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Corte di Cassazione, sentenza 12 febbraio 2021, n. 3671; Pres. Tria – Est. Blasutto – S.V., B.I., C.A., C.B.M., D.A., D.C.C.,
D.F.P., L.K., M.M.A., M.A. (avv. Massimo Pistilli) c. L. (avv.ti Sabatino Alessio Marrama e Valentina Ferrara).
Cassa con rinvio App. Roma, sent. n. 710/2018
Contratto collettivo – successione dei CCNL – clausola di ultrattività – termine certus an e incertus quando – recesso – illegittimità
Poiché la “scadenza” del contratto non può che essere quella fissata specificamente e chiaramente dalle parti collettive, la previsione della perdurante vigenza fino alla nuova stipulazione ha il significato della statuizione, mediante la clausola di ultrattività, di un termine di durata, benché indeterminato nel “quando”, atteso che il contratto collettivo di diritto comune è regolato dalla libera volontà delle parti.
(Omissis)
Fatti di Causa – 1. Le parti odierne ricorrenti adivano il Giudice del lavoro del Tribunale di Viterbo per chiedere l’accertamento, nei confronti della L. s.r.l. – quale titolare della residenza sanitaria assistenziale (RSA) denominata “V.B.”-, dell’inapplicabilità del CCNL sottoscritto in data 22 marzo 2012 tra AIOP e FISMIC Confsal, Si-CEL, FSE FIALS, UGL, nonché dell’ulteriore accordo integrativo sull’inquadramento del personale sottoscritto in data 11 giugno 2012, ciò in quanto tali accordi contrattuali non erano stati firmati dal sindacato UIL FPL al quale i lavoratori erano iscritti. Rivendicavano l’applicazione del precedente CCNL del 23.11.2004, che espressamente prevedeva la propria vigenza sino alla stipulazione di un nuovo contratto, circostanza non verificatasi nella specie. 2. Il Tribunale di Viterbo dichiarava l’inammissibilità del ricorso nei confronti della UIL FPL per difetto di valida procura e rigettava il ricorso nei confronti dei lavoratori. Tale sentenza veniva confermata dalla Corte di appello di Roma, con sentenza n. 710/2018, sulla base dei seguenti argomenti: a) è pacifico – e comunque documentalmente dimostrato – che la società L. fino al 30.6.2012 ha applicato, al proprio personale in servizio presso la residenza sanitaria assistenziale (RSA), il CCNL del 23.11.2004 per il personale dipendente delle strutture sanitarie private associate all’AIOP, ARIS e alla Fondazione D.G. (sottoscritto da numerose sigle sindacali, tra cui anche la UIL FPL) e il successivo accordo stipulato, ai soli fini economici, in data 15.9.2010; b) parimenti pacifico è che, a decorrere dal 1.7.2012, a seguito di espressa comunicazione in tal senso effettuata dalla società il 29.6.2012, quest’ultima ha applicato ai propri dipendenti il CCNL per il personale dipendente delle RSA e delle altre strutture residenziali e socio assistenziali associate AIOP, sottoscritto in data 22.3.2012 dalla suddetta associazione datoriale con altre sigle sindacali, ma non dalla UIL FPL (contratto al quale detta sigla sindacale, unitamente ai lavoratori ricorrenti, avevano dichiarato di non aderire) e del successivo accordo di armonizzazione dell’11.6.2012; c) come già ritenuto dal primo giudice, è legittima la disdetta del CCNL 23.11.2004: il comma 1 dell’art. 4 di tale contratto prevedeva espressamente la sua applicabilità sino al 31.12.2005 per la parte normativa e sino al 31.12.2003 per la parte economica; la vigenza del CCNL 23.11.2004 era pertanto, alla data del 1.7.2012, ormai da tempo venuta meno, con conseguente venir meno di ogni vincolo temporale al mantenimento dei suoi effetti e conseguente applicabilità del principio di libera recedibilità previsto in materia contrattuale dall’art. 1373 c.c., comma 2; alla disposizione dell’art. 4, comma 2 secondo cui il contratto avrebbe conservato la sua validità fino alla sottoscrizione del nuovo, va riconosciuto il limitato effetto di stabilire l’ultravigenza del CCNL, anche successivamente alla scadenza del termine contrattualmente previsto, sino alla stipulazione ad opera di una delle parti di un qualsivoglia nuovo contratto collettivo, non necessariamente con le stesse parti originariamente contraenti; una volta venuta meno la vigenza del precedente CCNL 23.11.2004, è legittima l’applicabilità del nuovo CCNL del 2012, contratto collettivo vigente a livello nazionale e al quale la società datrice aveva espressamente aderito; d) neppure è fondata la censura della violazione del principio di irriducibilità della retribuzione sancito dall’art. 2103 c.c.: non sussiste un diritto al mantenimento del trattamento economico e normativo stabilito da un precedente CCNL, essendo invece legittima, in caso di successione di contratti collettivi, anche una modifica in peius del trattamento economico e normativo, in quanto le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto del contratto individuale, ma operano dall’esterno come fonte eteronoma
