Rivista di Diritto Tributario 3/2016

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Riformate dal D.Lgs. 24 settembre 2015 n. 156

Il Volume si propone di dare risposte tempestive ed esaustive a tutte le problematiche di tipo organizzativo e operativo sorte a seguito dell’adozione di questo strumento che riduce notevolmente il carico di contenzioso nelle aule dei Tribunali.

La nuova disciplina della riscossione tributaria Cucchi, Puoti, Simonelli pp. 350 euro 29 L’Opera, aggiornata alle modifiche normative apportate dal D. lgs. 24 settembre 2015 n. 159, si rivolge a professionisti ed operatori pratici del settore, con particolare attenzione ai principali indirizzi giurisprudenziali, spesso tra loro contrapposti, che si sono venuti a formare in relazione ai vari istituti analizzati.

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iure

i PraticiPacini Bruno Cucchi Giovanni Puoti Federica Simonelli

La nuova disciplina della riscossione tributaria

Procedure di notificazione, esecutive ed oppositive aggiornate al D.lgs. 24 settembre 2015 n. 159

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Vol. XXVI - Giugno

Rivista bimestrale

2016

Vol. XXVI - Giugno 2016

3

DIRETTA DA Mauro Beghin - Pietro Boria - Loredana Carpentieri (coordinamento di direzione) Gaspare Falsitta - Augusto Fantozzi - Andrea Fedele - Guglielmo Fransoni - Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo - Roberto Schiavolin - Giuseppe Zizzo

In evidenza: • La “tassazione differenziale” e la “non opponibilità” al Fisco delle operazioni elusive

Mauro Beghin • Il contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie: un principio generale senza

disciplina di attuazione Rossella Miceli • Si possono rettificare gli errori commessi nella dichiarazione scaduta? Questioni aperte

alla luce dell’ordinanza interlocutoria n. 18383/2015 della Cassazione Francesco Corda • La criminalizzazione del sostituto d’imposta nel rinnovato assetto del diritto penale tributario

Marco Di Siena • IVA, concordato preventivo e transazione fiscale: profili procedurali e (auspicabili) sviluppi

della normativa nazionale Alessandro Albano

ISSN 1121-4074

Manuale tecnico operativo della mediazione e della conciliazione tributaria

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Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

Bruno Cucchi Federica Simonelli Cecilia Domenichini

Diritto Tributario

www.rivistadirittotributario.it

Rivista di Diritto Tributario

Cucchi, Simonelli, Domenichini pp. 158 euro 18

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Manuale tecnico operativo della mediazione e della conciliazione tributaria

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La collana nasce dall’idea di fornire ai professionisti libri argomentati, ma dal taglio pratico, che mettono l’attenzione sulle principali novità introdotte con le recenti riforme legislative.

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Indici DOTTRINA Alessandro Albano

IVA, concordato preventivo e transazione fiscale: profili procedurali e (auspicabili) sviluppi della normativa nazionale (nota a Corte di Giustizia, sez. II, n. C-546/14/2016) . .................................................................................................... IV, 67 Andrea Aliberti

L’arbitro fischia il fuorigioco e annulla il goal irregolare dell’Agenzia delle entrate: illegittime le istruzioni ad Unico sulla “proporzionalizzazione” della “Dit” in concorrenza con la “Visco” (nota a Cass., sez. V civ., n. 5117/2016) . ................... II, 101 Mauro Beghin

La “tassazione differenziale” e la “non opponibilità” al Fisco delle operazioni elusive.......................................................................................................................... I, 295 Francesco Corda (*)

Si possono rettificare gli errori commessi nella dichiarazione scaduta? Questioni aperte alla luce dell’ordinanza interlocutoria n. 18383/2015 della Cassazione (nota a Cass., sez. trib., n. 18383/2015)..................................................................... II, 118 Giangiacomo D’Angelo (*)

Sulle recenti disposizioni di interpretazione autentica in materia di “valore normale” contenute nel c.d. decreto internazionalizzazione.......................................... I, 319 Marco Di Siena

La criminalizzazione del sostituto d’imposta nel rinnovato assetto del diritto penale tributario ............................................................................................................. III, 31 Gabriele Giusti (*)

Il regime fiscale del contratto di affidamento fiduciario: riflessi impositivi di un nuovo modello negoziale .......................................................................................... I, 371 Rossella Miceli (*)

Il contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie: un principio generale senza disciplina di attuazione .................................................................................... I, 345 Maria Teresa Montemitro

Dubbi sulla compatibilità del criterio del pro-rata Iva con alla normativa comunitaria (nota a Comm. trib. reg. Lazio, n. 353/2015) . ................................................. II, 151 Mauro Trivellin

Le procedure amichevoli, con particolare riferimento al transfer pricing: spunti ricostruttivi per rafforzarne l’efficacia in prospettiva di tutela del contribuente .... V, 61 (*) Lavori sottoposti a revisione esterna.


II

indici

Rubrica di diritto penale a cura di Ivo Caraccioli............................................................................................... III, 31 Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi.................................................................................................. IV, 61 Rubrica di diritto tributario internaionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto........................................................................................ V, 61

INDICE ANALITICO IMPOSTE SUI REDDITI DICHIARAZIONI Rettifica – Errore nella compilazione – Rettificabilità della dichiarazione– Termine per la presentazione dichiarazione rettificata – Modalità di correzione degli errori – Rapporto tra comma 8 ed 8-bis dell’art. 2 D.P.R. 322/1998 (Cass., sez. trib., 22 luglio 2015 - 18 settembre 2015, n. 18383, con nota di Francesco Corda)................................................................................................................................ II, 113 IRES (Imposta sul reddito delle società)

Agevolazioni – Concorso tra agevolazione Dit e agevolazione Visco –Obbligo di proporzionalizzazione della Dit – Non sussiste (Cass., sez. V civ., 25 febbraio 2015 - 16 marzo 2016, n. 5117, con nota di Andrea Aliberti).................................. II, 99 IVA

Articolo 4, paragrafo 3, TUE – Direttiva 2006/112/CE – Insolvenza – Procedura di concordato preventivo – Pagamento parziale dei crediti IVA (Corte di Giustizia, Sez. II, 7 aprile 2016, n. C-546/14, con nota di Alessandro Albano)...... IV, 461 Operazioni esenti – Interessi su finanziamenti erogati a società controllate – Attività accessoria o principale - Effetti sul calcolo del pro-rata matematico – Trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Comm. trib. reg. Lazio, Sez. XXII, 6 maggio 2015, n. 353, con nota di Maria Teresa Montemitro). II, 145


indici

III

INDICE CRONOLOGICO Corte di Giustizia, Sez. II, 7 aprile 2016, n. C-546/14.......................................................................................... IV, 461 Cassazione, sez. trib. 22 luglio 2015 - 18 settembre 2015, n. 18383........................................................... II, 113 Cassazione, sez. V civ. 25 febbraio 2015 - 16 marzo 2016, n. 5117............................................................... II, 99 *** Comm. Trib. Reg. Lazio, Sez. XXII 6 maggio 2015, n. 353................................................................................................ II, 145

Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro - Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio



Dottrina

La “tassazione differenziale” e la “non opponibilità” al Fisco delle operazioni elusive Sommario: 1. La tassazione differenziale delle fattispecie elusive. Sostituzione di

fattispecie e sostituzione di norme. – 2. L’inopponibilità come fattispecie di inefficacia relativa circoscritta agli effetti fiscali dell’operazione compiuta dal contribuente. – 3. La distinzione tra inopponibilità delle operazioni ex art. 10-bis dello Statuto e la qualificazione giuridica dei fatti economici posti in essere dal contribuente. Alcune precisazioni circa la portata dell’art. 20 del DPR n.131/1986. – 4. L’inopponibilità delle operazioni e il disconoscimento dei vantaggi fiscali tra atto unico e ineludibile pluralità di provvedimenti impositivi. Il problema delle modalità e dei tempi del riconoscimento, a favore dell’elusore, di quanto già versato sull’operazione elusiva. – 5. L’inopponibilità e la posizione dei soggetti terzi coinvolti nell’operazione elusiva. – 6. Conclusioni.

L’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente prevede che, al verificarsi dei presupposti stabiliti nella disposizione, le operazioni poste in essere dal contribuente siano inopponibili all’Amministrazione finanziaria. Tale inopponibilità assume consistenza, nel corpo della stessa disposizione, attraverso due distinti percorsi: da una parte, il disconoscimento dei vantaggi fiscali nei confronti del soggetto elusore; dall’altra, il diritto al rimborso nei confronti del soggetto che, pur avendo preso parte all’operazione negoziale elusiva, non abbia conseguito risparmi d’imposta indebiti. L’articolo si propone di esaminare questi aspetti, nella prospettiva del modello di” tassazione differenziale” incardinato, appunto, nell’art. 10-bis cit. Article 10-bis of the Taxpayer’s Bill of Rights states that, should the conditions established in the provision occur, the operations carried out by the taxpayer shall not be opposable towards the tax authorities. Such legal consequence acquires consistency, in the body of the recalled provision, through two distinct paths: on the one hand, a disavowal of tax advantages is set against the tax avoider; on the other hand, a right to reimbursement is granted in favour of the person who, albeit part of the elusive contractual sequence, didn’t gain thereby any unfair tax saving. The aim of the article is to examine these aspects, in the perspective of the “differential taxation” model embodied, precisely, in the above-mentioned art. 10-bis.


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Parte prima

1. La tassazione differenziale delle fattispecie elusive. Sostituzione di fattispecie e sostituzione di norme. – L’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente conferma, senza discostarsi da quanto già stabilito dall’art. 37-bis del DPR n. 600/73, l’idea secondo cui le operazioni elusive sono sottoposte a tassazione sulla base di un modello che si potrebbe definire “differenziale” (1). “Tassazione differenziale” significa che, attraverso l’avviso di accertamento notificato ai sensi della disposizione citata, l’amministrazione finanziaria applica l’imposta sull’operazione elusa, detassando, allo stesso tempo, l’operazione elusiva. Il fisco colma in questo modo la distanza (la “differenza”, appunto) tra quanto già pagato dal contribuente e quanto risulta dovuto sulla base del provvedimento impositivo. Questa detassazione si attua attraverso una vera e propria operazione di defalco. Qualora mediante la sequenza negoziale alfa il contribuente sia riuscito a evitare la sequenza negoziale beta, assicurandosi un risultato analogo a quello che egli avrebbe conseguito attraverso quest’ultima e garantendosi altresì un vantaggio fiscale indebito, l’amministrazione dovrà mandare a tassazione l’operazione aggirata (beta, nel nostro caso) e scomputare dalla maggiore imposta dovuta quanto già versato dall’elusore sulla base dell’operazione in concreto svolta (nel nostro esempio, alfa). L’operazione beta è tassata anche se si tratta di fattispecie che non esiste nella realtà, dato che i contribuenti non l’hanno pianificata e non l’hanno – ovviamente – attuata (2). Dunque, negli accertamenti volti a contrastare l’elusione tributaria, il tributo grava non già su di un’operazione effettivamente realizzata dal contribuente, bensì su di un’operazione che il contribuente non ha per nulla compiuto, ma che avrebbe dovuto compiere se avesse tenuto conto delle indicazioni emergenti dalla clausola antiabuso. È appena il caso di ricordare che l’operazione elusa deve condurre a ri-

(1) Si tratta di un’impostazione che era già emersa con riguardo all’art. 37-bis del DPR n. 600/1973 e della quale avevamo dato conto in alcuni precedenti scritti. Si veda, al riguardo, il nostro M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, Padova, 2013, passim. (2) Da ultimo, su questo aspetto, G. Gaffuri, Diritto tributario, Padova, 2016, 166, dove l’A. parla di «diversi percorsi, in genere più tortuosi, spesso con opportune combinazioni contrattuali che permettono di raggiungere gli stessi risultati, evitando però di dare compimento alla fattispecie imponibile».


Dottrina

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sultati i quali, da un punto di vista economico-giuridico, assomiglino a quelli raggiunti attraverso l’operazione elusiva. Deve perciò trattarsi di operazione (quella elusa) che manifesta capacità contributiva analoga a quella ascrivibile all’operazione che il contribuente ha realizzato (quella elusiva) (3). Ciò significa che, nello schema applicativo dell’art. 10-bis, alla disposizione riguardante l’operazione elusiva si sostituisce quella riferibile all’operazione elusa. Infatti, in quest’ultima disposizione è sussunto, ai soli fini del prelievo, il fatto economico che il contribuente non ha perfezionato, ma che avrebbe dovuto realizzare stando alla linea accusatoria abbracciata dall’amministrazione finanziaria. In presenza di fattispecie abusive, lo schema di applicazione del tributo è quindi pervaso da una sorta di effetto sostitutivo: si manda a tassazione un’operazione in luogo di un’altra e, nel far ciò, si applica una disposizione (quella relativa alla fattispecie elusa) in luogo di un’altra (quella riguardante l’operazione elusiva). Per assicurare il funzionamento di questo modello impositivo, che è molto diverso da quello che si riscontra nei casi di evasione (4), il legislatore si è servito di tre fondamentali strumenti: da una parte, l’inopponibilità delle operazioni all’amministrazione finanziaria; dall’altra – e come diretta ed ineludibile conseguenza del primo – il disconoscimento dei vantaggi fiscali che il contribuente si sia assicurato attraverso l’operazione elusiva; da ultimo, la restituzione delle imposte versate sull’operazione elusiva ai soggetti che, pur avendo preso parte alla sequenza negoziale sindacata, non abbiano ottenuto vantaggi fiscali. Il disconoscimento del quale abbiamo detto poc’anzi implica, quale naturale declinazione sostanziale, lo scomputo dalla maggiore imposta accertata dell’imposta già pagata sulla base dell’operazione abusiva. Per questo motivo la legge stabilisce che si tenga “conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni” (così il comma 1 del già richiamato art. 10-bis). Il

(3) Sul punto si veda G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2015, 226-227; G. Zizzo, Clausola antielusione e capacità contributiva, in Rass., trib., 2009, 486. (4) Con l’avviso di accertamento relativo alla fattispecie di evasione, l’amministrazione finanziaria recupera a tassazione ricchezza esistente nella realtà e tuttavia occultata al fisco. Si tassa, dunque, una ricchezza effettiva ma non rappresentata nella dichiarazione, per esempio attraverso la mancata contabilizzazione di proventi oppure attraverso la contabilizzazione di costi non deducibili.


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Parte prima

testuale richiamo alla figura del “contribuente” va inteso come riferimento al soggetto “elusore”, come tra poco avremo modo di spiegare. 2. L’inopponibilità come fattispecie di inefficacia relativa circoscritta agli effetti fiscali dell’operazione compiuta dal contribuente. – L’inopponibilità evocata nel primo comma dell’art. 10-bis dello Statuto si riferisce alla produzione di taluni effetti fiscali scaturenti dalle operazioni che il contribuente abbia realizzato e che l’amministrazione finanziaria abbia, in un secondo momento, qualificato come elusive. Tali effetti sono azzerati dall’avviso di accertamento, dimodoché ci troviamo al cospetto di una fattispecie di inefficacia relativa specificatamente applicabile al comparto tributario (5). Ne discende che le operazioni elusive non possono dirsi vietate dal legislatore (6), bensì meramente neutralizzate dal punto di vista delle conseguenze di ordine tributario che da esse promanano. Ciò ancorché si tratti di conseguenze che il contribuente abbia programmato e, per conseguenza, voluto. Quindi l’inopponibilità non comporta una declaratoria di nullità o di annullabilità dei contratti che siano stati conclusi (7). L’art. 10-bis opera a tutela

(5) Su questi concetti generali, per alcune primordiali indicazioni, vedi R. Scognamiglio, voce Inefficacia (dir. Priv.), Enc. Giur. Treccani, passim; A. Gambaro, voce Abuso del diritto, II, Enc. Giur. Treccani, passim. Per un primo inquadramento dell’inefficacia nel diritto civile vedi, senza pretesa di esaustività, F. Gazzoni. Manuale di diritto privato, Napoli, 2015, 994. Sul piano strettamente fiscale, G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, 2008, 213, stando al quale “La sussunzione di una vicenda (singolo atto o fatto o concatenazione di atti) nella fattispecie della elusione tributaria non tocca in alcun modo la validità degli atti e negozi ricadenti nella fattispecie e fa nascere solo l’effetto della «inopponibilità» della vicenda all’Amministrazione finanziaria in funzione della cancellazione dei vantaggi tributari (ossia patrimoniali) derivanti dall’adozione della condotta elusiva. Il potere di neutralizzazione o di inopponibilità del comportamento elusivo è dato all’Amministrazione Finanziaria, non per cancellare gli effetti giuridici degli atti elusivi, ma per eliminare il danno economico recato al fisco e costituito dagli indebiti vantaggi tributari conseguiti”. (6) Qui si potrebbero svolgere alcune considerazioni sul fronte sanzionatorio, allo scopo di sottolineare che esiste una differenza tra la violazione della legge e il suo aggiramento. Differenza, questa, già presente negli scritti più risalenti. Vedi al riguardo, senza pretesa di esaustività, L. Carraro, Frode alla legge, in Nov. Dig. It., 5 e ss. dell’estratto. (7) Rinviamo al nostro M. Beghin, L’elusione tributaria, la nullità del contratto e l’azione di simulazione, in M. Beghin, L’elusione fiscale, cit., 111 e ss. In passato non era infrequente l’impiego di strumentazione civilistica per osteggiare operazioni elusive. Per esempio, gli accertamenti emessi per contrastare le operazioni di dividend washing o di dividend stripping erano spesso incentrati sull’interposizione fittizia, in adesione ad un orientamento espresso, al riguardo, dal Secit. Con riferimento alle linee operative del Se.C.I.T


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dell’ente impositore, vale a dire dell’ente pubblico che può dirsi danneggiato dal comportamento tenuto dall’elusore. E l’ente impositore non ha alcun interesse a ottenere una sentenza che rada al suolo le operazioni che sono state perfezionate o che ne disponga l’annullamento. Non è questa, infatti, la funzione del diritto tributario. Al fisco non giova lo smantellamento degli atti o dei contratti elusivi. Il fisco ha interesse, invece, ad intercettare le suddette operazioni, a qualificarle giuridicamente e, in conclusione, a tassarle. Una volta che, attraverso il provvedimento impositivo di cui all’art. 10-bis, siano state individuate le operazioni elusive, queste ultime cessano di interferire nel rapporto tra i contribuenti e l’amministrazione finanziaria. Segnatamente, quelle operazioni divengono incapaci di assicurare il collegamento dell’obbligazione tributaria alle leggi (disposizioni) riguardanti i fatti economici realizzati. Questi ultimi fatti si spogliano di significanza sul piano fiscale e sono rimpiazzati da altri fatti, vale a dire dal percorso negoziale eluso, che il contribuente avrebbe dovuto realizzare se avesse tenuto conto della clausola di cui all’art. 10-bis cit. Ad esempio, qualora l’amministrazione finanziaria ritenga che la vendita di partecipazioni di controllo, rappresentative dell’intero capitale di una società proprietaria di un complesso produttivo, abbia determinato l’aggiramento della vendita dell’azienda e, de plano, delle disposizioni riferibili a quest’ultima fattispecie, l’obbligazione tributaria sarà determinata sulla base delle norme che si riferiscono all’operazione elusa (la vendita dell’azienda, come detto), non già sulla base delle norme che si riferiscono all’operazione elusiva (la cessione a titolo oneroso delle partecipazioni). Il contribuente non potrà opporre al fisco di aver stipulato un contratto di vendita di azioni o di quote, perché l’efficacia di tale assetto negoziale, vale a dire la produzione degli effetti tributari che da quella fattispecie dovrebbero scaturire, è impedita dall’avviso di accertamento emesso ai sensi dell’art. 10bis dello Statuto del contribuente.

(e per un primo commento alle stesse), vedi P.M. Tabellini, Libertà negoziale ed elusione di imposta. Il problema della “titolarità ingannevole” dei redditi, Padova, 1995, 445 e seguenti. Sull’esperienza giurisprudenziale in tema di usufrutto azionario rinviamo a E. Nuzzo, Elusione.Casi materiali. Lease back – Fusione – Usufrutto su azioni, in “Quaderni di Rassegna tributaria”, n.1/1998, 322 e seguenti; D. Stevanato, Il dividend washing e l’applicabilità dello schema della “sostituzione dei redditi” al percettore dei dividendi: notazioni critiche, in Rass. trib., n. 2/1998, 570 ss.; Id., Dividend washing, nullità del contratto per contrarietà al buon costume e “giustizialismo fiscale”, in Rass. Trib., n. 3/1999, 853 ss.,; Id., Dividend washing e usufrutto su azioni: riflessioni “a caldo” su sostituzione di redditi, simulazione ed elusione tributaria, in Rass. Trib., n. 5/1999, 1465 ss.


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Parte prima

Per rimanere al caso in esame, il contribuente nemmeno potrà pretendere di essere tassato con la più mite imposta prevista per il capital gains anziché con il (di solito più pesante) tributo progressivo che grava sulle plusvalenze generate in occasione della vendita dell’azienda. Per questa ragione si può affermare che l’inefficacia della quale si occupa l’art. 10-bis cit. è circoscritta sia dal punto di vista soggettivo, sia dal punto di vista oggettivo (o per materia): in ciò sta il suo carattere di relatività. Si tratta di un’inefficacia che mette radici solamente nel rapporto intercorrente tra i soggetti che abbiano preso parte alle operazioni economiche (le parti contraenti) e il soggetto che tali operazioni abbia sottoposto a verifica (l’amministrazione finanziaria), senza produrre ricadute su altri piani. Stiamo dicendo che le operazioni perfezionate dall’elusore continuano a produrre gli effetti tipici del diritto privato, del diritto civile oppure del diritto commerciale, mentre le stesse operazioni non sono in condizione di generare effetti sul versante fiscale, perché disattivate – come visto – dalla disposizione antiabuso. Per riprendere l’esempio precedente, gli effetti della vendita di azioni o di quote rimangono fermi dal punto di vista della modificazione del rapporto partecipativo. Il cedente potrà affermare di aver definitivamente dismesso la qualifica di socio e di essere, allo stesso tempo, il legittimo proprietario della somma di denaro che gli è stata corrisposta a titolo di prezzo. Parimenti, l’acquirente potrà sostenere di aver assunto la qualifica di socio e, se obbligato alla tenuta delle scritture contabili, potrà registrare i beni che gli sono pervenuti alla voce “partecipazioni” dello stato patrimoniale. Il venditore non potrà tuttavia pretendere di pagare l’imposta sulle plusvalenze realizzate mediante la cessione delle suddette partecipazioni, perché tal effetto, che nel caso dell’elusione dovrebbe essere foriero di un vantaggio fiscale sistematico, è inibito dalla clausola generale di cui all’art. 10-bis dello Statuto. Da qui alcune rapide osservazioni: - l’inopponibilità delle operazioni elusive va declinata nel rapporto tra il contribuente e l’amministrazione finanziaria e coinvolge, pertanto, i soli soggetti che abbiano preso parte alla fattispecie contestata; il tenore della disposizione antiabuso consente di affermare che, dietro all’espressione “amministrazione finanziaria”, possono celarsi differenti enti impositori, a seconda della natura dell’operazione aggirata; si dovrà pertanto verificare, di volta in volta, se la contestazione dell’abuso riguardi tributi nazionali o locali;


Dottrina

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- l’inopponibilità è limitata ai profili tributari e non si estende, per contro, a quelli di diritto privato, civile o commerciale (8); - l’inopponibilità riguarda l’operazione, mentre il disconoscimento riguarda il vantaggio. Il disconoscimento è attuato mediante l’avviso di accertamento notificato all’elusore, mentre l’inopponibilità investe anche i soggetti che, pur avendo preso parte all’operazione, non hanno conseguito alcun vantaggio. Questi ultimi soggetti, che non sono elusori e che, pertanto, non possono essere destinatari di atti impositivi, sono legittimati a presentare istanza di rimborso per recuperare le imposte pagate sulla base dell’operazione inopponibile al fisco. 3. La distinzione tra inopponibilità delle operazioni ex art. 10-bis dello Statuto e la qualificazione giuridica dei fatti economici posti in essere dal contribuente. Alcune precisazioni circa la portata dell’art. 20 del DPR n.131/1986. – L’inopponibilità delle operazioni, come configurata dall’art. 10bis dello statuto, non va confusa con gli effetti derivanti dalla qualificazione dei fatti economici sui quali si basa la pretesa erariale. L’amministrazione finanziaria che contesti l’elusione fiscale ai sensi della disposizione in esame non sconfessa la natura giuridica delle operazioni sulle quali s’è focalizzato il controllo. Essa si limita, invece, ad affermare che quei fatti, per quanto correttamente qualificati in punto di diritto, hanno consentito l’aggiramento di una norma che si riferisce ad altri fatti che il contribuente si è guardato bene dal porre in essere. Per questo motivo, l’accertamento dell’elusione fiscale consente al fisco di tassare l’operazione elusa, inesistente nella realtà, in luogo dell’operazione elusiva, che invece è reale. Per contro, negli accertamenti incentrati sulla qualificazione giuridica dell’operazione la linea accusatoria abbracciata dal fisco è molto diversa. Qui non si sostiene che l’operazione alfa ha consentito l’aggiramento dell’operazione beta. Si sostiene, invece, che l’operazione alfa “è” l’operazione beta.

(8) Reputiamo significativo, a questo proposito, il caso affrontato con la risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 84/E del 27 novembre 2013, riguardante la trasformazione di una società a responsabilità limitata in una società semplice, successivamente considerata elusiva dall’amministrazione finanziaria. Poiché in quella fattispecie la trasformazione era stata considerata inopponibile al fisco, la società semplice avrebbe dovuto essere assoggettata ad IRES, come se l’operazione non fosse mai avvenuta. A questo punto, peraltro, sarebbe stato erroneo ammettere la società semplice all’esercizio dell’opzione per il regime di consolidato fiscale, perché tale opzione richiede che la società rivesta una precisa forma civilistica, che nel caso specifico non c’era.


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Parte prima

Ne discende che, alla presenza di una qualificazione officiosa divergente rispetto a quella effettuata dal contribuente attraverso la propria dichiarazione o in altri atti aventi rilevanza fiscale, la tassazione dell’operazione non ha nulla a che vedere con il concetto di aggiramento che è tipico dell’elusione tributaria o dell’abuso del diritto, ma piuttosto con quello di occultamento della fattispecie economica. In effetti, quest’ultima fattispecie può essere nascosta al fisco non soltanto attraverso la sua mancata formalizzazione contabile (come succede, per esempio, per le c.d. “operazioni in nero”) ma anche attraverso l’inesatta qualificazione giuridica dell’operazione che è stata compiuta. Ciò accade, per esempio, qualora il contribuente affermi di aver stipulato il contratto gamma, mentre in realtà ha stipulato il contratto zeta, che rimane di conseguenza celato all’amministrazione finanziaria. I provvedimenti impositivi che qualificano l’operazione in modo diverso da quanto il contribuente abbia fatto attraverso la propria dichiarazione appartengono quindi al raggruppamento degli atti con i quali il fisco contesta l’evasione fiscale. Qui non c’è spazio per l’elusione o per l’abuso del diritto (9). Nell’ipotesi in cui il fisco sostenga che l’operazione gamma, colpita in modo più lieve sul piano fiscale, debba essere esattamente qualificata come operazione zeta, più onerosa dal punto di vista tributario, la pretesa di applicazione della maggiore imposta sulla fattispecie zeta risponde allo schema dell’evasione, dato che il contribuente ha rappresentato l’operazione in modo erroneo e per lui più favorevole. Anche l’accusa di interposizione fittizia o di simulazione ricade nel novero delle qualificazioni dei fatti e, dunque, nel novero delle fattispecie di evasione. L’elusione fiscale non è, per contro, incentrata sull’erronea interpretazione di questo o di quel contratto. Le operazioni attuate dall’elusore sono infatti esattamente qualificate in punto di diritto, anche se, loro tramite, ci si assicura quel vantaggio indebito cui si riferisce l’art. 10-bis e che è determinato assumendo quale punto di riferimento il fatto economico aggirato. L’aggiramento del fatto declina, come abbiamo già spiegato, in aggiramento della norma.

(9) Quest’annotazione è importante alla luce di quanto è stabilito dall’art. 10-bis, comma 12, dello Statuto dei diritti del contribuente, stando al quale non si può procedere alla contestazione dell’abuso del diritto qualora la fattispecie possa essere osteggiata attraverso una accusa di evasione fiscale. In breve, così come, per la legge di Gresham, la moneta cattiva scaccia la moneta buona, l’evasione scaccia l’abuso.


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Pertanto: a) nell’elusione si manda a tassazione l’operazione che è stata aggirata e che il contribuente non ha mai realizzato; per arrivare a questo risultato, l’amministrazione finanziaria accerta l’inopponibilità delle operazioni effettuate e disconosce i vantaggi indebiti che il contribuente (elusore) si sia assicurato; b) nella qualificazione, invece, si colpisce l’operazione che il contribuente ha concretamente perfezionato, ma che è stata erroneamente interpretata e formalizzata dallo stesso contribuente in vista, appunto, della riduzione del carico fiscale; qui il provvedimento impositivo ruota intorno all’evasione fiscale, non intorno all’abuso; non si fa leva sull’inopponibilità del fatto economico, ma sul corretto inquadramento giuridico delle operazioni realizzate. L’Ufficio è pertanto legittimato a scardinare l’inesatta qualificazione effettuata dai contribuenti e, conseguentemente, a tassare l’operazione sulla base della sua corretta qualificazione (10). Queste considerazioni di carattere generale si adattano perfettamente al problema dell’utilizzo in chiave antielusiva dell’art. 20 del DPR n. 131/1986, che è disposizione deputata all’interpretazione dei contratti sottoposti alla registrazione (11). “Interpretare il contratto” significa, per l’appunto, qualificare giuridicamente il fatto economico sul quale è basata la disposizione sostanziale. Non stiamo parlando di interpretazione della legge fiscale. Qui si vuol dire che l’operatore conosce benissimo, ad esempio, il significato delle norme tributarie che regolano la tassazione dei contratti di vendita, di appalto o di quelli funzionali alla costituzione dell’usufrutto. Il dubbio non cade – come detto – sulla portata e sul campo di applicazione della legge tributaria, ma sul significato

(10) Su tali aspetti, S. Fiorentino, Riflessione sui rapporti tra qualificazione delle attività private e accertamento tributario, in Rass. trib., 1999, 1066; D. Stevanato, Cessione frazionata dell’azienda e imposta di registro: simulazione o riqualificazione del contratto?, in Riv. giur. trib., 1999, 758. (11) Sulla disciplina di cui all’art. 20 del D.P.R. n. 131/1986 (ed anche sulla funzione delle disposizioni che l’hanno preceduto) cfr. G. Falsitta, L’influenza dell’opera di Albert Hensel sulla dottrina tributaristica italiana e le origini dell’interpretazione antielusiva della norma tributaria, in Riv. dir. trib., 2007, 569 e ss.; G. Melis, Sull’”interpretazione antielusiva” in Benvenuto Griziotti e sul rapporto con la Scuola tedesca del primo dopoguerra: alcune riflessioni, ivi, 2008, 413 e ss.; D. Jarach, I contratti a gradini e l’imposta, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1982, 79 ss.; A. Berliri, Le leggi di registro, Milano, 1961, 142 ss.; A. Uckmar, La legge del registro, Vol. I, Padova, 1958, 193; G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1979, 464.


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giuridico (interpretazione, appunto) e sugli effetti dei contratti che dovranno, in un secondo momento, essere ricondotti nello spettro applicativo della norma impositiva (12). Nell’applicazione dell’imposta di registro, le possibilità per l’amministrazione finanziaria sono, per conseguenza, due. La prima consiste nel contestare al contribuente l’erronea qualificazione del contratto. A titolo esemplificativo, l’Agenzia delle entrate potrà dire che ciò che il contribuente ha qualificato come comodato è, in verità, un contratto di costituzione di usufrutto. Oppure potrà dire che un certo contratto di vendita va correttamente qualificato come donazione. Nel muovere in questa direzione, l’art. 20 cit. non è impiegato in chiave antielusiva, ma come semplice disposizione funzionale all’interpretazione dei contratti sottoposti alla registrazione, quale in effetti essa è (13). In breve, come disposizione che serve ad accertare fattispecie di evasione. La seconda consiste nel contestare al contribuente l’aggiramento di un atto solenne attraverso la conclusione di altri atti solenni, anche collegati tra di loro. Qui si ricade nell’elusione. L’amministrazione finanziaria non deve in questo caso sostenere, per rimanere agli esempi proposti più in alto, che l’atto di vendita è in realtà un atto di donazione. Deve sostenere, al contrario, che il contratto stipulato è effettivamente un contratto di vendita e che tuttavia, nel porlo in essere unitamente ad altri contratti, v’è stato l’aggiramento (“il salto”) di un atto di donazione, con conseguente, mancato pagamento delle corrispondenti imposte. L’amministrazione farà qui applicazione dell’art. 10bis dello statuto del contribuente, che, a differenza di quanto accade nella disciplina di cui all’art. 20 del DPR n. 131/1986, prevede testualmente, al secondo comma, la valorizzazione del collegamento negoziale. I c.d. “contratti a gradini” devono quindi essere tassati attraverso l’applicazione dell’art. 10-bis dello Statuto (14). Riteniamo che, dopo l’entrata in vigore della disposizione da ultimo citata, l’art. 20 del DPR n. 131/1986 non sia più utilizzabile come disposizione antielusiva.

(12) Sulla dialettica tra questioni di fatto e questioni di diritto vedi R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario, Milano, 2011, 298 e ss. (13) A questo proposito, tra gli scritti più recenti e senza pretesa di esaustività, G. Girelli, Abuso del diritto e imposta di registro, Torino, 2012, 81 e ss. (14) Sul rapporto tra collegamento negoziale, contratti a gradini e abuso del diritto vedi G. Falsitta, Manuale, cit., 226 e ss.


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Le ragioni del nostro convincimento sono molto semplici. Con l’art. 10-bis cit. il legislatore ha provveduto, sulla spinta della legge delega n. 23/2014 (art. 5), all’unificazione dei concetti di elusione fiscale e di abuso del diritto con riferimento a tutte le imposte (15). Siamo di fronte ad una clausola generale antielusiva, che non può affiancarsi ad altre clausole generali. Pertanto, delle due, l’una: o l’art. 20 del DPR n. 131/1986 è utilizzato come disposizione funzionale alla mera interpretazione degli atti presentati per la registrazione, senza che rilevino, al riguardo, gli elementi extra-testuali e il collegamento negoziale (16); oppure l’art. 20 cit. deve ritenersi tacitamente abrogato per incompatibilità con l’art. 10-bis dello Statuto, che ora regola l’intera materia. Ripetiamo il concetto: non c’è spazio per altre clausole generali. Riteniamo che non si possa sfuggire alle conseguenze qui sopra individuate facendo leva su di un’indimostrata connotazione speciale dell’art. 20, il quale si atteggerebbe, in questo modo, a disposizione con funzione antielusiva limitatamente al comparto della tassazione degli atti solenni. Invero, l’art. 20 cit. non presenta alcun carattere specialità nell’impianto del testo unico del registro, non potendo essere riferito ad una precisa fattispecie oppure a un caso particolare. L’art. 20 presenta, invece, la classica struttura di una regola generale (17). Tuttavia, oggi l’unica clausola generale antielusiva si trova nell’art. 10bis dello statuto del contribuente, dimodoché non rimane che adeguarsi alla modifica legislativa intervenuta nel corso del 2015, senza ricercare comode vie di fuga. Esistono pertanto i presupposti normativi per un radicale ripensamento della giurisprudenza che, sino ad oggi, ha intravisto nell’art. 20 del DPR n. 131/1986 una disposizione idonea a contrastare l’elusione tributaria (18).

(15) Fanno eccezione i tributi doganali e, probabilmente, anche l’IVA, come dimostreremo in un prossimo lavoro in corso di pubblicazione. (16) Sul punto vedi F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte speciale, Milano, 2008, 306-307. Vedi altresì Cass., 16 marzo 1983, n. 2633, la quale esclude espressamente che la “comune intenzione delle parti” cui fa riferimento l’art. 1362 c.c. possa rilevare nell’interpretazione del contratto ai fini fiscali, soprattutto laddove ricorrano intenti elusivi. Secondo la citata sentenza, invero, l’imposta di registro è «volta a colpire il contenuto negoziale oggettivo dell’atto presentato alla registrazione, indipendentemente dalla volontà e dalle vicende del rapporto negoziale dal punto di vista privatistico». (17) P. Boria, Diritto tributario, 2016, 257. (18) Vedi, tra le tante, Cass. n. 15319/2013, relativa al conferimento di immobili in un fondo comune di investimento. Cass. n. 24552/2007, Cass. n. 18374/2007, Cass. n. 13580/2007,


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Questa linea argomentativa, pur cristallizzata in numerose pronunce, non può essere ulteriormente sostenuta, anche perché, se davvero si volesse procedere in questa direzione, si dovrebbe superare un ostacolo a nostro avviso insormontabile: la spiegazione del come e del perché, a fronte di un intervento normativo ad amplissimo spettro e funzionale a conferire certezza a questa materia, dovrebbe sopravvivere, per la sola imposta di registro, una disposizione antielusiva diversa da quella generale e declinata, anche dal punto di vista procedimentale, secondo schemi difformi rispetto alla previsione dell’art. 10-bis. L’imposta di registro non è la regina delle imposte e non giustifica, dunque, un trattamento del genere. 4. L’inopponibilità delle operazioni e il disconoscimento dei vantaggi fiscali tra atto unico e ineludibile pluralità di provvedimenti impositivi. Il problema delle modalità e dei tempi del riconoscimento, a favore dell’elusore, di quanto già versato sull’operazione elusiva. – Abbiamo visto come l’inopponibilità delle operazioni elusive comporti il disconoscimento dei vantaggi fiscali che l’elusore si sia garantito attraverso la sequenza negoziale sindacata dal fisco. Tale disconoscimento avviene in seno all’atto di accertamento, la cui funzione consiste sia nel tassare l’operazione elusa, sia nella contestuale detassazione dell’operazione elusiva. Nel comma 6 dell’art. 10-bis si fa riferimento, a questo proposito, a un “apposito atto”. Su di un piano puramente teorico, il legislatore avrebbe potuto stabilire che, una volta determinata l’imposta dovuta sulla fattispecie elusa, il tributo già versato sulla fattispecie elusiva dovesse essere rimborsato d’ufficio all’elusore. Tuttavia questa scelta non è stata compiuta. Invero, il dato normativo depone nel senso che la citata detassazione non debba realizzarsi mediante la presentazione di una istanza di rimborso, bensì per mezzo di un vero e proprio defalco, vale a dire attraverso la sottrazione dell’imposta già versata sulla base dell’operazione elusiva dall’imposta liquidata sulla base dell’operazione elusa. L’avviso di accertamento deputato

Cass. n. 10273/2007, Cass. n. 10660/2003, Cass. n. 2713/2002, Cass. n. 14900/2001. Sul conferimento di immobili cui abbia fatto seguito la vendita delle partecipazioni vedi Cass. ord. n. 2234/2013 e Cass. n. 14150/2013. Sul conferimento di azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni vedi poi Cass. n. 16345/2013.


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all’individuazione dell’operazione elusiva deve perciò quantificare l’imposta netta dovuta. Un “differenziale”, appunto. Questa conclusione trova conferma, con argomento a contrario, nel comma 11 della disposizione in esame, il quale prevede l’azionamento del diritto al rimborso solamente a favore dei soggetti che, pur coinvolti nell’operazione elusiva, non abbiano assunto la qualifica di elusore. Soggetti, insomma, che non abbiano conseguito alcun vantaggio fiscale dall’operazione che è stata in concreto realizzata. Da queste prime indicazioni si può pertanto evincere che il problema del coordinamento tra la fiscalità dell’operazione elusiva e la fiscalità dell’operazione elusa va affrontato e risolto nella fase della formazione del provvedimento impositivo, decurtando dalla maggiore imposta dovuta l’ammontare dell’imposta già versata. Ci sembra che questa scelta legislativa risponda all’esigenza di semplificazione degli accertamenti riguardante l’elusione tributaria. Nel caso in cui l’operazione elusiva abbia comportato il pagamento di imposte, si vuole evitare che la restituzione di queste ultime – e, in definitiva, la loro gestione da parte dell’Agenzia delle entrate – avvenga attraverso percorsi del tutto sganciati dalle vicende del provvedimento impositivo. Mediante la disposizione in esame, il legislatore ha inteso escludere che al rapporto giuridico incentrato sull’accusa di abuso del diritto si affianchi, per procedere poi in parallelo, un rapporto giuridico “condizionato”, vale a dire riferibile al rimborso delle imposte già incamerate dall’amministrazione finanziaria sulla base delle operazioni in concreto compiute dal contribuente. Ciò in ragione della stretta dipendenza (un condizionamento, appunto) del secondo rispetto al primo. Infatti, è chiaro che, in mancanza di abuso, non potrebbe esistere alcun diritto alla restituzione dei tributi che l’elusore abbia in precedenza corrisposto all’ente pubblico – come suol dirsi – “alla luce del sole”. In conclusione, il condizionamento reciproco tra fattispecie elusa e fattispecie elusiva ha verosimilmente indotto il legislatore ad unire le sorti delle imposte già pagate e delle imposte accertate, riversandole – appunto – in seno al provvedimento impositivo. Il lettore si soffermi un poco sulla differenza tra la posizione dell’elusore e la posizione dei soggetti che, senza aver acquisito alcun vantaggio fiscale contrario al sistema, abbiano partecipato alla fattispecie sindacata dal fisco. Stando all’impianto normativo oggi vigente, questi ultimi sono legittimati soltanto ad accedere al procedimento di rimborso. Infatti, si tratta di soggetti non direttamente interessati dall’accertamento fiscale, in difetto, appunto,


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di concreti vantaggi, che il fisco non può disconoscere nei loro riguardi. A questi ultimi soggetti l’amministrazione finanziaria non può chiedere il pagamento della maggiore imposta gravante sulle operazioni che si suppongano aggirate. Per loro difettano, insomma, le condizioni di partenza per procedere allo scomputo dell’imposta versata (sull’operazione elusiva) dall’imposta non versata (sull’operazione elusa), perché stiamo parlando di persone che non devono nulla al fisco. Per l’elusore, la situazione è molto diversa. Infatti, quest’ultimo contribuente è raggiunto dal provvedimento impositivo ed è pertanto l’unico destinatario della richiesta di pagamento del maggiore tributo determinato sulla base dell’operazione elusa. Deve necessariamente trattarsi di un maggiore tributo rispetto a quello liquidato e pagato sulla base dell’operazione in concreto attuata, perché in caso contrario, vale a dire in assenza di risparmio fiscale, non potrebbe configurarsi alcuna fattispecie rilevante ai sensi del citato art. 10-bis. Stiamo quindi parlando di un contribuente (l’elusore) che, per effetto della notifica dell’avviso di accertamento, assume la posizione di debitore nei riguardi dell’amministrazione finanziaria. È dunque naturale e, per certi aspetti, pure semplificatorio convogliare all’interno di questo rapporto anche la restituzione delle imposte già versate sull’operazione che, in aderenza alla disposizione in esame, deve essere detassata. Il modello impositivo qui sopra prospettato sembra costruito, da un punto di vista di teoria generale e di sistematizzazione dell’attività amministrativa, sull’impiego di un unico provvedimento impositivo. Non, dunque, un “apposito atto”, come in modo non del tutto preciso stabilisce l’art. 10-bis dello Statuto, ma “un solo atto”, nel quale far confluire, in assetto di reciproca contrapposizione, l’imposta sull’operazione elusa e l’imposta sull’operazione elusiva. In tale unico atto dovrebbero trovare posto sia i maggiori tributi dovuti sull’operazione elusa, sia i tributi già versati (ma a questo punto non più dovuti) sull’operazione elusiva. E qui cominciano le dolenti note. Ciò per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, in un certo numero di situazioni connotate dall’omesso pagamento di due o più imposte nell’ambito di un’operazione elusiva, la notifica di un solo provvedimento impositivo potrebbe risultare difficoltosa, se non addirittura impossibile. Invero, poiché l’amministrazione finanziaria potrebbe trovarsi nella con-


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dizione di dover accertare due o più tributi elusi, è naturale immaginare che essa proceda attraverso gli schemi procedimentali specificatamente dettati per questa o per quella imposta. Mutano in tal modo le tempistiche dell’agire amministrativo, perché nel nostro ordinamento i termini di decadenza sono diversamente fissati in ragione della tipologia del tributo del quale si discute. Mutano poi le caratteristiche degli atti impositivi, talvolta funzionali all’accertamento di imposte periodiche, talvolta funzionali all’accertamento d’imposte istantanee. E mutano altresì, sul piano dell’organizzazione interna dell’agenzia delle entrate, le strutture e le persone deputate alla composizione dei provvedimenti di accertamento, perché, ad esempio, chi si occupa di imposta di registro non necessariamente si occupa anche dell’IVA o delle imposte sul reddito. Insomma, si profila un gigantesco problema di coordinamento tra plurimi atti impositivi. In secondo luogo, quand’anche fosse possibile coordinare al meglio l’attività degli uffici fiscali in vista della notificazione al soggetto elusore di un unico atto di accertamento, dovrebbe essere chiarito che l’operazione di defalco può riguardare anche tributi di differente natura, destinati, a questo punto, a convivere all’interno del medesimo avviso di accertamento. Partiamo da qui e consideriamo il caso, segnalato in nota (19), nel quale l’amministrazione finanziaria abbia determinato una maggiore IVA relativa ad un’operazione nel cui ambito l’elusore abbia pagato la sola imposta sul reddito. L’art. 10-bis dello Statuto del contribuente non specifica se, con riguardo ad una fattispecie come quella testé rappresentata, l’amministrazione finanziaria sia legittimata a dedurre le imposte sul reddito gravanti sull’operazione elusiva (e già versate dal cedente) dall’IVA gravante sull’operazione elusa. La risposta affermativa a tale quesito parrebbe scontata.

(19) Il caso è tratto da Cass., sez. trib., n. 653/2014, nel quale la vendita di partecipazioni rappresentative del capitale di una società proprietaria di un immobile è stata tassata quale operazione elusiva della vendita di immobile, con conseguente aggiramento dell’IVA. Qualora la vendita di immobili non determini il realizzo di una plusvalenza (per esempio perché il valore dei fabbricati tiene conto di una precedente rivalutazione fiscale), l’amministrazione dovrebbe retrocedere l’imposta sul reddito pagata sulla plusvalenza realizzata attraverso la vendita delle partecipazioni (operazione elusiva) e richiedere, allo stesso tempo, il pagamento dell’IVA gravante sulla vendita dell’immobile (operazione elusa).


