Labor 6/2018

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2018 LABOR 6

L

ABOR Il lavoro nel diritto

issn 2531-4688

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novembre-dicembre 2018

Rivista bimestrale

D iretta da Oronzo Mazzotta

www.rivistalabor.it

IN EVIDENZA Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti Oronzo Mazzotta

Il lavoro tra vecchio e nuovo diritto: il diritto sindacale Lorenzo Zoppoli

L’interpretazione teleologica della norma tra ordinamento britannico e italiano: tentativi di «cross fertilization» Mauro Dallacasa

Giurisprudenza commentata Marco Peruzzi, Claudio Cecchella, Matteo Turrin, Stefano Cairoli, Silvio Sonnati

Pacini



Indici

Saggi Oronzo Mazzotta, Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti.........p. 625 Lorenzo Zoppoli, Il lavoro tra vecchio e nuovo diritto: il diritto sindacale.....................................» 631 Mauro Dallacasa, L’interpretazione teleologica della norma tra ordinamento britannico e italiano: tentativi di «cross fertilization»..........................................................................................» 643

Giurisprudenza commentata Marco Peruzzi, Supplenti della scuola e normativa UE sui contratti a termine: la Corte di giustizia salva la legge italiana che prevede, al passaggio di ruolo, il conteggio parziale dell’anzianità di servizio maturata.............................................................................................................................» 661 Claudio Cecchella, La compensazione insindacabile delle spese legali secondo Costituzione: un ritorno nostalgico al passato............................................................................................................» 677 Matteo Turrin, La condotta extra-lavorativa del prestatore quale giusta causa di licenziamento: la compressione del vincolo fiduciario alla prova dell’approccio multifattoriale.»

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Stefano Cairoli, Il contratto collettivo come (possibile) limite all’esercizio del potere disciplinare con incidenza sull’accertamento del fatto contestato.....................................................................» 711 Silvio Sonnati, Legittimità dei controlli difensivi: la lesione patrimoniale in re ipsa e la previa autorizzazione del lavoratore sono ancora criteri adeguati? Il confronto sistematico con la normativa sulla privacy diventa indifferibile.................................................................................» 725


Indice analitico delle sentenze Lavoro (processo) – Spese giudiziali – Compensazione nei casi tassativamente previsti – Illegittimità costituzionale (C. cost., 19 aprile 2018, n. 77, con nota di Cecchella) Lavoro (rapporto di) – Art. 4 St. lav. previgente – Controlli a distanza – Controlli diretti a verificare condotte lesive di beni estranei al rapporto di lavoro – Garanzia procedimentali – Esclusione (Cass., 28 maggio 2018, n. 13266, con nota di Sonnati) – Istruzione pubblica – Contratti a tempo determinato del personale docente – Conteggio parziale dell’anzianità di servizio al passaggio in ruolo – Disparità di trattamento – Giustificazione per ragione obiettive – Sussistenza – Conformità alla direttiva 1999/70/CE – Sussistenza (C. giust., 20 settembre 2018, C-466/17, con nota di Peruzzi) Licenziamenti – Giusta causa – Condotta extra-lavorativa – Rilevanza di elementi oggettivi e soggettivi – Proporzionalità – Insussistenza – Parziale (in)sussistenza del fatto contestato (Cass., 5 settembre 2018, n. 21679, con nota di Turrin) – Procedimento disciplinare – Contratto collettivo – Termine per irrogazione della sanzione – Violazione – Conseguenze – Insussistenza del fatto contestato – Reintegrazione (Cass., 3 settembre 2018, n. 21569, con nota di Cairoli) Indice cronologico delle sentenze Giorno

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Autorità 2018 Aprile C. cost., n. 77 Maggio Cass., n. 13266 Settembre Cass., n. 21569 Cass., n. 21679 C. giust., C-466/17

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Notizie sugli autori

Stefano Cairoli – dottore di ricerca nell’Università La Sapienza di Roma Claudio Cecchella – professore associato nell’Università di Pisa Mauro Dellacasa – giudice della sezione lavoro del Tribunale di Padova Oronzo Mazzotta – professore ordinario nell’Università di Pisa Marco Peruzzi – ricercatore nell’Università degli studi di Verona Silvio Sonnati – dottore di ricerca nell’Università Bocconi di Milano Matteo Turrin – dottorando di ricerca nell’Università degli Studi di Padova Lorenzo Zoppoli – professore ordinario nell’Università degli studi di Napoli Federico II


Saggi



Oronzo Mazzotta

Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti Sommario : 1. Licenziamento ingiustificato e disvalore giuridico. – 2. La misura del disvalore. – 3. Una sanzione a misura di contratto.

Sinossi. Il saggio commenta la sentenza 8 novembre 2018, n. 194 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1 del d.lgs. n. 23 del 2015 nella parte in cui determina l’indennità economica dovuta per il licenziamento ingiustificato ancorandola ad una misura fissa, crescente esclusivamente in funzione dell’anzianità di servizio. Abstract. The essay comments the judgement 8th of November, n. 194 of the Constitutional Court, which declared the constitutional illegitimacy of art. 3, paragraph 1, of the legislative decree n. 23/2015, where it establishes the economic indenisation for the unfair dismissal, connecting it at a fix parameter, which increases only as a consequence of the seniority. Parole chiave: Licenziamento – Contratto a tutele crescenti – Apparato sanzionatorio – Legittimità costituzionale.

1. Licenziamento ingiustificato e disvalore giuridico. Con il deposito della sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 è stato possibile sciogliere i dubbi interpretativi innescati dal comunicato-stampa di fine settembre circa la portata della pronuncia. Come è noto la decisione si occupa del sospetto di costituzionalità che appuntava la propria critica fondamentalmente (a) sulla «modestia» dell’indennità con cui il d.lgs. n. 23 del 2015 sanziona il licenziamento illegittimo e (b) sulla esclusione di qualsivoglia discrezionalità giudiziale nello scrutinio del grado di illegittimità del recesso datoriale. I parametri costituzionali che si assumevano violati erano gli artt. 3, 4, primo comma, 76 e 117, primo comma, Cost.


Oronzo Mazzotta

La Corte si sbarazza subito dell’obiezione relativa alla disparità indotta da un trattamento differenziato dei lavoratori, posti nelle medesime condizioni occupazionali, assunti prima e dopo il 7 marzo 2015. Come preconizzato dalla gran parte dei commentatori si tratta di una disparità diacronica, che, sulla base di una giurisprudenza costituzionale ampiamente consolidata, non ferisce di per sé né la ragionevolezza né il principio di parità. E ciò perché «il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche» (così ad es.: Corte cost. n. 254 del 2014, richiamata in sentenza), in considerazione del fatto che rientra nella discrezionalità legislativa costruire l’ambito (anche) temporale entro cui dare applicazione alle norme. Del resto – pensa e dice la Corte – a rafforzare la ragionevolezza della scelta vale il fine perseguito dal legislatore che è quello di promuovere le opportunità di accesso al mondo del lavoro. Si tratta di una presa di posizione che ovviamente prescinde dall’effettivo raggiungimento dello scopo, sul quale i giudici della Consulta, forse con una punta di sotterranea ironia, dichiarano di non potersi addentrare per rispetto istituzionale. La Corte invece accoglie il sospetto di costituzionalità relativo alla scarsa deterrenza della sanzione economica e, soprattutto, alla rigidità (e sostanziale irragionevolezza) di una sanzione calibrata esclusivamente sul decorso del tempo. Il cuore della decisione sta nella parte in cui la Corte affronta il tema del modello di tutela approntato contro i licenziamenti ingiustificati dal d.lgs. n. 23/2015, che, secondo il rimettente, è «rigida e inadeguata» a fronte del principio di ragionevolezza (3, comma 1, Cost.) e di quello del diritto al lavoro (4, comma 1, Cost.). Per verificare la fondatezza del sospetto di costituzionalità è necessario che lo sguardo si volga a ritroso a ricordare, sia pure per sommari cenni, il cammino percorso dalla legislazione nella materia dei licenziamenti. Il lascito che lo Stato liberale ha consegnato al legislatore fascista e questo al codice civile del ’42 è chiaro: il recesso, in un ambito scandito dalla piena libertà negoziale, non è suscettibile di limiti che non siano quello meramente obbligatorio del preavviso. Ce lo ricordano con lucidità i pionieri tardo-ottocenteschi del diritto del lavoro (per tutti: Barassi e Redenti). Di più. C’è chi, più realista del re, teorizza che il recesso dal rapporto di lavoro sia da annoverare fra i cosiddetti negozi astratti. Come dire che allo stesso legislatore sarebbe stato inibito di introdurre limiti al potere di recesso datoriale. L’entrata in vigore della Costituzione scompagina lo status quo, fino al punto che qualcuno ipotizza, con una evidente fuga in avanti, il superamento illico et immediate della libera recedibilità. Come è ben noto prevale l’idea che, al più, possa ragionarsi di un conflitto insanabile, in chiave di costituzionalità, fra l’art. 2118 cod. civ. e l’art. 4 Cost. Ed è da questo punto che il racconto si interseca con il pensiero della Corte costituzionale che, a partire dalla storica sentenza n. 45 del 1965, oltre ad invitare il legislatore a por mano ad una riforma della materia, coglie il sotterraneo rapporto fra giustificazione del recesso datoriale e diritto al lavoro, se pure nella più limitata versione di diritto del lavoratore a non subire arbitrarie applicazioni del potere unilaterale del datore. Il legislatore del 1966, è altrettanto noto, raccoglie tali indicazioni e considera la giustificazione come il miglior antidoto contro un uso distorto (o abuso) del potere datoriale.

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Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti

La questione della inerenza dell’intervento legislativo in materia di recesso del datore al principio del diritto al lavoro è efficacemente riepilogata dalla Corte costituzionale, nella sentenza qui oggetto di commento, che ricostruisce la trama dei propri numerosi precedenti, con il corollario – nemmeno tanto ovvio – che spetta comunque al legislatore, alla stregua di una insindacabile discrezionalità, il compito di graduare i margini protettivi. Dunque, all’esito della verifica del continuum che va dalla giurisprudenza costituzionale al legislatore e vi ritorna, il dato ordinamentale da considerare pacificamente acquisito è che il licenziamento ingiustificato costituisce un disvalore cui l’ordinamento reagisce (o, meglio, deve reagire) costruendo un apparato sanzionatorio. Come dire che il punto di non ritorno è che la giustificazione del licenziamento accede alla protezione del diritto al lavoro e ne costituisce una logica inferenza.

2. La misura del disvalore. A questo punto il problema è quello di chiedersi quale debba o possa essere la misura di tale disvalore. Sappiamo che il legislatore ha fornito, nel tempo, risposte variegate. La prima risposta in ordine di tempo ce la fornisce l’art. 8 della l. 604/66. Il disvalore in cui si sostanzia il licenziamento privo di giustificazione è monetizzabile sulla base di criteri che lasciano al giudice un certo margine di discrezionalità, se pure entro limiti angusti: l’indennità, come è noto, può variare entro un minimo ed un massimo, avendo riguardo «al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti». In sostanza già la legge del ’66 è ben consapevole che i licenziamenti ingiustificati non sono tutti uguali, e che, dal punto di vista del soggetto che ne è il destinatario, la gravità della punizione, se ridotta alla sola dimensione economica, può spaziare entro una gamma di graduazione non appiattita su un solo parametro. È insomma pienamente consapevole della dimensione endo-contrattuale della (in)giustificatezza e dei suoi rimedi, con uno sguardo assai più rispettoso dell’equilibrio negoziale rispetto a quello esibito dal legislatore del 2015. L’entrata in vigore dell’art. 18 dello statuto, con l’unificazione delle conseguenze del licenziamento illegittimo nell’unico rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro (terribile diritto), sposta il focus della discussione ancora più in avanti; da questo momento in poi la questione della tutela contro i licenziamenti si polarizzerà intorno alla dicotomia fra proprietà del posto di lavoro e rimedi puramente economici. Saranno proprio le storture innescate dalla durata dei processi, con esiti alterni fino al giudizio di legittimità, che, in una con il mutato quadro economico e l’irruzione dell’economia globalizzata, condurranno alla riforma montiana. Il proprium di quest’ultima sta per l’appunto nel relegare entro spazi sempre più ristretti la reintegrazione, per ampliare l’ambito coperto dalla tutela economica. Con la riforma del 2012 (ed ancor più con quella successiva del 2015) esce definitivamente dal quadro ordinamentale la “proprietà del posto di lavoro” (proprietà cui allude la stessa espressione utilizzata: reintegrazione) e tale nuovo orizzonte valutativo costituisce

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una sorta di patrimonio acquisito, anche alla stregua delle indicazioni che ci vengono da oltre confine (sia nel diritto comparato che in quello dell’UE). Il problema è però che – a partire dalla l. n. 92/2012 – il mezzo utilizzato non è del tutto confacente al fine perseguito: l’idea che sia sufficiente riferirsi a concetti labili se non inconsistenti, come “fatto materiale” o “manifesta insussistenza”, per fugare ogni dubbio sull’applicazione di una tutela solo economica si rivela fallace al vaglio dell’analisi giurisprudenziale. Così come sembra altrettanto illusorio, più in generale, che sia agevole graduare la reazione sanzionatoria in applicazione di dati quantitativi più che di valutazioni qualitative. Non può quindi apparire del tutto inattesa la reazione giurisprudenziale sugli aspetti maggiormente controversi della riforma del 2012, sia in relazione alla giustificazione soggettiva (illeciti disciplinari bagatellari, immediatezza della reazione datoriale, etc.) che a quella oggettiva. Una reazione che ha richiesto corposi aggiustamenti, condotti alla luce della razionalità complessiva del sistema, in un cantiere che è tuttora aperto.

3. Una sanzione a misura di contratto. Ed è qui che si innesta la riforma renziana. L’obiettivo dichiarato del d.lgs. n. 23/2015 è proprio quello di andare ancora oltre la legge del 2012, rendendo assolutamente certi i costi del licenziamento: la determinazione dell’entità dell’indennità risarcitoria entro un minimo ed un massimo che crescono esclusivamente in funzione dell’anzianità è di sicuro idonea ad assicurare questa certezza. Non è però altrettanto certo che la scelta del legislatore possa essere gabellata come il risultato di un’opera di bilanciamento tra i valori e gli interessi in gioco, come si legge nella letteratura favorevole alla riforma. Piuttosto è vero che la legge prende in considerazione, nel sanzionare i licenziamenti illegittimi, il solo punto di vista dell’impresa e dei relativi costi, rendendo il licenziamento un’entità “calcolabile”, alla stregua di quella linea di pensiero che ritiene che i diritti possano essere oggetto di valutazione in termini economici. Fin qui quanto traspare nell’immediato da uno sguardo anche superficiale sulla riforma. Sennonché ad una riflessione più attenta ci si rende ben conto che l’incertezza che la legge intende esorcizzare non è tanto relativa all’entità della sanzione quanto piuttosto quella in ordine al controllo sulla giustificazione. Ed in effetti è fin troppo ovvio che un datore di lavoro probo e rispettoso dei parametri che l’ordinamento costruisce per poter definire giustificato un licenziamento non dovrebbe avere nulla da temere dall’entità di una sanzione economica, posto che il costo di un licenziamento giustificato è pari a zero. Si tratterebbe però di una constatazione che ovviamente pecca di ingenuità; fra il dire ed il fare ci sono di mezzo le variabili interpretative connesse con la valutazione giudiziale delle ragioni del recesso. Non è un caso che i più fieri sostenitori della riforma renziana colleghino chiaramente le storture dell’assetto sanzionatorio “variabile” con le incertezze interpretative in materia di giustificato motivo oggettivo; anzi, secondo la loro prospettiva, con le vere e proprie invasioni di campo dei giudici del lavoro rispetto alla libertà econo-

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Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti

mica. Il pensiero va all’evoluzione della giurisprudenza di legittimità intorno ai temi del controllo sulle scelte imprenditoriali in termini di “ragionevolezza” o, ancora, sulla legittimità di scelte legate ad una amplificazione del profitto piuttosto che dirette a ridurre i costi in un contesto di difficoltà economica. In sostanza si assume, nemmeno tanto velatamente, che anziché affidarsi ad una valutazione giudiziale che non è in grado di cogliere le esigenze di una libera economia di mercato, è preferibile, come male minore, che il datore conosca ex ante il costo di una condanna che, in questa prospettiva, appare quasi certa. Si tratta però di una posizione che presta il fianco a non poche obiezioni. Innanzitutto essa appare metodologicamente scorretta perché, con una discutibile eterogenesi dei fini, propone uno scambio fra poteri valutativi del giudice intorno alla giustificazione ed apparato sanzionatorio standardizzato, cercando di disinnescare i primi attraverso il secondo, con il presumibile e paradossale effetto di fornire alla giurisprudenza un incentivo (o un alibi) alla deresponsabilizzazione. Senza dire poi che resta francamente poco comprensibile l’idea che per l’impresa – strutturalmente esposta alla competizione economica di mercato – sia ineludibile la pianificazione dei soli costi del licenziamento, a fronte delle indiscutibili variabili economiche che presentano tutti i rapporti che le fanno capo. In sostanza non è dato comprendere la ragione per cui il solo costo del licenziamento dovrebbe essere rigidamente prevedibile e calcolabile a priori in misura millimetrica e non, ad es., quelli relativi ai rapporti negoziali funzionali all’acquisizione delle materie prime o alle forniture, notoriamente connotati da altrettanto rischio economico. Infine, e soprattutto, chi plaude alla ratio della riforma ignora che, alla stregua dell’art. 3, primo comma, del d.lgs. n. 23/2015, alla sanzione forfetizzata nei confronti dei licenziamenti ingiustificati soggiacciono sia le giustificazioni soggettive che quelle oggettive. Tale semplice rilievo non solo vale a scardinare una critica che appare pressoché esclusivamente rivolta nei confronti del controllo sulle scelte imprenditoriali, ma soprattutto a ricondurre la questione nel suo giusto alveo, che è, e non può non essere, la dimensione negoziale dell’esercizio del potere unilaterale di recesso. Per quanti distinguo si vogliano operare dal punto di vista dell’interesse economico imprenditoriale, è indiscutibile che – come scrive giustamente la Corte costituzionale nella sentenza in commento – il licenziamento costituisce «una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro» ed è di questa realtà, per così dire, “personalizzata”, che non può non tener conto l’interprete, quale che sia il presupposto, oggettivo o soggettivo, della giustificazione del recesso. E per converso, continuano convincentemente i giudici della Consulta, «la previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse». In sostanza la personalizzazione del danno rispetto alla specifica vicenda che è all’attenzione del giudice del lavoro, costituisce un’ineliminabile esigenza imposta dal rispetto del principio di eguaglianza, in un contesto in cui il giudice ha il compito di riequilibrare la rottura dell’assetto contrattuale, sia pure dovendo tener conto dei limiti (minimi e massimi) segnati dal legislatore.

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Oronzo Mazzotta

Come dire che sanzione e giustificazione si pongono in corrispondenza biunivoca, così che l’ordinamento deve poter assicurare una congrua risposta giuridica alla “giustezza” della rottura dell’equilibrio negoziale. Ne deriva che, così operando, il tema della deterrenza o della dissuasività della sanzione esce fuori dal limbo dell’indistinto, in cui lo confinava una valutazione astratta sulla base di parametri univoci e immodificabili, per assumere una dimensione più legata alla specificità del caso. Ed è qui che il discorso della Corte si apre alla sua pars costruens. Una volta negato il sostegno costituzionale alla scelta di commisurare l’indennità risarcitoria al solo parametro dell’anzianità di servizio, si pone il problema di individuare ulteriori parametri di riferimento. Non vi è dubbio che, ove i giudici della Consulta, avessero introdotto criteri sostitutivi di quelli adottati dal legislatore, introducendoli ex novo, si sarebbe potuto di certo menare scandalo di un atteggiamento viziato da una inammissibile creatività. Sennonché così non è stato, dal momento che il vuoto lasciato dalla eliminazione del criterio (unico) dell’anzianità di servizio non è stato colmato né con l’introduzione di criteri, più o meno arbitrari, né con un rinvio alla mera discrezionalità del giudice o, peggio, ad una sorta di giudizio equitativo. La Corte ha correttamente ancorato la valutazione ai criteri (ulteriori rispetto a quello dell’anzianità), «desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)». I giudici costituzionali ci offrono così, se ci è consentito, il volto più apprezzabile del c.d. «costituzionalismo», che, genericamente inteso, rischia di apparire un richiamo di stile, privo di conseguenze. Per evitare questo rischio la scelta interpretativa deve mettersi in comunicazione con il sistema giuridico, al cui interno deve essere necessariamente integrata. È questa la più credibile funzione dei principi costituzionali che hanno proprio, sul piano interpretativo, il ruolo di colmare le lacune regolative, aprendo ad una moderna idea di sistema che integra dinamicamente principi costituzionali (nel caso quello del diritto al lavoro) e diritto positivo. Così facendo la Consulta, lungi dallo sconfinare in una intollerabile creatività, è riuscita condivisibilmente a mediare metodo problematico e metodo sistematico, sfuggendo, come ho scritto altrove, «al duplice rischio, per il primo, di assecondare decisioni estemporanee, come, per il secondo, di alimentare una creatività ancora più spinta, sotto le mentite spoglie di un meta-principio di coerenza dell’ordinamento». Nella inevitabile necessità della scelta fra più opzioni interpretative la Corte ha optato per quella maggiormente in armonia con il sistema complessivo. Il che, di questi tempi, non è poco.

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Lorenzo Zoppoli

Il lavoro tra vecchio e nuovo diritto: il diritto sindacale Sommario : 1. La domanda “cruciale”: com’era e come cambia il nostro diritto sindacale? – 2. Un sistema con cinque “forze motrici” che parte fuggendo dal “baricentro” legislativo. – 3. Tempi e contenuti della “riscossa” legislativa. – 4. Il legislatore neoliberista. – 5. I rischi di una legislazione che frammenta e destruttura il diritto sindacale. – 6. Le parti sociali per una legislazione “ordinatrice”: il testo unico del 2014 e il patto della fabbrica del 2018. – 7. I problemi che si aggravano: a) la perimetrazione degli ambiti contrattuali. – 8. Segue: b) le interpretazioni ipertrofiche della libertà sindacale. – 9. Segue: c) le persistenti incertezze sulle rappresentanze in azienda. – 10. Confusioni (molte) e speranze (poche ma incrollabili).

Sinossi. Se si guarda al quadro legale e al contenzioso il diritto sindacale italiano sembra fermo da vari decenni. In realtà molte stagioni si sono susseguite con innovazioni più o meno evidenti, ma molto profonde che però poco hanno inciso su chiarezza e adeguatezza della legislazione in materia, contando pur sempre sulla autonoma forza regolativa delle parti sociali. Da oltre un quindicennio il legislatore è intervenuto più spesso, seppure frammentariamente, sparigliando i rapporti sociali senza favorire processi di equilibrata regolazione conforme ai principi costituzionali tuttora validi e incombenti. Perciò il diritto sindacale italiano appare tuttora dominato da vecchi retaggi e non riesce a far nascere un nuovo diritto, che pure potrebbe avvalersi di molte dettagliate proposte di matrice dottrinale o sindacale. Abstract. If one looks at the legal framework and litigation, the Italian trade union law seems to have been standing still for several decades. In fact, many seasons have followed one another with more or less evident, but very deep, innovations which, however, have had little impact on the clarity and adequacy of the legislation in this area, always counting on the autonomous regulatory force of social partners. For over fifteen years legislation has intervened more often, albeit fragmentarily, by breaking up social relations without favouring processes of balanced regulation in accordance with the still valid and incumbent constitutional principles. Therefore, Italian trade union law still appears to be dominated by old legacies and fails to give rise to a new law, which could also make use of many detailed doctrinal or trade union proposals.

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Il saggio riproduce, con l’aggiunta di qualche riferimento bibliografico, la relazione svolta il 12 giugno 2018 al convegno “Il lavoro fra vecchio e nuovo diritto”, organizzato nell’Università di Pisa, in cui si presentava il Trattato LAVORO, Milano, 2018, curato da Pietro Curzio, Luigi Di Paola e Roberto Romei.


Lorenzo Zoppoli

Parole chiave: Sviluppo del diritto sindacale – Legislazione speciale – Contrattazione collettiva – Libertà sindacale – Rappresentanze aziendali.

1. La domanda “cruciale”: com’ era e come cambia il nostro

diritto sindacale?

Il nuovo trattato che qui si presenta è un ottimo viatico per affrontare il tema, tanto classico quanto complesso, su cui gli organizzatori ci hanno chiamato a riflettere. Il trattato ripercorre, seppur sinteticamente, la storia degli istituti giuridici portanti del diritto sindacale italiano e ci consente plasticamente di collocarci tra vecchio e nuovo diritto, focalizzando i problemi antichi che attendono ancora oggi soluzioni pur avendone avute varie nel corso dei decenni. Forse la maggiore delle tante singolarità del nostro diritto sindacale è attualmente questa: mutevolissimo se si volge lo sguardo a dieci anni fa, ma inesorabile nel riproporci sempre gli stessi nodi problematici da almeno quarant’anni a questa parte, divenuti via via sempre meno facilmente districabili. Siamo dinanzi all’ennesimo ossimoro, un immobilismo di fondo che guardato da vicino appare percorso da un accelerato dinamismo, produttore di incertezza, instabilità, imprevedibilità degli assetti regolativi di volta in volta raggiunti con enorme dispendio di energie istituzionali, intellettuali e, spesso, fisiche. Il nuovo trattato lo mostra subito assai bene: i temi di diritto sindacale affrontati con la consueta maestria da Roberto Romei – libertà sindacale, rappresentatività/rappresentanza (invertite nella sequenza storica per preferire quella dell’attualità problematica), contratto collettivo/sistema di contrattazione – sono quelli centrali almeno da quando è entrata in vigore la carta costituzionale del 1948. Anche solo a scorrere i sommari, ci si rende subito conto che quei temi, nei tratti essenziali, appaiono uguali a come venivano affrontati quarant’anni fa, mentre, negli aspetti di dettaglio, hanno subito profondissime modificazioni nelle regole minute che sostanzialmente fanno dell’odierno diritto sindacale qualcosa di molto diverso da quello originario. C’è dunque spazio per una domanda cruciale – e ambiziosa, forse troppo (soggettivamente parlando) – per l’incontro di oggi: nel passaggio del lavoro tra vecchio e nuovo, il diritto che regola la dimensione collettiva (per usare un termine caro a un Maestro come Umberto Romagnoli) è rimasto il medesimo nelle sue forze motrici (ma potremmo anche dire, nei suoi formanti)? E, se è cambiato, dove si deve registrare un cambiamento che non sia di dettaglio ma di sistema?

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Il lavoro tra vecchio e nuovo diritto: il diritto sindacale

2. Un sistema con cinque “forze motrici” che parte fuggendo dal “baricentro” legislativo.

Per provare a fornire qualche risposta, io utilizzerei una prospettiva un po’ distanziata dall’immediato contingente, come se montassimo su un aereo di ricognizione o, più modestamente, usassimo un drone che ci consenta di guardare al panorama sottostante da un’altezza sufficiente a cogliere tutti i dettagli, ma anche a guardare le dinamiche trasformazioni di insieme. A questa distanza, per così dire di sicurezza, io vedo cinque forze motrici (o formanti) del nostro diritto sindacale: il codice civile; la Costituzione repubblicana; la legislazione speciale; l’autoregolazione sociale; e, last but not least, la giurisprudenza, in primis delle Alte Corti. In questo mosaico il centro o, se si preferisce un’immagine più dinamica, il baricentro è occupato dalla legislazione speciale. Direi che il diritto sindacale italiano si è innanzitutto sviluppato fuggendo, per tante note ragioni, da quel baricentro e affidandosi ad un ruolo regolativo prevalentemente incentrato, da un lato, sui giudici e, dall’altro, sulle parti sociali. Gli uni e le altre hanno lavorato attingendo ampiamente, e con una certa libertà, a materiali normativi tratti tanto dalla Costituzione quanto dal codice civile (e in misura minore, seppur non insignificante, dal codice penale: ma questo aspetto riguarda essenzialmente lo sciopero, non compreso nel volume del trattato di cui oggi discutiamo). L’assetto gius-sindacale che ne è risultato per vari decenni – forse la stagione migliore della nostra materia – viene generalmente descritto facendo soprattutto riferimento al collante giugniano della teoria dell’ordinamento intersindacale1. In realtà tutti i formanti – anche dottrinali – del “vecchio” diritto sindacale convergevano verso una marginalizzazione del baricentro legislativo.

3. Tempi e contenuti della “riscossa” legislativa. Il primo problema, se si concorda con questa descrizione, è: quanto è durato il “vecchio” diritto sindacale? Oggi è davvero superato o è ancora con noi? Questa domanda è più insidiosa di quanto appaia a prima vista. Come dimostra anche la trattazione di Romei, non si può dare una risposta secca e storicamente precisa. Tutto dipende da come si considera la lenta ma progressiva “riscossa” del formante legislativo,

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V., per tutti, Rusciano, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Utet, 2003. Per una graffiante critica all’uso della teoria di Giugni, v. Romagnoli, Sindacati, l’unità possibile, in www.eguaglianzaelibertà.it, del 14.9.2018, secondo cui «quello che Gino Giugni chiamava ordinamento intersindacale è, in larga misura, la risultante di una curiosa combinazione dell’estemporaneità creativa e, nel contempo, del conservatorismo per convenienza del ceto di operatori giuridici sollecitati ad agire per consentire al natante di prendere il largo malgrado la falla al di sotto della linea di galleggiamento».

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Lorenzo Zoppoli

che riporta il diritto sindacale verso quello che a ragionevole distanza appare il suo baricentro originario. In effetti la “riscossa” comincia quasi cinquant’anni fa con lo Statuto dei lavoratori, che si ispira alla formula della legislazione di sostegno all’autonomia collettiva, dove la legge speciale si innesta appunto su un contesto di cui si vuole preservare in massimo grado l’autonomia. Però si tratta di un’autonomia che non è tutta fuori dal diritto statuale, proprio perché – come ci hanno insegnato maestri del calibro di Giuseppe Pera, Mattia Persiani, Mario Rusciano – poggia al contempo sulle libertà costituzionali e sulle categorie del diritto comune dei contratti. Dallo Statuto si dipana una legislazione sempre più speciale – nel senso di extracodicistica – che via via affastella una disciplina dirigistica, specie in materia salariale (dalla fine degli anni ’70), e un florilegio di disposizioni legislative variamente ispirate alla flessibilità che rinviano ad una contrattazione, talora selezionata in ordine ai soggetti legittimati a produrla, ma mantenuta in uno scenario di persistente anomia. Questo singolare assetto – contratto collettivo non regolato da una legge speciale ad hoc ma accerchiato (viene in mente un bel titolo di un libro di Guido Baglioni2) da una legislazione che sempre più lo attrae nell’ordinamento generale – dura a lungo. Anche se, con l’affacciarsi della seconda Repubblica, le parti sociali hanno un sussulto di orgoglio e scrivono quella che Giugni chiamò la “costituzione materiale” delle relazioni sindacali: cioè il protocollo del 1992 e i successivi fondamentali accordi interconfederali del 1993, con cui si rifondarono le rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro rinverdendo in qualche modo le scelte statutarie. Il perno di quella Costituzione materiale era però la concertazione. Una concertazione che non piace ad Oronzo Mazzotta3, ma che servì molto ad evitare di affrontare il nodo di una vera e propria legge sindacale, rinviata già da un quarto di secolo e di tanto in tanto riemersa. Proprio all’interno di un governo concertato dell’economia fu possibile infatti cavarsela con una regolazione legislativa del sistema sindacale che mettesse sotto controllo il conflitto solo nei settori dove poteva provocare danni più ampi a tutti (v. la l. 12 giugno 1990, n. 146 sullo sciopero nei s.e.) e che incanalasse, riconoscendola e regolandola, la contrattazione che più incideva sui conti pubblici, cioè quella per il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modifiche). A partire da questo periodo però diventa davvero miope raccontare il diritto sindacale italiano come la no regulation land. Resta vero invece che nel privato il potere normativo viene restituito alle grandi organizzazioni confederali dei lavoratori e degli imprenditori. La seconda Repubblica nasce così all’insegna di una rinnovata sintonia tra sistema politico e sistema sindacale, una sintonia che riesce anche a neutralizzare gli effetti della rottura sindacale di dieci anni prima (una rottura di cui Pierre Carniti, che oggi piangiamo, fu al contempo artefice e orfano4) e un devastante referendum del 1995, che già allora

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Baglioni, L’accerchiamento: perché si riduce la tutela sindacale tradizionale, Il Mulino, 2008. V. Mazzotta, Contro la concertazione, in L. Zoppoli, A. Zoppoli, Delfino (a cura di), Una nuova Costituzione per il sistema di relazioni sindacali?, Editoriale scientifica, 2014, 125 ss. 4 V. Tronti, Le battaglie di Pierre insieme a Tarantelli, in www.eguaglianzaelibertà.it del 20 giugno 2018 (Carniti è deceduto il 5 giugno). 3

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avrebbe potuto minare in profondità il governo centralizzato del sistema contrattuale. In quel periodo però, nel disorientamento della politica, le parti sociali avevano ben chiara la necessità di mantenere al centro del sistema sindacale italiano il contratto collettivo nazionale. Riescono a farlo sostanzialmente da sole, seppure con un non irrilevante aiuto del legislatore che, per individuare quello che oggi si direbbe il contratto leader nella determinazione della base di calcolo dei contributi previdenziali, inventa il nuovo citerio selettivo del sindacato comparativamente più rappresentativo in sostituzione del sindacato maggiormente rappresentativo.

4. Il legislatore neoliberista. La concertazione però è una trama poco resistente anche sotto il profilo politico. Solo dieci anni dopo – dieci anni difficili in cui una cultura socialdemocratica in affanno provò anche a partorire una legge sindacale che riportasse il sistema sul suo baricentro (il c.d. d.d.l. Gasperoni del 1998) – la concertazione viene seppellita dal secondo Governo Berlusconi, che in realtà agisce in nome e per conto di un pensiero neo-liberista che si avvia a diventare egemone in tutte le forze politiche e che può tollerare solo un sindacalismo sintonizzato su logiche di mercato disponibile anche a rivedere i diritti sociali in nome della competitività delle imprese. Con il nuovo millennio in effetti il sistema politico si appresta a una progressiva estromissione da sé del sistema sindacale. Quest’ultimo – pur non potendo essere “azzerato” in una moderna democrazia liberale ed europea – deve diventare sempre più un “sottosistema” del sistema economico5. Il sottosistema deve assumere come proprie le leggi dell’economia di mercato, non come interessi da bilanciare con quelli dei lavoratori, ma come vincoli inderogabili. Sotto questo aspetto la legge riacquista spazio nella regolazione del lavoro, anche nella dimensione collettiva, in quanto strumento utile a mantenere l’azione sindacale dentro i confini di un sistema economico competitivo. Il sindacato deve far funzionare al meglio le imprese, occupandosi meno possibile di questioni politiche più generali. È una questione ideologica, ma è anche una questione di politica concreta: gli eccessi di sindacalizzazione sono nocivi all’economia e allo Stato6. Il neoliberismo prospera su questa teoria e su questa pratica. E la legislazione guadagna spazio nel diritto sindacale italiano del nuovo millennio grazie a questa nuova spinta propulsiva. Il sindacato tramonta come veicolo di valori solidaristici non economici o di contropotere in azienda. Il mestiere del sindacato è far funzionare al meglio l’economia di mercato. La legge ora serve a questo.

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V. L. Zoppoli, Concertazione [dir.lav], 2016, in www.treccani.it. È uno dei rimproveri mossi al PCI degli anni ’70 nel recente libro di Del Prete, L’inganno di Berlinguer. La mancata svolta verso una sinistra di governo, Pendragon, 2018.

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Lorenzo Zoppoli

Non dunque una legislazione di sostegno all’autonomia dei soggetti sociali (anche antagonisti), bensì una legislazione di sostegno al funzionamento concorrenziale delle imprese, meglio se basate sul consenso sociale di un sindacato responsabile.

5. I rischi di una legislazione che frammenta e destruttura il

diritto sindacale.

Questa nuova concezione del sindacato e delle relazioni industriali – che emerge progressivamente e conquista la ribalta con il caso Fiat degli anni 2010-20137 – si rafforza nell’ultimo decennio, seppure con significative variabili. Si mantiene comunque una costante: il ruolo crescente della legislazione speciale. Anzitutto con il d.l. 138/2011. I contratti di prossimità esprimono infatti un sostegno legislativo ad una contrattazione con un notevole potenziale di frammentazione dei sistemi regolativi che, se non mira a bypassare del tutto la contrattazione collettiva, la rende strumento di un diritto sindacale che dovrebbe sempre più incentrarsi su specifici equilibri aziendali, molto condizionati dalle congiunture economiche, poco sensibili alle mediazioni politiche. Il ruolo del sindacato viene confinato in quella cornice, abilitando il contratto aziendale, dotato di forza legale ultra partes, a derogare ai contratti nazionali e alla legge. La piena affermazione di questo disegno – che si materializza sempre più negli sviluppi del c.d. caso Fiat, in cui si produce il massimo sforzo di negare i diritti sindacali statutari ai sindacati non firmatari del contratto firmato e applicato in azienda – subisce un’inaspettata battuta d’arresto per la sentenza della Corte Cost. 231/2013, che, pronunciandosi ancora sull’art. 19 st. lav., ritiene per la prima volta in contrasto con la libertà sindacale privare di artigli i sindacati più combattivi se forniti comunque di una adeguata capacità rappresentativa in azienda. Però la Corte mette solo un po’ di sabbia in un ingranaggio che continua a produrre una legislazione attenta più a confinare il sindacato nel suo ruolo di agente economico che ad attuare in modo equilibrato il dettato costituzionale. Infatti nel 2015 il Jobs Act, pur calibrando variamente i rinvii legislativi alla contrattazione collettiva nella regolazione dei diversi istituti, con l’art. 51 del d.lgs. 15 giugno 2015, n 81 non impedisce affatto l’aziendalizzazione del sistema contrattuale, anche se non prevede l’efficacia erga omnes dei contratti e inserisce il rinvio ai contratti aziendali o territoriali all’interno di un sistema contrattuale plurilivello, anche nazionale, dove ad essere privilegiati sono i contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi o dalle loro rappresentanze aziendali. Tutta la legislazione degli ultimi tre anni che chiami in causa la contrattazione collettiva si attesta sul rinvio sintetico, ma potente, racchiuso nella formula dell’art. 51 del d.lgs. 81/2015. E questo nuovo meccanismo non viene neanche scalfito dalle proposte referendarie della Cgil del 2017, che riguardano altri aspetti del Jobs Act e che comunque stavolta

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V., da ultimo, Bricco, Marchionne. Lo straniero, Rizzoli, 2018, 145 ss., spec. 160.

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vedono la convergenza di Consulta e sistema politico nel depotenziare l’intera iniziativa abrogativa, considerata con evidenza un’inopportuna invasione di campo, a conferma di una dequotazione politica dell’azione sindacale8. Resta il magro contentino di una proposta di legge popolare della stessa Cgil, riemersa anche nella XVIII legislatura, che contiene un coerente, seppur pesante, progetto di attuazione dell’art. 39 Cost.

6. Le parti sociali per una legislazione “ordinatrice”: il testo unico del 2014 e il patto della fabbrica del 2018.

Considerati questi ultimi sviluppi, a me pare indiscutibile che il formante legislativo abbia acquisito una notevole centralità rispetto ai primi anni novanta, ma, quanto alle leggi approvate, lungo un doppio binario di intervento: il primo binario – quello che privilegia l’aziendalizzazione – è tale da determinare più frammentazione nella regolazione del lavoro e atomizzazione delle relazioni sindacali; il secondo binario invece (esemplificato dall’art. 51 del d.lgs. 81/2015) potrebbe essere anche centralmente governato, ma richiederebbe una notevole compattezza di tutte le organizzazioni sindacali o almeno di tutte quelle che possano essere ricondotte ai sindacati comparativamente più rappresentativi. Insomma la legge cresce di peso, ma, guardandosi bene dal regolare di petto contratto e contrattazione collettiva, non è tale da determinare un sistema coeso di relazioni sindacali. Anzi con ogni probabilità ne agevola la destrutturazione: come dimostra inequivocabilmente la spaventosa proliferazione di contratti nazionali di “categoria” passati da 400 a 900 in soli quattro anni9. Le politiche legislative dell’ultimo decennio infatti sono ovviamente intrecciate con le dinamiche sindacali gestite direttamente dalle parti sociali, che pure continuano a produrre una ricca e variegata regolazione negoziale. La parte più visibile di questa regolazione culmina, come si sa, nel c.d. testo unico del 2014 (dove confluisce il c.d. trittico: cioè gli accordi interconfederali del 2011, 2013 e 2014) e nel c.d. patto della fabbrica del marzo 2018. Questa autoregolazione è piena di novità in materia di diritto sindacale sia sulle regole di fondo sia su aspetti di dettaglio. E gli scritti di Romei ne danno ampiamente atto, almeno fino a ieri. Su tutti questi aspetti ora non si può tornare. Però la mia impressione è che nella crescente tendenza a produrre unitariamente regole procedurali per garantire il miglior funzionamento del sistema di contrattazione collettiva10, le grandi organizzazioni sindacali – tanto delle imprese quanto dei lavoratori – abbiano fornito delle indicazioni precise proprio sulle “forze motrici” (o formanti) del diritto sindacale del futuro. La prima è che il sistema di relazioni sindacali ha bisogno di un governo centralizzato, ancora incen-

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Staiano, A. Zoppoli, L. Zoppoli (a cura di), Il diritto del lavoro alla prova dei referendum, in DLM, quaderno n. 4, 2018. Olini, Invertire la tendenza alla proliferazione dei contratti nazionali di lavoro, in Dell’Aringa, Lucifora, Treu (a cura di), Salari produttività e diseguaglianza. Verso un nuovo modello contrattuale?, Il Mulino, 2017, 487 ss. 10 V. A. Zoppoli, Sindacato comparativamente più rappresentativo vs. sistema (e democrazia) sindacale, in Aa.Vv., Legge e contrattazione collettiva nel diritto del lavoro post-statutario, Atti giornate studio Aidlass di Napoli, 16-17 giugno 2016, Giuffrè, 2017, 354 ss. 9

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trato sul contratto di categoria, anche se molto rivisitato nei confini e nei contenuti e con ampie aperture alla regolazione in sede decentrata, soprattutto in funzione di un miglioramento della produttività delle imprese11. La seconda è che quel sistema ha bisogno di regole certe poste centralmente che pongano fine a incertezze ultradecennali su efficacia ed esigibilità dei contratti, soggetti legittimati a stipularli a tutti i livelli, rapporto tra livelli negoziali. Insomma, come ha scritto Franco Liso a proposito del patto della fabbrica del 201812, le parti sociali unitariamente hanno espresso l’esigenza di affermare un principio d’ordine nel sistema contrattuale italiano; e hanno detto con sufficiente chiarezza che questo ordine può ben essere affidato ad un legislatore che voglia cimentarsi con il compito di ricostruire un vero e proprio sistema sindacale. Tornando alla domanda iniziale, mi pare dunque che il vecchio diritto sindacale in fuga dal baricentro legislativo sia ormai del tutto tramontato. Ciò che invece stenta a nascere è questo nuovo diritto sindacale che della legislazione speciale non può fare a meno, ma che non può nemmeno accontentarsi di una regolazione legislativa che evita il problema di costruire un nuovo sistema di rappresentanza e contrattazione collettiva.

7. I problemi che si aggravano: a) la perimetrazione degli

ambiti contrattuali.

Mentre durano le doglie del difficile parto, i problemi si aggravano e si aggrava anche la responsabilità di giudici e dottrina che debbono fornire soluzioni quotidiane. Al riguardo vorrei ancora dire qualcosa su tre aspetti che segnalano i molti ritardi da colmare: a) la c.d. perimetrazione delle categorie contrattuali; b) le interpretazioni della libertà sindacale; c) la natura delle rappresentanze aziendali. a) Da tutti i più recenti tentativi di riprogettare una legge sindacale emerge prepontemente la necessità di definire preventivamente l’ambito entro cui deve svolgersi la contrattazione nazionale, ovvero i confini della categoria, che costituisce un prius anche per regolare in modo certo la rappresentatività dei soggetti legittimati a negoziare tanto in rappresentanza delle imprese quanto in rappresentanza dei lavoratori. Senza analizzare i vari progetti di legge proposti al dibattito tra gli addetti ai lavori, qui basta richiamare il c.d. patto della fabbrica del 2018, che ha tra i suoi obiettivi quello di porre fine alla proliferazione di contratti collettivi nazionali, considerata un fenomeno addirittura corruttivo di corrette relazioni sindacali. L’unico modo di arrestare tale processo considerato degenerativo è, per ammissione delle stesse parti sociali, la preventiva perimetrazione degli ambiti contrattuali. Una perimetrazione che viene invocata come quasi salvifica e articolata su tre fasi, come bene scrive Liso, di cui almeno un paio affidate, in modo persino tenero,

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Sul punto di grande interesse è l’oulook OCSE del luglio 2018 su cui v. Ricci, Sorpresa, l’OCSE riscopre il modello Ciampi-Trentin, in Il diario del lavoro del 10.9.2018. 12 Liso, Qualche erratica considerazione sul recente accordo interconfederale Confindustria, Cgil, Cisl, Uil del 9 marzo 2018, in Bollettino Adapt del 23 aprile 2018, n. 16.

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ad un rianimato CNEL. Pur considerate le tre fasi, è inutile però nascondersi che dal patto della fabbrica viene chiarissima e lucida un’indicazione: tutto il lavoro istruttorio volto a individuare e delimitare gli ambiti di applicazione dei contratti nazionali e i sindacati che possono svolgere una lineare azione rappresentativa deve trovare recezione in una legge sindacale. Che altro può significare se non questo una frase così formulata: «Confindustria e Cgil, Cisl e Uil ritengono che l’efficacia generalizzata dei contratti collettivi di lavoro costituisca un elemento qualificante del sistema di relazioni industriali e che le intese in materia di rappresentanza possano costituire, attraverso il loro recepimento, il presupposto per l’eventuale definizione di un quadro normativo in materia»? Fatta la tara al noto sindacalese, non mi pare si debba dubitare che “quadro normativo” significhi “quadro legislativo” e che esso appaia ora a tutte le principali forze sociali imprescindibile. Questo significa che possiamo dormire sonni tranquilli sull’esito, anche parlamentare, di questo ambizioso processo regolatore? O che dobbiamo condividere anche la severa analisi sulla proliferazione dei contratti nazionali come fenomeno corruttivo delle relazioni industriali? Certamente no. Certamente è invece utile interrogarsi sia su come blindare il lavoro istruttorio affidato a parti sociali e CNEL; sia sul significato della proliferazione dei contratti nazionali, anche al di là di una gustosa aneddotica (cinque contratti nazionali per l’ippica; 68 per il commercio; i metalmeccanici da 6 a 20; le costruzioni da 10 a 32; 153 contratti su 350 dei nuovi che riguardano settori già coperti sono siglati da organizzazioni del tutto ignote; tra i nuovi settori ci sono gli “emotional manager” e i “codisti”, cioè “gli addetti al disbrigo pratiche presso terzi per conto delle aziende”13). Io penso infatti – ma è solo un’ipotesi di ricerca – che anche la proliferazione dei contratti nazionali sia emblematica di un “bisogno” di regolazione collettiva, magari tarata su realtà minori ma non necessariamente da reprimere, perché quel bisogno forse non trova risposte né nella tradizionale contrattazione di categoria né in quella aziendale. In ogni caso la dottrina soprattutto deve risolvere il problema della strumentazione regolativa che consenta di reintrodurre un ordine in questa vera e propria giungla contrattuale.

8. Segue: b) le interpretazioni ipertrofiche della libertà sindacale.

E qui viene la questione della libertà sindacale. Un bene primario e irrinunciabile, custodito nell’art. 39 Cost. (e non solo). Però, nel tutelare questo diritto in lungo e in largo (e qui intendo anche oltre i confini nazionali ed europei: al tema, in chiave globale, sarà dedicato uno dei prossimi quaderni di DLM), non dobbiamo neanche, un po’ stancamente a mio avviso, enfatizzarlo rinvenendovi troppi limiti alla regolazione legislativa dei contratti collettivi. Su questo punto la dottrina italiana – anche la migliore, la più moderna

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V. Olini, Invertire la tendenza alla proliferazione dei contratti nazionali di lavoro, cit.

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e innovativa (con in testa Romei del Trattato di oggi e Tiziano Treu, neo-presidente del CNEL14), segnalano i limiti contenuti nell’art. 39 Cost. In particolare Romei riprende la vecchia tesi di Federico Mancini, cara anche a Giugni (e ripresa di recente anche da Mattia Persiani15), secondo cui la categoria in un sistema genuinamente pluralistico sarebbe prerogativa intoccabile delle organizzazioni sindacali (un accenno nelle prime pagine e, più nettamente, pag. 40 nota 63). Al di là dell’affetto e della immensa ammirazione che nutro per la vitale e autorevolissima corrente di pensiero qui richiamata, io ritengo che questa interpretazione della norma costituzionale appartenga al vecchio diritto sindacale, anzi forse a quello vecchissimo che doveva scrollarsi di dosso l’ombra lunga del fascismo. Certo oggi, proprio in ordine a un certo fascismo di ritorno (molto più ruspante di quello originale), non c’è da abbassare la guardia. Ma nemmeno c’è da legarsi anacronisticamente le mani condannando il sistema sindacale all’autodistruzione per smodato uso della libertà associativa. A mio parere nel quadro costituzionale ha piena legittimità anche una lettura che scinda in parte la libertà di associazione dalle regole necessarie ad assicurare il pieno funzionamento di un sistema di contrattazione collettiva ispirato ai valori della libertà e della democrazia. Il comma 1 dell’art. 39 va letto in raccordo con i commi successivi e con la necessità di assicurare efficacia erga omnes ad un contratto collettivo per ciascuna categoria di lavoratori. È evidente che entro un medesimo ambito di applicazione non può esserci che un contratto dotato di efficacia ultra partes. E questo non contrasta con la libertà di organizzazione sindacale, se la legge consente a tutti i sindacati liberamente costituiti che accettino le regole della democrazia di essere considerati, con modalità oggettive, ai fini della composizione della rappresentanza legittimata a stipulare quel contratto collettivo efficace erga omnes. Nell’art. 39 – come ci insegnava Giuseppe Pera già negli anni ’6016 – ci sono tutti i principi da rispettare perché il legislatore possa predeterminare quanto meno criteri e procedure per una individuazione a monte delle categorie entro cui individuare i sindacati effettivamente rappresentativi e i contratti destinati ad avere “efficacia generalizzata” (come recita il patto della fabbrica 2018). Del resto è ciò che accade nel lavoro presso le pubbliche amministrazioni, privatizzato da ormai 25 anni e rientrante nel cono protettivo dell’art. 39 Cost. (C. cost. 23 luglio 2015, n. 178). Senza che nessuno abbia mai contestato la conformità a Costituzione della individuazione dei comparti direttamente ed esclusivamente nella legge.

