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ISSN 1592-9930
amilia
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Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa
Rivista bimestrale
luglio - agosto 2017
D iretta da Salvatore Patti Tommaso Auletta, Mirzia Bianca, Maria Giovanna Cubeddu, Lucilla Gatt (vicedirettore), Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Enrico Quadri, Carlo Rimini, Giovanni Maria Uda
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IN EVIDENZA ¢ Assegno di divorzio: un passo verso l’Europa? Salvatore Patti
¢ Il rilievo giuridico della fedeltà nei rapporti di famiglia Federico Azzarri
¢ Diseredazione: profili di disciplina Maria Lucia Passador
Pacini
Indice Dottrina Salvatore Patti, Assegno di divorzio: un passo verso l’Europa?............................................................. p. 411 Federico Azzarri, Il rilievo giuridico della fedeltà nei rapporti di famiglia ............................................» 423 Cristiàn Lepin Molina, Analisi critica dell’accordo di unione civile nel diritto cileno.......................... » 447 Maria Lucia Passador, Diseredazione: profili di disciplina ......................................................................» 471 Giurisprudenza Alessandro Trinchi, I limiti al potere del Presidente del Tribunale di autorizzare l’accordo di negoziazione assistita in precedenza bocciato dal P.M. (nota a Trib. Palermo, sez. I, decreto 1° dicembre 2016, n. 6) ................................................................................................................................................» 499
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Assegno di divorzio: un passo verso l’Europa? Sommario:
1. L’orientamento della Corte di cassazione in materia di assegno di divorzio e l’esigenza di un ripensamento. – 2. La sentenza Cass. 10 maggio 2017, n. 11504: una svolta a favore dell’ex coniuge obbligato. – 3. Il principio dell’«autoresponsabilità». – 4. Crisi del matrimonio e obbligo di svolgere un’attività lavorativa: la ripartizione dell’onere della prova. – 5. Autoresponsabilità e autosufficienza tra parametri standardizzati e valutazione caso per caso. – 6. L’esigenza di ripensare i criteri di quantificazione dell’assegno di mantenimento. – 7. Il ruolo del giudice nella formazione del diritto effettivamente vigente e la necessità di un intervento del legislatore.
The decision of the Italian Supreme Court, dated May 10, 2017, no. 11504 modifies the settled case law in matters concerning maintenance payments in case of divorce. The benchmark for quantification that was related to the «standard of living during marriage» has been abandoned and the principle of «self-sufficiency» establishes itself. Precisely, the Supreme Court distinguishes a first phase of the proceeding regarding the an, i.e. the ascertainment of the existence of the right in the light of the principle of self-responsibility and a second phase concerning the quantum, to be undertaken according to the criterion of the financial independency. The essay compares the new rule of the Italian living law with the new regulation in France and Germany.
1. L’orientamento della Corte di cassazione in materia di assegno di divorzio e l’esigenza di un ripensamento.
Dover mantenere l’ex coniuge rappresenta in molti casi una esperienza idonea a segnare l’esistenza di una persona. Rispetto ad altre fattispecie di mantenimento previste dalla legge, l’obbligo di mantenere l’ex coniuge si caratterizza per il fatto di basarsi su un rapporto affettivo concluso, spesso a seguito di un contenzioso umano e giudiziale. Se quindi nelle altre ipotesi – si pensi al mantenimento dei figli o alla contribuzione ai bisogni della famiglia – la solidarietà indicata come fondamento dell’obbligo (in genere) è
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spontanea1, nel caso del mantenimento dell’ex coniuge la solidarietà post-coniugale, che ad avviso di molti giustifica l’obbligo in esame, viene imposta dalla legge e soltanto in rare ipotesi è accompagnata da un sentimento altruista2. Il problema è comune a molti ordinamenti giuridici, ma nel nostro risulta particolarmente accentuato alla luce di regole giurisprudenziali che in alcuni casi hanno determinato un eccessivo favor nei confronti dell’avente diritto e situazioni di vero e proprio disagio economico in capo all’obbligato. Si consideri, infatti, che, secondo un orientamento consolidato, non si prevede un limite temporale alla durata dell’assegno di divorzio; per determinare il suo ammontare si fa riferimento al tenore di vita che si è goduto o che sarebbe stato possibile godere durante il matrimonio; è sempre possibile chiedere la revisione dell’assegno dimostrando il miglioramento delle condizioni economiche dell’obbligato (addirittura derivante da successione mortis causa); è possibile la corresponsione in unica soluzione soltanto con il consenso del coniuge avente diritto e la valutazione di equità da parte del giudice; e, ancora, sull’ex coniuge chiamato a versare l’assegno si fa gravare l’onere di provare che l’altro ex coniuge ha rifiutato concrete offerte di lavoro. Un insieme di regole, in definitiva, spesso idonee a determinare situazioni insostenibili per l’obbligato che di frequente ha visto peggiorare drammaticamente le proprie condizioni di vita. È ovvio, d’altra parte, che se il coniuge avente diritto all’assegno può pretendere di conservare lo stesso livello di vita goduto durante il matrimonio, si verifica di conseguenza, salvo ipotesi particolari, un significativo ridimensionamento del livello di vita dell’altro ex coniuge, già alla luce della necessità di dover sostenere i costi di un secondo alloggio. Condivisibili appaiono pertanto le sentenze della Corte suprema che avevano cercato di ridurre lo squilibrio facendo riferimento ad un tenore di vita tendenzialmente uguale a quello tenuto durante il matrimonio3, travolte peraltro dall’orientamento dominante sopra descritto. In definitiva, seppure il dato statistico informa che anche nel nostro paese la maggior parte dei matrimoni che si concludono con il divorzio non determina il sopravvivere di alcun obbligo tra gli ex coniugi, da tempo si avvertiva l’esigenza di un ripensamento del suddetto orientamento giurisprudenziale, in realtà basato su una dubbia lettura del dato
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In argomento v. soprattutto, N. Lipari, «Spirito di liberalità» e «spirito di solidarietà», in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1977, 1, il quale intende la solidarietà come «sentimento di generosità o di altruismo». In termini generali, S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Bari-Roma, 2014, 48, parla di «solidarietà giuridicizzata». Con riferimento ai rapporti familiari e agli obblighi di mantenimento, 50. Ma vedi anche T. Auletta, Alimenti e solidarietà familiare, Milano, 1984, passim; e, sull’ambiguità del termine solidarietà, P. Rescigno, Solidarietà e diritto (lezione magistrale), Napoli, 2006, spec. 13. Cfr. Cass., 19 settembre 2005, n. 18477: «Non è, quindi, necessario uno stato di bisogno, rilevando invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate per ristabilire un sostanziale equilibrio»; Cass., 18 agosto 2006, n. 18200, nella quale si fa riferimento ad «un tenore di vita (tendenzialmente) analogo a quello goduto manente matrimonio»; Cass., 2 maggio 2007, n. 10133, ove si afferma che l’assegno di divorzio «deve assicurare al coniuge più debole un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello goduto manente matrimonio».
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normativo, in modo da pervenire a soluzioni più attente a tutti gli interessi in gioco ed al mutato significato degli istituti in esame nella società moderna.
2. La sentenza Cass. 10 maggio 2017, n. 11504: una svolta a favore dell’ex coniuge obbligato.
Una svolta significativa si è avuta con la sentenza della Corte di cassazione, 10 maggio 2017, n. 115044, già confermata da Cass., 22 giugno 2017, n. 15481, che tra l’altro non ha accolto la richiesta del sostituto procuratore generale di rimettere il ricorso al primo presidente per l’eventuale sua assegnazione alle Sezioni Unite. La suddetta sentenza modifica il quadro sopra brevemente descritto soprattutto per tre ragioni: i. cancella dal diritto vivente il parametro del «tenore di vita» goduto durante il matrimonio; ii. corregge il criterio di ripartizione dell’onere della prova, assegnando all’ex coniuge che chiede l’assegno di mantenimento l’onere di dimostrare che, senza sua colpa, non ha trovato una occupazione lavorativa; iii. .indica un parametro per quantificare l’assegno di divorzio nei casi, da considerare residuali, in cui si configura il diritto ad ottenerlo. Prima di analizzare le questioni sopra indicate e di affrontare alcuni aspetti problematici conviene tuttavia soffermarsi sulle più rilevanti affermazioni contenute nella sentenza, che servono a comprendere le ragioni del nuovo principio di diritto stabilito dalla Corte di cassazione. Nelle pagine iniziali si osserva, in primo luogo, che «una volta sciolto il matrimonio civile o cessati gli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso, (…) il rapporto matrimoniale si estingue definitivamente sia sul piano dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi “persone singole”, sia dei loro rapporti economico patrimoniali (art. 191, comma 1, cod. civ.) e, in particolare del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143, comma 2, cod. civ.)». La precisazione – a nostro avviso – è molto importante perché se il reciproco dovere di assistenza trova certamente fondamento nella solidarietà coniugale, la sua cessazione (in verità non totale) rende in effetti abbastanza arduo configurare quella «solidarietà post-coniugale» tradizionalmente indicata come fondamento dell’obbligo di pagare l’assegno di divorzio5. La solidarietà post-coniugale viene comunque ancora (correttamente) ammessa nella sentenza in esame, che rinviene il suo fondamento nel dovere inderogabile di solidarietà «economica»
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In Foro it., 2017, I, 1859, con note di G. Casaburi, C. Bona e A. Mondini; in Fam e dir., 2017, 636, con nota di E. Al Mureden. C. M. Bianca, Diritto civile, II 1, La famiglia5, Milano, 2014, 297 s.
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(art. 2, in relazione all’art. 23 Cost.). L’assenza di ragioni di solidarietà economica comporta – ad avviso della Corte – che l’eventuale riconoscimento del diritto determinerebbe una «locupletazione illegittima». Già sotto questo profilo si ravvisa pertanto un importante distacco rispetto alla concezione tradizionale che – non soltanto in Italia – individua il fondamento della solidarietà coniugale nelle norme di rango costituzionale che disciplinano il matrimonio e la famiglia, e quello della solidarietà post-coniugale nella stessa esistenza di un rapporto coniugale e familiare che, sia pur cessato, non perde la sua rilevanza sotto il profilo in esame ed i cui effetti – non a caso – sono in genere collegati anche alla durata del rapporto stesso. Originale, inoltre, la lettura sistematica della normativa vigente che disciplina l’obbligo in questione (art. 5, comma 6, legge 898/1970) sotto l’aspetto del procedimento e delle sue scansioni. Si legge infatti che il giudizio deve essere distribuito in due fasi: la prima relativa all’accertamento della configurabilità del diritto all’assegno e, in caso di esito positivo, la seconda dedicata alla determinazione quantitativa dell’assegno. Per quanto concerne la critica al «tenore di vita matrimoniale», quale parametro per quantificare l’assegno di divorzio, si afferma che non può avere una perdurante efficacia, sul piano economico, un vincolo che è stato disciolto sul piano personale. Ma, soprattutto, distinte le due fasi del giudizio, si precisa che il livello di vita matrimoniale non può comunque rilevare ai fini dell’accertamento dell’an dell’esistenza del diritto, da svolgere alla luce del principio di «autoresponsabilità» economica degli ex coniugi, che – ad avviso della Corte – informa la disciplina in materia dopo la riforma del 1987. Il criterio, in ogni caso, «non è più attuale», come conferma il costume sociale che ormai vede nel matrimonio un atto di libertà e di autoresponsabilità, per di più, in base alla normativa di recente introdotta nell’ordinamento italiano, agevolmente «risolubile». Sulla configurabilità del diritto all’assegno, si conclude quindi nel senso che occorre anzitutto fare riferimento al dettato legislativo, poiché nella norma dell’art. 5 comma 6 della legge sul divorzio si parla di mancanza di «mezzi adeguati» e della «impossibilità di procurarseli» per ragioni oggettive, presupposti che devono entrambi riferirsi alla sfera dell’ex coniuge che richiede l’assegno. Di conseguenza, si afferma che il parametro di riferimento per valutare l’adeguatezza dei mezzi deve essere individuato nella «autosufficienza», cioè nella «indipendenza economica» del richiedente, effettiva o potenziale, cioè nello stesso parametro applicato per disporre il pagamento di un assegno periodico in favore dei figli maggiorenni, economicamente non indipendenti, secondo quanto dispone l’art. 337-septies, primo comma, c.c. Le argomentazioni offerte dalla Corte non appaiono sempre convincenti, ma deve essere anzitutto apprezzata – ad avviso di chi scrive – la scelta di fondo relativa alla «autoresponsabilità», che avvicina l’Italia agli altri ordinamenti europei. La Corte segnala che il principio enunciato, implicitamente rinvenibile nel tessuto normativo del nostro ordinamento, «appartiene al contesto giuridico europeo», poiché le legislazioni di molti paesi europei, «talora in termini rigorosi e radicali», hanno previsto come regola generale la piena autoresponsabilità economica degli ex coniugi, salvo eccezioni (limitate anche nel tempo) in caso di particolari situazioni che giustificano la solidarietà.
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3. Il principio dell’«autoresponsabilità». Il riferimento al contesto giuridico europeo è correttamente contenuto in poche righe della sentenza. In sede di commento sembra opportuno confermare l’esattezza della lettura della Corte suprema circa l’evoluzione della problematica in Europa, ma altresì svolgere alcune osservazioni relative alla complessità delle soluzioni invero riscontrabili in altri ordinamenti ed alla attenzione comunque riservata ad esigenze di tutela che a volte trovano un espresso riscontro nella normativa. Conviene altresì mettere in luce che il principio dominante in Europa, anche alla luce dei Principles of European Family Law regarding divorce and maintenance between former spouses, elaborati dalla Commissione europea per il diritto di famiglia, è quello della «autosufficienza» inteso tuttavia nel senso di «autoresponsabilità» (principio 2:2), cioè come obbligo di ciascun coniuge di provvedere ai propri bisogni dopo il divorzio6. Il principio conosce tuttavia alcune eccezioni o limitazioni, riconducibili all’idea della solidarietà. L’obbligo di mantenimento si configura, ad esempio, quando l’ex coniuge richiedente non ha mezzi adeguati né la possibilità di procurarli per far fronte ai propri bisogni e l’altro coniuge è in grado di soddisfare le sue esigenze. Al riguardo, occorre tenere conto della capacità lavorativa dei coniugi divorziati, dell’età e dello stato di salute, della cura di figli minori, della ripartizione dei doveri durante il matrimonio, della sua durata e del tenore di vita, nonché di successivi matrimoni o convivenze (principio 2:4). L’eventuale somma dovuta a titolo di mantenimento deve essere versata con cadenza periodica e in anticipo ed è altresì possibile il pagamento in un’unica soluzione (principio 2:5). Nonostante il sussistere dei suddetti presupposti il mantenimento può essere escluso se il pagamento risulta di eccezionale «durezza» per l’obbligato, tenendo conto tra l’altro del comportamento dell’ex coniuge richiedente (principio 2:6). Inoltre, nel valutare la capacità dell’ex coniuge chiamato a soddisfare i bisogni dell’altro, occorre accordare priorità alle esigenze di mantenimento dei figli dell’obbligato come pure tenere conto di eventuali obblighi di quest’ultimo nei confronti di un nuovo partner (principio 2:7). In ogni caso, il mantenimento – salvo casi eccezionali – può essere attribuito soltanto per un periodo di tempo limitato (principio 2:8) e l’obbligo si estingue se l’avente diritto è passato a nuove nozze oppure ad una convivenza stabile. Secondo il principio dell’autoresponsabilità, codificato tra l’altro nell’ordinamento tedesco, ognuno dei coniugi dopo il divorzio, in linea di principio, deve provvedere al proprio mantenimento. Non si guarda invece alla mancanza di autosufficienza per giustificare alcune ipotesi che impongono determinate prestazioni a carico dell’altro ex coniuge.
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In argomento v. S. Patti, I principi di diritto europeo della famiglia sul divorzio e il mantenimento tra ex coniugi, in Familia, 2005, 337 ss. Per un quadro dell’evoluzione del diritto europeo della famiglia in tema di divorzio e mantenimento tra ex coniugi, v. K. Boele-Woelki, B. Braat, I. Sumner (Ed.), European Law in Action, II, Maintenance between former spouses, Antwerp-Oxford-New York, 2003.
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L’esperienza tedesca risulta particolarmente interessante poiché per molti anni in Germania si è attribuito un rilievo prevalente alla solidarietà postconiugale ma, nel 2007, una legge di riforma ha introdotto nel § 1569 BGB il «principio dell’autoresponsabilità» (Grundsatz der Eigenverantwortung)7, al quale viene affiancato quello della Handlungsfreiheit, cioè della libertà di agire che ciascuno dei coniugi deve avere dopo il divorzio e che risulta limitata da eventuali obblighi di mantenimento. La solidarietà post-coniugale non è comunque scomparsa, trovando giustificazione (in genere comunque per un periodo di tempo determinato) anzitutto nel fatto che in molti casi il matrimonio causa una dipendenza economica di un coniuge, il quale ad esempio non può iniziare o continuare la propria formazione professionale oppure deve ridurre o abbandonare la propria attività lavorativa. Le conseguenze di queste scelte (comuni) si ripercuotono sul periodo post-coniugale e la solidarietà (nacheheliche Solidarität) sopravvive quale fondamento di alcune fattispecie puntualmente disciplinate. Si consideri, ad esempio, il § 1570 BGB secondo cui l’ex coniuge ha diritto ad un assegno di mantenimento nel caso di presenza di uno o più figli minori (comuni) fino al compimento del terzo anno di età degli stessi, e ciò a prescindere dalla sua situazione patrimoniale e, ovviamente, oltre alla somma prevista per il mantenimento dei figli. In tal modo il legislatore ha garantito la presenza e la cura del genitore, in genere la madre, nella prima fase di vita del figlio, mentre a questa regola, rigidamente formulata, sarebbe stato ben difficile pervenire mediante un’evoluzione giurisprudenziale. Analoghe considerazioni possono svolgersi con riferimento alla norma che garantisce all’ex coniuge quanto necessario per completare la sua formazione professionale nel caso in cui essa non era stata iniziata o era stata interrotta in vista del matrimonio o durante il matrimonio (§ 1575 BGB); oppure a quelle che prevedono l’obbligo di mantenimento se sussistono gravi motivi che impediscono l’esercizio di un’attività produttiva (§ 1576), oppure uno stato di bisogno, che comunque non rileva se al momento del divorzio ci si doveva aspettare che il mantenimento poteva essere assicurato in modo duraturo dal patrimonio dell’ex coniuge (§ 1577). La misura del mantenimento si determina sulla base delle condizioni di vita matrimoniale e il mantenimento comprende tutti i bisogni della vita (§ 1578, 1). La pretesa al mantenimento del coniuge divorziato deve essere tuttavia limitata temporalmente se una pretesa a tempo indeterminato appare iniqua anche in ragione delle esigenze di un figlio comune (§ 1578b, 2). Dal principio dell’autoresponsabilità discende che la mancanza di autosufficienza non rileva se non ricorrono i presupposti che giustificano la solidarietà postconiugale, in particolare se non è conseguenza della ripartizione di ruoli concordata durante il matrimonio. Viceversa sono previste diverse ipotesi in cui si configura un obbligo di prestazione da ricondurre al principio di solidarietà post-coniugale, a prescindere dalle condizioni econo-
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Gesetz zur Änderung des Unterhaltsrechts (UÄndG, BGBl, 2007, I, 3189), entrata in vigore il 1° gennaio 2008. Per un commento v. W. Born, Das neue Unterhaltsrecht, in NJW, 2008, 1 ss.
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miche dell’avente diritto e quindi dalla sua «autosufficienza». Si noti che nonostante la dettagliata disciplina prevista dal BGB, spesso la giurisprudenza fa ricorso a clausole generali che vengono concretizzate e hanno condotto alla elaborazione di tabelle8. In Francia, a seguito di una riforma del Code civil del 20049 è stata introdotta una normativa che, mirando ad una dédramatisation del divorzio, tende anzitutto a risolvere in modo definitivo le eventuali questioni patrimoniali in modo che ciascuno dei coniugi divorziati possa riprendere il cammino della vita autonomamente e senza «carichi pendenti». Nell’ordinamento francese – come si vedrà – si tende in primo luogo ad un riequilibrio patrimoniale, non a concedere un minimo per vivere e quindi l’«autosufficienza» presenta un rilievo marginale.
4. Crisi del matrimonio e obbligo di svolgere un’attività lavorativa: la ripartizione dell’onere della prova.
Secondo la sentenza in esame incombe sull’ex coniuge che chiede l’assegno di divorzio l’onere di provare la sussistenza delle «relative condizioni di legge», cioè la mancanza di mezzi adeguati o, comunque, l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Per quanto riguarda il primo aspetto, rileva l’«autosufficienza», cioè il «possesso di redditi di qualsiasi specie e/o di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari»: di conseguenza non può configurarsi il diritto all’assegno se il coniuge divorziato dispone comunque di beni dai quali ricavare i mezzi necessari per vivere. Mentre, con riferimento alle «capacità e possibilità effettive di lavoro personale» si stabilisce un’applicazione della norma generale in tema di ripartizione dell’onere della prova (art. 2697 c.c.), che corregge gravi e ripetute violazioni della stessa disposizione. Erroneamente, infatti, la giurisprudenza aveva posto a carico dell’ex coniuge obbligato l’onere di dimostrare che il richiedente l’assegno avesse rifiutato concrete occasioni di lavoro, non rispettando in tal modo non soltanto la norma generale ma altresì criteri, da tempo elaborati, conformi a principi di logica e di buon senso, come quello della «vicinanza alla prova». La conseguenza della suddetta erronea ripartizione era stata quella di porre il soggetto chiamato a versare l’assegno di fronte ad una vera e propria probatio diabolica, e in definitiva di incidere sulla regola di diritto sostanziale attraverso la distribuzione dell’onere probatorio.
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Cfr. N. Dethloff, Familienrecht, 30 ed., München, 2012, 184 ss. Per approfondimenti, v. G. Brudermüller, Geschieden und noch gebunden? Ehegattenunterhalt zwischen Recht und Moral, München, 2008; M. Kremer, Das Prinzip der familiären Solidarität im Unterhaltsrecht des BGB, Bielefeld, 2010. Loi 26 mai 2004, n. 2004/409, entrata in vigore il 1° gennaio 2005.
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Considerazioni analoghe dovrebbero indurre la giurisprudenza a modificare la regola della ripartizione dell’onere, circa la possibilità di svolgere un’attività lavorativa, anche nei giudizi relativi all’assegno di mantenimento a seguito di separazione personale dei coniugi. Sussiste infatti un orientamento consolidato secondo cui sul coniuge chiamato a versare l’assegno di mantenimento grava l’onere di fornire la prova del rifiuto dell’altro coniuge di concrete opportunità di lavoro10. La giurisprudenza ha in tal modo esteso alle fattispecie di separazione personale la regola dettata in tema di divorzio, posto che la norma dettata in materia di separazione personale dei coniugi prevede soltanto il diritto di ricevere quanto è necessario al mantenimento in mancanza di adeguati redditi propri ma non contiene la frase «o comunque non può procurarsi per ragioni oggettive». Non essendo stata prevista una regola particolare di ripartizione dell’onere della prova, dovrebbe trovare applicazione la regola generale dell’art. 2697 c.c., secondo cui l’onere di provare i fatti costitutivi grava sull’attore. Nel caso in esame fatti costitutivi sono sia la mancanza di mezzi adeguati sia l’impossibilità di procurarseli, cioè di svolgere un’attività lavorativa. Se allora può (entro certi limiti, alla luce delle condizioni del mercato del lavoro) giustificarsi la regola giurisprudenziale secondo cui è lecito rifiutare occasioni di lavoro non adeguate in considerazione della formazione ricevuta, deve essere considerata errata la regola di ripartizione che fa gravare sul coniuge convenuto l’onere della prova di un fatto costitutivo. Né, in senso favorevole al criticato orientamento, varrebbe rilevare che la giurisprudenza si preoccupa di modificare l’oggetto della prova richiesta al convenuto, chiamato a provare non il fatto negativo della mancanza di adeguato impegno da parte del coniuge, bensì il fatto positivo del «rifiuto» di quest’ultimo di concrete occasioni di lavoro. La modifica dell’oggetto della prova non serve infatti a correggere l’errata ripartizione dell’onus probandi e, comunque, come insegna l’esperienza dei tribunali, risulta ben difficile provare l’eventuale «rifiuto» del coniuge, trattandosi di vicende che attengono ad una sfera del tutto estranea a quella del soggetto chiamato a versare l’assegno. In definitiva, la suddetta ripartizione dell’onere, che viola anche il principio della «vicinanza alla prova», conduce a risultati ancor meno accettabili proprio perché la giurisprudenza non si accontenta di una valutazione in astratto delle occasioni di lavoro, in base alla qualificazione professionale della persona e alle condizioni del mercato, ma esige la prova dell’avvenuto «rifiuto» da parte del coniuge di concrete offerte o occasioni di lavoro. Come conseguenza di tale orientamento, il coniuge nei cui confronti viene fatta valere la pretesa finisce spesso per essere considerato «obbligato» semplicemente sulla base della domanda.
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V., ad es., Cass., 2 luglio 2004, n. 12121, in Fam. pers. e succ., 2005, 17 ss. con nota critica di S. Patti, Assegno di mantenimento e ricerca di un lavoro.
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5. Autoresponsabilità e autosufficienza tra parametri standardizzati e valutazione caso per caso.
Esaminando la sentenza sull’assegno di divorzio dall’angolo di visuale degli altri ordinamenti europei, la Corte di cassazione sembra in realtà essersi allontanata da recenti modelli perché in primo luogo trascura una serie di circostanze che possono giustificare (o meglio imporre) la sopravvivenza di una «adeguata» solidarietà, ma soprattutto perché offre un criterio di quantificazione tendenzialmente unitario, in quanto commisurato a parametri esterni, in grado certamente di offrire certezza e prevedibilità nonché semplificazione dei procedimenti, ma non soddisfacente poiché insensibile alle caratteristiche del caso concreto. Viceversa, le norme in vigore in altri paesi europei, tra cui la Germania e la Francia, configurano criteri di carattere generale in grado di consentire al giudice di commisurare la somme (eventualmente) da pagare alle caratteristiche di ogni singola fattispecie. In altri termini, il principio generale della autoresponsabilità non ha cancellato quello della solidarietà, che sopravvive con riferimento a diverse ipotesi in cui il giudice è tenuto a stabilire la somma dovuta in base alle circostanze del singolo divorzio. Inoltre, i giudici di legittimità non hanno tenuto conto di una concezione degli effetti del divorzio, riscontrabile in diversi paesi europei, secondo cui occorre favorire un «riequilibrio» e le eventuali prestazioni patrimoniali a carico e, rispettivamente, a favore di uno degli ex coniugi, devono esaurirsi nel più breve tempo possibile, in modo da evitare la prosecuzione di conflitti e liti. Così, in Francia, in mancanza di un accordo dei coniugi, è previsto l’eventuale pagamento di una prestation compensatorie (una tantum) avente un caractére forfaitaire sotto forma di una somma di denaro il cui ammontare viene determinato dal giudice (art. 270 Code civil) e che può avere anche ad oggetto l’attribuzione di beni in proprietà (art. 274 Code civil). Peraltro, se il debitore non è in grado di pagare la somma in un’unica soluzione, il giudice può fissare le «modalités» del pagamento, in un periodo massimo di otto anni, sotto forma di versamenti periodici. Proprio al fine di assicurare la definitiva cessazione di ogni rapporto tra i coniugi, soltanto in ipotesi eccezionali, la «prestation compensatoire» può assumere la forma di una rendita a vita (rente viagère). In ogni caso, non è possibile aumentare in un secondo momento l’ammontare stabilito: «la (eventuale) révision ne peut avoir pour effet de porter la rente à un montant supérieur à celui fixé initialement par le juge» (art. 276-3 al. 2 Code civil). L’intento di evitare qualsiasi prosecuzione di rapporti economici tra gli ex coniugi risulta inoltre dalla nuova norma introdotta dall’art. 276-4 Code civil, secondo cui il debitore di una «prestation compensatoire» sotto forma di rendita può chiedere al giudice, in qualsiasi momento, di sostituire in tutto o in parte la rendita con il pagamento di una somma. Analoga domanda può essere presentata dal creditore della prestazione patrimoniale se dimostra che le condizioni del debitore consentono questa modifica. La riflessione sul modello francese è utile anche sotto un profilo diverso, perché, come detto, la suddetta somma di denaro una tantum deve essere pagata, a prescindere dalle
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condizioni di bisogno del richiedente, al fine di compenser (…) la disparité que la rupture du mariage crée dans le conditions de vie respectives11. Occorre infatti chiedersi, anche per sollecitare una riforma del diritto italiano vigente, se alla luce della nuova concezione dell’assegno di divorzio, non risulti eccessivamente penalizzato (soprattutto) l’ex coniuge che ha vissuto in regime di separazione dei beni e, dopo un rapporto matrimoniale durato molti anni, nulla riceve poiché comunque dispone di un minimo già quantificato da alcune sentenze di merito in circa mille euro mensili per (soprav)vivere12. Ed al riguardo conviene altresì far menzione del sistema inglese, in cui – come è noto – il giudice ha il potere di «riallocare» la proprietà dei beni conseguita durante il rapporto matrimoniale per evitare eccessive situazioni di squilibrio13. In definitiva, nelle ipotesi in cui si configura l’obbligo di un coniuge di effettuare prestazioni a favore dell’altro, il quantum di tali prestazioni dipende da una serie di circostanze non «cristallizzate» ma che, al contrario, impongono una valutazione caso per caso. Sotto questo profilo la recente sentenza della Corte di cassazione si distacca profondamente non soltanto dall’orientamento precedente ma altresì dalle soluzioni riscontrabili nel contesto europeo. Particolarmente significativo al riguardo l’ordinamento francese in cui – come si è visto – il fine principale della riforma non è stato quello di predisporre una tutela per i casi in cui non sussiste l’«autosufficienza» di un ex coniuge, quanto di favorire una soluzione equilibrata e definitiva delle questioni patrimoniali. In tal senso, non si tratta di attribuire o meno un «minimo» che consenta di (soprav)vivere quanto di disciplinare le eventuali prestazioni patrimoniali in modo da garantire una soluzione equilibrata e di esaurirle nel più breve tempo possibile al fine di evitare la prosecuzione e la riapertura di conflitti e liti.
6. L’esigenza di ripensare i criteri di quantificazione dell’assegno di mantenimento.
La sentenza in esame determina un trattamento del coniuge divorziato del tutto diverso rispetto a quello del coniuge separato che ha diritto all’assegno di mantenimento. La spiegazione – formalmente ineccepibile – viene indicata nel permanere del vincolo di coniugio nel primo caso e del suo cessare nel secondo. A ciò potrebbe aggiungersi che il periodo di separazione, a seguito delle recenti riforme legislative, si è ulteriormente abbreviato e che pertanto la questione ha perso una parte della sua rilevanza. Tuttavia, a ben vedere, appare del tutto inadeguata la tradizionale spiegazione secondo
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M.P. Murat-Sempietro, V. Trambouze, Le divorce après la loi du 24 mai 2004, Paris, 2006, 133 ss. Cfr., tra le altre, Trib. Milano (ord.), 22 maggio 2017. 13 R. Probert, M. Harding, Family and Succession Law in England and Wales, 5a ed., Alphen aan den Rijn, 2016, 199 ss. 12
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Assegno di divorzio: un passo verso l’Europa?
cui nel caso della separazione personale il rapporto coniugale non si interrompe, determinandosi soltanto una sospensione dei doveri di natura personale, quali la convivenza, la fedeltà e la collaborazione; e che gli aspetti di natura patrimoniale non vengono meno, pur assumendo contenuti coerenti con la nuova situazione. Infatti, è proprio la cessazione degli obblighi di natura personale, in primo luogo quello di coabitazione e di fedeltà a sancire – già nella coscienza sociale – la fine del rapporto matrimoniale. Non si vede soprattutto perché si debba garantire lo stesso livello della vita matrimoniale ad un coniuge che, ad esempio, a prescindere dall’addebito (invero pronunciato raramente) della separazione, è andato prontamente a coabitare con un’altra persona! A tal proposito deve tuttavia osservarsi che il pagamento di somme sicuramente eccessive – come è testimoniato da un caso che ha impegnato anche la cronaca dei quotidiani14 – risulta non condivisibile alla luce degli stessi criteri di equità e di ragionevolezza che hanno condotto alla formazione della nuova regola del diritto vivente in tema di assegno di divorzio. A conclusioni analoghe si perviene alla luce della comparazione, poiché – a ben vedere – perfino negli ordinamenti che non prevedono la separazione personale dei coniugi come istituto giuridico – è il fatto stesso della crisi coniugale e della separazione a determinare la fine della comunanza di vita e della connessa «solidarietà»15.
7. Il ruolo del giudice nella formazione del diritto
effettivamente vigente e la necessità di un intervento del legislatore. Un ultimo rilievo concerne il ruolo del giudice nella formazione del diritto effettivamente vigente. Il dibattito si è di recente intensificato ed arricchito di interessanti contributi, anche di matrice giurisprudenziale. Le tesi che si confrontano sono in particolare rappresentate da chi vede una insanabile contraddizione già nell’espressione «interpretazione creativa», osservando che l’interpretazione presuppone un dato esistente mentre la creazione inizia dove il dato manca16, e da chi ravvisa nel contributo del giudice un’ineludibile e utile componente del diritto vivente17. Ad avviso di chi scrive, appartiene alla cultura giuridica europea da oltre mezzo secolo il convincimento che il giudice partecipa e deve partecipare alla formazione del diritto
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Cass., 16 maggio 2017, n. 12196. Cfr. le opere citate nelle note 7 e 8. 16 L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, nel numero monografico di Questione giustizia, Il giudice e la legge, 2016, 4, p. 13 ss. 17 N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2017, 15 ss. 15
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Salvatore Patti
effettivamente vigente18. Ciò che è cambiato negli ultimi anni concerne soprattutto la maggiore consapevolezza del giudice circa il suo ruolo. Una dimostrazione può rinvenirsi nel contributo scientifico offerto dall’estensore della sentenza in esame al dibattito in corso19. Occorre tuttavia prendere atto degli inevitabili limiti di una «costruzione» giurisprudenziale che, dopo avere correttamente fatto riferimento al principio della autoresponsabilità, può fissare soltanto in modo generico le eccezioni basate sulla solidarietà postconiugale, con inevitabili conseguenze negative sul piano della certezza del diritto e della parità di trattamento. Illuminante al riguardo soprattutto l’esperienza tedesca poiché la riforma del BGB, dopo la norma iniziale che prevede il principio della Eigenverantwortung ha introdotto numerose norme che – come si è visto – disciplinano le eccezioni basate sulla solidarietà postconiugale. In definitiva, l’opportuno revirement giurisprudenziale in tema di assegno di divorzio che, ovviamente, non ha potuto tenere conto di tutte le fattispecie particolari disciplinate dalle leggi degli altri ordinamenti brevemente ricordate, dovrebbe spingere il legislatore ad una riforma ispirata al principio di autoresponsabilità ma sensibile alle giuste esigenze dell’ex coniuge «debole» o che – sia pure indirettamente – ha contribuito alla formazione del patrimonio dell’altro, eventualmente estesa anche ad aspetti del regime patrimoniale e della autonomia privata in materia di accordi in vista del divorzio.
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C. M. Bianca, Il principio di effettività come fondamento della norma di diritto positivo, in Estudios de derecho civil en honor del prof. Castán Tobeñas, II, Pamplona, 1969, 61 ss. (ora in Realtà sociale ed effettività della norma. Scritti giuridici, I, 1, 35 ss.). 19 A. Lamorgese, L’interpretazione creativa del giudice non è un ossimoro, in Questione giustizia, cit., p. 115 ss.
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Federico Azzarri
Il rilievo giuridico della fedeltà nei rapporti di famiglia* Sommario:
1. Un interesse ridestato. – 2. L’abbandono dell’originaria impostazione codicistica. – 3. Una nuova idea di fedeltà. – 4. La fedeltà nel diritto matrimoniale germanico. – 5. Violazione dell’obbligo di fedeltà e ripercussioni patrimoniali: a proposito dei §§ 1381 e 1579 BGB. – 6. Fedeltà e Eingetragene Lebenspartnerschaft prima della legge sulla Ehe für alle; una chiosa sul § 1353 BGB. – 7. Superare la fedeltà?
The article draws from the Italian law on civil partnership and the German law on same-sex marriage in order to analyse the legal understanding of fidelity in family relationships in both systems, with particular attention to the consequences of the infringement of this personal duty. Moreover, the essay criticizes the legislative proposal which aims to remove the duty of fidelity in marriage from the Article 143 of the Italian Civil Code, since this would be inconsistent with the current rules concerning the patrimonial effects of the separation and divorce (although the spouses can understand their union as a “liberal” one anyway).
1. Un interesse ridestato. La l. 20 maggio 2016, n. 76, che ha introdotto nel nostro ordinamento le unioni civili, ha ridestato un certo interesse attorno all’obbligo di fedeltà nei rapporti familiari, poiché,
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Il contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. Lo scritto muove da alcune riflessioni svolte in occasione della presentazione della raccolta di scritti del Prof. Francesco D. Busnelli “Persona e famiglia” (Pacini giuridica, 2017) tenutasi a Pisa, presso la Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento “Sant’Anna”, il giorno martedì 13 giugno 2017. All’Autore di quegli studi, queste pagine sono affettuosamente dedicate, in segno di riconoscenza per quella appassionata dedizione al dialogo con i più giovani che tanto ha caratterizzato la Scuola pisana.
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Federico Azzarri
come è noto, tale impegno, assieme a quello di reciproca collaborazione («nell’interesse della famiglia»), non è stato riprodotto tra gli obblighi di natura personale che sorgono dalla costituzione dell’unione civile, i quali, per il resto, all’art. 1, undicesimo comma, rispecchiano invece il contenuto dell’art. 143 c.c. Nel quadro di un istituto che, in linea generale, segue il paradigma del matrimonio, sia per quanto attiene al momento genetico dell’atto e all’assetto dei rapporti patrimoniali (e, tutto sommato, personali) tra le parti, sia per ciò che concerne la rilevanza pubblica ed istituzionale dell’unione all’interno del sistema, l’omissione degli obblighi di fedeltà e di collaborazione appare invero alquanto singolare. E, in effetti, essa sembra spiegarsi plausibilmente solo alla luce del movimentato iter parlamentare della legge, culminato con l’apposizione della questione di fiducia da parte del governo, la quale ha potuto sì garantirne la non più rinviabile approvazione, ma al prezzo “politico” – non da poco – di una rinuncia al testo iniziale del d.d.l. (S. 2081), ove i rinvii alla normativa matrimoniale erano ancora più accentuati, giacché vi si attingevano appieno pure il regime della nullità dell’unione, il complesso dei doveri personali dei partner e la disciplina dello scioglimento del vincolo; inoltre, era altresì espressamente prevista l’estensione al partner della facoltà di adottare il figlio dell’altro attraverso una modifica dell’art. 44, primo comma, lett. b, l. 4 maggio 1983, n. 184 – eventualità che nella l. 76/2016 è stata infine salvaguardata, in modo un po’ controverso, mercé il richiamo a «quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti» (art. 1, ventesimo comma), con ciò implicitamente avallando quei risultati ermeneutici della giurisprudenza di merito e di legittimità che hanno inteso l’ipotesi di cui alla lett. d dell’anzidetta disposizione – quella della «constatata impossibilità di affidamento preadottivo» – non solo come impossibilità di fatto di avviare e completare il periodo dell’affidamento, ma anche come impossibilità di diritto dovuta alla mancanza di uno stato di abbandono del minore1. Il compromesso tra le diverse anime della compagine governativa ha dunque condotto a una legge più incline ad enfatizzare con una certa insistenza le differenze tra unione civile e matrimonio, ancorché, nel complesso, tali demarcazioni non paiono incidere in modo irreparabile sulla sostanza di quella che, a ben vedere, si configura come una vera e propria «forma di coniugio», che il legislatore «solo sottilmente e talvolta malamente» ha cercato di distinguere dal coniugio matrimoniale2.
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Cass., 22 giugno 2016, n. 12962, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 1135, con commento, nella II parte, di G. Ferrando, Il problema dell’adozione del figlio del partner. Commento a prima lettura della sentenza della Corte di cassazione n. 12962 del 2016; App. Milano, 9 febbraio 2017, in DeJure (s.m.); App. Torino, 27 maggio 2016, in Foro it., 2016, I, 1910, con nota di G. Casaburi, L’Unbirthday secondo il legislatore italiano: la «non» disciplina delle adozioni omogenitoriali nella l. 20 maggio 2016 n. 76; Trib. Minorenni Roma, 30 luglio 2014, n. 299, in Fam. dir., 2015, 574, con nota di M.G. Ruo, A proposito di omogenitorialità adottiva e interesse del minore. P. Zatti, Introduzione al Convegno, in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, 1665.
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Il rilievo giuridico della fedeltà nei rapporti di famiglia
2. L’abbandono dell’originaria impostazione codicistica. Limitando il discorso all’espunzione dei doveri di collaborazione e di fedeltà dal campo delle unioni civili, autorevole dottrina ha scorto in tale scelta legislativa un «malaccorto, e odioso, tentativo ulteriore di differenziazione [dei partner] dai coniugi»3. Il severo giudizio è del tutto condivisibile, giacché la grossolanità con cui sono stati disegnati i rapporti personali tra le parti dell’unione civile si rivela, in realtà, unicamente dovuta alle appena accennate ragioni di Realpolitik, non offrendo infatti l’ordito della legge, né il principio di ragionevolezza, alcun elemento adeguato a giustificare la parsimonia dimostrata al riguardo dalla l. 76/2016 – tanto più se si considera che, sul fronte dei rapporti patrimoniali, l’equiparazione normativa al regime del matrimonio è invece sostanzialmente completa, e che siffatta estensione delle norme matrimoniali al nuovo istituto, oltre a quelle sulla successione necessaria del coniuge, difficilmente si comprenderebbe, in mancanza di una implicita consonanza di fondo tra i due modelli familiari anche in ordine all’essenza delle relazioni non patrimoniali. Ciò detto, i risvolti concreti dell’opera del legislatore sul punto sono, in definitiva, alquanto modesti, spiccando soprattutto sul – pur non trascurabile – piano simbolico4.