di regolamento, sicchè esse non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077 c.c.), con il limite del diritto quesito; e) è qualificabile diritto quesito, insuscettibile di essere pregiudicato da successive disposizioni contrattuali, solo il diritto perfetto già entrato definitivamente nella sfera patrimoniale del lavoratore, come il corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita e non invece la pretesa riferita a situazioni future o in via di consolidamento; f) neppure si è verificata nel caso di specie la violazione del principio di irriducibilità della retribuzione sancito dall’art. 2103 c.c. e dall’art. 36 Cost., ove si consideri la clausola di salvaguardia, successivamente pattuita con l’accordo dell’11.6.2012, alla cui stregua il livello retributivo precedente è stato garantito dall’introduzione di un superminimo riassorbibile; g) la garanzia di irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti estrinseche della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa; ne consegue che il principio invocato dai reclamanti non è di per sè applicabile a quegli istituti (di cui all’atto di impugnazione) quali l’estensione dell’orario di lavoro settimanale, il numero di giorni di ferie o l’indennità di turno, in quanto istituti diretti a regolamentare le modalità della prestazione lavorativa ed estranei alle qualità professionali intrinseche della prestazione stessa; h) neppure è condivisile la doglianza di parte appellante relativa alla diminuzione della retribuzione oraria conseguente alla modifica, a parità di retribuzione, dell’orario di lavoro settimanale, che il nuovo contratto ha portato da 36 a 38 ore settimanali, estensione comunque rientrante nell’ambito della nozione legale di orario di lavoro di 40 ore settimanali, così come individuata dal D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 3, comma 1; la questione è estranea all’ambito di tutela dell’art. 2103 c.c. in quanto attinente al profilo della articolazione oraria della prestazione lavorativa, ossia alle modalità del suo svolgimento, sulla quale può incidere la volontà delle parti sociali introducendo modifiche anche in peius. 3. Per la cassazione di tale sentenza i lavoratori indicati in epigrafe hanno proposto ricorso affidato a quattro motivi, cui ha resistito la soc. LOB con controricorso. (Omissis) raGioni della deCisione –1. Con il primo motivo parte ricorrente denuncia omesso esame (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) dell’eccezione di inapplicabilità del CCNL ai lavoratori non iscritti ad associazioni sindacali firmatarie. Assume che la sentenza si era limitata ad enunciare il principio per cui “l’applicazione del CCNL 22.3.2012 agli appellanti, anche se non iscritti ad una delle associazioni sindacali firmatarie di tale contratto collettivo non può ritenersi avvenuta in violazione dei noti e consolidati principi giurisprudenziali in materia di applicazione su base volontaria della contrattazione collettiva di diritto comune”. È assente qualsiasi argomento a sostegno dell’assunto per cui un contratto collettivo (di diritto comune) possa trovare applicazione anche nei confronti dei lavoratori non iscritti alle organizzazioni firmatarie. 2. Con il secondo motivo denuncia violazione o errata ricognizione di legge e accordi collettivi in punto di inapplicabilità del CCNL a lavoratori iscritti ad associazioni sindacali non firmatarie (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Oltre al vizio di motivazione radicalmente carente, il giudizio espresso dalla Corte di appello non è conforme alla regola per cui il contratto, quale atto di autonomia negoziale, può vincolare solo i lavoratori iscritti al sindacato stipulante. Nè potrebbe affermarsi l’assenza di un dissenso circa l’applicazione della nuova fonte contrattuale, posto che i lavoratori firmarono un atto di diffida alla struttura a non applicare il nuovo contratto collettivo peggiorativo, lesivo dei propri diritti. 3. Con il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 2103 c.c. e art. 36 Cost. e del principio di irriducibilità della retribuzione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Il passaggio da 36 a 38 ore settimanali, incidendo sull’ammontare della retribuzione oraria, costituisce violazione del suddetto principio. Nè il datore, in difetto di accordo, può aumentare l’orario di lavoro. 4. Con il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 4, comma 2, CCNL 23.11.2004 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) con riguardo alla dichiarazione di sopravvenuta perdita di efficacia del CCNL del 2004, in quanto la clausola di ultravigenza contenuta nel comma 2 del predetto articolo prevedeva come termine finale del contratto soltanto la stipula di un nuovo contratto tra le parti.
Richiama, a sostegno del motivo, altra pronuncia del giudice di merito (Tribunale di Viterbo chiamato a pronunciare sulla medesima questione) secondo cui la disdetta del CCNL Sanità privata 2002-2005, peraltro relativa alla sola parte RSA, comunicata da AIOP con lettera del 17 aprile 2012 alle OO.SS. originariamente firmatarie, e la conclusione, tra parti diverse dalle prime stipulanti e non rappresentative, del CCNL per le RSA, nel vigore del contratto unitario rimasto efficace per il personale ordinario, appare integrare un esercizio della facoltà di recesso unilaterale del contratto collettivo non consentito e non legittimo, anche per violazione dell’obbligo giuridico di buona fede, e che assume una particolare consistenza ove la controparte originaria sia costituita, come nel caso di specie, dai sindacati maggiormente rappresentativi.