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Da ultimo v. Treu, Contrattazione e rappresentanza, in Dell’Aringa, Lucifora, Treu (a cura di), Salari produttività e diseguaglianza, cit., 349 ss. 15 Ancora a favore del (solo) comma 1 dell’art. 39 della Costituzione, in L. Zoppoli, A. Zoppoli, Delfino (a cura di), Una nuova Costituzione, cit., 495 ss. 16 V. soprattutto la ricchissima analisi contenuta in Pera, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, Feltrinelli, 1960.

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Il lavoro tra vecchio e nuovo diritto: il diritto sindacale

9. Segue: c) le persistenti incertezze sulle rappresentanze

in azienda.

Veniamo ora a natura e regole di funzionamento delle rappresentanze in azienda. È questo un terreno elettivo di incontro/scontro tra tutti i formanti del nostro diritto sindacale, vecchio e nuovo. Il quadro è particolarmente complesso da quando l’autoregolazione sindacale nel privato ha affiancato alle rsa ex art. 19 st. lav. le rsu, prevalentemente regolate da accordi sindacali. Il contenzioso è ricco e sempre più vario. Qui voglio solo tornare su un tema che affronta anche Romei nel Trattato: la natura collegiale o no delle rsu e il diritto per le singole componenti delle rsu di indire l’assemblea. Dopo anni di contenzioso altalenante e più o meno tortuoso, c’è stata nel 2017 una sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, che dovrebbe aver detto una parola conclusiva tanto sulla natura di un organismo di rappresentanza nato ben 25 anni fa sia sulla sua coesistenza con strutture di rappresentanza in azienda diverse per genesi e funzione. La sentenza Cass. 6 giugno 2017, n. 13978 non è particolarmente lineare17, ma ad un’attenta lettura fornisce una chiara ricostruzione del complesso quadro normativo, da cui si dovrebbe desumere che la RSU è organismo collegiale e che il diritto di indire assemblee residua in capo solo ad alcuni sindacati presenti nelle rsu come componenti riconducibili ai sindacati che abbiano stipulato contratti collettivi nazionali applicati nell’unità produttiva. Quindi, come sottolinea con forza mio fratello Antonello in una nota appena pubblicata18, il diritto di indire assemblee spetta solo in via residuale ad alcune componenti delle rsu entro ben precisi limiti a tanto abilitate da una eccezione alla regola generale della titolarità delle RSU prevista dall’art. 4 co. 5 dell’accordo interconfederale del 1993 (transitata nel testo unico del 2014). Nonostante le ricostruzioni delle Sezioni unite, sulle riviste specialistiche il dibattito su natura delle rsu e titolarità del diritto a indire le assemblee è tutt’altro che risolto e ognuno utilizza nella ridondante sentenza della Cassazione gli argomenti che ritiene da preferire. Forse in questo caso le famose tre parole del legislatore sarebbero benefiche, anche se mandassero al macero qualche migliaio di pagine di brillanti elaborazioni dottrinali.

10. Confusioni (molte) e speranze (poche ma incrollabili). Dunque molte questioni di fondo e di dettaglio devono essere affrontate se si vuole far nascere davvero un nuovo diritto sindacale. Circolano scorciatoie di vario genere. Da ultimo sta prendendo piede l’invocazione di una legge sul salario minimo19, magari riser-

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V. da ultimo De Luca Tamajo, Incertezze e contraddizioni del diritto sindacale italiano: è tempo di regolamentazione legislativa, in RIDL, 2018, I, 283. 18 A. Zoppoli, Rappresentanze sindacali e rappresentatività: le insidie del tempo, in DLM, 2018, n. 2. 19 Per tutti e da ultimi, v. Liso, Qualche erratica considerazione sul recente accordo interconfederale Confindustria, Cgil, Cisl, Uil del 9 marzo 2018, cit.; Pascucci, La giusta retribuzione, oggi, relazione al Congresso Aidlass di Palermo, 17-19 maggio 2018, in www. aidlass.it.

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Lorenzo Zoppoli

vata ai nuovi “braccianti digitali”20 o riders (v. contratto del governo gialloverde). Ma si riaffacciano anche ricette ad effetto ancorché già sentite e marginali, come l’abolizione del CNEL (sempre nel contratto del governo gialloverde), nonostante le parti sociali sembrino averne riscoperto una qualche utilità. Bisognerebbe essere capaci di andare oltre, affrontando coraggiosamente il nodo cruciale del nuovo diritto sindacale, cioè una legge attuativa dell’art. 39 della Costituzione21. Partendo dal fatto che il mondo delle imprese italiane è molto variopinto e che alcune possono prosperare con i contratti aziendali, ma altre hanno bisogno della contrattazione nazionale e altre ancora di una contrattazione territoriale o di relazioni sindacali da proiettare in un mondo virtuale. Anche valorizzando percorsi partecipativi che appaiono spesso invocati (anche nel patto della fabbrica del 2018), ma mai veramente incoraggiati. A mio parere non ci sono ricette univoche e sarebbe sbagliatissimo sia confezionare abiti che possono indossare solo 20/30 imprese su cento sia abdicare a porre un quadro di regole che possa servire a far emergere le discipline più congrue nei diversi contesti per conciliare sviluppo economico e tutela dei diritti dei lavoratori. Il nuovo diritto sindacale dovrebbe essere policentrico, attento a salvaguardare alcuni valori irrinunciabili come la democrazia, la trasparenza, la solidarietà più ampia possibile, ma adattabile all’enorme mutevolezza di mercati, organizzazioni e tecnologie. Qualcuno parla di “decentramento ben bilanciato”22; qualcuno teme che si voglia invece perseverare con una politica di disintermediazione, magari più strisciante23. Le prime proposte del nuovo Governo, mentre promettono nuovamente l’eliminazione del Cnel, fanno addirittura sperare, almeno secondo qualche autorevole commentatore (Furlan) in una ripresa della concertazione, con prospettive di iperpoliticizzazione (partecipazione di parlamentari di maggioranza ed opposizione agli incontri con le parti sociali). Molte idee sembrano in campo, oltre le precise proposte contenute nel patto della fabbrica. La chiarezza e la coerenza non sembrano abbondare. Però occorre sperare. Non è facile, ma nemmeno impossibile, se si attinge alle forze migliori, favorendo ogni sforzo di dialogo costruttivo.

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Trovo suggestivo – e non solo – tornare ad utilizzare il termine “bracciante”: v. il mio Com’è cambiato il diritto del lavoro, in DLM, 2018, quaderno n. 5. 21 La “scuola napoletana” si è ampiamente e tempestivamente cimentata: v. DLM, 2014, n. 1, p. 155 ss. e, per il dibattito che ne è seguito, almeno RGL (a cura di), L’attuazione degli articoli 39 e 46 della Costituzione. Tre proposte a confronto, Ediesse, 2016, e, da ultima, V. Papa, L’attività sindacale delle organizzazioni datoriali. Rappresentanza, rappresentatività e contrattazione, Giappichelli, 2017, spec. 146 ss. 22 Carrieri, Migliorare il decentramento contrattuale: come le parti affrontano questa sfida, in Dell’Aringa, Lucifora, Treu (a cura di), Salari produttività e diseguaglianza, cit., 478 ss. 23 V. l’articolo di Prodi pubblicato su la Repubblica dell’8 giugno 2018.

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Mauro Dallacasa

L’interpretazione teleologica della norma tra ordinamento britannico e italiano: tentativi di «cross fertilization» Sommario : 1. Il purposive approach nella giurisprudenza britannica: il caso Uber. – 2. La traslazione nel nostro ordinamento: le collaborazioni organizzate dal committente. – 3. Conclusioni

Sinossi. Il saggio si propone di indagare le zone di confine tra il lavoro subordinato e quello autonomo, verificando lo spazio ricavabile per una terza categoria intermedia; fa questo comparando l’ordinamento italiano a quello britannico, prendendo spunto dal riconoscimento agli autisti di Uber della qualifica di worker. Abstract. The essay aims to investigate the border areas between subordinate and independent work, verifying the space available for a third intermediate category; it does this by comparing the Italian to the British system, inspired by the recognition to Uber drivers of the status of worker. Parole chiave: Subordinazione – Lavoro autonomo – Lavoro a progetto – Etero-direzione – Eteroorganizzazione – Employee – Worker – Uber – Drivers – Pony espress.

1. Il purposive approach nella giurisprudenza britannica: il caso Uber.

A distanza di numerosi anni dalla decisione di un pretore italiano che riconosceva ai pony express lo status di lavoratore subordinato, sulla base di un rinvio «alla realtà econo-


Mauro Dallacasa

mico sociale del fenomeno considerato»1 – dando nuovo alimento al dibattito sul metodo di rilevamento della subordinazione, contrapponendosi allora i sostenitori del criterio tipologico a quelli del criterio sussuntivo o dogmatico2 –, la suggestione di una rilevanza giuridica da assegnare alla differenza sostanziale di potere contrattuale («unequal bargaining positions»)3, si rinviene nelle decisioni di giudici inglesi, prese nel pieno della rivoluzione telematica che investe i rapporti di lavoro4.

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Da giudicarsi «con l’ausilio di strumenti di valutazione socio economica»: Pret. Milano, 20 giugno 1986, in RIDL, 1987, II, 70, con nota di Ichino, Libertà formale e libertà materiale del lavoratore nella qualificazione della prestazione come autonoma o subordinata. Anche allora veniva in considerazione la libertà formale del lavoratore di accettare o meno la proposta lavorativa, sia nel senso dell’assenza di un orario di lavoro predeterminato, sia nel senso della possibilità (teorica?) del lavoratore di rifiutare il singolo incarico ricevuto via radio. In senso contrario si espresse poi la Cass., 10 luglio 1991, n. 7608, in RIDL, 1992, I, 103. La Corte muove dalla opinione consolidata che «carattere distintivo essenziale del rapporto di lavoro subordinato è la subordinazione, intesa come vincolo di soggezione del lavoratore al potere giuridico, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, potere che deve estrinsecarsi nella emanazione di ordini specifici oltre che nell’esercizio di una assidua attività di vigilanza e controllo nell’esecuzione delle prestazioni lavorative». E perciò l’assunto della eterodirezione «contrasta con l’assunto secondo cui la parte che deve rendere la prestazione può, a suo libito, interrompere il tramite attraverso il quale si estrinseca il potere direttivo dell’imprenditore». Quanto poi al rilievo «che la possibilità di rifiutare singole consegne sarebbe soltanto teorica perché, una volta deciso di lavorare per guadagnare, il messaggero sarebbe per forza di cose costretto a rispondere alla chiamata per poter effettuare la relativa consegna e che a nulla rileverebbe la indeterminatezza del destinatario dell’ordine lanciato tramite la ricetrasmittente e la conseguente fungibilità del soggetto che vi ottemperi, tale fungibilità essendo resa possibile dalla precarietà della situazione economica dei soggetti destinatari» si richiama la dottrina che «ha replicato osservando come siffatta tesi si fondi sull’utilizzabilità, nella definizione del rapporto, di strumenti di valutazione socio-economica, che si assumono ricevere dignità di canoni giuridici dal sostanziale rinvio che ad essi farebbe la norma definitoria del rapporto in considerazione della sua genericità, e su una non dimostrata natura di norma in bianco dell’art. 2094 c.c.». Tuttavia la Cassazione non prende espressa posizione limitandosi a rilevare, sul piano della prova, «che di tali circostanze il giudice del merito non ha fornito alcuna dimostrazione essendosi egli limitato ad affermare che “sostenere che i messaggeri possono anche non rispondere, anche se in astratto esatto, in concreto è assai poco credibile per le considerazioni prime cennate”». Un tale accertamento si risolve in un giudizio formulato con quella stessa astrattezza attribuita all’assetto negoziale manifestato dalle parti. Occorreva, ed occorre, dimostrare che nella fattispecie si era verificata quella soggezione reale che aveva modificato il modo di effettuazione della prestazione. 2 Su tale dibattito, la cui eco giunge fino a noi, si veda, Proia, Metodo tipologico, contratto di lavoro subordinato e categorie definitorie, in ADL, 2002, 87; Nogler, Ancora su tipo e rapporto di lavoro subordinato nell’impresa, in ADL, 2002, 109. L’autore nota che la diatriba metodologia entra nella manualistica nel corso degli anni ’90 (nota 90). Per tutti, Vallebona, Istituzione di diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro, Cedam, 2000, 4: «il metodo da utilizzare nell’opera di qualificazione è quello consueto ed imprescindibile del sillogismo giuridico, con sussunzione per identità della fattispecie concreta in quella astratta (…). Non è condivisibile il ricorso al cosiddetto metodo tipologico di qualificazione per approssimazione (…). Il riferimento a modelli o figure social tipiche può forse aiutare nell’opera interpretativa della definizione legale, ma la qualificazione dei fatti resta inevitabilmente legata al metodo sussuntivo». La vicenda giudiziaria dei pony express è assunta come significativo precedente della gig economy anche fuori dai confini nazionali. Si veda, Cherry, «Dependent Contractors» in the Gig Economy: A Comparative Approach, in Amer. Un. Law Review, vol. 66, Issue 3, n. 135, 659. 3 Definito come la situazione in cui the employer is in a position to dictate the written terms and the other party is obliged to sign the document or not get the work. Il percorso compiuto dall’ordinamento inglese nel riconoscimento dell’autonomia del diritto del lavoro nella valorizzazione della volontà effettiva delle parti può essere rilevato comparando la decisione di O’Kelly v Trusthouse Forte plc [1983] ICR 728 con Autoclenz Ltd v Belcher UKSC (2011) 41. La prima vicenda riguardava alcuni camerieri, lavoratori intermittenti, chiamati in caso di necessità, con turni comunicati una settimana per l’altra. Non avevano l’obbligo di accettare, quindi, secondo quei giudici, non potevano essere considerati «employees». 4 Si tratta della decisione dell’Employment Tribunal, Aslam, Farrar & Other v. Uber B, V, Uber London Ltd, Uber Britannia Ltd, case n. 2202550/2015, confermata in appello dall’Employment Appeal Tribunal UKEAT/0056/17/DA. Sulla vicenda, nella dottrina italiana si veda Cabrelli, Uber e il concetto giuridico di «Worker»: la prospettiva britannica, in DRI, n. 2, 575; Pacella, Drivers di Uber: confermato che si tratta di workers e non di self employed, in LLI, vol. 3, n 2, 2017, 5. Più in generale, sul lavoro su piattaforma, Treu, Rimedi e fattispecie a confronto con i lavori della Gig economy, in WP D’Antona, Int. 136/2017; Voza, Il lavoro e le piattaforme digitali: the same old story?, in W.P. D’Antona, It., 366/2017 (dove si apprende che i pony express ebbero un lontano precedente nei barrocciai di inizio ’900, 7).

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Non si tratta per quell’ordinamento di una novità assoluta5. Già altre pronunce si erano sforzate di valorizzare, in relazione ai contratti di lavoro, le concrete modalità del rapporto, in funzione di interpretazione o di riclassificazione del label e dei terms del contratto formalmente sottoscritto dalle parti. Si intravede in queste pronunce una tendenza a fondare una autonoma teoria dell’interpretazione del contratto nei rapporti di lavoro, rispetto alla common law dei contratti di natura commerciale, ispirata quest’ultima a regole assai rigorose quanto alla forza di legge tra le parti delle clausole del contratto scritto6 e alla limitata possibilità di far valere la simulazione contrattuale7. Nel contesto quindi di questi rinnovati principi, i giudici del lavoro britannici si ispirano ad un approccio realistico, che tiene conto sia della predisposizione unilaterale del documento contrattuale da parte del contraente forte, sia della possibilità (specie per i lavoratori provenienti dall’estero) che gli stessi non siano stati posti in grado di comprendere correttamente i termini del contratto che sottoscrivono, sia delle reali aspettative delle parti, valorizzando gli aspetti fattuali, quando essi contraddicano le clausole scritte e la qualificazione formale data dalle parti, facendo emergere la simulazione di quest’ultima («sham contract»). Per il giurista nostrano sembra non esservi nulla di nuovo, essendo massima costante che la qualificazione operata dalle parti in sede di conclusione del contratto individuale, seppur rilevante, non è determinante, posto che le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, potrebbero avere simulatamente dichiarato di volere un rapporto autonomo al fine di eludere la disciplina legale in materia8. E tuttavia non può non co-

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Per una ricostruzione storica in chiave comparatistica, Razzolini, The Need to go Beyond the Contract: «Economic» and «Bureaucratic» Dependence in Personal Work Relations, in Comp. Labor Law & Policy Journal, Vol. 31, n. 2, 2010, 267. 6 Segnatamente la «parole evidence rule» (in forza della quale «evidence cannot be admittet to add, to vary or contradict a written document) e la «signature rule» (in forza della quale il vincolo delle parti alle condizioni sottoscritte incontra il solo limite della frode o dell’errore nella dichiarazione ed è efficace «regardless whether the document has been read, and even if the signatory cannot read the document because she does not read Enghlish»). 7 Significativo precedente è rappresentato da Autoclenz Ltd v. Belcher UKSC (2011) 41, che ha ritenuto il carattere simulato di due clausole inserite nel contratto, la «substitution clause», in forza della quale al preteso lavoratore autonomo era attribuito il diritto di designare un sostituto per l’esecuzione del lavoro a sua discrezione, e la «no mutuality clause»). La nozione ampia di simulazione accolta dalla Suprema Corte britannica è diretta all’accertamento del «true agreement», ovvero della «actual legal obligations of the party». A tal fine l’accertamento doveva estendersi alla «evidence of how the parties conducted themselves in practice and what the expectations of each other were». Questo «broad test of sham» era già stato accolto nella decisione dell’Employment Appeal Tribunal nella causa Consistent Group Ltd v. Kalwak, ma era stata rigettata dalla decisione della Corte di Appello. In Protectacoat Firthglow v Szilagi [2009] EWCA Civ. 98, l’accertamento della simulazione investe sia il contratto di partnership che il lavoratore era tenuto a sottoscrivere con un collaboratore, sia il susseguente contratto sottoscritto tra la partnership e il presunto committente. È abbandonato pertanto il tradizionale punto di vista secondo cui, perché vi sia simulazione, tutte le parti «must have a common intention that the acts or documents are not to create the legal rights and obligations which they give the appearance of creating». Per un approccio alla dottrina inglese, si veda Davidov, Freedland, Kountoris, The Subjects of Labor Law: «Employees» and Other Worker in Boll. Adapt 12 novembre 2015; Bogg, Sham Self-Employment in the Suprem Court, in ILJ, 2012, 328; Davies, Sensible Thinking About Sham Transaction, in ILJ, 2009, 318; Davidov, Who is a Worker, in ILJ, 2005, 34; Prassl, Pimlico Plumbers, Uber Drivers, Cycle Couriers, and Court Translators: Who is a Worker?, in Oxford Legal Studies Research Paper, n. 25/2017. 8 In una delle ultime pronunce in materia di distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato (Cass., 14 giugno 2018, n. 1563) la Cassazione ribadisce che il primario parametro distintivo della subordinazione, intesa come assoggettamento del lavoratore al potere organizzativo del datore di lavoro, deve essere accertato o escluso mediante il ricorso agli elementi che il giudice deve concretamente individuare dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dalle modalità di svolgimento del rapporto. Altri elementi –

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gliersi la libertà dell’argomentare del giudice inglese, là dove ad esempio valuta se non si debbano considerare le previsioni pattizie sulla possibilità che il lavoratore fornisca un sostituto o rifiuti il lavoro offerto come possibilità non realistiche. Si tratta di un approccio che la giurisprudenza e la dottrina inglese definiscono come «purposive approach», termine che oscilla tra i significati di consapevole dell’intenzione della legge («mindful to the purpose of law») o anche di conformità alla comune volontà delle parti; ma che in ogni caso assegna alle corti il compito di una prudente e realistica ricostruzione delle «true legal obligations» assunte dalle parti, sulla base di una «good knowledge of the world of work and a sense, derived from experience, of what is real and what is window-dressing»9. Nel caso in esame, Uber asseriva di essere un «agent», cioè un intermediario la cui funzione era quella di mettere in contatto domanda ed offerta di servizi di trasporto, tramite una piattaforma telematica, di modo che i drivers avevano come controparti contrattuali i trasportati. Era dunque Uber, a suo dire, a fornire ai conducenti, piccoli imprenditori, i propri servizi, e non questi ultimi a fornire a Uber le proprie prestazioni. Secondo Uber tra le parti non vi era «mutuality of obligation»10, nel senso che non vi era obbligo né di offrire, né di accettare il lavoro; assunto questo che poteva anche essere espresso rilevando l’assenza di un contratto quadro («umbrella contract»), che prevedesse, sin dalle origini, le obbligazioni reciproche (ma vedremo che questa implicazione, che cioè l’assenza di un contratto quadro implicasse assenza di obbligazioni inter partes, sarà respinta dal giudice inglese11).

come l’assenza del rischio economico, il luogo della prestazione, la forma della retribuzione e la stessa collaborazione – costituiscono fattori che, seppur rilevanti nella ricostruzione del rapporto, possono in astratto conciliarsi sia con l’una che con l’altra qualificazione del rapporto. E tuttavia il primario parametro distintivo della subordinazione deve essere accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto, dando prevalenza ai dati fattuali emergenti dall’effettivo svolgimento del rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione, ma anche ai fini dell’accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata. Il ricorso al dato della concretezza e della effettività appare condivisibile anche in considerazione della posizione debole di uno dei contraenti. Gli indici della subordinazione sono dati dalla retribuzione fissa mensile in relazione sinallagmatica con la prestazione lavorativa; l’orario di lavoro fisso e continuativo; la continuità della prestazione in funzione di collegamento tecnico organizzativo e produttivo con le esigenze aziendali; il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia; l’inserimento nell’organizzazione aziendale. Un approdo decisamente «tipologico» si riscontra in Cass., 8 aprile 2015, n. 7024, che ha ritenuto la natura subordinata di un rapporto di lavoro di un pizzaiolo, il cui contratto, qualificato come di lavoro autonomo, prevedeva l’obbligo del lavoratore di prestare servizio «per sei ore al giorno per sei giorni settimanali», «in modo assiduo e continuativo, tenendo presente le esigenze connesse al buon andamento della gestione». In motivazione si osserva che alcuni lavori non possono che svolgersi con modalità di subordinazione e si richiama il precedente di Cass. 7 gennaio 2009 n. 58, secondo cui, con riferimento alle prestazioni rese da un lavoratore come cameriere ai tavoli di un ristorante, aspetti connaturati a tale attività, quali indici di subordinazione, sono l’assenza di rischio economico per il lavoratore, l’osservanza di un orario e l’inserimento nell’altrui organizzazione produttiva, specie in relazione al coordinamento con l’attività degli altri lavoratori. 9 Cfr. Bogg, op. cit., 42. 10 La necessità di una mutuality of obligation a monte delle singole prestazioni lavorative era stata posta a fondamento del rigetto della domanda proposta da alcune guide turistiche in Carmichael v National Power plc [1999] UKHL 47. Secondo Collins, Employmet Rights of Casual Worker, in ILJ, 2000, vol. 29, 74 il requisito della mutuality of obligation si risolverebbe in un depistaggio nella selezione delle circostanze rilevanti per la qualificazione del rapporto. 11 Come lo era stato nel precedente Byrne Brothers (Formwork) Ltd v Baird and others, (2002) ICR 667 (EAT), non facendo differenza

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Bisogna essere avvertiti in primo luogo che il giudice non si trovava a dover decidere sulla esistenza di una subordinazione in senso stretto degli autisti di Uber, e ciò perché i ricorrenti avevano rivendicato non lo status di employees, ma quello di workers. Ed infatti, la section 230(3) dell’Employment Rights Act 199612 contempla la nozione di «worker» come nozione di genere, all’interno della quale convivono coloro che hanno stipulato «a contract of employment», cioè i lavoratori subordinati, e coloro che hanno stipulato ogni altro tipo di contratto, in forza del quale si impegnino a svolgere personalmente lavori o servizi per una controparte, quando quest’ultima non sia, in forza del contratto, committente o cliente di una attività di impresa o professionale svolta dal prestatore del servizio. Questo tertium genus, tra lavoratore subordinato e autonomo, si distingue, quanto alla disciplina, dall’employee, perché solo alcune delle normative previste a tutela di quest’ultimo si applicano anche a coloro che sono semplicemente workers (segnatamente quelle relative ai limiti di orario e ai minimi contrattuali). La distinzione dei tipi per alcuni dovrebbe essere una questione di grado13, nel senso che entrambe le categorie dovrebbero soddisfare i medesimi tests, da applicarsi però con maggiore indulgenza nel caso dei «workers»; per altri sarebbe decisiva l’assenza di originaria «mutuality of obligation» (da intendersi come umbrella contract)14, la quale poi sotto intenderebbe una situazione di particolare dipendenza economica; si giungerebbe allora ad intendere diversamente subordinazione e dipendenza, che per noi si identificano, ma non per l’ordinamento inglese, dove subordination, propria dell’employee15, e dependency sono concetti distinti, e mentre la prima implica concreto esercizio del potere gerarchico, la seconda assume valenza tipicamente economica, ovvero di esistenza di un «unequal bargaining power». Come si vede, la categoria del worker si definisce per tre requisiti, due positivi – lo svolgimento personale della prestazione e l’obbligo contrattuale di svolgerla a favore della controparte – e uno nega-

che il contratto fosse «a single overarching contract of employment or merely one of several successive «assignment contract». La disposizione recita: In this Act «worker» (except in the phrases «shop worker» and «betting worker») means an individual who has entered into or works under (or, where the employment has ceased, worked under) – (a) a contract of employment, or (b) any other contract, whether express or implied and (if it is express) whether oral or in writing, whereby the individual undertakes to do or perform personally any work or services for another party to the contract whose status is not by virtue of the contract that of a client or customer of any profession or business undertaking carried on by the individual. 13 Si tratta della definizione contenuta in Byrne Bros (Fromwork) Ltd v Baird and others, EAT/542/01 cit., secondo cui «drawing the distinction in any particular case will involve all or most of the same considerations as arise in drawing the distinction between a contract of service and a contract for services – but with the boundary pushed further in the putative worker’s favour». È interessante notare che, nel tracciare la linea di confine tra «self-employer» e «worker» (o, che è lo stesso, tra contract of services e contract of service) sono utilizzzati quegli stessi indici che la giurisprudenza italiana utilizza per ritenere la subordinazione («the exclusivity of the engagement and its typical duration, the method of payment, what equipment the putative worker supplies, the level of risk undertaken, etc. »). Quanto al rapporto tra contratto e modalità del rapporto, «what we are concerned with is the rights and obligations of the parties under the contract – not, as such, with what happened in practice. But what happened in practice may shed light on the contractual position». 14 Cfr. Prassl, op. cit., 9, «a lack of promised future work probably leads to higher degree of subordination, with workers required to tend to their employers’ every whim for fear of losing their next shift». 15 La subordination consiste nella «social condition of being under the control of another, of lacking the ability to influence the way the work is performed»; la dependency si intende invece come impossibilità «of being able to spread her risk among a number of different relationships»; cfr. Davidov, op. cit., 7. Da noi, tra gli autori che hanno dato spazio al criterio economico, G. Santoro-Passarelli, Il lavoro parasubordinato, Milano, 1979. Nel senso dell’introduzione nel nostro ordinamento di una nozione di dipendenza economica si veda il d.d.l. n. 1873, proposto dall’on. Pietro Ichino in data 11 novembre 2009. Si veda anche la proposta denominata Codice semplificato 3.0, reperibile sul sito www.pietroichino.it. 12

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tivo – l’assenza di una organizzazione di impresa. Nessuno dei tre, invero, vale a segnare la linea di confine verso l’alto, con l’employee16. Quanto invece alla demarcazione dal self employer, è facile intendere che è sull’ultimo requisito, la cui circolarità definitoria è evidente, che si appuntano i dubbi interpretativi. La decisione della controversia si fonda innanzitutto sul rilievo dell’esistenza di una obbligazione dei drivers (come riportato anche sul Welcome Packet ad essi consegnato come parte del «onboarding process») di essere e di restare, per un tempo dato, «on duty». Ciò si verificava in presenza di tre condizioni: che il driver si trovasse sul luogo convenuto per la partenza, avesse la app aperta e fosse «ready and willing to accept trips»17. Quest’ultima condizione sembrerebbe implicare anche la possibilità per il driver di rifiutare la proposta di viaggio (ancorché «on duty»). Tuttavia rilievo decisivo assume qui il vincolo indiretto derivante dalla previsione dell’esclusione dalla piattaforma del driver che non accetti almeno l’80% dei viaggi18. È da questa minaccia di esclusione che deriva anche l’obbligo nei fatti di rendersi disponibile nel tempo compreso tra una chiamata e l’altra, a disposizione di Uber e non di operatori terzi. Dunque, non vi è «lack of obligation», sussiste invece la reciprocità delle obbligazioni, sorgendo esse nel momento in cui il driver accetta la proposta di viaggio («purely assignment based»). Inoltre il tempo di lavoro è «unmeasured»19, perché parte essenziale della prestazione del driver è costituita dal suo rendersi disponibile, corrispondendo all’interesse di Uber di essere certo di soddisfare la domanda20. Restava allora da verificare la condizione negativa, dell’assenza della natura imprenditoriale dell’attività del driver. La linea di confine tra il worker e il self-employer viene fissata a seconda che il prestatore «carry on a profession or a business undertaking on their own account and enter into contact with their clients or customers to provide work or services for them», ovvero «to provide services as part of a profession or business undertaking carried by someone else».

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È stato notato che la categoria del worker servirebbe a colmare il vuoto lasciato da una eccessivamente ristretta nozione di «contract of service», riconducendo alla nozione di «worker» chi in altri paesi sarebbe considerato «employee», Quanto a quest’ultima nozione, essa deve corrispondere ad una serie di test (per noi sarebbero una serie di indici di subordinazione), tra i quali assume rilevanza primaria, ma non unica, «an employer right to supervision and control». Anche in quest’ambito tuttavia è stata rilevata una tendenza al passaggio dai tests di «mutuality of obligation», ad un «integration test», ovvero un «economic reality test», comprensivi di una valutazione globale di una molteplicità di indici. Si veda, Davidov, Freedland, Kountouris, op. cit. 17 L’insieme di queste tre condizioni corrisponde a ciò che Uber intende come essere «on duty». È poi questione di fatto verificare se e quanto a lungo il driver rimanga «ready and willing able to accept trip request». 18 Questa regola sembra essere negata da Uber che contesta l’allegazione dei ricorrenti, affermando che essi l’hanno desunta da una disciplina valevole per gli Stati Uniti; ma qui sembra che il motivo di appello sia stato presentato al giudice tardivamente; che l’argomento non sia stato oggetto di «challenge» nella «note of appeal». 19 Su quest’ultima implicazione il giudice di appello sembra più prudente dell’Employment Tribunal di primo grado, condizionandola alla verifica che il driver non si trovasse contemporaneamente nella medesima condizione di disponibilità ad accettare incarichi con altri operatori di trasporto. 20 La necessità di ricondurre il tempo di attesa al tempo di lavoro può essere esemplificata dal lontano precedente rappresentato dalla pretesa della catena Burger King di pagare i dipendenti solo per il tempo effettivamente speso per servire i clienti. Traggo la notizia da Adams, Freedlan, Prassl, The Zero-Hours Contract»: Regulating casual work, or legitimating precarity?, in ELLN Working Paper, n. 5/15, 7.

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Secondo Uber il rapporto instaurato con i drivers non andava oltre, da un lato, la verifica della sussistenza dei requisiti soggettivi ed organizzativi previsti per lo svolgimento dell’attività di trasporto privato di persone, dall’altro, l’accettazione di un regolamento (written agreement) che stabiliva le condizioni generali di svolgimento del rapporto, senza imporre vincoli circa il quando, il quantum e il quomodo dell’esercizio dell’attività. In tale regolamento, i partner di Uber erano definiti imprese indipendenti nel settore della fornitura di servizi di trasporto e l’accettazione dell’agreement non produceva la costituzione di un rapporto di lavoro, né di una partnership tra imprese, né di un rapporto di agenzia. Di contro, la ratio della decisione si fonda sul rilievo di ingerenze di Uber non solo ingiustificabili con l’asserito ruolo di intermediario, ma anche incompatibili con l’asserito status di imprenditore dei drivers (e cioè di fornitore di servizi al terzo trasportato). Le circostanze rilevanti a tal fine possono così sintetizzarsi: che per conservare l’«account status» era necessario accettare almeno l’80% delle richieste e che il rifiuto di due richieste comportava la sospensione dal collegamento con l’app per dieci minuti (la circostanza assolve dunque a due funzioni: attesta l’esistenza fattuale di una «mutuality of obligation», nega, o almeno condiziona la libertà del driver di avviare rapporti con clienti esterni alla piattaforma); che, anche successivamente alla conferma della richiesta di trasporto da parte di Uber, le parti erano poste in contatto, ma non in modo che entrambe conoscessero l’identità e il numero telefonico dell’altra; che Uber, pur non vietandolo espressamente, disapprovava la richiesta di mance da parte dei conducenti; che Uber manteneva assoluta discrezionalità in merito al «booking»; che la decisione sui reclami era adottata da Uber, con ristoro patrimoniale dei trasportati, anche, in taluni casi (quando non vi erano specifiche ragioni di addebito nei confronti dei conducenti), sopportando direttamente i costi; che il software dell’app determinava il percorso da seguire, le deviazioni potendo costituire motivo di un risarcimento al trasportato; che il conducente non poteva stabilire un prezzo superiore a quello fissato da Uber; che i trasportati erano richiesti di una valutazione dei conducenti, essendo prevista la rimozione dalla piattaforma nel caso in cui il punteggio del conducente si fosse mantenuto al di sotto di pt. 4,4 e nel caso di serie violazioni delle regole di condotta (circostanze queste espressamente riportate nel written agreement). Come icasticamente commenta il giudice di prime cure, il written agreement tra Uber e i conducenti richiedeva che il conducente entrasse in una relazione contrattuale vincolante con una persona di cui non conosceva l’identità, per intraprendere un viaggio per una destinazione non conosciuta, seguendo un percorso determinato da un terzo, per un prezzo stabilito da un terzo. E allora, valutando l’insieme di questi indici nel loro complesso («as a whole»), si deve concludere che è Uber a gestire un’impresa che offre servizi di trasporto, «marketed as such».

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2. La traslazione nel nostro ordinamento: le collaborazioni organizzate dal committente.

Quello che più ci interessa della vicenda, guardando alle cose italiane, è che nel diritto inglese c’è uno spazio «somewhere in between» tra il lavoratore subordinato e l’autonomo. Può registrarsi questa circostanza come espressione della forza delle cose, di una crisi delle tradizionali categorie, con l’emergere di zone grigie che reclamano un riconoscimento giuridico. È quasi una premessa dovuta delle trattazioni e dei commenti in materia evidenziare la crisi del modello di subordinazione tradizionale. Va tentata un’opera di traduzione, non solo linguistica, ma anche giuridica, raffrontando la fattispecie del worker con quelle fornite all’operatore giuridico dall’ordinamento italiano, senza che possa scoraggiare la constatazione che anche qua, come là, «it is virtually impossible to find room for a middle category». Ci assiste in questa operazione l’auspicio che «understanding how others have been approaching the same problem can help us better understand our own legal system»21. In quest’opera di traduzione non può non cogliersi che l’assenza di un «umbrella contract» si sarebbe dovuta tradurre, nel nostro ordinamento, sino a poco tempo fa, come assenza di «uno o più progetti specifici» ex art. 61 d.lgs. 10 settembre 2003 n. 276, che di per sé avrebbe determinato la costituzione, sin dall’origine, di un rapporto di lavoro subordinato. Il progetto era stato infatti riconosciuto apertamente, dopo un lungo dibattere sulla natura della presunzione che derivava dalla sua assenza, come «elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa» dall’art. 1 comma 24, l. 28 giugno 2012 n. 9222. Con il contratto a progetto trovava riconoscimento una figura contrattuale in qualche modo intermedia tra la collaborazione autonoma prevista dall’art. 2222 c.c. e il lavoro subordinato. Il passo successivo era rappresentato dal comma 26 dell’art. 1 l. n. 92/2012, che introduceva nel d.lgs. n. 276/2003 un art. 69 bis, che, per la prima volta nel nostro ordinamento, quasi disinteressandosi del tipo, individuava come collaborazioni coordinate e continuative le prestazioni rese da persona titolare di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto (idest, «carriers on a business undertaking on their own») per la quale sussistessero nei confronti del committente condizioni di dipendenza economica, quando cioè la collaborazione con il medesimo committente avesse durata complessiva superiore a otto

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La citazione è tratta da Davidov, Freedland, Kountouris, op. cit., 2, da cui è tratto anche il riferimento nel titolo alla possibilità di una fruttuosa cross-fertilization. La cultura giuridica di common law si mostra più aperta ad utilizzare l’approccio comparatisco come strumento di ermeneutica giuridica. 22 La norma era prevista come applicabile ai rapporti di collaborazione avviati successivamente all’entrata in vigore della legge. Tuttavia in questo senso si erano già espresse, con riferimento a fattispecie anteriori alla novella della l. 92/12, Cass., 21 giugno 2016, n. 12820; Cass., 10 maggio 2016, n. 9471; Cass., 31 agosto 2016, n. 17448; Cass., 7 settembre 2016, n. 17711; Cass., 22 agosto 2018, n. 4337. Sulla portata dell’art. 1, c. 24, l. 92/12 si vedano Marazza, Il lavoro autonomo dopo la riforma del governo Monti, in ADL, 2012, 875; Panci, La conversione ex art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276/03: la compressione dell’autonomia privata individuale fra dubbi di legittimità e «interpretazioni correttive», in RIDL, 2011, I, 323.

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mesi annui per due anni consecutivi e il corrispettivo derivante da tale collaborazione costituisse più dell’80% dei corrispettivi annui percepiti dal collaboratore nell’arco di due anni consecutivi; e sempreché il prestatore fosse titolare di reddito di lavoro autonomo inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali ex art. 1, c. 3, l. n. 233/90 (dunque: due requisiti economici relativi al rapporto instaurato col committente e uno assoluto inerente al reddito del lavoratore). Non siamo lontani dalla dependency, dall’unequal bargaining power e dall’impossibilità per il lavoratore «to spread the risk». Ed è a dire che anche tali collaborazioni potevano risolversi in rapporti di lavoro subordinato in virtù del meccanismo della c.d. doppia presunzione dell’art. 26, comma 4, l. n. 92/2012. L’abrogazione di tali disposizioni, e salva la loro sopravvivenza ratione temporis, pone il problema se l’area di rapporti sociali che esse aspiravano a coprire abbia trovato una nuova collocazione normativa ovvero se l’esigenza di tutela che portava a costruire fattispecie di presunzione assoluta di lavoro subordinato sia andata interamente dispersa. Quello spazio è oggi potenzialmente occupato dall’art 2 d.lgs. 15 giugno 2015 n. 81. Tra lavoro parasubordinato e subordinato si è realizzato così un continuum a tre scansioni – coordinazione, etero organizzazione, etero direzione – entro cui è arduo segnare faglie di confine. Di massima si possono rilevare tre opzioni interpretative23, quanto al significato della nuova disposizione: che essa ampli la nozione di subordinazione accolta dall’art. 2094 c.c., di modo che oggi il concetto di subordinazione si trarrebbe dal combinato disposto delle due norme24; che essa, senza incidere sulla nozione di subordinazione, operi sul piano della disciplina25, estendendo il regime del lavoro subordinato a rapporti che ne restano differenziati; che infine sia una norma apparente, nulla aggiungendo alla disposizione codicistica26. Sforzarsi di trovare un criterio distintivo tra etero organizzazione ed etero direzione, nella speranza che tali definizioni siano in grado di descrivere relazioni di potere diverse, fornendo anche uno strumento pratico che orienti la decisione del caso concreto, può risultare frustrante, e portare alla conclusione della fondatezza dell’ultima delle sopra citate opzioni interpretative27.

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Si veda Biasi, Dai pony express ai riders di Foodora, in Boll. Adapt n. 11/2017, e la bibliografia ivi citata. Dello stesso autore, sull’applicabilità della disposizione al lavoro dirigenziale, Brevi note sulla categoria dirigenziale all’indomani del Jobs Act, in DRI, 2016, fasc. 3, 760. 24 Cfr. Treu, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, in DLRI, 2015, n. 146, 155; Nogler, La subordinazione nel d.lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’«autorità del punto di vista giuridico», in WP D’Antona, It., 267/2015; Nuzzo, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, in WP D’Antona, It., 280/2015. 25 Perulli, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, in WP D’Antona, It., 272/2015. 26 Tosi, L’art. 2, c. 1°, d.lgs 81/2015: una norma apparente, in ADL, 2015, n. 6, 13; Pisani, Eterorganizzazione ed eterodirezione: c’è davvero differenza tra l’art. 2 d.lgs. n. 81/2015 e l’art. 2094 cod. civ.?, in www.csdle.unict.it, 1° dicembre 2015. 27 Cfr. Mazzotta, Lo strano caso delle collaborazioni organizzate dal committente, in Labor, 2016, 7. Non mi sembra che a conclusioni sostanzialmente diverse giungano coloro che ritengono che l’art. 2 c. 1 d.lgs. 81/15 operi sul piano della prova della subordinazione positivizzando «alcuni tra gli indici elaborati dalla giurisprudenza di qualificazione del rapporto di lavoro subordinato, singolarmente non decisivi ma spesso utilizzati congiuntamente in funzione sussidiaria rispetto alla prova dell’esercizio di un potere direttivo» (G.

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E tuttavia, si tratterebbe chiaramente di una interpretazione abrogante dell’art. 2 cit. Ma non solo. Ne deriverebbe, come ripetutamente segnalato, anche l’illegittimità costituzionale del secondo comma, perché l’esclusione di rapporti, in tesi di lavoro subordinato, dalla relativa disciplina comporterebbe violazione del principio di indisponibilità del tipo28; e ne deriverebbe l’attribuzione alle associazioni sindacali (lett. a) del potere di derogare contrattualmente a vincoli costituzionali di tutela del lavoro. Parimenti la violazione del principio di indisponibilità del tipo dovrebbe rinvenirsi anche nella lett. b), che esclude in linea generale l’applicabilità della disposizione alle collaborazioni svolte da professionisti intellettuali iscritti ad albi professionali; mentre incongrua sarebbe la previsione, tra le esclusioni, della lett. c), che contempla situazioni pacificamente riconducibili all’ambito delle collaborazioni autonome. Per sottrarsi alla prima di tali implicazioni, dovrebbe ammettersi la coesistenza di due nozioni di subordinazione, una ristretta costituzionalmente vincolata, e una più ampia, costituzionalmente disponibile29. Ma su questo tema non può non svolgere una qualche influenza anche la nozione di «lavoratore» propria del diritto dell’Unione Europea, laddove è riconosciuta tale la persona che «agisca sotto la direzione del suo datore di lavoro, per quanto riguarda in particolare la sua libertà di scegliere l’orario, il luogo e il contenuto del suo lavoro, non partecipi ai rischi commerciali di tale datore di lavoro e sia integrata nell’impresa di detto datore di lavoro per la durata del rapporto di lavoro, formando con essa un’unità economica»30. In ogni caso «la qualifica di «prestatore autonomo», ai sensi del diritto nazionale, non esclude che una persona debba essere qualificata come «lavoratore», ai sensi del diritto dell’Unione, se la sua indipendenza è solamente fittizia e nasconde in tal modo un vero e proprio rapporto di lavoro. Il rilievo che tale nozione di subordinazione vale solo per le materie di competenza del diritto dell’Unione e non ha portata generale dovrebbe tener conto invero del fatto che la delimitazione della platea dei lavoratori, secondo il diritto dell’Unione, incide su un diritto di rilevanza costituzionale, quale quello di valersi della contrattazione collettiva, che

Santoro-Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., in WP D’Antona, It., 278/2015, 16). 28 Si tratta delle note sentenze della C. cost., 29 marzo 1993, n. 121 in FI, 1993, I, c. 2432 e C. cost., 31 marzo 1994, n. 115, in RIDL, 1995, II, 227, con nota di Avio, La subordinazione ex lege non è costituzionale, nonché C. cost., 2012 febbraio 96, n. 30, che enuncia la nota nozione di «doppia alienità». Più recentemente C. cost., 7 maggio 2015, n. 76 sembra accogliere una nozione più ristretta di subordinazione. La fattispecie sottoposta all’esame era quella degli addetti al servizio di guardia infermieristica negli istituti di prevenzione e pena, non appartenenti ai ruoli organici dell’amministrazione penitenziaria. Secondo la Corte la subordinazione si sostanzia «nell’emanazione di ordini specifici», che devono essere altresì assidui e cogenti; mentre non sono sufficienti indici o «spie» di subordinazione tradizionalmente utilizzati dalla giurisprudenza, consistenti «nella determinazione dei turni, nella vigilanza esercitata sull’operato degli infermieri, nell’obbligo di comunicare i giorni di assenza». 29 Cfr. Razzolini, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, in WP D’Antona, It., 266/2015, 22. 30 C. giust, 4 dicembre 2014, causa C-413/13 FNV Kunsten Informatic, in RIDL, 2015, 566, con nota di Ichino, Sulla questione del lavoro non subordinato ma sostanzialmente dipendente nel diritto europeo e in quello degli stati membri. Sulla nozione di lavoratore secondo il diritto dell’Unione si veda anche C. giust., 1 marzo 2012, causa C-393/10, O’Brien.

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sarebbe preclusa ove il prestatore di servizio fosse qualificato come lavoratore autonomo, dovendo i contratti collettivi essere assimilati ad accordi tra imprese31. Deve aggiungersi, se si vuole assegnare una qualche valenza ermeneutica al discorso ideologico sotteso alla riforma – si vorrebbe dire se si vuole essere «mindful to the purpose of law» – che la disposizione dell’art. 2 d.lgs. n. 81/2015 doveva assolvere ad una funzione di tutela del lavoro parasubordinato, nel momento in cui, d’un sol colpo, si toglieva di mezzo il sistema di garanzie precedente, costituendo, è stato osservato, il contrappunto di sinistra al c.d. «contratto a tutele crescenti»32. Quanto alla prima delle opzioni interpretative sopra riportate, può sorgere il dubbio che essa presupponga una nozione ristretta della subordinazione di fonte codicistica, o quantomeno un rigorismo probatorio (imperniato sulla prova dell’esercizio del potere gerarchico e direttivo), con svalutazione degli indici sussidiari, pure tradizionalmente utilizzati per inferirla, con la conseguenza quindi che l’art. 2 finirebbe per assegnare a questi ultimi valenza di prova sufficiente della subordinazione, a fronte di una generica idoneità, da saggiare alla luce delle originarie pattuizione delle parti. Anche in questo caso non si registrerebbero ampliamenti sostanziali dell’area della subordinazione, avendo riguardo al diritto vivente33. Quanto alla seconda ipotesi interpretativa34, va fatta una premessa. Se si ritiene che, sul piano della fattispecie, l’art. 2 d.lgs 81/2015 contempli qualcosa che non è subordinazione strictu sensu, deve giocoforza concludersi che ciò che si applica al rapporto non è l’intera disciplina della subordinazione, incluso i poteri datoriali, ma i soli elementi di disciplina compatibili con la specialità del tipo ovvero il solo statuto delle tutele del lavoratore. Ed infatti se la subordinazione è definita sulla base della spettanza al datore di lavoro di un fascio di poteri X e le situazioni di cui all’art. 2 sono caratterizzate da X – 1, assimilare le seconde alle prime anche quanto ai poteri datoriali significherebbe

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Su questo tema nell’esperienza americana (specificamente sulla legittimità, secondo quell’ordinamento antistrust, dell’ordinanza della città di Seattle, che assicurava diritti di contrattazione collettiva ai «drivers» di «transportation network companies» e più in generale sull’intersezione tra diritti sindacali e legislazione antitrust) si veda, Sanjukta, Uber as For-Profit Hirig Hall: A Price-Fixing Paradox and its Implications, 38 Berkeley J. Emp. & Lab., 2017, 233. 32 Cfr. Razzolini, La nuova disciplina, cit., 2. 33 La nozione di subordinazione attenuata è stata indagata, oltre che con riferimento al lavoro dirigenziale, in relazione al lavoro del giornalista (Cass., 28 ottobre 2013 n. 24270, 7 ottobre 2013 n. 22785). Il c.c.n.l. dei giornalisti prevede la figura del «collaboratore esterno», caratterizzata dalla non quotidianità dell’opera e dall’impegno a redigere normalmente e con carattere di continuità articoli su specifici argomenti o compilare rubriche. Per tali collaboratori è prevista una retribuzione inferiore rispetto a quella degli altri giornalisti. 34 Per Ficari, Le collaborazioni organizzate dal committente, in MGL, 2016, 1-2, 92, «le due fattispecie («subordinazione», «organizzazione») perciò, non sono disciplinate in modo identico». Pessi, Il tipo contrattuale: autonomia e subordinazione dopo il Jobs Act, in WP D’Antona, It., 282/2015, ritiene debba applicarsi la disciplina del lavoro autonomo quanto ai profili gestionali, 15; Pallini, Dalla eterodirezione alla eterointegrazione: una nuova nozione di subordinazione? in RGL, 2016, I, 75. La proposta dell’Autore muove dall’assunto che organizzazione e coordinamento siano due facce della stessa medaglia e descriverebbero la medesima relazione di potere; l’art. 2 d.lgs. 81/15 la descriverebbe dal lato del creditore della prestazione; l’art. 409 c.p.c. dal lato del debitore. L’area residua di collaborazioni non riconducibile all’art. 2 sarebbe definita, da un lato, dal carattere non esclusivamente personale della prestazione; dall’altro da modalità di etero organizzazione che non prevedono vincoli spazio temporali. L’Autore non si nasconde che «potrà anche dirsi che il lavoro subordinato in senso stretto continua a identificarsi nel solo lavoro eterodiretto, ma se al lavoro etero organizzato è destinata a tutti i fini e per tutti gli aspetti la medesima disciplina, il risultato prodotto sul piano pratico è coincidente con quello che si sarebbe potuto perseguire violando la sacralità dell’art. 2094 c.c.».