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Peraltro, sul punto sarebbe forse stato opportuno un chiarimento normativo, al fine di evitare che qualche funzionario, in mancanza di un’inequivocabile copertura normativa e per timore delle conseguenti responsabilità patrimoniali, reputi illegittimo il citato scomputo in ragione del fatto che le imposte di cui si discute presentano una differente natura: da un lato, quella di imposta sui consumi; dall’altro, quella di imposta sul reddito. Noi siamo convinti che nella fattispecie qui sopra presa in esame l’amministrazione debba provvedere al defalco. Infatti, l’art. 10-bis, nel riferirsi in modo generico a “quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni” (e qui il riferimento va, di nuovo, alle operazioni elusive) non prende in considerazione la tipologia delle entrate pubbliche in discussione e sembra muoversi – se così si può dire – sul terreno delle macro-categorie. Semplicemente: si toglie dall’imposta gravante sull’operazione elusa ciò che l’amministrazione ha già incamerato sull’operazione elusiva, senza badare al titolo giuridico dell’avvenuto incasso. Rammentiamo che la disposizione è declinata anche nel senso della semplificazione del rapporto tra fisco e contribuente, al fine di evitare che l’elusore debba operare attraverso un’istanza di rimborso il cui esito sarebbe subordinato alle vicende del provvedimento impositivo. Ciò che il legislatore, appunto, sembra non aver voluto. Nel caso poc’anzi rappresentato, la sottrazione di un’imposta dall’altra è invece possibile perché l’abuso del diritto è contestato attraverso un unico provvedimento impositivo. Ed è possibile anche perché abbiamo parlato di imposte erariali. Come si è detto, tuttavia, possono darsi casi nei quali l’amministrazione finanziaria è costretta a procedere mediante la notifica di una pluralità di accertamenti. Per esempio: quando si tratti di recuperare a tassazione componenti negative di reddito che siano state diluite dall’elusore in un arco di tempo pluriennale (si pensi ai rilievi incentrati sulla regola della competenza, tipica del reddito d’impresa); quando si tratti di recuperare simultaneamente tributi erariali e tributi locali; quando si tratti di applicare tributi erariali di differente natura, gestiti da uffici differenti, localizzati in città o in regioni diverse (per esempio, l’imposta di registro e l’imposta sul reddito riferibili ad una operazione elusiva consistente in una cessione di azienda). In questi casi, lo scomputo dall’imposta elusa dell’imposta già versata può essere disagevole, perché la disposizione, nella sua astrattezza e generalità, non offre indicazioni precise circa le modalità e tempi di riconoscimento, a favore dell’elusore, dei tributi già pagati sull’operazione in concreto realizzata.


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Stiamo dicendo che, dal punto di vista sistematico, si potrebbe agevolmente rappresentare lo schema di tassazione differenziale come un modello impositivo in cui, dopo aver necessariamente condotto il ragionamento su dati analitici, vale a dire sull’elusione di questo o di quel tributo, si individuano per masse e si riducono ad unità i tributi gravanti sull’operazione elusa. Tributi, questi, da contrapporre in blocco a “quanto versato” dall’elusore. In altre parole, una sorta di consolidamento del debito tributario complessivamente riferibile a un determinato soggetto. È come se si impiegasse, in questo comparto dell’attività di accertamento, un concetto totemico di “fiscalità dell’operazione elusiva”, caratterizzato dalla sottrazione dell’importo corrispondente ad imposte globalmente determinate sulla fattispecie elusa, senza distinzioni dipendenti dalla natura e dalle caratteristiche dei tributi dei quali si sta discutendo, dall’importo corrispondente all’ammontare di altre imposte pure determinate, con riferimento alla fattispecie elusiva, con carattere di globalità. L’idea di fondo è suggestiva, ma talvolta – come il lettore avrà intuito – del tutto impraticabile, perché si è già detto che, in un certo numero di situazioni, le citate, maggiori imposte non possono che essere richieste mediante la notificazione di separati atti di accertamento. Il lettore rifletta – di nuovo – sulla fattispecie (20) dell’elusione di una cessione di azienda, che imponga all’amministrazione finanziaria di agire, ad un tempo, per il recupero dell’imposta di registro e delle imposte sul reddito. Immagini altresì che l’ufficio il quale si occupa dell’imposta di registro si trovi a Milano, mentre l’ufficio territorialmente competente ad accertare l’imposta sul reddito si trovi a Roma.

(20) È a questo proposito emblematica la fattispecie della scissione parziale con la quale la società scissa abbia scorporato a favore della beneficiaria il patrimonio rappresentato da un’azienda. A seguito della citata scissione, potrebbe esserci stato il pagamento dell’imposta sostitutiva per il riallineamento dei valori fiscali ai valori civilistici. Qui l’Agenzia delle entrate potrebbe sostenere – come del resto è stato talvolta, e a nostro avviso erroneamente, sostenuto – che la cessione delle partecipazioni rappresentative del capitale della beneficiaria elude la vendita del complesso produttivo in origine appartenente alla scissa. In una simile fattispecie, l’asserito aggiramento della cessione di azienda sarebbe simultaneamente rilevante sia sotto il profilo dell’imposta di registro, sia sotto il profilo delle imposte sui redditi. Per la dimostrazione della erroneità della linea di accusa sopra prospettata vedi il nostro M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto, cit., 191 e ss. Ovviamente si pone il problema dello scomputo dell’imposta sostitutiva pagata sull’operazione di riallineamento.


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Quale dei due Uffici dovrà provvedere al defalco dei tributi versati sull’operazione elusiva? Si dovrebbe impiegare, nella fattispecie qui sopra enunciata, un criterio cronologico, nel senso che il defalco deve essere adattato ai tempi di formazione dei provvedimenti impositivi e gravare, pertanto, sull’ufficio che per primo procede alla notifica dell’atto di accertamento? E come regolarsi nei casi in cui l’imposta versata sull’operazione elusiva sia di importo superiore rispetto all’imposta elusa individuata nell’ambito del primo provvedimento impositivo? Il differenziale (a favore del contribuente) dovrà essere riversato nel secondo atto di accertamento? Come potrà avvenire tale riversamento? Cosa succede se il primo accertamento viene annullato dal giudice tributario? In quest’ultimo caso, l’imposta già versata sull’operazione elusiva si trasferisce sul secondo provvedimento impositivo? Come avviene tale ribaltamento? L’art. 10-bis dello Statuto del contribuente è disposizione perfettamente congeniata dal punto di vista sostanziale, perché sul piano astratto è facile togliere dalla maggiore imposta accertata mediante il provvedimento impositivo l’imposta già versata dal contribuente sull’operazione elusiva. È tuttavia disposizione debole e complicata dal punto di vista procedimentale, come si evince dalle osservazioni sopra riportate e dai problemi che abbiamo poc’anzi evidenziato, sotto forma di quesito, pur senza pretesa di esaustività. In altre parole, da un lato la suddetta disposizione, nata sotto la bandiera della certezza del diritto, si fa portatrice di un’esigenza di semplificazione dell’azione amministrativa, lasciando intravedere la possibilità di una generica e lineare contrapposizione, “per masse”, di tributi ad altri tributi, senza soffermarsi sulla loro natura; dall’altro, la stessa disposizione è imbrigliata in un modello operativo tradizionale, pur sempre incentrato sulla pluralità di provvedimenti impositivi da notificare in aderenza alle specifiche disposizioni che regolano gli accertamenti delle singole imposte. C’è pertanto bisogno di una sintesi. Ma questa sintesi non può essere lasciata alla buona volontà degli uffici o dei giudici. Serve un intervento normativo. È necessario che il legislatore ricerchi un punto d’incontro tra queste regole, al fine di superare i (talvolta insormontabili) problemi di coordinamento tra plurimi atti impositivi. Forse era il momento di pensare all’atto “unico” di contestazione delle fattispecie elusive, sulla falsariga di quanto accaduto in altri settori dell’or-


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dinamento nei quali si è posto il problema del coordinamento dell’azione amministrativa in presenza di una pluralità di avvisi di accertamento (21). In attesa del suddetto intervento normativo, si potrà soltanto navigare a vista, lasciando spazio – come è accaduto in passato proprio in riferimento all’elusione tributaria – a interventi creativi della giurisprudenza. Per conseguenza: a) nei casi in cui sia possibile accertare l’abuso attraverso un unico provvedimento, si dovrebbe procedere in questa direzione, scomputando per masse dalle maggiori imposte accertate sull’operazione elusa le imposte già pagate dal contribuente sulla base dell’operazione elusiva, ancorché si tratti di tributi che presentano una differente natura; b) nei casi in cui l’ufficio sia costretto ad operare attraverso una pluralità di avvisi di accertamento, il defalco dell’imposta versata (sull’operazione elusiva) dalle imposte accertate (sull’operazione elusa) potrebbe essere effettuato a partire dal primo provvedimento impositivo, secondo un criterio cronologico e nel rispetto del limite quantitativo rappresentato, appunto, dall’imposta accertata. Quest’ultimo coordinamento tra imposte eluse e imposte versate spetta al fisco, il quale oggigiorno dispone degli strumenti (anche di natura informatica) che gli consentono di procedere in tale direzione. L’obbiettivo è di evitare che la scelta operativa dell’agenzia delle entrate, che per l’appunto si trova ad agire mediante la notifica di una molteplicità di accertamenti ed in tempi diversi, si rifletta in modo arbitrario – per non dire “a casaccio” – sulla posizione dell’elusore soggetto, quest’ultimo, tenuto al versamento del solo “differenziale”. 5. L’inopponibilità e la posizione dei soggetti terzi coinvolti nell’operazione elusiva. – Le osservazioni riportate nei precedenti paragrafi permettono, a questo punto, di svolgere ulteriori riflessioni circa il rapporto tra l’effetto di inopponibilità dell’operazione (in capo all’elusore) e la situazione nella quale si trovano i soggetti che, senza aver tratto indebiti vantaggi, abbiano preso parte alla fattispecie sindacata dall’amministrazione finanziaria. L’art. 10-bis, comma 11, dello Statuto si limita a stabilire, al riguardo, che questi ultimi soggetti possono chiedere il rimborso delle imposte pagate “a seguito delle operazioni abusive”. Detta poi particolari regole quanto ai tempi

(21) Si veda, al riguardo, l’art. 40-bis del DPR n. 600/73, riguardante la rettifica delle dichiarazioni dei soggetti aderenti al consolidato fiscale.


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di presentazione dell’istanza di rimborso e quanto all’ammontare dell’imposta rimborsabile, che è correlata sia al quantum accertato in capo all’elusore, sia alla definitività dell’accertamento notificato a quest’ultimo. La chiave di lettura di questa disposizione va ancora una volta ricercata nello schema di tassazione differenziale del quale abbiamo detto più volte in questo scritto. Così come all’elusore è riconosciuta, a scomputo dell’imposta dovuta sull’operazione elusa, l’imposta pagata sull’operazione elusiva, allo stesso modo ai soggetti diversi dall’elusore e coinvolti nella sequenza negoziale che ha formato oggetto di accertamento spetta il diritto alla restituzione dell’imposta eventualmente versata sull’operazione elusiva. Il fisco “deve” tout court scomputare dall’imposta calcolata sull’operazione elusa l’imposta che l’elusore abbia già versato sull’operazione elusa; per contro, la stessa amministrazione deve retrocedere ai terzi, coinvolti nell’operazione elusiva ma non identificati quali elusori, le imposte da questi versate sulla base dell’operazione in concreto effettuata; ma ciò soltanto se tali soggetti ne facciano richiesta, nel rispetto dei limiti di ordine quantitativo stabiliti dalla disposizione in esame. Una volta che sia stata presentata l’istanza di rimborso, l’amministrazione finanziaria non può trattenere l’imposta acquisita attraverso l’operazione elusiva, perché si tratta di tributo gravante su di una operazione che ha definitivamente perduto, mercé l’avviso di accertamento, la propria significanza fiscale. Non ci può essere, pertanto, una doppia imposizione (prima sull’operazione elusiva e, poi, su quella elusa) e nemmeno si può legittimare una situazione di indebito arricchimento da parte dell’Agenzia delle entrate che incamera l’imposta dell’azione elusa senza retrocedere quella già acquisita sull’operazione elusiva. Insomma, l’operazione elusiva, pur in concreto realizzata, non è più in grado di esprimere forza economica, mentre l’operazione elusa, per quanto inesistente in natura, manifesta forza economica in virtù del modello sostitutivo del quale abbiamo già detto in questo scritto (in breve: si tassa l’operazione elusa e non l’operazione elusiva). È evidente che, per rendere più agevole l’esercizio del diritto di rimborso e in considerazione del fatto che l’istanza va presentata entro un anno “dal giorno in cui l’accertamento è divenuto definitivo ovvero è stato definito mediante adesione o conciliazione giudiziale”, la legge dovrebbe prevedere forme di comunicazione tra amministrazione finanziaria e terzo. Ciò, per l’appunto, allo scopo


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di porre tale ultimo soggetto nella condizione di azionare con tempestività la propria pretesa. Non è a tal proposito sufficiente la notifica del provvedimento impositivo che riguarda l’elusore. Tale notifica, infatti, non consente al terzo di intercettare il momento a partire dal quale decorrono i termini per la presentazione dell’istanza di rimborso. Nemmeno v’è spazio per invocare le disposizioni sul litisconsorzio necessario o facoltativo (artt. 102 e 103 cpc), perché da una parte il terzo non è obbligato a chiedere il rimborso, mentre dall’altra potrebbero darsi casi nei quali la decorrenza del termine non dipenda dal processo, ma da un procedimento di adesione. Servirebbe dunque, almeno in una prospettiva de iure condendo, una comunicazione dall’amministrazione finanziaria al terzo che ha il diritto di presentazione dell’istanza, con decorrenza del termine annuale di rimborso dal momento in cui tale comunicazione si sia perfezionata. Ancorché tale comunicazione non sia prevista dalla disposizione in esame, la sua obbligatorietà potrebbe desumersi dall’art. 6, comma 2, della stessa legge n. 212/2000, che impone al fisco di informare il contribuente “di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito”. Si tratta di disposizione che, a questo punto, dovrebbe essere coordinata con l’art. 10-bis, anche se ci sembra difficile prefigurare, in considerazione della farraginosità di un siffatto quadro normativo, le conseguenze in capo al fisco di un’eventuale violazione di tale obbligo. Non ci saremmo pertanto stupiti se l’art. 10-bis avesse previsto, nei casi di elusione accertata attraverso provvedimenti divenuti definitivi, il rimborso d’ufficio a favore dei soggetti coinvolti nell’operazione. Ripetiamo che, su di un piano fattuale, questi ultimi soggetti potrebbero essere a conoscenza, per una molteplicità di motivi sui quali non conviene qui indugiare, della notifica dell’avviso di accertamento. Non è detto, peraltro, che essi siano a conoscenza anche delle successive vicende del provvedimento impositivo, trattandosi di persone che potrebbero essere rimaste al di fuori dal circuito di definizione dell’atto di accertamento, dall’adesione e, a maggior ragione, dalla conciliazione giudiziale. Il termine annuale stabilito per la presentazione dell’istanza di rimborso appare poi inadeguato, vale a dire troppo ristretto. È, infatti, assai elevata la probabilità che esso spiri senza che il terzo abbia provveduto alla presentazione della propria domanda, a causa del già menzionato deficit conoscitivo.


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Aggiungiamo che il trattamento riservato ai terzi che abbiano preso parte all’operazione elusiva non garantisce equità dal punto di vista delle conseguenze di natura tributaria derivanti dalla notificazione dell’atto impositivo, perché la non opponibilità delle operazioni, incentrata sull’inefficacia relativa degli atti, può rivelarsi foriera di asimmetrie. Infatti, l’eventuale restituzione dell’imposta versata dai terzi sulla base dell’operazione elusiva si limita ad azzerare, in capo a chi non ha acquisito il vantaggio fiscale, gli effetti dell’operazione, senza tener conto, però, delle modalità di tassazione dell’operazione in capo al soggetto elusore. Vogliamo dire che, ad esempio, l’elusore può essere tassato sull’operazione di cessione di azienda o di immobili (22), mentre l’acquirente ha in concreto acquisito, mercé l’operazione elusiva, partecipazioni societarie. Partecipazioni, queste, sulle quali non è ribaltato il regime fiscale della citata azienda (23) oppure dei citati immobili, ma che continuano, invece, ad essere trattate come azioni o quote: ciò in ragione del fatto – lo si ripete – che la non opponibilità è una forma di efficacia relativa circoscritta al soggetto il quale abbia assunto la qualifica di elusore. 6. Conclusioni. – Alla luce delle considerazioni che sono state svolte nei precedenti paragrafi, è possibile tirare le fila del discorso e fissare l’attenzione su quattro aspetti conclusivi. Primo. Il concetto di non opponibilità attiene, su di un piano generale, alle operazioni elusive. Riguarda, dunque, la sequenza negoziale abbracciata dai contribuenti. Questo concetto è declinato, sul piano soggettivo, in due differenti direzioni: nei confronti dell’elusore, sotto forma di disconoscimento dei vantaggi conseguiti attraverso la sequenza negoziale abusiva; nei confronti dei terzi

(22) Come potrebbe succedere, per esempio, nel caso in cui si procedesse alla contestazione del carattere elusivo di un’operazione di scissione societaria parziale, alla quale faccia seguito la vendita delle azioni da parte dei soci della scissa o da parte dei soci della beneficiaria. Sul punto si veda la Ris. 2 ottobre 2009 n. 256/E e il nostro M. Beghin, La scissione societaria, l’elusione fiscale e i mulini a vento di Cervantes, in Riv. dir. trib. 2010, II, 56 ss. In questo caso, all’elusore sarebbe contestata la cessione di azienda o di immobili, mentre l’acquirente si troverebbe a disporre di partecipazione, che in caso di vendita sarebbero assoggettate al regime loro proprio (pex). (23) Quelle partecipazioni non possono essere ammortizzate, svalutate, negoziate con realizzo di plusvalenze o minusvalenze ordinarie, perché – come rilevato nel testo – esse non possono essere tratte come beni ammortizzabili, crediti, debiti, liquidità e così via.


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non elusori, sotto forma di riconoscimento del diritto al rimborso, peraltro demandato all’iniziativa dell’interessato. Secondo. Sul piano del disconoscimento dei vantaggi, la legge prevede l’impiego di un “apposito atto”, nel quale dovrebbe trovare posto sia la quantificazione della maggiore imposta gravante sull’operazione elusa, sia il defalco dell’imposta già pagata con riguardo all’operazione elusiva. L’idea che tale “apposito atto” si traduca in un “unico atto” è in questo momento, in assenza di un puntuale (e nostro avviso necessario) intervento normativo, semplificatoria e, in taluni casi, utopistica. Certamente: la nozione di elusione fiscale è oggi, con l’entrata in vigore dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente, una macro-nozione in apparenza estensibile a tutti i tributi. Si potrebbe pertanto immaginare, da un punto di vista astratto, che, attraverso un solo provvedimento impositivo, l’amministrazione finanziaria riesca a quantificare, per masse, il carico tributario gravante sull’operazione elusa e a scomputare, sempre per masse, quello riferibile all’operazione elusiva. Va tuttavia considerato che possono darsi situazioni nelle quali la contestazione di elusione fiscale rientra nel quadro dei poteri concessi a differenti soggetti impositori (Stato, regioni, comuni) e che, per conseguenza, tale contestazione può riferirsi a tributi eterogenei. Tributi, questi, che non si possono gestire attraverso un solo provvedimento. Si consideri altresì che, con riguardo ad alcuni tributi (per esempio, l’IVA, l’IRAP e le imposte sui redditi), la contestazione di elusione fiscale può determinare ricadute su di una pluralità di periodi d’imposta, con conseguente necessità di agire, a quel punto, mediante plurimi atti d’imposizione. L’atto “unico” di contestazione dell’elusione non può però essere il frutto dell’iniziativa o della buona volontà dei funzionari e dei giudici. È necessario un aiuto da parte del legislatore, come è del resto accaduto in altri comparti dell’ordinamento. Terzo. Dal punto di vista del soggetto elusore, l’idea del defalco di quanto già versato sull’operazione elusiva, in luogo del rimborso d’ufficio o del rimborso su istanza di parte, è semplificatoria e, talvolta, velleitaria. Si tratta di schema operativo che può generare problemi sia quando si tratti di procedere allo scomputo tra imposte di differente natura, sia nei casi in cui l’elusione sia accertata mediante la notifica di una pluralità di atti amministrativi, dovendosi stabilire, in tale eventualità, se il suddetto defalco debba essere effettuato a partire dal primo provvedimento impositivo oppure, al contrario, se l’amministrazione possa unilateralmente (e forse anche arbitraria-


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mente) determinarsi circa il momento e circa l’atto impositivo nel quale tale operazione di scomputo debba essere effettuata. Quarto. Si profilano problemi di coordinamento anche tra la fiscalità dell’operazione elusiva e la fiscalità dei terzi che, pur avendo preso parte alla sequenza negoziale sindacata dall’amministrazione finanziaria, non siano coinvolti nel procedimento di accertamento. Dato che per questi ultimi soggetti il termine per la presentazione dell’istanza di rimborso decorre dal momento in cui il provvedimento impositivo notificato all’elusore diviene definitivo, si tratta di stabilire come il terzo possa conoscere tale accadimento. Qui potrebbe essere valorizzato quanto previsto dall’art. 6, comma 2, dello Statuto del contribuente. Si tratterebbe di coordinare quest’ultima disposizione con l’art. 10-bis dello stesso statuto, obbligando l’amministrazione finanziaria ad effettuare la comunicazione sulla quale si innesterà, in un secondo tempo, l’istanza di rimborso. Lo spazio per la riflessione su questi argomenti, come abbiamo cercato di dimostrare, non manca.

Mauro Beghin


Sulle recenti disposizioni di interpretazione autentica in materia di “valore normale” contenute nel c.d. decreto internazionalizzazione* Sommario: 1. Le disposizioni di interpretazione autentica in materia di valore normale contenute nell’art. 5 del D.lgs. 147/2015. 2. La funzione del valore normale nell’art. 110 c7 TUIR tra disposizione (lato sensu) antielusiva e norma di chiusura del sistema. – 3. La disposizione di interpretazione autentica: il valore normale solo per le operazioni transnazionali. – 4. Interpretazione autentica dell’art. 110 c.7 e perimetrazione dell’abuso del diritto. – 5. La limitazione all’utilizzo del valore normale in fase di accertamento. – 6. Il significato “corroborante” del valore quale regola generale nella presunzione di occultamento del prezzo? – 7. L’applicazione temporale delle nuove disposizioni sul valore normale. – 8. Riflessioni conclusive. Il D.lgs. 147/2015 ha introdotto con due diverse norme di interpretazione autentica in tema di valore normale. Queste due disposizioni hanno inteso restringere l’ambito di applicazione del valore normale sia quando questo è utilizzato in chiave sostanziale per la determinazione delle componenti di reddito, sia quando il valore del bene scambiato è utilizzato in sede di accertamento per presumere un occultamento del corrispettivo. In entrambi i casi la redazione delle disposizioni sconta alcune imprecisioni, ma emerge chiaramente l’intenzione del legislatore interprete di contrastare gli orientamenti giurisprudenziali che riconoscevano un utilizzo ben più ampio del valore normale. Infatti, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione era ormai consolidato l’utilizzo del valore normale (o del valore definito ai fini dell’imposta di registro) per presumere l’occultamento di un corrispettivo per alcune operazioni (cessioni di immobili e di aziende) ed era emerso un orientamento che sembrava avallare le rettifiche a valore normale per le operazioni interne infragruppo. Con l’entrata in vigore di queste disposizioni questi orientamenti giurisprudenziali saranno probabilmente oggetto di rimeditazione e l’utilizzo dello strumento legislativo dell’interpretazione autentica risulta significativo per valutare l’ambito di applicazione ratione temporis delle nuove disposizioni.

* Lavoro sottoposto a revisione esterna.


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The Legislative Decree no. 147/2015 introduced two different declaratory rules dealing with the fair value. These declarative provisions were intended to restrict the scope of fair value, applicable to income tax, both when it is taken as substantive criterion for determination of taxable income and when the value of exchanged good is used to presume a partial hiding of the consideration. In both cases the wording of these provisions contains some inaccuracies, but it cleary shows the ratio to reverse that settled case-law which allowed a broader use of the fair value to income tax. Indeed, according to Supreme Court case-law, the fair value (or the definitive value for stamp duty), was firmly deemed applicable to infer an eventual hiding of consideration payable for certain business operations (real estate and businesses transfers), and an emerging court case-law seemed to allow the use of fair value for every national intra-group transaction (internal transfer price). Following the entry into force of the new declarative provisions, previous case-law will be overhauled and future court rulings shall keep up with those changes; furthermore, the use of the declarative form for the statute is significant to evaluate the temporal effects of the new rules.

1. Le disposizioni di interpretazione autentica in materia di valore normale contenute nell’art. 5 del D.lgs. 147/2015. – Con il recente D.lgs. 147/2015 – c.d. decreto internazionalizzazione – varato sul finire dello scorso anno, il legislatore in attuazione degli specifici criteri direttivi di cui all’art. 12 della Legge delega ha introdotto numerose disposizioni che, nel dichiarato intento di favorire l’internazionalizzazione dei soggetti economici operanti in Italia, sono intervenute su diversi aspetti che attengono alla determinazione del reddito in fattispecie caratterizzate da elementi di estraneità. Nell’ambito del decreto si possono tuttavia rinvenire anche alcune disposizioni volte a regolare fattispecie interne, ispirate dall’intento di ridurre le incertezze nella determinazione del reddito e della produzione netta; ispirazione questa ugualmente contenuta nell’art. 12 della legge delega. Tra le norme che attengono a fattispecie interne, rivestono particolare significato le disposizioni contenute nell’art. 5, commi 2 e 3 del decreto con le quali il legislatore delegato è intervenuto, come si chiarisce fin dalla rubrica dell’articolo, regolando gli ambiti di applicabilità e l’utilizzo del valore ai fini dell’imposizione sui redditi e dell’Irap. In effetti, si potevano registrare delle posizioni della giurisprudenza di legittimità che avevano suscitato critiche nella dottrina e correlativa incertezza tra gli operatori in relazione sia all’estensione della regola del valore normale per le transazioni interne tra soggette del medesimo gruppo, sia all’utilizzo del valore (in questo caso anche determinato ai fini dell’imposta di registro) come strumento per la dimostrazione del maggior corrispettivo occultato in fase di accertamento. Ed è probabile che l’incertezza creata da tali orientamenti giu-


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risprudenziali intorno alla corretta interpretazione di disposizioni già presenti che abbia indotto il legislatore delegato ad utilizzare lo strumento dell’interpretazione autentica (1), anche perché se si ignorassero tali orientamenti, le due disposizioni di interpretazione autentica ben potrebbero aprirsi a letture che ridurrebbero di molto, fino quasi ad annullare, la loro portata applicativa. La prima delle due disposizioni interpretative interviene, almeno in apparenza, nel senso di restringere il campo di applicazione dell’art. 110 c.7 TUIR che, come noto, prevede uno specifico regime per le cessioni di beni e le prestazioni di servizi che avvengono con soggetti non residenti e appartenenti al medesimo gruppo. La seconda delle disposizioni d’interpretazione autentica, invece, fissa la corretta interpretazione degli articoli del TUIR (2) che attraggono a tassazione la cessioni di immobili o di aziende in capo al cedente, precisando che il maggior corrispettivo, rispetto a quello dichiarato nel negozio di cessione o costituzione del diritto reale sull’immobile o sull’azienda, non possa esser presunto sulla scorta del solo valore dell’immobile o dell’azienda anche se dichiarato, definito o accertato ai fini dell’imposta del registro. Le due disposizioni interpretative intervengono quindi a chiarimento dell’ambito di utilizzo del valore sia quando esso si pone su di un piano sostanziale quale norma di valutazione delle componenti reddituali, sia a chiarimento del corretto utilizzo del valore quale strumento di accertamento, ovvero quale fatto sul quale fondare, attraverso l’utilizzo di un mezzo istruttorio di

(1) Da questo punto di vista, l’utilizzo della tecnica dell’interpretazione autentica sembra coerente con una funzione che classicamente è stata collegata a questo strumento di eliminare le incertezze che ruotano attorno all’interpretazione di una disposizione. In questo senso F. Cammeo, L’interpretazione autentica, in Giur. it., 1907, IV anche se, recentemente, si è posto in evidenza che la funzione preferibile dell’interpretazione autentica non è l’eliminazione dell’incertezza – fisiologicamente inevitabile in qualsiasi disposizione – ma l’espunzione dall’ordinamento di una interpretazione che, pur ragionevolmente ascrivibile alla disposizione, risulta in contrasto con la sua ratio o con la volontà legislativa. Si vedano le conclusioni raggiunte da V. Mastroiacovo, Esiste davvero la legge di interpretazione autentica?, in Riv. Dir. Trib., 2012, I, 511. (2) Si tratta in particolare degli artt. 58, 68, 85 e 86 del TUIR, in materia di determinazione dei ricavi e delle plusvalenze ai fini del reddito di impresa e dei redditi diversi. A questi articoli vanno aggiunti, quali oggetto di interpretazione autentica, gli artt. 5, 5-bis, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 in materia di IRAP che disciplinano le analoghe componenti ai fini di questo tributo. Nel testo, per semplicità, si farà riferimento esclusivamente alle disposizioni del TUIR che sono individuate quale oggetto dell’interpretazione, ma le considerazioni sono estensibili anche alle disposizioni in materia di IRAP.


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tipo presuntivo, l’accertamento di un occultamento di corrispettivo derivante dalla cessione del bene (o prestazione di servizio) (3). Entrambe le disposizioni presentano la struttura formale delle leggi di interpretazioni autentica e cioè individuano specifiche disposizioni già presenti nel TUIR quali referenti dell’interpretazione legislativamente introdotta (4) e comprendere appieno la portata della novella interpretativa è opportuna una ricognizione dello scopo e della funzione che si riconnettono alle disposizioni assunte come oggetto dell’interpretazione e della interpretazione giurisprudenziale che attorno ad esse si era consolidata. In questo modo sarà possibile individuare la portata e il senso delle nuove disposizioni di interpretazione autentica e, in ultimo, soffermarsi sui possibili profili di applicazione intertemporale di esse. 2. La funzione del valore normale nell’art. 110 c.7 TUIR tra disposizione (lato sensu) antielusiva e norma di chiusura del sistema. – La prima delle due norme assume come disposizione oggetto di interpretazione l’art. 110 c.7 del TUIR. Il contenuto di quest’ultimo articolo è ampiamente noto: esso stabilisce che, nella determinazione del reddito di impresa, per le componenti derivanti da operazioni con soggetti non residenti e che appartengono al medesimo gruppo societario, la determinazione delle componenti reddituali, debba avvenire secondo il criterio del valore normale del bene oggetto di scambio o del servizio prestato. La disposizione, benché presente nell’ordinamento interno fin dalla riforma degli anni ’70, quantomeno nel suo nucleo essenziale (5), solo in un passato più o meno recente è stata oggetto di approfondimento da parte della giu-

(3) Che siano queste le funzioni svolte nel nostro sistema dal valore normale è assunto pacifico. Vedi amplius L. Carpentieri, Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi, 1997 passim e di recente Id., Il gruppo nazionale, in Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari, a cura di V. Ficari e V. Mastroiacovo, 2014, 742 ss. (4) Cfr. G. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, 272-273 dove si chiarisce che il primo indice da verificare per assegnare ad una legge la natura di legge di interpretazione autentica è quello documentale, ossia relativo alla presenza delle formule del tipo “la legge x deve considerarsi nel senso che”, oppure “la legge x va interpretata nel senso che…”. Nel caso concreto questi indici sono chiaramente presenti nelle disposizioni. (5) Sui precedenti storici delle disposizioni nazionali in materia di prezzi di trasferimento, si veda G. Maisto, Il «transfer price» nel diritto tributario e comparato, Padova, 1985, passim e più di recente A. Ballancin Natura e ratio della disciplina italiana sui prezzi di trasferimento internazionali, in Rass. Trib., 2014, 73 ss. dove l’Autore traccia un importante parallelo tra evoluzione storica della disciplina al livello internazionale e al livello interno.


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risprudenza e della dottrina (6). All’esito dell’elaborazione deve considerarsi ormai abbandonato l’inquadramento di essa in termini di norma procedimentale (7), ossia come norma che assegnerebbe all’amministrazione particolari poteri di rettifica in sede di accertamento; così come ugualmente superato è l’inquadramento in termini di norma presuntiva (8), e segnatamente di presunzione di occultamento di corrispettivi. Prevalente è ormai l’orientamento per cui si tratta di una disposizione sostanziale in materia di determinazione del reddito di impresa che impone un criterio di valorizzazione di alcune componenti – quelle derivanti da operazioni con soggetti non residenti, ma appartenenti al medesimo gruppo societario del residente – non secondo il criterio del prezzo pattuito, generalmente adottato per le operazioni interne, bensì in relazione al valore del bene o della prestazione oggetto dell’operazione. La giurisprudenza dal canto suo, pur convenendo che si tratta di disposizione sostanziale in materia di determinazione del reddito di impresa, sembra considerare in talune pronunce l’art. 110 c.7 quale norma antielusiva (9), an-

(6) Sui prezzi di trasferimento si veda in generale E. Della Valle, Il transfer price nel sistema di imposizione sul reddito, Riv. Dir. Trib. 2009, 133; R. Cordeiro Guerra, La disciplina del “transfer price” nell’ordinamento italiano, in Riv. Dir. Trib., 2000, 421; G. Maisto, Il «transfer price» nel diritto tributario e comparato, Padova, 1985, passim; F. Vitale, Commento all’art. 110 TUIR, in Commentario breve alle Leggi tributarie. Tomo III T.U.I.R. e Leggi complementari, a cura di A. Fantozzi, Padova, 2010, 603. Per una visione globale e recente del fenomeno dei prezzi di trasferimento, si veda A. Hayri e A. Azeff Transfer Pricing in Action, The Hauge, 2013. (7) Commissione tributaria provinciale Torino n. 164/1999 del 18 gennaio 1999. (8) Sul punto particolarmente chiaro E. Della Valle, Oggetto ed onere della prova nelle rettifiche da «transfer price» GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 2013, 772 per il quale, non è la norma ad esser presuntiva, ma è “di tipo presuntivo il ragionamento in base al quale il legislatore ha ritenuto di introdurla, ossia, laddove si sia in presenza di transazioni poste in essere tra soggetti riferibili ad un unitario centro di interessi ed uno dei due sia localizzato in un Paese estero, si è ritenuto probabile che i corrispettivi contrattuali vengano manipolati per ottenere vantaggi a danno del Fisco italiano.” (9) È chiaro che il “carattere sostanziale non fa tuttavia venir meno la funzione della … disposizione, che rimane, appunto, di contrasto ad una operazione elusiva” così M. Beghin, “Transfer pricing interno”, interpretazione autentica “rovesciata” e prova della fattispecie elusiva, in Corr. Trib. 2015/4574, in precedenza l’Autore si era espresso in termini simili in M. Beghin, La disciplina del transfer pricing, tra profili sostanziali, profili procedimentali, fattispecie di evasione e abuso del diritto, in Lezioni di diritto tributario sostanziale e processuale: atti dei corsi di perfezionamento e di alta formazione permanente per magistrati tributari e professionisti abilitati al patrocino avanti al giudice tributario, a cura di G. Gaffuri e M. Scuffi, Milano, 2009, 347 ss. Individuano inoltre una funzione lato sensu antielusiva per la disposizione dell’art. 110 c7, E. Della Valle, Il transfer price nel sistema di imposizione sul reddito, Riv. Dir. Trib. 2009, 133; R. Cordeiro Guerra, La disciplina del transfer price


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che se l’espressione non deve esser considerata in senso proprio (10). Precisazione questa che è apparsa opportuna dal momento che la natura antielusiva della disposizione ne richiederebbe un’applicazione solo nei casi in cui, attraverso la fissazione di valori normali ad hoc, si realizzi un risparmio di imposta complessivo del gruppo societario: requisito di cui però non vi è traccia nel testo dell’art. 110, c.7. Chiarita la natura sostanziale della disposizione di cui all’art. 110 c.7, si sta poi sempre di più facendo largo l’idea che la disposizione in materia di prezzi di trasferimento contenga una “norma di chiusura” del sistema di imposizione sui redditi nazionali (11). La disposizione in materia di prezzi di trasferimento parteciperebbe cioè della stessa natura delle norme sull’imposizione all’uscita, chiudendo il sistema di imposizione sui redditi “agganciati” al territorio e tassandoli con il criterio del valore normale al momento del loro “travaso” in capo a soggetti esteri (12).

nell’ordinamento italiano, in Riv. Dir. Trib. 2000, 421 e ss; F. Vitale, Commento all’art. 110 TUIR, in Commentario breve alle Leggi tributarie. Tomo III T.U.I.R. e Leggi complementari, a cura di A. Fantozzi, Padova, 2010, p. 603. (10) Si veda specialmente Corte di Cassazione n. 18392/2015 del 18 settembre 2015 secondo cui la disciplina italiana sui prezzi di trasferimento “non integra una disciplina antielusiva, in senso proprio, perché (a differenza di altre norme specificamente antielusive) non prevede che l’amministrazione finanziaria debba provare la maggiore fiscalità nazionale ed è perciò applicabile anche in difetto di prova da parte dell’amministrazione finanziaria del conseguimento di un concreto vantaggio fiscale.” In generale per una rassegna degli orientamenti giurisprudenziali in materia di prezzi di trasferimento, P. Santin, Prezzi di trasferimento: profili giuridici qualificanti e orientamenti giurisprudenziali, Riv. G. Fin., 2013, 1371. (11) Una norma con la quale il legislatore interno intende intercettare quelle manifestazioni di ricchezza reddituale che, pur generate all’interno del territorio italiano da soggetti ivi residenti, sfuggirebbero dal perimetro impositivo dello Stato migrando all’estero. Il fine della normativa fiscale sarebbe cioè agganciato alla territorialità dell’imposizione e all’esigenza di evitare che, attraverso la fissazione di prezzi ad hoc, si determini un allocamento di materia imponibile su soggetti esteri (e una contestuale minimizzazione della base imponibile sul soggetto italiano) che si pongono al di fuori della sfera in cui lo Stato può esercitare il potere di imposizione. Si tratterebbe quindi di una norma con funzione di ripartizione della potestà impositiva tra i diversi ordinamenti statali interessati alla tassazione delle medesime operazioni economiche. A. Ballancin, Natura e ratio della disciplina italiana sui prezzi di trasferimento internazionali, in Rass. Trib., 2014, 73 ss. che dimostra come questa funzione sia chiara se si considera l’evoluzione storica della disciplina interna e internazionale; di recente, nello stesso solco, M. Marzano, Transfer pricing e finanziamenti infruttiferi intragruppo, in Rass. Trib., 2015. (12) Questa impostazione, che pur pare suggestiva e basata su una collocazione internazionale del fenomeno dell’imposizione interna sui redditi, non pare però giustificare da sola l’impianto della disciplina interna sui prezzi di trasferimento. Basti a tal fine rilevare


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In realtà le due ricostruzioni della disposizione non si escludono a vicenda e, proprio valorizzando il duplice requisito delle operazioni che rientrano nell’applicazione dell’art. 110 c. 7 (operazioni che cioè siano realizzate (i) con soggetti non residenti e (ii) che appartengano al medesimo gruppo societario), pare si possa sostenere che in essa l’ispirazione di protezione della base imponibile nazionale conviva con l’ispirazione latamente antielusiva (13). La norma avrebbe un’ispirazione territoriale e antielusiva in cui le due esigenze, quella di protezione della base imponibile dei soggetti legati al territorio e quella del contrasto all’indebito risparmio di imposta tramite arbitraggi fiscali infragruppo, sono cumulativamente soddisfatte (14).

che se l’unica ispirazione fosse quella di garantire la tassazione delle basi imponibili realizzate sul territorio nazionali, la regola del valore normale in sostituzione del corrispettivo espresso in danaro dovrebbe valere per tutte le transazioni che comportano uno spostamento all’estero di base imponibile; in sostanza, dovrebbe valere per tutte le operazioni di scambio che un operatore nazionale compie con un soggetto non residente, anche quando questi non appartiene al medesimo gruppo societario. Ma, com’è noto, il testo della disposizione contenuta nell’art. 110, c.7 è chiaro nell’individuare quale requisito per l’applicazione del meccanismo di sostituzione del corrispettivo con il prezzo, la appartenenza dei soggetti allo stesso gruppo; ignorare tale dato normativo non sembra possibile. (13) La normativa, per un verso intende contrastare lo spostamento di materia imponibile all’estero, con cui si sottrae gettito allo Stato (artificiosamente diminuendo la base imponibile di un soggetto passivo sul quale lo Stato può esercitare il proprio potere impositivo); per altro verso, trova applicazione solo se lo spostamento all’estero della materia imponibile avviene tra soggetti appartenenti allo stesso gruppo societario (benché residenti in Paesi diversi). Del resto, questa conclusione sembra avvalorata sia dalle evoluzioni in ambito internazionale sia, e più decisivamente, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia la quale nei casi in cui il giudice europeo si è pronunciato sulla “compatibilità” delle normative transfer pricing con le libertà fondamentali, ha inquadrato le disposizioni nazionali come misure nazionali che, pur se contrastanti con le libertà fondamentali, sono tese a contrastare pratiche di sottrazione di materia imponibile agli Stati attraverso lo spostamento di essa all’estero e giustificate tuttavia dalla necessità di garantire un equilibrato riparto del potere impositivo tra gli Stati membri dell’Unione. In sostanza un equilibrato riparto del potere impositivo all’interno dell’Unione postula che ogni Stato mantenga il diritto di tassare in maniera congrua i valori prodotti sul proprio territorio al momento in cui, a seguito di un particolare atto del contribuente, esso perde il potere di tassare tali redditi, pur rimanendo il reddito nella disponibilità del medesimo contribuente. Si veda sentenza Corte di giustizia SGI C-311/08 del 21 gennaio 2010, in particolare punto 66 laddove si afferma che “una legislazione nazionale che non è specificamente diretta ad escludere dal vantaggio fiscale che essa prevede siffatte costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica e create allo scopo di eludere l’imposta normalmente dovuta sugli utili generati da attività svolte nel territorio nazionale, può tuttavia considerarsi giustificata dall’obiettivo di prevenire l’elusione fiscale considerato congiuntamente a quello della tutela della ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri”. (14) In questi termini mi sembra orientato anche G. Bizioli, Considerazioni critiche in


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3. La disposizione di interpretazione autentica: il valore normale solo per le operazioni transnazionali. – Questa breve riproposizione del quadro funzionale e della natura della disposizione sui prezzi di trasferimento si rivela opportuna ai fini della comprensione della nuova disposizione di interpretazione autentica dell’art. 110 c.7, contenuta nell’art.5, c.2 D.lgs. 147/201 che, lo si ripete, testualmente sancisce la non applicabilità di questo articolo alle ipotesi di operazioni interne (rectius, tra soggetti residenti appartenenti allo stesso gruppo). Se, infatti, si considera la disposizione dell’art. 110 c.7 nel suo tenore letterale, quale norma a fattispecie esclusiva e – soprattutto – la si valorizza come disposizione di chiusura a protezione della “emigrazione all’estero di base imponibile”, la disposizione di interpretazione autentica potrebbe apparire un chiarimento scontato e quindi inutile (15). L’art. 110 c.7 prevede l’applicazione del criterio del valore normale a operazioni con soggetti non residenti e, pertanto, a nulla servirebbe affermare – come fa la disposizione di interpretazione autentica – che il regime previsto dall’art. 110 c.7 non si applica alle operazioni “tra soggetti residenti”. E del resto nella letteratura tributaria è pressoché unanime il giudizio sull’impossibilità di applicare le disposizioni in materia di prezzi di trasferimento a operazioni interne infragruppo, perché l’utilizzo del valore normale quale criterio generale per le componenti interne si porrebbe in chiave distonica con le coordinate di fondo del nostro sistema di autodeterminazione analitica del redditi (16). Anche i documenti che costituiscono una formalizzazione

merito all’orientamento giurisprudenziale in tema di transfer pricing, in Riv. Gu. Fin., 2014, il quale però non colloca sullo stesso piano le due funzioni della disposizione evidenziando “come la funzione antielusiva rappresenta un elemento meramente secondario (e, certamente, recessivo) della disciplina normativa rispetto al giusto riparto della potestà impositiva”. (15) Lo hanno prontamente rilevato sia L. Castaldi, Plusvalenze immobiliari, accertamenti presuntivi e disorientamenti interpretativi del legislatore delegato, in Corr. Trib. 4/2016, 279 ss., sia M. Grandinetti, Il rasoio di Occam e il transfer price interno, in Riv. Dir. Trib., 2015, 172 ss.. (16) Si tratta di assunto pacifico nella letteratura, si veda per tutti L. Carpentieri, Redditi in natura e valore normale nelle imposte sui redditi, Milano, 1999, passim, ma in particolare 234 e ss. dove si evidenziano tutte le plausibili ragioni per escludere che la disciplina sui prezzi di trasferimento si applichi alle transazioni interne. In termini comparatistici si veda poi P. Selicato, Il transfer pricing interno e la disciplina fiscale dei gruppi di imprese: appunti per un’analisi comparata, in Riv. Dir. Trib. int. 3/99, 336 il quale sulla scorta di una attenta ricognizione dei sistemi fiscali, indicava nella istituzione di un regime di tassazione di gruppo la modalità di risoluzione dei problemi legati al transfer pricing interno. Deve poi registrarsi la critica, pressoché unanime, alle prese di posizione della giurisprudenza e dell’amministrazione che hanno in qualche occasione avallato l’ipotesi di rettifiche a valore normale per operazioni interne si veda D. Stevanato, Rettifiche dei corrispettivi intragruppo e transfer pricing


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della prassi amministrativa chiariscono che le rettifiche a valore normale non possono, di regola, interessare operazioni tra soggetti entrambi residenti o localizzati nel territorio. Per comprendere il senso e gli obiettivi che il legislatore ha inteso conseguire con la disposizione di interpretazione autentica dell’art. 110 c.7 è possibile fare riferimento alla funzione lato sensu antielusiva che era riconosciuta all’art. 100 c.7 e a quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che, in senso generale, avalla l’utilizzo da parte dell’amministrazione del criterio del valore normale anche per le operazioni interne infragruppo. Si tratta di un orientamento che, fin dalle prime pronunce, ha destato critiche nella letteratura di diritto tributario e incertezza negli operatori e si può forse credere che, nell’intento di eliminare le incertezze in materia di determinazione della base imponibile, l’obiettivo del legislatore fosse proprio quello di “sconfessare” questo orientamento imponendo un’interpretazione restrittiva dell’art. 110 c.7. Tuttavia, a leggere bene le argomentazioni contenute nelle pronunce cui questo orientamento è riconducibile, e a confrontarle con l’interpretazione che la norma di interpretazione autentica intende imporre, o meglio con quella che intenderebbe escludere (17), si è nuovamente portati a concludere che l’intervento d’esegesi normativa potrebbe risultare inutile o, al più, ovvio. Infatti, come è stato prontamente notato (18), nelle recenti pronunce in cui si è fatto riferimento alle rettifiche a valore normale delle operazioni interne in-

“interno”, in Rass. Trib., 1999, 235 ss., S. Cipollina, Elusione fiscale à la carte: lo strumentario creativo del fisco in un caso di transfer pricing domestico, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 3/2002, 73-83; F. Crovato, Valore normale, prezzi interni e reinterpretazione dei contratti, in Dial. Trib. 6/2008, 82 ss e più di recente, di nuovo, L. Carpentieri, Valore normale e transfer pricing “interno” ovvero alla ricerca dell’arma accertativa perduta, in Riv. Dir. Trib., 448 e ss., Id. Il gruppo nazionale, in Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari, a cura di V. Ficari e V. Mastroiacovo, Torino, 2014, specialmente 743 ss. (17) Le norme di interpretazione autentica infatti, possono esser anche considerate “in negativo” come le disposizioni che individuano l’unica interpretazione corretta della disposizione ed escludono la correttezza di tutte le altre. Lo rileva con chiarezza F. Tesauro, Sulla distinzione tra disposizioni interpretative, integrative, correttive e modificative nella legislazione tributaria, in Riv. Dir. Fin. Sc. fin. 1990, 12 secondo cui la disposizione di interpretazione autentica “elimina, tra le due o più norme potenzialmente contenute in un testo, le interpretazioni (…) considerate errate”. (18) Boria Il transfer pricing interno come possibile operazione elusiva e l’abuso del diritto, in Riv. Dir. Trib. 2013, 429, ma il punto non sfugge a L. Carpentieri, Valore normale e transfer pricing “interno” ovvero alla ricerca dell’arma accertativa perduta, in Riv. Dir. Trib., 448 e ss. e M. Grandinetti, Il rasoio di Occam e il transfer price interno, in Riv. Dir. Trib., 2015, 172-187.