Specificamente, quanto al recesso unilaterale operato dalla parte datoriale, la Corte di appello ha citato principi normativi e giurisprudenziali che non si at-
tagliano alla fattispecie, in quanto relativi a contratti collettivi privi della previsione di un termine di durata. Nel caso in esame, le parti non hanno omesso di stabilire un termine, nè hanno espresso la volontà che il contratto avrebbe avuto una durata indeterminata, ma hanno previsto un termine di durata. 5. È fondato il quarto motivo, con assorbimento dei restanti. 6. In merito alla questione della durata e dell’efficacia del contratto collettivo del 2004, occorre premettere, in via generale, il principio più volte affermato da questa Corte, sin da Sezioni Unite n. 11325 del 2005, secondo cui i contratti collettivi di diritto comune, costituendo manifestazione dell’autonomia negoziale degli stipulanti, operano esclusivamente entro l’ambito temporale concordato dalle parti, atteso che l’opposto principio di ultrattività sino ad uno nuovo regolamento collettivo secondo la disposizione dell’art. 2074 c.c. – in contrasto con l’intento espresso dagli stipulanti, ponendosi come limite alla libera volontà delle organizzazioni sindacali, violerebbe la garanzia prevista dall’art. 39 Cost.. 7. Con tale pronuncia le S.U., nel risolvere un contrasto di giurisprudenza, hanno confermato l’orientamento prevalente secondo cui la disposizione dell’art. 2074 c.c. – sulla perdurante efficacia del contratto collettivo scaduto, fino a che non sia intervenuto un nuovo regolamento collettivo non si applica ai contratti collettivi post-corporativi che, costituendo manifestazione dell’autonomia negoziale privata, sono regolati dalla libera volontà delle parti cui soltanto spetta stabilire se l’efficacia di un accordo possa sopravvivere alla sua scadenza; la cessazione dell’efficacia dei contratti collettivi, coerentemente con la loro natura pattizia, dipende quindi dalla scadenza del termine ivi stabilito. 8. Il contratto collettivo del 23.11.2004 aveva previsto, al comma 1 dell’art. 4, che “il presente contratto si riferisce per la parte normativa al periodo dall’1.1.2002 al 31.12.2005, per la parte economica al periodo dall’1.1.2002 al 31.12.2003 (salvo che nel testo contrattuale non siano previste decorrenze diverse)” e, al comma 2 dell’art. 4, che “in ogni caso, il presente contratto conserva la sua validità fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL”. 9. Poiché la “scadenza” del contratto non può che essere quella fissata specificamente e chiaramente dalle parti collettive, la previsione della perdurante vigenza fino alla nuova stipulazione ha il significato della previsione, mediante la clausola di ultrattività, di un termine di durata, benché indeterminato nel “quando”, atteso che il contratto collettivo di diritto comune è regolato dalla libera volontà delle parti, che possono in tal modo regolare gli effetti del contratto scaduto quanto al termine di efficacia previsto nella prima parte della stessa norma. 10. La Corte di appello ha invece richiamato principi e precedenti giurisprudenziali che fanno riferimento a fattispecie diverse, quelle in cui manca un termine di durata o nelle quali le parti abbiano espressamente previsto una durata indeterminata: è noto infatti che, non essendo applicabile la disciplina prevista dal codice civile per i contratti corporativi e, in particolare, la norma dell’art. 2071, ultimo comma, c.c., relativa all’obbligo di determinare la durata del contratto, sussiste la possibilità che un contratto collettivo sia stipulato senza indicazione del termine finale; la mancata indicazione non implica che gli effetti del contratto perdurino nel tempo senza limiti, atteso che – in sintonia con il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto ex art. 1375 c.c. ed in coerenza con la naturale temporaneità dell’obbligazione – deve riconoscersi alle parti la possibilità di farne cessare l’efficacia, previa disdetta, anche in mancanza di un’espressa previsione legale, non essendo a ciò di ostacolo il disposto dell’art. 1373 c.c., che contempla il recesso unilaterale nei contratti di durata quando tale facoltà è stata introdotta dalle parti, senza nulla disporre per il caso di mancata previsione pattizia al riguardo (Cass. nn. 4507 del 1993, 1694 del 1997, 6427 del 1998, 14827 del 2002, 18508 del 2005, 27198 del 2006, 19351 del 2007; v. pure Cass. 18548 del 2009); 11. è stato pure affermato che, a seguito della naturale scadenza del contratto, collettivo, in difetto di una regola di ultrattività del contratto medesimo, la relativa disciplina non è più applicabile, e il rapporto di lavoro da questo in precedenza regolato resta disciplinato dalle norme di legge, salvo che le parti abbiano inteso, anche solo per facta concludentia, proseguire l’applicazione delle norme precedenti (v. Cass. n. 20784 del 2010; n. 19252 del 2013). 12. Tuttavia, tali principi non possono regolare un’ipotesi, come quella in esame, in cui la clausola di ultrattività ha previsto un termine finale correlato ad una nuova negoziazione, secondo il principio generale nelle obbligazioni da contratto per cui il criterio distintivo tra termine e condizione va ravvisato nella certezza e/o nell’incertezza del verificarsi di un evento futuro che le parti hanno previsto per l’assunzione di un obbligo o per l’adempimento di una prestazione, per cui ricorre l’ipotesi del termine quando detto evento futuro sia certo, anche se privo di una precisa collocazione cronologica, purchè risulti connesso ad un fatto che si verificherà certamente (cfr. Cass. n. 4124 del 1991). La locuzione “fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL” sta a indicare la volontà delle parti originariamente stipulanti a vincolarsi al contenuto del contratto sottoscritto fino alla nuova negoziazione e sottoscrizione. La volontà di esprimere un termine finale è chiaramente enunciata dalle parti contraenti. 13. Ritiene dunque il Collegio che – diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello – la presente fattispecie sia diversa da quella, esaminata di recente da Cass. n. 28456 del 2018 e n. 23105 del 2019, della mancata indicazione di un termine di scadenza del
contratto collettivo di diritto comune, per la quale vale il principio secondo cui le parti sono libere di recederne unilateralmente, salva la valutazione dell’idoneità del singolo atto ad assumere valore di disdetta. 14. L’accoglimento del quarto motivo ha carattere assorbente di ogni altra questione, poiché gli ulteriori profili postulano la validità della disdetta unilaterale avvenuta prima del verificarsi del termine finale, questione che spetterà al giudice di rinvio riesaminare alla stregua dei principi sopra indicati. 15. Si designa quale giudice di rinvio la Corte di appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio. (Omissis)
La successione dei contratti collettivi nel tempo quando la clausola di ultrattività è a tempo indeterminato
Sommario: 1. La vicenda. – 2. La controversa qualificazione della clausola di ultrattività tra termine “certus an e incertus quando” e condizione potestativa. – 3. Il diritto di recesso dal contratto collettivo. – 4. L’efficacia del contratto collettivo con clausola di ultrattività. Considerazioni sulla asserita violazione del principio di irriducibilità della retribuzione.