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far coincidere le due fattispecie, riconducendo al campo della disciplina anche l’elemento distintivo di esse. La disposizione varrebbe come limite al dispiegarsi dell’autonomia contrattuale delle parti35. Il discorso che ora si vuole svolgere ha una portata generale; e tuttavia esso si attualizza anche a seguito delle sollecitazioni fornite dalla cronaca politica e sindacale in relazione al lavoro fornito da piattaforme digitali, e quindi quello fornito da Uber, ma anche – senza che qui sia possibile approfondire la vicenda giudiziaria e le differenze della fattispecie concreta – quello dei riders di Foodora (ma si potrebbe andare oltre, rilevando le innumerevoli opportunità di lavoro tramite piattaforma che offre la rete, tentando non solo di dare loro una qualificazione giuridica, ma anche di segnare il confine tra ciò che è lavoro e ciò che non lo è)36. Bisogna domandarsi se nella prestazione fornita dai drivers di Uber si rinvenga l’assenza di tratti distintivi dal lavoro subordinato, almeno strictu sensu inteso, che tuttavia non impediscono un giudizio di compatibilità col tipo descritto dall’art. 2 d.lgs. 81/2015. La risposta al quesito può fornire una indicazione di ordine pragmatico, in ordine al campo di applicazione della disposizione, senza pretese di sistematicità. In primo luogo, ad avviso di chi scrive, il lavoro subordinato comporta sempre cessione di lavoro astratto. Per quanto lo ius variandi del datore di lavoro sia limitato da prescrizioni del contratto individuale e ancor più dal sistema di inquadramento dei contratti collettivi, per quanto viga il principio di equipollenza delle prestazioni e il divieto, almeno in condizioni di svolgimento fisiologico del rapporto, della assegnazione di mansioni non equipollenti, è il datore di lavoro che conforma il contenuto della prestazione e la varia nel tempo. Il mutamento delle tecnologie utilizzate, dei processi produttivi, anche dell’oggetto sociale dell’impresa, quando si rifletta sulla prestazione del lavoratore modificandone il contenuto, il succedersi degli incarichi affidati al lavoratore sono tutte circostanze che non determinano novazione contrattuale, né legittimano le dimissioni per giusta causa37. Ciò non è nelle situazioni che stiamo esaminando. Che vi sia un «umbrella contract», o un «written agreement» o semplicemente la disponibilità a lavorare, il contenuto professionale della prestazione è predeterminato: il driver, o il rider, sarà sempre tale e trasporterà sempre passeggeri o pizze. Non può trasformarsi in dogsitter o in traduttore di testi, senza mutare il contratto.

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Marazza, Jobs Act e prestazioni d’opera organizzate, in GC, 2016, I, 215. La letteratura in proposito è ormai vasta. Si rinvia, a titolo esemplificativo, oltre che ai lavori già citati alla nota 4, a: Perulli, Lavoro e tecnica al tempo di Uber, in RGL, 2017, n. 2, 171; Di Stefano, Lavoro su piattaforma e lavoro non standard in prospettiva internazionale e comparata, in RGL, 2017, n. 1, 255; Lai, Evoluzione tecnologica e tutela del lavoro: a proposito di smart working e crowd working, in DRI, 2017, n. 4, 985. 37 Sulla stessa linea di pensiero si veda, Marazza, Collaborazioni organizzate e subordinazione: il problema del limite (qualitativo) di intensificazione del potere di istruzione, in ADL, 2016, 6, 1168. Si può anche dire, con le parole di Perulli, Il lavoro autonomo, cit., 10, che il contratto di lavoro subordinato «non specifica tutte le azioni necessarie alla sua realizzazione (in quanto si tratta di un contratto incompleto…)»; all’esercizio del potere direttivo si attribuisce la facoltà di individuare l’identità variabile dell’obbligazione soggetta alle mutevoli esigenze aziendali. 36

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Può riconoscersi che l’obbligazione assunta abbia ad oggetto non un opus, ma un programma di lavoro e sia, anche sotto il profilo causale, una obbligazione di durata38; i poteri di organizzazione attengono peraltro alla «conformazione della prestazione dovuta», alla «richiesta di adempimento dell’unica prestazione dedotta in contratto»39. È interessante notare che tra i fattori rilevanti per l’accertamento della subordinazione, nell’ambito di un 13 factor test utilizzato dalla giurisprudenza nordamericana, vi è anche quello «whether the party has the right to assign additional projects to the hired party»40. In secondo luogo, quantomeno nella forma classica di lavoro subordinato, il vincolo al lavoro, la soggezione al potere direttivo, concerne un tempo dato, o variabile in misura e a condizioni date. È vero che si assiste oggi ad una crisi di tale relazione anche nel lavoro subordinato. E tuttavia, anche il lavoro agile fa salvi i limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva (art. 18, comma 1°, l. 22 maggio 2017 n. 81) e riconosce il diritto del lavoratore alla disconnessione (art. 19, comma 1°). Il lavoro intermittente poi è quanto di più vicino al lavoro on demand si rinvenga nel nostro ordinamento; e tuttavia un legame con la dimensione temporale della prestazione si rinviene quantomeno in ciò, che prima dell’inizio della prestazione (o di un ciclo di durata di prestazioni) il datore di lavoro deve comunicarne la durata alla direzione territoriale del lavoro. L’assenza di vincoli di orario per dirigenti e personale direttivo infine sembra essere una specificità legata all’alto livello di inquadramento di tali figure, che comporta anche la possibilità di decidere in autonomia il proprio tempo di lavoro. Questo legame con il tempo, stabilito ex ante rispetto all’esecuzione del rapporto, non si rinviene nel caso Uber, o almeno tende ulteriormente a sfumare. È necessario un atto del lavoratore di ingresso nel sistema (to be willing and able to drive), perché sorga il rapporto, che si conclude quando si esce dalla app. In questo si ravvisa, nell’esperienza anglosassone l’assenza di «mutuality obbligation», che investe una serie variegata di rapporti atipici («zero hours» o «on demand»); e sempre che non si ritenga che tale obbligazione sia implicita nei poteri che il committente riserva a sé stesso, di preferire chi si mostri regolarmente disponibile o di escludere dalla piattaforma chi non risponde alle chiamate41.

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Secondo Perulli, Il lavoro autonomo, cit., 41, con rinvio a Oppo, I contratti di durata, in RD Comm., 1943, 387, nella collaborazione coordinata e continuativa «la durata è determinata dallo scopo»; nella prestazione organizzata dal committente la durata «è determinata solo in funzione del tempo ed essa non incontra il limite dello scopo», onde «è utile in sé». Dello stesso Autore si veda anche, Il Jobs Act del lavoro autonomo e agile: come cambiano i concetti di subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, in WP D’Antona, It., 341/2017. Quanto alla nuova nozione di prestazione d’opera coordinata e continuativa, prevista dalla nuova disciplina dell’art. 409 n. 3 c.p.c., «non è più possibile qualificare in termini di «potere» la prerogativa del coordinamento», che «non riguarderà mai la fase di esecuzione della prestazione…, ma atterrà unicamente all’opus o servizio dedotto in obligatione, coerentemente con lo schema logico-giuridico degli artt. 2222/2224 c.c.» (18). 39 Si veda, De Luca Tamajo, Profili di rilevanza del potere direttivo del datore di lavoro, in ADL, 2005, 476. 40 Davidov, Freedland, Kountouris, op. cit., 4, nota 12. 41 «L’attività esecutiva della prestazione, infatti può distendersi nel tempo, attraverso atti d’esecuzione continuata anche in rapporti diversi e segnatamente nel lavoro autonomo… Nel rapporto di lavoro subordinato tuttavia la persistenza nel tempo non riguarda soltanto l’esecuzione della prestazione lavorativa e, quindi, l’adempimento continuato dell’impiego di collaborazione…, bensì la

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Ciò non toglie che il tempo del lavoro, quando esso sia prestato, sia organizzato dal committente. Può sembrare causidico, ma l’art 2 d.lgs. 81/2015 parla di organizzazione dei tempi e non del tempo di lavoro: potremmo parlare di un tempo interno alla prestazione42. È infatti il committente che assegna gli incarichi, che lascia il lavoratore in pausa tra un incarico e l’altro, che controlla il tempo di esecuzione e indica il percorso da seguire, valutandolo e all’occorrenza sanzionandolo, che raccoglie il gradimento del cliente; che risolve il rapporto, senza formalità alcuna. In una parola, il lavoratore è «app-driven». È dunque nell’interesse del committente che la prestazione è resa. Questo interesse corrisponde sul piano oggettivo al potere di organizzazione del lavo43 ro . Lo strumento principe di tale organizzazione è uno strumento immateriale attraverso il quale le informazioni rilevanti per l’esecuzione della prestazione sono raccolte, comunicate, valutate, elaborate con strumenti matematici, archiviate. Dal lato del lavoratore questo strumento si identifica con la «app», quando essa sia aperta e manifesti la volontà di lavorare. L’elemento di organizzazione decisivo, di gran lunga prevalente sui beni materiali utilizzati44, è costituito dal trattamento dei dati che, opportunamente raccolti, comunicati, valutati, consentono all’impresa (quella del committente) di perseguire il suo fine commerciale (management by algorithm)45. Questo del resto corrisponde a come Uber si descrive: non come un datore di lavoro, né come una impresa di trasporto, ma come una impresa tecnologica che vende una app ai drivers e ai clienti di questi ultimi, coordinando la logistica di tale interazione e abbassando in tal modo i costi di transazione; creando così un nuovo mercato, prima non possibile46.

situazione stessa di subordinazione… Questa situazione si esprime nella disponibilità continuativa del prestatore…». Così Grandi, voce Rapporto di lavoro, in Enc. Giur. It., vol. XXXVIII, 1987, 325. 42 Tutto ciò a condizione ovviamente che, quando il driver è «willing and able to drive» sia tenuto a mantenersi disponibile per un tempo dato e ad accettare gli incarichi ricevuti; ma ciò può desumersi anche dall’assetto premiale e/o sanzionatorio con cui il rapporto è organizzato. 43 Pallini, op. cit., 75 parla di dipendenza organizzativa, distinguendola dalla dipendenza reddituale, «che preclude al lavoratore di poter autonomamente vendere sul mercato i propri servizi senza l’ausilio dell’organizzazione d’impresa del committente e, proprio per questo, di avere rapporti diretti con il mercato finale». Per effetto dell’etero organizzazione spazio temporale «ne risulta assai limitata, se non impedita, la possibilità per il lavoratore, di essere autonomamente presente e attivo nel mercato dei servizi finiti». 44 Contra, «l’esistenza di una organizzazione, sia pure modesta, di beni e strumenti di lavoro da parte del lavoratore (uso del proprio computer e del cellulare del proprio mezzo di trasporto per svolgere la prestazione di lavoro)» sottrarrebbe il rapporto di collaborazione alla disciplina del lavoro subordinato, Santoro Passarelli, I rapporti di collaborazione, cit., 14. 45 «Algorithms are providing a degree of control and oversight that even the most hardened Taylorists could never have dreamt of»: O’ Connors, When your boss is an algorithm, in Finacial Times, 8 settembre 2016, ma la citazione è attribuita a J. Prassl, law professor alla Oxford Unversity. 46 Cfr. Sanjukta, op. cit., 250.

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3. Conclusioni. L’esperienza inglese delle sentenze Uber può servire non per impossibili trasposizioni di categorie giuridiche, ma per la lettura del fatto che ci offre: dove la ricostruzione della volontà delle parti – quella vera, non quella dichiarata – tiene conto della differenza di potere contrattuale. A lungo si è discettato della correttezza di una operazione ermeneutica che valorizza indici sintomatici della subordinazione non inclusi nella definizione legale. Ma un approccio «purposive», cioè, in questo caso, attento alla ricostruzione della volontà delle parti, del «true agreement», dovrebbe trattare con analoga diffidenza gli indici di autonomia, che pure sono stati ampiamente valorizzati dalla nostra giurisprudenza, che sono il precipitato contrattuale dell’«enequal bargaining power» (l’uso del mezzo proprio, l’assunzione del rischio del risultato, le modalità convenute di determinazione del compenso). C’è nella nostra giurisprudenza un precedente che valorizza, in chiave addirittura di subordinazione, un rapporto «purely assignment based» ed è quello dei raccoglitori di scommesse ippiche47. Si trattava di un lavoro mediante chiamata, a seconda della necessità, con facoltà del lavoratore di non aderire; e, ciononostante, si è ritenuto che l’inserimento nell’assetto organizzativo aziendale, secondo modalità e funzioni predeterminate dall’impresa, rendesse irrilevante non solo che il singolo lavoratore fosse libero di accettare o meno l’offerta ma anche che, col preventivo consenso del datore di lavoro, potesse farsi sostituire da altri, «atteso che il singolo rapporto può anche instaurarsi volta per volta, anche giorno per giorno, sulla base dell’accettazione della prestazione data dal lavoratore ed in funzione del suo effettivo svolgimento, e la preventiva sostituibilità incide sull’individuazione del lavoratore quale parte del singolo specifico contingente rapporto, restando la subordinazione riferita a colui che del rapporto è effettivamente soggetto». E allora, con una traslazione in senso contrario, si potrebbe rinvenire nella nostra giurisprudenza un appiglio per considerare il driver di Uber come «employee»48. Ma prendiamo atto che la domanda proposta era quella minore. E noi lasciamo il driver là dove i giudici inglesi lo hanno collocato, nella sua condizione di worker.

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Cass., 5 maggio 2005, n. 9343; Cass., 10 luglio 2017, n. 17009. Conclude in questo senso, Davidov, The Status of Uber Drivers: A Purposive Approach, Hebrew University of Jerusalem Research Paper, n. 17/7. Il fatto che i drivers abbiano «their freedom to choose how many hours and when to work; the ownership of the car used to provide the service; and the fact that many drivers work for a small number of hours per week» non esclude l’esistenza di subordination e dependency. Fa la differenza, if the worker is free to decide her own hourly rate or rather has to accept the rates as set by the platform; if the worker is free to decide how to perform the work and for whom, or has to follow directions from the platform». Quanto alla valutazione dell’esperienza italiana nella letteratura d’oltre oceano, ritiene che le collaborazioni organizzate «broadens the scope of the protections granted to standard employees», Cherry, op. cit., cit., 665, n. 179.

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Giurisprudenza commentata



Giurisprudenza C orte di G iustizia UE, sentenza 20 settembre 2018, causa C-466/17; Pres. e Rel. Fernlund – Avv. Gen. Sharpston – Motter (Avv.ti Miceli, Ganci, De Michele, De Nisco, Galleano e Rinaldi) c. Provincia autonoma di Trento (Avv.ti Pedrazzoli, Bobbio, Pizzoferrato, Dalla Serra e Velardo). Lavoro (rapporto di) – Istruzione pubblica – Contratti a tempo determinato del personale docente – Conteggio parziale dell’anzianità di servizio al passaggio in ruolo – Disparità di trattamento – Giustificazione per ragioni obiettive – Sussistenza – Conformità alla direttiva 1999/70/CE – Sussistenza.

L’art. 485 del d.lgs. 297/94, che prevede, al passaggio in ruolo, il conteggio parziale dell’anzianità di servizio maturata dagli insegnanti assunti a tempo determinato della scuola pubblica, è conforme al diritto UE, in particolare al principio di non discriminazione sancito dalla clausola n. 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE. La disparità di trattamento rispetto ai lavoratori assunti a tempo indeterminato mediante concorso è da ritenersi, infatti, giustificata da ragioni oggettive, essendo volta sia a rispecchiare le differenze nell’attività lavorativa tra le due categorie di lavoratori in questione sia ad evitare il prodursi di discriminazioni alla rovescia nei confronti dei dipendenti pubblici di ruolo assunti a seguito del superamento di un concorso generale.

Contesto normativo Diritto dell’Unione Omissis. 5. Ai fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo indeterminato comparabile” indica un lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di durata indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze. In assenza di un lavoratore a tempo indeterminato comparabile nello stesso stabilimento, il raffronto si dovrà fare in riferimento al contratto collettivo applicabile o, in mancanza di quest’ultimo, in conformità con la legge, i contratti collettivi o le prassi nazionali». 6. Ai sensi della clausola 4 dell’accordo quadro: «1. Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. 2. Se del caso, si applicherà il principio del pro rata temporis. 3. Le disposizioni per l’applicazione di questa clausola saranno definite dagli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o dalle parti sociali stesse, viste le norme comunitarie e nazionali, i contratti collettivi e la prassi nazionali.

4. I criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive». Diritto italiano 7. L’articolo 485, paragrafo 1, del decreto legislativo del 16 aprile 1994, n. 297, «Testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado» (supplemento ordinario alla GURI n. 115 del 19 maggio 1994), prevede quanto segue: «Al personale docente delle scuole di istruzione secondaria ed artistica, il servizio prestato presso le predette scuole statali e pareggiate, comprese quelle all’estero, in qualità di docente non di ruolo, è riconosciuto come servizio di ruolo, ai fini giuridici ed economici, per intero per i primi quattro anni e per i due terzi del periodo eventualmente eccedente, nonché ai soli fini economici per il rimanente terzo. I diritti economici derivanti da detto riconoscimento sono conservati e valutati in tutte le classi di stipendio successive a quella attribuita al momento del riconoscimento medesimo». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 8. Nel corso del 2003 la sig.ra Motter è stata assunta dalla Provincia autonoma di Trento con un contratto a tempo determinato come docente di scuola secondaria


Giurisprudenza

per l’anno scolastico 2003/2004. Essa ha poi proseguito tale attività ininterrottamente, per mezzo di altri sette contratti consecutivi, ciascuno di durata determinata corrispondente a quella dell’anno scolastico. 9. Dal 1° settembre 2011 la sig.ra Motter ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il 1° settembre 2012 essa è stata immessa in ruolo. 10. L’8 settembre 2014 la Provincia autonoma di Trento ha proceduto alla ricostruzione della carriera dell’interessata ai fini del suo inquadramento nella pertinente fascia retributiva ai sensi di una normativa applicabile a decorrere dal 1° gennaio 2012. Conformemente all’articolo 485, paragrafo 1, del decreto legislativo n. 297, del 16 aprile 1994, alla sig.ra Motter è stata a tal fine riconosciuta un’anzianità di 80 mesi sui 96 mesi effettivamente prestati. I primi quattro anni sono stati computati per intero, i quattro successivi limitatamente ai due terzi, vale a dire 32 mesi su 48. Essa è stata inquadrata nella prima fascia. 11. Il 2 dicembre 2016 la sig.ra Motter ha presentato un ricorso dinanzi al Tribunale di Trento (Italia), al fine di ottenere che la Provincia autonoma di Trento computasse l’intera anzianità da essa maturata anteriormente alla conclusione del contratto a tempo indeterminato per l’esercizio delle stesse funzioni, a titolo degli otto contratti a tempo determinato conclusi in successione per gli anni scolastici dal 2003/2004 al 2010/2011. 12. A sostegno del suo ricorso, essa deduce la violazione della clausola 4 dell’accordo quadro e chiede che l’articolo 485 del decreto legislativo n. 297, del 16 aprile 1994, sia disapplicato nella parte in cui prevede che i servizi prestati in base ad un contratto di lavoro a tempo determinato siano computati integralmente soltanto relativamente ai primi quattro anni e, oltre tale limite, solo fino a concorrenza dei due terzi. 13. Il giudice del rinvio ritiene che, ai fini dell’applicazione del principio di non discriminazione previsto dalla clausola 4 dell’accordo quadro, occorra verificare che situazioni comparabili non siano trattate in modo diverso. Al fine di procedere a tale verifica, la situazione della sig.ra Motter potrebbe essere paragonata a quella di un docente che eserciti un’attività simile, il quale, dopo essere stato assunto tramite concorso per un periodo di tempo indeterminato, abbia maturato la stessa anzianità della sig.ra Motter. 14. A tale riguardo, la sig.ra Motter ha dimostrato, senza essere contraddetta sul punto dalla parte avversaria, che essa svolgeva mansioni identiche a quelle dei docenti assunti mediante concorso sulla base di contratti a tempo indeterminato. Tuttavia, il giudice del rinvio si chiede se sussista una differenza tra queste due situazioni. Poiché i docenti di ruolo hanno superato un concorso, si potrebbe sostenere che le loro prestazioni sono di qualità superiore rispetto a quelle dei docenti a tempo determinato. Se così fosse, non vi sarebbe ragione di attenersi alla statuizione contenuta

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al punto 45 della sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a. (da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646), con cui la Corte ha rifiutato di considerare che la situazione di lavoratori che svolgono identiche mansioni sia diversa a seconda del fatto che essi abbiano superato o meno un concorso per l’accesso alla pubblica amministrazione. 15. Il giudice del rinvio fa osservare che la giurisprudenza italiana non appare concorde su tale punto. La Corte suprema di cassazione (Italia) ha infatti statuito che, nel settore scolastico, la clausola 4 dell’accordo quadro impone di riconoscere ai docenti l’anzianità di servizio maturata con contratti a tempo determinato, ai fini di garantire la loro parità di trattamento rispetto ai docenti con contratti a tempo indeterminato. Per contro, diversi giudici di grado inferiore avrebbero adottato la soluzione opposta. 16. Tenuto conto di tali elementi, il giudice del rinvio si chiede se il fatto di non aver superato un concorso per l’accesso alla pubblica amministrazione possa giustificare una differenza di trattamento a sfavore dei lavoratori a tempo determinato. 17. Il giudice del rinvio indica peraltro che la Corte, nella sua sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a. (da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646, punti 23, 55 e 62), ha statuito che il computo integrale dell’anzianità maturata in virtù di contratti a tempo determinato a beneficio dei lavoratori immessi in ruolo nella pubblica amministrazione potrebbe dar luogo a una discriminazione alla rovescia a danno dei vincitori di concorso assunti a tempo indeterminato. 18. Tali elementi inducono il giudice del rinvio a chiedersi se la normativa italiana, prevedendo all’articolo 485 del decreto legislativo n. 297, del 16 aprile 1994, una formula degressiva di computo dell’anzianità maturata a titolo di contratti a tempo determinato al fine di evitare una discriminazione alla rovescia nei confronti dei vincitori di concorso della pubblica amministrazione, sia compatibile con la clausola 4 dell’accordo quadro. 19. Date tali circostanze, il Tribunale di Trento (Italia) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se, ai fini dell’applicazione del principio di non discriminazione ex clausola 4 dell’accordo quadro, la circostanza riguardante l’iniziale verifica oggettiva della professionalità, mediante concorso pubblico, con esito positivo, costituisca un fattore riconducibile alle condizioni di formazione, di cui il giudice nazionale deve tener conto al fine di stabilire se sussista la comparabilità tra la situazione del lavoratore a tempo indeterminato e quella del lavoratore a tempo determinato, nonché al fine di accertare se ricorra una ragione oggettiva idonea a giustificare un diverso trattamento tra lavoratore a tempo indeterminato e lavoratore a tempo determinato;


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2) se il principio di non discriminazione ex clausola 4 dell’accordo quadro osti a una norma interna, quale quella dettata dall’articolo 485, comma 1, del decreto legislativo n. 297, del 16 aprile 1994, la quale dispone che, ai fini della determinazione dell’anzianità di servizio al momento dell’immissione in ruolo con contratto a tempo indeterminato, fino a quattro anni il computo dei servizi svolti a tempo determinato si effettua per intero, mentre per quelli ulteriori si riduce di un terzo a fini giuridici e di due terzi a fini economici, in ragione della mancanza, ai fini dello svolgimento di lavoro a tempo determinato, di un’iniziale verifica oggettiva della professionalità, mediante concorso pubblico, con esito positivo; 3) se il principio di non discriminazione ex clausola 4 dell’accordo quadro osti a una norma interna, quale quella dettata dall’articolo 485, comma 1, del decreto legislativo n. 297, del 16 aprile 1994, la quale dispone che ai fini della determinazione dell’anzianità di servizio al momento dell’immissione in ruolo con contratto a tempo indeterminato, fino a quattro anni il computo dei servizi svolti a tempo determinato si effettua per intero, mentre per quelli ulteriori si riduce di un terzo a fini giuridici e di due terzi a fini economici, in ragione dell’obiettivo di evitare il prodursi di discriminazioni alla rovescia in danno dei dipendenti di ruolo assunti a seguito del superamento di un concorso pubblico». Sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale

20. Il governo italiano sostiene che la domanda di pronuncia pregiudiziale è irricevibile a causa della sua mancanza di precisione. Dal momento che il giudice del rinvio non ha delineato i fatti in modo adeguato e sufficientemente preciso, non sarebbe possibile valutare la comparabilità della situazione della ricorrente nel procedimento principale con quella di dipendenti pubblici collocati in una posizione paragonabile e rispondere alle questioni pregiudiziali. 21. A tale riguardo, occorre ricordare che, nell’ambito della cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali istituita dall’articolo 267 TFUE, spetta soltanto al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che esso sottopone alla Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate riguardano l’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire (sentenza del 6 settembre 2016, Petruhhin, C-182/15, EU:C:2016:630, punto 19 e la giurisprudenza ivi citata). 22. Ne consegue che le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevate dal giudice nazionale nel contesto normativo e fattuale che egli

definisce sotto la propria responsabilità, e del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono di una presunzione di rilevanza. Il rifiuto della Corte di statuire su una domanda presentata da un giudice nazionale è possibile solo qualora risulti in maniera manifesta che la richiesta interpretazione del diritto dell’Unione non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale, qualora il problema sia di natura ipotetica, oppure quando la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le sono sottoposte (sentenza del 26 luglio 2017, Persidera, C-112/16, EU:C:2017:597, punto 24 e la giurisprudenza ivi citata). 23. Orbene, nella presente causa, la domanda di pronuncia pregiudiziale contiene una descrizione degli elementi di diritto e di fatto all’origine della controversia di cui al procedimento principale sufficiente per consentire alla Corte di fornire una risposta utile alle questioni sollevate. Tali questioni, che vertono sull’interpretazione della clausola 4 dell’accordo quadro, si inseriscono in una controversia riguardante le condizioni alle quali vengono computati i periodi di anzianità maturati da lavoratori a tempo determinato ai fini del loro inquadramento nella pertinente fascia retributiva al momento della loro assunzione come dipendenti pubblici. Esse presentano quindi un rapporto diretto con l’oggetto del procedimento principale e non sono di natura ipotetica. Del resto, sia la sig.ra Motter sia la Provincia autonoma di Trento, nonché il governo italiano e la Commissione europea, sono stati in grado di presentare le proprie osservazioni sulle questioni poste dal giudice del rinvio. 24. Da quanto precede risulta che la domanda di pronuncia pregiudiziale è ricevibile. Sulle questioni pregiudiziali 25. Con le sue questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la clausola 4 dell’accordo quadro debba essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale come quella di cui al procedimento principale, la quale, ai fini dell’inquadramento di un lavoratore in una categoria retributiva al momento della sua assunzione in base ai titoli come dipendente pubblico di ruolo, tenga conto dei periodi di servizio prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato in misura integrale fino al quarto anno e poi, oltre tale limite, parzialmente, a concorrenza dei due terzi. 26. Al fine di rispondere a tale questione, occorre ricordare che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro vieta che, per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato siano trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili, per il solo fatto di avere un contratto o un rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. Il punto 4 di tale clausola enuncia il medesimo divieto per quan-

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to riguarda i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro (sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646, punto 39). Inoltre, la Corte ha già dichiarato che le norme relative ai periodi di servizio necessari per poter essere classificato in una categoria retributiva rientrano nella nozione di «condizioni di impiego» ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro (sentenza dell’8 settembre 2011, Rosado Santana, C-177/10, EU:C:2011:557, punti 46 e 47). 27. Dalle informazioni fornite alla Corte nell’ambito della presente causa risulta che, a differenza dei docenti a tempo indeterminato assunti mediante concorso, i docenti a tempo determinato immessi in ruolo in base ad una selezione per titoli possono, ai fini del loro inquadramento in una categoria retributiva, vedersi integralmente riconosciuta la loro anzianità di servizio solo per i primi quattro anni di servizio, mentre per gli anni successivi si tiene conto di tale anzianità soltanto nella misura dei due terzi. L’applicazione delle norme nazionali in questione ha quindi avuto come risultato che l’amministrazione ha tenuto conto soltanto di 80 mesi sui 96 effettivamente prestati dalla ricorrente nel procedimento principale in virtù di contratti a tempo determinato, vale a dire circa l’83% dell’anzianità di servizio da essa maturata. 28. Orbene, come risulta dalla formulazione letterale stessa della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, la parità di trattamento si applica solo tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato comparabili. Pertanto, per valutare se tale differenza di trattamento costituisca una discriminazione vietata da detta clausola, occorre esaminare in un primo tempo la comparabilità delle situazioni in esame e poi, in un secondo tempo, l’esistenza di un’eventuale giustificazione oggettiva. Sulla comparabilità delle situazioni in esame 29. Al fine di valutare se le persone interessate esercitino un lavoro identico o simile, ai sensi dell’accordo quadro, occorre, conformemente alla clausola 3, punto 2, e alla clausola 4, punto 1, di quest’ultimo, valutare se, tenuto conto di un insieme di fattori, come la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego, si possa ritenere che tali persone si trovino in una situazione comparabile (sentenza del 5 giugno 2018, Montero Mateos, C-677/16, EU:C:2018:393, punto 51 e la giurisprudenza ivi citata). 30. La natura delle mansioni svolte dalla ricorrente nel procedimento principale durante gli anni in cui ha lavorato come docente nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato e la qualità dell’esperienza che essa ha acquisito a tale titolo fanno parte dei criteri che permettono di stabilire se essa si trovi in una situazione comparabile a quella di un dipendente pubblico assunto tramite concorso e che abbia maturato la stessa anzianità (v., in tal senso, sentenza del

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18 ottobre 2012, Valenza e a., da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646, punto 44). 31. Nel caso di specie, dalle indicazioni fornite dal giudice del rinvio risulta che le mansioni svolte dalla ricorrente nel procedimento principale durante gli anni in cui ha lavorato nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato erano identiche a quelle che le sono state affidate in qualità di dipendente pubblico di ruolo. 32. Consta tuttavia che la ricorrente nel procedimento principale non ha vinto un concorso generale per l’accesso alla pubblica amministrazione. Il giudice del rinvio si chiede se una simile circostanza oggettiva implichi minori competenze professionali, tali da tradursi, in particolare durante i periodi iniziali di insegnamento, in una qualità delle prestazioni fornite inferiore rispetto a quella dei dipendenti pubblici di ruolo selezionati mediante un concorso. 33. Si deve tuttavia considerare che il fatto di non aver vinto un concorso amministrativo non può implicare che la ricorrente nel procedimento principale, al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, non si trovasse in una situazione comparabile a quella di dipendenti pubblici di ruolo, dato che i requisiti stabiliti dalla procedura nazionale di assunzione per titoli mirano appunto a consentire l’immissione in ruolo nella pubblica amministrazione di lavoratori a tempo determinato con un’esperienza professionale che permette di ritenere che la loro situazione possa essere assimilata a quella dei dipendenti pubblici di ruolo (v., in tal senso, sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646, punto 45). 34. Peraltro, l’ipotesi secondo cui la qualità delle prestazioni dei docenti neo-assunti a tempo determinato sarebbe inferiore a quella dei vincitori di concorso non appare conciliabile con la scelta del legislatore nazionale di riconoscere integralmente l’anzianità maturata nei primi quattro anni di esercizio dell’attività professionale dei docenti a tempo determinato. Inoltre, una simile ipotesi, se risultasse verificata, comporterebbe da parte delle autorità nazionali l’organizzazione di concorsi sufficientemente frequenti al fine di provvedere alle esigenze di assunzione. Orbene, non sembra che ciò accada, dato che, dalle osservazioni presentate alla Corte dalla ricorrente nel procedimento principale, risulta che i concorsi di selezione sono organizzati solo sporadicamente, tenendo presente che gli ultimi hanno avuto luogo negli anni 1999, 2012 e 2016. Una situazione del genere, la cui verifica spetta al giudice del rinvio, sembra difficilmente compatibile con la tesi del governo italiano secondo cui le prestazioni dei docenti a tempo determinato sono inferiori rispetto a quelle dei docenti a tempo indeterminato assunti mediante concorso. 35. Da tali elementi risulta che le situazioni in questione sono comparabili, fatte salve le verifiche di natura fattuale che spetta al giudice del rinvio effettuare.


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Occorre pertanto determinare se sussista una ragione oggettiva che giustifichi il mancato computo integrale dei periodi di servizio di durata superiore a quattro anni prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato in sede di inquadramento nella rispettiva categoria retributiva dei dipendenti pubblici dell’insegnamento secondario assunti in base ai titoli. Sulla sussistenza di una giustificazione oggettiva 36. Secondo una costante giurisprudenza della Corte, la nozione di «ragioni oggettive» ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro deve essere intesa nel senso che essa non consente di giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato con il fatto che tale differenza è prevista da una norma nazionale generale e astratta, quale una legge o un contratto collettivo (sentenza del 5 giugno 2018, Montero Mateos, C-677/16, EU:C:2018:393, punto 56 e la giurisprudenza ivi citata). 37. Detta nozione richiede che la disparità di trattamento constatata sia giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti, che contraddistinguono la condizione di impiego di cui trattasi, nel particolare contesto in cui essa si inscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale disparità risponda a una reale necessità, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria. I suddetti elementi possono risultare segnatamente dalla particolare natura delle mansioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro (sentenza del 5 giugno 2018, Montero Mateos, C-677/16, EU:C:2018:393, punto 57 e la giurisprudenza ivi citata). 38. Il richiamo alla mera natura temporanea del lavoro del personale della pubblica amministrazione non è conforme a tali requisiti e non può dunque configurare una «ragione oggettiva» ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro. Infatti, ammettere che la mera natura temporanea di un rapporto di lavoro sia sufficiente a giustificare una differenza di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato svuoterebbe di ogni sostanza gli obiettivi della direttiva 1999/70 nonché dell’accordo quadro ed equivarrebbe a perpetuare il mantenimento di una situazione svantaggiosa per i lavoratori a tempo determinato (sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646, punto 52). 39. Così la Corte ha già statuito che la clausola 4 dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, la quale escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di un’autorità pubblica siano presi in considerazione per determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, da

parte di questa medesima autorità, come dipendente di ruolo nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro, a meno che la citata esclusione sia giustificata da «ragioni oggettive» ai sensi dei punti 1 e/o 4 della clausola di cui sopra. Il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia prestato detti periodi di servizio in base a un contratto o a un rapporto di lavoro a tempo determinato non configura una ragione oggettiva di tal genere (sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646, punto 71). 40. Nel caso di specie, per giustificare la differenza di trattamento allegata nel procedimento principale, il governo italiano sostiene che la misura in esame in tale procedimento, contrariamente a quella in discussione nella causa decisa dalla sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a. (da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646), riconosce interamente la carriera pregressa dei lavoratori a tempo determinato al momento della loro assunzione come dipendenti pubblici di ruolo. 41. È vero che la normativa nazionale in esame nel procedimento principale riconosce integralmente tale carriera. Tuttavia, essa non lo fa in modo uniforme, dal momento che l’anzianità maturata dopo i primi quattro anni è computata solo per i due terzi. 42. A tale riguardo, il governo italiano spiega una siffatta limitazione con la necessità di rispecchiare il fatto che l’esperienza dei docenti a tempo determinato non può essere interamente comparata a quella dei loro colleghi che sono dipendenti pubblici di ruolo assunti tramite concorso. Contrariamente a questi ultimi, i docenti a tempo determinato sarebbero spesso chiamati ad effettuare prestazioni di sostituzione temporanea e a insegnare svariate materie. Inoltre, essi sarebbero soggetti a un sistema di computo del tempo effettuato che differisce da quello applicabile ai dipendenti pubblici di ruolo. Alla luce di tali differenze, sia da un punto di vista qualitativo sia da un punto di vista quantitativo, e al fine di evitare qualsiasi discriminazione alla rovescia a danno dei dipendenti pubblici assunti mediante concorso, il governo italiano ritiene giustificato applicare un coefficiente di riduzione al momento di computare l’anzianità di servizio maturata nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato. 43. Occorre ricordare che gli Stati membri, in considerazione del margine di discrezionalità di cui dispongono per quanto riguarda l’organizzazione delle loro amministrazioni pubbliche, possono, in linea di principio, senza violare la direttiva 1999/70 o l’accordo quadro, stabilire le condizioni per l’accesso alla qualifica di dipendente pubblico di ruolo nonché le condizioni di impiego di siffatti dipendenti di ruolo, in particolare qualora costoro fossero in precedenza impiegati da dette amministrazioni nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato (sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646, punto 57).

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44. Tuttavia, nonostante tale margine di discrezionalità, l’applicazione dei criteri che gli Stati membri stabiliscono deve essere effettuata in modo trasparente e deve poter essere controllata al fine di impedire qualsiasi trattamento sfavorevole dei lavoratori a tempo determinato sulla sola base della durata dei contratti o dei rapporti di lavoro che giustificano la loro anzianità e la loro esperienza professionale (sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646, punto 59). 45. Qualora un simile trattamento differenziato derivi dalla necessità di tener conto di esigenze oggettive attinenti all’impiego che deve essere ricoperto mediante la procedura di assunzione e che sono estranee alla durata determinata del rapporto di lavoro che intercorre tra il lavoratore e il suo datore di lavoro, detto trattamento può essere giustificato ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro (v., in tal senso, sentenza dell’8 settembre 2011, Rosado Santana, C-177/10, EU:C:2011:557, punto 79). 46. A questo proposito, la Corte ha già riconosciuto che talune differenze di trattamento tra i dipendenti pubblici di ruolo assunti al termine di un concorso generale e quelli assunti dopo aver acquisito un’esperienza professionale sulla base di contratti di lavoro a tempo determinato possono, in linea di principio, essere giustificate dalle diverse qualifiche richieste e dalla natura delle mansioni di cui i predetti devono assumere la responsabilità (sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646, punto 60). 47. Pertanto, gli obiettivi invocati dal governo italiano consistenti, da un lato, nel rispecchiare le differenze nell’attività lavorativa tra le due categorie di lavoratori in questione e, dall’altro, nell’evitare il prodursi di discriminazioni alla rovescia nei confronti dei dipendenti pubblici di ruolo assunti a seguito del superamento di un concorso generale, possono essere considerati come configuranti una «ragione oggettiva», ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro, nei limiti in cui essi rispondano a una reale necessità, siano idonei a conseguire l’obiettivo perseguito e siano necessari a tale fine (v., in tal senso, sentenza del 18 ottobre 2012, Valenza e a., da C-302/11 a C-305/11, EU:C:2012:646, punto 62). 48. Fatte salve le verifiche rientranti nella competenza esclusiva del giudice del rinvio, si deve ammettere che gli obiettivi invocati dal governo italiano nel caso di specie possono essere legittimamente considerati rispondenti a una reale necessità. 49. Risulta infatti dalle osservazioni di tale governo che la normativa nazionale di cui al procedimento principale mira, in parte, a rispecchiare le differenze tra l’esperienza acquisita dai docenti assunti mediante concorso e quella acquisita dai docenti assunti in base ai titoli, a motivo della diversità delle materie, delle condizioni e degli orari in cui questi ultimi devono intervenire, in particolare nell’ambito di incarichi di so-

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stituzione di altri docenti. Il governo italiano sostiene che, a causa dell’eterogeneità di tali situazioni, le prestazioni fornite dai docenti a tempo determinato per un periodo di almeno 180 giorni in un anno, vale a dire circa due terzi di un anno scolastico, sono computate dalla normativa nazionale come annualità complete. Fatta salva la verifica di tali elementi da parte del giudice del rinvio, un siffatto obiettivo appare conforme al principio del «pro rata temporis» cui fa espressamente riferimento la clausola 4, punto 2, dell’accordo quadro. 50. Inoltre, si deve constatare che la mancata verifica iniziale delle competenze mediante un concorso e il rischio di svalutazione di tale qualifica professionale non impone necessariamente di escludere una parte dell’anzianità maturata a titolo di contratti di lavoro a tempo determinato. Tuttavia, giustificazioni di questo genere possono, in determinate circostanze, essere considerate rispondenti a un obiettivo legittimo. A tale riguardo, occorre rilevare che dalle osservazioni del governo italiano risulta che l’ordinamento giuridico nazionale attribuisce una particolare rilevanza ai concorsi amministrativi. La Costituzione italiana, al fine di garantire l’imparzialità e l’efficacia dell’amministrazione, prevede infatti, al suo articolo 97, che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si acceda mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. 51. Alla luce di tali elementi, non si può ritenere che una normativa nazionale come quella di cui al procedimento principale, la quale consente di tener conto dell’anzianità eccedente i quattro anni maturata nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato solo nella misura dei due terzi, vada oltre quanto è necessario per conseguire gli obiettivi precedentemente esaminati e raggiungere un equilibrio tra i legittimi interessi dei lavoratori a tempo determinato e quelli dei lavoratori a tempo indeterminato, nel rispetto dei valori di meritocrazia e delle considerazioni di imparzialità e di efficacia dell’amministrazione su cui si basano le assunzioni mediante concorso. 52. Ciò premesso, al fine di fornire una risposta utile al giudice del rinvio, si deve rilevare che dagli elementi a disposizione della Corte emerge che il danno subito a causa della discriminazione allegata dalla ricorrente nel procedimento principale rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato sembra risultare dal fatto che la sua categoria retributiva non è stata determinata applicando le disposizioni nazionali vigenti alla data della sua assunzione a tempo indeterminato, il 1° settembre 2011, bensì applicando disposizioni successive vigenti alla data della decisione con la quale l’amministrazione ha proceduto alla ricostruzione della sua carriera, vale a dire l’8 settembre 2014. Sebbene, alla data della sua assunzione a tempo indeterminato, avesse maturato un’anzianità superiore a tre anni che consentiva di inquadrarla nella seconda fascia stipendiale allora in vigore, la ricorrente nel procedimento principale non ha beneficiato dell’applicazione delle


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disposizioni transitorie connesse alla modifica di tale fascia a decorrere dal 1° gennaio 2012, nonostante dette disposizioni transitorie fossero volte ad assicurare, ai lavoratori che in tale data rientravano nella seconda fascia, il mantenimento del relativo trattamento economico. Poiché la Corte non è stata chiamata a pronunciarsi su questo punto dal giudice del rinvio, spetta a quest’ultimo verificare, se del caso, se una siffatta applicazione retroattiva del nuovo inquadramento retributivo sia conforme ai principi della certezza del diritto e della tutela del legittimo affidamento. 53. Ne consegue che, fatte salve le verifiche che spettano al giudice del rinvio, gli elementi invocati dal governo italiano per giustificare la differenza di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato costituiscono una «ragione oggettiva» ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro. 54. Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alle questioni sollevate dichiarando che la clausola 4 dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale come quella di cui al procedimento principale, la quale, ai fini dell’inquadra-

mento di un lavoratore in una categoria retributiva al momento della sua assunzione in base ai titoli come dipendente pubblico di ruolo, tenga conto dei periodi di servizio prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato in misura integrale fino al quarto anno e poi, oltre tale limite, parzialmente, a concorrenza dei due terzi. Omissis. Per questi motivi, la Corte (Sesta Sezione) dichiara: La clausola 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale come quella di cui al procedimento principale, la quale, ai fini dell’inquadramento di un lavoratore in una categoria retributiva al momento della sua assunzione in base ai titoli come dipendente pubblico di ruolo, tenga conto dei periodi di servizio prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato in misura integrale fino al quarto anno e poi, oltre tale limite, parzialmente, a concorrenza dei due terzi.

Supplenti della scuola e normativa UE sui contratti a termine: la Corte di giustizia salva la legge italiana che prevede, al passaggio in ruolo, il conteggio parziale dell’anzianità di servizio maturata Sommario : 1. Premessa. La questione di conformità al principio di non discriminazione, dalle corti di merito alla Corte UE. – 2. Il caso. – 3. L’iter argomentativo della Corte di giustizia: il vaglio sulla comparabilità dei soggetti. – 4. Dal vaglio di comparabilità alla verifica sulle cause di giustificazione: criticità.

Sinossi. La Corte di giustizia torna a occuparsi della normativa italiana sul rapporto di lavoro dei docenti della scuola pubblica e alla sua conformità con le regole europee dettate dalla direttiva 1999/70/CE in materia di contratti a termine. La disposizione di cui si discute è l’art. 485 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, che prevede, per i supplenti, al passaggio in ruolo, un conteggio parziale dell’anzianità di servizio maturata. Per la Corte, la disposizione non viola

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il principio di non discriminazione: la disparità di trattamento rispetto ai lavoratori assunti a tempo indeterminato mediante concorso è da ritenersi, infatti, giustificata da ragioni oggettive.

1. Premessa. La questione di conformità al principio di non

discriminazione, dalle corti di merito alla Corte UE.

La Corte di giustizia torna a occuparsi della normativa italiana sul rapporto di lavoro dei docenti della scuola e alla sua conformità con le regole europee dettate dalla direttiva 1999/70/CE in materia di contratti a termine. Se in Mascolo la questione riguardava la reiterazione dei contratti e la violazione della clausola anti-abusiva1, ora il tema si concentra sul principio di parità di trattamento, segnatamente con riguardo alla ricostruzione di carriera dei supplenti della scuola pubblica al passaggio in ruolo. La norma di cui si discute è l’art. 485 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, secondo cui, all’assunzione a tempo indeterminato, l’anzianità di servizio dei docenti maturata nella fase pre-ruolo può essere riconosciuta in via parziale, dovendo il computo avvenire per intero solo per i primi quattro anni di contratti a termine, poi in misura ridotta di un terzo ai fini giuridici, di due terzi ai fini economici. La questione della conformità della norma al principio di non discriminazione è già stata affrontata da alcune pronunce di merito, che hanno riconosciuto il diritto del lavoratore alla ricostruzione integrale della carriera, con disapplicazione della disposizione interna, ritenuta in contrasto con la clausola n. 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva sui contratti a termine. In particolare, evidenziando lo scarto rispetto ai dettami pronunciati dalla Cassazione nella sentenza n. 10127/20122, da circoscrivere al tema dell’obbligo dello Stato di prevenire abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a termine, alcuni giudici di merito hanno escluso la sussistenza di ragioni oggettive in grado di legittimare la disparità di trattamento prevista ex lege. Partendo dal presupposto che i docenti pre-ruolo e di ruolo, svolgendo le medesime mansioni e assumendo gli stessi obblighi, dovrebbero considerarsi completamente assimilabili, secondo tali giudici «l’unico elemento differenziale» può essere individuato nel «sistema di reclutamento e ciò che ad esso consegue». Questo

1

Cfr. ex multis Calafà, Il dialogo “multilevel” tra corti e la “dialettica prevalente”: le supplenze scolastiche al vaglio della Corte di giustizia, in RIDL, 2015, II, 336; Menghini, Sistema delle supplenze e parziale contrasto con l’accordo europeo: ora cosa succederà?, in RIDL, 2015, II, 343; Aimo, Presupposti, confini ed effetti della sentenza Mascolo sul precariato scolastico, in RGL, 2015, II, 177; F. Ghera, I precari della scuola tra Corte di giustizia, Corte costituzionale e giudici comuni, in G. Cost., 2015, 1, 158; Nunin, “Tanto tuonò che piovve”: la sentenza “Mascolo” sull’abuso del lavoro a termine nel pubblico impiego, in LG, 2015, 146; Pinto, Il reclutamento scolastico tra abuso dei rapporti a termine e riforme organizzative, in LPA, 2014, 915. In prospettiva più generale, cfr. Bolego, Tecniche di prevenzione e rimedi contro l’abuso dei contratti a termine nel settore pubblico, in Labor, 2017, 1, 21. 2 Cass., 20 giugno 2012, n.10127, in RIDL, 2012, II, 870, con nota di Fiorillo.

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elemento, tuttavia, «attiene ad una condizione esterna al contenuto della prestazione e alla natura delle funzioni espletate dal personale non di ruolo, prestazioni del tutto equivalenti a quelle del personale di ruolo»3. Esso pertanto non può integrare una ragione oggettiva scriminante, ossia, in base alla giurisprudenza della Corte di giustizia4, un elemento preciso e concreto, che contraddistingua il rapporto di impiego di cui trattasi, rivelando la particolare natura delle mansioni da espletare con il contratto a termine e le caratteristiche inerenti ad esse, ovvero il perseguimento di una legittima finalità di politica sociale. In senso diametralmente opposto alla conclusione raggiunta da questa recente giurisprudenza di merito, con la sentenza in commento la Corte di giustizia dichiara la conformità della disposizione interna al diritto UE riconoscendo, in particolare, proprio la sussistenza di ragioni oggettive legittimanti la disparità di trattamento ivi prevista.

2. Il caso. La sig. Muller è stata assunta dalla Provincia autonoma di Trento come docente di lettere di scuola superiore5, prima in forza di otto contratti a termine della durata corrispondente a ciascun anno scolastico, poi con un contratto a tempo indeterminato a partire dall’a.a. 2011/12. Al momento del passaggio in ruolo, in conformità con il quadro normativo applicabile, la Provincia ha proceduto alla ricostruzione di carriera della lavoratrice computando il periodo pre-ruolo in misura ridotta (solo l’83% dell’anzianità di servizio maturata) con conseguente inquadramento della lavoratrice nella prima fascia retributiva e non, invece, nella seconda, come sarebbe accaduto laddove il calcolo fosse avvenuto per intero per tutti gli anni di servizio, ossia per chi assunto, sin dall’inizio di detto periodo, a tempo indeterminato. La sig. Muller ha proposto ricorso al Tribunale di Trento per l’accertamento del diritto al computo per intero dei periodi di servizio pre-ruolo ai fini della ricostruzione di carriera. Il Tribunale, pur propendendo per una soluzione negativa, quindi difforme da quella raggiunta dalla sopracitata giurisprudenza di merito, ha deciso di sollevare una questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia relativa alla conformità della normativa interna

3

App. Bari, 7 gennaio 2016, n. 3041, richiamata in Trib. Bari, 11 maggio 2016, n. 2465; in senso conforme anche App. Bari, 12 maggio 2017, n. 1216, inedite a quanto consta. 4 Le summenzionate pronunce del Tribunale e Corte di Appello di Bari richiamano, in particolare, C. giust., 9 luglio 2015, causa C-177/14, María José Regojo Dans c. Consejo de Estado, in Racc. dig.; C. giust., 7 marzo 2013, causa C- 393/11, Autorità per l’energia elettrica e il gas c. Antonella Bertazzi e a., in Racc. dig.; C. giust., 18 ottobre 2012, causa C-302/11, Rosanna Valenza e altri c. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in Racc. dig.; C. giust., 8 settembre 2011, causa C-177/10, Francisco Javier Rosado Santana c. Consejería de Justicia y Administración Pública de la Junta de Andalucía, in Racc. 2011 I-07907; C. giust., 18 marzo 2011, causa C-273/10, David Montoya Medina c. Fondo de Garantía Salarial e Universidad de Alicante, in Racc. 2011 I-00032. 5 Ai sensi del d.p.r. 15 luglio 1988 n. 405, le attribuzioni dell’Amministrazione dello Stato in materia di istruzione elementare e secondaria sono esercitate, nell’ambito del proprio territorio, dalla provincia di Trento.

