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GiovAnni cAlvellini, Flessibilità e work-life balance: un percorso tra realtà e retorica ....................... »
from Labor4/21
Flessibilità e work-life balance: un percorso tra realtà e retorica*
Sommario: 1. La flessibilità nel modello eurounitario di equilibrio vita-lavoro. – 2. Flessibilità e conciliazione: il valore della programmabilità del tempo nell’ordinamento italiano. – 3. La programmabilità nel tempo pieno: fotografia dell’oblio delle esigenze familiari. – 4. La retorica delle forme di lavoro flessibili finalizzate al work-life balance… – 5. …e la cruda realtà normativa.
Sinossi. L’Autore, dopo aver brevemente ricostruito quello che è lo schema di equilibrio vitalavoro attualmente promosso dall’Unione europea, definisce il ruolo che la flessibilità delle modalità di lavoro è chiamata a svolgere all’interno di quel modello. Constatato che, affinché gli istituti della flessibilità possano effettivamente considerarsi funzionali al work-life balance, è necessario che essi consentano alla lavoratrice e al lavoratore di pianificare in un determinato segmento temporale lo svolgimento di attività attinenti alla sfera privata, nel saggio viene assunta la programmabilità del tempo come chiave di lettura del grado di attenzione che nel nostro ordinamento è riservato ai bisogni della persona che lavora con responsabilità familiari. Secondo questo paradigma sono prese in esame la disciplina domestica dell’orario di lavoro nel tempo pieno, quella del part-time e quella del lavoro da remoto nelle forme del telelavoro e del lavoro agile. I risultati mettono in luce una profonda incoerenza della disciplina sostanziale di quegli istituti con la finalità conciliativa cui apparentemente essi sono ispirati.
Abstract. After briefly piecing together the work-life balance scheme currently promoted by EU, the Author defines the role that flexibility of working arrangements is called to carry out inside that model. Having verified that the flexibility institutions, in order to be really functional to work-life balance, shall allow the employee to plan private life activities in a given segment of time, time programmability is assumed as the reading-key of the attention degree paid by Italian legal system to the need of the person who works with family responsibilities. In the light of this paradigm, the Italian regulatory regime of working time in full-time work as well as the regulations of part-time work and remote working arrangements in the form of smart-working and telework are examined. The results of such analysis reveal the deep inconsistency of the substantive discipline of those institutions with the work-life balance objective to which apparently they are inspired.
* Il testo rielabora la relazione che l’A. ha tenuto in occasione del webinar “La famiglia nel prisma giuslavoristico: valori, rapporti, tutele” organizzato dall’Università di Siena e tenutosi il 27 maggio 2021. Una versione ridotta dello stesso è destinata alla pubblicazione negli atti del convegno.
parole Chiave: Equilibrio vita-lavoro – Direttiva 2019/1158/UE – Dual earner / dual carer – Modalità di lavoro flessibili – Ordinamento giuridico italiano – Programmabilità del tempo – Flessibilità oraria nel lavoro a tempo pieno – Lavoro a tempo parziale – Lavoro agile – Telelavoro.
La dir. 2019/1158/UE ha confermato il cambio di approccio dell’Unione europea al tema della conciliazione tra attività professionale e vita familiare1. Con essa, infatti, si è compiuto un ulteriore passo avanti nel percorso – iniziato oramai un quarto di secolo fa con la dir. 96/34/CE che recepiva l’accordo quadro in materia di congedi parentali2 – per l’affermazione di un preciso schema di sviluppo del rapporto famiglia-lavoro: quello dual earner / dual carer, in base al quale i genitori, e, più in generale, entrambi i membri della coppia, sono ugualmente impegnati nel lavoro retribuito e condividono equamente le responsabilità di cura dei/delle figli/figlie e degli altri familiari bisognosi di assistenza3 .
È evidente, in questo senso, l’enfasi nella fonte derivata europea sul ruolo del padre e del c.d. “secondo genitore equivalente”4, ai quali vengono riservate specifiche misure di conciliazione5 proprio allo scopo di incoraggiarne il coinvolgimento nell’assolvimento delle funzioni di assistenza all’interno della famiglia. Tutto ciò in una duplice prospettiva: quella – di basilare importanza per l’ordinamento eurounitario (e non solo, ovviamente) – della parità di genere per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro e quella – meno qualificante il diritto dell’Unione europea, ma altrettanto centrale sul piano della politica sociale e del rispetto dei diritti fondamentali della persona6 – dell’interesse del/della figlio/a a instaurare precocemente un legame solido con entrambi i genitori.
1 Le espressioni “conciliazione” ed “equilibrio” (tra lavoro e vita privata), sebbene, a rigore, non possano essere considerate del tutto equivalenti (sul punto, v. Militello, Conciliare vita e lavoro. Strategie e tecniche di regolazione, Giappichelli, 2020, 35), saranno qui utilizzate come sinonimi. D’altronde, così fa anche il legislatore europeo nella dir. 2019/1158/UE. 2 ChiereGato, A Work-Life Balance for All? Assessing the Inclusiveness of EU Directive 2019/1158, in IJCLLIR, 2020, 68 ss. 3 Va detto che i fondamenti teorici e la validità universale del modello sono oggetto di discussione in sociologia. In proposito v. orloFF, Should feminists aim for gender symmetry? Why a dual-earner/dual-caregiver society is not every feminist’s utopia, in GorniCK,
Meyer (a cura di), Gender equality. Transforming family divisions of labor, Verso, 2009, 129 ss., saraCeno, KeCK, Towards an integrated approach for the analysis of gender equity in policies supporting paid work and care responsibilities, in Demographic Research, 2011, vol. 25, 371 ss. e GaiasChi, Oltre il modello dual earner-dual carer: dalla conciliazione condivisa per tutt* alla conciliazione condivisa fra tutt*, in AG About Gender, 2014, n. 6, 1 ss. 4 L’utilizzo di questa espressione nel testo della direttiva testimonia la presa di coscienza da parte del legislatore europeo dell’esistenza di famiglie diverse da quella “tradizionale”. Non si può però tacere il fatto che appartiene comunque agli Stati membri la competenza a decidere se estendere i diritti previsti dalla direttiva anche a questa diversa figura (considerando 18). 5 Cfr. izzi, Il work-life balance al maschile: a proposito di congedi dei padri, in LD, 2020, 333 ss. 6 Cfr. l’art. 18 della Convenzione sui diritti dell’infanzia dell’Onu (1989), non a caso richiamato al considerando 5 della direttiva.
Certo, non si può tacere il fatto che le misure concretamente messe in campo dal legislatore europeo per l’attuazione di quel modello sono ancora insufficienti. È evidente lo scarto tra gli obiettivi inizialmente perseguiti (in parte riflessi in un’ambiziosa proposta originaria della Commissione) e il contenuto precettivo del provvedimento approvato7. A dire il vero, un tale esito, conseguenza di un compromesso al ribasso resosi necessario durante l’iter normativo perché vi fosse un sufficiente consenso da parte dei Paesi membri, non può sorprendere neppure lo studioso occasionale del diritto del lavoro dell’Unione europea. Nonostante la proclamazione del Pilastro dei diritti sociali8 abbia senza dubbio dato nuovo impulso all’azione delle istituzioni eurounitarie in questo settore9, resta confermato quel “deficit sociale”10 che costituisce uno degli elementi caratterizzanti l’evoluzione dell’Unione europea sin dalle sue origini. Di questo “motivo di fondo”, allora, l’erosione per volere degli Stati membri del livello di tutela previsto dalla proposta presentata nel 2017 dalla Commissione Juncker rappresenta nient’altro che l’ennesima manifestazione; una nuova testimonianza delle difficoltà delle istituzioni eurounitarie di portare a compimento iniziative legislative che promuovano un significativo progresso sociale.
La dir. 2019/1158/UE ha quindi in parte deluso le aspettative di chi si attendeva un testo normativo capace di contribuire in modo decisivo al graduale affermarsi del modello dual earner / dual carer. Certo, il contenuto prescrittivo della fonte in esame punta in quella direzione con più convinzione di quanto abbia fatto la dir. 2010/18/UE; basti pensare all’introduzione di un congedo di paternità autonomo (art. 4) e al raddoppio dei mesi di congedo parentale non trasferibile (art. 5, par. 2). Queste e tutte le altre misure hard previste11, però, sono evidentemente ancora troppo poco per riuscire nell’attuazione degli obiettivi che lo stesso legislatore europeo si è posto12. Durata contenuta del congedo di paternità, mancata indicazione di un livello minimo della retribuzione/indennità spettante in caso di esercizio del diritto al congedo parentale e rinuncia a intervenire in materia di orario di lavoro sono solo alcuni dei limiti di una disciplina che risente del deficit sociale eurounitario e riporta le ferite di un travagliato iter di approvazione.
Detto questo sul contenuto precettivo della dir. 2019/1158/UE, deve comunque apprezzarsi il fatto che in essa è chiara come non mai la spinta soft verso lo schema dual earner / dual carer. L’importanza della fonte in esame è insomma rilevabile più sul piano delle politiche che su quello dei diritti. Essa, in altre parole, non può soddisfare dal punto di vista dell’armonizzazione legislativa, ma ribadisce con più forza e nettezza che in passato
7 I “passi indietro” fatti durante il percorso che ha condotto dalla proposta iniziale all’approvazione della direttiva sono segnalati da
ChiereGato, A Work-Life Balance for All?, cit., 67 ed ead., Conciliazione vita-lavoro: la nuova Direttiva UE sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare, in LG, 2020, 131. 8 Il Pilastro è stato proclamato solennemente il 17 novembre 2017 da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione nell’ambito del vertice sociale di Göteborg. 9 l. zoppoli, Valori, diritti e lavori flessibili: storicità, bilanciamento, declinabilità, negoziabilità, in WP D’Antona, It., n. 400/2019, 10. 10 Per tutti Giubboni, Diritti e solidarietà in Europa. I modelli sociali nazionali nello spazio giuridico europeo, il Mulino, 2012, 47. 11 Altra importante novità rispetto alla dir. 2010/18/UE è la previsione di un congedo per i prestatori di assistenza (art. 6), che va ad affiancare il preesistente diritto di assentarsi dal lavoro per cause di forza maggiore derivanti da ragioni familiari urgenti (art. 7; già clausola 7 dell’accordo quadro allegato alla dir. 2010/18/UE). 12 ChiereGato, Conciliazione vita-lavoro, cit., 130 ss.; Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 40 ss.
l’orizzonte normativo cui la legislazione nazionale in materia di work-life balance deve tendere.