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F.D. Busnelli, Architetture costituzionali, frantumi europei, incursioni giurisprudenziali, rammendi legislativi. Quale futuro per la famiglia?, in Unioni civili e convivenze di fatto. L. 20 maggio 2016, n. 76, a cura di M. Gorgoni, Santarcangelo di Romagna, 2016, XXIII. Invero, parte della dottrina ha nettamente stigmatizzato il modo con cui il legislatore è intervenuto sul profilo in esame. In particolare, si è criticata sia la consapevole scelta di non attribuire alcuna rilevanza giuridica all’esistenza di un legame affettivo stabile tra le parti, evitando al contempo di contemplare la comunione di vita materiale e spirituale tra le stesse come scopo e fondamento dell’unione, sia quella di non ricondurre alla costituzione dell’unione civile il sorgere di un vincolo di natura non patrimoniale idoneo a giustificare quei singoli diritti ed obblighi che pure dalla stessa discendono; G. De Cristofaro, Le “unioni civili” tra coppie del medesimo sesso. Note critiche sulla disciplina contenuta nei commi 1°-34° dell’art. 1 della l. 20 maggio 2016, n. 76, integrata dal d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 112 ss. Tale opzione, anche alla luce di altre scelte del legislatore – tra cui quella di demandare, di fatto, alla giurisprudenza la soluzione di un tema importante e delicato come quello dell’adozione del figlio del convivente –, ha così alimentato il sospetto che, nella sua impostazione di base, la l. 76/2016 finisca invero per gettare sulle coppie omosessuali l’ombra del disvalore e dell’inferiorità morale; così M.R. Marella, Qualche notazione sui possibili effetti simbolici e redistributivi della legge Cirinnà, in Riv. crit. dir. priv., 2016, 240 s. Orbene, il regime delle unioni civili presenta senza dubbio talune singolarità, rispetto al regime del matrimonio, che rivelano in modo chiaro il goffo e finanche irrispettoso tentativo del legislatore di svilire, in ossequio ad equilibrismi eminentemente politici, i sentimenti e l’impegno delle coppie formate da persone dello stesso sesso; tale grottesco tentativo, però, alla luce di una lettura complessiva della disciplina, sembra essere stato, in definitiva, funzionale più alla trascorsa e chiassosa dialettica parlamentare che ha accompagnato l’approvazione della l. 76/2016, che non a mutare i connotati strutturali di un istituto che recepisce pur sempre i tratti essenziali del modello coniugale, finendo talora addirittura per suggerire l’innovazione di alcuni aspetti (come in materia di cognome delle parti o di scioglimento) attraverso l’introduzione di regole più moderne e liberali di quelle tradizionali, ma comunque non eversive rispetto al diritto vivente dei rapporti tra i coniugi; G. Ferrando, La disciplina dell’atto. Gli effetti: diritti e doveri, in Fam. dir., 2016, 900 s.; P. Zatti, op. cit., 1664 ss. Anche il distacco probabilmente più significativo tra lo status della coppia coniugata e lo status della coppia unita civilmente, ossia quello inerente all’impossibilità per la seconda di domandare l’adozione del minore in stato di abbandono, nonché di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, più che segnare una divergenza tra le due forme di unione, attiene, a ben vedere, al distinto piano delle caratteristiche che il legislatore – con una valutazione non necessariamente condivisibile – richiede al nucleo familiare degli aspiranti genitori, le quali, per l’appunto, nella l. 184/1983 non si riducono alla semplice sussistenza del vincolo coniugale, che, anzi, neppure è necessaria ai fini dell’accesso alle tecniche di p.m.a.: art. 5, l. 19 febbraio 2004, n. 40. Non a caso, vi sono anche ordinamenti, come quello austriaco, che, pur prevedendo solo le unioni civili, permettono nondimeno ai partner l’adozione congiunta di un minore estraneo alla coppia (v. la decisione del Verfassungsgerichtshof dell’undici dicembre 2014 (G 119-120/2014-12), in iFamZ, 2015, 14, e, in tema, Th. Schoditsch, Die gemeinsame Adoption homosexueller Personen. Gedanken zu einer Neuregelung, ivi, 161). Ciò detto, a nostro avviso, più che l’esito in sé della regolamentazione italiana delle unioni civili, sembra semmai da doversi sottoporre a critica il postulato di fondo su cui l’intera disciplina poggia, il quale,
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Infatti, per quanto concerne l’obbligo di collaborazione, già nel matrimonio esso tende a rifluire all’interno dell’obbligo di assistenza, acquisendo un’autonoma fisionomia sol perché diretto ad operare, più che verso l’altro coniuge, verso la famiglia nel suo insieme, esprimendo cioè quelle necessità della vita familiare che sono comuni sia ai coniugi sia ai figli; d’altro canto, la componente economica di tale dovere trova poi una precisa fisionomia nell’obbligo di contribuire «ai bisogni della famiglia» ovvero «ai bisogni comuni», sancito sia dall’art. 143, terzo comma, c.c., sia dall’art. 1, undicesimo comma, l. 76/20165. Allo stesso tempo, l’ineludibile esigenza di collaborazione anche all’interno dell’unione civile è testimoniata dalla promessa dei partner (tra i quali pure vige il principio della parità dei diritti e dei doveri) di concordare l’indirizzo della vita familiare e la residenza comune, ex art. 1, dodicesimo comma, promessa che evidentemente poggia sull’esistenza e la conservazione di uno spirito collaborativo tra le parti6. Per quanto riguarda l’obbligo di fedeltà, invece, la sua mancata inclusione nelle unioni civili appare piuttosto sorprendente proprio alla luce del significato che esso ha progressivamente assunto all’interno del vincolo coniugale – salvo, beninteso, che non si voglia rinvenire una spiegazione nell’inaccettabile pregiudizio che vorrebbe le persone gay e lesbiche inclini ad abbandonarsi a tal punto alle pulsioni sessuali da rendersi dunque incapaci di ingaggiare legami affettivi solidi e duraturi7. Originariamente, infatti, l’obbligo di fedeltà era assistito nel matrimonio dalla sanzione penale del reato di adulterio e dalla sanzione civile della separazione per colpa, le quali erano però rivolte pressoché esclusivamente contro il solo adulterio della donna8 – che,
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per un verso, asserisce che al legislatore ordinario sarebbe preclusa l’apertura del matrimonio alle coppie omosessuali in assenza di una riforma dell’art. 29 Cost. (così la Consulta nella sentenza 15 aprile 2010, n. 138, in Foro it., 2010, I, 1361, con note di R. Romboli, Per la Corte costituzionale le coppie omosessuali sono formazioni sociali, ma non possono accedere al matrimonio, e di F. Dal Canto, La Corte costituzionale e il matrimonio omosessuale), e, per altro verso, ritiene nondimeno giustificata dal principio di ragionevolezza la predisposizione, da parte dell’ordinamento, di due istituti diversi, quali il matrimonio e le unioni civili, al fine di dare una distinta veste giuridica ai rapporti di coppia in ragione dell’orientamento sessuale dei protagonisti, ossia di una condizione intimamente connessa alla personalità individuale e da questa inseparabile (al riguardo, sia consentito il rinvio alla nostra voce Unioni civili e convivenze (diritto civile), in Enc. dir. Annali, X, Milano, 2017, 1018 ss.). E. Quadri, Unioni civili: disciplina del rapporto, in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, 1695; G. Iorio, Costituzione dell’unione civile, impedimenti e altre cause di nullità. Gli obblighi dei contraenti. Il regime patrimoniale. Lo scioglimento dell’unione civile, in Unioni civili e convivenze di fatto, cit., 93 s.; F. Ruscello, I diritti e i doveri nascenti dal matrimonio, in Trattato di diritto di famiglia diretto da P. Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di G. Ferrando-M. Fortino-F. Ruscello, I, II ed., Milano, 2011, 1046. Nella sua direzione verso il nucleo familiare unitariamente considerato sembra, invero, risiedere la specificità dell’obbligo di collaborazione; altra dottrina, invece, rinviene nell’obbligo in parola un più esplicito e reciproco impegno che vale a sancire positivamente il dovere dei coniugi di non far mancare nella famiglia anche un contributo di attività personale (di nuovo, soprattutto con riferimento alla sorveglianza e all’educazione dei figli o alla tenuta di rapporti che interessino tutta la famiglia) insuscettibile di essere surrogato dalla semplice messa a disposizione dei mezzi economici (M. Paradiso, I rapporti personali tra coniugi. Artt. 143-148, II ed., in Comm. SchlesingerBusnelli, Milano, 2012, 80 s.). E tuttavia, l’insufficienza del solo sostegno economico già emerge dall’obbligo di assistenza, il quale investe appunto pure la sfera morale (in ordine al vicendevole supporto affettivo, psicologico e spirituale), oltre a manifestare un’esigenza di aiuto anche per tutti quei bisogni della vita quotidiana che, per le loro caratteristiche, inevitabilmente implicano un coinvolgimento diretto dei coniugi in prima persona. G. Ferrando, op. ult. cit., 898. Segnala criticamente come, in effetti, questo sembri essere stato il retropensiero del legislatore A. Musio, Unioni civili e questioni di sesso tra orgoglio e pregiudizio, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 738. V. l’art. 559 c.p. e l’abr. art. 151, secondo comma, c.c.; pure questa seconda disposizione fu peraltro dichiarata illegittima dalla Consulta
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del resto, era sottoposta alla potestà maritale, in base all’abr. art. 144 c.c. –; sicché, pur figurante tra i doveri reciproci dei coniugi, di fatto la fedeltà manifestava «il cardine di un sistema inteso a garantire al marito una discendenza certa»9, nel quale ancora si indulgeva a quel dibattito, un po’ surreale nella prospettiva civilistica, circa la natura del preteso (ed oltretutto asimmetrico) ius in corpus di un coniuge sull’altro10. Già all’epoca, tuttavia, un illustre Autore non aveva mancato di segnalare l’inadeguatezza della diffusa tendenza a ridurre la fedeltà al solo orizzonte della fedeltà sessuale, mettendo invece in risalto il «senso più elevato» della stessa, che consiste «nel riservare al coniuge quel posto che si suole chiamare di “compagno di vita”»: pertanto, una violazione dell’obbligo in parola si sarebbe potuta avere anche con l’instaurazione di una relazione solo platonica, ma che avesse il «contenuto morale» e le «apparenze esteriori» di una relazione coniugale11. In seguito, con la cancellazione delle norme penali sull’adulterio e il concubinato, per mano della Corte costituzionale12, e, poi, con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che porta con sé l’affermazione dell’eguaglianza dei coniugi e l’abbandono della separazione per colpa13, sostituita dal meccanismo dell’addebito, l’obbligo in questione viene infine sottratto alla dimensione pubblica, e comincia ad essere con lungimiranza declinato come «un impegno squisitamente privato ed esclusivamente familiare», posto a presidio non del decoro dei coniugi o della loro considerazione presso i terzi, bensì della loro armonia interna e della stabilità dell’unione, anche nell’interesse dei figli14.
3. Una nuova idea di fedeltà. L’ineluttabile abbandono dello strumento penalistico nella configurazione dell’obbligo di fedeltà, pur nello scetticismo di alcuni15, fu sospinto dalla consapevolezza sia della sua
lo stesso giorno della prima: Corte cost., 19 dicembre 1968, n. 127, in Foro it., 1969, I, 4. Tali norme esprimevano, chiaramente, un riflesso della rigida organizzazione gerarchica della famiglia nel diritto anteriforma; S. Rodotà, Diritto d’amore, Roma-Bari, 2015, 41 ss., 69 s.; S. Caprioli, La riva destra dell’Adda (invito al Vassalli faceto), in Riv. dir. civ., 1981, II, 406. 9 G. Ferrando, op. ult. loc. cit. 10 Si accenna qui alla tesi di F. Carnelutti, Accertamento del matrimonio, in Foro it., 1942, IV, 41 s.; Id., Replica intorno al matrimonio, in Foro it., 1943, IV, 5 s., secondo cui tale ius sarebbe stato da collocare tra i diritti reali piuttosto che tra i diritti di credito, sicché l’un coniuge, rispetto all’altro, avrebbe dovuto essere considerato oggetto del diritto piuttosto che obbligato, laddove la prospettiva del diritto di credito era invece sostenuta da P. Fedele, Postilla a una nota di F. Carnelutti, in Arch. dir. eccl., 1943, 67. La singolare disputa fu archiviata dal dottissimo scritto di F. Vassalli, Del Ius in corpus del debitum coniugale e della servitù d’amore ovverosia la dogmatica ludicra, Roma, 1944, passim. Simili costruzioni, peraltro, pur destinate ad essere relegate nel «folclore giuridico», avevano rivestito, in passato, una tale forza persuasiva, anche grazie ad una distorta concezione sociale dei rapporti coniugali, da assegnare addirittura efficacia scriminante alla violenza sessuale di un coniuge nei confronti dell’altro; E. Roppo, Il giudice nel conflitto coniugale. La famiglia tra autonomia e interventi pubblici, Bologna, 1981, 322. 11 A.C. Jemolo, Il matrimonio, III ed., in Tratt. Vassalli, Torino, 1957, 418 s. 12 Corte cost., 19 dicembre 1968, n. 126, in Foro it., 1969, I, 4; Corte cost., 3 dicembre 1969, n. 147, in Foro it., 1970, I, 17. 13 U. Breccia, Separazione personale dei coniugi, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVIII, Torino, 1998, 354. 14 F.D. Busnelli, Significato attuale del dovere di fedeltà coniugale, in Eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, Napoli, 1975, 279. 15 Pareva questo l’atteggiamento di A. Trabucchi, Il governo della famiglia, in La riforma del diritto di famiglia. Atti del II Convegno di Venezia svolto presso la Fondazione Cini nei giorni 11-12 marzo 1972, Padova, 1972, 45, nell’osservare come la violazione
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scarsa efficacia16, sia del rischio che esso potesse portare ad esiti radicalmente opposti a quelli a cui pure sarebbe stato preposto17, nonché, più in generale, dal maturato convincimento circa la strutturale inidoneità dei rapporti tra coniugi ad inquadrarsi in schemi legislativi predefiniti18, a causa dell’unicità che caratterizza l’esperienza di ogni coppia alla luce del suo vissuto e delle basi sulle quali si è formata19. Da queste considerazioni si dipana così una linea di pensiero che individua nella spontanea osservanza, da parte dei protagonisti della vicenda matrimoniale, dei doveri e delle responsabilità che essa comporta, il miglior presidio alla funzionalità del vincolo20, mentre il rifiuto di una politica familiare connotata da precetti e sanzioni approda ad una visione che attribuisce agli obblighi fondamentali del rapporto di coniugio il ruolo di essenziali parametri normativi che debbono, per un verso, orientare i coniugi nell’esercizio della loro eguale libertà, e, per altro verso, offrire al giudice il criterio di valutazione allorquando si trovi a dover misurare il concreto impegno degli stessi verso l’unità della famiglia21. In tali passaggi evolve anche il contenuto del voto di fedeltà, non più inteso solo in senso negativo, quale dovere di astenersi da rapporti sessuali con persone diverse dal coniuge, ma anche (e soprattutto) in senso positivo, quale fulcro di quella dedizione unica e reciproca, spirituale e “fisica” che costituisce il presupposto necessario al mantenimento della comunione di vita intrapresa con il matrimonio22. In quest’ottica, il concetto di fedeltà è stato icasticamente descritto ricorrendo a quello, più sfaccettato, di lealtà, che ben raccoglie il senso complessivo di tutti i doveri coniugali di natura personale, richiedendo ai coniugi di rinunciare a quelle scelte individuali ed egoistiche che siano incompatibili con tali doveri e con la «fedeltà alla scelta familiare»23 – quantomeno nella misura in cui un’incompatibilità sia ravvisabile in ordine alle concrete modalità con cui i coniugi hanno tra loro concordato
dell’impegno principale dei coniugi apparisse ormai senza conseguenze, posto che separazione e divorzio avrebbero semmai aggravato la situazione patologica, «disconoscendo cioè obbligo e diritto». 16 P. Schlesinger, L’unità della famiglia, in Studi in onore di Francesco Santoro-Passarelli, IV, Napoli, 1972, 445 s. 17 G.D. Pisapia, L’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi di fronte alla legge penale, in Studi in onore di Francesco Antolisei, III, Milano, 1965, 146. 18 F.D. Busnelli, Libertà e responsabilità dei coniugi nella vita familiare, in Riv. dir. civ., 1973, I, 142 s., ora in Persona e famiglia. Scritti di Francesco D. Busnelli, Pisa, 2017, 317. Al contrario, A. Trabucchi, op. loc. cit., notava invece come l’impegno delle parti non fosse determinato specificamente dalla loro volontà, avendo la loro dichiarazione di volontà carattere piuttosto formale anziché contenutistico. 19 A.C. Jemolo, op. cit., 417. 20 E. Roppo, Coniugi. I) Rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, in Enc. giur. Treccani, VIII, Ist. Enc. it., 3. 21 F.D. Busnelli, op. ult. loc. cit. 22 G. Ferrando, op. ult. cit., 899; F. Ruscello, op. cit., 1028 ss. 23 M. Paradiso, op. cit., 62; P. Zatti, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Tratt. Rescigno, 3, Persone e famiglia, II, Torino, 1982 (rist. 1984), 36. In tal senso, v. anche Cass., 11 giugno 2008, n. 15557, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 1286, con nota di U. Roma, Fedeltà coniugale: nova et vetera nella giurisprudenza della Cassazione, ove si legge che l’obbligo della fedeltà, strettamente connesso a quello della convivenza, è «da intendere non soltanto come astensione da relazioni sessuali extraconiugali, ma quale impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca, ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi, che dura quanto dura il matrimonio». Sulle influenze di vario tipo che hanno sospinto il mutamento del concetto tradizionale di fedeltà, v. E. Falletti, Le radici del dovere di fedeltà alla luce delle recenti evoluzioni del diritto di famiglia, in Questione giustizia, 2017, num. 2, 134 ss.
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di interpretare e dar corpo alla “scelta familiare”, nel rispetto del nucleo positivo essenziale della medesima24. E in questa accentuazione del «carattere eminentemente relativo»25, e, in definitiva, malleabile26, che gli obblighi personali dei coniugi presentano, e spiccatamente quello di fedeltà, per sua natura e per la sua stretta attinenza al costume e all’ambiente sociale, si rinviene, in fin dei conti, anche un riflesso di quel processo contemporaneo che non è sfuggito ad attenta dottrina, la quale, muovendo dagli studi sulle dinamiche liquide di Bauman, aveva tempestivamente preso atto se non del superamento, almeno dell’ampliamento della tradizionale funzione protettiva della famiglia (dalla fragilità, dall’inesperienza, dalla solitudine…) verso una nuova funzione invece di tipo partecipativo, in virtù della quale la famiglia odierna si caratterizza preminentemente per la scelta dei suoi componenti, coniugi o partner che siano, di formarla e di mantenerla in vita nella misura in cui, attraverso questa esperienza, essi si realizzano appieno nella realtà sociale, relazionale e professionale27. Orbene, alla luce di questi rilievi, la portata dell’omessa previsione dell’obbligo di fedeltà nel contesto delle unioni civili sembra allora «drasticamente erosa, se non privata senz’altro di qualsiasi significato concreto», là dove si ritenga nondimeno sussistente in via ermeneutica un dovere di fedeltà, o, meglio, di lealtà tra le parti, delineato secondo i termini testé richiamati, ed enucleabile da quelle previsioni che attestano sia l’esclusività del vincolo che sorge dall’unione civile, sia lo spirito tenacemente solidaristico e di intima affettività che ne è alla base, e che ne conferma l’assonanza con il vincolo invece nascente dall’unione matrimoniale28: ci si riferisce, soprattutto, alle indicazioni desumibili dall’art.
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L’elemento dell’intesa, su cui torneremo anche nell’ultimo paragrafo, è ricordato da P. Zatti, Introduzione, cit., 1664, il quale, muovendo dall’idea che la fedeltà non sia da ricondurre ad una sacrale esclusività del vincolo, bensì al rispetto della dignità e dei sentimenti dell’altra parte, e dunque alla «lealtà nella relazione», ipotizza tuttavia che i coniugi possano finanche tra loro maturare e concordare sentimenti di «serena indifferenza» verso la reciproca fedeltà. In tal senso, con riferimento alla fedeltà in chiave sessuale, v. anche R. Tommasini, Art. 143, in Commentario del codice civile diretto da E. Gabrielli, Della famiglia, artt. 74-176, Torino, 2010, 427. E ancora, a proposito della mancanza, nelle unioni civili, di una previsione dedicata a questo profilo, scrive G. Ferrando, op. ult. loc. cit., che può discutersi se ciò si tratti di una discriminazione in peius rispetto al matrimonio o se non sia piuttosto da attribuire ad una diversa considerazione dei rapporti tra famiglia e diritto, nella quale «il diritto fa un passo indietro, si arresta, per così dire, alla soglia della camera da letto, riconosce che c’è un limite oltre il quale i comportamenti non sono giudicati dal diritto e dalle sue regole ma, se mai, da quelle del costume, della morale, della religione». 25 A.C. Jemolo, op. ult. loc. cit. 26 Già A.C. Jemolo, op. ult. loc. cit., pur escludendo che i diritti nascenti dal matrimonio fossero rinunciabili, riconosceva tuttavia come lo Stato «non impone il loro esercizio, così come impone quello delle funzioni di diritto pubblico» (il discorso si stagliava appunto sulla questione del preteso carattere pubblicistico del matrimonio, negato dall’Autore). 27 D. Messinetti, Diritti della famiglia e identità della persona, in Riv. dir. civ., 2005, I, 137 ss., 153 s. Sono così da ritenersi del tutto superate quelle costruzioni istituzionali della famiglia (legittima) nelle quali la «garanzia di sicurezza in una visione di avvenire ed esclusività» del nucleo avrebbe dovuto prevalere sui sentimenti e il volere dei coniugi (A. Trabucchi, op. loc. cit.); anzi, proprio le ultime riforme in tema di separazione e divorzio (v. il d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. con mod. l. 10 novembre 2014, n. 162, ma anche la l. 6 maggio 2015, n. 55, che ha sensibilmente ridotto i tempi della separazione in vista del divorzio), esprimendo un chiaro favore verso soluzioni consensuali nel governo della crisi della famiglia coniugale, confermano come quest’ultima sia sempre meno un’istituzione protetta in vista di interessi superiori e sempre più, invece, «una formazione sociale al servizio dei diritti delle persone»; G. Ferrando, op. ult. cit., 892. 28 E. Quadri, op. cit., 1695 s.; R. Campione, L’unione civile tra disciplina dell’atto e regolamentazione dei rapporti di carattere personale, in M. Blasi et al., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze. Legge 20 maggio 2016, n. 76, Torino, 2016, 15 s.; T. Auletta, Art. 1, comma 11, in Le unioni civili e le convivenze. Commento alla legge n. 76/2016 e ai d.lgs. n. 5/2017; d.lgs. n. 6/2017; d.lgs. n. 7/2017, a cura di C.M. Bianca, Torino, 2017, 140 ss.
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1, quarto comma, lett. a), e undicesimo e dodicesimo comma, l. 76/2016, che attengono, rispettivamente, alla libertà di stato necessaria per concludere l’unione civile, all’obbligo di assistenza (morale e materiale) e di contribuzione ai bisogni comuni, secondo le proprie sostanze e la propria capacità di lavoro professionale e casalingo, e al principio di impostare l’indirizzo della vita familiare sui binari del comune accordo. Inoltre, anche per quanto concerne la più classica dimensione della fedeltà sessuale, se per un verso la sua mancata evocazione si spiega con la circostanza che nel matrimonio essa rileva – peraltro solo a date condizioni – essenzialmente ai fini dell’addebito29, ossia di un congegno che non è invece contemplato nella disciplina della crisi dell’unione civile, per altro verso pure tale profilo può essere del pari rievocato nel nostro discorso. Infatti, tra le norme sul divorzio a cui la l. 76/2016 rinvia, all’art. 1, venticinquesimo comma, vi è anche l’art. 5, sesto comma, l. 1° dicembre 1970, n. 898, in virtù del quale il giudice, con la sentenza che pronuncia lo scioglimento dell’unione civile, può stabilire la corresponsione di un assegno di divorzio, in favore del partner privo di mezzi adeguati o che non sia in grado di procurarseli per ragioni oggettive30, la cui quantificazione è rimessa a determinati criteri legali, tra i quali compare altresì quello connesso alle «ragioni della decisione»: sicché è ipotizzabile che il magistrato, in tale frangente, possa attribuire importanza, allo scopo indicato dalla disposizione31, pure a quelle specifiche dinamiche comportamentali e relazionali che hanno in concreto provocato il naufragio del rapporto32. Del resto, è stato ben ricordato come, malgrado sia menzionato solo all’art. 143 c.c., il tema della fedeltà si
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Peraltro, il rapporto tra la condotta adultera e l’addebito della separazione al coniuge infedele non è ineluttabile. La Suprema Corte ha infatti chiarito che, se da un lato l’inosservanza dell’obbligo di fedeltà rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, costituisce, di solito, circostanza sufficiente a giustificare l’addebito della separazione al coniuge responsabile, da un altro lato, però, una tale conseguenza potrebbe tuttavia non verificarsi allorquando, a seguito di un accertamento rigoroso e di una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, si riscontrasse la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, essendo già in atto, al tempo della violazione dell’obbligo di fedeltà, una irrimediabile crisi tra i coniugi, ormai tenuti insieme soltanto da una convivenza meramente formale; da ultimo, v. Cass., 17 gennaio 2017, n. 977, in DeJure. 30 È opportuno accennare che tale previsione della legge sul divorzio è appena stata oggetto di un importante revirement della Suprema Corte, che, se si consoliderà, potrebbe quindi dispiegare i suoi effetti anche nell’ipotesi di scioglimento dell’unione civile. È stata infatti abbandonata la tradizionale impostazione che rinveniva nel tenore di vita goduto in costanza di matrimonio il criterio di riferimento sul quale misurare l’adeguatezza o l’inadeguatezza dei mezzi della parte richiedente l’assegno, e dunque la fondatezza o meno del diritto a percepirlo; a tale parametro, la Corte sostituisce adesso quello del raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente, sicché, ove si accerti che questi sia economicamente indipendente, o sia effettivamente in grado di esserlo, l’assegno non dovrà allora essere accordato, in virtù del principio di autoresponsabilità economica degli ex-coniugi dopo la pronuncia di divorzio e del rilievo per cui il criterio del tenore di vita, se impiegato ai fini della decisione sull’an debeatur, «collide radicalmente con la natura stessa dell’istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici», dando luogo ad una sorta di ultrattività del vincolo matrimoniale; Cass., 10 maggio 2017, n. 11504, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1010, con nota di U. Roma, Assegno di divorzio: dal tenore di vita all’indipendenza economica. 31 La norma ora ricordata non può comunque comportare l’incremento della somma dovuta allorquando la responsabilità per la rottura del matrimonio (o dell’unione civile) sia della parte obbligata all’assegno: in tal modo, infatti, l’assegno finirebbe col presentare una funzione punitiva che non gli è invece propria. Piuttosto, segnala C. Favilli, La responsabilità adeguata alla famiglia, Torino, 2015, 146 s., l’impegno di solidarietà post-coniugale può semmai essere moderato, fino all’eventuale azzeramento, allorquando risulti dovuto verso la parte che sia venuta meno alla solidarietà nei confronti dell’altra, contribuendo così variamente, con la propria condotta, a determinare le condizioni per il fallimento del matrimonio. 32 L. Olivero, Unioni civili e presunta licenza di infedeltà, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, 219 ss.
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irrori tuttavia anche in altre previsioni dedicate all’atto e al rapporto matrimoniale, e che pure sono state estese alle unioni civili. Si pensi, in particolare, alle norme sul regime delle impugnazioni, soprattutto per quanto riguarda quelle che si oppongono all’azione qualora vi sia stata coabitazione per un anno tra i coniugi (artt. 119, secondo comma, 120, secondo comma, 122, quarto comma, c.c.; art. 1, quinto e settimo comma, l. 76/2016) o, in caso di simulazione, quando i contraenti abbiano convissuto come coniugi successivamente alla celebrazione (art. 123 c.c.; art. 1, quinto comma, l. 76/2016), le quali si basano proprio sulla spontanea adesione delle parti al classico paradigma normativo della deontologia matrimoniale; o, ancora, si considerino infine le disposizioni relative alle c.d. cause penali di divorzio (art. 3, n. 1, l. 898/1970; art. 1, ventitreesimo comma, l. 76/2016), e specialmente quelle inerenti alle condanne per i delitti di induzione, costrizione, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione, nelle quali viene invece del tutto stravolta l’etica sessuale della coppia, rispetto alla quale la fedeltà è appunto consustanziale33.
4. La fedeltà nel diritto matrimoniale germanico. A differenza del diritto italiano, il diritto tedesco del matrimonio non prevede espressamente l’obbligo di fedeltà, né altri obblighi personali dei coniugi, lasciando invece che questi siano desunti dal § 1353 BGB, il quale vincola i coniugi alla «ehelichen Lebensgemeinschaft»34. La presenza di siffatta clausola generale ha consentito all’interprete di concretizzare con una certa varietà e precisione i diversi impegni coniugali di natura personale, il che, pur conducendo ad esiti in definitiva non troppo dissimili da quelli riscontrabili da una ricostruzione non meramente testuale dell’art. 143 c.c.35, ha indotto ad identificare la fedeltà essenzialmente con la fedeltà sessuale, confluendo quegli ulteriori valori che nel nostro sistema sono stati sulla stessa innestati in via ermeneutica, ampliandone l’ambito di riferimento, in specifiche ipotesi di Ehepflichten. Così, assieme alla eheliche Treue, dalla previsione codicistica è stato tratto il dovere di attenzione, assistenza, cura ed aiuto reciproco; il dovere di ricercare l’accordo per ogni questione posta dalla vita
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Così L. Olivero, op. loc. cit. A. Roth, § 1353, in Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, 8, Familienrecht I, 7. Aufl., München, 2017, 231, che ricorda peraltro come i coniugi siano anche liberi di scegliere, di comune accordo, di condurre «eine “liberale” Ehe»; R. Voppel, § 1353, in J. von Staudingers Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch mit Einführungsgesetz und Nebengesetzen, Buch 4, Familienrecht, §§ 1353-1362, Berlin, 2012, 19 s.; W. Schlüter, BGB – Familienrecht, 14 Aufl., Heidelberg, 2012, 35. Invero, dalla formula della eheliche Lebensgemeinschaft sono enucleati anche diritti ed obblighi di rilievo più specificamente patrimoniale; ad esempio, dall’obbligo generale di assistenza reciproca è tratto anche quello di impegnarsi affinché siano ridotte al minimo le perdite finanziarie dell’altro coniuge quando ciò non comporti una lesione apprezzabile dei propri interessi, il che si riscontra soprattutto in materia tributaria, a proposito del dovere di entrambi i coniugi di acconsentire alla tassazione congiunta (Zusammenveranlagung) in ordine alle imposte sul reddito; A. Roth, op. cit., 230. 35 Segnala al riguardo R. Tommasini, op. cit., 429 s., la necessità di leggere i doveri tipici sanciti dalla previsione codicistica “aggiornandoli” all’esigenza di proteggere, anche nella famiglia, i «nuovi diritti della persona» riconducibili all’art. 2 Cost., ad esempio con riferimento alla tutela della riservatezza, da intendersi sia come interesse del nucleo in quanto tale sia come interesse dei singoli componenti. 34
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matrimoniale, sia per quelle più significative sia per quelle della quotidianità (gestione della casa, cura dei figli, organizzazione del tempo libero…); il dovere di considerazione e rispetto della sfera privata ed intima dell’altro coniuge (e, in generale, di tutto ciò che attiene alla individuale Persönlichkeitsgestaltung), nonché di tolleranza nei confronti delle sue convinzioni religiose e ideali; il dovere di coabitazione, quando non vi si frappongano esigenze professionali o d’altro genere, e quello di consentire l’uso comune dell’abitazione e degli oggetti domestici36. Ormai superata, invece, come si dirà anche più avanti, appare la configurabilità di “doveri” strettamente connessi alla sfera intima, quale quello alla “Geschlechtsgemeinschaft”, ancorché calato nell’individualità del singolo rapporto, ossia adattato alle condizioni di salute e all’età del coniuge. Se dunque il dovere di fedeltà coniugale è un’acquisizione pacifica nella letteratura, più dibattuto, invece, è il tema delle implicazioni giuridiche di un comportamento contrario a tale impegno37. Anzitutto, la prevalente dottrina esclude che dalla violazione del dovere di fedeltà, nonché dei doveri personali in genere, discenda una qualche conseguenza risarcitoria, giacché si ritiene che il rispetto di tali obblighi possa essere garantito solo dalla tenuta di quei sentimenti che fondano il matrimonio e che spontaneamente inducono i coniugi ad assumere decisioni e comportamenti ad essi corrispondenti, mentre sarebbe fuori luogo prospettare un intervento dell’ordinamento attraverso lo Schadensersatz, il quale rappresenterebbe infatti pur sempre una forma di coercizione indiretta della libertà personale. Né, per la stessa ragione, sarebbe giustificato il ricorso a ipotetiche misure giudiziarie volte ad ordinare la cessazione dell’infedeltà, tanto più che queste non solo non potrebbero essere oggetto di esecuzione forzata, ai sensi del § 120 III FamFG, ma se anche per assurdo fossero munite di Vollstreckbarkeit, la loro attivazione, verosimilmente, comprometterebbe a tal punto il rapporto di coppia che il matrimonio piomberebbe all’istante (ammesso che già non vi fosse) in quello stato di “disfacimento” che costituisce il presupposto necessario e sufficiente per accedere al divorzio. Infine, l’impiego delle norme sulla responsabilità civile per la violazione del dovere di fedeltà viene altresì contestato, in questa linea di pensiero, anche perché reputato contraddittorio con lo spirito dell’attuale disciplina del divorzio, la quale, a seguito della riforma del 1976, ha del tutto abbandonato la prospettiva dello Schuldprinzip per basarsi unicamente sullo Zerrüttungsprinzip38. Questa impostazione – coerente con la giurisprudenza del Bundesgerichtshof – non nega, peraltro, che talora una condotta contraria ai doveri matrimoniali, per le modalità
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N. Dethloff, Familienrecht. Ein Studienbuch, 30. Aufl., München, 2012, 57; G. Brudermüller, § 1353, in Palandt. Bürgerliches Gesetzbuch, 76 Aufl., München, 2017, 1782 s. 37 I dibattuti termini del rapporto tra Ehestörungen e risarcimento erano stati già messi a fuoco, nella letteratura italiana, da S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984, 88 ss. 38 G. Brudermüller, op. cit., 1782, 1785; M. Wellenhofer, § 1353, in D. Kaiser-K. Schnitzler-P. Friederici-R. Schilling (Hrsg.), BGB. Familienrecht, 4, 3. Aufl., Baden-Baden, 2014, 92 s.; N. Dethloff, op. cit., 58; W. Schlüter, op. cit., 39 s.; W. Burandt, § 1353, in R. Hoppenz (Hrsg.), Familiensachen, 9. Aufl., Heidelberg, 2009, 39.
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attraverso cui si realizza, sia nondimeno capace di suscitare la reazione dell’ordinamento. Ciò accade, in particolare, qualora il comportamento di un coniuge abbia provocato un pregiudizio alla salute dell’altro (tipico è il caso del contagio con una malattia sessualmente trasmissibile), sicché la pretesa risarcitoria potrà allora essere fondata sul § 823 I BGB39, oppure quando il comportamento in questione rientri nella fattispecie del § 823 II BGB (violazione di uno Schutzgesetz) o del § 826 BGB sul “danno doloso contrario al buon costume”, il che avviene ad esempio nell’ipotesi in cui la moglie abbia intenzionalmente ingannato il marito sulla reale paternità del figlio, inducendolo a farsi carico dell’obbligo di mantenimento del minore senza che egli vi fosse invero tenuto (non sarebbe, invece, all’uopo sufficiente il fatto che la moglie si sia semplicemente limitata a celare al marito l’adulterio; è piuttosto richiesta l’ostinata negazione del medesimo a fronte dei dubbi palesati dal coniuge, o la circostanza che essa abbia altrimenti ingannato il consorte onde distoglierlo dall’esperire l’azione di disconoscimento di paternità)40. Come si vede, però, in queste peculiari situazioni il bene giuridico tutelato non è la fedeltà, la quale, infatti, non rileva mai autonomamente, bensì assume rilevanza o perché la sua violazione ha costituito l’occasione per la lesione di un (altro) interesse giuridico, che, viceversa, sarebbe stato in ogni caso protetto dal sistema, oppure perché a giustificare il risarcimento sono in realtà le modalità spiccatamente riprovevoli della condotta tenuta, comprensiva anche della infedeltà ma non riducibile solo a questa. Quanto appena detto vale anche con riferimento ad un’altra ipotesi in cui l’immunità di comportamenti coniugali che pure integrano una Ehestörung viene meno, e cioè quella in cui detti comportamenti siano stati consumati nel “räumlich-gegenständliche Bereich der Ehe”, ossia nella sfera ambientale di elezione della comunione di vita dei coniugi, in cui rientra anzitutto la casa familiare41 – emblematico è il caso del coniuge che accolga il proprio o la propria amante nel luogo dove abita con l’altro: qui, dottrina e giurisprudenza riconoscono al coniuge tradito un’azione, dotata di esecutività, nei confronti dell’altro coniuge e del terzo, volta ad ottenere la cessazione della situazione lesiva e (auspicabilmente) ad inibirne in futuro la reiterazione. Siffatta azione è stata tecnicamente ricostruita, per quanto riguarda i terzi, mercé la combinazione del § 1004 con il § 823 I BGB, mentre, per quanto riguarda i coniugi, si è invece richiamato il § 823 I BGB oppure il collegamento dell’art. 6 I GG e dell’art. 1 III GG con il secondo comma del § 823 BGB. Innanzi a quest’ultima alternativa, è parsa peraltro preferibile la prima ricostruzione, in quanto la norma costituzionale sul matrimonio non varrebbe come Schutzgesetz, ossia come “legge che mira alla tutela di un altro”, come invece richiederebbe il § 823 II BGB, mentre il rispetto della “dimensione spaziale ed oggettiva” della vita matrimoniale, pur non emergendo come contenuto di un diritto a se stante, manifesta nondimeno una emanazione del diritto
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N. Dethloff, op. cit., 60. M. Wellenhofer, op. cit., 92; W. Schlüter, op. cit., 43 s.; BGH, 19 dicembre 1989, in NJW, 1990, 706. 41 Ma la nozione si estende anche all’azienda o ai locali in cui si svolge l’attività lavorativa; v. S. Patti, op. cit., 162. 40
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generale della personalità, che integra quindi il «sonstiges Recht» richiesto dal § 823 I BGB; sicché, in definitiva, sono dunque l’allgemeines Persönlichkeitsrecht del coniuge e la sua dignità ad essere tutelati, più che una pretesa alla eheliche Treue in quanto tale, e, rispetto a questi beni giuridici, la violazione del dovere di fedeltà rappresenta allora, di nuovo, semplicemente il mezzo attraverso il quale si è verificata la loro lesione42. Similmente, peraltro, anche nel diritto italiano la responsabilità civile non reagisce automaticamente alla violazione dei doveri familiari, i quali sono infatti già presidiati dagli strumenti interni al diritto di famiglia, come, ad esempio, la sospensione dell’obbligo di assistenza morale e materiale di cui all’art. 146 c.c., il meccanismo dell’addebito o il ricordato criterio delle ragioni della decisione previsto, ai fini della quantificazione dell’assegno di divorzio, dall’art. 5, sesto comma, l. 898/1970. Il rimedio risarcitorio, comprensivo anche del danno non patrimoniale, piuttosto, si attiverà allora innanzi alla lesione di quegli interessi che, pur colpiti in occasione della violazione del dovere di fedeltà, sono tuttavia estranei alla fedeltà, ed anzi si pongono su un piano più alto, giacché, coinvolgendo la salute, l’onore, la reputazione e, in definitiva, la dignità stessa del coniuge, appartengono al novero dei diritti inviolabili, e sono dunque in sé e per sé tutelabili secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c.43. Tornando, invece, alla semplice violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale, vi sono comunque Autori inclini ad ammettere, verso il coniuge adultero e verso i terzi, sia l’azione per la cessazione del comportamento contrario ai doveri matrimoniali (stavolta però sfornita di Vollstreckbarkeit, in virtù del § 120 III FamFG), sia l’azione risarcitoria – per il solo danno patrimoniale –, argomentandole, per quanto riguarda il coniuge, sulla base della violazione dell’obbligo sorto dal § 1353 BGB alla eheliche Lebensgemeinschaft, e,
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W. Schlüter, op. cit., 40; A. Roth, op. cit., 235; N. Dethloff, op. ult. loc. cit.; K. Schellhammer, Familienrecht nach Anspruchsgrundlagen, 4. Aufl., Heidelberg, 2006, 28. 43 C. Favilli, op. cit., 454 s. In tal senso, v. pure Cass., 15 settembre 2011, n. 18853, in Foro it., 2012, I, 2038, e, in tema, v. anche le considerazioni di L. Lenti, Responsabilità civile e convivenza libera, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 999 ss., e T. Auletta, Diritto di famiglia, III ed., Torino, 2016, 71 ss. Deve peraltro essere vagliata con grande cautela l’ipotesi che da una mera violazione di un dovere personale, e in particolare dell’obbligo di fedeltà, possa derivare all’altro coniuge un danno risarcibile alla salute psichica, come nel classico caso in cui l’adulterio e la fine del rapporto ingenerino nel coniuge tradito uno stato depressivo. Se, infatti, sul piano teorico, può immaginarsi che, in situazioni estreme, la condotta di un coniuge possa assumere connotati ingiuriosi e a tal punto irriguardosi verso l’altro da consentire di riconnettervi il pregiudizio biologico che ne sia derivato, sul piano concreto, però, una simile valutazione è suscettibile di rivelarsi piuttosto complessa, soprattutto sotto al profilo del nesso di causalità. All’uopo, occorre infatti tener conto, per un verso, che l’allontanamento dal vincolo coniugale è pur sempre espressione del diritto all’autodeterminazione del coniuge, integrando una sua scelta libera e non coartabile, e, per altro verso, che le modalità attraverso le quali tale scelta si realizza, e che verrebbero ad essere “sindacate” con il risarcimento, dovranno dunque risultare particolarmente offensive, mirate ed “evitabili” – caratteri tuttavia di non sempre facile disamina nell’ottica dei rapporti sociali –, in quanto la risarcibilità del pregiudizio esige che questo sia ascrivibile in modo specifico al comportamento dell’altro coniuge, e non alla crisi di coppia in quanto tale, posto che la degenerazione del rapporto è, di per sé, normalmente produttiva di una condizione di sofferenza per le parti, o almeno per una di esse. Sul punto, v. C. Favilli, Il danno non patrimoniale nell’illecito tra familiari, in Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, a cura di E. Navarretta, Milano, 2010, 476, e G. Facci, Il danno aquiliano da adulterio, in Resp. civ., 2004, 60. Quanto, poi, all’esclusione di profili di responsabilità in capo al terzo con cui l’adulterio sia stato consumato, v. L. Bozzi, Scene dopo un matrimonio: violazione dell’obbligo di fedeltà e pretese risarcitorie, in Danno e resp., 2003, 1135 ss.
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per quanto riguarda il terzo Ehebruchspartner, facendo invece appello alla lesione del diritto alla Ungestörtheit der geschlechtlichen Beziehungen, il quale sarebbe un «sonstiges Recht» tutelabile ai sensi del § 823 I BGB44. E tuttavia, anche da questa diversa prospettiva, si finisce poi per osservare come la reale efficacia di tali misure sia, in concreto, assai più circoscritta di quanto possa a prima vista apparire. In particolare, infatti, si concorda che il rimedio risarcitorio non possa comunque valere ad appagare il Bestandsinteresse del coniuge tradito, ossia l’interesse alla prosecuzione del rapporto coniugale e delle prerogative che ne discendono, poiché siffatto interesse non risulta protetto dalla legge, tant’è che la disciplina del divorzio poggia, come ricordato, unicamente sullo Zerrüttungsprinzip. Ciò significa che le conseguenze economiche derivanti dallo scioglimento del matrimonio, come il mantenimento, il conguaglio dell’incremento patrimoniale (Zugewinnausgleich), la sorte della casa familiare e degli Haushaltsgegenstände, sono di esclusivo appannaggio delle regole del diritto di famiglia, i cui esiti non sono pertanto suscettibili di essere messi in discussione mediante l’esperimento di azioni risarcitorie, alle quali, semmai, si potrebbe ricorrere solo per i c.d. Abwicklungskosten. Senonché, anche rispetto a questi ultimi, il risarcimento incontra dei limiti: ad esempio, per ciò che concerne le spese processuali legate al procedimento di divorzio, il § 150 FamFG esclude che, ai fini della loro ripartizione, abbia un qualche ruolo l’eventuale “colpa” di uno dei coniugi, per cui difficilmente tale principio potrebbe essere sovvertito condannando al risarcimento il coniuge adultero – a tacer del fatto, poi, che talora potrebbe essere problematico accertare il nesso di causalità di un simile pregiudizio, dovendosi in effetti chiedere (come nel diritto italiano a proposito dell’addebitabilità della separazione) se sia stato l’adulterio ad aver provocato il disfacimento del matrimonio, oppure se non fosse piuttosto il matrimonio ad essere già in precedenza «gescheitert»45. Tra le voci risarcibili in quest’ottica, invece, rientrerebbero quelle relative ai costi sostenuti in occasione della nascita e per il mantenimento del figlio adulterino, nonché per la successiva azione di contestazione della paternità; a ben vedere, però, il § 1607 III BGB già consente allo Scheinvater di esigere dal padre biologico il pagamento di quanto versato a titolo di mantenimento, sicché l’azione risarcitoria, ai sensi del § 826 BGB, verso la madre che lo abbia indotto a tralasciare la Vaterschaftsanfechtung, si giustificherebbe essenzialmente per quei pregiudizi economici che non sono ricompresi nell’Unterhaltsschaden46.
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A. Roth, op. cit., 233 s.; R. Voppel, op. cit., 64, 66, e 64 s., 67; E. Jayme, Die Familie im Recht der unerlaubten Handlungen, Frankfurt am Main-Berlin, 1971, 254 ss. 45 A. Roth, op. cit., 234; per la diversa interpretazione, v. invece R. Voppel, op. cit., 65. 46 A. Roth, op. loc. cit.; sul punto, si noti però come, secondo l’interpretazione corrente, la Forderungsübergang di cui al § 1607 III BGB sia contenutisticamente circoscritta alla misura del mantenimento che sarebbe stato in concreto esigibile dal padre biologico, anche alla luce della sua capacità di prestazione (§ 1603 BGB), sicché essa potrebbe risultare inferiore a quanto lo Scheinvater abbia effettivamente versato: v. I. Saathoff-D. Reuter, § 1607, in D. Kaiser-K. Schnitzler-P. Friederici-R. Schilling (Hrsg.), BGB. Familienrecht, cit., 1570; E. Hammermann, § 1607, in H.P. Westermann-B. Grunewald-G. Maier-Reimer (Hrsg.), Erman. Bürgerliches Gesetzbuch, II, 14. Aufl., Köln, 2014, 5046; D. Hahn, § 1353, in H.G. Bamberger-H. Roth (Hrsg.), Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, 3, 3. Aufl., München, 2012, 67.
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Peraltro, la dottrina scettica sulla teorizzazione di un “diritto alla tranquillità delle relazioni matrimoniali” quale situazione giuridica protetta dal primo comma del § 823 BGB, oltre a restringere ancor di più il raggio di intervento del risarcimento, confinandolo alla lesione di uno dei diritti espressamente menzionati dall’anzidetta disposizione o al riscontro di una situazione riconducibile al § 826 BGB, osserva poi, in linea con la giurisprudenza, come gli ulteriori Abwicklungskosten di cui si discorre possano invero essere già riconosciuti in altro modo al coniuge. In particolare, le spese processuali per l’azione di contestazione della paternità, sostenute sia in proprio sia per conto del minore in occasione del procedimento, potrebbero essere ugualmente richieste al padre biologico attraverso l’interpretazione analogica, nel primo caso, del § 1607 III BGB, in combinato disposto con il § 1610 II BGB, e, nel secondo caso, del § 1607 III BGB, in combinato disposto con il § 1360a IV BGB; infine, per quanto riguarda i costi affrontati per la nascita del minore, si prospetta il ricorso all’azione di arricchimento senza causa di cui al § 812 BGB, avendo lo Scheinvater, in luogo del genitore effettivo, atteso ai doveri previsti dal § 1615l BGB47.
5. Violazione dell’obbligo di fedeltà e ripercussioni patrimoniali: a proposito dei §§ 1381 e 1579 BGB.
Al netto di quanto fin qui osservato, nelle pieghe del diritto tedesco del divorzio si discute poi sulla possibilità – in particolari situazioni – di riconnettere alla violazione di un dovere personale dei coniugi determinate ricadute sugli esiti patrimoniali della fine del matrimonio. Vengono in considerazione, all’uopo, soprattutto due norme: il § 1381 BGB, sul rifiuto, per grave iniquità, dell’adempimento, da parte di un coniuge, del conguaglio degli incrementi patrimoniali, nell’ambito della disciplina della Zugewinngemeinschaft48, e il § 1579 BGB, sulla riduzione o cessazione della pretesa al mantenimento del coniuge divorziato.