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fragruppo, la Corte di Cassazione ha espressamente escluso l’applicabilità analogica diretta (analogia legis) delle norme in materia di prezzi di trasferimento di cui all’art. 110 c.7 alle transazioni interne, utilizzando piuttosto lo strumento che tradizionalmente si considera dell’analogia iuris (19), ossia considerando il criterio del valore normale quale criterio generale da applicare laddove manchi un’espressa disposizione di valorizzazione delle fattispecie (20) e arrivando ad individuare (21) nell’art. 9 TUIR la norma di carattere generale utilizzabile per tutte le transazioni ai fini della determinazione del reddito imponibile (22). Questa giurisprudenza non nasconde il riferimento all’abuso del diritto che si realizzerebbe quando, attraverso la fissazione dei prezzi per le operazio-

(19) Seguendo il testo dell’art. 12 delle Preleggi si è soliti considerare analogia iuris quel procedimento di giustificazione in base principi generali dell’ordinamento e analogia legis quel procedimento che si ha quando la lacuna normativa è colmata con l’applicazione di un’altra norma che regola un caso diverso, ma simile, N. Bobbio Analogia, Voce del Noviss. Dig. It.,1968, I, 601. Le successive elaborazioni di teoria generale hanno posto in evidenza che tra analogia iuris e analogia legis vi è una differenza di grado e non di qualità e, più in generale, si può individuare “una sequenza ordinata di tre procedimenti giustificativi, dal più semplice al più complesso, ognuno dei quali sfuma nell’altro: interpretazione estensiva, analogia, ricorso ai principi generali del diritto”. Cfr. L. Gianformaggio, Analogia, voce in Digesto, 1987. (20) P. Boria, Il transfer pricing interno come possibile operazione elusiva e l’abuso del diritto, in Riv. Dir. Trib. 430, in cui l’Autore minimizza l’incidenza concreto dell’orientamento giurisprudenziale, evidenziando come esso – in definitiva – possa trovare applicazione solo per pochi casi isolati e non possa permettere al valore normale di assurgere a criterio generale di valutazione delle componenti reddituali per gli scambi interni tra soggetti appartenenti al medesimo gruppo societario. (21) Si veda come esempio emblematico Cass. 8849/2014 in cui si precisa che “D’altro canto, che la succitata disposizione del D.P.R. n. 917 del 1986, art.9, non sia una norma dettata per le sole transazioni tra una società nazionale ed una estera, lo si evince – in maniera inequivocabile – dalla stessa collocazione della norma tra le “disposizioni generali” applicabili in materia di imposte sui redditi, di cui al titolo I, capo I del D.P.R. n. 917 del 1986. E, non a caso, la disposizione dell’art. 76, commi 2 e 5 (come, ora l’art. 110, commi 2 e 7) del decreto cit. rinvia al precedente art. 9, – secondo la tecnica normativa del rinvio recettizio ad una disposizione di carattere generale, da parte di una norma speciale che non prevede una disciplina specifica della fattispecie da regolare (Cass. 914/68) – ai fini della determinazione del valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, con riferimento alle transazioni commerciali effettuate tra società dello stesso gruppo; e ciò, sia pure con riferimento specifico all’ipotesi in cui alcune di tali società siano italiane, altre straniere”. (22) L’inquadramento dell’art. 9 TUIR quale disposizione espressiva di un principio generale non è affermazione del tutto nuova in giurisprudenza, si cfr. Cass. 24 luglio 2002 n. 10802 nella quale si legge che “esiste, in realtà, un principio generale, desumibile dall’art. 9 del D.P.R. n.917 del 1986, in base al quale l’Amministrazione è tenuta a valutare ai fini fiscali le varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito secondo il normale valore di mercato.”


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ni infragruppo si convoglia il reddito verso società che – all’interno del gruppo – godono di un più mite regime fiscale o verso le quali sarebbe comunque più conveniente per il gruppo avere maggiori redditi (23). In queste ipotesi, la correzione dell’abuso passerebbe attraverso una supposta presenza nell’ordinamento di un principio generale di applicazione del valore normale. Quindi, il pilotaggio dei redditi verso soggetti che all’interno del gruppo godono di un regime speciale o forfettario è (era) considerata dalla giurisprudenza un’ipotesi di abuso del diritto ed il criterio del valore normale è (era) individuato come lo strumento da utilizzare in chiave di (reazione) correzione (all’) dell’abuso. Al di là delle critiche che si possono rivolgere all’utilizzo in chiave di analogia iuris del principio del valore normale, e in generale alla configurazione del transfer pricing come ipotesi da ricondursi alla controversa figura dell’abuso del diritto (24), quanto sopra osservato basta a comprendere perché la nuova disposizione di interpretazione autentica, se considerata nella sua formulazione letterale, rischia di rivelarsi inutile in relazione alla finalità di escludere il transfer pricing interno: la disposizione esclude l’applicazione analogica dell’art. 110 c.7 alle operazioni interne, ma non è questo lo strumento ermeneutico che la giurisprudenza usa per giustificare l’applicazione del valore normale per tali operazioni, quanto piuttosto il principio dell’abuso del diritto, così come questo viene (veniva) inteso dalla giurisprudenza.

(23) Infatti, si è detto che la norma dell’art. 9 TUIR viene impiegata dalla giurisprudenza in chiave di analogia iuris, al fine di colmare una lacuna; tuttavia bisogna intendersi sulla natura della lacuna che l’applicazione del criterio del valore normale intende colmare. Questa è una lacuna di tipo assiologico, ossia una lacuna che viene constata in ragione della non conformità del tessuto normativo positivo con dei principi generali. In altri termini, con l’individuazione di una lacuna assiologica, l’interprete implicitamente individua un difetto di costruzione normativa in quanto il legislatore non ha introdotto una disposizione che invece nella particolare prospettiva che assume l’interprete di rispetto del principio generale, deve considerarsi presente nell’ordinamento. È questo quanto è avvenuto nel caso del transfer price interno laddove il legislatore ha assunto che, in forza del principio antiabuso, anche per le transazioni interne con corrispettivo in danaro, debba applicarsi la regola di cui all’art. 9 che – formalmente – non può trovare applicazione, perché la determinazione delle componenti reddituali interne è pacificamente retta da disposizioni che fanno riferimento al prezzo. Sulle lacune assiologiche, e sulle tecniche per colmarle, vedi P. Chiassoni, Tecnica dell’interpretazione giuridica, Bologna, 2007, 199 ss. (24) Si veda, per le condivisibili critiche a tale orientamento, oltre agli scritti citati alla nota 16, P. Laroma Jezzi, “Transfer pricing” come abuso del diritto: tanto rumore per nulla?, in Riv. Dir. Trib., 2012, F. Pedrotti, Il non condivisibile utilizzo dell’art. 37 bis del DPR 29 settembre 1973 n. 600 e del principio giurisprudenziale di divieto di abuso del diritto al fine di contrastare una presunta violazione in materia di “prezzi di trasferimento”, in Riv. Dir. Trib., 2012, 24.


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4. Interpretazione autentica dell’art. 110 c.7 e perimetrazione dell’abuso del diritto. – Per dare un significato alla nuova disposizione di interpretazione autentica pare allora opportuno rapportarla a tale giurisprudenza, depurando la norma interpretativa dalle imprecisioni che le derivano da una frettolosa redazione e dalla individuazione, quale disposizione interpretata, dell’art. 110 c.7. In questo senso, si può sostenere che la legge interpretativa non miri tanto ad escludere l’applicazione analogica dell’art. 110 c.7 alle operazioni interne infragruppo, quanto a imporre l’inutilizzabilità del valore normale per contrastare i fenomeni di pilotaggio dei redditi infragruppo verso un soggetto che gode di un particolare regime di vantaggio. La disposizione interpretativa si inserirebbe così nella complessiva operazione realizzata dal legislatore delegato di perimetrazione della nozione di abuso del diritto, in chiave di razionalizzazione e complessiva riduzione delle ipotesi in cui fare ricorso a questa figura. Non è ovviamente questa la sede per considerazioni approfondite sulla nuova normazione in materia di abuso del diritto che, com’è noto, vede al suo centro la nuova disposizione dell’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente. Però, da quanto si è detto, la nuova disposizione di interpretazione in materia di valore normale può esser letta come indicazione espressa, da parte del legislatore delegato, di un’ipotesi che non può esser considerata come abuso del diritto; ed in questo senso essa raccoglierebbe l’indicazione largamente prevalente nella dottrina nazionale per cui la violazione di norme espresse, seppure generali, non può rappresentare un’ipotesi di abuso del diritto. Se, infatti, le rettifiche interne a valore normale per le operazioni infragruppo interne erano ispirate da una logica di contrasto all’abuso del diritto, escludere ogni possibilità di esse significa chiarire che esse non possono esser considerate come abuso del diritto, o quantomeno che la valutazione in termini di abusività debba esser condotta non più in maniera generale, ma seguendo le direttive poste (e le connesse garanzie) dall’art.10bis dello Statuto (25). Certamente la norma avrebbe meglio potuto esser confezionata dal legislatore assumendo quale disposizione interpretata l’art. 9 TUIR e, volendo chiarire ulteriormente, il legislatore avrebbe potuto introdurre un riferimen-

(25) In termini simili conclude M. Beghin, “Transfer pricing interno”, interpretazione autentica “rovesciata” e prova della fattispecie elusiva, in Corr. Trib., 2015, 4571 per il quale la contestazione delle operazioni infragruppo interne deve adesso passare attraverso l’applicazione dell’art. 10bis dello Statuto.


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to espresso al divieto di abuso del diritto. Tuttavia, se si assume a massima ispiratrice l’idea di un legislatore che senz’altro può errare per frettolosità e disattenzione nel confezionamento delle disposizioni, ma non confeziona atti normativi senza una funzione, questa sembra esser la lettura preferibile da assegnare alla disposizione interpretativa che vieta la applicabilità del valore normale alle operazioni infragruppo interne. 5. La limitazione all’utilizzo del valore normale in fase di accertamento. – La seconda delle disposizioni di interpretazione autentica prende invece a riferimento il valore, considerandolo nel suo aspetto di strumento presuntivo e quindi come mezzo di accertamento. Anche in questo caso la disposizione sembra dover scontare, a prima vista, una certa confusione e frettolosità da parte del legislatore delegato in relazione alle disposizioni prese a riferimento come oggetto dell’interpretazione. Le disposizioni che sono individuate come oggetto dell’interpretazione normativa operano chiaramente su un piano sostanziale, mentre il “comando interpretativo” sembra operare sul piano procedimentale e probatorio perché pone espressamente un divieto di utilizzo della presunzione con cui dal valore del bene (o servizio) scambiato si inferisce il (maggior) corrispettivo pattuito. Anche in questo caso per comprendere il significato e l’impatto della disposizione, è necessario rapportarla alla prassi amministrativa e agli orientamenti giurisprudenziali in relazione all’utilizzo in sede di accertamento del valore normale. È noto che nella pratica degli accertamenti emessi dall’amministrazione finanziaria il valore del bene scambiato è spesso assunto come elemento dal quale – in caso di scostamento dal prezzo convenuto dalle parti al momento dello scambio – inferire l’occultamento di un corrispettivo imponibile ai fini delle imposte sui redditi; questa presunzione ha trovato un largo utilizzo soprattutto in riferimento alle cessioni di aziende ed immobili nel quale è facile per l’amministrazione fare riferimento al valore che viene assegnato al bene (spesso a seguito di rettifiche) ai fini dell’imposta di registro (26). E, in un passato relativamente recente, la presunzione di corrispondenza tra valore e corrispettivo per le cessioni immobiliari – ai fini della imposi-

(26) Ciò probabilmente a ragione del fatto che questo tipo di cessioni ha una rilevanza anche ai fini dell’imposta del registro e inoltre, per la gran parte di queste cessioni, non operano le preclusioni all’accertamento del valore del bene scambiato


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zione sui redditi – era stata anche oggetto di positivizzazione da parte del legislatore che l’aveva fatta assurgere al rango di presunzione legale, sebbene poi – anche sulla scorta di forti sospetti di incoerenza con il diritto europeo – tali disposizioni siano state oggetto di ripensamento e quindi di abrogazione (27). Derubricata, ma solo formalmente, al rango di praesumptio hominis, la presunzione di occultamento di corrispettivo basata sul maggior valore del bene ha comunque continuato a riscuotere un certo successo nella prassi applicativa dell’Agenzia delle entrate (28) e, ciò che più rileva in questa sede, ha ricevuto costanti conferme da parte della giurisprudenza di legittimità (29)

(27) Ci si riferisce alle disposizioni introdotte dal D.L. d.l. 223/2006 (c.d. Decreto Bersani-Visco) al testo degli artt. 39 DPR 600/73 e 54 DPR 633/72. La letteratura sul tema era stata notevole, per tutti si veda T. Tassani L’accertamento dei corrispettivi nelle cessioni immobiliari e la nuova presunzione fondata sul valore normale, in Rass. Trib. 2007, 137 e ss. e, con specifico riferimento alle critiche alla normativa in termini di proporzionalità, A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’Iva europea, Pisa, 2013. (28) Si sono perciò rivelati fondati i sospetti di T. Tassani, L’accertamento immobiliare in base al valore normale dopo la legge “comunitaria” n. 88/2009, Studio n. 117-2009/T del CNN, in www.notariato.it che all’indomani della abrogazione della presunzione legale faceva presente che, in forza dell’orientamento giurisprudenziale che si andava consolidando, l’Amministrazione avrebbe comunque avuto la “sicurezza di utilizzare in questo modo una presunzione, semplice sì, ma qualificata e quindi in grado di giustificare, da sola, la ripresa fiscale”. Analoghi dubbi venivano avanzati da M. Poggioli, Valori OMI, atto di imposizione e prudente apprezzamento del giudice, GT – Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 7 / 2010, p. 631, nota a Commiss. Trib. Prov. Veneto Vicenza Sez. VI 18-02-2010 (21-01-2010) il quale evidenziava che, sebbene nel prudente apprezzamento del giudice sia insita una certa discrezionalità, è questo lo strumento legislativamente previsto (art. 116 c.p.c.) che permette una valutazione concreta della presunzione. (29) La dottrina unanimemente criticava questo orientamento giurisprudenziale, seppur con argomenti diversi. Si veda, senza pretesa di completezza, G. Marini, L’accertamento di maggior valore dell’avviamento ai fini dell’imposta di registro: eventuali effetti ai fini delle imposte sui redditi, in Aa.Vv., L’avviamento nel diritto tributario, Della Valle, Ficari Marini (a cura di), Padova, 2012, 365 ss., M. Beghin, La differenza prezzo-valore rileva solo in una “vera” valutazione d’insieme, in Corr. trib., 2008, p. 2934 ss.; Id., Cessione di azienda e presunzione di corrispondenza tra prezzo e valore di mercato, in Corr. trib., 2008, p. 2849 ss.; Id., Il differenziale prezzo-valore (riferito all’azienda) e i cortocircuiti argomentativi della Suprema Corte , in Rass. trib., 2008, p. 1085 ss.; Id., Il trasferimento dell’azienda e l’imposizione sulle plusvalenze nei recenti arresti giurisprudenziali: alla ricerca di punti fermi e di schemi generali di ragionamento, in Riv. dir. trib., 2008, II, p. 135 ss.; V. Ficari, La “circolazione” dell’azienda nella recente giurisprudenza tributaria, in Riv. Dir. Trib., 2008, II, 125 ss.; V. Mastroiacovo, Il valore venale nell’accertamento dell’imposta di registro: sistema e deroghe, in Riv. trim. dir. trib., 2015, 134, G. Corasaniti, La controversa (il)legittimità della rettifica della plusvalenza da cessione d’azienda in base al valore di avviamento definito ai fini del registro, in GT Riv. giur. trib., n. 8/2010, 711 ss.; Marcheselli Valore di registro dell’azienda, prova della plusvalenza e difesa del contribuente, in Corr. Trib. 2010, 681 ss.


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tanto da esser assunta a vera e propria presunzione giurisprudenziale (30). In sostanza, pur trattandosi di una presunzione che non godeva della copertura del dato normativo – ergo, una presunzione che, nella catalogazione dei vari mezzi istruttori di tipo presuntivo, viene definita “semplice” – essa continuava a fondare accertamenti di tipo “automatico” da parte dell’amministrazione finanziaria, godendo dell’avallo pressoché incondizionato da parte della giurisprudenza di legittimità (31). In questo contesto, interviene la seconda delle disposizioni introdotte dall’art. 5 del D.lgs. 147/2015, anch’essa con la classica struttura delle norme di interpretazione autentica, la quale pretendendo di interpretare alcune disposizioni sostanziali contenute nel TUIR, sancisce l’impossibilità di presumere il maggior corrispettivo dal valore del bene, anche qualora il valore (assunto come fatto noto della presunzione) fosse quello definito ai fini dell’imposta di registro. Anche in questo caso, come si diceva, non mancano imprecisioni da parte del legislatore. La disposizione, pur imponendo una interpretazione chiaramente attiene al piano procedimentale e processuale, individua come disposizioni interpretate alcuni articoli del TUIR i quali sanciscono le modalità di determinazione di componenti positive di reddito (ricavi e plusvalenze nel reddito di impresa, e redditi diversi) (32).

(30) Per l’esposizione dei motivi di tale inquadramento e le ragioni di critica che ad esso possono esser mosse, sia consentito rinviare a G. D’Angelo, Note (critiche) sull’utilizzo del valore definitivo ai fini dell’imposta di registro per l’accertamento ai fini delle imposte sui redditi, Riv. Dir. Trib., 2009, II, 72 ss. (31) Peraltro, negli ultimi anni, sembra evaporata quella distinzione che la giurisprudenza di legittimità era solita sostenere in termini di efficacia inferenziale a dimostrazione del corrispettivo, tra il valore del bene definito ai fini dell’imposta di registro e valore determinato aliunde (es. stime dell’Agenzia del Territorio). Per i riferimenti giurisprudenziali, rinvio a G. D’Angelo, Note (critiche), cit., 59 ss. (32) È noto che la distinzione tra norme procedimentali, processuali e sostanziali non è sempre condivisa. A fronte di un’autorevole dottrina – E. Allorio, Per una teoria dell’oggetto dell’accertamento giudiziale, in Jus, 1955, 192 – che distingue le due categorie di norme in relazione alle situazioni giuridiche cui esse si riferiscono, nel senso che le norme sostanziali individuano quelle situazioni giuridiche che possono esser oggetto autonomo di accertamento nel processo, mentre le norme processuali atterrebbero a quelle situazioni giuridiche rilevanti nel corso del processo; vi l’opinione di chi V. Denti, Intorno alla relatività della distinzione tra norme sostanziali e norme processuali, in Riv. Dir. Proc. 1964, 251, ha invece relativizzato tale distinzione, anche sulla scorta di un dato comparatistico, sostenendo che il criterio distintivo tra le due tipologie di norme dipende da scelte di politica legislativa che presiedono alle varie forme di tutela che l’ordinamento intende assegnare alle situazioni giuridiche soggettive.


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Il “nucleo portante” della nuova disposizione, perciò, interviene sulla regolazione di vicende procedimentali e probatorie e, in particolare, stabilisce la non efficacia di una specifica presunzione largamente utilizzata dagli uffici dell’Agenzia delle entrate. Vista nella prospettiva del diritto delle prove e delle norme in materia di accertamento, la disposizione si ispira al modello delle prove legali (33) e, più precisamente, introduce una limitazione legale all’utilizzo di uno degli strumenti presuntivi non positivizzato, ma che era ampiamente utilizzato dal fisco (34). La nuova disposizione sembra così partecipare della medesima natura delle presunzioni legali dal momento che essa introduce una precisa direttiva sull’utilizzo dello strumento presuntivo da parte del fisco; e non può valere a mettere in forse questa conclusione la circostanza che, nel caso specifico, il giudizio sulla validità probatoria del fatto noto (il valore), cui sono vincolati sia l’amministrazione che il giudice, sia di segno negativo (35).

(33) Sulle prove legali, si veda C. Furno, Contributo alla teoria della prova legale, Padova, 1940, 23 ss., e più di recente, L.G. Lombardo, Riflessioni sull’attualità della prova legale, Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1992, 611 dove si riportano i diversi modi di intendere l’espressione “prova legale” a seconda che si faccia riferimento alla fonte, al contenuto o all’efficacia della prova: in quest’ultima accezione prova legale è quella la cui efficacia dimostrativa è predeterminata ex lege ed è questo significato “ristretto” con cui l’espressione prova legale viene qui utilizzata. Pur in riferimento a questo significato “ristretto” di prova legale è stato osservato che nel nostro sistema probatorio la categoria delle prove legali è molto più ampia di quanto si possa credere, perché le uniche prove libere (i.e. non legali) sono quelle rimesse al prudente apprezzamento del giudice senza che la legge ne indichi un diverso criterio di valutazione. Cioè, tutti quei mezzi che indirizzano il libero convincimento del giudice, e che quindi lo vincolano ad apprezzare la prova e ad esternare il proprio convincimento in relazione ad un parametro normativamente specificato, possono ben farsi rientrare nel novero delle prove legali. In questi termini, G. Verde, Prova legale e formalismo, Foro It., 1990, V, 465. (34) Muovendo da questo inquadramento, è stato segnalato come anche le presunzioni semplici potrebbero esser considerate come prove legali perché per esse il legislatore impone i criteri di valutazione dell’inferenza che, come noto, sono riassunti nei tre requisiti della gravità, della precisione e della concordanza. Peraltro, assunto il modello della presunzione semplice e della presunzione legale come i due estremi tipologici, è possibile rinvenire “spazio anche per figure intermedie rispetto alle quali il giudice non si trova in una posizione di assoluto vincolo qual è quella che si verifica allorché sia introdotta una presunzione legale e, tuttavia, non è nemmeno tenuto ad osservare un livello di motivazione così rigoroso come quello che si è riscontrato per le presunzioni semplici.” Cfr. G. Fransoni, Sulle presunzioni legali nel diritto tributario, in Rass. Trib., 2010, 603. (35) È vero che nella maggior parte dei casi le presunzioni legali vincolano il giudice al riconoscimento di un’inferenza tra fatto noto e fatto ignoto, cioè obbligano il giudice a considerare valida l’inferenza; ma il discorso non cambia quando la legge impone al giudice di escludere l’inferenza di una data presunzione, dispensandolo altresì dalla necessità di motivare


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Si tratta allora, si perdoni il gioco di parole, di una regola di valutazione del fatto-valore (36) ai fini della dimostrazione dell’occultamento del corrispettivo, una regola che fissa il ruolo non sufficiente del differenziale valoreprezzo ai fini della dimostrazione del maggior corrispettivo (37). Generalmente, le limitazioni probatorie sono guardate con sospetto perché esse restringono il diritto alla prova e allontano il modello processuale dall’archetipo di giudizio volto all’accertamento della verità processuale quale prossima alla verità storica. È tuttavia chiaro che la limitazione probatoria posta dalla nuova disposizione non desta i problemi costituzionali che, viceversa, si potrebbero porre qualora tale limitazione operasse nel senso di restringere i mezzi probatori a disposizione del contribuente (38). Infatti, come è stato

in ordine alla non fondatezza del mezzo presuntivo. (36) Resta chiaro che il fatto-valore del bene oggetto dello scambio, in quanto assunto come fatto ignoto dal quale inferire l’occultamento del prezzo, deve esser oggetto di dimostrazione da parte dell’amministrazione finanziaria e tale valutazione, soprattutto con riferimento all’azienda, ha profili di indubbia complessità, come dimostra accuratamente G. Selicato, La rettifica induttiva del valore dell’avviamento tra formule matematiche, medie aritmetiche e inopportuna svalutazione della fase procedimentale, in Rass. Trib., 2011, 1585. (37) Vale però la pena evidenziare ancora che la disposizione lascia impregiudicato il ruolo “corroborante” del valore, il quale concorrendo con altri elementi conoscitivi potrebbe esser valutato dal giudice (o dall’amministrazione) come valida inferenza del corrispettivo occultato. Si veda, di recente, nella specifica prospettiva penale, ma estensibile anche ai processi e procedimenti tributari, M. Daniele, Regole di esclusione e regole di valutazione della prova, Torino, 2009, 121 individua le regole di corroborazione in quelle che “proibiscono al giudice … di ritenere accertato un fatto se non in presenza di altri elementi conoscitivi tali da confermare l’attendibilità della prova stigmatizzata dal legislatore” e, in termini adesivi, F.R. Dinacci, Regole di giudizio (Dir. proc. pen.), voce Digesto delle discipline penalistiche, Torino, X Agg., 2013. Del resto, dalle prime pronunce di Cassazione che hanno fatto applicazione della nuova disposizione risulta chiaro il ruolo non sufficiente, ma comunque corroborante, del valore normale. Si veda in particolare, Cass. civ. Sez. V, Sent., 30-03-2016, n. 6135 in cui la Suprema Corte, in presenza di una rettifica ai fini Irpef del reddito derivante da cessione di un terreno edificabile e che si fondava unicamente sul maggior valore dello stesso definito ai fini dell’imposta del registro, ha cassato la sentenza di secondo grado (che si era uniformata all’orientamento tralatizio oramai non più sostenibile) senza decidere nel merito la controversia, ma rinviandola al giudice di secondo per un “nuovo accertamento in ordine al quantum del prezzo di cessione percepito dalla contribuente per la verifica della sussistenza o meno di plusvalenza soggetta a tassazione ai sensi delle richiamate disposizioni del TUIR”. (38) Anzi, è stato osservato che “il riconoscimento di limiti all’utilizzazione delle presunzioni da parte dell’ente impositore non contrasta con i principi generali che regolano l’ordinamento tributario, anzi ne costituisce una diretta applicazione.” Cfr. S. Sammartino, Intervento, in Le presunzioni in materia tributaria, a cura di A.E. Granelli, Atti del Convegno Nazionale di Rimini del 22-23 febbraio 1985, 224. Per i problemi posti invece dalle limitazioni probatorie che gravano sul contribuente si veda G.M. Cipolla, La prova tra procedimento e


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evidenziato (39), le limitazioni legali alle modalità di assolvimento degli oneri probatori, pongono dei problemi di legittimità costituzionale in termini di parità delle armi e di tutela giurisdizionale effettiva, ed è scontato che tali valori non vengono in alcun modo compromessi quando le norme sono nel senso di limitare il ricorso ad un meccanismo presuntivo da parte dell’amministrazione finanziaria nell’esercizio del potere di accertamento. 6. Il significato “corroborante” del valore quale regola generale nella presunzione di occultamento del prezzo? – La lettura attenta della nuova disposizione però porta a ritenere che essa non possa esser considerata in termini di divieto generalizzato di utilizzo del fatto – valore come strumento volto alla dimostrazione di un occultamento del corrispettivo. Il divieto posto dalla presunzione attiene alla impossibilità di utilizzare il fatto-valore quale unico fatto noto dal quale inferire il fatto ignorato e perciò leggendo la disposizione al contrario, si può dire che il legislatore-interprete non abbia inteso escludere in assoluto l’utilizzo del fatto-valore in chiave di accertamento. La nuova disposizione vieta l’automatismo tra fatto-valore e maggior corrispettivo, ma non esclude che – assieme ad altre circostanze e ad altri fatti – il differenziale tra valore del bene e prezzo pattuito per il suo scambio possa legittimamente fondare un atto di accertamento. Se si considera che le presunzioni semplici devono comunque esser assistite dai noti requisiti della gravità, precisione e concordanza si potrebbe allora dire che la norma di interpretazione autentica costituisce una sorta di specificazione (ancorché in negativo) di questi in relazione ai casi in cui il fatto noto sia costituito dal valore. In questo senso la disposizione potrebbe aspirare ad assumere il ruolo di specificazione generale, nella materia dell’accertamento ai fini dell’imposizione sui redditi, del ruolo da riconoscersi al valore nell’ambito dei mezzi presuntivi utilizzati dall’amministrazione (40). Sull’assunzione di questa soluzione come generale dei rapporti tra valore e corrispettivo in sede di accertamento, gravano però da una parte il riferi-

processo tributario,Milano, 2005, 333 ss. (39) G.M. Cipolla, La prova cit., 606 ss. (40) Sottolinea inoltre la differenza logico-giuridica tra valore venale e valore definito ai fini dell’imposta del registro, M. Beghin Occultamento di plusvalenze: confusione tra valore venale e valore definito ai fini dell’imposta di registro, in Corr. Trib., 2011, 1296 ss. il quale evidenzia come il valore ai fini dell’imposta di registro potesse esser frutto di vicende procedimentali (ad es. adesione, condono, etc.).


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mento a specifiche norme del TUIR e dall’altra il riferimento espresso alle operazioni di cessione di immobili o di aziende. Entrambe le “limitazioni” però, non paiono impedire una lettura generale della interpretazione affermata nella disposizione. In primo luogo la lettura tassativa delle disposizioni oggetto di interpretazione lascerebbe emergere delle omissioni eccellenti che difficilmente potrebbero esser giustificate quali, ad esempio, la disposizioni in materia di plusvalenze all’interno del reddito di lavoro autonomo. In secondo luogo, considerando che la disposizione interviene sul lato della prova, non sembra razionale credere che la limitazione all’utilizzo dello strumento presuntivo (per dedurne gli occultamenti dei corrispettivi) sia valida solo in ipotesi di cessioni di immobili e di aziende: dal punto di vista probatorio queste fattispecie appaiono accomunabili a molte altre per le quali non si vede ragione di escludere l’applicazione della nuova limitazione legale alla modalità di assolvimento dell’onere probatorio. In definitiva, ponendosi nell’ottica del sistema generale di accertamento, appare evidente che confinare l’applicazione della limitazione probatoria alle sole ipotesi per cui essa è testualmente prevista, contribuirebbe ad alimentare la complessità in un quadro già frastagliato di tecniche di accertamento, più volte oggetto di critica (41). 7. L’applicazione temporale delle nuove disposizioni sul valore normale. – Alla luce dell’analisi svolta in precedenza si possono svolgere considerazioni in relazione alla efficacia temporale delle disposizioni, profilo che sempre rappresenta il principale aspetto problematico delle norme interpretative. Come si è visto, nonostante la frettolosità e l’imprecisione nella loro redazione, per entrambe le disposizioni è possibile individuare un effetto utile e, in entrambi i casi, sembra che questo effetto possa risultare favorevole per il contribuente. L’efficacia in bonam partem per la disposizione che pone una limitazione all’utilizzo da parte del fisco del valore normale ai fini dell’accertamento di

(41) Contribuisce cioè ad alimentare “l’inadeguatezza di un sistema di accertamento che appare utilizzare, a seconda delle tipologie di accertamento da effettuare o persino a seconda delle caratterizzazioni del reddito, moduli e tecniche di accertamento del fatto variabili, anziché enunciare, come avviene in altri ordinamenti (…), un solo sistema di accertamento del fatto, valevole per ogni accertamento da effettuare” così, S. Muleo, Contributo allo studio del sistema probatorio del procedimento di accertamento, Torino, 2000, 197.


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un maggiore corrispettivo ai fini delle imposte sui redditi può considerarsi piuttosto scontata, dal momento essa elimina un “alleggerimento” dell’onere probatorio in capo all’amministrazione finanziaria, riavvicinando il sistema al rispetto del generale principio di parità delle armi e di tassazione secondo effettiva capacità contributiva. Non pare invece scontato considerare quale interpretazione in bonam partem per il contribuente la disposizione di interpretazione autentica che sancisce la inapplicabilità del criterio del valore normale alle cessioni infragruppo interne (42). Essa, in effetti, formalmente esclude l’applicazione di una regola di valutazione (appunto il valore normale) di componenti del reddito di impresa che, di per sé, ha carattere neutro rispetto alla quantificazione della base imponibile del gruppo. Tuttavia, si è visto che la ricostruzione preferibile della disposizione interpretativa porta a collocarla nella più vasta strategia di perimetrazione e precisazione dei confini della figura dell’abuso del diritto, la cui applicazione da parte della giurisprudenza aveva destato allarme proprio in termini di certezza. Quindi, se è corretto considerare la disposizione di interpretazione autentica come norma che perimetra in negativo la figura dell’abuso del diritto, individuando una fattispecie che abuso del diritto non è, allora essa deve chiaramente esser considerata una disposizione in bonam partem per il contribuente. Questa precisazione sull’efficacia in bonam partem delle disposizioni è importante ai fini della valutazione sull’efficacia temporale delle disposizioni perché è noto che, nella specifica materia tributaria, lo strumento dell’interpretazione autentica – e in generale delle norme con il quale il legislatore impone all’interprete una rivalutazione di eventi precedentemente occorsi – ha sempre causato un certo disagio (43), tanto che si sono moltiplicati gli studi

(42) In astratto, la regola del valore normale per la traduzione in numerario delle componenti reddituali ha carattere neutrale in termini di determinazione del reddito di impresa; essa infatti è semplicemente una regola di valutazione delle componenti reddituali che derivano da fattispecie di scambio ed il risultato valutativo cui essa conduce – confrontato con quello prodotto dalla applicazione della regola del corrispettivo – potrebbe esser positivo o negativo per il contribuente. (43) Disagio alimentato dall’orientamento ormai del tutto prevalente della Corte Costituzionale volto alla svalutazione sia della struttura delle leggi interpretative, sia dei presupposti che legittimerebbero l’introduzione di disposizioni di tale genere. In sostanza, se non in rare sentenze che però si sono rivelati esser precedenti isolati (cfr. il celebre caso C.Cost. 155/90), la Corte Costituzionale non ritiene che la disposizione di interpretazione autentica debba necessariamente muovere da un’incertezza circa l’interpretazione di una disposizione già in vigore, né ritiene fondamentale distinguere – come invece prova a fare la letteratura – tra disposizione che contenga una vera interpretazione e disposizione pseudo-interpretativa, che


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volti alla individuazione di limiti all’applicazione retrospettiva della norma interpretativa. Ciò però non ha ragion d’essere nel caso specifico, perché nella letteratura e nella giurisprudenza di diritto tributario i limiti alla retroazione delle norme tributarie sono individuati in relazione alle norme che aggravano la posizione del singolo contribuente. Viceversa, l’applicazione di norme retroattive o interpretativo-retroattive in favore del contribuente, non pone problemi volti alla individuazione di limiti al retroagire delle stesse, quanto di estensione degli effetti di esse a situazioni che si sono svolte nel passato (44).

cioè imponga un significato che non è tra quelli ragionevolmente ascrivibili alla disposizione interpretata. Nell’approcciarsi ad una disposizione di interpretazione autentica diviene pertanto inutile sia chiedersi se vi fosse un’incertezza normativa che la disposizione intende appunto eliminare, sia se la disposizione sia genuinamente interpretativa nel senso che imponga uno dei possibili significati attribuibili alla disposizione. Si veda, con la consueta chiarezza, F. Tesauro, Limiti costituzionali delle leggi tributarie interpretative, in Corr. Trib. 24/2007, 1967, per una critica all’orientamento attuale della Corte di Costituzionale, anche sulla scorta di un’accurata analisi storica dei precedenti in materia di interpretazione autentica, V. Mastroiacovo, Esiste davvero la legge di interpretazione autentica?, in Riv. Dir. Trib., 2012, I, 511. Peraltro, come è stato acutamente evidenziato, G. Melis, Interpretazione autentica, retroattività e affidamento del contribuente: brevi riflessioni su talune recenti pronunce della Corte Costituzionale, in Rass. Trib, 872 ss. è proprio il rifiuto della Corte a sindacare, nell’ottica del controllo di costituzionalità, le disposizioni di interpretazione autentica in ragione delle loro caratteristiche strutturali a indurre la stessa Corte a individuare con sempre maggior precisione i limiti al retroagire di una disposizione e quindi valorizzare a tale fine l’affidamento del contribuente. Il controllo di costituzionalità delle disposizioni retroattive (o interpretative con effetto retroattivo) passa quindi attraverso un controllo di ragionevolezza e di confronto con principi quali l’indipendenza del potere giudiziario e, soprattutto, con la tutela dell’affidamento legittimo che il contribuente ha riposto nella precedente interpretazione, cfr. di recente L. De Pasquale, Interpretazione autentica e tutela del contribuente, in Rass. Trib. 2013, dove si propone un superamento della distinzione, pur elaborata dalla letteratura, e utilizzata talvolta in giurisprudenza, tra norma veramente interpretativa e norma pseudo-interpretativa. Su questa distinzione F. Amatucci, L’efficacia nel tempo della norma tributaria nel tempo, 29 ss.; Id., La corretta qualificazione dell’art. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973 alla luce della distinzione tra norme interpretative, vera retroattività ed incidenza dell’attività legislativa sulla funzione giurisdizionale, Rass. Trib., 2003, 1019. Peraltro, su questo quadro di diritto costituzionale, sembrano aver influito finora poco le metanorme dello Statuto dei diritti del contribuente che espressamente vietano in materia tributaria la retroattività e limitano la produzione di norme interpretative a “casi eccezionali”; a tal punto che è stato sostenuto che attraverso lo Statuto il legislatore si sia in realtà precostituito lo strumento – l’interpretazione autentica – per introdurre, più o meno liberamente, norme con effetti sul passato. Cfr. L. Castaldi, I vincoli statutari alla esegesi legislativa in materia tributaria, in Dir. Prat. Trib., 955-976. (44) Nelle (poche) occasioni in cui la Cassazione ha avuto modo di occuparsi della questione delle interpretazioni autentiche o delle norme retroattive che ridondano in bonam partem per il contribuente, la posizione dei giudici è stata piuttosto netta nel considerare che i limiti alla retroattività valgono solo nei confronti di quelle norme che retroattivamente


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A questo proposito, è opportuno sottolineare che entrambe le disposizioni sono suscettibili di imporre, anche per il passato, una rivalutazione delle vicende occorse che sembrano riguardare vicende sostanziali del prelievo (45). Ciò è piuttosto evidente per la disposizione in materia di prezzi di trasferimento che, come si è visto, al di là del chiarimento sulla impossibilità di interpretazione analogica dell’art. 110 c.7, esclude la legittimità del ricorso al valore normale per operazioni infragruppo interne, in chiave appunto di correzione dell’abuso del diritto. Per quanto riguarda le norme che regolano l’utilizzo di presunzioni legali in favore del fisco, la letteratura di diritto tributario ha ormai messo in evidenza come, soprattutto in relazione ai profili di applicazione temporale, le disposizioni che regolano le presunzioni in favore del fisco non possono esser considerate alla stregua delle altre disposizioni che regolano l’esercizio dell’azione dell’amministrazione, né possono esser lette in un’ottica eminentemente processuale come regole di giudizio. Esse, al contrario, partecipano della stes-

aggravano la posizione del contribuente o, di converso, alleggeriscono l’amministrazione nello svolgimento della propria attività, cfr. Cass., 21 aprile 2001, n. 5931 dove si legge che “il cosiddetto Statuto del contribuente è uno strumento di garanzia del contribuente e, quindi, mentre serve ad arginare il potere dell’Erario nei confronti del soggetto più debole del rapporto di imposta, non può ostacolare l’approvazione di disposizioni che siano a favore del contribuente, che si risolvono eventualmente in una ulteriore autolimitazione del potere legislativo (una sorta di “autotutela legislativa”) e nella giurisprudenza di merito cfr. Comm. trib. reg. di Roma, n. 159 del 5 marzo 2007. Anche prima della introduzione dello Statuto dei diritti dei contribuenti, comunque, si può dire che la giurisprudenza interna abbia dimostrato un atteggiamento propenso all’applicazione anche per il passato di disposizioni che accoglievano interpretazioni favorevoli al contribuente anche nei casi di disposizioni che – pur intervento su fattispecie già regolate da altre disposizioni – avevano chiaramente natura innovativa, cfr. per una rassegna delle decisioni in tale senso G.M. Cipolla, La giurisprudenza tributaria, le modifiche normative e le controversie in corso, in Rass. Trib. 1992, 410 ss. D’altra parte, anche la dottrina è del tutto concorde nel ritenere che il divieto di retroattività in materia tributaria si applichi solo per le norme retroattive in malam partem per il contribuente, cfr. G. Marongiu, Statuto dei diritti del contribuente, Voce del Dizionario di diritto pubblico – Vol. VI – Milano, 2006, F. Amatucci, L’efficacia nel tempo della norma tributari, 2005, 124-125. (45) È noto che la migliore dottrina ritiene la retroattività un’espressione “convenzionale” perché in effetti essa consiste in una rivalutazione di accadimenti che si sono svolti nel passato dal momento che nessun fenomeno naturale o umano “può avere la pretesa di agire prima di esistere, di operare in un tempo anteriore alla propria esistenza”, Quadri, Dell’applicazione della legge in generale, Commentario Scialoja – Branca, Bologna-Roma, 1974, 49. Per le varie teorie sulla retroattività degli atti normativi, con riferimento al diritto tributario, V. Mastroiacovo, I limiti alla retroattività nel diritto tributario, 2005, 61 ss.


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sa natura delle disposizioni sostanziali (46) perché, diversamente dalle disposizioni probatorie classiche, non servono come strumento di conoscenza, ma vengono utilizzate dall’a.f. cui si rivolgono come strumenti di fissazione del fatto in via generale e astratta (47). E lo stesso legislatore del Decreto internazionalizzazione ne pare esser tutto sommato consapevole dal momento che assume come referente normativo oggetto di interpretazione alcune disposizioni che sono apertamente sostanziali e che attengono alla determinazione del reddito. Benché ciò possa apparire un indice di confusione concettuale (48), nondimeno esso potrebbe esser considerato espressivo della consapevolezza (o forse dell’ammissione), da parte del legislatore, che la disposizione interpretativa introdotta, pur imponendo formalmente un divieto di utilizzo della presunzione, contenga in realtà una norma sostanziale o, quantomeno, vada ad impattare sull’ambito di applicazione di una norma sostanziale. È quindi evidente che, per entrambe le disposizioni di interpretazione autentica, non pare consigliabile fare riferimento alla tradizionale regola di diritto intertemporale del tempus regit actum cui si suole ricorrere tralatiziamente per le disposizioni eminentemente procedimentali e processuali (49). Viceversa, appare opportuno dare rilevanza al confezionamento della disposizione in termini di interpretazione autentica di una norma sostanziale. È possibile cioè affermare che il confezionamento della fattispecie in termini di interpretazione autentica, anche se non tecnicamente corretto, serva proprio a chiarire la volontà del legislatore di far retroagire le nuove disposizioni anche a vicende che si sono svolte nel passato.

(46) Celebre è la definizione delle norme sulle presunzioni legali quali norme “parasostanziali” espressa da G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2014, 80 ss. (47) Si veda G.M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 660 e ss. (48) È di questa opinione L. Castaldi, Plusvalenze immobiliari, accertamenti presuntivi, e disorientamenti interpretativi del legislatore delegato, in Corr. Trib. 4/2016, 284; l’Autrice evidenzia l’incoerenza del contenuto della norma interpretativa che opera sul piano dell’assolvimento degli oneri probatori e/o motivazionali rispetto al referente normativo interpretato costituito da disposizioni che operano su un piano sostanziale. (49) La regola tempus regit actum, anche nel settore del diritto processuale civile e del diritto processuale penale, sovente non viene ritenuta idonea a disciplinare i profili di applicazione intertemporale delle norme. Si veda, per il settore del diritto processuale civile, B. Capponi, L’applicazione nel tempo del diritto processuale civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994 e per il settore del diritto processuale penale, O. Mazza, La norma processuale penale nel tempo, in Trattato di Procedura penale, diretto da G. Ubertis e G. P. Voena, I, Milano, Milano, 1999.


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Si potrebbe cioè andare oltre l’applicazione di entrambe le norme ai processi pendenti, che dovrebbe ritenersi scontata (50); così come scontata deve considerarsi la applicazione delle disposizioni per gli atti da emettersi dopo l’entrata in vigore della disposizione (pur se riferiti a situazioni che si sono svolte nel passato) o che ancora sono suscettibili di impugnazione. Nell’impostazione che appare preferibile, per cui le regole di diritto intertemporale non possono esser fissate in maniera generale e definitiva, ma definite in ragione dei valori che vengono in gioco con l’applicazione di esse a vicende che si sono svolte nel passato (51), pare che nel caso concreto debba valorizzarsi, un generale principio di eguaglianza e di capacità contributiva (52). Se si accetta l’idea che il legislatore abbia inteso imporre un’interpretazione di norme ad effetti sostanziali favorevoli al contribuente, il rispetto del principio di eguaglianza imporrebbe che tutti coloro che, prima del chiarimento normativo, abbiano subito gli effetti dell’interpretazione esclusa dal legislatore, possano adesso far valere l’”errore interpretativo” (53) dell’amministrazione e, eventualmente, del giudice.