In questa direzione dovrebbero dunque essere declinati nei Paesi membri gli strumenti di conciliazione, ancora oggi riconducibili a tre tradizionali categorie: quella dei congedi e delle altre forme di astensione (indennizzata o meno) dal lavoro, quella dei servizi di cura alla persona e quella della flessibilità dei tempi e del luogo della prestazione. Sebbene a rigore una puntuale misurazione della propensione di un ordinamento giuridico alla promozione del work-life balance nel senso indicato dalla direttiva debba tener conto di tutte quante le misure a ciò funzionali senza partizioni convenzionali tra classi di strumenti, nell’economia del presente scritto è necessario limitare il campo di osservazione a soltanto una delle categorie rammentate: quella della flessibilità delle modalità di lavoro13 .
Sotto questo profilo, le politiche incoraggiate dalla fonte derivata europea sono quelle che vanno nella direzione di consentire alle lavoratrici e ai lavoratori che siano anche genitori o prestatori di assistenza di adeguare le modalità di lavoro (cioè tempi e luogo della prestazione) alle proprie esigenze familiari (considerando 34). Questo orientamento è poi temperato dall’affermazione secondo la quale il datore di lavoro dovrebbe poter decidere se approvare o respingere la richiesta di modalità di lavoro flessibili presentata dalla lavoratrice o dal lavoratore (considerando 36); tuttavia, non si può non apprezzare lo spostamento del baricentro verso i bisogni di chi lavora. Questi ultimi dovrebbero poter entrare nel rapporto di lavoro determinandone una modifica e favorendo quel processo di adeguamento del lavoro all’essere umano cui – a dispetto delle affermazioni di principio14 – è rimasta insensibile la disciplina europea in materia di organizzazione dell’orario di lavoro.
Che questa nuova inclinazione sia annoverabile tra gli elementi ispiratori della dir. 2019/1158/UE è provato dal suo art. 9 e dal diritto di richiedere modalità di lavoro flessibili che esso riconosce alla lavoratrice e al lavoratore che siano genitori o prestatori di assistenza ad altro familiare. La norma rappresenta indubbiamente un miglioramento del disposto della dir. 2010/18/UE, che prevede la possibilità di richiedere modifiche alle modalità di lavoro soltanto al rientro dal congedo parentale15 (clausola 6, punto 1, dell’accordo quadro allegato alla direttiva). È altrettanto chiaro però che – come da molti condivisibilmente osservato16 – il contenuto precettivo dell’art. 9 è di incerta definizione
13 In materia di congedi e altre specie di astensioni si possono leggere – solo per citare le più recenti opere monografiche – Militello,
Conciliare vita e lavoro, cit. e vallauri, Genitorialità e lavoro. Interessi protetti e tecniche di tutela, Giappichelli, 2020. Sui servizi di cura alla persona (e sul lavoro prestato in quel settore) si rinvia invece a borelli, Who cares? Il lavoro nell’ambito dei servizi di cura alla persona, Jovene, 2020. 14 V. la dir. 2003/88/CE al considerando 11 e all’art. 13. 15 Le conseguenze di una siffatta delimitazione del campo di applicazione della previsione possono essere osservate in C. giust., 18 settembre 2019, causa C-366/18, Ortiz Mesonero c. UTE Luz Madrid Centro, in www.curia.europa.eu. In quella pronuncia, infatti, il Giudice europeo ha ritenuto la dir. 2010/18/UE inapplicabile al caso del lavoratore turnista che, al fine di prendersi direttamente cura dei figli piccoli, chiedeva di poter beneficiare di un orario di lavoro fisso, senza trovarsi, però, in una situazione di rientro dal congedo parentale. 16 CaraCCiolo di torella, An emerging right to care in the EU: a “New Start to Support Work-Life Balance for Parents and Carers”, in
ERA Forum, 2017, 193 s.; ChiereGato, A Work-Life Balance for All?, cit., 68; ead., Conciliazione vita-lavoro, cit., 132; hiessl, Caring for
Balance? Legal Approaches to Those Who Struggle to Juggle Work and Adult Care, in IJCLLIR, 2020, 129 s. Meno critici bell, Work-Life
Balance and the Right to Request Flexible Working, in Regulatingforglobalization.com, 21 giugno 2019 e izzi, op. cit., 347, secondo
e, comunque, poco soddisfacente. Tuttavia, se dall’analisi dei diritti si passa alla ricostruzione in chiave evolutiva delle politiche, ci si avvede del fatto che la disposizione in parola è espressione proprio di quella maggiore attenzione nei confronti della persona che lavora, alla quale i considerando vorrebbero che fosse funzionale la flessibilità delle modalità di lavoro. È dunque guardando all’orizzonte normativo di cui si incoraggia il perseguimento, più che alle vere e proprie prescrizioni dettate, che è possibile apprezzare appieno il contributo innovativo della direttiva. Insomma, una trasposizione che partisse dai considerando e che sugli indirizzi in essi espressi impostasse una riforma complessiva della disciplina nazionale in materia di conciliazione implicherebbe, in relazione al tema della flessibilità delle modalità di lavoro (e non solo), quel cambio di approccio in senso personalista di cui molto si è discusso negli anni17, ma che ancora non si è inverato nella legislazione dei Paesi membri.
2. Flessibilità e conciliazione: il valore della programmabilità del tempo nell’ordinamento italiano.
A chi scrive pare che assumere una tale prospettiva evolutiva implichi necessariamente una maggiore garanzia della programmabilità del tempo, ovvero della facoltà di pianificare in un determinato segmento temporale lo svolgimento di attività attinenti alla sfera privata. Se nell’ambito del rapporto di lavoro si vogliono valorizzare le esigenze familiari dei genitori e dei prestatori di assistenza, occorre assicurare che la lavoratrice e il lavoratore possano effettivamente impiegare un certo lasso di tempo per far fronte alle vicissitudini della propria vita privata; e precondizione perché ciò avvenga è che quel periodo della giornata o della settimana sia libero o liberabile da impegni lavorativi e quindi programmabile con attività legate alla famiglia.
In questo senso, su di un piano teorico, la tutela della programmabilità del tempo si compone di due dimensioni. Una prima, minimale o difensiva, richiede che la collocazione temporale e la durata della prestazione concordate dalle parti non siano modificabili unilateralmente dal datore di lavoro, scongiurando così il rischio che, per volere di quest’ultimo, il periodo di riposo sia trasformato in orario di lavoro; eventualità, questa, che limiterebbe, rendendola precaria, la pianificazione di attività di cura nel tempo corrispondente. Quanto alla seconda dimensione, massimale o espansiva, la garanzia della programmabilità si realizza, oltre che escludendo lo ius variandi temporale del datore, riconoscendo alla lavoratrice e al lavoratore con responsabilità di cura un potere di modifica delle coordinate di tempo della prestazione lavorativa che permetta di adattare la stessa ai bisogni familiari. Si tratterebbe, insomma, di procedere nella direzione del “tem-
i quali la tutela procedurale introdotta dall’art. 9 può indurre una maggiore attenzione da parte del datore ai bisogni del proprio dipendente. 17 Cfr. per tutti supiot (a cura di), Il futuro del lavoro, Carocci, 2003, 93 ss. (ed. or. Au-delà de l’emploi: Transformations du travail et devenir du droit du travail en Europe, Flammarion, 1999).
po scelto”18, di dare finalmente spazio a quella flessibilità nell’interesse di chi lavora di cui tanto si è parlato negli ultimi decenni19 e alla quale allude – con tutte le cautele del caso – il considerando 34 della dir. 2019/1158/UE. In questa seconda dimensione, l’intera temporalità della persona – e non soltanto quella fascia oraria che contrattualmente è individuata come periodo di riposo – diverrebbe programmabile e dunque potenzialmente impiegabile per soddisfare le esigenze familiari.
La questione della garanzia della programmabilità del tempo, peraltro, non si pone solo in sociologia o in una prospettiva di politica del diritto. Essa infatti, come si sta per vedere, trova dei riscontri nel nostro ordinamento giuridico positivo e può pertanto rappresentare la perfetta chiave di lettura del grado di attenzione che nella legislazione domestica è riservato ai bisogni della lavoratrice e del lavoratore con responsabilità familiari.
In una storica sentenza della Corte costituzionale del 199220 l’affermazione dell’illegittimità di una clausola che, nel lavoro a tempo parziale, rimette alla discrezionalità del datore la collocazione temporale della prestazione lavorativa21 è fondata principalmente sulla necessità costituzionale che alla lavoratrice e al lavoratore a orario ridotto sia garantita la possibilità di programmare liberamente nel tempo che resta dall’orario di lavoro altre attività che costituiscono esercizio di diritti costituzionalmente rilevanti.
La pronuncia, a dire il vero, si riferisce esplicitamente soltanto al diritto alla retribuzione sufficiente, per la garanzia del quale è ritenuto necessario poter programmare (in quello che contrattualmente è periodo di riposo) ulteriori e diverse attività lavorative che consentano di integrare il reddito ricavato dal singolo contratto a tempo parziale. Nonostante tale espresso richiamo dell’art. 36, comma 1, Cost. (in relazione al quale era stata formulata dal giudice a quo la questione di legittimità costituzionale), si può ragionevolmente sostenere, secondo la medesima logica, che la tutela della programmabilità sia egualmente strumentale alla difesa di altri beni costituzionalmente rilevanti. E questo è ancor più vero oggi che, nella scala dei valori sociali, certe esigenze personali e familiari di chi lavora occupano una posizione sicuramente più avanzata di quella che ricoprivano al tempo in cui la Consulta si è espressa; tanto che oramai è comune il rilievo del fondamento costituzionale e del radicamento nel diritto (anche primario) dell’Unione europea delle politiche di conciliazione22. Una rilettura della sentenza in chiave evolutiva suggerisce allora che
18 CalaFà, Congedi e rapporto di lavoro, Cedam, 2004, 47 ss.; dauGareilh, iriart, La conciliazione dei tempi nelle riforme dell’orario di lavoro in Europa (Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda), in LD, 2005, 223 ss.; bano, “Tempo scelto” e diritto del lavoro: definizioni e problemi, in bavaro, veneziani (a cura di), Le dimensioni giuridiche dei tempi del lavoro, Cacucci, 2009, 241 ss. 19 I primi studi che prendono in considerazione questo aspetto della disciplina del tempo di lavoro sono della metà degli anni Ottanta: iChino, Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, Vol. I, Giuffrè, 1984, id., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, Vol.