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applicata al principio di non discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato sancito dalla direttiva 1999/70/CE. Posto, infatti, che il servizio prestato nella fase pre-ruolo è considerato dal legislatore italiano diversamente da quello prestato nella fase di ruolo e, di conseguenza, il lavoratore a termine che passa a ruolo subisce un trattamento differenziato rispetto a chi, in quello stesso periodo, ha lavorato a tempo indeterminato, il Tribunale ha chiesto alla Corte se tale disparità possa considerarsi legittima alla luce del principio di non discriminazione di cui alla clausola n. 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, o se, al contrario, vi sia un contrasto che autorizzi la non applicazione della normativa interna, come già avvenuto in altri sedi giudiziarie.

3. L’iter argomentativo della Corte di giustizia: il vaglio sulla

comparabilità dei soggetti.

Il ragionamento della Corte segue la verifica di sussistenza, nel caso de quo, degli elementi giuridici che compongono la fattispecie discriminatoria prevista dalla clausola n. 4 dell’Accordo quadro: gli elementi costitutivi, rappresentati dalla disparità di trattamento di un lavoratore a termine rispetto a un lavoratore a tempo indeterminato comparabile e dal nesso di causalità tra tale trattamento e il tipo contrattuale, e gli elementi impeditivi, dati dalla ricorrenza di ragioni oggettive che giustifichino e legittimino detta disparità6. Rispetto agli elementi costitutivi, la Corte anzitutto non accoglie l’argomento proposto dalla Provincia di Trento nel processo a quo in merito alla scelta del termine di paragone su cui far vertere il giudizio di legittimità del trattamento della lavoratrice. In particolare, per la Provincia il soggetto comparabile dovrebbe essere individuato in un altro lavoratore di ruolo che abbia parimenti prestato servizio pre-ruolo presso le scuole provinciali e non, invece, in un lavoratore che, nel medesimo periodo, abbia sempre lavorato in forza di un contratto a tempo indeterminato. Trattandosi, quindi, per la Provincia, di confronto o tra lavoratori a termine passati a ruolo o tra lavoratori di ruolo con precedente servizio pre-ruolo, il principio di non discriminazione di cui alla direttiva, che prevede, invece, un confronto tra lavoratori a termine, da un lato, e lavoratori a tempo indeterminato, dall’altro, non sarebbe applicabile. Come evidenziato dal giudice a quo nell’ordinanza di remissione, già nei precedenti casi Rosado Santana e Valenza i giudici di Lussemburgo hanno spiegato che «la discrimi-

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Per un’analisi della normativa e giurisprudenza UE sui contratti a termine, cfr. ex multis Corazza, Il lavoro a termine nel diritto dell’Unione europea, in Del Punta, Romei (a cura di), I rapporti di lavoro a termine, Giuffré, 2014, 1; Alessi, Il lavoro a termine nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in WP D’Antona, Int., n. 93/2012; Sciarra, Il lavoro a tempo determinato nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Un tassello nella ‘modernizzazione’ del diritto del lavoro, WP D’Antona, Int., n. 52/2007; Gottardi, La giurisprudenza della Corte di Giustizia sui contratti di lavoro a termine e il suo rilievo per l’ordinamento italiano, in RGL, 2012, I, 721; Bell, The principle of non discrimination within the fixed-term work directive, in Moreau (a cura di), Before and after the economic crisis, Edward Elgar, 2011, 155; Giubboni, La protezione dei lavoratori non-standard nel diritto dell’Unione europea, in RGL, 2011, I, 265.

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nazione contraria alla clausola n. 4 dell’Accordo quadro […] riguarda i periodi di servizio compiuti in qualità di lavoratrici a tempo determinato», senza che alcun rilievo assuma «la circostanza che esse nel frattempo siano divenute lavoratrici a tempo indeterminato»7. Anche in questo caso, nell’affermare la ricevibilità della domanda, la Corte di giustizia conferma che la controversia riguarda «le condizioni alle quali vengono computati i periodi di anzianità maturati da lavoratori a tempo determinato ai fini del loro inquadramento nella pertinente fascia retributiva al momento della loro assunzione come dipendenti pubblici» (par. 23). Posta l’applicabilità del principio di non discriminazione8, il ragionamento si concentra quindi sulla verifica degli elementi costitutivi della fattispecie discriminatoria, anzitutto la comparabilità tra la situazione del lavoratore a termine che poi passa a ruolo e quella del lavoratore assunto a tempo indeterminato. Confermando la costante giurisprudenza sul punto9, e in linea con quanto sancito dalla clausola n. 3 dell’Accordo quadro10, la Corte spiega come la comparabilità sussista laddove le parti poste a confronto esercitino un lavoro identico o simile e come tale carattere si possa accertare tenendo conto di un insieme di fattori, quali «la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego» (par. 29). Il fatto che il lavoratore assunto sin dall’inizio a tempo indeterminato abbia, a differenza della lavoratrice a termine che passa a ruolo per titoli, vinto un concorso generale per l’accesso alla pubblica amministrazione non incide sulla valutazione di comparabilità. Da un lato, infatti, rileva la Corte, è proprio la procedura nazionale di assunzione per titoli che presuppone l’assimilabilità della situazione del lavoratore a termine con un’esperienza professionale a quella dei dipendenti pubblici di ruolo (par. 33). Dall’altro, se le prestazioni dei docenti a tempo determinato fossero inferiori rispetto a quelle dei docenti a tempo indeterminato assunti mediante concorso, sarebbe del tutto contraddittoria la scelta del legislatore italiano di equiparare integralmente il periodo preruolo a quello di ruolo addirittura al suo inizio, nei primi quattro anni (par. 34).

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Cfr. C. giust., 8 settembre 2011, cit. e C. giust., 18 ottobre 2012, cit. Laddove avvia la verifica sulle questioni pregiudiziali, la Corte precisa altresì che «le norme relative ai periodi di servizio necessari per poter essere classificato in una categoria retributiva rientrano nella nozione di “condizioni di impiego» di cui alla clausola n. 4, punto 1, dell’Accordo quadro. 9 Da ultimo, C. giust., 5 giugno 2018, causa C-677/16, Lucía Montero Mateos, par. 51 e C. giust., 5 giugno 2018, causa C-574/16, Grupo Norte Facility SA, par. 48 entrambe in http://curia.europa.eu; in precedenza, ex multis, Corte giust., 18 marzo 2011, cit. La Corte evidenzia, a fini della comparabilità, la necessità che il «contenuto dell’attività delle persone interessate» sia sostanzialmente lo stesso (C. giust., 1 marzo 2012, causa C-393/10, O’Brien, par. 61-62, in http://curia.europa.eu) ovvero la funzione sia «identica o analoga» (C. giust., 9 luglio 2015, causa C-177/14, Regojo Dans, par. 51-52, in http://curia.europa.eu), «secondo un’accezione ampia della nozione di lavoro “identico o simile”» (Alaimo, Il lavoro a termine tra modello europeo e regole nazionali, Giappichelli, 2017, 71). 10 La clausola n. 3 dell’Accordo quadro prevede che «Ai fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo indeterminato comparabile” indica un lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di durata indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze. In assenza di un lavoratore a tempo indeterminato comparabile nello stesso stabilimento, il raffronto si dovrà fare in riferimento al contratto collettivo applicabile o, in mancanza di quest’ultimo, in conformità con la legge, i contratti collettivi o le prassi nazionali». 8

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4. Dal vaglio di comparabilità alla verifica sulle cause di giustificazione: criticità.

Sussistendo una differenza di trattamento tra soggetti equiparabili, espressamente stabilita dalla legge e posta in esclusiva connessione con la natura a termine del contratto, per la Corte sono integrati tutti gli elementi costitutivi della fattispecie discriminatoria. Il vaglio di legittimità della norma si sposta, quindi, sulla verifica della sussistenza di elementi impeditivi, ossia di una giustificazione oggettiva scriminante11. Ed è qui che il ragionamento della Corte, nell’accogliere le osservazioni del governo italiano a favore della sussistenza di detta giustificazione, perde di limpidezza. La Corte spiega che una disparità di trattamento può ritenersi giustificata qualora risponda a una reale necessità e obiettivo legittimo, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e necessaria rispetto a tal fine. Come evidenziato dalla consolidata giurisprudenza della Corte, anche in relazione all’equivalente formula utilizzata nella clausola anti-abusiva, le ragioni oggettive sussistono laddove ricorrano circostanze/elementi «precisi e concreti» che contraddistinguono «una determinata attività»/«rapporto di impiego», tali da giustificare, «in tale peculiare contesto», la disparità di trattamento (ovvero, rispetto alla normativa anti-abuso, l’utilizzo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato). «Dette circostanze possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad esse inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro»12. Nel caso di specie, gli obiettivi legittimi sono individuati «da un lato, nel rispecchiare le differenze nell’attività lavorativa tra le due categorie di lavoratori in questione e, dall’altro, nell’evitare il prodursi di discriminazioni alla rovescia nei confronti dei dipendenti pubblici di ruolo assunti a seguito del superamento di un concorso generale» (par. 47)13. È’ sì vero che nell’interpretazione costante della Corte di giustizia si registra il rischio di una sovrapposizione, quantomeno parziale, tra gli elementi utilizzati per verificare la comparabilità tra i soggetti interessati dalla disparità di trattamento e quelli che consentono di accertare la sussistenza di «ragioni oggettive» scriminanti detta disparità. Nel primo caso, infatti, tra i vari fattori, è anche «la natura del lavoro» a consentire di verificare se il

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Cfr. Borelli, Principi di non discriminazione e frammentazione del lavoro, Giappichelli, 2007, la quale, distinguendo i modelli di giudizio antidiscriminatorio presenti nel diritto UE, evidenzia la differenza tra lo strict scrutiny a cui sono riconducibili i principi sanciti nel Trattato e le direttive cd. di nuova generazione, e il soft scrutiny, caratterizzante, invece, le direttive sui lavori non standard. 12 Da ultimo C. giust., 25 ottobre 2018, causa C‑331/17, Sciotto, par. 39; C. giust., 28 febbraio 2018, causa C-46/17, Hubertus John, par. 53; rispetto al principio di parità, cfr. C. giust., 14 settembre 2016, causa C-596/14, Porras, par. 45, tutte in http://curia.europa.eu. 13 Già in Valenza e in AEEG la Corte aveva riconosciuto che l’obiettivo di evitare il prodursi di discriminazioni alla rovescia in danno dei dipendenti di ruolo assunti a seguito di concorso pubblico potesse costituire una «ragione oggettiva» ai sensi della clausola 4 dell’accordo quadro. In tale sede, tuttavia, l’esclusione totale del computo dell’anzianità pregressa al momento del passaggio in ruolo era stata considerata una misura sproporzionata e la normativa non aveva superato il vaglio di conformità. Cfr. Alessi, Il principio di non discriminazione nei rapporti di lavoro atipici: spunti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, in Bonardi (a cura di), Eguaglianza e divieti di discriminazione nell’era del diritto del lavoro derogabile, Ediesse, 2017, 99; Franza, Anzianità di servizio e lavoro pubblico a termine: la scure del divieto di discriminazione sulla stabilizzazione del rapporto, in LPA, 2018, 195.

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lavoro, ai sensi della clausola n. 3 dell’Accordo quadro, è «identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze». Nel secondo, la «speciale natura delle funzioni»/mansioni e le caratteristiche ad esse inerenti possono comportare circostanze/elementi «precisi e concreti» atti a contraddistinguere «una determinata attività»/«rapporto di impiego» e tali da giustificare, «in tale peculiare contesto», la disparità di trattamento. Per scongiurare il rischio di una sovrapposizione tra i due vagli e quindi una inevitabile concatenazione del secondo al primo, quantomeno nel caso in cui il giudizio sulla causa di giustificazione si connetta alle caratteristiche inerenti alla mansione, si potrebbe evidenziare la seguente differenza: mentre ai fini della comparabilità a rilevare è la natura in sé dell’attività lavorativa svolta, che deve essere identica o assimilabile, ai fini dell’esimente a rilevare è la specialità o particolarità di tale natura, tale da implicare, nel concreto contesto in questione, una modalità di svolgimento o una caratterizzazione della funzione diverse a seconda che ci si trovi nell’ambito di un contratto a termine o a tempo indeterminato. Il confine è certamente sottile14 e non è un caso che nell’ordinanza di rimessione i diversi argomenti utilizzati dal Tribunale per evidenziare le differenze tra prestazioni pre-ruolo e di ruolo fossero proposti come alternativamente volti a escludere la comparabilità dei soggetti ovvero a costituire una ragione oggettiva legittimante il trattamento differenziato. Nel ragionamento della Corte, tuttavia, desta qualche perplessità il fatto che gli stessi argomenti utilizzati per confermare la comparabilità dei lavoratori sottoposti al trattamento differenziato siano poi capovolti per affermare la sussistenza della causa di giustificazione della disparità di trattamento. La Corte, infatti, accogliendo le osservazioni del governo italiano, individua come esigenze oggettive attinenti all’impiego, in grado di giustificare la disparità di trattamento, «le differenze tra l’esperienza acquisita dai docenti assunti mediante concorso e quella acquisita dai docenti assunti in base ai titoli, a motivo della diversità delle materie, delle condizioni e degli orari in cui questi ultimi devono intervenire, in particolare nell’ambito di incarichi di sostituzione di altri docenti» (par. 49). Non solo: considera come rispondente a un obiettivo legittimo la rilevanza data alla «mancata verifica iniziale delle competenze mediante un concorso», soprattutto nel contesto italiano «che attribuisce una particolare rilevanza ai concorsi amministrativi», ai fini della garanzia di imparzialità ed efficacia di cui all’art. 97 Cost. La Corte precisa che, per quanto il riconoscimento parziale dell’anzianità maturata non sia una soluzione necessitata dal perseguimento di quest’ultimo obiettivo, la stessa d’altra parte può ritenersi non «vada oltre quanto è necessario per conseguire gli obiettivi precedentemente esaminati e raggiungere un equilibrio tra i legittimi interessi dei lavoratori a tempo determinato e quelli dei lavoratori a tempo indeterminato, nel rispetto dei valori di meritocrazia e delle considerazioni di imparzialità e di efficacia dell’amministrazione su cui si basano le assunzioni mediante concorso» (par. 51).

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Si rilevi come, nel giudizio antidiscriminatorio per fattori collegati all’identità soggettiva della persona, previsto nelle Dir. nn. 2000/43/CE, 2000/78/CE e 2006/54/CE, il rischio di sovrapposizione e confusione è allontanato dal maggior grado di dettaglio normativo: il vaglio sulle cause di giustificazione, in caso di discriminazione diretta, è ben più vincolato e stringente, dovendo vertere sull’accertamento della natura essenziale e determinante della caratteristica, correlata al fattore di rischio, per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

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In definitiva, data la necessità di rispecchiare le differenze nell’attività lavorativa espletata e di non svalutare la qualifica professionale ottenuta mediante concorso, ciò costituendo una ragione oggettiva in grado di scriminare la disparità di trattamento disposta, per la Corte la normativa italiana è legittima e conforme al principio di non discriminazione stabilito dalla direttiva sui contratti a termine. Nel ragionamento seguito nella sentenza, non si comprende, tuttavia, come la qualità dell’esperienza acquisita dai docenti nella fase pre-ruolo sia prima assimilata a quella dei docenti in ruolo, per affermare la comparabilità dei soggetti, e poi considerata differente e minore, per giustificare la disparità di trattamento. Ancora, non si comprende come la previsione di un calcolo integrale dell’anzianità nei primi quattro anni pre-ruolo sia individuata, inizialmente, come elemento a supporto della suddetta equiparazione, poi, in un secondo momento, come parte di una soluzione proporzionata per rispondere alle differenze nell’esperienza maturata. Infine, se in prima battuta la mancata verifica iniziale delle competenze mediante un concorso non è considerata un fattore in grado di incidere sull’assimilazione tra l’esperienza professionale del lavoratore pre-ruolo e quella del lavoratore di ruolo assunto mediante concorso, poi la stessa diventa un elemento rilevante per giustificare una differenza di trattamento tra tali lavoratori, volta, segnatamente, a garantire il rispetto «dei valori di meritocrazia e delle considerazioni di imparzialità e di efficacia dell’amministrazione su cui si basano le assunzioni mediante concorso» (par. 51). Possono essere allora comparabili due situazioni espressamente considerate eterogenee? Può essere la qualità dell’esperienza analoga e assimilabile ma al contempo così differente da giustificare un diverso riconoscimento e calcolo del servizio prestato? Rimane estraneo a questo dilemma, pur sollevando altro ordine di perplessità, l’argomento del pro rata temporis, utilizzato dalla Corte, pur in modo non approfondito, a supporto di una possibile giustificazione e inserito nel passaggio in cui si riporta come la normativa italiana computi come annualità complete le prestazioni a tempo determinato fornite per almeno 180 giorni15. Ciò evidenziando come, per i lavoratori a termine, il periodo di servizio calcolato ai fini di un’annualità possa corrispondere in realtà a circa due terzi di un anno scolastico. In tal senso, pare potersi intendere che per la Corte, giusta questa peculiarità nella disciplina dell’anzianità di servizio nel periodo pre-ruolo, la previsione di una (possibile) riduzione nella ricostruzione di carriera al passaggio in ruolo potrebbe costituire una sorta di (ri)proporzionamento in rapporto al (possibile) minor periodo di lavoro prestato. La «formula degressiva di computo dell’anzianità maturata a titolo di contratti a tempo deter-

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L’art. 489, comma 1, d.lgs. n. 297/94 prevede che «Ai fini del riconoscimento di cui ai precedenti articoli il servizio di insegnamento è da considerarsi come anno scolastico intero se ha avuto la durata prevista agli effetti della validità dell’anno dall’ordinamento scolastico vigente al momento della prestazione». L’art. 11, comma 14, della l. 3 maggio 1999 n. 124 ha interpretato autenticamente questa disposizione stabilendo che sia da intendere nel senso che il servizio di insegnamento non di ruolo prestato a decorrere dall’anno scolastico 1974-1975 è considerato come anno scolastico intero se ha avuto la durata di almeno 180 giorni oppure se il sevizio sia stato prestato ininterrottamente dal 1 febbraio fino al termine delle operazioni di scrutinio finale. Cfr. Sul punto Trib. Bari, 11 maggio 2016, n. 2465, cit.

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minato» rappresenterebbe, quindi, se ben inteso, una misura rispondente alla necessità di “mitigare” l’applicazione del principio di parità di trattamento, in conformità al criterio di contemperamento del “pro rata temporis” di cui alla clausola n. 4, punto 2, dell’Accordo quadro (par. 49). Se questo è il ragionamento sotteso al rapido passaggio della Corte sul punto, non se ne può tacere la forzatura: la riduzione avviene, infatti, indipendentemente dal fatto che il lavoratore abbia beneficiato o meno del citato “arrotondamento” e soprattutto ricorre solo a partire dal quinto anno, senza che alcun ri-proporzionamento interessi chi è rimasto in pre-ruolo per massimo quattro anni, pur potendo anche in tal periodo aver svolto un minor lavoro effettivo con riconoscimento dell’annualità per arrotondamento. Ciò è tanto più vero se si considera che tutti i contratti a termine sottoscritti dalla lavoratrice nel caso in esame hanno avuto una durata corrispondente a quella dell’anno scolastico (par. 8). Marco Peruzzi

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Giurisprudenza C orte Costituzionale, sentenza 19 aprile 2018, n. 77; Pres. Lattanzi – Rel. Amoroso – B. (Avv. Martino Andreoni), R. (Avv. Piccininni, Andreoni) c. Rear s.c.a.r.l. (Avv. Frus); Avv. Stato Rago. Lavoro (processo) – Spese giudiziali – Compensazione nei casi tassativamente previsti – Illegittimità costituzionale.

È illegittimo l’art. 92, comma 2, c.p.c., nella parte in cui regola ipotesi tassative di compensazione delle spese giudiziali, escludendo altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. Ritenuto in fatto. Omissis Considerato in diritto 1. Con ordinanza del 30 gennaio 2016, iscritta al n. 132 del registro ordinanze 2016, il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile, nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile), convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162, nella parte in cui non consente, in caso di soccombenza totale, la compensazione delle spese di lite anche in altre ipotesi di gravi ed eccezionali ragioni, analoghe a quelle indicate in modo tassativo dalla disposizione stessa, ossia l’«assoluta novità della questione trattata» e il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti». La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio civile promosso da un socio lavoratore di una società cooperativa, per ottenere la condanna di quest’ultima al pagamento di differenze di compenso per l’attività svolta calcolate sulla base delle tariffe del contratto collettivo ritenute applicabili ai sensi dell’art. 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142 (Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore), e dell’art. 7, comma 4, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 2008, n. 31. In via subordinata lo stesso ricorrente aveva chiesto il riconoscimento di un’integrazione contrattuale delle indennità previste in caso di infortunio e di malattia. Il tribunale, pronunciandosi nell’instaurato contraddittorio delle parti, ha rigettato, con sentenza qualificata “non definitiva”, sia la domanda principale che quella subordinata, ed ha disposto la prosecuzione del giudizio per la definizione della questione residua, concernente il regolamento delle spese

di lite. In tale sede, ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., con riferimento ai parametri suddetti ritenendo che la limitazione a due sole ipotesi tassative della possibilità per il giudice di compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale sia contraria al principio di ragionevolezza e di eguaglianza, nonché a quello del giusto processo e comporti un’eccessiva remora a far valere i propri diritti in giudizio. Secondo il tribunale rimettente, nella specie, l’esito della lite, sfavorevole al lavoratore, è dipeso da elementi di fatto nuovi, non previsti né prevedibili: da una parte una contrattazione collettiva utilizzata parametricamente dal consulente tecnico d’ufficio per calcolare le rivendicate differenze retributive, la quale era diversa sia da quella applicata dalla società, sia da quella allegata dal lavoratore a sostegno della sua pretesa; d’altra parte una non conosciuta delibera della società che aveva (legittimamente) sospeso l’erogazione del trattamento integrativo di malattia e di infortunio, parimenti rivendicato dal lavoratore. 2. Con ordinanza del 28 febbraio 2017, iscritta al n. 86 del registro ordinanze 2017, il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato analoghe questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione, per contrasto con gli artt. 3, primo e secondo comma; 24; 25, primo comma; 102; 104 e 111 Cost.; nonché degli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e degli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questi ultimi come parametri interposti per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost. La questione è stata sollevata nel corso di una controversia di lavoro avente ad oggetto l’impugnativa di un licenziamento, promossa con il rito di cui all’art. 1, comma 48, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), da una lavoratrice nei confronti non solo della società che aveva intimato il licenziamento,


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ma anche di altre società, sull’asserito presupposto di un unico centro di imputazione giuridica del rapporto di lavoro, stante la contemporanea utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di tutte le società convenute. La fase sommaria si concludeva con un’ordinanza di inammissibilità del ricorso per essere stato il licenziamento revocato. Quanto alle spese di lite il tribunale condannava la lavoratrice al pagamento delle spese nei confronti della società che aveva formalmente intimato – e poi revocato – il licenziamento; invece le compensava tra la lavoratrice e le altre società convenute in giudizio. Avverso questa ordinanza proponeva opposizione una sola di queste ultime società, dolendosi della compensazione delle spese di lite e chiedendo la condanna della lavoratrice, originaria ricorrente, al pagamento delle stesse. Quest’ultima ha resistito all’opposizione eccependo, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.; eccezione che il giudice dell’opposizione ha accolto promuovendo l’incidente di legittimità costituzionale con riferimento ai parametri sopra indicati e muovendo censure analoghe a quelle del Tribunale di Torino, nonché lamentando che non venga in rilievo la posizione del lavoratore quale parte “debole” del rapporto controverso. Secondo il tribunale rimettente l’utilizzazione delle prestazioni lavorative da parte non solo della società datrice di lavoro, ma anche di altre società, aveva creato l’apparenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro con conseguente grave incertezza in ordine a chi fosse il reale datore; sicché non ingiustificata appariva l’evocazione in giudizio delle varie società interessate. 3. Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, sono in larga parte sovrapponibili e quindi si rende opportuna la loro trattazione congiunta mediante riunione dei giudizi. 4. Va preliminarmente considerato che nel giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza di rimessione del giudice del lavoro di Torino è intervenuta ad adiuvandum la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), aderendo alle argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione e chiedendo l’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale. L’Avvocatura generale dello Stato e la difesa della società costituita hanno eccepito l’inammissibilità di tale intervento. L’intervento è inammissibile. La costante giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, le ordinanze allegate alle sentenze n. 16 del 2017, n. 237 e n. 82 del 2013, n. 272 del 2012, n. 349 del 2007, n. 279 del 2006 e n. 291 del 2001) è nel senso che la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte

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costituzionale). A tale disciplina è possibile derogare − senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità − soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura. Pertanto, l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente deve derivare non già, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla disposizione denunciata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma dall’immediato effetto che la pronuncia della Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo. Nella specie – essendo la CGIL titolare non di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale, bensì di un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti – il suo intervento in questo giudizio deve essere dichiarato inammissibile. 5. Ancora in via preliminare l’Avvocatura generale dello Stato ha sollevato eccezione di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per mancata interpretazione adeguatrice della disposizione censurata. L’eccezione non è fondata. Entrambi i giudici rimettenti hanno, con motivazione plausibile, escluso la possibilità di interpretazione adeguatrice della disposizione censurata osservando che il recente ripetuto intervento del legislatore sulla disposizione censurata, di cui si dirà oltre, mostra chiaramente che si è inteso restringere sempre più la discrezionalità del giudice della controversia fino a definire le sole ipotesi che facoltizzano il giudice, in caso di soccombenza totale, a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite; ipotesi che quindi sono tassative: la soccombenza reciproca ovvero l’assoluta novità della questione trattata o il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Non è possibile pertanto estendere in via interpretativa tale facoltà del giudice ad altre ipotesi che parimenti consentano la compensazione delle spese di lite. Tanto è sufficiente per ritenere l’ammissibilità della questione, anche in ragione della più recente giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che, se è vero che le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime «perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)», ciò però non significa che «ove sia improbabile o difficile prospettarne un’interpretazione costituzionalmente orientata, la questione non debba essere scrutinata nel merito» (sentenza n. 42 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 83 del 2017). 6. L’Avvocatura generale dello Stato ha inoltre eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per insufficiente descrizione della fattispecie. L’eccezione non è fondata.


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Entrambi i giudici rimettenti hanno descritto in dettaglio la fattispecie al loro esame nei termini sopra riportati ed hanno chiaramente evidenziato la necessità di applicare nei giudizi a quibus la disposizione censurata in ordine alla quale hanno motivatamente argomentato i loro dubbi di legittimità costituzionale. Le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono quindi ammissibili, sotto l’indicato profilo, e sussiste altresì la loro rilevanza. 7. C’è poi un ulteriore, più delicato, profilo di ammissibilità concernente le questioni oggetto dell’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Torino, che – come già rilevato − ha deciso con sentenza, qualificata “non definitiva”, tutto il merito della causa ed ha riservato solo la decisione sulle spese di lite, in riferimento alla quale, con distinta ordinanza, ha posto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. Deve rilevarsi al riguardo che questa Corte nell’ordinanza n. 395 del 2004 ha affermato che la regolamentazione delle spese, in quanto accessoria alla decisione di merito, non è suscettibile di un autonomo giudizio. La citata ordinanza ha riguardato una situazione analoga: quella di un giudice rimettente (di primo grado) che, nel censurare il medesimo art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., aveva parimenti deciso, con sentenza, il merito della causa disponendo con ordinanza la sospensione del processo limitatamente alla pronuncia accessoria sulle spese legali, perché, ritenendo di dover fare uso della facoltà di compensarle, ai sensi della citata disposizione nel testo originario, dubitava della legittimità costituzionale di tale norma, «così come interpretata dalla giurisprudenza pressoché univoca e costante della Suprema Corte», secondo cui non vi era alcun obbligo di motivare il capo della sentenza col quale fosse disposta la compensazione delle spese «per giusti motivi», trattandosi di statuizione discrezionale, assistita da una presunzione di conformità a diritto. Questa Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, affermando che «il “diritto vivente” in questione […] si risolve in una regola − insindacabilità della compensazione delle spese non motivata − della quale è diretto destinatario il giudice dell’impugnazione, e solo indirettamente il giudice munito del potere (discrezionale) di disporre la compensazione delle spese del giudizio da lui definito». Sicché il canone dell’insindacabilità della motivazione della compensazione delle spese di lite, all’epoca ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità, costituiva regola di giudizio per il giudice dell’impugnazione, legittimato in ipotesi a sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale, ma non già per un giudice di primo grado, quale era il giudice rimettente. Da ciò, l’inammissibilità manifesta della questione di legittimità costituzionale. La Corte però ha poi aggiunto – seppur senza che ciò costituisse, o concorresse a costituire, la ra-

tio decidendi della pronuncia di inammissibilità − che il giudice rimettente comunque «aveva consumato il suo potere decisorio». In ragione di ciò si potrebbe ora sostenere che anche il Tribunale ordinario di Torino abbia esaurito il suo potere decisorio dopo essersi pronunciato su tutto il merito della causa, di talché la questione di legittimità costituzione sarebbe, sotto tale profilo, inammissibile. 8. In realtà, la questione è ammissibile anche sotto questo profilo. Nel processo civile una sentenza non definitiva è possibile allorché il giudice di primo grado – qual è il rimettente Tribunale ordinario di Torino ‒ limiti la sua decisione alla questione di giurisdizione, o a questioni pregiudiziali o preliminari di merito, o anche solo ad alcune questioni di merito impartendo distinti provvedimenti per l’ulteriore istruzione della causa (art. 279, secondo comma, cod. proc. civ.). Il giudice infatti può limitare la decisione ad alcune domande, se riconosce che per esse soltanto non sia necessaria un’ulteriore istruzione e sempre che la loro «sollecita definizione» sia di «interesse apprezzabile» per la parte che ne abbia fatto istanza (art. 277, secondo comma, cod. proc. civ.). Ma se il giudice decide totalmente il merito della causa, accogliendo o rigettando tutte le domande, emette una sentenza definitiva, alla quale si accompagna la pronuncia sulle spese di lite, che – come già rilevato da questa Corte (nell’ordinanza n. 314 del 2008, richiamata dalla difesa della società costituita) – ha «natura accessoria» rispetto alla decisione sul merito. Non di meno però la decisione sulle spese di lite ha una sua distinta autonomia nella misura in cui è possibile l’impugnativa di questo solo capo della sentenza definitiva sicché, in tale evenienza, il giudizio di impugnazione è destinato ad avere ad oggetto la sola regolamentazione delle spese di lite. Questo legame di accessorietà della pronuncia sulle spese alla sentenza che decida tutte le questioni di merito non è quindi indissolubile e, in particolare, è recessivo allorché il giudice – come il Tribunale ordinario di Torino – abbia un dubbio non manifestamente infondato in ordine soltanto alla disposizione che governa le spese di lite e di cui egli debba fare applicazione. Il principio della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), coniugato con il favor per l’incidente di legittimità costituzionale ‒ il quale preclude che alcun giudice possa fare applicazione di una disposizione di legge della cui legittimità costituzionale dubiti – suggerisce che non sia ritardata la decisione del merito della causa rispondendo ciò all’«interesse apprezzabile» delle parti alla «sollecita definizione» di quanto possa essere deciso senza fare applicazione della disposizione indubbiata (ex art. 277, secondo comma, citato). Del resto, come argomento a fortiori, può richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto, al fine dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, che il potere decisorio del giudice rimettente non venga meno neppure quando egli abbia,

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al contempo, adottato la misura cautelare richiesta da una parte e, con separato provvedimento, abbia sospeso il giudizio cautelare investendo questa Corte con incidente di legittimità costituzionale proprio sulla disposizione di cui abbia fatto applicazione provvisoria e temporanea (ex plurimis, sentenze n. 83 del 2013, n. 236 del 2010, n. 351 e n. 161 del 2008; ordinanza n. 25 del 2006). Si ha quindi che, nella specie, non erroneamente il Tribunale ordinario di Torino non ha sacrificato l’interesse delle parti alla sollecita decisione del merito – segnatamente, di tutto il merito – della causa ed ha legittimamente limitato la sospensione del giudizio, obbligatoria ex art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), a quanto strettamente necessario per la decisione della questione di legittimità costituzionale. La pur imprecisa qualificazione, ad opera dello stesso tribunale, della sentenza che ha deciso tutto il merito della causa, come pronuncia “non definitiva” anziché “definitiva” ex art. 279 cod. proc. civ., rileva al fine non già dell’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, ma del regime dell’impugnazione di tale pronuncia quanto alla possibilità, o no, della riserva facoltativa d’appello ex art. 340 cod. proc. civ. 9. Nel merito la questione, sollevata congiuntamente dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, è fondata. 10. La regolamentazione delle spese processuali nel giudizio civile risponde alla regola generale victus victori fissata dall’art. 91, primo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui – ripetendo l’analoga prescrizione dell’art. 370, primo comma, del codice di procedura civile del 1865 − prevede che «il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa». Quindi la soccombenza si accompagna, di norma, alla condanna al pagamento delle spese di lite. L’alea del processo grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente. È giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa. Questa Corte ha in proposito affermato che «il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento» (sentenza n. 135 del 1987). La regolamentazione delle spese di lite è processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che la definisce in quanto tale ed è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.). Il «normale complemento» dell’accoglimento della domanda – ha

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affermato questa Corte (sentenza n. 303 del 1986) – è costituito proprio dalla liquidazione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa. Ma non è una regola assoluta proprio in ragione del carattere accessorio della pronuncia sulle spese di lite, come emerge dalla giurisprudenza di questa Corte che ha esaminato un’ipotesi di contenzioso − il processo tributario prima della riforma del 1992 − in cui non era affatto prevista la regolamentazione delle spese di lite sì che la parte soccombente non ne sopportava l’onere e la parte vittoriosa non ne era ristorata. Ha infatti affermato questa Corte (sentenza n. 196 del 1982) che «l’istituto della condanna del soccombente nel pagamento delle spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile»: come è consentito al giudice di compensare tra le parti le spese di lite ricorrendo le condizioni di cui al secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. (disposizione attualmente censurata), così rientra nella discrezionalità del legislatore modulare l’applicazione della regola generale secondo cui alla soccombenza nella causa si accompagna la condanna al pagamento delle spese di lite. Analogamente, con riferimento al giudizio di opposizione a sanzioni amministrative, questa Corte (ordinanza n. 117 del 1999) ha ribadito che «l’istituto della condanna del soccombente al pagamento delle spese di giudizio, pur avendo carattere generale, non ha portata assoluta ed inderogabile, potendosene profilare la derogabilità sia su iniziativa del giudice del singolo processo, quando ricorrano giusti motivi ex art. 92, secondo comma, cod. proc. civ., sia per previsione di legge − con riguardo al tipo di procedimento − in presenza di elementi che giustifichino la diversificazione dalla regola generale». Parimenti è stata ritenuta non illegittima una regola di settore che, all’opposto, escludeva in ogni caso la compensazione delle spese di lite in ipotesi di accoglimento della domanda di risarcimento del danno esercitata nel processo penale dalla parte offesa costituitasi parte civile nel regime precedente la riforma del codice di procedura penale del 1987 (sentenza n. 222 del 1985). Ampia quindi è la discrezionalità di cui gode il legislatore nel dettare norme processuali (ex plurimis, sentenze n. 270 del 2012, n. 446 del 2007 e n. 158 del 2003) e segnatamente nel regolamentare le spese di lite. Sicché è ben possibile – ha affermato questa Corte (sentenza n. 157 del 2014) − «una deroga all’istituto della condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, in presenza di elementi che la giustifichino (sentenze n. 270 del 2012 e n. 196 del 1982), non essendo, quindi, indefettibilmente coessenziale alla tutela giurisdizionale la ripetizione di dette spese (sentenza n. 117 del 1999)». 11. Muovendo da questa affermata possibile derogabilità della regola che prescrive la condanna del soccombente alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa, vanno ora esaminate le censure mosse alla disposizione indubbiata dai giudici rimet-


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tenti, che sono centrate proprio sulle possibili deroghe a tale regola. Le quali, da epoca risalente e per lungo tempo, sono state affidate ad una clausola generale che chiamava in gioco la discrezionalità del giudice al momento della decisione della causa. Disponeva infatti il secondo comma dell’art. 370 cod. proc. civ. del 1865: «Quando concorrono motivi giusti, le spese possono dichiararsi compensate in tutto o in parte». Il secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. del 1940 ha ripetuto la stessa norma derogatoria: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». Nella relazione al Guardasigilli per la redazione del nuovo codice di procedura civile si espresse l’opzione di dare continuità all’analoga disposizione del codice di rito del 1865 e, con riferimento alla facoltà demandata al giudice di compensare le spese di lite, oltre al caso di soccombenza parziale, anche quando ricorressero «motivi giusti» – che, con mera inversione testuale sarebbero diventati «giusti motivi» − si evidenziò che «tale regola […] risponde ad un evidente criterio di giustizia», ritenendo non «attendibili» alcune osservazioni in senso critico rivolte da una parte della dottrina contro questa clausola generale, la quale affidava tale criterio derogatorio, nel momento della decisione della lite, al prudente apprezzamento del giudice, che era quello che meglio conosceva le peculiarità della causa. La norma espressa dal secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ., attualmente oggetto delle censure di illegittimità costituzionale, è rimasta per lungo tempo invariata anche in occasioni di profonde riforme del codice di rito, quale quella del 1950 apportata con la legge 14 luglio 1950, n. 581 (Ratifica del decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 483, contenente modificazioni e aggiunte al Codice di procedura civile) e quella del 1990 introdotta con la legge 26 novembre 1990, n. 353 (Provvedimenti urgenti per il processo civile); ma non è rimasta immune da critiche di parte della dottrina. Ed in effetti, già nella vigenza dell’art. 370 cod. proc. civ. del 1865, un’autorevole dottrina del tempo aveva denunciato l’abuso nella pratica della compensazione per i motivi più vari. Il punctum dolens era la motivazione dei «giusti motivi» che facoltizzavano il giudice a compensare, totalmente o parzialmente, le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il principio di diritto, che era stato alla fine fissato in una tralaticia massima di giurisprudenza, affermava che la valutazione dei «giusti motivi» per la compensazione, totale o parziale, delle spese processuali rientrava nei poteri discrezionali del giudice di merito e non richiedeva specifica motivazione, restando perciò incensurabile in sede di legittimità, salvo che risultasse violata la regola secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (argumenta, ex plurimis, da Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 15 luglio 2005, n. 14989). Sempre più però si poneva in discussione

questo orientamento giurisprudenziale fino al radicarsi di un vero e proprio contrasto, poi composto dalle sezioni unite della Corte di cassazione, che operarono una significativa correzione di rotta affermando che la decisione di compensazione, totale o parziale, delle spese di lite per «giusti motivi» dovesse comunque dare conto della relativa statuizione mediante argomenti specificamente riferiti a questa ovvero attraverso rilievi che, sebbene riguardanti la definizione del merito, si risolvano in considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare tale compensazione delle spese (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 30 luglio 2008, n. 20598). 12. Intanto il legislatore era intervenuto ed aveva modificato, dopo quasi centocinquant’anni, la norma in questione confermando sì la clausola generale dei «giusti motivi», quale presupposto della compensazione delle spese di lite, ma richiedendo che questi fossero «esplicitamente indicati nella motivazione» (art. 2, comma 1, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, recante «Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla legge 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato»). La prescrizione dell’espressa indicazione dei «giusti motivi» nella motivazione della decisione del giudice sulle spese di lite non apparve però ancora sufficiente a contrastare una tendenza, esistente nella prassi, al frequente ricorso da parte del giudice alla facoltà di compensare le spese di lite anche in caso di soccombenza totale. Il legislatore è quindi intervenuto una seconda volta proprio sulla clausola generale accentuandone, in chiave limitativa, il carattere derogatorio rispetto alla regola generale che vuole che alla soccombenza totale segua anche la condanna al pagamento delle spese di lite. L’art. 45, comma 11, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), ha così riformulato il secondo comma dell’art. 92: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti». I «giusti motivi» sono diventati le «gravi ed eccezionali ragioni»: ciò significava che il perimetro della clausola generale si era ridotto, ritenendo il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità − che si è già rilevato essere ampia, secondo la giurisprudenza di questa Corte − che una più estesa applicazione della regola di porre a carico del soccombente totale le spese di lite rafforzasse il principio di responsabilità di chi promuoveva una

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lite, o resisteva in giudizio, con conseguente effetto deflativo sul contenzioso civile. 13. Al fondo di questo contesto riformatore è la consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera. Da ciò l’adozione, in epoca recente, di istituti processuali diretti, in chiave preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali le misure di ADR (Alternative Dispute Resolution), cui sono riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede arbitrale. Nella stessa linea è la previsione in generale, nel codice di rito (art. 185-bis cod. proc. civ.), di un momento processuale che vede la formulazione della proposta di conciliazione ad opera del giudice, introdotta in generale dall’art. 77, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2013, n. 98, generalizzando quanto era già stato stabilito, qualche anno prima, per le controversie di lavoro attraverso la modifica dell’art. 420, primo comma, cod. proc. civ., introdotta dall’art. 31, comma 4, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro). Per altro verso, quando non di meno la lite arriva all’esito finale della decisione giudiziaria, appare giustificato che l’alea del processo debba allora gravare sulla parte totalmente soccombente secondo una più stretta regola generale, limitando alla ricorrenza di «gravi e eccezionali ragioni» la facoltà per il giudice di compensare le spese di lite. Questo raggiunto equilibrio è stato però alterato da un’ulteriore, più recente, modifica del censurato secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. 14. Da ultimo infatti, sull’abbrivio riformatore cominciato nel 2005, il legislatore, nel 2014, è andato ancora oltre ed ha ristretto ulteriormente il perimetro della deroga alla regola che vuole che le spese di lite gravino sulla parte totalmente soccombente: non più la clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni», ma due ipotesi nominate (oltre quella della soccombenza reciproca che non è mai mutata), ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Così ha disposto, da ultimo, l’art. 13, comma 1, del d.l. n. 132 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 162 del 2014 (norma che, per espressa previsione dell’art. 13, comma 2, del decreto-legge citato, si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal

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trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della relativa legge di conversione, avvenuta l’11 novembre 2014). Si legge nella Relazione al disegno di legge di conversione in legge del decreto-legge n. 132 del 2014: «Nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, con conseguente incentivo alla lite, posto che la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione». Questo più recente sviluppo normativo, che ha portato alla formulazione della disposizione censurata, mostra chiaramente che il legislatore ha voluto far riferimento a due ipotesi tassative, oltre quella della soccombenza reciproca, rimasta invariata nel tempo, come correttamente ritengono entrambi i giudici rimettenti. 15. Però la rigidità di queste due sole ipotesi tassative, violando il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, ha lasciato fuori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa. La prevista ipotesi del mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente è connotata dal fatto che, in sostanza, risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia. Questa evenienza sopravvenuta − che concerne prevalentemente la giurisprudenza di legittimità, ma che, in mancanza, può anche riguardare la giurisprudenza di merito − non è di certo nella disponibilità delle parti, le quali si trovano a doversi confrontare con un nuovo principio di diritto, sì che, nei casi di non prevedibile overruling, l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale tenendo conto dell’orientamento poi disatteso e superato, è nondimeno tutelato a determinate condizioni, precisate in una nota pronuncia delle sezioni unite civili della Corte di cassazione (sentenza 11 luglio 2011, n. 15144). Il fondamento sotteso a siffatta ipotesi – che, ove anche non prevista espressamente, avrebbe potuto ricavarsi per sussunzione dalla clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni» − sta appunto nel sopravvenuto mutamento del quadro di riferimento della causa che altera i termini della lite senza che ciò sia ascrivibile alla condotta processuale delle parti. Ma tale ratio può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie di sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti: tra le più evidenti, una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius superveniens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa Corte, in particolare se di illegittimità costituzionale; o una decisione di una Corte europea; o una nuova regolamentazione nel diritto dell’Unione europea; o altre analoghe sopravvenienze. Le quali tutte, ove concernenti una “questione dirimente” al fine della decisione della controversia, sono connotate da pari “gravità” ed “eccezionalità”, ma non sono iscrivibili in un rigido ca-


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talogo di ipotesi nominate: necessariamente debbono essere rimesse alla prudente valutazione del giudice della controversia. Ciò può predicarsi anche per l’altra ipotesi prevista dalla disposizione censurata – l’assoluta novità della questione – che è riconducibile, più in generale, ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza. In simmetria è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a «gravi ed eccezionali ragioni». Del resto la stessa ipotesi della soccombenza reciproca, che, concorrendo con quelle espressamente nominate dalla disposizione censurata, parimenti facoltizza il giudice della controversia a compensare le spese di lite, rappresenta un criterio nient’affatto rigido, ma implica una qualche discrezionalità del giudice che è chiamato ad apprezzare la misura in cui ciascuna parte è al contempo vittoriosa e soccombente, tanto più che la giurisprudenza di legittimità si va orientando nel ritenere integrata l’ipotesi di soccombenza reciproca anche in caso di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 22 febbraio 2016, n. 3438). Si ha quindi che contrasta con il principio di ragionevolezza e con quello di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) aver il legislatore del 2014 tenuto fuori dalle fattispecie nominate, che facoltizzano il giudice a compensare le spese di lite in caso di soccombenza totale, le analoghe ipotesi di sopravvenienze relative a questioni dirimenti e a quelle di assoluta incertezza, che presentino la stessa, o maggiore, gravità ed eccezionalità di quelle tipiche espressamente previste dalla disposizione censurata. La rigidità di tale tassatività ridonda anche in violazione del canone del giusto processo (art. 111, primo comma, Cost.) e del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.) perché la prospettiva della condanna al pagamento delle spese di lite anche in qualsiasi situazione del tutto imprevista ed imprevedibile per la parte che agisce o resiste in giudizio può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti. 16. Per la riconduzione a legittimità della disposizione censurata può anche considerarsi che più recentemente lo stesso legislatore, in linea di continuità con l’azione riformatrice degli ultimi anni, è ritornato alla tecnica normativa della clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni». Infatti, dopo l’introduzione della disposizione attualmente censurata, il legislatore ha novellato alcune norme del processo tributario. In particolare l’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156 (Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6 e 10, comma 1, lettere a e b, della legge 11 marzo 2014, n. 23), ha sostituito gli originari commi 2 e 2-bis dell’art. 15 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione

della delega governativa nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991 n. 413) ed ha, tra l’altro, previsto che le spese del giudizio possono essere compensate in tutto o in parte, oltre che in caso di soccombenza reciproca, anche «qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni» che devono essere espressamente motivate. Ciò orienta la pronuncia di illegittimità costituzionale che si va a rendere nel senso che parimenti le ipotesi illegittimamente non considerate dalla disposizione censurata possono identificarsi in quelle che siano riconducibili a tale clausola generale e che siano analoghe a quelle tipizzate nominativamente nella norma, nel senso che devono essere di pari, o maggiore, gravità ed eccezionalità. Le quali ultime quindi – l’«assoluta novità della questione trattata» ed il «mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti» – hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale. Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni. L’obbligo di motivazione della decisione di compensare le spese di lite, vuoi nelle due ipotesi nominate, vuoi ove ricorrano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, discende dalla generale prescrizione dell’art. 111, sesto comma, Cost., che vuole che tutti i provvedimenti giurisdizionali siano motivati. 17. L’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, e 111, primo comma, Cost. – indicati da entrambe le ordinanze di rimessione − comporta l’assorbimento della questione in riferimento agli ulteriori plurimi parametri indicati nella sola ordinanza del Tribunale ordinario di Reggio Emilia (artt. 25, primo comma; 102 e 104 Cost.; nonché, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., l’art. 47 CDFUE e gli artt. 6 e 13 CEDU) perché tutti orientati ad ottenere la medesima dichiarazione di illegittimità costituzionale. Residua però il particolare profilo di censura che fa riferimento alla posizione del lavoratore come parte “debole” del rapporto controverso; censura che costituisce autonoma e distinta questione, ridimensionata ma non del tutto assorbita dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata. Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia evidenzia la posizione di maggior debolezza del lavoratore nel contenzioso di lavoro e chiede che la disposizione censurata sia ricondotta a legittimità introducendo un’ulteriore ragione di compensazione delle spese di lite che tenga conto della natura del rapporto giuridico dedotto in causa – ossia del rapporto di lavoro subordinato – e della condizione soggettiva della parte attrice quando è il lavoratore che agisce nei confronti del datore di lavoro. La questione è posta con riferimento al princi-

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pio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., che esigerebbe – secondo il giudice rimettente − un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il lavoratore in quanto soggetto più “debole”, costretto ad agire giudizialmente, mentre il censurato art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. avrebbe in concreto l’effetto opposto. Sarebbero altresì violati, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., anche gli artt. 14 CEDU e 21 CDFUE, in punto di discriminazione fondata, rispettivamente, «sulla ricchezza» o su «ogni altra condizione» (art. 14 CEDU) o sul «patrimonio» (art. 21 CDFUE). 18. La questione non è fondata. Rileva in proposito da una parte il generale canone della par condicio processuale previsto dal secondo comma dell’art. 111 Cost. secondo cui «[o]gni processo si svolge […] tra le parti, in condizioni di parità». Per altro verso la situazione di disparità in cui, in concreto, venga a trovarsi la parte “debole” − ossia quella per la quale possa essere maggiormente gravoso il costo del processo, anche in termini di rischio di condanna al pagamento delle spese processuali, sì da costituire un’indiretta remora ad agire o resistere in giudizio − trova un possibile riequilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., in «appositi istituti» diretti ad assicurare «ai non abbienti […] i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione». Nel binario segnato da questi due concorrenti principi costituzionali si colloca la disposizione censurata che, non considerando la situazione soggettiva, nel rapporto controverso, della parte totalmente soccombente, è ispirata al principio generale della par condicio processuale. Anche le due richiamate ipotesi che facoltizzano il giudice a compensare, in tutto o in parte, le spese di lite − le quali, a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale, sono non più tassative, ma parametriche di altre analoghe ipotesi di «gravi e eccezionali ragioni» – rinviano comunque a condizioni prevalentemente oggettive e non già a situazioni strettamente soggettive della parte soccombente, quale l’essere essa la parte “debole” del rapporto controverso. Finanche la legge 11 agosto 1973, n. 533 (Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie) − la quale pur conteneva disposizioni ispirate al favor per questo contenzioso al fine di agevolare la tutela giurisdizionale del lavoratore, quali quelle che prevedevano l’esenzione da ogni spesa o tassa (art. 10) ed il patrocinio a spese dello Stato per le parti non abbienti (art. 11) – non aveva derogato al disposto dell’art. 92 cod. proc. civ., quanto alla condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite. In ogni caso per il lavoratore operava la regola generale della condanna della parte totalmente soccombente al pagamento delle spese di lite, salva la facoltà per il giudice di compensarle sulla base della già richiamata clausola generale, all’epoca vigente, dei «giusti motivi». Ed opera tuttora la stessa regola, salva

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la facoltà per il giudice di compensarle ove ricorrano, secondo la disciplina attualmente vigente, le due ipotesi nominativamente previste dal secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ., oltre – a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata – anche altre analoghe «gravi ed eccezionali ragioni». Solo per le controversie in materia previdenziale proposte nei confronti degli istituti di previdenza ed assistenza l’art. 9 della legge n. 533 del 1973 aveva sostituito l’art. 152 delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile, disponendo che il lavoratore soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali non era assoggettato al pagamento di spese, competenze ed onorari a favore degli istituti di assistenza e previdenza, a meno che la pretesa non fosse manifestamente infondata e temeraria; disposizione questa, peraltro anticipata, in una portata più limitata, dal dettato dell’art. 57 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale) e successivamente estesa anche alle controversie di natura assistenziale dalla sentenza n. 85 del 1979. Ma il collegamento dell’esonero con la condizione di «non abbiente» è stato dapprima prefigurato, come possibile, da questa Corte (sentenza n. 135 del 1987) e poi posto a fondamento della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, in legge 14 novembre 1992, n. 438, per aver, tale disposizione, operato un’indiscriminata abrogazione dell’esonero stesso, trascurando qualunque distinzione tra abbienti e non abbienti (sentenza n. 134 del 1994); esonero poi ripristinato dall’art. 42, comma 11, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326, in favore della parte soccombente che risulti «non abbiente», essendo l’esonero condizionato all’integrazione di un requisito reddituale significativo della debolezza economica del ricorrente (ordinanza n. 71 del 1998). Quindi da una parte la condizione soggettiva di “lavoratore” non ha mai comportato alcun esonero dall’obbligo di rifusione delle spese processuali in caso di soccombenza totale nelle controversie promosse nei confronti del datore di lavoro; d’altra parte nelle controversie di previdenza ed assistenza sociale, promosse nei confronti degli enti che erogano prestazioni di tale natura, la condizione di assicurato o beneficiario della prestazione deve concorrere con un requisito reddituale perché, in via eccezionale, possa comportare siffatto esonero. La ragione di tale eccezione in favore della parte soccombente «non abbiente», e quindi “debole”, risiede nella diretta riferibilità della prestazione previdenziale o assistenziale, oggetto del contenzioso, alla speciale tutela prevista dal secondo comma dell’art. 38 Cost., che mira


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a rimuovere, o ad alleviare, la situazione di bisogno e di difficoltà dell’assicurato o dell’assistito. Invece la qualità di “lavoratore” della parte che agisce (o resiste), nel giudizio avente ad oggetto diritti ed obblighi nascenti dal rapporto di lavoro, non costituisce, di per sé sola, ragione sufficiente – pur nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla tutela giurisdizionale (art. 3, secondo comma, Cost.) − per derogare al generale canone di par condicio processuale quanto all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente. Di ciò non si è dubitato in riferimento all’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. nel testo vigente fino al 2009; ma lo stesso può affermarsi nell’attuale formulazione della medesima disposizione, quale risultante dalla presente dichiarazione di illegittimità costituzionale. Dalla quale comunque consegue che la circostanza – segnalata dal giudice rimettente – che il lavoratore, per la tutela di suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova), costituisce elemento valutabile dal giudice della controversia al fine di riscontrare, o no, una situazione di assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle «gravi ed eccezionali ragioni» che consentono al giudice la compensazione delle spese di lite. 19. Né la ritenuta non fondatezza della questione di legittimità costituzionale è revocata in dubbio dai citati parametri sovranazionali interposti, che vietano trattamenti discriminatori basati sul censo. La considerazione che sovente il contenzioso di lavoro possa presentarsi in termini sostanzialmente diseguali, nel senso che il lavoratore ricorrente, che agisca nei confronti del datore di lavoro, sia parte “debole” del rapporto controverso, giustifica norme di favore

su un piano diverso da quello della regolamentazione delle spese di lite, una volta che quest’ultima è resa meno rigida a seguito della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. con l’innesto della clausola generale delle «gravi ed eccezionali ragioni». Si sono già ricordate le disposizioni di favore contenute negli artt. 10 e 11 della legge n. 533 del 1973 (peraltro successivamente abrogati); ad esse può aggiungersi anche l’art. 13, comma 3, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», il quale prevede che il contributo unificato per le spese di giustizia è ridotto alla metà per le controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego. Più in generale può dirsi che è rimesso alla discrezionalità del legislatore ampliare questo favor praestatoris, ad esempio rimodulando, in termini di minor rigore o finanche di esonero, il previsto raddoppio di tale contributo in caso di rigetto integrale, o di inammissibilità, o di improcedibilità dell’impugnazione (art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002). 20. In conclusione risulta non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, mirante ad innestare nella disposizione censurata, come deroga alla regola secondo cui la parte soccombente è condannata alla rifusione delle spese di lite in favore della parte vittoriosa – oltre alle ipotesi nominativamente previste dalla disposizione stessa, come integrate dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale nei termini di cui sopra al punto 16. – un’ulteriore deroga centrata sulla natura della lite, perché controversia di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in giudizio nei confronti del datore di lavoro. Omissis

La compensazione insindacabile delle spese legali secondo Costituzione: un ritorno nostalgico al passato Sommario : 1. La sentenza. – 2. La inammissibilità della questione. – 3. L’alternativa di un’interpretazione costituzionalmente orientata. – 4. Le conseguenze della declaratoria. – 5. Le conseguenze del mutato orientamento della Corte sulla costituzionalità delle leggi processuali.