sinossi. Con la sentenza n. 3671 del 12 febbraio 2021, la Corte di Cassazione torna ad affrontare la questione della successione dei contratti collettivi nel tempo e della perdurante efficacia di un precedente contratto collettivo in forza di una clausola di ultrattività. La vicenda offre l’occasione di analizzare i principali profili connessi a tale tematica, quali, prima fra tutte, la controversa qualificazione della predetta clausola alla stregua di un termine certus an e incertus quando, da cui discende, secondo l’opinabile ricostruzione effettuata dalla Corte di Cassazione, un limite nell’esercizio del diritto di recesso.
Abstract. With the ruling no. 3671/2021, the Court of Cassation addresses the issue of the succession of collective agreements and the continuing effectiveness of a previous agreement thanks to a specific clause, which extends its duration. The ruling offers the opportunity to analyze the main profiles connected to this issue, such as the right of withdrawal, the exercise of which is limited by the presence of a term, and the controversial qualification of the clause as a term “certus an and incertus quando”.
1. La vicenda.
Il caso in esame riguarda la discussa applicabilità del contratto collettivo nazionale sottoscritto il 22 marzo 2012 da AIOP (Associazione Italiana Ospedalità Privata), FISMIC
Confsal, Si-CEL, FSE FIALS e UGL nei confronti dei lavoratori iscritti ad un sindacato dissenziente e non firmatario, la UIL FPL.
In particolare, i citati lavoratori rivendicano l’applicazione del precedente CCNL del 23 novembre 2004 in forza dell’art. 4, secondo comma, in base al quale «in ogni caso, il presente contratto conserva la sua validità fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL» e, quindi, al di là dei termini sanciti dal primo comma del menzionato art. 4, secondo cui «il presente contratto si riferisce per la parte normativa al periodo dal 1.1.2002 al 31.12.2005, per la parte economica al periodo dal 1.1.2002 al 31.12.2003 (salvo che nel testo contrattuale non siano previste decorrenze diverse)».
La pretesa dei ricorrenti è stata respinta dal Tribunale di Viterbo e dalla Corte d’Appello di Roma sulla base del rilievo secondo cui in assenza di un termine di scadenza del contratto collettivo vige il principio di libera recedibilità (art. 1373, secondo comma, c.c.). È emerso, infatti, che decorsi i termini disposti dall’art. 4, primo comma, la società datrice ha cessato di applicare il contratto collettivo del 23 novembre 2004 a partire dal 30 giugno 2012, dopo aver comunicato la propria disdetta alle parti originariamente firmatarie. La Corte d’Appello fa leva in particolare sulla necessaria applicazione, al caso di specie, dei principi di temporaneità delle obbligazioni e di libera recedibilità previsti in materia di contratti dal Codice civile (art. 1373, secondo comma), che si vedrebbero evidentemente frustrati laddove si imponesse l’ultrattività dell’accordo contrattuale senza limiti di tempo.
Da tale soluzione si discosta, invece, la Corte di Cassazione con la sentenza in esame, che muove apoditticamente dal presupposto secondo cui l’inciso contenuto nel citato secondo comma dell’art. 4 costituisce un termine certus an e incertus quando, da ciò deducendo l’illegittimità del recesso esercitato dalla AIOP per assenza di giusta causa e la conseguente necessaria applicazione del contratto collettivo del 23 novembre 2004 nei confronti dei ricorrenti.
Il cuore del problema è rappresentato dalla presenza, nell’art. 4 del contratto collettivo nazionale del 23 novembre 2004, della clausola in forza della quale «1. Il presente contratto si riferisce per la parte normativa al periodo dal 1.1.2002 al 31.12.2005, per la parte economica al periodo dal 1.1.2002 al 31.12.2003 (…). 2. In ogni caso, il presente contratto collettivo conserva la sua validità sino alla sottoscrizione del nuovo CCNL».
In particolare, si discute in merito alla natura di tale ultima previsione, che, diversamente da quanto affermato dalla Corte di Cassazione, secondo la Corte d’Appello di Roma non costituisce un termine di durata. Ciò non significa che gli effetti dell’accordo perdurino senza limiti di tempo: tutt’altro, applicando il principio di buona fede ex art. 1375 c.c. e quello della necessaria temporaneità delle obbligazioni prive di termine, è necessario garantire alle parti il diritto di recesso. Così, secondo la Corte d’Appello, la vigenza del
precedente accordo sarebbe venuta meno, posta la disdetta comunicata dalla AIOP ad aprile 2012.