II, Giuffrè, 1985; de luCa taMajo, Il tempo di lavoro (il rapporto individuale di lavoro), in aa.vv., Il tempo di lavoro. Atti delle Giornate di studio di diritto del lavoro. Genova, 4-5 aprile 1986, Giuffrè, 1987, 3 ss. 20 C. cost., 11 maggio 1992, n. 210, in RIDL, 1992, II, 731 ss., con nota di iChino. Per dei commenti v. ex multis iChino, Limitate, non drasticamente vietate, le clausole di elasticità nel part-time ad opera della Corte costituzionale, in RIDL, 1992, II, 731 ss., alaiMo, La nullità della clausola sulla distribuzione dell’orario nel «part-time»: la Corte costituzionale volta pagina?, in FI, 1992, I, 3233 ss. e brollo, Part-time: la Corte costituzionale detta le istruzioni per l’uso e le sanzioni per l’abuso, in GI, 1993, I, 277 ss. 21 Si tratta di quelle clausole di variabilità sulla cui ammissibilità nel contesto della normativa del 1984 si era sviluppato un vivace dibattito in dottrina e giurisprudenza. Cfr. brollo, Il lavoro subordinato a tempo parziale, Jovene, 1991, 161 ss. 22 CalaFà, Congedi e rapporto di lavoro, cit., 246 ss.; Caponetti, La conciliazione vita/lavoro nel sistema italiano: azioni positive nazionali
alla retribuzione sufficiente siano affiancati quantomeno lo studio, la salute e la famiglia, quali ulteriori beni giuridici da proteggere garantendo la programmabilità del tempo nel part-time.
Una logica di fondo non molto dissimile ha ispirato anche l’indirizzo maturato in seno alla giurisprudenza di legittimità che ha ravvisato un’esigenza di programmabilità anche nel lavoro full-time. Segnatamente, nella sentenza che per prima si è espressa in questo senso23, la necessità di assicurare al prestatore d’opera la possibilità di pianificare una quota di tempo è stata ricollegata alla circostanza che «anche per i rapporti a tempo pieno […] il tempo libero ha una sua specifica importanza, stante il rilievo sociale che assume lo svolgimento, anche per il lavoratore a tempo pieno, di attività sportive, ricreative, sociali, politiche, scolastiche, etc., o anche di un secondo lavoro, nel caso in cui non sia prevista una clausola di esclusiva»24. L’estensione della tutela delle esigenze di programmabilità al full-time è stata poi ribadita anche in alcune pronunce successive, tutte concernenti, come la prima, il diritto della lavoratrice e del lavoratore a conoscere i turni di servizio con un ragionevole anticipo25 .
Certo, in tutte quante queste sentenze della Corte di legittimità è puntualizzato che la tutela della programmabilità non può essere declinata allo stesso modo nel part-time e nel full-time. Nel primo tipo di rapporto essa, in ragione della finalità conciliativa cui – quantomeno in teoria26 – risponde il sacrificio da parte della lavoratrice o del lavoratore di una parte della propria retribuzione, dovrebbe tradursi in una tendenziale immodificabilità per mano del datore dell’orario di lavoro pattuito; peraltro, è stata proprio questa conclusione, logica conseguenza delle argomentazioni della Consulta nella pronuncia del 1992, a fondare le critiche che la dottrina ha fatto piovere sulla disciplina delle clausole elastiche e flessibili, la quale, sin dal 2000, ha aperto la strada – con limiti di diverso tenore nel corso del tempo – alla previsione nel contratto individuale di un potere datoriale di modificare le coordinate temporali della prestazione del part-timer27. Per quanto riguarda il rappor-
e sistemi regionali, in Faioli, rebuzzini (a cura di), Conciliare vita e lavoro: verso un welfare plurale, in WP Fondazione Brodolini, 2015, n. 7, 49 ss.; santuCCi, La conciliazione tra cura, vita e lavoro (il work life balance), in santoni, M. riCCi, santuCCi (a cura di), Il diritto del lavoro all’epoca del Jobs Act, Esi, 2016, 183 ss.; d’onGhia, Ritmi di lavoro e vita familiare, in oCChino (a cura di), Il lavoro e i suoi luoghi, Vita e Pensiero, 2018, 49 ss.; Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 29 ss.; vallauri, op. cit., 28 ss. 23 Cass., 23 maggio 2008, n. 12962, in RIDL, 2008, II, 825 ss., con nota di boleGo. 24 L’espressione “tempo libero” sembra essere stata utilizzata per riferirsi al tempo completamente liberato dal lavoro, ovvero all’insieme dei periodi nei quali la lavoratrice e il lavoratore non sono soggetti ad alcun obbligo contrattuale finalizzato all’organizzazione della produzione. Sulla tutela del tempo libero come tempo funzionale all’esercizio delle libertà e dei diritti inviolabili ex art. 2 Cost. v. oCChino, Il tempo libero nel diritto del lavoro, Giappichelli, 2010. 25 Cass., 28 maggio 2008, n. 13967, in RIDL, 2009, II, 347 ss., con nota di putaturo donati; Cass., 3 settembre 2018, n. 21562, in DeJure;
Cass., 6 dicembre 2019, n. 31957, in DeJure. È giusto precisare, però, che la tutela della programmabilità è stata poi variamente declinata in quei giudizi, nei quali gli accertamenti circa la tempestività delle comunicazioni datoriali dei turni sono giunti a esiti piuttosto differenti. 26 La precisazione è dovuta al fatto che quella per il part-time spesso non è una scelta “volontaria”, ma piuttosto il frutto di una mancanza di alternative a tempo pieno (cfr. Calvellini, La funzione del part-time: tempi della persona e vincoli di sistema, Esi, 2020, 155 ss.). Questa circostanza, però, non smentisce quanto affermato nel testo. Anzi, si può rilevare che, in caso di part-time involontario, la garanzia di programmabilità è ancora più sentita, perché – come detto – indispensabile a consentire di svolgere una seconda attività lavorativa utile a conseguire un salario complessivamente sufficiente. 27 Le maggiori criticità sono emerse in relazione all’art. 3, d.lgs. n. 61/2000 come modificato dall’art. 46, d.lgs. n. 276/2003. V. per tutti MaresCa, Limiti costituzionali alla flessibilità del lavoro a tempo parziale, in sCoGnaMiGlio (a cura di), Diritto del lavoro e Corte
to a tempo pieno, invece, i bisogni della sfera privata della persona che lavora debbono confrontarsi con il diritto del creditore della prestazione di organizzare la produzione, non potendosi pertanto interpretare il diritto alla programmabilità nel senso della stabilità dell’orario normale.
Nonostante queste innegabili differenze, però, anche nel lavoro a tempo pieno, per un’effettiva protezione di beni giuridici quali la salute, lo studio, la famiglia, la fede religiosa, l’associazionismo, l’equa retribuzione, etc., è necessario che certi periodi di tempo della persona siano interdetti al potere di chiamata del datore e che, in talune circostanze, sia consentito alla lavoratrice e al lavoratore di poter modificare loro stessi le coordinate temporali della prestazione inizialmente concordate.
In quest’ultimo senso, come si è visto, depongono – sia per il full-time che per il parttime, così come per il passaggio dall’una all’altra forma di lavoro – il considerando 34 della dir. 2019/1158/UE e, più in generale, il modello di work-life balance che la fonte derivata mira a promuovere.
Invece, a favore dell’insostenibilità (anche) nel lavoro a tempo pieno di un illimitato ius variandi temporale del datore militano, tra l’altro, un inciso della citata sentenza della Consulta e il disposto di un’altra delle direttive approvate sulla scia del Pilastro dei diritti sociali.
Il primo è contenuto in un passaggio delle motivazioni riferibile – secondo una lettura minoritaria, ma, ad avviso di chi scrive, preferibile28 – soprattutto al lavoro a tempo pieno: «sarebbe […] certamente lesivo della libertà del lavoratore che da un contratto di lavoro subordinato potesse derivare un suo assoggettamento ad un potere di chiamata esercitabile, non già entro coordinate temporali contrattualmente predeterminate od oggettivamente predeterminabili, ma ad libitum, con soppressione, quindi, di qualunque spazio di libera disponibilità del proprio tempo di vita, compreso quello non impegnato dall’attività lavorativa». Questo principio, ricavato dal diritto civile, conferma la necessità che una parte di tempo resti nella «libera disponibilità» della persona e, pertanto, sia da essa utilizzabile per la programmazione di altre attività.
Inoltre, come si è anticipato, l’esigenza di sottrarre una quota di tempo al potere datoriale di collocazione/estensione della prestazione ha recentemente trovato un riconoscimento anche nel diritto dell’Unione europea con l’emanazione della dir. 2019/1152/ UE, finalizzata a promuovere, tra le altre cose, una regolamentazione nazionale che renda prevedibile il tempo che può essere interessato dalla prestazione e, conseguentemente, quello che ne deve restare affrancato29 .
costituzionale, Esi, 2006, 159 ss. 28 V. amplius Ferrante, Il tempo di lavoro fra persona e produttività, Giappichelli, 2008, 281 ss. e Calvellini, op. cit., 274 ss. 29 Per dei commenti si rinvia a borelli, orlandini, Appunti sulla nuova legislazione sociale europea. La direttiva sul distacco transnazionale e la direttiva sulla trasparenza, in Questione giustizia, 2019, n. 4, 61 ss., bednaroWiCz, Delivering on the European
Pillar of Social Rights: The New Directive on Transparent and Predictable Working Conditions in the European Union, in ILJ, 2019, 604 ss. e Cairoli, Tempi e luoghi di lavoro nell’era del capitalismo cognitivo e dell’impresa digitale, Jovene, 2020, 121 ss.
Ciò detto, gli elementi raccolti suggeriscono allora che – come già osservato in dottrina30, ancorché con riferimento alla sola dimensione minimale – il valore della programmabilità del tempo interessa tutti i rapporti di lavoro subordinato, anche se con una diversa intensità di tutela per tempo pieno e tempo parziale. Questo suo carattere trasversale lo rende, pertanto, il parametro perfetto attraverso il quale misurare l’effettiva funzionalità di un determinato istituto della flessibilità rispetto alla soddisfazione delle esigenze familiari della persona che lavora. In altri termini, non si intende ora intraprendere un’indagine circa il rispetto nel nostro ordinamento dei vincoli di sistema in materia di garanzia della programmabilità del tempo (tema al quale, comunque, si farà qualche accenno). Piuttosto si vuole cercare di comprendere se e con quale vigore quel valore – nel suo significato ideal-tipico, descritto in apertura di questo § – è stato assimilato dalla disciplina italiana della flessibilità temporale; ciò per avere restituita, a fini meramente descrittivi, una fotografia della ricettività di quella medesima normativa ai bisogni familiari di chi lavora.
