrĂ a sua volta a rideterminare le rimesse solutorie in un processo iterativo.
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5. Quinta fase. L’ultimo passo consiste nella determinazione del saldo finale rettificato: al saldo finale in linea capitale dovranno essere uniti gli interessi semplici relativi all’entro fido ed il residuo di interessi semplici relativi all’extra fido e le altre competenze (C.M.S. e spese).
Le cinque fasi precedentemente descritte rappresentano uno sviluppo logico semplificato, funzionale alla ricostruzione del rapporto nel rispetto dei principi stabiliti dalla norma. Tuttavia, su un piano pratico, le fasi sopra descritte possono essere inglobate in un processo entro un unico modello di calcolo. Nelle pagine seguenti si riporta un esempio di modello con la dettagliata descrizione di ciascuna voce. Come già rilevato, per semplicità espositiva, nel ricalcolo delle competenze è stato impiegato il saldo per data disponibilità. Tuttavia, qualora i giorni valuta siano correttamente indicati nel contratto, occorre tener distintamente evidenza del saldo disponibile per determinare la natura di ciascuna rimessa e del saldo per valuta sul quale calcolare le competenze rettificate.
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A) Data disponibilità Preliminarmente occorre desumere per ciascuna operazione la “data disponibilità” secondo gli usuali criteri stabiliti dalla giurisprudenza per le revocatorie fallimentari (ante riforma). Le operazioni devono quindi essere ordinate cronologicamente secondo tale data. B - C) Mastrino capitale (dare e avere) Operazioni a credito e a debito come riportate nell’estratto conto. D) Interessi creditori banca Interessi creditori computati dalla banca come indicati in estratto conto. E) Interessi debitori banca Interessi debitori computati dalla banca come indicati in estratto conto. F) C.M.S. banca C.M.S. computate dalla banca come indicate in estratto conto. G) Spese banca Spese computate dalla banca come indicate in estratto conto. H) Saldo banca Somma dei movimenti di capitale e degli interessi calcolati dalla banca [es. H16=H15-B16+C16+D16+E16+F16+G16]. I) Pagamenti interessi Importo delle rimesse solutorie, legittime e non più ripetibili. Si configura un pagamento solutorio unicamente in presenza di una rimessa intervenuta con un saldo in linea capitale rettificato (col. K) oltre il fido concesso. L’importo del pagamento sarà il minore tra l’importo della rimessa (col. C) e la somma dei saldi degli interessi semplici extra fido (col. R), delle C.M.S. rettificate (col. T) e delle spese ricalcolate (col. V) [es. I16=SE(E(K15<L15;C16>0);MIN((R15+T15+V15);C16);0)]. J) Saldo pagamenti Somma dei pagamenti intervenuti alla relativa data [es. J16=somma($I$1:I6) oppure J16=J15+I16)]. K) Saldo capitale rettificato Somma dei movimenti in linea capitale (dare e avere) al netto dei pagamenti intervenuti [es. K16=K15-B16+C16+D16-I16]. L) Fido Fido accordato al correntista eventualmente desunto dagli estratti conto o dalla visura storica dei dati presenti presso la Centrale dei Rischi della Banca d’Italia M - N) Saldo in linea capitale rettificato debitore entro/extra fido
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Distinzione del saldo in linea capitale rettificato entro e oltre il fido [es. M16=SE(K16<0;SE(K16>L16;K16;L16);0) e N16=SE(K16>L16;0;K16L16)] O) Interessi debitori capitalizzazione semplice entro fido Interessi debitori calcolati sul saldo in linea capitale rettificato entro fido (col. M) P) Saldo interessi debitori capitalizzazione semplice entro fido Somma degli interessi debitori calcolati sul saldo in linea capitale rettificato entro fido alla relativa data [es. P16=somma($O$1:O16) oppure P16=P15+O16]. Q) Interessi debitori capitalizzazione semplice extra fido Interessi debitori calcolati sul saldo in linea capitale rettificato extra fido (col. N). R) Saldo interessi debitori capitalizzazione semplice extra fido Somma degli interessi debitori calcolati sul saldo in linea capitale rettificato extra fido alla relativa data al netto dei pagamenti intervenuti [es. R16=R15+Q16+SE(I16>-R15;-R15;I16)]. S) C.M.S. ricalcolate C.M.S. ricalcolate sul saldo capitale rettificato (col. K). T) Saldo C.M.S. ricalcolate Somma delle C.M.S. ricalcolate sul saldo capitale rettificato (col. K) al netto dei pagamenti intervenuti [es. T16=T15+S16+SE(I16<R15;0;SE(I16+R15>-T15;-T15;I16+R15))]. U) Spese ricalcolate Spese ricalcolate. V) Saldo spese ricalcolate Somma delle spese ricalcolate al netto dei pagamenti intervenuti [es. V16=V15+U16+SE(I16<-(R15+T15);0;SE(I16+R15+T15>-V15;V15;I16+R15+T15))]. W) Saldo interessi e competenze liquide ed esigibili Somma degli interessi extra fido e delle C.M.S. e spese ricalcolate al netto dei pagamenti intervenuti (col. I) [es. W16=R16+T16+V16]. X) Interessi e competenze illegittimi Differenza tra gli interessi, C.M.S. e spese calcolati dalla banca e gli interessi, C.M.S. e spese ricalcolati. [es. X16=E16+F16+G16-O16-Q16S16-U16]. Y) Saldo interessi debitori illegittimi ripetibili Somma degli interessi e competenze illegittimi alla relativa data [es. Y16=somma($X$1:X16) oppure Y16=Y15+X16].
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Finanziamenti bancari alle imprese in crisi fra prededuzione e subordinazione Il 18 marzo 2011, presso la sede di Firenze della Cassa di Risparmio di San Miniato, si è tenuto un incontro di studio, organizzato dal Ce.di.b. e dalla rivista, sul tema “Finanziamenti bancari alle imprese in crisi fra prededuzione e subordinazione”. All’incontro, presieduto dal prof. Antonio Piras dell’Università di Pisa, sono intervenuti la prof.ssa Lucia Calvosa, dell’Università di Pisa, la prof.ssa Stefania Pacchi dell’Università di Siena, il prof. Gaetano Presti, dell’Università Cattolica di Milano, il prof. Maurizio Sciuto, dell’Università di Macerata, il prof. Fabrizio Maimeri, dell’Università G. Marconi di Roma, i prof. Salvatore Maccarone, Alessandro Nigro, Giuseppe Terranova, Daniele Vattermoli, della Sapienza Università di Roma. Ne pubblichiamo gli atti.
Indirizzi di saluto Lucia Calvosa Buonasera. Un benvenuto a tutti da parte della Cassa di Risparmio di San Miniato S.p.A., che anche quest’anno, come l’anno scorso, ospita il convegno organizzato dal Ce.di.b, e segnatamente dal professor Nigro, che troverà esito in termini di pubblicazione sulla rivista Diritto della banca e del mercato finanziario, di cui un numero credo sia anche all’ingresso, per chi volesse averne una copia. Il convegno odierno sui finanziamenti bancari alle imprese in crisi, fra prededuzione e subordinazione, è di grandissima attualità, dopo l’inserimento nella legge fallimentare (nel luglio 2010) della previsione dell’articolo 182-quater, relativa alla prededucibilità nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei crediti derivanti da finanziamenti effettuati da banche e intermediari finanziari. Trattasi di norma molto attesa in un periodo di crisi quale quello attuale, per favorire il ricorso al credito e l’accesso alla nuova finanza da parte di imprese in crisi. La novità nor-
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mativa che – come sapete – coinvolge, in deroga alle previsioni degli articoli 2467 e 2497-quinquies c.c., anche i finanziamenti effettuati dai soci, è veramente di grande rilevanza, e feconda di implicazioni per un sistema di governo della crisi di impresa, che vede sempre più crescente il ruolo delle soluzioni concordate delle crisi, e conseguentemente delle connesse responsabilità degli operatori. Do quindi a questo punto avvio al convegno, e passo la parola al Presidente, che è anche quest’anno, come l’anno scorso, il professor Piras, che quindi dirigerà i lavori della sessione odierna. Grazie.
Antonio Piras Grazie, Presidente. Anche quest’anno, per questo Convegno organizzato dal Ce.di.b, l’Amico Nigro, come ha detto la professoressa Calvosa, ha scelto un tema di grande attualità, il finanziamento alle imprese in crisi. Oggi, si sa, nell’attuale congiuntura economica, molte imprese sono in crisi, e quindi parlare di finanziamento alle imprese in crisi significa parlare, in buona sostanza, di finanziamento alle imprese, o quanto meno alle imprese nello stato in cui oggi in gran parte si trovano. Il problema però non è un problema, dirò così, dell’ultima ora; è un problema risalente, già avvertito da almeno alcuni decenni. Da tempo si avverte quindi l’esigenza di dettare delle regole che tengano conto dello stato, appunto, di crisi dei fruitori del credito, e che siano proporzionate a questa situazione così diffusa di crisi. Mi piace ricordare a questo proposito che già qualche anno fa il compianto Amico Franco Di Sabato si fece promotore presso l’Università di Napoli di un dottorato di ricerca sul diritto delle imprese in crisi, un dottorato del quale io stesso ho fatto parte, come membro del collegio dei docenti. E vedo con piacere che a questo Convegno di oggi partecipa anche, come relatore, il professor Vattermoli, che a suo tempo ne è stato un brillante allievo, seguíto nella sua fatica dal suo Maestro professor Nigro, che ha manifestato sempre una spiccata sensibilità per queste problematiche. Perché ci si deve occupare di questo problema dei finanziamenti alle imprese in crisi? E si deve prima di tutto reclamare dal legislatore la predisposizione di regole adeguate a questo fenomeno? Ma perché – la risposta è semplice, forse banale – l’impresa in crisi rappresenta anch’essa un valore, e si deve quindi salvaguardare nei limiti del possibile, finché è possibile, questo valore, forse residuale, ma sempre innegabilmente un valore. Consentitemi un breve riferimento, una autocitazione, se volete, a quanto ho avuto modo di sottolineare non molto tempo fa nella prefazione al Ma-
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nuale breve di diritto fallimentare pubblicato da un nutrito gruppo di giovani studiosi, del quale ha fatto parte anche la professoressa Calvosa, che oggi ci ospita nella sede di questa banca. Vedo fra il pubblico anche il professor Abriani, che è stato il primo della lista, e non soltanto per ragioni di carattere alfabetico! Ebbene, in tale occasione, cercando di cogliere lo spirito della riforma del diritto fallimentare, avevo scritto che la bussola che ha orientato l’opera del legislatore, nell’emanazione dei provvedimenti del 2005-2006, e nell’adozione delle misure correttive del 2007, era stata sostanzialmente quella del recupero dell’impresa, nella sua oggettività, considerata, ancorché in crisi, come un valore, nella prospettiva, ripeto, per quanto possibile, di una sua salvaguardia e di riflesso nella prospettiva della salvaguardia di tutti gli interessi nella stessa coinvolti: non più quindi nel limitato e tradizionale quadro dei rapporti creditori-debitori, ma in una prospettiva più ampia e più generale, cioè in una platea nella quale fanno ingresso, con i propri interessi e con le rispettive esigenze di tutela, altri protagonisti, che anch’essi hanno titolo per concorrere con le opportune garanzie, si intende, alla gestione della crisi, al fine di un suo superamento. In questo quadro, si inserisce indubbiamente, e non è certo un fatto di dettaglio, la previsione dell’articolo 182-quater della legge fallimentare, inserito dall’articolo 48 del decreto legge del maggio del 2010, così come poi parzialmente modificato dalla legge di conversione del luglio del 2010. È una norma che riguarda i finanziamenti in qualsiasi forma effettuati da banche e da intermediari finanziari in esecuzione di un concordato preventivo e di un accordo di ristrutturazione dei debiti, nonché i finanziamenti effettuati in funzione della presentazione della domanda di concordato o della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione. Non solo, ma in deroga alle previsioni degli articoli 2467 e 2597-quinquies del codice civile, la stessa regola, che è poi quella della prededuzione, quindi dell’attrazione del fenomeno nell’orbita dell’articolo 111 della legge fallimentare, si applica anche ai finanziamenti effettuati dai soci o effettuati, lo dico semplificando, anche da chi esercita attività di direzione e coordinamento. Il mondo delle imprese sul piano dei fruitori del credito, e la platea degli operatori bancari e degli stessi soci sul versante dei possibili erogatori del credito, hanno indubbiamente interesse ad un approfondimento di queste tematiche. Ed oggi credo che i relatori, tenuto conto della loro competenza e della loro autorevolezza, potranno certo dare un significativo contributo a questo approfondimento. Le relazioni sono sei, e saranno precedute dall’introduzione del professor Nigro e seguite dalle considerazioni conclusive del professor Presti. Il programma è quindi molto denso. Pregherei pertanto i relatori di contenere le loro rispettive
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esposizioni nell’arco di una ventina di minuti. So che sarà un’impresa ardua, ma non impossibile! A questo punto, cedo senz’altro la parola al professor Nigro, che dovrà introdurci in modo più preciso e circostanziato nelle tematiche di oggi. Grazie.
Introduzione Alessandro Nigro Le aspettative che il professor Piras, con le sue parole iniziali, potrebbe aver suscitato sono destinate, almeno per quel che mi riguarda, a rimanere irrimediabilmente deluse. La mia introduzione sarà molto semplice e molto rapida; tanto più che lo stesso Presidente ha già accennato a profili che avevo pensato di toccare. Vorrei iniziare con i ringraziamenti – non è una formula di stile: sono veramente sentiti – del Centro Studi, della Rivista e miei personali. Ringraziamenti, innanzi tutto, agli organizzatori effettivi del Convegno: la Banca che ci ospita e la Casa editrice Pacini. Un ringraziamento particolare va all’amica e collega Lucia Calvosa, che generosamente ha offerto ancora una volta il suo prezioso supporto alle nostre iniziative. Ringraziamenti vanno poi, naturalmente, ai relatori, che si sono sobbarcati questo impegno, anche con trasferimenti via treno o in altro modo. Un ringraziamento, infine, è dovuto a chi ha la bontà di essere presente in questa circostanza. Lo scorso anno – esattamente un anno fa – ci siamo visti qui per discutere un tema diverso, la crisi finanziaria e le banche. In quell’occasione, nella mia introduzione, rilevai che forse si poteva pensare di fare degli incontri così strutturati una sorta di appuntamento fisso, come si sta ormai verificando per molti convegni, da quelli di Courmayeur a quelli a Gardone o Como, a quelli di Lanciano, tanto per fare qualche esempio. Ho cercato di tener fede a questa sorta di impegno, assunto un po’ con tutti: quindi, ho preso l’iniziativa di questo nuovo incontro. Mi auguro che possa essere la seconda tappa di un percorso più lungo, destinato a proseguire nel tempo. La scelta del tema, i finanziamenti bancari alle imprese in crisi fra prededuzione e subordinazione, non ha bisogno di essere spiegata. Come è già stato sottolineato da chi mi ha preceduto, oggi non c’è convegno, seminario, occasione di discussione, degli studiosi del diritto bancario
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come di quelli delle procedure concorsuali, in cui non venga toccata, in un modo o nell’altro, sotto questo o quel profilo, la materia dei finanziamenti bancari alle imprese in crisi, del loro ruolo e della loro disciplina. L’attenzione di tutti, giustamente, si è andata sempre più polarizzando sulle soluzioni concordate delle crisi delle imprese: e un ingrediente fondamentale, imprescindibile di queste soluzioni, siano esse giudiziarie o extragiudiziarie, è costituito dall’intervento delle banche. D’altra parte, merita attenta considerazione e riflessione la ormai spiccata tendenza del nostro legislatore a differenziare il trattamento da praticare ai creditori delle imprese in crisi, attraverso i due meccanismi della subordinazione e della prededuzione. Per quanto riguarda il primo meccanismo, ha aperto la strada il legislatore della riforma societaria, con il ben noto art. 2467 c. c., con il regime particolare in esso previsto per i finanziamenti dei soci; per quanto riguarda il secondo, ha cominciato il legislatore nella riforma fallimentare, con la riformulazione, nel modo che sappiamo, dell’art. 111 l.fall.; e su questa strada ha proseguito il legislatore del 2010. L’attualità del tema mi sembra dunque fuori discussione; così come mi sembra fuori discussione anche la sua complessità, per non dire difficoltà. Mi pare, infatti, che vuoi in ordine alla subordinazione vuoi in ordine alla prededuzione vi sia una notevole incertezza di idee e che, anzi, sia sull’una che sull’altra si stia accumulando una serie di equivoci o fraintendimenti. Quanto alla subordinazione, mi basta ricordare la discordia di opinioni non solo circa il suo inquadramento sul piano sistematico, ma anche circa il modo stesso in cui essa sia destinata a funzionare; emblematiche a quest’ultimo proposito sono le incertezze manifestatesi a proposito del già ricordato art. 2467: per alcuni, la subordinazione opererebbe solo nel caso di liquidazione della società, per altri anche durante societate. Per non parlare, poi, delle difficoltà che si prospettano in punto di identificazione del trattamento da riservare ai creditori subordinati nell’ambito delle procedure concorsuali, e specificamente in sede di concordato preventivo o di concordato fallimentare. Più confortante parrebbe il quadro riguardante la prededuzione. Anche qui, però, non mancano incertezze anche su profili centrali: è sufficiente pensare a quelle concernenti l’individuazione dell’esatta portata da attribuire all’espressione “crediti sorti in occasione o in funzione” (delle procedure concorsuali disciplinate dalla legge fallimentare) usata nell’art. 111 l.fall. Ulteriori incertezze si vanno manifestando, addirittura, su ciò che significhi e comporti la prededuzione. E queste sembrano connotare la stessa normativa ultima, che ho poco fa richiamato: una
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normativa che, a leggerla con attenzione, appare il frutto di una qualche confusione di idee. Il che – noto di passaggio – non deve costituire motivo di meraviglia: il nostro legislatore ormai ci ha abituato a prodotti normativi assolutamente scadenti e certamente non caratterizzati da chiarezza di idee. C’è, in materia di prededuzione, soprattutto un punto che mi parrebbe meritevole di particolare approfondimento, ad evitare che si consolidino gli equivoci o i fraintendimenti di cui parlavo prima. Secondo un certo orientamento, che collima con una possibile lettura della normativa del 2010, la prededuzione oggi dovrebbe significare, o potrebbe essere intesa come, l’attribuzione di una sorta di “privilegio generale” a certi crediti. La prededuzione sarebbe, cioè, un connotato di questi particolari crediti sempre, comunque e dovunque: negli accordi di ristrutturazione, nel concordato preventivo, nel fallimento. Anche nell’ipotesi di successione di questi procedimenti o procedure – accordi, concordato e fallimento – rimarrebbe sempre questo connotato della prededuzione. E il fatto che il legislatore abbia previsto una specie di “attestazione” della prededucibilità da parte del provvedimento del giudice che omologa l’accordo o il concordato sembrerebbe confermare questa linea ricostruttiva. Tale linea, però, è, a mio avviso, da respingere recisamente, per il semplice motivo che nelle norme che stiamo considerando la prededucibilità è attribuita a certi crediti espressamente ai sensi e per gli effetti dell’art. 111 l.fall.: questo significa che la prededucibilità così attribuita è destinata ad operare esclusivamente nell’ambito del fallimento eventualmente dichiarato in un momento successivo all’omologazione degli accordi o del concordato preventivo. I crediti di cui stiamo parlando, quindi, non nascono come prededucibili, bensì diventano prededucibili nel momento in cui dovesse scattare il fallimento. Prima e fuori del fallimento la prededucibilità non rileva e non opera. D’altra parte, prededucibilità significa priorità in sede di distribuzione dell’attivo. E distribuzione dell’attivo, in senso proprio, si ha solo nel fallimento, non anche nel concordato preventivo (salvo che nell’ipotesi di concordato con cessione dei beni) e men che meno negli accordi di ristrutturazione. L’idea che possa aversi prededucibilità nell’ambito di questi ultimi mi pare assolutamente improponibile. Tema dunque, il nostro, complesso e irto di difficoltà. Un tema che diventa addirittura “intrigante” con riferimento all’ipotesi in cui prededuzione e postergazione vengano ad incontrarsi: mi riferisco al trattamento fatto, sempre dalla normativa del 2010, ai crediti dei soci per finanziamenti, un trattamento caratterizzato dalla singolare coesistenza, rispetto ad uno stesso credito, di entrambi i meccanismi, che ha obbligato ed
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obbliga gli interpreti a quelle che io definirei autentiche “acrobazie” ricostruttive. Mi avvio alla conclusione. Alla luce di quanto ho fin qui detto, mi pare pressante l’esigenza di arrivare ad una piena comprensione, oltre che del modo in cui prededuzione e subordinazione possano concretamente funzionare nel sistema delineato dalla legge, delle stesse linee di fondo di questi meccanismi. E l’incontro di oggi dovrebbe avere la funzione proprio di contribuire a questa comprensione. Naturalmente, non ci si può attendere da un convegno, da un incontro di studi, la soluzione finale di tutti i problemi ed il definitivo dissolvimento di ogni dubbio. Però mi pare importante che ci si avvii almeno sulla strada di un processo di chiarimento che si confida potrà snodarsi attraverso ulteriori riflessioni ed approfondimenti. Su questa fiducia chiudo il mio intervento e passo senz’altro la parola al primo dei relatori.
I finanziamenti bancari alle imprese in crisi: tipologie Salvatore Maccarone Il manifestarsi ed il persistere della grave crisi che ha colpito le economie occidentali – essendo state sostanzialmente poco interessate quelle dei cosiddetti paesi emergenti, ormai decisamente emersi, anche con nuovi protagonisti, nello scenario economico mondiale – ha reso acuto il tema del sostegno delle imprese durante la crisi, nella prospettiva, o talvolta soltanto nella speranza, del loro risanamento. Le condizioni normative tradizionali non consentivano alcuna reale possibilità di sostegno finanziario, se non nel corso delle procedure concorsuali tipiche e anche in queste con non poche incertezze. Si rendeva necessario allora un intervento normativo che creasse le condizioni possibili perché quel sostegno si potesse realizzare ed il nostro legislatore, anche sulla base dell’esperienza (e forse anche dell’emulazione) del ben noto Chapter 11 del USA Bankrupticy Act, è intervenuto in più occasioni, modificando profondamente il diritto fallimentare “comune”, da ultimo con l’art. 48 della legge n. 122 del 2010, creando probabilmente – l’interrogativo è d’obbligo in quanto incertezze interpretative, di cui altri relatori si occuperanno, ancora residuano nonostante questo ultimo intervento – le condizioni perché le imprese in crisi riescano ad ottenere la “nuova finanza”, indispensabile per il loro risanamento.
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Le nuove disposizioni sono dirette a superare importanti punti critici che la riforma lasciava aperti e che la dottrina, ma soprattutto le banche, avevano puntualmente rilevato, sia sul piano della possibile responsabilità penale, sia della insufficiente tutela apprestata ai potenziali finanziatori nel momento più critico dell’iter di risanamento, compreso fra il momento di manifestazione della crisi e quello della formalizzazione degli accordi di ristrutturazione o la presentazione dell’istanza di ammissione al concordato preventivo. Il rischio per i finanziatori in questa fase nel sistema previgente non era tollerabile nell’incertezza dell’esito delle trattative, soprattutto tenendo conto che essi – immancabilmente – già vantano crediti nei confronti dell’impresa e non sono disponibili ad accrescere ulteriormente la loro esposizione con nuovi finanziamenti senza una tutela adeguata, almeno di questi. Le modifiche apportate alla l. fall. dalla l. n. 122 del 2010, hanno in larga parte attenuato, anche se non del tutto eliminato (ma d’altronde questo non era oggettivamente possibile), il rischio legato ai cosiddetti “finanziamenti ponte”, eliminando i rischi penali ed introducendo, come sappiamo, un regime di prededucibilità dei finanziamenti alle imprese che accedano alla procedura di concordato preventivo e agli accordi di ristrutturazione disciplinati dall’art. 182-bis della l.fall. Immutata è rimasta invece, sotto questo profilo, la disciplina dei finanziamenti connessi ai piani di risanamento ai sensi dell’art. 67, lett. d). Non intendo occuparmi di questi temi, dovendo occuparmi di quello che mi è stato assegnato, e cioè la tipologia degli interventi creditizi, e che, avverto subito, è un non tema, nel senso che non esistono tipologie particolari di finanziamento bancario delle imprese in crisi. Le banche erogano credito ad esse – quando lo fanno – esattamente nelle stesse forme utilizzate per l’affidamento di imprese nella loro vita normale o anche in difficoltà, ma al di fuori dei meccanismi che la le nuove norme del diritto fallimentare oggi prevedono e presidiano. Esse quindi, alle une e alle altre, possono concedere stralci o remissioni parziali in occasione di piani di consolidamento e di ristrutturazione del credito, tramutare talvolta i loro crediti in partecipazioni (ma solo in caso di società quotate, per l’ovvia necessità di un mercato in funzione della successiva cessione), erogare nuova finanza per esigenze di liquidità, normalmente attraverso operazioni autoliquidantesi (sconti, anticipi s.b.f. su fatture, ricevute e simili), ma anche attraverso aperture di credito, o per esigenze di investimento … Come vedremo, non sono le forme tecniche del credito che caratterizzano questa fase dell’intervento delle banche, ma piuttosto l’ambiente complessivo, normativo e di fatto, nel quale esso si realizza.
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Vi è tuttavia un profilo, attinente alla tipologia delle operazioni che assume rilevanza a livello normativo e che quindi occorre affrontare sia pure fugacemente, in quanto esso incide sui temi di cui sono stato richiesto di occuparmi. Mi riferisco all’art. 182-quater, che, al primo comma, prevede, come noto, la prededuzione ex art. 111 dei crediti derivanti da “finanziamenti in qualsiasi forma” effettuati da banche e intermediari di cui agli artt. 106 e 107 t.u.b., in esecuzione di concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione omologato e, al secondo comma, prevede la prededucibilità dei “finanziamenti” effettuati in previsione del concordato o dell’accordo, a condizione che la prededuzione sia disposta dal provvedimento di omologa della domanda ovvero l’accordo sia omologato. Si tratta dunque, al secondo comma, dei “finanziamenti ponte”, che rappresentano oggettivamente la parte più delicata e sensibile dei processi di ristrutturazione. Non entro nel merito della disciplina fallimentare e delle ragioni che sono (a torto o a ragione) alla base del diverso regime della prededucibilità: altri se ne occuperanno; mi pare invece necessario soffermarsi sulla portata del termine “finanziamento” usato dalla disposizione, con la qualificazione “in qualsiasi forma effettuati” nel primo comma e senza alcuna qualificazione nel secondo. Ad avviso di qualcuno, la diversa formulazione utilizzata comporterebbe una diversità di trattamento – a parte i profili di procedimento – in funzione della forma tecnica del finanziamento, che potrebbe essere la più varia nel primo caso e limitata soltanto al mutuo, nel secondo. In altri termini, il finanziamento, senza ulteriore qualificazione, potrebbe essere soltanto un mutuo o un contratto di credito con erogazione contestuale e completa. Si tratta di un’interpretazione solo formalistica e, a mio avviso, del tutto errata, anche se effettivamente (e anche questa volta) il nostro legislatore avrebbe potuto confezionare un po’ meglio i suoi prodotti. Anzitutto, il termine finanziamento esprime non una nozione giuridica, ma una nozione economica, che, per manifestarsi, ha bisogno di un veicolo contrattuale, che consenta di realizzare la funzione che quella nozione esprime. Non si capisce allora perché soltanto il mutuo dovrebbe essere un finanziamento e non invece un’apertura di credito in conto corrente, o uno sconto di effetti o un’anticipazione, una prestazione di una garanzia a valere su un affidamento per crediti di firma e così via.
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Il mutuo, nella genericità del suo schema, è il prototipo di tutti i contratti di credito, che ne ripetono la sostanza funzionale e se ne differenziano soltanto per le modalità tecniche con cui essa è soddisfatta. Oltre tutto, trattandosi di finanziamenti ponte, essi si collocano in una fase critica e incerta del processo di ristrutturazione e di crisi, fase che presenta esigenze composite sul piano creditizio e che è destinata a durare un tempo non breve: sarebbe davvero singolare per l’impresa e le banche, se esse, proprio in questo momento, fossero vincolate dalla possibilità di concedere e ricevere credito soltanto nella sua forma più elementare. Torniamo comunque al nostro tema ed alla cornice alla quale prima facevo riferimento. La banche intervengono nella situazione di crisi delle imprese soltanto se sono già impegnate con esse in affidamenti; l’ingresso di nuove banche è praticamente assente. Normalmente, fra le banche che intervengono si concludono convenzioni per regolare i rapporti fra di loro, di solito senza che alcuna di esse – come invece accadeva in passato – assuma il ruolo di capofila, ruolo che l’esperienza ha dimostrato essere fonte soltanto di responsabilità, senza alcun particolare vantaggio. Le posizioni delle banche finanziatrici sono dunque individuali e ciascuna matura diritti e obblighi in proprio, senza alcun vincolo di solidarietà fra di loro, ancorché la loro disciplina sia contenuta, come dirò fra un attimo, in una convenzione conclusa con l’impresa ed alla quale tutte esse partecipano. La valutazione del piano di ristrutturazione – che è alla base degli interventi – è, di conseguenza, compiuta individualmente dalle singole banche che intervengono e poi ricondotto, auspicabilmente, ad unità di condivisione in sede collettiva. Normalmente, le banche, ove ad esse siano richiesti interventi addizionali, spesso li condizionano all’assunzione di impegni di capitalizzazione da parte della proprietà, come peraltro capita anche nella vita ordinaria delle aziende, in presenza di nuove iniziative. Altro presidio che di solito viene richiesto nell’ambito degli accordi è quello consistente nella introduzione nelle aziende di figure professionali esterne gradite alle banche, con il compito principale di gestione della liquidità e nell’assunzione dei servizi di società specializzate, che dall’esterno controllano le uscite, per accertarne la coerenza con il piano e i programmi di ristrutturazione. Attuazione del piano ed intervento finanziario comunicano fra di loro, in sostanza e come deve essere, in parallelo.
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Questi interventi riposano, come dicevo, su una convenzione tra le varie banche che intervengono nel sostegno e l’impresa che ne è destinataria, avente ad oggetto la disciplina degli interventi creditizi, le modalità di utilizzo, lo scambio di comunicazioni e informazioni relative all’adempimento degli obblighi e delle attività concordate e quant’altro necessario per l’attuazione corretta e controllata degli interventi che sono disposti. Normalmente a questa convenzione interviene anche un terzo soggetto, rappresentato dal loan agent, che si pone come una sorta di interfaccia fiduciaria tra le banche e le aziende, con una pluralità di compiti, prevalentemente di tipo amministrativo, ma essenziali per il monitoraggio della corretta esecuzione degli accordi. Il loan agent, in particolare, ponendosi nel mezzo tra azienda e banche, cura la verifica e la comunicazione dell’avveramento delle condizioni concordate per l’utilizzo dei fidi, può farsi portatore delle stesse richieste di utilizzo, comunicando l’importo e la quota a ciascuna banca, raccoglie le quietanze dell’azienda a fronte degli utilizzi e funge anche da tramite di comunicazione delle banche fra di loro, può ricevere pagamenti, ed in tal caso ha l’obbligo, di renderli disponibili nelle quote previste tra le varie parti, potrà di propria iniziativa ricevere ed imputare i pagamenti ricevuti dall’impresa beneficiaria e compiere altre attività di natura amministrativa. L’agent assume la veste di mandatario, abilitato al suo ruolo da un fascio di mandati individuali – e dunque non da un mandato collettivo (art. 1726, cod. civ.) – espressamente dichiarati irrevocabili (art. 1723 cod. civ.), ma esso è pattiziamente autorizzato a seguire le istruzioni impartite anche solo dalla maggioranza delle banche mandatarie, delle quali, così come dell’impresa, esso va, a mio avviso, riconosciuto come mandatario in rem propriam. Si tratta di una figura importante e caratteristica di queste operazioni, che crea “distanza” fra banche e imprese beneficiarie, contribuisce a rendere oggettivi, e dunque meno contestabili, adempimenti e fatti, assicura ordine nelle fasi complesse e spesso concitate di queste procedure. Vi è poi un disciplinare, assai rilevante per completezza ed autorevolezza, per il finanziamento alle imprese in crisi. Mi riferisco alle “Linee – guida per il finanziamento alle imprese in crisi”, elaborato da un Gruppo di Ricerca multidisciplinare, costituito presso l’Università di Firenze e coordinato da Fabrizio Cafaggi. La prima edizione delle Linee, pubblicata lo scorso anno, ma prima dell’entrata in vigore della l. 122, e fatta propria dall’Assonime, che la rende dispo-
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nibile nel proprio sito, ha in breve tempo assunto il ruolo di modello di riferimento, sia per le imprese che per le banche. Le Linee sono suddivise in due sezioni, la prima relativa al finanziamento alle imprese in crisi, ma non in procedura, la seconda alle imprese in procedura; il contenuto si articola attraverso una serie di raccomandazioni, nel primo caso, e la segnalazione di opportunità nel secondo, sulla scia di un Codice di comportamento che nel 2000 l’ABI aveva elaborato, ma che nel contesto normativo di allora si era rivelato di scarsissima utilità pratica. A queste Linee, imprese e banche fanno riferimento ed esse sono oggettivamente utili, in quanto definiscono regole, anche di procedimento e di natura deontologica, per le varie fasi degli interventi, dalla redazione del piano, alla sua attestazione, al ruolo del professionista chiamato a renderla, e così via, favorendo una standardizzazione dei processi, che, come viene sottolineato, è un valore in sé, in quanto agevola l’analisi e il sindacato da parte dei terzi interessati e, in caso di insuccesso del piano, da parte del giudice. L’analisi giuridica è accurata e le soluzioni prospettate equilibrate e ragionevoli e anche questo fa delle Linee uno strumento non solo pregevole per qualità, ma anche di notevole utilità sul piano pratico, delineando, nell’ambito delle “opportunità” della sua seconda parte, alcuni scenari oggettivamente non ipotizzabili prima della (prima) riforma del diritto concorsuale. Vorrei chiudere queste brevi considerazioni introduttive con un paradosso, o meglio con quello che fino a qualche anno fa poteva essere considerato tale, ma che ora certamente tale non è (più). Mi riferisco agli interventi delle banche a favore di altre imprese bancarie in crisi. È un tema notevole, soprattutto nel comparto delle piccole banche, che trova il suo svolgimento all’interno dei fondi di garanzia dei depositanti, come noto, in numero di due nel nostro sistema, uno generale per tutte le banche, tranne le banche di credito cooperativo, ed un secondo che raccoglie soltanto queste ultime e che dal nostro punto di vista è quello di maggiore interesse. Come sappiamo, lo scopo dei fondi di garanzia e il rimborso dei depositanti nel caso di insolvenza della banca depositaria; tuttavia, sia l’uno che l’altro, consentono interventi diversi, in grado di produrre lo stesso risultato di protezione dei depositanti, se essi, prognosticamente, appaiono meno onerosi del rimborso. Il rimborso è anzi l’ultima e più rara istanza, in quanto siffatti interventi diversi consentono di salvaguardare e conservare l’azienda e
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quindi di tutelare non solo i depositanti, ma tutti i creditori; sotto questo profilo, i due fondi differiscono, in quanto quello generale consente gli interventi sostitutivi del rimborso soltanto se sono in corso procedure di amministrazione straordinaria o di liquidazione coatta, mentre quello delle banche di credito cooperativo consente interventi preventivi di sostegno, anche in assenza di procedura, ma anzi allo scopo di prevenirne l’avvio. Questi interventi procedono secondo la stessa logica degli interventi alle imprese comuni; la banca che richiede l’intervento procede alla elaborazione di un piano, ne fa attestare l’adeguatezza dalla Federazione locale di appartenenza ed il Fondo, se compie positivamente le sue valutazioni, interviene (con l’autorizzazione della Banca d’Italia) con gli strumenti più adatti alla situazione. Potrà trattarsi di contributi a fondo perduto, di prestiti subordinati, della prestazione di garanzie, di acquisti di cespiti o, come avvenne in passato per una banca, anche della sottoscrizione di un aumento di capitale, purché sia rispettato la condizione che l’onere attuale deve verosimilmente essere inferiore a quello che il Fondo sosterrebbe se rimborsasse i depositanti nella misura prevista. In questi casi le tipologie di intervento sono dunque le più varie, sia nella forma tecnica, sia nelle condizioni, che spesso implicano il tutoraggio di altre banche e la richiesta di incisive modificazioni nell’assetto di governo, organizzativo e di direzione della banca beneficiaria. L’esperienza è largamente positiva, ancorché i costi per il sistema delle banche di credito cooperativo siano molto elevati. Anche se il risanamento non è possibile o non si realizza e la banca viene posta in liquidazione coatta, vi è ancora la possibilità di una salvaguardia dell’azienda e dei suoi creditori, attraverso l’intervento nella cessione delle attività e passività ad un’altra banca, sempre se l’entità dello sbilancio è inferiore al costo del rimborso dei depositanti. In questo caso si pone un interrogativo non facile da sciogliere: lo sbilancio di cessione rappresenta un credito della banca cessionaria nei confronti della procedura e di esso si fa carico il Fondo, che si surroga così nel credito. Il credito nasce nei confronti della procedura e non della banca; si tratta allora di un credito verso la massa o di un credito concorsuale, come sarebbe quello del Fondo se esso avesse pagato i depositanti? Se una differenza di rango dei due crediti esiste, è essa ragionevole? L’interrogativo non rappresenta un esercizio teorico, ma ha importanti implicazioni concrete. Ne lascio la soluzione ai fallimentaristi.
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La prededuzione dei crediti: notazioni generali Stefania Pacchi 1. Parlare oggi della prededuzione dopo che la Riforma fallimentare del 2006 (con il d.lgs. 5/2006) è intervenuta a disciplinare la c.d. fattispecie prededuttiva negli artt. 111 e 111-bis, e dopo che il recente intervento legislativo del 2010 (d.l. 78/2010 convertito nella l. 122/2010) ha aggiunto – sempre in tema di prededuzione – una nuova e ulteriore disposizione (art. 182-quater) nel corpo normativo dedicato al concordato e agli accordi di ristrutturazione, induce a un riesame della disposizione (art. 111) della legge del ’42 dedicata all’istituto nonché ad alcune riflessioni sull’evoluzione che, dagli anni Settanta in poi, ad opera della giurisprudenza e di parte della dottrina, aveva avuto la lettura di quella norma. Si è trattato di un’evoluzione legata intimamente al mutato approccio alle procedure concorsuali che si venne affermando a partire da quegli anni Settanta – e l’introduzione nel nostro ordinamento dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi ne è una conferma – per l’esigenza di apprestare soluzioni conservative che per la loro realizzazione esigevano il sostegno di finanziatori e fornitori che supportassero la continuazione dell’attività. In quel panorama legislativo, privo di esenzioni dalla revocatoria e di ripari dall’azione penale, l’art. 111 l.fall. poteva costituire l’unico, se pure incerto, puntello a difesa di coloro che fossero diventati creditori per e/o nella procedura sulla base di atti posti in essere o dai suoi Organi o dal debitore, limitato nei suoi poteri dispositivi e, così, necessariamente supportato, nel compimento degli atti di straordinaria amministrazione, dalle autorizzazioni del giudice. La prededuzione è un particolare regime di pagamento (circoscritto al fallimento), che la legge fallimentare, riconoscendo nella procedura maggiore un profilo di esecuzione, se pur universale, riprendeva dalla normativa civilistica racchiusa negli artt. 2755, 2770 e 2777 c.c. Già presente nel codice di commercio del 1882 all’art. 809 e quindi, mantenuta nelle successive leggi, deve inizialmente il suo nome al mondo delle professioni forensi. Così nominata compare per la prima volta nel d.lgs. 270/1999 (art. 20) 1 e poi, anche con norme (artt. 111
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L’articolo così recita: “I crediti sorti per la continuazione dell’esercizio dell’impresa e la gestione del patrimonio del debitore dopo la dichiarazione dello stato d’insolvenza
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e 111-bis) che intendono disciplinare e delimitare l’ambito applicativo, nel testo della legge fallimentare con la Riforma Organica del 2006 (d.lgs. 5/2006). Tale regime di pagamento consiste nel prelievo dall’attivo, prima di ogni altra operazione, delle somme necessarie al fine indicato dalla legge stessa. “Prededurre” è locuzione che deriva dalla combinazione di pre2 e dedurre 3 che significa sottrarre, defalcare. Se volessimo riunire i due significati otterremmo quello di “dedurre per primo”, il quale non corrisponde però al fenomeno recepito dal nostro ordinamento del ’42. In applicazione dell’art. 111, co. 1, n. 1 l.fall., infatti, non si defalca nulla dall’attivo destinato ai creditori concorrenti, non si tratta di una semplice decurtazione di una parte del tutto, ma di una depurazione del ricavato della liquidazione dalle spese ad essa inerenti, per destinare il ricavato netto ai creditori concorrenti. Trattasi di spettanze altrui che non vengono a falcidiare le aspettative del concorso, in quanto nate da operazioni strumentali per il raggiungimento del fine liquidatorio e quindi operanti una separazione sul patrimonio prima che questo sia ul-
sono soddisfatti in prededuzione, a norma dell’art. 111, primo comma, n.1), della l.fall.”. Si tratta di una prededuzione interna alla procedura di amministrazione straordinaria, atteso che l’art. 52 del medesimo d.lgs 270, stabilisce che tali crediti “sono soddisfatti in prededuzione a norma dell’art. 111, primo comma, n. 1), della legge fallimentare, anche nel fallimento successivo alla procedura di amministrazione straordinaria”. Un richiamo all’art. 111 l.fall. – senza tuttavia utilizzare il vocabolo “prededuzione” – è operato nell’art. 67, co. 2, dello stesso d.lgs. 270 che disciplina la ripartizione dell’attivo nel programma di cessione dei complessi aziendali. Questa normativa dell’amministrazione straordinaria – per molti aspetti fortemente innovativa – , nell’art. 68, co. 2, preannuncia, a mio avviso, un trattamento in prededuzione dei c.d. prestiti ponte dove stabilisce che “nella distribuzione degli acconti è data preferenza ai crediti dei lavoratori subordinati e ai crediti degli imprenditori per le vendite e somministrazioni di beni e per le prestazioni di servizi effettuate a favore dell’impresa insolvente nei sei mesi precedenti la dichiarazione dello stato d’insolvenza”. Da queste norme emerge che la lenta affermazione che una procedura concorsuale possa conciliare la tutela dei creditori con quello dell’azienda, o anche dell’impresa, ha condotto il legislatore a considerare la prededuzione come strumento di governo della crisi perfino in procedure nelle quali la voce dei creditori è fievole. Il problema di politica della crisi concernente la prededuzione può essere probabilmente diversamente impostato quando siano gli stessi titolari dei diritti sul patrimonio e sull’azienda a poterne disporre. Sul tema di quello che dovrebbe essere il ruolo dei creditori nel governo della crisi, cfr. Libonati, Prospettive di riforma sulla crisi dell’impresa, in Giur. Comm., 2001, I, p. 327 e ss. 2 Dal latino prae che indica per lo più anteriorità nel tempo o, più raramente, nello spazio. 3 Dal latino deducere.