47 48
W. Schlüter, op. cit., 45 s.; K. Muscheler, Familienrecht, 2. Aufl., München, 2012, 159. Il regime patrimoniale della Zugewinngemeinschaft (comunione degli incrementi patrimoniali) è quello che vige tra i coniugi in assenza di loro diversa disposizione mediante contratto matrimoniale (§ 1363 I BGB), sicché, di base, nel diritto tedesco il patrimonio dei coniugi non diviene un patrimonio comune nemmeno per ciò che riguarda gli acquisti successivi al matrimonio (§ 1363 II BGB): ciascun coniuge continua invece ad amministrare autonomamente il proprio patrimonio (1364 BGB), salvo l’intervento di taluni limiti, quali l’impossibilità di obbligarsi a disporre del medesimo per l’intero in mancanza del consenso preventivo dell’altro coniuge (§ 1365 I BGB) e l’impossibilità di disporre o obbligarsi a disporre dei beni dell’attività domestica coniugale appartenenti ad un coniuge senza che vi sia stato del pari il consenso preventivo dell’altro (§ 1369 I BGB). Quando tale regime cessa per cause diverse dalla morte, come in caso di divorzio, il conguaglio degli incrementi patrimoniali – ossia, dell’importo per il quale l’incremento patrimoniale di un coniuge supera il patrimonio iniziale (§ 1373 BGB) – avviene poi secondo le regole previste ai §§ 1373 ss. BGB; in particolare, se l’incremento patrimoniale di uno dei coniugi supera l’incremento patrimoniale dell’altro, all’altro coniuge spetta la metà dell’eccedenza quale credito di conguaglio (§ 1378 I BGB). Per alcuni cenni al riguardo, v. M. Stürner, Il regime patrimoniale convenzionale franco-tedesco come modello per l’armonizzazione del diritto europeo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 893 s.
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Il § 1381 BGB prevede, in primo luogo, che il debitore possa rifiutare l’adempimento del credito di conguaglio degli incrementi patrimoniali là dove tale conguaglio risulti gravemente iniquo («grob unbillig») secondo le circostanze del caso («nach der Umständen des Falles»); il secondo comma della previsione, poi, precisa che la grave iniquità può sussistere quando il coniuge che ha ottenuto i minori incrementi patrimoniali abbia colposamente non adempiuto per lungo tempo le obbligazioni di natura patrimoniale derivanti dal rapporto coniugale. Stante questa esplicita limitazione, si è allora posto il problema se, ed eventualmente in che modo, nell’ambito della norma generale di cui al primo comma potesse rientrare anche l’inadempimento di doveri di natura personale. Una parte della dottrina lo ha escluso, poiché così facendo si assegnerebbe alla regola di cui si discorre una valenza sanzionatoria49, laddove il suo intento è invece quello di introdurre un correttivo che consenta di evitare che la schematica applicazione dei §§ 1373 ss. BGB approdi a risultati percepibili come ingiusti; come quando, ad esempio, chi avanza la pretesa al conguaglio sia il solo responsabile della mancanza o della scarsità degli incrementi del proprio patrimonio, a causa di una gestione dissennata del medesimo50. L’opinione maggioritaria, però, pur convenendo in linea di principio sull’irrilevanza della mera violazione di un dovere personale, ritiene tuttavia che il rifiuto della prestazione da parte dell’obbligato (suscettibile anche di tradursi in una semplice riduzione di quanto dovuto) possa essere giustificato qualora la condotta del coniuge che sia venuto meno ad un obbligo di natura non patrimoniale sia stata connotata da una certa gravità, il che si verificherebbe, in particolare, quando detta condotta si sia protratta per un periodo di tempo significativamente lungo rispetto a quello della durata del matrimonio e del regime patrimoniale di Zugewinngemeinschaft51, oppure anche quando si riscontri un evento di minor durata o addirittura episodico, purché caratterizzato da un disvalore della condotta ancora più intenso52. Taluni, tuttavia, osservano come la tesi prevalente non sia appieno persuasiva. Sebbene, infatti, in “Extremfällen” possa finanche riconoscersi in un singolo evento l’espressione di una tale Unbilligkeit da giustificare l’eccezione di cui al § 1381 BGB (si pensi all’uccisione o alla tentata uccisione del coniuge, o all’aver taciuto la reale paternità di un figlio), in generale, però, in assenza di espresse previsioni legali che la autorizzino, si ritiene che la valutazione della gravità del comportamento del coniuge nella violazione di obblighi personali rischi alla fine di poggiare esclusivamente sulle convinzioni morali del giudice, e di condurre perciò a risultati applicativi contrastanti, oltre a determinare di nuovo un risultato contraddittorio con lo Zerrüttungsprinzip che ispira la disciplina del
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E. Koch, § 1381, in Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, cit., 572. B. Thiele, § 1381, in B. Thiele-E. Rehme, J. von Staudingers Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch mit Einführungsgesetz und Nebengesetzen, Buch 4, Familienrecht, §§ 1363-1563, Berlin, 2007, 296 s. 51 B. Thiele, op. cit., 299. 52 G. Brudermüller, § 1381, in Palandt, cit., 1850; C. Budzikiewicz, § 1381, in H.P. Westermann-B. Grunewald-G. Maier-Reimer (Hrsg.), Erman. Bürgerliches Gesetzbuch, cit., 4532. 50
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divorzio, introducendo di fatto una Scheidungsstrafe e spingendo al contempo i coniugi a “lavare i panni sporchi” in tribunale53. Per quanto concerne, invece, l’altra norma a cui ci si è richiamati, il § 1579 Nr. 7 BGB, parrebbe, in effetti, che per suo tramite sia stato fatto rientrare dalla “porta di servizio” del diritto al mantenimento quel Verschuldensprinzip invece a suo tempo accantonato dalla riforma del divorzio54, giacché la disposizione prevede che la pretesa al mantenimento possa essere respinta, ridotta o limitata temporalmente quando la richiesta nei confronti dell’obbligato sia gravemente iniqua («grob unbillig»), risultando univocamente riconducibile all’avente diritto un comportamento lesivo evidentemente grave nei riguardi del primo. Invero, però, la lettura corrente della previsione tende ad escludere che a tal fine sia sufficiente il mero adulterio, richiedendo, piuttosto, una condotta idonea a compromettere del tutto quel principio di solidarietà coniugale alla base del matrimonio che prende corpo, in primis, attraverso i reciproci doveri di Hilfe e Fürsorge. Sembra quindi, ancora una volta, che, nella prospettiva della regola in parola, la violazione dell’obbligo di fedeltà acquisti rilevanza non in quanto tale, bensì come sfondo di una vicenda in cui l’avente diritto al mantenimento si sia del tutto allontanato dal vincolo, al punto di dar vita, con un nuovo o una nuova partner (indipendentemente dall’orientamento sessuale55), ad una relazione, connotata da stretta intimità e da presupposti di durevolezza, in conseguenza della quale abbia poi cessato di prestare al coniuge abbandonato la cura e l’assistenza dovute: solo una radicale rottura della Gegenseitigkeit che costituisce il fulcro del matrimonio farebbe dunque apparire marcatamente inique le pretese di mantenimento che il coniuge infedele dovesse poi avanzare contro l’altro56. Sotto questo aspetto, quindi, la eheliche Treue viene adesso in considerazione non solo, come di consueto, con riferimento alla sfera sessuale, ma, come nel diritto italiano, quale impegno globale, che racchiude pure ulteriori obblighi di natura personale; obblighi che, sebbene normalmente declinati in via autonoma, sono ora ricondotti ad una visione unitaria in virtù della unitarietà della violazione, in quanto l’adulterio prolungato rappresenta qui la situazione in cui si protrae l’infrazione dei fondamentali doveri propri della
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Così Ph. S. Fischinger, § 1381, in D. Kaiser-K. Schnitzler-P. Friederici-R. Schilling (Hrsg.), BGB. Familienrecht, cit., 316. Così K. Muscheler, op. cit., 252. 55 BGH 16 aprile 2008, in NJW, 2008, 2779. 56 G. Brudermüller, § 1579, in Palandt, cit., 1955; H.-U. Maurer, § 1579, in Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, cit., 1403 s., che osserva come non sia necessario che la relazione adultera, pur persistente nel tempo, si traduca anche in una nichteheliche Lebensgemeinschaft, o che venga del tutto meno la eheliche Lebensgemeinschaft col coniuge, poiché non può comunque invocare la solidarietà coniugale «wer sie selbst dem Verpflichteten nicht zuteilwerden lässt» (è comunque escluso che sia sufficiente un breve ed isolato adulterio); B. Verschraegen, § 1579, in B. Verschraegen-W. Baumann, J. von Staudingers Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch mit Einführungsgesetz und Nebengesetzen, Buch 4, Familienrecht, §§ 1569-1586b, Berlin, 2014, 515, che ricorda infine come, in concreto, nel soppesare la gravità degli avvenimenti, debba altresì tenersi conto dell’eventualità che i coniugi abbiano di comune intesa scelto di seguire un certo standard di condotta diverso da quello ordinario improntato alla fedeltà (v. anche la nota seguente, a proposito delle circostanze che possono escludere la rilevanza della condotta infedele). BGH 15 febbraio 2012, in NJW, 2012, 1443, applica la disposizione anche al caso della moglie che taccia al marito la reale paternità del figlio avuto durante il matrimonio. 54
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solidarietà coniugale, impedendo così al coniuge infedele di appellarsi a sua volta a tale solidarietà in occasione della fine del matrimonio. L’esegesi del § 1579 Nr. 7 BGB, infine, tiene poi conto anche del tempo nel quale la violazione dell’obbligo di fedeltà si compie, poiché esso, al pari degli altri obblighi discendenti dalla eheliche Solidarität, si scioglierebbe formalmente solo col divorzio: e tuttavia, poiché, fermo restando il persistente dovere di rispetto verso il coniuge, gli obblighi di natura personale si delimitano sensibilmente, in virtù della loro indole, già prima dello scioglimento del matrimonio, ossia quand’esso sia in via di “disfacimento” (secondo il principio di cui al § 1565 BGB), sembra allora che l’avvio di una nuova relazione stabile durante il periodo in cui i coniugi vivono separati non possa integrare uno «schweres einseitiges Fehlverhalten» rilevante ai fini della misura in esame57.
6. Fedeltà e Eingetragene Lebenspartnerschaft prima della legge sulla Ehe für alle; una chiosa sul § 1353 BGB.
Il giorno venerdì 30 giugno 2017 il Bundestag ha approvato a larga maggioranza la legge per l’apertura del matrimonio alle coppie omosessuali58. L’intervento legislativo ha rappresentato lo sbocco naturale di un consolidato percorso, inaugurato dal Gesetz zur Überarbeitung des Lebenspartnerschaftsrechts del 2004 e proseguito dalla giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht, lungo il quale sono state via via rimosse (quasi interamente) le differenze che ancora permanevano tra il matrimonio e l’unione civile. Siffatto processo di allineamento è stato reso possibile grazie ad un’importante decisione della Corte costituzionale tedesca, la quale, quando fu chiamata a pronunciarsi sulla legittimità
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M. Wellenhofer-Klein, Unterhaltsrechtliche Risiken in der Lebensgestaltung bei Trennung/Scheidung für den Unterhaltsbedürftigen, in FPR, 2003, 165; nel senso di ritenere più grave l’adulterio precedente alla separazione di quello successivo, v. anche G. Hohloch, § 1579, in D. Kaiser-K. Schnitzler-P. Friederici-R. Schilling (Hrsg.), BGB. Familienrecht, cit., 1014, il quale, pur immaginando che tale seconda ipotesi possa rifluire nel Nr. 8 del § 1579 BGB («ein anderer Grund vorliegt, der ebenso schwer wiegt wie die in den Nummern 1 bis 7 aufgeführten Gründe»), ricorda tuttavia come, in ogni caso, il comportamento “colpevole” del coniuge sia destinato a perdere rilevanza quando l’altro coniuge si fosse già precedentemente allontanato dal vincolo coniugale o avesse indotto l’altro ad allontanarvisi, oppure quando già in precedenza il matrimonio fosse da reputare in disfacimento. 58 Il provvedimento, passato con 393 voti contro 226, è stato sostenuto dalla SPD, dai Verdi e dalla Linke, ma anche da numerosi parlamentari della CDU/CSU. Dal punto di vista tecnico, la legge contempla, essenzialmente: una modifica del primo periodo del primo comma del § 1353 BGB – che recita adesso: «il matrimonio è concluso da due persone di sesso diverso o uguale per la durata della vita»; la possibilità per i Lebenspartner di convertire in matrimoni le unioni civili attualmente in essere, mediante dichiarazione di volersi sposare per la durata della vita, da rendere personalmente e contestualmente innanzi all’ufficiale di stato civile (dichiarazione a cui non possono essere apposti termini o condizioni); infine, la legge prevede che, dal momento della sua entrata in vigore, non possano più essere costituite unioni civili. È poi da notare che la riforma comporta altresì una rilevante novità sul piano delle adozioni: fino ad oggi, infatti, ai Lebenspartner era preclusa l’adozione congiunta diretta di un minore, giacché il § 1741 BGB, al secondo comma, stabilisce che chi non è coniugato può adottare solo quale singolo. Cade così quella che era stata l’ultima più significativa differenza tra la condizione giuridica della coppia eterosessuale e quella della coppia omosessuale: differenza che, comunque, era già stata ridimensionata, dapprima dal § 9 LPartG (come riformulato nel 2004), che aveva riconosciuto al Lebenspartner la facoltà di adottare il figlio naturale dell’altro; e, in seguito, da un’importante decisione della Corte costituzionale del 2013, la quale aveva stabilito che un’analoga facoltà dovesse essere ammessa anche là dove il minore fosse stato un figlio adottivo (BVerfG, 19 febbraio 2013, in JZ, 2013, 460, con nota di Ph. Reimer e M. Jestaedt).
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della legge istitutiva delle unioni civili (sospettata di aver impresso alla Eingetragene Lebenspartnerschaft un regime troppo simile a quello della Ehe), respinse nettamente la tesi, alla base dell’impugnazione, secondo cui la garanzia del matrimonio sancita dal Grundgesetz avrebbe precluso ogni significativa equiparazione tra i due istituti ad opera della legislazione ordinaria59. La storica riforma oggi portata a compimento riflette dunque l’acquisita consapevolezza degli effetti inclusivi che il principio di eguaglianza dispiega sulla declinazione civilistica del matrimonio, inteso come Beistands- und Verantwortungsgemeinschaft60, e sulla garanzia costituzionale dello stesso: garanzia che, una volta fondata sulla natura di Solidargemeinschaft della Ehe, non può allora che estendersi a tutti i cittadini, a prescindere dal loro orientamento sessuale e da quelle letture “originaliste” dell’art. 6 I GG che, se per un verso erano già state efficacemente confutate in dottrina61, per altro verso risultavano ormai espressione di uno sforzo ricostruttivo di tipo formalistico, estraneo alla tela intessuta dalla giurisprudenza costituzionale, nella quale andava invece nitidamente emergendo non solo che tra i due modelli giuridici non vigeva alcun Abstandsgebot, ma che, anzi, doveva piuttosto valere un vero e proprio Abstandsverbot62. Ciò detto, proprio in virtù del parallelismo tra matrimonio e unione civile da tempo affermatosi in Germania, quanto fin qui osservato a proposito dell’obbligo di fedeltà nel matrimonio veniva in dottrina riferito, mutatis mutandis, anche alle unioni civili. In particolare, nella Eingetragene Lebenspartnerschaft l’obbligo di fedeltà era stato ricavato in via ermeneutica dal § 2 LPartG, il quale richiede(va) ai partner di prestarsi cura e sostegno reciproci e di impegnarsi nella «gemeinsamen Lebensgestaltung»: la fisionomia dell’istituto, nel suo complesso, consentiva dunque di accedere ad una ricostruzione del rapporto in termini di exklusive Zweierbeziehung estesa anche alla sfera sessuale63. Sicché, ad esempio, un partner avrebbe potuto agire a difesa del räumlich-gegenständliche Bereich der Lebenspartnerschaft64, e al rapporto discendente dall’unione civile sarebbero stati altresì applicabili anche i §§ 1381 e 1579 Nr. 7 BGB, grazie al richiamo a tali disposizioni contenuto ai §§ 6 e 16 LPartG. Con riferimento al § 1579 Nr. 7 BGB, vi era peraltro chi osservava come sarebbe invero
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BVerfG, 17 luglio 2002, in NJW, 2002, 2543, con nota di G. Roellecke, Kommen Kinder aus der Klinik? F. Brosius-Gersdorf, Art. 6, in H. Dreier (Hrsg.), Grundgesetz. Kommentar, 3. Aufl., Tübingen, 2013, 859. 61 F. Brosius-Gersdorf, Die Ehe für alle durch Änderung des BGB. Zur Verfassungsmäßigkeit der Ehe für gleichgeschlechtliche Paare, in NJW, 2015, 3559 ss. 62 N. Dethloff, Ehe für alle, in FamRZ, 2016, 354. In tema, sia consentito il rinvio al nostro Le unioni civili nel diritto tedesco: quadro normativo e prospettive sistematiche, in Nuove leggi civ. comm., 2016, 1128 ss. 63 A. Wacke, § 2 LPartG, in Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, cit., 2141 (il quale escludeva che le parti potessero derogare all’impegno di fedeltà, benché, invero, in coerenza a quanto si ammette per i coniugi, avrebbero dovuto anch’esse godere della facoltà di optare per un’unione “liberale”); R. Voppel, LPartG – Lebenspartneschaftsgesetz, in J. von Staudingers Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch mit Einführungsgesetz und Nebengesetzen, Berlin, 2010, 72, 88 s. 64 Non sembravano sul punto irresistibili le obiezioni di G. Ring-L. Olsen Ring, LPartG, in D. Kaiser-K. Schnitzler-P. Friederici-R. Schilling (Hrsg.), BGB. Familienrecht, cit., 2679. 60
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potuta venire in considerazione un’asserita minor forza dei legami stretti dall’unione civile, alla luce della diversa formula adoperata dal § 2 LPartG – «gemeinsamen Lebensgestaltung» – rispetto a quella invece impiegata dal § 1353 I BGB – «ehelichen Lebensgemeinschaft». Tale notazione, però, non avrebbe dovuto indurre a credere più tollerabili le violazioni degli obblighi personali derivanti dall’unione civile rispetto alle violazioni dei corrispondenti obblighi derivanti dal matrimonio; piuttosto, il raffronto delle due formule avrebbe dovuto incoraggiare l’interprete nel compiere un “aggiornamento” dell’immagine della Lebensgemeinschaft tramandata dal § 1353 I BGB, valorizzando cioè il riconoscimento del ruolo primario che il § 2 LPartG assegna(va) alla volontà dei partner nell’organizzazione degli assetti della loro vita in comune, sì da evitare il rischio che, come in passato per il matrimonio, si favorisse l’enucleazione di doveri “istituzionali”, quali quelli alla “Geschletchts- oder Hausgemeinschaft”, di valore ormai pressoché esclusivamente simbolico, essendo infatti sforniti di una effettiva cogenza (finanche sociale) in virtù del loro carattere strettamente ed intimamente personale65. Peraltro, è l’impianto del § 1353 BGB che sembra oggi aver in parte smarrito il senso originario, a seguito delle diverse modifiche della normativa sul divorzio che si sono succedute nel tempo. In effetti, al netto dell’innovazione apportata al primo periodo del primo comma dalla legge sulla Ehe für alle, la norma proclama ancora, al secondo periodo del primo comma, l’obbligo dei coniugi alla comunione di vita coniugale, e, al secondo comma, l’obbligo del coniuge di dar seguito alla richiesta dell’altro (il c.d. “Herstellungsantrag”) di (ri)costituire l’anzidetta comunione, salvo che la richiesta non rappresenti un abuso del suo diritto o che il matrimonio non sia in disfacimento; tale base normativa deve però tener conto anche della previsione di cui al § 120 III FamFG, secondo cui l’obbligo di concludere un matrimonio e quello di costituire la vita coniugale non sono suscettibili di esecuzione forzata (“nicht vollstreckbar”), la quale è pertanto limitata ai soli obblighi aventi contenuto patrimoniale. Orbene, se in un passato non recente l’Herstellungsantrag avanzato in giudizio si rivelava tuttavia utile anche innanzi a pretese sfornite di Vollstreckbarkeit, poiché fino al 1938 il mancato adempimento per un anno di un Herstellungsurteil integrava uno dei presupposti del divorzio (§ 1567 Nr. 1 a. F. BGB), mentre fino al 1977 una simile circostanza poteva nondimeno rivestire importanza essendo il divorzio fondato sul riscontro di una schuldhafte Eheverfehlung (§ 43 EheG), attualmente tali passaggi non rappresentano più
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N. Dethloff, Familienrecht, cit., 244 s.; Ead., Die Eingetragene Lebenspartnerschaft – Ein neues familienrechtliches Institut, in NJW, 2001, 2600 (in effetti, la dottrina più recente nega che possa delinearsi tra i coniugi un reciproco obbligo ad intrattenere rapporti sessuali, ancorché circoscritto in ragione dell’età, dello stato di salute e di disposizione psichica dell’altro coniuge: M. Wellenhofer, op. cit., 84 s.; A. Roth, op. cit., 231; altri, invece, più legati all’impostazione tradizionale, ritengono che la Geschlechtsgemeinschaft appartenga agli essentialia della Ehegemeinschaft, sicché il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un coniuge di avere rapporti sessuali con l’altro potrebbe venire in considerazione almeno nell’ambito del § 1579 Nr. 7 o 8 BGB; R. Voppel, § 1353, cit., 22; D. Hahn, op. cit., 57; quanto, poi, all’ipotesi di abbandono della convivenza nella stessa casa, si osserva che solo un allontanamento sfornito di effettive ragioni potrebbe avere ripercussioni giuridiche, e, in particolare, di nuovo ai fini del § 1579 Nr. 8 BGB; G. Brudermüller, § 1353, cit., 1782; R. Voppel, op. ult. cit., 36.
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un preludio necessario alla Scheidung, la quale esige esclusivamente la semplice constatazione dello Scheitern der Ehe (§ 1565 BGB) da riscontrarsi secondo le presunzioni di cui al § 1566 BGB. D’altro canto, la natura non coercibile degli obblighi coniugali di tipo personale induce ad escludere che, per la loro semplice violazione, possano essere prospettate sanzioni ulteriori rispetto a quelle conseguenze giusfamiliari che talora la legge già consente di riconnettervi, in quanto anche il solo risarcimento del danno finirebbe per rappresentare un meccanismo indiretto di coercizione contrario al principio espresso dal § 120 III FamFG66. Sicché, al di là di quelle situazioni in cui una eheliche Pflichtverletzung si riverbera pregiudizievolmente su un interesse tutelato già di per sé dal sistema attraverso il rimedio risarcitorio, normalmente un simile comportamento potrà assumere rilevanza, ove connotato da una certa gravità, nel contesto dei §§ 1381 e 1579 Nr. 267, 6-8 BGB68, a cui si è già sopra accennato, o ai fini del § 1565 II BGB, in base al quale se i coniugi non vivono già da un anno separati, il matrimonio può essere sciolto per divorzio solamente là dove la sua continuazione costituisca, per colui che propone la domanda, un pregiudizio impretendibile per cause riconducibili all’altro coniuge69.
7. Superare la fedeltà? Volendo trarre le fila del discorso fin qui svolto, può intanto riepilogarsi come, sia nel diritto italiano sia nel diritto tedesco, la semplice violazione dell’obbligo di fedeltà non risulti di per sé idonea ad attivare una pretesa risarcitoria, stante l’indole strettamente personale di tale obbligo e la rilevanza limitata alla sola considerazione serbatagli dagli
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K. Muscheler, op. cit., 141. Il Nr. 2 del § 1579 BGB, introdotto con il Gesetz zur Änderung des Unterhaltsrechts (UÄndG) del 2007 recependo un orientamento giurisprudenziale consolidato, consente la riduzione o la cessazione della pretesa al mantenimento anche quando il titolare abbia dato vita ad una stabile Lebensgemeinschaft nella quale sia riscontrabile una “ehegleichen ökonomischen Solidarität”, in cui, cioè, la parte a cui spetta la conduzione dell’attività domestica venga per ciò mantenuta dall’altra, o in cui i partner condividano la conduzione dell’attività domestica e le spese necessarie, eventualmente in modo corrispondente ai rispettivi redditi; H.-U. Maurer, op. cit., 1389. L’ipotesi in esame si differenzia da quella della relazione adultera contraria alla Gegenseitigkeit matrimoniale, tradizionalmente ascritta tra le ipotesi rientranti nel Nr. 7 del § 1579 BGB, in quanto al Nr. 2 viene in rilievo essenzialmente la posizione del coniuge già divorziato che, intraprendendo una nuova convivenza, si trova in seguito a non aver più bisogno della solidarietà (post)coniugale, mentre la prima fattispecie nasce invece da una rottura che si consuma durante il matrimonio, e le ripercussioni economiche verso il coniuge che si sia allontanato dal vincolo sono fondate anzitutto sulla grave violazione degli obblighi personali imposti dalla solidarietà coniugale. 68 In tema, N. Dethloff, Familienrecht, cit., 58, ricorda anche il § 27 VersAusglG in connessione col § 1587 BGB. 69 A. Roth, op. cit., 223; N. Dethloff, op. ult. cit., 59, secondo cui, per questi motivi, l’Herstellungsantrag, in realtà, da decenni non esisterebbe praticamente più. Il § 1565 II BGB viene tuttavia in gioco solamente in circostanze eccezionali, che oltrepassano le ordinarie difficoltà e discordie che normalmente conducono al disfacimento del matrimonio; si pensi, ad esempio, al caso dei maltrattamenti in famiglia verso l’altro coniuge e gli altri componenti del nucleo. Al contempo, poi, la norma esclude che il divorzio “anticipato” possa essere chiesto dal coniuge che col proprio comportamento abbia intenzionalmente provocato il naufragio del matrimonio, poiché essa richiede che le cause che rendono impretendibile la continuazione del matrimonio siano riferibili al coniuge diverso da quello richiedente, il che contribuisce ad evitare domande di divorzio avventate o avanzate con leggerezza; G. Brudermüller, § 1565, in Palandt, cit., 1900. 67
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strumenti interni del diritto di famiglia; tant’è che, in entrambi i sistemi, un diritto al risarcimento del danno può semmai configurarsi, come puntualizza anche la Suprema Corte, solo là dove il comportamento infedele abbia altresì cagionato la lesione di interessi che sarebbero tuttavia già autonomamente protetti dall’ordinamento, e, segnatamente, di quelli ascrivibili al rango dei diritti inviolabili. D’altro canto, la previsione, nel nostro sistema, del meccanismo dell’addebito fa sì che una violazione dell’obbligo in parola possa consentire di ricondurre giuridicamente a carico di uno dei coniugi la causa dell’intollerabilità della convivenza, sì da addossargli quelle conseguenze sfavorevoli, di tipo patrimoniale, che dall’addebito discendono. Senonché, sempre la giurisprudenza di legittimità nega opportunamente che tra l’adulterio e la pronuncia di addebito vi sia un nesso ineludibile, dovendo il giudice, al contrario, verificare che sia stata proprio la violazione dell’obbligo di fedeltà a rendere intollerabile il protrarsi del rapporto di coppia, posto che non sarebbe invece ammissibile l’addebito della separazione allorquando, al tempo dell’adulterio, il vincolo coniugale avesse già perso ogni consistenza affettiva per le parti, ormai legate solo da una convivenza di tipo formale; e di siffatta valutazione dovrà, in linea di massima, tenersi conto anche in ordine all’apprezzamento di quelle «ragioni della decisione» che, ex art. 5, sesto comma, l. 898/1970, concorrono a definire, nei limiti ricordati, l’ammontare dell’assegno di divorzio, là dove tale misura risulti dovuta in ragione della mancanza per l’ex-coniuge di mezzi adeguati al proprio sostentamento e dell’impossibilità oggettiva di procurarseli altrimenti70. Orbene, in considerazione della difficoltà che simili giudizi possono suscitare, un recente disegno di legge presentato al Senato (il n. 2253 del 24 febbraio 2016) si propone di cancellare la fedeltà dal secondo comma dell’art. 143 c.c., precisando altresì che pure qualora si intenda quest’ultima non nella sua dimensione strettamente sessuale, «ma anche e soprattutto come fiducia e rispetto dell’altro, [si tratterebbe comunque] di un valore importante, ma non ascrivibile certamente tra i doveri da imporre con legge dello Stato». Il movente di fondo di questa proposta è comprensibile, enfatizzando condivisibili istanze di «privatizzazione del matrimonio»71 già penetrate nel sistema, soprattutto con riferimento ai procedimenti introdotti dalla l. 162/2014 per arrivarne allo scioglimento; inoltre, il disegno di legge ricorda pure come alla radice dell’obbligo di fedeltà vi fosse una precisa connessione col tema della filiazione legittima che, però, è stata superata dal venir meno della distinzione tra figli legittimi e naturali, nonché, più in generale, una visione istituzionale della famiglia, sovraordinata rispetto alle prospettive dei coniugi, anch’essa non più in linea con il costume e con una ricostruzione degli istituti giuridici ispirata al principio personalista.
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Sul rapporto tra l’addebito e il criterio delle ragioni della decisione, v. comunque C. Rimini, Il nuovo divorzio, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2015, 134 ss. 71 E. Al Mureden, La separazione personale dei coniugi, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2015, 28.
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Senonché, se per un verso è fin troppo banale la constatazione per cui i sentimenti e gli impegni di natura personale non possono essere autoritativamente affermati per legge, per altro verso appare alquanto difficile scorporare dalla solidarietà coniugale che informa il matrimonio, e ne sorregge anche gli effetti patrimoniali, quel concetto ampio di fedeltà riassuntivo, nella sua definizione più attuale, del significato di tutti quei doveri personali che – comunque – permarrebbero ugualmente tra i coniugi, ferma restando, tuttavia, la libertà di questi ultimi di optare per una conduzione della vita in comune più leggera e disinvolta, rassicurante nella sua stabilità giuridica ma non improntata ad esclusività della relazione72. Sicché, se è opportuno ammettere tra i coniugi, e tra i partner dell’unione civile, la più estesa facoltà di concordare, nel modo maggiormente rispondente alle esigenze e convinzioni personali, la misura dei singoli impegni di coabitazione, collaborazione, assistenza e fedeltà che dai due modelli familiari in maniera più o meno diretta discendono, pur nel rispetto di quanto è essenziale a tali modelli secondo il nostro ordinamento73, più discutibile, e addirittura estraneo all’orizzonte teleologico della stessa struttura familiare (sia essa disegnata dalle norme sul matrimonio o da quelle sulle unioni civili), appare invece il tentativo di privare ex lege (pure) il matrimonio della fedeltà, instillandovi anzi una certa dose di “deresponsabilizzazione” magari compatibile con la sensibilità di uno soltanto dei coniugi. Se, infatti, da tempo, attenta dottrina segnala come i «materiali» utili alla determinazione del significato dei doveri nominati nel matrimonio siano da rintracciare non solo nel costume, ma, onde evitare il rischio che l’interprete orienti tale ricerca secondo i propri convincimenti e le proprie certezze, soprattutto nell’intesa tra i coniugi, in ossequio al principio per cui l’accordo è la legge fondamentale del rapporto coniugale, tale intesa non potrà, allora, che essere effettiva e realmente paritaria74. D’altro canto, all’eliminazione dell’obbligo di fedeltà non si è pervenuti nemmeno in un contesto come quello tedesco, ove detto obbligo, al pari di tutti gli altri obblighi personali, non è nemmeno testualmente previsto dalla legge, bensì ricavato dalla clausola generale della eheliche Lebensgemeinschaft, e nel quale, peraltro, manca pure un meccanismo di reazione diretta alla sua violazione quale quello rappresentato, nel nostro diritto, dall’addebito. E, a ben vedere, non per ragioni moralistiche si giustifica la permanenza dell’obbligo di fedeltà, quanto proprio per la presenza nel sistema di misure di assistenza nella fase di separazione e in quella post-coniugale che si fondano sulla solidarietà maturata tra i
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In tale prospettiva, v. anche C. Cicero, Non amor sed consensus matrimonium facit? Chiose sull’obbligo di fedeltà nei rapporti di convivenza familiare, in Dir. fam. pers., 2016, 1104 s. 73 P. Zatti, I diritti e i doveri, cit., 168. Sul punto, P. Perlingieri, Aspetti dei rapporti familiari personali e patrimoniali, in Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, II, III ed., Napoli, 2006, 966 s., rinviene nell’accordo lo «strumento attuativo del principio di eguaglianza morale e giuridica» dei coniugi, segnalando come il suo oggetto non concerna soltanto aspetti di carattere patrimoniale, ma anzi si caratterizzi prevalentemente proprio «per le scelte di vita dei singoli e del gruppo, con incidenza su questioni che attengono ai modi dell’esistenza». 74 P. Zatti, op. ult. cit., 27 ss.
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Il rilievo giuridico della fedeltà nei rapporti di famiglia
coniugi lungo il tratto di vita percorso assieme75; perciò è del tutto coerente che l’ordinamento escluda o limiti il ricorso a tali misure (si pensi al “declassamento” del diritto al mantenimento a diritto agli alimenti, o alla perdita dei diritti successori per il coniuge a cui sia addebitata la separazione) quando sia stata la parte che in astratto potrebbe invocarle ad essersi allontanata con la propria condotta dalla solidarietà coniugale e ad aver quindi posto le premesse per la fine del matrimonio. In altri termini, nel momento in cui il sistema ammette che certe condotte possano incidere sulle dinamiche patrimoniali della fine del matrimonio, inevitabilmente, in modo implicito o esplicito, finisce col delineare anche un paradigma di svolgimento di quest’ultimo che riflette la corrente fisionomia legale dell’istituto, la quale, tuttavia, non toglie che i coniugi possano, attraverso l’intesa, nondimeno modificare il modello astratto di riferimento, attraendo così nell’area del «non diritto» determinate scelte che verranno pertanto rese insuscettibili di acquisire in seguito «rilevanza esterna»76. Tale conclusione, del resto, non implica l’attribuzione di alcuna funzione sanzionatoria agli strumenti tipici dei “rimedi” previsti per la crisi coniugale: non all’addebito, nel quale prevale semmai la finalità di rendere meno pesante l’onere posto a carico del coniuge che sia “vittima” del fallimento coniugale provocato dall’altro77 (tant’è che gli effetti dell’addebito neppure si producono appieno, qualora la rottura della convivenza sia imputabile al coniuge economicamente più forte78); non all’assegno post-divorzio, giacché il criterio delle “ragioni della decisione” non dovrebbe mai suggerirne l’incremento, là dove l’obbligato sia anche responsabile della fine del matrimonio, quanto, viceversa, la diminuzione79, allorquando l’avente diritto sia venuto da parte sua meno alla solidarietà coniugale, perdendo dunque, in un certo senso, la possibilità poi di invocarla in seguito. Non è quindi in chiave sacrale, né punitiva né risarcitoria che una violazione dell’obbligo di fedeltà – tanto nella sua portata originaria ed angusta, circoscritta alla sfera sessuale, quanto in quella attuale estesa, ascrivibile a un’idea di lealtà onnicomprensiva dei valori espressi dai doveri personali dei coniugi – può venire in considerazione nel diritto, ma solamente in chiave, per così dire, equitativa, ossia al fine di contenere la gravosità di quegli strascichi economici che il naufragio di un matrimonio può lasciare, a carico di un coniuge, in ossequio a quella Gegenseitigkeit magari unilateralmente infranta dall’altro. Per ogni ulteriore recriminazione, invece, soccorre l’insegnamento di quel grande trat-
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C.M. Bianca, Art. 5, in Commentario al diritto italiano della famiglia diretto da G. Cian-G. Oppo-A. Trabucchi, VI,1, Padova, 1993, 337; M.G. Cubeddu, I contributi e gli assegni di separazione e di divorzio, in Il nuovo diritto di famiglia diretto da G. Ferrando, I, Bologna, 2007, 875 ss. 76 S. Rodotà, Diritto d’amore, cit., 138 s. 77 U. Breccia, op. cit., 421; M. Sala, L’addebito nella separazione personale dei coniugi e i suoi effetti, in Trattato di diritto di famiglia diretto da G. Bonilini, III, Utet, 2016, 2140; L. Rossi Carleo-C. Caricato, La separazione e il divorzio, in Tratt. Bessone, IV, Il diritto di famiglia, II, La crisi familiare, Torino 2013, 116 s. Sottolinea invece la funzione sanzionatoria dell’addebito F. Finocchiaro, Del matrimonio, II, Art. 84-158, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, 363. 78 C. Rimini, op. cit., 137. 79 Nei casi più gravi, rammenta C. Favilli, op. cit., 147, tale incidenza negativa può arrivare finanche all’azzeramento dell’importo.
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tato di educazione sentimentale che è il Cavaliere della rosa, quando, nel terzetto finale, la Marescialla, congedandosi dal giovane amante con lo sguardo ormai perso altrove, rammenta a sé stessa: «hab’ mir’s gelobt, ihn lieb zu haben in der richtigen Weis’, daß ich selbst sein’ Lieb’ zu einer andern noch lieb hab’! … »80.
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Der Rosenkavalier, commedia per musica in tre atti di Hugo
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Hofmannsthal con musica di Richard Strauss.
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Analisi critica dell’accordo di unione civile nel diritto cileno* Sommario: 1. Introduzione. – 2. Questioni preliminari. – 3. Nuovo statuto giuri-
dico delle relazioni di coppia. – 4. Applicazione dei nuovi principi del Diritto di Famiglia. – 5. Concetto e caratteristiche. – 6. Celebrazione dell’accordo dell’unione civile. – 7. Requisiti dell’accordo dell’unione civile. – 7.1. Requisiti di esistenza: presenza dell’ufficiale dell’Anagrafe e consenso. – 7.2. Requisiti di validità: il consenso esente da vizi e incapacità. – 8. Nullità dell’accordo di unione civile. – 9. Effetti dell’accordo di unione civile. – 10. Parentela derivata dall’unione civile. – 11. Regime patrimoniale. – 12. Beni familiari. – 13. Diritti di successione. – 14. Compensazione economica. – 15. Cause di scioglimento dell’unione civile. – 16. Tribunale competente per risolvere i conflitti. – 17. Conclusioni.
The purpose of this article is to critically analyze the contract of civil union, recently incorporated in the chilean legislation. To do so, we first consider the effect that it has had on the regulation of the couples’statutes, adding a third estate and, therefore, the scope derived in principles of Family Law. It reviews in detail the institution, its concept, characteristics, existence and validity requirements, forms and personal and patrimonial effects. It concludes that, although it is legally defined as a contract to regulate affective relationships, its scope is restricted to certain patrimonial effects similar to those existing in the marriage contract.
1. Introduzione. La Legge n. 20.8301 del 21 aprile 2015 introduce nell’ordinamento cileno l’accordo di unione civile. La legge ha come base il progetto di “Accordo di vita in comune” (Bolletino n. 7.011-07), presentato per il senatore Andrés Allamand, e il progetto di legge sull’“Accordo di vita in coppia” (Bollettino n. 7.873-07), presentato dal governo dell’ex presidente Sebastián Piñera Echeñique2.
* 1 2
Il contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. In avanti LAUC. Disponibile in: https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=1075210. Cfr. Historia della Legge Nº 20.830. Disponibile in: http://www.leychile.cl/Navegar/scripts/obtienearchivo?id=recursoslegales/10221.3/ 45283/1/HL20830.pdf.
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Entrambi i progetti si segnalavano per avere come principali fondamenti: a) la necessità di dare risposta a 2 milioni di persone che vivono senza essere unite in matrimonio e che hanno molteplici problemi del tipo personale e patrimoniale; b) la non discriminazione per sesso; e, c) il riconoscimento di diverse forme di famiglia. Così, tanto per esemplificare, si pensi ai problemi conseguenti alla morte di uno dei conviventi3, alla non discriminazione per orientamento sessuale, consentendo la convivenza di coppie di diverso o dello stesso sesso4; infine, terzo profilo, il riconoscimento di diverse forme di famiglia5. Dopo quattro anni di iter legislativo, e varie modifiche ai progetti segnalati, il Congresso Nazionale ha approvato questa legge, che è stata pubblicata nel Diario Ufficiale il 21 aprile 2015, e ha iniziato la sua vigenza il 22 ottobre dello stesso anno. Riteniamo che, nonostante si tratti di uno statuto protettore delle relazioni familiari, in speciale della coppia dello stesso genere, il testo approvato dal Congresso Nazionale, presenti una serie di deficienze tecniche importanti, alcune delle quali saranno evidenziati nell’analisi dei seguenti profili.
2. Questioni preliminari. Prima di esaminare criticamente il nuovo contratto di accordo di unione civile, analizzeremo due questioni preliminari: l’introduzione di un terzo statuto delle convivenza, ovvero, l’esistenza di matrimonio, accordo di unione civile e coppie di fatto; e, successivamente, vedremo come si concretizzano i nuovi principi del Diritto di famiglia con l’incorporazione di questo nuovo statuto giuridico.
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Si segnala che, “l’accordo di vita in comune risolve gravi problemi che colpiscono le coppie di diverso sesso che hanno convissuto durante molto tempo e che per volontà propria hanno risoluto non sposarsi. Per esempio, quando, con la morte di uno dei conviventi, gli eredi di questo, fanno valere tale condizione nel patrimonio del de cuius, sul quale il convivente non potrebbe vantare alcun diritto. Rispetto a questo, bisogna ricordare che alla successione intestata del defunto, sono chiamati, per legge, in assenza dei parenti più vicini, i parenti collaterali fino al sesto grado compreso e, in mancanza di questi, il Fisco. La mozione corregge un problema ricorrente: la convivente di anni, è letteralmente espulsa dalla casa dove condivise la sua vita con il defunto, di fronte alla comparsa immediata degli eredi i quali, molte volte, da decenni non avevano contatto di nessuna natura, con il parente defunto”, Historia della Legge N° 20.830, op. cit. p. 4. In questo senso “l’accordo di vita in comune, rispetto alle coppie di uno stesso sesso, assume una premessa fondamentale: non c’è nessuna ragione per stigmatizzare le relazioni omosessuali, liberamente permesse tra persone maggiorenni. L’ordinamento giuridico che riserva il matrimonio a persone di diverso genere, non può ignorare le coppie omossessuali e deve offrirgli riconoscimento legale”. Historia della Ley N° 20.830, op. cit. p. 4. Secondo il quale segnala: “…la famiglia si manifesta attraverso ‘diverse espressioni’. Così, la famiglia tradizionale o nucleare, che consta di madre e padre, uniti da un vincolo matrimoniale e i suoi ipotetici figli, rappresentano l’espressione più stabile, duratura e desiderata, di famiglia in Cile che il nostro governo si è impegnato ad implementare. Esistono, però, altre realtà familiari, come quelle monoparentali, le famiglie allargate, quelle formate da coppie di conviventi, e quelle formate da parenti consanguinei. Ogni realtà familiare, incluso quella che non dà o non possa dar origine alla procreazione, è degna di rispetto e considerazione da parte dello Stato, in quanto tutti, in maggiore o minor misura, significano un beneficio per la persona e la società nel suo insieme, nella misura in cui permettono di condividere amore, affetti e vivere nell’intimità, conferiscono un appoggio emozionale fondamentale per lo sviluppo della personalità e, sul piano materiale, permette di ammortizzare le oscillazioni cicliche nel reddito di ognuno dei suoi membri”, Historia della Ley N° 20.830, op. cit. p. 11.
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3. Nuovo statuto giuridico delle relazioni di coppia. La Legge n. 20.830, stabilisce un nuovo statuto delle relazioni di coppia, diverse dal matrimonio. Nonostante condivida con il matrimonio una serie di elementi6, come i requisiti di esistenza e di validità, la natura “contrattuale”, e alcuni dei suoi effetti patrimoniali, come il regime dei beni, diritto di successione, beni familiari e la compensazione economica, la disciplina dell’unione civile si distingue dallo stesso, principalmente, per permettere a persone dello stesso sesso di stipulare l’accordo, in quanto esclude alcuni effetti personali (come il dovere di fedeltà), e per la sua natura essenzialmente precaria, in quanto basta la sola volontà di uno dei conviventi civili per dissolvere l’accordo7. In questo modo, le coppie che vogliano formalizzare la loro relazione, dal punto di vista giuridico, hanno la possibilità di sancire con un contratto di matrimonio o stipulando un accordo di unione civile (le coppie dello stesso genere, possono solo celebrare quest‘ultimo). Nella forma di celebrazione, matrimonio e unione civile si assomigliano abbastanza, dato che entrambe le forme richiedono l’intervento dell’ufficiale di Stato civile8. Le differenze si materializzano principalmente negli effetti e nelle cause di dissoluzione. L’accordo di unione civile si presenta, dunque, come un’alternativa per le coppie, le quali possono così scegliere lo statuto giuridico che più risponde ai loro interessi9. È evidente che le situazioni che possono dare origine alle unioni di fatto, sono molteplici, tra queste: la volontà dei conviventi, la mancanza di alcuni dei requisiti per contrarre matrimonio, motivi economici. Questo spiega perchè, dall’entrata in vigore del LAUC, esistano tre diversi statuti a regolare la convivenza: il matrimonio, l’accordo di unione civile e le relazioni di fatto10. L’accordo di unione civile, come si diceva, genera però solamente un nuovo statuto, ma non risolve i problemi delle relazioni di fatto. Secondo l’Anagrafe, dall’entrata in vigore della LAUC, e fino al 1° febbraio 2016, sono
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Orrego Acuña, La Familia y el matrimonio, risorsa virtuale. Disponibile in: http://www.juanandresorrego.cl/apuntes/derecho-defamilia/, 167 y ss. [citato 2016-03-10]. 7 Art. 26 LAUC: L’accordo di unione civile terminerà: e) per volontà unilaterale de uno dei conviventi civili, che dovrà essere per scrittura pubblica o atto concesso davanti a ufficiale dell’Anagrafe. In ognuno di questi casi, dovrà notificarsi all’altro convivente civile, mediante ricorso volontario di fronte al tribunale con competenza in materia di famiglia, con la possibilità di comparire personalmente. La notificazione dovrà effettuarsi per mezzo dell’ufficiale giudiziario, entro i venti giorni lavorativi seguenti alla annotazione della detta scrittura o atto, al margine dell’iscrizione dell’accordo di unione civile, effettuata nel registro speciale previsto dall’articolo 6°. La mancanza di notificazione non compromette la dissoluzione dell’accordo di unione civile, però rende responsabile il contraente negligente dei pregiudizi che l’ignoranza di detto scioglimento possa causare all’altro contraente. Sarà liberato da quest’obbligo di notifica se il convivente è scomparso, o si ignori la sua dimora o non ha più contatti. In ogni caso, non potrà essere eccepita l’ignoranza della notifica, trascorsi tre mesi dalla annotazione cui fa riferimento il paragrafo precedente. 8 Si veda Regolamento della Legge N° 20.830 che crea l’Accordo di Union Civile, decreto 510, pubblicato nel Diario Ufficiale il 16 di settembre del 2015. Disponibile in: http://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=1081901. 9 In questo senso, Lepin Molina e Vargas Carrasco, Familia y constitución, in Derecho Familiar Constitucional, a cura di Pérez Gallardo, Villabella Armengol y Molina Carrillo, Puebla, 2016, 74. 10 Situazione che fu comunicata ai legislatori, secondo quanto consta nella Storia della Legge N° 20.830, si veda p. 794.