Se dunque – come si è cercato di chiarire – non può esserci vero equilibrio tra lavoro e vita privata senza che la lavoratrice e il lavoratore possano contare su coordinate temporali certe della prestazione e quindi senza che abbiano la possibilità di pianificare liberamente attività extra-professionali, per capire quanto la legge effettivamente persegue l’obiettivo della conciliazione occorre focalizzare l’attenzione sui limiti posti allo ius variandi temporale del datore di lavoro (tutela minimale della programmabilità) e sugli strumenti eventualmente previsti per consentire a chi lavora di modificare i tempi della prestazione in base alle proprie esigenze familiari (tutela massimale). Per ragioni di spazio, l’indagine dovrà però limitarsi a quelli che possono ritenersi i punti nevralgici della flessibilità conciliativa. Pertanto, nella consapevolezza di non poter trattare esaustivamente l’argomento, in questa sede il discorso sulla programmabilità del tempo sarà circoscritto alla disciplina dell’orario di lavoro nel tempo pieno, al part-time e al lavoro da remoto nelle forme del telelavoro e del lavoro agile.
3. La programmabilità nel tempo pieno: fotografia dell’oblio delle esigenze familiari.
Se si escludono dal campo d’indagine quegli istituti (come – solo per citarne alcuni – il congedo parentale a ore, i riposi giornalieri della madre e del padre durante il primo anno di vita del/della bambino/a, i congedi per malattia del/della figlio/a, i permessi ex art. 33, l. n. 104/1992) che, sebbene di fatto si risolvano in strumenti di cui il genitore e il prestatore di assistenza possono avvalersi per flessibilizzare i riferimenti temporali della
30 brollo, Part-time, cit., 280; topo, Spunti per una disciplina unitaria del tempo di lavoro (tempo pieno e tempo parziale a confronto), in LG, 2005, 221; delFino, Il lavoro part-time nella prospettiva comunitaria. Studio sul principio volontaristico, Jovene, 2008, 213; boleGo, Sul potere del datore di lavoro di variare la collocazione dell’orario di lavoro nel full-time, in RIDL, 2008, II, 827; putaturo donati, Sulla «turnazione in disponibilità» e sulla precostituzione dei relativi criteri di riparto, in RIDL, 2009, II, 350 s.; oCChino, op. cit., 202; buoso, Orario di lavoro: potenzialità espresse e inespresse, in LD, 2017, 118.
prestazione lavorativa, vanno correttamente fatti rientrare nella categoria delle forme di astensione dal lavoro (e non in quella – qui oggetto di approfondimento – delle modalità di lavoro flessibili), si realizza che la tutela espansiva della programmabilità non è presa in considerazione nella disciplina dell’orario di lavoro per chi presta opera a tempo pieno. In questa prospettiva, allora, l’implementazione della dir. 2019/1158/UE, e segnatamente del suo art. 9, non potrà che rappresentare un significativo progresso per il nostro ordinamento; soprattutto se, come auspicabile, il legislatore domestico, più che attenersi strettamente al contenuto precettivo della disposizione, procedesse a un recepimento ispirato a quell’approccio personalista che è alla base della fonte europea. Per il momento, il tempo scelto resta un modello la cui promozione può eventualmente avvenire ad opera della contrattazione collettiva, dalla quale, però, come ha dimostrato l’esperienza sulle azioni positive ex art. 9, l. n. 53/200031, non è lecito attendersi progressi in quella direzione che vadano molto oltre la banca delle ore, l’orario concentrato o la flessibilità degli orari di entrata e uscita.
Alla luce di quanto sin qui detto, pertanto, di tutela della programmabilità del tempo – in relazione alla disciplina dell’orario di lavoro del full-timer – può casomai parlarsi soltanto nella dimensione difensiva o minimale. Ciò implicherebbe che le esigenze familiari della lavoratrice e del lavoratore venissero valorizzate in funzione limitativa dello ius variandi temporale del datore, ovvero del potere del creditore della prestazione di trasformare in orario di lavoro una quota di periodo di riposo. Si iscrivono in questa logica i vincoli previsti espressamente dalla legge o dalla contrattazione collettiva con riguardo alle diverse forme giuridiche che quella facoltà datoriale può assumere (potere generale di modifica della collocazione temporale della prestazione32, calendario multiperiodale, lavoro straordinario, reperibilità). Le tecniche impiegate sono varie: si va dalla previsione di un preavviso, alla necessità di prestabilire fasce orarie e giornate completamente libere dal lavoro; dal riconoscimento alla lavoratrice e al lavoratore di un diritto di rifiuto in presenza di certe causali attinenti alla sfera privata, all’imposizione di una rispondenza dell’esercizio del potere a determinate esigenze aziendali, passando per la fissazione di vincoli procedimentali di informazione e/o consultazione delle rappresentanze sindacali.
È però opinione comune che, nel lavoro full-time, il sistema integrato dei limiti legali e negoziali permetta un esercizio dello ius variandi temporale entro margini piuttosto ampi33. Volendo segnalare alcune delle criticità più evidenti nella prospettiva qui adottata, può
31 Lo scarso successo della misura sul piano applicativo è rilevato, tra gli altri, da CalaFà, Congedi e rapporto di lavoro, cit., 245 s.,
Ferrante, op. cit., 36, di stasi, La flessibilità positiva nella contrattazione collettiva, in bavaro, veneziani (a cura di), op. cit., 220,
MaGnani, La famiglia nel diritto del lavoro, in WP D’Antona, It., n. 146/2012, 11 e Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 164 ss.
Molte di quelle difficoltà, peraltro, sono riemerse con riferimento all’art. 25, d.lgs. n. 80/2015 (cfr. CalaFà, Contrattare incentivi per la conciliazione tra vita professionale e vita privata, in LG, 2018, 33 ss.). 32 È noto che l’opinione prevalente – tanto in dottrina (per tutti, Ferrante, op. cit., 272 ss.), quanto in giurisprudenza (da ultimo, Cass., 6 dicembre 2019, n. 31957, cit.) – ammette l’esistenza di una siffatta facoltà come espressione del potere direttivo riconosciuto dagli artt. 2086, 2094 e 2104 c.c. 33 putaturo donati, Flessibilità oraria e lavoro subordinato, Giappichelli, 2005, 247 ss.; bavaro, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato. Critica sulla de-oggettivazione del tempo-lavoro, Cacucci, 2008, 237; bano, “Tempo scelto”, cit., 247 s.; niCColai, Orario di lavoro e resto della vita, in LD, 2009, 251 s.; FenoGlio, L’orario di lavoro tra legge e autonomia privata, Esi, 2012, 122 s.; voza, Le misure di conciliazione vita-lavoro nel Jobs Act, in LG, 2015, 15; d’onGhia, op. cit., 64; Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 147.
rilevarsi, anzitutto, che nello scenario del d.lgs. n. 66/2003 i limiti alla variazione da parte del datore del quando della prestazione a tempo pieno sono solamente quelli derivanti dalla disciplina su collocazione e durata dei riposi, dal preavviso minimo richiesto dalla giurisprudenza rammentata supra, dalla procedimentalizzazione dell’esercizio del potere talvolta prevista dai contratti collettivi e dalla regolamentazione del lavoro notturno. Con riguardo alla variazione in aumento del quantum della prestazione, inoltre, la disciplina limitativa del lavoro straordinario34 rischia di rivelarsi del tutto ineffettiva per via del fatto che, in caso di adozione di un calendario multiperiodale, diviene complicato riconoscere in anticipo il lavoro eccedente l’orario normale (potendo le ore aggiuntive di una settimana essere compensate con un orario inferiore in una diversa settimana dell’arco temporale di riferimento) e quindi far valere le garanzie previste a tutela della volontà di chi lavora35 .
Ma se – come si è appena detto – nel quadro normativo di riferimento per il full-time la programmabilità del tempo è scarsamente tutelata, si è naturalmente portati a chiedersi se esistano ulteriori e più incisivi limiti di carattere generale; e cioè se, all’interno del perimetro costituito dai vincoli legali e contrattuali esplicitamente previsti per il tempo pieno, il datore di lavoro possa liberamente avvalersi delle proprie prerogative in punto di variabilità temporale o se, al contrario, l’ordinamento sottoponga l’esercizio del potere a ulteriori condizioni di legittimità.
Quest’ultima opzione è sicuramente prevalsa nella dottrina e nella giurisprudenza che negli anni si sono confrontate con questa materia. Diverse – ma non antinomiche tra di loro – sono le strategie limitative ipotizzate e, talvolta, messe in atto per circoscrivere lo ius variandi temporale del datore oltre quanto la legge e il contratto collettivo espressamente fanno. Così, alcuni hanno posto l’accento sulla necessità di bilanciamento tra interessi contrapposti36; in altri casi è stato valorizzato il diritto anti-discriminatorio37; di frequente,
34 L’art. 5, d.lgs. n. 66/2003 delega alle parti sociali la disciplina dello straordinario. La contrattazione collettiva nazionale, anche quando prevede l’obbligo di svolgere la prestazione di lavoro straordinario, perlopiù ammette che la lavoratrice e il lavoratore possano legittimamente rifiutarsi di dar seguito alla richiesta datoriale a fronte di comprovati impedimenti personali. In difetto di disciplina collettiva applicabile, poi, la regolamentazione legale suppletiva prevede che il ricorso allo straordinario sia possibile solo previo accordo tra le parti. 35 Cfr. G. riCCi, Tempi di lavoro e tempi sociali. Profili di regolazione giuridica nel diritto interno e dell’UE, Giuffrè, 2005, 325 s.; FenoGlio,
L’orario di lavoro, cit., 155 s. 36 iChino, Il tempo della prestazione, Vol. I, cit., 168 ss.; allaMprese, Tempo della prestazione e poteri del datore di lavoro, in ADL, 2007,
I, 344 ss.; niCColai, op. cit., 249. 37 V. Trib. Ferrara, 25 marzo 2019, in RGL, 2019, II, 497, con nota di russo e Trib. Roma, 27 febbraio 2021, decr., in Newsletter Wikilabour, 2021, n. 6. In Trib. Firenze, 22 ottobre 2019, decr., in RGL., 2020, II, 309, con nota di santos Fernández, è stata ritenuta sussistente una potenziale discriminazione collettiva indiretta a danno dei lavoratori-genitori e, in particolare, delle lavoratrici-madri (soggetti che cumulano il fattore di rischio costituito dal sesso femminile e quello della genitorialità), con riferimento a due ordini di servizio che avevano introdotto una disciplina dell’orario di lavoro e delle giustificazioni per ritardi peggiorativa rispetto alla regolamentazione del contratto collettivo nazionale. Si legge nel testo del decreto: «poiché è notorio che i genitori (e, a maggior ragione, le lavoratricimadri) […] si trovino frequentemente a dover far fronte a impellenti e imprevedibili esigenze connesse all’accudimento della prole, le quali possono anche comportare l’improvvisa necessità di ritardare l’ingresso al lavoro o anticiparne l’uscita, è prevedibile […] che il complesso delle disposizioni di cui ai due ordini di servizio […] possa svantaggiare i suddetti gruppi tipizzati rispetto ai dipendenti non genitori, in quanto risulta ostacolare o, comunque, rendere difficoltosa la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro». Nel caso di specie, allora, il ricorso alla tutela anti-discriminatoria non è avvenuto per limitare lo ius variandi temporale del datore, ma semmai per salvaguardare un diritto alla flessibilità in entrata e in uscita riconosciuto ai lavoratori dalla disciplina contrattual-collettiva. La pronuncia non è quindi del tutto pertinente allo specifico tema qui oggetto di analisi. Ciononostante essa merita di essere segnalata perché dimostra una crescente consapevolezza giurisprudenziale del legame esistente tra promozione della conciliazione e tutela
inoltre, sono stati invocati i canoni di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) quale limite generale alla modificabilità dell’orario38 .