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teriormente diviso tra i creditori concorrenti. Esse rappresentano l’onere economico necessario a costituire il ripartibile e devono essere poste su di un piano diverso rispetto a quelle dei creditori concorrenti, in quanto sarebbe iniquo ed inammissibile riconoscere lo stesso trattamento ai nuovi debiti assunti per soddisfare quelli anteriori. Il concetto di prededuzione si differenzia notevolmente da quello di prelazione. Quest’ultima, riconosciuta nel nostro ordinamento nelle forme del pegno, ipoteca o privilegio, prevede una causa di preferenza nel trattamento tra crediti posti sullo stesso piano nell’ambito della stessa procedura satisfattiva. La prededuzione non può essere considerata, invece, una sorta di superprivilegio, perché si tratta in realtà di un credito posto fuori concorso 4. A causa della prededuzione i creditori (anteriori) concorsuali (in teoria sia i chirografari che i privilegiati) vengono a subire la concorrenza di creditori (successivi) che hanno offerto “prestazioni” di varia natura e finalità nonostante il fallimento e perché il fallimento possa svolgere la propria funzione di strumento liquidativo satisfattivo. Per questo la norma è stata ritenuta “fondamentale per il processo di fallimento” 5. La legge del ’42 indica quali crediti saranno pagati al primo posto prima dei crediti concorsuali (quelli “ammessi con prelazione sulle cose vendute secondo l’ordine assegnato dalla legge” e i chirografari) ma non li definisce. L’art. 111 (richiamato dall’art. 212 in tema di liquidazione coatta amministrativa) stabilisce, infatti, che le somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo fallimentare devono essere impiegate: 1) innanzi tutto “per il pagamento delle spese, comprese le spese anticipate dall’erario, e dei debiti contratti per l’amministrazione del fallimento e per la continuazione dell’esercizio dell’impresa se questo è stato autorizzato” 6. Sulla base della previsione normativa, nel fallimento una particolare categoria di crediti viene sottratta alla legge del concorso per essere soddisfatta prioritariamente. Dal ricavato della liquidazione viene prelevata (prededotta)
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Secondo un’immagine di Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, III, Milano, 1974, p. 1658, si tratta “di altrettante linee di credito parallele, che costituiscono ciascuna una categoria a sé”. 5 Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2002, p. 516. 6 Sull’art. 111 della legge fallimentare del 1942, cfr. Montanari, Della ripartizione dell’attivo, in Le procedure concorsuali, a cura di Tedeschi, Torino, 1996; Lamanna, La ripartizione dell’attivo, in Diritto fallimentare, a cura di Greco, Milano, 1995, p. 345; Marinucci, I crediti prededucibili nel fallimento, Padova, 1998.
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la somma spettante ai c.d. “crediti prededucibili” prima di procedere al riparto che riguarda gli altri creditori. Nell’articolo sopra citato la categoria dei crediti “in prededuzione” è formata da spese e debiti sorti nella procedura e per la procedura, vale dire sulla base di atti posti in essere o autorizzati dagli organi della procedura e funzionalmente diretti a realizzare l’obiettivo del concorso come processo e/o come strumento per liquidare, ripartire e quindi soddisfare 7. Sono, quindi, espressamente indicate come spese della procedura quelle spese sostenute per proseguire l’esercizio dell’impresa, se autorizzato, ma vi rientrano, inoltre, il compenso del curatore e dei coadiutori, le somme anticipate dall’erario, i debiti assunti dal curatore in conseguenza del subingresso nei contratti pendenti, le spese per l’acquisizione di beni sopravvenuti o per la registrazione della sentenza di fallimento, quelle sostenute per l’apposizione dei sigilli, o quelle inerenti alla prosecuzione delle azioni immobiliari in corso. La norma, pur non esaurendo tutte le ipotesi, offre una “traccia” per determinare la prededucibilità di certi crediti. La categoria è eterogenea, potendovisi ricomprendere i debiti sorti in capo all’ufficio fallimentare per la gestione del patrimonio del fallito e, comunque, per causa del fallimento e che vengono impropriamente definiti come crediti verso la massa ed anche quelle spese (delle quali la legge prevede espressamente la prededucibilità) rispetto alla formazione delle quali l’ufficio fallimentare appare del tutto estraneo, e casi di debiti originariamente concorsuali, perché assunti dal fallito prima del fallimento, che si trasformano, una volta dichiarato il fallimento, in prededucibili in quanto diretti, non più a realizzare l’interesse del soggetto fallito bensì della massa dei creditori. È questo il caso dell’art. 74, co. 2, l.fall. (contratto di somministrazione) e dell’art. 82, co. 2 (contratto di assicurazione). A fianco di queste spese “per la procedura” si collocano quelle (innumerevoli)“per il processo di fallimento” che prendono le mosse dalle spese per il ricorso per la dichiarazione di fallimento e da quelle per resistere alle impugnazioni avverso la sentenza dichiarativa 8.
7 La ratio fondante di tale chiave di lettura ermeneutica della norma si basa sul principio di stabilità degli atti compiuti in corso di procedura, nel senso della tutela dell’affidamento dei terzi che instaurano rapporti giuridici con gli organi della procedura stessa (Trib. Bari, 17 maggio 2010, in Giur.merito, 2011, p. 1279, con nota contraria di D’Orazio, Nuovi orizzonti della prededuzione del professionista nel concordato preventivo). 8 Per una elencazione dettagliata si rinvia a Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, cit., p. 517 ss.
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Non si tratta di una mera preferenza nel soddisfacimento. Si tratta anzi di una preferenza assoluta, perché mentre i crediti privilegiati e i crediti chirografari vengono soddisfatti in occasione delle ripartizioni periodiche di cui all’art. 110 l.fall., le spese e i debiti di cui alla norma in oggetto debbono essere pagati, – con decreto del giudice delegato e non nei piani di riparto – via via che maturano per cui non sono soltanto anteposti agli altri, in quanto godono di un trattamento a sé per quanto attiene all’epoca del soddisfacimento. Inoltre anche quando le spese siano solo previste ma non ancora effettuate, devono essere riservate le somme necessarie (art. 110, co. 1 e 113 n. 4). La norma intende fornire alla procedura concorsuale, tenuto conto della complessità della liquidazione dell’attivo, la quale a sua volta suppone un’articolata attività di amministrazione, il credito necessario per il suo svolgimento e, nel contempo, assicurare l’integrale pagamento a chi ha reso possibile il protrarsi di certi rapporti e attività. Il processo di fallimento e l’attività processuale che al suo interno si può sviluppare, generano, infatti, costi, così come l’attività di amministrazione (sia statica che dinamica) del patrimonio. La causa dell’istituto è pertanto “quella di consentire l’amministrazione del fallimento, perché nessuno avrebbe prestato attività a favore della procedura se fosse stato costretto al concorso coi creditori del fallito e quindi a subire un pagamento falcidiato” 9. Le operazioni da cui nascono crediti da trattare con la prededuzione, debbono rientrare tra le fattispecie esemplificativamente elencate dalla norma ed essere preordinate, in quanto intraprese all’interno e in funzione di una procedura concorsuale liquidativo-satisfattiva, al miglior soddisfacimento possibile dei creditori. Ragione fondamentale e decisiva della prededucibilità è il collegamento di un determinato debito con una situazione che attiene all’essenza e alla finalità della procedura. Nella valutazione di convenienza dell’atto la spesa che andrà soddisfatta in prededuzione deve comunque assicurare una utilità diretta o indiretta ai creditori. Per questo la disposizione ammette la prededuzione soltanto a fronte di atti o attività sottoposte a severo controllo da parte degli organi della procedura (così è, in particolare, per l’esercizio dell’impresa). La norma di cui all’art. 111 l.fall. nella versione del ’42 considera le spese sostenute e i debiti assunti all’interno della procedura e precisamente del fallimento durante il cui svolgimento un rigoroso sistema di
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Bruschetta, La ripartizione dell’attivo, in Didone (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, 2010, p. 1257.
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controllo sull’operato del gestore assicura l’inerenza di tali spese al miglior soddisfacimento dei creditori. Di conseguenza i debiti precedenti assunti dal fallito, nel proprio interesse e per questo possibili oggetti dell’azione revocatoria, sono esclusi dalla previsione dell’art. 111 e dalla prededuzione. In quanto debiti precedenti fuoriescono dal fine che il legislatore persegue in quella norma. La disposizione presenta un indubbio carattere di eccezionalità là dove consente che sul patrimonio esclusivamente destinato, in seguito alla dichiarazione di fallimento, al concorso dei creditori anteriori, si soddisfino prioritariamente coloro che hanno ragioni di credito che traggono legittimamente origine dalla stessa procedura. In definitiva senza queste spese non potrebbe esservi una procedura concorsuale liquidativa-satisfattiva. 2. La lettera della norma inoltre non apre ad altra procedura 10. Quando nel 1942 il legislatore fallimentare scolpiva il principio della prededuzione nel n. 1 dell’art. 111, co. 1, non poteva certo intuire i problemi, non soltanto interpretativi, che la norma avrebbe nel tempo sollevato. Si trattava di una norma scarna, probabilmente in linea con la previsione, allora di contorno, di cui all’art. 90 l.fall. Come rare sarebbero state le fattispecie in cui in seno ad una procedura concorsuale sarebbe stato disposto l’esercizio provvisorio dell’impresa, parimenti circoscritte sarebbero state le somme prededucibili che non fossero ascrivibili alle spese e ai debiti contratti per l’amministrazione del fallimento. Eppure è stato proprio il collegamento tra esercizio provvisorio quale attività che nel fallimento origina debiti e prededuzione che ha aperto la strada – vigente la legge del ’42 – a tentativi di interpretazioni evolutive dell’art. 111, co. 1, n. 1. Nella legge del ’42 l’esercizio provvisorio dell’impresa, frutto grazie alla Riforma del 2006 di una interessante evoluzione legislativa 11, poteva essere, infatti, disposto immediatamente se dall’improvvisa interruzione potesse derivare “un danno grave e irreparabile” e in corso di procedura se funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. Questa formula, non seguita da un’indicazione chiara del referente, – se i creditori o l’impresa – lasciava, così, adito a dubbi.
10 In dottrina cfr. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, III, Milano, 1974, p. 1304; in giurisprudenza, cfr. Cass., 27 gennaio 1978, n. 395, in Giur.comm., 1980, II, p. 186. 11 Sul punto si rinvia a Ambrosini - Cavalli - Jorio, Il fallimento in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, Padova, 2009, p. 524.
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In una procedura liquidativa-satisfattiva orientata in via esclusiva alla tutela dei creditori si inseriva un “tarlo” che consentiva di tener conto nella lettura dell’art. 90 l.fall. di altri interessi a valenza collettivistica. Sulla base dell’art. 111 n. 1 l.fall. i crediti sorti nell’esercizio provvisorio dell’impresa, ancorché non finalizzato esclusivamente a garantire un miglior soddisfacimento dei creditori bensì a realizzare interessi facenti capo all’impresa, avrebbero gravato sull’ammontare complessivo destinato ai creditori concorsuali. La conseguenza fu che si cercò di “guadagnare” la prededuzione nel successivo fallimento anche per i debiti sorti nelle altre precedenti procedure concorsuali nelle quali si avesse per naturale legame (come nell’amministrazione controllata) o per decisione dell’imprenditore proponente (come nel concordato preventivo) la continuazione dell’attività d’impresa. La legge fallimentare del ’42, come è noto, non contiene una disposizione che regoli il trattamento dei rapporti nascenti in conseguenza della prosecuzione dell’attività d’impresa nelle procedure diverse dal fallimento e neppure in quell’unica procedura conservativa che è l’amministrazione controllata. A partire dagli anni ’70 – “l’uso alternativo delle procedure concorsuali” fa la sua parte – si avverte, così, l’esigenza di garantire, in qualche modo, nel caso in cui la procedura minore fosse sfociata nel fallimento, coloro che favoriscano la conclusione dell’accordo per un amministrazione controllata od un concordato preventivo supportando a vario titolo la gestione dell’impresa. Si discute, quindi, se tali debiti, contratti durante la procedura preventiva, siano prededucibili nel successivo fallimento così come ai sensi dell’art. 111, co. 1, n. 1 l.fall. vengono pagate in precedenza rispetto a tutti i creditori concorsuali “…le spese…e i debiti contratti …per la continuazione dell’esercizio dell’impresa”. Si verifica un primo strappo alla linearità dell’istituto quando, per rendere possibile la continuazione dell’impresa in amministrazione controllata, si afferma anche per questi debiti il pagamento in prededuzione. Se nel fallimento, infatti, la prededuzione nasce e si esaurisce dentro quella procedura, così non è quando si ragioni di procedure diverse, capaci anche di evolversi in negativo l’una seguendo all’altra. È questo il problema del “fardello” che ciascuna procedura reca nell’altra e inoltre dell’incidenza che l’intento risanatorio (non raggiunto) di una procedura può svolgere nella liquidazione-satisfattiva che alla fine dell’iter si impone. Emerge conseguentemente un forte antagonismo tra creditori concorsuali e creditori sorti in corso di procedura che vantano
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la prededuzione. A fronte di procedure conservative, che poggiano su un presupposto oggettivo diverso dallo stato d’insolvenza e che conseguentemente non determinano lo spossessamento del debitore, risulta comprensibile che si possa dubitare fortemente della legittimità della tesi che voglia sottoporre al regime dell’art. 111, co. 1, n. 1 l.fall., debiti sorti ad opera del debitore. La Cassazione, chiamata inizialmente ad occuparsi della sorte dei debiti sorti in amministrazione controllata, ha ritenuto che l’art. 111 in quanto norma eccezionale non possa essere applicato per analogia, ma che possa invece essere interpretato estensivamente. La Cassazione dalla identificazione della temporanea difficoltà con lo stato d’insolvenza, assimilando la compressione dei poteri del debitore in amministrazione controllata allo spossessamento fallimentare, giunge ad affermare che la titolarità delle obbligazioni contratte per gestire l’impresa sono riferibili esclusivamente all’ufficio giudiziario e che, conseguentemente, i crediti sorti nel corso della procedura di amministrazione controllata devono ricevere un trattamento differenziato rispetto a quelli anteriori, perché le relative obbligazioni sono state assunte per le finalità proprie della procedura, sulla base di atti strumentali, in quanto compiuti nel corso di una procedura cautelare, rispetto a quelli compiuti nel corso e per le finalità della procedura fallimentare. Il riconoscimento della prededuzione ai debiti sorti in amministrazione controllata “rispetta la causa del pagamento preferenziale”, ovverosia “la funzione di consentire l’amministrazione della procedura concorsuale minore”. Sono note le opposte soluzioni della Cassazione nel caso in cui si giunga al fallimento da un’amministrazione controllata o da un concordato preventivo 12. La giurisprudenza della Cassazione riconosce la prededucibilità, nell’ipotesi di consecuzione delle procedure, soltanto ai crediti derivanti dalla gestione dell’impresa in amministrazione controllata 13, (con
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Sull’argomento cfr. Bonfatti, Procedure concorsuali minori e prededuzione, in Giur.comm., 1986, I, p. 900. 13 La tesi dell’unitarietà delle procedure concorsuali – creata nel periodo di massimo vigore dell’azione revocatoria e in funzione della possibilità di retrodatare il periodo sospetto a partire dall’ammissione alla prima procedura concorsuale seguita dal fallimento – ha poggiato sull’assimilazione di temporanea difficoltà a stato d’insolvenza che consentiva di ritenere che l’amministrazione controllata ed il fallimento fossero da considerarsi come un’unica procedura. In tal senso, in giurisprudenza, cfr. Cass., 4 ottobre 1977, n. 4370, in Foro it., 1978, I, 411; Cass., 3 luglio 1979, n. 3731, in Giust.civ. Mass.,
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il limite però di non poter incidere sui creditori muniti di privilegio speciale); viceversa in relazione al concordato preventivo riconosce la prededucibilità soltanto all’onorario del commissario giudiziale mentre nega che siano prededucibili le spese di continuazione dell’impresa, ritenendo che il concordato, diversamente dall’amministrazione controllata, abbia finalità meramente liquidatorie. La giurisprudenza della S.C. ha confrontato le funzioni svolte da ciascuna procedura concorsuale soffermandosi in particolare sull’esercizio dell’impresa, che, indispensabile nell’amministrazione controllata, sarebbe invece estraneo alla funzione del concordato preventivo a meno che “non abbia costituito modalità essenziale, perché sia stata parte della proposta di concordato, sia stata oggetto dell’ammissione da parte del tribunale, nonché dell’approvazione da parte dei creditori e sia stata oggetto dell’omologazione finale” 14. Con quest’ultima affermazione la Cassazione sottolinea che surrettizie e non riuscite operazioni di salvataggio non possono essere invocate a posteriori per affermare la prededucibilità dei crediti sorti in conseguenza e che i progetti conservativi (sia che rientrino in un’amministrazione controllata che in un concordato preventivo) debbono essere esaminati dall’Autorità giudiziaria. Solo così potrà ammettersi – secondo l’impostazione della S.C. – la prededuzione. 3. Nella legge fallimentare del ’42 la regola della prededuzione nella distribuzione delle somme rappresenta l’eccezione così come in seno alle procedure concorsuali (fallimento e concordato preventivo), improntate normalmente alla liquidazione-satisfattiva (ed eccezionalmente a quella unitaria-conservativa) lo è la continuazione dell’esercizio dell’impresa. Le maglie dell’art. 111 comunque si allargano ad opera della giurisprudenza: la “prededuzione” da eccezionale regola di soddisfacimento circoscritta al fallimento diviene “una precisa fattispecie giuridica utilizzata a ricomprendere ogni eccezione alla regola generale del concorso di cui all’art. 52 l.fall.” 15.
1979; Cass., 18 gennaio 1979, in Giust.civ. Mass., 1979; Cass., 3 luglio 1980, n. 4217, in Giust.civ., 1980, I, p. 2444; Cass., 4 giugno 1980, n. 3636, in Giur.comm., 1982, II, 157; Cass., 17 giugno 1995, n. 6852, in Il fallimento, 1996, 46. 14 Così Cass., 5 agosto 1996, n. 7140, in Il fallimento, 1997, 272 con nota di Fabiani, Somministrazione e prededuzione chiusura con spiragli nel concordato preventivo. 15 Bruschetta, La ripartizione dell’attivo, in Didone (a cura di), Le riforme della legge fallimentare, I, Torino, 2010, p. 1258.
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Dobbiamo inoltre registrare che in quegli anni anche il legislatore si avvale dello strumento della prededuzione per rendere possibile la continuazione dell’esercizio dell’impresa in procedure “votate” a tale precipuo compito. Mi riferisco al d.l. n. 414 del 1981, conv. nella l. n. 544 del 1981, per l’indennità di anzianità dovuta ai dipendenti dell’impresa in amministrazione straordinaria di cui alla l. 95 del 1979; e al d.l. n. 185 del 1982 conv. nella l. n. 381 del 1982, per i debiti derivanti da rapporti di lavoro subordinato o nei confronti di soggetti stranieri le cui azioni cautelari o esecutive avessero ostacolato la continuazione dell’esercizio dell’impresa armatoriale; e alla l. n. 546 del 1983, per i debiti contratti per l’acquisto di materia prima. Come ho già ricordato vi è poi un ulteriore “affondo” nel riconoscimento della prededuzione come strumento di gestione della crisi da parte del d.lgs. 270 del 1999 là dove dispone che i crediti sorti per la continuazione dell’esercizio dell’impresa e la gestione del patrimonio del debitore durante la amministrazione straordinaria siano soddisfatti in prededuzione anche nel fallimento successivo. 4. La riforma fallimentare del 2005-2010 segna il passaggio da un sistema dove la liquidazione parcellare costituiva la normalità e la conservazione dei valori l’eccezionalità ad uno nel quale l’imprenditore ha a disposizione un ventaglio di possibilità per contrattare la soluzione della crisi 16. Perfino “il fallimento non è più solo una procedura esecutiva ma è anche un modo di regolazione del dissesto“ 17. Il legislatore ha inteso incrementare il ricorso agli strumenti concorsuali preventivi incentivando la collaborazione tra i creditori già esistenti al momento dell’emersione della crisi e quelli potenziali (“necessari”) da una parte, con l’esenzione dalla revocatoria e dalla normativa di cui agli artt. 216, co. 3 e 217, e dall’altro con la prededuzione. Questo rinnovato ordinamento concorsuale è stato però scritto con mano non ferma. La tutela dei diritti dei creditori viene, infatti, stemperata dall’attesa, densa di implicazioni socio-economiche, di una strategia di
16 “La riforma dell’art. 111 l.fall. si é, per altro, resa necessaria, come già correttamente ritenuto in giurisprudenza, nell’ottica di un concordato preventivo oggi non più esclusivamente liquidatorio, ma che può comportare la prosecuzione della attività di impresa e l’accesso a nuove linee di credito” (Trib. Bari, 17 maggio 2010, cit.). 17 Fabiani, L’ulteriore up-grade degli accordi di ristrutturazione e l’incentivo ai finanziamenti nelle soluzioni concordate, in Il fallimento, 2010, p. 899.
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salvaguardia dei valori che, nonostante la crisi, permangano nell’impresa e/o nel complesso aziendale. Il nostro legislatore, però, ha enunciato espressamente questo principio soltanto nell’art. 1 del d.lgs. 270/1999 (“L’amministrazione straordinaria è la procedura concorsuale della grande impresa commerciale insolvente, con finalità conservative del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali”). Nelle recenti norme introdotte con le riforme del 2005-2006-20072010, dedicate alla regolamentazione della crisi dell’impresa di dimensione “normale”, non è stata, invece, tradotta in un principio chiaramente enunciato “la nuova prospettiva di recupero delle capacità produttive dell’impresa” nonostante questa “meta” sia incisivamente affermata nella Relazione di accompagnamento fin dall’esordio 18. Ma c’è di più perché il nostro legislatore neppure definisce gli strumenti concorsuali (siano essi procedure o contratti) né attribuisce loro un obiettivo. Nel nostro ordinamento l’obiettivo, da perseguire in via prioritaria, di recuperare almeno i residui valori dell’attività quando non sia possibile praticare la sua conservazione fa capolino soltanto dietro le quinte, come quando la nostra legge detta una sintetica disposizione per porre al riparo dalla revocatoria il piano attestato redatto unilateralmente dall’imprenditore e “idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa” o quando suggerisce come possibile contenuto di una proposta concordataria le operazioni straordinarie, le attribuzioni
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Si legge nella Relazione: “(…) muovendo dall’attuale sistema normativo concorsuale, qualsiasi tentativo di riforma della materia non soltanto deve risultare compatibile con la legislazione europea, ma deve anche ispirarsi ad una nuova prospettiva di recupero delle capacità produttive dell’impresa, nelle quali non è più individuabile un esclusivo interesse dell’imprenditore, secondo la ristretta concezione del legislatore del ’42, ma confluiscono interessi economici e sociali più ampi, che privilegiano il ricorso alla via del risanamento e del superamento della crisi aziendale.(…) Con la conferita delega, il legislatore ha inteso allinearsi agli altri Stati membri dell’Unione Europea ed introdurre una nuova disciplina concorsuale per la regolamentazione dell’insolvenza che semplifichi le procedure attualmente esistenti e sopperisca in modo agile e spedito alla conservazione dell’impresa e alla tutela dei creditori. Tale finalità è stata realizzata mediante un duplice intervento posto in essere dal decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito dalla legge n. 80/2005. Esso, da un lato, ha modificato direttamente alcune disposizioni della legge fallimentare, in particolare l’articolo 67 in materia di revocatoria fallimentare e gli articoli 160, 161, 163, 167, 180, 181, in materia di concordato preventivo, introducendo altresì l’articolo 182-bis in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti; dall’altro, ha dettato al Governo i criteri e i principi direttivi per realizzare la riforma organica delle procedure concorsuali”.
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di partecipazioni ai creditori, la costituzione di newco, o come quando introduce nell’art. 124 la proposta di concordato fallimentare per mano di un creditore o di un terzo, certo finalizzata a rimettere in circolazione quel patrimonio che è l’azienda, tentando la conservazione degli assets. Accanto a questi accenni che aprono squarci di attenzione per l’impresa, abbiamo però la riaffermazione del soddisfacimento dei creditori (aggiunge il legislatore: attraverso la ristrutturazione dei debiti ed in qualsiasi forma, quasi a voler stemperare quell’obiettivo del soddisfacimento che altrimenti apparirebbe di granitica assolutezza) che, come sappiamo, condiziona ragionamenti, soluzioni e pronunce. Rispetto al nostro ordinamento della crisi riformato quando le difficoltà dell’economia erano forse in agguato ma non potevano essere immaginate da nessuna sfera di cristallo nella dimensione che poi hanno assunto, viviamo nell’inespresso, lasciando all’interprete e all’operatore strade appena tracciate in punta di lapis. Tali incertezze pesano sulla lettura dell’attuale art. 111. La norma è uscita dalla riforma del 2006 prevedendo che le somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo devono essere in primo luogo impiegate “per il pagamento dei crediti prededucibili” dei quali inserisce poi al secondo comma tre criteri identificativi della categoria: “sono considerati crediti prededucibili quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge e quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge; tali debiti sono soddisfatti con preferenza ai sensi del primo comma n. 1”. È assente qualsiasi elencazione, neppure esemplificativa, delle varie fattispecie, né viene disposto un iter valutativo. Il primo criterio che consente di definire il credito prededucibile quello così qualificato da una particolare disposizione di legge (rectius quello per il quale la legge prevede il trattamento risultante dal combinato disposto degli artt. 111 n. 1 e 111-bis) non desta problemi. Alcuni problemi emergono invece dalla restante parte della disposizione. Stante il dettato di tale disposizione, alla luce dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sui piani di risanamento e sugli accordi di ristrutturazione, dovremmo intanto escludere dal novero delle procedure concorsuali i suddetti strumenti negoziali (accordi e piani), facendovi rientrare esclusivamente il fallimento, la liquidazione coatta e il concordato preventivo. Se per i piani di risanamento ex art. 67, co. 3 lett. d), non pare che si possa ipotizzare per nessuna via l’applicazione dell’art. 111, viceversa per gli accordi di ristrutturazione può darsi che i nuovi commi di cui all’art. 182-bis, laddove prevedono la possibilità di accedere a trattative protette e la recente disposizione di cui all’art. 182
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quater, prevedendo la prededuzione anche per operazioni e prestazioni collegate ad un accordo di ristrutturazione, rimettano sul tappeto la questione 19 facendo leva sull’attuale accentuata procedimentalizzazione e concorsualità di tali strumenti. La disposizione (art. 111), recependo gli indirizzi giurisprudenziali, è comunque innovativa e più ampia 20 rispetto al passato là dove essa permette di soddisfare “in prededuzione nel fallimento i debiti sorti in occasione o in funzione del precedente concordato preventivo”. Occorrerà in questo caso che sia accertata la consecuzione tra c.p. e fallimento 21. Quando un credito può considerarsi sorto in occasione di una procedura concorsuale? È la procedura concorsuale a determinare la nascita del credito. Ma occorrerà che il credito sia sorto nel corso della procedura o è sufficiente che sia ricollegabile alla procedura? Nel primo caso sarebbero prededucibili solo i crediti sorti nella fase dall’ammissione all’omologazione escludendo quelli sorti prima dell’ammissione e quelli sorti dopo l’omologazione. In queste due fasi sarebbe assente il controllo degli organi 22. È come dire: perché un credito possa essere soddisfatto in prededuzione occorre che l’operazione che l’ha generato sia stata il frutto di una decisione degli organi e quindi che sia stata compiuta nel rispetto della normativa di cui al 167 l.fall.? Sarebbe questa una lettura di stampo “soggettivo” definendo credito sorto in occasione quello che è “genericamente riferibile all’attività degli organi della procedura”.
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Cfr. Fabiani, L’ulteriore up-grade degli accordi di ristrutturazione e l’incentivo ai finanziamenti nelle soluzioni concordate, in Il fallimento, 2010, 902. 20 Sul punto e sulla maggiore ampiezza dell’art. 111 rispetto all’art. 182-quater cfr. Nardecchia, Gli effetti del concordato preventivo sui creditori, Milano, 2011, 277; Ambrosini, Appunti flash sull’art. 182-quater della legge fallimentare, in www.ilcaso.it. 21 Secondo Cass., 6 agosto 2010, n. 18437: “Anche dopo la riforma del d.lgs. n. 5 del 2006, in caso di dichiarazione di fallimento che consegua alla previa ammissione del medesimo debitore alla procedura di concordato preventivo, si applica tuttora il principio di consecuzione delle due procedure, con conseguente retrodatazione alla domanda di ammissione al concordato del calcolo degli interessi e della data di opponibilità della compensazione, risultando lo stato di crisi accertato dal tribunale di natura irreversibile, dunque sostanzialmente identico al presupposto dell’insolvenza di cui all’art. 5 legge fall.”. 22 “Da tanto dedurre che la norma abbia voluto ritenere la prededucibilità del credito, che ha carattere eccezionale, anche per i debiti sorti prima dell’apertura della procedura concordataria, nati per la sola iniziativa dell’imprenditore senza alcun vaglio giurisidzionale e, in alcuni casi finalizzati proprio a pregiudicare le ragioni dei creditori anteriori, parrebbe obiettivamente eccessivo” (Trib. Bari, 17 maggio 2010, cit.).
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Parlare di procedura e di procedura concorsuale importa però anche la domanda circa la sua funzione, onde – se del caso – chiedersi se il credito, perché possa considerarsi sorto in occasione, debba essere anche “funzionalmente” orientato. Il discorso ruota attorno alla funzione della attuali, riscritte procedure concorsuali. Fallimento e concordato preventivo sono funzionalmente proiettate al soddisfacimento dei creditori. Ne discende che il pagamento delle spese e dei debiti, sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali, saranno soddisfatti in prededuzione quando ineriscano ad atti o attività utili al soddisfacimento dei creditori 23. Dovrebbero escludersi quindi dalla prededuzione quei debiti inerenti ad atti o attività utili esclusivamente al debitore o anteriori alla presentazione della domanda di concordato preventivo 24. In proposito si apre la questione inerente al credito del professionista 25. Può infatti essere eccepito per negare la prededuzione che le spese
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“L’uso del termine “in funzione” implica soltanto una finalizzazione, una coerenza tendenziale con gli interessi dei creditori sottesa alla procedura concorsuale, che il mero riferimento temporale (“durante”) non avrebbe assicurato”. (Trib. Bari, 17 maggio 2010, cit.). Secondo questa impostazione (seguita anche da Bruschetta, La ripartizione dell’attivo, cit., 1260 e, in giurisprudenza da Trib. Pordenone, 8 ottobre 2009, in www.unijuris.it) le due espressioni (“in occasione” e “in funzione”) sarebbero complementari e condurrebbero ad una interpretazione restrittiva della norma. In senso contrario perché le due espressioni non sarebbero l’una l’integrazione dell’altra, Calo’ - Virgintino, I crediti prededucibili, Caiafa (a cura di), Le procedure concorsuali, Padova, 2011, p. 1042 ss. Da quest’ultima lettura dell’art. 111 ne discende la possibilità di un’applicazione “a tutto campo” della prededuzione, senza una valutazione di utilità dei debiti contratti in procedura. 24 In tal senso cfr. la recente decisione di Trib. Varese, 11 aprile 2011, in www.ilcaso. it, che delimitando l’ambito applicativo dell’art. 111 l.fall. ha sottolineato che: “La prededucibilità di ragioni di credito sorte anteriormente alla presentazione della domanda di concordato può trovare giustificazione solo ed esclusivamente in speciali norme di legge che sono state introdotte, ad esempio, con l’art. 182 quater l.fall. proprio per affermare la prededucibilità di peculiari posizioni creditorie (in particolare, quelle relative a finanziamenti erogati in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo e, dunque, prima di essa) che, altrimenti, sarebbero state collocate in via concorsuale”. In tal senso anche D’Amora, La prededuzione fra presente e futuro. La prededuzione dopo l’art. 182-quater l.fall. Le mobili frontiere della prededuzione, in www.osservatorio-oci.org, 2010. La conformità ai principi regolatori della procedura cui ineriscono e la presenza delle previste autorizzazioni sarebbero una condizione invalicabile per affermare la prededucibilità dei crediti sorti durante la procedura, così anche Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 2008, p. 321. 25 Prima della riforma il problema era stato risolto dalla giurisprudenza nel senso che il credito professionale sorto per attività prestata per la presentazione della domanda
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di presentazione della domanda di concordato preventivo non trovino la causa nella necessità di consentire l’amministrazione della procedura, essendo utili al solo imprenditore che tenta per quella via di sottrarsi al fallimento. In una diversa visione potremmo però ribattere che la proposta di concordato preventivo, costituendo oggi questa procedura una modalità di soddisfacimento migliore del fallimento e rispondendo oggi alla tutela di interessi diversi (con ciò allora espandendo la funzione del concordato dal soddisfacimento dei creditori al perseguimento di istanze conservative di valori), non risponde solo all’interesse del debitore 26. Chi svaluta l’inquadramento funzionale sostiene che è sufficiente che l’atto da cui scaturisce il credito sia stato compiuto dagli organi nel rispetto della normativa prevista per la conduzione della procedura, “pur non essendo necessariamente strumentale all’interesse della generalità dei creditori” 27. L’occasione fa sì che quel credito altrimenti non sarebbe sorto perché non vi sarebbe stata necessità di quella certa prestazione (è come dire: a causa della procedura è sorto…). Quali sono i crediti sorti “in funzione”? Si tratterebbe dei crediti strumentali alle procedure, destinati a creare vantaggi alla massa dei creditori. Per i debiti sorti nel concordato preventivo la loro prededucibilità è legata al fatto che siano legittimamente sorti. Se di straordinaria amministrazione dovranno essere stati autorizzati e se di ordinaria dovrà verificarsi un’inerenza agli interessi dei creditori. Se questi saranno debiti
di concordato, in quanto debito contratto dallo stesso fallito prima della dichiarazione del fallimento e al di fuori del controllo degli organi della procedura, aveva natura non prededuttiva (cfr. in tal senso Cass. 9 settembre 2002, n. 13056, cit.; Cass. 14 luglio 1997, n. 6352, in Il fallimento, 1998, 177; Cass. 5 agosto 1996, n. 7140, in Rep. Foro it., 1996, Il fallimento, n. 547; Cass. 27 ottobre 1995, n. 11216, in Il fallimento, 1996, 529; Cass. 16 giugno 1994, n. 5821, ivi, 1995, 51; Cass. 5 maggio 1988, n. 3325, ivi, 1988, 967; Cass. 3 ottobre 1983, n. 5753, ivi, 1984, 691; nonché, fra i giudici di merito, Trib. Sulmona 23 ottobre 2003; Trib. Avezzano 5 aprile 2000, in Dir. fall., 2000, II, 410; Trib. Parma 17 marzo 1998, in Il fallimento, 1999, 201; Trib. Perugia 20 luglio 1993, ivi, 1994, 197; Trib. Vicenza 31 maggio 1993, ivi, 1994, 304; Trib. Napoli 6 aprile 1993, ivi, 1993, 1057; Trib. Velletri 11 gennaio 1993, ivi, 1993, 1151; App. Firenze 20 febbraio 1987, in Dir. fall., 1988, II, 462; Trib. Roma 4 novembre 1980, ivi, 1981, II, 181. 26 Trib. Udine, 15 ottobre 2008 e Trib. Milano, 20 agosto 2009 che ammettono la prededuzione del credito del professionista se il concordato preventivo è stato ammesso. 27 Silvestrini, Commento sub art. 111 in Nigro - Sandulli - Santoro (diretto da), La legge fallimentare dopo la riforma, t.II, Torino, 2010, p. 1555.
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inerenti all’esercizio dell’impresa occorrerà verificare una funzionalità di tale esercizio alla procedura. Dovrà pertanto essere verificata l’inerenza al piano dell’esercizio dell’impresa. Se si tratta di debiti non derivanti dall’esercizio dell’impresa dovrà essere verificata la funzionalità alla procedura, vale a dire all’interesse dei creditori. Che la prededucibilità sia legata al fatto che si tratti di crediti funzionali alla procedura porta a pensare che vi possano rientrare anche quelli sorti prima dell’apertura ma funzionali all’apertura della procedura, sempre che siano utili per i creditori (referenti delle procedure). Si potrebbe trattare dei debiti contratti “per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali e di concordato preventivo”. Nell’interpretazione proposta, che muove dalla convinzione che le attuali procedure e i nuovi strumenti (con una eccezione per il piano di cui all’art. 67, co. 3, lett. d nella cui disciplina il riferimento al risanamento è esplicito) continuino ad avere come unico esplicito referente l’interesse dei creditori, la valutazione di convenienza per i creditori dell’atto al quale potrebbe essere applicata la regola della prededuzione è sempre al centro. Non ritengo che il termine “in occasione”, in quanto riferimento temporale, possa importare uno sganciamento dall’interesse dei creditori, aprendo tale interpretazione la strada ad atti che potrebbero appesantire le ragioni dei creditori più della stessa crisi dell’impresa. Quello della prededuzione da escamotage legislativo per tutelare coloro che collaborano alla realizzazione della procedura concorsuale, può divenire strumento imprescindibile per consentire operazioni che importino conservazioni di valori attraverso il proseguimento dell’attività, ma non deve in nessun caso tradursi in una lesione degli interessi di coloro per i quali, ancor oggi, le procedure concorsuali vengono instaurate.
La prededuzione dei finanziamenti bancari nell’art. 182-quater l.fall. Giuseppe Terranova Vorrei innanzi tutto ringraziare gli organizzatori di questa giornata di studi – Lucia Calvosa e Alessandro Nigro – per il cortesissimo invito che mi hanno rivolto, e vorrei anche complimentarmi con loro, per la scelta della sede, così accogliente e raccolta, da prestarsi più ad un’attività seminariale tra amici e colleghi, com’è questa, che ad un convegno, nel senso tradizionale del termine. Detto questo, aggiungo subito, però, che dovrò deludere il professor Nigro, il quale si aspettava un contributo di
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chiarezza dal mio intervento: purtroppo, non posso accontentarlo, per il semplicissimo motivo che mi occuperò di un istituto – gli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis e 182-quater l.fall. – che è nato, ed ancora vive, in una situazione di profonda ambiguità. 1. Per chiarire il senso della mia affermazione, mi permetto di ricostruire, anche attingendo a qualche ricordo di carattere personale, la genesi normativa di questa procedura, che certamente costituisce una delle maggiori innovazioni della riforma. A) Nella “Commissione Trevisanato” si erano posti due problemi o, se si vuole, due obiettivi: a) innanzi tutto, fornire un “ombrello protettivo” – così si diceva allora – che ponesse al riparo dalle azioni revocatorie e dalle norme in tema di bancarotta certi accordi stragiudiziali, con i quali il debitore ed i suoi creditori avevano cercato di superare le difficoltà economiche e finanziarie dell’impresa; b) in secondo luogo, creare qualcosa di simile al prepackaged statunitense, che consentisse ai creditori di pilotare la crisi con un accordo preparatorio, sulla base del quale, dopo la dichiarazione d’insolvenza, si potesse cercare d’uscire subito dal fallimento, con una soluzione concordataria già bella e pronta. B) Gli obiettivi sono rimasti immutati nella riforma Vietti, solo che sono stati perseguiti in maniera molto disorganica, che ha portato, per un verso, ad una duplicazione di discipline; per altro verso, ad un mancato raccordo tra le norme esistenti. La duplicazione di discipline è evidente, se si mettono a confronto i “piani di risanamento” previsti dalla lettera d) del terzo comma dell’art. 67 l.fall. con gli “accordi di ristrutturazione” previsti dall’art. 182bis della stessa legge. Si badi: non sto dicendo che le due norme siano sovrapponibili, o che la disciplina complessiva risulti ridondante ed inutile. In fondo, la prima esenzione dalle revocatorie (quella contenuta nell’art. 67) si fonda sulla buona fede, in senso soggettivo, di chi ha ricevuto una certa attribuzione patrimoniale, facendo affidamento sulla presenza di un piano di risanamento attestato da un esperto; la seconda (il cit. art. 182-bis, in quanto richiamato dall’art. 67, co. 3, lett. e, l.fall.) si fonda, invece, sull’espletamento di una procedura, che porta alla omologazione dell’accordo. La prima offre il vantaggio della segretezza (o, quanto meno, della riservatezza) del piano, ma si espone all’alea connessa alla valutazione (postuma) di uno stato soggettivo, la cui sussistenza, con il senno del poi, potrebbe essere facilmente messa in dubbio, qualora dovesse sopravvenire il fallimento del debitore; la seconda è molto più macchinosa sul piano procedurale, ma crea affidamenti più forti e – si spera – non controvertibili. Resta il fatto, però, che
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gli obbiettivi dei due strumenti, che la riforma ha messo a disposizione dei creditori, sono sostanzialmente identici: scongiurare le revocatorie e le incriminazioni per bancarotta preferenziale. La mancanza di raccordo con altre innovazioni della legge fallimentare è più nascosta, ma non meno grave sul piano pratico. L’art. 124, comma primo, nel regolare la fase d’avvio del concordato fallimentare, ammette che, a certe condizioni, la proposta possa “essere presentata da uno o più creditori o da un terzo, anche prima del decreto che rende esecutivo lo stato passivo”, con una sostanziale recezione delle tecniche di superamento della crisi previste dalle varie leggi sulle amministrazioni straordinarie, a loro volta in qualche modo informate al già ricordato modello statunitense. Solo che la mancanza di una fase preparatoria, antecedente all’apertura del concorso, rischia di rendere lettera morta l’accennata previsione: sia perché è difficile organizzare il consenso, quando la crisi deflagra improvvisamente, con un effetto sorpresa, che destabilizza i rapporti tra le parti; sia perché è verosimile che proprio il curatore (se non vincolato da un preesistente accordo tra i creditori) “remi contro” ogni soluzione che alteri il consueto iter procedurale, per ragioni, che non è difficile intuire: innanzi tutto, la sua personale remunerazione, che s’accresce con il protrarsi della procedura; e poi l’oggettiva pericolosità di ogni tentativo di risanamento fatto al buio, che potrebbe comportate gravi responsabilità o, più spesso, un contenzioso con certi creditori insoddisfatti, insopportabilmente lungo e pieno di fastidi. Proprio per questi motivi, mentre erano in corso i lavori per l’emanazione del “Correttivo”, avevo inviato alla Commissione, incaricata di redigerlo, una lettera, nella quale spiegavo le ragioni delle mie perplessità, allegando una proposta per una nuova stesura dell’art. 182-bis, che collegasse quest’ultima disposizione al già citato primo comma dell’art. 124. Inutile dire che il mio tentativo è rimasto senza esito. 2. Dopo questa breve digressione introduttiva, è opportuno ritornare agli “accordi di ristrutturazione” ed alla recentissima novella, che li riguarda. Concordo con Stefania Pacchi e con Alessandro Nigro 1 che questi
1 Nel testo mi riferisco alle belle relazioni tenute dai due autori in questo stesso convegno, poco prima del mio intervento. V. anche S. Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, Milano, 2005, nonché Id., in E. Bertacchini ed Altri, Manuale di diritto fallimentare,
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accordi, almeno all’inizio (e cioè nella stesura del 2005), non potevano essere considerati alla stregua di una procedura concorsuale, in qualche modo assimilabile al concordato preventivo. È vero, infatti, che l’art. 182bis è contenuto nel Capo della legge fallimentare dedicato a quest’ultima forma di concordato; ed è vero che la presentazione dell’accordo presuppone il consenso dei creditori che detengano almeno il 60% dell’ammontare complessivo delle pretese nei confronti del debitore. Ma è anche vero: a) che il legislatore ha cercato in tutti i modi (anche sul piano terminologico e sistematico: per convincersene basta leggere l’epigrafe del capo, nel quale è contenuta la disciplina dei due istituti) di tenere distinte le due procedure; b) che, nella prima stesura delle norme, l’iniziativa del debitore non produceva alcun effetto sulle azioni conservative ed esecutive di carattere individuale, con la conseguenza di non sottoporre i creditori alla legge del concorso, in vista della tutela di un preminente interesse collettivo; c) che la percentuale, dianzi ricordata, costituisce (come ha detto benissimo Nigro) solo una soglia da raggiungere per avviare la procedura, non una maggioranza di voti, capace di vincolare anche i creditori rimasti estranei all’accordo. La situazione è cambiata, una prima volta, a seguito del “Correttivo” del 2007, il quale, al terzo coma dell’art. 182-bis, ha introdotto un divieto di “iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore” per tutti i sessanta giorni successivi alla pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese; e poi, una seconda volta, con la novella del 2010, che ha esteso il predetto divieto alla fase delle trattative (anche qui per un termine massimo di sessanta giorni), ed ha espressamente dichiarato “prededucibili” ai sensi dell’art. 111, l.fall., i crediti derivanti da certi finanziamenti effettuati “in esecuzione” o “in funzione” degli accordi di cui stiamo parlando. 3. Come inquadrare queste norme? E qual è, innanzi tutto, la loro portata, ai fini della qualificazione sistematica della procedura prevista dall’art. 182-bis, più volte citato? A mio sommesso avviso, la risposta a tali interrogativi deve essere bipartita: le norme aggiunte con il correttivo e con la novella del 2010 impongono, ormai, d’annoverare gli accordi di ristrutturazione tra le
Milano, Giuffré, 2007, p. 359 ss., 429 ss.; ed ivi Scarselli, Le sistemazioni stragiudiziali, a p. 467 ss.; Nigro - Vattermoli, Diritto della crisi dell’impresa. Le procedure concorsuali, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 379 ss.