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stati celebrati 2.808 accordi di unione civile, dei quali 2.016 (72%) si riferiscono a coppie eterosessuali e 792 (28%) a coppie dello stesso sesso11. In questo modo, e considerando i due milioni di persone che (come segnalato) vivevano in una situazione di fatto, esiste un numero significativo di unioni, che non si trovano sotto la protezione di alcuno statuto giuridico12. Per queste unioni, la tutela giuridica continuerà, presumibilmente, ad essere offerta dalla giurisprudenza, specialmente, nell’aspetto patrimoniale, attraverso il ricorso agli istituti della società di fatto e del quasi-contratto13. Nel diritto comparato, le soluzioni sono diverse. Così, per esempio, in Uruguay la Legge n. 18.246 (conviventi in concubinato), stabilisce una forma di riconoscimento ex post. Nell’art. 1, si prescrive che “la costante convivenza di almeno cinque anni di unione in concubinato, genera i diritti e obblighi che si sanciscono nella suddetta legge, senza pregiudizio di applicazione delle norme relative alle unioni di fatto non regolate da questa”14. Inoltre, nel Nuovo Codice Civile e Commerciale argentino15, l’art. 509, relativo alle unioni di convivenza, stabilisce che “le disposizioni di questo Titolo si applicano all’unione basata in rapporti affettivi di indole singolare, pubblica, notoria, stabile e permanente di due persone che convivono e dividono un progetto di vita in comune, sia che siano dello stesso o di diverso genere”. Quindi, si riconoscono effetti ai rapporti di fatto, nonostante non esiste patto di convivenza. Gli effetti che nascono vanno dal contributo agli oneri della famiglia, all’alloggio familiare e alla compensazione economica16.
4. Applicazione dei nuovi principi del diritto di famiglia.
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Fonte: http://diario.latercera.com/2016/02/01/01/contenido/pais/31-208432-9-2808-parejas-han-optado-por-el-acuerdo-de-union-civil -y-otras-5347-ya-reservaron.shtml 12 In questo senso, Tapia segnala che, “in principio, è difficile regolare chi precisamente dà testimonianza di non volere nessuna regolazione. Si attribuisce a Napoleone la frase, espressa nel processo di redazione del Codice civile francese, secondo cui se i conviventi si disinteressano del diritto, il diritto deve disinteressarsi di loro. Ciò nonostante, in caso di rottura o di morte di uno dei conviventi, la pratica dimostra che, in qualsiasi istante, il compromesso patrimonialmente originato dallo scioglimento del rapporto o il convivente sopravvissuto, esigono protezione legale”, Tapia Rodríguez, Acuerdo de unión civil: Una revisión de su justificación, origen y contenido, in Estudios sobre la nueva ley de acuerdo de unión civil, a cura di Hernández Paulsen y Tapia Rodríguez, Santiago, 2016, 28. 13 Cfr. Donoso Vergara y Rioseco López, El concubinato ante la jurisprudencia chilena, Santiago, 2007; y, Barrientos Grandón, De las uniones de hecho. Legislación, doctrina y jurisprudencia, Santiago, 2008. 14 Disponibile in: http://www.parlamento.gub.uy/leyes/AccesoTextoLey.asp?Ley=18246&Anchor=. Su questa base, la convivenza si caratterizza per una situazione di fatto e per il trascorrere del tempo, come segnalano Rivero y Ramos, “a differenza del matrimonio, che è un negozio giuridico di natura familiare, che si perfeziona quando in un momento determinato l’Ufficiale dell’Anagrafe, dichiara davanti ai contraenti che hanno espresso la loro volontà, l’unione di concubinato si forma con il trascorrere del tempo. In questo modo l’autore brasiliano Malheiros ha descritto la convivenza come ‘l’usucapione del diritto di famiglia’...”, Rivero y Ramos, Unión concubinaria. Análisis de la Ley 18.246, terza edizione, Montevideo, 2008, p. 25. 15 Disponibile in: http://www.infojus.gob.ar/docs-f/codigo/Codigo_Civil_y_Comercial_de_la_Nacion.pdf. 16 Cfr. Rivera y Medina, Código Civil y Comercial de la Nación comentado, t. II, Buenos Aires, 2014.
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Questo nuovo statuto giuridico concretizza tre principi che regolano il nostro nuovo Diritto di Famiglia17, 1) protezione della famiglia; 2) uguaglianza e 3) autonomia della volontà. Non si può negare che la legge delinei uno statuto protettore dei rapporti familiari e, attribuendo una protezione di natura patrimoniale, adempia alla funzione principale del Diritto di Famiglia, cioè, quella di proteggere i più deboli nell’ambito familiare. Sebbene nella definizione del campo di applicazione l’art. 1 LAUC si riferisca agli effetti giuridici della “vita affettiva” in comune, essa, concretamente, disciplina solo gli effetti patrimoniali dell’unione, a differenza del matrimonio che, negli artt. 131 e ss. Codice Civile18, stabilisce una serie di effetti personali. Si dà attuazione, in questo modo, al principio di protezione della famiglia, riconoscendo uno statuto intermedio che protegge i rapporti di convivenza, benché, come abbiamo già segnalato, con una precaria tecnica legislativa. In secondo luogo, si applica il principio di uguaglianza, secondo il quale le discriminazioni stabilite in base al genere o alla nascita sono arbitrarie e devono essere escluse dal nostro ordinamento giuridico, inclusi i rapporti familiari19. Come abbiamo avuto opportunità di segnalare, questo principio generale è rimasto estraneo al Diritto di Famiglia, dato che il modello patriarcale di famiglia strutturato da Andrés Bello si incentrava sulla potestà del marito/padre sulla persona e beni della moglie e dei figli. Questa concezione si è mantenuta fino a qualche anno fa, allorché il principio di eguaglianza ha cominciato ad incorporarsi nei rapporti familiari. Prima attraverso la legge n. 19.335, del 23 settembre 1994, che modificò gli effetti personali del matrimonio con lo scopo di stabilire in forma ugualitaria gli obblighi e i diritti di carattere personale tra coniugi e, in seguito, con l’entrata in vigore della L. n. 19.585 del 26 ottobre 1998, che modificò il Codice civile e altri atti normativi (documenti aleatori) in materia di filiazione, sancendo la piena uguaglianza dei figli. Di recente, la L. n. 20.680 del 21 giugno 2013, lascia in una posizione di piena uguaglianza i genitori rispetto alla cura personale della prole20. Perciò, l’eguaglianza si concreta nel divieto di discriminare le coppie dello stesso genere, le quali possono concludere questo tipo di accordo. L’autonomia della volontà è un altro principio che tradizionalmente è rimasto escluso dai rapporti familiari, come osserva Ramos secondo il quale “il principio dell’autonomia della volontà – pietra angolare del diritto patrimoniale – non assume nessun ruolo nel Diritto di Famiglia”21. Questa situazione, attualmente, si ritiene sia stata superata, nel senso che il margine di libertà che oggi esiste nel diritto di famiglia, è molto più ampio di quello stabilito dal Codice di Andrés Bello. Risulta chiaro che, la libertà non è comunque totale
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Cfr. Lepin Molina, Los nuevos principios del Derecho de Familia, Revista Chilena de Derecho Privado, n. 23, 2014, 9-55. D’ora in poi C.C. Disponibile in: https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=172986. 19 Ibidem. 20 Ibidem. 21 Ramos Pazos, Derecho de familia, settima edizione, vol. I, Santiago, 2013, 16. 18
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(neppure esiste tale libertà nel diritto patrimoniale), attesa la funzione di protezione dei soggetti deboli svolta dal Diritto di Famiglia dove, per regola generale, si stabiliscono rapporti asimmetrici e prolungati nel tempo. Se, infatti, l’adempimento dei doveri familiari fosse demandato all’arbitrio delle parti, potendo queste escluderne gli effetti effetti, i soggetti più deboli resterebbero alla mercé dei più forti. Di qui il grande interesse sociale alla regolazione dei rapporti familiari. Concretamente, l’accordo di unione civile offre un’alternativa giuridica alle coppie, le quali possono scegliere non solamente se celebrare un contratto (matrimonio o AUC), ma anche di non stipulare alcun accordo (restando in una situazione o relazione di fatto). La legge, apre in sostanza all’autonomia delle parti, attribuendo loro la facoltà di regolare vari effetti della convivenza, come il potere di escludere taluni profili (come il regime patrimoniale o il risarcimento economico) o, infine, di porre fine a tutti i suoi effetti (attraverso la previsione di clausole di dissoluzione, anche in forma unilaterale e senza causa).
5. Concetto e caratteristiche. Si definisce come accordo di unione civile il “contratto concluso tra due persone che dividono una casa, con lo scopo di regolarizzare gli effetti giuridici derivati dalla vita affettiva in comune, di carattere stabile permanente”. Le principali caratteristiche sono le seguenti: a) il contratto è solenne. La solennità consiste nella celebrazione di fronte a un ufficiale di stato civile; b) si può celebrare tra due persone, di diverso o dello stesso sesso. In Perú, ad esempio, si sono riconosciute unioni di fatto parallele o simultanee con una persona di sesso opposto, anche se non presentavano l’elemento della singolarità, purché la persona avesse agito in buona fede22; c) non può essere soggetto a termine, condizione né onere; d) non si può promettere la sua celebrazione; e) crea un nuovo stato civile di “convivente civile”. Secondo Tapia, “…la dimostrazione più eloquente che la LAUC genera uno stato civile, diverso agli atri, si manifesta nell’impedimento a stipulare l’accordo a chi sia già sposato con un terzo. Così pure, e coerentemente, la legge attribuisce la registrazione di questi accordi al Registro dell’Anagrafe – quale istituzione incaricata di mantenere i certificati civili che attestano lo stato civile”23;
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Corte Superior de Justicia de Lima, Pleno Jurisdiccional Distrital de Familia, 23 agosto 2013. Disponibile in: https://www. pj.gob.pe/wps/wcm/connect/29147600423580c0b301b73a9d7cd02d/Pleno+Distrital+Familia-+Lima.PDF?MOD=AJPERES& CACHEID=29147600423580c0b301b73a9d7cd02d. 23 Tapia Rodríguez, Acuerdo de unión civil: Una revisión de su justificación, origen y contenido, op. cit., 34.
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f) la sua finalità è regolare gli effetti giuridici della vita affettiva in comune. È evidente, peraltro, che la questione sulla natura giuridica contrattuale dell’accordo finirà, analogamente a quanto accade per il matrimonio ove si discute della sua natura pubblicistica o privatistica, con l’animare il dibattito in dottrina. Il riconoscimento della natura contrattuale dell’accordo sembra presentare gli stessi inconvenienti che solleva la questione a proposito del matrimonio, in quanto si tratta di un contratto sui generis atteso che, secondo la sua definizione, ha come obiettivo: “regolare gli effetti giuridici della vita affettiva in comune”. Benché, riteniamo che obiettivo principale sia quello di regolare gli effetti patrimoniali della vita in comune. Questa serie di diritti e doveri stabiliti dal giudice, e che non dipendono dalla volontà delle parti, si può dire che formano l’Ordine Pubblico familiare. L’alternativa ”pubblicistica”, tuttavia, non appare convincente, poiché si deve ritenere che la sola partecipazione dell’ufficiale dell’Anagrafe non trasformi l’accordo di unione civile in una funzione dello Stato, in quanto la partecipazione dell’ufficiale di stato civile si limita ad un ruolo di testimone di pubblica fede di quanto avvenuto in sua presenza, che non si allontana molto da quello svolto da un notaio o da un direttore del catasto. Secondo il nostro punto di vista, si tratta di un “fatto giuridico di diritto di famiglia, dal quale deriva una serie di diritti e doveri principalmente di carattere patrimoniale e, in generale, inaccessibile per le parti”. Lo possono celebrare due persone, di diverso o dello stesso sesso, personalmente o rappresentati da un mandatario con facoltà speciali a questi fini. Il mandato deve farsi per atto pubblico, indicando i nomi e cognomi, nazionalità, professione o lavoro e indirizzo dei contraenti e del mandatario (art. 5 inc. 3º LAUC). Si tratta di un mandato speciale, solenne e definito. Nel caso che si voglia autorizzare il mandatario a pattuire la comunione di beni, deve esprimersi detta facoltà nel mandato (art. 5 inc., final LAUC).
6. Celebrazione dell’accordo di unione civile. La celebrazione può aver luogo davanti a qualsiasi ufficiale dell’Anagrafe, che darà testimonianza di tutto quello stabilito. La dichiarazione sarà poi firmata dai contraenti. Per la celebrazione dell’accordo di unione civile non c’è bisogno di testimoni (art. 5 inc. 1º LAUC y art. 6 Decreto 510)24. Secondo il regolamento, prima della celebrazione occorre: a) sollecitare un appuntamento con qualsiasi ufficiale dell’Anagrafe (art. 4 RLAUC); e b) dimostrare il possesso dei requisiti degli articoli da 124 a 127 C.C. per le persone che hanno figli con patria potestà o custodia (artt. 5 y 8 RLAUC) o, nel caso della donna, dichiarare di non essere incinta
24
D’ora in poi RAUC. Disponibile in: https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=1081901&idParte=0&idVersion=.
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(artt. 5 e 9 RLAUC). La cerimonia si può effettuare presso l’ufficio Anagrafe o nel luogo indicato dai contraenti, sempre che si trovi nel territorio di competenza del rispettivo ufficiale dell’Anagrafe. Nell’atto di celebrazione davanti all’ufficiale civile, i contraenti devono dichiarare, sotto giuramento o promessa, che non siano legati da vincolo matrimoniale non sciolto o che non abbiano un accordo di unione civile in atto. La dichiarazione si può essere fatta per scritto, oralmente o nella lingua dei segni (art. 5 inc. 2º LAUC). L’ufficiale civile deve dare lettura dell’art. 1º (definición de AUC) e 14 (deberes AUC) della LAUC. L’atto si deve inscrivere nel registro speciale degli accordi di unione civili (art. 12 y seguenti. RLAUC) dell’Ufficio di Anagrafe. L’iscrizione deve contenere il nome completo e il genere dei contraenti; la data, l’ora, il luogo e il municipio di celebrazione dell’accordo, nonchè la dichiarazione dell’ufficiale di Stato Civile relativa all’adempimento dei requisiti per la celebrazione dell’unione. Le parti, come regime patrimoniale, possono scegliere quello della comunità di beni (art. 15 LAUC).
7. Requisiti dell’accordo di unione civile. La legge si riferisce solo ai requisiti di validità del contratto di unione civile, nonostante, ci sembra che sussistano due requisiti di esistenza. 7.1. Requisiti di esistenza: presenza dell’ufficiale dell’anagrafe e consenso.
Il primo requisito è rappresentato dalla presenza dell’ufficiale di stato civile, come nel matrimonio. Si tratta di un requisito che non sarebbe soddisfatto se si celebrasse il contratto davanti a altra entità pubblica, come un’ambasciata o un consolato. Così si soddisfa questo requisito se l’ufficiale agisce fuori dalla sua giurisdizione, secondo quanto stabilito dall’articolo 5° LAUC, che autorizza la celebrazione dell’accordo di unione civile in un posto fuori del suo ufficio “…sempre che si trovi dentro del suo territorio giurisdizionale”. Una ipotesi di inesistenza dell’accordo è rappresentata dalla mancanza di consenso. Questa situazione si può avere nei casi di simulazione o di forza fisica, dove in alcun modo esiste una volontà reale. È evidente comunque che, trattandosi di un atto celebrato davanti a un ufficiale di anagrafe, sarà difficile pensare all’uso della forza fisica per ottenere il consenso. In questo caso la sanzione è l’inesistenza del contratto di accordo di unione civile, non la nullità dell’accordo, non essendovi spazio per la nullità in assenza di una espressa previsione della legge. 7.2. Requisiti di validità: il consenso esente da vizi e incapacità.
In base a quanto stabilito nell’art. 8 LAUC, sarà necessario che i contraenti abbiano consentito in modo libero e spontaneo, cioè, libero dai vizi della volontà. Nell’accordo di
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unione civile si stabilisce che il consenso è viziato quando esiste errore o violenza. L’errore vizia il consenso se ricade sull’identità della persona dell’altro contraente. Si potrebbe dare questa ipotesi nel caso delle unioni civili contratte in stato di costrizione o in caso di fratelli gemelli. Chiaramente è, difficile che ciò accada. Può viziare il consenso anche la violenza nei termini degli artt. 1456 e 1457 CC: La violenza che vizia il consenso, deve essere grave, ingiusta e determinante. È grave la violenza capace di impressionare una persona di mente sana, tenendo in considerazione la sua età, sesso e condizione (art. 1456 CC), considerandosi che ciò si verifica quando la persona ha il giusto timore di vedere esposta a un male irreparabile e grave il proprio consorte o qualcuno dei suoi ascendenti o discendenti. L’art. 1456 CC aggiunge che il timore reverenziale, cioè il solo timore di non gradire alle persone a cui si deve sottomissione e rispetto, non basta per viziare il consenso. “La forza è ingiusta quando costituisce un effetto parallelo che implica agire al margine della legge o contro la legge, in modo che l’esercizio legittimo di un diritto non può mai essere forza che vizi la volontà, anche quando indiscutibilmente significhi un effetto parallelo”25. Infine, la violenza è determinante quando si sia agito con l’obiettivo di ottenere il consenso (art. 1457 CC). Per far sì che la forza vizi il consenso e sia considerato come violenza non è necessario che sia usata dall’altro contraente, secondo l’art. 8 LAUC. Quindi, la situazione, è uguale a quella stabilita nell’art. 1547 CC. Non si applica alla “circostanza esterna”, regolata nell’art. 8, L. n. 19.94726. Rispetto alla capacità dei contraenti, questi devono essere maggiorenni e avere la libera amministrazione dei loro beni, eccetto nel caso del dissipatore dichiarato interdetto, che non può celebrare l’accordo (art. 7 LAUC). Di conseguenza, sono incapaci di stipulare un accordo di unione civile, in base alla LAUC: 1) i minori di 18 anni (art. 7 LAUC); 2) coloro che non abbiano la libera amministrazione dei propri beni. La legge si riferisce al demente dichiarato interdetto, in quanto il dissipatore è stato espressamente escluso (art. 7 LAUC); 3) coloro che siano uniti da un vincolo matrimoniale non sciolto (art. 9 LAUC); 4) coloro che abbiano un altro accordo di unione civile vigente (art. 9 LAUC); 5) gli ascendenti e i discendenti di consanguineità o affinità, i collaterali di consanguineità in secondo grado (art. 9 LAUC). Si tratta di persone totalmente incapaci di contrarre un’unione civile, tanto che la dottrina definisce “dirimenti” gli impedimenti suindicati. Nei primi quattro casi, è impedita la celebrazione dell’accordo con qualsiasi persona. Nel quinto caso, solo con alcune persone,
25 26
Velasco Letelier, De la disolución del matrimonio, Santiago, 1973, 97. In avanti NLMC. Disponibile in: https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=225128.
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“parenti” espressamente indicati, in quella che si considera una ipotesi di incapacità relativa. Nel caso esista un impedimento di questo tipo, la sanzione è la nullità dell’accordo di unione civile, che deve essere dichiarata giudizialmente. Si regolano anche una serie di divieti che non ostacolano la celebrazione dell’accordo, e per la cui contravvenzione non opera la sanzione della nullità. Così, la persona che abbia la patria potestà di un figlio o la “custodia” di un’altra persona, e voglia celebrare un accordo di unione civile, dovrà adempiere alle previsioni di cui agli art. 124 e 127 CC Quindi, dovrà procedere all’inventario solenne dei beni che sta amministrando e gli appartengono in qualità di erede o a qualsiasi altro titolo e dovrà nominare un tutore legale speciale per la redazione di questo inventario (art. 124 CC). La sanzione per la mancanza dell’inventario solenne è la perdita del diritto di successione, come legittimario o come erede ab intestato, rispetto al figlio di cui amministra i beni (art. 127 CC). La donna, durante la gravidanza, quando l’accordo sia terminato, non potrà contrarre matrimonio con un uomo diverso né celebrare un nuovo accordo prima del parto; o, non essendoci segni di gravidanza, prima che siano trascorsi duecentosettanta giorni seguenti al termine dell’accordo (art. 11 LAUC). In ogni caso, si potranno scontare tutti i giorni che abbiano preceduto il termine dell’accordo, nei quali sia stato assolutamente impossibile qualunque rapporto sessuale. Infine, si segnala che l’ufficiale dell’Anagrafe non permetterà la celebrazione del matrimonio, o del nuovo accordo, senza che la donna provi di non essere in stato di gravidanza. Si tratta di un impedimento identico a quello regolato negli articoli 128 e 129 CC, denominato di seconde nozze. Quindi le nuove norme generano una serie di interrogativi: si tratta di un’incapacità o di un divieto? Si applica solo alle donne e alle coppie eterosessuali? L’obiettivo della previsione è quello di evitare la confusione di paternità? Che cosa succede se è quella stessa coppia che vuole celebrare adesso un matrimonio o un accordo di unione civile? Infine, se non si è in presenza di una incapacità, qual è la sanzione? Si deve ritenere, per la portata imperativa della LAUC che usa espressioni come “non potrà contrarre” o l’ufficiale “non permetterà la celebrazione”, che si sia in presenza di un’incapacità o di un impedimento dirimente. Se non fosse così e si dovesse propendere per il divieto, si dovrebbe dire che qui la legge non applica nessuna sanzione, contrariamente a quanto accade per il matrimonio, dove si è in presenza di un divieto, e dove la sanzione è rappresentata dall’essere solidalmente responsabile, la donna e il suo nuovo marito, di tutti i pregiudizi e danni occasionati a terzi per l’incertezza della paternità (art. 130 CC). Rispetto agli accordi celebrati all’estero27, siano accordi di unione civile o contratti equivalenti, che regolino la vita affettiva in comune di persone dello stesso o di diverso genere, soggetti a registro e validamente celebrati, essi saranno riconosciuti in Cile (art. 12 LAUC e artt. 17 e ss. LAUC). Questi accordi, devono soddisfare i requisiti di forma e di sostanza
27
Cfr. Cornejo Aguilera, Acuerdo de unión civil y Derecho Internacional Privado, en Estudios sobre la nueva ley de acuerdo de unión civil, a cura di Hernández Paulsen y Tapia Rodríguez, 2016, 91 e ss.
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della legge della nazione dove venne celebrato e devono iscriversi nell’Ufficio Anagrafe. I matrimoni celebrati all’estero da persone dello stesso genere, devono seguire le previsioni della Legge N. 20.830, e avranno gli stessi effetti dell’accordo di unione civile (art. 12 inc. final LAUC).
8. Nullità dell’accordo di unione civile. L’art. 26 LAUC lettera f) segnala che, l’accordo si scioglie con la dichiarazione giudiziale di nullità dell’accordo. La sentenza esecutiva, che dichiari la nullità dell’accordo di unione civile dovrà annotarsi al margine dell’iscrizione cui fa riferimento l’art. 6 LAUC, e non sarà opponibile a terzi sino a quando questa annotazione non sia effettuata. In altri termini, la sentenza genera effetti, tra i conviventi civili, a partire da quando è esecutiva e, rispetto a terzi, dalla annotazione. L’accordo che non soddisfi i requisiti di validità stabiliti negli artt. 7 e 9 LAUC, che regola le incapacità, e l’art. 8 LAUC, sui vizi del consentimento, è nullo. Il tribunale competente è il giudice di famiglia del domicilio del denunciato (art. 22 LAUC), e il procedimento applicabile è quello ordinario dei tribunali di famiglia (artt. 55 e ss., L. n. 19.968)28. L’azione di nullità compete a qualsiasi dei presunti conviventi civili e solo potrà esercitarsi mentre vivano entrambi (art. 26 LAUC), salvo nelle seguenti eccezioni: a) quando l’accordo sia stato stipulato da una persona minore di diciotto anni, l’azione di nullità potrà essere esercitata da lei soltanto o dai suoi ascendenti. In questo caso, l’azione di nullità si prescriverà in un anno da quando il minore abbia raggiunto la maggiore età; b) nel caso di vizio del consenso, errore o violenza, l’azione potrà essere esperita solo dalla vittima dell’errore o della violenza, entro un anno a partire da quando cessi la violenza o dalla celebrazione dell’accordo, in caso di errore; c) che l’accordo di unione civile sia stato celebrato in punto di morte; o d) che causa dell’azione sia l’esistenza di un vincolo matrimoniale non dissolto o di altro accordo di unione civile vigente. In questi ultimi due casi l’azione potrà essere fatta valere dagli eredi del defunto entro il termine di un anno a partire dalla morte. Infine, l’azione di nullità fondata nell’esistenza di un vincolo matrimoniale non sciolto o di altro accordo di unione civile vigente potrà essere fatta valere anche dal coniuge o dal convivente civile precedente o dai suoi eredi. La morte di uno dei conviventi, durante il processo di nullità, e dopo la notifica della domanda, permette al giudice di famiglia di continuare a conoscere dell’azione e di pronunciare sentenza definitiva sul tema. Si tratta di una facoltà del giudice, dato che, l’art. 26 LAUC utilizza il termine “potrá”.
28
In avanti LTF. Disponibile in: https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=229557.
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9. Effetti dell’accordo di unione civile. Una delle principali differenze tra la LAUC e il matrimonio si individua negli effetti, dato che nel matrimonio, normalmente, si distingue tra effetti personali e patrimoniali29. Nonostante la legge segnali che l’accordo di unione civile ha come obiettivo quello di regolare “gli effetti giuridici derivanti dalla vita affettiva”, i suoi principali effetti sono di carattere patrimoniale, fatta eccezione per le norme relazionate con la parentela per affinità (art. 4 LAUC), la presunzione di paternità (art. 21 LAUC) e la cura personale (art. 45 LAUC). Perciò, non risulta appropriata l’espressione “vita affettiva” che ha solo una carica simbolica, in quanto la legge si preoccupa di considerare solo gli effetti patrimoniali: è chiaro che gli affetti sono molto importanti nelle relazioni familiari, ma questi rimangono fuori dalla legge civile30. In termini generali, la LAUC prevede che “l’accordo genererà per i conviventi civili gli obblighi e i diritti che stabilisce la presente legge” (art. 2 LAUC). Ancora una volta, si deve sottolineare la deficiente tecnica legislativa impiegata atteso che, successivamente, nell’art. 15 LAUC, si rinvia alla disciplina dei beni familiari stabilita per il matrimonio (artt. 141-149 CC); nell’art. 16 LAUC, si fa riferimento ai diritti del coniuge nella successione per causa di morte; nell’art. 23 LAUC, alle inabilità, incompatibilità e divieti che leggi e regolamenti stabiliscono per i coniugi, e che si estendono (di pieno diritto) ai conviventi civili; di seguito, negli artt. 29 e ss. LAUC, si modificano una serie di atti normativi al fine di aggiungere, dopo la parola coniuge, l’espressione “convivente civile”. Tutto ciò sembrerebbe determinare una assimilazione dell’accordo di unione civile al matrimonio. Tuttavia, nell’articolo 24 LAUC, si stabilisce che “le leggi e regolamenti che fanno allusione ai conviventi, sia con questa espressione o con altre che possano intendersi riferite a loro, saranno ugualmente applicabili ai conviventi civili”. Pertanto, detto accordo finisce con l’applicarsi anche a una situazione di fatto o ad una semplice convivenza. In questo modo, data l’assimilazione generica al matrimonio e alla convivenza, la LAUC produce molti più effetti di quelli che segnalano i suoi articoli sebbene, come si ha già osservato, le sue principali conseguenze siano solo economiche. La nostra giurisprudenza ha avuto l’opportunità di pronunciarsi su un tema simile, in particolare sulla possibilità di attribuire la qualità di “familiare” al convivente civile, segnalando la Corte d’appello di Concepción che non è illecito non riconoscere tale qualità perchè, tra altri argomenti “si deve enfatizzare il fatto che il riconoscimento della qualità di
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Ramos Pazos, Derecho de familia, op. cit., 142 e ss. Nelle parole di Tapia, “…questa definizione, segnala che la sua finalità è regolare giuridicamente la “vita in comune”. Anche se è innegabile che in questo contratto giacciono gli affetti umani. Questi escono dal controllo e dalla regolazione della legge. La legge non può dirigere o regolare gli affetti, né la dissoluzione degli affetti produce alcun effetto giuridico. La legge può solo regolare le manifestazioni esteriori dell’affetto, materializzati in una vita in comune. Perciò, sarebbe stato preferibile che si segnalasse che scopo della legge era regolare un “progetto di vita in comune”, Tapia Rodríguez, Acuerdo de unión civil: Una revisión de su justificación, origen y contenido, op. cit., 33.
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”familiare” permetterebbe di accedere ai diritti di carattere patrimoniale tipici del sistema di sicurezza sociale, che si organizza sotto un regime imperativo e di ordine pubblico il quale non è disponibile dalle parti”31. Un’opinione diversa ha espresso recentemente la Direzione del Lavoro, con data 31 maggio 2016, secondo cui “nell’ambito dei poteri che conferisce l’ordinamento giuridico si ritiene, considerato l’Ord. n. 5254 del 15 ottobre 2015, che il congedo per matrimonio previsto dall’art. 207 bis del Codice del Lavoro – incorporato dalla L. n. 20.764 –, è applicabile al lavoratore o lavoratrice che esibisce l’Accordo di Unione Civile, a norma della L. n. 20.830, per le ragioni trattate in questo rapporto”32. Nei paragrafi seguenti analizzeremo gli effetti dell’accordo di unione civile celebrato validamente. In primo luogo, la legge disciplina i doveri dei denominati personali: aiuto mutuo e una specie di dovere di “soccorso”, nel senso che i conviventi sono obbligati ad adempiere alle spese generate dalla loro vita in comune, in base alle loro capacità economiche e al regime patrimoniale che esiste tra loro33. La legge disciplina anche obblighi di assistenza personale. Secondo l’art. 45 LAUC, deve sostituirsi il paragrafo secondo dell’art. 226 CC, con il seguente: “nella scelta di queste persone si preferiranno i consanguinei più vicini e, specialmente, gli ascendenti, il coniuge o il convivente civile del padre o della madre, in base al caso”. A questo proposito, riteniamo che la norma attribuisca un certo riconoscimento legale alla figura del “padre sociale”.
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Sentenza della Corte d’Appello di Concepción, 28 gennaio 2016, rol. n. 9.448-2015. Dirección del Trabajo, sentenza ordinaria n. 2888, 31 maggio 2016. Disponibile in: http://www.dt.gob.cl/1601/articles-109418_ recurso_2.pdf. In questo senso, la Corte dei Conti, attraverso la sentenza 87457, del 4 de novembre del 2015, sugli effetti della celebrazione di un accordo di unione civile rispetto ai beneficiari di pensione di reversibilità nel regime delle Forze Armate, segnala che “in primo luogo, dato che in conformità con l’art. 16, L. n. 20.830 chi celebra un AUC gode degli stessi diritti che spettano al vedovo o vedova, il convivente civile sopravvissuto potrà aver diritto alla pensione di reversibilità, in primo grado di concorso, secondo quanto previsto nell’art. 88 bis, L. n. 18.948, sempre che soddisfi gli altri requisiti previsti in questo provvedimento”. Aggiunge inoltre che, “in quello relativo al secondo grado de concorso, riferito ai figli e figlie single – che oltre a soddisfare il requisito segnalato in questa norma –, si deve considerare il fatto che la celebrazione dell’accordo di unione civile conferisce lo stato civile di ‘convivente civile’ a colui che lo sottoscrive. Questi, quindi, non sarà più single, e perciò perde una delle condizioni che rendono possibile accedere a detta pensione”, Contraloría General de la República, sentenza n. 87457, 4 novembre 2015. Disponibile in: http://www.contraloria.cl/LegisJuri/DictamenesGeneralesMunicipales.nsf/ FormImpresionDictamen?OpenForm&UNID=6CB33185E6F4FEBF03257EF5004D03C5. 33 In questo senso, Hernández segnala che, “in generale, non vigono tra i conviventi doveri di carattere personale (per esempio, la fedeltà), salvo nell’aiuto mutuo e l’obbligo di partecipare alle spese comuni”, Hernández Paulsen, Valoración, aspectos destacados y crítica de la ley que crea el acuerdo de unión civil, en Estudios sobre la nueva ley de acuerdo de unión civil, a cura di Hernández Paulsen y Tapia Rodríguez, Santiago, 2016, p. 4. Al contrario, per Domínguez, “…l‘AUC impone soltanto ai conviventi il dovere di aiuto mutuo e una specie di dovere che, dato la sua debole e ambigua formulazione, non raggiunge il carattere di dovere di soccorso propriamente detto. Cosí, l’unica referenza che la legge stabilisce (nel suo articolo 14), semplicemente allude al fatto che “saranno obbligati a partecipare alle spese generate dalla loro vita in comune, in conformità alle loro capacità economiche e al regime patrimoniale che esiste tra loro”. Anche se qualcuno lo ha incluso tra quei casi in cui si devono gli alimenti, mancano gli elementi propri dell’obbligo alimentare, Domínguez Hidalgo, El acuerdo de unión civil: desafíos para su interpretación, en Estudios de Derecho Familiar I. Actas Primeras Jornadas Nacionales, Facultad de Derecho Universidad de Chile, a cura di Lepin Molina y Gómez de la Torre Vargas, Santiago, 2016, 257. 32
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Di seguito, analizzeremo la parentela, e gli effetti patrimoniali, quali il regime economico e i diritti di successione. Infine, la compensazione economica e i beni familiari.
10. Parentela derivata dall’accordo di unione civile. Nella LAUC esistono due norme che si riferiscono alla parentela; una in modo diretto creando un vincolo di parentela per affinità, e l’art. 1 LAUC, che stabilisce che i conviventi civili sono considerati parenti, secondo gli effetti dell’art. 42 CC. In altre norme vi si fa riferimento in forma indiretta, come nell’art. 21 LAUC, per poter applicare la presunzione di paternità dell’art. 184 C.C., dalla quale deriva lo stato civile del figlio, ai conviventi civili di sesso diverso. In questo senso, l’art. 4 LAUC prevede che il legame di parentela si instaura fra “un convivente civile e i consanguinei della persona con la quale questa è unita da un accordo di unione civile”. La norma è simile all’art. 31 del CC, che stabilisce, nel paragrafo1º, “parentela per affinità è quella che esiste tra una persona che è o è stata sposata e i consanguinei di suo marito o moglie”. Nonostante l’apparente somiglianza, tra i due tipi di relazione esiste una differenza molto importante. Nel primo caso, quindi nella parentela per affinità derivante dalla LAUC, l’esistenza della relazione è essenzialmente transitoria, come segnala l’art. 4 LAUC che, in riferimento all’accordo, precisa “mentre questo sia vigente”. La conclusione non cambia ove si ponga l’accento sul fatto che il legislatore, discorrendo di persona “…che è unita”, non considera l’ipotesi della persona che “era unita” da un accordo di Unione civile. Al contrario, la parentela per affinità derivante dal matrimonio è permanente, e sussiste anche dopo il divorzio o la morte del coniuge34. La riflessione precedente conduce a domandarsi, in primo luogo, quale sia l’effetto concreto della norma e, quindi, impone di esaminare, brevemente, le conseguenze giuridiche della parentela per affinità. Ma si tratta anche di rispondere alla domanda che senso abbia l’esistenza di una parentela di questo tipo? Cioè, stabilire le ragioni giuridiche e le conseguenze pratiche della parentela per affinità. Rispetto al primo punto, si è discusso anche se la scelta di incorporare nella legge parentela per affinità, sia stata fatta per motivi morali o per evitare conflitti all’interno del gruppo familiare35. Da questo punto di vista, e per offrire risposta all’interrogativo sollevato dalla questione delle conseguenze pratiche, si può constatare che gli effetti giuridici derivanti da questo
34 35
Somarriva Undurraga, Derecho de Familia, seconda edizione, Santiago, 1963, 11-12. Cfr. Fucito, Sociología General, Buenos Aires, 1999.
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tipo di parentela, si riducono principalmente, all’impossibilità di contrarre matrimonio36, come nei casi degli artt. 412 e 1061 CC, e per sanzionare la violenza endofamiliare37. In quest’ordine d’idee, una volta sciolto l’accordo di unione civile, nulla impedisce che il padre o madre del convivente civile possano celebrare un accordo con l’ex convivente del figlio/a, in quanto, con lo scioglimento dell’accordo, cessa la parentela, e non è possibile applicare la norma dell’art. 9 LAUC38. Per lo stesso motivo, non si potrebbe sanzionare la violenza endofamiliare. Quanto esposto in precedenza conduce a chiedersi se abbia avuto senso disciplinare questa parentela per affinità atteso che, come si può apprezzare, essa genera conseguenze pratiche limitatamente al periodo di validità dell’accordo. Altra questione è se i conviventi civili siano parenti, giacché, l’art. 1 LAUC, riferendosi ai conviventi civili, nella parte finale del comma. 1° segnala “saranno considerati parenti per gli effetti previsto nell’articolo 42 del Codice Civile” norma da cui sembra potersi ricavare che i conviventi civili siano parenti. Il tema ha formato già ampiamente oggetto di discussione a proposito del matrimonio. Una parte della dottrina sostiene che non sarebbero parenti perchè mancherebbe un vincolo di sangue, cioè, non sarebbero parenti consanguinei; non avrebbero neanche una parentela per affinità, in quanto questo legame non si stabilisce rispetto a loro, ma rispetto ai loro parenti consanguinei39. Gli argomenti segnalati non sembrano applicabili in toto all’accordo di unione civile. I conviventi non possono considerarsi parenti tra loro, innanzitutto per la disposizione prevista nella legge, e anche perchè il contenuto dell’art. 1 LAUC è limitato alla denominata “udienza” dei parenti, prevista in certe procedure civili e di famiglia. Infine, l’art. 21 LAUC rende applicabile la presunzione di paternità, per i casi di conviventi civili di diverso genere. Questo, nonostante la legge non faccia riferimento né al dovere di fedeltà né a quello di convivenza, che sono le basi che permettono di presumere che il convivente sia il padre. Riteniamo che, non esistendo fondamento alcuno per applicare la presunzione, si tratti di una finzione giuridica, la quale cede in beneficio dei
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Art. 6, par. 1, L. n. 19.947: “Non potranno contrarre matrimonio tra loro gli ascendenti e discendenti per consanguineità o per affinità, né i collaterali per consanguineità nel secondo grado”. 37 Art. 5, par. 1, L. n. 20.066: “Violenza endofamiliare. È espressione di violenza endofamiliare ogni maltrattamento che danneggi la vita o l’integrità física o psíquica di chi abbia, o abbia avuto, la qualità di coniuge del trasgressore o un rapporto di convivenza con lui; o sia parente per consanguinietà o per affinità in tutta la línea retta o nella collaterale fino al terzo grado incluso, del trasgressore o del suo coniuge o dell’attuale convivente”. 38 Art. 9, par. 1, L. n. 20.830: “Non potranno celebrare questo contratto gli ascendenti e discendenti per consanguinietà o affinità, nè i collaterali per consanguinietà nel secondo grado”. 39 Così, nel caso del matrimonio, per esempio, Rossel segnala che “in effetti, non rimangono compresi nella definizione che l’articolo 31 dà sull’affinità legittima. Tanto più che non è neanche possibile stabilire il grado di parentela, ove si ammettesse che tali fossero i coniugi. Questo dimostra che non possono considerarsi tali”, Rossel Saavedra, Manual del Derecho de la Familia, Santiago, 1958, 12. In un senso simile, Somarriva segnala, “i coniugi non sono parenti tra loro. Questo trova conferma in due disposizioni del Codice Civile, gli articoli 15 e 353, dove il legislatore parla ‘del coniuge o dei parenti’, da cui si desume che il coniuge non è un parente”, Somarriva Undurraga, Derecho de Familia, op. cit., p. 11.
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figli, per cui non sarà necessario ricorrere ai tribunali per determinare la loro filiazione40. Appare evidente, però, che non si possa applicare tale presunzione ai conviventi civili dello stesso sesso, in quanto non esiste niente da presumere. Costoro possono avere figli attraverso il ricorso a tecniche di riproduzione assistita ma, in questo caso, i genitori sono conosciuti. Sarà necessario, per attribuire paternità o maternità, una riforma dell’art. 182 CC o una legge che regoli questa materia in modo integrale.
11. Regime patrimoniale. I conviventi civili hanno due opzioni per regolare i rapporti economici tra loro e rispetto a terzi: il regime di separazione dei beni e il regime di comunione. La regola generale è la separazione dei beni, Così che si dissocia chiaramente la previsione dell’art. 15 LAUC, secondo cui “I conviventi civili conserveranno la proprietà, godimento e amministrazione dei beni acquisiti a qualsiasi titolo prima della celebrazione del contratto e di quello che acquisiscano durante la durata di questo, a meno che…”41. La stessa regola si applica agli accordi celebrati all’estero, in base a quanto prescritto nell’art. 13 LAUC. Queste norme stabiliscono, quindi, la apertura ad un regime di comunità ristretta ai beni acquisiti a titolo oneroso durante la vigenza dell’accordo, eccetto i beni mobili di uso personale. L’art. 15 LAUC stabilisce talune regole speciali per questo regime di comunione: Si deve dichiarare al momento di stipulazione dell’accordo e di ciò occorre lasciare traccia nel registro degli accordi di unione civile42. Perciò, la scelta del regime di comunione deve essere indicata nell’atto di celebrazione dell’accordo. I beni acquisiti a titolo oneroso, durante la vigenza dell’accordo, si considereranno indivisibili a metà tra i conviventi civili, eccetto i beni mobili di uso personale necessari al convivente che li ha acquistati. In questo senso, si tratta di un regime di comunione ristretta applicata ai beni acquistati a titolo oneroso. La legge non parla dei frutti di tali beni, per cui se ne deduce che non siano inclusi nella comunità. Con maggior ragione si
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Nelle parole di Gómez de la Torre, “all’estendere gli effetti dell’articolo 184 del Codice Civile ai figli che nascono durante l’AUC si rompe con la struttura del Codice Civile e con i motivi della presunzione pater is est, sostenuta nella convivenza matrimoniale e nel dovere di fedeltà della donna sposata. Sembrerebbe che il legislatore fondi la presunzione nell’impegno di convivenza che i genitori assumono. In modo che quelli che si sottomettono allo statuto giuridico del matrimonio o della LAUC godono del fatto che i loro figli possono contare sulla certezza di avere un padre fin dalla nascita, senza necessità che il convivente civile debba riconoscere al figlio”, Gómez de la Torre Vargas, La presunción de paternidad en la ley de acuerdo de unión civil, in Estudios sobre la nueva ley de acuerdo de unión civil, a cura di Hernández Paulsen y Tapia Rodríguez, Santiago, 2016, p. 111. 41 Una regola simile si applica ai conviventi civili che abbiano celebrato un accordo, o contratto equivalente all’estero, i quali, in base a quanto prescritto nell’art. 13 LAUC, dal punto di vista del regime patrimoniale “si considereranno in regime di separazione”. 42 V. art. 10, lett. f), LAUC.
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escludono i beni che i conviventi civili acquisiscono prima dell’accordo e quelli acquistati durante la convivenza, a titolo gratuito. La comunione è sui beni, non sul patrimonio o sull’insieme di beni (universalità di diritto). La data d’acquisto coincide con quella di acquisto del titolo. Si può concludere, quindi, che la legge fa riferimento solo ai beni la cui acquisizione consti di uno strumento pubblico o privato, praticamente acquisiti a titolo di compravendita, scartando i beni la cui causa o titolo di acquisto sia anteriore all’accordo. Si applicano, in forma suppletiva, le norme del quasi-contratto, del paragrafo 3, Titolo XXXIV, del libro IV del Codice Civile, artt. 2304-2313. Queste norme regolano i diritti dei partecipanti alla cosa comune e ai frutti di questa, il loro contributo nei debiti e nelle opere e riparazioni della cosa comune, le cause di scioglimento e la forma di divisione della comunione. In quest’ultimo punto, si rimanda alle norme di divisione dell’eredità, artt. 1317 ss. CC. I conviventi civili possono sostituire il regime di comunione con quello di separazione totale dei beni, a differenza del matrimonio dove, il regime di società coniugale può essere sostituito con il regime di partecipazione nella comunione dei beni o con quello della separazione totale dei beni. Questo accordo deve farsi per scrittura pubblica, sottoscritta, e annotata a margine delle iscrizioni dell’accordo, entro trenta giorni alla data di consegna dell’accordo43. S’intendono come requisiti essenziali tanto la forma scritta come la sottoscrizione in modo che, senza questi requisiti, l’accordo non produce effetti tra le parti e rispetto a terzi. Infine, la legge prevede una norma di tutela dei diritti dei terzi, in base alla quale “il patto non pregiudicherà, in nessun caso, i diritti validamente acquisiti da terzi rispetto a ognuno dei conviventi civili” (art. 15, inc. 3, LAUC). La vendita della parte di uno dei conviventi civili, mette fine alla comunione. Le principali critiche si possono sollevare in ordine all’applicazione delle norme del quasi-contratto; applicazione difficile, essendo insufficiente per risolvere alcuni temi legati all’amministrazione, concorso nei debiti, cause di scioglimento dell’unione. La liquidazione si può realizzare di comune accordo tra i conviventi civili. Un piano di liquidazione può essere incluso nello stesso atto con il quale si sostituisce il vecchio regime. In caso di mancanza di accordo, le parti possono sommettere la liquidazione ad un giudice divisore, che può agire anche come arbitro-mediatore.