Nel valutare queste strategie limitative, però, occorre tenere bene a mente che non si può pretendere di trarre dal sistema meccanismi eccessivamente condizionanti o addirittura inibitori di un potere per l’esercizio del quale la legge (integrata dalla contrattazione collettiva) già stabilisce in modo espresso dei limiti, per quanto blandi. In altre parole, la ricerca di vincoli di carattere generale non può spingersi fino al punto di dissolvere o comprimere oltremodo quei margini di flessibilità che scientemente l’ordinamento concede al datore39 .
Ciò implica che, nel full-time, la tutela dei bisogni cui è funzionale la programmabilità del tempo avviene mediante i pochi limiti alla variabilità datoriale espressamente previsti e per il tramite di principi generali (in ispecie, buona fede e divieto di discriminazione) che, però, hanno la sola funzione di impedire che nell’esercizio del potere privato si perpetuino derive abusive quali ritorsioni, arbitri, condotte discriminatorie, mancata concessione di un preavviso minimo, etc.
4. La retorica delle forme di lavoro flessibili finalizzate al work-life balance…
Quando si parla di equilibrio tra vita privata e professionale non può sorprendere che si tiri in ballo il part-time. Sin dalle sue prime apparizioni nel dibattito pubblico, questo istituto è infatti stato annoverato tra gli strumenti che avrebbero potuto avvicinare al lavoro chi fino ad allora era rimasto inattivo in quanto gravato da responsabilità familiari40. Dapprima legato strettamente all’incentivazione dell’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, più di recente, quando si è iniziato a maturare la convinzione che si debba parlare di
contro le discriminazioni quale via per una minima valorizzazione delle istanze personaliste nella disciplina in concreto dell’orario di lavoro. 38 Cfr. allaMprese, op. cit., 349 ss.; bavaro, op. cit., 268 s.; Ferrante, op. cit., 286 ss.; di stasi, op. cit., 220; buoso, op. cit., 118.; russo,
Discriminazione per handicap e orario di lavoro, in RGL, 2019, II, 504 s. V. anche la risposta del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali all’interpello n. 68/2009. In Cass., 3 settembre 2018, n. 21562, cit., a proposito dello ius variandi temporale del datore, è stato affermato che «la buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia, tra l’altro, in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extra-contrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite principale unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico». 39 Similmente bavaro, op. cit., 268 s. a proposito dell’incisività del controllo di razionalità ex fide bona sull’esercizio dello ius variandi temporale. 40 Le aspettative e le perplessità che caratterizzavano il dibattito originario su questa forma di lavoro possono essere saggiate leggendo loy, La disciplina giuridica del rapporto di lavoro a tempo parziale, in RGL, 1980, I, 333 ss. e borGoGelli, Il lavoro a tempo parziale (con particolare riferimento al lavoro femminile), in RGL, 1980, I, 379 ss.
conciliazione alla stregua di una questione sociale e non più come di una questione femminile41, il lavoro a tempo parziale ha finito per acquisire un’accezione gender neutral42 .
Ad ogni modo, come si diceva, non vi è dubbio che il part-time sia da sempre rappresentato come un tipo di rapporto potenzialmente in grado di svolgere, oltre al ruolo di strumento per la flessibilizzazione pro employer dei tempi della prestazione, anche una funzione di work-life balance43, e dunque come una forma di lavoro astrattamente declinabile secondo una logica win-win. Indicazioni inequivocabili in questo senso si rivengono, innanzitutto, nell’accordo quadro allegato alla dir. 97/81/CE, ispirato dalla volontà delle parti firmatarie di facilitare «l’accesso al tempo parziale per uomini e donne […] che vogliono conciliare vita professionale e familiare […] nell’interesse reciproco di datori di lavoro e lavoratori e secondo modalità che favoriscano lo sviluppo delle imprese» (considerando 5). Ma la considerazione del part-time quale misura di flessibilità employee friendly è evidente pure nel nostro ordinamento, dove la stipulazione del contratto di lavoro a tempo parziale o l’accordo per la riduzione dell’orario del full-timer – diversamente, ad esempio, dall’apposizione del termine – non conoscono nessun tipo di restrizione44. Insomma, in apparenza, il part-time è un sotto-tipo contrattuale pensato per chi vuole un impegno lavorativo ridotto per poter far fronte ai bisogni della propria vita privata.
La medesima finalità conciliativa sembra alla base della disciplina delle forme tipiche di lavoro subordinato a distanza a mezzo ICT: telelavoro e lavoro agile45 .
In generale, della digitalizzazione del lavoro vengono spesso esaltati i vantaggi che comporterebbe per la lavoratrice e il lavoratore. In particolare, la «retorica del futuro digitale»46 fonda l’auspicio della massima diffusione del lavoro da remoto tramite mezzi
41 Cfr. d’onGhia, op. cit., 50 s., alessi, Lavoro e conciliazione nella legislazione recente, in DRI, 2018, 805 ss. e de MarCo, Work-life balance: lo stato dell’arte e la sua applicazione nell’emergenza epidemiologica, in DML, 2020, 620 s. Come afferma Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 203, «l’obiettivo […] non è più soltanto quello di aumentare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro consentendo loro, frattanto, di non sottrarre tempo alla cura; ma è quello di intervenire sui problemi strutturali legati alla ripartizione del lavoro produttivo e riproduttivo, attraverso un tipo di flessibilità che garantisca realmente un adattamento dell’organizzazione del lavoro all’essere umano». 42 Se questo vale in linea di principio, occorre poi constatare che, nella realtà del mercato del lavoro, esiste una sproporzione tra l’incidenza del lavoro a tempo parziale sulla popolazione maschile occupata e quella sul lavoro femminile e che ciò, sebbene possa spiegarsi in parte con il diffuso desiderio delle lavoratrici-madri di ridurre – magari temporaneamente – il proprio orario (cfr. aa.vv. (a cura di), Il doppio sì. Lavoro e maternità, Libreria delle donne, 2008), è più che altro dovuto alle persistenti difficoltà che la logica della condivisione dei compiti di cura trova nell’affermarsi. Come rilevato dall’Eurostat (i dati sono reperibili al sito http://appsso. eurostat.ec.europa.eu/nui/submitViewTableAction.do), nel 2020, se più di un terzo (37,6%) delle donne di età compresa tra i 15 e i 64 anni occupate nell’Unione europea lavorava a tempo parziale, per gli uomini nella stessa fascia di età l’incidenza media era molto inferiore (7,9%). 43 V., ad esempio, international labour orGanization, General Survey concerning working-time instruments - International Labour
Conference, 107th Session, International Labour Office, 2018, 201. In dottrina v. ex multis sCarponi, Rapporti ad orario ridotto e promozione dell’eguaglianza. Introduzione, in LD, 2005, 192; dauGareilh, iriart, op. cit., 224, santuCCi, Flexicurity e conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, in DLM, 2007, 588 s. e FenoGlio, L’orario di lavoro, cit., 199. 44 Cfr. gli artt. 4 e 8, comma 2, d.lgs. n. 81/2015. Il part-time, inoltre, è stato annoverato tra gli strumenti di cui viene incentivato economicamente l’utilizzo per finalità conciliative. In questo senso v. l’art. 9, l. n. 53/2000 e il d.m. 12 settembre 2017 (di attuazione dell’art. 25, d.lgs. n. 80/2015). 45 Nel lavoro agile, a dire il vero, l’utilizzo di strumenti tecnologici per l’attività lavorativa è soltanto «possibile» (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017). In questo scritto, però, si prenderà in considerazione esclusivamente l’ipotesi, di gran lunga preponderante a livello pratico, in cui quella forma di lavoro è svolta per il tramite delle ICT. 46 bano, Il lavoro povero nell’economia digitale, in LD, 2019, 132.
tecnologici sull’autonomia organizzativa di cui quella strumentazione doterebbe la persona che lavora e sul conseguente miglioramento della qualità di vita che ne deriverebbe47 . Si prospetterebbe, insomma, un futuro liberato dalla schiavitù dell’orario di lavoro in cui la lavoratrice e il lavoratore, vincolati solo a determinati risultati produttivi, godrebbero di grande libertà nello stabilire il quando della prestazione.
Il modello proprio della società industriale e post-industriale, nel quale, in linea di massima, si identifica il tempo di lavoro con quello passato in fabbrica/ufficio e il tempo libero con quello trascorso fuori dalle mura aziendali, si rivelerebbe del tutto inefficiente per entrambe le parti del rapporto se paragonato a un sistema in cui, sfruttando al massimo le opportunità offerte dalle nuove tecnologie informatiche, la prestazione lavorativa può essere svolta ovunque e in qualunque momento. Uno tra i sociologi che per primi si sono confrontati con il tema della digitalizzazione del lavoro di recente ha scritto che «nella Società cablata in cui viviamo, perdere ore nel traffico per recarsi tutti i giorni a svolgere in ufficio un lavoro che possiamo fare altrettanto bene, se non meglio, da casa è uno spreco evidente. Di tempo, di vita, di produttività […]. Per non parlare della possibilità di ritagliarsi un lavoro a propria misura, che tenga conto delle esigenze di conciliazione tra tempi produttivi e riproduttivi»48 .