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procedure concorsuali, ma non consentono di qualificarli come dei veri e propri concordati. Questa distinzione non deve meravigliare: come ho cercato di dimostrare in altri scritti 2, le procedure concorsuali non sono caratterizzare dal fatto che una pluralità di creditori “concorre” nella distribuzione di quanto si ricava dalla vendita coattiva dei beni del debitore (se così fosse, né i concordati, né le amministrazioni straordinarie, né le vecchie amministrazioni controllate avrebbero potuto essere annoverate tra le predette procedure), bensì dal fatto che le iniziative dei singoli creditori vengono impedite, o sospese, per un lasso di tempo più o meno lungo, al fine di favorire il perseguimento di un interesse collettivo, che poi può essere quello di liquidare in maniera ordinata i beni del debitore, o di trovare soluzioni alternative. Per illustrare questo profilo del nostro sistema di tutela dei diritti, nelle sedi già ricordate 3 ho sostenuto che la “concorsualità” consiste nel “regolare la corsa” dei creditori, affinché l’arbitrio del singolo non impedisca di realizzare l’interesse comune: consiste, cioè – come dicevo allora – nell’allineare tutti i concorrenti dietro un unico nastro di partenza, che impedisca ai più furbi, o ai più informati, di approfittare della confusione per avvantaggiarsi su chi è più indolente o, semplicemente, più corretto. Sotto questo profilo, pertanto, non vi può essere alcun dubbio che gli “accordi”, di cui stiamo parlando, sono diventati, ormai, delle vere e proprie procedure concorsuali. La risposta, invece, deve essere negativa, quando ci si chiede se ci troviamo di fronte ad un concordato. Al riguardo è decisivo il rilievo che la percentuale del sessanta per cento, come già si è detto, non costituisce una maggioranza, che vincola la minoranza, ma rappresenta una soglia da superare, per potersi avvalere dello strumento in esame. Qui non vi è una “votazione”: ma vi sono dei soggetti, che accettano delle proposte (talvolta di carattere individuale e, quindi, tendenzialmente l’una diversa dall’altra), in vista di vantaggi personali (un pagamento a stralcio, una garanzia, etc.) o collettivi (l’adempimento spontaneo delle residue pretese, reso possibile dalla riduzione dello indebitamento dell’impresa e dalla conseguente eliminazione dello stato d’insolvenza).
2 Terranova, Le procedure concorsuali. Problemi d’una riforma, Milano, Giuffrè, 2004, cap. V, p. 51 ss.; Id., Problemi di diritto concorsuale, Padova, Piccin, 2011, p. 105 ss., spec. p. 161 ss. 3 Terranova, Le procedure concorsuali, cit., cap. VI, p. 59 ss.
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4. Se quanto precede è vero, si deve ritenere che – a far data dal “Correttivo” del 2007 – gli accordi di ristrutturazione, pur non essendo dei veri e propri concordati, avrebbero dovuto essere annoverati tra le “procedure concorsuali”, con i benefici previsti (per quanto concerne la prededuzione dei crediti “sorti in occasione o in funzione” delle stesse) dall’art. 111 della legge fallimentare. Il legislatore della novella ha voluto chiarire 4 questo profilo della disciplina (e ciò è encomiabile), ma lo ha fatto con riferimento a dei rapporti per i quali era discutibile l’estensione del privilegio (e ciò è meno encomiabile), o per i quali il predetto privilegio doveva ritenersi categoricamente escluso, con la conseguenza d’aver inferto un vistoso vulnus ai principi del diritto dell’impresa. La prima critica si riferisce alla prededuzione concessa ai finanziamenti bancari; la seconda a quella accordata ai finanziamenti dei soci. Cerco di precisare meglio il mio pensiero. 5. Innanzi tutto, vorrei spiegare perché – se si fosse fatto riferimento alla situazione creata dal correttivo del 2007, prima che intervenisse la novella del 2010 – avrei avuto qualche difficoltà ad ammettere che la prededuzione prevista dall’art. 111, l.fall., potesse essere estesa ai finanziamenti erogati dalle banche (o da soggetti assimilati) per consentire l’attuazione del piano. È vero, infatti (lo si è detto poc’anzi), che l’art. 111 estende la prelazione a tutti i crediti sorti “in occasione o in funzione” della procedura. Ma la domanda è: i finanziamenti, di cui sopra, si pongono in un nesso di strumentalità rispetto alla procedura, o servono solo a rendere realizzabile l’accordo? In altri termini: il legislatore aveva sganciato, già nel 2007, la prededuzione da ogni connessione, diretta o indiretta, con l’attività degli organi giudiziari e dei loro ausiliari? O non si doveva ritenere, invece, che occorresse distinguere tra le spese necessarie alla presentazione della domanda ed allo svolgimento del giudizio d’omologazione (che sarebbero ammesse al privilegio), e le spese necessarie per l’esecuzione del piano? La risposta – prima della novella in esame – non era facile, e devo ammettere di nutrire ancora oggi qualche dubbio al riguardo (ma vedi infra, nel prossimo paragrafo, un argomento testuale a favore della tesi restrittiva). Contro un’illimitata estensione del privilegio militavano due
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L’espressione è utilizzata nel testo in senso atecnico: non intendo, infatti, sostenere che la novella del 2010 abbia valore “interpretativo”.
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argomenti: l’atteggiamento assai rigoroso tenuto, fino a pochi anni fa, dalla giurisprudenza in materia 5; la difficoltà di concepire, in questo campo, una prelazione avulsa da ogni forma di controllo di carattere pubblicistico. In fondo, non si può dimenticare che la prededuzione dipende dalla causa del credito; e che quest’ultima, a sua volta, si lega (o si legava) al carattere lato sensu autoritativo della decisione di chi effettua o autorizza una spesa nell’interesse della massa (la situazionelimite è costituita dall’esercizio provvisorio dell’impresa autorizzato dal tribunale). Del resto il sistema – almeno in teoria – avrebbe potuto reggere benissimo, anche senza le “provvidenze” del 2010. A ben guardare, infatti, i presupposti economici della procedura, nella maggior parte dei casi 6, sono i seguenti: che l’impresa presenti ancora delle prospettive di redditività futura, che facciano apparire conveniente cercare di salvarla; che sia possibile reperire i mezzi liquidi necessari per pagare almeno in parte i creditori e per effettuare gli investimenti già pianificati; che tali risorse possano essere trovate vendendo qualche cespite o qualche ramo dell’azienda, oppure attraverso l’offerta di garanzie supplementari su beni ancora liberi (o su beni di soci e familiari), per ottenere dei finanziamenti a più lungo termine. Molte di queste ultime operazioni (la vendita di beni, la concessione di pegni ed ipoteche su cespiti del debitore, l’estinzione di debiti a breve per convertirli in finanziamento di medio-lungo periodo, etc.), prima della riforma del 2005 non avrebbero potuto essere effettuate (se non nei ristretti limiti concessi dal credito fondiario), perché avrebbero esposto l’acquirente al rischio delle revocatorie (per non parlare dei già ricordati rischi penali). Le disposizioni contenute nelle lettere d) ed e) del terzo comma dell’art. 67 avevano la funzione di sbloccare queste si-
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Ve n’è ancora qualche traccia in Cass., 14 febbraio 2011, n. 3581, che esclude la prededuzione qualora il concordato non abbia finalità conservative dell’impresa; v. anche, sostanzialmente nello stesso senso, Cass., 18 giugno 2010, n. 14758; sul credito del professionista, che abbia elaborato la situazione patrimoniale economica e finanziaria della società ai fini della presentazione della domanda d’ammissione al concordato, cfr. Trib. Bari, 17 maggio 2010, in Giur. Merito, 2011, 5, p. 1301; v. anche Trib. Udine, 6 marzo 2010, in Il Caso.it, Sez. I - Giurisprudenza, doc. n. 2348/2010. 6 Forse è opportuno precisare che la procedura, a mio avviso, non deve avere necessariamente il fine di salvare un’azienda produttiva, perché potrebbe essere utilizzata anche per liquidarla; tuttavia è fisiologico che l’accordo (al pari, ed ancor più, delle varie forme di concordato) sia rivolto a superare certe tensioni, di carattere soprattutto finanziario, che rischiano di aggravare la crisi dell’impresa.
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tuazioni di squilibrio finanziario, che avrebbero rischiato – se non prese in tempo – di degenerare in una crisi economica e, poi, in un vero e proprio dissesto. La riforma Vietti, dunque, partiva dal presupposto che l’imprenditore fosse ancora in grado di reperire le risorse necessarie all’attuazione dell’accordo, senza alcun aiuto dall’esterno, se non i sacrifici chiesti ai creditori (ed eventualmente anche ai congiunti). In caso contrario, si sarebbe dovuti passare a rimedi più drastici e soggetti a controlli più penetranti. 6. La situazione è radicalmente cambiata con l’intervento normativo del 2010: il legislatore ha espressamente concesso la prededuzione a certi crediti, eliminando ogni residuo dubbio al riguardo. Sul piano giuridico la discussione tra gli specialisti si è limitata a pochi problemi di dettaglio, ai quali aggiungerei i seguenti rilievi. Innanzi tutto, mi pare ovvio che la norma giochi a favore della tesi secondo la quale, nel vigore del “Correttivo” del 2007, i finanziamenti volti a finanziare l’accordo non potevano essere assimilati ai crediti sorti “in occasione o in funzione” della procedura. Il testo della novella offre, al riguardo, un solidissimo argomento a contrario, perché, se il legislatore ha disposto che solo certi crediti godono del privilegio in parola, se ne deve dedurre: primo, che la prededuzione non sarebbe spettata ai finanziamenti in esame, qualora non fosse stata introdotta una norma ad hoc; secondo, che tutti gli altri finanziamenti sono soggetti ad un regime diverso, di carattere ordinario. Da ciò discende un’altra conseguenza, di carattere sistematico, e cioè che la norma deve essere interpretata in maniera restrittiva: non solo nel senso che la prededuzione, allo stato attuale delle cose, non può essere estesa (lo si è detto poc’anzi) ai finanziamenti erogati da soggetti diversi da quelli espressamente menzionati; ma anche nel senso che i predetti crediti debbono essere espressamente e specificamente individuati nell’accordo sottoposto ad omologa, senza alcuna possibilità di rinviare, in maniera generica, a tutte le esigenze finanziarie che si dovessero presentare nella fase esecutiva, per portare a buon fine l’operazione. La prededuzione è un istituto di carattere eccezionale; è un privilegio che può essere concesso solo per crediti (anche futuri, ma) individuabili sulla base di criteri certi e predeterminati, nonché di agevole e pronta verifica. Tutto ciò, però, solleva un interrogativo in merito alla legittimità costituzionale – pro parte qua – della novella. Il legislatore ha concesso il privilegio solo ad alcuni soggetti (le banche e gli intermediari finanziari iscritti negli elenchi previsti dagli articoli 106 e 107 del T.U. delle leggi in
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materia bancaria e creditizia), negandolo ad altri: viene da chiedersi, pertanto, se la norma possa reggere ad un sindacato di costituzionalità per contrasto con il principio d’uguaglianza. L’intenzione del legislatore – se la si interpreta in maniera benevola – era probabilmente quella di garantire certe caratteristiche d’onorabilità e di professionalità dei soggetti chiamati a finanziare l’accordo. Francamente non si vede, tuttavia, per quale motivo debbano essere esclusi i familiari del debitore, o i suoi creditori, che potrebbero nutrire interessi più che legittimi ad entrare nell’operazione. Da qui il dubbio che possa intervenire la Corte costituzionale, con il risultato (per me non molto rinfrancante: v. appresso) d’estendere il privilegio a tutti i finanziamenti, senza alcuna discriminazione. 7. Il giudizio cambia se, dal piano di un’analisi esegetica e sistematica dei dati normativi, si passa ad una valutazione della novella del 2010, in termini di politica del diritto. A prima vista potrebbe sembrare che il legislatore abbia finalmente mostrato una qualche attenzione per le nuove tecniche finanziarie, fornendo uno strumento aggiuntivo per il superamento della crisi, anche là dove il debitore non è in grado – come spesso accade – di fornire altre garanzie per reperire i fondi necessari per un parziale ripianamento del deficit ed il rilancio dell’azienda. Al riguardo, però, debbo confessare d’essere piuttosto scettico. La strada maestra per il risanamento di un’impresa è l’immissione di nuovo capitale di rischio: o da parte del vecchio imprenditore; o con la cooptazione di nuovi soci; oppure, attraverso operazioni straordinarie (fusioni, scorpori di rami d’azienda, scissioni, etc.) di vario genere. Naturalmente, ciò non esclude che si possa fare ricorso anche al capitale di credito. Ma – a parte il fatto che questo tipo d’interventi pone a carico dei futuri conti economici un costo aggiuntivo – dovrebbe essere il nuovo finanziatore a valutare (a proprio rischio) se l’impresa è ancora in grado di ritornare in utile. Un ulteriore allungamento della leva finanziaria, non fa altro che rendere l’azienda “risanata” una mina vagante sul mercato. 8. Mi si potrebbe obbiettare, però, che la novella, in definitiva, non ha fatto altro che offrire uno strumento in più per superare la crisi, senza intervenire sugli equilibri pregressi tra i creditori, giacché questi ultimi, o hanno partecipato al piano di ristrutturazione (e, quindi, sono consenzienti), oppure debbono essere soddisfatti per intero. Il rilievo è giustissimo e non può essere contraddetto. Mi permetto, tuttavia, di formulare qualche osservazione, per mostrare quanto possa-
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no essere pericolose operazioni del genere, non solo per i fornitori della impresa, ma, alla lunga, per lo stesso sistema bancario, che dovrebbe essere, in teoria, il maggiore beneficiario della provvidenza voluta dalla legge. A) In primo luogo, mi sembra opportuno precisare che – ai sensi dell’art. 111, co. 2, l.fall. – la prededuzione concessa dalla norma in esame non può andare a discapito dei creditori muniti di pegni o ipoteche sui beni del fallito. In caso d’insuccesso del piano, la prelazione graverà, pertanto, sull’eventuale patrimonio libero del debitore (nella maggior parte dei casi: poca roba) e, soprattutto, sui beni che verranno acquistati con i flussi di reddito prodotti dall’impresa. A ben guardare, dunque, il reale significato economico della disposizione è di destinare ai finanziamenti bancari (ed ai pochi altri ammessi dalla legge) tutte le risorse future, che dovrebbero essere create dalla prosecuzione, o dalla ripresa, del ciclo produttivo. B) Poco male, si dirà, dato che le più moderne tecniche finanziarie s’incentrano proprio su meccanismi sostanzialmente analoghi. Nel caso di specie, però, si deve considerare che la predetta garanzia è concessa direttamente dalla legge, sulla base di un accordo nel quale le banche (e cioè le stesse destinatarie della garanzia) fanno la parte del leone. Si viene a creare, così, una situazione piuttosto opaca. Molto spesso, infatti, gli accordi di ristrutturazione servono a spostare sul medio-lungo periodo delle linee di credito, che erano state concesse ed utilizzate (magari in extra-fido) sul breve. Per conseguire tale obiettivo, una parte della nuova finanza (garantita da pegni, ipoteche, fideiussioni, ed ora da super-privilegio concesso dall’art. 182quater) andrà a deconto (per auto-pagamento, o per compensazione) dell’esposizione pregressa, in modo da ridurre il carico degli interessi moratori e dare (con le nuove scadenze) un attimo di tregua al debitore. In tutto ciò non vi è nulla di male, purché l’importo dei nuovi finanziamenti sia tale da riportare in equilibrio i conti dell’impresa (v., infatti, quanto dispone l’art. 67, co. 3, lett. d, con riferimento ai piani di risanamento). Non si può negare, tuttavia, che fa una certa impressione dover constatare che il consenso delle banche diventa decisivo per approvare un accordo (sottratto alla revocatoria in un eventuale successivo fallimento) che ha per effetto (o tra gli altri effetti) quello di “trasformare” un credito chirografario in una pretesa privilegiata. Come ho già detto in altra sede (in sostanziale adesione ad un provvedimento del Tribunale di Milano, ma poi tale orientamento ha ricevuto l’autorevolissimo avallo di una pronuncia della suprema
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Corte) 7, a mio sommesso parere non si può configurare, al riguardo, un conflitto di interessi giuridicamente rilevante: sia perché nello stipulare un contratto le parti debbono essere lasciate libere di cercare il proprio tornaconto (la nuova finanza non potrebbe essere concessa in mancanza di adeguate garanzie); sia perché la procedura non prevede una votazione a maggioranza e, quindi, manca il presupposto fondamentale per invocare un’applicazione analogica della disciplina dettata per le delibere di società; sia perché il procedimento d’omologa è diretto a verificare che i creditori rimasti estranei allo accordo possano essere pagati per intero e, quindi, dovrebbe assicurare – almeno in tesi astratta – il venir meno d’ogni pericolo di danno per chi è destinato a subire, contro la propria volontà, gli effetti del provvedimento. Resta il fatto, però, che la valutazione del giudice (e, prima ancora, dei creditori rimasti estranei all’accordo) viene resa più difficile dall’esistenza di una garanzia, della quale, in buona sostanza, è impossibile prevedere la consistenza e l’impatto, perché insiste su flussi di reddito futuri. C) Le perplessità, poi, sono destinate ad aumentare, se si considera che il vero problema, nel nostro caso, non è d’accertare se l’accordo produce un danno attuale a carico di certi soggetti, ma è di capire se il tentativo di risanamento non rischi di creare più problemi di quanti ne risolva, in quanto fa ricadere sui terzi un’alea francamente eccessiva. Se ci si pone in questa prospettiva, non si può trascurare il fatto che la procedura finisce con il lasciare sul mercato un’impresa a capitale “negativo”: ovviamente, non nel senso tecnico del termine, ma nel senso che su tutta la sua redditività futura grava un super-privilegio a favore di certi finanziatori, con il pericolo, non tanto remoto, di lasciare sul campo altri morti ed altri feriti. D) Tutto ciò può creare una situazione di tensione, della quale è difficile prevedere gli sbocchi. Si supponga che l’impresa, nonostante l’accordo di ristrutturazione, non riesca a superare la crisi. Ai sensi dell’art. 182-quater, tutto il patrimonio residuo del debitore, che non sia coperto da ipoteche e pegni già consolidati, dovrebbe essere destinato al soddisfacimento prioritario delle pretese sorte dai finanziamenti, di cui stiamo parlando, anche in danno dei lavoratori e dei fornitori, i quali
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Terranova, Conflitti d’interessi e giudizi di merito nelle soluzioni concordate della crisi, in Problemi di diritto concorsuale, cit., Cap. III, pp. 103-172.
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pure hanno dato il loro contributo per consentire all’azienda di fare un altro piccolo passo in avanti verso la (sperata) salvezza. È difficile immaginare che si arrivi a tanto. Per scongiurare un esito così disastroso, del resto, i rimedi non mancano: si potrebbe sostenere 8 che proprio la procedura ha creato una sorta di patrimonio autonomo, con la conseguenza di dovere depurare le attività, sulle quali insiste la prededuzione, dalle passività contratte per mantenere in vita l’azienda; oppure, più semplicemente, si potrebbe autorizzare un esercizio provvisorio dell’impresa (art. 104, l.fall.), in modo da consentire ai predetti soggetti deboli di recuperare almeno una parte delle loro pretese. Naturalmente, non voglio dire che tesi (o escamotage) del genere debbano essere avallati dalla magistratura. Ma sarebbe pericoloso illudersi che una soluzione, così poco accettabile sul piano sociale, non provochi reazioni di un qualche tipo. E) Non può sfuggire il senso del discorso. La novella, non solo rischia di lasciare sul mercato delle imprese, che non offrono alcuna garanzia ai loro creditori futuri; ma, in fin dei conti, crea dei pericoli – come già si è detto – per quello stesso sistema bancario, che vorrebbe favorire. Il rischio più immediato è che la prededuzione si riveli uno strumento di tutela inconsistente, non solo per le ragioni già dette, bensì anche perché, in caso di consecuzione di procedure (accordi di ristrutturazione, concordato preventivo, fallimento), potrebbe accadere che i crediti di massa della procedura successiva prevalgano sulle analoghe pretese create dagli interventi precedenti 9. Ma l’insidia più subdola è un’altra: di creare un sistema, nel quale il miraggio di recuperare qualcosa (o il desiderio di non lasciare nelle mani dei concorrenti un’impresa, nella quale si è investito molto) spingano le banche ad erogare sempre nuovi prestiti, con un gioco al rialzo, dagli effetti potenzialmente dirompenti. In altri termini, mi sembra tutt’altro che apprezzabile l’intento di creare un sistema, nel quale i creditori abbiano la percezione (a mio avviso pericolosissima) di poter essere soddisfatti, almeno in parte, solo se blandiscono il “Principe”, e cioè solo se assecondano i desideri dei “tecnici” di turno, che via via promuovono sempre nuovi
8 Per un’impostazione generale del problema, sia pure con soluzioni parzialmente diverse da quelle ipotizzate nel testo, v. ora T. Di Marcello, Flussi di risorse e finanziamento dell’impresa, Milano, Giuffré, 2011, spec. Cap. III e VI; tengo a precisare che le soluzioni alternative, individuate dall’A., non mi sembrano affatto irragionevoli, ma qui non è il caso di entrare in dettagli. 9 V. Nigro - Vattermoli, Diritto della crisi dell’impresa, cit., p. 247 ss., spec. a p. 250.
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piani di risanamento (nella già vista sequenza: accordi di ristrutturazione, concordato preventivo, fallimento), facendo appello a provvidenze finanziarie dotate di prelazioni di rango sempre più elevato. 9. Le considerazioni che precedono lasciano presagire qual è la mia opinione in merito al privilegio concesso ai finanziamenti dei soci. Qui la novella ha davvero superato ogni limite, perché ha violato il principio (economico), in base al quale il potere di gestione deve essere affidato a chi ha più da perdere, in caso d’insuccesso dell’impresa, perché ha fornito il capitale di rischio. Si badi: con questo non voglio negare che certi strumenti finanziari impongono, a chi li detiene, rischi maggiori di quelli dei soci. Alcuni crediti postergati, infatti, possono essere “depennati” dal passivo della società al verificarsi di una serie d’eventi (non satisfattivi), che precedono una eventuale riduzione del capitale per perdite (mi riferisco, in particolare, al fatto che, per ricapitalizzare le banche, sono attualmente allo studio dei titoli di debito, che possono essere obliterati, qualora il patrimonio netto, o il patrimonio di vigilanza, scenda al di sotto di certe soglie). Tuttavia, una cosa è ammettere che un finanziatore, in cambio di un lauto corrispettivo, possa accettare alee molto rilevanti; altra cosa è ammettere che un imprenditore sull’orlo del fallimento possa continuare a gestire la propria impresa a rischio e pericolo dei lavoratori, dei fornitori e di quant’altro. Come ho detto, qui si supererebbe il limite della sottocapitalizzazione nominale, perché si manterrebbero sul mercato delle imprese che, in buona sostanza 10, hanno un indice di rischio superiore a quelle a capitale “zero”. L’abbandono delle regole fissate negli artt. 2467 e 1797-quinquies, c.c., poi, è ancora più doloroso, se si considera con quanta fatica e quante mediazioni si sia affermato, in Italia, il principio per cui chi mantiene sul mercato un’impresa sottocapitalizzata deve in qualche modo
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È ovvio che, sul piano formale, le cose stanno diversamente. Mi preme sottolineare, inoltre, che molti ordinamenti stranieri (compreso quello tedesco) contengono da tempo una deroga al regime della postergazione, quando il finanziamento è rivolto ad un’impresa in crisi. Qui non è il caso d’entrare in dettagli, che mostrerebbero una visione d’insieme del problema completamente diversa da quella italiana, soprattutto per quanto concerne i finanziamenti erogati dalle banche, con contestuale acquisto di una partecipazione nella società sottocapitalizzata, per seguire più da vicino l’attuazione del piano. È opportuno precisare, invece, che, ad ogni modo, non s’è mai arrivati al punto d’accordare un super privilegio a questo tipo di finanziamenti.
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risponderne. Non si deve dimenticare, infatti, che la soluzione offerta dalla riforma del diritto societario sembrava particolarmente equilibrata, anche perché aveva sostituito, alla sanzione del risarcimento integrale del danno (che in alcuni Paesi viene commisurato all’importo complessivo delle perdite), la più blanda sanzione della postergazione dei finanziamenti erogati dai soci, quando la società si trovava in una situazione di “eccessivo squilibrio” tra capitale di rischio e capitale di credito. 10. Concludo. Guardando la “Novella” del 2010 nel suo insieme, si ha la sgradevole sensazione di un ritorno ad una concezione “familistica” e “consociativa” dei rapporti economici, volta a puntellare a tutti i costi l’attuale classe imprenditoriale e dirigente, consentendole di continuare a governare, anche quando nella sostanza ha fallito (come dimostra la richiesta di una moratoria o di una falcidia dei crediti), ed anche quando non ha più risorse (o non vuole investirle nell’azienda), ma si tiene a galla giocando sulla pelle dei futuri creditori. L’obbiettivo di non disperdere il valore organizzativo dell’impresa è degno della massima considerazione, quando si tratta di superare una crisi – economica o finanziaria – nella quale chi tiene la barra del timone (l’imprenditore ed i suoi finanziatori) è disposto a rischiare in proprio. Se l’impresa viene salvata a rischio e pericolo dei creditori futuri, non ci troviamo più in una economia capitalistica e, forse, neppure in un’economia liberale, perché viene infranto il fondamentale principio, in base al quale ciascuno deve rispondere personalmente – e cioè con il proprio patrimonio – delle scelte compiute.
La subordinazione dei crediti: notazioni generali Daniele Vattermoli Premessa. Prima approssimazione alla definizione di credito subordinato. In termini generalissimi, si può dire che un credito è subordinato quando il soddisfacimento dello stesso è postergato, o posposto, rispetto al completo soddisfacimento (recte: estinzione) di un altro, alcuni o tutti i restanti crediti vantati nei confronti del medesimo debitore. L’apparente semplicità dello schema della subordinazione di credito, indotta da questa prima approssimazione alla definizione degli effetti che da essa derivano, cozza frontalmente con l’estrema articolazione delle ipotesi di subordinazione conosciute in praticamente tutti gli or-
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dinamenti evoluti e con la complessità dei problemi che esse generano in termini vuoi di inquadramento generale vuoi, e soprattutto, di compatibilità e coordinamento con le regole ed i principi che governano le procedure collettive. Problemi particolarmente avvertiti in quei sistemi giuridici, come il nostro, nei quali – a differenza di molti altri – non esiste una disciplina né comune, né propriamente concorsuale dei crediti subordinati. Subordinazione volontaria ed involontaria. Tra i criteri di classificazione utilizzabili per descrivere le varie fattispecie di subordinazione il più importante è senza dubbio quello che fa perno sulla fonte della postergazione. In base a tale criterio è possibile distinguere tra subordinazione involontaria e subordinazione volontaria. A. Nel primo caso, l’effetto della subordinazione non è voluto dalle parti (debitore e creditore/i), ma è imposto dall’esterno della relazione di credito, tipicamente attraverso una norma espressa – dando luogo, così, alla c.d. subordinazione legale –, oppure, più raramente, dall’intervento del giudice. Nel nostro ordinamento – a differenza di quanto accade, ad esempio, nell’ordinamento statunitense – non è prevista la subordinazione giudiziale e l’unica forma di subordinazione involontaria è quella legale, attualmente limitata alle ipotesi dei finanziamenti dei soci alla s.r.l. (art. 2467 c.c.) e dei c.d. prestiti infragruppo (art. 2497-quinquies c.c.). In alcuni ordinamenti, la legge non si limita ad introdurre ipotesi di subordinazione involontaria – ulteriori rispetto al trattamento dei crediti per i finanziamenti dei soci, come, ad esempio, la postergazione dei crediti per interessi maturati durante il corso della procedura o dei crediti c.d. “sanzionatori” –, procedendo, altresì, a classificare i vari crediti legalmente subordinati secondo il rango da essi occupato nell’ordine di soddisfacimento sul patrimonio del debitore comune. L’osservazione delle ipotesi di subordinazione legale previste e disciplinate in altri sistemi giuridici dimostra, altresì, come esse siano, di norma, vincolate alla procedura concorsuale, nel senso che l’effetto postergativo non si realizza se non dopo, appunto, l’apertura formale della stessa. B. Nel secondo caso, invece, la subordinazione rappresenta una caratteristica del credito voluta e accettata dalle parti. Esistono ipotesi tipiche di subordinazione volontaria, previste e (in alcuni casi) disciplinate dalla legge – si prendano ad esempio, nel nostro ordinamento, le obbligazioni subordinate ex art. 2411, co. 1 c.c., oppure i titoli di debito emessi dalle banche (e dagli altri intermediari finanziari) ai fini della formazione del patrimonio di vigilanza –, ed ipotesi atipiche di subordinazione volonta-
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ria, nelle quali l’individuazione dei confini (ossia dei presupposti, delle condizioni, degli effetti e dell’estensione) della subordinazione è rimessa all’autonomia dei paciscenti. La libertà riconosciuta alle parti nel modellare il patto di subordinazione fa sì che nella pratica degli affari si registrino clausole di subordinazione dal contenuto più vario ed articolato: da quelle che prevedono la subordinazione di un certo credito nei confronti di tutti gli altri crediti non ugualmente subordinati, presenti e futuri, del debitore comune (c.d. subordinazione assoluta), a quelle che fissano la subordinazione soltanto rispetto ad un altro credito o una cerchia ristretta di altri crediti, presenti e/o futuri (c.d. subordinazione relativa); da quelle che fanno scattare la subordinazione soltanto in ipotesi di assoggettamento del debitore ad una procedura concorsuale o di avveramento di un altro evento dedotto nel patto [es., liquidazione volontaria del debitore: c.d. subordinazione condizionata], a quelle che semplicemente si limitano ad impedire il soddisfacimento di un certo credito fintanto che non vi sia stato l’integrale pagamento di altro o altri crediti dello stesso debitore (c.d. subordinazione incondizionata). Di norma, la subordinazione relativa riferita ad uno o più creditori determinati è incondizionata; la subordinazione assoluta, o quella relativa, ma riferita ad un’intera classe di creditori, è condizionata. La subordinazione può poi estendersi al solo credito in linea capitale (subordinazione parziale) o coinvolgere anche la parte relativa agli interessi maturati (subordinazione totale); la clausola di subordinazione può essere contestuale alla nascita del credito, oppure successiva. Ancora, il patto di subordinazione può essere forte o debole, in dipendenza, ad esempio, della possibilità, o meno, di compensazione del credito subordinato con un debito nei confronti del debitore comune o della revocabilità, o meno, dell’accettazione della postergazione. Dal punto di vista strutturale, la subordinazione volontaria di credito può atteggiarsi come accordo bilaterale, intercorrente tra il debitore e il creditore subordinato (c.d. junior creditor), oppure tra quest’ultimo e il creditore beneficiario (c.d. senior creditor); oppure plurilaterale, intercorrente, cioè, tra il debitore, il junior ed uno o più senior creditors. Teoricamente, infine, l’effetto della subordinazione può discendere da una dichiarazione unilaterale del creditore junior, con la quale quest’ultimo si impegna a non richiedere ed a non ricevere il pagamento del credito vantato nei confronti del debitore, se non dopo l’integrale soddisfacimento di uno o altri creditori del medesimo.
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Subordinazione concorsuale ed extraconcorsuale. La constatata poliedricità del fenomeno legato alla “subordinazione di credito” si riflette nelle difficoltà di pervenire ad un inquadramento unitario dello stesso in ambito civilistico. È per tale motivo che rispetto al credito subordinato si è parlato, di volta in volta, di credito condizionale; di credito caratterizzato da un pacto de non petendo; di rinuncia implicita, da parte del junior, alla par condicio creditorum; di differimento del termine di adempimento; di limitazione della responsabilità del debitore; di rinuncia condizionata al credito; di rinuncia al privilegio; di contratto a favore di terzi; di associazione in partecipazione ecc. A. A mio parere, al momento dell’apertura del concorso la subordinazione assoluta si traduce in un arretramento del rango del credito, producendosi la postergazione in senso stretto: il soddisfacimento del credito junior – che è, e rimane, credito concorsuale – è subordinato all’integrale pagamento dei crediti chirografari (e, prima, dei privilegiati). In caso di subordinazione relativa, invece, non si produce alcun arretramento del rango del credito, pur potendo il credito junior essere soddisfatto soltanto dopo l’integrale soddisfacimento del credito (o dei crediti) senior. La postergazione concorsuale incide, dunque, soltanto sui rapporti “intercreditorî”, rilevando esclusivamente sul piano della distribuzione della massa attiva. B. Totalmente diversa si presenta la situazione qualora la subordinazione del credito non sia vincolata all’apertura del concorso. In caso di subordinazione incondizionata – oppure in ipotesi di subordinazione condizionata, operante però anche al di fuori di una procedura collettiva – il termine subordinazione non equivale a postergazione in senso stretto, ma indica, più genericamente, il “vincolo” che colpisce il credito junior al verificarsi dell’evento dedotto in contratto, il quale potrà essere soddisfatto solo successivamente all’integrale pagamento del credito senior, risolvendosi, quindi, in un differimento del termine di adempimento. A differenza di quanto osservato con riguardo alla subordinazione concorsuale, il vincolo di cui si tratta attiene direttamente all’obbligazione di pagamento, nel senso che il creditore junior non può chiederne l’adempimento e il debitore può legittimamente opporgli la subordinazione, fintanto che non sia stato soddisfatto il credito senior. Qui, in altri termini, non v’è un arretramento del rango del credito junior, neanche in ipotesi di subordinazione assoluta; non si tratta, cioè, di “modellare” la distribuzione del patrimonio del debitore, in modo da assicurare il previo soddisfacimento dei creditori senior.
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La subordinazione extraconcorsuale incide, dunque, non soltanto sui rapporti “intercreditorî”, ma anche, e direttamente, sulla relazione creditore junior-debitore, salvo poi determinare gli stessi effetti della subordinazione concorsuale al momento dell’apertura della procedura collettiva. La postergazione «in senso stretto» nella subordinazione concorsuale assoluta. Critica alla tesi della condizione. Come anticipato, per postergazione in senso stretto si vuole intendere, in questa sede, quel fenomeno che determina l’arretramento del rango di un credito nell’ordine di soddisfacimento sul patrimonio del debitore. In tale accezione, la postergazione va dunque ad incidere direttamente sul sistema di graduazione dei crediti, al pari delle cause legittime di prelazione e, come queste, presuppone il concorso in atto (in sede di esecuzione individuale e, soprattutto, collettiva) dei creditori sulle consistenze attive del debitore. La postergazione in senso stretto, detto in altri termini, entra in giuoco ed esaurisce i suoi effetti nella fase di distribuzione del ricavato dalla liquidazione giudiziale dei beni di quest’ultimo. Riguardato da quest’angolo di visuale, il credito postergato può essere efficacemente definito come credito “antiprivilegiato” o “ipoprivilegiato”, consentendo tali espressioni – più plastiche, peraltro, che tecnicamente corrette – di cogliere l’intima relazione che lega il fenomeno postergativo e le cause legittime di prelazione. Così inteso, il credito postergato non soltanto non subisce alcuna alterazione, in termini di esigibilità, fuori dalla procedura collettiva, ma anche all’interno della stessa non perde il carattere concorrente. Inoltre, lo stesso non può in nessun caso essere considerato come credito sottoposto a condizione (sospensiva), come pure spesso affermato, anche di recente, dalla dottrina italiana: ciò risulta particolarmente evidente in ipotesi di subordinazione (volontaria o involontaria) assoluta. Non v’è dubbio che nel gergo comune i verbi “subordinare” e “condizionare” siano spesso utilizzati per descrivere i medesimi comportamenti dell’agire umano. È altresì vero, peraltro, che la rilevata fungibilità di tali termini si riscontra anche nel linguaggio tecnico, tanto che autorevole dottrina ha in passato utilizzato l’espressione negozio subordinato per designare, appunto, il negozio sottoposto a “condizione”. Del resto, lo stesso articolo 1353 c.c. è esemplificativo al riguardo, quando, nel definire il contratto condizionale, stabilisce che: «Le parti possono subordinare l’efficacia o la risoluzione del contratto o di un singolo patto a un avvenimento futuro e incerto».