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Sinossi. La nota di commento evidenzia criticamente la inammissibilità delle questioni sollevate dai giudici di merito, per avvenuta consumazione del potere decisorio del giudice che non poteva separare la pronuncia di merito con la pronuncia accessoria sulle spese e per esservi alternativa nell’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, evidenziando altresì le conseguenze applicative conseguenti alla declaratoria di incostituzionalità volte a liberalizzare il provvedimento di compensazione, senza alcuna concreta possibilità di sindacato, in particolare dal giudice di legittimità, a seguito della novellazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. Il commento evidenzia anche le conseguenze del mutato self restraint della Corte costituzionale nel sindacato di costituzionalità delle leggi processuali.

1. La sentenza. La Corte costituzionale, sempre cauta nei giudizi di legittimità costituzionale delle leggi processuali, con la sentenza n. 77 del 2018 sembra liberarsi da ogni remora e dichiara la incostituzionalità dell’art. 92, comma 2, c.p.c. nell’edizione dovuta alla legge 10 novembre 2014, n. 162, che aveva chiuso la stagione di una discrezionalità illimitata e insindacabile – come spesso lo sono i poteri discrezionali del giudice – nella regolamentazione delle spese con compensazione, in deroga al criterio della soccombenza, contro cui prima la Corte di cassazione1 e poi il legislatore avevano tentato di porre rimedio mediante una formulazione più rigorosa (“gravi ed eccezionali ragioni”) bisognevole di un’effettiva motivazione (“esplicitamente indicate in motivazione”). Successivamente (nel 2014 con la l. n. 162/2014), poco fiducioso di un effettivo sindacato in sede di impugnazione, il legislatore aveva preferito limitare la compensazione delle spese a due ipotesi, oltre alla soccombenza reciproca, la assoluta novità della questione oppure l’overrulling della giurisprudenza. La rigidità della più recente formula legislativa, che di fatto attenuava fortemente la discrezionalità, è parsa, in violazione dell’art. 3 Cost., incostituzionale, sul piano quindi della razionalità e del principio di eguaglianza, ma anche in relazioni ai canoni del giusto processo, art. 111 Cost., e della garanzia dell’azione, art. 24 Cost. Secondo il giudice di legittimità delle leggi, la rigidità delle soluzioni legislative avrebbero escluso alcune ipotesi, quali lo ius superveniens retroattivo, una legge di interpretazione autentica, una pronuncia di incostituzionalità o una nuova normativa dell’Unione europea oppure, infine, la particolare incertezza della questione in fatto o in diritto. Uno dei due giudici di merito (il Tribunale di Reggio Emilia) introduce anche il tema della parte debole del rapporto (il lavoratore) e la necessità di un diverso trattamento nella regolamentazione delle spese, ma la questione sollevata in relazione all’art. 3 e 117 Cost. (quest’ultimo per il richiamo a disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uo-

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Tra le ultime si veda Cass., sez. un., 30 luglio 2008, n. 20598, in GI, 2009, I, 1, 1211.

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mo), è respinta perché ritenuta infondata. In realtà la sensazione è che proprio l’ambiente in cui è maturata la questione – all’interno di una controversia del lavoro – abbia avuto un peso decisivo nella pronuncia della Corte (se in lite davanti al Tribunale delle imprese, le sorti della questione sarebbero state probabilmente diverse).

2. La inammissibilità della questione. Le questioni muovono da due remissioni singolari, ben oltre i limiti della tenuta processuale. I due giudici del lavoro hanno pronunciato nel merito, respingendo la domanda dell’attore (lavoratore), ma hanno separato la pronuncia sulle spese rimettendo in istruttoria – come si trattasse di un autonoma causa in un cumulo oggettivo o una questione preliminare o pregiudiziale – dalla pronuncia di merito, sconvolgendo il principio secondo il quale la pronuncia sulle spese, come altri dispositivi processuali (ad esempio il danno processuale o la misura coercitiva) non possono mai essere trattati come causa autonoma, rispetto alla causa di merito nel quale si pongono come rigorosamente accessori. Solo per questo profilo le questioni andavano dichiarate inammissibili, per avvenuta consumazione del potere decisorio del giudice remittente e quindi difetto di rilevanza2. L’argomento, pur sollevato dall’Avvocatura dello Stato, viene respinto dalla Corte osservando che il capo relativo alla sentenza è autonomamente impugnabile e che prevale comunque un principio di sollecita definizione della controversia con sentenza “non definitiva” senza attendere i tempi della declaratoria di incostituzionalità. Al contrario le sentenze di merito pronunciate sono definitive (tanto da far ritenere omessa in esse la pronuncia sulle spese, con onere di impugnativa immediata della parte sul punto, non potendo la questione essere riproposta in separata sede né, riservabile la impugnativa) e il capo relativo alle spese è puramente accessorio rispetto al capo relativo al merito. Il richiamo alla impugnazione autonoma prova troppo, poiché si impugnano autonomamente anche questioni che non possono essere oggetto di autonoma cognizione del giudice (come il capo relativo alla condanna per responsabilità processuale aggravata o il capo relativo alla misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c.), ma nessuno potrà per questo avviare un’autonoma causa sulle sole spese. I destini della questione erano a tal punto segnati da rendere vano ogni limite di rilevanza al sindacato.

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Come già, pur menzionata e contraddetta, più convincentemente aveva ritenuto C. cost., 21 dicembre 2004, n. 395, in GC, 2005, I, 320.

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3. L’alternativa di un’interpretazione costituzionalmente

orientata.

Neanche la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata ha fermato la Corte. Eppure, come si è osservato3, la norma non pone affatto l’alternativa rigida di due ipotesi, attraverso una interpretazione sistematica le ipotesi possono essere ulteriori. A cui deve aggiungersi un’interpretazione corretta della sua lettera. Infatti l’insieme delle norme sulla lealtà e correttezza (art. 88, comma 1, c.p.c.), sul rilievo del comportamento delle parti nel processo (art. 116, comma 2, c.p.c.), sui poteri del giudice nella direzione del processo (art. 175, comma 1, c.p.c.), sul potere di condannare la parte vincitrice alle spese (art. 92, comma 1, c.p.c.), possono pure fondare fattispecie alternative a quella delle due ipotesi postulate nell’art. 92, comma 2, c.p.c. Ma anche le ipotesi indicate nella parte motiva possono rientrare nella lettera del secondo comma dell’art. 92, comma 2, c.p.c. L’assoluta novità potrebbe discendere dallo ius superveniens, sia esso una nuova legge retroattiva, una sentenza della Corte costituzionale, una nuova norma di diritto europeo immediatamente applicabile ed egualmente la incertezza della questione. Ricondotta la norma sistematicamente a suggestioni provenienti da altre disposizioni, o anche solo ad un’interpretazione evolutiva costituzionalmente orientata della sua lettera, si sarebbe potuto giungere ad una soluzione più equilibrata, per quanto sarà tra breve detto.

4. Le conseguenze della declaratoria. Una declaratoria di inammissibilità, a prescindere dalla rilevanza nel giudizio a quo, fondata sulla esistenza di un’interpretazione costituzionalmente orientata avrebbe avuto il pregio di includere le ipotesi apparentemente escluse, grazie all’autorevolezza del giudice che le aveva ritenute, a cui avrebbe potuto seguire una declaratoria di incostituzionalità nel caso in cui il giudice di legittimità non si fosse allineato. Ma la declaratoria di incostituzionalità ha conseguenze forse non meditate. In difetto di un intervento improbabile del legislatore, qual è allo stato la norma applicabile? È probabilmente il ritorno ai “gravi motivi” costituente l’ambito di maggiore espansione della discrezionalità del giudicante oppure, a voler trarre elementi dalla parte motiva, le gravi ed eccezionali ragioni4.

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Si veda Costantino, Sulla compensazione delle spese giudiziali e sulla discrezionalità del legislatore in materia processuale, saggio potuto consultare per la cortesia dell’Autore. 4 Così Sanlorenzo, La Corte costituzionale ed il regime delle spese di giudizio nel processo del lavoro, in Questione Giustizia, 2018.

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Ma anche in questa prospettiva non pare recuperabile il riferimento alla esplicita indicazione in motivazione delle ragioni, perché ammesso e non concesso che sopravviva l’ultima edizione della norma dovuta alla l. n. 69/2009, si deve tenere conto che con la l. n. 134/2012 si è novellato il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., nel cui contesto venivano sindacati i difetti di motivazione nell’esercizio dei poteri discrezionali. È noto come la mancanza di motivazione in assoluto o la sua insufficienza (non la sua contraddittorietà) dal n. 5 può trasmigrare nel n. 4, dell’art. 360 c.p.c. per nullità dovuta ad omissione di un elemento della sentenza che non ne consente il raggiungimento dello scopo (artt. 132 e 156, comma 2, c.p.c.). Tuttavia per i carichi che subisce il giudice di legittimità è improbabile che si apra lo spazio per un sindacato, nel caso in cui manchi la ratio decidendi delle gravi ed eccezionali ragioni per la compensazione. Il diritto vivente condurrà a riaprire nostalgicamente alla prassi di una compensazione generalizzata ed immotivata, con tutte le conseguenze sul piano dell’efficacia deterrente ai carichi di una condanna alle spese che segua la soccombenza. Basti assumere la fattispecie del Tribunale di Torino, ove il lavoratore aveva invocato l’applicazione di una disciplina collettiva che conduceva ad un trattamento deteriore rispetto a quella applicata dal datore di lavoro: è veramente pensabile in tal caso una compensazione delle spese? Dopo la sentenza della Corte in commento, il giudice potrà procedere alla compensazione con una motivazione difficilmente sindacabile. Il rigetto della questione, come prospettata dal giudice di Reggio Emilia (cfr. par. 1) esclude tuttavia che la soccombenza possa essere fondata esclusivamente sulla qualità soggettiva della parte soccombente, quando questa coincide con il lavoratore, che non può essere isolatamente una condizione sufficiente per procedere alla compensazione, come in una lunga stagione del secolo scorso è stata prassi dei pretori in funzione di giudice del lavoro, con formule stereotipate rimaste troppo spesso insindacate5.

5. Le conseguenze del mutato orientamento della Corte

sulle leggi processuali.

Sulle spese, ma in genere sulle regole del processo, come si è sottolineato in apertura la Corte ha sempre manifestato un self restraint, ritenendo insindacabili le scelte del legislatore, anche quando queste giungono ad abbandonare alla libertà del giudice le regole del processo (es. art. 702-ter, comma 5, c.p.c. sulle regole del rito sommario di cognizione, art. 38, comma 2, disp att. c.c., sulle regole del rito camerale nelle controversie di famiglia e minorili), con una tensione insostenibile con principi costituzionali (riserva di legge e

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Non sembra su questa linea invece Sanlorenzo, cit., che intravede anche nella qualità soggettiva del soccombente un caso concreto di compensazione; ugualmente, Scarpelli e Giaconi, Il costo della giustizia nel processo del lavoro. La compensazione delle spese legali dopo la Corte costituzionale sull’art. 92 c.p.c., in Lavoro, diritti, Europa, 2018, n. 1.

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Giurisprudenza

giusto processo art. 111, comma 1, Cost.; contraddittorio, art. 111, comma 2, Cost.; difesa, art. 24, comma 2, Cost.). Era così abbandonata alla Corte di cassazione una interpretazione integrativa adeguatrice del rito alle garanzie costituzionali. Ma altre sono le ipotesi in cui sinora la Corte non si è timidamente affacciata, così i benefici offerti in certi procedimenti ad alcuni creditori, gli imprenditori o i lavoratori autonomi, a scapito di altri, tra i quali i lavoratori (si pensi alle prove agevolate ai fini del conseguimento di un decreto ingiuntivo, 634, comma 2, c.p.c. oppure per un intervento nel processo espropriativo, art. 499, comma 1 c.p.c., o infine all’inapplicabilità della misura coercitiva dell’art. 614-bis c.p.c. alle controversie di lavoro). Si apre forse una nuova stagione, come si è giustamente osservato6? Claudio Cecchella

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Ancora Costantino, cit.

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Giurisprudenza C orte di C assazione, sentenza 5 settembre 2018, n. 21679; Pres. Manna – Est. Cinque – P.M. Sanlorenzo (concl. parz. diff.) – F. D. (avv. Alessandrini e Di Folco) c. FCA Italy S.p.A. (già Fiat Group Aumobiles S.p.A.) (avv. De Luca Tamajo, Perlini, Cappucci).

Cassa con rinvio App. Roma. Licenziamenti – Giusta causa – Condotta extra-lavorativa – Rilevanza di elementi oggettivi e soggettivi – Proporzionalità – Insussistenza – Parziale (in)sussistenza del fatto contestato.

La condotta extra-lavorativa illecita integra giusta causa di licenziamento solo allorquando rivesta un carattere tale da far venir meno il rapporto fiduciario con il datore di lavoro, spettando al giudice di merito verificare l’effettiva gravità del comportamento addebitato nonché la proporzionalità tra sanzione e infrazione, tenendo in debita considerazione sia gli elementi oggettivi che quelli soggettivi della fattispecie concreta (nel caso di specie, la Suprema Corte, pur ritenendo disciplinarmente rilevante la condotta del lavoratore trovato in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti, non a fini di spaccio, acquistata durante la pausa pranzo e al di fuori del luogo di lavoro, ma con rientro verso lo stabilimento, ha giudicato il fatto contestato inidoneo a perfezionare una causa «che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto»).

Svolgimento del Processo. – D. F., dipendente della Fiat Group Automobiles spa con inquadramento nel 5^ gruppo professionale, 2^ fascia CCNL 13.12.2011 e con mansioni di magazziniere presso il reparto centro di consolidamento, in data 6.3.2014 veniva licenziato per giusta causa a seguito di contestazione disciplinare del 26.2.2014 con la quale gli era stato addebitato di essere stato sorpreso dai carabinieri, durante la pausa di lavoro, in possesso di 25 grammi di hashish, al fine di spaccio, custoditi nella tuta di lavoro, mentre stava rientrando in azienda, tanto è che era stato arrestato con grave discredito del nome commerciale della società per l’eco della notizia che vi era stato, anche in ambiente extra-lavorativo, come era emerso dall’articolo del 19.2.2014 sul quotidiano locale – Omissis., intitolato – Omissis. Impugnato il licenziamento innanzi al Tribunale di Cassino, con ordinanza del 19.1.2015 venivano rigettate le domande avanzate dal F. e, a seguito di opposizione, con sentenza depositata il 9.5.2016 veniva dichiarato risolto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condannata la società a pagare al dipendente un’indennità risarcitoria pari a 20 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Proposti autonomi reclami ex art. 1 c. 58 legge n. 92/2012, sia dalla società che dal dipendente, la Corte di appello di Roma confermava la gravata sentenza compensando le spese di lite. A fondamento della decisione i giudici di seconde cure rilevavano che: a) correttamente il Tribunale ave-

va considerato ammissibili le circostanze dedotte dal F. per la prima volta con il ricorso in opposizione; b) era condivisibile la tesi della società secondo la quale se il F. non fosse stato arrestato dai Carabinieri, sarebbe rientrato in azienda detenendo un discreto quantitativo di sostanza stupefacente (circa 25 grammi di hashish); c) tale quantitativo, tuttavia, non consentiva di affermare neppure in via presuntiva il fine di spaccio, mentre restava rilevante soltanto la condotta di detenzione di sostanza stupefacente per uso personale, quale condotta certamente extra-lavorativa, tenuta nell’arco temporale di “non lavoro” in quanto dedicato alla pausa pranzo; d) la peculiarità di tale comportamento, che si distingueva dal mero fatto extra-lavorativo, presentava indubbiamente elementi di maggiore gravità rispetto al fatto extra-lavorativo; e) correttamente dal primo giudice era stata esclusa la proporzionalità per fatto addebitato e sanzione espulsiva adottata ed il vincolo fiduciario aveva subito un pregiudizio ma non tale da giustificare l’estinzione del rapporto di lavoro con la massima sanzione espulsiva; f) il fatto in esame, disciplinarmente rilevante, non poteva essere ricondotto all’art. 32 del CCNL perché potenzialmente, in caso di consumo di gruppo della sostanza, sarebbero state pregiudicate l’igiene e la sicurezza dell’intera azienda e non dello stabilimento e perché la società aveva ricevuto un oggettivo discredito, essendo stato il F. arrestato con la tuta portante il marchio Fiat, con la sostanza custodita nella tasca della tuta, durante la pausa pranzo e durante il rientro in azienda.


Giurisprudenza

Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione D. F. affidato a tre motivi. Ha resistito con controricorso la Fiat Group Automobiles spa formulando ricorso incidentale sulla base di un motivo cui ha resistito a sua volta il F. Motivi della Decisione. – Con il primo articolato motivo il ricorrente principale lamenta: 1) ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 132 n. 4 c.p.c.; 2) ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., il difetto di motivazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti; 3) ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300/1970. Si censura il capo della sentenza relativo alle conseguenze della illegittimità, comunque accertata, del licenziamento di cui è causa e la motivazione apparente e viziata da una manifesta e irriducibile inconsistenza, tale da rendere incomprensibile il percorso argomentativo seguito sulla tesi che ad essere interessati dal pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene e alla sicurezza, sia stata l’intera azienda e non il solo stabilimento. Omissis. Con il ricorso incidentale la società lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.), costituito dal non avere correttamente valutato la Corte di merito la potenzialità lesiva del comportamento contestato (detenzione di sostanza stupefacente con rientro in fabbrica del quantitativo di droga acquistato) che era idoneo, sulla base di precedenti giurisprudenziali di legittimità, a giustificare la sanzione espulsiva. Il primo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale devono essere esaminati congiuntamente per la loro interdipendenza logico-giuridica, in quanto attingono al giudizio operato dalla Corte territoriale di sussunzione della fattispecie nella previsione del V comma dell’art. 18 legge n. 300 del 1970 novellato, sulla base della gravità della condotta, da un lato, sollecitandone una attenuazione, con il risultato di rendere applicabile la tutela reintegratoria, dall’altro, un inasprimento, con il risultato di farla rientrare nell’alveo dell’art. 2119 c.c. e, quindi, di rendere il licenziamento legittimo. Deve in proposito ribadirsi che la giusta causa di licenziamento, così come il giustificato motivo, costituiscono una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con disposizioni (ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno

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natura di norma giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. L’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, è quindi sindacabile in cassazione, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denunzia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 23.9.2016 n. 18715; Cass. n. 8367/2014; Cass. n. 5095/2011). Nell’approccio che è stato definito dalla dottrina «multifattoriale», secondo il quale la condotta disciplinarmente rilevante deve essere collocata nel contesto complessivo in cui è avvenuta, possono poi emergere una serie di circostanze, soggettive od oggettive, che consentano al giudice di escludere, in concreto e pur a fronte di un fatto astrattamente grave, l’idoneità dell’inadempimento a configurare giusta causa o giustificato motivo soggettivo, e quindi determinino una sproporzione tra la condotta così come effettivamente realizzata ed il licenziamento (Cass. 16.10.2015 n. 21017). Sotto il profilo della tutela è stato affermato (cfr. Cass. 25.5.2017 n. 13178) che l’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, come modificato dall’art. 1 comma 42 della legge 28 giugno 2012 n. 92, riconosce al IV comma la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto contestato, nonché nei casi in cui il fatto sia sostanzialmente irrilevante sotto il profilo disciplinare o non imputabile al lavoratore; la non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nel IV comma quando questa risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili che stabiliscano per esso una sanzione conservativa, diversamente verificandosi le “altre ipotesi” di non ricorrenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per le quali il V comma dell’art. 18 prevede la tutela indennitaria cd. forte. È pur vero che, per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, proprio perché quella di giusta causa o giustificato motivo è una nozione legale, le eventuali difformi previsioni della contrattazione collettiva non vincolano il giudice di merito. Egli – anzi – ha il dovere, in primo luogo, di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive al disposto dell’art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili, ex art. 2106 c.c., solo ad eventuali sanzioni conservative. Ma ciò non gli consente di fare l’inverso, cioè di estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi soggettivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr. ex aliis Cass. n. 11027/2017; Cass. n.


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9223/2015; Cass. n. 13353/2011; Cass. n. 19053/1995; Cass. n. 1173/1996), nel senso che condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero se l’autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse, con clausola migliorativa per il lavoratore, sanzioni meramente conservative. Orbene, nella fattispecie in esame, deve darsi atto che la Corte di merito – con adeguata motivazione – ha proceduto ad analizzare compiutamente l’episodio sia sul piano fattuale che circostanziale, specificando che il fatto contestato (detenzione di gr. 25 di hashish, non a fini di spaccio, durante la “pausa pranzo” al di fuori del luogo di lavoro ma con rientro verso lo stesso) avesse un suo incontestabile rilievo disciplinare, ma non tale da legittimare una risoluzione in tronco del rapporto. In particolare, i giudici del merito hanno valutato il carattere extra-lavorativo della condotta, sia pur con la particolarità del caso concreto che prevedeva il rientro nello stabilimento; hanno precisato con argomentazioni congrue ed esenti da critiche che l’episodio in questione potesse essere comparato a quello del rinvenimento del dipendente trovato in stato di manifesta ubriachezza durante l’orario di lavoro, sanzionato con una misura conservativa; hanno escluso, per l’insieme delle specifiche circostanze oggettive e soggettive che avevano caratterizzato l’episodio, che il vincolo fiduciario fosse irrimediabilmente compromesso per la assenza di potenziale pregiudizialità derivante al datore di lavoro dal comportamento del dipendente. La suddetta valutazione è corretta giuridicamente, alla stregua dei principi sopra evidenziati in tema di sindacato di legittimità sulla giusta causa, ed è condivisibile e completa logicamente di talché il ricorso incidentale deve essere rigettato. Non è, invece, esatto, a parere del Collegio, l’assunto dei giudici di seconde cure che non hanno ritenuto sussumibile nella previsione dell’art. 32 del CCNL di settore (che prevede una sanzione conservativa per il lavoratore che commetta “qualsiasi mancanza che porti pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene e alla sicurezza dello stabilimento”), opinando che ad essere coinvolta dal comportamento del F. non era lo stabilimento ma l’intera azienda, vista «la possibile condivisione del “fumo” con altri colleghi di lavo-

ro, essendo notorio il cd. passaggio di sigaretta da un soggetto ad altro nei fenomeni di consumo di gruppo, nell’ambito dell’intera azienda»; analogamente, non è senza errori l’affermazione della Corte territoriale che ha considerato la sussistenza dell’ulteriore stato lesivo, rappresentato dall’oggettivo discredito prodotto a danno della società per essere stato il lavoratore arrestato con la tuta portante il marchio FIAT, con sostanza custodita nella tasca della tuta stessa, durante la pausa pranzo e nel mentre ritornava in azienda. Invero, premesso che per stabilimento deve intendersi l’edificio all’interno del quale si svolge l’attività lavorativa espletata dal dipendente mentre per azienda deve considerarsi, in termini più generali, tutto l’insieme delle attività finalizzate alla produzione dei beni materiali, quali gli impianti, gli uffici, la logistica (etc.), la ricostruzione adottata dalla Corte di merito risulta carente ed insussistente, sotto il profilo motivazionale, sia in ordine al presupposto da cui parte, circa la “possibile condivisione del fumo con altri colleghi”, ben potendo la detenzione, nel caso in esame, per il quantitativo della sostanza, essere finalizzata esclusivamente ad un consumo personale magari da attuarsi fuori l’ambiente lavorativo e fuori l’orario di lavoro, sia per l’asserito coinvolgimento di tutta l’azienda in un cd. fenomeno di consumo di gruppo e non del solo stabilimento cui era addetto il F., non risultando ciò avvalorato da alcun elemento di fatto. Quanto, poi, all’asserito discredito prodotto a danno della società, va rilevato che anche su questo punto manca un accertamento concreto in relazione a tale requisito (cfr. Cass. n.20545/2015), perché con la diffusione meramente locale del quotidiano che aveva riportato la notizia, non risultava dimostrata alcuna lesione degli interessi di parte datoriale nella loro oggettività in considerazione di un episodio avente comunque carattere extralavorativo. In conclusione, quindi, il primo motivo del ricorso principale deve essere accolto, con assorbimento dell’esame degli altri, mentre va rigettato il ricorso incidentale. La sentenza cassata deve essere rinviata alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame della fattispecie sulla base delle indicazioni di cui sopra e provvederà alla determinazione delle spese anche del presente giudizio di legittimità. Omissis.

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La condotta extra-lavorativa del prestatore quale giusta causa di licenziamento: la compromissione del vincolo fiduciario alla prova dell’approccio multifattoriale. Sommario : 1. La vicenda e l’esito dei giudizi di merito. – 2. Le valutazioni dei giudici di seconde cure al vaglio della Suprema Corte. – 3. Sulla detenzione di sostanze stupefacenti quale giusta causa di licenziamento. – 4. Note minime a proposito della nozione di insussistenza del fatto contestato: circa il possibile esito del riesame.

Sinossi. La sentenza in commento insiste sulla necessaria sottoposizione della condotta extralavorativa illecita commessa dal prestatore ad un giudizio di proporzionalità di natura multifattoriale allo scopo di vagliarne l’idoneità a ledere il rapporto fiduciario instauratosi con il datore di lavoro e ad integrare – pertanto – giusta causa di licenziamento, dimostrandosi tale valutazione imprescindibile al fine dell’individuazione della tutela/sanzione applicabile, soprattutto laddove l’addebito contestato sia riconducibile a previsioni collettive formulate in maniera elastica e, contrariamente a quanto richiesto dal CCNL applicabile, non risulti provato da parte datoriale alcun pregiudizio agli scopi aziendali.

1. La vicenda e l’esito dei giudizi di merito. La vicenda in esame verte sul licenziamento per giusta causa di un lavoratore resosi colpevole di un’illecita, quanto particolare, condotta extra-lavorativa. Al prestatore, addetto a mansioni di magazziniere, è stato infatti contestato di essere stato sorpreso dai Carabinieri, durante la pausa pranzo, in possesso di 25 grammi di hashish, al fine di spaccio, custoditi nella tuta di lavoro, proprio mentre stava facendo rientro verso lo stabilimento. Con tutta evidenza, la particolarità della condotta contestata risiede nella circostanza per cui qualora il lavoratore non fosse stato arrestato dai Carabinieri, egli sarebbe rientrato nel luogo di lavoro detenendo un discreto quantitativo di sostanze stupefacenti. Tale tesi, sostenuta in giudizio dalla società datrice di lavoro, era stata ritenuta condivisibile dai giudici di seconde cure, i quali avevano rilevato come «la peculiarità di tale comportamento, che si distingueva dal mero fatto extra-lavorativo, presentava indubbiamente elementi di maggiore gravità rispetto al fatto extra-lavorativo». Tuttavia, la Corte di appello di Roma, contrariamente a quanto sostenuto dalla società, aveva ritenuto che, pur essendo disciplinarmente rilevante la condotta extra-lavorativa con-

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sistente nella detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale, la modica quantità di cui il lavoratore era stato trovato in possesso non poteva consentire di affermare nemmeno in via presuntiva il fine di spaccio addebitato al prestatore. Fermo restando il rilievo disciplinare del fatto contestato, i giudici di seconde cure avevano escluso la proporzionalità tra infrazione e sanzione adottata, non avendo il rapporto fiduciario con il datore di lavoro subito una lesione tale da giustificare il licenziamento in tronco del lavoratore. Ad opinione dei giudici del gravame, peraltro, il comportamento addebitato al prestatore non poteva essere ricondotto tra i fatti punibili con una sanzione conservativa ai sensi del CCNL applicabile, escludendosi perciò l’applicabilità della cosiddetta tutela reintegratoria attenuata, ovvero della tutela di cui all’art. 18, comma 4, legge 20 maggio 1970, n. 300, così come modificato dall’art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92. Accertata la sussistenza del fatto contestato e stante l’asserita impossibilità di ricondurlo «tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» (art. 18, comma 4, l. n. 300/1970), dalla mera sproporzione tra l’infrazione commessa e la sanzione irrogata non può che farsi discendere l’applicazione della tutela di cui all’art. 18, comma 5, l. n. 300/1970, meglio nota come tutela indennitaria forte. Pertanto, la Corte di appello, rigettati i reclami proposti sia dalla società che dal lavoratore, ha confermato la sentenza del Tribunale di Cassino, la quale – pronunciata a seguito di una prima ordinanza sfavorevole al prestatore – dichiarava risolto il rapporto alla data del licenziamento e condannava il datore di lavoro a pagare al dipendente un’indennità risarcitoria pari a venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto1. Avverso tale decisione hanno presentato ricorso per cassazione sia il prestatore, sia la società datrice di lavoro.

2. Le valutazioni dei giudici di seconde cure al vaglio della Suprema Corte.

Dopo aver riunito il primo motivo del ricorso principale – ovvero quello proposto dal lavoratore – ed il ricorso incidentale presentato dalla società, in ragione della loro interdipendenza logico-giuridica, il Giudice di legittimità, nel vagliare la decisione della Corte di appello di Roma, ha espresso alcune interessanti considerazioni sulla nozione di giusta causa di licenziamento, nonché a proposito dell’approccio cosiddetto multifattoriale volto ad accertarne la sussistenza.

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Vale la pena di ricordare che, attualmente, nel nostro ordinamento sono presenti due differenti regimi circa le ipotesi e le relative conseguenze di un licenziamento illegittimo. Il primo di essi, applicabile al caso di specie, è regolato dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (l. n. 300/1970), così come modificato dalla cosiddetta riforma Fornero (l. n. 92/2012). Il secondo, disciplinato dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, si applica invece a coloro che sono stati assunti a partire dal 7 marzo 2015 (art. 1, comma 1 e ss.). Nel presente contributo, come potrà facilmente intuirsi, ci si concentrerà unicamente sul primo di questi regimi, cioè quello applicabile nel caso concreto. Per un approfondimento sul d.lgs. n. 23/2015, ovvero sul cosiddetto contratto a tutele crescenti, v. Carinci, Cester (a cura di), Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015 (contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), ADAPT e-Book, 2015, 46.

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Giurisprudenza

Innanzitutto, la Suprema Corte ha ribadito che, secondo costante giurisprudenza, la giusta causa di licenziamento di cui all’art. 2119 c.c. costituisce «una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con disposizioni (ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa [dal giudice del merito], mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama»2. A tal proposito, la Corte ha richiamato il ben noto ed affermato approccio multifattoriale, il quale, collocando il comportamento addebitato al lavoratore nel più ampio contesto in cui si è realizzato, consente l’emersione di una serie di circostanze, di natura sia oggettiva che soggettiva, utili al giudice per valutare se il comportamento contestato, pur astrattamente grave, possa costituire, nel caso concreto, giusta causa di licenziamento, avendo compromesso irreparabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro3. Qualora tale giudizio abbia esito negativo, si determinerà una sproporzione tra infrazione e sanzione, ovvero tra la condotta così come si è effettivamente estrinsecata e il licenziamento disciplinare. Inoltre, richiamando consolidata giurisprudenza di legittimità, il Collegio ha sottolineato come sia inibito al giudice di merito estendere il catalogo delle giuste cause di licenziamento oltre quanto stabilito dalla contrattazione collettiva – «nel senso che condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa […] non possono rientrare nel relativo novero se l’autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse, con clausola migliorativa per il lavoratore, sanzioni meramente conservative» – essendogli invece consentito di fare l’inverso, avendo anzi

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Sulla giusta causa quale clausola generale si vedano, a titolo esemplificativo: Cass., 2 marzo 2011, n. 5095, in Banca Dati Leggi d’Italia; Cass., 9 aprile 2014, n. 8367, in LG, 2014, 7, 708 e Cass., 23 settembre 2016, n. 18715, in Banca Dati Leggi d’Italia, tutte riportate nell’arresto giurisprudenziale in epigrafe. Sul punto v. altresì Cass., 11 dicembre 2015, n. 25044, in ADL, 4-5, 949, con nota di Avondola. In dottrina, sulla giusta causa quale clausola “aperta” v. De Luca Tamajo, Licenziamento disciplinare, clausole elastiche, “fatto contestato”, in ADL, 2015, 2, 269 e Timellini, Giusta causa di licenziamento tra legge, contrattazione collettiva e sindacato del giudice, in VTDL, 2017, 3, 821. 3 Sull’approccio multifattoriale e il giudizio di proporzionalità v., ex plurimus: Cass., 26 aprile 2012, n. 6498, in Pratica Lavoro, 2012, 22, 993, con nota di Proietti Semproni; Cass., 18 settembre 2012, n. 15654, in Banca Dati Leggi d’Italia e attinente, come la precedente, l’idoneità di una condotta extra-lavorativa a costituire giusta causa di licenziamento; Cass., 9 aprile 2014, n. 8367, cit., anch’essa riguardante la configurabilità di un comportamento extra-lavorativo quale giusta causa di licenziamento; Cass., 16 ottobre 2015, n. 21017, in LG, 2016, 1, 88, riportata nella sentenza in epigrafe; Cass., 5 aprile 2017, n. 8826, in Banca Dati Leggi d’Italia; Cass., 12 ottobre 2017, n. 24014, ivi. In particolare, vale la pena di riportate i principi di diritto riaffermati in Cass., 16 ottobre 2015, n. 21017, cit.: «a) Per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale; dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. b) Nel giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione in relazione all’illecito commesso, l’inadempimento del lavoratore deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3), ovvero tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.)». Per quanto riguarda, invece, il carattere necessariamente “bifasico” del giudizio di proporzionalità nel contesto dei licenziamenti disciplinati dalla cosiddetta riforma Fornero v. per tutti Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, in RIDL, 2012, 2, 415 e De Luca Tamajo, (In)sussistenza del fatto e canone di proporzionalità del licenziamento disciplinare, in Caruso (a cura di), Il licenziamento disciplinare nel diritto vivente giurisprudenziale. Dal fatto insussistente alla violazione delle regole procedimentali, in WP D’Antona, Collective Volumes, 2017, 7, 38.

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il dovere «di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive al disposto dell’art. 2106 c.c. e rilevare la nullità di quelle che prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per la loro natura assoggettabili, ex art. 2106 c.c., solo ad eventuali sanzioni conservative»4. Ciò premesso, la Suprema Corte ha riconosciuto al giudice di merito di aver adeguatamente valutato il caso in esame e di aver giustamente escluso che, in ragione delle precipue circostanze oggettive e soggettive che avevano caratterizzato l’episodio, il vincolo fiduciario potesse considerarsi irrimediabilmente leso, non avendo la condotta del lavoratore arrecato alcun pregiudizio, anche solo potenziale, alla società datrice di lavoro. Pertanto, non sussistendo una giusta causa di licenziamento, i Giudici di legittimità hanno respinto il ricorso incidentale con il quale la società si doleva della valutazione dei giudici di seconde cure – i quali non avrebbero tenuto adeguatamente conto della potenzialità lesiva dell’infrazione commessa dal lavoratore, idonea, sulla scorta di precedente giurisprudenza della stessa Suprema Corte, a giustificare il licenziamento in tronco – e volto a chiedere, in buona sostanza, di giudicare legittima la sanzione espulsiva. Il Collegio non ha invece ritenuto condivisibile la valutazione operata dai giudici del gravame per cui il fatto contestato, in sé di indubbio rilievo disciplinare, non potesse essere ricondotto all’art. 32 del CCNL applicabile, il quale prevede la comminazione di sanzioni di tipo conservativo per il lavoratore che «commetta qualsiasi mancanza che porti pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene ed alla sicurezza dello stabilimento» (corsivo dell’A.). Secondo la Corte di appello capitolina, infatti, qualora il lavoratore non fosse stato arrestato dai Carabinieri, sarebbe rientrato nel luogo di lavoro detenendo una discreta quantità di stupefacenti, ragion per cui non si poteva escludere che, anche solo potenzialmente, la sostanza potesse essere oggetto di un consumo di gruppo, con conseguente pregiudizio per l’igiene e la sicurezza dell’intera azienda e non solo del singolo stabilimento. Oltretutto, la Corte di appello ha ritenuto allegato e dimostrato l’oggettivo discredito subito dalla società, «essendo stato il [prestatore] arrestato con la tuta portante il marchio Fiat, con la sostanza custodita nella tasca della tuta». Nel ragionamento dei giudici del merito, dunque, la condotta del lavoratore sembrerebbe piuttosto ascrivibile alla medesima previsione del suddetto contratto collettivo che prevede il licenziamento senza preavviso per «il lavoratore che provochi all’azienda grave

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La questione, in verità, non è poi così pacifica in giurisprudenza. In linea con la pronuncia in esame, vedasi, ad esempio, Cass., 25 agosto 2016, n. 17337, in LG, 2016, 12, 1122, nonché Cass., 5 maggio 2017, n. 11027, ivi, 2017, 11, 970, con nota di Cairo, citata nella sentenza oggetto del presente commento. Peraltro, tale posizione pare in linea con il disposto dell’art. 12 legge 15 luglio 1966, n. 604, il quale fa «salve le disposizioni di contratti collettivi e accordi sindacali che contengano, per la materia disciplinata dalla presente legge, [ovvero i licenziamenti individuali,] condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro». In senso parzialmente difforme: Cass., 17 giugno 2011, n. 13353, in Banca Dati Leggi d’Italia e Cass., 7 maggio 2015, n. 9223, ivi, entrambe richiamate nella pronuncia in esame. Tali arresti, infatti, pur non smentendo l’orientamento confermato nella sentenza in epigrafe, lo integrano e lo precisano con questa massima: in materia di licenziamento disciplinare, deve escludersi che un dato comportamento del prestatore, invocato dal datore di lavoro quale giusta causa di licenziamento, ma integrante una specifica infrazione comportante una sanzione conservativa ai sensi del contratto collettivo, possa essere oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, a meno che egli non accerti che le parti sociali non avevano inteso escludere, per i casi di maggiori gravità, la possibilità di irrogare la sanzione espulsiva. Differisce Cass., 26 gennaio 2017, n. 2007, in GI, 2017, 4, 904, con nota di Olivelli, in cui si afferma che il licenziamento disciplinare per giusta causa intimato a seguito di una serie progressiva di sanzioni conservative è proporzionato e legittimo anche se tale condotta, peraltro reiterata, risulti punibile, ai sensi del CCNL applicabile, solo con sanzioni di tipo conservativo. In dottrina, per una panoramica sul tema, v. Timellini, op. cit.

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nocumento morale o materiale o che compia, in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, azioni che costituiscano delitto a termine di legge» (corsivo dell’A.). Pur ritenendo accertato il pregiudizio arrecato all’azienda, la sanzione è stata considerata sproporzionata rispetto all’infrazione commessa, ma, in ragione dell’impossibilità di sussumere la fattispecie concreta nella previsione collettiva che prevede la comminazione di sanzioni conservative, la Corte di appello capitolina ha concluso in favore dell’applicazione della tutela indennitaria forte di cui all’art. 18, comma 5, l. n. 300/19705. Ebbene, a giudizio della Suprema Corte, l’assunto dei giudici di seconde cure in base al quale il comportamento addebitato al prestatore non poteva farsi rientrare tra le condotte per le quali il CCNL applicabile prevede sanzioni conservative, così come l’affermazione degli stessi giudici che hanno ritenuto provato e dimostrato l’oggettivo discredito arrecato dal lavoratore alla società, non sono esenti da errori ed incongruità. In effetti, come lamentato dal prestatore nel primo motivo del ricorso principale, la motivazione della Corte di appello appare «viziata da una manifesta ed irriducibile inconsistenza, tale da rendere incomprensibile il percorso argomentativo seguito sulla tesi che ad essere interessati dal pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene e alla sicurezza, sia stata l’intera azienda e non il solo stabilimento». Così, dopo aver precisato che cosa debba intendersi per stabilimento e che cosa – invece – con il termine “azienda”, sottolineandone il differente significato, i Giudici di legittimità hanno criticato la ricostruzione adottata dalla Corte di merito, la quale è risultata essere carente ed insussistente. In primo luogo, la Suprema Corte ne ha criticato l’assunto di partenza, ovvero la possibile condivisione della sostanza illecita con i colleghi, non essendo stata provata tale intenzione e ben potendo il possesso di tale sostanza, anche in ragione del modico quantitativo trovato addosso al prestatore, essere destinato ad un consumo esclusivamente personale, al di fuori dello stabilimento e dell’orario di lavoro. In secondo luogo, il Giudice della nomofilachia ha evidenziato come non fosse avvalorata da alcun elemento di fatto l’affermazione per cui da tale consumo di gruppo della sostanza stupefacente, peraltro meramente possibile, sarebbe derivato un coinvolgimento dell’intera azienda e non del solo stabilimento. Da ultimo, quanto all’asseverato discredito causato alla società dal comportamento addebitato al prestatore, la Corte, richiamando ben nota giurisprudenza, ha rilevato come non fosse stato in concreto accertato tale pregiudizio, «perché con la diffusione meramente locale del quotidiano che aveva riportato la notizia, non risultava dimostrata alcuna lesione degli interessi di parte datoriale nella loro oggettività in considerazione di un episodio avente comunque carattere extra-lavorativo». La Suprema Corte, con tale ultima affermazione, accogliendo il primo motivo del ricorso principale presentato dal lavoratore e cassando la sentenza impugnata, sembra voler orientare verso una precisa direzione la Corte di appello di Roma, chiamata a riesaminare, in diversa composizione, la fattispecie in esame. Tale direzione sembra essere quella dell’insussistenza del fatto contestato, non essendo stato concretamente allegato e dimostrato il pregiudizio arre-

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Il campo di applicazione della tutela di cui all’art. 18, comma 5, stat. lav. è definito e definibile in negativo: essa, infatti, trova spazio in tutte quelle circostanze in cui non ricorra una delle due ipotesi descritte dal comma 4 del medesimo art. 18, ovvero in tutti quei casi in cui l’infrazione contestata ed accertata, sebbene sproporzionata rispetto alla sanzione espulsiva, non sia riconducibile «tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» (art. 18, comma 4, l. n. 300/1970).

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cato alla società dal comportamento commesso dal lavoratore, elemento che è invece richiesto dal CCNL applicabile tanto per le sanzioni conservative, quanto – soprattutto – per la sanzione espulsiva. Tuttavia, in altre parti della sentenza, la Corte pare orientarsi in un altro senso. Infatti, il Giudice della nomofilachia ha esplicitamente condiviso il rilievo della Corte di merito secondo cui il fatto contestato – ed accertato – «avesse un suo incontestabile rilievo disciplinare, ma non tale da legittimare una risoluzione in tronco del rapporto». Inoltre, come si ha già avuto modo di dire, il Collegio ha criticato quella parte del ragionamento dei giudici di seconde cure in cui essi avevano escluso la possibilità di ascrivere il fatto addebitato tra le condotte passibili di sanzioni conservative ai sensi del più volte citato art. 32 del CCNL applicabile, lasciando intendere che, a suo giudizio, nel caso in esame ricorresse la seconda delle due ipotesi di cui all’art. 18, comma 4, Statuto dei Lavoratori. In altre parole, la Suprema Corte avrebbe lasciato intendere che il fatto contestato al lavoratore potesse farsi ricondurre a fattispecie di illeciti per i quali sono previste delle mere sanzioni conservative, anche in ragione dell’elastica ed indeterminata formulazione della succitata previsione di fonte collettiva6. Per ulteriori approfondimenti su tale questione consenta il lettore di rimandare alla parte conclusiva del presente contributo (v. infra, § 4).

3. Sulla detenzione di sostanze stupefacenti quale giusta

causa di licenziamento.

Ad attento lettore non sarà sfuggito il fatto che, nella sentenza in epigrafe, non sia rinvenibile alcuna considerazione del Collegio a proposito dell’idoneità di un comporta-

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A proposito di clausole collettive di natura elastica ed indeterminata v. Cass., 15 settembre 2016, n. 18124, in questa Rivista, 2017, 1, 78, con nota di Lama, le cui statuizioni sembrerebbero potersi applicare anche nel caso in esame (ma sul punto v. più ampiamente infra, § 4). In tale pronuncia, infatti, riaffermando il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in tema di licenziamento disciplinare, anche qualora la contrattazione collettiva associ ad un determinato inadempimento il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il giudice investito della questione ha comunque l’obbligo di verificare l’effettiva gravità della condotta contestata al lavoratore nel caso concreto, la Suprema Corte ha altresì precisato che «tale verifica deve essere condotta con tanto maggiore attenzione e aderenza agli indici distintivi della fattispecie concreta, allorquando, come nella specie, la contrattazione collettiva non contenga un’espressa tipizzazione, entro la quale sussumere la condotta oggetto di contestazione, ma stabilisca l’irrogazione della sanzione espulsiva sulla base di un raccordo tra norme connotate da un grado, anche elevato, di elasticità e di indeterminatezza». In effetti, in dottrina si discute se la tutela reintegratoria attenuata di cui alla seconda delle due ipotesi previste dall’art. 18, comma 4, stat. lav. possa trovare applicazione unicamente nel caso di precisa e compiuta tipizzazione contrattuale dell’inadempimento come meritevole di una sanzione conservativa o, come sembra preferibile e condiviso da Cass., 15 settembre 2016, n. 18124, cit., anche nell’ipotesi in cui il fatto contestato non sia stato specificatamente tipizzato, ma possa ricondursi ad una previsione di fonte collettiva di natura elastica. Del resto, il succitato art. 18, comma 4 si riferisce, piuttosto genericamente, alle previsioni della contrattazione collettiva e non alle tipizzazioni operate dai contratti collettivi, come fa – invece – l’art. 30 della legge 4 novembre 2010, n. 183. Tale argomentazione è sostenuta anche, ad esempio, da App. Roma, 7 maggio 2014, in GC.com, 2014, 12, con nota di Martelloni. Oltretutto, in tale sentenza, in assenza del grave nocumento richiesto dal CCNL applicabile per il licenziamento in tronco, invece di dichiarare il fatto insussistente per l’assenza di uno dei suoi elementi, la Corte di appello ha ritenuto di poterlo ricondurre tra le fattispecie passibili di sanzioni conservative sulla base di previsioni collettive di natura elastica. Tuttavia, come si avrà modo di vedere, tale orientamento verrà poi smentito da Cass., 13 ottobre 2015, n. 20545 (v. infra, § 4). Per un breve resoconto a proposito del dibattito instauratosi in dottrina circa la corretta ‘interpretazione della seconda delle due ipotesi di tutela reintegratoria attenuata cui all’art. 18, comma 4, st. lav. v. per tutti Berrini Ceschi, L’art. 18, c. 4, Stat. Lav.: il riferimento ai contratti collettivi e al codice disciplinare. Interpretazione dottrinale ed applicazione giurisprudenziale, in LG, 2014, 10, 845.