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Si veda art. 15, lett. a), LAUC.
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12. Beni familiari. In entrambi i regimi patrimoniali, la individuazione dei beni familiari segue la disciplina degli artt. 141-149 CC. Il giudice di famiglia può, così, dichiarare, negli stessi termini che in caso del matrimonio, come beni familiari la residenza principale della famiglia. Il regime giuridico applicabile è identico, tanto per il matrimonio come per l’accordo di unione civile44.
13. Diritti di successione. In ambito successorio la LAUC equipara la situazione dei conviventi civili a quella dei coniugi, qui annullando le differenze tra il matrimonio e l’accordo di unione civile. Entrambi gli statuti giuridici attribuiscono una posizione privilegiata alla coppia, in questo caso, legalmente costituita, escludendo i rapporti di convivenza (o di fatto). Questa posizione privilegiata che condividono coniugi e conviventi civili si manifesta, come segnala l’art. 18 LAUC, al momento della delazione. In realtà, a ragionare rigorosamente, si dovrebbe notare che l’interpretazione letterale dell’articolo in commento, conduce a ritenere che i conviventi civili non vantino diritti ereditari, in quanto la morte naturale di uno dei conviventi, come prevede l’art. 26, lett. a), LAUC, fa venir meno l’accordo. È evidente che questa interpretazione conduce ad un assurdo e, perciò, dev’essere scartata, dovendo ritenersi che il convivente abbia gli stessi diritti successori di un coniuge. La situazione privilegiata del convivente consiste nell’essere considerato erede intestato (art. 16 LAUC), legittimario (art. 16 LAUC) nonchè titolare del diritto, precedentemente citato, di “adjudicación preferente” (art. 19 LAUC). Il convivente, infatti, concorre all’eredità intestata nel primo o secondo grado di successione. Nel primo caso, concorre alla successione con i figli, avendo diritto al doppio di quanto spetta ai figli considerando che, in nessun caso, la sua quota sarà inferiore alla metà dell’eredità o della metà legittimaria (art. 988 CC). Nel secondo caso, se il causante non ha lasciato eredi, il convivente civile concorre con gli ascendenti di grado più vicini (art. 989 CC). Nella successione testamentaria, ha la qualità di legittimario. Si tratta di eredi forzosi, cioè, rispetto ai quali operano quelle assegnazioni (alimenti, legittima, cuarta de mejoras) che il testatore è obbligato a fare e che si integrano la volontà del de cuius quando questi non le abbia fatte (art. 1167 CC). In conformità con l’art. 1183 CC, per i legittimari, in tema di concorso all’eredità, esclu-
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Cfr. Lepin Molina, Bienes familiares. Su recepción doctrinaria y jurisprudencial, in Quaderni di Diritto delle Successioni e della Famiglia, a cura di Carapezza, di Verda y Beamonte, Frezza y Virgadamo, Napoli, 2016.
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sione e rappresentazione, valgono le stesse regole che operano per la successione intestata. Inoltre, il convivente civile possa essere diseredato in presenza di una delle seguenti ragioni: a) per ingiuria grave contro il testatore, la sua persona, onore o beni, o a qualsiasi dei suoi ascendenti o discendenti; b) per non aver assistito il de cuius allorché questi si trovava in stato di demenza o incapacità, ovvero c) per essersi valso di violenza o dolo al fine di impedirgli testare (artt. 17 LAUC e 1208 CC). I conviventi civili possono anche essere beneficiari della “cuarta de mejoras” (art. 16, inc. 2, LAUC) e, evidentemente, della quarta di libera disposizione, di cui il testatore può disporre a suo arbitrio. In questo contesto privilegiato, il convivente civile superstite ha diritto, anche, all’attribuzione “a preferenza” dell’alloggio familiare in ipotesi di divisione (artt. 19 LAUC e 1337 regola 10ª C.C). In questo caso, quando la sua posizione giuridica non è tale da determinare l’assegnazione proprietà dell’alloggio principale della famiglia e dei mobili che la arredano, egli può chiedere la costituzione di diritti di alloggio e di uso, a carattere gratuito e vitalizio (artt. 19 LAUC e 1337 regola 10ª CC)45.
14. Compensazione economica. La compensazione economica è regolata dall’art. 27 LAUC e dagli artt. 62-66 NLMC (similmente a quanto previsto per l’assegno divorzile). Nel contesto normativo della nuova legge, non si fa alcun riferimento né all’applicazione degli artt. 80 e 81 della L. n. 20.255 della Riforma Asistenciale, quanto alla possibilità di stabilire come modalità di pagamento il ricorso a fondi previdenziali, né alla L. n. 20.239, che prevede una serie di sgravi fiscali per in presenza di prestazioni economiche originate dallo scioglimento del matrimonio. In tutti e due le ipotesi, trattandosi di norme di ordine pubblico non applicabili per analogia ai conviventi civili, sembra indispensabile un intervento normativo riformatore. La giurisprudenza cilena ha avuto l’opportunità di pronunciarsi su un argomento simile, vale a dire sulla possibilità di attribuire la qualifica di familiare al convivente civile, segnalando la Corte d’Appello di Concepción che non è illecito non riconoscere tale qualità. In questo senso, tra le motivazioni utilizzate, i giudici hanno osservato che “in questo ordine d’idee occorre enfatizzare la circostanza che il riconoscimento della qualifica di familiare consente di accedere ad un regime di diritti a carattere patrimoniale che è tipico della sicu-
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Come segnala Gómez de la Torre, “…nell’avere nell’eredità gli stessi diritti del coniuge superstite del defunto, il convivente riceverà la stesso ammontare di beni: il doppio di quello che riceverebbe un figlio per legittima, rigorosa o effettiva, quando concorra con due o più figli, con il limite che la sua quota non potrà eccedere una quarta parte dell’eredità o della metà della legittima. Se il convivente civile concorre con un figlio, gli spetterà la metà dell’eredità o della legittima”. Gómez de la Torre Vargas, Los derechos sucesorios del conviviente civil en la ley que crea el acuerdo de unión civil, en Estudios de Derecho Familiar I. Actas Primeras Jornadas Nacionales, Facultad de Derecho Universidad de Chile, a cura di Lepin Molina y Gómez de la Torre Vargas, Santiago, 2016, 308.
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rezza sociale la quale, in quanto espressione di un regime imperativo e di ordine pubblico, non è disponibile dagli attori che partecipano di questo sistema”46. La compensazione economica, quindi, potrà aversi solo nei casi di scioglimento dell’accordo per mutuo consenso (art. 26, lett. d) LAUC), per volontà unilaterale (art. 26, lett. e) LAUC) o in caso di nullità dell’accordo (art. 26, lett. f) LAUC). Sono i conviventi che, di comune accordo, possono regolare questo aspetto, ovvero sollecitare l’intervento del Tribunale di famiglia competente. In siffatto ambito, la LAUC è piuttosto essenziale, riferendosi solo alla regolazione della compensazione nei casi di cessazione della convivenza per volontà unilaterale. Analizziamo le tre ipotesi segnalate: Nel caso di scioglimento della convivenza per mutuo accordo, questa decisione deve figurare in una scrittura pubblica o in un atto redatto dinanzi all’ufficiale dell’Anagrafe. Nulla è previsto per quanto attiene a rapporti economici, anche se si deve ritenere che la dichiarazione con la quale le parti decidano di sciogliere la convivenza debba essere omologata dal tribunale di famiglia, poiché è l’unico modo per avere un titolo e poter ricorrere al procedimento esecutivo semplificato previsto dagli artt. 11 e 12, L. n. 14.90847. Nel caso di dichiarazione di nullità dell’accordo, si possono applicare le regole generali, stabilite nell’art. 64 NLMC, cioè, nella domanda giudiziale o in quella riconvenzionale, in ogni caso davanti al Tribunale di famiglia competente. Infine, in caso di scioglimento per volontà unilaterale, la LAUC esige la scrittura pubblica o la dichiarazione resa dinanzi all’ufficiale dell’Anagrafe, che deve notificarsi all’altro convivente civile nei venti giorni validi successivi alla annotazione in margine all’atto di iscrizione dell’accordo di unione civile. La notifica deve contenere la menzione del diritto alla compensazione economica, che potrà formare oggetto di domanda entro sei mesi a far data dalla sottoscrizione della richiesta discioglimento dell’accordo. Tuttavia, poiché la notifica non affetta lo scioglimento dell’accordo, può succedere che si notifichi una volta trascorso il termine di sei mesi, sì che il convivente civile non potrà più domandare la compensazione economica. Una soluzione possibile, potrebbe individuarsi nell’art. 26, lett. e), LAUC che, di fronte alla mancanza di notifica della volontà di porre termine all’accordo, rende responsabile il convivente civile dei pregiudizi che possa causare all’altra parte l’ignoranza dello scioglimento di suddetto accordo. In questo caso, dinanzi all’impossibilità di esigere la compensazione economica, il convivente civile potrebbe far richiesta di risarcimento del danno in rapporto ai pregiudizi causati concretamente per la perdita dell’opportunità di domandare la compensazione economica. Cosa che, evidentemente, è altro rispetto al riconoscimento del diritto alla compensazione economica, in
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Corte d’Appello di Concepción, 28 gennaio 2016, rol n. 9.448-2015. D’ora in poi LAFPPA. Disponibile in: https://www.leychile.cl/Navegar?idNorma=27977.
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quanto si tratta di una mera perdita di chance che dà, quindi, diritto ad un risarcimento che, ove riconosciuto, è di ammontare minore. I requisiti sono gli stessi che si applicano per il matrimonio, cioè, che uno dei conviventi civili a) non abbia svolto attività remunerata o lucrativa, o lo abbia fatto in minor misura di quello che poteva o avrebbe voluto; b) si sia dedicato esclusivamente alla cura dei figli o a quella dell’alloggio comune; e, c) che soffra di un danno o un discredito economico. Si richiede, quindi, come requisito fondamentale la perdita delle opportunità lavorative, riflessa nel requisito di non aver realizzato attività economica o lucrativa. Così, si finisce però con il proteggere principalmente il modello tradizionale di famiglia, basato su una relazione di coppia eterosessuale, con divisione di ruoli, dove l’uomo lavora fuori dalla casa in forma remunerata, e la donna è occupata in faccende domestiche e si prende cura dei figli. Si è perduta, in altri termini, l’opportunità per introdurre una compensazione per disequilibrio economico, come quella che esiste in Spagna e Argentina, che avrebbe permesso di proteggere diversi modelli di famiglia. I criteri per accertare il pregiudizio economico e determinare il quantum da corrispondere sono quelli stabiliti nell’art. 62 NLMC, cioè: la durata dell’accordo di convivenza civile; la situazione patrimoniale di entrambi; la buona o cattiva fede; l’età e lo stato di salute del convivente e del beneficiario; la sua situazione in materia di benefici previdenziali e di salute; la sua qualificazione professionale, e la collaborazione prestata alle attività lucrative dell’altro convivente civile. Rispetto alle forme di pagamento, l’adempimento a siffatto obbligo si può materializzare in una somma di denaro, nella dazione in pagamento di beni determinati o nella costituzione di diritti reali di godimento. Non è ammissibile invece, quale modalità di adempimento, per i motivi già segnalati, la compensazione con fondi previdenziali. Per l’applicazione dell’art. 66 NLMC, è opportuno far ricorso al procedimento esecutivo semplificato della LAFPPA e alle sue ingiunzioni, aspetto, questo, che riaccende la discussione sulla applicabilità delle ingiunzioni personali, come l’arresto.
15. Cause di scioglimento dell’accordo di unione civile. Secondo l’art. 28 LAUC, lo scioglimento dell’accordo di unione civile pone fine a tutti gli obblighi e diritti derivanti dalla vigenza del contratto. L’accordo di unione civile cessa (art. 26 LAUC): per morte naturale di uno dei conviventi civili. Così come abbiamo segnalato, si fa riferimento qui alla morte reale, cioè, alla cessazione delle funzioni vitali di un individuo; per morte presunta (art. 81 e ss. CC) di uno dei conviventi civili, in conformità a quanto disposto nell’art. 43 NLMC, cioè, la dichiarazione giudiziale di morte quando l’individuo è deceduto oppure, ignorandosi se vive, e nel rispetto degli altri requisiti giuridici; in conseguenza della dichiarazione giudiziale della morte di uno dei conviventi civili
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effettuata dal giudice dell’ultimo domicilio che il defunto abbia avuto in Cile, nei termini prescritti negli artt. 95 e 96 CC; in conseguenza del matrimonio dei conviventi civili tra loro; per mutuo accordo dei conviventi civili, che dovrà essere stipulato con scrittura pubblica o dichiarazione resa davanti all’ufficiale dell’Anagrafe; per volontà di uno dei conviventi, manifestata in forma di atto pubblico o atto rilasciato dall’ufficiale dell’Anagrafe. La volontà unilaterale di sciogliere l’accordo deve notificarsi all’altro convivente civile, attraverso un procedimento di volontaria giurisdizione davanti al tribunale di famiglia (art. 102 LTF), dove la parte potrà comparire personalmente. La notificazione dovrà essere effettuata per mezzo dell’ufficiale giudiziario, nei venti giorni lavorativi seguenti alla annotazione della suddetta scrittura o atto, a margine dell’iscrizione dell’accordo dell’unione civile. La mancanza di notificazione non condizionarà lo scioglimento dell’accordo di unione civile, però rende responsabile il contraente negligente dei pregiudizi che l’ignoranza di questo scioglimento possa arrecare all’altro convivente (uno dei pregiudizi può essere quello, come detto, della perdita del diritto, in capo, all’altro contraente, di chiedere la compensazione economico nei sei mesi successivi). Questo obbligo alimentare non sorge se il convivente a cui si deve notificare è scomparso, si ignora la sua dimora o la sua famiglia non ne abbia più notizia. In ogni caso, entro tre mesi dalla effettuata annotazione, l’altra parte potrà dichiarare di ignorare la volontà del convivente di porre termine all’accordo. Lo scioglimento dell’accordo di unione civile, in forma unilaterale o per comune accordo, produrrà effetti da quando la scrittura pubblica o l’atto, secondo il caso, è – come detto – annotato a margine dell’iscrizione dell’accordo.
16. Tribunale competente per risolvere i conflitti conseguenti all’accordo di unione civile.
Come regola generale, per le controversie in materia di famiglia, anche tra i conviventi civili è competente il giudice di famiglia, secondo l’art. 22 LAUC, che fa riferimento, a sua volta, all’art. 8 LTF. Le liquidazioni della comunità potranno effettuarsi di comune accordo tra i conviventi civili o i loro eredi. Le parti, o i loro eredi, di comune accordo, potranno inoltre sottoporre la liquidazione dei beni alla valutazione di un tribunale per la divisione giudiziale, incluso conferendo al giudice il carattere di arbitro mediatore (art. 22 inc. finale LAUC).
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17. Conclusioni. Così stando le cose, la L. n. 20.830 include un’alternativa al matrimonio e alla relazione di fatto, generando un terzo statuto giuridico delle convivenze. Nonostante la legge intenda disciplinare un rapporto familiare, le sue norme celebrano principalmente effetti patrimoniali della convivenza come, tra gli altri, diritti di successione, regimi patrimoniali, compensazione economica. Si possono apprezzare le difficoltà che presenta l’applicazione diretta degli effetti del matrimonio a una istituzione essenzialmente precaria (non solo per i suoi effetti, ma anche per il modo in cui si pone termine alla stessa). Le riserve sono relative al fatto che il matrimonio presuppone un rapporto eterosessuale che si protrae nel tempo e, in teoria, si celebra per tutta la vita. In questo senso, si può mettere in discussione, per esempio, l’applicazione a questo tipo di unione della presunzione di paternità o della dichiarazione dei beni familiari.
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Diseredazione: profili di disciplina* Sommario:
1. Introduzione. – 2. Profili di disciplina. – 2.1. Diseredazione dei non legittimari. –2.1.1. Clausole diseredative: institutio ex re certa, istituzione pro quota, istituzione di un successibile per legge e revoca di una precedente disposizione attributiva. – 2.1.2. Diseredazione e preterizione; diseredazione e rappresentazione. – 2.1.3. Disciplina. – 2.2. Diseredazione dei legittimari. – 2.2.1. Diseredazione occulta dei legittimari. – 2.2.2. Riforma della filiazione. – 3. Conclusione.
The paper focuses on the disinheritance clause, a settlement that might be included in the typical content of the will through which the testator, thus narrowing the intestate succession, can remove one or more legal heirs from inheritance. In particular the topic deals both with regard to the pretermitted and non-pretermitted heirs and, bearing in mind the most recent jurisprudence on the issue, it is suggested a reform of the succession law which de facto protects the individual interest of the testator to act in a free and conscious manner. The careful comparative legal analysis between civil law and common law imposes a reconsideration of the whole matter inherent in the intestate succession, from its assumptions to its protection system, from the need to clarify ambiguities to the need to adapt rules to the social and cultural context.
1. Introduzione. «Il diritto vive nel tempo. Lo utilizza e lo modella; trasforma un istante in data certa, il suo naturale scorrere in termini di legge. Ma anche il diritto, come ogni cosa, soggiace all’influsso del tempo e viene dallo stesso trasformato. Norme, leggi e istituti non si sottraggono alla regola del divenire. Quando il diritto è chiamato a disciplinare le relazioni familiari, tale dipendenza si fa ancor più serrata»1. E quando il diritto è chiamato a disci-
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Il contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima. F. Danovi, Crisi della famiglia e giurisdizione: un progressivo distacco, in Fam. e dir., 2015, 1043 e ss., a 1043.
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plinare questioni quali la diseredazione2, evidentissimo emerge il carattere paternalistico del legislatore. Un legislatore attento ai valori familiari e alla tutela degli interessi del nucleo familiare, a dispetto del suo perenne divenire3. Un legislatore che, nel lontano 1942, ritenne di anteporre le esigenze di tutela soggettiva a quelle di libera, autonoma, piena disposizione del patrimonio da parte del de cuius4. La notevole distanza temporale tra l’attualità e la ratio ispiratrice delle norme di diritto successorio5, l’attenta analisi giuridica comparata tra ordinamenti di civil e common law, nonché la assoluta mancanza di certezza nella circolazione della ricchezza dovuta al fatto che non è possibile rinunciare preventivamente all’azione di riduzione ovvero conoscere l’esito della medesima, ove esperita, impongono, dunque, una riconsiderazione dell’intera questione inerente alla successione necessaria6, dai suoi presupposti alla tutela delle istanze che la medesima pone, dalla necessità di chiarire margini di ambiguità alla necessità di adeguare il diritto alla realtà sociale e culturale7. Di qui, pur senza con ciò suggerire una acritica trasposizione anche nell’ordinamento nazionale di quanto previsto dalle norme di common law8, appare ragionevole suggerire, in una prospettiva evolutiva della normativa, una sanzione relativa a taluni atti o comportamenti riprovevoli da parte del testatore, seppure essi siano esclusi dalle cause di indegnità legislativamente previste9. Una meta, questa, concretamente realizzabile mediante l’estensione dell’elenco delle tradizionali cause di indegnità anche alla c.d. “area di ingratitudine”10 ovvero l’inserimento di vere e proprie cause tipiche di espressa disere-
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F. Gerbo, Diseredazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, vol. XVII e, per i riferimenti alla ricostruzione storica dell’istituto, spec. del diritto romano classico, oltre a quanto indicato infra (nota 110), sia consentito rinviare a B. Caliendo, La diseredazione, in Aa.Vv., Studi in onore di Giancarlo Laurini, Napoli, 2015, 288 e s., nota 4; Id., La diseredazione: “(non) vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole…”, in Corr. giur., 2013, 617 e ss.; D. Pastore, Riflessioni sulla diseredazione, in Vita not., 2011, III, 1181 e ss.; A. Arturo, Intorno alla diseredazione, in Rolandino, 1972, 5 e ss.; G. Iacovone, Della diseredazione, in Il notaro, 1971, fasc. 9-10, 43 e s. 3 G. Amadio, La successione necessaria tra proposte di abrogazione e istanze di riforma, in Riv. not., 2007, I, 803; G. Bonilini, Sulla possibile riforma della successione necessaria, in G. Bonilini (diretto da) Tratt. dir. succ. e donaz., vol. III, La successione legittima, Milano, 2009, 727 e s.; S. Delle Monache, Abolizione della successione necessaria?, in Riv. not., 2007, 815 e ss.; F. Gazzoni, Competitività e dannosità della successione necessaria (a proposito dei novellati art. 561 e 563 c.c.), in Giust. civ., 2006, II, 3 e ss. 4 L. Barassi, Le successioni per causa di morte, Milano, 1941, 190, ove l’A. riferisce di animate discussioni sul punto, in particolare tra “liberisti ad oltranza”, «che auspicavano una illimitata disponibilità a favore del proprietario», e “coloro che sottolineavano la funzione sociale e familiare della società”, i quali «negavano la disponibilità per testamento». Cfr. L. Balestra, La diseredazione: un percorso interpretativo al passo coi tempi, Cass. 8352/12, 30 giugno 2012, consultabile all’indirizzo www.personaedanno.it. 5 Sia consentito rinviare ampiamente a M. Mazzuca, Riflessioni sulla clausola di diseredazione, tra vecchi dogmi e nuovi interrogativi, in Rass. dir. civ., 2013, 1027 e ss. 6 V. anche A. Mendola, Il superamento dell’incompatibilità tra successione necessaria e diseredazione alla luce dell’art. 448-bis c.c., in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, 1533 e ss. 7 N. Picardi, La vocazione del nostro tempo per la giurisdizione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 42. 8 Di recente, provano attenzione nei confronti della c.d. protection form disinheritance, R. Kerridge, A View from England, in Edin. Law Rev., vol. 14, 323 e ss., a 324 e s. e D. Reid, Inheritance Rights of Children, ibid., 318 e ss., a 321 e s., rispettivamente in Inghilterra e Scozia; D.B. Kelly, Toward Economic Analysis of the Uniform Probate Code, in U. Mich. J. Law Reform, vol. 45, 2011-2012, 855 e ss., a 891 e ss. 9 Cfr. P. Laghi, La clausola di diseredazione: da disposizione “afflittiva” a strumento regolativo della devoluzione ereditaria, Napoli, 2013, 95 e ss. ed in Rassegna dir. civ., 2014, 969 e ss.; S. Monosi, L’indegnità a succedere, in P. Rescigno (diretto da) Tratt. breve successioni e donazioni, Vol. I - Le successioni mortis causa. I legittimari. Le successioni legittime e testamentarie, Padova, 2010, 197. 10 G. Bonilini, Sulla proposta di novellazione delle norme relative alla successione necessaria, in Fam. pers. succ., 2007, 587.
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dazione per giusta causa11, peraltro mai abbandonate, inter alia, tra i Paesi europei, dal codice civile spagnolo12. Assumendo dunque una prospettiva de iure condendo13, tenendo a mente il “nuovo corso giurisprudenziale”14, si ritiene di suggerire una riforma del diritto successorio che, pur non abolendo il capitale istituto della successione necessaria e della c.d. riserva, permetta (rectius, tuteli) l’interesse individuale del de cuius, ossia disporre dei propri averi post mortem in modo libero e consapevole. La disamina delle disposizioni di diseredazione oggi presenti in molteplici ordinamenti, offre sicuramente spunto validissimo al fine di comprendere quali siano le cause tipiche di diseredazione, della “espressa dichiarazione che qualcuno non debba essere erede”15, che realmente rilevano nella prassi16: dalla mancata osservanza dell’obbligo coniugale nei riguardi dell’ex coniuge alla assenza di assistenza, senza legittime ragioni, al defunto, dai maltrattamenti, alle ingiurie17-18.
2. Profili di disciplina. 2.1. Diseredazione dei non legittimari.
Nel contesto della diseredazione di un successore ab intestato, appare chiaro come il testatore abbia la più ampia facoltà di disporre dei beni costituenti la c.d. quota disponibile, anche nel caso in cui ciò induca lo stesso ad una esclusione di soggetti ex lege successibili.
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M. Comporti, Studi in onore di Piero Schlesinger, vol. I, Milano, 2004, 790; G. Amadio, La successione necessaria tra proposte di abrogazione e istanze di riforma, cit., 811; S. Delle Monache, Abolizione della successione necessaria?, cit., 823; A. Palazzo, La funzione suppletiva della successione necessaria, la tutela dei soggetti deboli e la diseredazione (riflessioni sul progetto per l’abolizione della categoria dei legittimari), 2007, consultabile all’indirizzo www.personaedanno.it, 18. 12 M. Comporti, Riflessioni in tema di autonomia testamentaria, tutela dei legittimari, indegnità a succedere e diseredazione, in Familia, 2003, 27 e ss., spec. a 38 e ss. In tema di diritto successorio spagnolo, v. anche le interessanti riflessioni di I.A. Calvo Vidal, Il sistema plurilegislativo spagnolo nel Reg. (UE) 650/2012 sulle successioni, in Not., 2016, 59 e ss. ed estensivamente Id., El certificado sucesorio europeo. Colecciòn Temas La Ley, Wolters Kluwer España, S.A. Madrid, 2015. 13 V. anche P. Laghi, op. cit., 132 e ss. 14 R. Cimmino, La diseredazione tra evoluzione dottrinale e nuovi approdi giurisprudenziali, in Vita not., 2014, 566 e ss. 15 B. Windscheid, Diritto delle pandette, Torino, 1902-1904, III, 1, 100. V., per i profili definitori, anche M. Moretti, Le disposizioni testamentarie. La diseredazione, in G. Bonilini (diretto da) Tratt. dir. succ. don., Vol. II, La successione testamentaria, Milano, 2009, 264: M. Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del contenuto del testamento, Torino, 1966, 9 e ss.; F. Miriello, In margine alla clausola di diseredazione; la tematica della c.d. volontà meramente negativa, in Riv. not., 1981, 744 e ss., 747. 16 La complessità di enucleare tali cause a livello normativo, infatti, è risultata l’ostacolo più evidente e significativo all’applicazione dell’istituto di diritto privato in esame, così M. Cinque, Sulle sorti della successione necessaria, in Riv. dir. civ., 2011, II, 522 e ss. 17 Artículo 835 e Artículo 855, Código civil español. Appare pacifico, invece, che non possano costituire ipotesi di diseredazione clausole che siano collegate genericamente a condotte ritenute disonorevoli od immorali da parte del testatore, come pattuito dall’art. 849 Codice del Regno delle Due Sicilie (P. Liberatore, Osservazioni per servir di comento alle leggi civili del regno delle Due Sicilie, vol. 1, 1830, a 250; Commentari sulla prima parte del codice per lo Regno delle Due Sicilie, dalla tipografia del Giornale del Regno delle Due Sicilie, 1820 e Le leggi civili per lo Regno delle due Sicilie. Stabilimento Tipografico all’insegna dell’Ancora, 1841) e ex § 2333, Entziehung des Pflichtteils, comma 1, n. 5, del BGB sino al 2010. 18 Tali cause si sovrappongono a quelle che comportano l’indegnità a succedere e legittimano una domanda di revocazione di una donazione ai sensi dell’art. 801 c.c.
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Al contempo, pari chiarezza non si rileva in relazione alla modalità con cui detto scopo può essere raggiunto19. In primo luogo, il testatore potrebbe devolvere la propria eredità ad alcuni ed escludere altri unicamente con l’intento di rafforzare la porzione positiva del medesimo atto20 o di palesare il proprio astio nei riguardi di taluni21 od ancora di offenderli consapevolmente22. In secondo luogo, realizzando più propriamente una preterizione23 (o pretermissione) di un successibile ex lege24, il testatore potrebbe attribuire a soggetti precisamente individuati il proprio patrimonio mediante istituzioni di erede ovvero di legati25, ponendo opportunamente attenzione anche alle conseguenze di un’eventuale rinuncia26. Ove non residuassero eredi universali, i beni entrati a far parte del patrimonio del de cuius nel lasso di tempo compreso tra la redazione dell’atto di ultima volontà e il suo decesso andrebbero conseguentemente attribuiti secondo le norme della disciplina ab intestato agli eredi legittimi27. In terzo luogo, il testatore potrebbe, pur in assenza di disposizione attributiva, inserire una clausola che escluda un soggetto dalla propria successione. Un comporta-
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In generale, Cass. 25 maggio 2012, n. 8352, in Riv. not., 2012, 1228, con nota di M. Di Fabio; in Vita not., 2012, 665, con nota di D. Pastore; in Giur. it., 2012, 2508 con nota di G. Torregrossa; in Giur. it., 2013, 315, con nota di M. Fusco; in Fam. pers. succ., 2012, 763, con nota di V. Barba; in Giust. civ., 2013, I, 1473, con nota di C. Bruno; in Giust. civ., 2013, I, 685, con nota di V. Occorsio; in Corti salernitane, 2012, 416, con nota di R. Marini; in Nuova giur. civ., 2012, I, 998, con nota di R. Pacia; in Fam. e dir., 2013, 149, con nota di G. Bellavia; in Foro pad., 2013, I, 24, con nota di E. Smaniotto; in Corr. giur., 2013, 617, con nota di B. Caliendo e F. Miriello; in CNN Notizie, 26 novembre 2012, con nota di M. Scalisi, Clausola di diseredazione e profili di modernità; 4 giugno 2012, con nota di M. Leo, La Cassazione cambia opinione sulla clausola di diseredazione meramente negativa; in CNN Notizie, con nota d M. Di Marzio, La clausola di diseredazione è valida, consultabile su Pluris. Cfr., in ottica diacronica, E. Petrone, La diseredazione e la clausola di esclusione meramente negativa. Ultimi orientamenti giurisprudenziali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2014, 1153 e R. Catalano, Successione necessaria e diseredazione: profili problematici e spunti evolutivi, in Gazzetta forense, 2014, fasc. 1, 36. 20 In giurisprudenza, Cass., 5 aprile 1975, n. 217, in Giur. it., 1975, I, 1796, ove si precisa che detta asserzione non integra affatto una diseredazione stricto sensu intesa e, in dottrina, L. Ferri, Se debba riconoscersi efficacia ad una volontà testamentaria di diseredazione, in Foro pad., 1955, I, c. 47 e ss. 21 A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, in Riv. dir. civ., 1970, I, 39 e ss., 55. 22 G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2014, 221. 23 Circa i concetti di preterizione o diseredazione, cfr. L. Mengoni, Successioni per causa di morte, parte speciale, Successione necessaria, in A. Cicu, F. Messineo (diretto da) Tratt. dir. civ. comm., Milano, 2000, 80, nt. 95 («In diritto romano si considera preterito il legittimario “neque heres institutus neque ut oportet exheredatus” […], cioè preterizione e diseredazione sono concetti antitetici. La nov. 115 equiparò, quoad effectum, la diseredazione alla preterizione, tranne alcuni casi di ingratitudine tassativamente indicati. Nel diritto moderno, non essendo più ammesse tali eccezioni, l’equiparazione è completa (salve le norme sull’indegnità a succedere)» e, contra, M. Scalisi, Clausola di diseredazione e profili di modernità, Studio n. 339-2012/C, approvato dalla Commissione Studi Civilistici CNN del 20 settembre 2012, 16 («La distinzione concettuale tra i due istituti è infatti molto chiara: mentre nella preterizione l’esclusione è solo indiretta e individuale, in quanto consegue all’attribuzione di tutti i beni dell’asse ereditario ad altri soggetti, nella diseredazione l’esclusione dalla successione discende direttamente dalla esplicita volontà del testatore. Anche se entrambe le figure mirano a escludere un successibile, ciò che caratterizza la diseredazione rispetto alla preterizione è l’esplicita formulazione negativa della disposizione, con assenza di una contemporanea attribuzione positiva - attributiva»), anche in Studi e materiali, 2013, fasc. 1, 111 e ss. 24 V., infra, Diseredazione e preterizione. 25 A. Cagliari-Sassari, 12 gennaio 1996, in Riv. giur. sarda, 1998, 1, con nota di Pinna Vistoso: «[l]a volontà di diseredazione non è incompatibile con quella diretta ad attribuire un determinato bene ad un soggetto rientrante nella categoria dei successibili ex lege, in quanto pur escludendo la diseredazione la possibilità per i parenti di succedere, nulla vieta al de cuius di attribuire un lascito ad uno di essi, senza che ciò implichi la volontà di chiamarlo a succedere in universum ius». 26 G. Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1968, 1182 e ss.; C. Ungari Trasatti, Rassegna di dottrina e giurisprudenza in tema di diseredazione, in Riv. not., 2013, 1311 e ss. 27 F. Miriello, op. loc. cit. Cfr. F. Toschi Vespasiani, F. Garia, La diseredazione ed il problema della validità di un testamento meramente negativo: tra tipicità dei contenuti e tipicità della funzione, in Studium iuris, 2005, 1216 e ss.
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mento, questo, condiviso solamente, al ricorrere di determinate condizioni, dalla giurisprudenza – soprattutto di merito – più recente28 e da parte della dottrina29. Se, per un verso, si potrebbe obiettare che siffatta clausola celerebbe in realtà una differente ipotesi di indegnità, non ancora tipizzata dal legislatore, per altro verso, (i) il testatore deve vedersi riconosciuta la più ampia capacità di testare; (ii) lo scopo che una disposizione di diseredazione mira a raggiungere è comunque ottenibile avvalendosi della preterizione; (iii) le ipotesi di indegnità a succedere non coincidono con quelle di diseredazione; (iv) la successione ex lege non può assolutamente essere considerata prevalente rispetto a quella testamentaria; (v) la scheda testamentaria è valida e ammissibile in particolare laddove da esso sia possibile derivare, avvalendosi di tecniche ermeneutiche specifiche, la chiara volontà del de cuius di nominare quali propri eredi i soggetti non esclusi dal documento di ultima volontà30.
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Cass., 25 maggio 2012, n. 8352, cit.; App. Firenze, 9 settembre 1954, in Giur. it., 1955, I, 2, c. 749 e ss., con nota di A. Trabucchi; App. Napoli, 21 maggio 1961, in Foro pad., 1962, I, c. 939 e ss.; App. Genova, 16 giugno 2000, in Giur. mer., 2001, 937 e ss., con nota di D. Morello di Giovanni («La clausola di diseredazione contenuta in un testamento è una disposizione negativa di contenuto atipico rispetto all’istituzione di erede o di legato, espressione della più generale autonomia negoziale del de cuius; se è sicura la validità della clausola quando contenga un’esplicita istituzione di erede, proprio dal riferimento all’autonomia negoziale del testatore discende l’affermazione di validità della clausola stessa, anche quando nella scheda testamentaria non sia contenuta alcuna disposizione positiva, non sussistendo alcun contrasto con il 1º comma dell’art. 587 c.c., per cui il testamento è l’atto con cui il soggetto dispone di tutte o di parte delle sue sostanze»); Trib. Parma, 3 maggio 1977, n. 277, in Riv. not., 1997, 89 e ss.; Trib. Catania, 21 febbraio 2000, in Giur. it., 2001, c. 70 e ss., con nota di E. Bergamo; Trib. Catania, 28 marzo 2000, in Giur. it., 2001, 70, con nota di Bergamo; in Giust. civ., 2001, I, 1110; in Giur. mer., 2001, 39; in Familia, 2001, 1210, con nota di C. Grassi («È valida come disposizione testamentaria, raccolta in testamento per atto di notaio, la volontà puramente discredativa, da cui consegna la successione dello stato ai sensi dell’art. 586 c.c.»). Contra, sia consentito rinviare a Cass., 20 giugno 1967, n. 1458, in Giust. civ., 1967, I, 2036, ove si legge che «[a]i sensi dell’art. 587 c.c., comma primo, il testatore può validamente escludere dall’eredità, in modo implicito o esplicito, un erede legittimo, purché non legittimario, a condizione, però, che la scheda testamentaria contenga anche disposizioni positive e cioè rivolte ad attribuire beni ereditari ad altri soggetti, nelle forme dell’istituzione di erede o di legato. È quindi nullo il testamento con il quale, senza altre disposizioni, si escluda il detto erede, diseredandolo. Peraltro, qualora dall’interpretazione della scheda testamentaria risulti che il de cuius, nel manifestare espressamente la volontà di diseredare un successibile, abbia implicitamente atteso attribuire, nel contempo, le proprie sostanze ad altri soggetti, il testamento deve essere ritenuto valido, contenendo una vera e propria valida disposizione positiva dei beni ereditari, la quale è sufficiente ad attribuire efficacia anche alla disposizione negativa della diseredazione». 29 G. Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi, cit., 1182 e ss.; L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, a cura di F. Galgano 1993, 95 e ss.; Id., Il testamento, 136 e ss.; M. Bin, op. cit., 1 e ss.; M. Corona, La c.d. diseredazione: riflessioni sulla disposizione testamentaria di esclusione, in Riv. not., 1992, 505 e ss.; P. Rescigno, Recensione a M. Bin, La diseredazione. Contributo allo studio del contenuto del testamento, in Riv. dir. civ., 1969, I, 95 e ss.; C. Saggio, Diseredazione e rappresentazione, in Vita not., 1983, 1788 e ss.; A. Trabucchi, Esclusione testamentaria degli eredi e diritto di rappresentazione, in Giur. it., 1955, I, 2, c. 749 e ss. e Id., L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, 39 e ss. Contra, G. Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2015, 198 e ss.; A. Cicu, Diseredazione e rappresentazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, 385 e ss.; L. Ferri, L’esclusione testamentaria di eredi, in Riv. dir. civ., 1941, 228 e ss.; Id., Se debba riconoscersi efficacia ad una volontà testamentaria di diseredazione, c. 47 e ss. e c. 52; L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 22 e ss.; F. Miriello, op. loc. cit.; A. Torrente, Diseredazione. Diritto vigente (voce), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 102 e ss. 30 Nella giurisprudenza di legittimità, Cass., 20 giugno 1967, n. 1458, cit.; Cass., 23 novembre 1982, n. 6339, in Foro it., 1983, I, 2, c. 1652, con nota di L. Di Lalla; in Mass. Foro it., 1982; (in essa «al pari della indegnità a succedere, non esclude la operatività della rappresentazione in favore dei discendenti del diseredato»); Cass., 18 giugno 1994, n. 5895, in Giur. it., 1995, I, 1, c. 1565, con nota di C. Cecere e in Corr. giur., 1994, 1498, con nota di L. Bigliazzi Geri («La volontà di diseredazione di alcuni successibili può valere a fare riconoscere una contestuale volontà di istituzione di tutti gli altri successibili non diseredati solo quando, dallo stesso tenore della manifestazione di volontà o dal tenore complessivo dell’atto che la contiene, risulti la effettiva esistenza della anzidetta autonoma positiva volontà del dichiarante, con la conseguenza che solo in tal caso è consentito ricercare, anche attraverso elementi esterni e diversi dallo scritto contenente la dichiarazione di diseredazione, l’effettivo contenuto della volontà di istituzione»); nella giurisprudenza di merito, Trib. Reggio Emilia 27 settembre 2000, in Vita not., 2001, 694, con nota di Cavandoli, in Not., 2000, 47 e ss., con nota di G. Porcelli («La volontà di diseredazione di alcuni dei successibili ex lege, quale unica volontà espressa dal de cuius,
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Coloro i quali ritengono inammissibile un testamento che rechi al suo interno una disposizione di diseredazione di un successore legittimo argomentano la propria posizione in ragione (i) del tenore letterale dell’art. 587, comma primo, c.c.31, in cui il verbo “disporre” implicitamente esclude la possibilità di un testamento recante soltanto disposizioni di diseredazione32; (ii) della impossibilità di individuare in essa una causa meritevole di tutela, in quanto essa rappresenta l’espressione di un rancore profondo nei riguardi dell’escluso33; (iii) dell’assenza di detta clausola dal novero delle disposizioni non patrimoniali che un testamento può contenere ex art. 587, comma secondo, c.c.34; della possibilità di avvalersi di istituzione di erede o di legati al fine di compiere specifiche attribuzioni patrimoniali35; (iv) della prevalenza della successione legittima rispetto a quella testamentaria36, nonché (v) della necessità di tutelare il nucleo familiare e preservarne i valori fondanti37. Inoltre, ammettere dette disposizioni condurrebbe all’inserimento di una ipotesi ulteriore rispetto a quelle elencate ai sensi dell’art. 463 c.c. in tema di indegnità a succedere, mentre esse debbono essere ritenute tassative38 e non ampliabili a situazioni di minore rilievo e gravità39. Al contrario, i convinti sostenitori della (preferibile) tesi circa l’ammissibilità del testamento che rechi al suo interno una disposizione di diseredazione di un successore legittimo ritengono (i) il tenore letterale del verbo “disporre” debba essere inteso in senso lato, quale sinonimo di “regolamentare”, ovvero atecnicamente, così come accade in re-
importa la nullità della disposizione, ne consegue l’apertura della successione legittima, ove non sia rinvenibile menzione di altri successibili o altra volontà positiva del testatore che possa essere interpretata al fine della conservazione del testamento.»), e in Vita not., 2001, I, 694 e ss., con nota di L. Cavandoli. Contra, Cass., 25 maggio 2012, n. 8352, cit. 31 V. E. Marmocchi, La definizione di testamento (art. 587 cod. civ.), in Riv. not., 2011, 731 e ss. 32 Detto articolo è stato oggetto di molteplici interpretazioni, di vario tenore. Taluni lo hanno inteso in senso formalistico e restrittivo, attribuendo al verbo ivi utilizzato una valenza tecnico-giuridica, così asserendo che il testatore debba limitarsi ad attribuire, ad assegnare, i propri beni a titolo di eredità o legato, configurando quindi «il contenuto tipico di quel tipico negozio formale e solenne che è il testamento» (Cass., 20 giugno 1967, n. 1458, cit. e, in dottrina, conformemente, C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, Milano, 1947, 31; G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano, 1954; F. Ricci, Corso teorico pratico di diritto civile, Torino, 1907, 217; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, 68, mentre, in senso difforme, V. Polacco, Delle successioni, Milano-Roma, 1937, 151 e ss.). Talaltri hanno invece preferito attribuire al negozio testamentario una valenza neutra, in quanto esso non infrequentemente non realizza una vera e propria attribuzione, come accade con le disposizioni a favore dell’anima, i divieti testamentari di divisione, quelli di cessione dell’usufrutto o di credito (cfr. L. Bigliazzi Geri, Il testamento, Milano, 1976, 42; M. Bin, op. cit., 227 e ss.; A. Liserre, Formalismo negoziale e testamento, Milano, 1966, 155 e ss.; G. Azzariti, Diseredazione ed esclusione d’eredi, cit., 1968, 1198 e ss. e G. Criscuoli, Il testamento: norme e casi, Padova, 1995, 129), che provano chiaramente come esso possa far luogo ad effetti liberali e gratificatori o meno. 33 Essa esprime infatti una “ferita morale”, la quale genera “un grave disonore per il diseredato, così L. Ferri, L’esclusione testamentaria di eredi, cit., 249. 34 La disposizione peraltro non può presentare carattere patrimoniale, come in C. Saggio, op. cit., 1792 e s. 35 G. Giampiccolo, op. cit., 317 e 326; F. Carresi, Autonomia privata nei contratti e negli altri atti giuridici, in Riv. dir. civ., 1957, I, 272. 36 È l’art. 457, comma secondo, c.c. a ritenere che la successione legittima deve rappresentare la regola operativa di default, derogabile unicamente al ricorrere di peculiari situazioni e avvalendosi di un testamento recante disposizioni tanto attributive quanto diseredative. 37 Vi è infatti una “istanza di pietà cristiana” che “si ribella” all’istituto della diseredazione, v. A.C. Jemolo, Gli occhiali del giurista. La diseredazione, in Riv. dir. civ., II, 1965, a 504. 38 L. Ferri, L’esclusione testamentaria di eredi, cit., 241 e s. La tassatività delle disposizioni non è negata nemmeno nei corpora normativi dei Paesi che ancora recano la clausola di diseredazione sulla scorta del contenuto della Novella 115 di Giustiniano. V., ampiamente, S. Kursa, La diseredazione nel diritto giustinianeo, Bari, 2012. 39 G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, Napoli, 1990, 37; A. Cicu, Diseredazione e rappresentazione, cit., 385; L. Ferri, L’esclusione testamentaria di eredi, cit., 232 e ss.