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Tuttavia, la clausola di subordinazione (voluta e accettata dalle parti, oppure imposta dalla legge) si stacca completamente dal fenomeno della condizione: con essa, infatti, non si vuole introdurre alcun meccanismo di regolazione del negozio, in funzione della operatività o meno dell’effetto di questo. L’assoggettamento del debitore a procedura concorsuale (che, nella specie, rappresenta l’evento dedotto nella clausola) non determina l’inefficacia – volendo riprendere la lettera dell’art. 1353 c.c. – del rapporto di credito nel suo complesso, né del solo obbligo di adempimento; non incide, cioè, sul vincolo proprio del rapporto negoziale. Il fulcro della questione non risiede, invero e come anticipato, nella struttura della relazione, definibile verticale, “debitore-creditore subordinato”, che è e rimane perfetta e certa; quanto nella relazione, definibile orizzontale, “creditore subordinato-altri creditori concorrenti”, nel senso che per effetto dell’apertura del concorso e dell’operare della subordinazione, il creditore junior parteciperà ai riparti del ricavato dalla liquidazione della massa attiva solo dopo il completo soddisfacimento della restante massa passiva (e prima dei prededucibili) e pro-quota con gli altri creditori ugualmente postergati. È sul sistema di graduazione dei crediti, dunque, che agisce la subordinazione assoluta concorsuale, determinando la costituzione di una nuova categoria di crediti, diversi dai “privilegiati” e dai chirografari, che presentano un rango inferiore nell’ordine di soddisfacimento sul patrimonio del debitore comune. In tale circostanza, è da escludersi che possa parlarsi di condizione, ex art. 1353 c.c., rispetto alla situazione di fatto che lega il completo soddisfacimento dei crediti senior alla partecipazione ai riparti del credito junior. Qui, in altri termini, è pur vero che il soddisfacimento endoconcorsuale del credito subordinato è evento futuro ed incerto; ma a differenza di quanto accade nel negozio condizionale, il verificarsi o meno di tale evento non reagisce sulla “provvisorietà” del vincolo negoziale, la cui efficacia, mai sospesa o precaria, era (prima dell’apertura della procedura) e rimane (dopo l’apertura), come già anticipato, certa. Diversamente opinando, infatti, si dovrebbe poter dire che, in caso di apertura del concorso, gli stessi crediti chirografari sono sottoposti alla medesima condizione sospensiva rispetto ai crediti che vantano cause legittime di prelazione (ed ai prededucibili). La controprova di quanto sin qui affermato può essere agevolmente tratta analizzando la posizione del creditore junior a procedura chiusa: in tale circostanza, infatti, nessuno dubita che il creditore postergato che non abbia ricevuto alcunché dai riparti endofallimentari possa tran-
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quillamente agire – salvi gli effetti derivanti dall’eventuale esdebitazione o dalla falcidia concordataria – per l’intero (compresi gli interessi nel frattempo maturati), nei confronti del debitore tornato in bonis (sempreché, ovviamente, la procedura non determini l’estinzione dell’ente insolvente), nonostante la presenza di crediti chirografari ancora non soddisfatti. Del resto, la stessa dottrina che riconduce i crediti subordinati nell’alveo dei crediti sottoposti a condizione sospensiva è costretta ad ammettere che si tratti di una categoria di condizionali sui generis, per i quali, cioè, non potrebbero valere le norme in tema di accantonamenti. Così facendo, però, non v’è chi non veda come lo statuto dei crediti ex art. 55, co. 3 l.fall. venga spogliato del tratto più caratteristico o, se si vuole, essenziale, spezzando la catena logica formata dalla precarietà del diritto di credito (indotta dalla condizione) e l’esigenza di assicurare la parità di trattamento con i restanti creditori concorrenti (garantita, appunto, dagli accantonamenti), una volta verificatosi l’evento che quel diritto rende certo. Non è un caso, d’altra parte, che in nessuno degli ordinamenti che prevedono una sia pur minima disciplina dei crediti subordinati in ambito concorsuale, si sia mai neanche posto il problema della assimilabilità, in punto di fattispecie e, conseguentemente, di disciplina, tra i crediti postergati e quelli condizionali, salvo che le parti abbiano espressamente modellato la clausola di subordinazione in modo da introdurre una “condizione”, in senso tecnico, all’obbligo di rimborso. Concludendo, si può anche sostenere che il soddisfacimento di un credito postergato è condizionato al previo soddisfacimento degli altri crediti non ugualmente postergati, ma ciò a patto che si utilizzi il termine “condizionato” in senso atecnico, quale sinonimo di “subordinato”: il tutto risolvendosi, a ben vedere, in una tautologia, inidonea a spiegare il meccanismo attraverso il quale si raggiunge il risultato voluto dalle parti o dalla legge. Subordinazione concorsuale relativa e Double Dividend System. Ove possibile, l’intrinseca diversità tra i fenomeni qui in considerazione risulta ancor più marcata con riferimento alla subordinazione (sempre concorsuale, ma) relativa, la quale, peraltro e di norma, è stipulata direttamente tra creditore junior e creditore senior, senza coinvolgimento (almeno iniziale) del debitore comune. Nell’ipotesi de qua, invero, il creditore junior si obbliga (o è obbligato dalla legge) a non richiedere e non ricevere quanto dovutogli dal debito-
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re comune se non dopo l’integrale soddisfacimento di un altro o di altri crediti determinati (o determinabili, se futuri). La volontà delle parti (o della legge) non risiede, ancora una volta, nel porre una condizione, in senso tecnico, al vincolo negoziale che lega debitore e creditore junior, idonea a minarne l’efficacia, quanto, più modestamente, nel posporre il soddisfacimento di un credito ad un altro (o altri). A differenza dell’ipotesi analizzata in precedenza, peraltro, l’effetto determinato dalla clausola di subordinazione relativa non si traduce, in caso di apertura del concorso, in un arretramento del rango del credito postergato, essendo presenti crediti, del medesimo rango del senior, rispetto ai quali il junior ha diritto di partecipare sul patrimonio del debitore comune su di un piano di uguaglianza. È evidente, in tal caso, il diverso volume di rischio assunto dal creditore junior: postergare le proprie pretese al completo soddisfacimento di una o di determinate altre obbligazioni del debitore, non equivale di certo a porsi nella zona intermedia tra crediti chirografari e capitale proprio dell’impresa insolvente. Così come diversa è la posizione del creditore senior rispetto agli altri creditori, del medesimo rango, che non vantano alcun diritto di antergazione rispetto al creditore junior. Quanto sin qui affermato resterebbe lettera morta qualora si accedesse all’opinione, del tutto coerente con la tesi che qualifica i crediti subordinati sub specie di crediti sospensivamente condizionali, secondo cui, per effetto del particolare operare dei principi concorsuali (primo fra tutti, la scadenza anticipata dei crediti, ma anche la par condicio creditorum), la subordinazione relativa si tradurrebbe in una subordinazione assoluta, dovendo il creditore subordinato attendere il completo soddisfacimento non soltanto del credito senior, ma anche di tutti gli altri crediti – pur estranei al patto di subordinazione relativa – del medesimo rango di quest’ultimo. Secondo questa interpretazione, cioè, il credito junior rimarrebbe “congelato” all’interno del concorso, l’organo della procedura dovendo procedere ai riparti come se lo stesso non integrasse la massa passiva; solo una volta soddisfatti per intero tutti i creditori del medesimo rango del senior, il credito junior riprenderebbe, per così dire, vita, potendo il titolare partecipare agli eventuali riparti successivi. In realtà il creditore relativamente subordinato deve essere trattato, all’interno del concorso, come un qualunque altro creditore non subordinato, e gli effetti della postergazione debbono andare a vantaggio dei soli creditori senior rispetto a quest’ultimo. Se così non fosse, infatti, la posizione ex ante assunta dalle parti dell’accordo di subordinazione verrebbe completamente stravolta dall’apertura della procedura collettiva. Ed invero: per un verso, il creditore junior vedrebbe ingiustificatamente
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allargata la platea dei crediti senior, con conseguente aumento del volume di rischio iniziale; per altro verso, il creditore senior vedrebbe – di nuovo, ingiustificatamente – diluito il beneficio derivante dall’accordo di subordinazione, che risulterebbe ripartito tra tutti gli altri crediti del medesimo rango; la perdita di valore, così imposta alle parti del rapporto di subordinazione relativa, si tradurrebbe in un vantaggio per i restanti creditori concorrenti, che pure non avevano sopportato alcun “costo”, fuori dalla procedura, per ricoprire tale posizione all’interno della stessa. L’esigenza di limitare alle parti del rapporto di subordinazione gli effetti postergativi richiede, quindi, l’utilizzo di meccanismi di distribuzione del ricavato dalla liquidazione concorsuale che, nel rispetto della posizione ex ante occupata dalle parti (quanto, essenzialmente, a rischio assunto), si riveli neutro per i terzi. A tal fine, l’unico meccanismo che consente, da un lato, di non danneggiare né il creditore junior né quello senior e, dall’altro, di non avvantaggiare indebitamente tutti gli altri creditori non senior, è quello che gli americani chiamano double dividend system, che – come suggerisce il nome assegnatogli – consiste nell’attribuzione di un doppio dividendo (o riparto) al creditore senior e che funziona, in sintesi, secondo lo stesso schema delineato dall’art. 62 l.fall. Ovvero. Il creditore junior s’insinua al passivo, come credito non condizionato; nei riparti parziali, il senior ottiene il proprio dividendo ed in più quello che spetterebbe al junior; tale ultimo riparto è assegnato al senior ma è imputato al junior; se, per effetto dei doppi dividendi, il senior ottiene la completa soddisfazione del suo credito, il junior partecipa ai riparti successivi, surrogandosi nelle ragioni del senior. In tal modo, la subordinazione convenzionale relativa avvantaggia soltanto il senior, mentre nessun nocumento viene sofferto dalla restante massa dei creditori. Quanto affermato ha poi altre rilevanti conseguenze, come quella in ordine, ad esempio, alla sorte delle garanzie che dovessero accedere al credito relativamente subordinato. Mentre, infatti, il credito assolutamente subordinato perde ogni forma di garanzia o privilegio sul patrimonio del debitore (esiste, infatti, una contraddizione insanabile tra postergazione assoluta e cause legittime di prelazione), quello relativamente subordinato continua a godere della causa legittima di prelazione, di essa giovandosi, in prima battuta, il creditore senior e poi, eventualmente, lo stesso creditore junior (in dipendenza dell’importo del credito garantito da quest’ultimo vantato rispetto al valore nominale del credito senior), analogamente, di nuovo, a quanto è dato osservare con riferimento alla solidarietà passiva nel fallimento. La causa legittima di prelazione, invero, risulta funzionale ad un più sicuro e celere soddisfacimento del
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credito senior (che beneficia dell’antergazione nei riparti spettanti al junior) e, conseguentemente, agevola la partecipazione del junior, una volta surrogatosi nelle ragioni del senior, ai futuri (ed eventuali) riparti endoconcorsuali. Nell’ambito del concorso, quindi, i titolari di crediti relativamente subordinati non integrano una categoria a sé, rilevando la loro particolare condizione soltanto ai fini della ripartizione dell’attivo, come dimostra, di nuovo, l’esperienza maturata in altri ordinamenti. Conclusioni. Postergazione e prededuzione. In conclusione, qualche battuta merita il rapporto intercorrente tra la subordinazione di credito e la prededuzione. Malgrado possa apparire vero il contrario, non esiste alcuna incompatibilità tra prededuzione e postergazione: la prima, sottrae il credito dalla massa passiva (divenendo esso, anzi, debito della massa), operando una sorta di “separazione” di una parte dell’attivo sulla quale il creditore prededucibile – salve alcune eccezioni – ha diritto di essere soddisfatto prima dei creditori concorrenti; la seconda, invece, agisce sul rango del credito ed entra in giuoco, al contrario, in ipotesi di concorso sostanziale tra più aventi diritto su un medesimo patrimonio. Ciò significa, per rimanere nel tema di questo convegno, che l’art. 182quater, co. 3 non agisce sul “rango” del credito vantato dal socio finanziatore che è, e resta, subordinato, limitandosi ad attribuirgli (in parte) la condizione di prededucibile: con la conseguenza, allora, che in caso di incapienza dell’attivo fallimentare a soddisfare per intero questi ultimi, i crediti dei soci ex art. 182-quater, co. 3 dovranno essere pagati dopo gli altri crediti (prededucibili) e pro-quota con quelli (sempre prededucibili, ma) ugualmente postergati. E significa, ulteriormente, che se successivamente all’omologazione dell’accordo la società avesse bisogno di ulteriori finanziamenti per la gestione ordinaria e non avesse beni liberi da offrire in garanzia, i socifinanziatori ben potrebbero accettare la subordinazione delle loro pretese al fine di agevolare l’afflusso di nuovi capitali di credito: cosicché, in caso di apertura della procedura collettiva, della prededuzione assicurata dall’art. 182-quater, co. 3 l.fall. sarebbe beneficiato, in prima battuta, il creditore senior, il quale potrebbe contare sui riparti endofallimentari spettanti al socio-creditore junior, secondo il già ricordato meccanismo del double dividend system (il cui funzionamento, nel caso di specie, deve essere opportunamente modificato, in modo da renderlo compatibile con il carattere prededucibile del credito junior).
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I finanziamenti dei soci nell’art. 2467 c.c. e nell’art. 182-quater l.fall. Maurizio Sciuto Grazie, Presidente, e grazie di cuore anche agli organizzatori e agli ospiti di questo convegno. Il tema affidatomi è manifestamente sovrabbondante rispetto al tempo concessomi, anche perché se inizialmente l’avevo letto come “i finanziamenti di cui all’art. 2467 c.c. nell’art. 182-quater l.fall.”, leggendolo meno distrattamente mi sono poi avveduto che mi si chiederebbe di parlare dei finanziamenti dei soci nell’art. 2467 c.c. e nell’art. 182 quater, l.fall.: il che, per il tempo a mia disposizione, già mi imporrebbe di scegliere se trattare solo dell’uno o dell’altro. Pertanto, assecondando la prima lettura interpolativa, darò in questa sede per noti e presupposti gli acquis di fondo sinora raggiunti nell’interpretazione dell’art. 2467; occupandomi, piuttosto ed esclusivamente, del loro trattamento concorsuale, ammesso pure che sia concepibile una trattazione di taglio diverso. Ammesso pure, cioè, che a quella disposizione possa riconoscersi una portata precettiva capace di esplicarsi anche al di fuori di un contesto concorsuale, con riferimento, in particolare, alla liceità o meno di un rimborso dei finanziamenti soci fin quando la società, pur sovraindebitata, sia in bonis 11. Con riferimento alla vicenda concorsuale, dunque, vorrei soprattutto tentare di verificare cosa possa dirsi cambiato, per effetto dell’introduzione dell’art. 182-quater, rispetto a quanto ancora poteva ritenersi prima di tale novità. Esaminerò casisticamente, da ultimo, alcune specifiche ipotesi che possano contribuire ad una migliore messa a fuoco dei presupposti – sia soggettivo che oggettivo – del terzo comma dell’art. 182-quater, l.fall. Il quale comma, come noto, nella tematica, già complessa, della “nuova finanza”, si occupa, in particolar modo, di una parte di essa, che per certi aspetti ne rappresenta un “mondo a parte”: quella relativa ai finanziamenti dei soci, ai quali molta attenzione dedicano non solo, e da
11 Si ricordi, al proposito, che il legislatore tedesco ha recentemente ricollocato l’omologa disciplina spostandola dalla legge societaria a quella concorsuale, disciplina dal diritto societario a quello concorsuale, specialmente nel § 39 InsO; a ciò costituendo eccezione forse soltanto apparente il mantenimento nel § 64 GmBH della previsione della responsabilità degli amministratori per i rimborsi effettuati, posto che in tale prospettiva la loro rilevanza sarà pur sempre condizionata al ricorrere di un presupposto della, o al fatto di provocare una, procedura d’insolvenza: insolvenza o sovraindebitamento.
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lungo tempo, la dottrina e la giurisprudenza anche straniere, ma più di recente, come ricordato, lo stesso legislatore italiano, dandone evidenza testuale nel ridetto art. 2467. * L’art. 2467 – mi si perdoni l’approssimazione della sintesi introduttiva, ma un punto di partenza del discorso va pur fissato – stabilisce che il rimborso dei crediti derivanti da finanziamenti concessi dai soci in stato di eccessivo indebitamento della società, o in un momento in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento, è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori, se effettuato entro un anno prima del fallimento. Se quello che si prevede testualmente è dunque un’azione della curatela alla restituzione di quanto rimborsato ai soci, non molto meno evidenti son parse sin da subito la ratio e il contesto operativo della norma. La ratio, come pure ormai acquisito, consisterebbe nell’allineamento, in principio, della condizione di rischio dell’apporto del socio a quella che dovrebbe ritenersi la sua causa concreta, neutralizzando così i possibili tentativi di far “passare” come finanziamenti apporti ai quali sarebbe piuttosto ragionevole, almeno per scongiurare una Überschuldung, attribuire la forma giuridica del conferimento. Allineare così, in certa (anche se non integrale) misura, la condizione di rischio del finanziamento a quella di un apporto che avrebbe potuto assumere la forma di un conferimento, postergandone il rimborso rispetto agli altri creditori. Non certo una riqualificazione, dunque – come pure capita ancora di leggere – posto che la condizione di quel tipo di finanziamento non sarà in tutto e per tutto equiparata a quella di un conferimento, se non altro perché, in principio, l’eventuale rimborso del primo precederebbe quello del secondo; ma, in ogni caso, rispetto agli altri crediti verso la società, una graduazione che tenderà a renderne residuale la soddisfazione. Sempre alla luce della più consolidata interpretazione della medesima disciplina si è anche evidenziato, dai più, come la situazione finanziaria della società, assunta quale coelemento della fattispecie, vada valutata rispetto al momento genetico: valutando cioè se la situazione di eccessivo indebitamento sussistesse effettivamente nel momento in cui l’apporto venne effettuato. Irrilevante dovendo invece restare, in principio, l’evoluzione finanziaria successiva della società. Dilemma non ancora del tutto risolto resta invece quello che contrappone le cosiddette tesi sostanzialiste a quelle processualiste. Le prime assegnano alla disciplina in discorso una sua effettiva operatività già prima che si produca una condizione di insolvenza della società, così impegnando gli amministratori a non rimborsare i finanziamenti anche
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ove la società fosse ancora in bonis, se non altro quando appaia prevedibile che ciò potrebbe risolversi in un pregiudizio per gli altri creditori. Secondo l’altra impostazione, invece, la disciplina in discorso andrebbe inquadrata in una prospettiva eminentemente processualistica, ed “esecutiva” in particolare: il suo concreto operare, infatti, si manifesterebbe soltanto dopo l’apertura di una procedura fallimentare, perché solo durante questa si produrrebbero le condizioni per una ripetizione del rimborso, cui sarebbe legittimata la sola curatela. * In ogni caso, che si preferisca l’una o l’altra tesi, una volta che ci si ponga nella prospettiva concorsuale, l’effettivo operare della condizione di postergazione rispetto ai finanziamenti ex art. 2467 c.c. concessi prima dell’apertura di una procedura concorsuale risulta meno problematica, almeno se si tratti di fallimento: nell’ambito di tale procedura, infatti, la postergazione si tradurrà senz’altro nell’attribuzione della corrispondente, residuale, collocazione nell’ordine di riparto. Già più delicata appare invece la questione in presenza di una soluzione negoziata della crisi giudiziale, e in particolar modo quando si tratti di un concordato preventivo. Rispetto al quale, per esempio, un primo problema che si è posto riguarda la possibilità di inquadrare quei crediti, nell’articolazione del piano concordatario, all’interno di un’autonoma classe, benché anch’essa destinataria di un trattamento rispettoso del principio di postergazione; ovvero se – in considerazione del fatto che quei crediti, in quanto postergati, non dovrebbero tendenzialmente trovare alcuna soddisfazione nel rispetto dell’ordine di prelazione – ai loro titolari debba disconoscersi ogni interesse a votare, e quindi la possibilità di essere inquadrati in una classe legittimata al voto. A quest’ultimo riguardo la Cassazione (4 febbraio 2009, n. 2706) ha affermato – anche qui ricordo cose note – che i crediti dei soci per i finanziamenti ex art. 2467 c.c. non costituiscono crediti condizionali (ma su questo ci ha già sapientemente intrattenuto il collega Vattermoli), ben potendo concepirsi allora un loro inquadramento all’interno di una autonoma classe; benché poi la possibilità di destinare alcunché a questa classe postergata risulterebbe almeno in apparenza contraddire il naturale ordine di distribuzione; tuttavia la maggioranza potrebbe pur sempre consentire che qualcosa venga destinato alla classe dei soci finanziatori. Altre pronunce di merito invece hanno sostenuto che, essendo tendenzialmente inderogabili i principi che fissano l’ordine di prelazione,
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solamente con l’unanimità dei creditori sarebbe immaginabile destinare alcunché ai soci finanziatori nell’ambito di un piano concordatario. * Ma indubbiamente, venendo al tema centrale di questo intervento, le questioni più delicate, che non a caso sono quelle di cui si è occupato l’art. 182-quater l.fall., riguardano l’ipotesi in cui finanziamenti dei soci vengano erogati in occasione, o contestualmente, o in esecuzione di un concordato o di un accordo omologato ai sensi dell’art. 182 bis (ovviamente sempre nell’eventualità di un successivo sbocco fallimentare). Ecco, per quanto riguarda gli accordi di ristrutturazione dei debiti, prima dell’introduzione dell’art. 182-quater, era abbastanza pacifico – ed infatti proprio di un tale limite ci si lamentava maggiormente – che la “nuova finanza”, pur concessa in esecuzione di questi accordi, non potesse in alcun caso beneficiare di un regime di prededuzione nell’ambito di un successivo fallimento. E ciò sulla base dell’interpretazione prevalente dell’art. 111 l.fall., nella parte in cui (tuttora) riconosce la condizione di prededucibilità soltanto ai crediti sorti “in occasione o in funzione di una procedura concorsuale”. Sicché – pure veniva frequentemente rilevato – se gli accordi di ristrutturazione dei debiti non possono essere considerati quale vera e propria procedura concorsuale, neppure, ovviamente, può ad essi (cioè alla nuova finanza erogata in loro “occasione” o “esecuzione”) applicarsi l’articolo 111. Viceversa, per la nuova finanza erogata in esecuzione di un concordato preventivo, l’art. 111 pareva pianamente applicabile, così derivandone il beneficio della prededucibilità nel caso di successivo fallimento. Tuttavia – addentrandosi nel vivo del profilo qui considerato – già sotto il previgente regime (quello cioè precedente all’introduzione dell’art. 182-quater) poteva ritenersi non così evidente che del generale regime di prededucibilità appena ricordato potesse beneficiare anche la nuova finanza erogata dai soci. E ciò perché in tal caso emergeva un’antinomia fra l’art. 2467 c.c. e l’art. 111 l.fall.: infatti, se la seconda norma, pur temporalmente successiva, prevedeva la prededuzione di tutti crediti sorti in occasione o in funzione di una procedura concorsuale, la formulazione dell’art. 2467, dal canto suo, risultava abbastanza ferma ed incondizionata nello stabilire il regime di postergazione dei finanziamenti in caso di sbocco fallimentare; ed anzi, secondo quanto ricordato all’inizio di questo intervento, soprattutto in questo caso.
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Una conferma di questo sospetto, oltretutto, nasceva anche dall’atteggiamento della stessa giurisprudenza di legittimità che, nella pronuncia testé ricordata, si occupava del regime – connesso a quello qui in discorso – dell’esenzione dalla revocatoria prevista dall’art. 67, co. 3, lett. e, l.fall. Disposizione secondo la quale, ricordo, i pagamenti eseguiti in esecuzione (si dice proprio “in esecuzione”, e non “in occasione”; e quindi successivi all’omologazione) di un concordato o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato, sfuggono all’applicazione dell’azione revocatoria. Il tema, dicevo, è connesso a quello qui in discorso per l’ovvia ragione che l’esenzione dalla revocatoria e la prededuzione rappresentano – per così dire – due “stampelle” della nuova finanza necessariamente complementari: la nuova finanza, infatti, può trovare completa protezione non solo mediante la prededuzione del relativo credito in caso di successivo fallimento, ma anche ponendo al riparo da una possibile revoca (“stabilizzando”) il rimborso che fosse eventualmente avvenuto durante il concordato preventivo. Ecco, dicevo, proprio con attenzione a questo profilo, la Cassazione si era pronunciata – anche se in un obiter 12 – nel senso che l’art. 67 co. 3 lett. e), l.fall., malgrado la sua formulazione letterale, non potesse applicarsi ai rimborsi dei finanziamenti concessi dai soci pur in esecuzione del concordato. E ciò perché – si diceva – resterebbe altrimenti neutralizzata, sostanzialmente elusa, la norma imperativa (l’art. 2467 appunto) che esige la postergazione di quei finanziamenti. D’altra parte, in dottrina, pure si segnalava (e si segnala tuttora) una qualche eterogeneità ed inconciliabilità concettuale fra la fattispecie disciplinata dall’art. 2467 c.c. e quelle assunte dall’art. 67 l.fall. (se non altro per l’irrilevanza dell’elemento soggettivo nel primo caso, il quale da un migliore punto di vista risulta piuttosto affine all’ipotesi dell’art. 65, l.fall.); ciò che già a priori escluderebbe la prima dall’applicazione della disciplina riferita alle seconde. Ecco dunque che, già allora (cioè prima dell’introduzione dell’art. 182-quater), sorgeva il sospetto che, in realtà, il regime di finanziamento dei soci godesse di uno statuto particolare, per non dire d’eccezione, nell’ambito della “nuova finanza”.
12 “Il principio della postergazione (…) comporta necessariamente quale corollario l’inapplicabilità in tal caso dell’art. 67, co. 3, l.fall. (…) La finalità della postergazione e l’obbligo della restituzione risulterebbero infatti frustrati qualora si consentisse anche nei loro confronti la esclusione da revocatoria”.
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E questa sensazione – passando al regime vigente creatosi per effetto dell’introduzione dell’art. 182-quater – sembra ora ulteriormente rafforzata dal fatto che il comma terzo di tale articolo, sul quale s’incentrano queste mie riflessioni, ha previsto che i finanziamenti concessi dai soci nelle condizioni previste dall’art. 2467 (cui vengono poi equiparati anche i finanziamenti infragruppo, ex art. 2497 quinquies) in esecuzione di un concordato o di un accordo di ristrutturazione, diventino prededucibili all’80% (una scelta numerica, se si vuole, un po’ bizzarra) nell’ambito di un successivo fallimento. “In deroga”, si precisa appunto, “all’art. 2467”. Il che non consente di esimersi dall’onere di valutare, a questo punto, il significato e la portata dell’inserimento del nuovo art. 182-quater l.fall. nel sistema precedente. Rispetto al quale, infatti, già in precedenza, come sopra ricordato, si avvertiva una tensione antinomica fra l’art. 111 e l’art. 2467: l’uno che ci diceva che tutti i crediti sorti in esecuzione di un concordato preventivo sarebbero stati prededucibili in un successivo fallimento; l’altro che invece, senza fare alcun riferimento o concessione a ipotesi concordatarie, direttamente ed incondizionatamente prevedeva la postergazione in caso di fallimento. Rispetto a questo contrasto di discipline, dunque, l’art. 182-quater, co. 3, salomonicamente, non ne fa prevalere alcuna, non richiamando né l’una né l’altra norma. Esso infatti, come può ben apprezzarsi, parrebbe derogare al criterio posto dall’art. 111 l.fall., nella misura in cui consente la prededuzione solo all’80% anziché al 100%. Ma d’altra parte contraddice anche l’art. 2467 perché finisce con il sancire che la postergazione prevista da quest’ultimo opererà soltanto al 20%. A ben vedere, tuttavia, l’eccezione, non pare operare – come pure è stato sostenuto di recente da un valoroso autore – rispetto all’art. 111 l.fall. Anche perché, se la si leggesse in questo senso, dovremmo constatare che paradossalmente l’art. 182-quater, l.fall., tradendo l’evidente spirito della novella che lo ha introdotto, segnerebbe un arretramento della tutela della nuova finanza. In altri termini, letto in quel senso anziché favorire l’erogazione di nuova liquidità, è come se dicesse: no, da oggi in poi la nuova finanza non sarà più prededucibile al 100%, ma soltanto all’80%. In realtà però, è la stessa lettera legge a suggerirci il contrario. L’incipit dell’art. 182-quater avverte infatti: “In deroga agli articoli 2467 e 2497 quinquies…”. La deroga non opera allora con riferimento all’art. 111, ma solo rispetto all’art. 2467, c.c. E in tal modo si fornisce anche una sorta di interpretazione autentica del regime previgente: rispetto al quale, dunque, la disciplina
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dell’art. 2467 (e 2497 quinquies), avrebbe dovuto presupporsi prevalente (sull’art. 111 l.fall., allora non applicabile ai finanziamenti soci) e persistente anche in una condizione di concordato preventivo sfociato in fallimento. Disciplina tendenzialmente prevalente, dunque; ma rispetto alla quale si è ora introdotta un’eccezione, consentendo che essa possa bensì continuare ad operare, ma soltanto con riferimento al 20% dei finanziamenti dei soci; che per il resto però – e qui sta la novità – anziché essere incondizionatamente ed integralmente postergati, diventano prededucibili all’80% se concessi in esecuzione di un concordato omologato (o di un accordo di ristrutturazione). A questo punto si potrebbe pur dire: ebbene, se questa è dunque la novità, pur utile a chiarire la corretta interpretazione del non limpido sistema precedente, ciò non toglie che d’ora in avanti, comunque, la disciplina è oramai chiara; ed è quindi inutile starsi ora ad interrogare lungamente se, rispetto al passato, la nuova disciplina vada intesa quale eccezione all’art. 2467 o all’art. 111 l.fall. A me sembra però, se non prendo un abbaglio, che la questione tanto inutile non sia neppure oggi. Essa, infatti, mi pare ancora importante da un punto di vista interpretativo, perché ci mette in condizione, pur rispetto al sistema ora in vigore, di valutare con maggiore consapevolezza la questione dei crediti concessi a norma dell’articolo 167 l.fall. Parlo cioè della nuova finanza – ovviamente, per stare nel tema qui affrontato, quella erogata dai soci (e non certo quella concessa da altri, la cui prededucibilità è invece pacifica costituendo un carico assunto dalla procedura) – nel periodo che va fra la domanda di ammissione al concordato e la sua omologazione. Perché, se partiamo dal presupposto che sino all’introduzione dell’art. 182-quater – ed anzi proprio in virtù dell’interpretazione autentica che questo ci ha fornito del sistema previgente – l’art. 2467 doveva ritenersi la norma dominante, che cioè prevaleva incondizionatamente pur nell’ambito delle procedure concorsuali nel determinare la collocazione nel riparto dei finanziamenti dei soci; e se prendiamo atto che oggi, invece, la nuova eccezione introdotta dall’art. 182-quater si autodichiara applicabile esclusivamente, in deroga all’art. 2467, alla nuova finanza erogata in esecuzione del concordato: allora dovremmo dedurne la persistente dominanza, per il resto, dell’art. 2467. Pur con la cautela dovuta in occasione di primissime riflessioni, dunque, dovremmo dedurne che anche per quanto riguarda la nuova finanza concessa ex articolo 167 dai soci, non opera affatto (come si ritiene generalmente, per effetto di quella disposizione, rispetto alla nuova finanza erogata da altri) un regime di prededuzione; ma continui piutto-
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sto a prevalere il regime di postergazione previsto dall’art. 2467: come già doveva ritenersi per il passato, e come ora conferma l’art. 182-quater, che esplicitamente segnala di valere quale eccezione al 2467, al contempo però precisando che la portata di una tale eccezione è circoscritta ai soli finanziamenti concessi in esecuzione. * Assai meno incerta appare invece la portata innovativa della norma in discorso per quanto riguarda gli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis. Come dicevo poc’anzi, infatti, rispetto ad essi – salvo che li si volesse ritenere una vera e propria procedura concorsuale (prospettiva che peraltro, per effetto della recente novellazione dell’art. 182 bis, appare meno ardita che in passato) – di prededuzione non era neppure a parlarsi (almeno ad avviso dei più). Oggi, invece, la prededuzione potrà senz’altro operare, sia pure nella proporzione, un po’ curiosa, dell’80%. Una possibile spiegazione di questa percentuale: si vuol forse così “responsabilizzare”, nella misura (arbitraria) del 20%, i soci che intendessero sovvenire troppo disinvoltamente una società che avesse, ciononostante, alte probabilità di fallire. * Aggiungo peraltro che la nuova disciplina in discorso non sancisce, come pure talvolta viene scritto, una “trasformazione” del credito dei soci, o per meglio dire un’elevazione del loro rango nell’ordine di distribuzione. Nell’ipotesi considerata dall’art. 182-quater l.fall. terzo comma, infatti, non si tratta di crediti dei soci sorti in regime di postergazione che vengono “promossi” a prededucibili, ma di crediti che “nascono” già all’80% prededucibili. Essi non sono infatti precedenti al concordato, e quindi originariamente soggetti ad un regime di postergazione, ma sorgono “in esecuzione” di un concordato o di un accordo di ristrutturazione già omologati, come dice la legge. E quindi non beneficiano di nessun upgrading, ma sono ab origine sottoposti al regime dell’eventuale prededuzione. * Il che mi pare consenta di svolgere un ulteriore rilievo sull’incongruenza del rinvio che l’ultimo comma dell’art. 182-quater l.fall. fa al terzo comma, oggetto di considerazione in queste riflessioni.
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Come noto, l’ultimo comma dell’art. 182-quater sancisce che i crediti previsti dai commi secondo, terzo e quarto non possono essere conteggiati all’interno delle classi chiamata alla votazione di un piano concordatario, ovvero nella quota del 60% dei crediti rispetto alla quale commisurare l’approvazione degli accordi ex art. 182 bis. Si tratta però di un rinvio (come pure è stato scritto da Lorenzo Stanghellini, che vedo qui presente) che nella sua globalità può avere qualche senso se lo si legga (magari per effetto di una compilazione un po’ caotica e convulsa dell’enunciato normativo, che è ipotesi sempre meno inverosimile di questi tempi) come una sorta di rinvio omnibus ai commi precedenti, volto a neutralizzare l’influenza decisoria dei crediti da questi ultimi considerati, proprio in quanto sorti in funzione del procedimento omologatorio, e quindi prima dell’omologazione. Ipotesi che quindi trova rispondenza nei commi secondo e quarto, riguardanti in effetti crediti sorti in funzione della presentazione di una domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o di una domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti; crediti che pertanto, precedendo la relativa omologazione, andrebbero conteggiati ai fini dell’approvazione dell’accordo, se non fosse appunto che proprio l’ultimo comma dell’art. 182-quater li esclude da tale possibilità. Analoga esclusione non pare tuttavia molto comprensibile con riferimento ai finanziamenti dei soci previsti dal comma terzo, dal momento che essi, per definizione, sono finanziamenti sorti in esecuzione di un concordato (o di un piano di ristrutturazione) già omologato: e quindi, ovviamente, dopo che la votazione (o la approvazione) ha già avuto luogo. Deve concludersi allora che il rinvio al terzo comma è privo di un’effettiva portata precettiva. Salvo forse un solo caso, la cui marginalità, peraltro, fa dubitare che proprio ad essa il legislatore dei nostri giorni abbia pensato: il caso di finanziamenti concessi da soci “in esecuzione” di un accordo di ristrutturazione già omologato, che poi però si volgesse – come pur possibile – verso un concordato preventivo; rispetto alla cui approvazione, allora, quei crediti (che in caso di ulteriore sbocco fallimentare resterebbero allora prededucibili all’80%) non potrebbero essere computati fra i votanti. * Ciò detto, temo mi resti troppo poco tempo per la seconda parte del discorso che avevo in mente di svolgere e nel quale mi proponevo di affrontare casisticamente una serie di interrogativi applicativi che riguardano la norma in discorso. Interrogativi riguardanti sia la nozione
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di socio, e quindi, potrebbe pur dirsi, il presupposto soggettivo del terzo comma; sia la nozione di credito concesso in esecuzione, e allora l’elemento oggettivo della fattispecie. Naturalmente, come dicevo, in questa sede neppure è pensabile affrontare interrogativi e problematiche (che però, va ben ricordato, sono certamente pertinenti alla fattispecie in discorso, ad anzi di preliminare rilevanza) scaturenti, già al vertice, dall’art. 2467 in sé, e quindi riguardanti la perimetrazione del suo generale àmbito applicativo. Per tali interrogativi valga allora un rinvio generico, come pure dicevo, ai principali acquis raggiunti dal 2003 in poi sull’interpretazione dell’art. 2467, c.c. Occorre invece concentrarsi in questa sede sui problemi interpretativi specificamente riguardanti l’art. 182-quater, comma terzo: i finanziamenti dei soci concessi in esecuzione di un concordato o di un accordo di ristrutturazione omologato. * Per quanto riguarda il primo profilo – quello soggettivo, relativo alla identificazione di chi si debba intendere “socio” secondo il comma in discorso – una prima questione è posta dall’esigenza di coordinare il primo e il terzo comma. Il primo comma, com’è stato ricordato poco fa, prevede una prededucibilità al 100% dei finanziamenti concessi da banche o intermediari finanziari; mentre il terzo comma limita l’operatività dell’eventuale prededuzione all’80% se si tratti di finanziamento concesso da un socio – sempre alle condizioni, beninteso, poste dall’art. 2467. Quid, allora, se una banca è anche socia? Quale delle due norme prevale, quella prevista dal primo o dal terzo comma? Potrebbe in primo luogo ritenersi, in una prospettiva diacronica, che se una banca è già socia (impregiudicata restando ora – perché è una delle questioni generali alle quali mi riferivo poc’anzi – se solo di s.r.l. o anche di s.p.a.) e successivamente eroghi un finanziamento, prevarrà la norma del terzo comma, in quanto “speciale”: il finanziamento andando in tal caso in prededuzione soltanto per l’80%. Se questa linea interpretativa convincesse – ma come dirò fra breve potrebbe anche dubitarsene – nell’ipotesi inversa (prima il finanziamento, poi l’acquisto della partecipazione) dovrebbe allora valere soluzione altrettanto inversa. E ciò tanto più considerato che, come ricordavo in premessa, il presupposto applicativo dell’art. 2467 deve essere verificato con riferimento al momento genetico del finanziamento: sicché, ove la banca prima eroghi un finanziamento, e solo successivamente acquisisca una partecipazione, allora quel credito non sarebbe sorto in un
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momento in cui la banca era socia, e pertanto non ricadrebbe nel campo applicativo del terzo comma, bensì in quello, più generale, del primo (: prededucibilità integrale). Tuttavia può sorgere qualche dubbio sulla possibilità di risolvere questa seconda ipotesi in termini tanto meccanicistici (altrove, ma su diversa base normativa, definiti come Sanierungsprivileg), poiché – ponendo mente al contesto operativo nel quale normalmente si verificano le situazioni qui affrontate – la rilevanza della sequenza temporale (se sorga prima la partecipazione o il credito) potrebbe in qualche modo sfumare. Intendo dire che se si pone mente, empiricamente, alla tipologia delle sovvenzioni bancarie esecutive di un concordato o di un accordo – tipicamente poi nei casi di “intervento misto” – è probabile che l’acquisizione di una partecipazione e l’erogazione di un finanziamento vengano contestualmente programmate all’interno dell’unico piano concordatario (o di ristrutturazione dei debiti). Ove si tratti di finanziamenti concessi da una banca nell’ambito di un piano unitario (omologato), nella forma di un intervento “misto” (apporto di capitale di credito e di capitale di rischio, assumendo una partecipazione), i due momenti di finanziamento, se pur non da eseguirsi contemporaneamente, si troverebbero allora ad essere comunque collegati in un contesto negoziale unitario. In questo caso, a me pare che mettersi poi a sottilizzare se, in esecuzione di un programma comunque unitario ed inscindibile, sia stato eseguito prima il finanziamento e soltanto dopo l’acquisizione della partecipazione, oppure viceversa, risulterebbe metodo poco affidabile e comunque poco ragionevole. Ed allora o si ritiene la prospettiva diacronica comunque “assorbita” e superata dalla circostanza che, essendo le due vie di sovvenzione finanziaria previste contestualmente, la banca potrebbe essere considerata già come se fosse socia, o comunque “sensibile” ed avvertita della situazione finanziaria della società sovvenuta ad un livello non inferiore a quello che si presume in capo al socio di s.r.l. e che giustifica il particolare trattamento dei suoi finanziamenti ex art. 2467. Ovvero – proprio perché, in realtà, una tale “sensibilità”, per ragioni di diligenza professionale, v’è sempre da parte delle banche (a prescindere cioè dal fatto che esse di impegnino o meno ad assumere una partecipazione) potrebbe ritenersi che l’argomento appena riferito provi troppo. Ed allora, ribaltando l’intera prospettiva sin qui seguita, risolvere tutta la questione dei rapporti fra il primo e il terzo comma – secondo un’interpretazione evidentemente orientata all’incentivazione (ma inevitabil-
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mente anche alla superprotezione) dei finanziamenti bancari – nella prevalenza sempre e comunque del primo comma, che sarebbe allora da ritenersi “speciale” in quanto riferito ad una particolare categoria di finanziatori. In questa diversa prospettiva, la “bancarietà” del finanziamento guadagnerebbe a quest’ultimo sempre e comunque una condizione di prededucibilità integrale, a prescindere dal fatto che la banca erogante sia anche socia, o stia per divenirlo. * Ancora con riferimento al momento soggettivo, mi pare meriti d’essere ora ricordata – pur dovendone ormai “saltare” altre 13 – una fattispecie dalla dubbia riconducibilità alla disciplina di cui all’art. 182-quater terzo comma: quella della cessione del credito del socio – tanto se sorto prima dell’omologazione, ed allora integralmente postergato, quanto se erogato in esecuzione del concordato, e quindi postergato solo al 20% – mentre la procedura è ancora in corso. Se cioè, per effetto di una dissociazione della posizione di socio (cedente) da quella del nuovo titolare del credito, possa operare un meccanismo di claim washing in virtù del quale il credito ceduto cambi statuto. Emerge il problema – probabilmente dalla portata più generale del caso specifico ora considerato – se il credito del socio, una volta sorto, si cristallizzi in una sorta di statuto oggettivo e permanente, ovvero se possa mutare la sua condizione per effetto della sua novazione soggettiva. Al riguardo – spero senza troppa fantasia – potrebbe forse orientare ad una soluzione l’assumere come generale dell’intera disciplina concorsuale un principio ricavabile dalla particolare disciplina della compensazione nel fallimento: diretta, come noto, a neutralizzare il trasferimento strumentale di crediti nell’imminenza di una procedura fallimentare, onde non attribuire benefici altrimenti preclusi ai creditori concorsuali. Certo, se poi il credito fosse incorporato, ad esempio, in una cambiale (con tutto il “bagaglio” di autonomia e astrattezza che ne assisterebbe
13 Ad esempio, cosa accada se un socio, anziché finanziare la società direttamente, conceda una garanzia personale ad una banca affinché questa finanzi a sua volta la società (il credito della banca merita ugualmente la prededucibilità integrale?). Ovvero cosa accada se un finanziamento concesso ex art. 2497 quinquies provenga da una società del gruppo che però non partecipi nella finanziata (si applica ugualmente l’art. 182 quater comma terzo, nonostante la fattispecie da esso prefigurata si riferisca espressamente, e soltanto, a “finanziamenti dei soci”?).
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l’esigibilità), opporre al portatore del titolo in buona fede l’eccezione opponibile al socio già parrebbe più delicato. * Vengo infine al versante oggettivo, quello della nozione di credito concesso in esecuzione. Anche su questo piano, per vero, m’ero annotato tre o quattro questioni, ma per brevità dovrò ricordarne soltanto una o due. Dunque, dicevo prima che la disciplina qui esaminata non comporta, in principio, una “trasformazione” del credito da postergato a prededucibile, dal momento che il credito del socio viene alla luce già sotto una “buona stella”, vale a dire sotto il regime dell’art. 182-quater, comma terzo, che lo vede prededucibile all’80% ab origine. Mi domando però se una “trasformazione” di tal fatta, un vero e proprio upgrading verso il regime privilegiato della prededucibilità, non possa avvenire con riferimento a crediti pregressi del socio che fossero postergati ex art. 2467 ovvero semplicemente chirografari (dal momento che – lo ricordo anche se è ovvio – potrebbero ben esserci anche crediti dei soci erogati in condizioni diverse da quelle dell’art. 2467, e quindi non postergati, in principio, a quelli degli altri creditori), ma comunque non prededucibili. Ebbene, mi domando cosa ne sarebbe di un credito del genere, destinato magari a venire a scadenza nel periodo temporale coperto dalla procedura concordataria, se rinegoziato, in esecuzione del piano concordato, all’interno di un accordo novativo (stavolta, ovviamente, in senso oggettivo). Un accordo che, rispetto agli originari elementi del credito, si traduca (per quantità, oggetto, o termini) in un miglioramento sostanziale delle condizioni del finanziamento preesistente. Ecco, questa è nuova finanza o no? Perché, se così fosse, nel caso considerato davvero sarebbe dato assistere ad un avanzamento del credito dal rango di postergato, o comunque chirografario, a quello di prededucibile. Del resto, per meglio visualizzare la sostanza economica dell’operazione, la si potrebbe anche immaginare, un po’ come accadeva nel Mercante di Venezia, come quella in cui il socio ottenga nei termini il rimborso del suo credito, ma poi rimetta nelle casse sociali quanto appena incassato: in questa prospettiva, la rinegoziazione del credito postergato o chirografario potrebbe anche essere considerata come nuova finanza, ed avvertita, tutto sommato, come meritevole: senza che allora occorra sospettare un’elusione di principi inderogabili di legge, o peggio una
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frode ad essa. E del resto è la stessa legge che espressamente, ad esempio, qualifica come “contratto di credito” quella sotto forma di dilazione di pagamento (art. 121, lett. b), t.u.b. E poi, c’è un problema nel problema: se cioè questo genere di accordi, che trasformano i crediti pregressi in nuova finanza prededucibile, debbano essere espliciti o possano essere puramente taciti. La dottrina tedesca, ad esempio si è occupata di questo campo problematico, riassunto nell’etichetta del cosiddetto Stehenlassen (letteralmente: lasciar stare). L’ipotesi è la seguente: un socio potrebbe legittimamente esigere un suo credito, ma ne tralascia consapevolmente l’esazione per “dare ossigeno” alla società. Sarebbe questa allora una rinegoziazione capace di provocare l’effetto che dicevo prima? O perché si produca quell’effetto occorre un accordo esplicito? * Ultima questione, sempre sul versante oggettivo. Se i finanziamenti dei soci concessi in esecuzione di un concordato o di un accordo di ristrutturazione vengono rimborsati durante la stessa procedura (sempre ammesso che si acceda ad una delle tesi cd. “processualiste”, che non negano tout court la rimborsabilità dei crediti ex art. 2467, ammettendone invece la liceità finché non sopravvenga un fallimento), cosa ne è del rimborso in caso di sbocco fallimentare? È immaginabile una revocatoria del rimborso effettuato e quindi – pur a dispetto della previsione generale, sopra ricordata, dell’art. 67, co. 3, lett. e), l.fall. – di un credito sorto in esecuzione di un concordato preventivo (o di un accordo omologato), ma rimborsato durante la sua esecuzione? Sempre che si condivida, al vertice, il rapporto di specialità e di prevalenza (già sopra evidenziato sulla scia della Cassazione) che intercorre fra l’art. 2467 e l’art. 67, co. 3, lett. e, l.fall. (che sarebbe quindi inapplicabile ai finanziamenti soci ex art. 2467 c.c.), direi di sì, nei seguenti termini. Innanzitutto, non si dimentichi che se è vero che l’art. 182-quater, nel suo complesso, opera nel senso della prededucibilità della nuova finanza, è anche vero che con particolare riferimento ai finanziamenti dei soci una tale condizione è limitata al solo 80% del credito. Sicché un’azione revocatoria potrebbe senz’altro legittimarsi per il restante 20%, in quanto comunque soggetto alla condizione di postergazione posta dall’art. 2467, c.c. Ma v’è forse un ulteriore profilo in base al quale, anche oltre il limite del 20%, potrebbe legittimarsi la revoca del rimborso dei finanziamenti soci, pur nella parte assistita dalla condizione di prededucibilità.