Questo tipo di riflessioni sono, quantomeno in apparenza, alla base della disciplina nazionale del telelavoro e del lavoro agile. Per entrambi, di nuovo, sono esaltate le potenzialità win-win. Nell’accordo interconfederale del 9 giugno 2004, infatti, le parti sociali evidenziano che il telelavoro «costituisce per le imprese una modalità di svolgimento della prestazione che consente di modernizzare l’organizzazione del lavoro e per i lavoratori una modalità di svolgimento della prestazione che permette di conciliare l’attività lavorativa con la vita sociale offrendo loro maggiore autonomia nell’assolvimento dei compiti loro affidati»49. La l. n. 81/2017, dal canto suo, individua quale obiettivo della regolamentazione del lavoro agile quello «di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro» (art. 18, comma 1). Il quadro di massima della celebrazione dell’astratta strumentalità del lavoro a distanza tramite ICT rispetto al migliore assolvimento dei compiti di cura da parte di chi lavora va poi completato con il richiamo di quel passaggio della dir. 2019/1158/UE nel quale proprio il lavoro da remoto – insieme ai calendari di lavoro flessibili e alla riduzione dell’orario di lavoro – è indicato quale modalità di lavoro che può dare una risposta alle esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori che siano genitori o prestatori di assistenza (considerando 34).
Allora, stando a quanto si è potuto sin qui osservare, sulle tre forme di lavoro in esame (part-time, telelavoro e lavoro agile) sembrerebbero convergere tanto l’esigenza di fles-
47 Su tutti, aa.vv., Smart working, in Lavoro Welfare, 2016, n. 21, con riferimento allo smart-working. In CoMMissione ue, Un’iniziativa per sostenere l’equilibrio tra attività professionale e vita familiare di genitori e prestatori di assistenza, COM (2017) 252 def., l’Esecutivo europeo sostiene che «la trasformazione digitale dell’economia sta ridefinendo le modalità secondo cui le persone lavorano o svolgono attività imprenditoriali dando vita a nuove opportunità di lavoro a distanza, di maggiore autonomia e di flessibilità che possono essere utilizzate per conciliare meglio il lavoro e gli impegni familiari». 48 di niCola, Dal telelavoro allo smart work, in Lavoro Welfare, 2016, n. 21, 7. 49 Le potenzialità conciliative del telelavoro giustificano pure la normativa (scarsamente) incentivante di cui all’art. 23, d.lgs. n. 80/2015 e l’espressa menzione di questa forma di lavoro tra quelle promosse dall’art. 9, l. n. 53/2000.
sibilità organizzativa del datore, quanto l’interesse al work-life balance della lavoratrice e del lavoratore. Tuttavia, la rilevanza degli interessi in gioco per questi ultimi spinge a non accontentarsi delle dichiarazioni di principio e sollecita, pertanto, una verifica del punto di equilibrio individuato dalla legge tra le istanze contrapposte. Occorre accertare, in altri termini, se l’ordinamento giuridico tenga effettivamente conto dei bisogni familiari della persona che lavora o se quegli istituti siano configurati piuttosto come dei Giani bifronte, che, dietro l’apparenza di vantaggi per tutti, celano una precarizzazione temporale della lavoratrice e del lavoratore nell’interesse dell’impresa. Con questo obiettivo, pertanto, si procede ora alla verifica del grado di assimilazione del valore della programmabilità del tempo nella disciplina normativa di quelle tre forme di lavoro flessibili. L’esito di questo accertamento – come si è cercato di spiegare supra – ci chiarirà se esse rappresentano realmente un’opportunità per chi lavora di conseguire quell’equilibrio tra vita privata e professionale sul quale, condivisibilmente, tanto si insiste nel dibattito politico, sindacale e giuridico.
5. …e la cruda realtà normativa.
Per il part-time l’indagine sulla programmabilità assicurata dalla legge assume un valore notevolmente diverso rispetto al tempo pieno. Secondo l’insegnamento della Consulta nella citata sentenza del 199250, infatti, la circostanza che nel regime orario ridotto la lavoratrice e il lavoratore percepiscano una retribuzione inferiore a quella sufficiente ex art. 36, comma 1, Cost. è ammissibile nei limiti in cui è garantita loro la possibilità di programmare ulteriori attività con le quali integrare il reddito ricavato da quel singolo rapporto di lavoro o – come si può ritenere sulla base di quella lettura evolutiva del decisum di cui si è detto supra – curare gli altri interessi della persona che abbiano un rilievo costituzionale. Tra questi, naturalmente, va annoverata la famiglia, alla quale, non a caso, la Corte fa un fugace richiamo quando, nel sottolineare – secondo un’impostazione comune in quell’epoca – l’importanza del part-time per il lavoro femminile, rileva il potenziale pregiudizievole dello ius variandi temporale del datore per la «necessaria salvaguardia» delle esigenze di assistenza familiare.
Se così è, dalla verifica della garanzia minimale della programmabilità del tempo dipende la legittimità costituzionale della disciplina del lavoro a tempo parziale51. Questo
50 C. cost., 11 maggio 1992, n. 210, cit. 51 Va detto però che la dottrina prevalente – valorizzando l’inciso della sentenza già richiamato nel § 2, che, invece, secondo chi scrive, è riferito principalmente al tempo pieno – ritiene che, nel lavoro a tempo parziale, a essere vietata è soltanto la variabilità ad libitum, rimessa cioè al mero arbitrio del datore di lavoro, riconoscendo, invece, la legittimità di clausole che colleghino la variazione unilaterale a coordinate temporali contrattualmente predeterminate od oggettivamente predeterminabili. In questo senso, iChino, Limitate, non drasticamente vietate, cit., 732; brollo, Part-time, cit., 281 ss., alessi, Part-time e job-sharing, in QDLRI, 1995, n. 17, 122 s. e sCarponi, Profili problematici della riforma del rapporto di lavoro a tempo parziale in relazione alla giurisprudenza in tema di art. 36, primo comma, della Costituzione, in DL, 2003, 788. Addirittura, alaiMo, op. cit., 3237 s. ritiene che la pronuncia della
Consulta abbia aperto la strada a uno scambio tra maggiore disponibilità del part-timer e retribuzione adeguata. Per una più ampia
accertamento deve quindi riguardare le modalità eventualmente previste per la modifica da parte del datore delle coordinate temporali della prestazione e deve essere finalizzato a comprendere se esse permettono comunque alla lavoratrice e al lavoratore di gestire altri rapporti di lavoro per conseguire una retribuzione sufficiente o di conciliare la propria vita lavorativa con gli impegni di quella extra-professionale.
In questa sede non è possibile esaminare nel dettaglio la disciplina dettata dall’art. 6, d.lgs. n. 81/2015 per la flessibilità funzionale nel part-time52. Tuttavia, può essere sufficiente rilevare che le regole stabilite per il prolungamento della durata e per la modifica della collocazione temporale della prestazione concedono al datore ampi margini di adattamento del tempo di lavoro alle esigenze dell’organizzazione. Troppo spesso la regolamentazione legale e contrattual-collettiva del lavoro supplementare, del lavoro straordinario e delle clausole elastiche configura in capo alla lavoratrice e al lavoratore un obbligo contrattuale senza eccezioni di adempiere alla richiesta (rectius, ordine) di modifica dei riferimenti temporali della prestazione avanzata dal datore. Quest’ultimo può insomma esigere che l’attività lavorativa sia eseguita in un lasso temporale che, secondo le determinazioni contrattuali, sarebbe da considerarsi periodo di riposo.
Questi pochi rilievi fanno emergere come la disciplina vigente del part-time non solo rivela diverse criticità sotto il profilo del rispetto del dettato costituzionale, ma si presenta anche ostile alla creazione di un equilibrio tra vita privata e lavoro. Gli ampi margini di variabilità dei tempi della prestazione concessi al datore e, dunque, le difficoltà per chi lavora di programmare nel tempo diverso dall’orario di lavoro contrattuale le attività corrispondenti ai propri bisogni familiari, sconfessano la vulgata del part-time come strumento di work-life balance. Nella normativa in esame, un regime di immodificabilità dei tempi della prestazione vige solo per la persona che lavora, la quale, in effetti, non ha nessuna possibilità di variare unilateralmente l’orario di lavoro sulla base delle sue esigenze familiari. Circostanza, quest’ultima, che rende palese come, nel nostro ordinamento, il lavoro a tempo parziale sia soprattutto un’ulteriore forma di flessibilità messa a disposizione del datore e non una freccia nella faretra degli strumenti di conciliazione per la lavoratrice e il lavoratore53 .
Conferma di questa conclusione è data, peraltro, dagli insoddisfacenti tassi di volontarietà del part-time, cioè dalla limitata incidenza sul numero degli occupati a tempo parziale di coloro che optano per questo regime orario per conseguire un miglioramento delle proprie condizioni di vita54, ovverosia una transizione verso una ripartizione del tempo
argomentazione delle ragioni a supporto della tesi qui sostenuta v. Ferrante, op. cit., 281 ss. e Calvellini, op. cit., 274 ss. 52 Si rinvia, senza pretesa di completezza, a leCCese, Il lavoro a tempo parziale, in Fiorillo, perulli (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Giappichelli, 2015, 50 ss., belloMo, La riscrittura della disciplina in materia di contratto di lavoro a tempo parziale: semplificazione, unificazione e ricalibratura dell’equilibrio tra autonomia collettiva ed individuale, in zilio Grandi, biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Wolters Kluwer, 2016, 506 ss., spinelli, Il part-time nella declinazione del d.lgs. n. 81 del 2015, in santoni, M. riCCi, santuCCi (a cura di), op. cit., 222 ss., altiMari, Il lavoro a tempo parziale tra influssi europei e ordinamento interno, Esi, 2016, 117 ss., santuCCi, Il contratto di lavoro part-time tra Jobs Act (decreto legislativo n. 81/2015) e diritto giurisprudenziale, in DRI, 2018, 25 ss. e Calvellini, op. cit., 265 ss. 53 In questo senso anche alessi, Lavoro e conciliazione, cit., 815. 54 Cfr. borGoGelli, op. cit., 398.
tra lavoro e sfera privata più confacente al valore che il singolo individuo assegna ai due ambiti della propria esistenza55. Si inserisce qui, inoltre, l’ulteriore tema dell’eccessiva concentrazione di donne nei lavori a tempo parziale; problematica che trova la propria origine nella persistente cultura della ripartizione stereotipata dei compiti di cura nella famiglia56 , ma che è aggravata da una disciplina normativa che troppo spesso intrappola la lavoratrice (e anche il lavoratore) in un impiego a orario ridotto57 .