(50) Lo conferma anche una recentissima giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. civ. Sez. V, Sent., 30-03-2016, n. 6135 e più ancora di recente Cass. civ. Sez. V, Sent., 15-04-2016, n. 7488. (51) C’è un generale consenso nel ritenere che le due regole generali del factum praeteritum e del tempus regit actum, applicabili rispettivamente alle disposizioni di diritto sostanziale e alle disposizioni di diritto procedimentale e processuale, sono semplicistiche e indicano solo una direttiva, ma non specificano esattamente le vicende cui debba applicarsi la normativa che sopravviene oltre agli scritti citati alla nota precedente; vedi per il diritto tributario G. Fransoni, Sulle presunzioni legali cit., 617 e in senso analogo G.M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo, 628. Del resto, il dibattito sulla applicabilità delle presunzioni legali nel tempo si era rinfocolato nel settore del diritto tributario in occasione dell’estensione ai professioni della disposizione in materia di presunzioni bancarie: nella (seconda) ordinanza di rinvio alla Corte Costituzionale, uno dei profili di incostituzionalità sollevati era proprio in relazione alla retroazione della disposizione, ossia all’applicabilità nel tempo della stessa, cfr. A. Marcheselli Presunzioni bancarie e accertamenti dei professionisti, un «pasticciaccio brutto» tra illegittimità costituzionale e illecito comunitario dello Stato, in Dir. Prat. Trib. 2013, 20761 l’Autore, pur mantenendo ferma la natura processuale delle disposizioni in materia di presunzioni legali esprime dubbi sulla applicabilità di esse per la dimostrazione di eventi che si sono svolti nel passato. È noto che la Corte costituzionale (Corte Cost. n. 228/2014) non ha affrontato la questione – che veniva posta in maniera subordinata – ritenendo incostituzionale tout court la presunzione per i prelevamenti eseguiti dai professionisti. (52) L. Perrone, Certezza del diritto e leggi di interpretazione autentica in materia tributaria, in Rass. Trib., il quale notava come sia “curioso… che il legislatore dello Statuto vieti la retroattività tout court in tal modo coinvolgendo anche la retroattività cosiddetta favorevole che, ovviamente, non presenta gli stessi profili di illegittimità costituzionale che interessano la retroattività cosiddetta sfavorevole”, aggiungendo poi (in nota) che la retroattività favorevole “può al limite esser censurata sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza”. (53) La giurisprudenza della Corte Costituzionale è piuttosto severa nel censurare


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Sul punto è noto che il criterio tradizionale per individuare dei limiti alla retroattività di una disposizione favorevole al contribuente è quello dei rapporti esauriti e, in relazione a tale criterio, sono emersi dei segni insofferenza proprio in riferimento a situazioni in cui la definitività, quale limite al dispiegarsi retroattivo di una legge favorevole al contribuente, finisce per avere un effetto sostanzialmente discriminatorio. Si potrebbe quindi pensare all’introduzione di un criterio complesso – ad opera della amministrazione o della giurisprudenza – per individuare gli effetti favorevoli di una norma retroattiva in melius per il contribuente che completi il tradizionale riferimento ai rapporti definiti. Potrebbe esser considerata l’attivazione da parte dell’amministrazione di meccanismi di “autotutela” che evitino la realizzazione di un prelievo illegittimo, pur se fondato su un atto definitivo, e ipotizzare che la sopravvenuta illegittimità degli atti (sentenze o atti di imposizione non più passibili di contestazione) pur divenuti definitivi, precluda da un lato il rimborso delle somme versate in relazione ad essi da parte del contribuente, ma al contempo paralizzi la capacità degli stessi atti di fondare una realizzazione coattiva del credito tributario (54). Del resto, sembra del tutto scontato rilevare che, a seguito di un’interpretazione autentica favorevole per il contribuente, diversa da quella sulla quale si fonda l’atto, emerge automaticamente l’illegittimità dello stesso e, portare ad esecuzione un atto riconosciuto come illegittimo da parte del legislatore, non pare evenienza auspicabile.

quelle disposizioni interpretative favorevoli per il contribuente, ma che escludono il diritto di ripetizione per i contribuenti che si sono adeguati all’interpretazione (loro sfavorevole) che è stata poi espressamente esclusa dal legislatore. Cfr. Corte Cost. 330/2007 annotata da M. Basilavecchia, Leggi interpretative e divieto di restituzione dell’iva già pagata tra rimborso e detrazione, in Corr. Trib., 36/2007, 2925 ss., ma nello stesso senso già C. Cost. 421/1995, C.Cost. 417/2000 e C.Cost. 320/2005. In realtà è bene precisare che in tali sentenze la Corte Costituzionale ha sempre censurato quelle disposizioni che impedivano la restituzione di somme già pagate, discriminando così tra contribuenti che avevano proceduto al pagamento (sulla base di un’interpretazione errata, a loro sfavorevole) e coloro che invece non lo avevano fatto. Nel caso della disposizione del decreto internazionalizzazione, bisogna considerare che le interpretazioni rigettate non attengono alla applicazione spontanea del tributo, ma generalmente venivano poste a base di atti di imposizione da parte dell’amministrazione finanziaria. In questi casi l’elemento che potrebbe impedire l’applicazione della disposizione non è il pagamento del tributo che, in assenza di una espressa indicazione normativa, è circostanza neutra in relazione alla definitività del rapporto, cfr. M. Basilavecchia, La definitività di un rapporto tributario non può ancorarsi al pagamento dell’imposta, in GT - Riv. giur. Trib., 11/2005, 999. (54) In questo senso è pienamente condivisibile la proposta avanzata da M. Basilavecchia La definitività di un rapporto tributario non può ancorarsi al pagamento dell’imposta, in GT riv. Giur. Trib. 11/2005, 999 ss., nota 15.


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8. Riflessioni conclusive. – Le norme si interpretazione autentica introdotte in materia di valore normale nell’art. 5 del D.lgs. 147/15, non brillano certo per la tecnica di redazione normativa. Esse però, rapportate agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in materia di valore normale (sia come strumento di determinazione, sia come strumento di accertamento) lasciano trasparire l’intenzione del legislatore interprete di contrastare tali orientamenti, contrarii a quella che è la ratio delle disposizioni interpretate. Da questo punto di vista si può dire che esse rappresentino una forma di utilizzo dell’interpretazione autentica che storicamente si era già affermata e che forse potrebbe esser riaffermata come la funzione dell’interpretazione autentica che meglio coglie le implicazioni e le dinamiche legate all’utilizzo di questa tecnica normativa (55). Nel caso specifico poi, come si è cercato di dimostrare, entrambe le disposizioni interpretative producono degli effetti in bonam partem per il contribuente e, nell’elaborazione preferibile, finiscono per avere degli effetti sostanziali attinenti al prelievo tributario. Per esse quindi non si pongono i problemi di certezza del diritto e di affidamento del contribuente che la dottrina e la giurisprudenza costituzionale,i valorizza in chiave di limite all’effetto naturalmente retrospettivo delle disposizioni interpretative. Semmai viene in rilievo il principio di eguaglianza e, quindi, la necessità di evitare – per quanto possibile – discriminazioni tra contribuenti interessati da atti che si fondano sull’interpretazione normativa espressamente esclusa dal legislatore.

Giangiacomo D’Angelo

(55) È noto il riferimento nella letteratura che si è occupata di norme di interpretazione autentica alla famosa novella 143 alla Costituzione in cui l’Imperatore volle appunto ristabilire quello che era il significato originario della Costituzione 1,9,13 “de raptu virginum” sul quale vedi F. Degni, L’interpretazione della legge, 1909, II ed. 70 ss. e più di recente valorizza questo riferimento nella sua analisi storica sull’interpretazione autentica V. Mastroiacovo, Esiste davvero l’interpretazione autentica, cit. 515 ss. Più difficile sembra ipotizzare la possibilità di un’impugnazione tardiva invocando il c.d. errore scusabile, qualora sia già decorso il termine di impugnazione dell’atto: tecnica questa che è ipotizzata nel settore del diritto amministrativo proprio in relazione di illegittimità del provvedimento che sopravviene a seguito di interpretazione autentica. Cfr. R. Giovagnoli, M. Fratini, Le nuove regole dell’azione amministrativa al vaglio della giurisprudenza, Invalidità e autotutela, Tomo II, Milano, 2007, 123.


Il contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie: un principio generale senza disciplina di attuazione* Sommario: 1. Il contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie: definizione

generale e premessa sistematica. – 2. La “specificità” della disciplina tributaria in materia di contraddittorio endoprocedimentale. – 2.1. La genesi della questione. La l. 7.8.1990, n. 241 e il disallineamento degli istituti partecipativi tra la disciplina del procedimento tributario e quella del procedimento amministrativo. – 2.2. La materia tributaria: previsioni ad hoc e Statuto del Contribuente. – 3. Evoluzioni successive. – 3.1. Il riferimento delle garanzie del giusto processo alle indagini tributarie. L’assenza di una disciplina di attuazione del contraddittorio endoprocedimentale. – 3.2. Il diritto al contraddittorio nella normativa europea. L’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. – 3.3. (segue) I principi definiti dalla Corte di Giustizia nella materia tributaria. Assenza di una disciplina di attuazione del contraddittorio endoprocedimentale di matrice europea. – 3.4. Il dibattito nella giurisprudenza nazionale. Le principali pronunce e le questioni di fondo. Le SS.UU. 9.12.2015, n. 24823. – 4. L’inequivocabile esistenza di un diritto al contraddittorio del contribuente nella fase di indagine. La necessità di distinguere immanenza del principio e disciplina di attuazione. – 4.1. Diritto al contraddittorio e tributi armonizzati. L’assenza di una disciplina di attuazione. – 5. Considerazioni conclusive. Il necessario intervento legislativo per l’attuazione del contraddittorio endoprocedimentale nelle indagini tributarie. La complessa ed articolata storia del tema, le oscillazioni della giurisprudenza interna e le importanti evoluzioni in ambito internazionale ed europeo sono elementi che rendono centrale, attualmente, una riflessione sulla strada per l’affermazione del diritto al contraddittorio nella fase delle indagini tributarie. La situazione che si è venuta a determinare nell’ordinamento interno, attraverso la confluenza dei sopra indicati elementi, registra l’immanenza del principio generale in assenza di una disciplina di attuazione, che ne renda possibile una applicazione generalizzata a tutti i procedimenti tributari di indagine. In questo scenario risulta improrogabile l’intervento del legislatore, che definisca tale disciplina. The complex and articulated historical development of the theme, the fluctuations in domestic jurisprudence and the important revolutions in international and European level

* Lavoro sottoposto a revisione esterna.


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are elements that in this moment make central the reflection on the necessary way for the affirmation of the right of defense at the end of tax investigations. The situation that has been determined in the domestic system, through the confluence of the above items recorded the immanence of the general principle in the absence of an enforcement regime, which makes possible a generalized applications to all tax investigation procedures. In this scenario it is urgent intervention of the legislator that defines this discipline.

1. Il contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie: definizione generale e premessa sistematica. – Nell’attuale sistema tributario, sempre più improntato alla collaborazione ed alla compliance tra Fisco e contribuente (1), rimane una inspiegabile grande lacuna: la disciplina del contraddittorio pre-contenzioso in sede di indagini. È un tema che storicamente ha avuto una evoluzione complessa ed articolata ed ancora oggi, di riflesso, non riesce a trovare una sistemazione coerente ed appagante nel sistema giuridico interno (2), stimolando costantemente un

(1) Si vedano le riflessioni di A. Fantozzi, Introduzione. Le recenti evoluzioni del diritto tributario sostanziale e formale, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, Milano, 2012, 11. (2) Il tema del contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie è stato oggetto di importanti riflessioni e contributi della dottrina tributaria, che negli ultimi quarant’anni si è occupata frequentemente del tema, auspicando sempre ad un riconoscimento positivo dell’istituto. In tale senso, prima dell’entrata in vigore della l. 7.8.1990, n. 241, F. Moschetti, Avviso di accertamento tributario e garanzia del cittadino, in Dir. e prat. trib., 1983, I, 1918; F. Gallo, Accertamento e garanzie del contribuente: prospettive di riforma, in Dir. e prat. trib., 1990, I, 66. Successivamente, L. Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento tributario, Padova, 1990; Id., La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo statuto del contribuente ed oltre), in Riv. dir. trib., 2001, I, 3; A. Fantozzi, L’accertamento, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 541; Id., Violazione del contraddittorio ed invalidità degli atti tributari, in Riv. dir. trib., 2011, I, 142; G. Marongiu, Accertamenti e contraddittorio tra Statuto dei contribuente e principi di costituzionalità, in Corr. trib., 2011, 474; Id., La necessità del contraddittorio nelle verifiche fiscali tutela il contribuente, in Corr. trib., 2010, 3051; Id., Contribuente più tutelato nell’interazione con il fisco anche prima dell’avviso di accertamento, in Corr. trib., 2011, 1719; F. Picciaredda, Il contraddittorio anticipato nella fase procedimentale, in Studi in onore di G. Marongiu, a cura di A. Bodrito, A. Contrino e A. Marcheselli, Torino, 2012, 397; S. Muleo, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000; A. Viotto, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002, 35; A. Marcheselli, Accertamenti tributari e difesa del contribuente, Milano, 2010, 19; G. Ragucci, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009; F. Tundo, Procedimento tributario e difesa del contribuente, Milano, 2013; Id., La partecipazione del contribuente alla verifica tributaria, Padova, 2012; E.A. La


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dibattito giurisprudenziale, costituito da importanti passi in avanti e violente battute d’arresto. Siamo, però, giunti ad un momento in cui il riconoscimento di una disciplina nazionale sul tema non è più un auspicio, ma costituisce un passaggio imposto da principi e norme, europee ed internazionali, che hanno forza giuridica vincolante nel sistema giuridico domestico. In tale assetto, già da tempo, la questione generale – oggetto di dibattiti e riflessioni – non è più quella relativa all’opportunità di un riconoscimento positivo del diritto al contraddittorio in sede di indagini, ma – differentemente – verte sulla possibilità di rinvenire una disciplina in tal senso nelle maglie del sistema tributario, senza un intervento espresso del legislatore (3). All’interno di questo quadro, una recente pronuncia delle Sezioni Unite ha definito dei principi generali sul tema, che è necessario analizzare alla luce della evoluzione storica, dei dibattiti della giurisprudenza e della disciplina attuale (4). Risulta, infatti, fondamentale effettuare una riflessione sistematica che individui la strada necessaria per l’affermazione di una disciplina generale del contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie. Tale riflessione si deve avviare dall’inizio di tutta la questione, la l. 7.8.1990, n. 241, che costituisce la genesi di un disallineamento normativo della disciplina tributaria rispetto a quella del procedimento amministrativo, mai più recuperato sul terreno del diritto positivo. È poi necessaria una breve analisi della disciplina internazionale ed europea e delle diverse posizioni della giurisprudenza nazionale. Anticipando parte delle conclusioni cui si giungerà, si ritiene che sia necessario un intervento del legislatore che predisponga una disciplina di attua-

Scala, Il silenzio dell’amministrazione finanziaria, Torino, 2012, 60; M.C. Pierro, Il dovere di informazione dell’amministrazione finanziaria, Torino, 2013, 163; R. Miceli, La partecipazione del contribuente alla fase istruttoria, in Fedele A. e Fantozzi A. (a cura di), Lo statuto dei diritti del contribuente, Milano, 2005, 473; Id., Il diritto al contraddittorio nella fase istruttoria, in Riv. dir. trib., 2001, II, 37; D. Mazzagreco, I limiti all’attività impositiva nello Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2011, 55; L. Strianese, La tax compliance nell’attività conoscitiva dell’amministrazione finanziaria, Roma, 2014, 143. (3) In particolare, su tali aspetti e sulle pronunce della giurisprudenza finalizzate a rinvenire una disciplina per colmare il vuoto lasciato dai silenzi del legislatore, C. Scalinci, Lo Statuto e l’“auretta” dei principi che …. Incomincia a sussurrar: il contraddittorio preventivo per una tutela effettiva e un giusto procedimento partecipato, in Riv. dir. trib., 2014, 883. (4) Si tratta della pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite 9.12.2015, n. 24823.


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zione del diritto al contraddittorio nella fase istruttoria, in quanto il quadro normativo non offre la possibilità di rinvenire una regolamentazione in tal senso, che possa costituire un paradigma generale per gli organi deputati alle indagini tributarie. Il riconoscimento di una disciplina di attuazione del diritto al contraddittorio nelle indagini tributarie è, infatti, un passaggio fondamentale per il nostro ordinamento giuridico, che deve essere definito in via legislativa per una serie di ragioni che saranno messe in luce nel corso della presente riflessione. Prima di avviare tale riflessione, un’altra questione appare fondamentale nell’analisi del tema. Si tratta della definizione di contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie. Chiarire cosa si intenda per contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie è, infatti, una parte fondamentale della questione, in quanto – a molti livelli – la nozione è stata confusa e sovrapposta con quelle relative a forme di partecipazione collaborativa o agli istituti partecipativi finalizzati alla definizione della pretesa tributaria; tale sovrapposizione ha portato spesso a ritenere esistente una disciplina generale del contraddittorio pre-contenzioso nel nostro sistema giuridico, pur in assenza di una previsione specifica. Quella di contraddittorio pre-contenzioso è, invece, una nozione autonoma e una fase ben distinta dal resto del procedimento di indagine e di accertamento. La fase di contraddittorio pre-contenzioso si esplica nella possibilità in capo al contribuente di intervenire, al termine dell’istruttoria e prima dell’emissione di un atto impositivo, al fine di difendersi, presentando memorie o documenti. Secondo le ricostruzioni della dottrina, tale fase di contraddittorio si dovrebbe caratterizzare per alcuni elementi indefettibili, attinenti: al momento di espletamento, alla posizione giuridica del contribuente e dell’organo procedente, alle conseguenze della partecipazione o della mancata partecipazione (5).

(5) La definizione della fase di contraddittorio endo-procedimentale è sostanzialmente ricavata dal diritto amministrativo e dalla disciplina contenuta nella l. 7.8.1990, n. 241. In tal senso, A. Fantozzi, Violazione del contraddittorio ed invalidità degli atti tributari, cit., 142; L. Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento tributario, cit., 35; Id., La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo statuto del contribuente ed oltre), cit., 3; F. Picciaredda, Il contraddittorio anticipato nella fase procedimentale, cit., 399; R. Miceli, La partecipazione del contribuente alla fase istruttoria, cit., 47; E.A. La Scala, Il silenzio dell’amministrazione finanziaria, cit., 60. Sul punto G. Ragucci, Il contraddittorio


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La fase di contraddittorio pre-contenzioso si deve svolgere al termine dell’istruttoria quando l’organo procedente ha già acquisito tutti gli elementi e si è già formato un convincimento: soltanto in ordine alla totalità dei dati raccolti, il contribuente può presentare le sue difese (6). Il contribuente può difendersi o può decidere di non partecipare. Nel primo caso l’organo procedente dovrà tener contro delle difese per l’emissione dell’atto finale, motivando espressamente anche in ordine a tali ragioni; nel secondo caso non sorgeranno conseguenze o preclusioni di sorta sulla posizione procedimentale e processuale del contribuente. Si riconosce, conseguentemente, un diritto del contribuente ad essere convocato ed a presentare gli elementi a sua difesa ed un dovere dell’Amministrazione di invitare il contribuente e di valutare le sue difese, ove depositate. La fase di contraddittorio pre-contenzioso si distingue dagli istituti di partecipazione collaborativa che invece, servendo all’acquisizione di dati o notizie, si espletano nel corso di svolgimento dell’istruttoria e possono generare preclusioni e conseguenze giuridiche in capo al contribuente (7). La medesima fase si differenzia dagli istituti partecipativi finalizzati alla definizione della pretesa tributaria (quali, ad esempio, l’accertamento con adesione), che pur basandosi su un confronto con il contribuente perseguono l’obiettivo principale di addivenire ad una definizione della pretesa tributaria in casi in cui il contribuente stesso ammetta parte delle violazioni effettuate.

nei procedimenti tributari, cit., 155, sottolinea come attualmente sia possibile una concezione unitaria della partecipazione del contribuente ai procedimenti tributari, superando la dicotomia tra partecipazione “collaborativa” e “difensiva”, attraverso una valorizzazione del comune fine cui tali istituti tendono (vale a dire l’attuazione del giusto tributo). Cfr. F. Tundo, Procedimento tributario e difesa del contribuente, cit., 12 e ss., il quale ritiene, invece, debba essere riconosciuta una facoltà del contribuente a partecipare a tutto l’iter istruttorio, secondo forme e modalità differenti. L’amministrazione dovrebbe dare conto di tutti gli elementi informativi a pena di nullità del proprio operato. L’Autore individua tre modalità di partecipazione: conoscitiva, collaborativa, difensiva. (6) Cfr., sul tema, G. Fransoni, L’art. 12, uc dello Statuto e il tally-ho, in Rass. trib., 2014, 607, il quale evidenzia il ruolo fondamentale dell’atto istruttorio conclusivo delle indagini, quale elemento centrale per l’attuazione del contraddittorio. Secondo l’Autore, la disciplina dell’obbligo del contraddittorio dovrebbe prevedere che al termine dell’attività istruttoria si dia inizio alla “fase” di contraddittorio il cui primo elemento è appunto un atto che non solo e non tanto è conclusivo delle operazioni istruttorie, ma innanzi tutto deve essere riassuntivo della posizione dell’ente impositore rispetto ai dati raccolti nella fase precedente. (7) In merito a tale distinzione, R. Miceli, L’attività istruttoria tributaria, in Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 634; 640.


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La fase di contraddittorio endo-procedimentale costituisce, in questo modo, una esplicazione del diritto di difesa del contribuente al fine principale, come si dimostrerà, di perseguire l’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa. La suddetta fase di contraddittorio si distingue anche dal tema generale della partecipazione al procedimento di indagine, di cui ne costituisce soltanto una delle fattispecie di possibile esplicazione. La partecipazione al procedimento di indagine può essere favorita sin dall’avvio della fase istruttoria, consentendo al contribuente di interlocuire con gli organi investigativi attraverso la presentazione di documenti ovvero la resa spontanea di dichiarazioni da mettere a verbale, di cui gli organi stessi dovranno tener conto nella definizione della pretesa impositiva (oggetto – al suo termine – della fase di contraddittorio endoprocedimentale). La garanzia di una partecipazione in tali termini definisce (a nostro avviso) un’altra struttura del procedimento tributario, che si caratterizza per la comunicazione dell’avvio di procedimento e per la conoscenza da parte del contribuente di ogni fase di acquisizione delle prove. Si tratta di un modello molto differente da quello attuale, il cui recepimento passa (a nostro avviso) da cambiamenti consistenti non solo a livello normativo, ma soprattutto a livello culturale, vale a dire sul modo di intendere l’istruttoria tributaria. Una struttura di procedimento di tale tipologia, infatti, potrà essere ipotizzata soltanto dopo che la fase istruttoria tributaria avrà recepito tutti gli istituti partecipativi, come regolati dalla l. n. 241/1990 e di seguito analizzati. Allo stato attuale, pertanto, si riflette principalmente sulla effettiva attuazione di una fase di contraddittorio difensivo (come sopra definita), che costituisce il primo passaggio necessario verso una istruttoria più efficace ed imparziale. 2. La “specificità” della disciplina tributaria in materia di contraddittorio endoprocedimentale. 2.1. La genesi della questione. La l. 7.8.1990, n. 241 e il disallineamento degli istituti partecipativi tra la disciplina del procedimento tributario e quella del procedimento amministrativo. La questione del riconoscimento del diritto al contraddittorio nelle indagini tributarie è nata ufficialmente con la l. n. 241/1990 (legge generale sul procedimento amministrativo), nell’ambito della quale sono stati regolati gli istituti partecipativi in funzione difensiva all’interno del procedimento amministrativo.


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In tale legge, la partecipazione difensiva al procedimento si è espressa attraverso tre istituti (per l’appunto, partecipativi), quali: la comunicazione di un avvio di procedimento ai destinatari (del procedimento); la previsione di una fase di partecipazione difensiva nell’ambito della quale il destinatario del procedimento può presentare memorie o documenti a sostegno della propria posizione, che saranno analizzati dall’organo procedente; il diritto di accesso agli atti endo-procedimentali. Le prerogative, oggetto di tali istituti, sono state ab origine negate nel procedimento tributario; da ciò si è generato un disallineamento tra la disciplina del procedimento amministrativo e quella del procedimento tributario in tema di contraddittorio endoprocedimentale, giustificato, da un lato, dalla peculiarità e specificità della materia (8) e, dall’altro, dalla necessità di effettuare una istruttoria senza “scoprire le carte” prima dell’eventuale sede processuale, al fine di disincentivare gli evasori da ogni possibile contestazione. All’espressa esclusione dalla disciplina generale sulla partecipazione è seguita una normativa specifica in materia tributaria, improntata ad una certa rigidità e chiusura; tale percorso è risultato molto conservativo, soprattutto se confrontato con quanto, contestualmente, è stato realizzato nell’ultimo ven-

(8) Da sempre si è ritenuto che in ambito tributario non fosse utilizzabile la nozione tradizionale di procedimento amministrativo, in quanto inidonea a comprendere l’essenza dell’attività dell’Amministrazione finanziaria. Il procedimento tributario presenta, infatti, differenze sostanziali rispetto al procedimento amministrativo quali, in particolare, l’assenza di una sequenza prestabilita di atti (vale a dire di un rapporto di conseguenzialità – pregiudizialità tra i diversi atti), la mancanza di esercizio di discrezionalità amministrativa (in quanto la funzione impositiva è di tipo vincolato), l’assenza di un atto finale necessario. In questo senso, si è inteso recepire la nozione di procedimento in “modo improprio” o atecnico, quale modulo (formale) di organizzazione dello svolgimento dell’attività e non anche quale modello sostanziale di collegamento e di pregiudizialità di atti endoprocedimentali, finalizzati all’emissione di un provvedimento finale. Cfr. A.D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, 291; G.A. Micheli, Studi sul procedimento amministrativo tributario, Milano, 1971, 85; A. Fedele, A proposito di una recente raccolta di saggi sul procedimento amministrativo tributario, in Riv. dir. fin., 1971, I, 433; G. Falsitta, Struttura della fattispecie dell’accertamento nelle imposte riscosse mediante ruoli, in AA.VV., Studi sul procedimento amministrativo tributario, Milano, 1971, 85; L. Perrone, Evoluzione e prospettive dell’accertamento tributario, in Riv. dir. fin., 1982, I, 79; A. Fantozzi, I rapporti fra il fisco e il contribuente nella nuova prospettiva dell’accertamento tributario, 1982, I, 216; G. Vanz, Controlli amministrativi (dir. trib) e L. Salvini, Procedimento amministrativo (dir. trib.), entrambi in Dizionario di diritto pubblico, a cura di Cassese S., Roma, 2006, 1438 e 4531. Le riflessioni in esame sono state effettuate, storicamente, in relazione al procedimento di accertamento, ma si ritiene oggi possano essere pienamente riferibili alla fase istruttoria tributaria.


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tennio nel procedimento amministrativo, che si è evoluto in senso democratico-partecipativo. Nella materia tributaria, inoltre, i tre istituti partecipativi (avvio di procedimento, fase difensiva e diritto di accesso) hanno avuto evoluzioni differenti in ordine alla loro previsione ed utilizzazione. In tal senso, infatti, mentre la fase difensiva è oggi alle soglie di un riconoscimento generale, la comunicazione dell’avvio di procedimento (9) e il diritto di accesso (10) continuano a non avere uno spazio ed una disciplina positiva espressa nella fase di indagine. Tale aspetto lascia supporre che, anche dopo la generalizzazione del diritto al contraddittorio nella fase istruttoria, sarà necessario, al fine di garantire

(9) L’esclusione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio di procedimento discende dall’art. 13 della l. n. 241/1990. In ambito tributario, l’unica disposizione che prevede un obbligo in tal senso è quella introdotta dall’art. 12, comma 2, dello Statuto dei diritti del contribuente (l. 27.7.2000, n. 212), ove si ammette che quando viene iniziata la verifica presso il luogo in cui si svolge l’attività economica del contribuente, quest’ultimo ha diritto di essere informato delle ragioni che la hanno giustificata e dell’oggetto che la riguarda, dei diritti e degli obblighi di cui lo stesso gode in sede di verifica nonché della possibilità di farsi assistere (nel corso della verifica stessa) da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria. Anche tale disposizione mostra un contenuto circoscritto ad una specifica ipotesi di indagine e non è estendibile in via interpretativa. Cfr., sulla comunicazione dell’avvio di procedimento, A. Marcheselli, Accertamenti tributari e difesa del contribuente, cit., 37. Il tema oggi confluisce nel dovere di informazione dell’Amministrazione finanziaria nel corso del procedimento, cfr., su tale argomento, M. Pierro, Il dovere di informazione dell’amministrazione finanziaria, cit., 37 e ss.; D. Mazzagreco, I limiti all’attività impositiva nello Statuto del contribuente, cit., 84. (10) Il diritto d’accesso è regolato dall’art. 22, l. n. 241/1990. Il 6° comma di tale articolo stabiliva che non era ammesso l’accesso agli atti preparatori nel corso della formazione dei provvedimenti di cui all’art. 13, salvo diverse disposizioni di legge. La modifica normativa dell’art. 22, ad opera della l. n. 15/2005, ha realizzato un riconoscimento generale del diritto di accesso, affermando la sua natura di principio del diritto amministrativo, finalizzato a garantire partecipazione, trasparenza ed imparzialità, ma ha mantenuto l’esclusione del procedimento tributario. Allo stesso tempo il diritto di accesso agli atti del procedimento non ha mai avuto un espresso riconoscimento nell’ambito delle indagini tributarie e lo Statuto del contribuente non ha regolato tale diritto, pur avendo ribadito e fissato numerosi principi affini, quali quello della trasparenza dell’attività amministrativa, dell’onere dell’organo procedente di assicurare un’effettiva conoscenza degli atti diretti al contribuente, di informazione e di pubblicità degli atti amministrativi generali. Sul tema, a favore dell’accesso agli atti del procedimento tributario, L. Salvini, Accesso agli atti del procedimento tributario, in Trattato di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, Roma, 2006, 66; S. La Rosa, Accesso agli atti dispositivi di verifiche fiscali e tutela del diritto alla riservatezza, in Riv. dir. trib., 1996, II, 1109; A. Voglino, Osservazioni critiche sul prevalente orientamento giurisprudenziale in tema di accesso ai documenti dei procedimenti tributari di accertamento, in Boll. trib., 1996, 395.


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trasparenza nel procedimento tributario di indagine, attuare un percorso analogo in relazione agli altri istituti difensivi. La disciplina amministrativa degli istituti partecipativi non è quindi – ad oggi – riferibile alla materia tributaria; in tal modo si evidenzia, su questo tema, la specialità della normativa tributaria rispetto a quella generale del procedimento amministrativo, recata nella l. n. 241/1990 (11). 2.2. La materia tributaria: previsioni ad hoc e Statuto del Contribuente. – In materia di contraddittorio endoprocedimentale, la disciplina tributaria ha, quindi, realizzato un percorso autonomo rispetto al diritto amministrativo ed alle previsioni della l. n. 241/1990. Fino agli anni’ 80 del secolo scorso, non sono state previste ipotesi di partecipazione difensiva nell’ambito della fase istruttoria; a partire da questo momento sono state introdotte alcune fattispecie riconducibili a tale tipologia di partecipazione, connesse ad ipotesi di accertamenti presuntivi o parametrici,

(11) In linea generale si ritiene che i principi del procedimento amministrativo siano applicabili al procedimento tributario soltanto ove non esclusi (come per gli istituti partecipativi) ed ove compatibili. Si evidenzia che i rapporti tra il procedimento tributario e la l. n. 241/1990 sono stati ricostruiti in diverso modo dalla dottrina. Sin dall’entrata in vigore della l. n. 241/1990, si è posta la questione generale, relativa all’applicabilità dei principi e delle norme previste in quest’ultima legge alla materia tributaria (soprattutto in considerazione delle specifiche esclusioni relative agli istituti partecipativi). Sul punto si sono registrate posizioni differenti. Si è ammessa la diretta applicabilità della l. n. 241/1990, con l’unica eccezione delle esclusioni specifiche (cfr. L. Salvini, La partecipazione del privato alla accertamento (nelle imposte sul reddito e nell’IVA), cit., 28; P. Selicato, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, 374; P. Piantavigna, Osservazioni sul “procedimento tributario” dopo la riforma della legge sul procedimento amministrativo, in Riv. dir. fin., 2007, 87. In questo senso si è orientata anche la giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass. 23.1.2006, n. 1236; Cass. 5.11.2004, n. 21209; Cass. 28.10.2003, n. 16161). Si è ritenuto che l’azione tributaria amministrativa sia riconducibile al genus dell’azione amministrativa generale, anche sulla spinta dello Statuto del contribuente (l. n. 212/2000) e delle evoluzioni europee in materia di principi generali dell’attività amministrativa (cfr. L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Milano, 2010, 88). In direzione opposta, si è affermata l’assoluta estraneità del procedimento tributario rispetto ai principi della l. n. 241/1990 (cfr. S. La Rosa, Il giusto procedimento tributario, in Giur. imp., 2004, 763; A. Comelli, Sulla non condivisibile tesi secondo cui l’accertamento tributario si identifica sempre con un procedimento amministrativo (speciale), in Dir. e prat. trib., 2006, 731). Si sono sostenute, infine, posizioni intermedie, volte ad ammettere la necessità di valutare, di volta in volta, l’applicabilità delle disposizioni contenute nella l. n. 241/1990 alla materia tributaria (cfr. L. Perrone, Riflessioni sul procedimento tributario, in Rass. trib., 2009, 43; S. Muleo, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, cit., 40).


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in merito ai quali la conoscenza preventiva delle osservazioni del contribuente garantiva un miglior esercizio della funzione impositiva (12). Gradualmente sono state poi previste altre ipotesi di contraddittorio endoprocedimentale (13). In questo contesto, lo Statuto dei diritti del contribuente (l. 27.7.2000, n. 212), quale testo normativo nato anche con l’obiettivo di migliorare i rapporti Amministrazione finanziaria-contribuente, sarebbe stata la migliore occasione per regolare in via generale gli istituti partecipativi durante le indagini tributarie, prevedendo, in particolare, una fase obbligatoria di contraddittorio precontenzioso al termine dell’istruttoria. Il testo normativo in esame, invece, ha affermato importanti principi generali in materia di attività amministrativa tributaria (cooperazione, collaborazione, trasparenza), ma nulla ha disposto sul contraddittorio, limitandosi a prevedere una fattispecie specifica (di contraddittorio endoprocedimentale) nel corso delle indagini svolte presso l’attività economica del contribuente. Si tratta del noto art. 12, comma 7, dello Statuto, che ha stabilito, in relazione alle verifiche presso il luogo in cui si svolge l’attività economica del contribuente, che dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo il contribuente possa comunicare, entro 60 giorni, osservazioni e richieste, che sono valutate dagli uffici impositori. Sancisce, inoltre, che l’avviso di accertamento non può essere emanato prima di questo termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza (14).

(12) La prima espressione di partecipazione difensiva è stata attuata con la richiesta di chiarimenti, collegata agli accertamenti presuntivi, applicabili ai piccoli imprenditori (art. 2, comma 29, l. n. 17/1985). La richiesta di chiarimenti era inviata ai contribuenti prima dell’emissione dell’atto di accertamento (effettuato seguendo una determinata metodologia presuntiva) e comportava la possibilità per i contribuenti stessi di difendersi. Il mancato invio della richiesta rendeva nullo l’avviso di accertamento. Questa è rimasta per tempo l’unica forma di partecipazione – contraddittorio applicabile al procedimento tributario. Cfr., su tale argomento, L. Salvini, La richiesta di chiarimenti nella cosiddetta Visentini ter (art. 2, comma 29, l. 17.2.1985, n. 17), in Rass. trib., 1987, 353. (13) In particolare, sono state previste forme di contraddittorio endoprocedimentale: nell’ambito dell’accertamento antielusivo nelle imposte sui redditi ex art. 37 bis del DPR n. 600/1973; nelle verifiche presso l’attività economica del contribuente ex art. 12, comma 7, dello Statuto dei diritti del contribuente (l. n. 212/2000); nel controllo formale della dichiarazione ex art. 6 comma 5, sempre dello Statuto (l. n. 212/2000). Cfr. F. Picciaredda, Il contraddittorio anticipato nella fase procedimentale, cit., 402. (14) Sulla fisionomia di tale fase di partecipazione sono state sostenute diverse


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Si ritiene, come prima evidenziato, che la disposizione introduca una indubbia ipotesi di contraddittorio endoprocedimentale nella fase istruttoria; tale aspetto è chiaro da alcuni elementi: il momento della partecipazione (conclusione della verifica presso il contribuente), l’obbligo di analizzare le risultanze dell’istruttoria da parte della Amministrazione e l’assenza di conseguenze in capo al contribuente, in caso di mancata collaborazione. In un momento successivo, sono state introdotte altre fattispecie di contraddittorio endoprocedimentale, nell’ambito dei procedimenti di accertamento effettuati con metodo sintetico o sulla base degli studi di settore, tutte essenzialmente collegate a verifiche di tipo presuntivo ed alla necessità di evitare atti manifestatamente illegittimi o infondati. Tali previsioni sono sempre state episodiche e settoriali. In questo scenario si è definito il dibattito oggetto dei contrasti di questi ultimi anni, ove si sono registrate le evoluzioni della giurisprudenza internazionale, della normativa europea, i contrasti nazionali. 3. Evoluzioni successive. 3.1. Il riferimento delle garanzie del giusto processo alle indagini tributarie. L’assenza di una disciplina di attuazione del contraddittorio endoprocedimentale. – È noto come, sin dall’entrata in vigore della CEDU (Convenzione europea dei diritti dell’Uomo), i giudici della Corte di Strasburgo (Corte europea dei diritti dell’uomo, C.edu.) abbiano ritenuto l’art. 6, contenente le garanzie del “giusto processo”, norma non applicabile alle liti tributarie (15), in

ricostruzioni. Cfr. P. Russo, Le conseguenze del mancato rispetto del termine di cui all’art. 12, ultimo comma della l. n. 212/2000, in Riv. dir. trib., 2011, I, 1082; G. Fransoni, L’art. 12, uc dello Statuto e il tally-ho, cit., 594; A. Viotto, I poteri di indagine dell’Amministrazione finanziaria, cit., 323; F. Tundo, La partecipazione del contribuente alla verifica tributaria., cit., 15; D. Mazzagreco, I limiti all’attività impositiva nello Statuto del contribuente, cit., 176; L. Strianese, La tax compliance nell’attività conoscitiva dell’amministrazione finanziaria, cit., 43. (15) Testualmente l’art. 6 (Diritto ad un processo equo) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali stabilisce: “Ogni persona ha diritto a che la causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti”. Specificamente, sul contenuto di tale articolo, cfr. F. Gallo, Verso un “giusto processo” tributario, in Rass. trib., 2003, 11; P. Russo, Il giusto processo tributario, in Rass. trib., 2004, 11; F. Tesauro, Giusto processo e processo tributario, in


quanto il disposto di tale articolo si riferiva soltanto alle controversie sui “diritti e doveri di carattere civile” o “sulla fondatezza di un’accusa penale” (16). Si tratta di una posizione ampiamente criticata e ritenuta superabile dalla totalità della dottrina, ma comunque ad oggi non ancora formalmente rivista dalla Corte europea. In tale assetto si è assistito ad un paradosso giuridico. Le garanzie del giusto processo – non riconosciute al processo tributario – sono state però riferite al procedimento tributario di indagine, in quanto connotato da una fisiologica compressione dei diritti dei contribuenti. Il procedimento tributario di indagine è stato equiparato ad un processo penale e, quindi, ritenuto sussumibile all’interno della categoria delle controversie “sulla fondatezza di un’accusa penale” cui devono essere riferite le garanzie del giusto processo e, in particolare, il diritto al contraddittorio (17). Il principio in esame deve, conseguentemente, essere attuato anche nei procedimenti tributari nazionali, in virtù della piena applicazione che i principi della CEDU devono ricevere nel nostro ordinamento giuridico. I principi generali in materia di giusto processo non sono però direttamente applicabili in relazione alla disciplina specifica negli stessi contenuta; possono costituire il presupposto per ricorsi alla C.edu., al fine di ottenere dei

Rass. trib., 2006, 11; L. Perrone, Diritto tributario e convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Rass. trib., 2007, 675; A. Fantozzi, Nuove forme di tutela delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali: la prospettiva tributaria, in Riv. dir. trib., 2004, I, 3; R. Miceli, Giusto processo tributario: un nuovo passo indietro della giurisprudenza di legittimità!, in Riv. dir. trib., 2004, II, 759; L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, cit., 64. (16) In particolare, Corte Europea dei diritti dell’uomo 9.12.1994, n. 19005/91 e n. 19006/91 (caso Schouten e Meldrum) e Corte Europea dei diritti dell’uomo, Ad. Plen., n. 44759/98/2001 (caso Ferrazzini), in Riv. dir. trib., 2002, I, 529, con nota di M. Greggi, Giusto processo e diritto tributario europeo: applicazione e limiti del principio (il caso Ferrazzini). La dottrina è sempre stata unanime in merito al riconoscimento dell’applicabilità dei principi del giusto processo alla materia tributaria. (17) La C.edu ha affermato la piena riferibilità dei principi della Convezione al procedimento di indagine tributario, ammettendo una affinità tra le verifiche fiscali e i procedimenti di irrogazione delle sanzioni, da un lato, e i processi penali, dall’altro. In tal senso, Corte europea dei diritti dell’uomo 21.2.2008, n. 18497/03 (caso Ravon), in Riv. dir. trib., 2008, III, 181, con nota di S. Muleo, L’applicazione dell’art. 6 CEDU anche all’istruttoria tributaria a seguito della sentenza del 21 febbraio 2008 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Ravon e altri c. Francia e le ricadute sullo schema processuale vigente; S.F. Cociani, L’applicabilità della CEDU agli atti istruttori di indagine in materia tributaria, pubblicazione on line, in diritti-cedu.unipg.it.


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ristori o indennizzi da parte dei contribuenti che denuncino pregiudizi arrecati da una mancata applicazione, ma non possono ricevere un diretto riconoscimento nello Stato (che non abbia previsto una disciplina di attuazione ad hoc) in relazione ai loro contenuti specifici. Dalla elaborazione giuridica internazionale, quindi, giunge un’importante sollecitazione per il legislatore nazionale a favore della previsione di una disciplina positiva di attuazione in materia di contraddittorio nella fase istruttoria. 3.2. Il diritto al contraddittorio nella normativa europea. L’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. – Il diritto al contraddittorio nel corso del procedimento amministrativo è un principio generale dell’Unione europea (18), riferito – specificamente – nell’ambito di importanti sentenze interpretative della Corte di Giustizia anche alle indagini tributarie. In particolare, il contraddittorio è parte del “principio generale di buona amministrazione”, messo a punto nell’ambito dell’attività compiuta in sede di amministrazione diretta ed indiretta (19). Con l’espressione “buona amministrazione” si è inteso racchiudere tutti i principi generali dell’attività amministrativa, che costituiscono, secondo l’or-

(18) La formazione di principi generali in materia amministrativa in ambito europeo è il risultato di diversi percorsi, quali: l’esperienza amministrativa dell’Unione europea (che ha dato origine al c.d. “diritto amministrativo europeo”), la disciplina diretta dell’Unione stessa di alcuni procedimenti amministrativi nazionali, i limiti europei posti all’autonomia procedimentale degli Stati membri (elaborazione del principio di equivalenza e di effettività in senso stretto). Tali percorsi (nella loro continuità e sistematicità) hanno portato gradualmente alla elaborazione di principi generali europei in materia di procedimento amministrativo, che gli Stati membri devono applicare ed utilizzare per essere conformi ai modelli comunitari nel momento in cui applicano il diritto europeo. Per una sintesi su tali aspetti, E. Klein, L’influenza del diritto comunitario sul diritto amministrativo degli Stati membri, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1993, 685; M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2005, 69. Per una evoluzione storica di tutte le tappe dell’integrazione amministrativa europea dagli anni ’50 ad oggi, A. Sandulli, La scienza italiana del diritto pubblico e l’integrazione europea, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2005, 859. Specificamente nella materia tributaria su tali aspetti, L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, cit., 65; C. Califano, Principi comuni e procedimento tributario: dalle tradizioni giuridiche nazionali alle garanzie del contribuente, in Riv. dir. trib., 2004, I, 993. (19) Come rilevato alla nota precedente, i principi generali dell’azione amministrativa (e, quindi, anche il diritto al contraddittorio) sono stati elaborati nel corso dell’esperienza maturata in sede europea, nell’ambito dell’attività di amministrazione diretta (regolamentazione – da parte dell’Unione – di procedimenti amministrativi) ed indiretta (previsione di limiti e condizioni europee all’autonomia procedimentale degli Stati membri, attraverso l’elaborazione dei noti principi di equivalenza e di effettività in senso stretto).


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dinamento comunitario, gli standard europei di una amministrazione efficiente ed efficace nei risultati (20). All’interno della buona amministrazione, si suole distinguere fra principi relativi al rapporto amministrazione-cittadino e quelli, più specificamente, inerenti alla decisione amministrativa. Nel primo gruppo sono annoverati i principi: di certezza del diritto, di buona fede, di imparzialità, di efficacia, di efficienza, di adeguatezza dell’attività, di responsabilità amministrativa, di trasparenza. Nel secondo gruppo, invece, vi sono i principi: del contraddittorio, di motivazione, di proporzionalità. Il principio in esame è oggi espressamente codificato nell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In particolare, l’art. 41, comma 2, stabilisce che il diritto ad una buona amministrazione comporta il diritto di ogni individuo ad essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale lesivo. L’osservanza di tali principi deve essere ritenuta obbligatoria nel momento in cui si attua, all’interno degli Stati membri, il diritto comunitario; in tale ambito, i principi amministrativi in esame sono fonte di obblighi per l’Amministrazione e di pretese (legittimamente azionabili) per il cittadino (21). Con specifico riferimento alla materia tributaria, alcune sentenze della Corte di Giustizia, anche in una fase precedente alla suddetta codificazione del principio all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, avevano previsto il diritto al contraddittorio nell’ambito delle indagini. A tali ultime

(20) Si ritiene che i principi in esame siano espressione di una nuova visione del rapporto amministrazione – amministrato, in quanto si fondano su una concezione dell’attività (amministrativa) funzionale al raggiungimento degli obiettivi, ove l’Amministrazione opera in condizioni di parità con i cittadini e si evolve riconoscendo a questi ultimi un ruolo di primo piano per un corretto svolgimento della funzione pubblica. Cfr. S. Cassese, Il diritto amministrativo globale: una introduzione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2005, 331; E. Sanna Ticca, Cittadino e pubblica amministrazione nel processo di integrazione europea, Milano, 2004, 83; A. Massera, L’amministrazione e i cittadini nel diritto comunitario, in Riv. trim. dir. pubbl., I, 1993, 19; A. Serio, Il principio di buona amministrazione nella giurisprudenza comunitaria, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008, 237; S. Antoniazzi, Procedimenti amministrativi comunitari compositi e principio del contraddittorio, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2007, 611. Per l’impatto generale di tale principio sulla materia tributaria, L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, cit., 96; M. Pierro, Il dovere di informazione dell’Amministrazione finanziaria, cit., 114. (21) A tale proposito, E. Picozza, Diritto all’amministrazione. Le situazioni giuridiche soggettive, in Trattato di diritto amministrativo europeo, Milano, 2007, 903; D.U. Galletta, Il diritto ad una buona amministrazione europea come fonte di essenziali garanzie procedimentali nei confronti della pubblica amministrazione, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2005, 819.