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È chiaro infatti che prededucibilità non significa irrevocabilità, benché come già detto le due situazioni giuridiche risultino connesse da un’analoga ratio e infatti complementari nella protezione della nuova finanza. In altri termini, deve osservarsi che la disciplina dei finanziamenti dei soci posta dall’art. 2467 si potrebbe scomporre in due regole: la prima è quella che legittima l’azione della curatela a farsi restituire quanto rimborsato ai soci; la seconda è quella che, ottenuta la restituzione di quella somma ed insinuato al passivo il relativo credito del socio, vuole che la pretesa di quest’ultimo venga postergata in sede di riparto. Ecco, l’art. 182-quater deroga (all’80%), al secondo precetto, non si pronuncia sul (e non preclude il) primo. Se ciò è vero, la questione potrebbe forse essere apprezzata nei seguenti termini: se pure potesse richiedersi la restituzione del rimborso, eseguito durante il concordato, dei finanziamenti dei soci, la circostanza che il credito del socio, per quanto restituito, andrebbe poi collocato in prededuzione per l’80%, potrebbe far dubitare alquanto dell’utilità dell’iniziativa della curatela, entro quella misura. Neppure deve trascurarsi, però – e dico ancora una cosa ovvia – che un credito prededucibile non è necessariamente un credito che poi verrà pagato per intero: posto che la massa attiva – come ben risulta dall’art. 113 l.fall. – risulta talvolta sufficiente a pagare soltanto una parte dei crediti prededucibili, anch’essi poi capaci di essere collocati secondo diversi ranghi nel riparto (cd. concorso sostanziale fra prededucibili). In concreto, allora, starebbe all’apprezzamento del curatore di discernere tra una condizione di sostanziale inutilità della revoca (dovendosi prevedere che quanto revocato andrebbe poi integralmente restituito in prededuzione, e quindi, per giunta, con gli interessi); ovvero valutare se perfino il credito prededucibile rischi di scontare, nel fallimento, una qualche falcidia ex art. 113 l.fall.: in tal caso, allora, ben potendo giustificarsi una sua revoca, affinché sopporti pariteticamente con gli altri crediti prededucibili gli effetti di un attivo insufficiente. Grazie.
La subordinazione volontaria Fabrizio Maimeri Dacché la legge fallimentare non approntava alcuno strumento per la risoluzione della crisi d’impresa, oggi ne abbiamo ben tre: il concordato preventivo (art. 160), gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182-
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bis) e i piani di risanamento attestati (art. 67, co. 3, lett. d). Si discute se siano proprio tre, se il secondo sia un modo di essere del concordato preventivo o qualcosa di diverso, ma insomma rimangono tre i contesti nei quali formulare piani di risanamento. In molti piani di risanamento sono presenti clausole di postergazione ovvero, più raramente, prestiti subordinati, le prime molto variamente atteggiate, i secondi obbedienti a caratteristiche meno differenziate. L’analisi delle fattispecie utili alle presenti note si dipana prima attraverso il recupero di fattispecie interessanti per fornire un quadro d’insieme: i prestiti postergati e la postergazione ex lege di cui all’art. 2467 c.c.; dalle conclusioni raggiunte in questo ambito si tenta di individuare qualche soluzione operativa in relazione ai piani di risanamento e alle procedure che li riguardano. 1. Di postergazione, anziché di subordinazione, si comincia a parlare negli anni Ottanta del secolo scorso a proposito della possibilità di capitalizzare le banche e segnatamente le banche di diritto pubblico poiché in una nota Memoria della Banca d’Italia si parla, appunto, di prestiti postergati come strumenti da considerare come capitale, assimilati cioè al capitale di rischio: un’altra ipotesi in cui il diritto bancario fa da apripista al diritto commerciale. Si tratta di prestiti a medio o lungo termine caratterizzati da una clausola in base alla quale il creditore accetta di essere rimborsato dopo l’integrale soddisfacimento di tutti gli altri creditori in caso di liquidazione volontaria o coatta della banca o, più in generale, di assoggettamento a procedura concorsuale dell’impresa finanziata. Il prestatore accetta quindi di collocarsi in posizione intermedia tra gli altri creditori e coloro che hanno conferito capitale di rischio ai fini della ripartizione dell’attivo patrimoniale in caso di liquidazione volontaria o concorsuale dell’impresa finanziata e, quindi, sostanzialmente accetta di rimanere insoddisfatto qualora la situazione patrimoniale non consenta l’integrale pagamento degli altri debiti. Resta, per contro, integro il diritto dei creditori postergati di essere rimborsati in via prioritaria rispetto a coloro che hanno conferito mezzi finanziari a titolo di capitale di rischio. Il tasso di interesse è di regola superiore a quello praticato sul mercato per prestiti non postergati aventi le medesime caratteristiche ed è talvolta previsto un compenso integrativo sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa finanziata. In conclusione, la clausola di postergazione si caratterizza per ciò che: (a) è contestuale alla concessione del prestito; (b) è convenuta direttamente con il debitore; (c) è destinata ad operare in caso di liquidazione volontaria o coatta e, più in generale, di apertura di procedura
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concorsuale nei confronti dell’impresa finanziata: (d) è produttiva di effetti nei confronti di tutti i creditori attuali e futuri fino al loro integrale soddisfacimento. 2. I prestiti postergati – che nascono per le banche ma che possono essere emessi anche da società di capitali – si inquadrano nel più ampio istituto della postergazione consensuale del credito, istituto non previsto né regolato dall’ordinamento – che invece disciplina la del tutto differente fattispecie della postergazione del grado ipotecario (art. 2843 c.c.) – cui possono essere ricondotte tutte le manifestazioni dell’autonomia privata volte a subordinare il pagamento di un debito al preventivo pagamento di altri debiti. Peraltro non mancano le diversità rispetto ai prestiti postergati come sopra sinteticamente descritti. La postergazione infatti può essere contestuale al sorgere del credito e atteggiarsi quale patto accessorio alla fattispecie costitutiva, ovvero può intervenire successivamente, dando vita a un autonomo negozio destinato a modificare il preesistente regolamento del credito. Ancora, la postergazione può essere convenuta col debitore o direttamente con il creditore o i creditori beneficiari, ponendosi solo nel primo caso il problema se si sia in presenza di una stipulazione rientrante nello schema del contratto a favore di terzi. Per quanto concerne i creditori beneficiari, la subordinazione può essere convenuta a favore di uno o più creditori specificamente individuati, a favore della massa dei creditori attuali o può atteggiarsi come generale, cioè a favore di tutti i creditori presenti e futuri di un dato soggetto. Infine, il patto di subordinazione può essere “puro” o sottoposto a condizione sospensiva (ad esempio l’apertura di procedure di insolvenza). Nel primo caso, che ricorre in genere in ipotesi di subordinazione a favore di creditori determinati, è precluso ogni pagamento del credito postergato fino all’integrale soddisfacimento del o dei beneficiari della clausola. Nel secondo caso, il patto è destinato a produrre effetto solo al verificarsi di una data situazione patrimoniale del debitore variamente individuato e, quindi, non preclude il rimborso del credito postergato ove la relativa scadenza intervenga prima del verificarsi dell’evento dedotto in condizione. 3. Il patto di subordinazione è utilizzato nell’ambito della predisposizione di piani di risanamento per comporre la crisi dell’impresa. In questi casi la clausola di subordinazione assume il significato di rinunzia a partecipare alle ripartizioni della massa attiva fino all’integrale soddisfacimento degli altri creditori e, quindi, sostanzialmente di rinuncia, risolutivamente condizionata, dei creditori postergati all’applicazione nei loro confronti del principio della par condicio creditorum.
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Sulla legittimità di questa rinunzia, è a dire che se è fuori dubbio che il creditore possa rimettere il debito, se è altrettanto incontestabile che il creditore sia libero di partecipare o meno al concorso, se si deve conseguentemente escludere che il principio della parità di trattamento sia legislativamente tutelato anche contro la volontà degli interessati, non possono nutrirsi dubbi sulla liceità di una rinuncia qualitativamente più circoscritta, sia sul piano sostanziale che processuale, quale quella concretizzata dal patto di subordinazione. Se mai, si può dedurre che la subordinazione rappresenta una garanzia per i creditori beneficiari: una garanzia non riducibile ad alcuna delle forme di garanzia legislativamente previste e perciò atipica, in quanto realizzata indirettamente tramite un patto limitativo dell’obbligo di restituzione nascente dal rapporto debitore-creditore postergato; patto probabilmente inquadrabile fra le clausole limitative della responsabilità contrattuale di cui al co. 2 dell’art. 1341 c.c. 4. Il susseguirsi della dinamica “subordinazione di crediti – concordato – fallimento” nasce dall’art. 2467 c.c. che, nella logica di contrastare la sottocapitalizzazione – fenomeno ricorrente nelle piccole e medie imprese italiane –, ha sancito il principio per cui i finanziamenti effettuati dai soci a favore della s.r.l. che formalmente si presentano come capitale di credito, ma che, per la situazione finanziaria in cui si trovava la società al tempo dell’atto, nella sostanza economica costituiscono parte del capitale di rischio, debbono essere postergati a quelli degli altri creditori. Ove poi il credito del socio sia stato oggetto di rimborso nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, esso deve essere restituito. Quest’ultima disposizione configura una vera e propria ipotesi di azione revocatoria, in cui il pagamento effettuato è inefficace nei confronti della massa, senza che il creditore, cioè il socio, possa opporre l’ignoranza dello stato di insolvenza (Postiglione, La nuova disciplina dei finanziamenti di soci di soc. a resp. lim.: dubbi interpretativi e limiti applicativi, in Società, 2007, p. 929). Ciò posto, entrando nella logica del concordato preventivo, si è posta la questione della possibilità di includere i creditori postergati ex lege nel piano concordatario, nel caso ovviamente in cui non si preveda, come pressoché sempre avviene, il soddisfacimento integrale dei chirografari. Di fronte a una giurisprudenza ondeggiante (per una risposta positiva cfr. Trib. Messina, decr. 29 dicembre 2005, in Il fallimento, 2006, 678; per una negativa Trib. Bologna, decr. 26 gennaio 2006, ivi, 2006, 676), Cass., sez. I, 4 febbraio 2009, n. 2706 (in Dir. fall., 2010, II, 1) ha scelto la prima alternativa, disponendo che la previsione nel piano concordatario di un
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soddisfacimento dei soci finanziatori, in deroga alla regola della subordinazione, sia possibile, purché però ricorrano due condizioni: (a) la collocazione di questi creditori in una classe autonoma; (b) il consenso maggioritario di tutte le classi rispetto al piano, fatta salva la possibilità del cram down. Va da sé che laddove non vi sia suddivisione del ceto creditorio in classi, non si può dar luogo ad alcun rimborso ai postergati ex lege, nel presupposto che l’utilizzo delle classi abbia lo scopo di derogare, nell’ambito dei chirografari, alla regola generale del concorso, la quale impone il rispetto della par condicio, sicché nulla osta a che il medesimo strumento possa servire allo scopo di realizzare una deroga alle regole del concorso anche in relazione ai creditori subordinati. Questo orientamento però non pare abbia resistito alle critiche mossegli da Trib. Firenze, 19 aprile 2010 (in Dir. fall., 2011, I, p. 24), il quale, analizza l’art. 2467 c.c. per porre in evidenza che esso presuppone il concorso dei creditori sui beni del debitore, giacché al di fuori del concorso, non vi è motivo per trattare il credito del socio in maniera diversa dall’ordinario, cioè con il pagamento dell’intero importo alla naturale scadenza. Se quindi, nel fallimento, il pagamento fatto al socio creditore è revocabile, lo stesso deve affermarsi per i pagamenti effettuati in esecuzione di un concordato preventivo sfociato in fallimento, in deroga a quanto previsto dall’art. 67 l.fall.: da ciò di deduce che i soci finanziatori non possono ricevere alcunché dal concordato, posto che diritto al concorso e obbligo di restituzione sono tra loro incompatibili. Ancorché quindi, posta la divisione in classi, parrebbe ammissibile una proposta che includa il pagamento a favore dei postergati ex lege, la revocabilità dei pagamenti effettuati in esecuzione del concordato rende evidente che così non è, giacché è sempre possibile che il concordato sfoci in fallimento e che i postergati siano costretti a restituire ciò che hanno percepito. Il vulnus ai principi sulla conservazione degli atti giuridici e sulla economia dell’attività giuridica sarebbe evidente, giacché non può consentirsi che una volontà validamente espressa resti inficiata dalla circostanza, puramente estrinseca, che il concordato sia sfociato in fallimento, in un contesto che esclude la revocabilità dei pagamenti effettuati a favore di tutti gli altri creditori e sebbene l’esigenza di stabilità delle situazioni giuridiche sia la stessa per i creditori di tutte le classi. Il socio finanziatore dunque non partecipa al concorso e non partecipa alle votazioni, poiché non può permettersi che partecipi alla formazione della maggioranza chi non sia destinatario della proposta concordataria. Infatti al voto non potrebbe essere attribuito il valore di adesione
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alla proposta concordataria per la parte che lo riguarda, perché non vi è nulla da decidere in proposito, dal momento che la sua posizione è regolata dalla legge. Del resto non vi è contraddizione fra creazione della classe e assenza del diritto di voto: è la stessa situazione che si realizza per i privilegiati. Anche in questo caso l’inserimento in una classe serve a enucleare, nel coacervo dei creditori, la posizione di alcuni di essi, ma non è detto che tutti debbano avere le medesime facoltà, come non è detto che tutti abbiano le stesse aspettative. L’esclusione delle votazioni ha la medesima spiegazione: il fatto che in un caso e nell’altro la posizione creditoria è regolata dalla legge. Secondo la decisione fiorentina, quindi, i soci postergati ex lege, se si formano le classi, debbono essere costituiti in classe, ma non può essere loro attribuita alcuna forma di pagamento anticipato del loro credito né quindi diritto di voto nella classe. Fra l’altro, questa soluzione ostacola il verificarsi della possibilità che la costituzione di classi sia funzionale a costruire una maggioranza tale da far passare il concordato o, almeno, il cram down. 5. In un piano di risanamento, a prescindere dalla procedura in cui viene inserito, vi possono essere sia prestiti postergati, sia postergazione di crediti. Entrambi gli strumenti servono a rafforzare la garanzia di pagamento degli altri creditori. Per i primi, esclusi dubbi di ammissibilità e ricondottane la sussistenza a piani di importo e sofisticazione finanziaria rilevanti, possono darsi due ipotesi. La prima è che il prestito postergato preesista, ma sia effettuato non ai sensi dell’art. 2467 c.c.: qui non pare possano invocarsi le conclusioni dianzi esposte e che presupponevano, appunto, una disciplina legale eccezionale (ad esempio in punto di revocatoria) che non si presta ad applicazioni estensive. Ne segue che anche il pagamento ai prestatari in base al piano evita l’azione revocatoria, secondo la regola generale della salvezza degli atti esecutivi del concordato. La seconda ipotesi è invece che l’impresa in crisi preveda nel piano di emettere prestiti della specie e decida di sottoscriverli o la banca che eroga nuova finanza ovvero un’altra impresa interessata magari a subentrare nell’attività. Qui non vi è un problema di ammissibilità della classe o di possibilità di pagamento anticipato, perché la creazione stessa del prestito si colloca nell’ambito del piano e contestualmente ad esso. Qui insomma l’emissione del prestito e la sua sottoscrizione tendono a rafforzare la complessiva “accettabilità” del piano al ceto creditorio che vi partecipa e quindi non si enucleano fattispecie quali quelle per le quali
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si è sopra argomentato in relazione alla ammissibilità di prevedere un soddisfacimento percentuale per i sottoscrittori del prestito. Non mutano granché le conclusioni laddove si verta nell’ipotesi di postergazioni di credito concordate con il debitore e con i creditori e inserite nel piano. Qui non vi sono prescrizioni di legge (e neppure di tipo sanzionatorio) e quindi il piano può liberamente stabilire la più conveniente strategia di risanamento e sottoporla poi al voto dei creditori (che tiene luogo della “punitività” della norma di legge). Il sacrificio di determinati creditori a vantaggio di altri è legittimo e confermato dal voto si approvazione del piano. Il rischio di revocatoria, una volta eventualmente subentrato il fallimento, è evitato al ricorrere dei requisiti richiesti.
Considerazioni conclusive Gaetano Presti Desidero iniziare con un ringraziamento tutt’altro che formale. Dopo il bel convegno dell’anno scorso su Crisi finanziaria: quali regole per la banca? (i cui atti sono pubblicati in questa Rivista, 2010, p. 501 ss.), anche quest’anno – e tutti ci auguriamo che diventi un appuntamento fisso – Alessandro Nigro ha voluto festeggiare il ritorno di Persefone dall’Ade organizzando un incontro di studio nel quale ci ha stimolato a uscire dal letargo invernale per riflettere sul finanziamento delle imprese in crisi. Un tema cruciale sul quale, nell’ultimo periodo, si è canalizzato l’interesse di tutti coloro che seguono le crisi di impresa, come è dimostrato dall’interesse con cui sono state accolte le Linee-guida per il finanziamento alle imprese in crisi redatte da un gruppo di studiosi capitanati da Lorenzo Stanghellini e nelle quali spunti e lacune della riforma fallimentare sono stati ingegnosamente sfruttati per proporre equilibrate soluzioni di best practice. Nella scorsa estate, infine, sollecitato da più parti, è intervenuto anche il legislatore con il d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. in l. 30 luglio 2010, n. 122, che ha introdotto nella legge fallimentare un nuovo art. 182-quater che, in sostanza, usa la “carota” della prededuzione nell’eventuale successivo fallimento per incentivare (certi) finanziamenti alle imprese in crisi. L’incontro odierno è stato denso di dubbi, di suggerimenti e spunti, di critiche alla disposizione appena citata. Già a un primo esame Nigro, in un articolo apparso su questa Rivista (Manovra economica e legge falli-
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mentare, in Dir. banc., 2010, p. 123 ss.), ne aveva impietosamente chiosato le soluzioni, anche lessicali (basti ricordare che non si comprende quale differenza vi sia tra i crediti prededucibili e quelli a loro parificati: cfr. art. 182-quater, co. 2, l.fall.), concludendo – con un’immagine molto evocativa per chi apprezza Paolo Conte – che la novella suscita una “valanga di perplessità”. Come avrò modo di evidenziare, da porre in dubbio è addirittura la consapevolezza della materia da parte del legislatore giacché, a fronte di una conclamata intenzione di incentivare i finanziamenti alle imprese in crisi, talvolta le soluzioni indicate dalla recente legge sembrano andare in direzione contraria, diminuendo invece che aumentando le chances di ottenere credito da parte di tali imprese. Un ipotetico lettore digiuno di diritto fallimentare che leggesse il nuovo art. 182-quater l.fall. probabilmente lo troverebbe abbastanza chiaro nel contenuto e coerente con le aspirazioni espresse dal regolatore. Il quadro, tuttavia, si complica alquanto se il lettore è consapevole del contesto in cui la nuova disposizione si colloca e deve operare. Quel che appariva chiaro e coerente può rivelare, infatti, elementi di oscurità e disarmonia se si tiene conto del quadro regolamentare previgente; della circostanza che le nuove norme si applicano tanto al concordato preventivo quanto agli accordi di ristrutturazione, cioè a istituti dalla natura e struttura assai diverse tra loro; del fatto che un trattamento preferenziale è previsto in ragione non solo di criteri oggettivi, ma anche soggettivi, distinguendosi i finanziamenti erogati dalle banche e dagli intermediari finanziari da quelli effettuati da qualsiasi altro soggetto e, in quest’ultima area, disegnandosi un’ulteriore differenziazione in favore dei datori di credito che siano anche soci della società finanziata. Tale essendo l’ambiente normativo, il tentativo di indicare soluzioni interpretative armoniche e coerenti nei diversi contesti nonché conformi alla sedicente ratio della novella, vale a dire di facilitare, non ostacolare, i finanziamenti alle imprese in crisi, è tutt’altro che semplice. In primo luogo perché lo stesso istituto della prededuzione, come ci hanno rammentato Nigro e Pacchi, è ancora ben lungi da una sistemazione concettuale soddisfacente, soprattutto nella sua nuova veste di strumento di incentivazione; in secondo luogo perché, limitando per ora il discorso al concordato preventivo, le innovazioni normative scontano un’inadeguata consapevolezza del contesto cui prima accennavo. Anzitutto, non è affatto scontato, come parrebbe a contrario leggendo le nuove norme, che prima della novella i c.d. finanziamenti-ponte fossero esclusi dalla prededuzione in sede di eventuale successivo fallimento; potevano, infatti, essere considerati come crediti sorti in funzione di una procedura concorsuale e, pertanto, ex art. 111, co. 2, l.fall.,
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prededucibili in sede fallimentare (e direi anche in sede concordataria, dovendo essere pagati per intero come i crediti sorti legittimamente nel corso della procedura). Ma se così fosse, il nuovo art. 182-quater, co. 2, l.fall. (quello dell’ineffabile parificazione pocanzi ricordata) non avrebbe il significato di accordare un trattamento preferenziale prima negato ad alcuni crediti, ma quello, in apparente contrasto con la ratio conclamata, di precludere ad alcuni finanziatori (tutti quelli diversi da banche e intermediari finanziari che, detto incidentalmente, oggi sono individuati dal solo art. 106 TUB) tale beneficio, prima esistente. Salvo che non si dica che la restrizione dell’area del prededucibile va considerata come una super-preferenza per quei fortunati finanziatori superstiti che vedono gli altri esclusi dal “banchetto” della prededuzione (con la sempre maggiore frammentazione del trattamento dei creditori dell’impresa in crisi ricordataci in apertura da Nigro) oppure, in prospettiva completamente diversa, non si affermi che anche gli altri finanziamenti-ponte possono ancor oggi rientrare nell’area dell’art. 111 l.fall.: con la differenza che mentre quelli erogati da banche e intermediari finanziari sono tipizzati dalla legge e possono ottenere da subito (con il provvedimento ad hoc contestuale all’ammissione alla procedura concordataria) lo status di prededucibile, gli altri devono aspettare il dictum del giudice fallimentare. Analogamente, neppure per i finanziamenti in esecuzione di un concordato era scontato che essi non godessero della prededuzione in sede fallimentare. È vero che un finanziamento in esecuzione del concordato sorge per definizione dopo la chiusura della procedura e, quindi, non può dirsi sorto in sua occasione. È anche vero, però, che un finanziamento poteva essere erogato in esecuzione del concordato, ma in seguito ad autorizzazione emessa dal Giudice Delegato durante la procedura oppure dopo essere stato inserito nella proposta sottoposta alla votazione, in ipotesi favorevole, dei creditori. Di fronte a tali finanziamenti poteva forse dirsi che essi erano sorti in funzione della procedura concordataria: l’essere in esecuzione, infatti, non esclude l’essere anche in funzione. Oggi, tuttavia, questa interpretazione sembra assai difficile in quanto le nuove norme dispongono che solo i finanziamenti in esecuzione erogati da banche e intermediari finanziari godono della prededuzione e questo trattamento è esteso unicamente in favore dei soci finanziatori, sia pur limitatamente all’ottanta per cento del loro importo. Eppure non può che trattarsi, come giustamente messo in luce oggi da Terranova, che di finanziamenti specificamente indicati nella proposta sottoposta al voto dei creditori giacché non può ammettersi una prededuzione dai contorni indefiniti per qualunque finanziamento bancario che, ex post,
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possa essere definito come esecutivo del piano concordatario. Ci si deve chiedere allora quale logica vi sia, a parità di condizioni (e soprattutto di consenso dei creditori concordatari), nel riservare il beneficio solo ad alcuni creditori. D’altro canto, il trattamento “intermedio” riservato ai soci finanziatori induce ulteriori perplessità. Al di là del rapporto con gli artt. 2467 e 2497quinquies c.c., su cui ci hanno sapientemente intrattenuto Vattermoli e Sciuto, è singolare che il socio, innestata la corsia di sorpasso, non solo affianchi il creditore terzo (diverso da banche e intermediari finanziari), ma addirittura lo superi per l’ottanta per cento (mentre il venti per cento residuo presumibilmente resta indietro). Al riguardo, ultimamente si è discusso se alla banca socia si debba applicare il primo o il terzo comma dell’art. 182-quater l.fall. In dottrina sono state prospettate tre ipotesi interpretative: per la prima dovrebbe applicarsi solo il primo comma in quanto la disciplina soggettiva per banche e intermediari finanziari prevale su quella stabilita per i soci (quindi, assegnando numeri positivi alla prededuzione e zero alla sua mancanza: banche anche socie 100, soci diversi da banche 80, altri 0); per la seconda dovrebbe, invece, applicarsi il terzo comma in quanto ivi è stabilita la disciplina per tutti i finanziamenti dei soci, a prescindere dal loro status professionale (quindi: banche terze 100; soci anche banche 80; altri 0); per la terza, infine, il terzo comma non si applicherebbe a tutti i soci, ma solo a quelli che siano banche e intermediari finanziari essendo i finanziamenti degli altri soci sottoposti al diritto comune e, quindi, sussistendone i presupposti, alla regola di postergazione (quindi: banche non socie 100; banche socie 80; soci non banche e altri 0). Benché la lettera della norma possa indurre in prima battuta a propendere per la seconda interpretazione, reputo che debba invece optarsi per la prima. Complessivamente, infatti, la norma deve interpretarsi avendo in mente la finalità di agevolare gli interventi di sostegno finanziario delle imprese in crisi che abbiano fatto ricorso agli istituti del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione. In questa ottica sembra anzitutto coerente che, nell’ambito di ipotesi di sistemazione della crisi sottoposte al giudizio di omologazione, una qualche forma di incentivo sia prevista per tutti i soci finanziatori che, in virtù della vicinanza alla società, sono i soggetti meglio informati; non si comprende, quindi, perché, come ipotizza la terza tesi, la prededuzione parziale debba essere limitata ai soli soci che siano banche o intermediari finanziari. Passando alla seconda tesi, in primo luogo osservo che, nell’ottica dell’incentivazione, sarebbe poco comprensibile una disposizione che tratti meglio (assegnandole 100) la banca che abbia apportato solo capi-
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tale di credito in esecuzione del concordato rispetto a quella che, oltre a ciò, veda coinvolto nell’operazione anche capitale di rischio (in ipotesi, prededuzione solo per 80). In secondo luogo seguendo l’interpretazione qui criticata si arriverebbe a una contraddizione: l’investimento in capitale di rischio sarebbe scoraggiato per le banche (che passerebbero da 100 a 80) e incoraggiato per gli altri (che passerebbero da 0 a 80). Infine, pure a livello letterale, l’“anche” contenuto nel terzo comma indica che non si tratta di una limitazione, ma di un’estensione; e, d’altro canto, il secondo comma dell’art. 182-quater l.fall. certamente si applica a tutte le banche, anche a quelle socie, e non si vede come il primo comma possa avere un ambito di applicazione meno esteso In conclusione, mi pare che l’art. 182-quater l.fall. vada letto come una norma che nel primo comma assegna un trattamento di particolare favore ai finanziatori professionali e soggetti a vigilanza e che, nel terzo comma, estende, parzialmente, tale beneficio ai soci – diversi da banche e intermediari finanziari – in quanto soggetti in concreto potenzialmente particolarmente adatti a intervenire con il loro sostegno finanziario (e dei quali spesso, come ha sotttolineato Maccarone, un intervento viene chiesto dalle stesse banche a comprova della loro “fiducia” nella sistemazione della crisi). Tornando alle perplessità di carattere generale in relazione al concordato, ricordo infine che nulla viene detto dall’articolo in esame per i finanziamenti sorti in occasione della procedura concordataria. Essi restano dunque soggetti al regime anteriore che gli assicurava la prededuzione nell’eventuale successivo fallimento, purché fossero legittimamente sorti (e, quindi, essendo atti di straordinaria amministrazione, con l’autorizzazione del Giudice Delegato), ma da chiunque fossero erogati e per l’intero importo. Oggi, tuttavia, non è agevole comprendere perché il finanziamento erogato da un terzo non banca durante il concordato goda della prededuzione, mentre quello autorizzato dal Giudice Delegato o approvato dai creditori, ma erogato dopo, no; perché il finanziamento erogato dal socio durante la procedura sulla base dell’autorizzazione del Giudice Delegato (e, quindi, in una situazione che per sé mi pare escludere la ratio degli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c.) sia integralmente prededucibile, mentre quello erogato dopo in esecuzione del concordato, ma approvato dai creditori, subisca una falcidia forfettaria del venti per cento. Al riguardo, non mi sembra convincente la tesi, oggi vigorosamente sostenuta da Sciuto, per cui dalla nuova norma dovrebbe dedursi la prevalenza dell’art. 2467 c.c. sull’art. 111 l.fall. e, quindi, concludere che oggi – ma, mercé detta interpretazione autentica, anche ieri – i finanziamenti erogati dai soci in occasione della procedura sarebbero
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integralmente postergati. Ho difficoltà a intendere per quale ragione i finanziamenti erogati durante il corso della procedura, cioè nella fase più controllata e con le maggiori tutele per tutti gli interessi in gioco, dovrebbero avere un trattamento deteriore rispetto ai finanziamenti che i soci potrebbero erogare, sulla base del piano di concordato votato dai creditori, ma in un momento successivo alla chiusura della procedura stessa. Finora parlavo del concordato; passando agli accordi di ristrutturazione, in effetti, le perplessità mi sembrano minori per la circostanza che, non essendo questi ultimi procedure concorsuali, prima della novella non si poteva porre un problema di applicazione dell’art. 111 l.fall. per i crediti sorti in loro funzione od occasione. La nuova disposizione ha, pertanto, certamente il significato di concedere un incentivo che prima non esisteva per alcun potenziale finanziatore e che, come noto, la pratica da tempo fortemente chiedeva. Non c’è dubbio che l’applicazione dell’art. 111 l.fall. a taluni finanziamenti e al credito dell’esperto attestatore avrà l’effetto di rilanciare la discussione sulla natura degli accordi; anche oggi abbiamo sentito da due autori, Pacchi e Terranova, che prima della novella negavano agli accordi di ristrutturazione il carattere di procedura concorsuale, la necessità di riesaminare l’argomento. Per la verità, non vedo quali siano nella nuova normativa i motivi per smentire quella conclusione. Da un lato, infatti, le nuove norme, hanno una valenza riformatrice semplice da cogliere proprio sul presupposto che gli accordi non siano procedure concorsuali; dall’altro resta vero che gli accordi, oltre a non coinvolgere l’intero ceto creditorio e a non implicare il principio maggioritario, sono carenti di una fase di ammissione e di organi: vale a dire di un “durante”. Tant’è che mentre, come s’è visto, la dialettica concordataria è triplice (le operazioni compiute prima della domanda di ammissione, quelle dopo l’omologazione e quelle nel periodo intermedio), quella degli accordi è tipicamente duplice potendosi distinguere solo quello che accade prima e dopo l’accordo (o, se si preferisce, prima e dopo l’omologazione). Né, mi pare, argomenti in contrario possono venire dal provvedimento anticipatorio della protezione da azioni esecutive e cautelari (i nuovi sesto e settimo comma dell’art. 182-bis l.fall.), giacché esso, per un verso, non segna comunque l’avvio di una procedura e, dall’altro, … prova troppo perché pretenderebbe di dedurre la natura di procedura concorsuale da una peculiarità, la protezione anticipata, che è assente proprio in quelle che indubbiamente sono procedure concorsuali. Ho accennato in queste brevi riflessioni che le nuove norme sono analoghe per concordato preventivo e accordi di ristrutturazione sottoli-
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neando come la loro diversa natura si rifletta sulla valenza da assegnare alle nuove disposizioni. C’è però un aspetto – per la verità non toccato nelle relazioni di oggi, ma assai interessante – ove la disciplina attuale sembra divergere. Come noto, nella versione originaria del d.l. 78/2010 la prededuzione per i finanziamenti-ponte e quella per i compensi del professionista attestatore era condizionata all’omologazione del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione. In sede di conversione in legge i commi in questione sono stati riformulati e adesso il trattamento poziore si applica “purché la prededuzione sia espressamente prevista nel provvedimento con cui il tribunale accoglie la domanda di ammissione al concordato preventivo ovvero l’accordo sia omologato”. La consueta scarsa attenzione alla tecnica redazionale delle leggi lascia il dubbio su quale sia la reggente della parte finale della frase, vale a dire quella seguente a “ovvero”; si potrebbe sostenere che la frase vada letta come “purché l’accordo … sia omologato” oppure “purché la prededuzione sia espressamente prevista nel provvedimento con cui … l’accordo sia omologato”. Seguendo la prima tesi l’omologazione dell’accordo porterebbe indefettibilmente con sé la prededuzione, con la seconda invece sarebbe necessaria una decisione ad hoc, che potrebbe anche negare la prededuzione. Entrambe le tesi sono state sostenute, ma la prima sembra senz’altro preferibile poiché, in caso contrario, si dovrebbe ammettere non solo che il legislatore non conosce il corretto uso dell’indicativo e del congiuntivo (ciò che, purtroppo, non è affatto da escludere), ma anche che “il legislatore, nella stessa frase, avrebbe altrimenti usato una forma attiva («il tribunale accoglie la domanda di ammissione al concordato preventivo») e una forma passiva («l’accordo sia omologato»)” (così Stanghellini, Finanziamenti-ponte e finanziamenti alla ristrutturazione, in Il fallimento, 2010, 1356, nota 31). Se si accede a questa interpretazione, è chiaro che alla banca che eroga il finanziamento-ponte viene accollato il rischio che l’accordo di ristrutturazione venga reputato non attuabile: il che, a sua volta, implica un intervento forte della banca nella predisposizione del piano sottostante l’accordo di ristrutturazione giacché la sua tenuta è condizione necessaria per ottenere l’ombrello della prededuzione. Comunque sicuro è che, nel concordato, ci vuole un espresso provvedimento di riconoscimento della prededuzione da parte del tribunale in sede di ammissione. Nella legge non sono indicati criteri specifici per questa decisione sulla funzionalità del finanziamento alla presentazione della domanda di ammissione e, pertanto, si apre uno spazio di discrezionalità molto forte, che a me sembra politicamente, ovviamente nel
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senso di politica del diritto, in controtendenza con il disegno generale della riforma fallimentare. Quest’ultimo, infatti, è basato sulla considerazione che, al momento dell’ammissione al concordato preventivo, il tribunale non deve valutare la convenienza della proposta formulata ai creditori; anzi, secondo la recentissima, ma non compiutamente persuasiva, Cass., 25 ottobre 2010, n. 21860 (in Foro it., 2011, I, p. 105; in Il fallimento, 2011, 167, con note di Fabiani, Per la chiarezza delle idee su proposta, piano e domanda di concordato preventivo e riflessi sulla fattibilità e di Bozza, Il sindacato del tribunale sulla fattibilità del concordato preventivo) neppure la fattibilità; deve verificare soltanto la regolarità formale della domanda e dei suoi allegati. Se però il tribunale deve decidere sulla concessione o no della prededuzione alla banca che abbia effettuato un finanziamento-ponte, la situazione cambia radicalmente. Presumibilmente, infatti, la banca che ha compiuto tale intervento non è una benefattrice disinteressata, ma un creditore già esposto che valuta più conveniente, ai fini della massimizzazione del rientro dall’esposizione, accompagnare il debitore a una soluzione concordataria piuttosto che abbandonarlo al suo destino. Se la banca è così interessata alla soluzione della crisi, presumibilmente sarà non soltanto quella che eroga il finanziamento-ponte, ma anche quella che poi finanzia complessivamente il tentativo di soluzione concordata e la sua esecuzione. In questa situazione è ben possibile che il finanziatore subordini (anche solo implicitamente) il finanziamento successivo della procedura all’ottenimento della prededuzione per il finanziamento-ponte. Il tribunale può quindi trovarsi di fronte a questa alternativa: o concede la prededuzione e in questo caso il concordato potrà avere chances di andare a buon fine oppure non la concede e, allora, condanna inesorabilmente il concordato a un esito negativo. Nessun problema se il finanziamento-ponte è stato effettivamente essenziale per poter arrivare alla presentazione della domanda: la banca ha diritto di vedersi riconosciuta la prededuzione e ciò consente la continuazione dell’appoggio finanziario. Ma cosa succede se i presupposti del riconoscimento della prededuzione sono deboli: il tribunale deve essere inflessibile nella sua valutazione, anche se questa in ipotesi va contro l’interesse dei creditori che si gioverebbero di una prospettiva concordataria oppure, come potrebbe risultare più opportuno, deve valutare prioritariamente la potenziale utilità di questi ultimi? Se così fosse, però, è di tutta evidenza che a carico del tribunale verrebbe posta una scelta definitiva giacché la prededuzione resterebbe anche in caso di successivo voto contrario dei creditori. E soprattutto di una scelta che dovrebbe essere dettata dalla convenienza per i creditori. In altri termini, la “paternalistica” valutazione di convenienza da parte
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del tribunale cancellata dalla riforma fallimentare risorgerebbe surrettiziamente in questa ipotesi; senz’altro particolare, ma di estrema rilevanza pratica. In chiusura desidero accennare a un profilo sul quale è intervenuto, con parole condivisibili, Sciuto. Si tratta del quinto comma dell’art. 182quater l.fall. secondo cui “con riferimento ai crediti indicati ai commi secondo, terzo e quarto, i creditori sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze per l’approvazione del concordato ai sensi dell’art. 177 e dal computo della percentuale dei crediti prevista all’art. 182-bis, primo e sesto comma”. Il problema è quello del riferimento al terzo comma che tratta dei finanziamenti effettuati dai soci in esecuzione del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione. Sciuto ha osservato che, in parte qua, la norma sarebbe priva di senso perché questi crediti sono per definizione successivi alla domanda di ammissione al concordato o a quella di omologazione dell’accordo e, pertanto, non possono mai, ratione temporis, partecipare al voto e/o essere computati nella base su cui calcolare la maggioranza/percentuale, a prescindere dalla nuova disposizione dell’art. 182-quater l.fall.; e ha concluso che il rinvio al terzo comma deve considerarsi privo di un’effettiva portata precettiva, salvo forse il caso marginale dei finanziamenti concessi da soci in esecuzione di un accordo di ristrutturazione omologato che non andasse a buon fine e al quale seguisse un concordato preventivo. Personalmente, concordando in toto sulla critica alla tecnica redazionale, credo però che il rinvio al terzo comma possa invece essere “carico” di un’effettiva portata precettiva se, come mi pare possibile e corretto in una logica di bilanciamento di interessi, il riferimento viene effettuato non ai finanziamenti dei soci in esecuzione di un concordato o di un accordo di ristrutturazione, ma ai finanziamenti dei soci tout court (che, come ha argomentato Vattermoli ed è sostenuto anche dalla Corte di cassazione, sono “pur sempre … creditori”: Cass., 4 febbraio 2009, n. 2706, in Il fallimento, 2009, 789, con nota di Panzani, Classi di creditori nel concordato preventivo e crediti postergati dei soci di società di capitali; in Foro it., 2009, I, 2370, con nota di Fabiani; in questa Rivista, 2009, I, 263 ss., con nota di Vattermoli, Subordinazione legale ex art. 2467 c.c. e concordato preventivo; in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, 191, con nota di Balp, Dell’applicazione dell’art. 2467 c.c. alle società per azioni.; in Dir. fall., 2010, II, 1, con note di Battaglia, Postergazione ex lege del credito e formazione delle classi nel concordato preventivo: alla ricerca di un locus standi, e di Calderazzi, Un’ipotesi di violazione della omogeneità di interessi economici nella suddivisione in classi: i soci finanziatori nel nuovo concordato preventivo).
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Da questa opzione, che qui non è possibile motivare e per la quale mi permetto di rinviare a un mio lavoro in corso di pubblicazione negli Studi in memoria di Pier Giusto Jaeger, deriva però tutta una serie di complessi e delicati problemi che mi limito ad accennare. Non è affatto chiaro, infatti, se l’ambito di applicazione dell’esclusione dal voto comprenda solo i finanziamenti “anomali” – cioè quelli concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento – oppure anche quelli “normali”; insomma, se la privazione del voto debba considerarsi come la sanzione, in senso lato, di un comportamento (in violazione del principio di corretto finanziamento dell’impresa sociale) o la mera conseguenza della particolare posizione giuridica del titolare del credito da finanziamento (quella di socio). Non chiaro è anche se, nell’ipotesi dei gruppi di società, l’esclusione dal voto, letteralmente riferita nella norma in commento ai soli finanziamenti effettuati dai soci, vada intesa testualmente oppure applicata ai finanziamenti effettuati da chi esercita l’attività di direzione e coordinamento o da altri soggetti a essa sottoposti come si esprime l’art. 2497quinquies c.c., pure richiamato nel co. 3 dell’art. 182-quater l.fall. Problematici, infine, sono i rapporti tra la norma in esame e la disciplina del concordato fallimentare. Da un lato, infatti, la disposizione della cui interpretazione ci occupiamo è in sé limitata al solo concordato preventivo; dall’altro, (solo) in sede di concordato fallimentare esiste l’art. 127, co. 6, l.fall., secondo il quale sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze i crediti delle società controllanti o controllate o sottoposte a comune controllo rispetto alla società debitrice. In definitiva, da qualunque lato la si osservi la novella è destinata a generare molto lavoro interpretativo: per i giuristi forse una buona notizia, non altrettanto – temo – per la collettività.
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Sintesi di giurisprudenza * (III trimestre 2010)
Indice delle materie: I Assicurazioni: A) Contratto di assicurazione in genere; B) Assicurazione contro i danni; C) Assicurazione obbligatoria R.C. Auto; D) Assicurazioni sociali. II. Banca: A) L’impresa bancaria: profili generali. – B) La crisi dell’impresa bancaria. – C) Le operazioni bancarie in conto corrente. – D) Depositi bancari. – E) Titoli di credito bancari. – F) Crediti speciali. III. Borsa e mercato mobiliare: A) Intermediazione mobiliare. – B) Appello al pubblico risparmio.
I. ASSICURAZIONI Sommario: A) Contratto di assicurazione in genere. – 1. Contratto (in genere), contratto di assicurazione, assicurazione sulla vita, valori mobiliari in genere. – 2. Con-
* Settantatreesima puntata (le precedenti sono pubblicate in Dir. banc., 1990, I, pp. 350 e 551; 1991, I, pp. 160, 459 e 597; 1992, I, pp. 111, 253, 397 e 581; 1993, I, pp. 112, 264, 471 e 594; 1994, I, pp. 125, 255, 383 e 506; 1995, I, pp. 157, 286, 443 e 601; 1996, I, pp. 109, 265, 403 e 554; 1997, I, pp. 129, 318, 478 e 645; 1998, I, pp. 91, 277 e 637; 1999, I, pp. 171, 290, 411 e 545; 2000, I, pp. 143, 331 516 e 671; 2001, I, pp. 89, 229 e 383; 2002, I, pp. 145, 327 e 629; 2003, I, pp. 141, 315 e 471; 2004, I, pp. 321, 447 e 657; 2005, I, pp. 109 e 301; 2006, I, pp. 169 e 533; 2007, I, pp. 163, 343 e 583; 2008, I, pp. 153; 363; 549 e 745; 2009, I, pp. 111; 333; 481; 667; 2010, I, pp. 147; 349; 759; 2011, I, pp. 187, 331). Questa sintesi intende offrire una prima informazione sulle sentenze relative alle materia di interesse della rivista, depositate o edite nel periodo di riferimento. Hanno collaborato: Ranieri Razzante (§§ 1 – 23); Alessandro Benocci (§ 24); Cristina Campagna (§ 25); Elisabetta Massone (§§ 26-28); Gennaro Rotondo (§ 29); Dario Martorano (§§ 30 e 31); Stefano Boatto (§§ 32 e 33); Luciano Santone (§§ 34 e 35).