Una tale interpretazione non trova, tuttavia, l’avallo della Corte di Cassazione, secondo cui l’inciso «fino alla sottoscrizione del nuovo CCNL» lascia trasparire la volontà di protrarre la durata del contratto collettivo oltre i termini menzionati al primo comma e sino alla stipula del nuovo accordo: si legge, infatti, che la citata disposizione «ha il significato di un termine di durata, perché indeterminato nel quando, atteso che il contratto collettivo di diritto comune è regolato dalla libera volontà delle parti». Nello specifico, secondo la Corte di Cassazione, la previsione costituisce un termine “certus an e incertus quando”, da cui consegue l’illegittimità del recesso esercitato dalla società resistente per assenza di giusta causa e la violazione del principio di buona fede.
Sebbene a prima vista la soluzione descritta abbia il pregio di giungere ad un risultato che si pone a garanzia dei lavoratori iscritti al sindacato dissenziente, essa rivela evidenti criticità sotto il profilo dell’inquadramento giuridico, che meritano di essere rilevate in questa sede.
La circostanza della futura sottoscrizione di un accordo da parte di tutti i precedenti firmatari del contratto collettivo costituisce un evento sì futuro, ma del tutto incerto, la cui verificabilità è rimessa alla volontà di tutte le parti. Non si tratta, a ben vedere, di un semplice evento esterno, secondo la prospettiva civilistica, ma di un fatto rimesso alla loro discrezionalità: non si può trascurare la possibilità che con il mutare delle circostanze future, tale impegno non sia rispettato, con il rischio di giungere al risultato paradossale di un’obbligazione perpetua.
Considerati i margini di grande incertezza dell’evento addotto nella clausola, anche sotto il profilo dell’an e non soltanto del quando, si ritiene che la citata previsione possa configurare una condizione potestativa1, più che un termine. Tale ipotesi sussiste, infatti, quando l’evento è costituito dal fatto volontario di una delle parti, potendosi distinguere tra due fattispecie: quella semplice, considerata valida perché riferita a circostanze meritevoli di tutela dall’ordinamento e quella meramente potestativa, rinvenibile laddove l’evento sia frutto dell’arbitrio di una parte2; questo secondo caso è sanzionato dall’art. 1354 c.c. con la nullità, ritenendosi che il compimento o l’omissione del fatto non dipenda da seri o apprezzabili motivi.
A parere di chi scrive, la clausola in esame presenta le caratteristiche proprie della condizione potestativa semplice, giacché il suo compimento dipende pur sempre da seri e apprezzabili motivi e, cioè, dalla volontà di sedere al tavolo delle trattative e sottoscrivere un nuovo contratto collettivo; tuttavia, tale evento, incertus an e quando, si proietta in un arco di tempo indeterminato, con la conseguente e necessaria applicazione del principio di libera recedibilità.
1 Ferrara, La condizione potestativa, in Scritti giuridici, I, Giuffré, 1954, 423. 2 Cass., 21 maggio 2007, n. 11774, in GC Mass, 2007, 5; Cass., 16 gennaio 2006, n. 728, in GC Mass, 2006, 3; MaiorCa, Condizione, in
DDP civ, III, 1988, 299; Carresi, Il contratto, Giuffré, 1987, 269.
Un ulteriore profilo critico della sentenza è rappresentato dalla dichiarazione di illegittimità del recesso dell’AIOP dal contratto collettivo del 23 novembre 2004.
Secondo la Corte d’Appello di Roma, tale atto è invece legittimo, in quanto espressione della libera recedibilità delle parti da un accordo senza termine.
Il tema del recesso dal contratto collettivo di diritto comune, che fa da cornice al caso in esame, è stato oggetto di un ampio dibattito giurisprudenziale in merito all’interpretazione dell’art. 1373, secondo comma, c.c.
Secondo un orientamento oramai prevalente e consolidato nel tempo3, in assenza di un termine finale, ovvero in presenza della previsione di una durata indeterminata, gli effetti del contratto collettivo non perdurano senza limiti temporali, in quanto l’art. 1373, secondo comma, c.c. garantisce la libera recedibilità dall’accordo, previa disdetta4. La soluzione ermeneutica si fonda, innanzitutto, sulla concezione accolta dalla dottrina civilistica5 della temporaneità delle obbligazioni, in virtù della quale il recesso rappresenta una “via di fuga” di fronte al rischio di ricadere in vincoli obbligatori perpetui, «nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto».
La regola opera sia in assenza di un termine finale, sia laddove il contratto si rinnovi automaticamente. A ciò si aggiunge la necessità di tener conto della specificità della materia e, in particolare, della circostanza secondo la quale il contratto collettivo reca una disciplina parametrata «su una realtà socio economica in continua evoluzione»6, in cui la temporaneità dell’accordo è intrinseca alla funzione dallo stesso assolta nel nostro ordinamento7 .
Nel caso in cui, all’opposto, il contratto collettivo è dotato di un termine di durata, non è ammissibile il recesso ante tempus se non in presenza di una giusta causa, che consente di far venire meno il vincolo contrattuale laddove si verifichino circostanze di carattere del tutto “straordinario”, ostative al normale svolgimento del rapporto8, che la Corte di Cassazione non ritiene sussistenti nel caso in esame, con la conseguente illegittimità dell’atto datoriale.