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sentenze è necessario, quindi, far riferimento per comprendere più accuratamente i contenuti di tale principio nella materia tributaria. 3.3. (segue) I principi definiti dalla Corte di Giustizia nella materia tributaria. Assenza di una disciplina di attuazione del contraddittorio endoprocedimentale di matrice europea. – Il tema del contraddittorio endoprocedimentale ha iniziato ad assumere un rilievo centrale nella disciplina tributaria a seguito di una importante pronuncia interpretativa della Corte di Giustizia, in materia di procedimento doganale. Si tratta della sentenza Sopropè (22), ove è stato asserito che “il principio della tutela del diritto di difesa durante il procedimento amministrativo tributario” costituisce un principio generale del diritto comunitario, che deve essere applicato ogni qual volta l’Amministrazione si proponga di adottare un atto amministrativo verso un soggetto. Il diritto di difesa si esprime nella facoltà concessa al contribuente di essere sentito o di presentare le proprie osservazioni prima che l’atto sia emanato, entro un termine idoneo a garantire una difesa effettiva, e nell’obbligo dell’amministrazione di analizzare le argomentazioni del contribuente. A tale sentenza sono seguite altre pronunce che hanno definito ulteriori corollari del diritto al contraddittorio endoprocedimentale nelle indagini tributarie ed hanno condotto a ritenere che il principio in esame non fosse enunciato in via assoluta, ma prevedesse dei limiti e delle condizioni (23). Si tratta di pronunce specifiche, che hanno inteso affermare il valore sostanziale del contraddittorio in ambito europeo ed all’interno del procedimento tributario, quale istituto in grado di contribuire in modo costruttivo all’esercizio della funzione impositiva. In particolare, si evidenzia come sia stato rilevato che l’obbligo del contraddittorio non investa l’intera attività di indagine e di acquisizione di prove,

(22) Cfr. Corte di Giustizia 18.12.2008, C-349/07, causa Sopropè. Sul punto la dottrina ha posto in rilievo, dopo la pronuncia di tale sentenza, la generalità del diritto al contraddittorio di origine europea nell’ordinamento nazionale. Cfr. A. Marcheselli, Il diritto al contraddittorio è diritto fondamentale del diritto comunitario, in Riv. giur. trib., 2009, 203; G. Ragucci, Il contraddittorio come principio generale dell’ordinamento comunitario, in Rass. trib., 2009, 580; E.A. La Scala, Il silenzio dell’amministrazione finanziaria, cit., 111; P. Coppola, Riflessioni sull’obbligo generalizzato di una decisione partecipata ai fini della legittimità della pretesa tributaria e dell’azionabilità del diritto di difesa, in Riv. dir. trib., 2014, 1041. (23) In questo senso, in particolare, Cass. SS.UU. 9.12.2015, n. 24823.


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in quanto nel corso di tale fase l’amministrazione non è tenuta ad informare il contribuente (24). Tale principio appare in linea con la nozione accolta in questa sede di fase di contraddittorio endoprocedimentale, che – come evidenziato al par. 1 – si colloca al termine dell’istruttoria in un momento in cui l’acquisizione di elementi probatori e di documenti è terminata. È stato, inoltre, sostenuto che il principio del contraddittorio endoprocedimentale si possa ritenere rispettato nel caso in cui si collochi al termine dell’istruttoria ed a seguito della emissione dell’atto impositivo, sempre che si ammetta la possibilità di una sospensione dell’atto fino alla sua eventuale riforma o annullamento (25). È stato, poi, asserito il principio secondo il quale il difetto di contraddittorio non può condurre all’annullamento dell’atto, se il contribuente non dimostra che il suo espletamento avrebbe determinato in concreto un diverso risultato (26). Non si ritiene che tali enunciazioni possano costituire dei limiti alle previsioni nazionali in materia di contraddittorio endoprocedimentale ovvero delle condizioni che gli Stati membri devono rispettare nelle normative domestiche: se così fosse si vanificherebbe la funzione che l’Unione ha svolto fino ad oggi sul tema in esame, vale a dire garantire una difesa del soggetto prima dell’emissione di un atto amministrativo nell’ambito delle materie di competenza europea. Le suddette pronunce devono, infatti, essere lette con uno spirito ed una prospettiva differente. Si tratta di statuizioni generali della Corte di Giustizia, che traggono origine dall’esame di specifiche normative previste all’interno degli Stati membri, al fine di valutarne la compatibilità con i principi europei. Le singole statuizioni si comprendono appieno, pertanto, soltanto se rapportate alla procedura nazionale oggetto di analisi. Di volta in volta la Corte verifica che la difesa del contribuente sia effettivamente garantita all’interno dei procedimenti previsti dagli Stati membri e che le disposizioni prese in esame possano essere ritenute compatibili con la disciplina europea in materia di contraddittorio.

(24) Cfr. Corte di Giustizia 22.10.2013, C-276/12, causa Jirì Sabou. (25) Cfr. Corte di Giustizia 3.7.2014, C-129 e C-130/2013, causa Kamino International Logistics. (26) Cfr., sempre, Corte di Giustizia 3.7.2014, C-129 e C-130/2013, causa Kamino International Logistics.


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La Corte di Giustizia tende ad evitare un utilizzo formale ed acritico della fase di contraddittorio che possa condurre all’annullamento automatico degli atti impositivi per mancato espletamento di tale fase, nell’ottica generale di garantire un rispetto sostanziale del principio (del contraddittorio) e di preservare (fin dove possibile) le normative specifiche degli Stati membri. Si ritiene, pertanto, che dall’ordinamento europeo non discenda un obbligo di prevedere disposizioni di questo tipo. La ratio di tali sentenze è tutt’altra: se tali disposizioni esistono possono essere ritenute compatibili con l’ordinamento europeo a certe condizioni; se queste non esistono non si riscontra alcun obbligo in merito alla loro previsione. Dall’ordinamento europeo discende, esclusivamente, un obbligo di prevedere una fase di contraddittorio endoprocedimentale (all’interno delle indagini tributarie che attengono alla materia comunitaria), che sia allineata alle previsioni dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali e che presenti una disciplina efficace, improntata al noto principio di effettività. A livello europeo non si riscontra una disciplina sul tema direttamente applicabile negli Stati membri, in quanto risulta soltanto enunciato il principio ed esplicato nelle sentenze interpretative in alcuni aspetti molto specifici. Il quadro è anche questa volta frammentario e inidoneo a definire una disciplina generale di matrice europea direttamente applicabile negli Stati membri e, per quanto ci riguarda, nella materia tributaria. Nella materia europea, pertanto, come in quella internazionale, si afferma il principio generale ma senza una disciplina di attuazione analitica nei contenuti che possa condurre ad una diretta applicazione dell’istituto nell’ordinamento nazionale, nei casi in cui quest’ultimo non abbia previsto una disciplina specifica. 3.4. Il dibattito nella giurisprudenza nazionale. Le principali pronunce e le questioni di fondo. Le SS.UU. 9.12.2015, n. 24823. – A livello nazionale il quadro normativo analizzato ha stimolato un intenso dibattito nella giurisprudenza che si è concentrato su diverse questioni, quali: l’esistenza nelle maglie del sistema giuridico di un principio generale di contraddittorio nella fase di indagine, l’ambito di applicazione di tale ultimo principio, la possibilità di attribuire all’art. 12, comma 7, dello Statuto una valenza generale quale disciplina (nazionale) in materia di contraddittorio. In particolare, poi, in merito a tale ultimo articolo, la giurisprudenza si è a lungo soffermata sugli effetti del mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni ovvero (sugli effetti) dell’assenza nell’atto impositivo di una specifica


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indicazione delle condizioni di urgenza che non hanno reso possibile il rispetto del suddetto termine (27). In questo contesto, aldilà delle questioni specifiche, le posizioni sostenute in merito al diritto al contraddittorio endoprocedimentale sono state di diverso tipo. Una parte consistente della giurisprudenza di legittimità – nell’ultimo decennio – ha ammesso l’esistenza di un principio generale di contraddittorio endoprocedimentale nelle indagini tributarie (28). Tale percorso giurisprudenziale è sembrato trovare un punto di arrivo nelle sentenze a SS.UU. (18.9.2014) nn. 19667 e 19668, ove si è stabilito che il diritto al contraddittorio endoprocedimentale è un principio immanente nel sistema giuridico nazionale ed europeo. Su tale posizione si è assestata la giurisprudenza di legittimità del 2014 e 2015 (29). In questo contesto, come anticipato, numerose pronunce si sono occupate della disposizione contenuta nell’art. 12, comma 7, dello Statuto. Sul punto, le SS.UU. della Corte di Cassazione (30) e la giurisprudenza di legittimità maggioritaria hanno evidenziato la natura di forma di contraddittorio endoprocedimentale di quanto stabilito dalla previsione, da attuarsi, a pena di nullità dell’atto di accertamento, in tutti i casi di accessi, ispezioni o verifiche presso la sede dell’attività economica del contribuente. È così prevalsa una interpretazione della disposizione, che ne ha circoscritto l’ambito di applicazione alle sole ipotesi sopra indicate (31).

(27) Su tali aspetti, e per una valutazione critica della giurisprudenza che si è succeduta, G. Tesauro, In tema di invalidità dei provvedimenti impositivi e di avviso di accertamento notificato ante tempus, in Rass. trib., 2013, 1137; G. Tabet, Spunti controcorrente sulla invalidità degli accertamenti ante tempus, in G.T. Riv. giur. trib., 2013, 848; G. Fransoni, L’art. 12, uc dello Statuto e il tally-ho, cit., 594; A. Colli Vignarelli, La Cassazione si pronuncia in modo discorde in tema di invalidità dell’accertamento per violazione del contraddittorio anticipato, in Rass. trib., 2012, 453; P. Coppola, Riflessioni sull’obbligo generalizzato di una decisione partecipata ai fini della legittimità della pretesa, cit., 1052; C. Scalinci, Lo Statuto e l’“auretta” dei principi che…, cit., 883. (28) In tal senso, ex pluribus, Cass. 11.6.2010, n. 14105; Cass. SS.UU. 18.12.2009, nn. 26635, 26636, 26637 e 26638. (29) In particolare, Cass. 12.2.2014, n. 3142; Cass. 21.3.2014, n. 6666; Cass. 28.3.2014, n. 7315; Cass. 4.7.2014, n. 15311; Cass. 5.12.2014, n. 25759; Cass. 14.1.2005, n. 406; Cass. 21.1.2015, n. 961; Cass. 21.1.2015, n. 992; Cass. 20.3.2015, n. 5632; Cass. 29.7.2015, n. 6232; Cass. 29.7.2015, n. 16036. (30) Così SS.UU., 29.7.2013, n. 18184. Cfr. G. Tesauro, In tema di invalidità dei provvedimenti impositivi e di avviso di accertamento notificato ante tempus, cit., 1137; G. Tabet, Spunti controcorrente sulla invalidità degli accertamenti ante tempus, cit., 848. (31) In tal senso, ex pluribus, Cass. 11.9.2013, n. 20770; Cass. 7.3.1014, n. 5367; Cass.


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In questo scenario, che pareva avere trovato alcuni punti fermi, è subentrata la recente posizione delle SS.UU. della Corte di Cassazione (n. 24823), che ha affrontato l’intera questione, giungendo a differenti conclusioni. È stato affermato: - che il diritto al contraddittorio non è un principio generale dell’ordinamento giuridico nazionale in quanto non è riconducibile né a principi costituzionali, né a principi generali recati nella legge ordinaria; - che il diritto al contraddittorio è un principio europeo che dovrà trovare applicazione soltanto all’interno dei tributi armonizzati; - che l’art. 12, comma 7, dello Statuto non è una norma generale, idonea a costituire la base della disciplina del contraddittorio nel procedimento tributario, ma una disposizione applicabile soltanto alla fattispecie specificamente prevista. La necessità di conciliare tali pronunce e di comprendere la corretta evoluzione della questione, ci induce ad effettuare, alla luce dell’analisi storica e sistematica compiuta, alcune riflessioni generali sul tema. 4. L’inequivocabile esistenza di un diritto al contraddittorio del contribuente nella fase di indagine. La necessità di distinguere immanenza del principio e disciplina di attuazione. – Nell’attuale stato di evoluzione della disciplina nazionale dell’istruttoria tributaria è innegabile l’esistenza di un principio generale – immanente nel sistema giuridico – che sancisce il diritto al contraddittorio endoprocedimentale.

5.2.2014, n. 2587; Cass. 3.2.2014, n. 2279. In senso contrario, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che l’art. 12, comma 7, dello Statuto ha una valenza generale nella disciplina delle indagini tributarie, rilevando come il suo ambito di applicazione debba intendersi esteso ad ogni tipo di verbale che precede l’emissione di un avviso di accertamento e non soltanto al processo verbale di constatazione (atto tipico con il quale si chiudono le operazioni di verifica presso il contribuente). Ciò rende, conseguentemente, la disposizione riferibile a tutte le indagini tributarie che coinvolgano il contribuente. Così Cass. 15.3.2011, n. 6088; Cass. 5.2. 2014, n. 2594. A favore di una valenza generale dell’art. 12, comma 7, dello Statuto, quale norma in grado di fondare una partecipazione al procedimento di accertamento, A. Viotto, I poteri di indagine dell’Amministrazione finanziaria, cit., 300, il quale ritiene che con l’art. 12 si sia generalizzato un diritto spettante al contribuente sottoposto a verifica a presentare le proprie osservazioni e richieste, in merito a quanto emerso nel corso delle indagini, cui si affianca un preciso obbligo dell’Ufficio di valutare quanto comunicato dal contribuente prima di procedere all’emissione dell’avviso di accertamento. In questo senso, ritiene l’Autore, che tale articolo rappresenti una risposta soddisfacente alle istanze garantistiche che si trovano nella Costituzione.


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Tale principio deriva, in prima battuta, dall’art. 97 della Costituzione, con il quale si affermano, con riferimento all’attività amministrativa, i principi di imparzialità e di buon andamento (32). Il suddetto articolo è rivolto anche all’attività della Amministrazione finanziaria, come dimostra l’espresso rinvio a tale disposizione contenuto nello Statuto dei diritti del contribuente (33). La norma costituzionale, secondo l’interpretazione consolidata, valuta il contraddittorio endoprocedimentale come una fase necessaria per l’esercizio dell’attività amministrativa, che garantisce imparzialità nello svolgimento, efficacia dei risultati ed efficienza dei mezzi utilizzati (34).

(32) In tal senso, l’evoluzione dell’attività amministrativa, negli anni ’90 del secolo scorso, è ricondotta al passaggio avvenuto nell’interpretazione degli artt. 97 e 98 della Cost., da norme meramente programmatiche in principi vincolanti. In tali articoli una parte della dottrina amministrativa ha rinvenuto “il nucleo fondamentale di un codice dell’amministrazione”. Cfr. G. Berti, Amministrazione e costituzione, in Dir. Amm., 1993, 459. In particolare, l’art. 97 ha assunto un ruolo determinante nella materia amministrativa per definire i principi generali dell’attività e del procedimento nonché per regolare il rapporto amministrazione – cittadino. Cfr. U. Allegretti, Amministrazione pubblica e Costituzione, Roma, 1996, 79; Id., Imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, in Dig. disc. pubbl., 1993, VIII, 131. Il medesimo ruolo di norma fondamentale, con riferimento all’art. 97 Cost., è riconosciuto anche all’interno della materia tributaria. Cfr. G. Marongiu, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2010, 114; Id., Contributo alla realizzazione della “Carta dei diritti del contribuente”, Dir. e prat. trib., 1991, I, 585; Id., Lo Statuto e la tutela dell’affidamento e della buona fede, Riv. dir. trib., 2008, I, 164; P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002, 120; 304, 312; M. Trivellin, art. 97 cost., in Breviaria juris, Tomo I, Diritto costituzionale tributario e Statuto del Contribuente, a cura di G. Falsitta, Milano, 2011, 85. (33) È noto come l’art. 1, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente (l. n. 212/2000) stabilisce che “le disposizioni della presente legge, in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97, costituiscono principi generali dell’ordinamento…”. (34) Negli anni ’90 del secolo scorso il contraddittorio pre-contenzioso cessa di essere un principio ricondotto all’art. 24 della Costituzione (e, quindi, riferibile soltanto a procedimenti “quasi contenziosi”) e viene assorbito dal contenuto dell’art. 97 Cost. Il diritto al contraddittorio nel procedimento amministrativo è così qualificato come diretta espressione dei principi contenuti nell’art. 97 Cost.; la partecipazione è un fattore che determina imparzialità (in quanto consente a tutte le situazioni giuridiche di entrare a pieno titolo nel procedimento amministrativo) e favorisce il buon andamento (in quanto realizza una attività più economica ed efficiente). La funzione oggi attribuita alla partecipazione è così una derivazione dell’art. 97 della Costituzione; la partecipazione è sancita per favorire una difesa ma per il fine ultimo di consentire alla Pubblica Amministrazione un migliore esercizio della funzione, in modo che – attraverso il confronto, la dialettica e l’integrazione delle conoscenze – pervenga a decisioni più imparziali ed adeguate alla realtà dei fatti. In diritto amministrativo, in tal senso, E. Casetta, Profili dell’evoluzione dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione, in Dir. amm., 1993, 3; F. Fracchia, Manifestazione dell’interesse del privato e procedimento amministrativo, in Dir. amm., 1996, 13;


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Allo stesso modo, come verificato in precedenza, l’immanenza di un principio generale del contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini deve essere ricondotta anche all’operatività dei principi internazionali (elaborati in sede C.edu.) ed europei (con riferimento alle materie oggetto di competenza comunitaria). Ritenere, quindi, che il contraddittorio non sia oggi un principio generale dell’istruttoria tributaria significa ignorare le evoluzioni della materia, avvenute in questi ultimi quindici anni. In tale aspetto, pertanto, si condividono le pronunce della giurisprudenza di legittimità che hanno rilevato l’attuale immanenza, nel sistema giuridico nazionale e con riferimento alla materia tributaria, del principio del contraddittorio endoprocedimentale. Immanenza del principio non significa, necessariamente, possibilità di una diretta applicazione del principio stesso in relazione ai propri contenuti specifici. Secondo i tradizionali studi giuridici, infatti, ogni principio generale mostra un diverso grado di intensità vincolante, che è massima in determinati principi e diminuisce e si gradua in altri (35). Sulla base delle classificazioni generali sui principi di diritto, quello del contraddittorio può qualificarsi come “principio generale istituzionale o di organizzazione”, contenente norme indirette (36).

F. Figorilli, Il contraddittorio nel procedimento amministrativo (dal processo al procedimento con pluralità di parti), Napoli, 1996, 83. Per le ricadute di tale posizione nella materia tributaria, si rinvia al percorso effettuato da P. Coppola, Riflessioni sull’obbligo generalizzato di una decisione partecipata ai fini della legittimità della pretesa tributaria e dell’azionabilità del diritto di difesa, cit., 1052; R. Miceli, La partecipazione del contribuente alla fase istruttoria, cit., 676. (35) In questo senso, N. Bobbio, Principi generali del diritto, in Novissimo Digesto italiano, Torino, 1966, Vol. XIII, 887, 896, che distingue gli effetti che ogni principio esplica sulla base della funzione, che questo assolve nel sistema. In relazione alla funzione, si individuano principi generali: interpretativi, integrativi, direttivi, limitativi, sistematico costruttivi. I principi hanno un diverso grado di intensità vincolante, che è massima nei principi generali a funzione limitativa e integrativa e diminuisce via via in quelli in funzione interpretativa o direttiva, sino a scomparire in quelli in funzione sistematica. (36) Nella teoria generale del diritto e nella dottrina tradizionale si è a lungo discusso in ordine ai principi generali (del diritto), operando diverse classificazioni. Le principali hanno riguardato: la materia, l’estensione, i contenuti, gli effetti, la funzione. Cfr. V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, 1952, 127; Id., A proposito dei principi generali del diritto e di una loro enunciazione legislativa, in Ius, I, 1940, 193; N. Bobbio, Principi generali del diritto, cit., 896; E. Betti, Sui principi generali del nuovo ordine giuridico, in Riv. dir. comm., 1940, I, 217.


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Parte prima

La natura di principio istituzionale attiene al contenuto normativo, che si riferisce alla formazione e conservazione dell’ordinamento giuridico; tale natura vale a rendere il principio rivolto al legislatore e solo, indirettamente, a seguito di una sua esplicitazione, al giudice ed alla pubblica amministrazione (37). Il principio istituzionale, infatti, contiene norme indirette, vale a dire inattuabili, se altre norme non precisano come applicarlo e ne determinano il contenuto (38). Seppure, attualmente, sia in atto un processo evolutivo che ha condotto gli operatori giuridici (funzionari amministrativi e giudici) ad importanti attività interpretative ed applicative del diritto europeo ed internazionale – in un sistema generale di fonti multilivello e di sentenze interpretative con indiscutibili contenuti normativi, improntate a modelli giuridici anglosassoni (39) – si ritiene che la diretta applicazione dei principi istituzionali possa avvenire soltanto ove la normativa (nazionale ovvero multilivello) presenti un grado di certezza e di dettaglio che lo consenta. Come già rilevato in altra sede, in particolare, i principi in materia di giusto processo e di giusto procedimento non sono direttamente applicabili in re-

(37) Cfr. N. Bobbio, Principi generali del diritto, cit., 896. La classificazione per materia ha individuato: i principi di diritto sostanziale, quelli di diritto processuale, quelli generali di organizzazione o istituzionali. (38) Nella convinzione che i principi generali siano norme giuridiche (cfr. V. Crisafulli, A proposito dei principi generali del diritto e di una loro enunciazione legislativa, cit., 208) si è comunque tentata una distinzione tra norme vere e proprie e norme contenute nei principi generali. In questo senso, i principi sono stati qualificati come: norme più generali nei contenuti, norme contenenti direttive o linee guida (che determinano l’orientamento etico-politico di un sistema), norme indefinite (che comportano una serie indefinita di applicazioni), norme indirette (che sarebbero inattuabili, se altre norme non precisassero quel che si deve fare per attuarle). Cfr. N. Bobbio, Principi generali del diritto, cit., 896. (39) L’esperienza giuridica europea ha condotto lo Stato italiano ad una modificazione della funzione amministrativa e giurisdizionale, che hanno assunto elementi di maggiore autonomia, attuando operazioni interpretative e creative. In tale assetto, si ritiene che il principio di legalità (al quale la funzione amministrativa e giurisdizionale sono subordinate) abbia subito una importante evoluzione. Si ammette, in tal modo, una costruzione funzionale del principio di legalità. Espressioni di tale principio sono da rinvenire: nella tendenza legislativa ad una maggiore genericità e nell’affermazione giudiziaria e amministrativa di principi non ancora recepiti a livello normativo. Cfr. G. Morbidelli, Il principio di legalità e i c.d. poteri impliciti, in Dir. amm., 2007, 703; N. Bassi, Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Milano, 2001, 9. Nella materia tributaria, cfr. F. Tundo, Procedimento tributario e difesa del contribuente, cit., 2, il quale pone in luce come vi sia stato un arretramento del legislatore ed una funzione sostitutiva della giurisprudenza, che rende sempre più ardua la costruzione di un sistema normativo vero e proprio.


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lazione ai loro contenuti, in quanto necessitano di un intervento del legislatore che preveda una adeguata disciplina di attuazione (40). Il contraddittorio endoprocedimentale rientra in tali fattispecie (norme espressione del giusto procedimento) e dunque non è direttamente applicabile dall’Amministrazione finanziaria, mancando del tutto nel sistema giuridico nazionale una disciplina di attuazione, al di fuori delle ipotesi in cui lo stesso è specificamente previsto (41). Inoltre, nessuna delle disposizioni specifiche (presenti nel sistema domestico) è idonea, attraverso un processo interpretativo, ad assurgere al ruolo di norma generale sul tema, dal momento che – come rilevato – si tratta di disposizioni che regolano il diritto in esame all’interno di fattispecie ben individuate (accertamento sintetico, accertamento basato su studi di settore, accertamento antielusivo). La pretesa di rendere l’art. 12, comma 7, dello Statuto la norma generale in materia di contraddittorio nasce proprio da tale esigenza: conferire una disciplina, a questo ultimo istituto, all’interno di un testo di legge (lo Statuto) di ampio respiro e contenente i principi della materia. Come verificato, però, l’art. 12, comma 7, dello Statuto non si presta ad una operazione ermeneutica di questo tipo, così come le altre disposizioni analoghe presenti nel sistema tributario. Appare, quindi, improrogabile un intervento espresso del legislatore che stabilisca in via generale una disciplina del contraddittorio endoprocedimentale per tutte le indagini tributarie, individuando: il procedimento di applicazione, i termini, il momento di espletamento, le conseguenze, gli atti coinvolti.

(40) Cfr. R. Miceli, Indebito comunitario e sistema tributario interno. Contributo allo studio del rimborso di imposta secondo il principio di effettività, Milano, 2009, 25 ss. (41) La questione dell’assenza di una disciplina di attuazione del diritto al contraddittorio endoprocedimentale è stata posta in luce da attenta dottrina, che ha evidenziato le difficoltà di una applicazione diretta del principio generale e la necessità di una disciplina normativa. Cfr. G. Fransoni, L’art. 12, u.c. dello Statuto, la Cassazione e il tally-ho, cit., 604, il quale rileva diverse questioni legate alla diretta applicazione del diritto al contraddittorio. Un primo problema è individuare l’atto introduttivo del contraddittorio, soprattutto nei casi in cui non è previsto dalle norme vigenti. Nell’ambito della giurisprudenza, nulla si è detto “sul modo di essere del contraddittorio”; si tratta “di profili disciplinari la cui elaborazione è ineludibile” nel momento in cui si intenda “trasformare il principio del contraddittorio in una regola concretamente operante nell’ordinamento”. Cfr. C. Scalinci, Lo Statuto e l’”auretta” dei principi che…, cit., 918, il quale evidenzia come il contraddittorio preventivo è un principio che dovrà essere calato nella complessa realtà fatta di procedure, di termini, di prassi. Si tratta infatti di un tema che a livello procedimentale non è determinato con sufficiente previsione.


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Parte prima

Tale costruzione è confermata dalla previsione, nell’ultima legge delega per la riforma del sistema tributario (l. 11.3.2014, n. 23), di una disposizione in tal senso. Sebbene in ambito giurisprudenziale il principio del contraddittorio fosse stato ampiamente affermato negli ultimi anni, la suddetta legge ha sentito l’esigenza di delegare l’introduzione di una disposizione generale in materia di contraddittorio pre-contenzioso. In particolare, l’art. 9, rubricato “rafforzamento dell’attività conoscitiva e di controllo”, al comma 1, lett. b), prevede il rafforzamento del “contraddittorio nella fase di indagine e la subordinazione dei successivi atti di accertamento e di liquidazione all’esaurimento del contraddittorio procedimentale”. Con tale previsione si conferma, da un lato, che il contraddittorio nelle indagini tributarie è valutato quale strumento di rafforzamento dell’attività amministrativa ex art. 97 Cost. e, dall’altro lato, che il legislatore è pienamente cosciente della situazione attuale, vale a dire della assenza di una disciplina generale di attuazione del diritto al contraddittorio nel nostro ordinamento giuridico. In considerazione del complesso quadro generale, non si comprende, quindi, la motivazione per cui ad oggi tale delega non abbia trovato alcun seguito. 4.1. Diritto al contraddittorio e tributi armonizzati. L’assenza di una disciplina di attuazione. – Le questioni affrontate nel paragrafo precedente si rinvengono, a nostro avviso, anche in relazione all’applicazione della disciplina del contraddittorio nell’ambito delle materie di competenza europea ovvero dei tributi armonizzati. In merito a tali aree, come rispetto a quelle non oggetto di competenza europea, non esiste nell’ordinamento interno una disciplina esaustiva e completa in materia di contraddittorio pre-contenzioso nelle indagini tributarie, che possa fungere da paradigma generale dell’istituto. Allo stesso modo, come verificato al paragrafo 3.3, pure la normativa europea non è direttamente applicabile nei contenuti, in quanto si limita ad affermare il principio generale ed alcuni corollari del principio stesso. Anche in relazione alle materie armonizzate, pertanto, manca del tutto una disciplina del procedimento di attuazione del diritto al contraddittorio nelle indagini tributarie. Tale ultimo diritto, nella situazione attuale, potrà essere garantito soltanto nei casi in cui la normativa nazionale presenti una norma, che sancisca una


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specifica ipotesi di contraddittorio e che possa essere estesa (in virtù del principio di equivalenza (42)) anche al diritto europeo. La questione, quindi, appare alquanto grave in considerazione del fatto che la mancata attuazione di principi europei, nell’ambito dell’applicazione del diritto comunitario, genera responsabilità dello Stato, sia verso l’Unione (responsabilità da inadempimento), sia verso i cittadini (responsabilità da illecito europeo). 5. Considerazioni conclusive. Il necessario intervento legislativo per l’attuazione del contraddittorio endoprocedimentale nelle indagini tributarie. – Allo stato attuale della evoluzione giuridica, il diritto al contraddittorio nelle indagini tributarie costituisce un principio generale della materia, in quanto espressione dell’art. 97 della Costituzione, delle istanze europee in materia di “buona amministrazione”, dei richiami internazionali in tema di garanzie del “giusto processo”. Il principio, però, non è direttamente applicabile da parte della Amministrazione finanziaria in quanto necessita di una disciplina espressa che ne regoli i modi e i tempi di attuazione. Tale disciplina non può essere rinvenuta nelle maglie del sistema attraverso operazioni interpretative dei giudici o dei funzionari amministrativi. Si tratterebbe – infatti – di operazioni troppo creative e particolarmente complesse, anche in un’epoca, quale è quella attuale, in cui sia i giudici che i funzionari amministrativi sono costantemente chiamati a reperire norme in un sistema multilivello e ad applicare discipline sempre più generali e meno vicine alla nostra tradizione giuridica. Le operazioni interpretative ed applicative dei giudici e dei funzionari amministrativi devono però essere sorrette da un sistema normativo e da disposizioni che comunque le consentano, altrimenti determinano obiettiva incertezza ed arbitri giuridici.

(42) Il principio di equivalenza – elaborato dalla giurisprudenza europea della Corte di Giustizia (in particolare, Corte di Giustizia 10.7.1997, C-261/95, causa Palmisani; Corte di Giustizia 1.12.1998, C-326/96, causa Levez; Corte di Giustizia 14.12.1995, C-430/93 e C-431/93, causa Schijndel) – ha la funzione di consentire l’individuazione di un procedimento e di una disciplina generale, nel momento in cui devono essere tutelati dei diritti di origine comunitaria nell’ordinamento interno. La disciplina e il procedimento nazionale deputati a tale funzione sono quelli previsti per la tutela della medesima posizione giuridica, ma nascente dal diritto interno.


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Parte prima

In materia di contraddittorio endoprocedimentale manca una disciplina generale di attuazione, sia a livello nazionale, sia a livello europeo, sia a livello internazionale. L’assenza di una disciplina di attuazione del principio in esame spiega anche le oscillazioni della giurisprudenza di legittimità sul tema. Quest’ultima afferma il principio in via generale, ma incontra difficoltà a rinvenire una disciplina ogni qual volta si trova al di fuori di ipotesi in cui il principio stesso ha ricevuto una specifica previsione nell’ordinamento giuridico. In tal senso si comprendono i continui tentativi di reperire una norma nel sistema, che possa assumere il valore di paradigma dell’istituto. Questa norma giuridica, però, nel sistema attuale non esiste. Deve, pertanto, essere introdotta quanto prima dal legislatore, il quale deve prevedere per tutte le indagini tributarie una fase di contraddittorio, nei termini in cui è stata definita in premessa, disciplinandone gli aspetti procedimentali. Un intervento legislativo che sancisca il diritto al contraddittorio nelle indagini tributarie costituisce il giusto e corretto epilogo di un percorso lungo e complesso e il primo passo verso il tanto auspicato riallineamento del procedimento tributario al procedimento amministrativo.

Rossella Miceli


Il regime fiscale del contratto di affidamento fiduciario: riflessi impositivi di un nuovo modello negoziale* Sommario: 1. Il contratto di affidamento fiduciario nell’attuale panorama giuridico.

– 2. I rapporti fiduciari dal diritto civile al diritto tributario. – 3. La fiscalità dei trust tra soggettività e trasparenza. – 4. Il riconoscimento della soggettività tributaria del patrimonio segregato nel contratto di affidamento fiduciario. – 5. Negozi fiduciari, trust, e contratti di affidamento fiduciario nella prospettiva della neointrodotta imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione. – 6. Riflessioni conclusive. Un “affidamento fiduciario” è un contratto con il quale l’affidante e l’affidatario concordano un programma in forza del quale alcuni beni e le utilità da essi derivanti vengono impiegati nell’interesse di uno o più beneficiari. Il saggio analizza il trattamento fiscale del contratto, proponendo, ai fini delle imposte dirette, la soggezione ad IRES dei redditi derivanti dal fondo affidato, mentre, ai fini dell’imposta sulle donazioni, il pagamento soltanto al momento della devoluzione dei beni ai beneficiari. An “entrustment” is a contract by which the entruster and the fiduciary agree on a program that dedicates certain assets and the advantages deriving from them to one or more beneficiaries. This essay analyses the tax treatment of the agreement and proposes, for direct taxation, the subjection of all incomes deriving from the dedicated patrimony to IRES, while, for gift tax, the payment only when the assets are transmitted to beneficiaries

1. Il contratto di affidamento fiduciario nell’attuale panorama giuridico. – Il contratto di affidamento fiduciario è una figura giuridica recentemente elaborata per rispondere ad alcune esigenze sorte nei rapporti tra i consociati (1). Esso non trova la sua disciplina nell’ambito dei contratti

* Lavoro sottoposto a revisione esterna. (1) Cfr. M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, Padova,


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tipici previsti dal codice civile, anche se, da ultimo, alcune figure negoziali introdotte nell’ambito della legislazione speciale sembrerebbero richiamare i tratti strutturali di tale istituto. Si pensi, ad esempio, alla legge 27 gennaio 2012, n. 3 (poi modificata dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito nella legge 17 dicembre 2012, n. 221), recante, agli artt. da 6 a 14, la disciplina delle “situazioni di sovra indebitamento non soggette ne assoggettabili alle vigenti procedure concorsuali” (art. 6, comma 1), ove si consente al debitore di raggiungere con i propri creditori un accordo di ristrutturazione del debito sulla base di un piano che consenta la soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma. Ebbene, in questi casi, si prevede che il piano possa contemplare l’affidamento del patrimonio del debitore ad un fiduciario per la liquidazione, custodia, e distribuzione del ricavato ai creditori. Al di là di questo, sia pur rilevante, riscontro normativo, l’affermazione del modello nel panorama giuridico è il frutto degli studi e degli approfondimenti dedicati ai temi della fiducia ed alle sue possibili applicazioni nel diritto italiano. L’elaborazione dogmatica di tale figura giuridica prende, infatti, le mosse da un giudizio di sostanziale inadeguatezza del negozio fiduciario, nella sua accezione classica, a cogliere tutti i possibili impieghi della fiducia nel mondo del diritto. Come noto, il negozio fiduciario classico, ampiamente studiato ed indagato (2), è stato tradizionalmente ricostruito valorizzando il collegamento sussistente tra un negozio traslativo ad effetti reali, con cui il fiduciante trasferirebbe al fiduciario la titolarità di un diritto, ed un contestuale patto ad effetti obbligatori, con il quale il fiduciario si impegnerebbe a gestire e ad amministrare il bene o, più correttamente, il diritto acquistato, nell’interesse del fiduciante stesso o di un terzo da questi indicato. Tra gli obblighi del fiduciario

2008, 219 ss.; Id., Il contratto di affidamento fiduciario, in Trusts e attività fiduciarie, 2012, 585 ss.; Id., Il contratto di affidamento fiduciario, in Riv. not., 2012, I, 513 ss.; L’elaborazione dell’istituto è stata poi portata a compimento dallo stesso Autore con la fondamentale opera monografica Il contatto di affidamento fiduciario, Milano 2014. (2) Si ricordano, senza pretesa di completezza, F. Ferrara, I negozi fiduciari, in Studi in onore di V. Scialoja, II, Milano, 1905, 713 ss.; L. Cariota Ferrara, I negozi fiduciari, Padova, 1933; C. Grassetti, Del negozio fiduciario e della sua ammissibilità nel nostro ordinamento, in Riv. dir. comm., 1936, I, 345 ss.; N. Lipari, Il negozio fiduciario, Milano, 1964; V.M. Trimarchi, voce Negozio fiduciario, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 32 ss.; A. Gentili, Società fiduciarie e negozio fiduciario, Milano, 1978; U. Carnevali, voce Negozio giuridico. III) Negozio fiduciario, in Enc. giur. Treccani, XX, Roma, 1990.


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vi sarebbe, inoltre, l’impegno di ritrasferire il bene al fiduciante o alla persona da lui indicata (3). Sotto il profilo funzionale, la ricostruzione classica distingue la fiducia “cum amico”, nella quale il trasferimento è posto nell’interesse del fiduciante, e la fiducia “cum creditore”, nella quale, invece, l’operazione assolve una funzione di garanzia. Di qui le questioni tradizionalmente oggetto di attenzione da parte degli studiosi, quali, ad esempio, l’esistenza di una sproporzione del mezzo rispetto al fine, ovvero la ricorrenza della potestà di abuso da parte del fiduciario (4). Tutti temi, però, che, sia pure ampiamente studiati sotto il profilo teorico, presenterebbero, in realtà, scarsa rilevanza da un punto di vista concreto. Un’attenta analisi dei casi giurisprudenziali in cui ricorre il richiamo alla fiducia avrebbe dimostrato, infatti, che l’impiego, nella pratica, dello schema negoziale ora delineato rappresenterebbe un’ipotesi piuttosto marginale (5).

(3) Secondo il più tradizionale orientamento, pertanto, il negozio fiduciario si realizzerebbe mediante il collegamento di due negozi distinti, ciascuno con causa autonoma, l’uno, quello traslativo avente rilevanza nei confronti dei terzi estranei, e l’altro, di carattere obbligatorio, avente rilievo soltanto nei rapporti tra fiduciante e fiduciario. Non vi sarebbe, pertanto, nel nostro ordinamento spazio per una autonoma causa fiduciae, potendosi realizzare lo scopo fiduciario esclusivamente in via indiretta attraverso il suddetto collegamento negoziale. In questo senso cfr., in dottrina, L. Cariota Ferrara, I negozi fiduciari, cit., 121 ss., ed in giurisprudenza, tra le tante, Cass., 29 novembre 1983, n. 7152, in Giur. it., 1985, I, 90 ss.; Cass., 7 agosto, 1982, n. 4438, in Foro it. Mass., 1982, 926; Cass., 3 aprile 1980, n. 2159, ivi, 1980, 426. A questa ricostruzione, peraltro, si è contrapposta un’altra impostazione, la quale, invece, ha valorizzato la possibilità di individuare una autonoma base causale del negozio. Secondo tale ricostruzione, infatti, il trasferimento del diritto si porrebbe in rapporto di interdipendenza con l’obbligazione assunta dal fiduciario, nel senso che l’attribuzione patrimoniale rappresenterebbe il mezzo per rendere possibile l’adempimento dell’obbligazione fiduciaria. Si tratterebbe, pertanto, di un negozio unitario ed atipico, ad effetti reali ed obbligatori, comunque ammissibile ai sensi dell’art. 1322 del cod. civ.. Per questa ricostruzione cfr. C. Grassetti, Del negozio fiduciario e della sua ammissibilità nel nostro ordinamento, cit., 368 ss., nonché U. Carnevali, voce Negozio giuridico. III) Negozio fiduciario, cit., 4. (4) Nella fiducia sarebbe, infatti, prescelta una forma giuridica che assicura più di quanto occorre per il conseguimento del risultato voluto dalle parti. Da ciò deriverebbe, quindi, la potestà di abuso, ossia la possibilità per il fiduciario, il cui potere è più ampio del dovere, di fare uso di tale potere in contrasto con le finalità economiche per cui tale trasmissione avrebbe avuto luogo. Così V.M. Trimarchi, voce Negozio fiduciario, cit., 36-37. (5) Rileva M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit, 50, che all’esito di una approfondita analisi della giurisprudenza di legittimità, di oltre cento sentenze analizzate, soltanto diciannove avrebbero trattato il negozio fiduciario nella sua configurazione classica, e di queste diciannove, soltanto sei ne avrebbero accertato l’esistenza. Ne deriva, secondo l’Autore, che la configurazione strutturale classica del negozio fiduciario non avrebbe quasi


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Più frequente, invece, sarebbe il ricorso ad altri modelli contrattuali, che vengono, in questa ricostruzione, genericamente accumunati nella definizione di “contratti fiduciari” e che non rifletterebbero pienamente le caratteristiche ora illustrate. Tali contratti si caratterizzerebbero, sotto il profilo strutturale, per l’assenza di un primo trasferimento dal fiduciante al fiduciario, e, quindi, per la mancanza di due negozi distinti, ancorché collegati. Sotto il profilo funzionale, invece, le finalità alle quali essi rispondono sarebbero le più varie, non potendo, secondo quest’impostazione, la causa fiduciae essere ricondotta ad uno schema unitario (6). Vi sarebbero poi, ulteriori ipotesi tradizionalmente ricondotte entro gli schemi del negozio fiduciario, ma che, invece, sempre secondo questa ricostruzione, da esso dovrebbero essere tenute distinte. Si tratterebbe dei contratti di intestazione e di prestanome, nei quali al fiduciario non è richiesto il compimento di alcuna attività, se non quella di rendersi formalmente titolare dei beni del fiduciante, e che, in quest’ottica, finirebbero per svilire la natura stessa del rapporto fiduciario (7).

riscontro nella vita giuridica. (6) Sotto il profilo funzionale, si distinguerebbero i “contratti fiduciari di garanzia”, nei quali una parte acquista un bene che l’altra parte potrà conseguire quando verserà alla prima la somma convenuta, i “contratti fiduciari programmatici”, nei quali le parti concorrono nel modo più vario al compimento di un’operazione con i terzi, a beneficio di una o di entrambe le parti ed, infine, i “contratti fiduciari gestori”, nei quali vi è passaggio di denaro dal fiduciante a fiduciario per il compimento di un’operazione, ma non vi è passaggio del bene che costituisce oggetto del rapporto. In questo senso cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 59 ss. Da segnalare, inoltre, l’esistenza di un’ulteriore ipotesi, la cd. “fiducia statica”, caratterizzata anch’essa dalla mancanza di un atto traslativo dal fiduciante al fiduciario. Qui, infatti, un soggetto, che appare già investito di una posizione giuridica, da un certo momento si impegna a considerare la propria titolarità come quella di un semplice fiduciario, vincolando se stesso ad utilizzare la propria titolarità in una certa direzione e per una certa destinazione. Per questa ricostruzione cfr. N. Lipari, Il negozio fiduciario, cit. 155. (7) Nel contratto di intestazione all’intestatario non sarebbe richiesta alcuna attività se non quella di rendersi formalmente titolare dei beni dell’intestante, che sarebbe pertanto tenuto a prevenire qualsiasi pregiudizio per l’intestatario per tutta la durata del rapporto. Nel contratto di prestanome, invece,desiderando l’intestante che il prestanome sia dai terzi percepito con il reale proprietario dei beni intestati, sarebbe quest’ultimo a compiere gli atti di gestione del patrimonio, sia pure nel rispetto delle indicazioni dell’intestante. Cfr., in questo senso, M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 121. L’Autore ritiene, tuttavia, che tali rapporti non potrebbero definirsi realmente fiduciari, in quanto, richiamando, nel prosieguo, le parole di Aurelio Gentili, afferma che “veramente fiduciarie siano solo le situazioni nelle quali il fiduciario spende un’attività che va oltre la funzione di schermo” (cfr. A. Gentili, Interposizione, simulazione e fiducia nell’intestazione di società a responsabilità limitata, in


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Tutto ciò renderebbe palese l’esigenza di ripensare le categorie dogmatiche tradizionalmente impiegate nella ricostruzione del fenomeno, per rendere la riflessione teorica più aderente alle esigenze manifestatesi nella pratica. Il carattere fiduciario del negozio, infatti, non potrebbe limitarsi soltanto all’affidamento nella spontanea osservanza, da parte del fiduciario, degli obblighi assunti con il “pactum fiduciae”, dovendosi, tale forma di affidamento, riscontrare in ogni tipo di rapporto obbligatorio, mentre l’essenza della fiducia dovrebbe esprimersi nell’esistenza di un “programma”, individuato dal fiduciante (o meglio dall’“affidante”, secondo la terminologia impiegata da chi ha proposto la figura), alla cui realizzazione il fiduciario (rectius “affidatario”) si obbligherebbe, per un interesse selezionato dall’affidante ed a vantaggio di altri soggetti individuati quali beneficiari (8). Ecco, allora, prospettarsi un nuovo modello contrattuale, definito “contratto di affidamento fiduciario”, nel quale il tema della fiducia troverebbe finalmente l’adeguata valorizzazione che finora sembrerebbe ad essa essere stata negata. Relegata, in alcuni casi, nell’ambito dei vincoli di tipo metagiuridico, confusa, in altri, con la simulazione (9), e, comunque, guardata con sospetto per il carattere della segretezza che ad essa normalmente si è accompagnato (10), la fiducia, diversamente da quanto avvenuto in altri ordinamenti, non sembrerebbe aver ancora trovato da noi adeguata collocazione nel mondo del diritto. Il contratto di affidamento fiduciario si porrebbe, quindi, quale modello negoziale alternativo sia al negozio fiduciario classico, sia a quelli che,

Giur. it., 1982, I, 2, 411, nota a Trib. Roma, 18 luglio 1980). Così sempre M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 253. (8) Cfr., anche qui, M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 123, secondo cui la fiducia idonea a distinguere tipi negoziali non potrebbe consistere “nell’affidamento che un soggetto riponga in un altro che questi non compia atti contro il diritto, neanche quando proprio tale primo soggetto ha posto l’altro nella condizione giuridica di farlo”, in quanto “questo elementare affidamento è riscontrabile nella maggior parte dei negozi”. (9) Sui rapporti tra simulazione e negozio fiduciario cfr. G. Tamburrino, Appunti sulla natura giuridica del negozio fiduciario e sugli elementi che lo differenziano dalla simulazione, in Giur. compl. cass. civ., 1946, I, 185; G. Giacobbe, Rapporti tra simulazione e negozio fiduciario, in Giust. civ., 1959, I, 2039. (10) Cfr., anche qui, M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 160, secondo il quale le intese segrete “a meno che non perseguano finalità altamente meritorie (e nella storia esistono numerosi esempi), non hanno più cittadinanza”, aggiungendo che la riservatezza del patto fiduciario deriverebbe o dall’illiceità degli scopi con esso perseguiti, ovvero dalla piena fiducia che esisterebbe tra le parti e che renderebbe superflua qualsiasi formalizzazione.