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tratto di assicurazione in genere, dichiarazioni inesatte o reticenti, annullamento del contratto. – 3. Contratto di assicurazione in genere, obbligazioni e contratti, leasing traslativo, rischio di perdita, inadempimento. – 4. Contratto di assicurazione in genere, rimborso, adempimento del contratto, assicurazione sulla vita, polizze index linked, natura previdenziale, esclusione, natura di investimento finanziario, sussistenza, inapplicabilità ex art. 1923 c.c., pignorabilità. – 5. Contratto di assicurazione, agenti di assicurazione, mediazione, provvigioni, brokeraggio assicurativo. – 6. Contratto di assicurazione in genere, dichiarazioni inesatte o reticenti, dolo, colpa, annullamento. – 7. Contratto di assicurazione in genere, dichiarazioni inesatte, reticenti, consapevolezza, artt. 1892 e 1893 cc. – B) Assicurazione contro i danni. – 8. Assicurazioni contro i danni, contratto di assicurazione, danno non patrimoniale, responsabilità civile derivante da reato, danni in materia civile e penale. – 9. Contratto di assicurazione, azione del danneggiato, procedimento, danni alla persona. – 10. Responsabilità civile, amministrazione pubblica (responsabilità) in genere, cosa in custodia (danni da), beni della PA, 2043 cc. – 11. Danni in materia civile e penale, invalidità, risarcimento del danno, valutazione e liquidazione, invalidità personale, permanente, determinazione del quantum, criteri, tabelle di capitalizzazione delle rendite vitalizie, applicabilità, durata media della vita, tasso di interesse legale, mutamento dei valori reali dei due fattori di calcolo, attualizzazione del criterio tabellare, necessità. – 12. Contratto di assicurazione, assicurazione della responsabilità civile in genere, copertura del rischio. – 13. Contratto di assicurazione, assicurazione contro i danni contro gli infortuni, disposizioni generali, rischio assicurato (oggetto del contratto), dichiarazioni del contraente, reticenze ed inesattezze, con dolo o colpa grave, impugnazioni (decadenza), onere di osservanza del termine di tre mesi, sinistro avvenuto prima di tale termine o della conoscenza delle dichiarazioni inesatte o reticenti, sussistenza dell’onere, esclusione. – C) Assicurazione obbligatoria R.C. Auto. – 14. Assicurazione obbligatoria, obbligazione in genere, obbligazioni e contratti, adempimento, pagamento, surrogazione, legale, circolazione-assicurazione obbligatoria, risarcimento del danno, azione diretta nei confronti dell’assicurato, rivalsa dell’assicuratore verso l’assicurato, assicurazione obbligatoria r.c.a., sinistro causato da conducente minorenne e privo di patente, diritto di rivalsa dell’assicuratore nei confronti dei genitori del responsabile, ex art. 18 legge n. 990 del 1969, esclusione, diritto di surrogazione dell’assicuratore medesimo nei confronti dei genitori, ai sensi dell’art. 1203 c.c., ammissibilità. – 15. Contratto di assicurazione, falsità in atti, falsità in scrittura privata, contrassegno di assicurazione, responsabilità civile, reato di contraffazione. – 16. Litisconsorzio necessario, corte costituzionale, questione di legittimità costituzionale, codice delle assicurazioni, controversie con pretese risarcitorie superiori ai limiti del massimale. – D) Assicurazioni sociali. – 17. Contratto di assicurazione, assicurazione contro i danni, contro gli infortuni, premio, mancato pagamento, 1901 cc. – 18. Assicurazioni sociali, previdenza sociale, lavoro dipendente e autonomo, lavoratori autonomi, assicurazione obbligatoria i.v.s., obblighi contributivi, piccola impresa commerciale in accomandita semplice, contitolarità di tutti i soci ex art. 1 lett. a), c) e d), l. n. 1367 del 1960, conseguenze, obblighi contributivi gravanti su accomandatari e accomandati, iscrizione a ruolo a carico di tutti i soci, legittimità, applicazione del beneficium excussionis, esclusione. – 19. Previdenza sociale, assicurazioni sociali, pensione di anzianità e vecchiaia, assicurazione per l’invalidità, vecchiaia e superstiti, pensioni, misura, art. 5 del d.lgs. n. 80 del 1992, ambito applicativo, pensione di vecchiaia, mancata costituzione per inadempimenti del datore di lavoro, obbligo del fondo, integrazione dei contributi nella misura necessaria per la costituzione della prestazione, sussistenza, dubbi di legittimità costituzionale, esclusione, fondamento. – 20. Assicurazioni sociali, infortunio sul lavoro (in itinere), INAIL, danni maggiori, lavoratore, lavoratore infortunato, rendita vitalizia, risarcimento del danno. – 21. Previdenza sociale, assicurazioni sociali, INAIL, procedimento civile, legittimazione attiva e passiva. – 22. Contratto di assicurazione, assicurazioni sociali, rimborso, copertura assicurativa, malattia. – 23. Assicurazioni
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sociali, malattia taciuta e polizza assicurativa, contratto assicurazione, rimborso spese per ricovero, non indennizzabilità del sinistro ex art. 1892 c.c. reticenze ed inesattezze nelle dichiarazioni.
A) CONTRATTO DI ASSICURAZIONE IN GENERE 1. Contratto (in genere), contratto di assicurazione, assicurazione sulla vita, valori mobiliari in genere. In tema di contratti di assicurazione, Trib. Verona, 23 settembre 2010 (in Danno e resp., 2010, 12, 1199) ha stabilito che le polizze unit linked hanno un’indubbia componente finanziaria, poiché la prestazione prevista a carico dell’assicurazione è direttamente collegata al «valore di attivi contenuti in un fondo interno oppure al valore delle quote di Oicr». Poiché il contratto in esame sposta l’intero rischio dei capitali formati con i premi a carico dell’assicurato, difformemente dal modello dell’assicurazione vita tradizionale, il primo risulta sorretto da una causa mista, con prevalenza di quella finanziaria, rilevando la veste di polizza sulla vita solo per individuare il momento in cui l’assicuratore dovrà effettuare la prestazione alla quale è obbligato. 2. Contratto di assicurazione in genere, dichiarazioni inesatte o reticenti, annullamento del contratto. Secondo Trib. Roma, 22 settembre 2010 (inedita), l’annullamento del contratto di assicurazione è invocabile solo se la dichiarazione falsa o reticente resa in sede di stipula del predetto contratto da parte dell’assicurato è di tale natura che l’assicuratore di certo non avrebbe prestato il suo consenso o non l’avrebbe concesso alle medesime condizioni se fosse stato posto nelle condizioni di conoscere l’esatta o completa verità. L’annullamento di tale contratto può, dunque, esserci qualora ci sia un nesso di causalità tra la menzogna o la reticenza dell’assicurato ed il consenso prestato dall’assicuratore al contratto che, senza tale menzogna o reticenza, non sarebbe stato affatto concluso o sarebbe stato definito in maniera diversa. 3. Contratto di assicurazione in genere, obbligazioni e contratti, leasing traslativo, rischio di perdita, inadempimento. Cass., 10 settembre 2010, n. 19301 (in Foro it., 2011, I, 1174) ha statuito che nel contratto di leasing traslativo, ove sia pattuito che il concedente assicuri il bene concesso contro il rischio di perdita totale nei limiti del valore residuo del bene alla data del sinistro, per valore residuo del bene deve intendersi il suo residuo valore commerciale effettivo; pertanto, costituisce inadempimento del concedente la conclusione di un contratto di assicu-
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razione per un valore pari alla somma dei canoni non ancora maturati alla data del sinistro, in quanto tale importo è inferiore al residuo valore commerciale effettivo del bene al momento della sua perdita. 4. Contratto di assicurazione in genere, rimborso, adempimento del contratto, assicurazione sulla vita, polizze index linked, natura previdenziale, esclusione, natura di investimento finanziario, sussistenza, inapplicabilità ex art. 1923 c.c., pignorabilità. Trib. Parma, 10 agosto 2010 (in Società, 2011, 1, 55) ha fornito la propria definizione di polizza vita. Secondo questa definizione, non può definirsi “polizza vita” un contratto che preveda un investimento finanziario non finalizzato a soddisfare principalmente bisogni di carattere previdenziale. Per aversi una funzione di tutela previdenziale e, quindi, per potersi qualificare come polizza vita, il contratto deve prevedere quale obiettivo minimo, in caso di decesso, la conservazione integrale del capitale. La previsione di un rimborso, in caso di morte, in misura inferiore al capitale versato è incompatibile con lo strumento della assicurazione sulla vita quale forma di assicurazione privata. 5. Contratto di assicurazione, agenti di assicurazione, mediazione, provvigioni, brokeraggio assicurativo. Il broker assicurativo è soggetto professionale che, anche alla luce delle previsioni della legge n. 792 del 1984, oltre a svolgere un’attività di collaborazione intellettuale con l’assicurando per la copertura dei rischi e l’assistenza alla determinazione del contenuto dei futuri contratti, svolge un’attività di intermediazione nella conclusione dei contratti assicurativi, legittimando il rinvio alle norme sulla mediazione, e che, a fronte della conclusione di un affare, ha diritto ad un compenso provvigionale il cui onere ricade esclusivamente in capo all’assicuratore. Avuto riguardo al caso specifico, Trib. Milano 21 luglio 2010 (inedita) ha rilevato altresì che tale attività ben può essere svolta in favore della Pubblica Amministrazione o di un ente pubblico, allo scopo di garantirli ed assisterli nella stipula di un contratto di assicurazione, in accoglimento della domanda attorea consegue la condanna della convenuta impresa assicurativa al pagamento dei compensi provvigionali ad essa dovuti per l’attività di brokeraggio svolta su incarico di una struttura pubblica, in quanto culminata nell’affidamento all’impresa assicuratrice medesima di diversi servizi assicurativi e, dunque, nella stipula di diverse polizze. 6. Contratto di assicurazione in genere, dichiarazioni inesatte o reticenti, dolo, colpa, annullamento. L’annullamento del contratto di assicurazione per reticenze dolose o gravemente colpose dell’assicurato può
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anche essere fatto valere dall’assicuratore in via di eccezione nell’ambito del procedimento attivato dall’assicurato allo scopo di ottenere l’indennizzo conseguente all’occorrenza del sinistro. Questo è quanto stabilito da Cass., 13 luglio 2010, n. 16406 (in Giur. it., 2011). 7. Contratto di assicurazione in genere, dichiarazioni inesatte, reticenti, consapevolezza, artt. 1892 e 1893 cc. L’inesattezza delle dichiarazioni o le reticenze cui fanno riferimento gli artt. 1892 e 1893 c.c. non necessariamente presuppongono, in una polizza che copra le spese per ricoveri da malattia, la consapevolezza da parte del contraente di essere affetto dalla specifica malattia che abbia poi dato luogo al sinistro, ma possono essere integrate da qualsiasi circostanza sintomatica del suo stato di salute che l’assicuratore abbia considerato potenzialmente rilevante ai fini della valutazione del rischio, domandandone di esserne informato dal contraente tramite la compilazione di un questionario. Così Cass., 11 giugno 2010, n. 14069 (in Massimario.it).
B) ASSICURAZIONE CONTRO I DANNI 8. Assicurazioni contro i danni, contratto di assicurazione, danno non patrimoniale, responsabilità civile derivante da reato, danni in materia civile e penale. Cass., 17 settembre 2010, n. 19816 (in Resp. civ., 2010, 11, 790; in Danno e resp., 2011, 2, 146) ha dichiarato che la parte danneggiata da un comportamento illecito che oggettivamente presenti gli estremi del reato ha diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059 c.c., i quali debbono essere liquidati in una unica somma, da determinarsi tenendo conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari ecc.). 9. Contratto di assicurazione, azione del danneggiato, procedimento, danni alla persona. Ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 145 e 148, co. 2, Codice delle Assicurazioni (d.lgs. n. 209 del 2005) la richiesta del danneggiato deve essere corredata da una serie di documenti ed attestazioni mediche, la cui omissione impedisce la decorrenza del termine rispettivamente di 60 o 90 giorni e determina la improponibilità dell’azione giudiziale. Nel caso di specie la richiesta risarcitoria di danni alla persona, in quanto non corredata dalla documentazione e dalle attestazioni richieste, non può ritenersi idonea al decorso del termine di 90 giorni per la proposizione dell’azione giudiziale, la quale deve, per
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quanto innanzi, essere dichiarata improponibile. Lo ha stabilito il G.d.p. Milano, 3 settembre 2010 (inedita). 10. Responsabilità civile, amministrazione pubblica (responsabilità) in genere, cosa in custodia (danni da), beni della PA, 2043 cc. In tema di responsabilità per danni da beni di proprietà della P.a., qualora non sia applicabile o non sia invocata la tutela offerta dall’art. 2051 c.c., l’ente pubblico risponde dei pregiudizi subiti dall’utente secondo la regola generale dell’art. 2043 c.c., norma che non limita affatto la responsabilità della P.a. per comportamento colposo alle sole ipotesi di esistenza di un’insidia o di un trabocchetto. Conseguentemente, secondo i principi che governano l’illecito aquiliano, secondo Cass., 5 agosto 2010, n. 18204 (in Danno e resp., 2010, 12, 1189; in Danno e resp., 2011, 1, 52) graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene, che va considerata fatto di per sé idoneo, in linea di principio, a configurare il comportamento colposo della P.a., mentre incomberà su questa dimostrare i fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità di rimuovere, adottando tutte le misure idonee, la situazione di pericolo. 11. Danni in materia civile e penale, invalidità, risarcimento del danno, valutazione e liquidazione, invalidità personale, permanente, determinazione del “quantum”, criteri, tabelle di capitalizzazione delle rendite vitalizie, applicabilità, durata media della vita, tasso di interesse legale, mutamento dei valori reali dei due fattori di calcolo, attualizzazione del criterio tabellare, necessità. Cass., 2 luglio 2010, n. 15738 (in CED Cassazione, 2010) ha stabilito che in tema di liquidazione dei danni patrimoniali da invalidità permanente in favore del soggetto leso o da morte in favore dei superstiti, ove il giudice di merito utilizzi il criterio della capitalizzazione del danno patrimoniale futuro, adottando i coefficienti di capitalizzazione della rendita fissati nelle tabelle di cui al r.d. 9 ottobre 1922, n. 1403, egli deve adeguare detto risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate, e cioè deve tenere conto dell’aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale e, onde evitare una divergenza tra il risultato del calcolo tabellare ed una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, prima ancora di “personalizzare” il criterio adottato al caso concreto, deve “attualizzare” lo stesso, o aggiornando il coefficiente di capitalizzazione tabellare o non riducendo più il coefficiente a causa dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa.
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12. Contratto di assicurazione, assicurazione della responsabilità civile in genere, copertura del rischio. L’assicurazione della responsabilità civile non può estendersi a fatti meramente accidentali, dovuti a caso fortuito o forza maggiore, dai quali infatti non può sorgere alcuna responsabilità a carico dell’assicurato tanto che viene meno la ragione dell’assicurazione stessa. Lo stabilisce App. Firenze, 16 agosto 2010 (inedita): la predetta assicurazione, però, per la sua stessa denominazione e natura, deve necessariamente applicarsi in riferimento a fatti colposi, con la sola eccezione di quelli dolosi, restando escluso, in mancanza di espresse clausole limitative del rischio, che la garanzia assicurativa non copra alcune forme di colpa. La clausola, pertanto, di un contratto di assicurazione che preveda la copertura del rischio per danni conseguenti a fatti accidentali deve correttamente interpretarsi nel senso che essa si riferisce semplicemente alla condotta colposa in contrapposizione a quella dolosa. 13. Contratto di assicurazione, assicurazione contro i danni contro gli infortuni, disposizioni generali, rischio assicurato (oggetto del contratto), dichiarazioni del contraente, reticenze ed inesattezze, con dolo o colpa grave, impugnazioni (decadenza), onere di osservanza del termine di tre mesi, sinistro avvenuto prima di tale termine o della conoscenza delle dichiarazioni inesatte o reticenti, sussistenza dell’onere, esclusione. Cass., 13 luglio 2010, n. 16406 (in CED Cassazione, 2010), rigettando App. Milano, 1 aprile 2005, in tema di assicurazione contro gli infortuni, stabilisce che l’onere imposto dall’art. 1892, c.c., all’assicuratore, di manifestare, allo scopo di evitare la decadenza, la propria volontà di esercitare l’azione di annullamento del contratto, per le dichiarazioni inesatte o reticenti dell’assicurato, entro tre mesi dal giorno in cui ha conosciuto la causa dell’annullamento, non sussiste quando il sinistro si verifichi prima che sia decorso il termine suddetto ed ancora più quando il sinistro si verifichi prima che l’assicuratore sia venuto a conoscenza dell’inesattezza o reticenza della dichiarazione, essendo sufficiente, in tali casi, per sottrarsi al pagamento dell’indennizzo, che l’assicuratore stesso invochi, anche mediante eccezione, la violazione dolosa o colposa dell’obbligo posto a carico dell’assicurato di rendere dichiarazioni complete e veritiere sulle circostanze relative alla rappresentazione del rischio.
C) ASSICURAZIONE OBBLIGATORIA R.C. AUTO 14. Assicurazione obbligatoria, obbligazione in genere, obbligazioni e contratti, adempimento, pagamento, surrogazione, legale, circolazio-
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ne-assicurazione obbligatoria, risarcimento del danno, azione diretta nei confronti dell’assicurato, rivalsa dell’assicuratore verso l’assicurato, assicurazione obbligatoria r.c.a., sinistro causato da conducente minorenne e privo di patente, diritto di rivalsa dell’assicuratore nei confronti dei genitori del responsabile, ex art. 18 legge n. 990 del 1969, esclusione, diritto di surrogazione dell’assicuratore medesimo nei confronti dei genitori, ai sensi dell’art. 1203 c.c., ammissibilità. In tema di responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli, Cass., 26 luglio 2010, n. 17504 (in CED Cassazione, 2010) ha stabilito che l’assicuratore, il quale abbia risarcito la vittima di un sinistro stradale causato da un minore privo di patente con il quale sia stato stipulato il contratto di assicurazione, non può esercitare, contro il genitore non stipulante, la rivalsa prevista dall’art. 18 della legge 24 dicembre 1969 n. 990 (ratione temporis applicabile), ma può surrogarsi a norma dell’art. 1203 n. 3 c.c. nei diritti del danneggiato verso il predetto genitore, per far valere la responsabilità di questo, ai sensi dell’art. 2048 c.c., per i danni causati dal figlio. 15. Contratto di assicurazione, falsità in atti, falsità in scrittura privata, contrassegno di assicurazione, responsabilità civile, reato di contraffazione. La falsificazione del certificato e del contrassegno di assicurazione obbligatoria contro la responsabilità civile da circolazione dei veicoli commessa da un soggetto privato costituisce falsità in scrittura privata ed integra il reato di contraffazione di cui all’art. 485 c.p. Nella specie, Trib. Nola, 16 luglio 2010 (inedita) ha punito la condotta dell’imputata che fermata dalla Polizia per un normale controllo, esibiva certificato e contrassegno assicurativo r.c.a. in evidente stato di contraffazione. 16. Litisconsorzio necessario, corte costituzionale, questione di legittimità costituzionale, codice delle assicurazioni, controversie con pretese risarcitorie ben superiori ai limiti del massimale. C. Cost., 21 giugno 2010, n. 230 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 140, co. 4, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 76 e 111, co. 2, Cost., da Trib. Catania. ordinanza 23 settembre 2009, iscritta al n. 329 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2010. La questione era stata posta sul tema delle controversie con pretese risarcitorie ben superiori ai limiti del massimale: il caso di specie prevedeva per ottenere il risarcimento dei danni da sinistro stradale avvenuto il 31 luglio 2006, nel quale erano rimasti coinvolti quattro autoveicoli,
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con un bilancio, oltre ai danni ai mezzi, di un morto, cinque feriti ed altri danneggiati a vario titolo, di cui soltanto alcuni individuati. In base alla prospettazione delle parti ed alle domande dalle stesse proposte, oggetto delle controversie sono pretese risarcitorie ben superiori ai limiti del massimale. Osserva che, nella specie, l’applicazione del disposto dell’art. 140, co 4, del d.lgs. n. 209 del 2005, in base al quale fra l’impresa di assicurazione e le persone danneggiate sussiste litisconsorzio necessario, ai sensi dell’art. 102 c.p.c., comporterebbe la integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i danneggiati non chiamati in causa già noti o ancora da identificare, trattandosi di un sinistro ad offensività multipla con superamento del massimale e non potendo il giudizio proseguire tra i soli soggetti inizialmente in lite.
D) ASSICURAZIONI SOCIALI 17. Contratto di assicurazione, assicurazione contro i danni, contro gli infortuni, premio, mancato pagamento, 1901 c.c. Il disposto normativo di cui all’art. 1901 c.c., in quanto collocato tra le disposizioni generali sulle assicurazioni, deve ritenersi pacificamente applicabile, oltre che alle assicurazioni contro i danni, anche alle assicurazioni sugli infortuni o sulle invalidità. Ai contratti assicurativi concernenti le materie degli infortuni e delle invalidità, invero, non può intendersi riferibile l’eccezione prevista nell’ultimo comma della menzionata norma, nella parte in cui esclude le assicurazioni sulla vita dall’ambito di applicazione delle precedenti disposizioni della norma richiamata, né il dettato di cui all’art. 1924 c.c., in quanto disegnato sulla specificità della struttura e della funzione dell’assicurazione sulla vita, avente di regola la finalità di risparmio e di capitalizzazione. Alla luce di quanto innanzi, nella fattispecie al vaglio di Trib. Potenza, 15 luglio 2010 (inedita), deve concludersi per l’inoperatività della polizza assicurativa contro gli infortuni (abbinata ad assicurazioni sulla vita e contro le malattie) ex art. 1901 c.c., in quanto il sinistro trovava verificazione dopo la scadenza del premio assicurativo e prima del versamento di quello successivo. 18. Assicurazioni sociali, previdenza sociale, lavoro dipendente e autonomo, lavoratori autonomi, assicurazione obbligatoria i.v.s., obblighi contributivi, piccola impresa commerciale in accomandita semplice, contitolarità di tutti i socie ex art. 1 lett. a), b), c) e d), l. n. 1367 del 1960, conseguenze, obblighi contributivi gravanti su accomandatari e accomandati, Iscrizione a ruolo a carico di tutti i soci, legittimità, applicazione del bene-
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ficium excussionis, esclusione. In materia di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, alla piccola impresa commerciale costituita in forma di accomandita semplice si applica l’art. 2 della l. n. 1397 del 1960, con la conseguenza che per titolari d’impresa s’intendono tutti i soci che rivestono singolarmente i requisiti indicati dall’art. 1 lettera a); b); c) e d) del predetto art. 1, risultando soggetti all’assicurazione obbligatoria sia i soci accomandanti che abbiano la gestione dell’impresa sia gli accomandanti che (nella specie in qualità di coadiutori familiari) rivestono i requisiti sopra indicati. Ne consegue che l’iscrizione a ruolo del credito contributivo inevaso può essere eseguita direttamente nei confronti di tutti i soci, se qualificabili come contitolari della piccola impresa commerciale non trovando applicazione, in sede esecutiva, l’obbligo di escutere preventivamente il patrimonio sociale ai sensi degli artt. 2304 e 2313 c. c. (Cass., 4 agosto 2010, n. 18128, in CED Cassazione, 2010). 19. Previdenza sociale, assicurazioni sociali, pensione di anzianità e vecchiaia, assicurazione per l’invalidità, vecchiaia e superstiti, pensioni, misura, art. 5 del d.lgs. n. 80 del 1992, ambito applicativo, pensione di vecchiaia, mancata costituzione per inadempimenti del datore di lavoro, obbligo del fondo, integrazione dei contributi nella misura necessaria per la costituzione della prestazione, sussistenza, dubbi di legittimità costituzionale, esclusione, fondamento. L’art. 5, d.lgs. n. 80 del 1992, nel prevedere l’intervento del fondo di Garanzia costituito presso l’INPS per l’integrazione dei contributi omessi o insufficientemente versati dal datore di lavoro presso gli enti gestori di forme di previdenza complementare, si riferisce, in via esclusiva, alla pensione di vecchiaia che il dipendente o i superstiti non siano riusciti a costituire a causa dell’inadempienza contributiva, consistendo, perciò, l’obbligo del Fondo – in coerenza con gli intenti della direttiva comunitaria n. 80 del 1987 (cfr. C. Giust., 25 gennaio 2007, n. 278) – nell’integrazione dei contributi nella misura necessaria per la costituzione della predetta prestazione per l’ipotesi in cui il lavoratore o i superstiti non abbiano recuperato, mediante l’insinuazione nel fallimento, la contribuzione minima richiesta. Né tale previsione comporta dubbi di illegittimità costituzionale, in relazione alla più favorevole disciplina prevista dall’art. 3 del medesimo d.lgs. per le prestazioni dell’assicurazione generale obbligatoria, poiché la limitazione della tutela trova giustificazione – nell’ambito dei diversi livelli di protezione sociale garantiti dall’art. 38 Cost. – nella finalità propria della previdenza complementare, consistente nel mantenimento del tenore di vita raggiunto durante l’occupazione lavorativa (Cass., 26 luglio 2010, n. 17526, in CED Cassazione, 2010).
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20. Assicurazioni sociali, infortunio sul lavoro (in itinere), INAIL, danni maggiori, lavoratore, lavoratore infortunato, rendita vitalizia, risarcimento del danno. In ossequio a quanto stabilito dagli artt. 12 e 13, co. 2, lett. a), d.lgs n. 38 del 2000, in caso di infortunio in itinere, occorso cioè al lavoratore nel tragitto di andata e ritorno dall’abitazione al luogo di lavoro, l’INAIL garantisce al lavoratore infortunato una somma a titolo di indennizzo, al fine di garantire mezzi di sostentamento adeguati al lavoratore che abbia subìto un infortunio. È possibile, però, che il lavoratore subisca dei danni maggiori rispetto al danno indennizzato dall’INAIL. In questo caso può spettare all’infortunato anche un risarcimento a carico dell’assicurazione del responsabile civile sia per la liquidazione del danno morale sia del danno non patrimoniale diverso dal danno biologico, che l’INAIL non è tenuto a risarcire. Secondo il Trib. Roma, 6 luglio 2010 (inedita), il lavoratore che abbia subito danni alla persona in conseguenza di un sinistro stradale, ed abbia per questo ottenuto la costituzione di una rendita vitalizia in suo favore da parte dell’INAIL, conserva la legittimazione ad agire nei confronti del responsabile del danno per ottenere l’eventuale residuo risarcimento, qualora il danno sofferto fosse coperto solo in parte dalla prestazione assicurativa dell’INAIL. Ne consegue che il lavoratore infortunato, non potendo cumulare il risarcimento e l’indennizzo, avrà diritto ad un ulteriore risarcimento solo nella misura del cd. danno differenziale, che si identifica nella differenza tra l’ammontare complessivo del risarcimento del danno e quanto invece è stato versato dall’assicuratore sociale a titolo di indennizzo per l’infortunio sul lavoro. Ciò posto, nel caso di specie, relativo a richiesta di risarcimento dei danni subiti a seguito di incidente stradale, il Tribunale, accertata l’esclusiva responsabilità del sinistro in capo al resistente, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso e per l’effetto condanna i resistenti in solido al pagamento in favore del ricorrente a titolo di risarcimento di tutti i danni subiti nel sinistro. 21. Previdenza sociale, assicurazioni sociali, INAIL, procedimento civile, legittimazione attiva e passiva. Il diritto alle prestazioni previdenziali spetta al lavoratore/assicurato e non alla compagnia di assicurazione, alla quale compete solamente la richiesta di rigetto delle domande presentate dal lavoratore nei suoi confronti. Questo quanto dichiarato con sentenza da Trib. Padova, 1 luglio 2010 (inedita). Nel nostro ordinamento, infatti, non sussiste alcuna norma in base alla quale l’assicurazione sociale possa essere chiamata in giudizio secondo i principi valevoli per la chiamata in garanzia delle assicurazioni
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private, non sussistendo in capo all’INAIL. alcun obbligo nei confronti del datore di lavoro, né tanto meno nei confronti del terzo responsabile del sinistro. 22. Contratto di assicurazione, assicurazioni sociali, rimborso, copertura assicurativa, malattia. Secondo App. Firenze, 16 agosto 2010 (inedita) è legittima la decisione del Giudice di primo grado che accorda il pagamento di una somma, a titolo di rimborso delle spese sostenute per un intervento sanitario e di degenza, in adempimento del contratto di assicurazione per malattia ed infortuni, sebbene il sinistro si sia verificato durante il periodo di assenza della copertura assicurativa, allorquando vi sia la prova certa dell’esistenza della patologia in pendenza di efficacia della polizza. Nel caso di specie, acclarata la preesistenza della malattia, deve essere respinto il gravame della compagnia assicurativa teso ad evitare il pagamento dell’indennizzo. 23. Assicurazioni sociali, malattia taciuta e polizza assicurativa, contratto assicurazione, rimborso spese per ricovero, non indennizzabilità del sinistro ex art. 1892 c.c., reticenze ed inesattezze nelle dichiarazioni. La società di assicurazione aveva infatti rifiutato il pagamento dell’indennizzo di una donna che aveva sottoscritto un contratto di assicurazione a causa di reticenze ed inesattezze nelle dichiarazioni. Questo perchè non posta in condizione di valutare il rischio in relazione alle inveridiche risposte dell’assicurata alle domande contenute nel questionario anamnestico (non era stato infatti dichiarata la radiografia addominale per stipsi eseguita dall’assicurata), mentre la corte d’appello aveva conferito rilievo alla circostanza che ella non fosse a conoscenza della specifica malattia da cui era affetta, costituente causa dell’evento per il quale aveva chiesto di essere indennizzata. Secondo Cass., 11 giugno 2010, n. 14069 (inedita), che ha accolto il ricorso della ricorrente, con conseguente rinvio alla Corte d’Appello affinché rivaluti il caso, “l’inesattezza delle dichiarazioni o le reticenze cui fanno riferimento gli artt. 1892 e 1893 c.c. non necessariamente presuppongono, in una polizza che copra le spese per ricoveri da malattia, la consapevolezza da parte del contraente di essere affetto dalla specifica malattia che abbia poi dato luogo al sinistro (cfr. Cass., n. 13918/2005, in motivazione), ma possono essere integrate da qualsiasi circostanza sintomatica del suo stato di salute che l’assicuratore abbia considerato potenzialmente rilevante ai fini della valutazione del rischio, domandandone di esserne informato dal contraente tramite la compilazione di un questionario”.
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II. BANCA Sommario: A) L’impresa bancaria: profili generali. – 24. Vigilanza. – 24.1. Sulla legittimità della motivazione per relationem del decreto di applicazione di sanzioni amministrative. – 24.2. Sui limiti del segreto d’ufficio. – B) La crisi dell’impresa bancaria. – 25. Cessione in blocco di attività e passività con passaggio del personale ad altra banca. – C) Le operazioni bancarie in conto corrente. – 26. Conto corrente bancario. – 26.1. Cointestazione. – 26.2. Recesso. – 26.3. Apertura di credito in conto corrente. – 26.4. Apertura di credito e forma scritta. – 26.5. Operazioni in conto corrente e clausole abusive. – 26.6. Conto corrente bancario e operazioni di bonifico. – 26.7. Conto corrente bancario e tutela del consumatore. – 27. Interessi e commissioni. – 27.1. Capitalizzazione trimestrale. – 27.2. Spese e commissioni bancarie. – 28. Profili fallimentari. – 28.1. Compensazione. – 28.2. Revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente. – 28.2.1. Rimesse revocabili. – 28.2.2. Revocatoria delle rimesse effettuate a mezzo bonifico. – 28.2.3. Revocatoria fallimentare e conoscenza dello stato di insolvenza. – D) Depositi bancari. – 29. Deposito bancario. Prescrizione. – E) Titoli di credito bancari. – 30. Assegno bancario rubato. – 31. Assegno circolare non trasferibile. – F) Crediti speciali. – 32. Mutuo di scopo – 33. Credito fondiario e questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, l. 6 giugno 1991, n. 175.
A) L’IMPRESA BANCARIA: PROFILI GENERALI 24. Vigilanza. 24.1. Sulla legittimità della motivazione per relationem del decreto di applicazione di sanzioni amministrative. Cass., S.U., 15 luglio 2010, n. 16577 (in Foro it. 2011, I, 824) si occupa di stabilire se il provvedimento di applicazione di una sanzione amministrativa pronunciato da un’autorità creditizia a seguito dell’accertamento di violazioni delle norme che disciplinano l’attività bancaria possa o meno essere motivato per relationem. Pur recentemente conclusosi, il caso risale al 2004, prima dell’entrata in vigore della l. n. 262/2005 (c.d. legge a tutela del risparmio), la quale, tra le altre cose, ha provveduto a riformulare l’art. 145, co. 1, t.u.b. e ad abrogare il successivo co 2. A seguito dell’intervento della legge sulla tutela del risparmio, il nuovo co. 1 dell’art. 145 prevede oggi che «la Banca d’Italia (…), contestati gli addebiti alle persone e alla banca, alla società o all’ente interessati e valutate le deduzioni presentate entro trenta giorni, tenuto conto del complesso delle informazioni raccolte applicano le sanzioni con provvedimento motivato». Prima dell’intervento della legge sulla tutela del risparmio, invece, il co. 1 disciplinava l’accertamento delle violazioni da parte della Banca d’Italia e il co. 2 prevedeva invece che, a seguito dell’accertamento di violazioni delle norme che disciplinano l’attività bancaria operato dalla Banca d’Italia, «il Ministro dell’economia e delle
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finanze, sulla base della proposta della Banca d’Italia, provvede[va] ad applicare le sanzioni con decreto motivato». Sulla base di questa norma, il M.E.F. aveva adottato un decreto a mezzo del quale comminava una sanzione amministrativa nei confronti di un intermediario finanziario per mancata segnalazione alla Banca d’Italia di posizioni ad andamento anomalo, in violazione dell’art. 107, co. 3, t.u.b. allora vigente. Il decreto era stato adottato dal M.E.F. su proposta della Banca d’Italia ed era stato motivato rinviando alla motivazione contenuta nella proposta della Banca d’Italia. L’intermediario finanziario si oppone al decreto M.E.F. per difetto di motivazione, prima dinanzi alla Corte d’Appello di Roma e poi dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione. Tuttavia, sia il giudice di merito sia il giudice di legittimità hanno respinto i rispettivi ricorsi ritenendo che la motivazione per relationem alla proposta di irrogazione della sanzione della Banca d’Italia deve considerarsi motivazione adeguata e sufficiente e, come tale, inidonea a fondare la censura del provvedimento impugnato. Infatti, i giudici hanno osservato che gli opponenti avevano articolato ampie e dettagliate difese di merito; che la proposta della Banca d’Italia e il provvedimento impugnato, motivato per relationem con rinvio alla stessa proposta, indicavano espressamente la natura delle irregolarità contestate; che nelle lettere di contestazione gli addebiti erano ampiamente circostanziati. A parere dei giudici, quindi, si era del tutto al di fuori dell’ipotesi, prospettata dai ricorrenti, della motivazione meramente apparente, tale da integrare il denunciato vizio di violazione di legge. Ad adiuvandum, la Suprema Corte fonda il proprio convincimento anche su una precedente pronuncia (Cass. n. 3396/2004), secondo la quale il provvedimento sanzionatorio reso ai sensi dell’art. 145, co. 2, t.u.b. versione vintage, «può essere motivato per relationem, mediante richiamo della proposta della Banca d’Italia, e non è affetto da nullità, sotto il profilo della mancanza del requisito motivazionale, per il solo fatto che tale proposta non sia già conosciuta dall’incolpato o non venga contestualmente resa conoscibile mediante allegazione, sempre che l’effettiva disponibilità della proposta medesima possa essere ottenuta prima della scadenza del termine per l’opposizione e senza pregiudizio della facoltà di avvalersene. In difetto, detta nullità si verifica, per violazione del diritto di difesa, quando l’interessato adduca di aver ricevuto in concreto pregiudizio del diritto medesimo, per preclusione di attività difensiva provocata dalla mancata o ritardata cognizione dell’atto richiamato». In ossequio al dettato giurisprudenziale, il giudice di legittimità fa notare come già la Corte d’Appello aveva dato atto della compiuta esplicazione del diritto di difesa degli opponenti e
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che questi ultimi, né in sede di opposizione né in sede di ricorso per cassazione, hanno dedotto quali menomazioni delle proprie facoltà di difesa abbiano in effetti subìto. 24.2. Sui limiti del segreto d’ufficio. TAR Lazio, 8 settembre 2010, n. 32135 (in Foro amm. TAR, 2010, 9, 2856) si occupa dei confini esistenti tra il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto dagli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990 in materia di procedimento amministrativo e il diritto al segreto d’ufficio riconosciuto alla Banca d’Italia dall’art. 7 t.u.b in materia di vigilanza bancaria. L’art. 7 t.u.b. afferma infatti che «tutte le notizie, le informazioni e i dati in possesso della Banca d’Italia in ragione della sua attività di vigilanza sono coperti da segreto d’ufficio». La pronuncia del giudice amministrativo fa riferimento ad un’attività di indagine effettuata dalla Banca d’Italia in merito alle commissioni applicate dalle banche su affidamenti e sconfinamenti di conto corrente, successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 185/2008, conv. in l. n. 2/2009, che ha stabilito la nullità delle clausole contrattuali aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto. A seguito del compimento della descritta attività di indagine, il Codacons aveva fatto istanza di accesso ai sensi degli artt. 22 ss, l. n. 241/1990, a mezzo la quale chiedeva alla Banca d’Italia di poter prendere visione ed estrarre copia della documentazione amministrativa relativa all’indagine. La Banca d’Italia rigettava l’istanza con una determinazione nella quale si faceva presente che l’eventuale accesso alla documentazione amministrativa in possesso della Banca d’Italia era soggetto ai presupposti e alle condizioni stabilite nella l. n. 241/1990 e nel regolamento emanato dalla Banca d’Italia in data 11 febbraio 2007, ma che le informazioni e i dati in possesso della Banca d’Italia in ragione della sua attività di vigilanza erano coperti dal segreto di ufficio ai sensi dell’art. 7 t.u.b., che esclude il diritto di accesso ai sensi dell’art. 24, l. n. 241/1990. Il Codacons ha allora presentato ricorso al tribunale amministrativo regionale per contestare le ragioni del diniego. In particolare, il Codacons ha fatto presente che la Banca d’Italia avrebbe errato nel ricondurre all’attività di vigilanza l’attività di indagine da essa svolta in ordine alle clausole relative alle commissioni di massimo scoperto applicate dalle banche; secondo il Codacons, la ripetuta attività di indagine non poteva essere ricompresa in nessuna delle tre tipologie di attività di vigilanza (informativa, regolamentare ed ispettiva) così come disciplinate dagli artt. 51, 53 e 54 t.u.b. Il giudice amministrativo ha ritenuto il ricorso non fondato e, citando Cons. St. n. 936/1998, ha osservato che la tesi del ricorrente si basava su un’errata opzione ermeneutica volta a distinguere fra attività di vera e propria vi-
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gilanza, con riferimento alla quale potrebbe trovare applicazione l’art. 7 t.u.b., che sottopone al regime del segreto i soli documenti acquisiti dalla Banca d’Italia nell’ambito dell’esercizio dell’attività di vigilanza, ed altri poteri di controllo sottratti al regime del segreto e aperti invece all’applicazione della disciplina sull’accesso. La tesi del Codacons è infatti la conseguenza di una interpretazione meramente letterale e non sistematica del t.u.b., che non tiene conto dei principi ispiratori dello stesso e, in particolare, del citato art. 7. In primo luogo, l’attuale formulazione della menzionata disposizione è frutto del recepimento dell’art. 16, dir. 1989/646/CEE, che, modificando l’art. 12 della prima direttiva banche (dir. 1977/780/CEE), ha ribadito l’obbligo del segreto d’ufficio sulle informazioni assunte dalle autorità di controllo dei Paesi membri, prevedendo espressamente limitate deroghe a tale obbligo. In secondo luogo, che l’attività di “vera e propria vigilanza” non possa essere ristretta al titolo III, emerge da una serie di norme del medesimo testo unico, tra le quali il tribunale amministrativo cita in particolare le norme in materia di autorità creditizie (artt. 2, 4 e 5), ma soprattutto l’art. 128, inserito nel titolo VI dedicato alla trasparenza delle condizioni contrattuali, il quale dispone che «al fine di verificare il rispetto delle disposizioni del presente titolo, la Banca d’Italia può acquisire informazioni, atti e documenti ed eseguire ispezioni», integrando così anche un’ipotesi di vigilanza informativa ed ispettiva al di fuori del titolo III.
B) LA CRISI DELL’IMPRESA BANCARIA 25. Liquidazione coatta amministrativa. Cessione in blocco di attività e passività con passaggio del personale ad altra banca. Cass., 23 novembre 2009, n. 24635 (in Altalex Massimario, 07/2010, 72) ha affrontato il tema riguardante la cessione delle attività e delle passività, con successivo passaggio del personale dipendente dell’istituto di credito in liquidazione coatta amministrativa ad un’altra banca. La Suprema Corte ha esaminato la questione relativa al credito vantato ai fini del t.f.r. dal personale dipendente dell’istituto di credito posto in liquidazione coatta amministrativa, fino al momento della cessione in blocco di tutte le attività e passività. In questa ipotesi il t.f.r. può essere oggetto di un’eventuale azione di accertamento che può divenire esigibile solo nel momento della futura cessazione del rapporto e che può essere fatta valere in giudizio contro l’istituto cessionario, solo se lo stesso credito, ai sensi dell’art. 90 del d.lgs. 385/93 risulti dallo stato passivo. I giudici hanno richiamato nell’ipotesi di cessione delle attività e passività ad altro
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istituto di credito, la fattispecie relativa alla liquidazione coatta amministrativa della Banca Popolare Santa Maria Assunta di Castelgrande, e al conseguente subentro del Monte dei Paschi di Siena nell’utilizzazione dei suoi sportelli e poi all’acquisto da parte di quest’ultimo di tutti gli elementi attivi e passivi del patrimonio della banca posta in liquidazione, infatti, secondo tale sentenza emessa dalla stessa Cassazione Civile, sezione Lavoro, n. 14755 del 1998, «si ha trasferimento d’azienda, assoggettato quanto ai rapporti di lavoro dei dipendenti, alla disciplina di cui all’articolo 2112 c.c., quando l’oggetto del trasferimento sia costituito da un complesso funzionale di beni idonei a consentire l’inizio o la prosecuzione dell’attività imprenditoriale, onde l’alienazione totale o parziale dei beni aziendali non comporta sempre e necessariamente il contemporaneo trasferimento d’azienda, potendo questa proseguire i suoi scopi con altri beni e servizi; ne consegue che, in ipotesi di alienazione di tutti gli elementi concorrenti alla formazione di un’azienda, il giudice di merito, deve accertare quale sia stato, secondo le volontà dei contraenti, l’oggetto specifico del contratto, allo scopo di accertare se i beni ceduti siano stati considerati nella loro autonoma individualità o non piuttosto nella loro funzione unitaria e strumentale». In questo contesto la Corte ha ricordato altresì il caso della Sicilcassa Spa posta in liquidazione coatta amministrativa; anche in questa fattispecie la cessione di attività e passività, rami d’azienda, beni e rapporti giuridici in blocco, ad un’altra impresa bancaria comporta per la controparte debitoria un cambiamento soggettivo del rapporto, vale a dire una successione a titolo particolare, di cui all’art. 111 c.p.c.