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lazione all’art. 587, comma secondo, c.c.40; (ii) anche laddove il verbo de quo venga letto in senso tecnico, assumendo così la connotazione giuridica che gli è propria, sia possibile esprimersi in senso negativo, ovvero “non disponendo” / “non attribuendo” a qualcuno i propri rapporti patrimoniali post mortem41; (iii) il testamento non si possa unicamente realizzare avvalendosi o di istituzione di erede o di legato, bensì anche utilizzando differenti modalità42; (iv) la disposizione di diseredazione sia perfettamente adattabile rispetto alla c.d. successione legittima, in quanto essa condurrebbe ad attribuire l’eredità ai soggetti non esclusi43; (v) la successione ab intestato non prevalga rispetto a quella testamentaria, instaurando la prima una relazione suppletiva e integrativa rispetto alla seconda44, tendenzialmente preferita dal legislatore, a patto che venga rispettato il principio di intangibilità della legittima a favore dei successori necessari, come provano l’art. 633 c.c., l’art. 647, comma terzo, c.c., secondo i quali condizione ed onere illecito od impossibile debbono essere considerati come non apposti ai sensi dell’art. 590 c.c.45, nonché (vi) concordi tra loro gli interessi di tutela dei valori familiari e di autonomia testamentaria del de cuius46, essendo entrambi finalizzati a garantire l’individuabilità di un erede47. Inoltre, dette disposizioni non potrebbero in alcun modo condurre all’introduzione di una nuova causa di indegnità a succedere, in quanto non è possibile confondere tra loro tali istituti, le cui conseguenze sono marcatamente differenti. Se infatti la diseredazione non può ledere la quota di legittima spettante ai successori necessari, i quali dispongono della c.d. azione di reintegrazione, l’indegnità a succedere può al contrario danneggiarli irreparabilmente48 al verificarsi di circostanze oggettivamente valutabili, enucleate all’art. 463 c.c.49 In ottica
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M. Bin, op. cit., 241. L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., 138 e s. V. anche F. Daria, F. Toschi Vespasiani, La diseredazione ed il problema della validità di un testamento meramente negativo: tra tipicità dei contenuti e tipicità della funzione, in Studium iuris, 2005, 1216 e ss. 42 A. Gazzanti Pugliese di Cotrone, La successione per causa di morte, Torino, 2009, 83; V. Porrello, La clausola di diseredazione, in Dir. fam., 2008, 980 e ss. Ciò risulterebbe persino dal valore letterale del termine “testatio mentis” (“testamentum ex eo appellatur, quod testatio mentis est”), v. Iust., Institutiones, 2.10. Cfr. S. Delle Monache, Il testamento. Disposizioni generali, in P. Schlesinger (fondato da), F.D. Busnelli (diretto da) Cod. civ. comm., Milano, 2005, 137 e A. Palazzo, Osservazioni sulla centralità del testamento, in Dir. priv., 1998, 5 e ss. 43 La disposizione di diseredazione realizzerebbe infatti un concorso tra due tipologie di successione, laddove la testamentaria condurrebbe all’esclusione di un erede legittimo e la legittima regolerebbe invece la devoluzione dell’eredità, come precisato in G. Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi, cit., 1194 e ss. 44 Per tutti, L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 6. 45 Cfr. L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., 17 e ss.; M. Bin, op. cit., 88 e ss.; G. Cattaneo, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in P. Rescigno (diretto da) Tratt. dir. priv., vol. V, tomo I, Successioni, Torino, 1997, 487 e ss.; L. Ferri, Successioni in generale, in Comm. Scialoja - Branca, libro II, Bologna-Roma, 1980, 79 e ss. 46 La diseredazione permetterebbe infatti di «rendere più consistente l’acquisto dei non diseredati, a ragione d’un genuino affetto verso i medesimi», così G. Bonilini, Disposizione di diseredazione accompagnata da disposizione modale, in Fam. pers. succ., 2007, 715 e, nello stesso senso, sia D. Morello di Giovanni, Clausola di diseredazione e autonomia negoziale del disponente, in Giur. mer., 2001, II, 938; R. Cimmino, Diseredazione e ricostruzione causale del negozio testamentario. Nota a Cass., 25 maggio 2012, n. 8352, in Not., 2013, 24 e ss. e, similmente, Id., La diseredazione tra evoluzione dottrinale e nuovi approdi giurisprudenziali, cit., 561. 47 G. Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi, cit., 1195 e, nel medesimo senso, L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, cit., 13. 48 P. Rescigno, Successioni e donazioni, Padova, 1994, I, 652. 49 P. Boero, Il testamento, in R. Calvo, G. Perlingieri (diretto da) Diritto delle successioni, Napoli, 2009, 679; A. Gazzanti Pugliese di Cotrone, cit., 83; G. Pfnister, La clausola di diseredazione, in Riv. not., 2000, 913 e ss. e L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, cit., 95. V., infra, “Diseredazione ed indegnità a succedere”.
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sistematica, rilevano peraltro due ulteriori precisazioni. Da un lato, si sottolinea come il codice non presenti alcuna norma che vieti chiaramente il ricorso ad una disposizione siffatta e, a fortiori, che esso ammetta la preterizione, mediante la quale il testatore può disporre dei propri beni direttamente a favore di alcuni soggetti, così escludendone altri e raggiungendo il medesimo fine cui condurrebbe una espressa disposizione di diseredazione di uno o più successibili ex lege50. Dall’altro, si pone l’accento sul fatto che manifestazioni di volontà non attributive risultano legittime nel momento in cui si intende revocare un testamento ai sensi dell’art. 680 c.c., escludendo quindi potenziali eredi legittimi51. Minoritaria, invece, la dottrina che ha classificato la disposizione di diseredazione in guisa di un assegno divisionale semplice indiretto, strumento che il testatore può utilizzare al fine di escludere parzialmente dalla successione un potenziale erede legittimo, cui non attribuire quindi singoli beni ereditari. La diseredazione vera e propria non è però limitata a taluni beni, essa comporterebbe conseguenze più forti e quantitativamente ingenti: l’esclusione dall’intera successione52. Non solo: la diseredazione vera e propria produrrebbe l’effetto di escludere il non legittimario dalla successione tanto nei rapporti passivi quanto attivi del testatore53, non potrebbe privare il soggetto della porzione di taluni beni. Detta tesi è tuttavia attaccabile sulla base del fatto che la configurabilità di un assegno divisionale semplice indiretto presuppone la formazione di una c.d. comunione ereditaria, che non comprenderebbe il diseredato ovvero lo “escluderebbe”54 in sede di distribuzione del patrimonio ereditario, non assegnandogli beni ereditari, violando l’art. 733, comma primo, c.c.55 Pertanto si ritiene ragionevole sostenere la validità di un testamento rispetto al quale, pur includendo siffatta disposizione, non vengano provati né contrasto con norme imperative, ordine pubblico56 o buon costume57, né motivo illecito determinante, né incapacità naturale del testatore. Se, invero, da un lato, il testatore è portatore della facoltà di diseredare tutti i propri
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P. Boero, op. cit., 680 e, in senso conforme, cfr. M. Bin, op. cit., 218 e A. Gazzanti Pugliese di Cotrone, op. cit., 81 e ss. Negare la ammissibilità di una disposizione di diseredazione potrebbe infatti erroneamente condurre alla asserzione per cui un testamento che, senza avvalersi di disposizioni attributive, revochi disposizioni testamentarie precedenti debba considerarsi nullo. V. G. Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi, cit., 1200 e s. 52 D. Russo, La diseredazione, Torino, 1998, spec. a 173 e nota 168. Ovviamente, le conseguenze sarebbero perfettamente identiche nell’unico caso in cui l’assegno divisionale comprendesse tutti i beni di cui si compone il patrimonio ereditario. 53 M. Corona, Funzione del testamento e riconducibilità della disposizione di esclusione del successibile ex lege (non legittimario) all’assegno divisionale semplice c.d. indiretto, cit., 53 e ss.; Id., La c.d. diseredazione: riflessi sulla disposizione testamentaria di esclusione, cit., 532 e ss. 54 È chiaro che «se il problema si potesse porre in termini esclusivi di riconoscimento dell’atto di autonomia si dovrebbe ammettere la rilevanza della diseredazione, a meno di non voler sostenere che qui operi da limite alla determinazione negoziale proprio la preesistenza di quella situazione giuridicamente irrilevante sulla quale per definizione il testamento è destinato ad operare. D’altronde, se l’effetto successorio fosse pur esso riferibile alla determinazione volitiva del testatore, sarebbe coerente affermare l’operatività anche laddove in ipotesi faccia difetto una volontà positivamente rivolta al contenuto dell’attribuzione», N. Lipari, Autonomia privata e testamento, Milano, 1970, 240. 55 Non si realizzerebbe, infatti, una corrispondenza tra la porzione di beni assegnata (nulla per il soggetto diseredato) e la quota astratta spettante all’escluso, così F. Corsini, Appunti sulla diseredazione, in Riv. not., 1996, 1093 e ss., a 1112 e nota 47. 56 D. Russo, op. cit., 195. 57 A. Gazzanti Pugliese di Cotrone, op. cit., 81; M. Bin, op. cit., 214 e ss. e L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., 140. 51
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successori ab intestato, tranne lo Stato58, dall’altro, egli non ha la facoltà di escludere dalla successione tutti i propri successibili ex lege, compreso lo Stato. In altre parole, «[a]i sensi dell’art. 587, comma 1, c.c., il testatore può validamente escludere dall’eredità, in modo implicito o esplicito, un erede legittimo, purché non legittimario, a condizione però che la scheda testamentaria contenga anche disposizioni positive, rivolte cioè ad attribuire beni ereditari ad altri soggetti, nella forma dell’istituzione di erede o del legato. È quindi nullo, per illiceità della causa, il testamento con il quale il de cuius diseredi tutti i suoi parenti (non legittimari) di ogni ordine e grado, qualora dall’interpretazione della scheda testamentaria non risulti che il testatore, nel manifestare espressamente la volontà di diseredare i suoi successibili, abbia inteso, anche implicitamente, attribuire, nel contempo, le proprie sostanze allo Stato»59. Da ultimo, rileva la posizione di parte della dottrina60 e della giurisprudenza di legittimità61, espressasi nel senso di ritenere la presenza di una disposizione di diseredazione leggibile in guisa di una norma attributiva, di una implicita volontà positiva, come asserito anche dal brocardo francese exclure c’est instituer62. Una considerazione, questa, che se per un verso muove dall’intenzione di recuperare la volontà testamentaria del de cuius63
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«È valida come disposizione testamentaria, accolta in testamento per atto di notaio, la volontà puramente diseredativa, da cui consegua la successione dello Stato ai sensi dell’art. 586 c.c.», così, in giurisprudenza, Trib. Catania, 28 marzo 2000, 1110 e, in dottrina, F. Corsini, op. cit., 1120 e nota 67. 59 App. Catania, 28 maggio 2003, in Giur. mer., 2005, I, 274, con nota di L. Barreca e in Giust. civ., 2003, 1913 e ss. («Qualora il de cuius abbia espresso in un testamento la volontà di revocare ogni sua precedente disposizione testamentaria e di diseredare tutti i suoi parenti (non legittimari), quest’ultima disposizione deve ritenersi nulla, per illiceità della causa, non essendo ammessa dall’art. 587, 1º comma, c.c. la mera diseredazione, qualora dall’interpretazione della scheda testamentaria non risulti che il testatore abbia al contempo inteso, ancorché implicitamente, chiamare a succedergli lo stato; ma tale nullità non comporta la nullità dell’intero negozio, e quindi non si estende alla disposizione di revoca dell’istituzione di erede contenuta nel precedente testamento, a meno che risulti che il suo autore avrebbe voluto mantenerla ferma se avesse avuto consapevolezza della nullità della diseredazione») 60 F. Santoro Passarelli, Vocazione legale e vocazione testamentaria, in Riv. dir. civ., 1942, 200 e nota 27; A. Pino, L’esclusione testamentaria dalla successione legittima, Roma, 1955, 21 e A. Torrente, op. cit., 102 e s. 61 In giurisprudenza, Cass., 20 giugno 1967, n. 1458, cit. («Ai sensi dell’art. 587, primo comma, c.c., il testatore può validamente escludere dall’eredità, in modo implicito o esplicito, un erede legittimo, purché non legittimario, a condizione, però, che la scheda testamentaria contenga anche disposizioni positive e cioè rivolte ad attribuire beni ereditari ad altri soggetti, nella forma dell’istituzione di erede o del legato. È, quindi, nullo il testamento con il quale, senza altre disposizioni, si esclude il detto erede dalla successione, diseredandolo [anche M. Galgani, Sulla nullità della clausola di diseredazione contenuta nel testamento, in Foro it., 2012, I, 3407 e ss.]. Peraltro, qualora dall’interpretazione della scheda testamentaria risulti che il de cuius, nel manifestare espressamente la volontà di diseredare un successibile, abbia implicitamente inteso attribuire, nel contempo, le proprie sostanze ad altri soggetti, il testamento deve essere ritenuto valido nella sua totalità, contenendo una vera e propria valida disposizione positiva dei beni ereditari, la quale è sufficiente ad attribuire efficacia anche alla disposizione negativa della diseredazione»); Cass., 23 novembre 1982, n. 6339, cit.; Cass., 18 giugno 1994, n. 5895, cit. e App. Cagliari, 5 dicembre 1990, n. 302, in Riv. giur. sarda, 1992, 27 («La disposizione testamentaria mediante la quale il testatore esclude dalla propria successione alcuni eredi legittimi non legittimari è valida se dall’interpretazione del testamento risulta la volontà implicita del disponente di istituire eredi gli altri successibili ex lege»). 62 M. Bin, op. cit., 16 e ss. 63 F. Vitale, Volontà testamentaria e diseredazione, in Monitore dei tribunali, 1974, 712 e ss. Secondo giurisprudenza minoritaria, sostenuta alla luce del disposto dell’art. 1362 c.c., è assunta dai giudici di legittimità in Cass., 21 febbraio 2007, n. 4022, in Mass. Giust. Civ., 2007, c. 2 e ss., essa può essere derivata interpretando l’intenzione del testatore in modo coordinato attraverso tanto intrinseci elementi negoziali quanto ulteriori comportamenti fattuali post testamentum. Non si tratta tuttavia di una posizione ampiamente condivisa. Al contrario, sia in giurisprudenza (Cass., 18 giugno 1994, n. 5895, cit., c. 1564, ove si sottolinea come «[l]a volontà di diseredazione di alcuni successibili [possa] far riconoscere una contestuale volontà di istituzione di tutti gli altri successibili solo quando, dallo stesso tenore della manifestazione di volontà o dal tenore complessivo dell’atto che la contiene, risulti l’effettiva esistenza della anzidetta
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(anche ove incerta)64 laddove egli, pur non esprimendosi in senso positivo nei confronti di taluni successibili, abbia però inteso escludere chiaramente un successore legittimo, per altro verso, secondo altri A., non può essere ritenuta “in re ipsa giusta” in nome della «vecchia massima francese exclure c’est instituer, fondata sopra una finzione: essa deve essere provata con l’ausilio dei mezzi normali di acclaramento della volontà negoziale»65. Una disposizione di diseredazione, infatti, presenterebbe un contenuto positivo implicito e tacito, determinabile per relationem66, in quanto l’istituzione dei soggetti non diseredati sarebbe determinata mediante rinvio alle norme di legge che regolano la successione. Detto rinvio assumerebbe il carattere di rinvio c.d. formale, che necessita dunque di una mera attività di cognizione67, nel caso in cui il testatore fosse consapevole dell’implicito rinvio che la sua disposizione compie nei confronti della disciplina legale da utilizzare per determinare con precisione il successore; ovvero il carattere di rinvio c.d. sostanziale, nel caso in cui egli non fosse a conoscenza della disciplina legale da applicarsi68. Autorevole dottrina ritiene che, prevalendo l’intenzione del testatore di escludere un determinato soggetto69 rispetto a quella di attribuire a taluni il proprio patrimonio post mortem, il rinvio sia da ritenere sostanziale. Appare però difficile comprendere se, conseguentemente alla diseredazione, l’eredità debba essere devoluta ai soggetti secondo le norme della successione legittima70, ovvero di quella testamentaria71, in favore dei soggetti non esclusi. Sebbene la seconda opzione paia dotata di maggiore coerenza intrinseca72, la giurisprudenza sia di merito73 sia di legittimità74 ha preferito la prima opzione.
autonoma positiva volontà del dichiarante, con la conseguenza che solo in tal caso è consentito ricercare, anche attraverso elementi esterni e diversi dallo scritto contenente la dichiarazione di diseredazione, l’effettivo contenuto della volontà di istituzione») sia in dottrina (P. Trimarchi, Interpretazione del testamento mediante elementi ad esso estranei, in Giur. it., 1956, I, 1, c. 445 e ss. e M. Quargnolo, Pluralità di testamenti, revoca per incompatibilità e interpretazione, in Riv. dir. civ., 2004, I, 913 e ss.) si registrano voci che hanno sottolineato come l’utilizzo di elementi interpretativi estrinseci non sia ammissibile al fine di chiarire la volontà del testatore. Il ruolo della volontà testamentaria è precisato in G. Notari, Volontà testamentaria e diseredazione, in Riv. not., 1957, 109 e ss. 64 D. Morello di Giovanni, Brevi cenni sul tema della diseredazione, in Vita not., 1999, 1084 e ss., spec. a 1093, ove l’A. riconsidera la decisione della citata Cass., 18 giugno 1994, n. 5895, cit., che asserisce la validità del testamento anche in presenza di una incerta volontà del testatore, così conservando il negozio giuridico. 65 L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 24 e, nel medesimo senso, D. Russo, op. cit., 23 e ss. 66 Per tutti, v. V. Porrello, op. cit., 990. M. Ieva, Manuale di tecnica testamentaria, Padova, 1196, 28; M. Ieva, La successione testamentaria, in Le successioni e le donazioni, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, II, Milano, 2009, 128. V., di recente, anche A. Spatuzzi, Il fenomeno della relatio nell’eterointegrazione del testamento, in Not., 2015 160 e ss. 67 G. Capozzi, op. cit., 711. 68 M. Bin, op. cit., 20 e ss. 69 Per approfondimenti redazionali, sul punto, si rinvia a M. Ieva, Manuale di tecnica testamentaria, cit., 27 e ss. 70 La disposizione di diseredazione «non si limita a indicare nella legge una fonte estrinseca cui sia affidato solo il compito di designare i termini dell’attribuzione, bensì contiene un rinvio all’intero regolamento legale della successione», così L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 24 e s. Cfr., in dottrina, N. Lipari, op. cit., 239 e ss. e L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, cit., 98. In senso concorde, in giurisprudenza, cfr. Trib. Nuoro, 15 settembre 1989, n. 359, in Riv. giur. sarda, 1991, 389, con nota di F.M. Bandiera; Trib. Reggio Emilia, 27 settembre 2000, cit.; Cass., 18 giugno 1994, n. 5895, cit. 71 In dottrina, M. Bin, op. cit., 27 e 135 e, in giurisprudenza, Cass., 20 giugno 1967, n. 1458, cit. 72 R. Cimmino, Diseredazione e ricostruzione causale del negozio testamentario, cit., 33. 73 Trib. Reggio Emilia, 27 settembre 2000, cit. 74 Cass., 18 giugno 1994, n. 5895, cit.
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Laddove la normativa in tema di successione legittima venisse mutata nel lasso di tempo intercorrente tra la data del testamento e la morte del de cuius, dovrebbero ritenersi applicabili le norme in vigore al momento dell’apertura della successione. Laddove, invece, si ritenesse applicabile la normativa in tema di successione testamentaria, risulterebbe imprescindibile interpretare la volontà del de cuius nel senso di ritenere applicabili le disposizioni vigenti al tempo in cui la scheda testamentaria è stata elaborata, ovvero in cui la successione è stata aperta, opzione preferibile ai sensi dell’art. 1367 c.c.75. Ritenuta “ibrida e inappagante” da parte di molteplici A.76, la teoria della istituzione implicita77 è stata considerata una soluzione di compromesso78, sebbene talune perplessità esposte risultino perfettamente ammissibili. Infatti, per un verso, formulare una clausola nella quale si intende disporre delle proprie sostanze “come per legge” sine dubio risulta giuridicamente rilevante ed efficace79, «valido, e, cioè, perfettamente ammissibile, non inutile ma produttivo degli stessi effetti di qualsiasi altro testamento»80; per altro verso, formulare una clausola di diseredazione non può coincidere con l’elaborare una clausola che attribuisca a specifici soggetti i beni81, anche in ragione del fatto che l’animus di diseredazione da parte del testatore non può coincidere con quello di attribuzione del patrimonio ereditario82 e che in tal caso si potrebbero applicare tanto la successione ab intestato quanto quella testamentaria83. Peraltro, la chiamata all’eredità del soggetto cui dovrebbe essere attribuita l’eredità in conseguenza della clausola di diseredazione impossibilitato ad accettare l’eredità risulterebbe evento condizionante l’efficacia della voluntas excludendi espressa dal testatore84: in altre parole «[s]e […] la disposizione d’esclusione fosse puramente implicita istituzione, l’efficacia della clausola diseredativa sarebbe ovviamente condizionata alla persistenza e attuazione dell’istituzione ad essa compenetrata; e, date le premesse, in qualsiasi caso di caducità dell’implicita chiamata, l’intera disposizione dovrebbe perdere effetto»85. La disposizione diseredativa, come recentemente asserito dalla Suprema Corte nel revi-
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G. Capozzi, op. cit., 712. L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, cit., 96 e Id., Il testamento, cit., 137 e s. 77 Ampiamente, R. Cimmino, La diseredazione tra evoluzione dottrinale e nuovi approdi giurisprudenziali, cit., 565 e s. 78 M. Bin, op. cit., 18 e ss.; P. Boero, op. cit., 679; G. Bonilini, Antonio Cicu e il diritto successorio, in Riv. trim, dir. proc. civ., 2014, 821; V. Porrello, op. cit., 980 e ss.; F. Corsini, op. cit., 1105; L. Ferri, cit., 244 e ss. e Id., Se debba riconoscersi efficacia a una volontà testamentaria di diseredazione, c. 52 e ss. 79 Contra, F. Santoro Passarelli, op. cit., 202 e R. Nicolò, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, 23 e s. 80 Cass., 20 giugno 1967, n. 1458, cit. 81 Una simile operazione realizzerebbe invero un “artifizio logico-interpretativo” non allineato con il disposto dell’art. 628 c.c., in quanto il successore non verrebbe precisamente determinato, v. M. Bin, op. cit., 23 e 27 e nota 41; G. Capozzi, op. cit., 136 e L. Ferri, cit., 244 e ss. 82 C. Saggio, op. cit., spec. a 1791 e F. Corsini, op. cit., 1103. 83 Nella giurisprudenza di merito, Trib. Reggio Emilia, 27 settembre 2000, cit., e, in quella di legittimità, Cass., 18 giugno 1994, n. 5895, cit. 84 Sulla c.d. “diseredazione espressa”, v. le annotazioni di F. Caputo, G. Del Giudice, Il contenuto del testamento apre le porte alla diseredazione espressa, in Gazzetta forense, 2013, fasc. 2, 13. 85 M. Bin, op. cit., 28 e s. 76
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rement del 25 maggio 201286 in forza della rilettura dell’art. 587 c.c. e del rigetto della teoria della istituzione implicita dei soggetti non esclusi dalla scheda testamentaria87, è perfettamente autonoma rispetto alla parte restante della scheda testamentaria; pur ove meramente ablativa e destitutiva, ossia in assenza di disposizione espressamente attributiva88. Detta lettura tenta infatti di valorizzare la volontà del de cuius quanto più possibile, nella piena convinzione che si debba attribuire rilievo sommo al principio tale per cui voluntas testantis magis spectanda est, «principio che permea l’intera materia successoria»89. Di qui, il tentativo di individuare in ogni caso una volontà positiva90, tanto nell’eventualità in cui i beni vengano espressamente attribuiti al successore quanto nell’eventualità in cui «(tramite una disposizione negativa) esistano […] altri soggetti che, di fatto e non perché implicitamente indicati, da tale esclusione traggano beneficio», dato che «un “non volere” di tal fatta equivale non all’assenza di un’idonea manifestazione di volontà, da cui si volesse far derivare l’invalidità della clausola di esclusione, bensì alla manifestazione di una precisa volontà, dove quel che cambia, rispetto ad una dichiarazione di “volere”, è il contenuto: che non è positivo ma, appunto, negativo. Insomma, una disposizione positiva, pur nella sua negatività»91,92. 2.1.1. Clausole diseredative: institutio ex re certa, istituzione pro quota, istituzione di un successibile per legge e revoca di una precedente disposizione attributiva.
Sebbene non configurabili in guisa di vere e proprie disposizioni di diseredazione, talune clausole hanno la funzione di escludere dalla successione un erede legittimo, così come accade mediante la disposizione di diseredazione93. Anzitutto, secondo un Autore94, sia l’institutio ex re certa sia l’istituzione pro quota equivarrebbero ad una esclusione dalla successione ab intestato di un successibile per i beni in relazione ai quali non è stato disposto testamento, ad esempio in ragione del fatto che i medesimi sono entrati a far parte del patrimonio del testatore nel periodo di tempo successivo alla redazione del documento di ultima volontà. Pur tuttavia, ponendo mente
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B. Caliendo, La diseredazione, in Aa.Vv., Studi in onore di Giancarlo Laurini, Napoli, 2015, 307. M. Di Fabio, In tema di diseredazione (anche) del legittimario, (Nota a Cass. civ., sez. II, 25 maggio 2012, n. 8352, Cangiano c. Bongiovanni), in Riv. not., 2012, 1228 e ss. 88 Cass., 25 maggio 2012, n. 8352, cit., conformemente ad altre decisioni già assunte dalla giurisprudenza di merito, Trib. Nuoro, 15 settembre 1989, n. 359, cit., 389; Trib. Catania, 21 febbraio 2000, cit.; Trib. Catania, 8 marzo 2000, cit. e App. Genova, 16 giugno 2000, cit. Contra, Cass., 20 giugno 1967, n. 1458, cit.; Cass., 23 novembre 1982, n. 6339, cit. e Cass., 18 giugno 1994, n. 5895, cit. 89 M. Fusco, È valida la clausola di diseredazione meramente negativa, in Giur. it., 2013, 315 e ss., a 316. 90 G. Bonilini, Disposizione di diseredazione accompagnata da disposizione modale, cit., a 717; M. Moretti, Le disposizioni testamentarie. La diseredazione, cit., 268; C. Ungari Trasatti, Rassegna di dottrina e giurisprudenza in tema di diseredazione, cit., 324. 91 L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, cit., 97 e ss. (corsivo aggiunto), in senso concorde, M. Fusco, op. loc. cit. 92 In altre parole, anche ove «risolventesi in una dichiarazione puramente negativa di esclusione della successione di taluni eredi legittimi [detta disposizione sarebbe valida e laddove] esauris[se] l’intero contenuto del testamento, si apr[irebbe] la successione legittima in favore dei non diseredati», così Trib. Nuoro, 15 settembre 1989, n. 359, cit., 389 e, in dottrina, M.C. Tatarano, Il testamento, in P. Perlingieri (diretto da) Tratt. dir. civ. del Consiglio Nazionale del Notariato, Napoli, 2004, a 4. 93 Cfr. A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, cit., 60 e ss. e M. Bin, op. cit., 263 e ss. 94 C. Gangi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. II, Milano, 1964, 11. 87
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alla realtà fattuale del caso di specie e alla precipua volontà del de cuius95, parrebbe opportuno devolvere detti beni, a prescindere da eventuali ulteriori attribuzioni di cui essi abbiano beneficiato, agli eredi legittimi del defunto96. Inoltre, si potrebbe avere una implicita diseredazione del successibile ex lege in assenza di una vera e propria condizione sospensiva o risolutiva, ovvero di mancato avveramento della medesima. Infine, detto risultato potrebbe essere raggiunto revocando una disposizione dal carattere squisitamente attributivo97. La situazione verrebbe però complicata nel caso in cui l’applicazione della disciplina della successione legittima inducesse a ritenere successore proprio il soggetto revocato: secondo parte della dottrina98, nel caso in cui egli fosse successibile di grado successivo al primo, nell’interpretare la scheda testamentaria, massima attenzione dovrebbe prestarsi alla volontà del testatore che abbia inteso accordare alla persona istituita sotto condizione sospensiva, nel caso in cui essa si fosse verificata, una preferenza rispetto ai successibili di grado precedente, senza però intendere con ciò diseredarlo nel caso in cui essa non si fosse realizzata. Secondo altra parte della dottrina99, invece, attraverso la revocazione si realizzerebbe unicamente la paralisi della successione del soggetto precedentemente istituito nel rispetto delle disposizioni testamentarie, non potendosi invero impedire, in assenza di una volontà testamentaria precisa ed esplicita, che il medesimo succeda al de cuius in forza del titolo legale. L’indegnità a succedere costituisce, al pari della diseredazione, una c.d. rimozione dall’eredità: un carattere, dal rilievo notevole, che rende tra loro affini (seppur non perfettamente sovrapponibili)100 l’istituto della diseredazione e dell’indegnità a succedere, già oggetto di disamina per parte di autorevoli AA.101.
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Naturalmente, in assenza di un saldo riferimento alla volontà effettiva del de cuius, non potendo determinare con certezza la sua volontà, non si potrebbe ritenere questa clausola una vera e propria “disposizione diseredativa implicita”, come sottolineato, in dottrina, da F. Corsini, op. cit., 1122 e ss. 96 In giurisprudenza, Cass., 9 febbraio 1977, n. 574, in Rep. Foro it., 1977, Successione ereditaria (voce), n. 44; in dottrina, F. Miriello, op. loc. cit. 97 In argomento, G. Bonilini, Diseredazione revocante la precedente istituzione a successore?, in Dir. successioni e della famiglia, 2016, 941 e ss. 98 G. Pfnister, op. cit., 913 e ss. 99 In tal senso, cfr. A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, cit., 57; C. Ungari Trasatti, Rassegna di dottrina e giurisprudenza in tema di diseredazione, cit., 1311 e D. Russo, op. cit., 190 e s. 100 «L’argomento basato sulle cause di indegnità tassativamente previste dal legislatore, è facilmente confutabile facendo attenzione alle differenze dei due istituti, fondamentale quella inerente ai soggetti destinatari: l’indegnità, al contrario della diseredazione, è capace di incidere anche sui diritti dei legittimari; in secondo luogo i due istituti hanno un diverso fondamento: l’indegnità trova il suo presupposto in “fatti” oggettivamente considerati, mentre la diseredazione può nascere da svariate circostanze soggettive che scaturiscono la volontà del de cuius di escludere un determinato soggetto dalla sua successione. Per completezza di esposizione, si ritiene opportuno accennare altresì che neanche il requisito della patrimonialità delle disposizioni testamentarie è requisito idoneo ad escludere la validità della clausola di diseredazione. Il testatore che dichiari di escludere dalla propria successione taluno dei propri successibili ex lege, decide in ogni caso della destinazione dei propri interessi patrimoniali, e quindi il requisito della patrimonialità, previsto dal comma 1 dell’art. 587, risulta rispettato, con piena validità della disposizione diseredativa», in G. Torregrossa, Nota in tema di diseredazione. Nota a Cass., 25 maggio 2012, n. 8352, in Giur. it., 2012, 12 e ss. e note 20-21. 101 G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 45 e ss.; A. Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale
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Anzitutto, ai sensi dell’art. 463 c.c., il successore è da ritenersi indegno al ricorrere di determinate circostanze, tassativamente previste e non analogicamente ampliabili102. È infatti definito “indegno” e, in quanto tale, escluso dalla successione come conferma anche il brocardo “indigno aufertur hereditas”, «1) chi ha volontariamente ucciso o tentato di uccidere la persona della cui successione si tratta, o il coniuge, o un discendente, o un ascendente della medesima, purché non ricorra alcuna delle cause che escludono la punibilità a norma della legge penale; 2) chi ha commesso, in danno di una di tali persone, un fatto al quale la legge [penale] dichiara applicabili le disposizioni sull’omicidio; 3) chi ha denunziato una di tali persone per reato punibile [con la morte], con l’ergastolo o con la reclusione per un tempo non inferiore nel minimo a tre anni, se la denunzia è stata dichiarata calunniosa in giudizio penale; ovvero ha testimoniato contro le persone medesime imputate dei predetti reati, se la testimonianza è stata dichiarata, nei confronti di lui, falsa in giudizio penale; 3-bis) chi, essendo decaduto dalla potestà genitoriale nei confronti della persona della cui successione si tratta a norma dell’art. 330, non è stato reintegrato nella potestà alla data di apertura della successione medesima; 4) chi ha indotto con dolo o violenza la persona, della cui successione si tratta, a fare, revocare o mutare il testamento, o ne l’ha impedita; 5) chi ha soppresso, celato, o alterato il testamento dal quale la successione sarebbe stata regolata; 6) chi ha formato un testamento falso o ne ha fatto scientemente uso»103. Sebbene non sia giuridicamente qualificabile con assoluta certezza104, l’indegnità a succedere, il cui rilievo nell’ambito del diritto successorio è confermato dall’attenzione che a detto istituto è stata riservata sin dal diritto romano105, è da classificarsi quale (preferibile) ipotesi di esclusione della successione non suscettibile di riabilitazione alcuna106, per un
Delazione e acquisto dell’eredità, Milano, 1954, 80 e ss.; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., 34 e ss.; G. Capozzi, op. cit., 186; M. Comporti, Riflessioni in tema di autonomia testamentaria, tutela dei legittimari, indegnità a succedere e diseredazione, cit., 27 e ss. In giurisprudenza assume sicuro rilievo la decisione di merito che ne conferma la ammissibilità anche al ricorrere di cause di indegnità non espressamente riportate ai sensi dell’art. 463 c.c., v. Trib. Santa Maria Capua Vetere, 25 maggio 1960, in Foro pad., 1961, I, 369. 102 Cfr. A. Natale, L’indegnità a succedere, in G. Bonilini (diretto da) Tratt. dir. succ. e donaz., I, Milano, 2009, a 938 e nota 6. 103 Ampiamente, cfr. C. Ruperto, Indegnità a succedere, in Enc. giur. Treccani, vol. XVI, Roma, 1989, 2; S.T. Masucci, Le successioni mortis causa in generale, in N. Lipari, P. Rescigno (diretto da) Le successioni e le donazioni, vol. II, Milano, 2009, 37 e A. Auriccio, Sul fondamento dell’indegnità a succedere, in Foro it., 1955, I, c. 1187 e ss. 104 D. Barbero, Natura giuridica dell’indegnità a succedere, in Foro pad., 1950, I, c. 843 e ss. 105 V. M.C. Tatarano, op. cit., 9 e ss. ed E. Nardo, Indegnità (diritto romano), in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1962, 592 e ss. 106 Sia consentito rinviare, in dottrina, a C. Ruperto, op. cit., 1 e ss.; G. Capozzi, op. cit., 994 e 179 e ss. (nuova edizione); L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, Napoli, 2011, 97; L. Salis, Indegnità a succedere, in Riv. trim dir. proc. civ., 1957, 928; P. Rescigno, Successioni e donazioni, cit., 129 e ss.; L. Barassi, op. cit., 61 e ss.; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., 37; in giurisprudenza, Cass., 23 novembre 1962, n. 3171, in Foro it., 1962, I, 2056; Cass., 17 luglio 1974, n. 2145, in Giur. it., 1976, I, 1944; Cass., 16 febbraio 2005, n. 3095, in Fam. pers. succ., 2005, 141; Cass., 29 marzo 2006, n. 7266, in Giust. civ., 2007, 939.
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verso, ovvero quale forma di incapacità a succedere107, per altro verso108. Più precisamente, coloro i quali sostengono la prima tesi ritengono che gli effetti della delazione debbano essere caducati dal momento dell’apertura della successione in forza del tenore letterale dell’art. 463 c.c., dell’impianto sistematico che disciplina i due istituti della indegnità e incapacità a succedere servendosi di norme differenti109 e dell’applicabilità anche nel panorama attuale del brocardo romanistico indignus potest capere sed non potest retinere110. Di qui, la prescrittibilità decennale dell’azione diretta a rilevare l’indegnità e la natura costitutiva della sentenza che ne afferma l’indegnità. Tra i sostenitori della seconda ipotesi, ivi profilata, invece, taluni ritengono che, in forza dell’espressione “è escluso”, di cui all’art. 463 c.c., dalla commissione di un atto deprecabile discenda direttamente e ineluttabilmente l’esclusione dall’eredità, talaltri affermano invece che, in forza degli artt. 464 e 466 c.c.111, il soggetto non riabilitato debba ritenersi ab origine incapace a succedere. Per quanto riguarda invece la diseredazione, generata da una serie di ragioni di natura squisitamente soggettiva112 e posta a tutela di un interesse di natura privatistica113, è opportuno sottolineare come essa non sia però prevista da una disposizione di legge e non offra ai successibili necessari cui è applicata strumento alcuno di reintegrazione nella legittima114. Mentre la maggior parte degli ordinamenti ha mantenuto la ripartizione tipica del diritto romano115, secondo la quale esiste tanto l’istituto della indegnità a succedere quanto quello della diseredazione, quello italiano e quello francese116 hanno inteso mantenere il
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In argomento, cfr. U. Natoli, L’amministrazione dei beni ereditari, Milano, 1968-1969, 130; G. Prestipino, Delle successioni in generale, in V. De Martino (diretto da) Comm. cod. civ., Novara, 1982, 116; A. Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell’eredità, cit., 80; G. Grosso, A. Burdese, Le successioni. Parte generale, in F. Vassalli (diretto da) Tratt. dir. civ. it., XII, Torino, 1977, 101 e ss.; L. Ferri, Successioni in generale, 159 e ss. 108 Ragioni di completezza impongono tuttavia di segnalare come altri A. abbiano invece formulato un orientamento ulteriore rispetto alla delineata bipartizione. Essi ritengono necessario accertare le circostanze fattuali integranti la causa di indegnità per parte del giudice e, di qui, essi ritengono che ipso iure si realizzerebbe l’esclusione dalla successione, U. Salvestroni, Il problema dell’indegnità a succedere. Contributo allo studio dei procedimenti successori privati, Padova, 1950, 5 e ss. 109 G. Capozzi, op. cit., 179 e ss. 110 Lo stesso è stato ripreso nel recentissimo scritto di D. Russo, Indignus semper potest capere?, in Rassegna dir. civ., 2016, 1003 e ss. 111 Ai sensi di legge, il soggetto è infatti rispettivamente obbligato a restituire i frutti pervenutigli dopo l’apertura della successione e ammesso a succedere ove riabilitato dal defunto con atto pubblico o testamento. 112 Cfr. A. Gazzanti Pugliese di Cotrone, op. cit., 83; L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, cit., 95; P. Boero, op. cit., 679 e G. Pfnister, op. cit., 913 e ss. 113 D. Russo, op. cit., 17, ove l’A. pone l’accento sul fatto che, al contrario, l’istituto dell’indegnità a succedere è posto a baluardo di un interesse avente carattere pubblico. 114 P. Rescigno, Successioni e donazioni, cit., 652. 115 V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 1966, 545. Cfr. G. Azzariti, Diseredazione ed esclusione di eredi, cit., 1189 e ss.; A. Burdese, voce Diseredazione (Diritto romano), in Noviss. dig. it., vol. V, Torino, 1960, 1113; F. Cancelli, voce Diseredazione (Diritto romano), in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1964, 95; D. Russo, op. cit., 4 e ss. Al contrario, molteplici sono le evoluzioni che la disciplina successoria ha subito rispetto al diritto romano nel nostro ordinamento, in ragione della maggior rilevanza della c.d. successione legittima rispetto alla testamentaria sin dal tardo rinascimento e dall’inizio della età moderna. Cfr. A. Solmi, Storia del diritto italiano, Milano, 1930; E. Besta, Le successioni nella storia del diritto italiano, Padova, 1935; F. Calasso, Medioevo del diritto, Milano, 1954; P.S. Leicht, Storia del diritto italiano, Il diritto privato, Milano, 1960. 116 Per un inquadramento generale sul sistema francese, v. Cour de cassation, chambre civile 1, 19 gennaio 1982, n. de pourvoi: 81-10760, la quale testualmente ritiene che «mais attendu qu’il resulte l’article 913 du code civil que l’exheredation inseree dans un testament
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primo e rimuovere, invece, il secondo. Si è trattato di un fenomeno graduale, in quanto la clausola di diseredazione, mantenuta nel Codice per il Regno delle Due Sicilie del 1819, agli artt. 848-854; nel Codice degli Stati di Parma Piacenza e Guastalla del 1820, agli artt. 653-658; nel Codice per gli Stati del Re di Sardegna del 1837, agli artt. 737-743 e nel Codice per gli Stati Estensi del 1851, agli artt. 841-849, è stata poi rimossa tanto dalla versione del Codice Unitario del 1865 quanto da quella del 1942117. Negli ordinamenti che ancora conservano invece la bipartizione di cui si è detto permane dunque una gradazione tra i vari atti: da un lato, quelli di minore gravità che conducono alla diseredazione; dall’altro, quelli più gravi che conducono all’indegnità a succedere118. Il codice tedesco sanziona detti istituti rispettivamente § 2333 (Entziehung des Pflichtteils)119 e § 2339 (Gründe für Erbunwürdigkeit)120 Bürgerliches Gesetzbuch (BGB); quello austriaco121 all’art. 768, ove riproduce esattamente l’esempio di cui alla Novella 115 di Giustiniano122, ovvero del figlio che abbia rinnegato la religione cristiana, e all’art. 540 ABGB; quello svizzero agli artt. 447 e 540. Il codice spagnolo regola i medesimi agli artt. 849 ss.123, ove prevede che il testatore possa diseredare un soggetto per una serie di ragioni specifiche tra cui si annovera l’adulterio che coinvolge il coniuge del de cuius124,
produit, en principe, effet dans la mesure de la quotite disponible» («ne consegue, quale risultato dell›art. 913 del codice civile, che la diseredazione inserita in un testamento, in linea di principio, produce effetti nei limiti della quota disponibile») e J. Herail, voce Legs, in Dalloz, Encyclopédie juridique, Repertoire de droit civil, tome VII, 6 e ss. 117 E. Moscati, Questioni vecchie e nuove in tema di capacità a succedere e di indegnità, in Studi in onore di Cesare Massimo Bianca, 2006, 625 e ss. 118 Ampiamente, v. M. Comporti, Riflessioni in tema di autonomia testamentaria, tutela dei legittimari, indegnità a succedere e diseredazione, cit., 27 e ss. 119 «(1) Der Erblasser kann einem Abkömmling den Pflichtteil entziehen, wenn der Abkömmling 1. dem Erblasser, dem Ehegatten des Erblassers, einem anderen Abkömmling oder einer dem Erblasser ähnlich nahe stehenden Person nach dem Leben trachtet, 2. sich eines Verbrechens oder eines schweren vorsätzlichen Vergehens gegen eine der in Nummer 1 bezeichneten Personen schuldig macht, 3. die ihm dem Erblasser gegenüber gesetzlich obliegende Unterhaltspflicht böswillig verletzt oder 4. wegen einer vorsätzlichen Straftat zu einer Freiheitsstrafe von mindestens einem Jahr ohne Bewährung rechtskräftig verurteilt wird und die Teilhabe des Abkömmlings am Nachlass deshalb für den Erblasser unzumutbar ist. Gleiches gilt, wenn die Unterbringung des Abkömmlings in einem psychiatrischen Krankenhaus oder in einer Entziehungsanstalt wegen einer ähnlich schwerwiegenden vorsätzlichen Tat rechtskräftig angeordnet wird. (2) Absatz 1 gilt entsprechend für die Entziehung des Eltern- oder Ehegattenpflichtteils». 120 «Erbunwürdig ist: 1. wer den Erblasser vorsätzlich und widerrechtlich getötet oder zu töten versucht oder in einen Zustand versetzt hat, infolge dessen der Erblasser bis zu seinem Tode unfähig war, eine Verfügung von Todes wegen zu errichten oder aufzuheben, 2. wer den Erblasser vorsätzlich und widerrechtlich verhindert hat, eine Verfügung von Todes wegen zu errichten oder aufzuheben, 3. wer den Erblasser durch arglistige Täuschung oder widerrechtlich durch Drohung bestimmt hat, eine Verfügung von Todes wegen zu errichten oder aufzuheben, 4. wer sich in Ansehung einer Verfügung des Erblassers von Todes wegen einer Straftat nach den §§ 267, 271 bis 274 des Strafgesetzbuchs schuldig gemacht hat. (2) Die Erbunwürdigkeit tritt in den Fällen des Absatzes 1 Nr. 3, 4 nicht ein, wenn vor dem Eintritt des Erbfalls die Verfügung, zu deren Errichtung der Erblasser bestimmt oder in Ansehung deren die Straftat begangen worden ist, unwirksam geworden ist, oder die Verfügung, zu deren Aufhebung er bestimmt worden ist, unwirksam geworden sein würde». 121 «La diseredazione può avvenire anche con buone intenzioni, quando sussiste il pericolo che la quota legittima sarà in gran parte sprecata per prodigalità senza che la generazione successiva possa sperare in una sua parte. In questo caso la legittima andrà rivolta direttamente ai discendenti del legittimario (§ 770 ABGB)», così G. Chrstandl, La recente riforma del diritto delle successioni in Austria, in Riv. dir. civ., 2017, 423 e ss. 122 B. Caliendo, La diseredazione, in Aa.Vv., Studi in onore di Giancarlo Laurini, Napoli, 2015, 288 e s., nota 5. 123 E. Arroyo Amayuelas, E. Farnós Amorós, Entre el Testador Abandonado y el Legitimario Desheredado ¿A Quién Prefieren los Tribunales?, 2015, InDret, vol. 2, 2015, consultabile su ssrn.com. 124 Il codice portoghese affronta il tema all’art. 2166, prevedendo la diseredazione del soggetto condannato a più di sei mesi di reclusione
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e all’art. 756, ove inserisce ipotesi ulteriori rispetto a quelle proposte nell’ordinamento italiano, quali induzione alla prostituzione, abbandono della prole ed omessa denuncia della morte violenta del de cuius. Il codice greco analizza le questioni all’art. 1840, consentendo al testatore di escludere anche chi non abbia adempiuto ad obblighi assistenziali nei suoi confronti ovvero non abbia osservato una condotta decorosa, e all’art. 1860. Similmente, il codice brasiliano affronta le ipotesi all’art. 1744, ove sancisce la possibilità di diseredazione di una figlia disonesta che non conviva con il genitore e la persona che abbia commesso adulterio con il nuovo coniuge del proprio genitore, e all’art. 1595125; quello argentino agli artt. 3744 e ss. e 3291 e ss.; quello colombiano agli artt. 1265 s. e 1025 e ss.; quello peruviano agli artt. 744 e ss. e 667. Anche alla luce del recente Regolamento (UE) n. 650/2012 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 4 luglio 2012 relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni, all’accettazione e all’esecuzione degli atti pubblici in materia di successioni, alla creazione di un certificato successorio europeo126, rileva dunque interrogarsi sulla adeguatezza della applicabilità della sola indegnità, ovvero sulla preferibilità del sistema che preveda sia la diseredazione sia l’indegnità127. Una modifica, questa, che laddove vengano violati gli obblighi di solidarietà familiare comporterebbe sicuramente la riduzione della tutela che il nostro ordinamento offre ai successori necessari mediante una quota di legittima128. 2.1.2. Diseredazione e preterizione; diseredazione e rappresentazione.