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come abbiamo visto, vengono definiti “contratti fiduciari”, e consentirebbe finalmente la valorizzazione, nell’ambito del nostro ordinamento e nel rispetto della nostra tradizione giuridica, di alcune di quelle che vengono definite “situazioni affidanti” (11). Venendo alle caratteristiche strutturali della figura, qui l’affidante trasferisce all’affidatario, che ne diviene fiduciariamente titolare, una o più posizioni soggettive, le quali entrano temporaneamente a far parte del suo patrimonio. Esse, tuttavia sono destinate ad essere impiegate a vantaggio di uno o più soggetti, i beneficiari, in attuazione di un programma, che deve essere indicato nel contratto e alla cui realizzazione l’affidatario si obbliga. Essendo vincolate alla realizzazione del programma, le posizioni soggettive trasferite non si confondono con il patrimonio personale dell’affidatario. Pertanto esse, non rispondono delle obbligazioni da lui contratte per cause non attinenti al programma negoziale (12). Ciò in quanto i beni, o più in generale le posizioni soggettive trasferite non appartengono all’affidatario, nel senso che non sono “sue” nell’accezione che questo termine avrebbe nell’art. 2740 del cod. civ. (13). Le caratteristiche ora delineate evidenziano la distanza di questo modello dal negozio fiduciario inteso nella sua accezione classica. Scompare, innanzitutto, ogni riferimento alla segretezza dell’intesa, la quale, al contrario è qui palese, riconoscibile da parte dei terzi, e ad essi pienamente opponibile (14). Un simile risultato si ottiene mediante il ricorso a strumenti giuridici diver-

(11) “Le “situazioni affidanti” esistono in qualsiasi ordinamento giuridico ed in qualsiasi tempo, onde la differenza tra gli ordinamenti consiste nella rilevanza giuridica che alle situazioni affidanti viene variamente attribuita”. Così M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 250. La stessa prassi contrattuale starebbe dimostrando una certa adesione al modello negoziale proposto (cfr. Trib. Genova, 31 dicembre 2012, in Trusts e attività fiduciarie, 2013, 422; Trib. Civitavecchia, 4 dicembre 2013, in Trusts e attività fiduciarie, 2014, 299). (12) Cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 314, il quale chiarisce che “Il fondo affidato, in quanto patrimonio, risponde delle sole obbligazioni, contrattuali o meno, inerenti la realizzazione del programma”, subito aggiungendo che “il fondo affidato non si confonde nel patrimonio dell’affidatario fiduciario”. (13) Cfr., anche qui, M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 366-367, il quale rileva che il termine “suoi” “designa propriamente qualsiasi posizione soggettiva che possa essere trattata come “propria” dal suo titolare e cioè quale spettanza patrimoniale dotata di un valore di scambio”. Sarebbe, quindi, “l’esatta negazione delle posizioni soggettive delle quali è temporaneamente titolare l’affidatario fiduciario in ragione del programma”. (14) “L’opponibilità della non confusione riguarda il riconoscimento della conformazione del diritto dell’affidatario fiduciario in forza del suo titolo” (così M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 449).


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si, originariamente anche non concepiti a questo fine, ma che comunque ben possono prestarvisi. Così, ad esempio, in tema di pubblicità, il trasferimento dei beni dall’affidante all’affidatario per la realizzazione del programma ben può giovarsi delle facoltà previste dall’art. 2645-ter del cod. civ., in materia di trascrizione dei vincoli di destinazione, tenendo, tuttavia, sempre a mente che la figura negoziale che qui si commenta diverge profondamente dalle ipotesi ivi contemplate (15). Centrale, dicevamo, è, in questo modello, la presenza di un programma, la cui realizzazione costituisce la causa concreta del contratto e giustifica l’attribuzione all’affidatario dei beni da parte dell’affidante (16). Un programma, naturalmente, espressione di interessi meritevoli di tutela (come richiesto dall’art. 1322 del cod. civ.) e consistente in una serie di attività, non sempre precisamente individuate, che l’affidante non può o non vuole compiere in prima persona, e che l’affidatario si impegna ad eseguire, con più o meno ampi margini di discrezionalità ed indipendenza, nei confronti dell’affidante o, più correttamente, di un terzo (17). Non rientrano, nell’ambito del modello, situazioni in cui non si riscontra un reale affidamento nei confronti dell’affidatario. Ciò avviene nei casi in cui l’agire dell’affidatario sia notevolmente limitato, nel qual caso può aversi un più semplice rapporto di mandato, ovvero nei casi in cui l’affidante mantenga poteri gestori di notevole entità rispetto al patrimonio segregato, nel qual caso potrebbe essersi in presenza di una ipotesi di simulazione (18). Allo stesso

(15) L’utilizzo della trascrizione ex art. 2645-ter del cod. civ. rappresenta, infatti, una sorta di “tradimento” della norma, poiché il bene oggetto del vincolo di destinazione non sarebbe realmente destinato. Nel contratto di affidamento fiduciario, infatti, il vincolo investe il programma e non il bene, sicché l’attuazione del programma ben può richiedere l’alienazione a terzi del bene segregato nel fondo affidato. In quest’ottica, la pubblicizzazione del vincolo potrebbe avvenire anche mediante una trascrizione ordinaria che renda nota l’esistenza di una condizione risolutiva che privi il bene di utilità per i creditori che tentino di agire in via esecutiva per crediti non attinenti al programma (cfr. anche qui M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 424-425). (16) In questo senso cfr. anche E. Corallo, Il contratto di affidamento fiduciario nel codice civile, in Trusts e attività fiduciarie, 2013, 501 ss.; sulla causa in concreto cfr. in dottrina, tra gli altri C.M. Bianca, Il contratto in diritto civile, Milano, 1984, 425 e ss.; M. Giorgianni, voce Causa, in Enc. dir., Milano, 1960, Vol. VI, 573 ss.; G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1968, 370 ss. (17) “Il contratto di affidamento fiduciario dà origine a un rapporto che assicura stabilità nell’attuazione del programma dell’affidamento rispetto alle vicende personali delle parti e ai loro possibili conflitti” (così M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 313). (18) Cfr. anche qui M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 318, il quale, tra


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modo, non è concepibile un affidamento fiduciario che veda l’affidante quale unico beneficiario del contratto, non riscontrandosi, in questo caso, alcun interesse meritevole di tutela tale da giustificare la segregazione patrimoniale che si verifica con il contratto (19). Le osservazioni che si sono ora compiute pongono in luce la stretta analogia che sussiste tra il contratto di affidamento fiduciario e l’istituto del trust. E non è un caso che chi ha proposto la figura sia anche chi, con maggior dedizione ed approfondimento, si è dedicato allo studio della fiducia nell’esperienza anglosassone, proponendone l’impiego nel nostro ordinamento. Come abbiamo visto, infatti, la teorizzazione di un nuovo modello di rapporto fiduciario muove proprio dall’inadeguatezza degli schemi in passato proposti a cogliere il reale significato della fiducia nel mondo del diritto e si giova, evidentemente, del confronto con i modelli adottati in ordinamenti giuridici diversi dal nostro. Come noto, il trust, istituto di origine anglosassone, trova ingresso nel nostro ordinamento principalmente a seguito della sottoscrizione della Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata a l’Aja il 1° luglio 1985, ratificata dall’Italia con la legge 9 ottobre 1989, n. 364, entrata in vigore il 1° gennaio 1992 (20). Sarebbe difficile sintetizzare in poche battute le caratteristiche strutturali della figura, considerando, soprattutto, che si è qui al cospetto di un modello che si presta a designare una molteplicità di fattispecie, non tutte riconducibili ad un medesimo schema (21). Di qui la tendenza, più volte manifestata in dottrina, a

le ipotesi di simulazione individua anche il caso in cui il fondo affidato sia gestito dall’affidatario fiduciario come cosa propria, venendo così meno la ragione sottostante la funzionalizzazione del patrimonio e dello stesso apparente affidamento. Ci si troverebbe qui innanzi ad una ipotesi di simulazione a tutto vantaggio dell’affidatario. (19) Così M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 416. È invece pienamente concepibile che l’affidante ponga i suoi beni al servizio del programma e assuma provvisoriamente la funzione di affidatario fiduciario. In questo caso, infatti, il contratto di affidamento fiduciario può vedere la contrapposizione non tra affidante e affidatario, ma tra affidante nella veste di affidatario auto-qualificatosi tale e beneficiari. In tal senso cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 380. (20) Sulla convenzione dell’Aja in materia di trust cfr., in dottrina, M. Lupoi, Il trust nell’ordinamento giuridico italiano dopo la convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, in Vita not., 1992, 975 ss.; A. Gambaro, A. Giardina e L. Ponzanelli, Convenzione relativa alla legge sui trusts ed al loro riconoscimento, in Le nuove leggi civili commentate, 1993, 1211 ss.; S. Mazzamuto, Il trust nell’ordinamento italiano dopo la convenzione dell’Aja, in Riv. not., 1998, 757 ss. (21) In questo senso cfr. M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, cit., 14; Id., Trusts, Milano, 2001, 7 ss.; A. Gambaro, voce Trust, in Dig. disc. priv. sez. civ., Torino, 1999, XIX, 449 ss.; L. Santoro, Il trust in Italia, Milano, 2009, 17.


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parlare dei trusts al plurale, piuttosto che del trust al singolare. Limitandoci, comunque, al modello convenzionale, si tratta di un rapporto giuridico in virtù del quale un soggetto, denominato trustee gestisce un patrimonio che gli è stato trasmesso da un altro soggetto, denominato disponente (o settlor), per uno scopo prestabilito, nell’interesse di uno o più beneficiari o per un fine specifico (22). Tradizionalmente, l’istituto nasce nell’ordinamento inglese dalla contrapposizione tra Common Law ed Equity, nel senso che se la prima riconosceva al trustee una posizione di piena proprietà sui beni trasferiti, l’intervento della seconda, ad opera dei cancellieri del re, consentiva di tutelare la posizione del beneficiario da eventuali abusi che il trustee potesse compiere tradendo la fiducia in esso riposta. Ecco, pertanto, profilarsi la tradizionale dicotomia tra legal ownership ed equitable ownership che caratterizza il rapporto, e nella quale alla piena titolarità del patrimonio da parte del trustee, corrisponde una compressione del diritto di godimento, funzionale al perseguimento degli scopi indicati nell’atto istitutivo (23). I beni in trust sono, infatti, sul piano formale, di proprietà del trustee, il quale, di conseguenza, gode di tutti i poteri e di tutte le facoltà che sono connesse alla sua posizione di proprietario, potendoli anche alienare, nel qual caso, il vincolo si trasferisce sul corrispettivo incassato. Essi costituiscono, però, un patrimonio separato dal resto dei beni del trustee, e, pertanto, i creditori personali di quest’ultimo non possono aggredirli per la soddisfazione di crediti estranei all’attività del trust. Essendo nella titolarità del trustee, i beni in trust cessano, comunque, di appartenere al disponente, che ne perde definitivamente il controllo. Tali beni non appartengono, però, neppure ai beneficiari, ai quali saranno di regola trasferiti al termine della “vita” del trust, pur potendo, in alcuni casi essi già fruire di taluni benefici ed utilità derivanti dai beni segregati, sempre nelle modalità e nei limiti di quanto stabilito nell’atto istitutivo (24).

(22) Vi può essere, peraltro, l’intervento di una ulteriore figura, il “guardiano” (protector), che, pur rimanendo estranea alla vicenda traslativa assume una funzione di controllo rispetto all’attività del trustee, assicurandosi che quest’ultimo esegua quanto previsto nell’atto istitutivo del trust. Sulla figura del guardiano cfr. M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamento fiduciari, cit. 126. (23) Per un approfondimento dell’istituto nel diritto inglese cfr. R. Franceschelli, Il “trust” nel diritto inglese, Padova, 1935; C. Grassetti, Trust anglosassone, proprietà fiduciaria e negozio fiduciario, in Riv. dir. comm., 1936, I, 548 ss.; M. Graziadei, B. Rudden, Il diritto inglese dei beni e il trust: dalle res al fund, in Quadrimestre, 1992, 458 ss. (24) Il vincolo fiduciario assume qui una portata reale e come tale è opponibile ai terzi. Ciò significa che la cessione a terzi dei beni costituenti il trust fund in violazione delle


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Riguardo ai beneficiari, si distingue tra “beneficiari dei beni”, ossia coloro che, al termine del trust, saranno destinatari del relativo patrimonio, e “beneficiari del reddito”, identificabili con coloro che, durante la vita del trust, potranno, se del caso, ricevere gli eventuali “frutti” derivanti dalla gestione del trustee. Così sommariamente tratteggiate le caratteristiche del trust, è facile cogliere le analogie funzionali che caratterizzano questo istituto di origine anglosassone rispetto al contratto di affidamento fiduciario. Come avviene nel trust, anche nel contratto di affidamento fiduciario l’affidante si spoglia dei suoi beni e li attribuisce all’affidatario per l’esecuzione del programma. Anche nel contratto di affidamento fiduciario, inoltre, la gestione dei beni operata dall’affidatario è diretta a vantaggio di soggetti diversi, i beneficiari indicati nel programma, i quali, anche qui, a seconda di quanto sia previsto nel programma medesimo, possono essere destinatari dei beni al termine del programma (beneficiari dei beni) ovvero delle utilità che derivano dallo sfruttamento di tali beni durante l’esecuzione del programma (beneficiari del reddito) (25). Diverse, tuttavia, sono le basi giuridiche su cui si fondano i due istituti. Il trust è un istituto originario del diritto anglosassone ed espressamente disciplinato in numerosi ordinamenti giuridici di common law. L’individuazione della legge applicabile ad un trust istituito in Italia implica, pertanto, il rinvio a norme giuridiche proprie di un diverso ordinamento. Il contratto di affidamento fiduciario è invece un negozio atipico retto dalla legge italiana ed in base ad essa regolato ed interpretato (26). Il trust, inoltre, a differenza del negozio di affidamento fiduciario, non è neppure un contratto. Esso deriva da una manifestazione di volontà del disponente, alla quale il beneficiario non partecipa in alcun modo. Inoltre, come

prescrizioni dell’atto istitutivo, come pure l’indebita appropriazione dei beni da parte del trustee possono comportare l’inopponibilità del trasferimento stesso, da far valere mediante una azione di tipo reale e non di tipo obbligatorio, di regola da parte dei beneficiari (cd. tracing). (25) In questo senso cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 397, che distingue le posizioni dei beneficiari a seconda dell’intensità dei diritti ai medesimi spettanti, sicché la posizione più intensa sarebbe quella di coloro che al termine del contratto avrebbero diritto a conseguire la proprietà di un determinato bene. Vi sarebbe poi la posizione di coloro per i quali il diritto al conseguimento del bene sarebbe rimesso ad una condizione, ovvero alla discrezionalità dell’affidatario. I beneficiari, inoltre potrebbero essere titolari di posizioni non esclusivamente patrimoniali ma anche di tipo reddituale. (26) Sul punto cfr. anche M. Tonellato, Il contratto di affidamento fiduciario: aspetti innovativi della recente pronuncia del giudice tutelare di Genova, in Trusts e attività fiduciarie, 2014, 33.


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anticipato, sebbene sia il disponente a “dar vita” al trust, il suo rapporto con il trustee si conclude nel momento stesso in cui sorge il trust, lasciando in vita obbligazioni del trustee nei confronti del beneficiario. Pertanto, sembra doversi escludere che la posizione del beneficiario di un trust sia una posizione contrattuale (27). 2. I rapporti fiduciari dal diritto civile al diritto tributario. – Lo studioso del diritto tributario, quando si accosta ai temi della fiducia, è portato a confrontarsi con aspetti diversi da quelli con cui deve misurarsi lo studioso del diritto civile. Qui non si tratta, infatti, di valutare la meritevolezza degli interessi che si esprimono nel programma negoziale, né di individuare gli strumenti di tutela dei soggetti che vi intervengono, ma di ricondurre la ricchezza che attraverso il contratto si manifesta al soggetto che effettivamente la esprime. Questo perché, come anche in passato rilevato dalla dottrina (28), il fenomeno fiduciario implica, per sua natura, una dissociazione tra titolarità della ricchezza e soggetto nel cui interesse essa è posseduta. Il fenomeno fiduciario è stato, per molti anni, guardato con diffidenza, se non con sospetto, proprio perché si riteneva che il ricorso alla fiducia fosse finalizzato a creare situazioni di titolarità apparente dei beni, il più delle volte al fine di celarne l’effettiva proprietà. L’intesa fiduciaria, in quest’ottica, costituiva assai spesso un accordo segreto tra fiduciante e fiduciario, proprio per evitare che al primo fosse ricondotta la titolarità di beni di cui lo stesso, per molte ragioni, non necessariamente colorate di illiceità, desiderava, almeno formalmente, spogliarsi (fiducia cum amico) (29).

(27) Analogie e differenze tra i trust ed il contratto di affidamento fiduciario sono poste in luce da M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 488-489. In particolare, in comune vi sarebbero, tra le altre cose, la “segregazione imperfetta”, che protegge il fondo affidato, ma non i beni personali dell’affidatario fiduciario, la natura delle obbligazioni dell’affidatario e del trustee, nonché il fatto che le posizioni soggettive dei beneficiari possono avere oggetti diversi come anche le posizioni dei beneficiari del trust. Importanti differenze derivano invece dalla natura contrattuale del contratto di affidamento fiduciario rispetto al trust. E così i diritti dell’affidante quale controparte contrattuale nei confronti dell’affidatario non sono concepibili nel diritto dei trust, ed anzi, in molti casi renderebbero il trust nullo (sham). I beneficiari, poi, nel diritto dei trust, hanno una posizione rafforzata, specialmente in materia di rendiconto e di informativa rispetto all’attività del trustee, proprio perché qui manca una controparte contrattuale dello stesso. (28) Cfr. in questo senso P. Adonnino, voce Società fiduciaria. II) Diritto tributario, in Enc. giur. Treccani, Vol. XXIX, Roma, 1993, 2. (29) In questo senso cfr. M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti


Evidentemente, una simile ricostruzione non ha giovato ad una serena elaborazione teorica di tali rapporti nella materia tributaria. Al contrario, il manifestarsi di orientamenti che tradizionalmente tendono a privilegiare la “sostanza economica” a scapito della “forma giuridica”, ha, qui più che altrove, contribuito all’affermarsi di una lettura diffidente del fenomeno. Anche nella ricostruzione delle dinamiche impositive che investono il fenomeno fiduciario, pertanto, si è ritrovata la tradizionale contrapposizione tra chi tende a ricostruire il presupposto d’imposta valorizzando le forme giuridiche attraverso le quali circola e, in definitiva, si manifesta la ricchezza dei contribuenti, e chi, invece, tende, se non a svilire, certamente a superare la forma giuridica per penetrare quella che si ritiene essere la sostanza economica che si celerebbe dietro di essa (30). Così, guardando, innanzitutto, all’ampio comparto delle imposte sui redditi, l’imputazione del reddito derivante dai beni affidati al fiduciario, piuttosto che al fiduciante, dipende, in definitiva, dalla nozione dell’elemento soggettivo del presupposto che si intende accogliere (31).

fiduciari, cit., 199-200; qui l’Autore evidenzia come la segretezza dell’intesa fiduciaria avrebbe condotto ad una sua assimilazione ad ipotesi di simulazione e di interposizione, svilendone la funzione. Per un accostamento tra fiducia, simulazione ed interposizione cfr. anche U. Morello, Fiducia e negozio fiduciario: dalla “riservatezza” alla “trasparenza”, in Aa.Vv., I trust in Italia oggi, a cura di I. Beneventi, Milano, 1996, 82 ss. (30) Come noto, la valorizzazione della “realtà economica” rispetto alla forma giuridica è stata tradizionalmente sostenuta dagli Autori che si richiamano all’impostazione proposta dalla cd. “Scuola pavese” fondata da Benvenuto Griziotti. Si ricordano, senza pretese di completezza, B. Griziotti, Lo studio funzionale dei fatti finanziari, cit., 306 ss.; Id., L’interpretazione funzionale delle leggi finanziarie, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1949, I, 349; D. Jarach, Principi per l’applicazione delle tasse di registro, Padova, 1937, 41 ss.; E. Vanoni, Natura dell’interpretazione delle leggi tributarie, Padova, 1932, 133 ss. ed ora in Opere giuridiche, a cura di F. Forte, Milano, 1960, Vol. I, 210 ss.; per una ricostruzione storica di tali posizioni cfr., invece, G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 199 ss.; Id., Sull’interpretazione antielusiva in Benvenuto Griziotti e sul rapporto con la scuola tedesca del primo dopoguerra: alcune riflessioni, in Riv. dir. trib., 2008, I, 413 ss.; da ultimo anche G. Girelli, Abuso del diritto e imposta di registro, Torino, 2012, 63 ss. La dottrina prevalente, tuttavia, ritiene oggi che ai fini dell’imposizione siano rilevanti gli effetti giuridici e non quelli meramente economici. In tal senso cfr., anche qui senza pretese di completezza, E. De Mita, Diritto tributario e diritto civile: profili costituzionali, in Riv. dir. trib., 1995, I, 153 ss.; S. Cipollina, La legge civile e la legge fiscale. Il problema dell’elusione fiscale, Padova, 1992, 65 ss.; G. Tinelli, Il reddito d’impresa nel diritto tributario. Profili generali, Milano, 1991, 145; A. Carinci, L’invalidità del contratto nelle imposte sui redditi. Profili sostanziali, Padova, 2003, 60 ss. (31) Minori difficoltà sembrano emergere, invece, nell’ambito dell’imposizione


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Come noto, ai sensi dell’art. 1 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie individuate dall’art. 6 del medesimo testo unico. In termini pressoché identici si esprime poi l’art. 72 dello stesso TUIR, laddove individua il presupposto dell’imposta sul reddito delle società. Nello studio del presupposto delle imposte sui redditi, pertanto, si distingue, tradizionalmente, il profilo oggettivo, rappresentato dal reddito ed il profilo soggettivo, rappresentato dalla relazione che deve sussistere tra il reddito ed il soggetto passivo e che, appunto, viene indicata dal legislatore con il termine “possesso”. In questo contesto, l’individuazione del corretto significato da attribuire a tale termine ha suscitato notevoli incertezze nella dottrina, la quale, nel corso degli anni, è giunta a soluzioni tutt’altro che univoche. Così, se, secondo una prima impostazione, la nozione di possesso, sulla base del principio di “unità dell’ordinamento”, andrebbe ricondotta alla nozione civilistica contenuta nell’art. 1140 del cod. civ. (32), ossia all’esercizio di un potere di fatto sulla cosa corrispondente al diritto di proprietà o ad altro diritto reale, ben presto ci si è accorti di come una simile definizione non fosse in grado di cogliere tutte le possibili relazioni che, nel diritto tributario, si instaurano tra il reddito ed il soggetto passivo dell’imposta (33). Nel tentativo di superare tale impostazione, altra parte della dottrina ha, quindi, proposto una nozione di possesso di tipo meramente economico, per esso intendendo la “materiale” o “concreta” disponibilità del reddito (34).

patrimoniale, caratterizzandosi essa, nel nostro ordinamento, come una forma di prelievo reale e no personale. Sicché l’individuazione della misura del prelievo non risente, in questi casi, dell’eventuale intestazione del bene ad un soggetto diverso da quello cui è riconducibile la materia disponibilità. Per la distinzione tra imposte reali e imposte personali cfr. A. Fedele, Imposte reali e imposte personali nel sistema tributario italiano, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2002, 451 ss. (32) Tesi in passato prospettata da M.A. Galeotti Flori, Il possesso del reddito nell’ordinamento dei tributi diretti. Aspetti particolari, Padova, 1983; R. Pignatone, Il possesso dei redditi prodotti in forma associata, in Dir. prat. trib., 1982, I, 632 ss. (33) In effetti, come rilevato in dottrina, il reddito non è rappresentato da un “cosa” suscettibile di possesso nell’accezione indicata nel codice civile, anche perché alcune fattispecie reddituali sono meramente figurative, come ad esempio i redditi imputati per trasparenza nelle società di persone, indipendentemente dalla distribuzione, o il redditi d’impresa, costituito da un dato contabile. Sul punto cfr. S. Mencarelli, G. Tinelli, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, II ed., Torino, 2010, 27-28. (34) La nozione di possesso del reddito in termini di “materiale” o “concreta” disponibilità è stata avanzata da G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1970, 371; A. Berliri, Il


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Tale tesi, che, nella sostanza, indirizzava la soggettività passiva dal titolare “di diritto” al titolare “di fatto” del reddito ossia verso chi, con il proprio comportamento, avesse dimostrato di poterne materialmente disporre, è stata, però, tendenzialmente superata, essendo successivamente prevalso un orientamento volto a privilegiare la sussistenza di un collegamento di tipo giuridico tra il soggetto passivo e la fonte reddituale. Ad oggi, pertanto, sembra preferibile accogliere una nozione di possesso che individui, nell’ambito di ciascuna categoria reddituale, una relazione tra il soggetto e la fonte che sia tale da attribuire a quest’ultimo il potere di disporre, in modo volontario, della fonte stessa, così da incidere sulla dimensione del fatto economico in cui si esprime, in termini giuridici, il presupposto impositivo (35). Ebbene, tornando al tema delle intestazioni fiduciarie, sembra evidente che, una volta scartato ogni eventuale appiattimento alla definizione di possesso espressa dall’art. 1140 del cod. civ., la scelta se imputare il reddito al fiduciario oppure al fiduciante dipende da come si ritiene debba essere letto il rapporto tra il soggetto ed il bene (o l’attività) che del reddito costituisce la fonte. Invero, gli autori che ancora oggi intendono la nozione di possesso in termini di “materiale” o “concreta” disponibilità del reddito, ossia in termini prettamente economici, hanno certamente maggiore facilità ad individuare il soggetto passivo nel fiduciante (36). Al contrario, chi ritiene che la nozione di

testo unico delle imposte sui redditi, Milano, 1960, 345; E. Potito, L’ordinamento tributario italiano, Milano, 1978, 181 ss. La tesi affondava le sue radici nell’art. 131, comma 1, del D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645 (TUID) e trovava conferma nell’art. 3 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 che faceva concorrere alla formazione del reddito complessivo del soggetto passivo anche i redditi altrui dei quali egli avesse la libera disponibilità o l’amministrazione senza obbligo di resa dei conti. (35) Così, quasi testualmente, G. Tinelli, Commento all’art. 1, in Aa.Vv., Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi, a cura di G. Tinelli, Padova, 2009, 27; G. Tinelli, L’accertamento sintetico del reddito complessivo nel sistema dell’Iperf, Padova, 1993, 59; Id., Il reddito d’impresa nel diritto tributario. Profili generali, cit., 57. Nel senso della valorizzazione, ai fini dell’individuazione della nozione di possesso di reddito, della titolarità della fonte cfr. anche A. Fedele, “Possesso” di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del “cumulo”, in Giur. cost. 1976, I, 2613; M. Miccinesi, L’imposizione dei redditi nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, Milano, 1990, 87 ss.; F. Gallo, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Dir. prat. trib., 1992, I, 1763; F. Paparella, Possesso di redditi ed interposizione fittizia, Milano, 2000, 157. (36) Attribuisce ancora oggi preminente rilievo alla disponibilità economica del reddito rispetto alla titolarità della fonte, A. Lovisolo, Possesso di reddito ed interposizione di persona, in Dir. prat. trib., 1993, I, 1665; Più articolata la posizione di M. Nussi, L’imputazione del reddito tra soggetto interposto ed effettivo possessore: profili procedimentali, in Rass. trib., 1998, 733


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possesso presupponga l’esistenza di un rapporto tra soggetto e la fonte tale per cui il primo possa disporre, sia sul piano economico che sul piano giuridico, delle utilità derivanti dalla seconda, tende a negare la possibilità di imputare direttamente al fiduciante i redditi dei beni affidati al fiduciario (37). Né, a far chiarezza, si rivela di grande aiuto la previsione contenuta all’art. 37, comma 3, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che, come noto, consente all’Amministrazione finanziaria di imputare al possessore effettivo i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti. L’individuazione dell’ambito applicativo della norma, giustamente inserita tra le disposizioni che regolano l’attuazione amministrativa del prelievo reddituale, dipende, infatti, dalla corretta delimitazione, sul piano sostanziale, del presupposto impositivo. Pertanto, chi ritiene che il collegamento tra il soggetto e la fonte debba essere inteso essenzialmente in senso economico, non ha difficoltà a ricondurre nell’ambito di applicazione della norma fenomeni di interposizione cd “reale”, mentre chi non ritiene di poter prescindere, nell’individuazione dell’elemento soggettivo del presupposto, dall’esistenza di un collegamento di natura giuridica, tende, evidentemente, a circoscrivere l’applicabilità della norma ai casi di interposizione cd “fittizia”, ossia, in definitiva, ai casi di simulazione soggettiva relativa. Con la conseguenza che, nel primo caso, si ritiene di poter superare anche l’intesa fiduciaria, pur trattandosi qui di interposizione di tipo reale, mentre, nel secondo caso, l’ambito di operatività della norma viene circoscritto ai casi di simulazione (38).

ss., per il quale il possesso, andrebbe individuato non solo in presenza di un collegamento diretto con la fonte, ma anche in presenza di un collegamento indiretto, apprezzabile, tuttavia in termini giuridici e non soltanto economici. In ogni caso, sono proprio costoro ad aver proposto la tesi della trasparenza fiscale del negozio fiduciario (cfr., in particolare, A. Lovisolo, Aspetti dell’imposizione dei dividendi relativi a partecipazioni “affidate” a società fiduciarie, in Dir. prat. trib., 1977, I, 1271; Id., Il sistema impositivo dei dividendi, Padova, 1980, 314 ss.; M. Nussi, L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, 565 ss.; Id., voce Fiduciaria (società) nel diritto tributario, in Dig. disc. priv. sez. comm., Vol. VI, Torino, 1991, 120 ss.; Id., voce Fiducia nel diritto tributario, ivi, 80 ss.). (37) In questo senso F. Gallo, Profili fiscali dell’amministrazione e della gestione fiduciaria di valori mobiliari, in Dir. prat. trib., 1983, I, 46 ss.; P. Adonnino, voce Società fiduciaria. II) Diritto tributario, cit., 4; F. Paparella, Possesso di redditi ed interposizione fittizia, cit., 179. (38) Secondo l’interpretazione tradizionale l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973, introdotto ad opera dell’art. 30 del D.L. 2 marzo 1989, n. 69, conv. in legge 27 aprile 1989, n. 154, consentirebbe all’Amministrazione finanziaria di accertare fenomeni di interposizione fittizia, senza dover previamente instaurare un autonomo giudizio di simulazione in sede civile (in tal senso cfr. F. Gallo, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, cit., 1769; C.


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Parte prima

Particolarmente illuminante, ai fini di una ricostruzione sistematica del fenomeno fiduciario nell’ambito dell’imposizione diretta, non sembra neppure essere stato il contributo interpretativo offerto dall’Amministrazione finanziaria. Essa, in effetti, pare essersi soffermata soprattutto sul tema dell’intestazione fiduciaria di titoli e partecipazioni, ai sensi della legge 23 novembre 1939, n. 1966, precisando come, in questi casi, il soggetto nei cui confronti si verifica il presupposto dell’imposta reddituale debba essere individuato nel fiduciante e non nella società fiduciaria che detti titoli si limita a custodire e ad amministrare. Così, si è chiarito, se azioni o quote appartenenti a persone fisiche sono fiduciariamente intestate ad una società fiduciaria, che provvede alla regolare tenuta delle scritture contabili e alle comunicazioni imposte dalla legge, i trasferimenti a terzi di tali azioni o quote costituiscono cessioni o conferimenti operati direttamente dal fiduciante, effettivo proprietario dei beni (39). In altre

Magnani, Interposizione fittizia e imputazione del reddito, in Le nuove leggi civili commentate, 1990, II, 1247; F. Paparella, Possesso di redditi e interposizione fittizia, cit., 308 ss.). Sembrano ritenere, invece applicabile la norma anche nei casi di interposizione reale, M. Nussi, L’imputazione del reddito tra soggetto interposto ed effettivo possessore, cit., 733; A. Lovisolo, Possesso di reddito ed interposizione di persona, cit., 1689; Id., Il contrasto all’interposizione “gestoria” nelle operazioni effettive e reali, ma prive di valide ragioni economiche, in GT- Riv. giur. trib., 2011, 869 ss. (nota a Cass., sez. trib., 10 giugno 2011, n. 12788), il quale tuttavia ne circoscrive l’applicazione alle ipotesi in cui l’acquisto dell’interposto sia reale ed effettivo, ma privo di una sua ragione economica. In ogni caso, comune sembra essere la convinzione che la norma operi sul piano procedimentale e non sul piano sostanziale, sicché essa non modifica né integra la previsione sostanziale relativa al modulo di collegamento della fonte reddituale con il soggetto (in tal senso cfr. G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario, IV ed., Padova, 2013, 299). In quest’ottica, quindi, la previsione potrebbe addirittura oggi reputarsi superata dall’art. 2, comma 3, del D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (introdotto con l’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448), in virtù del quale il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie tributarie (in questo senso, se ben si intende, anche A. Lovisolo, Il contrasto all’interposizione “gestoria” nelle operazioni effettive e reali, ma prive di valide ragioni economiche, cit., 869 ss.). La giurisprudenza di legittimità, dopo aver in passato circoscritto l’ambito di operatività della norma alla sola interposizione fittizia (cfr. Cass., sez. trib., 3 aprile 2000, n. 3979, in banca dati Le leggi d’Italia), ha assunto di recente posizioni oscillanti. Mentre, infatti, Cass., sez. trib., 15 aprile 2011, n. 8671 (in banca dati Le leggi d’Italia) ne conferma l’applicazione alle sole ipotesi di interposizione fittizie, la successiva Cass., sez. trib., 10 giugno 2011, n. 12788 (sempre in banca dati Le leggi d’Italia), valorizzando una (in verità non pienamente condivisibile) funzione antielusiva della norma, ne estende l’applicazione anche ai casi di interposizione reale. Per un commento a tali sentenze cfr. anche M. Basilavecchia, L’interposizione soggettiva riguarda anche comportamenti elusivi?, in Corr. trib., 2011, 2968 ss. (39) In tal senso, cfr. circolare 10 maggio 1985, n. 16/9/674 della Direzione generale delle


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occasioni invece l’Agenzia delle Entrate ha precisato che l’intestazione ad una fiduciaria non può precludere l’applicazione dei benefici derivanti dalla direttiva 90/435/CEE (oggi direttiva 2011/96/UE) cd. Madre-Figlia, laddove ovviamente ne ricorrano le condizioni (40). L’intestazione di titoli e partecipazioni alle società fiduciarie costituite ai sensi della legge n. 1966/1939 (41), rappresenta, però, un’ipotesi caratterizzata

Imposte dirette, Div. IX; sul punto cfr. anche la Risoluzione 8 ottobre 1999, n. 153/E (in Boll. trib., 1999, 1602), in materia di applicazione della ritenuta alla fonte a titolo d’imposta prevista dall’art. 27 del D.P.R. n. 600/1973 per i dividendi di fonte italiana. Qui l’Amministrazione finanziaria ha confermato l’irrilevanza della presenza di una società fiduciaria ai fini dell’accertamento, da parte della società emittente, della sussistenza delle condizioni fissate per l’applicazione della ritenuta a titolo d’imposta (e cioè che la partecipazione non è qualificata e non è detenuta nell’esercizio dell’impresa). Sul punto cfr. G. Corasaniti, Le attività finanziarie nel diritto tributario, Milano, 2012, 730-731. (40) Cfr. la Risoluzione 13 marzo 2006, n. 37/E, in Boll. trib., 2006, 589; La stessa Agenzia delle Entrate ha poi chiarito la portata del regime di “trasparenza fiduciaria” nei casi di imputazione per trasparenza di redditi societari. Nella circolare 22 novembre 2004, n. 49/E, l’Amministrazione ha, infatti, precisato che l’intestazione di quote a società fiduciarie non preclude l’opzione per i regimi di trasparenza previsti dagli artt. 115 e 116 del TUIR. Con la Risoluzione 7 dicembre 2006, n. 136/E (in Boll. trib., 2007, 1207), invece, si è chiarito che nell’ipotesi in cui la partecipazione oggetto di intestazione sia una mera partecipazione al capitale di una società di persone, ovvero non comporti una responsabilità illimitata del socio stesso ed un’ingerenza nell’amministrazione (sarebbe il caso di partecipazioni in società in accomandita detenute da soci accomandanti), gli effettivi titolari di tali partecipazioni restano i fiducianti. Sul punto cfr. G. Corasaniti, Le attività finanziarie nel diritto tributario, cit., 730731; F. Rasi, I riflessi fiscali dell’intestazione fiduciaria di partecipazioni societarie nella prassi dell’Agenzia delle Entrate, in Trusts e attività fiduciarie, 2007, 383 ss. (41) Ai sensi dell’art. 1 della legge n. 1966/1939 le società fiduciarie e di revisione si propongono, sotto forma di impresa, di assumere l’amministrazione dei beni per conto di terzi l’organizzazione e la revisione contabile di aziende e la rappresentanza dei portatori di azioni e obbligazioni. Ai sensi del successivo art. 2 della medesima legge le società fiduciarie sono soggette alla vigilanza del Ministero della Sviluppo economico e sono autorizzate ad operare dallo stesso ministero. Successivamente, l’art. 17 della legge 2 gennaio 1991, n. 1 (ed ora l’art. 60, comma 4, del D.lgs. 23 luglio 1996, n. 415 integrato da quanto previsto dall’art. 199, del D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, cd. TUF) ha introdotto la possibilità per le società fiduciarie di svolgere l’attività di gestione di patrimoni mediante operazioni aventi ad oggetto valori mobiliari, previa iscrizione nella sezione speciale dell’albo delle SIM tenuto dalla Consob di cui all’art. 3 della medesima legge. È così sorta la distinzione tra società fiduciarie di gestione o “dinamiche” e società di amministrazione o “statiche”, le quali precludendosi lo svolgimento di attività di gestione di valori mobiliari, continuano a esercitare la sola attività di gestione per conto terzi prevista dalla legge n. 1966/1939. Da ultimo, il D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141 ha previsto che le società fiduciarie si iscrivano ad un elenco speciale presso la Banca d’Italia. In ragione di tale previsione le società fiduciarie saranno sottoposte a doppia autorizzazione, una rilasciata dal Ministero per lo Sviluppo Economico, relativamente all’attività propria, l’altra


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da specifiche peculiarità, derivanti dalla natura “germanistica” che a tale forma di fiducia è stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza di legittimità (42). Come noto, la distinzione tra fiducia “romanistica” e fiducia “germanistica” ha per molto tempo appassionato gli studiosi del fenomeno fiduciario. Più precisamente, nella fiducia di tipo “romanistico”, il fiduciario viene investito in modo pieno ed illimitato del diritto nei confronti dei terzi estranei, sicché l’attribuzione che egli riceve è limitata solo sul piano interno dal pactum fiduciae che lo obbliga ad usare il diritto secondo le istruzioni del fiduciante. Nella fiducia di tipo “germanistico”, invece, il negozio fiduciario risulta privo di un reale effetto traslativo, sicché la posizione del fiduciante appare rafforzata nei confronti dei terzi. Secondo questa impostazione, infatti, al fiduciario non sarebbe trasferita la proprietà del diritto, che rimarrebbe in capo al fiduciante, ma soltanto la “legittimazione” all’esercizio del medesimo, nei limiti, ovviamente, di quanto previsto dal pactum fiduciae (43). Di conseguenza, trovandoci, qui, in presenza di una scissione tra proprietà effettiva e legittimazione all’esercizio del diritto (44), la soluzione di imputare i redditi derivanti dalle partecipazioni intestate a società fiduciarie direttamente ai fiducianti, risulta, in definitiva, una scelta obbligata a prescindere dalla nozione dell’elemento soggettivo del presupposto dell’imposta reddituale che si ritiene di poter accogliere (45).

da Banca d’Italia, per accedere alla iscrizione anzidetta. Le fiduciarie iscritte saranno pertanto sottoposte alla vigilanza da parte della Banca d’Italia sul rispetto della normativa antiriciclaggio. Sul punto cfr. G. Corasaniti, Le attività finanziarie nel diritto tributario, cit., 718. (42) Cfr. Cass., Sez. I, 23 settembre 1997, n. 9355, in Foro it., I, 1323; nello stesso senso anche Cass., Sez. I, 21 maggio 1999, n. 4943, in Giust. civ., 1999, I, 2635. (43) La fiducia di tipo germanistico trarrebbe la sua fonte dal § 185 del BGB che ammette l’attribuzione negoziale del potere di esercitare in nome proprio un dritto altrui. In tale ordinamento, pertanto, l’esistenza di tale disposizione normativa che consente al non titolare di compiere validamente atti di disposizione dei beni altrui, previo consenso del titolare, è stata posta a fondamento dell’ammissibilità di una scissione tra titolarità ed esercizio del diritto. Quest’ultima ricostruzione, però, non sembra potersi ammettere in via generale nel nostro ordinamento, rivelandosi in contrasto con le regole dettate in materia di circolazione della proprietà, specialmente di tipo immobiliare. (44) L’art, 1, comma 4, del R.D. 29 marzo 1942, n. 239 dispone che le società fiduciarie che abbiano intestato a proprio nome titoli azionari appartenenti a terzi sono tenute a dichiarare la generalità degli effettivi proprietari dei titoli stessi. Nello stesso senso l’art. 9, comma 1, della legge 29 dicembre 1962, n. 1745 dispone che le società fiduciarie devono comunicare i nomi degli effettivi proprietari delle azioni ad esse intestate e appartenenti a terzi sulle quali hanno riscosso utili. (45) È questa la posizione tradizionalmente espressa anche dalla dottrina. Cfr. sul punto


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Difficilmente, però, sul piano sistematico, le soluzioni ermeneutiche proposte per l’intestazione di titoli o partecipazioni sembrano potersi estendere ad ogni forma di intestazione fiduciaria. Qui, infatti, il fenomeno, essendo privo di una specifica base normativa che sancisca la scissione tra titolarità formale e proprietà sostanziale, non può che ricondursi al diverso modello della fiducia cd. “romanistica”, nella quale, come visto, il trasferimento del diritto dal fiduciante al fiduciario, pur limitato nei suoi effetti interni dal pactum fiduciae, appare, nei confronti dei terzi estranei, pieno ed incondizionato. Il patto fiduciario non sarebbe, pertanto, in quest’ipotesi, opponibile ai terzi che abbiano acquistato diritti da parte del fiduciario, neppure nel caso di acquisto in malafede, residuando, al fiduciante, il solo rimedio risarcitorio (46). In questo contesto, non può allora suscitare eccessivo stupore la posizione assunta dall’Amministrazione finanziaria nell’esaminare la materia delle intestazioni fiduciarie sotto il diverso profilo della reintrodotta imposta sulle successioni e donazioni, alla quale, come noto, si è aggiunta, ai sensi dell’art. 2, comma 47, del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 una nuova e, per certi versi, autonoma fattispecie impositiva diretta a colpire la “costituzione di vincoli di destinazione”. Sia pure dopo alcune incertezze, si è, infatti, precisato che, nel caso di intestazione a favore di società fiduciarie costituite ai sensi della legge n. 1966/1939, non verificandosi alcun effetto traslativo, non potrebbe ritenersi integrato il presupposto dell’imposta. Nella diversa ipotesi di intestazione di beni immobili, invece, operando il diverso criterio della fiducia “romanistica”, si è affermato che l’imposta debba trovare applicazione, sebbene non in funzione della costituzione di un vincolo, ma del mero trasferimento operato a titolo gratuito (47).