È anche per questi motivi che è in atto nelle istituzioni europee un ripensamento del ruolo del part-time nell’ambito delle politiche di promozione dell’equilibrio tra lavoro e vita privata. Riflessione di cui si trovano tracce anche nella dir. 2019/1158/UE, laddove, al considerando 35, si afferma che, «benché il lavoro a tempo parziale si sia rivelato utile per consentire ad alcune donne di restare nel mercato del lavoro dopo la nascita di un figlio o l’assistenza a familiari che necessitano di cure o sostegno, lunghi periodi di riduzione dell’orario di lavoro possono determinare una riduzione dei contributi di sicurezza sociale e, quindi, la riduzione o l’annullamento dei diritti pensionistici». Naturalmente, è riduttivo pensare che il problema si esaurisca sul piano della tutela previdenziale e assistenziale; la questione ha tra l’altro riflessi sugli aspetti retributivi, sulle prospettive di carriera, sulla tutela della professionalità e, quindi, in fondo, sulla parità di genere. Ciononostante, va dato atto alle istituzioni eurounitarie di quella presa di coscienza del problema che ancora non sembra esserci stata a livello nazionale.
Va anche detto, però, che a quella constatazione non ha fatto seguito un sensibile cambio di atteggiamento. La conseguenza sul piano normativo della maturata consapevolezza del problema, infatti, non va oltre (a) la previsione della possibilità per le parti del rapporto di assoggettare a una limitazione ragionevole la durata delle modalità di lavoro flessibili (dunque, anche della riduzione dell’orario) richieste dalla lavoratrice o dal lavoratore e (b) il riconoscimento del diritto di questi ultimi a presentare in qualsiasi momento una domanda di ritorno all’organizzazione originaria.
Discorso non molto diverso può essere fatto per il lavoro digitale a distanza. Anche in relazione a questa modalità di lavoro flessibile sembra che le istituzioni eurounitarie inizino ad avere contezza dei rischi, che possono andare da quello dell’emarginazione professionale di chi lavora da remoto (specie se donna) fino a quello, in un certo senso opposto, del formarsi di una cultura dell’always on. Sta insomma svanendo l’illusione già vissuta per il part-time: quella di essere al cospetto di una forma di lavoro che per sua stessa natura – e dunque indipendentemente dal dato normativo – è funzionale al work-life balance58 .
55 de luCa taMajo, op. cit., 8 osserva che il tema della riduzione dell’orario di lavoro a costo di sacrificare una parte della retribuzione è «strettamente legato, per un verso, alla minore identificazione dell’individuo rispetto al lavoro e, per un altro, ad un arricchimento e diversificazione dei bisogni connessi al tempo libero». 56 V. il considerando S della risoluzione del Parlamento europeo del 13 settembre 2016 sulla creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e vita professionale. 57 Il diritto di precedenza nelle assunzioni con contratto a tempo pieno spetta solo alla lavoratrice e al lavoratore il cui rapporto sia stato già trasformato da full-time a part-time (art. 8, comma 6, d.lgs. n. 81/2015). Nulla è invece previsto per chi è stato assunto direttamente a tempo parziale. 58 Sono condivisibilmente critiche verso questo assunto spinelli, Tecnologie digitali e lavoro agile, Cacucci, 2018, 159 ss., tinti, Il lavoro agile e gli equivoci della conciliazione virtuale, in WP D’Antona, It., n. 419/2020 e Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 181 ss.
Pure per il lavoro a distanza, però, questo disincanto non ha ancora prodotto un granché. A parte la citata previsione che riconosce la facoltà di concordare la temporaneità di questa forma di lavoro e il diritto a richiedere il ripristino delle condizioni originarie (art. 9, dir. 2019/1158/UE), sono poche le misure con cui si prova a intervenire sul problema. Tra queste vale la pena richiamare uno degli obblighi di informazione che la dir. 2019/1152/ UE ha posto in capo al datore di lavoro. Questi è infatti tenuto a rendere noti alla lavoratrice e al lavoratore i tempi della prestazione, essendo peraltro il contenuto dell’obbligo differente a seconda che l’organizzazione dell’orario di lavoro sia prevedibile o imprevedibile (art. 4, par. 2, lett. l e m). La medesima direttiva stabilisce, inoltre, che, in quest’ultima ipotesi, la prestazione possa essere pretesa dal datore soltanto se è stato previamente determinato il periodo del giorno e della settimana in cui al prestatore può essere richiesto di lavorare e se è rispettato un preavviso di durata ragionevole (art. 10). Ecco, nonostante alcune ambiguità59, si tratta certamente di prescrizioni con le quali si cerca di abbozzare una tutela (davvero minima) contro il fenomeno dilagante della disponibilità permanente cui può dar luogo l’(ab)uso delle ICT per l’esecuzione a distanza della prestazione. Con questo stesso obiettivo, poi, il Parlamento europeo ha elaborato una proposta di direttiva sul diritto alla disconnessione60 dai contenuti piuttosto interessanti e certamente innovativi del quadro giuridico in materia di molti Paesi membri61 .
Nonostante le condivisibili preoccupazioni che accompagnano la promozione del lavoro digitale a distanza, è indubbio che la dir. 2019/1158/UE individui in quella modalità di esecuzione della prestazione una delle forme di flessibilità da privilegiarsi nella prospettiva del work-life balance62. Tuttavia, se è vero che il lavoro da remoto non implica – a differenza del part-time – una riduzione del reddito (e a questo dato è probabilmente legata la preferenza per esso del legislatore europeo), è altrettanto innegabile che i rischi tipici di questa modalità di lavoro possono pregiudicarne l’effettiva funzionalità conciliativa. In assenza di efficaci contro-misure, infatti, l’isolamento, la costante raggiungibilità, l’iper-connessione e l’intensificazione dei carichi di lavoro possono vaporizzare i confini tra lavoro e vita privata (c.d. work-life blending) e provocare un soffocamento di quest’ultima ad opera del primo63 .
In questo senso, l’esasperata commistione tra ambiti della vita sperimentata durante la fase acuta dell’emergenza pandemica da Covid-19 dovrebbe insegnare. Se si legge quell’esperienza come una sorta di stress-test sull’utilizzo delle strumentazioni digitali per svol-
59 Ad esempio, come osserva anche bednaroWiCz, op. cit., 617, non è definito con chiarezza quando l’organizzazione dell’orario di lavoro sia da considerarsi «interamente o in gran parte (im)prevedibile». L’unica indicazione (certamente non esaustiva) in questo senso si ha quando la direttiva precisa che «i contratti di lavoro a chiamata o analoghi, compresi i contratti a zero ore […] sono particolarmente imprevedibili per il lavoratore» (considerando 35). 60 Risoluzione del Parlamento europeo del 21 gennaio 2021 recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione. 61 La tematica era già stata affrontata nell’accordo quadro europeo sulla digitalizzazione del lavoro del 22 giugno 2020; intesa che, tuttavia, sconta non pochi limiti legati alla natura stessa della fonte e ai suoi contenuti essenziali. In proposito v. rota, Sull’Accordo quadro europeo in tema di digitalizzazione del lavoro, in LLI, 2020, n. 2, C, 23 ss. 62 tinti, op. cit., 23 s.; Militello, Conciliare vita e lavoro, cit., 181 s. 63 Similmente Weiss, Digitalizzazione: sfide e prospettive per il diritto del lavoro, in DRI, 2016, 659 s., daGnino, Dalla fisica all’algoritmo: una prospettiva di analisi giuslavoristica, Adapt University Press, 2019, 126, Militello, Il work-life blending nell’era della on demand economy, in RGL, 2019, I, 60 ss., ead., Conciliare vita e lavoro, cit., 68 ss. e Cairoli, op. cit., 199 ss.
gere la prestazione a distanza, i risultati, dal punto di vista di chi lavora, non sono molto incoraggianti64 .
Di quelle contro-misure, infatti, nel nostro ordinamento non vi è traccia. Si rinvengono, al più, regole a tutela della salute della lavoratrice e del lavoratore. In questo orizzonte va letto il riferimento ai limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale per il lavoro agile (art. 18, comma 1, l. n. 81/2017); o il richiamo al parametro della ragionevolezza per l’individuazione di un tetto massimo alla durata della prestazione lavorativa per le fattispecie, tra le quali rientra il telelavoro, in cui opera la deroga ex art. 17, comma 5, d.lgs. n. 66/200365; oppure, ancora, il riconoscimento al videoterminalista di un diritto di interrompere mediante pause l’attività allo schermo (art. 175, d.lgs. n. 81/2008). Entro questi confini, e salvo il rispetto della clausola di buona fede e del divieto di discriminazione, il potere del datore di lavoro di richiedere l’esecuzione della prestazione appare sostanzialmente illimitato. Il che, evidentemente, preclude alla lavoratrice e al lavoratore di programmare lo svolgimento delle attività di cura.
È vero che, quantomeno nel lavoro agile, l’accordo individuale deve prevedere i tempi di riposo (art. 19, comma 1, l. n. 81/2017). Tuttavia, niente esclude che le parti si limitino a individuare la collocazione dei 10 minuti di pausa, delle 11 ore di riposo giornaliero e delle 24 ore di riposo settimanale66, lasciando i restanti lassi di tempo (fino a un massimo di 12:50 ore giornaliere e 77 ore settimanali) occupabili dal lavoro a discrezione del datore67 . A ciò, poi, vanno aggiunte le difficoltà di rendere effettivo qualsiasi limite, vuoi perché la durata della prestazione svolta fuori dai locali aziendali non è facilmente misurabile68 ,
64 Si avverte però che nel presente scritto si farà pressoché esclusivo riferimento alla disciplina “ordinaria” del lavoro a distanza.
Sarà dunque intenzionalmente evitato l’esame del regime normativo vigente in costanza di emergenza pandemica, ispirato in via principale a esigenze ben diverse (tutela della salute di chi lavora e prevenzione della diffusione del contagio) da quelle “tradizionali”.