La preterizione raggiunge, al pari della diseredazione, lo scopo di escludere dalla successione un soggetto, attribuendo a catena il proprio patrimonio a soggetti precisamente indicati e, di conseguenza, escludendo colui il quale si intende diseredare129. Pur tuttavia, le due clausole presentano tratti peculiari e non sono tra loro confondibili130. Se per effetto della diseredazione, il soggetto non potrà in alcun modo prendere parte alla successio-
dal giudice per delitti dolosi contro il defunto, contro il suo coniuge o contro i suoi ascendenti o discendenti, e del soggetto che non abbia ottemperato i suoi obblighi alimentari nei confronti del defunto o del coniuge. 125 V. E. De Faria Rodrigues, Testamentos. Teoria e pràtica, Belo Horizonte, 2011, 196 e ss. 126 Il testo è disponibile all’indirizzo eur-lex.europa.eu/TodayOJ/fallbackOJ/c_16820170529it.pdf. Ampiamente, A. Bonomi, P. Wautelet, Le droit européen des successions. Commentaire du règlement n. 650/2012 du 4 julliet 2012, Bruxelles, 2014, nonché C. Baldus, Erede e legatario secondo il regolamento europeo in materia di successioni, in Vita not., 2015, 561 e s., nota 2. 127 E. Moscati, Questioni vecchie e nuove in tema di capacità a succedere e di indegnità, cit., 39 e ss. 128 V. Porrello, op. cit., 980 e ss. 129 App. Napoli, 21 maggio 1961, cit. 130 M. Corona, La c.d. diseredazione: riflessioni sulla disposizione testamentaria di esclusione, cit., 506; E. Ondei, Le disposizioni testamentarie negative, in Foro pad., 1977, c. 303; G. Pfnister, op. cit., 916; L. Ferri, L’esclusione testamentaria di eredi, cit., 231; Id., Se debba riconoscersi efficacia a una volontà testamentaria di diseredazione, c. 48; D. Russo, op. cit., 200, ove l’A. rileva come «la diversità tra i due istituti, [...], evidenz[i] l’impossibilità dell’accostamento ai fini della valutazione della diseredazione dei legittimari. Beninteso la inammisibilità della preterizione del legittimario è indice dell’inammissibilità a fortiori della diseredazione, ma l’accostamento diviene improprio quando si pretenda di argomentare dalla riducibilità delle disposizioni realizzanti preterizione, l’applicazione della medesima sanzione alla disposizione negativa». Contra, G. Azzariti, Diseredazione e esclusione di eredi, cit., 1186.
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ne131, per effetto della preterizione, il praeteritus potrebbe comunque risultare successibile per effetto delle norme della c.d. successione ab intestato132. Di conseguenza, la non escludibilità vicendevole delle clausole di cui si è detto potrebbe comportare la liceità dell’inserimento, in primis, di una clausola di preterizione e, in secundis, al fine di rafforzare la propria voluntas excludendi133, di una clausola di diseredazione. L’art. 467 affronta il meccanismo della rappresentazione134, consentendo ai discendenti iure proprio, in assenza di sostituti, di subentrare al loro ascendente, laddove questi non possa o non intenda accettare l’eredità od il legato. Pur rimanendo estranei al fenomeno successorio, i rappresentanti saranno portatori di diritti specifici e successori la cui incapacità o indegnità a succedere dovrà essere valutata nei riguardi del testatore135. Secondo taluni, in ragione del fatto che la rappresentazione opera solamente laddove il soggetto rappresentato sia stato preventivamente designato per disposizione di legge o di testamento, l’esclusione della successione dovrebbe operare con riferimento all’intera stirpe facente capo al diseredato, senza che venga invece attivato il meccanismo della rappresentazione: in altre parole, «quando il rappresentante pretende di sostituire l’ascendente deve invocare anche il titolo della designazione di quest’ultimo»136. La designazione dell’ascendente verrebbe invece impedita dalla diseredazione mediante l’eliminazione del titolo della chiamata ereditaria, non rendendo la successione possibile attraverso la rappresentazione dei discendenti137 e così realizzando una deroga al regolamento legale della successione, una deroga inammissibile in ragione della natura dispositiva delle norme sulla successione ab intestato138. Secondo altri, invece, la diseredazione non ostacolerebbe affatto la successione dei discendenti e, dunque, la rappresentazione opererebbe automaticamente. Detta (preferibile) dottrina139 è argomentabile, a livello testuale, dall’art. 467 c.c., in cui si riporta una impossibilità astratta e generica ad accettare l’eredità, in cui rientra l’ipotesi di un diseredato
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C. Saggio, op. cit., 1791. D. Russo, op. cit., 15. 133 V. Cass., 5 aprile 1975, n. 1217, in Giur. it., 1975, I, 1, 1796. In senso persino peggiorativo, si può ritenere che detto meccanismo realizzi l’intenzione di offendere il soggetto diseredato, v. G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 221 e ss. e A. Trabucchi, L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, cit., 55. 134 Cfr., in argomento, E. Moscati, Rappresentazione, I) Rappresentazione (successione per); c) Diritto privato, in Enc. dir., vol. XXXVIII, Milano, 1987, 646 e ss.; E. Perego, La rappresentazione, in Tratt. dir. priv., vol. V, tomo I, Successioni, cit., 117 e ss.; G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, cit., 63 e ss.; G. Capozzi, op. cit., 207 e ss.; M.C. Tatarano, op. cit., 109 e ss.; S.T. Masucci, op. cit., 40 e ss.; G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, cit., 60 e ss.; L. Barassi, op. cit., 69 ss.; M. Terzi, Rappresentazione, in Successioni e donazioni, a cura di P. Rescigno, cit., 161 e ss. e, con rilievi anche redazionali, M. Ieva, Manuale di tecnica testamentaria, cit., 30 e s. 135 F. Farolfi, L’esclusione dei discendenti del nipote ex sorore dalla successione per rappresentazione (Nota a Cass. civ., sez. II, 30 dicembre 2011, n. 30551), in Fam. e dir., 2012, 1123. 136 A. Trabucchi, Esclusione testamentaria degli eredi e diritto di rappresentazione, cit., c. 749 e ss. In giurisprudenza, in senso conforme, Trib. Lucca, 6 novembre 1953, in Giur. tosc., 1954, 209. 137 C. Saggio, op. cit., 1792 e ss. 138 C. Ungari Trasatti, Rassegna di dottrina e giurisprudenza in tema di diseredazione, cit., 1329. 139 Cfr. L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, cit., 98; Id., Il testamento, cit., 141; M. Bin, op. cit., 272 e ss. e F. Miriello, op. loc. cit. 132
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incapace di accettare140. La norma non pone alcuna differenziazione tra l’istituito ex lege, che non priverebbe lo stesso della designazione astratta, ma impedirebbe unicamente l’«effettivo concretarsi della designazione al momento dell’apertura della successione»141, e per testamento142. Non solo, a livello sistematico, risulta senza dubbio ammissibile l’applicazione dell’istituto della rappresentazione, il cui presupposto è in realtà costituito dalla designazione virtuale del rappresentato e non dalla concreta delazione dell’eredità143, nel caso di indegnità a succedere o premorienza del rappresentato, nei confronti del quale non si realizza nemmeno la delazione144. Sia la diseredazione sia l’indegnità a succedere hanno dunque una efficacia da valutare caso per caso145 e meramente personale146, che non si ripercuote sui discendenti, per i quali, in assenza di sostituzioni espresse, si aprirà la successione per rappresentazione, senza che (i) le colpe degli ascendenti ricadano sui discendenti147 e (ii) l’ipotesi di diseredazione, in ottica di sistema, rechi conseguenze maggiormente gravose rispetto a quelle che l’indegnità a succedere comporta148. 2.1.3. Disciplina.
Alla luce della ricostruzione sin qui condotta, la diseredazione risulta dunque perfettamente realizzabile e ad essa si ritengono dunque applicabili tutte le norme in materia di (i) impugnabilità per errore149, violenza o dolo, come previsto dagli artt. 624 e 625 c.c. in ragione del fatto che “errore scribentis testamentum iuris solemnitas mutilari nequaquam
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In giurisprudenza, cfr. Cass., 23 novembre 1982, n. 6339, cit.; Cass., 14 dicembre 1996, n. 11195, in Mass. Giust. civ., 1996, 1748 (ove si rileva, in modo chiaro e inequivocabile, che «[l]a diseredazione, al pari della indegnità a succedere, non esclude l’operatività della rappresentazione a favore dei discendenti del diseredato») e Cass. 25 maggio 2012, n. 8352, cit. 141 M. Bin, op. cit., 272. 142 L. Bigliazzi Geri, Delle successioni testamentarie, cit., 98. Al di là del realizzarsi di un ostacolo alla vocazione non può però parlare di “eliminazione” della designazione astratta contenuta nella legge, come nota M. Bin, op. cit., 273. 143 V. Porrello, op. cit., 980 e ss. 144 M. Bin, op. cit., 273 e M. Ieva, Manuale di tecnica testamentaria, cit., 31. 145 «La volontà che i discendenti del diseredato succedano non può, sic et simpliciter, desumersi dalla stessa clausola di diseredazione, ma deve, in qualche modo, essere richiamata nel testamento e riconducibile ad un autonomo e cosciente atto volitivo del testatore. In secondo luogo, bisogna ammettere che, allora, i discendenti non succedono per rappresentazione (nei confronti dell’erede rappresentato) e quindi in forza della delazione legittima, ma invece direttamente, in forza di una vera e propria chiamata che nei loro confronti è contenuta nel testamento (successione testamentaria)», così C. Saggio, op. cit., 1795 e, in senso concorde, E. Ondei, op. cit., c. 304. In altre parole «occorrerebbe che, nel singolo caso concreto, si dimostrasse la sussistenza di una volontà con un siffatto contenuto, espressione di un animo così esacerbato del de cuius che lo indurrebbe ad estendere la sua avversione non soltanto al soggetto colpito dalla diseredazione, ma anche alla sua stirpe», così A. Torrente, op. cit., 104. 146 M. Ieva, Manuale di tecnica testamentaria, cit., 31 e nota 19, ove l’A. richiama le considerazioni di M. Bin. 147 A. Torrente, op. cit., 103, ove si legge: «[p]erché mai dovrebbero non la colpa, ma il mero rancore e la semplice antipatia verso l’ascendente, che ben possono costituire il motivo della diseredazione, ripercuotersi sul discendente?». 148 L. Bigliazzi Geri, Il testamento, cit., 141 e nota 62. Rimane tuttavia valida la possibilità che l’ereditando neghi espressamente nel testamento l’operatività della rappresentazione, ovvero escluda dalla successione i discendenti del diseredato, come in Cass., 18 giugno 1994, n. 5895, cit.; in dottrina, inter alia, M. Bin, op. cit., 273 e s.; G. Bonilini, Disposizione di diseredazione accompagnata da disposizione modale, cit., 720. 149 In tal caso, sia esso errore di fatto o di diritto, si potrebbe verificare un annullamento della diseredazione ove l’errore medesimo risulti dalla scheda testamentaria, mentre si avrebbe diseredazione se dal negozio mortis causa risulti chiaramente chi la volontà del testatore intendesse diseredare. Se invece si rinvenisse un motivo illecito alla base della disposizione diseredativa, la disposizione testamentaria sarebbe sicuramente nulla ai sensi dell’art. 626 c.c.
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potest”150; (ii) revocazione ai sensi dell’art. 679 c.c.151, salvo l’ipotesi di revocazione “per sopravvenienza di figli”152; come pure si ritiene configurabile la diseredazione parziale successibile ex lege e la diseredazione condizionata in modo tanto sospensivo quanto risolutivo. Maggiormente incerta è la possibilità di considerare applicabile alle disposizioni de quo la condizione impossibile od illecita di cui all’art. 634 c.c.153: (preferibile) dottrina maggioritaria, stante il principio di conservazione del testamento154, ha inteso ammetterne l’applicabilità, pur non trattandosi di disposizioni aventi carattere squisitamente attributi-
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Similmente, detto principio è ripreso anche in altri brocardi: “qui aliud dicit quam vult, neque quod vox significat, quia non vult, neque id quod vult, quia id non loquitur”, “nil facit error nominis, quam de corpore constat”, “certo corpore legato demonstratio falsa posita non perimit legatum” e “error nominum, si modo de rebus non ambigitur, ius legati non minuti” o, più semplicemente, “translatio legati”. 151 Tale disposizione testamentaria, che ribadisce il principio già assunto nel brocardo latino “Ambulatoria est voluntas defuncti usque ad vitae supremum exitum”, è stata peraltro oggetto di una importante decisione della Cass. (n. 1290/1974), la quale ha ribadito che «[i]l testatore non è obbligato a disporre del suo patrimonio con un testamento unico, e nell’ipotesi in cui abbia disposto in tal modo e intenda procedere ad aggiunte e modificazioni non è tenuto a riprodurre tutte le disposizioni già adottate che intenda conservare, ma può procedere con disposizioni scritte autonome. Il carattere integrativo o modificativo di queste ultime può essere indicato espressamente ovvero può risultare dalla comparazione tra le diverse disposizioni secondo la compatibilità delle seconde con le prime o la prevalenza delle ultime sulle precedenti». 152 V., in proposito, il punto n. 328 della Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942, ove si legge «[n]ell’art. 687 c.c., che disciplina la revoca di diritto per sopravvenienza di figli, ha completato l’ultimo comma nel senso che la disposizione revocata cessa di essere tale e ha i suoi pieni effetti non solo se i figli sopravvenuti siano premorti, ma anche se non vengano alla successione per assenza, indegnità o rinunzia, sempre che non si faccia luogo a rappresentazione. La ratio delle varie ipotesi è infatti sostanzialmente identica e non vi sarebbe alcuna plausibile ragione per un diverso trattamento. Ciò vale anche per l’ipotesi di rinunzia, dato che, per effetto delle nuove norme sulla rappresentazione, questa opera anche in caso di rinunzia, e perciò la revoca resta ferma, se vi sono discendenti del figlio sopravvenuto che abbia rinunziato». Circa le implicazioni della recente riforma della filiazione sulla “revocazione per sopravvenienza dei figli”, v. G. De Rosa, La riforma in materia di filiazione: spunti di riflessione sulle ricedute in ambito successorio, in Studi in onore di Giancarlo Laurini, a cura di D. Falconio, F. Fimmanò, P. Guida, Napoli, 2015, 507 e ss., a 514 e C. Romano, I riflessi successori della riforma della filiazione naturale, in Not., 2014, 131 e ss. 153 In argomento, sicuro rilievo è ricoperto dal punto 310, Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942, secondo cui «[i]l trattamento delle condizioni impossibili o illecite nelle disposizioni di ultima volontà è stato oggetto di critiche, per la soppressione che il progetto definitivo aveva fatta della regola tradizionale, risalente al diritto romano, secondo la quale le condizioni impossibili o illecite, apposte nelle disposizioni mortis causa, vitiantur sed non vitiant: si è ritenuto preferibile il mantenimento della regola tradizionale, consacrata nell’art. 849 del codice del 1865. Contro l’argomento che essa dà valore a una volontà poco seria o poco onesta è stato osservato che tale argomento presuppone che il testatore conosca che la condizione è impossibile o illecita. Se lo ignora — si è detto — rimane il dubbio se la condizione abbia costituito una determinante della sua volontà oppure una semplice sanzione da lui voluta per obbligare l’erede o il legatario all’adempimento della condizione. Si è pertanto proposto di ripristinare la norma dell’art. 849 del codice del 1865, con un opportuno richiamo della disposizione che dichiara la nullità della disposizione per motivo illecito (art. 626 del c.c.), e ciò allo scopo di avvertire l’interprete che, quando la condizione assumesse tale rilievo da palesarsi come motivo determinante della disposizione, sarebbe colpita da nullità la disposizione stessa. Riesaminato attentamente il delicato problema, mi sono indotto ad accogliere la proposta. Mi è sembrata inopportuna l’assolutezza del principio che l’illiceità o l’impossibilità della condizione importi sempre la nullità della disposizione. Occorre pure tener conto dell’eventualità che l’apposizione della condizione non sia stata considerata dal testatore come un tutto inscindibile con la disposizione, in modo da far logicamente presumere che egli avrebbe egualmente disposto se avesse saputo dell’impossibilità o dell’illiceità della condizione. A questa esigenza pratica ben risponde la norma tramandataci dal diritto romano, la cui vitalità attraverso i secoli, nonostante le critiche di parte della dottrina, è prova sicura della sua bontà. Essa, d’altra parte, nel nuovo testo legislativo viene opportunamente coordinata con la disposizione sul motivo illecito, confermandosi quella sana interpretazione che una dottrina autorevole ha dato all’art. 849 del codice del 1865. Benché ideologicamente il motivo sia diverso dalla condizione, tuttavia in pratica non sarà raro il caso di motivi dedotti sotto sembianza di condizioni. Sarà compito del giudice di ricercare la volontà del testatore, e, qualora si accertasse che la condizione apposta ha costituito in effetti il motivo unico determinante della disposizione, questa sarà assoggettata alla regola sul motivo illecito e come tale ritenuta nulla». 154 Cfr. L. Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, 2011, 258; D. Russo, op. cit., 195 e M. Bin, op. cit., 258.
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vo155. La clausola di diseredazione potrebbe essere peraltro considerata quale clausola di decadenza156, prevedibile nel caso in cui gli eredi o legatari non accettino le disposizioni testamentarie o le impugnino, ovvero quale clausola penale testamentaria, con funzione preventiva o repressiva157, mediante la quale il successore legittimo è indotto ad adempiere ad una determinata obbligazione testamentaria, sia essa un modus ovvero un legato obbligatorio158. 2.2. Diseredazione dei legittimari.
Il principio di intangibilità della legittima, unanimemente riconosciuto da compatta dottrina159 e pacifica giurisprudenza160, rappresenta nell’ambito del diritto successorio un perno essenziale della tutela dell’eredità familiare e del principio di solidarietà tra congiunti161. Esso costituisce un principio di primario rilievo, topograficamente collocato nel codice vigente in una sezione antecedente le norme sulla successione legittima e testamentaria, una norma di applicazione necessaria e di ordine pubblico162. Configurato quale tertium genus rispetto alla successione ab intestato ed ex lege,163 ovvero (preferibilmente) come una subcategoria “potenziata” della successione ab intestato, con la quale condivide la più profonda ratio164, detto principio rappresenta una attenzione del legislatore in senso eminentemente quantitativo riguardo alla vicenda successoria165: nel rispetto della quota di riserva,166 il de cuius è infatti libero di assegnare i beni di qualsiasi natura a ciascuno dei legittimari.
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G. Giampiccolo, op. cit., 155. P. Laghi, op. cit., 117 e ss. 157 M. Andreoli, Le disposizioni testamentarie a titolo di pena, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, 331. 158 Cfr. A.D. Candian, La funzione sanzionatoria nel testamento, Milano, 1988, 1 e ss. e M. Bin, op. cit., 275, ove si legge che l’«esclusione, condizionata all’inosservanza di un precetto, funge allora da mezzo di pressione psicologica sul successibile legittimo, per spingerlo all’adempimento della volontà del testatore». 159 Ex multis, V.R. Casulli, Successioni (diritto civile): successione necessaria, in Noviss. Dig. It., XVIII, Torino, 1971, 786 e ss.; G. Cattaneo, op. cit., 435 e ss.; M.C. Andrini, Legittimari, in Enc. Giur. Treccani, XVIII, Roma, 1990, 1 e ss.; S. Delle Monache, Successone necessaria e sistema di tutela del legittimario, Milano, 2008, 1 e ss.; L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, cit., 1 e ss.; G. Bonilini, Diritto delle successioni, Roma, 2004, 106 e ss.; L. Barassi, op. cit., 187 e ss.; A. Magrì, Principio di intangibilità della legittima e legato, in Riv. dir. civ., 1998, I, 25. 160 Cass., 12 marzo 2003, n. 3694, in Not., 2003, 471, con nota di Tardio; in Vita not., 2003, 877, ove si legge «[p]er il principio della intangibilità della legittima, i diritti devono essere soddisfatti con beni o denaro provenienti dall’asse ereditario, con la conseguenza che la divisione con cui il testatore disponga che le ragioni ereditarie di un riservatario siano soddisfatte dagli eredi, tra cui è divisa l’eredità, con la corresponsione di una somma di denaro non compresa nel relictum, è affetta da nullità ex art. 735, 1º comma, c.c.» e Trib. Cagliari, 23 febbraio 2006, in Riv. giur. sarda, 2008, 635, con nota di Falzone Calvisi. 161 Cfr. C.R. Calderone, Della successione legittima e dei legittimari, in V. De Martino (diretto da) Comm. teorico pratico cod. civ., Libro II, Delle successioni, Novara, 1976, 26 e ss. e G. Azzariti, Diritti dei legittimari e loro tutela, Padova, 1975, 55 e ss. 162 V. Tagliaferri, Il diritto delle successioni e le nuove regole di assegnazione della ricchezza, Milano, 2012, 116. 163 Per tutti, R. Casulli, op. cit., 787. 164 A. Cicu, Successione legittima e dei legittimari, Milano, 1947, 218. 165 È questa la posizione cui sono giunte, a seguito di ampio contrasto, attenti A.: cfr., sul punto, A. Bucelli, I legittimari, in Il diritto privato oggi, a cura di P. Cendon, Milano, 2002, 267 e ss. e F. Maruffi, La composizione qualitativa della quota di riserva, in Riv. dir. civ., 1995, II, 151 e ss. 166 Cass., 28 giugno 1968, n. 2202, in Giust. civ., 1969, I, 90. 156
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La disponibile varia «in ragione inversa al valore delle donazioni fatte a estranei o agli stessi legittimari con espressa dispensa dall’imputazione. Se il valore del relictum al netto dei debiti è pari (o inferiore) al valore della porzione indisponibile della massa formata a norma dell’art. 556 c.c. tutta l’eredità è riservata al legittimario, non vi è quota disponibile»167. A tutela del principio de quo, l’ordinamento italiano prevede, per un verso, che il testatore non imponga alcun peso o condizione sulla quota spettante ai legittimari168; per l’altro, che i legittimari non abbiano facoltà di rinunciare alla azione di riduzione anzitempo, non essendo in tal caso determinato l’oggetto169. A tutela della autonomia del testatore170, pur nel rispetto del principio de quo, si contemplano invece due ipotesi di diseredazione anomala: la cautela sociniana, il legato in sostituzione di legittima171 oppure la donazione tacitativa di legittima172, cui segua nel testamento una disposizione con cui il donante (testatore) diseredi apertamente il donatario, così violando sia il divieto di patti successori173 rinunciativi sia il principio di irrinunciabilità all’azione di riduzione ante decesso del de cuius. Quanto sinora brevemente ripreso permette di affrontare la questione della diseredazione esplicita di un riservatario174, rispetto alla quale “tradizione storica e ragioni sistematiche” paiono propendere per “la soluzione della nullità”175 per due ordini di ragioni176. Da un lato, alcuni giungono a tale conclusione in forza della nullità di imporre pesi e condizioni sulla quota dei legittimari177, altri della contrarietà della disposizione a norme imperative, quali il divieto di recare pregiudizio alcuno ai diritti riservati dalla legge ai
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L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione necessaria, cit., 65. A. Bucelli, op. cit., 324 e ss.; C.R. Calderone, op. cit., 169 e ss. 169 V. Tagliaferri, cit., 116. 170 Cfr. G. Bonilini, Autonomia negoziale e diritto ereditario, in Riv. not., 2000, 789 e ss. e P. Laghi, op. cit., 8 e ss. 171 In dottrina, cfr. G. Cattaneo, op. cit., 455 e ss. e G. Stolfi, Appunti sull’art. 551 del Codice Civile, in Giur. it., 1964, I, 2, c. 697 e ss. 172 V. Moscarini, La donazione tacitativa di legittima, in Vita not., 2000, I, 701 e ss. 173 Detto divieto è esplicitato anzitutto nella Relazione al re del libro secondo del Codice civile ove si legge all’art. 2 il principio fondamentale del nostro diritto successorio, per cui le forme di successione sono due, la legale e la testamentaria, ho considerato di escludere espressamente l’ammissibilità della terza possibile causa di delazione ossia del contratto come titolo di successione, stabilendo il divieto della cosiddetta successione patrizia o patto successorio”. Il divieto colpisce quindi i patti che violerebbe il principio di revocabilità del testamento fino alla morte del testatore i quali creerebbero un terzo tipo di vocazione dell’eredità, la vocazione contrattuale, non ammessa nel nostro ordinamento. Il discrimine tra le fattispecie lecite e quelle nulle per violazione dell’art. 458 c.c. è individuato negli elementi indicativi di un’attribuzione a causa di morte: da un lato, la considerazione del bene oggetto di attribuzione quale entità commisurata alla morte dell’attribuente, dall’altro, la considerazione del beneficiario quale soggetto contestualmente esistente. Cfr. F.P. Traisci, Il diritto di patti successori nella prospettiva di un diritto europeo delle successioni, Napoli, 2014, in particolare a 370 e ss.; D. Achille, Il divieto dei patti successori, Contributo allo studio dell’autonomia privata nella successione futura, Napoli, 2012. 174 V., per tutti, M. Quargnolo, Il problema della diseredazione tra autonomia testamentaria e tutela del legittimario, in Familia, 2004, I, 279 e ss. 175 M. Bin, op. cit., 258. 176 Sul tema, in senso ampio, v. C. Fatiguso, Diseredazione di fatto del legittimario? - Note a margine dell’art. 564 c.c., in Giur. pugliese, 1995, fasc. 2, 97 e ss. 177 Per tutti L. Mengoni, Successioni per causa di morte. Parte speciale. Successione legittima, cit., 22 e nota 59. 168
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legittimari178; dall’altro, dette posizioni non paiono pienamente convincenti poiché il legittimario espressamente escluso potrebbe comunque esercitare l’azione di riduzione179. Ne consegue che «potrebbe risultare (non stricto iure) nulla, ma giuridicamente irrilevante ex fide bona (con conseguente eliminazione della clausola, non dell’intero testamento) a due condizioni: che le decisioni e le scelte del testatore siano ritenute suscettibili di andare incontro ad un giudizio di antisocialità perché incompatibili con quel tanto di socialità che, secondo quanto comunemente si suole ripetere, starebbe alla base del fenomeno successorio mortis causa; che, all’effetto, si ritenga applicabile al testamento l’art. 1366 c.d. e pertanto ammissibile un’interpretazione “correttiva” (e pertanto anche “riduttiva”) condotta alla stregua della buona fede oggettiva»180. In conclusione, si avrebbe vera e propria diseredazione ove il legittimario non esercitasse l’azione di riduzione ovvero decorresse il termine ordinario di prescrizione decennale181. «Né vi sarà alcun impedimento nel caso in cui la successione dovesse essere regolata per il resto dalla legge in quanto il sistema conosce altre ipotesi in cui le attribuzioni successorie, pur basate sulla legge medesima, rimangono esposte alla riduzione al fine di soddisfare le ragioni dei riservatari (art. 553 c.c.)»182. L’intento di esclusione può però anche essere parziale e, in quanto tale, raggiunto istituendo l’erede nella sola quota di riserva, servendosi dell’intervento ausiliario del giudice, ovvero attribuendo a favore del riservatario un legato in sostituzione di legittima. 2.2.1. Diseredazione occulta dei legittimari.
Colui il quale ha ricevuto per donazione un immobile dal testatore e abbia opposto una eccezione di intervenuta usucapione al successore necessario, che agisca in riduzione, a seguito del decesso del testatore, può porre in essere un comportamento configurabile in guisa di una ipotesi di diseredazione occulta dei legittimari183. Ebbene, detta usucapione non può in alcun modo essere opposta al legittimario, poiché quest’ultimo non può porre in essere atti idonei ad interrompere l’usucapione di un terzo su un bene ereditario sintanto che non intervenga il decesso. Di conseguenza, non potendo agire se non dopo la morte del testatore, il donatario non può opporsi ad una azione di riduzione eventualmente esercitata, invocando l’eccezione di intervenuta usucapione184.
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Per tutti L. Bigliazzi Geri, A proposito di diseredazione, in Corr. giur., 1994, 1503, che ritiene nulla la clausola e «nullo, se del caso, l’intero testamento ex art. 1419, comma 1, con conseguente caducazione […] anche di ulteriori disposizioni positive eventualmente in esso contenute». 179 F. Miriello, op. cit., 746. 180 L. Bigliazzi Geri, A proposito di diseredazione, cit., 1503. 181 G. Bonilini, Antonio Cicu e il diritto successorio, cit., 821. 182 A. Gazzanti Pugliese di Cotrone, op. cit., 84. 183 Per tutti, in giurisprudenza, App. Roma, 25 gennaio 1993, in Giust. civ., 1993, I, 2519, con nota di F. Gazzoni e Cass., 19 ottobre 1993, n. 10333, in Giur. it., 1995, I, 1, 917 e ss., con nota di S.T. Masucci. 184 F. Gazzoni, È forse ammessa la diseredazione occulta dei legittimari?, Nota ad App. Roma, 25 gennaio 1993, La Rocca c. Mango, in Giust. civ., 1993, I, 2522 e ss.
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2.2.2. Riforma della filiazione.
La recente riforma in materia di filiazione presenta anch’essa una peculiare novità che rileva in tema di diseredazione185, introducendo una disposizione «la cui portata e collocazione sistematiche sono apparse, da subito, poco chiare, negli intenti e nei presupposti applicativi»186. Essa ha infatti inserito all’art. 448-bis c.c.187 una ipotesi ulteriore188, una “norma dalla portata potenzialmente eversiva”189, che, sebbene utilizzando un wording “assolutamente approssimativo”, «colma una lacuna dell’ordinamento»190, in virtù della quale «il figlio, anche adottivo, e, in sua mancanza, i discendenti prossimi non sono tenuti all’adempimento dell’obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale è stata pronunciata la decadenza dalla responsabilità genitoriale191 e, per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all’art. 463, possono escluderlo dalla successione»192. Un’ipotesi, questa, sicuramente non irrelata alla previsione ex art. 463, n. 3-bis), c.c., che introduce un profilo senza dubbio innovativo, ritenuto inammissibile per parte di compatta e costante dottrina sino al 2012193. Una norma, quella in esame, che «a dispetto, forse, delle stesse intenzioni del legislatore, apre una falla, per così dire, nel granitico sistema di tutela di legittimari, che da sempre mira ad impedire forme di esclusione o di lesione della quota di legittima. Il novellato art. 448-bis c.c., precisamente, sebbene dettato in tema di alimenti, contempla testualmente la possibilità di escludere dalla successione il genitore “nei confronti del quale è stata pronunciata la decadenza dalla responsabilità genitoriale e, per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all’art. 463”; apre, cioè, alla possibilità di diseredare»194. Detta norma realizza un autentico “spodestamento dei padri”, una inversione profondissima ed un mutamento irreversibile rispetto al passato: si passa, quindi «da una famiglia patriarcale di stampo verticistico, in cui il pater familias godeva di ampi ed invasivi poteri sui suoi parenti/
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In generale, v. M. Cinque, Profili successori nella riforma della filiazione, in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 657 e ss. e M.F. Tommasini, Parentela e filiazione nel nuovo sistema, in Dir. succ. fam., 2015, 123 e ss. Nello specifico, in relazione alla diseredazione, v. M. Galletti, La violazione dei doveri genitoriali: la nuova stagione della diseredazione, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 739 e ss. e M. Sesta, Il problema della retroattività della disciplina successoria, in Giur. it., 2014, 5 e ss., ove l’A. rileva in particolare come il «legislatore delegante non [abbia] dettato direttamente norme transitorie», così riproponendosi i medesimi problemi che in passato si erano dovuti affrontare nell’applicazione delle precedenti riforme del diritto di famiglia, in una costante tensione rispetto alla quale “vengono in rilievo molteplici e, per certi versi, contrapposti valori”. 186 F. Pirone, La violazione dei doveri familiari come legittima causa di diseredazione del legittimario, in Not., 2015, 516 e ss., a 519 e nota 16, ove l’A. riferisca a M. Paradiso, Decadenza dalla potestà, alimenti e diseredazione nella riforma della filiazione (art. 448-bis c.c., inserito dall’art. 1, comma 9, l. 219/2012), in Nuova giur. civ. comm., 2013, 557 e ss. 187 Sia consentito rinviare interamente allo studio critico condotto sulla disposizione ivi richiamata: P. Laghi, Note critiche sull’art. 448-bis c.c., in Diritto delle successioni e della famiglia, 2016, 73 e ss. 188 Cfr. F. Pirone, op. cit.; G. Sicchiero, La nozione di interesse del minore, in Fam. e dir., 2015, 72 e ss.; R. Senigaglia, Status filiationis e dimensione relazionale dei rapporti di famiglia, Napoli, 2013, 237 e ss. 189 C. Lazzaro, La nuova frontiera della diseredazione, 2014, consultabile all’indirizzo www.comparazionedirittocivile.it, 7 e note 32-3537, ove l’A. rinvia a G. Salito, La successione dei figli nati fuori del matrimonio. Prime riflessioni, ibidem, maggio 2013, 2-3. 190 M. Finocchiaro, Decadenza dalla potestà: no alimenti e successione, in Guida dir., 26 gennaio 2013, 80 e s. 191 M. Galletti, op. cit., § 4. 192 V. Carbone, Riforma della famiglia, considerazioni introduttive, in Fam. e dir., 2013, 225 e ss., a 241. V. anche R. Omodei Salè, La decadenza della potestà genitoriale quale (nuova) causa d’indegnità a succedere, in Fam. pers. succ., 2010, 735 e ss. 193 M. Galletti, op. loc cit. 194 G. Salino, La successione dei figli nati fuori dal matrimonio, prime riflessioni, maggio 2013, 2 e s.
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sottoposti, ad una famiglia a struttura comunitaria e regolamentazione elaborata in maniera ascendente, [...], di cui i figli rappresentano il centro nevralgico, il cuore pulsante»195. Non solo: è di certo significativo, invero rivoluzionario, che «la prima ipotesi tipizzata dal legislatore (art. 448-bis c.c.) non permett[a] al padre, come normalmente si rappresenta nell’immaginario collettivo [e come accadeva peraltro nell’antica Roma196], di escludere i propri discendenti, ma a questi ultimi di estromettere dalla propria successione gli ascendenti»197.
3. Conclusione. «Conviene rammentare, per mettere ancora una volta in luce le difficoltà innegabili alla base del discorso»198, che la questione, oltre a caratterizzarsi per una geometria particolarmente variabile che contraddistingue la disciplina tutta199, risulta al contempo punto di convergenza di contrapposti interessi, di non agevole composizione. In estrema sintesi, rileva anzitutto il fatto che «[s]e è vero […] che, in ossequio al principio della libertà testamentaria, deve riconoscersi al testatore la facoltà di disporre, in tutto o in parte, dei suoi beni – così escludendo, di fatto, in tutto o in parte, dalla propria successione i suoi eredi legittimi – non si vede quale ostacolo sussista a riconoscergli il potere di escludere, con un’espressa ed apposita dichiarazione in tal senso, uno o più dei suoi congiunti ai quali, nel silenzio, l’eredità sarebbe devoluta per legge»200. Infatti, escludere dalla successione «equivale non all’assenza di un’idonea manifestazione di volontà, ma ad una specifica manifestazione di volontà, nella quale, rispetto ad una dichiarazione di volere (positiva), muta il contenuto della dichiarazione stessa, che è negativa. […] La clausola di diseredazione integra [quindi] un atto dispositivo delle sostanze del testatore, costituendo espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, che può includersi nel contenuto tipico del testamento: il testatore sottraendo dal quadro dei successibili ex lege il diseredato e restringendo la successione legittima ai non diseredati, indirizza la concreta destinazione post mortem del proprio patrimonio»201.
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E. Matano, Sull’unificazione dello Stato Giuridico dei Figli: quadro generale della riforma e delle sue prospettive, Intervento in occasione del Convegno di studi tenutosi il 12 aprile 2013. 196 Sia consentito rinviare a M. Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in Familia, 2013, 241. 197 E. Matano, op. cit. 198 L’espressione è volutamente mutuata dal discorso tenuto dal prof. P. Rescigno, in occasione del Convegno organizzato dall’Università europea di Roma alla presentazione della rivista “Studi Giuridici Europei” svoltosi a Roma il 25 giugno 2015, dal titolo Interesse della famiglia e interesse dell’impresa nella successione ereditaria: esperienze a confronto, i cui atti sono raccolti in Riv. not., 2015, 727 e ss., a 732, al fine di evidenziare come il diritto successorio di cui ci si occupa rappresenti davvero elemento di convergenza di innumerevoli interessi, di rado orientati nella medesima direzione. 199 Così R. Caprioli, I mutevoli confini della successione ereditaria, in Diritto successioni e famiglia, 2015, 457 e ss. 200 CNN Notizie, 4 giugno 2012, La Cassazione cambia opinione sulla clausola di diseredazione meramente negativa, ove si richiama G. Porcelli, Autonomia testamentaria ed esclusione di eredi, in Not., 2002, 52. 201 Cass., 25 maggio 2012, n. 8352, cit.
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Quindi, guardando al diritto romano, il medesimo riconosce «un limite alla libertà di testare, che si sintetizza nella formula «sui heredes instituendi sunt vel exheredandi»: i sui devono cioè essere menzionati nel testamento per essere istituiti eredi o diseredati, non potendo esservi omessi (preteriti), sotto sanzione di invalidità, totale o parziale del testamento stesso; la institutio del suus non fa che confermargli la qualifica legale di heres, [...] mentre la exheredatio toglie al suus tale qualifica, con disposizione considerata tanto grave da non potere essere in alcun modo favorita dal diritto»202, della necessità di tutelare la solidarietà familiare e assicurare ai più stretti congiunti un sostegno anche post mortem203, come pure della differenza tra ordinamenti attualmente esistente (solo Italia e Francia, una netta minoranza, non includono l’istituto della diseredazione204) e dei riverberi della stessa nel diritto internazionale privato205. Suggeriscono il medesimo re-inserimento della disposizione di diseredazione sia la riforma della filiazione sia la crescente richiesta di uniformità e armonizzazione206 (in tal senso il Regolamento (UE) n. 650/2012207, in vigore dal 17 agosto 2015), portatrice di chiari vantaggi pratici in un orizzonte pan-europeo. Ed è in tale ottica, in una prospettiva de iure condendo, che nel presente scritto si è inteso porre mente alla questione della ade-
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A. Burdese, Manuale di diritto privato romano, Torino, 1964, 777. A. Marini, Note in tema di diseredazione, in Tradizione e modernità nel diritto successorio, dagli istituti classici al patto di famiglia, a cura di S. Delle Monache, Padova, 2007, 198. 204 «Eccessiva sembra la tutela rigida dei legittimari stabilita dagli ordinamenti che abolirono la diseredazione, stante anche la rarità delle gravissime cause di indegnità legale. [Infatti se] la tutela del legittimario si fonda sul valore della solidarietà familiare, tale tutela viene meno se l’essenza di tale solidarietà familiare viene calpestata. [...] Il valore di solidarietà familiare è composto da regole morali e giuridiche che danno luogo non solo a diritti, ma anche a doveri, in reciproca interazione secondo, del resto, il pieno significato dell’art. 2 Cost. Se tali doveri vengono gravemente violati, non sussiste più alcuna ragione della tutela di diritti che, compenetrandosi con i doveri, non sembrano più trovare un giusto fondamento ed una ragionevole attuazione», v. M. Comporti, Riflessioni in tema di autonomia testamentaria, tutela dei legittimari, indegnità a succedere e diseredazione, cit., 41 e ss. 205 V. E. Calò, Le successioni nel diritto internazionale privato, in Letture notarili. Collana diretta da G. Laurini, 2007, 52 e ss., ove l’A. rileva quanto segue: «l’art. 46, comma 2, l. 218/1995 dispone che “il soggetto della cui eredità si tratta può sottoporre, con dichiarazione espressa in forma testamentaria, l’intera successione alla legge dello Stato in cui risiede. La scelta non ha effetto se al momento della morte il dichiarante non risiedeva più in tale Stato”. [.] La scelta della legge applicabile può portare un cittadino di uno Stato di civil law residente in uno Stato di common law ad escludere i suoi legittimari dalle attribuzioni testamentarie, purché vi risieda al momento della morte del testatore. Nel caso che il testatore sia un cittadino italiano, occorrerà tener conto anche del luogo di residenza dei suoi legittimari, perché, se costoro fossero residenti in Italia al momento della morte del testatore, diverrebbero inefficaci le disposizioni che ledessero la loro quota di riserva». 206 Quest’ultima è infatti sinora stata soggetta soltanto a “timidi tentativi”, v. S. Aceto di Capriglia, Timidi tentativi di armonizzazione della disciplina successoria in Europa, in Rassegna dir. civ., 2013, 495 e ss. 207 Cfr., in ottica comparata, oltre a quanto supra riportato (nota 119), S. Patti, Il certificato successorio europeo nell’ordinamento italiano, in Contr. impr. Europa, 2015, fasc. 2, in Contr. impr. Europa, 2015, fasc. 2, 466 e ss.; C.M. Bianca, Certificato successorio europeo: il notaio quale autorità di rilascio, in Vita not., 2015, n. 1, 1 e ss.; C. Baldus, op. cit., 561 e ss.; R. Barone, Il certificato successorio europeo, in Not., 2013, n. 4, 427 e ss.; K. Bergami, Le principali novità del Regolamento (UE) n. 650/2012: i criteri di collegamento nella individuazione della legge regolatrice della successione mortis causa e l’introduzione del certificato successorio europeo, in Vita not., 2013, n. 3, 1131 e ss.; F. Padovini, Certificato successorio europeo e autorità di rilascio italiana, in NLCC, 2015, 1099 e ss.; C.A. Marcoz, Nuove prospettive e nuove competenze per i Notai italiani: il rilascio del Certificato Successorio Europeo, in Not., 2015, fasc. 5, 497 e ss.; P. Lagarde, Le certificat successoral européen dans l’ordre juridique français, in Contr. impr. Europa, 2015, fasc. 2, 405 e ss.; H. Dörner, Il certificato successorio europeo da un punto di vista tedesco. Disposizioni attuative e questioni aperte, in Contr. impr. Europa, 2015, fasc. 2, 424 e ss.; F. Lledó Yagüe, A. Vicandi Martínez, Il certificato successorio europeo e la sua applicazione in Spagna: l’ordinamento giuridico spagnolo è pronto?, in Contr. impr. Europa, 2015, fasc. 2, 449 e ss.; P. Wautelet, E. Goossens, Le certificat successoral européen – perspective belge, in Contr. impr. Europa, 2015, fasc. 2, 434 e ss. 203
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Diseredazione: profili di disciplina
guatezza della applicabilità della sola indegnità, ovvero alla preferibilità di un sistema che contempli diseredazione e indegnità. Come si è asserito, laddove gli obblighi di solidarietà familiare siano violati, siffatta modifica vedrebbe un significativo ridimensionamento della tutela offerta ai successori necessari tramite la quota di legittima.
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Giurisprudenza Trib. Palermo, sez. I, decreto 1° dicembre 2016, n. 6; Ruvolo Estensore. Negoziazione assistita – Accordi in materia di responsabilità genitoriale – Autorizzazione del P.M. – Diniego – Fase presidenziale – Poteri del Giudice – Concessione della autorizzazione da parte del Presidente del Tribunale – Contenuto dell’accordo – Diversità rispetto a quello presentato al P.M. – Ammissibilità In materia di negoziazione assistita, successivamente alla mancata autorizzazione del Pubblico Ministero ed alla trasmissione degli atti al Presidente del Tribunale, si apre nella procedura negoziativa un «incidente giurisdizionale» ed, in particolare, un procedimento di volontaria giurisdizione che si svolge nelle forme dei procedimenti in camera di consiglio, in cui il Presidente o il giudice da lui delegato provvede in composizione monocratica (senza che operi alcuna conversione del procedimento in separazione consensuale o divorzio congiunto o modifica concordata) e stabilisce se concedere o meno l’autorizzazione richiesta tenendo conto dei rilievi mossi dal P.M. ma non essendo in alcun modo vincolato dagli stessi. Infatti, non vi sono limiti alla possibilità per il Presidente del Tribunale di autorizzare anche condizioni assolutamente non in linea con i rilievi mossi dal P.M. e pure del tutto differenti da quelle inizialmente concordate. Invero, la funzione del P.M., instaurato l’incidente giurisdizionale, viene ad esaurirsi e ad essere assunta integralmente dal Presidente del Tribunale. Inoltre, anche le diverse condizioni approvate dal Presidente sono comunque frutto di un accordo tra le parti.