P. Adonnino, voce Società fiduciaria. II) Diritto tributario, cit., 2; F. Gallo, Profili fiscali dell’amministrazione e della gestione fiduciaria di valori mobiliari, cit., 43. G. Visentini, Aspetti fiscali del trasferimento e dell’intestazione fiduciaria, in Aa.Vv., Gli aspetti civilistici e fiscali dell’intestazione fiduciaria, Atti del Convegno di Venezia del 5 giugno 1976, 140. (46) In questo senso cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2000, 957. Nel caso di simulazione, invece, l’acquisto dei terzi verrebbe tutelato soltanto in presenza del requisito della buona fede. (47) In tal senso cfr. la Circolare Agenzia delle Entrate 27 marzo 2008, n. 28/E, in Boll. trib., 2008, 667. Nella precedente circolare 22 gennaio 2008, n. 3/E (in Boll. trib., 2008, 242), l’Amministrazione era invece addirittura giunta alla conclusione che anche nel caso di intestazione di titoli e partecipazioni alle società fiduciarie costituite ai sensi della legge n. 1966/1939 dovesse trovare applicazione l’imposta sulla costituzione del vincolo di destinazione. Tale impostazione era stata, però, giustamente criticata da parte della dottrina. Sul punto cfr. G. Corasaniti, Profili impositivi dell’intestazione fiduciaria, in Dir. prat. trib., 2009, I, 745;


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Sembra evidente, in questa ricostruzione, la valorizzazione della posizione del fiduciario, che, nei confronti dei terzi, detiene la piena ed incondizionata titolarità del bene fiduciariamente trasferito (48). Se così è, però, soltanto accogliendo una nozione di possesso che valorizzi un collegamento di tipo meramente economico (o comunque indiretto) tra la fonte del reddito ed il soggetto passivo sembrerebbe possibile ritenere che il presupposto dell’imposta si verifichi comunque in capo al fiduciante e non in capo al fiduciario. Il che, in effetti, non pare potersi escludere a priori, anche perché, in definitiva, tale soluzione sembrerebbe in molti casi più coerente con le linee evolutive del sistema fiscale, anche al livello internazionale. Si pensi, infatti, alla nozione di “beneficiario effettivo” (beneficial owner), che nasce negli ordinamenti giuridici di common law, e trova il suo ingresso nel sistema fiscale italiano sia per il tramite dell’art. 3, comma 2, del modello di convenzione contro le doppie imposizione adottato dall’OCSE, sia per effetto di alcune ulteriori previsioni normative adottate in attuazione di disposizioni di origine comunitaria (49). Ma si pensi, altresì, alla nozione di “titolare effettivo” contenuta nella normativa dettata in materia di antiriciclaggio (art. 2, comma 1, lett. u) del D.lgs. 21 novembre 2007, n. 231) (50)

F. Marchetti, F. Rasi, “Fiducia romanistica” e “fiducia germanistica” nella recente prassi dell’Agenzia delle Entrate, in Fiscalitax, 2008, 797 ss. (48) Tale posizione è stata, però, ampiamente criticata in dottrina, in quanto qui, nel trasferimento, mancherebbe l’intento liberale che invece dovrebbe rappresentare un requisito essenziale e imprescindibile del prelievo. In tal senso cfr. G. Corasaniti, Profili impositivi dell’intestazione fiduciaria, cit., 746; G. Fransoni, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, in Corr. trib., 2008, 648 ss. (49) Si veda, ad esempio l’art. 1, comma 1, del D.lgs. 18 aprile 2005, n. 84, attuativo della direttiva 2003/48/CE sul risparmio, per il quale le persone fisiche sono considerate beneficiarie effettive “se ricevono i pagamenti in qualità di beneficiario finale”, oppure l’art. 26-quater, comma 4, lett. c) n. 1, del D.P.R. n. 600/1973, di recepimento della direttiva 2003/49/CE, in materia di interessi e Royalties, per il quale le società sono considerate beneficiarie effettive “se ricevono i pagamenti in qualità di beneficiario finale e non di intermediario, quale agente, delegato o fiduciario di un’altra persona”. Sul tema cfr. F. Avella, Il beneficiario effettivo nelle convenzioni contro le doppie imposizioni: prime pronunce nella giurisprudenza di merito e nuovi spunti di discussione (nota a Comm. trib. prov. Torino, Sez. VII, n. 14/7/10 e Comm. trib. prov. Torino, Sez. IX, n. 124/9/10), in Riv. dir. trib., 2011, V, 14 ss.; A. Ballancin, La nozione di “beneficiario effettivo” nelle convenzioni internazionali e nell’ordinamento italiano, in Rass. trib., 2006, 209 ss. (50) In particolare, in caso di società, si considerano titolari effettivi le persone fisiche che, in ultima istanza, possiedono o controllano l’entità giuridica, attraverso il possesso o il controllo diretto o indiretto di una percentuale sufficiente delle partecipazioni al capitale sociale o dei diritti di voto, anche tramite azioni al portatore, purché non si tratti di una società ammessa alla quotazione su un mercato regolamentato e sottoposta a obblighi di comunicazione conformi alla


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e, come noto, di recente ampiamente valorizzata anche in ambito tributario, tanto da aver indotto parte della dottrina a dubitare della permanente validità della nozione di “possesso del reddito” quale presupposto dell’imposizione diretta (51). Sembra evidente, in tutti questi casi, l’esigenza di superare gli schermi giuridici per penetrate la sostanza economica dei rapporti patrimoniali (cd. approccio look through). Se, però, si condividono le perplessità di chi, nella mera intestazione di beni e nelle ipotesi affini, non riconosce la presenza di un rapporto realmente fiduciario, è facile rendersi conto di come le soluzioni qui proposte poco contribuiscano ad una corretta impostazione del problema. Un vero rapporto fiduciario, come evidenziato in precedenza, non può, infatti, esaurirsi in un fenomeno di mera interposizione (sia essa reale o, come alcuni ritengono, fittizia), ma richiede l’attribuzione, al fiduciario (rectius affidatario), di una serie di poteri (i cd. poteri fiduciari) per la realizzazione di un programma. Ciò significa, come abbiamo visto, che le posizioni soggettive trasferite all’affidatario non si confondono con il patrimonio di quest’ultimo e non possono essere aggredite dai suoi creditori personali. Esse sono vincolate all’attuazione del programma e, pertanto, non appartengono all’affidatario nel senso indicato dall’art. 2740 del cod. civ. Naturalmente, essendo sottoposte ad un vincolo programmatico, non appartengono neppure al fiduciante (rectius affidante) il quale di esse si è evidentemente spogliato.

normativa comunitaria o a standard internazionali equivalenti; tale criterio si ritiene soddisfatto ove la percentuale corrisponda al 25 per cento più uno di partecipazione al capitale sociale; in ogni caso si considerano titolari effettivi coloro che, anche in altro modo, esercitano il controllo sull’entità giuridica. In presenza, invece, di entità giuridiche quali le fondazioni e di istituti giuridici quali i trust che amministrano e distribuiscono fondi si considerano titolari effettivi, se i futuri beneficiari sono già stati determinati, le persone fisiche beneficiarie del 25 per cento o più del patrimonio dell’entità giuridica, ovvero, se i beneficiari non sono stati ancora individuati, la categoria di persone nel cui interesse è istituita o agisce l’entità giuridica, ed, in ogni caso, le persone fisiche che esercitano un controllo sul 25 per cento o più del patrimonio dell’entità giuridica. (51) In tal senso cfr. G. Marino, “Titolare effettivo” e possessori di reddito: sovrapposizioni, innesti e (probabili) mutazione genetiche, in Riv. dir. trib., 2011, I, 19. In ambito tributario, la nozione di “titolare effettivo” è stata, ad esempio, valorizzata ai fini dell’individuazione dei soggetti tenuti all’adempimento degli obblighi sul monitoraggio fiscale previsti dal D.L. 28 giugno 1990, n. 167, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 1990, n. 227 (cfr., l’art. 9 della legge 6 agosto 2013, n. 97 ed i successivi chiarimenti offerti dall’Agenzia delle Entrate con la Circolare 23 dicembre 2013, n. 38/E, in banca dati fisconline) e, in quest’ottica, essa assume oggi rilevanza anche ai fini dell’individuazione del soggetto che può avvalersi della procedura di emersione volontaria delle attività illecitamente detenute all’estero prevista dalla legge 15 dicembre 2014, n. 186 (cd. voluntary disclosure).


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Tutto ciò non può non riflettersi anche sul piano fiscale, nel senso che l’individuazione di colui che esprime una capacità contributiva, sia rispetto ai beni vincolati, sia, più in generale, rispetto all’attività compiuta dall’affidatario, deve, evidentemente, tenere conto della peculiarità del rapporto che si instaura tra i soggetti coinvolti. La ricerca di soluzioni compatibili con il rispetto dei principi di rango costituzionale non può che passare, pertanto, per un’operazione interpretativa di carattere sistematico, mancando qui un’espressa normativa che disciplini specificamente la fattispecie. 3. La fiscalità dei trust tra soggettività e trasparenza. – Come illustrato nelle riflessioni introduttive, il modello negoziale che presenta maggiori affinità a quello in esame sembra essere il trust di origine anglosassone. Ciò significa che, sebbene le diverse basi giuridiche non paiono permettere di estendere semplicemente ai contratti di affidamento fiduciario le disposizioni fiscali dettate in materia di trust, può essere opportuno, ai fini di individuare il trattamento fiscale dei contratti in questione, avvalersi dei contributi interpretativi sviluppati dalla prassi e dalla dottrina. Oggi, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296, l’art. 73, comma 1, del TUIR contempla, tra i soggetti passivi dell’IRES, accanto agli enti diversi dalle società, i trust, siano essi residenti o non residenti, a prescindere dal fatto che abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale. L’art. 73, comma 2, secondo periodo, precisa, però, che se i beneficiari sono individuati i redditi conseguiti dal trust sono imputati in ogni caso ai medesimi in proporzione alla quota di partecipazione indicata nell’atto istitutivo o in altri documenti successivi, ovvero, in mancanza, in parti uguali. Al verificarsi di questa condizione, ovvero limitatamente alla quota per la quale si verifica questa condizione, il reddito del trust è assoggettato a tassazione direttamente in capo ai beneficiari secondo le regole della trasparenza, a prescindere, pertanto, dalla effettiva distribuzione. L’adozione della disciplina ora descritta ha risolto, sul piano del diritto positivo, le incertezze che, in passato, avevano caratterizzato la riflessione sul regime fiscale dei trusts. Nel tentativo di individuare un soggetto cui imputare i redditi prodotti dal fondo segregato nel trust, infatti, si era inizialmente indicato nel trustee il soggetto passivo dell’obbligazione fiscale (52). Tale scel-

(52) Cfr. A. Fedele, Visione d’insieme della problematica interna, in Aa.Vv. I trusts in Italia oggi, cit., 275; V. Ficari, Il trust nelle imposte dirette (Irpeg ed Irap) un articolato modulo


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ta, secondo l’impostazione tradizionale, era l’unica a garantire che il reddito prodotto dal fondo del trust venisse imputato al soggetto che esprimesse una relazione con il fondo segregato qualificabile in termini di possesso. In questo senso il trustee era l’unico soggetto nei cui confronti si riteneva potesse verificarsi il presupposto dell’imposta reddituale riferibile ai proventi derivanti dal trust fund. L’elezione del trustee a soggetto passivo d’imposta, tuttavia, non era apparsa in linea con i principi che governano il nostro sistema, in quanto la titolarità dei beni spettante al trustee non deve essere intesa in termini di proprietà civilistica, avendo essa una finalità esclusivamente gestoria. Ne consegue che l’effetto di segregazione del trust fund dal patrimonio personale del trustee comporta l’inesistenza di una capacità contributiva autonoma di quest’ultimo con riferimento al reddito prodotto dai beni in trust per effetto dell’attività di gestione svolta (53). Non soddisfacente, poi, si era rivelata l’ipotesi di imputare i redditi derivanti dal fondo del trust direttamente ai beneficiari, naturalmente laddove essi vi fossero. Costoro, infatti, come ben evidenziato dalla dottrina, anche nel caso in cui abbiano un diritto attuale ed incondizionato alla percezione delle utilità derivanti dal fondo del trust, vantano un diritto azionabile nei confronti del trustee e non possono pertanto ritenersi legati da un rapporto con la fonte del reddito tale da essere inquadrato nella nozione di possesso siccome in precedenza delineata (54). L’unica eccezione sarebbe rappresentata dall’ipotesi

contrattuale oppure un autonomo soggetto passivo?, in Boll. trib., 2000, 1526; F. Gallo, Trusts, interposizione ed elusione fiscale, in Rass. trib., 1996, 1043; A. Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, 587; Id., Problematiche fiscali del trust, in Boll. trib., 2001, 1125; F. Paparella, Trusts ed interposizione fittizia nella disciplina delle imposte sui redditi, in Il fisco, 1996, 4812; Id., Brevi riflessioni aggiornate in tema di trusts, elusione ed interposizione di persona, in Boll. trib., 2002, 485; R. Schiavolin, I soggetti passivi, in Aa.Vv., L’imposta sul reddito delle persone giuridiche. Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, a cura di F. Tesauro, Torino, 1996, 71. (53) Così A. Salvati, Profili fiscali del trust, Milano, 2004, 237, secondo la quale, in definitiva la posizione soggettiva del trustee risulterebbe incompatibile con la realizzazione del presupposto dell’imposta reddituale, mancando qui proprio il collegamento tra redditi e soggetto passivo basato sulla titolarità della fonte produttiva per il cui tramite si ha l’imputazione al soggetto delle attività da cui deriva la produzione del reddito. (54) Così T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, Pisa, 2012, 36, che precisa come il reddito creato dal trust non sia né nella titolarità formale né nella disponibilità giuridica del beneficiario, nei casi in cui il medesimo vanti una mera aspettativa alla distribuzione del reddito rimessa alla discrezionalità del trustee. Nei casi in cui il beneficiario abbia poi un diritto incondizionato alla percezione del reddito si tratterebbe comunque di un diritto avente ad


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del cd. bare trust (trust nudo) nel quale il beneficiario vanta una posizione assoluta avente ad oggetto la consegna del fondo e dei relativi incrementi. In questi casi, in cui, a ben vedere, il rapporto degrada ad una sorta di mera “intestazione fiduciaria”, parte della dottrina, con il conforto della prassi Amministrativa, era giunta ad affermare la tassazione del reddito direttamente in capo al beneficiario, valorizzando qui la possibilità di riconoscere una scissione del diritto di proprietà derivante dalla contrapposizione tra legal ownership (in capo al trustee) ed equitable ownership (in capo al beneficiario) (55). Trattandosi, però, come visto, di soluzione inadeguata sul piano generale, parte della dottrina aveva, a questo punto, tentato di ricostruire la soggettività passiva del trust, riconducendo l’istituto nell’ambito dei soggetti previsti dall’art. 73, comma 2, del TUIR, ossia tra le altre organizzazioni, non appartenenti ad altri soggetti passivi, nei confronti delle quali il presupposto si verifica in modo unitario ed autonomo, e includendolo, di conseguenza, nell’ambito dei soggetti passivi dell’IRES (56). Anche prima dell’espressa inclusione del trust tra i soggetti passivi dell’IRES, quindi, l’elaborazione dottrinale era giunta a ricostruirne la soggettività tributaria partendo proprio dalle disposizioni dettate dall’art. 73, comma 2, del TUIR. Va ricordato, infatti, che il fondo del trust costituisce, innanzitutto, un patrimonio autonomo rispetto al disponente, sempreché, naturalmente, vi sia una reale segregazione e non permanga, in capo a quest’ultimo, un rilevante potere di controllo sugli atti compiuti dal trustee. Il fondo del trust, però, costituisce un

oggetto gli incrementi del trust fund, ma esercitabile nei confronti del trustee. (55) In questo senso si sono espressi G. Semino, Trust “nudo” e trasparenza fiscale, in Il fisco, 2005, 1924 ss: A. Contrino, Il “diritto attuale del beneficiario” come condizione per l’imputazione per trasparenza dei redditi del trust, in Dialoghi dir. trib., 2008, 108, ove viene anche tracciata la differenza tra fixed trust (nei quali il beneficiario è titolare di un vested interest nei confronti del trustee che lo legittima all’assegnazione del reddito conseguito dal trust, a prescindere da ogni valutazione del trustee) e bare trust. Per la prassi amministrativa cfr. Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale Liguria, parere su interpello 13 settembre 2004, in Trusts e attività fiduciarie, 2005, 480; Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale Liguria, parere su interpello 24 luglio 2003, ivi, 298. Su tali profili cfr. anche T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit., 36-37. P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, in Riv. dir. trib., 2012, I, 635. (56) In questo senso cfr. A. Salvati, Profili fiscali del trust, Milano, 2004, 242. A favore della soggettività del trust si sono espressi anche L. Perrone, La residenza del trust, in Rass. trib., 1999, 1601; G. Zizzo, Note minime in tema di trust e soggettività tributaria, in il fisco, 2003, 4658; M. Lupoi, Trusts, cit., 793; G. Puoti, La tassazione dei redditi del trust, in I trust in Italia oggi, cit., 323; P. Laroma Jezzi, Separazione personale e imposizione sul reddito, Milano, 2006, 289 ss.


Dottrina

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patrimonio autonomo anche rispetto al trustee, il quale, pur formalmente titolare dei beni in trust, è chiamato ad amministrarli nell’interesse dei beneficiari e secondo le modalità indicate nell’atto istitutivo. Il fondo, infine, non appartiene neppure ai beneficiari, il cui diritto alla percezione delle utilità del trust dipende da quanto stabilito nell’atto istitutivo. Valorizzando tale autonomia, parte della dottrina aveva, pertanto, ravvisato nel trust una sorta di organizzazione, in capo alla quale il presupposto si verificava in modo unitario ed autonomo (57). Questa soluzione consentiva di superare le difficoltà derivanti dall’individuazione del soggetto passivo nel trustee, ovvero nel beneficiario, e si rivelava in linea con l’impostazione proposta dal modello di convenzione contro le doppie imposizioni adottato dall’OCSE (58). L’attribuzione di un’autonoma soggettività a fondo del trust finiva, però, per comportare una divaricazione tra soggettività tributaria e soggettività civilistica, il che si rivelava, in realtà, in contrasto con l’impostazione tradizionale, tendente, come noto, a ravvisare una piena coincidenza tra soggettività di diritto civile e soggettività di diritto tributario (59). Si è detto, infatti, che il presupposto fondamentale per l’impu-

(57) Come rilevato dalla dottrina, “la segregazione patrimoniale, di carattere reale, tipica del trust è stata vista come indice di non appartenenza della organizzazione ad altri soggetti e la funzione gestoria del trustee è stata valutata in termini di autonomia decisionale dell’organizzazione”. In tal senso, “la valorizzazione del trust in quanto organizzazione” sarebbe avvenuta “in senso soprattutto normativo”, ossia quale attività unitariamente orientata. Tale carattere “metaindividuale e organizzativo” è apparso dunque sufficiente a consentire un percorso di soggettivizzazione dell’organizzazione, analogamente a quanto si riscontra nei cd. enti intermedi. Così T. Tassani, I trust nel sistema fiscale italiano, cit., 38; P. Laroma Jezzi, Separazione personale e imposizione sul reddito, cit., 289 ss. (58) Cfr. l’art. 3, par. 1, lett. a) del Modello di convenzione contro le doppie imposizioni adottato dall’OCSE che, nell’impiegare la formula “any other body of person”, sembra riferirsi anche ai trusts quali autonomi soggetti ai fini della disciplina convenzionale. In tal senso parrebbero inoltre deporre le indicazioni contenute nello stesso Commentario (art. 3, par. 2). Sul punto cfr. C. Garbarino, La soggettività del trust nelle convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni, in Dir. prat. trib., 2000, 392; G. Corasaniti, Il modello OCSE di convenzione bilaterale contro la doppia imposizioni e i trusts, in Aa.Vv., Corso di diritto tributario internazionale, Padova, 2002, 538; G. Marino, Profili di diritto internazionale tributario del trust: lo stato dell’arte, in Riv. dir. trib., 2006, I, 3 ss. (59) In passato la tesi dell’autonomia della soggettività tributaria rispetto a quella di diritto comune è stata sostenuta, tra gli altri, da A.D. Giannini, I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, 206 ss; E. Vanoni, Note introduttive allo studio della capacità degli enti morali nel diritto tributario, in Opere giuridiche, I, 1961, 432 ss.; G. A. Micheli, Soggettività tributaria e categorie civilistiche, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1977, I, 419 ss. Oggi, sia pure con diverse sfumature, si tende invece a ravvisare nella soggettività di diritto comune un antecedente logico della soggettività tributaria. In tal senso cfr. F. Gallo, La soggettività


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tazione di indici di capacità contributiva richiede l’attribuzione di situazioni giuridiche soggettive, possibile solo previo riconoscimento della soggettività giuridica generale. In definitiva, l’individuazione di un’autonoma soggettività tributaria del trust, derogando al criterio generale, avrebbe richiesto uno specifico intervento da parte del legislatore (60). In questo senso, la soluzione di includere espressamente i trust tra i soggetti passivi dell’IRES indicati all’art. 73, comma 1, del TUIR non può che essere salutata con apprezzamento, avendo contribuito a fare chiarezza su una materia caratterizzata da rilevanti incertezze. Il modello impositivo fondato sull’inclusione dei trust nel novero dei soggetti passivi dell’IRES non esaurisce, però, le possibili alternative riguardanti l’individuazione del soggetto cui imputare i redditi prodotti dal trust. Come osservato, infatti, la soggettività del trust ai fini IRES è oggi espressamente prevista soltanto nel caso di trust cd. opachi, ossia privi di beneficiari individuati, per tali, come vedremo, dovendosi intendere quei soggetti ai quali, in base all’atto istitutivo del trust, è riconosciuto un diritto attuale ed incondizionato alla percezione del reddito derivante dal fondo segregato. In questi casi, dicevamo, il reddito deve essere imputato per trasparenza in capo al beneficiario, e da questi assoggettato a tassazione quale reddito di capitale ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. g-sexies, del TUIR. L’adozione di un modello differenziato in funzione della natura del diritto attribuito al beneficiario ha, però, contribuito ad alimentare un serrato dibattito sulla giustificazione sistematica delle soluzioni previste a livello normativo. In particolare, accanto a chi, nell’espressa inclusione del trust tra i soggetti passivi dell’IRES indicati all’art. 73, comma 1, del TUIR, ha visto una sostanziale conferma della tesi che voleva i trust autonomi soggetti passivi

ai fini Irpeg, in Il reddito d’impresa nel nuovo testo unico, Roma-Milano, 1990, 662 ss.; A. Fedele, Il regime tributario delle associazioni, in Riv. dir. trib., 1995, I, 328; Id., Destinazione patrimoniale: criteri interpretativi e prospettive di evoluzione del sistema tributario, in Aa.Vv., Destinazioni di beni allo scopo, Milano, 2003, 293 ss., A. Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996; Non manca tuttavia chi ancora ritiene che la soggettività di diritto civile non sia un presupposto necessario della soggettività tributaria: M. Miccinesi, L’imposizione del reddito nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali, cit., 57 ss.; P. Laroma Jezzi, Separazione personale e imposizione sul reddito, cit., 5. (60) In questo senso T. Tassani, I trust nel sistema fiscale italiano, cit., 39; sulla possibilità di estendere la soggettività tributaria anche al di là di quella civilistica cfr. anche R. Schiavolin, I soggetti passivi, cit., 54.


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d’imposta, ai sensi dell’art. 73, comma 2, del medesimo Testo Unico (61), vi è chi, invece, ha ritenuto che l’espressa menzione dell’istituto tra gli enti previsti dall’art. 73, comma 1, deponesse in senso sostanzialmente opposto (62). Secondo quest’ultima impostazione, alla scelta di includere il trust tra i soggetti passivi dell’IRES non potrebbe essere riconosciuto carattere generale, dovendosi, invece, essa risolvere in una mera tecnica impositiva di carattere residuale, applicabile in mancanza di beneficiari individuati. Il regime ordinario di tassazione del trust, pertanto, non sarebbe quello fondato sulla sogettivizzazione dell’istituto, ma quello basato sull’imputazione del reddito per trasparenza ai beneficiari, trovandoci qui in presenza di un tipico fenomeno di dissociazione tra titolarità della fonte e riferibilità del presupposto (63). Un fenomeno ravvisabile anche in altre fattispecie, risolte anch’esse mediante il ricorso, in via generale, a schemi di imputazione analoghi al meccanismo della trasparenza e basati sull’attribuzione del reddito ad un soggetto diverso dal titolare della fonte (64). Quest’impostazione, tuttavia, non ha trovato piena condivisione in chi, guardando alla soluzione adottata dal legislatore, ha, invece, ritenuto di dover attribuire valenza generale all’inclusione dei trust tra i soggetti passivi

(61) Cfr. L. Castaldi, Ulteriori spunti sulla regolamentazione tributaria del trust: la soggettività tributaria, in Dialoghi dir. trib., 2007, 357; A. Contrino, “Il diritto attuale del benefciario” come condizione per l’imputazione per trasparenza dei redditi del trust, cit., 106 ss.; in questo senso anche, naturalmente, P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 585 ss. (62) In questo senso cfr., invece, G. Fransoni, La disciplina del trust nelle imposte dirette, in Riv. dir. trib., 2007, I, 236; Id., L’individuazione del beneficiari e il regime della “trasparenza”, in Aa.Vv., Teoria e pratica della fiscalità dei trust, a cura di G. Fransoni e N. de Renzis Sonnino, Milano, 2008, 36 ss.; P. Coppola, La disciplina fiscale del trust in materia di imposte dirette: le difficoltà di conciliare le attuali soluzioni normative alle molteplici applicazioni dell’istituto, in Rass. trib., 2009, 656; S. Reali, Soggettività del trust e imposizione sui redditi: profili ricostruttivi, in Riv. dir. trib. 2011, I, 227 ss. (63) In questo senso cfr. G. Fransoni, L’individuazione del beneficiari e il regime della “trasparenza”, cit., 43. In termini parzialmente analoghi E. Della Valle, Luci e ombre nella circolare sui trust: le imposte dirette, in Riv. dir. trib., 2007, II, 732. (64) Sempre secondo G. Fransoni, La disciplina del trust nelle imposte dirette, cit. 235, il fenomeno della dissociazione tra titolarità della fonte e riferibilità del presupposto si verificherebbe nel caso del fondo patrimoniale, delle convenzioni matrimoniali e dell’impresa familiare, oltre che ovviamente nelle società di persone, nelle associazioni professionali e nelle società di capitali per le quali di sarebbe optato per i regimi previsti dall’art. 115 e 116 del TUIR. Inoltre, secondo l’Autore, anche l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600/1973 realizzerebbe un tale fenomeno.


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dell’IRES, e, di conseguenza, riconosce natura sostanzialmente derogatoria all’imputazione del reddito per trasparenza in presenza di beneficiari individuati (65). A deporre in tal senso vi sarebbero riflessioni che, al livello sistematico, investono lo stesso funzionamento del modello impositivo fondato sull’imputazione per trasparenza (66). Si è detto, infatti, che l’adozione di tale criterio di tassazione non implica affatto l’inidoneità della struttura intermedia ad assumere un’autonoma soggettività tributaria, ma, al contrario, presuppone proprio la soggettività dell’ente che, tuttavia, viene svalutata dal legislatore sulla base di una precisa opzione normativa (67). In linea generale, infatti, il reddito deve essere imputato al soggetto che rispetto alla fonte esprime una relazione qualificabile in termini di possesso. Ebbene, nel modello impositivo fondato sul meccanismo di tassazione per trasparenza, il soggetto che esprime una tale relazione è, in realtà, proprio quella struttura intermedia la cui soggettività tributaria il legislatore ritiene, però, di dover, in tutto o in parte, superare per il perseguimento delle più diverse finalità di politica fiscale. Se così è, la tassazione per trasparenza può, allora, trovare applicazione soltanto in presenza di una struttura dotata, sia pure in linea teorica, di autonoma soggettività, trovandoci, in caso contrario, non al cospetto di una scissione tra titolarità della fonte e imputazione del reddito, ma di una struttura inidonea a porsi quale soggetto cui riferire e tassare una specifica capacità contributiva. In questo caso, non dovrebbe parlarsi di “trasparenza”,

(65) In questi termini cfr. T Tassani, I trusts nel regime fiscale italiano, cit., 81, il quale sottolinea che “la stessa disposizione legislativa parli di redditi “conseguiti dal trust”, mostrando chiaramente di considerare la produzione degli stessi (e allora anche gli atti e le attività da cui i redditi derivano) come rilevanti in quanto riconducibili autonomamente al trust, realizzando così chiaramente la dissociazione con il successivo momento della imputazione”. In questo senso si confermerebbe che “il metodo della trasparenza non si fonda su una valutazione di inidoneità della struttura trust ad essere centro autonomo di imputazione di fattispecie”. (66) Sul principio di trasparenza cfr. tra i tanti A. Fedele, Profilo fiscale delle società di persone, in Aa.Vv. Commentario al T.U. delle imposte sui redditi e altri scritti. Scritti in memoria di A.E. Granelli, Roma, 1990, 23 ss.; P. Filippi, Redditi prodotti in forma associata, in Enc. giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991; P. Boria, Il principio di trasparenza nella imposizione delle società di persone, Milano, 1996. (67) In questo senso cfr. sempre T. Tassani, I trusts nel regime fiscale italiano, cit., 78, il quale distingue sistemi “puri” di trasparenza e sistemi “misti”. Un sistema misto sarebbe quello adottato per la trasparenza societaria, in cui la società conserva una soggettività passiva di tipo formale con riferimento al presupposto imputato al socio.


Dottrina

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bensì di inesistenza fiscale della struttura intermedia, dovendosi riferire il presupposto dell’imposta ad un soggetto diverso, senza che, dicevamo, si realizzi un fenomeno di dissociazione tra titolarità della fonte e imputazione del reddito (68). Nel caso dei trust, ciò si avrebbe, però, soltanto laddove il disponente non si sia realmente spogliato dei beni segregati (nel qual caso potrebbe addirittura ravvisarsi un fenomeno di tipo simulatorio), ovvero, come già osservato, in presenza dei così detti bare trust (trust nudi) (69). Al di fuori di tali ipotesi, quindi, l’imputazione del reddito derivante dal fondo del trust ad un soggetto diverso dal trust stesso non potrebbe che avvenire impiegando un meccanismo di tassazione come quello della “trasparenza” che, però, non solo non esclude la potenziale autonomia soggettiva del trust, ma, addirittura, la presuppone. Se questo è vero, la riflessione non può che spostarsi sull’individuazione delle ragioni che, sul piano sistematico e costituzionale, giustificano, per i trust, l’impiego del meccanismo di tassazione per trasparenza. Per le società di persone, infatti, l’adozione di tale meccanismo si fonda, tradizionalmente, su due diverse giustificazioni, ossia, per un verso, sul fatto che il socio avrebbe

(68) Cfr. al riguardo le interessanti riflessioni di F. Marchetti, La crisi della soggettività del trust e la disciplina della fiducia come possibile soluzione, in Trusts e attività fiduciarie, 203, 383 ss., il quale evidenzia come accanto al “trust soggetto” non potrebbe escludersi l’esistenza di un “trust fiduciario” o “trust mandato” caratterizzato dalla riferibilità del patrimonio in trust ad un soggetto determinato (disponente o beneficiario), riferibilità che invece mancherebbe nel trust soggetto, che si caratterizzerebbe per la non appartenenza del patrimonio ad un altro soggetto. In questi casi, prosegue l’Autore, dovrebbe applicarsi la regola della cd. “trasparenza fiduciaria”, che è una manifestazione di diretta imputazione del reddito al fiduciante, e non una situazione di trasparenza tributaria in senso proprio (nel quale appunto si ha il trasferimento del reddito dal soggetto che ne è giuridicamente titolare ad un soggetto terzo), che richiederebbe una esplicita previsione normativa. (69) L’Agenzia delle Entrate, nella circolare 27 dicembre 2010, n. 61/E, ha individuato alcune ipotesi in cui il trust deve ritenersi un soggetto fittiziamente interposto, richiamando i seguenti casi: trust che il disponente (o il beneficiario può far cessare in ogni momento, generalmente e proprio vantaggio o a vantaggio di terzi; trust in cui il disponente è titolare del potere di designare in qualsiasi momento sé stesso come beneficiario; trust in cui il disponente (o il beneficiario) è titolare di significativi poteri in forza dell’atto istitutivo, in conseguenza dei quali il trustee, pur dotato di poteri discrezionali, non può esercitarli senza il suo consenso; trust in cui il disponente è titolare del potere di porre anticipatamente termine al trust, designando se stesso o altri come beneficiari (trust a termine); trust in cui il beneficiario ha diritto di ricevere anticipazioni di capitale; ogni altra ipotesi in cui il potere gestionale del trustee risulti limitato o anche solo condizionato dalla volontà del disponente o dei beneficiari.


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un diritto soggettivo pieno all’integrale divisione degli utili annuali (art. 2262 del cod. civ.), laddove nelle società di capitali tale diritto sorgerebbe soltanto a seguito della delibera assembleare, e, per l’altro, sul fatto che l’organizzazione di tali enti condurrebbe ad una sorta di immedesimazione tra socio e società (70). Nelle società di capitali, invece, l’adozione del modello della trasparenza non richiederebbe particolari giustificazioni, trattandosi di un regime di tipo opzionale. L’adozione di un criterio di imputazione del reddito fondato sul meccanismo della trasparenza, in buona sostanza, sembra presupporre che i soggetti a cui tale reddito viene imputato abbiano il controllo della sua destinazione. Il che, in effetti, non sempre sembrerebbe ravvisarsi in presenza di trust con beneficiari, potendo, come abbiamo visto, il diritto del beneficiario assumere i contenuti più vari, non necessariamente connessi con l’attribuzione di una quota del reddito conseguito dal fondo segregato. Si pensi, ad esempio, ai cd. trust discrezionali, nei quali le modalità ed i tempi dell’erogazione dei redditi conseguiti dal fondo ai beneficiari è rimessa alla discrezionalità del trustee, tanto che la posizione dei beneficiari non può essere qui ricostruita in termini di un vero e proprio diritto soggettivo, ma si risolve in una mera aspettativa. Ecco perché sia la dottrina che l’Amministrazione finanziaria hanno avvertito l’esigenza di precisare che l’imputazione per trasparenza presuppone non solo la presenza di un beneficiario, ma anche che costui abbia un diritto attuale ed incondizionato al conseguimento dei redditi derivanti dal trust fund (71).

(70) In questo senso cfr. T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit., 79; F. Rasi, La tassazione per trasparenza delle società di capitali a ristretta base proprietaria. Profili ricostruttivi di un modello impositivo, Padova, 2012, 98; S. De Marco, Il regime della tassazione per trasparenza delle società di capitali. Sistema impositivo di riequilibrio o alternativo?, Milano, 2014, 29. Che ciò sia sufficiente a giustificare, sotto il profilo sistematico e costituzionale l’adozione del meccanismo di tassazione per trasparenza, trattandosi comunque di una deviazione dal modello di tassazione del reddito in capo a chi ha la titolarità della fonte è posto in dubbio da A. Fedele, Profilo fiscale delle società di persone, in Riv. not., 1988, I, 553. (71) In tali termini A. Contrino, Recenti indirizzi interpretativi sul regime fiscale di trust trasparenti, interposti e transnazionali: osservazioni critiche, in Riv. dir. trib., 2011, II, 319; N. Saccardo, Applicabilità della trasparenza a trust discrezionali titolari di partecipazioni societarie, in Dir. prat. trib., 2009, II, 119; P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 594. Per la prassi amministrativa cfr. Circolare Agenzia delle Entrate, 6 agosto 2007, n. 48/E; Ris. 7 marzo 2008, n. 81/E; Ris. 4 ottobre 2007, n. 278/E; Ris. 5 novembre 2008, n. 425/E, tutte in banca dati fisconline.


Dottrina

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Non è mancato, peraltro, in dottrina, chi ha, addirittura, ritenuto che l’adozione del meccanismo d’imputazione per trasparenza ai beneficiari del reddito derivante dal fondo del trust non troverebbe adeguata giustificazione sul piano sistematico. Si è, infatti, osservato che l’esistenza di un diritto di credito, sia pure attuale ed incondizionato, in capo al beneficiario nei confronti del trustee, per l’assegnazione dei redditi conseguiti dal trust, non sarebbe sufficiente, nella sostanza, ad integrare il requisito del controllo sulla destinazione del reddito che, come detto, ordinariamente, è richiesto nel caso di imputazione per trasparenza (72). Non sembra questa la sede per avviare una riflessione sul tema, che evidentemente richiederebbe un livello di approfondimento non compatibile con le finalità di quest’esposizione. Certo, però, non si può fare a meno di notare che l’imputazione del reddito derivante dal fondo segregato al beneficiario sembra comunque segnare un distacco rispetto al tradizionale schema di imputazione per trasparenza. Il che, trova conferma nel fatto che il legislatore, diversamente dalle altre ipotesi di applicazione di tale modello, ha qui avvertito l’esigenza di operare un’autonoma riclassificazione del reddito imputato al beneficiario, che, come visto, viene ad essere espressamente qualificato come reddito di capitale, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. gsexies, del TUIR. Una simile riclassificazione, se, per un verso, si giustifica con l’esigenza di differenziare la posizione dei beneficiari del trust rispetto agli altri soggetti nei cui confronti operano analoghi meccanismi di tassazione (73), finisce

(72) È questa la posizione di P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 646-647, per il quale il destinatario di un meccanismo di imputazione per trasparenza deve risultare titolare “di un diritto di credito all’attribuzione della ricchezza incorporata nel reddito ascrivibile alle fonti appartenenti al patrimonio destinato e del potere – all’interno dell’organizzazione alla quale tale reddito è riferibile – di ottenere il conseguimento dell’oggetto del proprio credito”, ovvero “di un diritto reale sui beni oggetto di destinazione (rectius: separazione) e costituenti le fonti del reddito oggetto di imputazione (sia, in altre parole, il “proprietario” dei beni facenti parte del patrimonio separato) e del potere di disporre della ricchezza incorporata in siffatto reddito “in modalità libera”, ossia per il perseguimento degli interessi dei quali è esso stesso titolare”. In quest’ottica, prosegue l’Autore, il beneficiario può sì, in taluni casi, essere titolare di un diritto di credito sul reddito del trust, ma, comunque “non dispone di alcun potere gestionale per convertire tale credito in mezzi economici disponibili per assolvere l’obbligazione d’imposta” (così P. Laroma Jezzi, op. cit. 651). (73) Per T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit., 94, l’autonoma qualificazione del reddito imputato al beneficiario esprimerebbe la sua peculiare posizione soggettiva nei confronti dell’organizzazione trust, in quanto la scelta della qualificazione del reddito imputato per trasparenza della stessa natura che aveva presso l’ente che l’ha creato parrebbe coerente soltanto laddove si ravvisi un rapporto di partecipazione tra soggetto e organizzazione.


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per introdurre una nuova fattispecie di reddito di capitale non assimilabile alle altre ipotesi contemplate dall’art. 44 del TUIR (74), mancando qui quel rapporto d’investimento o di partecipazione che ordinariamente costituisce la fonte dei redditi appartenenti a tale categoria (75). Senza contare che qui, a differenza delle altre ipotesi previste dal Testo Unico, i redditi imputati ai beneficiari vengono ad essere tassati indipendentemente dalla effettiva percezione, con evidente deroga al principio di tassazione per cassa che invece governa l’imposizione nei redditi di capitale (76). In ogni caso, è bene precisarlo, la tassazione per trasparenza non sembra comunque escludere, in assoluto, la soggettività tributaria del trust, in quanto, se è vero che il reddito da esso conseguito sconta il prelievo in capo al beneficiario, è anche vero che il calcolo del reddito imponibile deve essere operato direttamente in capo al trust. Ciò vuol dire che, a prescindere dalla circostanza che il trust possa dirsi fiscalmente opaco o trasparente, il calcolo del reddito da esso conseguito dovrà essere separatamente operato in capo al medesimo. Il calcolo dell’imposta, invece, dovrà essere operato soltanto da trust cd. opachi, in quanto, per i trust trasparenti il reddito determinato in capo al trust andrà poi a sommarsi al reddito del beneficiario e tassato in capo a quest’ultimo, secondo il proprio specifico regime (77). 4. Il riconoscimento della soggettività tributaria del patrimonio segregato nel contratto di affidamento fiduciario. – Le riflessioni sin’ora compiute consentono un accostamento più consapevole al tema che qui ci si è proposi di indagare. Le conclusioni raggiunte in merito al regime fiscale dei trust, infatti,

(74) Sul tema cfr. anche G. Zizzo, La qualificazione e l’imposizione dei redditi imputati ai beneficiari, in Aa.Vv., Teoria e pratica della fiscalità dei trust, cit. 53. (75) Evidenziano la differenza tra la posizione del beneficiario di un trust ed il rapporto di partecipazione che lega la società ai soci anche G. Girelli, Diritti del beneficiario di trust e imposizione sui redditi, in Trust e attività fiduciarie, 2014, 604 ss.; E. Della Valle, Posizione di beneficiaria e “status” di socio, in GT - Riv. giur. trib., 2014, 529 ss. (in entrambi casi nota a Comm. trib. prov. Milano, Sez. XL, 3 febbraio 2014, n. 1155). (76) In generale sui principi generali in materia di tassazione dei redditi di capitale cfr. S. Mencarelli, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario. Il sistema dei tributi, Padova, 2015, 51 ss. (77) Cfr. sul punto G. Zizzo, La ricchezza erogata dai trust tra reddito e capitale, in Rass. trib., 2008, 1275 ss, per il quale la trasparenza fiscale del trust non metterebbe minimamente in discussione la sua attitudine alla soggettività tributaria, giustificandosi esclusivamente come tecnica finalizzata a garantire che il prelievo in capo ai beneficiari avvenga secondo i criteri di personalità tipici dell’IRPEF.


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rappresentano un buon punto di partenza per ricostruire il trattamento tributario del contratto di affidamento fiduciario. Anche se non sembra possibile estendere in via analogica le soluzioni pensate dal legislatore per la fiscalità dei trust, non essendo tale via interpretativa ammessa nella disciplina sostanziale del rapporto tributario (78), viste le affinità funzionali che i due istituti sicuramente presentano, la fiscalità del nuovo modello negoziale sembra potersi ricostruire partendo proprio dalle riflessioni che, al livello sistematico, la dottrina aveva formulato per i trust anteriormente all’introduzione del regime adottato con la riforma del 2006 (79). È appena il caso di ricordare che il contratto di affidamento fiduciario, similmente al trust, si articola in uno schema che prevede l’affidamento, da parte di un affidante (fiduciante), ad un affidatario (fiduciario), di un comples-

(78) L’impossibilità di una integrazione analogica delle norme che disciplinano la fattispecie sostanziale dell’imposizione discende, in effetti, dalla riserva di legge prevista dall’art. 23 della Cost., in base alla quale la descrizione giuridica dei fatti economici a rilevanza tributaria non può che essere demandata al legislatore. In questo senso, la mancata espressa disciplina della rilevanza tributaria di un fenomeno esprime la precisa scelta di escluderlo dall’applicazione del tributo. In tal senso, cfr. G. Tinelli, Istituzioni di diritto tributario, cit., 141. Sulla norma tributaria come norma a fattispecie esclusiva che preclude l’integrazione analogica cfr. anche M.S. Giannini, L’interpretazione e l’integrazione delle leggi tributarie, Padova, 1941, 120 ss. (79) Secondo G. Fransoni, La disciplina del trust nelle imposte dirette, cit., 239 ss., invece, l’ambito di applicazione della normativa introdotta nel 2006 non sarebbe circoscritto soltanto ai trust ma si estenderebbe anche agli “istituti aventi contenuto analogo” menzionati all’art. 73, comma 3, del TUIR, laddove, come vedremo, esso individua alcune presunzioni di residenza per i trust ed, appunto, gli istituti aventi contenuto analogo istituiti in Paesi a fiscalità privilegiata. Secondo l’Autore, infatti, dal contenuto di questa norma si desumerebbe la volontà del legislatore di estendere anche agli istituti diversi dal trust ma aventi le medesime finalità le regole previste per i primi in materia di fiscalità diretta. Difficilmente, tuttavia, anche aderendo a questa prospettazione, sembrerebbe possibile giungere a ritenere applicabili le regole introdotte nel 2006 anche ai contratti di affidamento fiduciario qui in esame, in quanto, se ben si intendono il senso della formula adottata dal legislatore e la sua collocazione nell’ambito delle regole riguardanti la residenza, essa parrebbe diretta ad equiparare ai trust gli istituti aventi contenuto analogo espressamente previsti dalle legislazioni dei Paesi aventi un regime fiscale privilegiato, senza estendesi sino a fondare la regolamentazione fiscale di modelli negoziali di elaborazione dottrinale come invece è il caso del contratto di affidamento fiduciario. In questo senso, d’altro canto, sembrerebbe deporre anche l’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria che, come vedremo, nel ricostruire il regime fiscale applicabile al contratto ne ha valorizzato la soggettività partendo proprio dalla previsione di carattere generale contenuta nell’art. 73, comma 2, del TUIR. Ritiene, invece, che le regole dettate in materia di fiscalità dei trust possano estendersi anche ad altre forme di patrimoni fiduciari, anche P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 591-592.


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so di beni e attività (che costituiscono il fondo affidato), in vista della realizzazione di un programma (il programma destinatorio), nell’interesse di uno o più beneficiari. Anche in questo caso, pertanto, ci si ritrova in presenza di un fenomeno di dissociazione tra titolarità della ricchezza e interesse in vista del quale la ricchezza è posseduta, che, come abbiamo già accennato, costituisce un tratto caratterizzante del fenomeno fiduciario (80). Qui però, diversamente da quanto avviene nei rapporti ispirati al modello del negozio fiduciario classico, il fenomeno non si colora del tratto della segretezza, non è finalizzato a creare situazioni di titolarità apparente dei beni e, in definitiva, non si apparenta, neppure lontanamente, con l’interposizione, sia essa reale o fittizia, o con la simulazione (81). Al contrario, nel modello in esame, l’esistenza di un programma per l’esecuzione del quale l’affidatario acquisisce la titolarità dei beni segregati rappresenta una circostanza che, attraverso adeguate forme di pubblicità, è resa opponibile ai terzi, affinché le posizioni giuridiche soggettive trasferite all’affidatario non possano essere aggredite dai creditori personali di quest’ultimo. Ebbene, la ricostruzione dei profili fiscali del contratto non può non tenere conto di tali caratteristiche, nel senso che l’individuazione del soggetto che, rispetto ai beni costituenti il fondo affidato, e rispetto ai redditi che da essi derivano, esprime una relazione apprezzabile in termini di “possesso”, deve, necessariamente misurarsi con questi aspetti. I quali, per un verso, sembrano comunque impedire che tale soggetto venga individuato nell’affidante, che di tali beni si è definitivamente spogliato non solo in senso formale, ma anche in senso sostanziale, essendo essi destinati ad essere impiegati per l’esecuzione di un programma in cui si esprimono interessi che vanno al di là della sua posizione (82).