3 Da ultimo, Cass., 7 novembre 2018, n. 28456, in GC Mass, 2019, secondo cui «Qualora un contratto collettivo di diritto comune venga stipulato a tempo indeterminato, senza l’indicazione di un termine di scadenza, le parti sono libere di recederne unilateralmente, salva la valutazione dell’idoneità del singolo atto ad assumere valore di disdetta»; Cass., 17 settembre 2019, n. 23105, in GC Mass, 2019. 4 tirabosChi, L’efficacia temporale del contratto collettivo di lavoro: atipicità dello schema negoziale, giuridicità del vincolo e cause di scioglimento, in DRI, 1994, 91; G. santoro passarelli, Efficacia soggettiva del contratto collettivo: accordi separati, dissenso individuale e clausola di rinvio, in RIDL, 2010, I, 497; contra Chiusolo, La disdetta dell’accordo sindacale da parte del datore di lavoro, in L80, 1989, 94 ss.; vallebona, Istituzioni di diritto del lavoro. Il diritto sindacale, Cedam, 2008, 208. 5 Sotto il profilo civilistico, si segnalano tra tutti bianCa, Diritto civile, Giuffré, 2000, vol. III, 741; Mirabelli, Dei contratti in generale, in
Comm. cod. civ., IV, 2, Utet, 1980, 297; sanGiorGi, Rapporti di durata e recesso ad nutum, Giuffé, 1965, 183; oppo, I contratti di durata, in RDComm, 1943, 239; resCiGno, Contratto collettivo senza predeterminazione di durata e libertà di recesso, in MGL, 1993, 576 ss.;
Contra G. Gabrielli, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Giuffré, 1985, 61. 6 Cass., 16 aprile 1993, n. 4507, in RIDL, 1993, II, 684 ss. 7 Cass., 20 agosto 2009, n. 18548, in RIDL, 2010, II, 931 ss. 8 ManCini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro. Individuazione della fattispecie. Il recesso ordinario, Giuffré, 1962, vol. I; id. Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro. Il recesso straordinario. Il negozio di recesso, Giuffré, 1965.
La soluzione adottata nel caso de quo, tuttavia, non sembra condivisibile, in quanto trae origine dalla qualificazione della clausola di ultrattività dell’art. 4, secondo comma, cit., quale termine certus an e incertus quando. Si ritiene, invece, corretta l’interpretazione accolta dalla Corte d’Appello, con la conseguenza che il recesso esercitato dalla AIOP è pienamente legittimo.
4. L’efficacia del contratto collettivo con clausola di ultrattività. Considerazioni sulla asserita violazione del principio di irriducibilità della retribuzione.
Il tema della successione dei contratti collettivi nel tempo e della loro efficacia, ampiamente studiato dalla dottrina9, pone una serie di questioni anche in relazione alla possibile ultrattività delle clausole a contenuto retributivo, potendosi al riguardo prospettare diverse soluzioni interpretative.
Un primo approccio ermeneutico, minoritario, giustifica la sopravvivenza delle clausole contrattuali in materia retributiva facendo leva sulla possibile reviviscenza dell’art. 2074 c.c. Nel sistema post-corporativo, la norma assolverebbe alla specifica funzione di assicurare ai lavoratori il mantenimento delle medesime condizioni economico-normative previste dal precedente contratto, scongiurando così il rischio di una compromissione dell’art. 36 Cost., che garantisce il diritto ad una retribuzione sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità di lavoro svolto. La disposizione costituzionale sarebbe riferita non soltanto al rapporto individuale di lavoro, costituendo altresì un’«entità oggettiva sottratta alla disponibilità delle parti collettive»10. In questa prospettiva, l’individuazione di un termine del contratto assolverebbe alla sola funzione di determinare il periodo temporale entro il quale le parti sociali si impegnano a non rivendicare ulteriori pretese sui profili oggetto di contrattazione11 .
Un secondo indirizzo ermeneutico, più convincente e, del resto, dominante12, fa leva sull’inapplicabilità dell’art. 2074 c.c., che riflette un contesto storico e culturale radicalmente diverso da quello attuale, quello del periodo corporativo, ritenendo, coerentemente con i principi civilistici, che il predetto accordo conservi la sua efficacia unicamente entro
9 GiuGni, La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, in aa.vv, Il contratto collettivo di lavoro. Atti del III congresso nazionale dell’Aidlass, Giuffrè, 1968, 35; MaresCa, Accordi collettivi separati: tra libertà contrattuale e democrazia sindacale, in RIDL, 2010, I, 50; tursi, Autonomia contrattuale e contratto collettivo di lavoro, Giappichelli, 1996, 193 ss.; sCoGnaMiGlio, Le azioni sindacali in vigenza del contratto collettivo, in Scritti giuridici, Diritto del lavoro, Cedam, 1996, 1713 ss. 10 Cass., 22 aprile 1995, n. 4563 in FI, 1995, I, 2870 ss. 11 Cass., 21 aprile 1987, n. 3899, in FI, 1988, I, 526 ss. 12 Ex multis, Cass., 17 gennaio 2004, n. 668, in MGL, 2004; Cass., 10 novembre 2000, n. 14613, in MGL, 2001, 2; Cass., 10 aprile 2000, n. 4534, in NGL, 2000, 556; Cass., 12 febbraio 2000, n. 1576, in RIDL, 2000, II, 617; Cass., 5 maggio 1998, n. 4534, RIDL, 1999, II, 3; Cass., 24 agosto 1998, n. 7818, in DPL, 1998, 661; Cass., 21 gennaio 1995, n. 679, DPL, 1995, 594; Cass., 26 ottobre 1995, n. 11119, in NGL, 1996, 218; Cass., 9 giugno 1993, n. 6408, in OGL, 1994, 5; Cass., 16 aprile 1993, 322, n. 4507, in MGL, 1993, 322; Cass., 13.2.1990, n. 1050, in NGL, 1990, 478; Cass., 14 luglio 1988, n. 4630, in MGL, 1988; Cass., 29 agosto 1987, n. 7140, MGL, 1987.
l’ambito temporale definito dalle parti, a meno che non sia stata manifestata una diversa volontà, diretta a riconoscere l’ultrattività delle clausole contrattuali in materia retributiva13 .