Sul lavoro agile emergenziale si può rinviare a Caruso, Tra lasciti e rovine della pandemia: più o meno smart working?, in RIDL, 2020, I, 215 ss., tinti, op. cit., 40 ss., brollo, Smart o emergency work? Il lavoro agile al tempo della pandemia, in LG, 2020, 553 ss., alessi, vallauri, Il lavoro agile alla prova del Covid-19, in bonardi, Carabelli, d’onGhia, l. zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Ediesse, 2020, 131 ss., albi, Il lavoro agile tra emergenza e transizione, in WP D’Antona, It., n. 430/2020 e tuFo, Il lavoro agile emergenziale: un mosaico difficile da ricomporre tra poteri datoriali e diritti dei lavoratori, in RGL, 2021, I, 41 ss. 65 Cfr. leCCese, La disciplina dell’orario di lavoro nel d.lgs. n. 66/2003, come modificato dal d.lgs. n. 213/2004, in WP D’Antona, It., n. 40/2006, 53 s.; peruzzi, Sicurezza e agilità: quale tutela per lo smart worker?, in DSL, 2017, n. 1, 16; Calvellini, tuFo, Lavoro e vita privata nel lavoro digitale: il tempo come elemento distintivo, in Labor, 2018, 411. Peraltro, a ben vedere, occorre attenersi fedelmente alla lettera della disposizione citata e, di conseguenza, lasciare fuori dall’ambito di applicazione della deroga tutte quelle fattispecie che, in concreto, implicano solo la possibilità di organizzare il proprio tempo e non la facoltà di autodeterminare la durata dell’orario di lavoro (G. riCCi, op. cit., 457 ss.; leCCese, La disciplina dell’orario, cit., 55; spinelli, Tecnologie digitali, cit., 152). Per questo motivo, anche lo stesso telelavoro, espressamente richiamato alla lett. d della disposizione in parola, non necessariamente resta escluso dalla disciplina standard dell’orario di lavoro. 66 Si tratta di periodi di riposo che, sebbene non citati espressamente dall’art. 18, comma 1, l. n. 81/2017, possono ritenersi indirettamente richiamati per il lavoro agile in quanto – a contrario – contribuiscono a definire la durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale. 67 Come afferma spinelli, Tecnologie digitali, cit., 118, «non può non destare perplessità la fiducia “incondizionata” che il legislatore ripone nella capacità delle parti di addivenire ad un bilanciato componimento dei rispettivi interessi». 68 Sotto questo profilo, però, spunti suggestivi si possono ricavare dalla recente C. giust., 14 maggio 2019, causa C-55/18, Federación de
Servicios de Comisiones obreras c. Deutsche Bank SAE, in RIDL, 2019, II, 688 ss., con nota di siotto, in cui il Giudice di Lussemburgo ha affermato la contrarietà al diritto eurounitario di una normativa nazionale che non impone ai datori di lavoro di istituire un sistema che, per garantire l’effetto utile dei diritti riconosciuti a livello sovranazionale, consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascuna lavoratrice e ciascun lavoratore. La pronuncia non riguarda specificamente il lavoro digitale a distanza, ma, in considerazione della validità generale delle affermazioni della Corte, non possono escludersi sviluppi interpretativi che
vuoi per il rischio di un auto-sfruttamento da parte della lavoratrice e del lavoratore (che possono sempre eseguire la prestazione offline). Perfino il diritto alla disconnessione69 , autentica condicio sine qua non della tutela della programmabilità, è negato (nel caso del telelavoro) o è riconosciuto secondo modalità che debbono essere definite tra le parti del rapporto (di lavoro agile)70. Certo, non è escluso che l’autonomia individuale produca un accordo confacente alle esigenze familiari della persona che lavora; così come è ben possibile che la contrattazione collettiva supplisca alle carenze dell’accordo interconfederale sul telelavoro e della l. n. 81/201771, come ad esempio è avvenuto recentemente con il riconoscimento alle lavoratrici e ai lavoratori agili di Autostrade per l’Italia del diritto di disconnettersi fino a un’ora e mezza al giorno per assistere i/le figli/figlie in didattica a distanza72. Tuttavia, resta il fatto che tali esiti non sono in alcun modo favoriti dalla disciplina in materia di lavoro agile e telelavoro, che, al contrario, si preoccupa di concedere maggiore flessibilità al datore di lavoro svincolando dalla presenza in azienda l’esigibilità della prestazione.
A conferma delle difficoltà di inquadrare il lavoro agile tra gli strumenti autenticamente conciliativi militano poi altri elementi ancora, da segnalarsi perché, a loro volta, minano alle fondamenta la facoltà della lavoratrice e del lavoratore di pianificare in un determinato segmento temporale lo svolgimento di attività extra-professionali.
interessino anche questa modalità di esecuzione della prestazione. Su questo specifico aspetto v. leCCese, Lavoro agile e misurazione della durata dell’orario per finalità di tutela della salute, in RGL, 2021, II, 428 ss. 69 La letteratura in materia è vastissima. Si segnalano, senza alcuna pretesa di esaustività, Mathieu, péretié, piCault, Le droit à la déconnexion: une chimère?, in Revue de droit du travail, 2016, 592 ss., ray, Grande accélération et droit à la déconnexion, in DS, 2016, 912 ss., daGnino, Il diritto alla disconnessione nella legge n. 81/2017 e nell’esperienza comparata, in DRI, 2017, 1024 ss.,
FenoGlio, Il diritto alla disconnessione del lavoratore agile, in zilio Grandi, biasi (a cura di), Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro digitale, Wolters Kluwer, 2018, 547 ss., Calvellini, tuFo, op. cit., 404 ss., altiMari, Tempi di lavoro (e non lavoro) e economia digitale: tra diritto alla disconnessione e ineffettività dell’impianto normativo-garantista, in alessi, barbera, GuaGlianone (a cura di), Impresa, lavoro e non lavoro nell’economia digitale, Cacucci, 2019, 57 ss., di Meo, Il diritto alla disconnessione nella prospettiva italiana e comparata, in alessi, barbera, GuaGlianone (a cura di), op. cit., 111 ss. e zuCaro, Il diritto alla disconnessione tra interesse collettivo e individuale. Possibili profili di tutela, in LLI, 2019, n. 2, 214 ss. 70 Occorre precisare però che – come si è argomentato in Calvellini, tuFo, op. cit., 409 ss. – dall’art. 2087 c.c. può ricavarsi un obbligo datoriale di disconnettere chi lavora da remoto per quel periodo minimo che è necessario ad assicurare, attraverso il riposo, la tutela dell’integrità psico-fisica. Cfr. anche Casillo, Competitività e conciliazione nel lavoro agile, in RGL, 2018, I, 122 s. 71 Ma come segnalano per il diritto alla disconnessione nel lavoro agile aiMo, FenoGlio, Alla ricerca di un bilanciamento tra autonomia organizzativa del lavoratore e poteri datoriali nel lavoro agile, in Labor, 2021, 46 ss., «la maggior parte dei contratti di categoria […] non si occupa di tale questione» e nei contratti decentrati «la regolamentazione del diritto […] si traduce in alcuni casi in una mera enunciazione, talvolta accompagnata dall’elencazione di buone prassi». 72 Nell’ambito dell’emergenza pandemica, al genitore con figli/figlie in didattica a distanza (o in altre situazioni analoghe) che decida di svolgere la prestazione in modalità agile è stato da ultimo riconosciuto «[…] il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati […]» (art. 2, comma 1-ter, d.l. n. 30/2021, conv. l. n. 61/2021). La portata innovativa della previsione non è chiarissima e oscilla tra la quasi impercettibilità e il rivoluzionario. In particolare, la novella aggiungerebbe poco a quanto già ricavabile dall’art. 19, l. n. 81/2017 (fatta eccezione per l’espressa qualificazione della disconnessione come diritto) se la si intendesse come attributiva di una posizione giuridica di vantaggio condizionata alla specificazione in un accordo tra le parti delle relative modalità di esercizio. Assai rilevante (sul piano teorico, più che su quello pratico) sarebbe invece l’impatto della disposizione se si ritenesse – valorizzando l’aggettivo “eventuale” utilizzato in relazione all’intervento dell’autonomia individuale – che la lavoratrice e il lavoratore godano di un diritto che, in assenza di un accordo tra le parti sul punto, è esercitabile in maniera del tutto libera e incondizionata.
Rileva in primo luogo la disciplina dei carichi di lavoro. Com’è noto, la legge ammette che l’organizzazione del lavoro in modalità agile sia stabilita anche per obiettivi. È chiaro, allora, che la fissazione dell’asticella da raggiungere nell’unità di tempo è essenziale per determinare l’impegno lavorativo richiesto in quel dato periodo. E mentre l’accordo interconfederale del 9 giugno 2004 prescrive l’equivalenza dei carichi di lavoro della telelavoratrice e del telelavoratore con quelli degli altri dipendenti comparabili che svolgono la loro attività nei locali aziendali, niente di tutto questo è stabilito in relazione al lavoro agile, con l’effetto che, anche sotto questo profilo, l’autonomia individuale potrà muoversi senza un limite che non sia quello della ragionevolezza.
Altra evidente lacuna nella legge è quella consistente nella mancata regolamentazione dell’ipotesi in cui è richiesta la presenza della lavoratrice e del lavoratore presso i locali aziendali o in altro luogo determinato dal datore. Il fatto che luogo e orario di lavoro non siano prestabiliti non significa che il creditore della prestazione non possa esigere dal debitore la sua presenza in un certo posto a una certa ora. L’assenza nella legge di indicazioni circa il preavviso con cui ciò può avvenire rappresenta un ulteriore elemento di incertezza che espone la persona che lavora al rischio di vedere stravolta l’organizzazione della propria temporalità da una richiesta datoriale. Lo stesso pericolo si configura poi ben più drammaticamente se si guarda alla regolamentazione del recesso dal patto di lavoro agile. La circostanza che dall’accordo a tempo indeterminato il datore possa recedere ad nutum concedendo un preavviso di trenta giorni «espone l’equilibrio conciliativo eventualmente raggiunto a un rischio permanente»; e il fatto che il preavviso sia addirittura escluso qualora il recesso dal patto (a tempo determinato o indeterminato) avvenga a fronte di «un “giustificato motivo” dal contorno evanescente» appare ancor più destabilizzante per chi intorno a quella modalità di lavoro flessibile ha programmato la propria esistenza73 .
Dunque, pure nella disciplina del telelavoro e – assai di più – in quella del lavoro agile, come già nella normativa sul part-time, la flessibilità è declinata a favore dell’impresa. La finalità conciliativa a cui in linea di principio queste forme di lavoro dovrebbero ispirarsi viene nei fatti frustrata dal riconoscimento al datore di un potere di modifica dei tempi (e, in certi casi, anche del luogo) della prestazione soggetto a pochi limiti. Dall’altro lato, poi, la possibilità per chi ha responsabilità di cura di modellare le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa secondo i propri bisogni familiari dipende da una disponibilità in questo senso della controparte datoriale. Insomma, se si guarda al tempo della persona che lavora dal punto di osservazione delle possibilità concesse dall’ordinamento giuridico di organizzarlo in funzione delle esigenze familiari si realizza che l’equilibrio tra lavoro e vita privata è lungi dall’essere raggiungibile.
73 tinti, op. cit., 34. Nello stesso senso, anche pasqualetto, Il recesso dall’accordo sul lavoro agile, in zilio Grandi, biasi (a cura di),
Commentario breve allo statuto, cit., 531 ss., spinelli, Tecnologie digitali, cit., 159 s., FenoGlio, Il tempo di lavoro nella New Automation
Age: un quadro in trasformazione, in RIDL, 2018, I, 640 e vallauri, op. cit., 144.