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mento extra-lavorativo, ovvero di un fatto non direttamente riconducibile all’esecuzione del contratto, a costituire giusta causa di licenziamento e, in particolare, a ledere il vincolo fiduciario che lega il prestatore al datore di lavoro. In effetti, nel caso di cui ci si sta occupando, la Suprema Corte non ha espresso alcuna parola a riguardo, pur essendo ancora oggi dibattuta e controversa, almeno in dottrina, tanto l’idoneità di una condotta extra-lavorativa a integrare un licenziamento ex art. 2119 c.c., quanto la stessa nozione di rapporto o vincolo fiduciario7. In questo senso, la pronuncia in esame non è esente da critiche, non avendo il Giudice della nomofilachia reso del tutto esplicite le ragioni sulle quali ha fondato la propria decisione8. Sono invero numerosi, anche nella giurisprudenza più recente, i precedenti – vuoi conformi, vuoi difformi al caso di specie – in cui i Giudici di legittimità sono stati chiamati a pronunciarsi circa la legittimità di un licenziamento per giusta causa intimato in ragione di una specifica condotta extra-lavorativa, ovvero la detenzione di sostanze stupefacenti9. In tali sentenze, peraltro, è quasi sempre rinvenibile qualche riflessione riguardante sia la condotta extra-lavorativa quale giusta causa di licenziamento, che il vincolo fiduciario più volte richiamato. Sia consentito ricostruire brevemente i risultati cui è pervenuta questa giurisprudenza, anche al fine di vagliarne la coerenza rispetto alla sentenza in commento. In primis, va ricordato che, anche in materia di possesso di sostanze stupefacenti, vale il principio costantemente affermato dalla Suprema Corte e in base al quale «ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica

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Su tali argomenti v. Corso, Giusta causa ed “illiceità” delle condotte extralavorative: alla ricerca di un difficile equilibrio, in VTDL, 2/2017, 498-499, il quale, tra l’altro, osserva come «nell’ampio genus degli eventi estranei al rapporto di lavoro che possono incidere sull’esistenza e qualità della prestazione lavorativa e che possono assurgere a premessa e causa della non prosecuzione del rapporto, un ruolo centrale è stato riconosciuto agli illeciti penali (o reati) [ed] è proprio in relazione a questi ultimi che l’istituto della fiducia ha trovato ampia (e più uniforme) applicazione e la non preordinata tassatività dei motivi di recesso la sua ragion d’essere». 8 Peraltro, l’assenza di qualsivoglia considerazione a proposito del comportamento extra-lavorativo quale giusta causa di licenziamento potrebbe non essere interamente imputabile all’organo giudicante: non avendo il lavoratore, a quanto consta, presentato alcuna specifica doglianza circa l’idoneità di una condotta extra-lavorativa ad integrare un recesso in tronco, la Suprema Corte ha forse ritenuto superfluo soffermarsi su un punto non oggetto di discussione in quanto ritenuto pacifico. Ad ogni modo, ad opinione di chi scrive, qualche breve puntualizzazione inerente tali condotte e la nozione di vincolo fiduciario non avrebbe guastato, ma – anzi – avrebbe avuto il pregio di rendere manifesto il percorso argomentativo attraverso il quale il Collegio è giunto a condividere le valutazioni dei giudici del gravame. 9 Si vedano, ex aliis: Cass., 19 agosto 2004, n. 16291, in MGI, 2004; Cass., 26 aprile 2012, n. 6498, cit.; Cass., 6 agosto 2015, n. 16524, in LG, 2015, 11, 1051; Cass., 9 marzo 2016, n. 4633, in RIDL, 2016, 4, 800, con nota di Frigo; Cass., 24 novembre 2016, n. 24023, in Banca Dati Leggi d’Italia; Cass., 1 dicembre 2016, n. 24566, in LG, 2017, 4, 394; Cass. 10 novembre 2017, n. 26679, ivi, 2018, 3, 312; Cass., 24 maggio 2018, n. 12994, in D&G, 2018, 92, 41, con nota di Leverone. In generale, nella valutazione cui sono chiamati i giudici di merito al fine di accertare la legittimità di un licenziamento per giusta causa intimato in ragione del possesso di sostanze stupefacenti, la Suprema Corte è solita evidenziare la rilevanza, tra gli altri, dei seguenti elementi: le circostanze del caso, la natura delle mansioni svolte dal lavoratore, il tipo e la quantità di sostanze illecite delle quali è stato trovato in possesso, il fine della detenzione di tali sostanze, ovvero il mero consumo personale o lo spaccio. Piuttosto singolare è invece Cass., 26 maggio 2014, n. 11715, in LG, 2014, 12, 1066, con nota di Giorgi, in cui, in relazione alle mansioni svolte dal prestatore di lavoro (autista di mezzi pesanti), il consumo di stupefacenti è venuto a configurarsi, invece che giusta causa di recesso, come giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Per una disamina critica della giurisprudenza di legittimità in merito alla detenzione, all’uso e al commercio di sostanze stupefacenti quali fenomeni che ledono irreparabilmente il vincolo fiduciario, costituendo – pertanto – giusta causa di licenziamento, v. Pantano, “Fiducia” e libertà della persona nel licenziamento motivato dai così detti comportamenti “extra lavorativi”, in VTDL, 2017, 1, 241.

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previsione; ne consegue che i comportamenti del lavoratore che costituiscano gravi violazioni dei doveri fondamentali del lavoratore – come quelli della fedeltà e del rispetto del patrimonio e della reputazione del datore di lavoro – sono sanzionabili con il licenziamento disciplinare a prescindere dalla loro inclusione o meno all’interno del codice disciplinare, ed anche in difetto di affissione dello stesso»10, avendo l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi, a differenza delle sanzioni di tipo conservativo, natura meramente esemplificativa11. Secondariamente, sia consentito riportare per esteso alcune considerazioni che la Suprema Corte è solita svolgere quando si accinge ad apprezzare la legittimità di un licenziamento per giusta causa intimato in virtù di comportamenti extra-lavorativi del prestatore di lavoro. Ebbene, «è noto che il concetto di giusta causa non si limita all’inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma si estende anche a condotte extra-lavorative che, seppur formalmente estranee alla prestazione oggetto di contratto, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti. In ordine alla possibile rilevanza, come giusta causa di licenziamento, anche di condotte extra-lavorative si tenga presente che in dottrina si sono a lungo confrontate due opzioni di fondo: l’una, restrittiva, espunge dal novero dei comportamenti passibili di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo qualunque comportamento esterno agli obblighi lavorativi oggetto di contratto; l’altra, estensiva, comprende nel concetto di giusta causa anche condotte che, pur se concernenti la vita privata del lavoratore, tuttavia possano in concreto risultare idonee a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che connota il rapporto di subordinazione, nel senso che abbiano un riflesso, sia pure soltanto potenziale, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa. Altra dottrina, invece, condividendo con la giurisprudenza […] un approccio meno dogmatico al tema, privilegia una valutazione complessiva dei singoli casi, tenendo conto della natura e della qualità delle parti e della loro posizione, dell’immagine esterna dell’azienda, nonché del grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni»12. In altre parole, secondo l’autorevole opinione del Giudice della nomofilachia, non esiste una condotta extra-lavorativa di per sé idonea a determinare la risoluzione in tronco del rapporto: dovrà essere fatta

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Così Cass., 9 settembre 2003, n. 13194, in AC, 2004, 937, richiamata – a sua volta – da Cass., 19 agosto 2004, n. 16291, cit. In questo senso sono, ad esempio, Cass., 18 febbraio 2011, n. 4060, in Banca Dati Leggi d’Italia e Cass., 12 febbraio 2016, n. 2830, ivi. In dottrina, v. Corso, op. cit., 509. 12 Così, tra le altre, Cass., 31 luglio 2015, n. 16268, in Banca Dati Leggi d’Italia. Nello stesso senso anche Cass., 6 agosto 2015, n. 16524, cit. Le brevi considerazioni della Suprema Corte di Cassazione, peraltro, consentono di sintetizzare il dibattito instauratosi in dottrina – e in parte ancora aperto – circa l’idoneità di una condotta extra-lavorativa ad integrare giusta causa di licenziamento. Da un lato, infatti, c’è chi sostiene una nozione “contrattuale” o “soggettiva” di giusta causa di licenziamento, mentre dall’altro vi è chi ne sostiene una “fiduciaria” o “oggettiva”. Molto brevemente, mentre la prima teoria, quella “contrattuale”, ritiene che la giusta causa ex art. 2119 c.c. sia integrata unicamente da inadempimenti contrattuali, non rilevando in alcun modo eventuali condotte extra-lavorative, la teoria “fiduciaria” afferma che anche fatti e comportamenti estranei alla sfera del rapporto di lavoro possano dar luogo ad un recesso in tronco, a patto che siano idonei a menomare il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto stesso, rendendone impossibile la prosecuzione. Non essendo questa la sede più adatta per approfondire tale querelle dottrinale, sia consentito, citando unicamente i contributi più recenti, di rimandare a Gaudio, Condotte extra-lavorative e licenziamento per giusta causa, in ADL, 2017, 4-5, 1310 e a Olivelli, L’inadempimento e la fiducia nella giusta causa di licenziamento, ivi, 2018, 1, 149. 11

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una valutazione caso per caso ricorrendo all’approccio multifattoriale, proprio come se si trattasse di un qualsiasi illecito disciplinare. Ciò detto, è pur vero che, in linea di massima, i comportamenti del lavoratore nella sua vita privata sono considerati dalla giurisprudenza di legittimità come estranei all’esecuzione della prestazione lavorativa e, pertanto, irrilevanti ai fini della compromissione del vincolo fiduciario13, a meno che – per la loro gravità e natura – tali condotte siano tali da far ritenere il prestatore inidoneo alla prosecuzione del rapporto14. Peraltro, anche nel caso di condotta extra-lavorativa illecita – quale, ad esempio, proprio la detenzione di sostanze stupefacenti – «è pur sempre necessario che si tratti di comportamenti che, per la loro gravità, siano suscettibili di scuotere irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro perché idonei, per le concrete modalità con cui si manifestano, ad arrecare un pregiudizio, anche non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali»15. A tal proposito, pare opportuno rammentare che per vincolo o rapporto fiduciario la giurisprudenza di legittimità è solita intendere l’aspettativa di una parte, in questo caso il datore di lavoro, circa il comportamento dell’altra parte, il lavoratore, dalla quale – appunto – ci si aspetta il preciso e tempestivo adempimento di tutti gli obblighi che possono farsi discendere dal contratto di lavoro16. Molto importante, poi, è il collegamento tra le condotte extra-lavorative e gli inadempimenti contrattuali operato attraverso il richiamo agli obblighi accessori, frutto di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato17. Si ricordi in particolare che, secondo Cass., 9 marzo 2016, n. 4633, cit., «gli artt. 2104 e 2105 cod. civ., richiamati nella disposizione dell’art. 2106 relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno [...] interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata, e si estenda a comportamenti che per la loro natura e per le loro conseguenze appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità

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In questo senso, proprio a proposito della detenzione di sostanze stupefacenti, si esprime Cass., 6 dicembre 2012, n. 21940, in ADL, 2013, 3, 664, con nota di Bonacci. 14 Per un raffronto v. Cass., 29 marzo 2017, n. 8132, in Banca Dati Leggi d’Italia e Cass., 10 novembre 2017, n. 26679, cit. 15 Così Cass., 31 luglio 2015, n. 16268, cit. In senso analogo anche Cass., 10 novembre 2017, n. 26679, cit. 16 V. Cass., 19 agosto 2004, n. 16291, cit., in cui si afferma che «il rapporto fiduciario è tale in quanto legittima determinate aspettative della parte circa il comportamento dell’altra parte e quindi, specialmente in un rapporto di durata, nel quale tale elemento acquista una rilevanza ancora maggiore, necessariamente presuppone una prognosi favorevole relativamente al puntuale adempimento di tutti gli obblighi che ne derivano». Tra le pronunce più recenti si segnala Cass., 10 novembre 2017, n. 26679, cit., secondo la quale, ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, «rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante in tal senso la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza». 17 V., tra le più recenti: Cass., 31 luglio 2015, n. 16268, cit.; Cass., 9 marzo 2016, n. 4633, cit. e Cass., 10 novembre 2017, n. 26679, cit. Sia consentito, in particolare, di riportare un passaggio di Cass., 31 luglio 2015, n. 16268, cit.: «la condotta illecita extra-lavorativa è suscettibile di rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario» (corsivo dell’A.).

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e gli interessi della stessa». Inoltre, vale la pena di osservare come l’approccio dei Giudici della nomofilachia consenta di superare la contrapposizione tra tesi “soggettiva” o “contrattuale” e tesi “oggettiva” o “fiduciaria” della giusta causa di licenziamento, ricollegando la condotta extra-lavorativa agli obblighi contrattuali e qualificandola, pertanto, come un inadempimento degli stessi18. Dal che deriva anche la necessaria qualificazione del licenziamento per giusta causa intimato in ragione di comportamenti extra-lavorativi come licenziamento disciplinare, con conseguente applicazione delle tutele di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori19. Anche in ragione di tale ricostruzione, vi è chi taccia di incoerenza il costante richiamo operato dalla giurisprudenza al cosiddetto vincolo fiduciario, essendo estraneo a tale impianto argomentativo ed idoneo ad allargare oltre misura la sfera degli obblighi contrattuali del prestatore20. A dirla tutta, poi, l’approccio appena illustrato, integrando gli artt. 2104 e 2105 c.c. attraverso le clausole generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), finisce per giungere allo stesso risultato, ovvero all’ampliamento della sfera debitoria del lavoratore21, con il risultato di trasformare condotte private in inadempimenti contrattuali22. Ad ogni modo, bisogna pur riconoscere che, nonostante sia mancato un qualsiasi cenno circa l’idoneità di un comportamento extra-lavorativo a perfezionare un recesso in tronco, il Collegio ha – in maniera del tutto condivisibile – concordato con la valutazione della Corte di appello, la quale, ricorrendo all’approccio multifattoriale, aveva escluso la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, ritenendo la sanzione espulsiva sproporzionata rispetto all’illecito disciplinare commesso e non potendosi considerare irreparabilmente menomato il vincolo fiduciario.

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Tuttavia, tale ricostruzione non convince del tutto: v. i rilievi critici svolti da Gaudio, op. cit. e Pantano op. cit. A tal proposito, si vedano: C. cost., 30 novembre 1982, n. 204, in GI, 1983, I, 1, 1040; Cass., sez. un., 1 giugno 1987, n. 4823, in FI, 1987, I, 2031, con nota di De Luca; Cass., 21 luglio 2004, n. 13526, in ADL, 2005, 1, 375, con nota di Pisani; Cass., 9 agosto 2012, n. 14326, con nota di Garofalo. In dottrina, tra i più recenti, si segnala Corso, op. cit., 508. 20 Tra gli altri, v. Olivelli, op. cit., 153-154, il quale ritiene che, ai fini della risoluzione del rapporto, la rilevanza della fiducia debba essere esclusa, non potendo il suo venir meno essere desunto dall’art. 2119 c.c. quale giusta causa di licenziamento e non essendo la sua menomazione prevista dalla contrattazione collettiva quale ragione di recesso in tronco. L’A., inoltre, critica tale concetto perché labile e soggettivo e rifiuta altresì quella costruzione che configura il venir meno della fiducia quale inadempimento di un obbligo accessorio, ritenendo verificatosi in questo caso un inadempimento contrattuale vero e proprio. Dello stesso tenore sono le considerazioni di Pantano, op. cit., 250, il quale osserva come il riferimento alla fiducia quale elemento connaturato al rapporto (di durata), oltre ad estendere la sfera debitoria del prestatore, non abbia alcun fondamento normativo. Simili rilievi critici al concetto di fiducia provengono anche da Corso, op. cit., 496-497. Vedasi anche Gaudio, op. cit. Tra i contributi meno recenti v. le critiche di Pisani, Licenziamento e sanzioni per fatti privati dei dipendenti: profili procedurali e sostanziali, in ADL, 2005, 1, 375. 21 Si confrontino, ancora una volta, Gaudio, op. cit., 1315 e Pantano, op. cit., 256-257. 22 A tal proposito si veda di nuovo Gaudio, op. cit., 1310, il quale propone di abbandonare l’utilizzo dell’espressione “extra-lavorative”, in quanto sembra far riferimento a condotte che nulla hanno a che vedere con le obbligazioni del contratto di lavoro, quando invece esse vengono configurate dalla giurisprudenza proprio come degli inadempimenti di tali obbligazioni. Non solo: l’A., infatti, rileva come «corollario di tale conclusione, peraltro, è che tali fatti extra-lavorativi dovrebbero rilevare, a seconda della loro gravità, non solo ai fini di un licenziamento per giusta causa, ma anche ai fini di un licenziamento per giustificato motivo soggettivo o di una infrazione disciplinare punibile con una mera sanzione conservativa». Tale ultima affermazione, tra l’altro, sembra implicitamente supportata dalla sentenza in commento: basti pensare alle critiche mosse dalla Suprema Corte ai giudici del gravame per aver ritenuto il comportamento extra-lavorativo addebitato al lavoratore non ascrivibile tra gli illeciti disciplinari punibili con una sanzione conservativa. 19

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Certa dottrina fa notare – invece – come il richiamo alla giusta causa e al vincolo fiduciario si risolva, talvolta, in una clausola di stile23. In effetti, in alcuni casi, la giurisprudenza, specie di legittimità, sembra accordare una rilevanza aprioristica e generalizzata alle condotte extra-lavorative ai fini del licenziamento per giusta causa: da un lato, omettendo un’accurata valutazione dei motivi per cui – nel caso concreto – il comportamento addebitato sarebbe idoneo ad integrare un recesso ex art. 2119 c.c. e ad avere delle ricadute sull’organizzazione imprenditoriale, dall’altro, alleggerendo l’onere probatorio in capo al datore di lavoro circa il pregiudizio arrecato agli scopi aziendali dalla condotta del prestatore24. In questa direzione si muove, per esempio, Cass., 24 novembre 2016, n. 24023, cit., che ha affermato il seguente principio: «l’onere di allegazione dell’incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extra-lavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro è assolto dal datore con la specifica deduzione del fatto in sé, quando abbia un riflesso, anche soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa». Se non altro, la sentenza in commento, similmente ad un precedente arresto del 201625, non è suscettibile di tal critica. Può quindi affermarsi che nel caso di specie la valutazione della sussistenza di una giusta causa di licenziamento sia stata «operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed all’intensità dell’elemento intenzionale ed ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto che su di esso possa incidere negativamente»26. Nella pronuncia in epigrafe, inoltre, la Suprema Corte non ha dimostrato alcun lassismo con riguardo all’onere datoriale di allegazione del pregiudizio arrecato agli scopi aziendali dal comportamento del lavoratore: anzi, ha ritenuto che la sola allegazione del fatto compiuto e la sua pubblicizzazione per mezzo di un quotidiano locale non fossero idonee a dimostrare in concreto alcun nocumento all’organizzazione imprenditoriale.

4. Note minime a proposito della nozione di insussistenza del fatto contestato: circa il possibile esito del riesame.

Non è certo questa la sede più adatta per ricostruire e dar conto dell’infinita querelle dottrinale e giurisprudenziale circa l’esatto significato della nozione di «insussistenza del fatto contestato» di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970 come modificato dalla cosiddetta

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In questo senso, può rilevarsi come, all’interno della giurisprudenza, emerga una certa disparità nelle valutazioni di fatto: in altre parole, i concetti di fiducia e giusta causa finiscono per essere a “geometria variabile”, non essendo interpretati e soppesati in maniera univoca. In tal senso si esprime anche Corso, op. cit, 511. 24 Per un raffronto, si confrontino le osservazioni di Gaudio, op. cit., 1315 e Pantano, op. cit., 258-261. 25 Trattasi di Cass., 2 febbraio 2016, n. 1978, in GI, 2016, 3, 654, con nota di Castellani. 26 Così Cass., 28 aprile 2003, n. 6609, in MGL, 2004, 6, 94, recentemente confermata da Cass., 5 aprile 2017, n. 8826, cit.

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riforma Fornero (l. n. 92/2012)27. Basti qui ricordare come la Suprema Corte di Cassazione, a partire da Cass., 6 novembre 2014, n. 2366928 e con una serie di sentenze successive29, ha via via chiarificato il portato della suddetta nozione, giungendo a stabilire che vi è insussistenza del fatto contestato non solo quando quest’ultimo non venga acclarato, ma altresì qualora il fatto, sebbene accertato, sia irrilevante sotto il profilo disciplinare oppure non sia imputabile al lavoratore o, ancora, allorquando la fattispecie di infrazione disciplinare prevista dalla contrattazione collettiva richieda che la condotta sia caratterizzata anche da un elemento non materiale o da un quid accessorio – quale, ad esempio, la gravità del danno – e quest’ultimo non venga provato, cioè nell’ipotesi di fatto parzialmente (in)sussistente. Tale nozione è stata richiamata proprio perché, come illustrato in precedenza (v. supra, § 2), nel caso in esame, il Collegio sembra oscillare fra l’ipotesi dell’insussistenza del fatto contestato e quella della sua sussunzione «tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» (art. 18, comma 4, l. n. 300/1970). Al fine di accertare se nella fattispecie di cui ci si sta occupando il fatto sussista o meno, può essere utile richiamare Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, cit., dalla quale si desume che l’insussistenza del fatto contestato può derivare anche solo dall’assenza di uno degli elementi dell’illecito disciplinare addebitato, peraltro parzialmente accertato, qualora questo elemento costituisca parte integrante della fattispecie di illecito contestata, ovvero sia essenziale al fine di integrare una giusta causa di licenziamento. Tale importante statuizione è stata precisata e resa più esplicita da giurisprudenza successiva, tra cui Cass., 13 ottobre 2015, n. 20545, cit. Con tale arresto, la Suprema Corte ha chiaramente affermato il seguente principio: allorquando il grave nocumento morale o materiale all’organizzazione dell’impresa sia parte integrante della fattispecie di illecito disciplinare addebitato al lavoratore, l’accertamento della sua assenza determina l’insussistenza del fatto contestato, con conseguente applicazione della tutela di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, l. n. 92/2012. In altre parole, l’insussistenza del fatto

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Per un approfondimento sulla querelle dottrinale tra coloro che sostenevano una nozione di “fatto materiale” e chi invece ne propugnava una di “fatto giuridico” sia consentito, citando unicamente i contributi più recenti, di rinviare a: Carinci, I recenti orientamenti della Corte di Cassazione in materia di licenziamenti ex art. 18 Stat. Lav. “versione Fornero” in LG, 2017, 8-9, 741; Di Paolantonio, L’(in)sussistenza del fatto nel licenziamento, in Caruso (a cura di), op. cit., 46; Timellini, op. cit. Esulano, invece, dallo scopo del presente contributo sia l’indagine circa la nozione di «insussistenza del fatto materiale contestato» di cui all’art. 3, comma 2, d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23, sia il dibattito a proposito delle differenze tra la predetta nozione e quella di «insussistenza del fatto contestato» di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970 così come modificato dalla riforma Fornero (l. n. 92/2012). Su tali argomenti si consultino, tra gli altri: Piccinini, Licenziamento disciplinare: il fatto materiale tra legge Fornero e Jobs Act, in LG, 2016, 4, 339; Amoroso, Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo: fatto contestato (art. 18, quarto comma, l. 20 maggio 1970, n. 300) versus fatto materiale contestato (art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015), in ADL, 2017, 4-5, 890; Giubboni, Colavita, La valutazione della proporzionalità nei licenziamenti disciplinari: una rassegna ragionata della giurisprudenza, tra legge Fornero e Jobs Act, in WP D’Antona, It., 2017, 334; Ponte, Il fatto nel licenziamento disciplinare, in ADL, 2018, 2, 618. 28 Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, in GI, 2014, 12, 2788, con nota di Fiorillo. 29 Trattasi di: Cass., 13 ottobre 2015, n. 20540, in ADL, 2016, 1, 85, con nota di De Michiel; Cass., 13 ottobre 2015, n. 20545, in LG, 2016, 4, 337, con nota di Di Martino e richiamata dalla pronuncia che si sta commentando; Cass., 16 maggio 2016, n. 10019, in Banca Dati Leggi d’Italia; Cass., 20 settembre 2016, n. 18418, ivi; Cass., 25 maggio 2017, n. 13178, ivi, riportata nella sentenza in epigrafe; Cass., 26 maggio 2017, n. 13383, ivi; Cass., 31 maggio 2017, n. 13799, in LG, 2017, 10, 928; Cass., 5 dicembre 2017, n. 29062, in DPL, 2018, 21, 1335. Per un commento a tali sentenze, ovvero a quello che sembra ormai un consolidato orientamento giurisprudenziale, si vedano: Carinci, op. cit., De Luca Tamajo, (In)sussistenza del fatto, cit. e Di Paolantonio, op. cit.

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contestato si realizza altresì «qualora la fattispecie di illecito configurata dalla legge o dal contratto [collettivo] sia realizzata solo in parte». Pertanto, nell’arresto del 2015, mancando l’accertamento dei fatti costituenti un grave nocumento morale o materiale all’impresa, i Giudici di legittimità hanno decretato il fatto imputato al prestatore insussistente. Oltretutto, va detto che la condotta contestata al lavoratore poteva essere ricondotta tra le infrazioni passibili di sanzioni disciplinari ai sensi del CCNL applicabile30; ciononostante, il Collegio ha ritenuto il fatto insussistente. Ancor più simile alla pronuncia in epigrafe è Cass., 30 marzo 2016, n. 6165 e nella quale, analogamente al caso che si sta esaminando, la Suprema Corte è parsa in difficoltà nell’individuare quale tra le due ipotesi di cui all’art. 18, comma 4, Statuto dei Lavoratori fosse quella applicabile31. Queste ultime sentenze presentano indubbiamente una certa somiglianza con quella in commento, eppure le decisioni dei Giudici di legittimità non sono altrettanto simili. In particolare, nell’arresto del 2015, non ricorrendo tutti gli estremi della fattispecie di infrazione disciplinare descritta dal CNNL applicabile e contestata al lavoratore tramite procedimento

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Nel caso di specie, ovvero in Cass., 13 ottobre 2015, n. 20545, cit., il lavoratore aveva inserito nel sito internet e nel profilo Facebook di un’impresa di ristorazione, quale recapito, il numero di telefono cellulare e il numero di fax a lui assegnati dalla società datrice di lavoro, ovvero Telecom Italia S.p.A., per ragioni di servizio. Inoltre, nel medesimo sito internet dell’impresa di ristorazione compariva quale cliente della stessa proprio Telecom Italia S.p.A. In ragione di ciò, la società intimò al lavoratore la massima sanzione disciplinare, riconducendo tali comportamenti all’art. 48, lett. B) del CCNL applicabile (ovverosia il CCNL 1° febbraio 2013 per il personale dipendente da imprese esercenti servizi di telecomunicazione), che prevede il licenziamento senza preavviso per «il lavoratore che provochi all’azienda grave nocumento morale o materiale». Ad avviso della difesa del lavoratore, invece, tale condotta poteva essere punita con una sanzione conservativa ai sensi dell’art. 47, comma 1, lett. f) dello stesso CCNL e in base al quale «incorre nei provvedimenti di ammonizione scritta, multa o sospensione il lavoratore che esegua all’interno dell’azienda attività di lieve entità per conto proprio o di terzi fuori dell’orario di lavoro e senza sottrazione, ma con uso di mezzi dell’azienda medesima». Oltretutto, il primo motivo di ricorso proposto dal lavoratore nel giudizio di Cassazione consisteva proprio nel seguente quesito: se il fatto a lui addebitato rientrasse tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base della succitata previsione del contratto collettivo e comportasse, pertanto, la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970. Tuttavia, la questione è stata considerata dalla Suprema Corte come inammissibile, poiché «la fattispecie di illecito delineata dall’art. 47 cit. non venne contestata al lavoratore ed è pertanto estranea al tema disputato in questo processo». 31 Cass., 30 marzo 2016, n. 6165, in DRI, 2016, 2, 554, con nota di Pelusi. Sia consentito sintetizzare i passaggi più interessanti di tale pronuncia nei termini che seguono. Da un lato, la Corte ha rilevato come, nel caso di specie, «la pronuncia di espressioni sconvenienti non seguita dal passaggio alle vie di fatto non realizza la fattispecie disciplinare, prevista dall’art. 35, lett. a bis) CCNL Porti, del diverbio litigioso o oltraggioso seguito da vie di fatto avvenuti all’interno dell’Azienda/Ente», sostenendo – a prima vista – che il fatto contestato, non avendo realizzato nella sua interezza la fattispecie prevista dal CCNL applicabile, non sussista. Dall’altro, però, ha affermato che «il datore di lavoro non può irrogare la sanzione risolutiva quando questa costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione», lasciando intendere, dunque, che il fatto addebitato, avente un suo incontestabile rilievo disciplinare, possa ricondursi tra gli illeciti disciplinari tipizzati dalla contrattazione collettiva per i quali sono previste mere sanzioni conservative. In conclusione, potrebbe certamente sostenersi che il Giudice di legittimità abbia optato per la prima delle due ipotesi di cui all’art. 18, comma 4, trattandosi di un licenziamento disciplinare volto a sanzionare una condotta che, pur avendo un suo pacifico rilievo disciplinare, in ragione della mancanza di un suo elemento costitutivo, non è risultata essere esattamente sovrapponibile all’illecito tipizzato dalla contrattazione collettiva e per il quale era prevista la sanzione espulsiva. Pur potendo ricondursi tale fattispecie di infrazione “depotenziata” di uno dei suoi elementi costitutivi fra le condotte punibili con una sanzione conservativa in base al disposto dell’art. 34 del medesimo CCNL, la Suprema Corte avrebbe deciso, analogamente a Cass., 13 ottobre 20545, cit., per l’insussistenza del fatto contestato. Tuttavia, il condizionale è d’obbligo: la lettura dell’insussistenza del fatto contestato sembra essere la più coerente, ma – a dire il vero – il Collegio non ha esplicitato in alcun modo una sua preferenza per tale ipotesi, essendo altrettanto plausibile, stando ad altre affermazioni presenti nelle motivazioni della sentenza, che esso abbia invece optato per la seconda delle due ipotesi di cui al più volte menzionato art. 18, comma 4. Peraltro, avendo la Corte cassato la sentenza impugnata, i giudici di seconde cure sono stati chiamati a riesaminare il caso e a scegliere una delle due vie percorribili. Da ultimo, si noti che anche l’A. della nota a sentenza, conformemente a quanto qui sostenuto, condivide la tesi secondo cui, in Cass., 30 marzo 2016, n. 6165, cit., il Collegio avrebbe decretato l’insussistenza del fatto contestato.

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disciplinare, la Suprema Corte ha ritenuto il fatto insussistente. Nella pronuncia oggetto del presente commento, invece, il Collegio non è stato altrettanto esplicito: anzi, a tratti, è sembrato titubante. Infatti, come si ha già avuto modo di evidenziare più volte, è sembrato oscillare tra le due ipotesi di tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970. In particolare, nella parte finale delle motivazioni, i Giudici di legittimità, richiamando proprio Cass., 13 ottobre 2015, n. 20545, cit., rilevano come l’oggettivo discredito lamentato dalla società, peraltro qualificato come «requisito» (della fattispecie), non risulti provato, lasciando intendere di preferire l’ipotesi dell’insussistenza del fatto contestato. Infatti, il licenziamento senza preavviso di cui all’art. 32 del CCNL applicabile richiede espressamente che il comportamento del lavoratore abbia provocato all’azienda «grave nocumento morale o materiale», ovverosia l’oggettivo discredito lamentato dalla società. Mancando l’accertamento dei fatti costituenti un grave nocumento morale o materiale all’impresa, non risultando altresì avvalorato da alcun elemento di fatto che il comportamento del lavoratore abbia coinvolto l’intera azienda e non il solo stabilimento, dovrebbe concludersi che il fatto contestato, seppur disciplinarmente rilevante e parzialmente accertato, non sussista. Eppure non si può dimenticare come lo stesso Collegio, richiamando la differenza tra i concetti di stabilimento e di azienda, abbia criticato la valutazione dei giudici di seconde cure in base alla quale la fattispecie concreta non sarebbe stata riconducibile a quella parte del medesimo art. 32 del CCNL disponente una mera sanzione conservativa per il prestatore che «commetta qualsiasi mancanza che porti pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene ed alla sicurezza dello stabilimento». Questa parte delle motivazioni, evidentemente, induce a pensare che la Corte propenda per la seconda delle due ipotesi di cui all’art. 18, comma 4, ovvero quella del fatto rientrante tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili. Delle due l’una. Occorre, allora, porsi alcuni interrogativi allo scopo di trovare la quadra del cerchio. Primo. Possibile che, pur non reputando provato l’oggettivo discredito ai danni della società, i Giudici di legittimità abbiano invece ritenuto dimostrato il pregiudizio allo stabilimento, sussumendo il fatto contestato nella previsione del CCNL che associa all’infrazione commessa una mera sanzione conservativa? Il dato testuale, purtroppo, non fornisce alcuna indicazione utile a riguardo. Anzi: ancora una volta, deve ricordarsi come la Suprema Corte abbia criticato l’assunto dei giudici di merito circa la possibile condivisione della sostanza illecita con i colleghi, non essendo stata tale ipotesi avvalorata da alcun elemento di fatto e ritenendo il Collegio più probabile, dato anche il modico quantitativo trovato in possesso al lavoratore, un uso esclusivamente personale della sostanza. Tali affermazioni sono tali da indurre a ritenere che, agli occhi della Corte, nemmeno il pregiudizio allo stabilimento risulti provato. In effetti, essendo il pregiudizio alla disciplina, alla morale, all’igiene ed alla sicurezza dello stabilimento elemento integrante la fattispecie di infrazione disciplinare prevista dalla contrattazione collettiva, potrebbe ritenersi il fatto insussistente. Secondo. È forse possibile che l’oggettivo discredito di cui si duole la società datrice di lavoro, più che con la previsione della contrattazione collettiva, abbia invece a che fare con la nozione di giusta causa? In altre parole: potrebbe ritenersi che, non avendo la condotta del lavoratore prodotto alcuna lesione degli interessi datoriali, l’affermazione della Suprema Corte, più che volta ad accertare l’insussistenza del fatto contestato, fosse diretta ad affermare

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l’insussistenza di una giusta causa di licenziamento? Come si ha avuto modo di illustrare in precedenza (v. infra, § 2), la lesione, anche solo potenziale, degli interessi di parte datoriale costituisce elemento integrante della nozione di giusta causa di licenziamento così come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, soprattutto laddove la sanzione espulsiva sia motivata, come nel caso di specie, da una condotta extra-lavorativa (illecita) del prestatore32. Inoltre, proprio il danno all’immagine arrecato all’azienda dal comportamento del prestatore è generalmente ritenuto dalla giurisprudenza determinante ai fini della compromissione del vincolo fiduciario33. Tuttavia, a onor del vero, il Giudice della nomofilachia, vagliando il giudizio di proporzionalità effettuato dal giudice del gravame, aveva già escluso che nel caso di specie potesse sussistere una giusta causa di licenziamento. Non si vede, dunque, la necessità di ribadire nella parte finale delle motivazioni quanto già affermato in precedenza. Da ultimo, deve chiedersi se nel caso in esame ricorrano entrambe le ipotesi di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970. In prima battuta, può dirsi che le due alternative di cui alla predetta disposizione dovrebbero escludersi a vicenda. Tuttavia, ad opinione di chi scrive, ci si trova di fronte ad un’ipotesi particolare, ovvero ad un caso di fatto parzialmente (in)sussistente. In tale circostanza, potrebbe ricondursi il fatto accertato e parzialmente sussistente «tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» ai sensi dell’art. 18, comma 4? Stando ai rilievi svolti dai Giudici di legittimità in Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, cit. e in Cass., 13 ottobre 2015, n. 20545, cit., ciò non sembra possibile: una volta che sia stata accertata l’insussistenza di anche uno solo degli elementi intrinseci alla fattispecie di illecito disciplinare prevista dalla contrattazione collettiva e contestata attraverso il procedimento di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, l’intero fatto deve ritenersi insussistente, assorbendo così l’eventuale questione di una sua possibile sussunzione tra le condotte passibili di mere sanzioni conservative34. In altre parole, l’accertamento dell’insussistenza del fatto contestato si afferma come prioritario rispetto alla seconda delle due ipotesi indicate dall’art. 18, comma 4: solo una volta che il fatto sarà stato ritenuto sussistente in tutte le sue componenti, questo potrà eventualmente essere ricondotto «tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili»35. Volgendo al termine, a favore della tesi qui sostenuta, cioè che nel caso di specie ci si trovi di fronte ad un’ipotesi di parziale (in)sussistenza del fatto contestato, può e deve ricor-

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Sul punto, per un raffronto, v. Cass., 31 luglio 2015, n. 16268, cit. e Cass., 10 novembre 2017, n. 26679, cit. Orientamento confermato – ad esempio – da Cass., 31 luglio 2015, n. 16268, cit. e da Cass., 1 dicembre 2016, n. 24566, cit. 34 È quindi di indubbia importanza il procedimento disciplinare di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, dovendo il datore di lavoro provare in giudizio, a pena dell’insussistenza del fatto contestato, che la condotta addebitata si sia realizzata secondo quanto puntualmente affermato e cristallizzato nella contestazione disciplinare. Simili osservazioni sono rinvenibili altresì in Sordi, L’insussistenza del “fatto” nel sistema di tutele contro i licenziamenti illegittimi dell’art. 18 riformato, in Caruso (a cura di), op. cit., 56. 35 In questo senso, per esempio, sembra essersi orientato, nella giurisprudenza di merito, Trib. Trento, 29 gennaio 2013, in www. dirittisocialitrentino.it. Tale indirizzo, sebbene non formalmente esplicitato, sembra essere stato seguito anche dalle summenzionate Cass., 6 novembre 2014, 23669, cit., Cass., 13 ottobre 2015, n. 20545, cit. e Cass., 30 marzo 2016, n. 6165, cit. Pare esprimersi in questo senso anche Carinci, op. cit., 742. In senso contrario, invece, è Timellini, op. cit., p. 845, la quale afferma che «il giudice dovrà, in primis, escludere che la condotta rientri tra quelle che il contratto collettivo o i codici disciplinari applicati puniscono con una sanzione conservativa, secondariamente dovrà verificare che il fatto giuridico si sia realizzato». 33

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darsi ancora una volta il richiamo a Cass., 13 ottobre 2015, n. 20545, cit. operato dalla Corte proprio nella parte finale delle motivazioni della sentenza in esame. Quest’ultima pronuncia è, assieme a Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, cit., la prima ad aver “inaugurato” la tesi per cui la parziale (in)sussistenza del fatto contestato equivale all’insussistenza del fatto nella sua interezza. Tale richiamo non può ritenersi puramente casuale, essendo il caso di specie ed il precedente arresto del 2015 alquanto simili, se non identici. Infatti, tanto il contratto collettivo applicabile nella vicenda oggetto della pronuncia del 2015 quanto quello valevole nel caso che si sta discutendo richiedono espressamente che la condotta contestata al lavoratore, per poter integrare una giusta causa di licenziamento, debba aver arrecato all’azienda un grave nocumento morale o materiale. In Cass., 13 ottobre 2015, n. 20545, cit., i Giudici di legittimità, non ritenendo provato il grave nocumento morale o materiale richiesto dalla fonte collettiva al fine di completare la fattispecie di infrazione disciplinare prevista dal CCNL di specie, hanno giudicato il fatto insussistente, pur essendo riconducibile il comportamento addebitato tra gli illeciti disciplinari passibili di una mera sanzione conservativa. Ebbene, non v’è alcun dubbio che tale sia anche la situazione venutasi a creare nella pronuncia oggetto del presente commento. Pertanto, in tale contesto, il richiamo conclusivo a Cass., 13 ottobre 2015, n. 20545, cit. non può che indurre chi scrive ad affermare che il Collegio, ritenendo sovrapponibili le due vicende, abbia voluto conformarsi al precedente del 2015, il che va indubbiamente a favore della tesi sin qui sostenuta. Quindi, a discapito di alcune statuizioni presenti nelle motivazioni della pronuncia in epigrafe, le ultime considerazioni svolte inducono a propendere per la tesi dell’insussistenza del fatto contestato o, più precisamente, per quella della sua parziale (in)sussistenza. Peraltro, a dirla tutta, quale delle due strade si scelga di percorrere è scarsamente rilevante, almeno nel caso di specie: in entrambi i casi l’ordinamento appresta la medesima tutela al lavoratore e commina la stessa sanzione al datore di lavoro, trova cioè ugualmente applicazione la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/197036. Alla Corte di appello capitolina, dunque, l’ardua sentenza. Matteo Turrin

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Tale conclusione, tuttavia, vale solo per il caso di specie. Infatti, qualora il fatto contestato dimostratosi parzialmente (in)sussistente, diversamente dal caso in esame, non possa essere ricondotto «tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili», la tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970 finirebbe e finisce, a ben vedere, per erodere gli spazi della figura del licenziamento meramente sproporzionato, ovvero delle «altre ipotesi in cui [il giudice] accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro» di cui al comma 5 del medesimo art. 18. In altre parole, la parziale insussistenza del fatto contestato ed accertato, rientrando nel campo di applicazione del comma 4, espande gli ambiti della tutela reintegratoria attenuata a discapito di quella meramente economica di cui al successivo comma 5. Osservazioni simili – e con sguardo critico – sono espresse altresì da Del Punta, I dolori del giovane 18: note sul licenziamento disciplinare, in Caruso (a cura di), op. cit., 88. Tali considerazioni, peraltro, assumono una rilevanza ancora maggiore nel contesto dei licenziamenti disciplinati dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, il quale – com’è noto – ha escluso che nell’ipotesi in cui il fatto contestato rientri «tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili» possa trovare applicazione la tutela reintegratoria attenuata, estendendo così la portata della tutela meramente indennitaria. In tale contesto, l’ipotesi della parziale (in)sussistenza del fatto contestato, ampliando gli angusti confini della tutela reintegratoria (attenuata), potrebbe assumere un rilievo non trascurabile.

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Giurisprudenza C orte di Cassazione, 3 settembre 2018, n. 21569; Pres. Di Cerbo – Est. Marotta – Fresa (concl. diff.) – Bruni Sabatino (avv. Scarpantoni) c. Ruzzo Reti s.p.a. (avv. Venturella, Di Russo). Cassa con rinvio App. L’Aquila, sent. n. 743/2016. Licenziamenti – Giusta causa – Procedimento disciplinare – Contratto collettivo – Termine per irrogazione della sanzione – Violazione – Conseguenze –Insussistenza del fatto contestato – Reintegrazione.

Nel licenziamento disciplinare intimato in violazione di un termine per l’irrogazione della sanzione, espressamente posto dal contratto collettivo a pena di accoglimento delle difese formulate dal lavoratore, si configura l’insussistenza del fatto contestato, perché l’inerzia del datore di lavoro si qualifica come intervenuta, implicita ammissione della liceità della condotta e rende il fatto non più configurabile come mancanza sanzionabile. In tal caso, infatti, la clausola negoziale acquisisce rango di norma sostanziale che regola il corretto esercizio del potere di recesso datoriale.

Svolgimento del processo. – 1.1. Con ricorso ex art. 1, co. 48, I. n. 92/2012 al Tribunale di Teramo S.B. impugnava il licenziamento intimatogli dalla Ruzzo Reti S.p.A. in data 18/11/2014 per mancato rispetto del termine di 10 giorni previsto dall’art. 21, n. 2 co. 3 del c.c.n.l. Gas acqua e per l’insussistenza della giusta causa addotta dalla società datrice. 1.2. Il Tribunale, in sede sommaria, accoglieva il ricorso, annullava il licenziamento intimato al ricorrente per insussistenza del fatto contestato e disponeva la reintegra del Bruni nel posto di lavoro. 1.3. La decisione era riformata in sede di opposizione ex art. 1, co. 51 e ss., della legge n. 92/2012. Il Tribunale di Teramo, infatti, in parziale accoglimento dell’originario ricorso del lavoratore, dichiarava l’inefficacia del licenziamento, in quanto irrogato oltre il termine di 10 giorni contrattualmente previsto e comunque l’esistenza di una giusta causa di risoluzione del rapporto, individuata ‘nella mancanza di un documento esplicativo del motivo dell’assenza’, con condanna della società al pagamento in favore del Bruni di un’indennità risarcitoria nella misura di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. 1.4. Con sentenza n. 743/2016, pubblicata il 14/7/2016, la Corte d’appello di L’Aquila respingeva il reclamo proposto da S.B. Riteneva la Corte territoriale pacifica la circostanza che il licenziamento fosse stato intimato oltre il 10 giorni previsti dall’art. 21 del c.c.n.l. di settore (non oggetto di impugnazione da parte della società resistente). Considerava, altresì, corretta la ricostruzione fattuale che aveva condotto il giudice di prime cure a ritenere che le assenze (Omissis) non fossero state giustificate.

Quanto al regime sanzionatorio applicabile richiamava, a fondamento della sussistenza di una tutela meramente obbligatoria, la pronuncia di questa Corte n. 14324 del 9 luglio 2015 resa in materia di tardività della contestazione. 2. Per la Cassazione della sentenza ricorre Sabatino Bruni con tre motivi. 3. Resiste con controricorso la Ruzzo Reti S.p.A. Omissis. Motivi della decisione. – 1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia il difetto assoluto di motivazione su un fatto decisivo della controversia in relazione all’omessa disamina dell’art. 21 n. 2, co. 3, del c.c.n.l. per il settore gas acqua (art. 360, n. 5, cod. proc. civ.). Lamenta che la Corte territoriale non avrebbe preso in considerazione il fatto che l’art. 21, n. 2, co. 3 del c.c.n.l. gas acqua prevede che “se il provvedimento non verrà emanato entro i 10 giorni lavorativi successivi al predetto quinto giorno dal ricevimento della contestazione, tali giustificazioni si riterranno accolte” così assegnando al decorso del termine la valenza di accettazione delle controdeduzioni fornite dal prestatore. Nella specie, quindi, il licenziamento non poteva essere ritenuto assistito da giusta causa in quanto le assenze qualificate come arbitrarie dovevano essere considerate giustificate per effetto dell’accoglimento delle osservazioni. Omissis. 1.2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 21 n. 2 co. 3 del c.c.n.l. per il settore gas acqua (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.). Ripropone lo stesso rilievo sotto il profilo della diretta violazione della norma contrattuale evidenziando che la Corte del reclamo, dopo aver considerato


Giurisprudenza

l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza resa dal Tribunale in ordine all’inefficacia del licenziamento, avrebbe dovuto altresì dare atto che lo stesso licenziamento era anche illegittimo per insussistenza degli addebiti alla luce della previsione collettiva che attribuiva al silenzio il significato di accoglimento delle giustificazioni e, quindi, di esclusione dell’illecito disciplinare. Omissis. 2. I primi due motivi di ricorso (che, come chiaramente si evince dalle surriportate sintesi, superano il vaglio di ammissibilità) sono fondati (e determinano l’assorbimento del terzo). I rilievi ruotano intorno alla ritenuta violazione dell’art. 21, n. 2, co. 3, del c.c.n.l. gas acqua del 2011. Tale norma prevede espressamente che qualora il provvedimento disciplinare non venga adottato entro i 10 giorni lavorativi successivi alla scadenza del termine concesso al lavoratore per fornire le proprie giustificazioni (cinque giorni dal ricevimento della contestazione), tali giustificazioni si riterranno accolte. In termini generali, non può non rilevare quanto convenuto tra le parti in sede di definizione delle norme procedurali per le sanzioni più gravi del rimprovero verbale e a tal fine, in chiave interpretativa, deve considerarsi l’elemento letterale, che, sebbene centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, deve essere riguardato alla stregua di ulteriori criteri ermeneutici e, segnatamente, dell’interpretazione funzionale, che attribuisce rilievo alla causa concreta del contratto ed allo scopo pratico perseguito dalle parti, oltre che dell’interpretazione secondo buona fede, che si specifica nel significato di lealtà e si concreta nel non suscitare falsi affidamenti e nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte (cfr., da ultimo, Cass. 19 marzo 2018, n. 6675; Cass. 28 marzo 2017, n. 7927; Cass. 22 novembre 2016, n. 23701). L’indicazione di un termine per il compimento di un’attività giuridicamente rilevante e la previsione di una determinata conseguenza per l’ipotesi di mancato compimento entro tale termine di certo non rientrano tra le cosiddette clausole di stile inserite dai contraenti non per farvi derivare una concreta volontà negoziale ma in ossequio a una prassi meramente linguistica. Così, sulla base di quanto contenuto nell’art. 21, n. 2, co. 3, del c.c.n.l. gas acqua, non appaiono ipotizzabili conseguenze diverse da quelle dell’obbligo di procedere all’indicata specifica attività (adozione del provvedimento più grave del rimprovero verbale) entro il termine stabilito (si veda anche Cass. 18 marzo 2008, n. 7295) e della fictio dell’intervenuta accettazione delle giustificazioni nel caso di inottemperanza al suddetto obbligo. È ben possibile, infatti, che la disciplina collettiva arricchisca le garanzie di difesa dell’incolpato sia con la previsione di un termine finale sia con l’attribuzione di un determinato significato al comportamento del datore di lavoro nei confronti del lavoratore avvalsosi

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della facoltà e dei mezzi di difesa apprestatigli dall’ordinamento (v. Cass. 21 marzo 1994 n. 2663; Cass. 21 luglio 1992, n. 8773; Cass. 20 dicembre 1990, n. 12116; Cass. 17 marzo 1987, n. 2707). La norma contrattuale, allora, nel momento in cui ricollega al ritardo la conseguenza di un’accettazione delle giustificazioni, ancorché inserita in un contesto di norme procedurali, ha rango di norma sostanziale che regola il corretto esercizio del potere di recesso datoriale. In conseguenza, a fronte di una prefigurazione di un fatto come esistente (‘tali giustificazioni si riterranno accolte’), le conseguenze giuridiche non possono che essere quelle ricollegabili a quel fatto prefigurato come se fosse stato corrispondente alla realtà. Ciascun contraente, infatti, deve restare vincolato agli effetti del significato socialmente attribuibile alle proprie dichiarazioni e ai propri comportamenti e così l’aver consapevolmente lasciato decorrere il termine per l’adozione del provvedimento disciplinare non può che essere significativo, sulla scorta della previsione pattizia oltre che dei principi di buona fede e correttezza che presidiano il rapporto di lavoro ai sensi degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., della intervenuta accettazione da parte del datore di lavoro delle giustificazioni fornite dal lavoratore (si veda Cass. 20 marzo 2009, n. 6911 che ha accertato la correttezza della pronunzia del giudice di merito in punto di decadenza del datore dal potere di recesso successivamente all’accettazione delle giustificazioni della controparte, per non essere stato il provvedimento sanzionatorio comminato entro il termine successivo a tali giustificazioni che, anche secondo la disposizione contrattuale ivi applicata, ‘si riterranno accolte’). In tale situazione, dunque, il datore di lavoro ha certo la possibilità di dimostrare l’eventuale impossibilità di rispettare il termine contrattualmente previsto; in caso contrario, però, il ritardo nell’irrogazione della sanzione, contravvenendo un silenzio che vale come accettazione delle difese del lavoratore, si risolve in un venire contra factum proprium, contrario alla clausola di buona fede che presidia il rapporto di lavoro. Il licenziamento intimato nella vigenza della nuova disciplina introdotta dalla legge n. 92 del 2012, doveva perciò considerarsi non semplicemente inefficace per il mancato rispetto di un termine procedurale (al pari dell’intempestività della contestazione oggetto della pronuncia di questa Corte, a sezioni unite, n. 30985 del 27 dicembre 2017) e dunque per motivi solo formali bensì illegittimo per l’insussistenza del fatto contestato per avere il datore di lavoro accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa. L’addebito mosso a carico del lavoratore era, infatti, venuto a cadere per l’intervenuta implicita ammissione da parte del datore di lavoro dell’insussistenza della condotta illecita che rendeva il fatto contestato non più configurabile come mancanza sanzionabile.