Nel caso de quo, le parti hanno senz’altro riconosciuto, con il loro comportamento concludente, l’ultrattività del contratto collettivo del 23 novembre 2004 sino alla comunicazione della disdetta da parte della AIOP. Nonostante il dissenso del sindacato UIL FPL cui sono iscritti i ricorrenti in sede di stipula del contratto del 22 marzo 2012, appare ragionevole ritenere avverata in ogni caso la clausola contrattuale contenuta nell’art. 4, secondo comma, stante il rilievo secondo cui essa non fa riferimento alla necessaria adesione da parte di tutti i soggetti originariamente firmatari, ma richiami in modo generico l’evento di una successiva stipula, a prescindere dall’identità tra le parti del nuovo accordo rispetto a quelle precedenti.
A margine della decisione in esame rimane la questione relativa alla violazione del principio di irriducibilità della retribuzione ex artt. 2103 c.c. e 36 Cost. Nel caso di specie, infatti, i lavoratori lamentano che il passaggio da 36 a 38 ore settimanali avrebbe inciso negativamente sul loro trattamento retributivo. Il problema è risolto dalla Corte di Cassazione con l’accoglimento, nella sentenza in commento, del motivo relativo all’ultrattività del precedente accordo, che porta a ritenere il previgente contratto ancora applicabile ai lavoratori ricorrenti.
In generale, nell’ipotesi di successione di contratti collettivi nel tempo, la giurisprudenza14 e la dottrina maggioritarie15 ritengono possibile che il contratto collettivo successivo, anche se di livello inferiore, introduca una disciplina peggiorativa rispetto alla precedente. L’accordo collettivo costituisce, infatti, una fonte eteronoma che interviene dall’esterno in sostituzione di quello precedente, senza incorporarsi nel contratto individuale. Tuttavia, il limite alla predetta facoltà di introdurre discipline peggiorative è rappresentato dai cosiddetti diritti quesiti, per i quali, cioè «si è compiutamente realizzata la fattispecie idonea ad attribuirli al patrimonio del titolare»16. Essi si riferiscono a situazioni soggettive non modificabili ad opera di una disciplina legale o contrattuale collettiva posteriore17, che divengono pertanto intangibili, diversamente dalla mera aspettativa18, sussistente laddove la situazione, in itinere, non si è ancora cristallizzata, restando esposta a possibili modifiche.
Tale distinzione, sebbene nitida sotto il profilo definitorio, appare sfuggente sul piano pratico, specie nei casi nei quali la linea di confine tra le due fattispecie è molto labile. Al riguardo, la giurisprudenza ha col tempo chiarito che sono definibili quali diritti quesiti
13 Ad avallare tale tesi sono intervenute le Sezioni Unite. Cass., 30 maggio 2005, n. 11325, in NGCC, 2006, 5, 486 ss., con nota di durante. 14 Ex multis, Cass., 13 novembre 2009, n. 24092, in DL, 2010, I, 237; Cass., 14 maggio 2007, n. 11019, in DRI, 2007, 1189; Cass., 4 novembre 2005, n. 21379, in DRI, 2007, 185; Cass., 19 giugno 2001, n.8296, in NGL, 2001, 706; Cass., 12 febbraio 2000, n. 1576, in FI, 2000, I, 1539; GiuGni, Diritto sindacale, Cacucci, 2001, 169. 15 ballestrero, Osservazioni sul problema delle modificazioni “in pejus” dei contratti collettivi e sui diritti acquisiti degli associati, in aa.vv., Il contratto collettivo di lavoro, cit., 265 ss.; G. santoro passarelli, Derogabilità del contratto collettivo e livelli di contrattazione, in DLRI, 1980, 637; sartori, Aspettative e diritti quesiti nella successione tra contratti collettivi: un cammino giurisprudenziale ancora zoppicante, in RIDL, 2010, I, 931 ss. 16 Ferraro, voce Diritti quesiti, II) Diritto del lavoro, in EGT, vol. XI, 1989. 17 Ferraro, op. cit. 18 oCChino, L’aspettativa di diritto nei rapporti di lavoro e previdenziali, Giappichelli, 2004, 55 ss.
quelli «già entrati a far parte del patrimonio dei singoli lavoratori quale corrispettivo di prestazioni rese ed in relazione ad una fase del rapporto già esaurita»19, mentre sono mere aspettative «quelle situazioni future o in via di consolidamento, che sono frequenti nel contratto di lavoro, dal quale scaturisce un rapporto di durata con prestazioni a esecuzione periodica o continuata, autonome tra loro e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi»20. Tale seconda ipotesi ricomprende anche le «pretese, senza alcun fondamento normativo, alla stabilità o al miglioramento nel tempo del trattamento previsto nella normativa collettiva».