Visto il provvedimento di non autorizzazione della negoziazione assistita emesso dal Pubblico Ministero presso questo Tribunale in data 24.10.2016 (Omissis) Vista la delega effettuata in favore di questo Giudice dal Presidente del Tribunale; Viste le dichiarazioni rese dalle parti all’udienza del giorno 8.11.2016 e sciogliendo la relativa riserva; OSSERVA È noto che in presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti, l’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita deve essere trasmesso entro il termine di dieci giorni al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente, il quale, se ritiene che l’accordo risponda all’interesse dei figli, lo autorizza; in caso contrario il procuratore della Repubblica (o – com’è verosimile – il magistrato da lui delegato) «lo trasmette, entro cinque giorni, al presidente del tribunale, che fissa, entro i successivi trenta giorni, la comparizione delle parti e provvede senza ritardo». Tale disposizione pone diversi interrogativi. Innanzitutto, non è chiaro se, a seguito della comparizione dei coniugi innanzi a sè, il presidente del tribu-
nale debba «curare di conciliarli», come previsto dall’articolo 711 c.p.c. per i casi di separazione consensuale. La risposta preferibile è quella negativa (ed infatti nessun tentativo di conciliazione è stato effettuato nel caso di specie all’udienza del giorno 8.11.2016) e ciò non solo perché la conciliazione non è prevista per le modifiche delle condizioni della separazione o del divorzio ma perché nell’art. 6 della legge 162/14 è già previsto che siano gli avvocati a provvedere al tentativo di conciliazione. Si dubita, poi, se per effetto dell’intervento del P.M. la procedura di negoziazione si “trasformi” in itinere in procedimento giurisdizionale (cioè in separazione consensuale, in divorzio su domanda congiunta o in procedura di revisione) e ci si interroga su cosa debba fare esattamente il Presidente del Tribunale. Va sicuramente esclusa una «trasformazione del rito» nel senso che va escluso che si possa accedere ad uno dei procedimenti nell’ambito dei quali si formano i provvedimenti che la convenzione mira a sostituire (già solo perché manca una domanda giudiziale). Va pure esclusa una regressione del procedimento al Pubblico Ministero, prevedendo espressamente la norma che sia il Presidente a “provvedere”. Non può, d’altro canto, rite-
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Giurisprudenza
nersi che il Presidente abbia un ruolo meramente passivo poiché altrimenti il suo ruolo nella procedura costituirebbe una mera superfetazione inutile. A questo quesito, allo stato, ha cercato di offrire una soluzione (che però non pare condivisibile) il Tribunale di Torino (Trib. Torino, sez. VII civ., ordinanza 15 gennaio 2015, Pres. M. Tamagnone). Secondo questa prima interpretazione offerta dalla giurisprudenza di merito, a seguito della mancata autorizzazione del P.M., il Presidente, convocate le parti, può solo invitare le stesse ad adeguarsi ai rilievi del Pubblico Ministero. Ciò perché la via della negoziazione assistita è una fattispecie, di nuova creazione, “integralmente” alternativa al procedimento giurisdizionale. Laddove le parti non intendano adeguarsi ai rilievi del P.M., il Presidente deve limitarsi ad un “non autorizza”, giacché nessuna “conversione” in altro genere di procedimento risulta ammissibile. Secondo questa lettura, trasmesso l’accordo (non autorizzato) dal Procuratore della Repubblica, il Presidente fissa, dunque udienza, consentendo peraltro alle parti – qualora ritengano di non aderire pienamente ai rilievi effettuati dal P.M. unitamente al rigetto della autorizzazione o, in conseguenza di essi, intendano apportare significative modifiche alle clausole dell’accordo – di depositare in tempo utile ricorso per separazione consensuale ovvero ricorso congiunto per la cessazione degli effetti civili o lo scioglimento del matrimonio, o ancora per la modifica delle condizioni di separazione o divorzio. Così procedendo, qualora le parti non depositino alcun ricorso e, comparendo avanti al Presidente, dichiarino di aderire pienamente ai rilievi effettuati dal Pubblico Ministero, l’accordo potrà esser autorizzato dal Presidente (di conseguenza restando nell’alveo della “degiurisdizionalizzazione” di cui alla legge n. 162/14). Qualora invece le parti depositino un ricorso ex art. 711 cpc, ovvero ex art. 4 comma 16 L. div. o ancora ex art. 710 cpc, l’accordo raggiunto a seguito di negoziazione assistita dovrà intendersi implicitamente rinunciato (vale a dire che nessuno comparirà all’u-
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dienza, ovvero, alla stessa, le parti dichiareranno di rinunziarvi espressamente) e il relativo fascicolo sarà archiviato a seguito di una pronuncia di “non luogo a provvedere”, mentre un nuovo procedimento “giurisdizionale”, con le relative domande e regolarmente iscritto al ruolo con nuovo fascicolo, consentirà la fissazione di udienza davanti al Collegio se si tratti di divorzio o procedimento ex art. 710 cpc o art. 9 L. div. – con successiva emissione di una pronuncia da parte di detto organo giudicante – ovvero permetterà, qualora si tratti di ricorso per separazione personale, che all’udienza fissata avanti al Presidente ex art. 6 L. 162/14 si proceda tanto all’archiviazione dell’accordo quanto allo svolgimento di udienza ex art. 711 c.p.c. che verrà fissata alla stessa data e stessa ora sulla base del ricorso già presentato. Orbene, si deve ritenere condivisibile l’idea che il Presidente debba verificare se i genitori siano disposti ad adeguare l’accordo ai rilievi del Pubblico Ministero. In quel caso, è il giudice che può direttamente concedere l’autorizzazione. L’udienza presidenziale ha anche il fine di sollecitare una “riedizione” dei patti nel senso auspicato dal PM (sebbene non sia molto chiaro il perché questa “chance” sia stata concessa solo agli accordi genitoriali e non anche a quelli coniugali, venendo in gioco, comunque, in entrambi i casi, diritti fondamentali). Tuttavia, ciò che non si condivide è la visione del ruolo passivo del Presidente del Tribunale e l’impossibilità di pervenire ad un’autorizzazione presidenziale relativamente a condizioni diverse da quelle sollecitate dal P.M. (e quindi teoricamente anche uguali a quelle non autorizzate da quest’ultimo). L’erroneo presupposto di base è che a seguito della mancata autorizzazione del P.M. il procedimento, in caso di modifica delle condizioni già prospettate nell’accordo, si giurisdizionalizzi (trasformandosi in un procedimento di separazione consensuale o ricorso congiunto per cessazione degli effetti civili o scioglimento del matrimonio, o ancora ricorso congiunto per la modifica delle condizioni di separazione o divorzio). In
Alessandro Trinchi
realtà, non si può emettere decreto di omologa o sentenza di divorzio o decreto di modifica delle condizioni in quanto nessuna domanda è stata formulata in questo senso dalle parti, che avevano invece intrapreso la via della negoziazione assistita e concluso un accordo. Bisogna tenere ben presente il generale “principio della domanda” ex art. 99 cpc. e quello della “corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato” ex art. 112 cpc. Ciò che va sottolineato è che il procedimento davanti al Presidente del Tribunale è camerale di volontaria giurisdizione e si conclude sempre con un provvedimento monocratico, senza che si debba operare alcuna conversione in separazione consensuale o divorzio congiunto o modifica concordata. La competenza è, infatti, di un organo monocratico (il Presidente o il giudice delegato), il provvedimento finale assume la forma di decreto e l’udienza di comparizione dei coniugi è tenuta in regime di riservatezza e non è pubblica. L’atto conclusivo del procedimento non è collegiale (e cioè l’omologazione a cui provvede il tribunale «in camera di consiglio su relazione del presidente», così lo stesso articolo 711), bensì un provvedimento monocratico del presidente del tribunale: tale conclusione si impone, in particolare, per il fatto che l’articolo 6 del Dl 132/2014 dispone che il presidente, dopo aver fissato la comparizione delle parti (e quindi dopo averle sentite), «provvede senza ritardo», senza alcun riferimento alla necessità di una previa relazione in Camera di consiglio. È bene quindi escludere la competenza del Tribunale in composizione collegiale che dovrebbe pronunciare decreto di omologa, sentenza di divorzio o decreto di revisione, soluzione che si scontra, come accennato, con l’assenza, fin dall’inizio, di una domanda giudiziale per cui pronunciare statuizione giurisdizionale decisoria e che finirebbe con il cancellare il ruolo dell’accordo di negoziazione che, invece, rimane centrale. Peraltro, l’ultimo periodo dell’art. 6 comma II prevede che “all’accordo autorizzato si applica il comma 3” (secondo cui l’accordo raggiunto a seguito della convenzione produce gli ef-
fetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio e secondo cui l’avvocato della parte è obbligato a trasmettere, entro il termine di dieci giorni, all’ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto, copia, autenticata dallo stesso, dell’accordo munito delle certificazioni di cui all’articolo 5). In altri termini, si prevede che l’autorizzazione dell’accordo costituisca, comunque, sempre, l’esito fisiologico positivo della procedura e ciò sia da parte del P.M. che del Presidente del Tribunale. È quindi preferibile ritenere che il Presidente possa decidere se “autorizzare” o “non autorizzare” l’accordo, anche eventualmente dopo avere invitato i coniugi ad apporre modifiche al loro patto (sulla base dei rilievi del Pubblico Ministero o indipendentemente da questi). In altri termini, il rigetto dell’autorizzazione da parte del P.M. (magari previa opportuna interlocuzione con le parti ed eventuale invito ad integrare la documentazione o a modificare le condizioni dell’accordo) apre nella procedura di negoziazione un «incidente giurisdizionale», ed in particolare un procedimento di volontaria giurisdizione che si svolge nelle forme dei procedimenti in camera di consiglio, in cui il Presidente o il giudice da lui delegato provvede in composizione monocratica (senza che operi alcuna conversione del procedimento in separazione consensuale o divorzio congiunto o modifica concordata) e stabilisce se concedere o meno l’autorizzazione richiesta tenendo conto dei rilievi mossi dal P.M. ma non essendo in alcun modo vincolato dagli stessi. Merita quindi maggiore condivisione l’orientamento adottato dal Presidente del Tribunale di Termini Imerese (16.3.2015) – del tutto in linea con quanto si afferma nel presente provvedimento – parzialmente condividendo il quale il Presidente del Tribunale di Torino è tornato sui suoi passi ed ha affermato (Trib. Torino, sez. VII, decreto 20 aprile 2015, Pres.
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est. Cesare Castellani) che in caso di diniego del P.M. nel concedere l’autorizzazione richiesta la competenza demandata al Presidente non comporta una conversione della procedura e l’instaurazione di un giudizio ordinario di separazione, divorzio o modifica delle relative condizioni, ma introduce una procedura nuova ed in parte atipica poiché al Presidente stesso è demandata la decisione circa la congruità dell’accordo privato, disatteso dalla Procura della Repubblica, persino in casi in cui, sulla base delle disposizioni processuali vigenti – e qui sta uno degli aspetti atipici –, la competenza spetterebbe al Tribunale in composizione collegiale (art. 710 c.p.c. e art. 9 legge divorzio). Il Tribunale di Torino ha poi precisato che, per quanto concerne lo “spazio di azione” del Presidente in presenza del rifiuto del P.M., pur dovendosi escludere la possibilità di autorizzare condizioni troppo differenti da quelle depositate alla Procura della Repubblica (pena, diversamente opinando, lo svuotamento della funzione che la normativa attribuisce a tale organo, insieme ai difensori dei coniugi “protagonista principale” del percorso di negoziazione assistita), deve ritenersi che, in linea con i principi generali che presiedono al rapporto tra parte pubblica e organo giudicante, al Presidente sia demandato altresì un riesame delle conclusioni cui il P.M. è pervenuto con il proprio diniego che, in qualche caso, potrebbe risultare non fondato o anche solo non condivisibile alla luce di una più attenta considerazione della condizione e delle esigenze dei figli, valutazioni indubbiamente facilitate dalla comparizione delle parti nel corso dell’udienza, con i chiarimenti che essa può apportare. Tuttavia, è bene ribadire che non si ritengono sussistenti limiti alla possibilità per il Presidente del Tribunale di autorizzare anche condizioni assolutamente non in linea con i rilievi mossi dal P.M. e pure del tutto differenti da quelle inizialmente concordate. Invero, la funzione del P.M., instaurato l’incidente giurisdizionale, viene ad esaurirsi (divenendo in tale incidente il P.M. semplice parte, interveniente necessario ex art.
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70, comma 1°, n. 2, c.p.c.) e ad essere assunta integralmente dal Presidente del Tribunale. Inoltre, anche le diverse condizioni approvate dal Presidente sono comunque frutto di un accordo tra le parti. Alla luce delle considerazioni giuridiche sopra esposte vanno ora esaminati gli elementi fattuali relativi al caso di specie. (Omissis). Orbene, va ritenuto conforme all’interesse dei figli dei soggetti stipulanti la negoziazione assistita di cui si discute un accordo che preveda, in favore di ciascuno dei quattro figli maggiorenni, un contributo di mantenimento (direttamente versato agli stessi figli) di € 150,00 a carico della madre e di € 250,00 a carico del padre. Tali importi portano ad un’uscita netta a carico dei genitori di € 400,00 euro per ciascun figlio maggiorenne e ad un carico mensile, relativamente al contributo ordinario, di € 1.000 per il padre e di € 600,00 per la madre. A tali somme va aggiunto il contributo per il mantenimento ordinario della figlia minorenne... – cui le parti provvederanno nei tempi, paritari, di rispettiva permanenza – e il pagamento delle spese straordinarie, che nel caso di specie sono di notevole importo, venendo in questione ragazzi che frequentano l’Università e che vanno mantenuti in città diverse da .... Tali spese sono distribuite al 70% a carico del padre e al 30% a carico della madre (proporzione analoga a quella ora prevista per il contributo ordinario). Le condizioni concordate dalle parti all’udienza del giorno 8.11.2016 non sono tali da far ritenere insufficiente il contributo della madre al mantenimento dei figli (come ritenuto dal P.M. in relazione agli accordi originari, ormai modificati dai coniugi) e ciò considerato il reddito effettivo netto della signora..., la sua partecipazione al 30% alle ingenti spese straordinarie ed il mantenimento della figlia minore. ... Alla luce delle nuove condizioni contenute nell’accordo di negoziazione assistita devono quindi ritenersi superate le ragioni poste a base della mancata autorizzazione del P.M. In conclusione – aperto nella procedura di negoziazione un «incidente giurisdizionale» dopo il rigetto dell’autorizzazione da parte del P.M., sentiti i
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coniugi ed invitati questi ultimi ad apporre modifiche alle condizioni del loro accordo – vanno considerate idonee nell’interesse dei figli le condizioni indicate nel modificato patto di negoziazione assistita.
P.Q.M. autorizza l’accordo di negoziazione assistita alle condizioni in esso indicate come modificate all’udienza del giorno 8.11.2016. (Omissis) Palermo, 25.11.2016.
I limiti al potere del Presidente del Tribunale di autorizzare l’accordo di negoziazione assistita in precedenza bocciato dal p.m.*. Sommario: 1. Introduzione. – 2. La fase avanti al Presidente del Tribunale. – 3. Limiti al potere del Presidente di concedere l’autorizzazione in precedenza negata dal P.M. – 4. Segue. I rapporti tra P.M. e Presidente del Tribunale ed il senso del susseguirsi delle fasi del procedimento.
The measure annotated deals with the problems, not considered by the legislator of 2014, whether the Chief Judge can diverge from the advice of the P.M. in the proceedings of assisted negotiation for families with minor children, and authorizes, accordingly, the agreement that was previously rejected. The Court of Palermo, considering that the phase of the proceedings that develops can be taken back to the proceeding of the chambers, and that the Court must have some independence of judgement compared with the one expressed by the P.M., authorizes what the P.P. previously rejected. However, a careful reading of the measure highlights how, in that case, the conflict is merely apparent, because a different agreement from the rejected one will be authorized; besides, in the intention of the legislator and considering how the proceeding is structured, the occasion can never take form.
1. Introduzione. Il Tribunale di Palermo prova a fare chiarezza nel dibattito giurisprudenziale innescato dalla scarsa e sintetica disciplina normativa dell’art. 6 del d.l. 132/2014 relativo alla nega-
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Il contributo è stato sottoposto a valutazione in forma anonima.
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zione assistita in materia di famiglia1, occupandosi della questione relativa ai poteri del Presidente del Tribunale nel caso di mancata autorizzazione dell’accordo da parte del P.M.2. A seguito del deposito presso la Procura della Repubblica di Palermo di un accordo negoziazione assistita avente ad oggetto la richiesta di una separazione consensuale in presenza di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti e di una figlia minorenne, il P.M. nega l’autorizzazione, tenuto conto che “l’accordo di negoziazione assistita raggiunto dai due coniugi non risponderebbe all’interesse dei cinque figli”. Il Giudice delegato dal Presidente del Tribunale alla trattazione del procedimento, pur consapevole delle difficoltà interpretative che pone il nuovo istituto, ritenuto che la fase procedimentale che si svolge avanti a sé possa essere ricondotta alle forme del rito camerale di volontaria giurisdizione e che debba essergli riconosciuta un’autonomia di valutazione rispetto a quella effettuata dal P.M., anche in considerazione dei chiarimenti forniti dalle parti comparse personalmente in udienza, invita prima queste ultime a modificare il contenuto dell’accordo ed i loro procuratori a dichiararne la conformità alle norme imperative, successivamente autorizza l’accordo così modificato. Il provvedimento che si annota offre l’occasione per riflettere su almeno due questioni problematiche relative al nuovo istituto. La prima è se al Presidente del Tribunale, investito del procedimento a seguito del diniego di autorizzazione all’accordo da parte del Procuratore della Repubblica, possa essere riconosciuta un’autonomia di valutazione rispetto all’opinione espressa da quest’ultimo così da poter autorizzare l’accordo prima negato. La seconda questione, che non è affrontata direttamente nel provvedimento, ma che è tuttavia strettamente collegata alla prima, è se sia legittimo e ragionevole sottoporre al “controllo” del Presidente del Tribunale nell’interesse dei figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti solo quegli accordi non autorizzati dal P.M. e non anche quelli autorizzati e ciò, a maggior ragione, se si tiene conto di come sono strutturati i controlli da parte del P.M.3.
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Per un approfondimento dell’istituto della negazione assistita v.: A. Carratta, P. D’Ascola, Nuove riforme per il processo civile: il d.l. n.132/2014, www.treccani.it, 2014; L. D’Agosto, S. Criscuolo, Prime note sulle “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”. (Commento al d.l. 12 settembre 2014, n.132), www.ilcaso.it, 2014, 11 ss.; V. Amendolagine, Processo civile: le novità del decreto degiurisdizionalizzazione. Prima lettura del D.L. 12 settembre 2014, n.132, convertito in L. 10 novembre 2014, n.162, Milano, 2014, 99 ss.; J. Polinari, La negoziazione assistita, in C. Punzi, Il processo civile. Sistema e problematica. Le riforme del quinquennio 2010-2014, Torino, 2015, 435 ss.; G. Trisorio Liuzzi, La negoziazione assistita, cit., 33 ss.; D. Dalfino, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, tra collaborative law e procédure partecipative, in AA.VV., Degiurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione dell’arretrato, La procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, in Foro it., 2015, 43 ss. Sulla negoziazione assistita in materia di famiglia mi sia permesso di rinviare a A. Trinchi, La negoziazione assistita nei procedimenti di famiglia, in Studium Iuris, 2016, 135 ss.; Id, Negoziazione assistita per la separazione o il divorzio: tutela dei figli minori e poteri del presidente, in Famiglia e diritto, 2017, 268 ss. Vedi, per tutte: Trib. Torino, 13 maggio 2016, decreto; Trib. Termini Imerese, 20 marzo 2015; Trib. Torino, 20 aprile 2015. Sulla natura dei controlli effettuati dal P.M. si veda il par. 4.
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2. La fase avanti al Presidente del Tribunale. L’art. 6, comma 2, d.l. 132/2014, prevede che il Procuratore della Repubblica, in presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti, una volta accertata l’assenza dei presupposti per concedere l’autorizzazione e, cioè, la non rispondenza dell’accordo all’interesse dei figli, trasmetta gli atti al Presidente del Tribunale che “provvede senza ritardo”. L’estrema sinteticità e laconicità della norma pone non pochi problemi interpretativi sulle sorti del procedimento dopo il diniego dell’autorizzazione. Secondo una prima ricostruzione, quasi scontata, il Presidente, preso atto del diniego dell’autorizzazione non può far altro che invitare le parti a modificare l’accordo o, altrimenti, a procedere secondo le disposizioni che regolano la separazione personale – artt. 706 ss. c.p.c. – ovvero la modifica dei relativi provvedimenti – art. 710 c.p.c. – o, infine, lo scioglimento del matrimonio – l. 898/1970 e l. 74/1987. Tale soluzione, che svuota e priva di significato il ruolo del Presidente del Tribunale nel procedimento di negoziazione assistita, incontra degli ostacoli non trascurabili non solo da punto di vista formale ma anche sostanziale4. L’art. 6 del d.l. 132/2014, infatti, non distingue per la fase successiva davanti al Presidente del Tribunale, tra i diversi generi di accordo che possono essere conclusi a seguito della negoziazione assistita e l’omissione non è trascurabile tenuto conto che il procedimento da seguirsi, per le diverse fattispecie, così come l’organo competente di fronte al quale comparire, sono differenti. In caso di separazione personale consensuale, come è noto, è prevista la comparizione personale di fronte al Presidente del Tribunale. Diversamente, nel caso di domanda congiunta di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di scioglimento del matrimonio nonché di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, l’udienza di comparizione è fissata dinnanzi al collegio del Tribunale. Il che sta a significare che il Presidente del Tribunale non può in alcun modo giurisdizionalizzare il procedimento in modo automatico trasformandolo in quello funzionale al perseguimento dell’obbiettivo che le parti si erano inizialmente prefisse concludendo l’accordo di negoziazione assistita successivamente non autorizzato5. A tale trasformazione si frappone, inoltre, un ulteriore ostacolo non meramente procedimentale, ma questa volta sostanziale. Non si vede, infatti, come potrebbe ottenersi una pronuncia di separazione consensuale e, quindi, un decreto di omologa o una sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio o di scioglimento del matrimonio, o, ancora, un decreto di modifica delle condizioni
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Sulla problematica v. Trib. Torino, 15 gennaio 2015 (ord.), n.92113, in Giur. it., 2015, 1398 ss. In termini non dissimili F. Tommaseo, La tutela dell’interesse dei minori dalla riforma della filiazione alla negoziazione assistita delle crisi coniugali, in Famiglia e diritto, 2015, 161.
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di separazione o di divorzio, in assenza di una espressa domanda di parte, non potendosi considerare tale, neppure a seguito di uno sforzo ermeneutico, l’accordo di negoziazione assistita con il quale i coniugi avevano optato per un diverso procedimento alternativo a quello giurisdizionale tradizionale6. Se questo è vero e se si vuole evitare di vanificare l’intera attività posta in essere dalle parti fino a quel momento e, nel contempo, frustrare l’intento di degiurisdizionalizzazione perseguito dal legislatore del 2014, il Presidente del Tribunale, esaminati i rilievi del Procuratore della Repubblica ostativi al rilascio dell’autorizzazione7 e convocate le parti dinnanzi a sé, potrebbe invitare le stesse a modificare l’accordo nei termini indicati dal Procuratore della Repubblica in modo da renderlo autorizzabile8. Ciò presuppone, naturalmente, che il Presidente del Tribunale condivida interamente i rilievi formulati dal Procuratore della Repubblica. Il che potrà accadere quando questi ultimi riguardino la carenza di requisiti formali dell’accordo la cui integrazione lo renderà senz’altro autorizzabile9, o la mancanza di requisiti sostanziali che sia pure condivisa dal Presidente del Tribunale10. Laddove le parti aderiscano completamente ai rilievi del Procuratore della Repubblica non è necessario che l’accordo così modificato passi nuovamente al vaglio di quest’ultimo. Sarà il Presidente, infatti, a farsi garante delle modifiche apportate dalle parti all’accordo. In tal modo si recupererebbe anche il ruolo del Presidente del Tribunale nel procedimento di negoziazione assistita che altrimenti resterebbe dubbio, come detto in precedenza, specie quando le successive attività dovrebbero svolgersi dinnanzi al collegio. Naturalmente potrebbe accadere che le parti aderiscano solo in parte ai rilievi del Procu-
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Sulla problematica vedi anche E. D’Alessandro, La negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio, in AA.VV., Fuori dal processo: trasferimento in arbitrato, negoziazione assistita e accordi sul matrimonio, a cura di S. Chiarloni, in Giur. it., 2015, 1285 nonché Trib. Torino, 15 gennaio 2015, cit. 7 Rilievi che stando alla lettera del 2° comma dell’art. 6 devono necessariamente riguardare la non rispondenza dell’accordo all’interesse dei figli. Il che pone il problema se in presenza di vizi formali dell’accordo oppure di altri vizi sostanziali che non influiscono o pregiudicano l’interesse dei figli, il P.M. possa ugualmente negare l’autorizzazione e trasmettere gli atti al Presidente del Tribunale ovvero debba interloquire, nei limiti del possibile, con le parti invitandole a sanare il vizio in modo da salvare il buon esito del procedimento nell’ottica appunto della degiurisdizionalizzazione. Diversamente si arriverebbe al paradosso che in presenza di figli e di motivi di invalidità dell’accordo che non pregiudicano il rispetto dell’interesse dei figli, il P.M. non potrebbe né autorizzare l’accordo, né tanto meno trasmettere gli atti al Presidente del Tribunale. È preferibile ritenere dunque che l’art. 6, 2° comma, vada letto nel senso che in presenza di figli l’accordo deve essere trasmesso dal P.M. che nega l’autorizzazione al Presidente non solo quando non risponde all’interesse dei figli, ma, più in generale, in tutti quei casi in cui il P.M. in assenza di figli può negare il nullaosta ravvisando irregolarità dell’accordo. Sulla problematica vedi anche F. Tommaseo, Negoziazione assistita per modificare le condizioni del divorzio e tutela del figlio maggiorenne ancora non autonomo, in Famiglia e diritto, 2015, 899 ss. 8 Così anche F. Tommaseo, La tutela dell’interesse dei minori, cit., 161, muovendo da una interpretazione analogica dell’art. 158, 2° comma, c.c. In giurisprudenza v. Trib. Torino, 15 gennaio 2015 (ord.), n.92113, cit., 1398 ss. 9 Si pensi, a titolo esemplificativo, al rispetto della forma scritta nella convenzione (art. 2, comma 4), alla mancata sottoscrizione della convenzione dalle parti (art. 2, comma 6), alla mancanza di certificazione da parte degli avvocati di entrambe le parti delle sottoscrizioni dei loro assistiti (art. 2, comma 6), alla mancanza conferimento della procura alle liti agli avvocati, al superamento del termine concordato dalle parti per l’espletamento della procedura (art. 2, comma 2, lett. A), al mancato inserimento nell’accordo della presa d’atto che gli avvocati hanno tentato di conciliare le parti e le hanno informate sulla possibilità di esperire la mediazione familiare (art. 6, comma 3). 10 Ciò si verifica, a titolo esemplificativo, quando l’accordo non sia rispondente all’interesse dei figli per quel che riguarda la regolamentazione pattizia stabilita in ordine alla misura del contributo patrimoniale di un coniuge in favore dell’altro ai fini del mantenimento dei figli oppure per quel che riguarda il regime di affidamento stabilito o le modalità di collocazione dei figli.
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ratore della Repubblica fatti propri dal Presidente del Tribunale ovvero che non vi aderiscano affatto11. Nel primo caso, il meccanismo di controllo sopra prospettato da parte del Presidente del Tribunale non può operare perché l’accordo dovrebbe essere nuovamente esaminato dal Procuratore della Repubblica il quale, tra l’altro, difficilmente potrà valutarlo favorevolmente visto che le parti non hanno aderito per intero ai suoi rilievi. In questo caso, così come in quello in cui le parti ritengano di non poter aderire, è ipotizzabile che il Presidente del Tribunale, convocate le parti dinnanzi a sé, non potendo da un lato costringerle ad adeguarsi ai rilievi, dall’altra trasformare il procedimento d’ufficio, debba invitarle a depositare ricorso per separazione consensuale o ricorso congiunto per la cessazione degli effetti civili del matrimonio o, ancora, per la modifica delle condizioni di separazione e di divorzio, laddove intendano proseguire nella richiesta di separazione, cessazione degli effetti civili del matrimonio o modifica delle condizioni di separazione e divorzio12.
3. Limiti al potere del Presidente di concedere l’autorizzazione in precedenza negata dal P.M.
La vicenda oggetto del provvedimento annotato non rientra, tuttavia, in alcuna delle alternative procedimentali sopra ipotizzate e presenta, ad una più attenta lettura, delle peculiarità sue proprie che meritano alcune riflessioni. Il Tribunale di Palermo, infatti, preso atto delle ragioni del diniego dell’autorizzazione e ritenuto che al giudicante debba essere riconosciuta un’autonomia di valutazione rispetto al P.M., anche in considerazione della possibilità, avvenuta nel caso concreto, di interloquire con le parti al fine di ottenere delucidazioni e chiarimenti, autorizza l’accordo prima negato dal pubblico ministero. Vi è dunque, secondo il Tribunale di Palermo, un’ulteriore alternativa procedimentale ipotizzabile oltre a quelle viste in precedenza alle quali si riferisce anche il Giudice nel provvedimento annotato. Non è da escludere, infatti, almeno in teoria, che il Presidente del Tribunale possa autorizzare un accordo in precedenza negato dal P.M., non semplicemente invitando le parti ad adeguarsi ai rilievi mossi da quest’ultimo nel provvedimento di diniego, ma addirittura discostandosi dalle sue conclusioni. Ammettere la possibilità di un tale sviluppo procedimentale presuppone, tuttavia, necessariamente, a monte, la soluzione di una problematica. Occorre domandarsi, infatti, se il
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La mancata adesione delle parti ai rilievi del P.M. potrà avvenire, evidentemente, solo quando il diniego sia avvenuto per ragioni sostanziali che le parti non condividono. 12 Così anche Trib. Torino, 15 gennaio 2015 (ord.), n.92113, cit., 1398 ss.
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parere del pubblico ministero sia o meno vincolante per il Presidente del Tribunale. Come è noto il parere del P.M. è necessario13 ma non vincolante e ciò, a maggior ragione, in considerazione del fatto che i giudici sono soggetti soltanto alla legge14. Vincolare necessariamente un magistrato giudicante al parere di un magistrato inquirente rappresenterebbe certamente un’anomalia per il nostro processo civile che non trova rispondenza in altre norme del codice, né nella carta costituzionale. Di contro, laddove si ritenesse che il Presidente del Tribunale non sia mai vincolato al parere del P.M. e, quindi, per quel che più ci interessa, al diniego dell’autorizzazione, verrebbe meno in un solo colpo il meccanismo di controllo approntato dal legislatore nell’art. 6 del d.l. n.132/2014 ed al tempo stesso la funzione deflativa per la magistratura giudicante di tale controllo15. A ben vedere, tuttavia, ritenere che il Presidente del Tribunale possa dissentire dal P.M., ovviamente nel solo caso di diniego, non contrasta con lo spirito deflativo dell’istituto e con l’esigenza di salvaguardare l’interesse primario della prole16 ed anzi lo rafforza tenuto che il Presidente potrebbe in virtù dei suoi potere salvare un procedimento altrimenti destinato a fallire, nel caso in cui ritenga che vi siano i presupposti per autorizzare un accordo in precedenza bocciato17. Tale possibilità è resa certamente possibile, come pure osservato dal Tribunale di Palermo, dalla natura camerale della fase procedimentale di volontaria giurisdizione che si svolge avanti al Presidente del Tribunale a differenza di quella avanti al P.M. che ha poco di giurisdizionale e che si avvicina molto più ad un procedimento di natura amministrativa18.
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La mancanza del parere del P.M. vizia inesorabilmente, tuttavia, il procedimento rendendolo nullo. Vedi in tal senso A. Ronco, Negoziazione assistita ed accordi tra coniugi: il ruolo del p.m. e del Presidente del Tribunale, in Giur. It., 2015, 1405. V. anche Trib. Termini Imerese, 24 marzo 2015, in Giur. it., 2015, 1879 s. con nota di F. Tizi, Prime riflessioni sui poteri presidenziali ex art. 6, 2° comma, D.L. 132/2014 convertito nella L. n. 162/2014. Contra Trib. Torino, 20 aprile 2015, cit., che esclude la possibilità per il Presidente del Tribunale di autorizzare condizioni troppo differenti da quelle depositate alla Procura della Repubblica pena lo svuotamento della funzione riservata a quest’ultimo organo. 15 Così A. Ronco, Negoziazione assistita, cit., 1405, a maggior ragione in considerazione del fatto che il legislatore nel momento in cui ha previsto che in caso di parere favorevole e, conseguentemente, di autorizzazione da parte del P.M., non è necessario che i presupposti dell’autorizzazione siano verificati a posteriori dal tribunale, ha evidentemente fatto affidamento sulla funzione di tale organo. Secondo Trib. Torino, 20 aprile 2015, cit, lo spazio di azione del Presidente del Tribunale in presenza del rifiuto del P.M. non può spingersi fino ad autorizzare condizioni troppo differenti da quelle depositate alla Procura della Repubblica pena lo svuotamento della funzione che la normativa attribuisce a tale organo. 16 La salvaguardia dell’interesse della prole è alla base dei controlli effettuati dal P.M. all’accordo di negoziazione in presenzia di figli. 17 Trib. Termini Imerese, 24 marzo 2015, cit., 1879, ritiene possibile che il Presidente del Tribunale possa dissentire dal rigetto di autorizzazione da parte del P.M. Vedi anche Trib. Torino, 20 aprile 2015, cit., secondo cui il Presidente del Tribunale può eccezionalmente provvedere in caso di rifiuto del P.M., solo quando non siano in discussione le condizioni relative ai rapporti economici tra i familiari, ma la forma stessa dell’accordo di negazione assistita. Sulla problematica si veda anche F. Tommaseo, Separazione per negoziazione assistita e poteri giudiziali a tutela dei figli: primi orientamento giurisprudenziali, in Famiglia e diritto, 2015, 395, secondo cui la formula generica secondo cui il Presidente “provvede senza ritardo” è compatibile con una interpretazione che gli attribuisce il potere di valutare nel merito le clausole già presentate dal P.M. e da questo non autorizzate ovvero quelle successivamente riformulate dalle parti. In conseguenza di ciò il Presidente all’udienza potrà anche sindacare negativamente l’apprezzamento del P.M. accordando l’autorizzazione prima negata da quest’ultimo sempre che l’accordo risponda all’interesse dei figli minori. V. anche F. Tommaseo, Negoziazione assistita per modificare le condizioni del divorzio, cit., 899 ss. 18 La possibilità per il Presidente del Tribunale di porre in essere limitati atti istruttori può essere argomentata secondo A. Ronco, Negoziazione assistita, cit., 1406, dalla previsione contenuta all’interno dell’art. 738, 3° comma, c.p.c. di assumere informazioni. In termini non dissimili Trib. Torino, 20 aprile 2015, cit, 14
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Il P.M., infatti, in mancanza di figli si limita a verificare l’assenza di mere irregolarità formali dell’accordo e ad esaminare il suo oggetto sostanziale negando il nulla osta solo laddove vengano pregiudicate situazioni giuridiche indisponibili per le parti. In presenza di figli minorenni, di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti, il P.M. deve invece valutare la rispondenza delle pattuizioni contenute nell’accordo di negoziazione all’interesse dei figli, che è il parametro di ogni valutazione, senza tuttavia poter svolgere un’istruttoria e senza quindi poter interloquire ufficialmente con le parti in contraddittorio ovvero ascoltare il minore. Egli effettuerà quindi una verifica meramente cartolare e superficiale dell’accordo a lui sottoposto e della eventuale documentazione depositata a corredo dello stesso. Il Tribunale di Palermo preso atto delle ragioni del diniego dell’autorizzazione da parte del P.M., ascoltate le delucidazioni ed i chiarimenti delle parti, invita queste ultime a modificare il contenuto dell’accordo19 per poi autorizzarlo in questa nuova versione, dopo che i procuratori delle parti si sono fatti nuovamente garanti della sua conformità all’ordine pubblico ed alle norme imperative. A dispetto di quanto possa apparire da una lettura affrettata del provvedimento, non vi è, tuttavia, contrasto tra le conclusioni del P.M. e l’autorizzazione concessa dal Tribunale, tenuto conto che il Giudice non ha autorizzato il medesimo accordo rifiutato in precedenza dal P.M., ma ha prima invitato le parti a modificarne il contenuto così da renderlo autorizzabile e solo successivamente ha concesso la relativa autorizzazione. Per altro la conferma che la fonte dell’accordo di negoziazione sia sempre la volontà delle parti, che non potrà mai essere modificata o integrata dal Presidente del Tribunale, per non snaturare la natura dell’istituto, neppure nel caso in cui sia quest’ultimo a suggerire le modifiche da apportare, la si ritrae dall’affermazione, contenuta nel provvedimento, secondo cui dovrà essere comunque certificata da parte dei procuratori delle parti, prima che venga concessa l’autorizzazione da parte del Presidente, la conformità dell’accordo alle norme imperative ed all’ordine pubblico. Il provvedimento annotato, invece, non affronta affatto il problema, ben più complesso, accennato in apertura, se il Presidente del Tribunale possa effettivamente concedere l’autorizzazione negata dal P.M. nel caso in cui non condivida i rilievi ostativi – evidentemente sostanziali20 – alla concessione dell’autorizzazione e, quindi, se il Presidente possa autorizzare il medesimo contenuto di un accordo prima non autorizzato, con ciò ponendosi evidentemente in contrasto con le conclusioni dell’organo inquirente il cui parere, come detto, è certamente necessario ma non vincolante. Tale problematica non trova soluzione neppure nell’art. 6 del D.L. 132/2014, suscitando
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Affinché il nuovo accordo, seppure suggerito dal Presidente del Tribunale, sia autorizzabile è altresì necessario che i procuratori delle parti attestino la conformità dell’accordo stesso alle norme imperative ed all’ordine pubblico 20 A titolo esemplificativo relativi al contenuto dell’accordo, ai tempi di permanenza dei minori con i genitori, alle condizioni economiche pattuite relative al mantenimento dei minori
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l’interrogativo se l’omissione sia dovuta ad una dimenticanza oppure ad una scelta consapevole del legislatore.
4. Segue. I rapporti tra P.M. e Presidente del Tribunale ed il senso del susseguirsi delle fasi del procedimento.
La soluzione della problematica richiede una riflessione più approfondita su come il legislatore abbia inteso configurare i rapporti tra P.M. e Presidente nel Tribunale nonché sul significato del susseguirsi delle fasi nel procedimento di negoziazione assistita. V’è da chiedersi innanzitutto se sia legittima e ragionevole la previsione dell’udienza presidenziale al “fine di sollecitare una “riedizione” dei patti nel senso auspicato dal P.M.”, come si legge nel provvedimento annotato, solamente nel caso di bocciatura degli accordi genitoriali e non nel caso di bocciatura degli accordi coniugali, “venendo in gioco, comunque, in entrambi i casi, diritti fondamentali”. In secondo luogo occorre domandarsi se sia corretto sottoporre al “controllo” del Presidente del Tribunale, nell’interesse dei figli minori, maggiorenni non economicamente autosufficienti o incapaci o portatori di handicap, solo quei provvedimenti non autorizzati dal P.M. e non anche quelli autorizzati e ciò, a maggior ragione, se si tiene conto di come sono strutturati i controlli da parte del P.M. Per quanto riguarda il primo aspetto va detto che il legislatore differenzia la fase procedimentale dei controlli innanzi al P.M. nonché quella eventualmente successiva, come è noto, a seconda se siano o meno presenti figli minorenni o figli maggiorenni non autosufficienti dal punto di vista economico ovvero figli incapaci o portatori di handicap grave. Ciò perché, nell’intenzione del legislatore, l’esigenza di protezione di queste parti c.d. deboli richiede una maggiore attenzione rispetto al caso in cui manchino. Tale maggiore attenzione si traduce nel potere del P.M. di negare “l’autorizzazione” all’accordo nel caso in cui esso non risponda agli interessi dei soggetti protetti ovvero di concederla quanto l’accordo dei genitori protegga in maniera adeguata tali interessi21. Il discrimine per il legislatore è dunque la presenza o meno dei figli e non l’oggetto dell’accordo. Il che lascia in parte perplessi perché possono esservi alla base dell’accordo tra coniugi (non genitori ovvero genitori con figli non bisognosi di protezione), degli interessi certamente meritevoli di protezione e indisponibili per le parti. Le fattispecie sostanziali sottese alla negoziazione assistita sono, infatti, variegate dato che si può richiedere la separazione personale tra coniugi, lo scioglimento del matrimonio o la
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Ciò a differenza dell’ipotesi in cui non vi sia l’esigenza di protezione e si tratti di una mero accordo tra coniugi, ipotesi questa nella quale il P.M. si limita invece a concedere o negare un semplice nulla osta all’accordo.
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cessazione degli effetti civili dello stesso. Si possono inoltre regolamentare i rapporti economici tra i coniugi così come la disciplina personale ed economica relativa ai figli minori, ai figli maggiorenni incapaci o portatori di un handicap grave, nonché, infine, quella dei figli maggiorenni economicamente non autosufficienti22. Come è evidente i diritti sottesi alle varie fattispecie sono differenti così come l’attività giurisdizionale che il giudice va a svolgere in relazione alle stesse23. Nella separazione personale, il consenso dei coniugi è infatti sempre sufficiente e non può mai essere messo in discussione dal giudice il quale, in sede di omologazione, non fa altro che recepire la volontà delle parti24. In caso di divorzio, al contrario, la sola volontà manifestata dalle parti non è sufficiente per il prodursi dell’effetto invocato, essendo comunque necessaria la sussistenza di uno dei requisiti previsti dall’art. 3, l. n.898/1970. La natura indisponibile del diritto oggetto della fattispecie ha come conseguenza che l’intervento giurisdizionale, che ha natura dichiarativa, diviene necessario non potendosi altrimenti raggiungere l’effetto invocato25. Laddove si discuta, invece, solo della modifica dei rapporti economici tra coniugi, ci troviamo certamente in presenza di diritti disponibili rispetto ai quali, l’intervento del giudice, non può in alcun modo sindacare o sostituirsi alla volontà delle parti. La disciplina personale ed economica relativa ai figli minori, a quelli maggiorenni incapaci o portatori di handicap gravi ha, invece, natura indisponibile e rispetto ad essa l’intervento del giudice è indispensabile ed ha funzione dichiarativa. Ci troviamo sempre in presenza di diritti disponibili, infine, nel caso in cui si discuta della disciplina economica dei figli maggiorenni non economicamente sufficienti. In questo caso, al pari di quanto avviene per la modifica dei rapporti economici tra coniugi, l’intervento del giudice si ha solo allorquando sorga un contrasto tra le parti26. La varietà dell’oggetto dei possibili accordi di negoziazione assistita evidenzia come l’assenza di figli bisognosi di protezione non implichi necessariamente che gli interessi sottesi all’accordo richiedano una minore protezione sicché la differenziazione dei controlli e la diversa evoluzione del procedimento a seconda che siano o meno presenti i figli non convince appieno ed appare finanche irragionevole. Quanto sopra a meno che si voglia ritenere che la protezione offerta dai controlli cartolari effettuati dal P.M. in presenza o meno di figli meritevoli di maggiore protezione sia, nell’ottica di degiurisdizionalizzazione perseguita dal legislatore, sufficiente ad assicurare quest’ultimo obiettivo e che la successiva fase avanti al Presidente del Tribunale non vada intesa come
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Vedi in tal senso F.P. Luiso, Le disposizioni in materia di divorzio, in AA.VV., Processo civile efficiente e riduzione arretrato, a cura di F.P. Luiso, Commento al d.l. n.132/2014, con.in l.n. 162/2014, Torino, 2014, 34. 23 Osserva A. Ronco, Negoziazione assistita, cit., 1400, come l’idea di fondo che ha animato il legislatore è quella secondo cui quanto si forma tramite mero consenso, può essere disciplinato è sciolto sempre per il tramite del mero consenso. 24 L’intervento del giudice in questo caso, come è noto, ha la funzione di giurisdizione volontaria. 25 Ci troviamo in presenza di un’ipotesi tipica di giurisdizione costitutiva necessaria. 26 Per un approfondimento, vedi sempre F.P. Luiso, Le disposizioni in materia di divorzio, cit., 34 s.
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di verifica dell’operato del P.M., quanto, piuttosto, sia finalizzata a salvare, nei limiti del possibile, un procedimento altrimenti destinato a fallire con evidente frustrazione dell’obiettivo perseguito di evitare il ricorso alla tutela giurisdizionale. In quest’ottica si potrebbe giustificare altresì l’altra anomalia evidenziata in apertura di paragrafo individuando le ragioni per cui solo i provvedimenti di diniego di autorizzazione sarebbero sottoposti al controllo del Presidente del Tribunale o, per dirla in altri termini, determinerebbero l’evoluzione del procedimento nella fase presidenziale a differenza dei provvedimenti di autorizzazione. Nell’ottica del legislatore ed avendo a mente l’obiettivo dichiarato di degiurisdizionalizzare la definizione di talune situazioni giuridiche, i controlli sull’accordo effettuati dal P.M., che fanno seguito a quelli già svolti dai procuratori delle parti che hanno certificato, sotto la propria responsabilità, la conformità dello stesso all’ordine pubblico ed alle norme imperative, garantiscono da soli la bontà e la legittimità dell’accordo e solo nel caso in cui essi abbiano evidenziato un ostacolo all’autorizzazione, spetterà al Presidente del Tribunale, che è munito, a differenza del P.M., di poteri giurisdizionali, il compito di salvare le sorti del procedimento e non semplicemente quello di “controllare” la correttezza del diniego dell’autorizzazione all’accordo. Il Presidente del Tribunale potrà, in particolare, rendere l’accordo autorizzabile nel senso auspicato dal P.M. nel provvedimento di diniego oppure potrà suggerire le modifiche da apportare per renderlo autorizzabile, modifiche che le parti saranno libere di accettare o meno, tenuto conto che la fonte dell’accordo è e resta la volontà delle parti a prescindere dall’autorizzazione concessa. In questo modo si potrebbe spiegare anche perché il procedimento evolve di fronte al Presidente del Tribunale solo in caso di diniego dell’autorizzazione e non nel caso in cui essa venga concessa e si potrebbe spiegare anche perché l’art. 6 del D.L. n.132/2014 non contempli affatto la possibilità per il Presidente del Tribunale di autorizzare le medesime condizioni dell’accordo rifiutate dal P.M. Per come si è tentato di ricostruire l’istituto, tale ultima ipotesi non è infatti configurabile nell’ottica del legislatore in considerazione della fonte negoziale dell’accordo, della funzione di verifica attribuita ai procuratori delle parti e del ruolo di controllo dell’operato delle parti attribuito al P.M. nel procedimento di negoziazione. In tale contesto il diniego di autorizzazione da parte del P.M. oltre a pregiudicare direttamente le parti del procedimento, rischia seriamente di frustrare le finalità dell’istituto ed in questo senso si può giustificare quindi l’intervento ed il ruolo costruttivo (e non distruttivo di quanto fatto in precedenza dal P.M.) del Presidente del Tribunale e la mancata previsione normativa della possibilità per quest’ultimo di mettersi in contrasto con le conclusioni del P.M. autorizzando l’accordo negato dal primo.
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