Stefano Cairoli

La tutela applicabile non era allora quella di cui all’art. 18, co. 6, della I. n. 300/1970 bensì quella dell’art. 18, co. 4. 3. Da tanto consegue che i primi due motivi di ricorso devono essere accolti, assorbito il terzo. La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi

accolti con rinvio alla Corte di appello di Roma che deciderà la causa attenendosi ai principi sopra affermati e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità. Omissis.

Il contratto collettivo come (possibile) limite all’esercizio del potere disciplinare con incidenza sull’accertamento del fatto contestato. Sommario : 1. Il caso. – 2. Inquadramento della clausola contrattuale. – 3. Il con-

testo legislativo: la graduazione delle sanzioni nella l. n. 92/2012. – 4. Il nucleo argomentativo della Corte: il ruolo del contratto collettivo quale criterio ermeneutico e limite all’esercizio del potere disciplinare – 5. La differenza di oggetto e di metodo della sentenza delle Sezioni unite sulla tempestività della contestazione: critica. – 6. Ulteriori riflessi applicativi nel contesto della legge n. 92/2012. – 7. (Segue) e del d.lgs. n. 23/2015 (all’esito della pronuncia n. 194/2018). – 8. Riflessioni conclusive.

Sinossi. Il commento muove dall’analisi di una sentenza intervenuta su un licenziamento disciplinare, in una vicenda in cui il contratto collettivo prevedeva un termine per l’irrogazione della sanzione a pena di accoglimento delle difese formulate dal lavoratore. Partendo da una riflessione sulla natura sostanziale di tale tipo di clausole, l’A. allarga la prospettiva ai possibili effetti osservabili alla luce del d.lgs. n. 23/2015 nonché, più in generale, agli attuali ambiti di applicazione della contrattazione collettiva nel sistema delineato dal Jobs act.

1. Il caso. Il lavoratore ricorrente, assunto prima del 7 marzo 2015 e perciò soggetto alle regole sostanziali e processuali introdotte dalla legge n. 92/2012, era stato licenziato per giusta causa, inerente ad una serie di assenze ingiustificate. Era pacifico, perché non contestato in sede di opposizione da parte del datore di lavoro, che quest’ultimo avesse violato il termine previsto dal contratto collettivo di convenuta applicazione per l’irrogazione della sanzione disciplinare: nella specie, per sanzioni più gravi del rimprovero verbale l’art. 21 Ccnl Gas-acqua prevede un termine di 10 giorni la-

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vorativi dalla scadenza del termine per controdeduzioni, al cui superamento, in assenza di applicazione di sanzioni, consegue una presunzione di accoglimento delle controdeduzioni stesse («tali giustificazioni si riterranno accolte»). Effettivamente il lavoratore nelle controdeduzioni aveva addotto elementi circa la regolarità delle proprie assenze, senza che il datore di lavoro avesse fornito prova dell’impossibilità di adempiere a tale clausola entro il termine convenzionale1; All’esito dei giudizi di merito a cognizione piena (opposizione e reclamo), le controdeduzioni del lavoratore erano state ritenute inidonee a giustificare le assenze. Secondo la lettura del Tribunale di Teramo in opposizione e della Corte aquilana in sede di reclamo, la sanzione del licenziamento, irrogata oltre il termine contrattualmente previsto, poteva rilevare quale mera violazione procedurale – sanzionata mediante il pagamento di un’indennità risarcitoria omnicomprensiva ai sensi dell’art. 18 comma 6, st. lav., ma non a titolo di insussistenza del fatto contestato di cui all’art. 18, comma 4, st. lav. Sul punto, infatti, sia la pronuncia di opposizione, sia quella di reclamo ritenevano assolto l’onere della prova delle assenze ingiustificate, con conseguente accertamento sia dell’inadempimento contestato, sia della sua più che notevole gravità. Secondo la sentenza impugnata, in particolare, richiamando un presunto precedente individuato nella sentenza 9 luglio 2015, n. 14324, la violazione del termine individuato dal contratto non era sussumibile in alcuna delle ipotesi di reintegrazione. Il lavoratore ricorreva allora innanzi alla Corte di Cassazione, deducendo il difetto assoluto di motivazione in merito alla previsione letterale della suddetta clausola contrattuale (primo motivo), nonché la violazione e falsa interpretazione della stessa (secondo motivo), per avere la Corte di merito ignorato l’espressa previsione contrattuale, limitandosi ad attestare che il giudice dell’opposizione avesse correttamente accertato la ricorrenza di assenze ingiustificate, ed individuando in tale accertamento la prova del fatto contestato e della giusta causa.

2. Inquadramento della clausola contrattuale. È noto che da tempo in materia disciplinare le clausole del contratto collettivo esplicano molteplici funzioni: a) contengono l’elencazione dei comportamenti disciplinarmente rilevanti e delle relative sanzioni, cristallizzando l’insieme di regole generali di condotta2, con l’effetto di delimitare l’area del debito di prestazione3 ai sensi dell’art. 2104 e 2105 ma, al tempo stesso;

1

Ricordando che il giudice, nell’ipotesi, può valutare le circostanze di fatto che giustifichino o meno il ritardo, tanto per la contestazione dell’infrazione, quanto per la valutazione delle difese: Cass., 15 giugno 2016, n. 12337, in GLav, 2016, 29; Cass., 25 gennaio 2016, n. 1248; Cass., 21 marzo 2014, n. 6715, in GI, 2015, 433; Cass., 19 giugno 2016, n. 13955; Cass., 12 luglio 2010, n. 16317, in DG, 2010, 398. 2 Montuschi, Potere disciplinare e rapporto di lavoro, Milano, 1973, 163; Spagnuolo Vigorita, Ferraro, Commento all’art. 7, in Prosperetti, Commentario dello Statuto dei Lavoratori, t. 1, Giuffrè, 1975, 167. 3 Bellomo, Autonomia collettiva e clausole generali, Giornate di Studio AIDLaSS su Clausole generali e diritto del lavoro Roma,

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b) esprimono dei giudizi sintetici di gravità4 che rappresentano indubbiamente un parametro di proporzionalità ai sensi dell’art. 2106 c.c.; c.) talvolta svolgono anche una funzione integrativa dell’art. 7 st. lav. e/o pongono oneri, termini e condizioni per la contestazione disciplinare, per lo svolgimento del procedimento o per l’irrogazione delle sanzioni5. La sentenza in esame è relativa alla violazione di clausole di tipo c), relative alla corretta irrogazione della sanzione disciplinare entro un dato termine. L’aspetto problematico della clausola, però, risiede nell’attribuzione di un effetto sostanziale, ossia la presunzione di accoglimento delle difese tempestivamente formulate dal lavoratore in sede di replica alla contestazione disciplinare. Sugli effetti di questa clausola si concentra il nucleo delle riflessioni della sentenza in esame.

3. Il contesto legislativo: la graduazione delle sanzioni nella

l. n. 92/2012.

È noto che le “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” di cui alla l. 28 giugno 2012, n. 92, nell’ambito della c.d. “flessibilità in uscita” (art. 1, commi 37-69), hanno ridisegnato il regime sanzionatorio dei licenziamenti individuali6, stabilendo che solo l’insussistenza dell’inadempimento contestato o la sua punibilità per mezzo di sanzioni conservative possono comportare la reintegrazione con risarcimento fino a 12 mesi (art. 18, lettera a) e b) del comma 4, St. lav.). In presenza di un licenziamento intimato per inadempimento effettivamente commesso dal lavoratore, ma non notevole e non riconducibile a sanzioni conservative secondo i codici disciplinari7, il comma quinto prevede la risoluzione del rapporto di lavoro e il

Università La Sapienza, 29 e 30 maggio 2014, 57, vedilo in DLRI, 2015, 145 ss. Bellomo, ibidem. 5 Cfr. ad es. l’art. 8, comma 4 (titolo VII) del CCNL metalmeccanici-industria (6 giorni per l’irrogazione della sanzione), o l’art. 128 (poi 138), comma 6, del CCNL Turismo pubblici esercizi (10 giorni con obbligo di motivazione), o l’art. 14 del CCNL ferrotramvieri. Cfr. anche l’art. 227 del CCNL Terziario-Confcommercio (15 gg prorogabili a 30), sebbene non sia precisata la conseguenza connessa alla violazione del termine. 6 Senza alcuna pretesa di completezza, si rinvia a F. Carinci, Ripensando il “nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in DRI, 2013, 287 ss.; Cester, Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in ADL, 2012, 547 ss.; Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, in RIDL, 2012, 2, 415 ss.; Mazzotta, Fatti e misfatti nell’interpretazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in RIDL, 2016, 1, 102 ss.; Speziale, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in RIDL, 2012, 521 ss.; Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli, 2012. 7 Con chiarezza G. Santoro-Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo e l’ambito della tutela risarcitoria, in ADL, 2013, 234 e cfr. anche Pisani, Il licenziamento disciplinare: novità legislative e giurisprudenziali sul regime sanzionatorio, in ADL, 2015, 97 ss., spec. § 3: “In conclusione, per un’interpretazione razionalizzatrice, occorrerebbe leggere la locuzione del comma 4 dell’art. 18 come se fosse scritta così: “l’insussistenza dell’inadempimento contestato al lavoratore ...”; e quella del comma 5, così: “nelle altre ipotesi in cui l’inadempimento non è notevole ...”. 4

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pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Qualora infine il datore di lavoro abbia assolto l’onere della prova del giustificato motivo o della giusta causa di recesso, ma commesso una violazione formale o procedurale si applica il comma 6 dell’art. 18 St. lav. alla cui stregua, ferma la risoluzione del rapporto, l’indennità risarcitoria onnicomprensiva è determinata, (esclusivamente) in relazione alla gravità della violazione, tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto8. Nel caso di specie, l’alternativa risiedeva nell’applicazione del quarto o del sesto comma, a seconda dell’interpretazione adottata. Attribuendo rilevanza alla violazione della clausola solo dopo l’accertamento del fatto contestato e del notevole inadempimento, ossia solo dopo aver verificato se le assenze ingiustificate sussistessero e se integrassero un più che notevole inadempimento (giusta causa), la violazione avrebbe acquisito rilievo squisitamente formale, con applicazione del sesto comma. Di converso, accogliendo la ricostruzione opposta che attribuisce alla clausola una rilevanza sostanziale, quale onere per l’esercizio del potere disciplinare, il silenzio o ritardo del datore di lavoro oltre i termini convenzionali si sarebbe tradotto nel riconoscimento da parte del datore di lavoro della giustificazione delle assenze, che rappresentava l’inadempimento contestato anche sotto il profilo della sua esistenza e configurabilità in termini giuridici.

4. Il nucleo argomentativo del giudice: il ruolo del contratto

collettivo quale criterio ermeneutico e limite all’esercizio del potere disciplinare.

Secondo il giudice di legittimità, la violazione di una clausola contrattuale che in termini inequivocabili – come nella specie – attribuisca al trascorrere di un dato termine un effetto di accettazione delle controdeduzioni non può essere ignorata né ridotta ad una mera clausola di stile. Nell’argomentazione della Corte, infatti, l’attribuzione dell’effetto dell’accettazione delle controdeduzioni difensive discende, oltre che dal chiaro dato letterale della previsione negoziale, anche da ulteriori criteri ermeneutici come l’interpretazione funzionale, che attribuisce rilievo alla causa concreta del contratto ed allo scopo pratico perseguito dalle parti, e l’interpretazione secondo buona fede e tutela dell’affidamento ingenerato nella controparte contrattuale9.

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F. Marinelli, Il licenziamento individuale affetto da vizi formali o procedurali, in M.T. Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, 166 ss. 9 La dottrina ha evidenziato come l’accrescimento dei vincoli procedimentali introdotti dalla contrattazione collettiva e il costante

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Applicando tali principi generali al contratto collettivo di convenuta applicazione, risultava chiaro che il termine fosse posto per il compimento di un’attività giuridicamente rilevante ed altrettanto chiara risultava la previsione di un preciso effetto in caso di mancata o tardiva irrogazione della sanzione. Si verifica l’abdicazione dall’esercizio del potere perché in claris non fit interpretatio e “la puntualizzazione contrattuale pare infatti far intendere la consumazione del potere”10, perdendo la caratteristica, altrimenti tendenzialmente attribuibile, di violazione meramente procedimentale11. A ciò si aggiunge la considerazione strettamente giuslavoristica per cui, a monte, il contratto collettivo può sempre prevedere condizioni di maggior favore per il lavoratore, non solo sotto il profilo dell’iter procedurale per la contestazione disciplinare ma anche ponendo oneri e condizioni per l’irrogazione della sanzione. Le riflessioni della sentenza in esame, valide per qualsiasi sanzione disciplinare, acquisiscono una particolare connotazione con riferimento al licenziamento, in quanto l’effettivo accertamento giudiziale dell’esistenza ed imputabilità dell’inadempimento contestato12 assume rilievo ai fini della validità dell’atto unilaterale di recesso. Se, infatti l’inadempimento della clausola del contratto collettivo conduce all’accoglimento delle difese del lavoratore, e queste siano dirette al riconoscimento della liceità del fatto contestato come inadempimento, l’integrale accoglimento rende lecito il comportamento contestato. Poiché l’interpretazione maggioritaria identifica il fatto contestato con l’inadempimento e cioè il fatto suscettibile di una valutazione giuridica in merito alla violazione degli obblighi contrattuali e di imputabilità al lavoratore del comportamento13, diviene allora impossibile, in simili ipotesi, prescindere dal riconoscimento della sopravvenuta irrilevanza disciplinare dello stesso. In altri termini, non è possibile scindere il profilo del mero accertamento del comportamento da quello della sua rilevanza giuridica14 e cioè della sua idoneità ad essere con-

affinamento degli stessi, tendenzialmente riduce gli spazi per un controllo dell’esercizio di tali poteri sulla base delle stesse clausole generali, come la buona fede: Persiani, Considerazioni sul controllo di buona fede dei poteri del datore di lavoro, in DL, 1995, 14; Montuschi, Ancora sulla rilevanza della buona fede nel rapporto di lavoro, in ADL, 1999, 728. Di recente richiamati da Bellomo, op. cit., 2. 10 De Angelis, Ripensando alla immediatezza della contestazione, in WP D’Antona, It., n. 362/2018, 13. 11 Secondo Maresca, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo, cit., 434, le procedure contrattuali partecipano della stessa natura di quella legale, e può quindi la violazione essere ricompresa nel comma 6 con un’interpretazione estensiva. 12 Presupponendo un’attenzione al profilo civilistico dell’elemento soggettivo secondo Albi, Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo dopo la riforma Monti-Fornero, in, WP D’Antona, It., n. 160/2012, 291. 13 Barbieri, La nuova disciplina del licenziamento individuale: profili sostanziali e questioni controverse, in Barbieri – Dalfino, Il licenziamento individuale nella interpretazione della legge Fornero, Cacucci, 2013, 33 ss.; F. Carinci, Il nodo gordiano del licenziamento disciplinare, in ADL, 2012, 1115; Del Punta, Il primo intervento della cassazione sul nuovo (eppur già vecchio) art. 18, nota a Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, in RIDL, 2015, II, 38; Mazzotta, I molti nodi irrisolti del nuovo art. 18 St. lav., in Cinelli – Ferraro – Mazzotta (a cura di), Il nuovo mercato del lavoro, Giappichelli, 2013, 248; Ghera, Diritto del lavoro (appendice a febbraio 2013), Cacucci, 2013, 477; Santoro-Passarelli, ibidem; Tullini, Riforma della disciplina dei licenziamenti e nuovo modello giudiziale di controllo, in RIDL, 2013, 159; Perulli, Fatto e valutazione giuridica del fatto nella nuova disciplina dell’art. 18 St. lav. Ratio ed aporie dei concetti normativi, in ADL, 2012, 799; Albi, Il licenziamento disciplinare illegittimo per tardiva contestazione degli addebiti tra vecchio e nuovo diritto, nota a App. Firenze 6 luglio 2015, in DLM, 2016, 410 ss. 14 In q. senso i tentativi di ricostruzione di Persiani, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, in

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testato sul piano disciplinare come inadempimento, perché è su questo piano che se ne apprezza la sussistenza o insussistenza. Se dunque il superamento del termine per irrogare la sanzione implica l’accettazione delle difese del lavoratore, all’esito dell’inadempimento della clausola negoziale l’irrogazione della sanzione interviene su un comportamento che viene riconosciuto come lecito, e rende il licenziamento non soltanto ingiustificato ma anche basato sulla contestazione di un fatto insussistente, con conseguente applicazione della tutela reale.

5. La differenza di oggetto e di metodo della sentenza delle

Sezioni unite sulla tempestività della contestazione: critica.

Poiché l’applicazione della sanzione per inefficacia è suppletiva rispetto alla sanzione per nullità o ingiustificatezza, come previsto dall’art. 18, comma 6 medesimo, dovranno necessariamente trovare applicazione le più incisive tutele previste dal comma 5 o se applicabile, come nel caso di specie, dal comma 4. Dal passaggio interpretativo descritto discende l’impossibilità di qualificare il licenziamento come atto semplicemente inefficace per il mancato rispetto di un termine procedurale, sulla scia della sentenza delle Sezioni unite, n. 30985 del 27 dicembre 201715. Quella sentenza, com’è noto, aveva “rovesciato” l’orientamento secondo cui il fatto-illecito disciplinare contestato in modo ingiustificatamente tardivo dovesse ritenersi tamquam non esset e quindi “fatto insussistente” sotto il profilo sanzionatorio16. Il presupposto del ragionamento delle Sezioni Unite è che, in presenza di un ritardo nella contestazione di un inadempimento, quando non sia in questione la ricorrenza stessa dell’inadempimento, la violazione deve ritenersi di natura procedimentale ex art. 18 comma 6 st. lav. in presenza di termini per la contestazione nella contrattazione. Qualora il ritardo nella contestazione si riveli ingiustificato ed eccessivo, tale da dimostrare un’inerzia contraria ai canoni di buona fede e correttezza, non ricorrerebbe un vizio genetico dell’atto di recesso, sussistendo gli elementi essenziali di dell’inadempimento e quindi un illecito disciplinare imputabile e contestato, rendendo inapplicabile l’art. 18, comma 4, st. lav. Si verificherebbe però un vizio funzionale per la contrarietà ai canoni di correttezza e buona fede per conclamata insussistenza di una lesione, tale da escludere la ricorrenza degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, con conseguente applicabilità dell’art. 18, comma 5, st. lav.

ADL, 2013, 1 ss.10 ss. e Pessi, Il notevole inadempimento tra fatto materiale e fatto giuridico, in ADL, 2015, 26 ss. Su cui v. Mazzotta, Licenziamento disciplinare e decorso del tempo, in Labor, 2018, 381 ss. 16 Cass., 31 gennaio 2017, n. 2513, in www.rivistalabor.it, 2 febbraio 2017, con nota di Galardi, Il fatto contestato tardivamente è un fatto “insussistente” e dà diritto alla tutela reintegratoria. 15

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In altri termini l’inerzia17 o tolleranza18 nel tempo, quand’anche non denoti un intento ritorsivo o discriminatorio19, aiuta a comprendere l’irrilevanza disciplinare del fatto o comunque la considerazione come tale da parte del datore di lavoro e pertanto non può rivestire efficacia puramente procedurale, pur senza tradursi nel riconoscimento dell’insussistenza del fatto20. L’argomentazione produce un discreto paradosso ove sia riproposta per i lavoratori assunti nel vigore del d.lgs. n. 23/2015: un minimo inadempimento addebitabile al lavoratore, svincolato da qualsiasi valutazione di proporzionalità tra contestazione e sanzione, potrebbe condurre alla risoluzione del rapporto anche ove sia contestato dopo un consistente lasso di tempo21. Si potrebbe, secondo questo ragionamento, elevare un lieve inadempimento a motivo di contestazione e licenziamento, anche a distanza di tempo, e qualora detto inadempimento sussista, non potrebbe aversi tutela reale. Ad ogni modo, il caso preso in considerazione dalle sezioni Unite, così come quello citato dalla sentenza di reclamo impugnata per l’applicazione della tutela indennitaria22, appare ben diverso dalla questione sottesa alla sentenza annotata, per l’oggetto e per il metodo. Per quel che concerne l’oggetto, la sentenza in esame attiene a un’accezione ontologicamente distinta del principio di tempestività/immediatezza, non riferita alla contestazione, bensì all’irrogazione della sanzione. L’intensità della violazione in quest’ultimo caso è superiore23 perché, come riconosciuto anche in altre pronunce, l’immediatezza del provvedimento espulsivo si configura sempre come “elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore”24. L’intempestività della contestazione, infatti, può essere in taluni casi fisiologica, intrinsecamente connessa all’accertamento dei fatti e non imputabile al datore di lavoro25.

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Mazzotta, Fatti e misfatti, op. cit., 108. Pisani, Le tutele esclusivamente risarcitorie per le tardività del licenziamento disciplinare, nota a Cass., 21 aprile 2017, n. 10159, in MGL, 2017, 489. 19 Mazzotta, I molti nodi irrisolti nel nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in WP D’Antona, 159/2012, 19-20. 20 Contra, per l’applicazione dell’art 18 comma 4 St. lav. in caso di licenziamento disciplinare privo di contestazione, cfr. ord. Trib. Bari 29 novembre 2018, r.g.n. 9103/2017, in corso di pubblicazione in www.ilGiuslavorista.it. 21 Questo rischio nel sistema dell’art. 18 st. lav. (lavoratori assunti ante 7 marzo 2015) è bilanciato dalla presenza della lettera b), che impedisce di punire con il licenziamento violazioni punibili con sanzioni conservative. 22 Cass. 9 luglio 2015, n. 14324. 23 Distinzione che si osserva in Cass., 6 novembre 2014, n. 23669, in MGL, 2012, 874, con nota di Vallebona, da tempo sostenuta da Pisani, Sul principio di tempestività del licenziamento disciplinare, in MGL, 2008, 148 e Id., Il licenziamento disciplinare, cit., § 7, sebbene quest’ultimo poi riconosca che “anche una contestazione dell’infrazione effettuata a distanza di tempo dalla conoscenza dei fatti, può generare nel lavoratore l’affidamento nel comportamento “tollerante” del datore di lavoro” e poi Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, in WP D’Antona, 273/2015, 83. 24 Cass., 10 settembre 2013, n. 20719, di recente richiamata in Trib. Roma, 12 maggio 2017, n. 4413. 25 D’altra parte, però, come rileva Delogu, Licenziamento disciplinare e potere di controllo – fiducia nel lavoratore e potere di controllo: la tempestività della reazione disciplinare, in GI, 2016, 2694 ss., § 4, “se la tardività della contestazione venga ricostruita non solo quale lesione del diritto di difesa del lavoratore, ma anche quale manifestazione di tolleranza da parte del datore di lavoro, non può che applicarsi anche per essa il regime sanzionatorio dei vizi sostanziali”, richiamando Carinci, Ripensando il “nuovo” art. 18 dello 18

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L’irrogazione della sanzione, salvo eccezionali o complessi elementi di ricostruzione forniti dal lavoratore, consegue ad una ricostruzione fattuale già completa – quella contestata al lavoratore – ed all’espletamento delle difese del lavoratore26. Per questi motivi essa deve essere sollecita, a pena di incorrere in un comportamento concludente ed inequivoco di rinuncia all’esercizio del potere, o travalicare in un palese gesto ritorsivo o discriminatorio27. Una diversa ricostruzione, di certo, produrrebbe un’inaccettabile dilatazione degli effetti intimidatori ed incertezza giuridica. Sul piano metodologico, la sentenza in commento riconosce l’applicazione di una specifica clausola contrattuale alla quale le parti hanno espressamente concordato di attribuire, in caso di superamento del termine, l’effetto di accettazione delle difese del lavoratore: questo permette, già sul piano letterale, un’individuazione agevole ed inequivoca dell’affidamento ingenerato reciprocamente tra le parti e dei corrispondenti obblighi di lealtà contrattuale. Nel caso delle Sezioni Unite, invece, l’applicazione della sanzione è motivata sulla base di violazione di un principio di buona e fede e correttezza nell’immediatezza della contestazione, il quale opera in via alternativa alla violazione di specifiche clausole contrattuali, che di per sé produrrebbe l’inefficacia del licenziamento con applicazione dell’art. 18, comma 6, St. lav. Questo è un altro passaggio poco convincente delle Sezioni Unite. Infatti, la violazione di specifiche clausole verrebbe sempre ed automaticamente punita come mera violazione procedurale, mentre la violazione del principio di buona fede, all’esito di una valutazione del giudice secondo canoni di buona fede o razionalità che può tradursi in una moltiplicazione di standard valutativi28, condurrebbe all’ingiustificatezza del licenziamento. Ne discende un confine non ben delimitato tra violazione procedurale e violazione degli obblighi di buona fede, senza escludere il paradosso del riconoscimento di una tutela più intensa in mancanza di una previsione specifica della contrattazione collettiva di quella riconosciuta in presenza di essa29. Al riguardo bisogna rilevare come, per un verso, il sistema di obblighi integrativi, accessori e strumentali derivanti da clausole generali come la buona fede non dovrebbe operare in funzione sostitutiva dei poteri concretamente esercitabili, bensì solo in funzione di riequilibrio e di misura e al contempo occorre sottolineare che nel contratto collettivo, qual-

Statuto dei lavoratori, in WP D’Antona, 172/2013, 24; Del Punta, Il primo intervento, cit., 38. In q. senso di recente Cass. 27 novembre 2018, n. 30676, secondo cui la non immediata irrogazione di un provvedimento disciplinare può essere intesa quale acquiescenza alle giustificazioni addotte dal lavoratore il quale, a ragione, può ritenere che la mancanza contestata non sia meritevole della massima sanzione espulsiva. 26 Pisani, Sul principio di tempestività del licenziamento disciplinare, op. cit., 150. 27 Mazzotta, I molti nodi, cit., 253 ss. 28 Lo standard valutativo tratto dal contesto sociale – quale potrebbe essere il termine per la contestazione fissato dal contratto collettivo – per non essere una mera violazione meramente procedurale, deve essere “filtrato” e “reinterpretato” una seconda volta dal giudice mediante l’applicazione delle clausole generali di buona fede e correttezza, di modo che il contenuto di una clausola generale viene spiegato ed integrato con quello di un’altra clausola generale, invece di fare riferimento a parametri che magari, possono essere già stati tracciati dalla contrattazione collettiva con precisione. 29 Condivisibilmente De Angelis, op. cit., 13.

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siasi integrazione trova un punto di mediazione e insieme un confine nel testo negoziale, che rappresenta già il frutto di una (forte) contrapposizione di interessi30. Peraltro, nulla esclude che datore di lavoro e sindacato possano concordare di attribuire espressamente un medesimo termine anche per la contestazione disciplinare, a pena di accettazione o rinuncia all’azione, ed in caso di violazione si riproporrebbero le medesime considerazioni della sentenza quivi annotata, mentre sarebbe incongruo applicare automaticamente la sanzione dell’inefficacia solo perché il regolamento è disciplinato da una clausola negoziale.

6. Ulteriori riflessi applicativi nel contesto della l. n. 92/2012.

Le riflessioni della sentenza in esame, valide per qualsiasi sanzione disciplinare, acquisiscono una particolare connotazione con riferimento al licenziamento, in quanto l’effettivo accertamento giudiziale dell’esistenza ed imputabilità inadempimento contestato assume – come osservato – rilievo ai fini della validità dell’atto unilaterale di recesso. Giova sottolineare che l’effetto giuridico si realizza tanto rispetto ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 (art. 18, comma 4, St. lav.) quanto per quelli assunti dopo tale data (art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015)31. L’interpretazione offerta dalla Corte nel caso in esame, seppur riferita ad un’ipotesi particolare e per certi versi marginale, si presta a riflessioni ulteriori, anche in via ipotetica. Infatti, la l. n. 92/2012 ha attribuito un ruolo consistente alla contrattazione collettiva sotto il profilo della valutazione di proporzionalità, che accentua o per meglio dire esalta la rilevanza della valutazione di gravità del fatto formulata dal contratto collettivo mediante la scelta di sanzioni conservative o non conservative, ed è in grado di incidere sull’applicazione o meno della tutela reale. Una seconda possibilità di applicazione della tutela reale può pertanto configurarsi, ad esempio, a fronte dell’ipotetica applicazione di una clausola come l’art. 21 del CCNL Gas acqua, qualora le difese del lavoratore siano dirette non soltanto a negare la rilevanza disciplinare del fatto, bensì anche ad affermare in via subordinata – come spesso accade nei procedimenti disciplinari – la sua riconducibilità a infrazioni punibili con sanzioni conservative secondo i codici disciplinari applicabili. È evidente come in un caso simile, per lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, l’applicazione della stessa regola prevista dal contratto collettivo potrebbe condurre comunque alla reintegrazione sul posto di lavoro per via della lettera b) del comma 4 dell’art. 18

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Mazzotta, Variazioni su poteri privati, clausole generali e parità di trattamento, in DLRI, 1989, 583, ora in Id., Diritto del lavoro e diritto civile. I temi di un dialogo, Giappichelli, 1994, 147-8. 31 Ichino, Due sentenze di Cassazione sulla disciplina dei licenziamenti, 13 ottobre 2015, in www.pietroichino.it.

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St. lav.: la presunzione di accettazione delle difese del lavoratore implicherebbe il riconoscimento della punibilità dell’illecito per mezzo di sanzioni conservative. Questo scenario potrebbe verificarsi anche all’esito dell’accertamento giudiziale, poiché l’interpretazione del significato da attribuire all’implicita accettazione delle difese del lavoratore, in ultima istanza, compete al magistrato.

7. (Segue) e del d. lgs. n. 23/2015 (all’esito della pronuncia

n. 194/2018).

Diverso sarebbe lo scenario nel caso di un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015. Il d.lgs. n. 23/201532 ha evidentemente ridimensionato la fonte collettiva per quanto riguarda l’applicazione della reintegrazione: ogni qual volta il fatto contestato sia punito con una sanzione conservativa dal contratto collettivo o dal codice disciplinare applicabile il giudice non può più disporre la reintegrazione. Nell’esempio appena prospettato, pertanto, dovrebbe necessariamente trovare applicazione l’art. 3, comma 1, del decreto. Sennonché, di recente, è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018, secondo cui “la previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse” e di tale statuizione, che in sostanza impone di sostituire una valutazione astratta sulla base di parametri univoci e immodificabili, con una valutazione legata alla specificità del caso33, occorre tenere conto. Dopo la sentenza n. 194/2018, tuttavia, non è da escludere che il giudice possa recepire il giudizio di minore gravità espresso dalla tipizzazione operata dal contratto collettivo, in forza del criterio di commisurazione della sanzione sulla base “del comportamento delle parti”. Tale criterio, già previsto in passato dall’art. 8 legge n. 604/1966, deve oggi essere necessariamente preso in considerazione dal giudice in uno con l’anzianità lavorativa, che mantiene, come nell’art. 18, comma 5, St. lav. (e forse proprio per simmetria con tale previsione), un rilievo precipuo anche secondo il giudice delle leggi, ma anche con il numero di occupati, le dimensioni e le condizioni economiche del datore di lavoro. Nell’esempio prospettato, di un lavoratore che abbia formulato difese relative alla punibilità del fatto con sanzioni conservative o più in generale tese a negare la notevolezza dell’inadempimento, licenziato oltre il termine previsto dal Ccnl, troverebbe comunque

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Su cui v. De Luca Tamajo, Licenziamento disciplinare, clausole elastiche, “fatto” contestato, in ADL, 2015, 271 ss., secondo cui “il criterio di proporzionalità, dunque, cardine del giudizio di legittimità del licenziamento non assume, viceversa, valore alcuno in chiave selettiva delle conseguenze giuridiche del recesso datoriale viziato”, all’epoca riferendosi all’applicazione della reintegrazione. 33 In questo senso Mazzotta, Cosa ci insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in www.rivistalabor.it, 1 dicembre 2018.

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applicazione l’art. 3, comma 1, del decreto, ma non è da escludere che nella valutazione giudiziale il comportamento del datore di lavoro determini un innalzamento della sanzione. Questa interpretazione permetterebbe di scongiurare o almeno limitare anche quegli eventuali rigorismi applicativi che, fino ad oggi, potevano essere applicati a danno del lavoratore, ad esempio (come osservato supra, § 5) nell’ipotesi di un lieve inadempimento elevato a motivo di contestazione e licenziamento, contestato a grande distanza di tempo. Anche in tali casi, nel sistema del Jobs act, continuerebbe a non aversi la tutela reale, ma potrebbe osservarsi un’opportuna modulazione delle tutele indennitarie in sede giudiziale, peraltro oggi incrementate nel tetto massimo dal d.l. n. 87/2018 fino a 36 mesi.

8. Riflessioni conclusive. La sentenza in esame, a parere di chi scrive, presenta tre aspetti di rilievo. In primo luogo, ammette che il riconoscimento di condizioni di miglior favore per il lavoratore nel procedimento disciplinare, qualora le parti decidano in modo chiaro che un determinato comportamento sia idoneo ad incidere sulla qualificazione di un fatto come inadempimento, possa avere rilevanza sostanziale e non meramente procedurale. Specularmente esclude che una violazione di una clausola contrattuale, solo perché inserita tra le regole del procedimento disciplinare, debba avere ex se una rilevanza squisitamente procedurale, come sembrano indicare alcuni passaggi delle Sezioni Uniti sull’ipotesi, come evidenziato distinta, dalla violazione del principio dell’immediatezza della contestazione (che comunque altre sentenze, precedenti e successive, individuano quale elemento costitutivo del fatt-inadempimento contestato). In secondo luogo e in modo più convincente rispetto alla sentenza delle Sezioni Unite, si ammette che le clausole contrattuali, laddove siano sufficientemente chiare secondo un criterio letterale, possano essere di per sé idonee a determinare, ancor prima di ricorrere ad un principio generale di buona fede e correttezza, la ricorrenza di un elemento costitutivo del diritto di recesso34. Questo evita un’inutile moltiplicazione di standard valutativi poiché la contrattazione collettiva è di per sé idonea già a porsi quale parametro qualificato35 e sub-sistema di regole sociali esterne al sistema in grado di orientare una determinazione degli effetti dei comportamenti o della gravità delle violazioni36.

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In presenza di una regolamentazione contrattuale sufficientemente puntuale il ricorso alla regola di correttezza può apparire nella maggior parte dei casi come un elemento sovrastrutturale secondo Tullini, Clausole generali e rapporto di lavoro, Maggioli, 1990, 200. 35 Tremolada, Norme della l. n. 183/2010 in materia di certificazione e di limiti al potere di accertamento del giudice, in Miscione, D. Garofalo (a cura di), Il Collegato lavoro 2010, Ipsoa, 2011, 176-178; M. T. Carinci., Clausole generali, certificazione e limiti al sindacato del giudice. A proposito dell’art. 30 l. n. 183/2010, in Lavoro, istituzioni, cambiamento sociale – Studi in onore di Tiziano Treu, II, Jovene, 2011, 797. 36 Considerazione viepiù veritiera se, come ricorda Bellomo, op. cit., 27 “l’idea prevalente rimane, tuttavia, quella secondo cui le clausole generali debbono essere intese come punti di contatto tra diritto e modelli di comportamento offerti dalla vita sociale, ossia come strumenti di “ricezione sostanziale” richiamando Falzea, Gli standards valutativi e la loro applicazione, in RDC, 1987, 3.

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In terzo luogo, si riconosce che la violazione di una previsione contrattuale idonea ad incidere, nel senso sopra precisato, sulla qualificazione del fatto contestato come inadempimento possa assumere riflessi sull’applicazione della tutela reale. Si tratta di una precisazione importante, che appare per certi versi in controtendenza rispetto all’impianto legislativo del d.lgs. n. 23/2015, orientato – nel discutibile ma conclamato obiettivo della programmabilità dei costi del licenziamento37 – a marginalizzare il ruolo della contrattazione collettiva, ma a ben vedere si rivela rigorosa e trova crescenti riscontri giurisprudenziali. Tale marginalizzazione si osserva, indubitabilmente, sul tema della proporzionalità rispetto alla quale è stato già indicato il differente ruolo riconosciuto alla contrattazione dalla legge n. 92/2012 e dal d.lgs. n. 23/2015 a fini sanzionatori, ma non può impedire – almeno fino a quando il fatto contestato sarà inteso come fatto giuridico – che il contratto collettivo conservi una funzione interpretativa con riflessi sostanziali in materia di determinazione della sanzione. Questo avviene ancora oggi, nel vigore del d.lgs. n. 23/2015, laddove la contrattazione collettiva intervenga a graduare i requisiti che l’inadempimento (il cd. fatto) deve possedere per essere considerato tale38. Ne consegue – e non scandalizza – che in difetto di quel quid minimo di gravità nel comportamento (o di rilevanza del danno), liberamente individuato dal contratto collettivo, affinché il comportamento possa acquisire la qualificazione giuridica di illecito disciplinare39, potrà essere accertata in sede giudiziale l’insussistenza dell’inadempimento-fatto addebitato al lavoratore, con conseguente applicazione dell’art. 18, comma 4, st. lav. o 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, in base alla data di assunzione del lavoratore. Infine, alla luce della sentenza del giudice delle leggi n. 194/2018 per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, si può aggiungere la considerazione che, allo stato attuale, nella valutazione del comportamento delle parti per la determinazione dell’indennità omnicomprensiva di cui all’art. 3 può rientrare anche il comportamento del datore. Il comportamento potrà ad esempio rilevare se, a fronte di difese del lavoratore tese a contestare la notevolezza e non l’imputabilità dell’inadempimento, il datore di lavoro abbia irrogato la sanzione in aperta violazione di un criterio di lealtà e tutela dell’affidamento, sia esso desumibile da specifiche previsioni contrattuali, sia da un principio generale di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto. Stefano Cairoli

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Su cui v. le riflessioni critiche di Mazzotta, Cosa ci insegna la Corte costituzionale, cit., secondo il quale “In sostanza … anziché affidarsi ad una valutazione giudiziale che non è in grado di cogliere le esigenze di una libera economia di mercato, è preferibile, come male minore, che il datore conosca ex ante il costo di una condanna che, in questa prospettiva, appare quasi certa”, ma “resta francamente poco comprensibile l’idea che per l’impresa … sia ineludibile la pianificazione dei soli costi del licenziamento, a fronte delle indiscutibili variabili economiche che presentano tutti i rapporti che le fanno capo”. 38 Cfr. 48 c.c. n.l. 1febbraio 2013 per il personale dipendente da imprese esercenti servizi di telecomunicazione. 39 Sul punto Cass., 13 ottobre 2015, n. 20540 e 20545, in www.pietroichino.it, con nota di Ichino, Due sentenze di Cassazione sulla disciplina dei licenziamenti.

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Giurisprudenza C orte di Cassazione, ordinanza 28 maggio 2018, n. 13266; Pres. Manna – Est. Patti – C.F. (avv. Pellittieri, Troncellitti) c. 24 Pharmaceutical s.r.l. (avv. Ferraro). Conferma App. Roma, sent. 9 agosto 2010. Lavoro (rapporto di) – Art. 4 st. lav. previgente – Controlli a distanza – Controlli diretti a verificare condotte lesive di beni estranei al rapporto di lavoro – Garanzie procedurali – Esclusione.

In tema di controlli a distanza, esulano dall’ambito di applicazione dell’art. 4, comma 2, st. lav. (nel testo anteriore alle modifiche di cui all’art. 23, comma 1, del d.lgs. n. 151/2015) e non richiedono l’osservanza delle garanzie ivi previste, i controlli difensivi da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale, tanto più se disposti “ex post”, ossia dopo l’attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa (nella specie, è stata ritenuta legittima la verifica successivamente disposta sui dati relativi alla navigazione in internet di un dipendente sorpreso ad utilizzare il computer di ufficio per finalità extra-lavorative).

Omissis. Rilevato – che in sede di giudizio di rinvio dalla Corte di Cassazione, che con sentenza n. 25069/2016 aveva annullato la sentenza della Corte d’appello di Roma del 9 agosto 2010 (di accertamento della nullità, per genericità della contestazione in data 23 novembre 2007, del licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato il 6 dicembre 2007 da (omissis) al dipendente C.F., in riforma della sentenza del primo giudice, che ne aveva al contrario ritenuta la legittimità e così respinto le domande del lavoratore), con sentenza 26 maggio 2016 la medesima Corte capitolina, in diversa composizione, aveva rigettato le domande dello stesso; che avverso tale sentenza il lavoratore ricorreva per cassazione con sette motivi, cui resisteva la società con controricorso; che entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1. Considerato che il ricorrente deduce violazione della L. n. 300 del 1970, art. 4 (nel testo applicabile ratione temporis), artt. 1175 e 1375 c.c., per esclusione del carattere illecito della condotta del lavoratore e conseguente illegittimità dei controlli effettuati dalla società datrice utilizzando una password universale esigente il previo accordo sindacale o l’autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, non documentati, nell’inidoneità dell’autorizzazione del lavoratore medesimo, neppure spontaneamente rilasciata, a legittimare il sistema di controllo adottato (primo motivo); violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7, artt. 1175, 1375 e 2697 c.c., per tardività della contestazione relativa a condot-

ta illecita asseritamente tenuta dal lavoratore durante tutto l’anno precedente (secondo motivo); violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione alla L. n. 300 del 1970, artt. 4, L. n. 604 del 1966, art. 5, art. 420 c.p.c., art. 2712 c.c., D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 1, comma 2, lett. a), L. n. 300 del 1970, art. 7, artt. 24 e 111 Cost., per inidoneità probatoria dei dati rilevati con il sistema di controllo, quand’anche difensivo, all’accertamento dell’inadempimento del lavoratore, comunque in base a un tabulato di unilaterale formazione datoriale, contestato dal lavoratore e in difetto di un riscontro positivo dell’effettiva condotta del lavoratore (terzo motivo); falsa applicazione dell’art. 2104 c.c., in relazione alla L. n. 300 del 1970, artt. 1 e 7, artt. 2043 e 2697 c.c., per difetto di indicazione delle direttive aziendali violate dal lavoratore giocando al computer dell’ufficio, nonchè di prova del danno economico e di immagine arrecato alla società datrice dall’inadempimento dello stesso (quarto motivo); violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 3, art. 2697 c.c., per omessa valutazione, nell’accertamento del giustificato motivo soggettivo del licenziamento, del curriculum professionale del lavoratore, della natura e qualità del rapporto in relazione alle mansioni e alle responsabilità rivestite, al danno arrecato, alle circostanze del fatto e all’intensità dell’elemento soggettivo (quinto motivo); violazione dell’art. 112 c.p.c., quale error in procedendo e degli artt. 51, 52 CCNL del settore chimico farmaceutico 10 maggio 2006, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 3,L. n. 300 del 1970, art. 7,artt. 1362 c.c. e ss., per non corrispondenza


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del chiesto al pronunciato, avendo la Corte territoriale sostituito al giustificato motivo soggettivo del licenziamento intimato (per esplicito riferimento, nella lettera di comunicazione, all’esonero espresso dal... periodo di preavviso) la giusta causa accertata, ai sensi dell’art. 52, lett. a) CCNL industria chimica 2006, pur in assenza di rilievo della mancanza di precedenti provvedimenti disciplinari per lo stesso comportamento, secondo la previsione della norma collettiva (sesto motivo); violazione dell’art. 2033 c.c., per la decorrenza degli interessi legali sulla somma restituenda dal lavoratore, in quanto percepita a giusto titolo, dalla data della domanda di restituzione della parte interessata e non dalla sentenza della Corte territoriale (settimo motivo); che il collegio ritiene che il primo e il terzo motivo, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, siano infondati; che giova premettere che la violazione della normativa dei controlli a distanza costituisce parte di quella complessa normativa diretta a limitare le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro, che siano lesive, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, della dignità e della riservatezza del lavoratore: sul presupposto del mantenimento della vigilanza sul lavoro, ancorché necessaria nell’organizzazione produttiva, in una dimensione umana, non esasperata dall’uso di tecnologie che possano renderla continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro (Cass. 17 luglio 2007 n. 15982; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2722; Cass. 27 maggio 2015, n. 10955); che essa è applicabile nelle garanzie procedimentali previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 4, comma 2 anche in presenza di controlli cd. difensivi, ossia diretti (pure tramite la conservazione e la categorizzazione dei dati personali dei dipendenti, relativi alla navigazione in internet, all’utilizzo della posta elettronica ed alle utenze telefoniche da essi chiamate, acquisiti dal datore di lavoro: Cass. 19 settembre 2016, n. 18302) ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela dei beni estranei al rapporto stesso (Cass. 23 febbraio 2010, n. 4375; Cass. 1 ottobre 2012, n. 16622; Cass. 5 ottobre 2016, n. 19922); che detta applicazione è esclusa invece quando i comportamenti illeciti dei lavoratori non riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma piuttosto la tutela di beni estranei al rapporto stesso, secondo un non sempre agevole bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle irrinunziabili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto (Cass. 1 novembre 2017, n. 26682): pure esclusa la rispondenza ad alcun crite-

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rio logico-sistematico della garanzia al lavoratore (in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con la sanzione espulsiva) di una tutela alla sua “persona” maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all’impresa (Cass. 2 maggio 2017, n. 10636); che siffatti approdi ermeneutici appaiono del resto coerenti con i principi dettati dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in base al quale nell’uso degli strumenti di controllo deve individuarsi un giusto equilibrio fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della “ragionevolezza” e della “proporzionalità” (Cedu 12 gennaio 2016, Barbulescu c. Romania, secondo cui lo strumento di controllo deve essere contenuto nella portata e dunque proporzionato): e sempre che sia tutelato il diritto del lavoratore al rispetto della vita privata, mediante la previa informazione datoriale del possibile controllo delle sue comunicazioni, anche via internet (Cedu, Grande Chambre 5 settembre 2017, Barbulescu c. Romania, che ha riformato la citata sentenza della sezione semplice, ritenendo un difetto di verifica dei giudici di merito rumeni in ordine ai delicati profili della natura ed estensione della sorveglianza sul lavoratore e del conseguente grado di intrusione nella sua vita privata e nella sua corrispondenza); che appare allora evidente come esorbiti dal campo di applicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale: e tanto più se si tratti di controlli posti in essere ex post, ovvero dopo l’attuazione del comportamento addebitato al dipendente, quando siano emersi elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di un’indagine retrospettiva (Cass. 23 febbraio 2012, n. 2722), così da prescindere dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti, invece diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati) dagli stessi posti in essere (Cass. 27 maggio 2015, n. 10955); che nel caso di specie deve essere pertanto esclusa la violazione delle garanzie previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 4, avendo la Corte territoriale, con esatta applicazione dei principi di diritto regolanti la materia (dall’ultimo capoverso di pg. 3 al terzo di pg. 4 della sentenza), accertato in fatto l’utilizzazione del controllo all’esclusivo fine di accertamento di mancanze specifiche del lavoratore nell’impiego del computer per finalità extra-lavorative (gioco a Free-Cell), nelle quali era stato sorpreso dal direttore tecnico e con avvio mirato della verifica informatica ex post, per giunta in base ad autorizzazione scritta del lavoratore (così al penultimo e al terz’ultimo capoverso di pg. 4 della sentenza) e questa solo genericamente contestata dal lavoratore medesimo (al primo periodo di pg. 8 del ricorso); Omissis PQM – La Corte rigetta il ricorso e condanna C.F. alla rifusione, in favore della controricorrente, alle spe-


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se del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1quater, dà atto della sussistenza dei presupposti

per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13. Omissis.

Legittimità dei controlli difensivi: la lesione patrimoniale in re ipsa e la previa autorizzazione del lavoratore sono ancora criteri adeguati? Il confronto sistematico con la normativa sulla privacy diventa indifferibile. Sommario : 1. Il caso. – 2. In generale: i controlli difensivi prima del d.lgs. n. 150/2015. – 3. L’iter logico argomentativo dell’ordinanza pone il fianco ad alcune critiche. – 4. Il contenuto della pronuncia alla luce delle modifiche intervenute nell’art. 4. st. lav.: ha ancora senso parlare di controlli difensivi?

Sinossi. Il commento si concentra sull’ammissibilità dei controlli a distanza in assenza di accordo sindacale o autorizzazione amministrativa. L’A. insiste sulla necessità che il giudicante, nel decidere l’ammissibilità di simili controlli, accerti l’effettiva sussistenza dei requisiti dell’illiceità della condotta e della sussistenza del danno e compia un sistematico confronto con tutte le discipline rilevanti in materia di controllo dei lavoratori.

1. Il Caso. Il tema centrale della pronuncia in commento è costituito dai controlli a distanza, argomento tornato al centro del dibattito scientifico e non solo, anche a seguito della riformulazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori1, dei recenti approdi ermeneutici della Corte

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Ad opera dell’art. 23 d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151.