Per poter in concreto comprendere in quale delle due ipotesi si ricada occorre avere riguardo all’attività lavorativa e alla caratteristica della sua durata, alla luce della quale essa risulta composta da un complesso di prestazioni fra loro autonome e successive. Ne discende che un contratto collettivo posteriore non può incidere sulle prestazioni già eseguite e sulle dovute controprestazioni, anche se ancora non rese, così come sulle obbligazioni ad esecuzione istantanea, anche differita, sorte in forza del precedente accordo21 .
Venendo al motivo di doglianza sollevato dai ricorrenti, la lamentata estensione dell’orario di lavoro settimanale che avrebbe inciso negativamente sull’ammontare della retribuzione oraria, integra, ad avviso degli stessi, una violazione del principio di irriducibilità della retribuzione ai sensi dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 36 Cost.
Tale ragionamento si fonda sulla teoria dell’incorporazione del contratto collettivo in quello individuale, peraltro minoritaria e accolta dalla giurisprudenza più risalente, sicché nel caso di successione di accordi collettivi troverebbe applicazione l’art. 2077 c.c. La soluzione perviene al risultato di garantire l’immodificabilità del livello retributivo cui i lavoratori hanno goduto in forza della precedente disciplina collettiva22. Secondo tale indirizzo interpretativo, l’art. 2103 c.c. costituirebbe una valida base normativa, essendo possibile ascrivergli rilevanza non soltanto entro il perimetro del singolo rapporto individuale di lavoro, a fronte di modifiche delle mansioni disposte dal datore di lavoro, ma anche sul piano della disciplina collettiva, che non potrebbe introdurre cambiamenti delle condizioni lavorative in senso peggiorativo. Ne discende che sarebbe possibile affermare la legittimità del recesso datoriale dal contratto collettivo, senza però compromettere il livello retributivo goduto dai lavoratori, considerato alla stregua di un diritto quesito.
Tuttavia, una simile soluzione non sembra convincente per diverse ragioni. Innanzitutto, essa finisce con l’estendere il principio dell’irriducibilità della retribuzione al di là dei confini dei diritti quesiti fino a ricomprendervi le mere aspettative, quale è quella sulla conservazione del trattamento retributivo23 .
Come correttamente osservato dalla Corte di Appello nel caso in esame, il cambiamento dell’orario di lavoro attiene al diverso profilo dell’articolazione oraria della prestazione
19 Cass., 29 settembre 2009, n. 20838, in GC Mass., 2009, 9, 1370; similmente, Cass., 12 febbraio 2000 n. 1576, in RIDL, II, 2000, 617, con nota di bano e Cass., 5 novembre 2003, n. 16635, in OGL, 2003, I, 777. 20 Cass., 29 settembre 2009, n. 20838, cit. 21 Pret. Roma, 9 marzo 1999, in RGL, 2000, 1, 66, con nota di CoManduCCi. 22 Ad una simile soluzione giunge Trib. Venezia, 30 maggio 2014, in RIDL, 2015, II, 247, con nota di raMpazzo. 23 GiuGni, Diritto sindacale, op. cit., 171.
lavorativa, ossia del suo svolgimento, rispetto al quale la modifica introdotta dal contratto collettivo può incidere anche in senso peggiorativo. Il datore di lavoro ha quindi esercitato legittimamente il proprio potere, giacché tale cambiamento è avvenuto entro il limite di legge ex art. 3, comma 1, d.lgs. 66/2003.
Inoltre, quanto al fondamento normativo su cui tale soluzione si fonda e, cioè, l’art. 2103 c.c., occorre evidenziare che la citata norma detta una disciplina relativa allo ius variandi del datore di lavoro, riferendo il principio dell’irriducibilità della retribuzione all’ipotesi di mutamento delle mansioni nel singolo rapporto individuale di lavoro24. In altri termini, la norma funge da limite al predetto potere datoriale, ma non alla libertà sindacale che confluisce nella contrattazione collettiva, anche peggiorativa.
Le medesime considerazioni svolte rispetto all’art. 2103 c.c. possono essere adottate anche con riferimento all’art. 36 Cost., del pari richiamato dai ricorrenti a sostegno della propria pretesa. La citata disposizione costituzionale opera, infatti, sul piano del singolo rapporto di lavoro25 e consente di sanzionare con la nullità le clausole retributive dei contratti individuali di lavoro contrastanti con i principi di proporzionalità della retribuzione in relazione alla quantità e qualità del lavoro e di adeguatezza al mantenimento di una esistenza libera e dignitosa per il lavoratore e per la sua famiglia. Sicché, qualora le clausole retributive vengano meno, la mancanza di un accordo tra le parti viene colmata dall’intervento del giudice ex art. 2099 c.c., che determina la prestazione retributiva dovuta secondo equità. Tuttavia, tale giudizio, come ben noto, comporta nella maggioranza delle ipotesi, un riferimento ai minimi retributivi previsti proprio dalla contrattazione collettiva, che funge in questo senso da criterio di valutazione. Nel caso di specie, è proprio la contrattazione collettiva ad aver creato un “nuovo parametro”.
Caterina Mazzanti
24 M. brollo, La mobilità interna del lavoratore. Mutamento di mansioni e trasferimento. Art. 2103, in P. sChlesinGer, Il Codice civile.
Commentario, Giuffré, 1997, 178 ss. 25 tirabosChi, Gli accordi sindacali separati tra formalismo giuridico e dinamiche intersindacali, in DRI, 2011, 2, 351.