C) LE OPERAZIONI BANCARIE IN CONTO CORRENTE 26. Conto corrente bancario. 26.1. Conintestazione. Trib. Cagliari, 6 luglio 2007, (in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, 404, con ampia nota di Tortora) ha stabilito che l’apertura di credito stipulata da un solo dei contitolari di un contratto di conto corrente cointestato sul quale è prevista la facoltà ad operare “a firma disgiunta” impegna tutti i contitolari del contratto in essere. Trib. Nola, 27 febbraio 2006 (in Dir. fall., 2008, II, 88, con commento di A.M. Perrino, Scioglimento automatico del conto corrente bancario e adempimento da parte della banca dell’obbligazione solidale nei confronti del coniuge cointestatario non fallito) ha dichiarato infondata la domanda avanzata dalla curatela con la quale veniva richiesta la restitu-
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zione della somma relativa al saldo attivo di un conto corrente cointestato “a firma disgiunta” che la banca aveva pagato, dopo la dichiarazione di fallimento, al coniuge cointestatario del suddetto conto, non fallito. 26.2. Recesso. Trib. Milano. 8 settembre 2006, (in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 85, con ampia nota di Marseglia) conforme all’orientamento della giurisprudenza ha ritenuto illegittimo, per violazione degli usi negoziali e della buona fede, il comportamento della banca che, pur in presenza di una giusta causa (nella fattispecie il continuo sconfinamento) interrompa anche solo un servizio accessorio a quello di conto corrente bancario come, nel caso di specie, quello bancomat. 26.3. Apertura di credito in conto corrente. Trib. Milano, 6 settembre 2006, (in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 335, con commento di Guarini, In tema di contratto di conto corrente affidato), ha ritenuto che la sottoscrizione da parte di un cliente di un unico contratto avente ad oggetto un rapporto di conto corrente “affidato” consenta l’estensione delle clausole normative relative agli interessi ultralegali ed alla capitalizzazione trimestrale previste nel contratto di apertura di credito nel primo contenuto. I giudici milanesi hanno altresì ritenuto conforme alle norme sulla trasparenza bancaria la predisposizione della documentazione contrattuale con pluralità di fogli purché gli stessi siano chiaramente ed espressamente richiamati nella dichiarazione e singolarmente sottoscritti dal cliente per ricevuta. 26.4. Apertura di credito e forma scritta. Trib. Milano, 7 settembre 2007, (in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, 363, con ampia nota di Valente) chiamato a pronunciarsi in tema di revocatoria fallimentare (di cui v. infra) conferma quell’orientamento della giurisprudenza secondo il quale il contratto di apertura di credito, richiede ai sensi dell’art. 117 t.u.b. la forma scritta ad substantiam, non potendo infatti essere provato per facta concludentia. 26.5. Operazioni in conto corrente e clausole abusive. Cass., 21 maggio 2008, n. 13051 (in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, 667, con commento di Molitermi, Clausole abusive e contratti bancari: azione inibitoria, ius variandi nei rapporti regolati in conto corrente e limitazione pattizia della responsabilità della banca nel contratto di utilizzazione di cassette di sicurezza), pur confermando gli orientamenti giurisprudenziali di merito che hanno dichiarato abusive molte delle clausole tipiche dei contratti bancari fra le quali quella relativa alla “facoltà di modificare le
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condizioni economiche applicate ai rapporti regolati in conto corrente” (di cui al caso di specie), ha ritenuto comunque possibile l’esclusione della vessatorietà di una clausola nella sola ipotesi in cui, in ossequio all’art. 1469 bis, co. 5, c.c., l’esercizio di detta facoltà da parte della banca fondi su di un giustificato motivo e non su di un mero rinvio alle prescrizioni del t.u.b. I giudici di legittimità, hanno altresì ritenuto che, la legittimazione passiva all’azione inibitoria possa ricorrere anche con riferimento alle associazioni di professionisti di cui l’ABI (nel caso di specie) ne è espressione poiché l’art. 1469 sexies c.c. deve essere interpretato, prima della riforma dell’art. 6 l. 14/2003, in conformità dell’art. 7 Direttiva CE n. 93/13 che estende la legittimazione passiva alle associazioni di professionisti. Infine, la Suprema Corte si è pronunciata sull’inserimento di una clausola vessatoria propria delle condizioni generali predisposte dall’ABI nei singoli contratti ritenendola possibile a condizione, però, che venga superato quello squilibrio contrattuale che è proprio delle stesse condizioni generali. 26.6. Conto corrente bancario e operazioni di bonifico. Trib. Roma, 20 marzo 2006, (in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 237, con commento di Nicolai, Sull’adempimento delle obbligazioni della banca nel contratto di conto corrente bancario), ritiene che la banca mandataria che erroneamente abbia eseguito un ordine di bonifico senza aver effettuato tutte le necessarie verifiche del caso (si trattava di firma apocrifa non controllata con lo specimen a disposizione della banca) abbia mancato nel dovere di diligenza proprio del mandatario e sia, dunque, responsabile di tale addebito. I giudici romani hanno, poi, affermato che la banca mandataria ha il dovere di informare, in ossequio ai propri doveri di diligenza e di buona fede, il proprio correntista dei fatti che riguardano lo svolgimento dell’incarico ritenendo, altresì, inopponibile al mandante il contratto concluso oltre il limite dell’incarico ricevuto. 26.7. Conto corrente bancario e tutela del consumatore. Trib. Torino, 4 giugno 2010, (in Banca, borsa, tit. cred., 2010, II, 610, con commento di Cerrato, Un debutto stonato per la nuova class action italiana), nell’ambito di un giudizio più ampio in tema di class action, in particolare di quella dei consumatori, per quanto qui interessa, ha ritenuto che l’utilizzo occasionale e per cifre marginali di un conto corrente bancario per scopi imprenditoriali e/o commerciali, artigiani e professionali non esclude la qualifica di consumatore che il cliente ha nei confronti della banca con la quale intrattiene quel rapporto contrattuale.
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27. Interessi e commissioni. 27.1. Capitalizzazione trimestrale. a) Cass., 1 marzo 2007, n. 4853 (in Foro it., 2008, I, 1258, con nota redazionale) conforme all’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza ha ribadito la nullità della clausola che prevede la capitalizzazione degli interessi trimestrali nell’ambito di un contratto di conto corrente stipulato in data anteriore al 22 aprile 2000 (data di entrata in vigore della delibera del CICR del 9 febbraio 2000) sostenendone anche la rilevabilità d’ufficio nell’ambito del giudizio di merito qualora sussista contestazione sul titolo posto dalla banca a sostegno degli interessi anatocistici. b) Nello stesso senso, Trib. Napoli, 8 gennaio 2009 (in Banca, borsa, tit. cred., 2010, II, 628, con commento di Accettella, La depurazione del saldo del conto corrente dagli interessi anatocistici – tra assenza di estratti conto ed irrilevanza dei c.d conti d’ordine –) il quale, aderendo ad altro orientamento giurisprudenziale, altresì precisa l’impossibilità di capitalizzare gli interessi anche con altra diversa periodicità (ad esempio, annuale) e, dunque, la necessità di rideterminare il saldo di conto corrente depurato da tutti gli interessi passivi anatocistici. Infine, continuano i giudici napoletani, la mancanza dell’estratto di conto corrente che la banca doveva produrre dalla sua data di apertura sino al saldo finale a debito (richiesto al cliente) dal quale poter desumere tutte le movimentazioni e dal quale depurare gli interessi illegittimamente calcolati, consente di far partire da zero, a qualunque data si inizi, il calcolo del conteggio. c) C. Cost., 12 ottobre 2007, n. 341 e Trib Vicenza, 25 ottobre 2007, (ord.) (entrambe in Foro it., 2008, I, 2100 con breve nota redazionale) si sono espresse in tema di incostituzionalità dell’art. 25, co. 2, d.lgs. 4 agosto 1999. In particolare, la prima ha respinto le censure mosse da Trib. Catania, 4 agosto 2005, (di cui si è dato conto in Dir. banc. 2007, I, 362), ritenendo il comportamento del legislatore assolutamente coerente con la delega affidatale ed escludendo ogni disparità di trattamento nella norma emanata dal CICR, atteso comunque che la stessa assicura nelle operazioni di conto corrente nei confronti della clientela la medesima periodicità nel conteggio degli interessi sia creditori sia debitori. La seconda ha, invece, nuovamente rimesso alla Corte la questione di incostituzionalità dell’art. 25, co. 2, d.lgs. 4 agosto 1999 per violazione del principio di uguaglianza formale e sostanziale non ritenendo sufficiente per l’allineamento delle posizioni delle parti la stessa periodicità del calcolo degli interessi creditori e debitori sancito con la sentenza del 12 ottobre che,
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al contrario, secondo i giudici vicentini, determina una predominanza della posizione delle banche. 27.2. Spese e commissioni bancarie. a) Trib. Busto Arsizio – sez. dist. Gallarate, 9 dicembre 2009 (in Foro it., 2010 I, 672, con ampia nota di A. Palmieri), in linea con il precedente orientamento della giurisprudenza sia di merito che di legittimità, ha confermato la nullità (questa volta) per assoluta indeterminatezza ed indeterminabilità della clausola contrattuale che prevede tra le spese da addebitare al correntista anche quella relativa alla commissione di massimo scoperto qualora non venga indicata la misura, il valore, il meccanismo di calcolo e la periodicità, con conseguente diritto del correntista ad ottenere la ripetizione di quanto addebitato sul proprio conto corrente. b) Trib. Torino, 5 ottobre 2007, (in Foro it., 2008, I, 646, con nota redazionale) ha puntualizzato che la dichiarazione di nullità delle clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari non consente alla banca il passaggio automatico ad alcun altra forma di capitalizzazione. I giudici torinesi hanno altresì sostenuto la disapplicazione delle norme transitorie dettate dalla delibera del CICR con le quali venivano stabilite le modalità per la disciplina dell’anatocismo, conseguentemente, ritenendo che per i contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera ed ancora aperti dopo il 1 luglio 2000 (data entro la quale le banche avrebbero dovuto adeguarsi al nuovo regime), la possibilità di applicare la capitalizzazione è subordinata alla prova che la stessa banca deve dare di aver ottemperato agli obblighi formali richiesti dal CICR e, dunque, alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale delle modifiche contrattuali per adeguamento alla nuova normativa ed alla comunicazione al cliente dell’avvenuta pubblicazione. 28. Profili fallimentari. 28.1. Compensazione. a) Cass. 1 luglio 2008, n. 17954, (in Il Fallimento, 2009, 291, con commento di Maienza, Nuove prospettive della revocatoria fallimentare di rimesse bancarie originate da bonifici e giroconti), di cui v. anche infra, conforme all’orientamento prevalente, ha revocato la rimessa effettuata da una banca sul conto corrente di un proprio cliente in esecuzione di un ordine di bonifico ricevuto da un terzo, non avendo ravvisato nel suddetto versamento quel carattere di autonomia richiesto per la compensazione delle obbligazioni derivanti da un unico negozio giuridico.
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b) Secondo Trib. Monza, 12 ottobre 2007 (in Dir. fall., 2008, II, 420, con commento di Restuccia, La revocatoria fallimentare delle rimesse bancarie tra jus superveniens e prova dell’elemento soggettivo) l’operazione di giroconto non determina compensazione ed è revocabile solo allorquando il saldo fra i due conti estinguendo il debito del fallito si configura come pagamento di cui all’art. 67, co. 2 l.fall. 28.2. Revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente. 28.2.1. Rimesse revocabili. a) Trib. Milano,7 settembre 2007, cit. e Trib. Milano, 27 marzo 2008 (in Il Fallimento, 2008, 1213, con commento di Arato, I primi orientamenti sulla revocatoria delle rimesse bancarie dopo la riforma della legge fallimentare e in Foro it., 2008, I, 1959, con nota di Fabiani), hanno confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale sono revocabili (per la seconda, anche dopo la riforma) le rimesse effettuate su di un conto corrente c.d. “scoperto” (non assistito, cioè, da apertura di credito) aventi, cioè, natura solutoria e non di ripristino della provvista, altresì precisando (la prima) che ai fini della prova della suddetta natura ripristinatoria, la banca può opporre al fallimento l’esistenza del contratto di apertura di credito solo se redatto per iscritto. Conforme, Cass., 1 luglio 2008, n. 17954, cit. e Trib. Milano, 28 maggio 2008 (in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, 723, con nota di De Cicco) che ha precisato che le rimesse effettuate su di un conto corrente assistito da apertura di credito di un cliente (poi fallito) sul quale la banca ha concesso un c.d. “fido per smobilizzo crediti” hanno carattere solutorio e sono pertanto revocabili atteso che la banca, con il suddetto fido, non concede una immediata disponibilità di denaro (cosicché il conto corrente non può ritenersi coperto) ma si impegna a darla entro un determinato ammontare per necessità future (nel caso di specie per sconto titoli). Pur tuttavia, sempre il Tribunale di Milano con sentenza 8 gennaio 2008, (in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, 601, con commento di Tarantino, Il c.d. fido mobile) pur pronunciandosi nello stesso senso, aveva, però, precisato che tali rimesse potevano essere considerate, invece, ripristinatorie della provvista, e, pertanto, non soggette a revocatoria fallimentare, qualora le pattuizioni intervenute tra la banca ed il correntista (per l’affiancamento all’apertura di credito, nel caso di specie, del c.d. “conto cessioni salvo buon fine”) fossero state nel senso della esistenza di un c.d. fido mobile e, cioè, di un apertura di credito ad importo variabile. b) Trib. Brescia, 29 aprile 2008, (in Il Fallimento, 2009, 101, con commento di Quagliotti, Il conto corrente bancario, le rimesse e l’esposi-
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zione debitoria nel nuovo corso della revocatoria fallimentare), nonché Trib. Milano, 27 marzo 2008, cit. hanno altresì precisato (in particolare quest’ultima) che per stabilire la soglia oltre la quale la rimessa effettuata dal cliente alla banca è da intendersi consistente e durevole e, pertanto revocabile, non può usarsi un criterio quantitativo assoluto ma è necessario valutare: sia l’entità massima dell’esposizione debitoria del conto corrente; sia l’entità media dei versamenti in entrata e delle uscite dal conto; sia l’ammontare del debito al momento in cui la singola rimessa è stata effettuata nonché la stabilità dell’effetto solutorio nel tempo valutata con criteri relativi riferibili alla frequenza delle movimentazioni riscontrate sull’estratto di conto corrente prodotto. Ne consegue, secondo i giudici fallimentari, che è revocabile la rimessa effettuata da un correntista sul proprio conto corrente chiuso per effetto della risoluzione unilaterale della banca, atteso che la stessa ha prodotto, nel caso di specie, l’azzeramento del debito verso la banca (qualificabile come consistente) e – in ragione della chiusura del conto – per un tempo decisamente durevole. a) Nello stesso senso, Trib. Milano, 25 maggio 2009 e Trib. Milano, 21 luglio 2009, (entrambe in Dir. fall., 2010, II, 359, con commento di Rebecca e Sperotti, La nuova revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario: una analisi tecnica di due recenti sentenze; la prima anche in Il fallimento, 2010, 602, con commento di Federico, Consistenza e durevolezza della riduzione dell’esposizione debitoria nella revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario). Con la prima sentenza i giudici milanesi hanno specificato che per la determinazione della durevolezza e consistenza della riduzione dell’indebitamento è applicabile il modello matematico della media, oltre la quale le rimesse effettuate sono ritenute revocabili. Altresì, in contrasto con gli orientamenti prevalenti, in tema di applicabilità dell’art. 70, co. 3, l.fall. hanno ritenuto non applicabile la norma in questione ai rapporti di conto corrente prima della integrazione contenuta nel d.lgs. 169/2007. Con la seconda, tra l’altro, puntualizzando che la valutazione, in presenza anche di un conto anticipi, potrà essere fatta unitariamente solo quando, tra i conti, vi sia un collegamento funzionale tale da consentire alla banca di valutarela solvibilità complessiva del cliente. b) Trib. Monza, 12 ottobre 2007, cit., in tema di revocatoria fallimentare ha ritenuto non applicabile la disciplina di cui al d.l. 35/2005 ai fallimenti già in essere prima della sua entrata in vigore, stante la natura innovativa e non certo interpretativa della stessa riforma, in
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applicazione dell’art. 2, co. 2. Altresì i giudici milanesi non ritengono degna di accoglimento l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 2, co. 2 del decreto per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione per mancanza del presupposto di disparità di trattamento, non rimettendolo, così, alla Corte. 28.2.2. Revocatoria delle rimesse effettuate a mezzo bonifico. Cass., 28 febbario 2007, n. 4762, (in Dir. fall., 2008, II, 227, con commento di Traversa, Conto corrente di corrispondenza e funzione solutoria del c.d. bonifico bancario) si è allineata alla consolidata giurisprudenza secondo la quale l’obbligo della banca di eseguire l’ordine di bonifico impartito da un terzo a favore del cliente rientra nel più generale obbligo di esecuzione del mandato che la banca stessa ha assunto con l’apertura di conto corrente di corrispondenza, con la conseguenza che la rimessa effettuata in esecuzione del bonifico sul conto corrente del cliente poi fallito riduce il saldo passivo di tale conto come pagamento, eventualmente revocabile (non per effetto di compensazione) avendo, se intervenuta nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, alterato anche la par condicio creditorum. 28.2.3. Revocatoria fallimentare e conoscenza dello stato di insolvenza. a) Trib. Milano 7 settembre 2007, cit. ha seguito l’orientamento della giurisprudenza oramai consolidato secondo il quale la conoscenza dello stato di insolvenza può essere dimostrata anche attraverso presunzioni ex art. 2729 c.c. che nel caso di specie sono state individuate dai giudici milanesi, nella richiesta di garanzie che la banca ha immediatamente preteso dal proprio cliente al quale ha ripristinato quelle facilitazioni creditizie che aveva già revocato. Sul tale presupposto di conoscenza dello stato di insolvenza l’ammissione al passivo da parte della banca richiesta in via privilegiata è stata ottenuta dalla stessa in via chirografaria. Pur tuttavia, puntualizza il tribunale, il decreto di esecutività dello stato passivo oltre a non assumere valore di giudicato sostanziale non ha rilevanza esterne e pertanto non può essere opposto alla banca convenuta in sede di revocatoria fallimentare. b) Sullo stesso tema Trib. Milano, 28 maggio 2008, cit., che pur confermando l’orientamento consolidato della giurisprudenza secondo il quale non è sufficiente la qualità soggettiva del convenuto ai fini della prova della scientia decoctionis, ha ritenuto che al verificarsi di fatti presuntivi dello stato di insolvenza, l’essere “banca” (nel caso di specie) rappresenti almeno una presunzione di conoscenza e di consapevolezza di quei sintomi che si sono resi manifesti.
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Conforme, Trib. Monza 12 ottobre 2007, cit., che ha ritenuto elementi presuntivi a fondare il convincimento del giudice circa la conoscenza della stato di insolvenza anche i dati contabili evidenziati nel bilancio d’esercizio, purché letto unitamente ad altri elementi indiziari. D) DEPOSITI BANCARI 29. Deposito bancario. Prescrizione. Trib. Salerno, 3 settembre 2010 (inedita), ha affermato che in tema di deposito bancario, il dies a quo del termine di prescrizione decorre dalla data della chiusura definitiva del conto, configurandosi i contratti bancari di credito con esecuzione ripetuta di più prestazioni come contratti unitari che danno luogo ad un unico rapporto giuridico in cui confluisce la molteplicità degli atti esecutivi ad esso relativi. E) TITOLI DI CREDITO BANCARI 30. Assegno bancario rubato. Secondo Cass., 16 luglio 2010, n. 16617 (in Rep. foro it., 2009, voce Titoli di credito, n. 22) nell’ipotesi in cui un assegno bancario di cui sia stato denunciato il furto venga messo all’incasso, e la firma di traenza sia divergente dallo specimen depositato, la banca non si deve limitare a comunicare al pubblico ufficiale il rifiuto del pagamento perché il titolo risulta rubato ma – per il rispetto delle prescrizioni di legge ed in forza dei principi di buona fede e correttezza che le impongono di adottare tutte le opportune cautele per evitare al correntista un ingiusto pregiudizio – ha anche l’onere di precisare che il titolare del conto corrente è un soggetto diverso dal traente, e che tra quest’ultimo ed il correntista non sussiste alcun rapporto negoziale o legale, opponibile ad essa banca, che legittimi il traente ad obbligarsi in nome e per conto del correntista stesso. La violazione di tale onere è fonte di responsabilità contrattuale della banca, la quale risponde dei danni da discredito sociale ed economico subiti dal correntista per la pubblicazione del proprio nominativo sul bollettino dei protesti, a nulla rilevando la circostanza della collocazione del nome in apposita categoria nell’ambito di detto bollettino (nel caso di specie l’assegno posto all’incasso era stato oggetto di denuncia di furto, e il protesto era stato pubblicato nell’apposita categoria degli assegni rubati e non in quella per mancanza di fondi). Precisa inoltre la Corte che l’obbligo di verificare la corrispondenza della firma di traenza con l’identità del correntista è onere, oltre che
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della banca trattaria, anche del pubblico ufficiale incaricato del protesto. Rientra infatti nei compiti di quest’ultimo quello di redigere la compilazione dell’atto di protesto con perizia e diligenza in maniera tale da non danneggiare un soggetto all’apparenza estraneo all’emissione dell’assegno. Ne consegue che il pubblico ufficiale è corresponsabile del protesto illegittimo, in concorso e in via solidale con l’istituto bancario, ove abbia omesso, anche per colpa lieve, di vigilare sulla corrispondenza tra la firma di traenza dell’assegno e l’identità del correntista. 31. Assegno circolare non trasferibile. Trib Bologna, 4 agosto 2010 (inedita) ha affermato che in tema di responsabilità per il pagamento di un assegno non trasferibile a persona diversa o non legittimata dal beneficiario, è responsabile sia la banca che ha posto l’assegno all’incasso sia la banca traente l’assegno circolare. Infatti sono entrambe gravate dell’onere di verificare che colui che presenta l’assegno per l’incasso sia il beneficiario o sia persona da lui legittimata. (Nel caso esaminato dalla corte felsinea, il beneficiario dell’assegno circolare non trasferibile era una società, e nessuno dei due istituti bancari aveva verificato se il soggetto che aveva posto l’assegno all’incasso fosse legittimato ad operare per la stessa). F) CREDITI SPECIALI 32. Mutuo di scopo. Trib. Bari, 8 luglio 2010 (in Arch. Juris data) si pronuncia sulla fattispecie contrattuale in forza della quale l’investitore si impegnava a sottoscrivere strumenti finanziari, in particolare obbligazioni e quote di fondi comuni di investimento, mediante l’impiego di risorse finanziarie erogate dallo stesso istituto di credito presso i cui sportelli si perfezionava la sottoscrizione dei suddetti strumenti. Nel decidere in merito alle questioni sollevate dal cliente investitore, il Tribunale ha modo di precisare che una simile fattispecie contrattuale non può essere qualificata quale contratto di mutuo ai sensi e per gli effetti dell’art. 1813 e ss. del c.c. Diversamente, secondo il giudicante la fattispecie in discorso va qualificata come mutuo di scopo, figura contrattuale che, in conformità a quanto stabilito da Cass. n. 25180 del 2007, integra «un contratto consensuale, oneroso e atipico che assolve, in modo analogo all’apertura di credito, una funzione creditizia. A differenza di quanto si verifica nel contratto di mutuo regolato dal codice civile, si rileva che in quello di finanziamento la consegna di una determinata quantità di denaro costituisce l’oggetto di un’obbligazione del finanziatore, anziché elemento costitutivo del contratto».
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Per riff. alla citata sentenza della Cassazione, v. la sessantanovesima puntata di questa rassegna, in Dir. banc., 2009, I, 667 ss. Sulla atipicità del contratto di mutuo di scopo e sulla necessità di tenerlo distinto dal contratto di mutuo tipico ai sensi e per gli effetti degli artt. 1813 e ss. c.c. si vedano, da ultime, Cass. 21 luglio 1998, n. 7116, in Contratti, 1999, 373, con commento di Goltara (peraltro espressamente richiamata dal Supremo Collegio); Cass. 26 maggio 2002, n. 4327, in Rep. Foro it., 2002, voce Tributi in genere; Cass. 19 maggio 2003, n. 7773, in Contratti, 2003, 1131, con commento di Perrotti – Giorgi. In dottrina, si vedano, ex multis, Rispoli Farina, Mutuo di scopo, Dig. disc. priv., sez. civ., XI, Torino, 1994, p. 559; Mazzamuto, Mutuo di scopo, Enc. giur. Treccani, XX, 1990, p. 2; Teti, I mutui di scopo, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, XII, II ed., Torino, 2007, p. 649. 33. Credito fondiario e questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, l. 6 giugno 1991, n. 175. Con ordinanza depositata in data 10 novembre 2008 (in Foro it., 2009, I, 553), il Presidente del Tribunale di Catania ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, co. 5, della l. 6 giugno 1991, n. 175, recante disposizioni in materia di «Revisione della normativa in materia di credito fondiario, edilizio ed alle opere pubbliche» (abrogato dall’art. 161 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385), «nella parte in cui non prevede che la suddivisione del mutuo in quote e, correlativamente, il frazionamento dell’ipoteca a garanzia, possa avvenire anche a richiesta “del terzo acquirente del bene ipotecato”». La Corte Costituzionale con ordinanza 8 luglio 2010 n. 248 dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale della disposizione suindicata rilevando che «il giudice rimettente è incorso, nella formulazione del relativo quesito, in una evidente aberratio ictus, giacché il suo petitum avrebbe dovuto indirizzarsi, semmai, nel senso della censura di una irragionevole disparità di trattamento, ai fini del frazionamento del mutuo e della garanzia ipotecaria, tra il terzo acquirente di altri tipi di immobili, quali i terreni». In effetti, la rimessione origina dalla pretesa di alcuni soggetti di ottenere il frazionamento dell’ipoteca gravante su uno degli immobili insistenti su un terreno dagli stessi acquistato. Constatato, peraltro, che la questione andava sottoposta alla disciplina di cui all’art. 39, co. 6-ter, d.lgs. 385/93 e dell’art. 7, co. 1, lett. b), d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122, la Corte ha potuto concludere nel senso della irrilevanza ai fini della decisione della controversia anche dell’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della norma invocata.
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III. BORSA E MERCATO MOBILIARE Sommario: A) Intermediazione mobiliare. – 34. Servizi ed attività di investimento. – 34.1. Forma dei contratti. – 34.2. Adeguatezza dell’operazione. – B) Appello al pubblico risparmio. – 35. Offerta al pubblico di prodotti finanziari. – 35.1. Delimitazione della fattispecie. – 35.2. Responsabilità da prospetto.
A) INTERMEDIAZIONE MOBILIARE 34. Servizi ed attività di investimento 34.1. Forma dei contratti. a) Il fissato bollato, contenendo una dichiarazione resa dalle parti, rileva quale indizio avuto riguardo alla tipologia ed al contenuto dell’operazione (nella specie, contratti di borsa) che le parti hanno inteso compiere (Trib. Bari, 23 aprile 2010, in giurisprudenzabarese.it). b) Lo stesso Trib. Bari, con sentenza del 15 luglio 2010 (anch’essa in giurisprudenzabarese.it) ha stabilito che qualora ci si trovi dinanzi ad un operatore qualificato, la mancanza della forma scritta o della sottoscrizione dell’intermediario non importa la nullità dell’operazione finanziaria. Ciò in quanto l’art. 31, co. 1, Reg. Consob n. 11522 del 1998, richiamato dall’art. 23 t.u.f., esclude l’applicabilità, in presenza di un operatore qualificato, inter alia, dell’art. 30 del Regolamento a proposito della necessità della forma scritta. c) Ove il giudizio debba essere istruito su base esclusivamente documentale, Trib. Torino, 29 settembre 2010 (in ilcaso.it) ha riconosciuto l’ammissibilità del ricorso ex art. 702-bis c.p.c per la declaratoria di nullità di operazioni con strumenti finanziari quale conseguenza della mancanza del contratto quadro. 34.2. Adeguatezza dell’operazione. a) Per Trib. Bari, 23 aprile 2010, cit., la formulazione di un giudizio di inadeguatezza e la sua indicazione sul fissato bollato, pur a fronte della presenza di un visto dell’intermediario che denunci, viceversa, la adeguatezza dell’operazione, costituisce confessione stragiudiziale circa l’inadeguatezza oggettiva dell’operazione. b) Sposa l’orientamento ermeneutico comunitario App. Torino, 22 giugno 2010 (in Giur. merito, 2010, 12, 3044), secondo la quale una avvertenza di inadeguatezza, formulata in termini generici e formali, non risulta idonea a porre il cliente nelle condizioni di comprendere la reale portata dell’operazione.
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c) Parallelamente il dovere informativo è richiesto e prescindere dalla circostanza che il cliente fornisca ovvero rifiuti di fornire indicazioni circa il proprio profilo finanziario (così Trib. Torre Annunziata, 22 settembre 2010, in il caso.it). d) Sposa il medesimo principio anche Trib. Verona, 22 luglio 2010 (in Società, 2011, 675) laddove sancisce l’assenza di un obbligo di informazione a favore del cliente, circa l’aumento del rischio di default dell’emittente i titoli acquistati sopraggiunto successivamente all’esecuzione dell’ordine di acquisto, in ipotesi di contratto di negoziazione e/o ricezione e trasmissione di ordini su strumenti finanziari B) APPELLO AL PUBBLICO RISPARMIO 35. Offerta al pubblico di prodotti finanziari. 35.1. Delimitazione della fattispecie. Trib. Bari, 8 luglio 2010 (in giurisprudenzabarese.it), distinguendo tra “sollecitazione” e “negoziazione” ed individuando la differenza tra le due fattispecie nella circostanza per cui la prima attività si sostanzia in una offerta promozionale rivolta al pubblico, mentre la seconda in una condotta meramente esecutiva di ordini autonomamente impartiti dal cliente che prescinde dalla prestazione di un’attività di consulenza, riconduce soltanto alla “sollecitazione all’investimento” la previsione di specifici obblighi informativi. 35.2. Responsabilità da prospetto. In presenza di informazioni fuorvianti circa la situazione patrimoniale di una società all’interno di un’offerta pubblica di sottoscrizione, l’emittente al quale dette mancanze siano imputabili, anche soltanto a titolo di colpa, risponde, a parere di Cass., 11 giugno 2010, n. 14056 (in Giust. civ. Mass., 2010, 6, 892; in Società, 2011, 4, 411; in Danno e resp., 2011, 6, 621), del danno cagionato all’investitore che abbia confidato nella veridicità delle informazioni riportate. Tale danno, considerata la molteplicità dei fattori che influenzano l’andamento di un titolo, non può essere commisurato alla differenza di valore tra il prezzo pagato dall’investitore e quello acquisito dal titolo successivamente alla scoperta della falsità del prospetto, ma sarà pari alla differenza tra il primo e l’effettivo valore che al momento dell’operazione non era emerso a causa della incompletezza o non veridicità delle informazioni divulgate.
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PARTE SECONDA Legislazione, documenti e informazioni
LEGISLAZIONE
Modifiche al t.u. bancario Nel corso del 2009 è stato approvato un primo pacchetto di modifiche alle direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE (cd. CRD, Capital Requirement Directive), che costituiscono il quadro normativo comunitario in materia di requisiti patrimoniali basato su “Basilea II”. Il pacchetto (cd. CRD II) si suddivide in tre direttive (2009/27/CE, 2009/83/CE e 2009/111/CE, le prime due della Commissione europea, la terza del Parlamento europeo e del Consiglio) che dovevano essere recepite entro il 31 ottobre 2010, per consentire alle relative disposizioni nazionali di attuazione di entrare in vigore entro il 31 dicembre 2010. Si tratta di interventi diretti, da un lato, a rafforzare la regolamentazione prudenziale europea in alcuni dei profili dei quali la crisi finanziaria del 2007-2008 ha rivelato debolezze e, dall’altro, a risolvere le incertezze interpretative emerse nei primi anni di applicazione della CRD. Le modifiche riguardano vari aspetti della normativa prudenziale delle banche e delle imprese di investimento: il patrimonio di vigilanza, i grandi fidi, la cartolarizzazione, la liquidità, i collegi dei supervisori, la cooperazione tra le autorità in caso di crisi, l’informativa al pubblico. In particolare, il d.lgs. 30 dicembre 2010, n. 239 attua la direttiva 2009/111/CE che modifica la direttiva 2006/48/CE relativa all’accesso all’attività degli enti creditizi e al suo esercizio, la direttiva 2006/49/CE relativa all’adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi e la direttiva 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, per quanto riguarda gli enti creditizi collegati ad organismi centrali, taluni elementi dei fondi propri, i grandi fidi, i meccanismi di vigilanza e la gestione delle crisi. La gran parte delle modifiche introdotte dalla direttiva 2009/111/CE, tuttavia, è stata attuata, o è in via di attuazione, da parte della Banca d’Italia, mediante l’emanazione di nuove disposizioni di vigilanza prudenziale, ai sensi dell’art. 53 del t.u.b. (di tali modifiche si dà notizia in Banca d’Italia, Bollettino di Vigilanza n. 12, dicembre 2010), anche sulla scorta delle linee-guida predisposte dal Comitato delle autorità europee di vigilanza bancaria (CEBS) in materia di strumenti ibridi di capitale e di strumenti di capitale di cui all’art. 57(a) della direttiva 2006/48/CE, rispettivamente del 10 dicembre 2009 (Implementation Guidelines for Hybrid Capital Instruments) e del 17 dicembre 2009 (Consultation Paper on Implementation Guidelines regarding Instruments referred to in Article 57(a) of Directive 2006/48/EC recast – CP 33).
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Il decreto legislativo n. 239/2010, quindi, si limita ad apportare le necessarie modifiche e integrazioni alle norme di riferimento di rango primario implicate dalla novella comunitaria: al t.u.b. e al t.u.f. Nel dettaglio, l’art. 1 del decreto modifica innanzitutto l’art. 4, co. 1, del t.u.b, secondo cui la Banca d’Italia, nell’esercizio delle funzioni di vigilanza, formula le proposte per le deliberazioni di competenza del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio, previste nei titoli II e III e nell’art. 107 dello stesso t.u.b, sopprimendo il riferimento al suddetto art. 107, poiché, a seguito del d.lgs. n. 141 del 2010, in materia non è più previsto alcun potere di detto Comitato. La modifica apportata da parte del d.lgs. n. 141/2010 all’art. 107, che disciplina l’autorizzazione della Banca d’Italia agli intermediari finanziari ad esercitare la propria attività, ha infatti eliminato il riferimento al potere regolamentare del Cicr presente in precedenza. Viene quindi sostituita la lett. d) del co. 3 dell’art. 53 del t.u.b., sul potere regolamentare della Banca d’Italia, secondo cui questa può adottare, ove la situazione lo richieda, provvedimenti specifici nei confronti di singole banche, riguardanti anche la restrizione delle attività o della struttura territoriale, nonché il divieto di effettuare determinate operazioni, anche di natura societaria, e di distribuire utili o altri elementi del patrimonio. Secondo la nuova formulazione, la Banca d’Italia potrà adottare provvedimenti che, con riferimento a strumenti finanziari computabili nel patrimonio a fini di vigilanza, vietino di pagare interessi. Tenendo conto della modifica apportata, quindi, la Banca d’Italia potrà adottare provvedimenti specifici nei confronti si singole banche concernenti: la restrizione delle attività o della struttura territoriale; il divieto di effettuare determinate operazioni, anche di natura societaria; il divieto di distribuire utili o altri elementi del patrimonio; il divieto di pagare interessi, con riferimento a strumenti finanziari computabili nel patrimonio a fini di vigilanza. Analogamente, in materia di vigilanza consolidata viene sostituito il co. 2-ter dell’art. 67 del t.u.b., che, nella versione previgente, prevedeva che i provvedimenti particolari adottati ai sensi del co. 1 potessero riguardare anche la restrizione delle attività o della struttura territoriale del gruppo, nonché il divieto di effettuare determinate operazioni e di distribuire utili o altri elementi del patrimonio. Anche in tali casi, secondo la nuova formulazione, la Banca d’Italia potrà adottare provvedimenti che, con riferimento a strumenti finanziari computabili nel patrimonio a fini di vigilanza, vietino di pagare interessi. L’art. 69 del t.u.b., in materia di collaborazione tra autorità e obblighi informativi, viene integralmente sostituito. La norma ora prevede che, al fine di agevolare l’esercizio della vigilanza su base consolidata nei confronti di gruppi bancari operanti in più Stati comunitari, la Banca d’Italia, sulla base di accordi con le autorità competenti, definisca forme di collaborazione e coordinamento, istituisca collegi di supervisori e partecipi ai collegi istituiti da altre autorità. Come, infatti, afferma il 6° considerando della direttiva 2009/111/CE, «per rafforzare il quadro di riferimento per la gestione delle crisi della Comunità, è
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essenziale che le autorità competenti coordinino efficacemente, anche ai fini di attenuazione del rischio sistemico, le loro azioni con altre autorità competenti e, se necessario, con le banche centrali. Per rafforzare l’efficienza della vigilanza prudenziale su base consolidata di un gruppo bancario, le attività di vigilanza dovrebbero essere coordinate in una maniera più efficace. Pertanto dovrebbero essere istituiti i collegi delle autorità di vigilanza. L’istituzione dei collegi delle autorità di vigilanza non dovrebbe ledere i poteri e le responsabilità delle autorità competenti ai sensi della direttiva 2006/48/CE. La loro istituzione dovrebbe essere uno strumento per accrescere la cooperazione, consentendo alle autorità competenti di accordarsi su taluni compiti di vigilanza essenziali. I collegi delle autorità di vigilanza dovrebbero facilitare la conduzione della vigilanza ordinaria e delle situazioni di emergenza. L’autorità di vigilanza su base consolidata dovrebbe, in associazione con altri membri del collegio, poter decidere di organizzare riunioni e attività non di interesse generale e dovrebbe pertanto poter organizzare la partecipazione in maniera appropriata». Nell’ambito degli accordi con le altre autorità, la Banca d’Italia può concordare specifiche ripartizioni di compiti e deleghe di funzioni. Per effetto di tali accordi, la Banca d’Italia può esercitare la vigilanza consolidata anche: a) sulle società finanziarie, aventi sede legale in un altro Stato comunitario, che controllano una capogruppo o una singola banca italiana; b) sulle società bancarie, finanziarie e strumentali controllate dai soggetti di cui alla lett. a); c) sulle società bancarie, finanziarie e strumentali partecipate almeno per il venti per cento, anche congiuntamente dai soggetti indicati nelle lettere a) e b). Qualora nell’esercizio della vigilanza consolidata verifichi una situazione di emergenza potenzialmente lesiva della liquidità e della stabilità del sistema finanziario italiano o di un altro Stato comunitario in cui opera il gruppo bancario, la Banca d’Italia informa tempestivamente il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nonché, in caso di gruppi operanti anche in altri Stati comunitari, le competenti autorità monetarie. Inoltre, le autorità creditizie, nei casi di crisi o di tensioni sui mercati finanziari, devono tener conto degli effetti dei propri atti anche sulla stabilità del sistema finanziario degli altri Stati comunitari interessati. Alle citate forme di collaborazione tra autorità di vigilanza, in base a quanto previsto dal co. 1-quater del nuovo art. 69, anche nell’esercizio della vigilanza su singole banche operanti con succursali aventi rilevanza sistemica negli Stati comunitari ospitanti. L’art. 2 del decreto modifica il t.u.f., sostituendo innanzitutto il co. 9 dell’art. 4, secondo cui la Banca d’Italia può concordare con le autorità di vigilanza di altri Stati comunitari forme di collaborazione, ivi compresa la ripartizione dei compiti di ciascuna autorità, per l’esercizio della vigilanza su base consolidata nei confronti di gruppi finanziari operanti in più paesi. Si prevede ora che la Banca d’Italia, per agevolare l’esercizio della vigilanza su base consolidata nei confronti di gruppi operanti in più Stati comunitari,
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sulla base di accordi con le autorità competenti, possa definire forme di collaborazione e coordinamento, istituire collegi di supervisori e partecipare ai collegi istituiti da altre autorità. In tale ambito, la Banca d’Italia può concordare specifiche ripartizioni di compiti e deleghe di funzioni. Viene quindi sostituito il co. 2 dell’art. 7 del t.u.f., a mente del quale la Banca d’Italia può emanare, a fini di stabilità, disposizioni di carattere particolare aventi a oggetto le materie disciplinate nell’art. 6, co. 1, lett. a), del t,u.f. stesso (obblighi delle Società di intermediazione mobiliare e delle Società di gestione del risparmio in materia di adeguatezza patrimoniale, contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni e partecipazioni detenibili) e adottare, ove la situazione lo richieda, provvedimenti restrittivi o limitativi concernenti i servizi, le attività, le operazioni e la struttura territoriale, nonché vietare la distribuzione di utili o di altri elementi del patrimonio. A seguito della modifica apportata, la Banca può, con riferimento a strumenti finanziari computabili nel patrimonio a fini di vigilanza, vietare il pagamento di interessi. [Francesco Mazzini] D.lgs. 30 dicembre 2010, n. 239 – Attuazione della direttiva 2009/111/CE che modifica le direttive 2006/48/CE, 2006/49/CE e 2007/64/CE per quanto riguarda gli enti creditizi collegati a organismi centrali, taluni elementi dei fondi propri, i grandi fidi, i meccanismi di vigilanza e la gestione delle crisi. (Omissis) Art. 1 Modifiche al testo unico bancario 1. Al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modifiche: a) all’art. 4, co. 1, primo periodo, le parole «e nell’articolo 107» sono soppresse; b) all’art. 53, co. 3, la lett. d) è sostituita dalla seguente: «d) adottare per le materie indicate al co. 1, ove la situazione lo richieda, provvedimenti specifici nei confronti di singole banche, riguardanti anche la restrizione delle attività o della struttura territoriale, il divieto di effettuare determinate operazioni, anche di natura societaria, e di distribuire utili o altri elementi del patrimonio, nonché, con riferimento a strumenti finanziari computabili nel patrimonio a fini di vigilanza, il divieto di pagare interessi»; c) all’art. 67, il co. 2-ter è sostituito dal seguente «2-ter. I provvedimenti particolari adottati ai sensi del co. 1 possono riguardare anche la restrizione delle attività o della struttura territoriale del gruppo, il divieto di effettuare determinate operazioni e di distribuire utili o altri elementi del patrimonio nonché, con riferimento a strumenti finanziari computabili nel patrimonio a fini di vigilanza, il divieto di pagare interessi»;
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d) l’art. 69 è sostituito dal seguente: «Art. 69 (Collaborazione tra autorità e obblighi informativi). 1. Al fine di agevolare l’esercizio della vigilanza su base consolidata nei confronti di gruppi operanti in più Stati comunitari la Banca d’Italia, sulla base di accordi con le autorità competenti, definisce forme di collaborazione e coordinamento, istituisce collegi di supervisori e partecipa ai collegi istituiti da altre autorità. In tale ambito, la Banca d’Italia può concordare specifiche ripartizioni di compiti e deleghe di funzioni. 1-bis. Per effetto degli accordi di cui al co. 1, la Banca d’Italia può esercitare la vigilanza consolidata anche: a) sulle società finanziarie, aventi sede legale in un altro Stato comunitario, che controllano una capogruppo o una singola banca italiana; b) sulle società bancarie, finanziarie e strumentali controllate dai soggetti di cui alla lett. a); c) sulle società bancarie, finanziarie e strumentali partecipate almeno per il venti per cento, anche congiuntamente, dai soggetti indicati nelle lettere a) e b). 1-ter. La Banca d’Italia, qualora nell’esercizio della vigilanza consolidata verifichi una situazione di emergenza potenzialmente lesiva della liquidità e della stabilità del sistema finanziario italiano o di un altro Stato comunitario in cui opera il gruppo bancario, informa tempestivamente il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nonché, in caso di gruppi operanti anche in altri Stati comunitari, le competenti autorità monetarie. 1-quater. I co. 1 e 1-ter si applicano anche nell’esercizio della vigilanza su singole banche che operano con succursali aventi rilevanza sistemica negli Stati comunitari ospitanti. 1-quinquies. Le autorità creditizie, nei casi di crisi o di tensioni sui mercati finanziari, tengono conto degli effetti dei propri atti sulla stabilità del sistema finanziario degli altri Stati comunitari interessati». Art. 2 Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria 1. Al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modifiche: a) all’art. 4, il co. 9 è sostituito dal seguente: «9. Al fine di agevolare l’esercizio della vigilanza su base consolidata nei confronti di gruppi operanti in più Stati comunitari la Banca d’Italia, sulla base di accordi con le autorità competenti, definisce forme di collaborazione e coordinamento, istituisce collegi di supervisori e partecipa ai collegi istituiti da altre autorità. In tale ambito, la Banca d’Italia può concordare specifiche ripartizioni di compiti e deleghe di funzioni»; b) all’art. 7, il co. 2 è sostituito dal seguente: «2. La Banca d’Italia può emanare, a fini di stabilità, disposizioni di carattere particolare aventi a oggetto le materie disciplinate dall’art. 6, co. 1, lett. a), e adottare, ove la situazione lo richieda,
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provvedimenti restrittivi o limitativi concernenti i servizi, le attività, le operazioni e la struttura territoriale, vietare la distribuzione di utili o di altri elementi del patrimonio, nonché, con riferimento a strumenti finanziari computabili nel patrimonio a fini di vigilanza, vietare il pagamento di interessi». Art. 3 Invarianza finanziaria 1. Dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. 2. Le amministrazioni pubbliche interessate provvedono allo svolgimento dei compiti derivanti dal presente decreto con le risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente. Art. 4 Entrata in vigore 1. Il presente decreto entra in vigore il giorno stesso a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.