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EDU e della crescente attenzione rivolta alla normativa privacy che, pur essendo caratterizzata da una dimensione più generale2, impone maggiori accortezze nel trattamento dei dati dei collaboratori dell’impresa. Nello specifico, la vicenda posta all’attenzione dei Giudici di legittimità prende avvio dal licenziamento di un lavoratore che aveva adoperato il computer aziendale per finalità extra-lavorative, utilizzando un software on-line deputato a giochi a Free-Cell (il classico solitario). Simile impiego della strumentazione di lavoro veniva scoperto dal superiore gerarchico (direttore tecnico) del dipendente che, prontamente, segnalava l’accaduto al datore di lavoro. Cosicché l’azienda, forte anche dell’autorizzazione scritta previamente fornita dal lavoratore, utilizzando una password d’accesso universale, effettuava una verifica informatica dalla quale emergevano evidenze provanti l’indebito utilizzo del pc. Una volta accertata simile circostanza, il dipendente veniva licenziato per giustificato motivo soggettivo. Il lavoratore contestava il licenziamento in sede giudiziale. L’impugnazione del recesso veniva respinta durante i giudizi di merito, cosicché, il ricorrente, a seguito della pronuncia della Corte di Appello di Roma (che nell’ambito del giudizio di rinvio, aveva confermato la legittimità del licenziamento) investiva nuovamente la Cassazione della questione rilevando, tra i vari motivi di impugnazione, la violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori «nel testo applicabile ratione temporis»3, laddove prevedeva un generale divieto di controlli a distanza in assenza di preventivo accordo con i sindacati e/o previo espresso ottenimento di un’autorizzazione amministrativa. Nell’affrontare la questione la Suprema Corte, dopo un breve excursus di carattere generale sulla ratio alla base della normativa sui controlli, concentrandosi sulla fattispecie concreta s’interroga sull’applicabilità della disciplina statutaria prevista per i controlli a distanza. I Supremi Giudici mostrano di porsi in continuità con quell’orientamento secondo cui, in tema di controllo del lavoratore, le garanzie procedurali imposte dalla l. 300/1970 art. 4 comma 2 trovano applicazione anche ai controlli c.d. difensivi4. Tuttavia, secondo le argomentazioni formulate nell’ordinanza, le garanzie procedimentali previste nella norma statutaria sarebbero applicabili soltanto in presenza di controlli difensivi diretti «ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela dei beni estranei al rapporto stesso». Mentre, l’applicazione delle medesime garanzie sarebbe esclusa «quando i comportamenti illeciti dei lavoratori non

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Del Punta, La nuova disciplina dei controlli a distanza sul lavoro (art. 23 d.l.gs n. 151/2015), in RIDL 2016, I, 91. Ossia prima della sua riformulazione introdotta con l’art. 23 del d.lgs. n. 150/2015. 4 In verità vi è un intenso dibattito sulla distinzione tra i controlli sull’attività lavorativa e quelli effettuati sui comportamenti illeciti (c.d. controlli difensivi) sui quali non vi è pieno accordo sull’applicazione o meno della normativa prevista dallo Statuto dei Lavoratori cfr. Lambertucci, I controlli del datore di lavoro e la tutela della privacy, in G. Santoro-Passarelli (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Utet, 2014, 803. 3

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riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma piuttosto la tutela di beni estranei al rapporto stesso». Dunque, dopo aver richiamato i principi di «ragionevolezza e proporzionalità nell’utilizzo degli strumenti di controllo» la Cassazione esclude che, nel caso di specie, l’«avvio di un’indagine retrospettiva» da parte del datore, diretta ad accertare eventuali «mancanze specifiche del lavoratore nell’impiego del computer per finalità extra-lavorative (gioco a Free-Cell)», possa porsi in violazione delle garanzie previste dall’art. 4, l. 300/1970. Con le suesposte argomentazioni, la Corte ha riconosciuto la legittimità del controllo messo in atto dal datore di lavoro nel computer del dipendente e rigettato il ricorso.

2. In generale: i controlli difensivi prima del d.lgs. n. 150/2015.

Al fine di comprendere l’impianto logico argomentativo dell’ordinanza in commento, è necessario ricostruire brevemente l’interpretazione nel tempo consolidatasi in materia di controlli a distanza nella vigenza della disciplina prevista nel “vecchio” art. 4 che, pacificamente, costituiva la regolamentazione applicabile al rapporto di lavoro oggetto della decisione5. In particolare, la disposizione statutaria, nella sua formulazione originaria, limitava il potere di controllo dell’imprenditore, vietando espressamente l’uso di impianti audiovisivi o altre apparecchiature idonee a consentire un controllo a distanza sull’attività dei lavoratori. L’unica eccezione, espressamente prevista, era costituita dall’intervento di un accordo sindacale o, in mancanza, l’ottenimento di un’espressa autorizzazione amministrativa, laddove l’utilizzazione di «impianti e le apparecchiature di controllo» derivasse dalla necessità di far fronte ad «esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro». Col tempo, nel vigore della succitata disciplina, si è sviluppato un intenso dibattito in tema di controlli, animato dall’intento di individuare un punto di equilibrio tra le ragioni del datore di lavoro al controllo e le contrapposte istanze di tutela della dignità e riservatezza del lavoratore, in relazione al radicalmente mutato contesto di riferimento costellato di situazioni inimmaginabili e, dunque, non considerate dal legislatore dello Statuto6. L’informatizzazione dell’impresa e le nuove strumentazioni in dotazione ai prestatori di lavoro (pc, smartphone, tablet, etc.) hanno messo in evidenza l’inadeguatezza della disci-

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Per un quadro sul dibattito giurisprudenziale e dottrinale in argomento anteriore alla riformulazione dell’art. 4 cfr. Vallauri, è davvero incontenibile la forza espansiva dell’art. 4 Stat. Lav.?, in RIDL, 2008, II, 718 ss.; sulla ratio del “vecchio art. 4 e l’oggetto del divieto di controlli a distanza cfr. Zoli, Il controllo a distanza del datore di lavoro: l’art. 4, l. n. 300/1970 tra attualità ed esigenze di riforma, in RIDL, 2009, IV, 485 ss. 6 Balletti, I poteri del datore di lavoro tra legge e contratto, Relazione Giornate di Studio Aidlass 2017, 37, reperibile in http://www. aidlass.it.

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plina originariamente prevista in tema di controlli a distanza7. Le connaturali potenzialità di monitoraggio insite nelle nuove tecnologie, capaci di registrare innumerevoli dati relativi al comportamento dell’utente, hanno “offuscato” la stessa distinzione tra strumenti di lavoro e strumenti di controllo proposta dal “vecchio” art. 48, rendendo difficoltoso distinguere «tra esercizio del controllo a distanza e utilizzo dei dati derivanti da tale controllo»9. Frequentemente, infatti, queste due distinte operazioni venivano identificate come se fossero un «unico atto catalogabile come esercizio del potere di controllo», in quanto il controllo diventa percepibile solo nel momento in cui i dati raccolti (anteriormente) vengono utilizzati contro il lavoratore10. Sul punto, la novella, con la riscrittura dell’art. 4, ha scandito meglio le tutele fornite ai lavoratori nelle varie fasi, stabilendo espressamente che il controllo a distanza si concretizza già nel momento dell’acquisizione del dato, consentendo, così, una migliore definizione dello stesso potere di controllo. Tuttavia, ante riforma, non vi era traccia di simile distinzione e ciò, come detto, ha reso difficoltoso individuare il momento di esercizio del potere di controllo e le relative limitazioni. Sovente, nella pratica, accadeva che i datori di lavoro utilizzassero le informazioni previamente acquisite (soprattutto per mezzo di controlli informatici) a fini disciplinari11. Così, la giurisprudenza nel tempo è giunta a ritenere ammissibili i controlli a distanza solamente quando questi potessero essere classificati come “difensivi”12, ovvero giustificati dall’interesse datoriale di tutelarsi a fronte di illeciti commessi dal prestatore di lavoro13, ampliando, di fatto, l’ambito di operatività del controllo a distanza14. Ed è proprio sull’annoso tema dei “controlli difensivi” che la Cassazione ha dovuto confrontarsi nel formulare il percorso logico-argomentativo alla base della decisione nella quale il controllo ex post messo in atto dal datore è stato ritenuto legittimo.

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Alvino, Nuovi limiti al controllo a distanza dell’attività dei lavoratori nell’intersezione fra le regole dello Statuto dei lavoratori e quelle del Codice della privacy, in LLI, vol. 2, n. 1, 2016, 7. 8 Del Punta, La nuova disciplina dei controlli a distanza sul lavoro, cit., 83; del resto in dottrina si è giustamente fatto notare come «l’installazione di una rete internet comporta delle responsabilità per il datore di lavoro in quanto gestore della rete, che possono assumere anche una rilevanza penale» e dunque implichi un necessario potere di controllo da parte del datore di lavoro, cfr. Alvino, Nuovi limiti al controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, cit., 10. 9 Maresca, Controlli tecnologici e tutele del lavoratore nel nuovo art. 4 stat. lav., in Tullini (a cura di), Controlli a distanza e tutela dei dati personali dei lavoratori, Giappichielli, 2017, 7. 10 Maresca, Controlli tecnologici e tutele del lavoratore nel nuovo art. 4 stat. lav., cit., 8: osserva come vi siano infatti almeno «tre fasi distinte: la prima riguarda la raccolta dei dati l’acquisizione dei dati relativi all’attività lavorativa, come conseguenza automatica della tecnologia utilizzata dal dipendente per svolgere l’attività lavorativa: la seconda concerne la conservazione dei dati, cioè la loro memorizzazione: la terza, che è meramente attiene all’utilizzazione dei dati per la gestione del rapporto di lavoro». 11 Una delle prime pronunce di legittimità in tema risulta essere relativamente recente: Cass., 23 febbraio 2010, n. 4375, in RGL, 2010, II, 462, con nota di Bellavista; in D&G, 2010, 413, con nota di Santoni; in LG, 2010, 992, con nota di Barraco, Sitzia; in RIDL, 2010, II, 564, con nota di Galardi. 12 Figura di creazione giurisprudenziale non tipizzata all’interno della vecchia formulazione dell’art. 4 st. lav, cfr. Consonni, Il caso Barbulescu c. Romania e il potere di controllo a distanza dopo il Jobs Act: normativa europea e italiana a confronto, in DRI, 2016, 1171 ss. 13 Del Punta, La Nuova disciplina dei controlli a distanza sul lavoro, cit., 85. 14 Sulla nozione di “controllo difensivo” cfr. De Luca Tamajo, I controlli sui lavoratori in I poteri del datore di nell’impresa, in Grandi (a cura di), I poteri del datore di lavoro nell’impresa, Cedam, 2002, 99 ss.

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Sul punto, vale la pena premettere come simile tematica costituisca un argomento estremamente specifico e possa, in questa sede, essere trattata soltanto dando per acquisito lo stato del confronto, «per ora essenzialmente dottrinale», sulle linee interpretative di fondo dell’ormai novellato art. 4 st. lav.15. Tuttavia, è necessario dar sommariamente conto del dibattito giurisprudenziale che ha portato agli approdi ermeneutici che la stessa Corte espressamente richiama nelle proprie motivazioni. Infatti, nel vigore della succitata disciplina statutaria, il dibattito sui c.d. “controlli difensivi” ha mostrato un’intensa vitalità, dalla quale è emerso un concetto “elastico” di difesa degli interessi aziendali. L’avvertita necessità di bilanciamento tra interessi aziendali e riservatezza dei prestatori di lavoro ha progressivamente spinto la giurisprudenza ad individuare specifici limiti in ordine all’utilizzazione delle evidenze ottenute mediante i controlli difensivi. Ad una più risalente impostazione che identificava tali controlli come leciti a prescindere dalla loro invasività, si è sostituito un orientamento che tende a circoscrivere l’ammissibilità degli stessi ai soli casi in cui i comportamenti illeciti dei lavoratori non riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro16, bensì la tutela dei beni estranei al rapporto stesso, ossia gli illeciti extracontrattuali posti in essere dai prestatori d’opera17. Dall’esame della casistica giudiziaria emerge, dunque, un perimetro a geometrie variabili di ammissibilità dei controlli difensivi. I giudici del lavoro, di volta in volta, hanno modulato le loro decisioni plasmandole al caso concreto, nel tentativo di operare quel difficile bilanciamento di interessi tra tutela della riservatezza, dignità del lavoratore e salvaguardia del patrimonio e dell’immagine aziendale. Secondo i più recenti approdi giurisprudenziali, simili controlli devono limitare al minimo la loro invasività, in modo da mostrarsi rispettosi delle garanzie di libertà e dignità

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Marazza, I controlli a distanza del lavoratore di natura “difensiva”, in Tullini (a cura di), Controlli a distanza dei dati personali del lavoratore, Giappichelli, 2017, 27; la posizione della dottrina rispetto a quella della giurisprudenza è sicuramente più garantista in quanto portata ad affrontare il dibattito su un piano più generale del confronto tra i valori in campo, cfr. Zoli, Il controllo a distanza del datore, cit., 486; per un excursus sul rinnovato dibattito giurisprudenziale in materia di controlli difensivi, nonché dei vari orientamenti dottrinali in argomento, recentemente, cfr. Gramano, La Rinnovata (ed ingiustificata) vitalità della giurisprudenza in materia di controlli difensivi, in DRI, I, 265 ss. 16 La Suprema Corte ha mutato orientamento con la pronuncia del 17 luglio 2007, n. 15892, in MGC, 2007, 7-8, nella quale ha stabilito che «l’esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore». 17 In questo senso Spinelli, La legittimità dei controlli datoriali cd. “difensivi”: certezze apparenti in una categoria dubbia, in RIDL, 2013, II, 115; in giurisprudenza la prima sentenza che ha cambiato espressamente orientamento interpretativo Cass., 18 aprile 2012, n. 16622, in MGC, 2012, 10, 1168; Cass., 27 maggio 2015, n. 10955, in RIDL, II, 120, con nota di Puccetti, Se il controllore diventa agente provocatore, anche in ADL, 2015, con nota di Olivelli, Lo stratagemma di Facebook come controllo difensivo occulto: provocazione o tutela del patrimonio aziendale?; Cass., 17 luglio 2007, n. 15892, in RGL, 2008, II, 358 ss., con nota di Bellavista, Controlli a distanza e necessità del rispetto della procedura di cui al co. 2 dell’art. 4 Stat. Lav.; Cass., 23 febbraio 2010, n. 4375, in RIDL, 2010, II, 564 ss., con nota di Galardi, Il controllo sugli accessi ad internet al vaglio della Cassazione; Cass., 1 ottobre 2012, n. 166622, in LG, 2013, 383 ss. con nota di Barraco, Stizia, Un de profundis per i controlli difensivi del datore di lavoro?; Cass., 25 maggio 2015, n. 10995, in RGL, 2015, II, 587, con nota di Russo, Controlli difensivi il fine giustifica i mezzi?; Cass., 2 aprile 2015, n. 20440, in RGL, 2016, 148 ss. con nota di Raimondi, La riservatezza del lavoratore tra innovazioni legislative e giurisprudenza nazionale ed europea; Cass., 13 maggio 2016, n. 9904, in GI, con nota di Marazza, Brevi riflessioni sul controllo a distanza del quantum della prestazione.

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dei dipendenti e, comunque, conformi ai canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale18. Così, sono stati censurati quei meccanismi di verifica a distanza generalizzati, predisposti prima ancora dell’emergere di qualsiasi sospetto19 e, di conseguenza, sono stati ritenuti legittimi soltanto i controlli mirati all’accertamento di uno specifico comportamento messo in atto da uno o più lavoratori. È chiaro, dunque, come il grado di certezza in una materia tanto complessa sia stato nel tempo alimentato dalle stesse posizioni dei giudici20. Il risultato è stato quello di rendere quantomeno “incerta” l’applicazione delle garanzie originariamente previste nella norma statutaria, finendo per legittimare, così come accaduto nella pronuncia in commento, un controllo ex post (seppur indiretto) sulla prestazione lavorativa21. In sostanza, l’impostazione ormai consolidatasi in tema di controlli difensivi «si basa su una massima ripetuta, secondo cui se dal controllo a distanza derivano prove sull’adempimento delle obbligazioni lavorative esse sono utilizzabili esclusivamente se è stato raggiunto l’accordo sindacale o amministrativo che comprovi le esigenze aziendali che stanno alla base dell’istallazione dello strumento, mentre, se queste evidenze hanno ad oggetto comportamenti illeciti che ledono beni estranei al rapporto» esse sono utilizzabili in giudizio a prescindere dal rispetto o meno delle procedure di cui all’art. 4 st. lav.22 Sembra, quindi, che il datore di lavoro possa esercitare il potere di controllo in ogni caso, salvo poi decidere, in base alle risultanze, di utilizzare le prove raccolte soltanto nell’ipotesi in cui emergano illeciti tesi a giustificare a posteriori un controllo23. Gli unici limiti individuati, quindi, sono mobili e si concretizzano nella verifica dell’invasività del mezzo di controllo, nella proporzionalità della risposta, nella specificità dell’accertamento e nel rispetto delle clausole generali, senza che vi siano, salvo rarissime ecce-

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Cass., 2 maggio 2017, n. 10636, in RFI, 2017, voce Lavoro (rapporto), n. 254; Cass., 27 maggio 2015, n. 10955, cit.; Cass., 18 marzo 2010, n. 20722, in RIDL, 2011, 85, con nota di Tullini, Videosorveglianza a scopi difensivi e utilizzo delle prove del reato commesso dal dipendente. 19 Cass., 5 ottobre 2016, n. 19922, in Banca dati DeJure. 20 Gramano, La Rinnovata (ed ingiustificata) vitalità della giurisprudenza, cit., 265 ss. 21 Tullini, Comunicazione elettronica, potere di controllo e tutele del lavoratore, in RIDL, 2009, II, 327 ss.; Lambertucci, Potere di controllo del datore di lavoro e tutela della riservatezza del lavoratore: i controlli a distanza tra attualità della disciplina statuaria, promozione della contrattazione di prossimità e legge delega 2014 (cd. Jobs Act), in WP D’Antona, It, n. 255/2015, 10 ss.; per l’ammissibilità dei controlli difensivi “occulti” recentemente Cass., 2 maggio 2017, n. 10636 in Banca dati DeJure; escludono, inoltre, l’applicabilità dell’art. 4 st. lav. in caso si controlli su comportamenti illeciti del lavoratore aventi ad oggetto beni estranei al rapporto di lavoro: Cass., 5 ottobre 2016, n. 19922, in RIDL, 2017, 26, con nota di Criscuolo, Controlli difensivi e codice della privacy, che ha considerato legittima la creazione da parte di un direttore del personale di un falso profilo Facebook Cass., 3 novembre 2016, n. 22313 in ADL, 2017, 441 con nota di Favretto, Controlli difensivi sul pc aziendale: l’area grigia della libertà e della dignità del lavoratore quale limite al potere datoriale. 22 In questo esatto senso Ingrao, Il Controllo disciplinare e la privacy del lavoratore dopo il Jobs Act, in RIDL, I, 2017, 48-49. 23 In questo senso Falsone, L’infelice giurisprudenza in materia di controlli occulti e le prospettive del suo superamento: cala il sipario sul vecchio art. 4 st. lav., ma la scena finale non strappa applausi, in RIDL 2015, II, 984; Del Punta, La Nuova disciplina dei controlli a distanza sul lavoro, cit., 86; di «sanabilità ex post» del mezzo di controllo parlano D’Andrea, Moriconi, I controlli a distanza: la disciplina prima e dopo la riforma, in DPL, 9, 2016, 570.

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zioni24, specifici riferimenti alla normativa sulla privacy o alle prescrizioni del Garante25, nonostante la rilevanza di tali ultime discipline in materia26. Dunque, a fronte di una dottrina che nel tempo ha assunto posizioni maggiormente garantiste nei confronti dei prestatori d’opera, la giurisprudenza, già prima della riforma (forse anche per la fisiologica maggiore prossimità con le fattispecie concrete)27, era sostanzialmente giunta a sostenere la possibilità di un controllo a distanza per fini disciplinari operato per mezzo degli strumenti tecnologici affidati al lavoratore28.

3. L’iter logico argomentativo dell’ordinanza pone il fianco ad alcune critiche. Il contenuto dell’ordinanza, come accennato, è in linea con l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale che ritiene legittimi i controlli difensivi ove tesi alla verifica, anche ex post29, di comportamenti illeciti che ledano o, comunque, incidano negativamente su beni estranei al rapporto di lavoro. Nelle premesse, la Corte ripercorre i propri precedenti ed esclude dichiaratamente che le garanzie previste dallo Statuto dei lavoratori possano trovare applicazione nel caso in cui «comportamenti illeciti dei lavoratori non riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma piuttosto la tutela di beni estranei al rapporto stesso». Gli stessi Giudici, in via generale, affermano come «esorbiti dal campo di applicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette

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Unica interessante eccezione, a quanto consta, è costituita da Cass., 30 giugno 2009, n. 15327, in RGL, 2010, II, 75, con nota di Bari; nella giurisprudenza di merito, tra le eccezioni, Trib. Ferrara, 21 agosto 2012, in LG, 2013, 205. 25 Prima della modifica intervenuta nell’articolo 4 in dottrina era stata messa in evidenza in accezione negativa l’indifferenza tra le due discipline, cfr. Levi, Il controllo informatico sull’attività dei lavoratori, Giappichelli, 2013; Sitzia, Il diritto alla “privatezza” nel rapporto di lavoro tra fonti comunitarie e nazionali, Cedam, 2013; Alvino, Nuovi limiti al controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, cit., 14-15; Del Punta, La nuova disciplina dei controlli a distanza sul lavoro, cit., 91, parla di «integrazione poco riuscita, per varie ragioni, fra la tematica della privacy e quella dei controllo». 26 Cairo, Il controllo a distanza dei lavoratori precedenti nella giurisprudenza di ieri decisi con le norme di oggi, in LLI, v. 2, n. 1, 2016, 67: già prima della riscrittura dell’art. 4 ad opera del d.lgs. 150/2015, l’art. 4 fosse oggetto di specifico richiamo nell’art 114 del Codice Privacy con la conseguenza che lo stesso costituiva «disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali la cui violazione, già prima della riforma del 2015, ben poteva essere sanzionata con l’inutilizzabilità dei dati ai sensi dell’art. 11, secondo comma del Codice Privacy». 27 Zoli, Il controllo a distanza del datore, cit., 486. 28 Ingrao, Il controllo disciplinare, cit., 50; Cass. 15 giugno 2017, n. 14862, in Banca dati DeJure, ha dichiarato legittimo licenziamento di un dipendente che si connetteva frequentemente ad un social network.; di interpretazione, per una volta, in favore del datore lavoro parlano D’Andrea, Moriconi, I controlli a distanza, cit., 572; cfr. Cass., 16 gennaio 2015, n. 2890 in www.cortedicassazione.it. 29 Per la legittimità 13 novembre di controlli effettuati dal lavoratore ex post cfr. Cass., 10 novembre 2017, n. 26682, in D&G, con nota Scofferi, nella quale la Corte ha dichiarato legittimo il licenziamento del lavoratore che aveva inviato undici e-mail con espressioni scurrili riferite al legale rappresentante della società, nella fattispecie il controllo sul pc era stato eseguito ex post, dopo che il sistema aveva segnalato un’anomalia scaturita dal tentativo del dipendente di cancellare le e-mail; Cass., 27 maggio 2015, n. 10955, cit., che ha ritenuto legittimo il controllo effettuato sul computer di un lavoratore ex post teso a verificare l’utilizzo di un social network; Cass., 23 febbraio 2012, n. 2722, in RIDL 2013, II, 113 con nota di Spinelli, che ha dichiarato legittimo il licenziamento del lavoratore che aveva divulgato notizie riservate di un cliente (nel caso esaminato il controllo sulla posta elettronica era stato effettuato solo dopo che erano emerse criticità che suggerivano di svolgere una verifica).

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ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale (…), soprattutto (…) quando siano emersi elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di un’indagine retrospettiva». Nel rigettare il ricorso e, quindi, confermare la legittimità del controllo messo in atto dal datore di lavoro in assenza dei requisiti di cui all’art. 4 st. lav., i Supremi Giudici ritengono che la corte di merito abbia correttamente applicato i principi regolanti la materia, accertando in fatto che il controllo era stato implementato soltanto a seguito di un legittimo sospetto «di mancanze del lavoratore nell’impiego del computer per finalità extra-lavorative». L’iter logico argomentativo dell’ordinanza, come detto, tiene, perlomeno apparentemente, in considerazione molteplici implicazioni sottese alla materia dei controlli a distanza che, tuttavia, non vengono tutte debitamente affrontate. Senza sorpresa alcuna30, la Corte, nonostante la considerazione mostrata per la «riservatezza del lavoratore», sceglie di non formulare alcun riferimento – nemmeno indiretto – alla normativa interna sulla privacy, né, tantomeno, alle prescrizioni del Garante31. Al contrario, il richiamo ai principi di “ragionevalezza” e “proporzionalità” e l’espressa valorizzazione “previa informazione” fornita al lavoratore sul possibile controllo, mostrano la volontà della Cassazione di voler conformarsi a quanto recentemente statuito dai Giudici di Strasburgo nell’interpretazione dell’art. 8 della CEDU32. Tuttavia, l’economia della decisione è in gran parte concentrata sull’applicabilità (o meno) delle garanzie di cui al 2 comma dell’art. 4 st. lav.; ed è proprio con riguardo alle argomentazioni tese ad escludere l’operatività della soprarichiamata disciplina statutaria che i Supremi Giudici compiono un passaggio “poco chiaro”. Non è, infatti, immediato comprendere se «l’autorizzazione scritta fornita dal lavoratore» – nel ragionamento della Cassazione – sia stata utilizzata (soltanto) con riguardo al bilanciamento di interessi derivante dall’interpretazione dell’art. 8 CEDU, oppure (anche) quale argomento idoneo a legittimare la disapplicazione del disposto di cui all’art. 4 (vecchia formulazione).

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Proia, Trattamento dei dati personali, rapporto di lavoro e l’impatto della nuova disciplina sui controlli a distanza, in RIDL, 2016, 555, osserva come «di fronte ad un’evidente incompatibilità logico-giuridica tra l’esercizio del potere di indagine del datore di lavoro e gli ordinari adempimenti della disciplina della privacy, la giurisprudenza del lavoro, solitamente, non prende affatto in considerazione la seconda». 31 Tra tutte la deliberazione del Garante della privacy n. 13/2007 cfr. Del Conte, Internet, posta elettronica e oltre: il Garante della privacy rimodula i poteri del datore di lavoro, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 2007, 497 ss.; la deludente interazione tra le due discipline, come detto, è argomento da sempre evidenziato in dottrina cfr. Del Punta, La nuova disciplina dei controlli a distanza sul lavoro, cit., 91 che rileva anche come la giurisprudenza non sempre tratta con pari attenzione le due diverse normative; Prescrizioni quest’ultime che già in passato, seppur in un’unica occasione, la stessa giurisprudenza di legittimità aveva mostrato di tenere in considerazione nell’ambito dell’accertamento della legittimità dei controlli a distanza Cass., 1 agosto 2013, n. 18433: «Il computer del dipendente non può essere “perquisito” dal datore di lavoro per contestare una violazione disciplinare. Il pc contiene infatti dati sensibili il cui tracciamento viola la riservatezza del lavoratore e l’attività di scandagliamento a strascico, inoltre, travalica la proporzionalità che deve comunque essere rispettata tra l’infrazione commessa e la tutela della privacy della persona». 32 Corte EDU, 12 gennaio 2016, Barbulescu c. Romania, in DRI, 2016, 1212; Corte EDU, Grande Chambre, 5 settembre 2017, n. 61496, in GDir, 2017, 39, 28 che, come impone ai giudici nazionali di operare un bilanciamento degli interessi in gioco utilizzando dei criteri determinati tra i quali l’esistenza di preventiva informazione del lavoratore al monitoraggio; per un ulteriore breve commento sulla decisione v. Carta, Corte europea dei diritti dell’uomo: la Grande camera torna sul (e difende il) diritto alla privacy del lavoratore, reperibile in http://www.rivistalabor.it/wp content/uploads/2017/09/Barbulescu.pdf.

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Infatti, la Corte analizza simile circostanza nel punto della decisione in cui esclude espressamente «la violazione delle garanzie previste dall’art. 4 l. 300/1970» da parte del datore di lavoro. Ebbene, in tale contesto, il riferimento al consenso del dipendente risulta pleonastico e, a sommesso parere di chi scrive, suscettibile di diverse interpretazioni. Infatti, se il controllo ex post era relativo a condotte extralavorative potenzialmente lesive di beni estranei al rapporto di lavoro, “l’autorizzazione scritta” fornita dal lavoratore doveva costituire una circostanza, se non irrilevante, quantomeno oggetto di separata valutazione tesa a verificare la conformità del controllo messo in atto con la disciplina sulla privacy, le prescrizioni del Garante ed i principi comunitari in materia. Il “rischio” è quello di ritenere che la Corte, al fine di legittimare il controllo, abbia voluto – più o meno direttamente – equiparare il consenso del dipendente alle modalità autorizzative previste dall’art. 4 (accordo sindacale o autorizzazione ammnistrativa). Del resto, seppur in fattispecie dai contorni differenti, simile interpretazione è stata già avallata dalla stessa Cassazione, laddove l’autorizzazione dei dipendenti è stata valorizzata per escludere la rilevanza penale del controllo (non autorizzato) da parte del datore33. Lungi dal ritenere che simile ultima paventata applicazione della vecchia disciplina statutaria sia quella effettivamente proposta nell’ordinanza, tale alternativa ricostruzione mira, più semplicemente, a sottolineare la “sbrigatività” con la quale la Cassazione ha effettuato il bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco. La lettura più lineare del contenuto della decisione è sicuramente quella che vede i Giudici di Legittimità, dapprima operare quella comparazione di interessi che la Corte EDU espressamente richiede ai giudici nazionali e, in un secondo momento, escludere l’applicabilità della normativa statutaria, perché l’accertamento era mirato alla verifica «di mancanze del lavoratore nell’impiego del computer per finalità extra-lavorative», a prescindere dal consenso del lavoratore. In quest’ottica, l’espressa valorizzazione – da parte della Corte – dell’autorizzazione scritta del lavoratore in ordine alle possibili verifiche sul computer costituisce un elemento fondamentale ai fini del vaglio di compatibilità del controllo effettuato nel caso concreto con l’art. 8 della CEDU, così come recentemente interpretato dai Giudici di Strasburgo34 che individuano espressamente l’obbligo informativo tra i criteri che devono essere seguiti dai giudici nazionali nella valutazione della legittimità delle misure di controllo35.

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Cass., 11 dicembre 2012, n. 22611 cit.: in questa ipotesi i giudici stabiliscono che non integra il reato previsto dall’art 4 st. lav. l’utilizzo di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di controllare a distanza l’attività dei lavoratori, la cui attivazione, anche in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti; contra cfr. Cass., 8 maggio 2017, n. 22148 e recentemente Cass., 24 agosto 2018, n. 38882, in www.cortedicassazione.it. 34 Da ultimo la decisione richiamata nella stessa ordinanza in commento: Corte EDU, Grande Chambre, 5 settembre 2017, cit., che esige il necessario bilanciamento di interessi e sembra richiedere una preventiva informazione del lavoratore al monitoraggio; per un breve commento sulla stessa decisione v. Carta, Corte europea dei diritti dell’uomo, cit. 35 Persano, Sull’accertamento della violazione dell’art. 8 Cedu da parte dei giudici nazionali nella recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in RCP, 2018, 126: secondo la Corte EDU « (…) le autorità sono tenute ad accertare quanto segue: affinché le misure siano considerate compatibili con i requisiti di cui all’art. 8 della Convenzione, la notifica deve sia chiarire la tipologia del monitoraggio previsto, sia essere precedente e non contestuale rispetto all’attuazione dello stesso; (…) dovrebbe esserci una valutazione specifica delle conseguenze del monitoraggio per il dipendente interessato, con particolare riferimento all’uso fatto dal datore di lavoro dei risultati scaturenti dal controllo, in modo da stabilire se detti risultati siano stati utilizzati per conseguire l’obiettivo dichiarato prima

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I suesposti – forse cavillosi – rilievi servono semplicemente a sottolineare, una volta di più, come la categoria di creazione giurisprudenziale dei controlli difensivi, nella sua applicazione pratica, richieda il necessario (e sistematico) confronto, non solo con la normativa lavoristica, ma anche con quella a tutela dei dati personali. Infatti, è solo con la piena valorizzazione della complementarietà tra le due normative, «operante secondo il principio di specialità», che possono essere fornite effettive tutele al lavoratore36. Al contrario, la disciplina di cui all’art. 4 sembra essere l’unica debitamente presa in considerazione nell’ordinanza. Sotto quest’ultimo profilo, i Giudici ritengono non applicabili le garanzie previste nello statuto dei lavoratori, in quanto, il controllo ex post messo in campo dal datore non era diretto a sorvegliare l’esatto adempimento della prestazione lavorativa ma, piuttosto, ad «accertare l’eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti (poi effettivamente riscontrati)» estranei all’attività lavorativa. Non stupisce l’immediatezza con la quale gli Ermellini hanno classificato la condotta del ricorrente come “illecita” ed “estranea” all’adempimento dell’obbligazione principale dedotta in contratto. Del resto, vista la “scivolosità” delle succitate nozioni, la giurisprudenza da tempo tende a riscontrare in simili condotte una lesività, per così dire, in re ipsa37, indentificando il danno, così come accade anche nel caso di specie, con il «tempo sottratto al lavoro (...) regolarmente remunerato». È, quindi, solo tentando di inquadrare tali ultimi concetti che è possibile comprendere la legittimità del controllo effettuato. In particolare, nella nozione di “illecito” sembra poter rientrare «qualsiasi atto o fatto idoneo a provocare un danno attuale al patrimonio aziendale», mentre ancor più sfumato appare il concetto di “estraneità alla prestazione lavorativa” che, sulla base dell’identificazione di figure sintomatiche fornite dalla prassi giudiziaria, sembra poter contenere quelle condotte lesive dell’immagine aziendale o dei dei rapporti commerciali del datore di lavoro38. I riferimenti operati dalla Corte all’estraneità della condotta rispetto alla prestazione lavorativa e alla sussistenza di un danno sembrano costituire, sia concesso il termine, mere “clausole di stile”. Si dà per acquisito quello che, invece, dovrebbe essere accertato in fatto dal giudice di merito, con buona pace della normativa di cui all’art. 4 st. lav. Sembra, dunque, che il “sospetto” venutosi a creare a seguito della segnalazione del direttore tecnico al datore di lavoro sia, da solo, sufficiente a giustificare il controllo difensivo ex post e l’utilizzabilità delle evidenze ricavate, a prescindere dall’effettiva esistenza degli altri requisiti da sempre, almeno formalmente, richiesti dalla giurisprudenza. Anche in questo caso, quindi, la linea argomentativa seguita dai Giudici di Legittimità, tramite il «varco della tutela dell’integrità patrimoniale-aziendale», legittima a posteriori l’effettuazione del controllo messo in atto dal datore di lavoro39.

dell’adozione delle misure in oggetto e dunque siano o meni coerenti con l’avviso in precedenza notificato al lavoratore». Criscuolo, Controlli difensivi, cit., 39. 37 Di riferimento «ossessivo e spesso anche forzato, alla dimensione patrimoniale della lesione» parla espressamente Maio, La nuova disciplina dei controlli a distanza sull’attività dei lavoratori e la modernità post panottica, in ADL, 2015, 1200. 38 Spinelli, La legittimità dei controlli datoriali, cit., 116. 39 D’Andrea, Moriconi, I controlli a distanza, cit., 572. 36

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Tuttavia, come anticipato, le argomentazioni contenute nell’ordinanza non costituiscono nulla di nuovo, essendo pienamente in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia che, come da taluni criticamente osservato, propone un riferimento quasi «ossessivo e spesso anche forzato, alla dimensione patrimoniale della lesione»40.

4. Il contenuto della pronuncia alla luce delle modifiche

intervenute nell’art. 4. st. lav.: ha ancora senso parlare di controlli difensivi?

A prescindere dalle suesposte considerazioni sull’esistenza, nella fattispecie in esame, degli elementi idonei a giustificare la disapplicazione delle tutele statutarie in materia di controlli a distanza, occorre interrogarsi su come casi simili dovranno essere trattati dai giudici del lavoro in seguito alle novità introdotte dall’art. 23 d.lgs. 151 del 2015, che ha profondamente modificato l’art. 4 st. lav. Ad oggi, infatti, la norma, oltre a contenere un espresso richiamo al codice della privacy41 (art. 4, comma 3), prevede che l’installazione degli strumenti di controllo a distanza, dai quali derivi anche il controllo sull’attività lavorativa, possa trovare causa «tra le altre finalità tipizzate» anche nell’esigenza di «tutela del patrimonio aziendale»42 (art. 4, comma 1). Inoltre, il “nuovo” articolo 4 regola (ed autorizza) per la prima volta il controllo effettuato mediante gli «strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la propria prestazione lavorativa» previa predisposizione, da parte del datore, di un’«adeguata informazione» nei confronti del lavoratore (art. 4, comma 2), senza necessità di accordo alcuno43. Infine, un ultimo determinante profilo di novità riguarda il raccordo tra controlli a distanza e l’utilizzabilità «delle informazioni raccolte […] a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro […] nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196» (art. 4. comma 3) che, come osservato44, chiarisce l’interazione dei poteri del datore di lavoro e, in particolare, quello di controllo e quello disciplinare.

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In questi termini, Maio, La nuova disciplina dei controlli a distanza, cit., 1200. Il nuovo testo dell’art. 4 st. lav. prevede espressamente la facoltà di impiegare i dati raccolti nel rispetto dell’art. 4 e della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali “per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro” e ciò equivale ad «affermare l’impossibilità di utilizzare i dati raccolti se la normativa in questione viene violata», così Cairo, Il controllo a distanza dei lavoratori precedenti nella giurisprudenza di ieri decisi con le norme di oggi, in LLI, v. 2, n. 1, 2016, 79; per una panoramica sui singoli elementi di novità e le connesse problematiche cfr. Del Punta, La Nuova disciplina dei controlli a distanza sul lavoro, cit., 77 ss.; Marazza, Dei poteri (del datore di lavoro), dei controlli (a distanza) e del trattamento dei dati (del lavoratore), in WP D’Antona, It, n. 300/2016; Carinci, Il controllo a distanza dell’attività dei lavoratori dopo il “Jobs act” (art. 23 d.lgs. 151/2015): spunti per un dibattito, in LLI, vol. 2, n. 1, 2016; Salimbeni, La riforma dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori: l’ambigua risolutezza del legislatore, in RIDL, 2015, I, 589. 42 Gramano, La Rinnovata (ed ingiustificata) vitalità della giurisprudenza, cit., 265 ss.; Lambertucci, I poteri del datore di lavoro nello statuto dei lavoratori dopo l’attuazione del c.d. Jobs Act del 2015: primi spunti di riflessione, in ADL, 2016, I, 530; Alvino, Nuovi limiti al controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, cit., 17; Maio, La nuova disciplina dei controlli a distanza, cit., 1192. 43 Maresca, Controlli Tecnologici e tutele del lavoratore nel nuovo articolo 4 dello statuto dei lavoratori, in RIDL, 2016, 1, 515, parla di di «declino della tecnica di tutela della riservatezza del lavoratore affidata all’accordo sindacale». 44 Maresca, Controlli tecnologici e tutele del lavoratore nel nuovo articolo 4 dello statuto dei lavoratori, cit., 516. 41

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Posta di fronte ad un simile nuovo scenario, parte della dottrina, oltre a sottolineare l’insopprimibile esigenza di un effettivo dialogo tra la nuova disciplina statutaria e le disposizioni contenute nel codice della privacy, si domanda se abbia ancora senso parlare di “controlli difensivi”45. Un primo orientamento, proprio valorizzando gli espressi riferimenti alle «esigenze di tutela del patrimonio aziendale» (art. 4 comma 1), nonché il richiamo alla normativa sulla privacy (art. 4. comma 3), ritiene assorbita negli stessi ogni forma di controllo difensivo, a prescindere dal tipo di comportamento messo in atto dal lavoratore46. Simile impostazione appare coerente ed in linea con la ratio della novella che, intervenendo sulla disciplina statutaria, ha voluto garantire maggior certezza nell’applicazione della regolamentazione in una materia così delicata. Maggior certezza che viene garantita anche dalla specifica disposizione dedicata agli «strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la propria prestazione lavorativa», nella quale sono ricompresi diversi beni tecnologici per i quali il controllo viene “liberalizzato” a determinate condizioni. Dunque, secondo tale orientamento, l’ambito dei controlli a distanza sarebbe da un lato stato ampliato e, dall’altro, risulterebbe oggi maggiormente “imbrigliato” dall’indifferibile esigenza del rispetto della normativa sulla privacy, almeno nell’ipotesi in cui il datore di lavoro intenda utilizzare le informazioni acquisite. Peraltro, non tutti ritengono che l’intervento del legislatore abbia reso del tutto superflua la categoria dei controlli difensivi, l’ambito dei quali, a seguito della riscrittura dell’art. 4, sarebbe semplicemente stato definito in maniera più puntuale, con l’effetto di restringerne il perimetro47. Tale ultimo filone dottrinale vede al suo interno diverse linee argomentative. Taluni propendono per l’ammissibilità dei controlli difensivi, ma solo quando il comportamento sia in corso di svolgimento, a prescindere dalle esigenze di tutela del patrimonio aziendale48. Altri, invece, ritengono che simili controlli residuino quale espressa manifestazione di «legittima difesa del datore»49. Non è mancato, inoltre, chi ha osservato che la finalità di tutela del patrimonio aziendale (art. 4, comma 1) debba essere intesa «come necessità generica di protezione ex ante nei confronti di una generalità non identificata di atti illeciti e di soggetti che possano commetterli»50. Così ragionando, si tornerebbe alla distinzione tra controlli ex ante e controlli ex post51, la cui necessità – e

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Gramano, La Rinnovata (ed ingiustificata) vitalità della giurisprudenza, cit., 265 ss., osserva come la categoria dei controlli difensivi, in assenza di una norma di riferimento, «perde oggi ragion d’essere». 46 Del Punta, La Nuova disciplina dei controlli a distanza sul lavoro, cit. 77 ss., secondo cui «la norma riprende la formula già in essere, ma con l’aggiunta delle esigenze di tutela del patrimonio aziendale, dimostrando così, anche per questa via (…) la volontà di superare il concetto di controllo difensivo»; sulla stessa lunghezza d’onda anche, Alvino, Nuovi limiti al controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, cit., 10; Ricci, I controlli a distanza del lavoratore tra istanze di revisione e flessibilità, in ADL, 2016, 4-5, 740 ss.; Balletti, I poteri del datore di lavoro, cit., 38-39. 47 Maresca, Controlli Tecnologici e tutele del lavoratore nel nuovo articolo 4 dello statuto dei lavoratori, in RIDL, 2016, 1, 513 ss. 48 Maresca, Controlli tecnologici e tutele del lavoratore nel nuovo articolo 4 dello statuto dei lavoratori, cit. 513. 49 Maio, La nuova disciplina dei controlli a distanza, cit., 1192 ss. 50 Cairo, Il controllo a distanza dei lavoratori, cit., 79. 51 Distinzione peraltro, come più volte messo in evidenza, non nuova in seno alla giurisprudenza, tra le tante cfr. Cass., 23 febbraio 2012, n. 2722 cit.

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conseguente ammissibilità – sarebbe determinata da fatti contingenti ed imprevedibili, dai quali scaturirebbero insopprimibili specifiche esigenze di controllo52. Quello che è interessante rilevare, però, è come suddette ultime impostazioni, seppur favorevoli alla sopravvivenza della categoria dei controlli difensivi, spostino l’attenzione più sull’“illiceità” del comportamento che sull’esigenza di “tutela del patrimonio aziendale”53; ciò rende, in astratto, più semplice l’operazione di perimetrazione dell’ambito del controllo. Infatti, anche nell’ipotesi in cui la futura casistica giudiziaria dovesse ritenere la categoria dei controlli difensivi ancora attuale, lo spostamento dell’attenzione sul tipo di condotta messa in atto dal lavoratore, senza la necessaria ricerca della dimensione patrimoniale della lesione, consentirebbe, quantomeno, di giustificare il controllo sulla base di elementi più facilmente accertabili in sede giudiziale. In quest’ottica vi è chi osserva come, nell’ambito della nuova disciplina, il comportamento controllabile in deroga all’art. 4 st. lav. sia soltanto quello che, pur potendo rilevare come un inadempimento contrattuale, assuma anche un’autonoma rilevanza sul terreno del diritto penale, in quanto «lesivo di un bene, del datore, diverso dal mero diritto di credito della prestazione lavorativa»54. Tuttavia, le argomentazioni formulate da tale ultimo filone dottrinale, seppur con diversi punti di vista, sembrano celare una non dichiarata volontà di “trascurare”, una volta di più, la normativa sulla privacy, nonostante l’espresso richiamo contenuto nel “nuovo” articolo 4 e la rinnovata attenzione rivolta anche in ambito europeo alla protezione dei dati personali55. Il confronto, dunque, è tutt’altro che concluso, e solo la futura casistica giurisprudenziale sarà in grado di svelare l’impatto della nuova normativa. Ecco, dunque, che fattispecie come quella considerata nell’ordinanza che, in prima battuta, sembrerebbero di semplice soluzione, risultano ancora di non facile inquadramento. Prima facie il controllo sul computer del dipendente si configurerebbe come legittimo solo nel caso in cui il datore abbia predisposto un regolamento aziendale sul possibile utilizzo degli strumenti tecnologici e consegnato al lavoratore una completa informativa sul trattamento dei dati raccolti, in linea con quanto richiesto dalla normativa privacy (art. 4, comma 3). Solo in questo caso le informazioni raccolte potrebbero considerarsi utilizzabili per tutti i fini connessi alla prestazione lavorativa, indipendentemente dalla natura illecita del comportamento. In quest’ottica non si intravede la necessità di ricorrere alla categoria dei “controlli difensivi” che, perlomeno in questa ipotesi, dovrebbe ritenersi superata. Tale interpretazione si mostra maggiormente in linea con la ratio legislativa, in quanto consente di definire puntualmente il potere di controllo. Su questa scia, sembra collocarsi una recente pronuncia dal Tribunale del Lavoro di Roma che, in un caso simile a quello in commento (che vede applicata la nuova disciplina), nel ritenere inutilizzabili informazioni acquisite dal datore mediante l’accesso alla posta

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Cairo, Il controllo a distanza dei lavoratori, cit., 79. Marazza, I controlli a distanza del lavoratore di natura difensiva, cit., 34 ss. 54 Marazza, I controlli a distanza del lavoratore, cit., 38. 55 Concretizzatasi nel Regolamento UE n. 279 del 2016 in materia di protezione dei dati personali delle persone fisiche, reperibile in https://eur-lex.europa.eu. 53

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Giurisprudenza

elettronica ed al software aziendale, ha osservato come la nuova normativa preveda «limiti chiari e rigorosi la cui osservanza non può più apparire eludibile in base al discutibile e poco logico criterio per cui, una volta che si è scoperto ex post che il lavoratore ha commesso un illecito grave, l’esito risulta ex post difensivo, sicché non conta più come il datore ha acquisito quella informazione»56. Ogni tentativo di superare il dato normativo, che subordini l’utilizzazione delle informazioni acquisite al tipo di comportamento messo in atto dal lavoratore, a discapito della meticolosa verifica del rispetto della normativa a protezione dei dati personali, determinerebbe – di fatto – il mantenimento dello status quo. Certo è che l’avvio di un processo osmotico tra disciplina giuslavoristica e quella a tutela dei dati personali, sino ad oggi poco “mirata” sull’aspetto dei controlli sui lavoratori, coadiuverebbe un’interpretazione dell’articolo 4 st. lav. maggiormente rispondente al dato letterale. Quanto appena affermato è ancor più vero alla luce della recente entrata in vigore del Regolamento 2016/679/UE sulla protezione dei dati personali delle persone fisiche, destinato inevitabilmente ad incidere sul codice della privacy. Tale ultima disciplina implica il passaggio da un regime «autorizzatorio ad uno improntato alla responsabilizzazione del titolare del trattamento», obbligando il datore di lavoro ad effettuare una valutazione preliminare sull’esistenza di una condizione legittimante la raccolta a distanza dei dati dei lavoratori57. Ciò, secondo taluni, andrebbe a rafforzare la tutela statutaria, in quanto l’acquisizione del consenso del lavoratore, a questo punto, diverrebbe soltanto uno dei requisiti di legittimità di utilizzazione delle informazioni acquisite mediante strumenti di controllo58. Ebbene, di fronte ad un quadro così in fermento, dal quale emerge una disciplina a tutela dei dati personali – anche dei lavoratori – che potremmo definire poco “maneggevole”, un ruolo proattivo del Garante (ma anche del legislatore in materia di privacy) potrebbe coadiuvare l’effettiva integrazione tra le discipline rilevanti in materia di controlli a distanza, scongiurando l’ipotesi di un ritorno al passato. In mancanza, il rischio è che la “palla” torni nuovamente nelle mani dei giudici che, in assenza di adeguati criteri orientativi, potrebbero trovarsi nuovamente nella situazione di dover individuare le condotte dei lavoratori o, meglio, gli “illeciti” che siano ancora “capaci” di giustificare deroghe alla rinnovata disciplina statutaria. Silvio Sonnati

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Trib. Roma, 13 giugno 2018, n. 57668, reperibile in http://www.rivistalabor.it/wp-content/uploads/2018/07/T.-Roma-13-giugno2018-n.-57668.pdf.; in termini anche Trib. Milano, 24 ottobre 2017, in DRI, 2018, con nota di Cassano, in corso di pubblicazione, che ha ritenuto non utilizzabili i dati ricavati dal datore di lavoro dal back up del telefono aziendale di una collega della lavoratrice interessata che aveva espresso alcune critiche al proprio datore di lavoro su una chat di WhatsApp. 57 Ingrao, Il controllo a distanza sui lavoratori e la normativa sulla privacy: una lettura integrata, Cacucci, 2018, 75, fornisce una lettura integrata della disciplina giuslavoristica e privacy, mettendo in luce le “falle” di un sistema improntato soltanto sull’informativa e sul consenso del lavoratore. 58 Ingrao, Il controllo a distanza, cit., 75: con riguardo all’analisi integrata della disciplina giuslavoristica e quella in materia di privacy recentemente innovata Regolamento 2016/679/UE parla di «un notevole rafforzamento dei limiti, alquanto depotenziati dalla novella del 2015»; sul punto in termini cfr. Nuzzo, La protezione del lavoratore dai controlli impersonali, ES, 2018, 105; Dessì, Il controllo «a distanza» sui lavoratori. Il nuovo art. 4 St. lav., ESI, 2017, 166.

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