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DOCUMENTI E INFORMAZIONI
Profili giuridici dei covered bonds, la “nuova stella” del mercato delle ABS * Sommario: 1. La raccolta bancaria tramite emissione di obbligazioni. La rivincita di un prodotto lasciato nel cassetto. – 2. Il quadro regolamentare. – 3. Le caratteristiche delle obbligazioni bancarie garantite e le differenze con la cartolarizzazione “ordinaria”. – 4. Qualche ulteriore dettaglio sulle OBG ricavabile dalla regolamentazione in via amministrativa. – 5. Alcune considerazioni d’assieme. – 6. Le ragioni ed i limiti di un successo.
1. La raccolta bancaria tramite emissione di obbligazioni. La rivincita di un prodotto lasciato nel cassetto. Per le istituzioni finanziarie, e bancarie in particolare, il reperimento di fondi costituisce un prerequisito indispensabile per poter adempiere alla propria funzione economica. Le obbligazioni rappresentano un importante strumento di raccolta di risparmio a medio lungo termine e trovano la loro fonte nell’art. 12 del t.u.b. Le obbligazioni ordinarie, definite anche senior, esprimono un debito di primo grado sprovvisto di garanzia e possono essere convertibili e non convertibili, nominative o al portatore (cfr. i co. 1-5). La prassi ne conosce diverse tipologie differenziate in base alle caratteristiche acquisite. Le obbligazioni c.d. plain vanilla, ad esempio, sono contraddistinte da una struttura semplice, che non prevede opzioni, e da una negoziazione standardizzate. L’ingegneria finanziaria ne ha però arricchito sempre più i connotati. Possono ricordarsi le obbligazioni: step up/down
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Il paper riproduce, con qualche variazione, il testo predisposto per una lezione in e-learning al Master su “La distribuzione di prodotti finanziari, bancari ed assicurativi”, attivato dalla Facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Bari.
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(con cedole fisse e predeterminate, aventi andamento del rendimento crescente o decrescente durante la vita del titolo); callable (a tasso fisso, variabile o step up/down, che associano un’opzione call e permettono il rimborso anticipato da parte dell’emittente); strutturate (includono opzioni e una componente derivativa che permette al sottoscrittore di ottenere un rendimento aleatorio legato all’andamento di una o più attività sottostanti, come azioni, indici azionari, valute; si possono ricordare le linked e le stochastic) 1. Il t.u.b al co. 7 dell’art. 12 disciplina anche le obbligazioni subordinate, rappresentate da prestiti irredimibili o rimborsabili previa autorizzazione della Banca d’Italia; possono assumere diversi livelli di rischio e a fronte di un rendimento elevato offrono minori garanzie ai detentori in caso di default dell’emittente. In pratica, in funzione del c.d. patrimonio di vigilanza, vengono considerate dalla Banca d’Italia alla stregua di capitale e configurano un’alternativa al più complesso collocamento di azioni 2. Nel nostro ordinamento nel 2005 ha poi trovato cittadinanza un’ulteriore tipologia di titoli, molto diffusi nel mercato internazionale: le “obbligazioni bancarie garantite”, meglio note come Covered Bond. Sono disciplinate dagli artt. 7-bis e 7-ter della l. 30 aprile 1999, n. 130 – contenente Disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti –, norme inserite dall’art. 2, co. 4-ter, del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, Disposizioni urgenti nell’ambito del piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale (c.d. decreto competitività), convertito con la l. 14 maggio 2005, n. 80 3. Non si può non notare un trait d’union centrato sull’attualità, tra il titolo di detta legge, espressione dell’intento che il legislatore allora perseguiva, e le necessità di ripresa dell’economia che il presente momento storico richiede di affrontare.
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Qualche approfondimento in Conti, Le obbligazioni bancarie: sviluppi regolamentari e implicazioni operative, in Banc., 2010, n. 7-8, p. 72 ss.; Bruno e Franza, Completezza, coerenza e comprensibilità del prospetto informativo per l’offerta di obbligazioni bancarie, in Giur. comm., 2010, I, p. 464 ss.; Grasso, Linciano, Pierantoni e Siciliano, Le obbligazioni emesse da banche italiane. Le caratteristiche dei titoli e i rendimenti per gli investitori, in Quaderni di finanza della Consob, n. 6, luglio 2010 reperibile al link www. consob.it/main/consob/pubblicazioni/studi_analisi/quaderni_finanza/qdf67.htm 2 Per i dettagli cfr. Istruzioni di vigilanza per le banche, tit. IV, cap. I, sez. I, par. 4. 3 Sul tema per tutti Galanti e marangoni, La disciplina italiana dei covered bond, in Quaderni di ricerca giuridica della Consulenza legale della Banca d’Italia, n. 58, giugno 2007, ove diffusi riferimenti bibliografici e una completa appendice normativa, reperibile al link www.bancaditalia.it/pubblicazioni/quarigi/qrg58/qrg_58/quarigi_58.pdf.
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Le obbligazioni garantite si innescano sul meccanismo della securitization, ma in quanto assistite da apposite garanzie sono ritenute particolarmente affidabili. La loro creazione intendeva rispondere sia alla domanda di prodotti diversificati e sicuri da parte degli investitori – provati dagli scandali Cirio e Parmalat –, sia all’esigenza di rivitalizzare l’investimento in capitale di debito assicurando una maggiore protezione dei risparmiatori. Il legislatore, ponendo le premesse per la creazione di un mercato italiano dei covered bond, andava così incontro alla richiesta del sistema bancario di mettere a disposizione della clientela un paniere di obbligazioni contraddistinte da basso rischio/rendimento e rating elevato. Per diverso tempo, però, le banche italiane hanno lasciato nel cassetto questa nuova possibilità operativa e la molla che ha fatto risvegliare l’interesse nell’ultimo anno si rinviene, ancora una volta, nello scenario di incertezza creato dalla crisi esplosa nel 2008 e originata dalla spirale di “tossicità” insita nei prodotti sempre più complessi scaturiti dall’innovazione finanziaria. Per poter assolvere al ruolo di sostegno ad una ripresa economica che richiede strategie di lungo periodo, il sistema bancario – al centro di una importante ristrutturazione e crisi di fiducia – si è dunque trovato costretto a rimodulare le proprie fonti di approvvigionamento. L’idea nuova è stata quella di spolverare lo strumento inutilizzato delle obbligazioni bancarie garantite, che trovano la propria appetibilità sia in un portafoglio di attivi segregato, sia nel merito di credito dell’emittente. La rilevanza del fenomeno nel nostro paese emerge dai fatti: dal 30 giugno 2009 al 30 giugno 2010 il mercato italiano dei covered bond ha avuto una crescita del 317% passando da 3 a 12,5 miliardi di euro (i dati non comprendono le emissioni facenti capo alla Cassa Depositi e Prestiti, padrona del mercato fino al 2007). Gli istituti inizialmente più attivi sono stati: Banca Carige SpA, Banca Popolare di Milano, Intesa Sanpaolo, UBI e UniCredit 4. Se si sfoglia il Sole 24 Ore ci si rende conto che nel 2011 il successo di questo peculiare strumento di raccolta bancaria è decisamente continua-
4 I dati che si riportano, quando non diversamente indicato, sono tratti da ECBC (European Covered Bond Council), European Covered Bond - Fact book, September 2010, disponibile sul sito http://ecbc.hypo.org; qualche notizia sull’Italia in Varrati, Italy, ivi, cfr. p. 205.
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to: nei primi due mesi le emissioni hanno già superato gli 11 miliardi, ponendo i gruppi Intesa Sanpaolo, UniCredit e Mps al 15% del mercato europeo, superati solo dagli intermediari francesi. In particolare, nel mese di febbraio si registrano i lanci di covered bond: i) a 12 anni, per 1,25 miliardi di euro, da parte di UniCredit, il quale ha richiamato l’interesse degli investitori istituzionali (sono stati 160) i cui ordini di acquisto hanno superato la soglia di 4 miliardi; ii) a 7 anni, per 1 milardo, da parte del Monte dei Paschi di Siena (terza di 10 operazioni che fa parte di un programma presentato a giugno da 10 miliardi euro); iii) a 5 anni, per 2,5 miliardi, da parte di Intesa Sanpaolo, che ha ricevuto ordini per 4,4 miliardi di euro. Il tema di questa lezione sembrerebbe quindi attuale, l’obiettivo della stessa è di illustrare le caratteristiche sul piano giuridico delle obbligazioni bancarie garantite (per brevità OBG) alias covered bond (per brevità CB).
2. Il quadro regolamentare. Come ormai accade di consueto nella regolamentazione del mercato finanziario, anche per le OBG il contesto regolamentare si snoda tra fonti europee e nazionali. Il quadro normativo è piuttosto ampio in quanto le OBG coinvolgono anche profili di vigilanza a carattere informativo e prudenziale, e si rivolgono sia alla singola banca che al gruppo bancario. Al livello comunitario entrano in gioco alcune direttive dalla cui considerazione congiunta si ricavano interessanti indici riguardo ai connotati attribuibili alle OBG. - La n. 2009/65/CE, di “rifusione” della disciplina riguardante taluni organismi di investimento collettivo in valori mobiliari (già contenuta nella direttiva 85/611/CEE), riveste particolare rilievo in quanto ha assunto il ruolo di referente per l’individuazione della nozione di OBG. Al par. 4, dell’art. 52 aumenta dal 5% al 25% il limite degli investimenti effettuabili con il proprio patrimonio da parte di un OICVM che acquisti obbligazioni con le caratteristiche ivi elencate. Deve trattarsi di titoli emessi da “enti creditizi che abbiano la sede legale in uno Stato membro e siano soggetti a speciale vigilanza pubblica ai fini della tutela dei detentori delle obbligazioni”. Inoltre, “le somme risultanti dall’emissione di tali obbligazioni vengono investite, conformemente alla legge, in attività che per tutto il periodo di validità delle obbligazioni siano in grado di coprire i crediti connessi alle obbligazioni
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e che, in caso di insolvenza dell’emittente, verrebbero utilizzate a titolo prioritario per il rimborso del capitale e il pagamento degli interessi maturati”. - La direttiva n. 2006/48/CE, recante la «legge bancaria comunitaria», nell’allegato VI, parte 1, punti da 68 a 71, all’interno del metodo standardizzato che gli intermediari possono scegliere per il calcolo dei requisiti patrimoniali a fronte del rischio di credito, disciplina i fattori di ponderazione del rischio relativi alle “esposizioni sotto forma di obbligazioni garantite”. Nell’attribuire a queste una propria classe di attività, tale direttiva indica anche in maniera dettagliata ed esaustiva il pool di asset che può svolgere la funzione di garanzia (c.d. eligible collateral). In sintesi, la gamma di garanzie stanziabili è circoscritta: 1) al debito di enti pubblici con alto merito di credito (esposizioni verso amministrazioni centrali, banche centrali, banche multilaterali di sviluppo, enti del settore pubblico, amministrazioni regionali ed autorità locali); 2) ad ipoteche residenziali, commerciali e marittime, per le quali si fissa anche un rapporto massimo prestito/valore della garanzia pari all’80% (settore residenziale) o al 60% (settore commerciale); 3) a titoli di debito bancari o assistiti da ipoteca (Mortgage-Backed Securities, MBS). Va evidenziato che per la nozione di obbligazioni garantite il legislatore comunitario fa riferimento alla disposizione della direttiva sugli OICVM poc’anzi richiamata. - La direttiva n. 2006/49/CE, relativa all’adeguatezza patrimoniale delle imprese di investimento e degli enti creditizi, si colloca sulla stessa scia e riguardo al “rischio specifico” (legato ad una variazione del prezzo di uno strumento dovuta a fattori riferiti all’emittente oppure, nel caso di un derivato, all’emittente dello strumento sottostante) riconosce una copertura patrimoniale più favorevole in presenza di obbligazioni garantite che abbiano le caratteristiche indicate nella direttiva 2006/48/CE (si veda l’art. 19, par. 2). In sostanza, il favor comunitario riguardante il trattamento delle OBG in sede di vigilanza prudenziale va messo in relazione con le stringenti condizioni cui è soggetta l’operazione, rinvenibili nell’allegato VI poc’anzi citato. Ciò ovviamente non ha impedito e non impedisce agli operatori di mercato di adottarne accezioni più o meno ampie, utilizzando anche elementi di finanza strutturata. Al livello di ordinamento nazionale, oltre ovviamente al t.u.b., il riferimento va all’art. 7-bis della legge 130/1999. Dalla norma si evince che le OBG rappresentano una particolare specie di cartolarizzazione dei crediti cui si applicano, per gli aspetti che non trovano disciplina nella
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norma stessa, anche l’art. 3, co. 2 e 3, l’art. 4 e l’art. 6, co. 2, della legge 130/1999. Si segnala che il d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, nel riscrivere la regolamentazione riguardante i soggetti operanti nel settore finanziario, ha apportato alcune modifiche a tale legge che sciolgono taluni dubbi che la previgente regolamentazione sollevava. L’art. 7-bis fissa l’intelaiatura giuridica del prodotto, rinviando alle autorità creditizie il compito di emanare le complementari disposizioni attuative. In particolare, il co. 5 devolve ad un Regolamento del Ministro dell’Economia e delle Finanze, da emanare sentita la Banca d’Italia, il compito di disciplinare: a) il rapporto massimo tra le obbligazioni oggetto di garanzia e le attività cedute; b) la tipologia di tali attività e di quelle, dagli equivalenti profili di rischio, utilizzabili per la loro successiva integrazione; c) le caratteristiche della garanzia cui è tenuta la società cessionaria. Tale Regolamento è contenuto nel decreto del 14 dicembre 2006, n. 310 5. Ai sensi del co. 6, la Banca d’Italia emana, previa delibera del CICR, disposizioni attuative che dovranno invece disciplinare, fra l’altro: 1) i requisiti delle banche emittenti; 2) i criteri che le banche cedenti adottano per la valutazione dei crediti e dei titoli ceduti e le relative modalità di integrazione; 3) i controlli che le banche effettuano per il rispetto degli obblighi che su di esse incombono, anche per il tramite di società di revisione allo scopo incaricate. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze è intervenuto con il decreto del 12 aprile 2007, n. 213, emanato in via d’urgenza come presidente del CICR. Le Istruzioni della Banca d’Italia risalenti al maggio 2007 sono state riviste ed aggiornate con le Disposizioni di vigilanza del 24 marzo 2010. Disciplina delle obbligazioni bancarie garantite (d’ora in poi Disposizioni) 6. Va sottolineato che la presenza di un quadro normativo anche a livello comunitario vincola le autorità dei singoli stati membri le quali, con riferimento al trattamento prudenziale delle OBG e a quello del finanziamento subordinato che condiziona la loro emissione, non potranno non agire in coerenza con il diritto europeo. Ed in effetti sia nel Regolamento che nelle Disposizioni di vigilanza è dato rinvenire riferimenti alla, e puntuali riscontri della, normativa comunitaria.
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Reperibile al link http://gazzette.comune.jesi.an.it/2007/25/4.htm. Sono reperibili, rispettivamente, ai seguenti link: www.bancaditalia.it/vigilanza/ banche/normativa/cicr/DM%252012_04_2007.pdf; www.bancaditalia.it/vigilanza/banche/normativa/disposizioni/provv/OBG_WEB.pdf. 6
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Si è ritenuto opportuno soffermarsi sulle fonti normative delle OBG in quanto in un contesto di globalizzazione degli intermediari finanziari la qualità del quadro regolamentare presente in un paese diviene uno dei parametri di scelta degli operatori, esprimendo così anche la probabilità di successo dello strumento che si vuole lanciare sul mercato nazionale.
3. Le caratteristiche delle obbligazioni bancarie garantite e le differenze con la cartolarizzazione “ordinaria”. Con il termine obbligazioni garantite le autorità creditizie fanno riferimento alle obbligazioni emesse ai sensi dell’art. 7-bis della legge 130/1999, legge che permette in via generale la conversione di crediti di qualsiasi genere in valori mobiliari negoziabili appositamente creati. A) Schema della cartolarizzazione ordinaria. Come accennato, la legge 130/1990 completa per alcuni profili la regolamentazione delle OBG. Per capirne la specificità merita dunque un cenno lo schema tecnico della securitisation ordinaria. I. Tale legge non indica le qualità del cedente, si sofferma invece sulla cessione e sulla società cessionaria. II. L’operazione di cartolarizzazione riguarda crediti pecuniari, sia esistenti sia futuri, individuabili in blocco se si tratta di una pluralità di crediti. III. La cessione, a titolo oneroso, avviene a vantaggio della società per la cartolarizzazione dei crediti, nota comunemente con il termine “società veicolo”, ripreso dall’espressione inglese Special Purpose Vehicle, in sigla SPV. Lo SPV ha ad oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione. È prevista la possibilità che non vi sia coincidenza tra società cessionaria e quella emittente i titoli in cui sono stati “impacchettati” i crediti ceduti. Entrambe devono avere forma di società di capitali (art. 3, co. 3, così come modificato dall’art. 9, co. 3, del d.lgs. 141/2010). IV. Il controvalore della vendita dei titoli emessi dalla società veicolo (meglio noti come ABS, Asset Backed Security) è destinato a finanziare l’acquisto dei crediti da parte dello SPV, i quali debbono essere costituiti in “patrimonio separato a tutti gli effetti” sia da quello della società, sia da altre eventuali operazioni di cartolarizzazione (in ipotesi di veicolo c.d. multicomparto). Su tale patrimonio sono ammesse soltanto azioni dei creditori portatori dei titoli (art. 3, co. 2).
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Lo SPV deve assegnare in via esclusiva le somme corrisposte dai debitori ceduti al rimborso dei titoli emessi, dallo stesso o da altra società, nonché al pagamento dei costi dell’operazione. V. I titoli emessi sono considerati “strumenti finanziari”, assoggettati alle disposizioni del t.u.f. La società emittente – che, come già ricordato, nelle strutture più complesse può non coincidere con la società veicolo – è tenuta a redigere un prospetto informativo. Nel caso in cui i titoli siano offerti ad investitori professionali il prospetto deve contenere le indicazioni previste nel co. 3 dell’art. 2. Tra di queste si segnala la lett. c) che fa riferimento ai “soggetti incaricati della riscossione dei crediti ceduti e dei servizi di cassa e di pagamento”. La disposizione prevede la figura del c.d. servicer che arricchisce lo schema dell’operazione (la norma viene richiamata anche dal co. 4 dell’art. 7-bis per le OBG). Va però tenuto presente che l’inserimento di un nuovo soggetto per la gestione dei flussi di cassa che la cartolarizzazione comporta è sottoposto alla condizione che tale ruolo sia assunto soltanto da banche, intermediari finanziari vigilati iscritti all’albo di cui all’art. 106 t.u.b., e altri soggetti aventi i requisiti per iscriversi a tale albo (cfr. il co. 6, così come modificato dall’art. 9 del d.lgs. n. 141/2010). VI. Se i titoli emessi non sono offerti ad investitori istituzionali, l’operazione viene assoggettata alla valutazione del merito di credito da parte di “operatori terzi” (la tutela si sostanzia quindi nell’obbligo di rating), le cui caratteristiche debbono essere indicate dalla Consob (co. 4 e 5 dell’art. 2). B) Schema delle OBG. La rubrica dell’art. 7-bis, avvalorata anche dalle indicazioni presenti nel co. 1, lascia intendere che le obbligazioni garantite si differenziano da una cartolarizzazione ordinaria in quanto il soggetto emittente è necessariamente una banca. Trattasi quindi di un’operazione “riservata” che va a tipizzare l’operatività di un ente creditizio. Anche il piano oggettivo risulta poi strettamente delimitato. L’operazione deve riguardare la cessione di: - crediti fondiari e ipotecari; - crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni o garantiti dalle medesime, anche individuabili in blocco; - titoli emessi nell’ambito di operazioni di cartolarizzazione aventi ad oggetto crediti della medesima natura. Già sul piano normativo gli “attivi idonei” si caratterizzano quindi per una “elevata qualità creditizia” (per far uso delle espressioni presenti nelle Disposizioni di vigilanza). Qualità che trova ulteriori specificazioni a livello di regolamentazione secondaria.
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Tali crediti e titoli costituiscono, al pari di quanto accade nella cartolarizzazione ordinaria, un patrimonio separato ai sensi dell’art. 3, co. 2, della legge 130/1999. La struttura dell’operazione può essere semplice, se è presente un unico intermediario, o complessa. Nel primo caso tutto si concentra su una banca che: 1) cede gli attivi anzidetti ad una società veicolo; 2) contemporaneamente eroga a questa società un finanziamento “finalizzato”, volto a fornire alla cessionaria stessa i mezzi per acquistare le attività idonee, e “subordinato”, in quanto il rimborso sarà posposto al soddisfacimento dei diritti dei portatori dei titoli nonché degli altri costi dell’operazione; 3) emette e rimborsa le obbligazioni garantite. Nel secondo caso ci si muove invece in un’ottica di gruppo o di altri collegamenti societari e il ruolo della banca potrebbe scindersi, rispettivamente, nelle tre figure distinte di: 1) banca c.d. originator; 2) banca finanziatrice; 3) banca emittente i covered bond. Lo schema potrebbe ulteriormente complicarsi nel caso delle c.d. operazioni multioriginator, allorquando cioè le banche cedenti siano più di una. Lo SPV è parte integrante della struttura ed ha le seguenti caratteristiche: a) un oggetto esclusivo centrato sull’acquisto degli attivi idonei (crediti e titoli), utilizzando i finanziamenti concessi o garantiti anche dalla banca/dalle banche cedente/i; b) un obbligo di racchiudere in patrimonio separato i crediti ed i titoli ceduti nonché le somme corrisposte dai relativi debitori o dalle controparti dei contratti derivati. Tali somme non possono essere distratte dallo scopo di soddisfare i portatori delle OBG che trovano tutela primaria proprio nel flusso finanziario generato dai pagamenti relativi ai crediti ceduti (il vincolo di destinazione fa sì che passi in secondo piano anche la restituzione del finanziamento ottenuto dalla banca: v. art. 7-bis, co. 2). L’operazione può essere costruita mantenendo il ruolo di servicer (già accennato) sulla banca emittente i CB; soluzione che avrebbe il pregio di salvaguardare il contatto tra la banca e la sua clientela; c) un obbligo di prestare una specifica garanzia nei confronti dei possessori dei CB emessi dalle banche anzidette, a valere sul patrimonio separato; garanzia che entra in gioco in ipotesi di insolvenza della banca emittente. C) Questi sintetici richiami possono dare il senso del distacco tra le operazioni di cartolarizzazione dei “prestiti” bancari e quelle tradizionali. L’OBG gode in effetti di una duplice garanzia: quella dell’emittente e
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quella derivante dal portafoglio di attività “segregate” presso un soggetto indipendente dalla banca che le ha emesse, lo scopo del quale è quello di destinare il flusso di risorse generato dal patrimonio separato al pagamento delle cedole e al rimborso di tali obbligazioni. La condivisione del quadro normativo appare quindi ridimensionata dalle peculiarità che caratterizzano le OBG sul piano soggettivo e oggettivo, che ancor più si accentuano nelle disposizioni emanate dalle autorità settoriali di controllo, idonee nel loro complesso (oltre a definire – ovviamente – le caratteristiche giuridiche dei CB) a conferire all’operazione un connotato del tutto specifico. Richiamiamone i tratti più significativi.
4. Qualche ulteriore dettaglio sulle OBG ricavabile dalla regolamentazione in via amministrativa. La riserva a vantaggio delle banche presente nell’art. 7-bis della legge 130/1999 trova indicazioni restrittive nelle disposizioni di vigilanza preoccupate dalle “caratteristiche del mercato dei covered bonds” e dalla necessità di tutelare i creditori diversi dagli obbligazionisti garantiti e in particolare i depositanti. In effetti se questi ultimi percepissero la sottrazione di attivi bancari di elevata qualità dal patrimonio della banca come un “rischio” per i loro risparmi, verrebbero compromesse funzione e finalità dello strumento dei CB. Nel dare indicazioni sul piano del trattamento prudenziale e dell’organizzazione amministrativa e contabile delle banche coinvolte, le disposizioni di vigilanza pongono quindi vincoli e limiti inquadrabili anche nell’ottica di mitigare il rischio di “sfiducia” del pubblico nei confronti delle banche, salvaguardando così anche la stabilità sistemica 7. Completiamo, quindi, il richiamo (sempre sintetico) del contesto normativo e regolamentare in cui si inseriscono le OBG. A) Requisiti delle banche emittenti e/o cedenti. Sia che queste siano inserite in gruppo sia che non ne facciano parte devono essere dotate di un’elevata patrimonializzazione:
7 Cfr. Carosio, Le Nuove Disposizioni di vigilanza per i Covered Bond italiani, intervento all’ABI del 7 giugno 2007, reperibile al link www.bancaditalia.it/interventi/intaltri_mdir/07062007/Carosio_07062007.pdf.
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–– il patrimonio di vigilanza (c.d. total capital, dato dalla somma tra patrimonio di base e patrimonio supplementare) non può essere inferiore a 500 milioni di euro; –– il coefficiente patrimoniale complessivo deve essere almeno pari al 9%. Tali limiti restringono indubbiamente il campo di applicazione soggettivo, isolando quei gruppi e quelle banche di dimensioni più elevate. B) Individuazione degli attivi cedibili. Il Regolamento ministeriale agli artt. 2 e 6 specifica le caratteristiche dei crediti oggetto di cessione, ricollegandosi anche al disposto comunitario cui si è fatto cenno. C) Limiti alla cessione. Per l’individuazione del cover pool la Banca d’Italia stabilisce dei limiti commisurati al “coefficiente patrimoniale complessivo” (che esprime il rapporto tra patrimonio di vigilanza e il requisito patrimoniale complessivo dato dalla somma dei requisiti patrimoniali a fronte del rischio di credito, di mercato e operativo, quest’ultimo moltiplicato per 12,5) nonché al “Tier 1 ratio” (rapporto che ha identico denominatore mentre al numeratore pone il patrimonio di base, c.d. Tier 1). Non c’è nessun impedimento alla cessione solo se le soglie di patrimonializzazione che tali valori esprimono sono piuttosto elevate: coefficiente ≥ 11% e Tier 1 ratio ≥ 7%. L’abbassamento di un punto percentuale nel coefficiente e di mezzo punto nel Tier 1 ratio sposta la situazione patrimoniale della banca dalla fascia a), alle fasce b) e c) che comportano, rispettivamente, un limite di cessione degli attivi idonei fissato al 60 % e al 25% 8. La graduazione riferita alla situazione patrimoniale cerca dunque di circoscrivere la distrazione di attivi di alta qualità creditizia da parte della banca penalizzando quelle meno capitalizzate. Il bilanciamento degli interessi coinvolti attraverso l’emissione di OBG trova conforto anche nella previsione di una relazione di stima effettuata da una società di revisione iscritta all’albo della Consob, la quale deve accompagnare la cessione degli attivi che garantiscono le OBG 9. D) Integrazione degli attivi ceduti. Ai fini dell’individuazione del rapporto massimo tra le OBG emesse e gli attivi ceduti a garanzia (il c.d. loan to value), il Regolamento ministeriale all’art. 3 ha stabilito dei vincoli molto stringenti a carico della banca originator che devono sussistere per l’intera durata dell’operazione, i quali poggiano:
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Cfr. sez. II, par. 1 e 2 delle Disposizioni di vigilanza. Cfr. sez. II, par. 4 delle Disposizioni, cit.
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–– sulla coincidenza del valore nominale complessivo delle attività facenti parte del patrimonio separato e quello delle OBG in essere; –– sulla coincidenza tra queste ultime e il valore attuale netto del patrimonio separato, calcolato tenendo conto di tutti i costi relativi all’operazione (valore che resta condizionato dalla probabilità di recupero dei crediti); –– sulla copertura degli interessi e dei costi, dovuti dalla banca emittente riguardo alle OBG in essere, mediante i flussi finanziari generati dal patrimonio separato. Di fronte ad una svalutazione degli attivi corre l’obbligo per la banca cedente di una integrazione della garanzia mediante la cessione di ulteriori attivi idonei volta a ripristinare il rapporto tra OBG e le attività cedute. Sul piano contrattuale è possibile prevedere anche forme più stringenti di overcollateralization riguardo alle attività finanziarie poste a garanzia 10. In pratica la salvaguardia sul piano normativo del livello di garanzia per i sottoscrittori di OBG fa sì che la banca cedente continui a sopportare i rischi collegati alle attività cedute. E) Caratteristiche della garanzia. La garanzia che lo SPV presta a vantaggio dei portatori delle OBG nei limiti del patrimonio separato, per essere valida anche ai fini della mitigazione del rischio di credito prevista dalla direttiva 2006/48 deve essere: irrevocabile, a prima richiesta, incondizionata ed autonoma rispetto alle obbligazioni assunte dalla banca emittente. Alla stessa non si applicano buona parte delle disposizioni del codice civile relative alla fideiussione 11. La dottrina ha riconosciuto in tali connotati la figura (atipica) del contratto autonomo di garanzia, ampiamente diffuso nella prassi internazionale. La garanzia scatta in presenza di particolari eventi che colpiscono la banca emittente: inadempimento nei confronti dei portatori delle OBG, liquidazione coatta amministrativa e sospensione dei pagamenti disposta nell’ambito dell’amministrazione straordinaria. In sostanza il legislatore e le autorità di vigilanza attraverso la previsione di una garanzia “forte” hanno posto le premesse per tenere distinte le sorti della banca emittente da quelle dei portatori dei titoli. Nel caso in cui siano separate le posizioni di banca originator e di banca finanziatrice, il rischio di inadempimento della prima ricadrà su quest’ultima in forza della garanzia che il veicolo fornisce ai portatori di CB.
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Cfr. sez. II, par. 3 delle Disposizioni, cit. Si veda l’art. 4 del Regolamento ministeriale.
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Prima del 2008 avremmo potuto considerare un evento estremo e improbabile l’ipotesi di default della banca e quindi anche l’attivazione di tale garanzia, la bufera finanziaria innescata dal caso Lehman ha fatto però venire meno molte sicurezze e consiglia prudenza. F) La separazione patrimoniale. I limiti alla cessione, il loan to value e la garanzia ruotano intorno al concetto di patrimonio separato e di conseguenza al ruolo fondamentale di scudo che le norme attribuiscono alla società veicolo, rafforzato dalla regolamentazione amministrativa. Si è fatto cenno alla possibilità di veicoli “multicomparto”, ma nelle Istruzioni di vigilanza la fattispecie non trova cenno. Anche la facoltà prevista dall’art. 7-ter di emettere obbligazioni garantite attraverso il ricorso all’istituto dei “patrimoni destinati” di cui all’art. 2447-bis c.c. è rimasta sulla carta, in quanto non sono state emanate le relative disposizioni attuative da parte delle autorità creditizie. L’opzione (prudente) delle autorità di vigilanza verso uno schema più lineare e centrato sul veicolo parrebbe dunque idonea ad arginare possibili tentativi di distrazione dei flussi finanziari che il processo di cartolarizzazione del portafoglio di attivi bancari di primaria qualità genera. G) Richiamo di alcuni profili agevolativi. Le OBG godono anche di un favor normativo riguardo sia all’operazione di cessione degli attivi idonei sia all’applicazione delle disposizioni in materia fallimentare. In caso di crediti verso le amministrazioni pubbliche non si applicano le formalità relative alla contabilità dello Stato (art. 7-bis, co. 4). Alle operazioni di cartolarizzazione sia ordinarie sia “speciali” (originanti cioè CB) sono poi applicabili le disposizioni agevolative previste, in caso di cessione di rapporti giuridici individuabili anche in blocco, dall’art. 58, co. 2, 3, e 4 riguardanti i beni, il trasferimento dei privilegi e delle garanzie nonché gli adempimenti pubblicitari (art. 7-bis, co. 1). Rispetto alle anzidette operazioni di cartolarizzazione sono inoltre attenuati i rischi derivanti dal fallimento dei debitori ceduti o del soggetto cedente, attraverso esenzioni dal regime delle revocatorie. Ad esempio, in caso di insolvenza della banca non si applica la revocatoria al finanziamento subordinato, in ipotesi invece di fallimento dello SPV non è revocabile la garanzia prestata a favore dei possessori dei CB. Le facilitazioni riconosciute dall’art. 7-bis, co. 2, 4 e 7, vanno incontro agli interessi dei portatori dei titoli che trovano la loro tutela nel flusso finanziario dei pagamenti relativi ai crediti ceduti, rafforzata, nel caso delle OBG, dalla garanzia autonoma dello SPV.
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5. Alcune considerazioni d’assieme. Il contesto regolamentare italiano, e lo schema operativo delle cartolarizzazioni dei covered bond che ne deriva, appare complesso. La dottrina che l’ha esaminato non ha mancato di rilevarne gli aspetti critici ed i dubbi interpretativi, impossibili da sfiorare in questa sede 12. La normativa sulla cartolarizzazione ha superato i limiti insiti nella disciplina ordinaria della cessione del credito ed ha consentito di ripartirne i rischi su una platea di soggetti più ampi. La successiva introduzione dei covered bond ha arricchito lo schema operativo e rafforzato la protezione rivolta ai sottoscrittori attraverso: 1) l’emissione riservata alle banche, per antonomasia ritenute intermediari affidabili e sicuri; 2) la presenza di un portafoglio di garanzie (alta qualità degli attivi ceduti e vincoli stringenti sull’operatività della società veicolo) che attribuisce agli investitori in CB, istituzionali o privati, il diritto a soddisfare le proprie ragioni creditorie in via prioritaria. Le disposizioni della autorità creditizie sulle OBG cercano di mediare tra i diversi interessi coinvolti. La premessa alle Disposizioni della Banca d’Italia evidenzia le finalità perseguite viste dall’ottica del sistema bancario: 1) rispondere “all’esigenza di contenere i costi della provvista” e quindi, in pratica, di incrementare la raccolta di risparmio; 2) beneficiare dei vantaggi regolamentari attribuibili, in base alla normativa comunitaria, agli “strumenti di raccolta assistiti da determinate garanzie”. Dato poi che nel contesto della politica monetaria le OBG rientrano tra le attività di primo livello stanziabili a fronte di operazioni con l’Eurosistema, può aggiungersi anche l’ampliamento delle possibilità operative per le banche che le sottoscrivono. Il trattamento prudenziale cui sono soggette le OBG appare piuttosto rigoroso 13. Sugli organi deputati alla gestione dei rischi della banca emittente o del relativo gruppo bancario incombono stringenti oneri di verifiche semestrali riferite a ciascuna operazione. La governance interna si arricchisce poi con la presenza di un soggetto esterno dotato di particolari requisiti di “indipendenza” cui la banca emittente deve affidare i controlli sulla regolarità delle operazioni e sull’integrità della garanzia
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Ampiamente Galanti e Marangoni, La disciplina, cit., altre indicazioni più avanti. Cfr. la sez. II, par. 4, delle Disposizioni, cit.
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a vantaggio degli investitori (il c.d. asset monitor). Le banche emittenti debbono inoltre favorire l’adempimento degli obblighi che gravano sulla società veicolo, utilizzando tecniche di asset and liability management volte ad assicurare l’equilibrio tra le scadenze dei flussi finanziari relativi agli attivi ceduti (che fanno parte del patrimonio separato dello SPV) e le scadenze dei pagamenti dovuti ai portatori dei titoli dalla banca emittente stessa. Chiaramente il possibile sdoppiamento tra banca emittente e banca cedente, l’eventuale presenza di un soggetto diverso per il servicing degli attivi ceduti, complicano la struttura dell’operazione e arricchiscono i rilievi sul piano giuridico.
6. Le ragioni ed i limiti di un successo. Lo scopo delle pagine che precedono era limitato ad un inquadramento dei tratti essenziali della disciplina giuridica delle OBG idoneo a far comprendere le ragioni per cui negli ultimi mesi i covered bond siano stati presentati dalla stampa specializzata italiana come la “nuova stella” del mercato – più ampio – delle asset backed securities 14. In realtà le ABS intese come mezzo di raccolta di risparmio assistito da alcune garanzie, hanno origini remote e la capacità innovativa dell’Italia trova in tale ambito un’importante conferma. Nella storia di questa tipologia di strumenti può infatti rientrare l’esperienza del Monte dei Paschi di Siena che già nel XVII secolo aveva suddiviso in porzioni le sue rendite dei pascoli maremmani detti “Dogana dei Paschi” (da cui il nome), al fine di collocarle presso i risparmiatori attraverso titoli che garantivano una rendita annuale. MPS che continua ancora oggi a mostrare fantasia operativa: si veda l’articolo Mps inventa la prima Abs per retail, pubblicato su Il sole 24 Ore del 5 novembre 2010. I CB sono strumenti finanziari ormai diffusi e ben noti alla prassi internazionale, tanto che la maggior parte dei paesi europei dispone di una legislazione in materia (ha iniziato la Svizzera negli anni Trenta). A fine 2009 la Germania con le sue Pfandbriefe si collocava al primo posto in Europa con emissioni pari a 719,460 miliardi, seguita da Spagna, Danimarca, Francia e Regno Unito (rispettivamente: 352,780; 326,765; 289,234; 204,535 miliardi di euro). Anche se, come si è detto all’inizio di
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Cfr. Il Sole 24 Ore del 22 gennaio 2011, p. 39.
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queste pagine, il dato nazionale è crescente, i 23,063 miliardi dell’Italia danno la misura del divario rispetto al gruppo dei big 15. Si tratta di un mercato ampio, provato dal sostenuto grado di innovazione che lo ha contraddistinto, e caratterizzato da complicata operatività e da complessità giuridica. L’importanza e la diffusione dei CB e in genere la necessità di salvaguardare le capacità di approvvigionamento del sistema bancario richiamano quindi l’attenzione sull’esigenza di un appropriato “regulatory framework” a livello sia europeo che internazionale, al momento decisamente frammentato. I covered bond rientrano infatti tra i prodotti della finanza c.d. strutturata, cui sono attribuibili alcune caratteristiche 16: 1) derivano da operazioni in grado di autofinanziarsi: messa in pool di attività patrimoniali – già esistenti o creati sinteticamente – e successiva emissione di titoli di credito suddivisi in tranche e venduti agli investitori, la cui copertura si rinviene nei flussi monetari generati dalle attività stesse. 2) determinano una scissione del rischio di credito ed in genere poggiano sulla creazione di uno Special Purpose Vehicle (modello ispirato al Regno Unito ed ai Paesi Bassi) oppure utilizzano una società appartenente al gruppo dell’emittente (struttura adottata negli Stati Uniti e in Francia da BNP Paribas); 3) sono rivolti a soddisfare le esigenze di particolari categorie di investitori; 4) di solito sono provvisti di rating. La magia degli strumenti finanziari strutturati sta nella trasformazione dei profili di rischio. La crisi finanziaria ci ha però ricordato l’esistenza delle streghe cattive che offrono tossic assets (un’evoluzione delle mele avvelenate) e mostrato la fragilità dei castelli di carta 17. Il mercato della raccolta bancaria soffre ormai di “sospetto”, che si amplia se si aggiunge la scure del “rischio paese” (dopo la Grecia è ora
15
Cfr. ECBC (European Covered Bond Council), European Covered Bond - Fact book,
cit. 16 Alcuni approfondimenti in Packer, Stever e Upper, Il mercato dei covered bond, in Rass. trim. BRI, settembre 2007; Fender e Mitchell, Finanza strutturata: complessità, rischio e impiego dei rating, ivi, giugno 2005, entrambi reperibili sul sito www.bis.org; cfr. altresì i rilievi critici di Merusi, Per un divieto di cartolarizzazione del rischio di credito, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, I, p. 253 ss. 17 Efficace la lettura del libro di Onado, I nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole non scritte, Bari, 2009, in part. p. 59 ss.
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sotto i nostri occhi la crisi del Portogallo) e il problema sta toccando anche le banche italiane, sinora uscite bene dallo tsunami finanziario. Il sistema bancario, finita la stagione del sostegno statale, è alla ricerca delle soluzioni migliori per finanziarsi e le obbligazioni bancarie garantite rappresentano una risposta convincente per il contenuto profilo di rischio, associabile ad un rating più elevato, la maggiore liquidità e la presenza di un rendimento più basso. La loro appetibilità va però conciliata anche con le ragioni di tutela del pubblico risparmio, oggi più che mai chiamata a confrontarsi con numerosi variabili. La stampa specializzata evidenzia sempre più le difficoltà legate alla raccolta di liquidità e di capitali da parte del sistema bancario, intuibile già dall’osservazione delle scadenze sempre più brevi dei bond emessi dalle banche italiane cui si è fatto cenno all’inizio di questa lezione. La crisi non ha però compresso la fantasia degli operatori, che non si è fermata ed ha inventato “l’ennesima diavoleria finanziaria”: le CoCo Bond (Contingent Convertible Bond). Nate sulla spinta della regolamentazione che si va prefigurando con “Basilea 3”, queste “obbligazioni ibride” si trasformano automaticamente in azioni nel momento in cui i requisiti patrimoniali della banca emittente dovessero scendere al di sotto di un livello prefissato. Il merito sta nel fatto che la loro emissione consentirebbe una ricapitalizzazione per le banche in difficoltà, scongiurando così interventi statali di salvataggio 18.
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Cfr. Credit Suisse al test dei CoCo bond, notizia apparsa su Il Sole 24 Ore del 15 febbraio 2011, p. 38.
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NORME REDAZIONALI
I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)
II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …
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Norme redazionali
4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).
III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile c.c. codice di commercio c.comm. Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans.
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Norme redazionali
legge fallimentare legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 385) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)
l.fall. l.camb. t.u. t.u.b.
t.u.f.
2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall.
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Diritto e giurisprudenza Dir. e giur. Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm. Rivista del notariato Riv. not. Rivista della cooperazione Riv. coop. Rivista di diritto civile Riv. dir. civ. Rivista del diritto commerciale Riv. dir. comm. Rivista di diritto internazionale Riv. dir. internaz. Rivista di diritto privato Riv. dir. priv. Rivista di diritto processuale Riv. dir. proc. Rivista di diritto pubblico Riv. dir. pubbl. Rivista italiana del leasing Riv. it. leasing Rivista delle società Riv. soc. Rivista giuridica sarda Riv. giur. sarda Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Riv. trim. dir. proc. civ. Vita notarile Vita not.
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4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesinger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cura di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, Torino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Torino, Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume
IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze e, successivamente, gli estratti.
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