(80) Come rileva P. Laroma Jezzi, Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, cit. 43, “L’idea dell’inscindibilità del diritto soggettivo dagli interessi in vista dei quali esso può essere esercitato appartiene al bagaglio dogmatico del giurista continentale formatosi all’ombra delle grandi codificazioni ottocentesche”. Da qui, in effetti, sembrano originare le tradizionali resistenze ad ammettere l’esistenza della proprietà fiduciaria, ossia di una forma di titolarità che non sia piena ed incondizionata, ma orientata al perseguimento delle finalità che si esprimono nel programma del convenuto nel contratto. (81) La segretezza dell’intesa tra fiduciante e fiduciario ha tradizionalmente alimentato la confusione tra il fenomeno fiduciario ed il fenomeno simulatorio, non essendo, in questo contesto, infrequenti domande giudiziali dirette ad accertare la pretesa natura simulata del trasferimento del bene dal fiduciante al fiduciario. Al riguardo cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 56. (82) Come già accennato, un programma che ridondi ad esclusivo vantaggio dell’affidante non realizzerebbe un interesse tale da giustificare l’adozione di un contratto di


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Nessun dubbio, pertanto, che qui, differentemente da quanto abbiamo visto per il negozio fiduciario inteso nella sua accezione classica, all’affidante non possa comunque attribuirsi il possesso dei redditi derivanti dai beni costituenti il fondo affidato, così come, in linea di massima, al disponente non può essere attribuito il reddito derivante dallo sfruttamento dei beni in trust (83). E ciò, a prescindere dalla natura del collegamento (economico o giuridico) tra il soggetto e la fonte che si ritenga di poter valorizzare. Analoghe difficoltà, invero, si riscontrerebbero laddove si tentasse di attribuire il possesso dei redditi derivanti dai beni segregati nel fondo affidato al soggetto che di tali beni detiene la titolarità formale, ossia all’affidatario. Anche qui, a prescindere dal fatto che la titolarità di tali beni non sembra suscettibile di esprimere alcuna capacità contributiva nei riguardi di quest’ultimo (84), essendo essi vincolati per l’esecuzione di un programma in cui si esprimono interessi che gli sono in tutto o in parte estranei, deve comunque osservarsi che la relazione che si instaura tra affidatario e fondo affidato non sembra inquadrabile nella nozione di “possesso” che qualifica l’elemento soggettivo del presupposto dell’imposta reddituale. Tale relazione, invero, sembrerebbe concepibile soltanto nel caso in cui i beni di cui il soggetto detenga la titolarità siano suscettibili di essere impiegati per soddisfare interessi e bisogni di cui tale individuo sia portatore, e non anche laddove l’impiego delle utilità derivanti da tali beni sia vincolato alla realizzazione di un programma in cui si esprimono interessi diversi (85).

affidamento fiduciario, potendo, in questi casi, le esigenze dell’affidante essere soddisfatte mediante un più semplice rapporto di mandato, con o senza rappresentanza. In questo senso cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 416. (83) Come in precedenza illustrato, infatti, laddove si accolga una nozione dell’elemento soggettivo del presupposto tendente a valorizzare un collegamento di tipo economico tra la fonte del reddito ed il soggetto passivo sarebbe possibile individuare nel fiduciante il soggetto passivo delle obbligazioni tributarie connesse con i redditi derivanti dai beni trasferiti al fiduciario. In questo senso, come visto, si è orientata anche parte della dottrina (cfr. A. Lovisolo, Aspetti dell’imposizione dei dividendi relativi a partecipazioni “affidate” a società fiduciarie, cit., 1271; Id., Il sistema impositivo dei dividendi, cit., 314 ss.; M. Nussi, L’imputazione del reddito nel diritto tributario, cit., 565 ss.). (84) Sul concetto di capacità contributiva intesa quale capacità economica di adempiere all’obbligazione d’imposta cfr., in dottrina, ex multis, E. Giardina, Le basi teoriche del principio di capacità contributiva, Milano, 1961; C. Manzoni, Il principio di capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965; F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, Padova, 1973. (85) In questo senso cfr. P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 612, che con la nozione di possesso identifica il “perimetro” entro il quale


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Qui, in altri termini, la relazione che sussiste tra affidatario e fondo affidato è di tipo strumentale e, come abbiamo visto, i beni costituenti il fondo non dovrebbero, dall’affidatario, neppure essere considerati “suoi” nel senso indicato dall’art. 2740 del cod. civ. (86) Laddove si individuasse nell’affidatario il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria derivante dai beni segregati nel fondo e dall’attività compiuta in esecuzione del programma, si incorrerebbe, pertanto, nelle stesse difficoltà che avevano caratterizzato la posizione di chi aveva indicato nel trustee il soggetto passivo dell’obbligazione fiscale relativa al trust fund (87). Altrettanto insoddisfacente, sul piano sistematico, si rivelerebbe, infine, l’imputazione del reddito direttamente al beneficiario, anche laddove si trattasse di beneficiario individuato, ossia di un soggetto avente un diritto attuale ed incondizionato alla percezione delle utilità derivanti dal fondo affidato. L’esistenza di un simile diritto, infatti, come anche in precedenza evidenziato con riferimento ai trust, non sembra sufficiente a fondare l’esistenza, in capo al beneficiario, di un rapporto con la fonte del reddito apprezzabile in termini di “possesso”, in quanto, il diritto del beneficiario, sia pure attuale ed incondizionato, si manifesta al momento della distribuzione del reddito, e non anche nella fase, logicamente antecedente, della sua formazione, la quale, invece, sembra dipendere, salvo casi talmente eccezionali da far addirittura dubitare della stessa qualificazione dell’accordo in termini di affidamento fiduciario, dall’attività di gestione del patrimonio compiuta dall’affidatario. L’esistenza di un diritto del beneficiario alla percezione del reddito derivante dal fondo affidato può, pertanto, al limite giustificare un meccanismo di imputazione del reddito basato sul criterio della trasparenza, possibile, però,

affluiscono i redditi che il soggetto passivo può giuridicamente utilizzare per soddisfare i propri bisogni e interessi e, per l’effetto, adempiere, spontaneamente o coattivamente, all’obbligazione tributaria. Nello stesso senso Id., Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, cit. 205. (86) In questo senso, come già osservato, si esprime M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 336-337. (87) Come chiarito da T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit., 35, anche volendo definire in termini di proprietà la posizione del trustee, il contenuto del suo diritto risulta così limitato nella facoltà di godimento, per effetto del vincolo di carattere reale che insiste sul patrimonio separato, da non poter validamente riferire al trustee la piena disponibilità giuridica né del fondo né degli incrementi che derivano dall’attività su esso esercitata. In questo senso, prosegue l’Autore, l’imputazione del reddito al trustee avrebbe potuto rappresentare al più una “soluzione tecnica” fondata su un meccanismo analogo a quello della sostituzione d’imposta.


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come abbiamo visto, solo in presenza di una esplicita opzione normativa, così come accade per i trust con beneficiari individuati ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. g-sexies del TUIR (88). In mancanza di un’analoga disposizione, verificandosi qui un fenomeno di dissociazione tra titolarità della fonte e riferibilità del presupposto, l’imputazione del reddito ai beneficiari non sembrerebbe una soluzione praticabile nell’ambito del contratto di affidamento fiduciario. Se quanto detto risponde al vero, l’unica via che pare consentire l’applicazione del prelievo sulle utilità derivanti dallo sfruttamento del fondo affidato sembra passare per la valorizzazione del patrimonio segregato nel contratto quale organizzazione non appartenente ad altri soggetti passivi nei confronti della quale il presupposto si realizza in modo autonomo, ai sensi dell’art. 73, comma 2, del TUIR. Soluzione, questa, come visto, a suo tempo prospettata anche per i trust e che, con riferimento al contratto di affidamento fiduciario, sembrerebbe aver trovato l’avallo della prassi amministrativa (89).

(88) In effetti, il fenomeno della scissione tra titolarità della fonte e imputazione del reddito si riscontra anche in altre fattispecie, quali, nello specifico, il regime del fondo patrimoniale (i cui redditi sono imputati, ai sensi dell’art. 4, lett. b) del TUIR, per metà del loro ammontare netto a ciascun coniuge indipendentemente dalla titolarità giuridica), delle convenzioni matrimoniali (i cui redditi sono imputati, ai sensi dell’art. 4, lett. a) del medesimo Testo Unico, a ciascun coniuge per metà del loro ammontare) e dell’impresa familiare (i cui redditi, ai sensi dell’art. 5, comma 4, del TUIR, possono essere imputati, limitatamente al 49 per cento, a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa in proporzione alla sua quota di partecipazione agli utili), oltre, ovviamente ai casi di imputazione per trasparenza previsti in materia societaria. Sembra tuttavia corretto affermare che questa particolare tecnica impositiva, deviando dallo schema generale, necessiti di una esplicita previsione normativa, in mancanza della quale il reddito andrebbe attribuito al soggetto che si pone in rapporto di titolarità con la fonte. Sul regime fiscale del fondo patrimoniale cfr. L. Perrone, Profili tributari del fondo patrimoniale, in Rass. trib., 2008, 1541 ss.; Sul regime fiscale dell’impresa familiare cfr., invece, A.E. Granelli, L’impresa familiare nella riforma tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1976, I, 621 ss.; A. Fantozzi, voce Impresa familiare (diritto tributario), in Nov. Dig. it. App. vol. IV, Torino, 1984, 86 ss. (89) Cfr. in tal senso Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Liguria, parere 3 luglio 2012, interpello n. 903-151/2012, in Trusts e attività fiduciarie, 2013, 95 ss; L’Amministrazione finanziaria, in particolare, si è soffermata su di un contratto di affidamento fiduciario stipulato tra due coniugi (uno nella veste di affidante, l’altro nella veste di affidatario) ed avente, come programma destinatorio, il sostentamento delle esigenze di crescita, educazione e di vita, dei figli e, in via eccezionale, degli stessi genitori. Ebbene, nel delineare il regime fiscale del contratto ai fini delle imposte dirette, l’Agenzia delle Entrate, è giunta alla conclusione che si fossero qui realizzate le condizioni previste dall’art. 73, comma 2, del TUIR, per attribuire al medesimo la soggettività tributaria. A tali conclusioni, invero, l’Amministrazione finanziaria sembra essere pervenuta, più che altro, valorizzando le analogie sussistenti tra contratto di affidamento fiduciario e trust, anziché attraverso uno sforzo ricostruttivo di tipo sistematico. In


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La via della soggettivizzazione del patrimonio segregato ripropone, però, tutte le difficoltà che, nel regime anteriore alla riforma del 2006, avevano caratterizzato l’analoga soluzione proposta con riferimento ai trust. Innanzitutto perché, come abbiamo visto, tale scelta implica l’attribuzione della soggettività tributaria ad una struttura che ne risulterebbe priva sul piano del diritto comune, laddove, invece, essa è, come abbiamo osservato, tendenzialmente riconosciuta quale presupposto per la soggettività fiscale. Potrebbe, inoltre, qui non sussistere, come si disse per i trust, il carattere dell’“organizzazione”, nel senso che per assurgere ad autonomo soggetto passivo delle imposte sui redditi ai sensi dell’art. 73, comma 2, del TUIR, occorrerebbe, in ogni caso, la presenza di un complesso di mezzi materiali e personali tali da imprimere all’attività dell’organizzazione un autonomo indirizzo ed escluderne il carattere di mera articolazione interna di un più vasto assetto organizzativo. Non sarebbe sufficiente, in altri termini, per essere considerati organizzazioni, la presenza di un patrimonio funzionalmente dedicato al perseguimento di uno scopo, ma occorrerebbe quel quid pluris dato dalla presenza di una struttura autonoma, non costituente un’articolazione di una più vasta organizzazione (90).

questo senso, non appare condivisibile l’affermazione secondo cui nell’affidamento fiduciario, se i beneficiari sono individuati, i redditi dovrebbero essere imputati a costoro per trasparenza, sia pure non come redditi di capitale. Per un commento a tale precedente cfr. A. Vasapolli e G. Vasapolli, Prime brevi considerazioni in merito al regime tributario dei contratti di affidamento fiduciario, in Trusts e attività fiduciarie, 2013, 8 ss., i quali aderiscono anch’essi alla tesi della trasparenza del contratto con beneficiari individuati, precisando come, in questo caso, non si avrebbe un vero e proprio regime di trasparenza, possibile solo in presenza di una esplicita opzione normativa, ma una sorta di vera e propria “inesistenza” del contratto, derivante dalla non sussistenza dei requisiti necessari perché si possa riconoscere soggettività passiva in capo all’organizzazione. Pertanto, i redditi spettanti ai beneficiari dovrebbero essere considerati come direttamente maturati in capo agli stessi, senza una previa determinazione in capo al contratto di affidamento fiduciario, come, invece, avviene per i trust. (90) In questo senso cfr. P. Coppola, La disciplina fiscale del trust in materia di imposte dirette: le difficoltà di conciliare le attuali soluzioni normative alle molteplici applicazioni dell’istituto, cit., 656 ss., per la quale l’organizzazione tributaria ai sensi dell’art. 73, comma 2, del TUIR, “non si esaurisce in un mero patrimonio dotato di autonomia, ma necessita di persone, beni e organi capaci di manifestare interessi rilevanti ai fini dell’attitudine al concorso alle spese pubbliche”. In tali termini si esprime anche E. Nuzzo, Organizzazione, soggettività tributaria, eredità giacente, in Dir. prat. trib., 1986, II, 1065, per il quale il concetto di organizzazione riflette la predisposizione di strumenti per raggiungere un certo risultato mediante l’esercizio di una attività. Sul punto cfr. anche le riflessioni di P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust


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Si tratta, in effetti, di aspetti che non devono certamente essere sottovalutati, ma che non sembrano sufficienti a condurre ad una rimeditazione della soluzione proposta. Non vi è dubbio, infatti, che il riconoscimento di una soggettività tributaria a strutture che ne sono prive per il diritto civile comporta rilevanti difficoltà sul piano applicativo, segnando una divaricazione tra il centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive di diritto comune ed il soggetto cui imputare l’obbligazione fiscale che da tali situazioni discende. In questo senso, si conferma che il riconoscimento di una soggettività fiscale distinta rispetto alla soggettività di diritto comune dovrebbe essere tendenzialmente un’opzione rimessa alla discrezionalità del legislatore, che, pertanto, ben ha fatto ad inserire espressamente il trust tra i soggetti passivi dell’IRES indicati all’art. 73, comma 1, del TUIR, avendo con ciò contribuito non poco a fare chiarezza sul regime fiscale dell’istituto (91). Pur in presenza di tali difficoltà, tuttavia, non può sottacersi che il riconoscimento della soggettività tributaria del patrimonio segregato ai sensi dell’art. 73, comma 2, del TUIR appaia l’unica soluzione per consentire l’applicazione del prelievo sui redditi derivanti dall’impiego dei beni segregati nel fondo affidato (92). In quest’ottica, il riconoscimento della soggettività

aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 626. (91) In questo senso, come abbiamo visto, si esprime T. Tassani, I trusts nel regime fiscale italiano, cit., 41. Ad analoghe conclusioni perviene, inoltre, M. Lupoi, Imposte dirette e trust dopo la Legge finanziaria, in Trusts e attività fiduciarie, 2007, 5, per il quale la scelta del legislatore avrebbe fatto venire meno il difficile percorso argomentativo che, muovendo dall’art. 73, comma 2, del TUIR, riscontrava nel trust una “organizzazione”, la sua non appartenenza ad altri soggetti passivi d’imposta, ed il verificarsi, in capo ad esso, del presupposto in modo autonomo e unitario. (92) Così si esprime anche P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 609, il quale rileva che la soggettività tributaria delle organizzazioni costituisce la tecnica tramite la quale l’ordinamento rende i redditi da essa generati disponibili, agli effetti dell’imposizione di matrice personale, all’atto della loro emersione. “Ove le organizzazioni in questione non fossero dotate di soggettività tributaria”, prosegue infatti l’Autore, “tali redditi potrebbero essere attratti ad un prelievo personale solo al momento del riversamento della ricchezza in essi incorporata a favore dei contribuenti che vantino un collegamento giuridico con la loro fonte (come la partecipazione societaria dei soci delle società di capitali)”. A queste considerazioni sembra peraltro doversi aggiungere che, nel caso del contratto di affidamento fiduciario, come nel caso del trust, in mancanza di una esplicita previsione normativa l’attribuzione reddituale compiuta nei confronti dei beneficiari sarebbe difficilmente inquadrabile in una delle fattispecie reddituali previste dal Testo Unico. Forte sarebbe, pertanto, il rischio per tale ricchezza di sfuggire al prelievo.


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tributaria del patrimonio ai sensi dell’art. 73, comma 2, del Testo Unico, sembrerebbe una soluzione coerente con la natura residuale che parrebbe doversi attribuire alla formula contenuta nella predetta disposizione (93). La quale, in effetti, parrebbe essere stata pensata come formula di chiusura del sistema, proprio per impedire aggiramenti del prelievo attraverso il ricorso a strutture non espressamente riconosciute tra i soggetti passivi dell’imposta reddituale. Se così sembra essere, anche il requisito dell’organizzazione potrebbe qui non ritenersi mancante, dovendosi, al contrario, riconoscere, come rilevato anche dalla dottrina, nella funzionalizzazione del patrimonio separato al perseguimento degli scopi indicati nel programma destinatorio (94). La presenza, in buona sostanza, di un programma che orienti l’attività compiuta attraverso l’impiego dei beni segregati nel fondo affidato dovrebbe reputarsi sufficiente ad integrare il requisito dell’organizzazione richiesto dall’art. 73, comma 2, del TUIR. Ciò non significa, però, è bene precisarlo, che, come invece è stato proposto in dottrina, qui si ritenga che il riconoscimento della soggettività tributaria possa essere esteso ad ogni ipotesi di patrimonio separato funzionalmente orientato al perseguimento di uno scopo, a prescindere dalla tecnica con cui, sul piano del diritto civile, tale separazione si ottiene (95). Secondo quest’impostazione, infatti, la destinazione patrimoniale dei beni ad uno scopo sarebbe sempre incompatibile con un’obbligazione tributaria di tipo personale nei confronti di un soggetto diverso dal patrimonio separa-

(93) La formula contenuta all’art. 73, comma 2, del TUIR trae la sua origine dall’art. 8 del Testo Unico 29 gennaio 1958, n. 645 (TUID), che tra i soggetti passivi delle imposte diretti includeva, oltre alle persone fisiche, alle persone giuridiche, alle società e alle associazioni anche “le altre organizzazioni di persone e di beni prive di personalità giuridica e non appartenenti a soggetti tassabili in base a bilancio, nei confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifichi in modo unitario e autonomo”. (94) In questo senso cfr. P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 627-628; In senso analogo si esprimono anche M. Miccinesi, Il reddito del trust nelle varie tipologie, in Trusts, 2002, 310; L. Castaldi, Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999, 65. (95) In questo senso si esprime P. Laroma Jezzi, Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, cit. 4-5, per il quale, appunto, il fenomeno della separazione patrimoniale si presta ad una lettura unitaria quale che sia la tecnica di separazione alla quale si è fatto ricorso. Conseguentemente, secondo l’Autore il trattamento fiscale dei redditi generati dal patrimonio destinato deve essere il medesimo indipendentemente dalla circostanza che sia o meno entificato.


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to (96). Questo perché i redditi riconducibili a fonti appartenenti al patrimonio separato sarebbero suscettibili di essere posseduti soltanto dal soggetto tributario che si identifica con il patrimonio separato stesso, e ciò, dicevamo, a prescindere dalla tecnica di separazione utilizzata sul piano civilistico, a prescindere, ossia dall’eventuale entificazione di tale patrimonio. La tesi, che pure ha indubbiamente l’indiscusso pregio di aver posto l’accento sulla rilevanza, sul piano fiscale, della destinazione patrimoniale, sembra però pervenire a risultati estremi, dilatando eccessivamente l’ambito della soggettività tributaria ed il campo di applicazione della formula contenuta all’art. 73, comma 2, del TUIR. Qui, infatti, la soggettività fiscale viene estesa ad ogni forma di patrimonio separato, anche nel caso in cui tale patrimonio si risolva in una mera articolazione di un più vasto assetto organizzativo, come avviene nel caso dei patrimoni destinati ad uno specifico affare di cui all’art. 2447-bis del cod. civ. (97).

(96) Cfr. sempre P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 604-605, per il quale affinché l’elemento materiale del presupposto di un’imposta personale (ossia di un’imposta che tende a colpire la situazione complessiva del soggetto), possa dirsi logicamente compatibile con la condizione di separazione in cui si trova il patrimonio, è necessario che il soggetto passivo della fattispecie sia quello stesso patrimonio. Ove, infatti, il reddito generatosi all’interno del perimetro della separazione venga riferito ad un soggetto passivo diverso dal patrimonio separato, l’elemento materiale del presupposto sarà incompatibile con la destinazione del patrimonio, poiché esso includerà necessariamente “fatti imponibili” generati da fonti sottoposte al regime di separazione, ma anche “fatti imponibili” generati da fonti non soggette a tale regime. (97) Cfr. P. Laroma Jezzi, Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, cit., 338 e ss., che appunto propone la soggettivizzazione dei patrimoni destinati ex art. 2447-bis del cod. civ. Il regime fiscale dei patrimoni destinati, ad oggi privi di una espressa regolamentazione tributaria, è stato come noto oggetto di approfondimento da parte della Commissione Gallo, istituita nel 2002 con il compito di adeguare l’allora vigente sistema fiscale alla riforma del diritto societario. La Commissione aveva, in particolare, elaborato due distinte proposte denominate versioni A e B. La “versione A” prevedeva che “Il reddito complessivo delle società che costituiscono patrimoni di destinazione di cui all’art 2447-bis, comma 1, lettera a), del codice civile è determinato unitariamente, considerando anche le singole voci che compongono il rendiconto di ciascuno dei predetti patrimoni”. Secondo questa, impostazione, in buona sostanza, la costituzione del patrimonio separato sarebbe risultata fiscalmente irrilevante. Secondo la “versione B”, invece “il reddito complessivo e il valore della produzione netta di ogni patrimonio, al netto della quota di pertinenza di terzi in proporzione alla loro partecipazione ai risultati dell’affare…, concorrono a formare il reddito complessivo ai fini dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche e il valore della produzione soggetto all’imposta regionale sulle attività produttive della società”. Con tale diversa, impostazione, pertanto, il patrimonio separato avrebbe dovuto procedere separatamente al calcolo del proprio reddito, da imputare successivamente alla società di “gemmazione”. Sul regime fiscale dei patrimoni destinati ad


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In questi casi, tuttavia, la soggettivizzazione del patrimonio separato potrebbe non sempre reputarsi necessaria, in particolare in tutte quelle ipotesi in cui non si ravvisi un’effettiva scissione tra titolarità della ricchezza ed interesse in vista del quale essa è posseduta tale da interrompere il collegamento tra il soggetto e la fonte del reddito. In tutti i casi, in buona sostanza, in cui gli interessi al cui perseguimento è orientato il patrimonio separato coincidono con gli interessi del soggetto di cui tale patrimonio costituisce una mera articolazione interna non sembrerebbe necessario attribuire a tale patrimonio una soggettività ulteriore rispetto al soggetto di gemmazione. Si pensi, ad esempio, al caso dei patrimoni destinati ad uno specifico affare, nei quali l’attività in cui l’affare si esprime sembrerebbe comunque, in definitiva, inserirsi nell’ambito della più generale attività svolta dall’impresa, potendosi qui di regola ravvisare nello scopo di lucro l’interesse comune sia all’attività del patrimonio destinato sia alla più generale attività svolta dall’impresa. In questi casi, pertanto, non dovrebbe essere necessario riconoscere un’autonoma soggettività passiva al patrimonio separato, verificandosi altrimenti una moltiplicazione dei centri soggettivi di rilevanza tributaria non giustificata dall’alterità dell’interesse che si esprime nel patrimonio separato rispetto al soggetto che di tale patrimonio risulta giuridicamente titolare (98). Il discorso, invece, cambia nel momento in cui, pur in presenza di un patrimonio separato non soggettivato per il diritto civile, gli interessi per i quali tale patrimonio può essere impiegato non possono essere ricondotti al soggetto che di tale patrimonio detiene, sul piano civilistico, la titolarità. In questo caso, l’unica soluzione che, in armonia con i principi costituzionali, sembra poter condurre all’applicazione del prelievo sui redditi derivanti da tale patrimonio diventa, evidentemente, la soggettivizzazione dello stesso, mancando qui, altrimenti, un soggetto che rispetto a tali redditi esprima una relazione qualificabile in termini di possesso.

uno specifico affare cfr., in dottrina, G. Tabet, Profili fiscali dei patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2004, I, 83 ss.; D. Stevanato, Il regime fiscale dei “patrimoni destinati” nell’incompiuta disciplina dell’Ires, in Dir. prat. trib., 2004, I, 217 ss. (98) In questo senso potrebbe giustificarsi la scelta del legislatore di non prevedere una espressa disciplina del trattamento fiscale dei redditi derivanti dai patrimoni destinati ad uno specifico affare, potendosi ritenere che, pur in presenza di un vincolo di destinazione, l’attività svolta per il tramite del patrimonio destinato si inserisca nel più ampio quadro dell’attività svolta dall’impresa di gemmazione, e che quindi rispetto ai redditi dagli stessi generati, potrebbe reputarsi integrato il requisito del “possesso” proprio in capo alla società di gemmazione.


Dottrina

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Ciò, in effetti, è proprio quanto avviene con il contratto di affidamento fiduciario, in cui, come abbiamo visto, gli interessi che si esprimono nel programma non sono riconducibili alla posizione dell’affidatario, cui invece è attribuita la titolarità del fondo affidato, neppure nel caso in cui sia lo stesso affidante ad assumerne, provvisoriamente, la veste. Abbiamo visto, infatti, come il contratto di affidamento fiduciario, per essere veramente tale, debba esprimere un programma i cui interessi vadano oltre la sola posizione dell’affidante, nel senso che non sarebbe un vero affidamento fiduciario il contratto che prevedesse, quale unico beneficiario, l’affidante. Di qui l’inevitabile scelta della soggettivizzazione, sul piano fiscale, del patrimonio segregato nel contratto, e la sua riconduzione tra i soggetti passivi dell’IRES ai sensi dell’art. 73, comma 2, del TUIR. Pertanto, nel caso in cui il programma del contratto abbia per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale (99), il reddito complessivo sarà considerato, reddito d’impresa e determinato secondo i criteri indicati negli artt. 81 e ss. del TUIR. In assenza del carattere della commercialità, invece, il reddito complessivo del contratto di affidamento fiduciario sarà determinato, ai sensi degli artt. 143 e ss. del TUIR, dalla somma dei redditi fondiari, di capitale, d’impresa e diversi, ovunque prodotti e quale ne sia la destinazione, ad esclusione di quelli esenti o di quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta o ad imposta sostitutiva (100). Sembra invece difficile che si possa qui porre un problema di residenza del soggetto passivo, trattandosi, nel nostro caso, di un modello contrattuale che parrebbe pensato per applicarsi all’interno dei confini del nostro ordinamento. Ad ogni modo, dovrebbero qui poter trovare applicazione le regole previste dall’art. 73, del TUIR per i soggetti IRES, comprese, forse, le presunzioni di residenza previste

(99) Come rileva T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit., 44-45, per valutare la commercialità dell’attività di un trust (che, per gli enti residenti, ai sensi dell’art. 73, commi 4 e 5, del TUIR, deve essere individuata facendo riferimento alla legge, all’atto costitutivo e allo statuto, ovvero all’attività effettivamente esercitata) dovrebbe guardarsi al contenuto dell’atto istitutivo, dal quale dovrebbe emergere sia lo scopo del trust, sia l’attività funzionale al raggiungimento dello stesso. Nel caso di contratti di affidamento fiduciario, dovrebbe, pertanto, aversi riguardo al contenuto del programma destinatorio ed ai poteri ed alle facoltà attribuite all’affidante per la sua esecuzione. (100) Da segnalare, in questo contesto, che la legge 23 dicembre 2014, n. 190 (legge stabilità per il 2015) ha sensibilmente innalzato la tassazione dei dividenti percepiti dagli enti non commerciali, con un incremento della percentuale di imponibilità dal 5 per cento al 77,74 per cento.


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dal comma 3 della citata disposizione per i trust e gli istituti di analogo contenuto istituiti in paesi a fiscalità privilegiata in cui almeno uno dei disponenti o almeno uno dei beneficiari siano considerati fiscalmente residenti nel territorio dello Stato, nonché quando, successivamente alla loro costituzione, un soggetto residente nel territorio dello Stato effettui a favore del trust un’attribuzione che importi il trasferimento di proprietà di beni immobili o il trasferimento di diritti reali immobiliari, nonché vincoli di destinazione sugli stessi. La soggettività del contratto di affidamento fiduciario sembra inoltre escludere che eventuali attribuzioni disposte nei confronti dei beneficiari possano, poi, reputarsi ulteriormente imponibili in capo a questi ultimi, così come è stato precisato anche dall’Amministrazione finanziaria per il caso delle erogazioni operate ai propri beneficiari dai trust fiscalmente opachi (101). Tali erogazioni, infatti, non sarebbero qualificabili come distribuzioni di utili, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. e) e 47 del TUIR, non essendo quella del beneficiario una posizione di partecipazione al capitale o al patrimonio di un ente collettivo (102). L’unica ipotesi di imponibilità sarebbe, pertanto, l’erogazione disposta nei confronti del beneficiario imprenditore e da questi ricevuta nell’ambito della sua attività d’impresa, la quale, nello specifico, dovrebbe reputarsi fiscalmente rilevante ai sensi dell’art. 88, comma 3, del TUIR, quale sopravvenienza attiva impropria (103). Così come sembra doversi opinare nel caso dei trust, infine, anche per i contratti di affidamento fiduciario il riconoscimento della soggettività tributaria, ai sensi dell’art. 73, comma 2, del TUIR, parrebbe doversi estendere anche ad altri tributi. Ed, infatti, come rilevato dalla dottrina, essendo tale riconoscimento ispirato da esigenze di carattere sistematico, ad esso sembrerebbe

(101) In questo senso cfr. la Circolare Agenzia delle Entrate, 6 agosto 2007, n. 48/E, che, valorizzando il divieto di doppia imposizione interna previsto dall’art. 163 del TUIR, precisa che “i redditi conseguiti e correttamente tassati in capo al trust prima della individuazione dei beneficiari (quando il trust era “opaco”), non possono scontare una nuova imposizione in capo a questi ultimi a seguito della loro distribuzione”. Sul punto cfr. T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit. 131. (102) Non potrebbe, inoltre, neppure affermarsi la tassazione ai sensi dell’art. 50, comma 1, lett. i) del TUIR, che include tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente gli “assegni periodici” alla cui produzione non concorrono attualmente né capitale né lavoro, in quanto, come rilevato da A. Fedele, Visione d’insieme della problematica interna, in Aa.Vv. I trusts in Italia oggi, cit., 274, dovrebbe escludersi un’interpretazione che faccia discendere l’imponibilità dalla sola periodicità dell’incremento patrimoniale. (103) In questo senso cfr. F. Pistolesi, La rilevanza impositiva delle attribuzioni liberali realizzate nel contesto dei trusts, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2001, I, 120; P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 657-658.


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doversi attribuire un effetto di “irradiazione” anche nei confronti di imposte diverse da quelle sui redditi (104). La soggettività tributaria del contratto di affidamento fiduciario sembrerebbe pertanto potersi riconoscere sia ai fini IVA (105) che ai fini IRAP (106) (naturalmente in presenza degli ulteriori requisiti che ordinariamente caratterizzano la soggettività fiscale ai fini di tali imposte), come pure ai fini dell’imposizione locale di tipo patrimoniale (107). Allo stesso modo, il contratto di affidamento fiduciario potrebbe essere considerato soggetto passivo delle imposte di registro, ipotecarie e catastali, nel caso di trasferimenti a titolo oneroso aventi ad oggetto beni costituenti in fondo affidato (108).

(104) In questo senso, con riguardo ai trusts, cfr. T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit., 55, per il quale la previsione contenuta all’art. 73, comma 2, del TUIR, e prima di esso all’art. 8 del TUID, non si limiterebbe a definire i presupposti per il riconoscimento della soggettività tributaria ai fini delle imposte sui redditi, ma avrebbe una portata sistematica più ampia che investirebbe l’intero sistema fiscale. Nel senso dell’estensione della soggettività del trust oltre alle imposte dirette anche G. Corasanti, La soggettività passiva del trust ai fini delle imposte diverse da quelle sui redditi, in Aa.Vv., Teoria e pratica della fiscalità dei trust, cit., 65 ss. Contra, invece, P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 610 ss., per il quale la soggettivizzazione del trust e, più in generale dei patrimoni segregati per la realizzazione di uno specifico interesse, si giustificherebbe soltanto nei tributi di tipo personale. (105) L’art. 4, comma 2, n. 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 individua tra i soggetti passivi dell’imposta oltre agli altri enti pubblici o privati, compresi i consorzi, e alle associazioni, le “altre organizzazioni senza personalità giuridica”. (106) Come rilevato dalla dottrina, a prescindere dal rinvio operato, in materia di soggettività passiva, dall’art. 3 del D.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 all’art. 87 (ora art. 73) del TUIR, la soggettività passiva IRAP è ricavabile per qualsiasi organizzazione che sia dotata dei requisiti generali per la soggettività tributaria, ossia non appartenga ad altri soggetti e realizzi il presupposto in modo autonomo e unitario. In tal senso cfr. R. Schiavolin, L’imposta regionale sulle attività produttive. Profili sistematici, Milano, 2007, 180; sul punto anche T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit., 61. (107) Con riferimento all’ICI, si è detto in passato che “qualsiasi centro di imputazione di interessi, di qualsiasi natura (persona fisica, persona giuridica, ecc.), purché dotato di soggettività tributaria può porre in essere il presupposto dell’ICI” (così G. Marini, Contributo allo studio dell’imposta comunale sugli immobili, Milano, 2000, 84). Tali considerazioni sembrano potersi estendere anche all’IMU, stante la sostanziale identità delle regole che ne disciplinano il presupposto, individuato nel “possesso” dell’immobile. (108) La diversa soluzione di individuare nel’affidante il soggetto passivo si scontrerebbe con la circostanza che il trasferimento patrimoniale non sarebbe idoneo a manifestare alcuna forza economica per lo stesso, che invece andrebbe ricondotta al patrimonio segregato nel fondo affidato. Allo stesso modo, non sarebbe appropriata l’applicazione di trattamenti agevolativi basati su elementi di carattere soggettivo riferibili all’affidante. Per tali considerazioni, sia pure


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Ad esiti diversi parrebbe doversi, invece, pervenire con riferimento alla reintrodotta imposta sulle successioni e donazioni, che, per le implicazioni qui derivanti dall’adozione, nell’ambito della nuova disciplina, di una particolare fattispecie impositiva diretta a colpire la “costituzione di vincoli di destinazione”, sembra meritare una trattazione specifica. 5. Negozi fiduciari, trust e contratti di affidamento fiduciario nella prospettiva della neo introdotta imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione. – Come già accennato, l’art. 2, comma 47, del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, ha reintrodotto il prelievo successorio, così come disciplinato dal D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, nel testo vigente al 25 ottobre 2001. Come detto, accanto alla tradizionale imposta sulle successioni e donazioni il legislatore ha però previsto anche un nuovo prelievo diretto a colpire la “costituzione di vincoli di destinazione”. L’inserimento di una fattispecie impositiva che sembrerebbe caratterizzata da un presupposto autonomo e distinto rispetto alle ulteriori due ipotesi ivi contemplate, ha suscitato, sin dall’inizio, ampie riflessioni nell’intento di individuare con esattezza l’ambito applicativo della nuova previsione. Riflessioni che non hanno potuto non tenere conto dei numerosi contributi che sul punto sono stati offerti dalla prassi amministrativa. Secondo l’Agenzia delle Entrate, infatti, dovrebbero essere assoggettati al nuovo prelievo tutti i negozi giuridici mediante i quali determinati beni sono destinati alla realizzazione di un interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, laddove ricorrano effetti segregativi e limitativi della disponibilità dei beni medesimi. La mera segregazione patrimoniale, tuttavia, non sarebbe di per sé sufficiente ad integrare il presupposto del tributo, essendo a tal fine necessario anche il verificarsi di un vero e proprio trasferimento (109).

con riferimento alla posizione del trustee rispetto al patrimonio del trust, cfr. T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit., 63. (109) In questo senso cfr. Circolare Agenzia delle Entrate, 22 gennaio 2008, n. 3/E, la quale aveva altresì precisato che le successive attribuzioni di beni sarebbero state soggette ad autonoma imposizione a seconda degli effetti giuridici prodotti e indipendentemente da ogni precedente imposizione. Nell’ipotesi pertanto in cui il bene trasferito in sede di costituzione del vincolo debba essere successivamente ritrasferito a terzi, il primo negozio traslativo andrebbe assoggettato ad imposta sulle successioni e donazioni, mentre il secondo, in base alla sua natura giuridica, andrebbe assoggettato all’imposta sulle successioni o donazioni o all’imposta di registro. Su questi profili cfr. anche G. Corasaniti, Profili impositivi dell’intestazione fiduciaria,


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Si distinguerebbero, pertanto atti di costituzione di vincoli di destinazione non rilevanti ai fini dell’applicazione del tributo, proprio per la mancanza di un trasferimento dei beni ad un soggetto diverso dal disponente, e atti, invece, rilevanti, proprio in funzione dell’effetto traslativo. Tra i primi vi sarebbero la costituzione di un patrimonio destinato ad uno specifico affare ai sensi dell’art. 2447-bis del cod. civ., la costituzione di un fondo patrimoniale, ogniqualvolta essa non comporti il trasferimento di beni (110), come pure, si ritiene, la costituzione di vincoli di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter del cod. civ. privi di effetti traslativi. Tra i secondi, oltre all’ipotesi di fondo patrimoniale costituito con i beni di un terzo o di un solo coniuge che non se ne riserva la proprietà (e, quindi, con effetti traslativi), rientrerebbero, evidentemente, gli atti di costituzione di vincoli di destinazione ex art. 2645-ter del cod. civ. con effetti traslativi (111). Inizialmente, inoltre, anche gli atti di intestazioni di beni alle società fiduciarie costituite ai sensi della legge n. 1966/1939 erano stati inclusi tra quelli soggetti all’imposta (112). Successivamente, come abbiamo visto, la stessa Agenzia delle Entrate ha sconfessato tale posizione, valorizzando anche qui la natura “germanistica” del rapporto sussistente tra la società fiduciaria e l’effettivo “proprietario” dei titoli (113).

cit., 743. (110) Ciò si verificherebbe, precisa l’Agenzia nella predetta circolare, nel caso in cui il fondo sia costituito con beni di proprietà di entrambi i coniugi ovvero qualora sia costituito con beni appartenenti ad un solo coniuge laddove nell’atto costitutivo del fondo sia stabilito che la proprietà rimanga in carico allo stesso conferente. (111) Sulla disciplina civilistica degli atti di costituzione di vincoli di destinazione cfr. M. Nuzzo, Atto di destinazione ed interessi meritevoli di tutela, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, a cura di M. Bianca, Milano, 2007, 68 ss.; M. Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1996; C. Scognamiglio, Negozi di destinazione e altruità dell’interesse, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 357-2012/C, 80 ss. (112) Così sempre la Circolare Agenzia delle Entrate 22 gennaio 2008, n. 3/E, per la quale rientrerebbe nell’ambito di applicazione dell’imposta anche il negozio fiduciario di cui si avvalgono le società fiduciarie disciplinate dalla legge n. 1966/1939 che si propongono di assumere l’amministrazione di beni per conto terzi. (113) In questo senso, come visto, la Circolare 27 marzo 2008, n. 28/E, la quale, tuttavia, ha confermato l’applicazione dell’imposta nel caso di intestazione di beni immobili, essendo qui applicabile la fiducia di tipo romanistico. Ciò nonostante, come evidenziato dalla dottrina, il patto fiduciario inerisce normalmente ad attribuzioni di carattere oneroso e non gratuito. Per una critica della posizione dell’Agenzia delle Entrate cfr. G. Corasaniti, Profili impositivi dell’intestazione fiduciaria, cit., 743; G. Fransoni, Allargata l’imponibilità dei vincoli di destinazione, cit., 648 ss.


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Nell’ambito di applicazione del prelievo rientrano, infine, con tutta evidenza, gli atti di disposizione compiuti in attuazione dell’atto istitutivo di un trust, e, in quest’ottica, sembra inevitabile, anche quelli compiuti per il trasferimento all’affidatario fiduciario dei beni destinati a costituire il fondo affidato nell’ambito di un contratto di affidamento fiduciario. Anche qui, infatti, la rilevanza fiscale dei contratti di affidamento fiduciario può essere ricostruita prendendo spunto dalle riflessioni maturate in materia di trust, dovendosi, anche in questo caso, valorizzare le analogie funzionali che caratterizzano i due istituti (114). Del resto, le problematiche insite nell’applicazione di tale prelievo sono state analizzate soprattutto con riferimento al trust, il quale rappresenta, evidentemente, l’ipotesi che si è ritenuta per così dire paradigmatica di atto di costituzione di vincoli di destinazione con effetti traslativi (115). Controversa, in questo contesto, è apparsa l’individuazione del momento impositivo, dei soggetti passivi e dell’aliquota applicabile alla nuova fattispecie. Secondo l’Amministrazione Finanziaria l’imposta verrebbe ad applicarsi al momento della costituzione del vincolo, realizzandosi, in tal modo, una forma di anticipazione del prelievo rispetto al momento dell’attribuzione finale al beneficiario (116). In quest’ottica, poi, il soggetto passivo del pre-

(114) Peraltro, in assenza di una specifica disciplina dettata per tale istituto in materia di imposte indirette, l’estensione dei risultati cui si è pervenuti con riferimento al trust anche ai contratti di affidamento fiduciario, può risultare addirittura più agevole. In tal senso, in risposta ad un interpello, si è pronunciata anche l’Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Liguria, che ha chiarito che l’affidamento riproduce effetti segregativi sostanzialmente eguali a quelli classici del trust, e ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni il contratto di affidamento fiduciario rientra nella categoria della costituzione di vincoli di destinazione ai sensi dell’art. 2, comma 47, del D.L. n. 262/2006. In tal senso cfr. Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Liguria, parere 21 febbraio 2011, interpello n. 903-31/2011, in Trust e attività fiduciarie, 2011, 62. Sul punto anche G. Vasapolli e G. Vasapolli, Prime brevi considerazioni in merito al regime tributario dei contratti di affidamento fiduciario, cit., 8 ss. (115) Peraltro, l’imposta, secondo l’Agenzia delle Entrate, si applicherebbe, in quest’ottica abbastanza incomprensibilmente, anche agli atti istitutivi di trust autodichiarati, privi di effetti traslativi. In tal senso cfr. Circolare, 22 gennaio 2008, n. 3/E. (116) In tal senso cfr. anche Circ. Agenzia delle Entrate, 22 gennaio 2008, n. 3/E; Circ, Agenzia delle Entrate 6 agosto 2007, n. 48/E. Per un commento cfr. S. Cannizzaro, T. Tassani, La tassazione degli atti di destinazione e dei trust nelle imposte indirette, in Consiglio Nazionale del Notariato, Studio Tributario n. 58-2010/T - Approvato dalla Commissione studi tributari il 21 gennaio 2011. In dottrina condivide questa impostazione A. Fedele, Il trasferimento dei beni al trustee nelle imposte indirette, in Aa.Vv., Teoria e pratica della fiscalità dei trust, cit., 15; G. Gaffuri, L’imposta sulle successioni e donazioni, II ed., Padova, 2008, 166, secondo il quale


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lievo non andrebbe individuato nel beneficiario finale dell’attribuzione, ma, nel trust stesso, chiamato, appunto, a corrispondere l’imposta in via anticipatoria (117). Per quanto riguarda l’individuazione dell’aliquota applicabile, si imporrebbe, poi, la distinzione tra trust con beneficiari individuati al momento della costituzione del vincolo, trust privi di beneficiari individuati al momento del verificarsi dell’effetto segregativo e trust di scopo. Soltanto per i primi, infatti, sarebbe consentita l’applicazione di aliquote inferiori alla misura massima (8 per cento), in quanto solo in questi casi sarebbe possibile valutare l’eventuale sussistenza di vincoli di parentela tra il disponente ed i beneficiari tali da legittimare l’applicazione di aliquote ridotte (nella misura del 4 e del 6 per cento) (118). Avendo l’attribuzione patrimoniale scontato il prelievo al momento della segregazione, la successiva devoluzione dei beni vincolati nel trust ai beneficiari originariamente identificati non dovrebbe, invece, reputarsi ulteriormente imponibile (119). Le indicazioni fornite dalla prassi amministrativa non sono state, però, pienamente condivise, e, in questo senso, la dottrina non ha mancato di segnalare le non poche criticità emergenti, sul piano sistematico, dalla ricostruzione proposta dall’Agenzia delle Entrate. Si è affermato, infatti, che l’imposizione proporzionale andrebbe rinviata al momento dell’assegnazione dei beni ai beneficiari (120), in quanto, l’anticipazione del momento impositivo alla sem-

l’effettività dell’arricchimento non si misurerebbe necessariamente con il conseguimento fisico della ricchezza, ma anche con la certezza giuridica di ottenerla. (117) Cfr. la Circolare 22 gennaio 2008 n. 3/E, secondo cui il soggetto passivo dell’imposta sulle successioni e donazioni e il trust in quanto immediato destinatario dei beni oggetto della disposizione segregativa. Sul punto cfr. anche P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 660. (118) In questo senso la Circolare 22 gennaio 2008, n. 3/E; sul punto cfr. anche S. Zagà, L’applicabilità ai vincoli di destinazione ed ai trust della (re)istituita imposta sulle successioni e donazioni, in Dir. prat. trib., 2010, I, 854 ss.; T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit. 141-142; P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 659-660. (119) Cfr. la Circolare 6 agosto 2007, n. 48/E, dove si afferma: “poiché la tassazione, che ha come presupposto il trasferimento di ricchezza ai beneficiari finali, avviene al momento della costituzione del vincolo, l’eventuale incremento del patrimonio del trust non sconterà l’imposta sulle successioni e donazioni al momento della sua devoluzione”. Sul punto cfr. anche T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit. 141. (120) M. Lupoi, L’Agenzia delle Entrate e i principi sulla fiscalità dei trust, in Corr. trib., 2007, 2789; A. Contrino, Riforma del tributo successorio, atti di destinazione e trusts familiari, in Riv. dir. trib., 2007, I, 537 ss.; T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit., 142 ss.;


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plice costituzione del vincolo non terrebbe in adeguato conto la manifestazione di capacità contributiva che il legislatore parrebbe aver inteso colpire con la reintroduzione dell’imposta ed alla quale non potrebbe sfuggire neppure il nuovo prelievo sulla costituzione dei vincoli di destinazione. Essa andrebbe individuata nell’arricchimento stabile e definitivo che si ha nel patrimonio di chi riceve un’attribuzione patrimoniale di tipo gratuito, e, di conseguenza, non si comprenderebbe per quale motivo la semplice costituzione di un vincolo di destinazione ed il conseguente effetto segregativo che ad essa consegue potrebbero assurgere a fatto esprimente un’autonoma capacità contributiva. Allo stesso modo, l’individuazione del soggetto passivo nello stesso trust anziché nel beneficiario finale dell’attribuzione è apparsa una forzatura, non coerente con l’indicazione dei soggetti passivi del prelievo operata al livello normativo. Nel reintrodurre il prelievo, infatti, il legislatore non sembrerebbe aver individuato una nuova categoria di soggetti passivi diversi dai beneficiari dell’attribuzione liberale (121). Secondo l’impostazione proposta dalla maggior parte della dottrina, in buona sostanza, il prelievo si giustificherebbe soltanto nelle ipotesi di costituzione di vincoli di destinazione orientati ad una successiva attribuzione patrimoniale ad un beneficiario in funzione del suo arricchimento. Nelle altre ipotesi, come, ad esempio, nei trust di scopo, oppure nei trust con finalità di tipo liquidatorio, la mancanza di una futura attribuzione patrimoniale di tipo gratuito al beneficiario finale, a prescindere dall’effetto traslativo che si realizzerebbe al momento della costituzione del vincolo, dovrebbe escludere la soggezione al prelievo (122). In altri termini, ciò che qui assumerebbe rilevo non sarebbe la natura auto e etero dichiarata del vincolo, bensì, come detto, la

P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 664 ss.; S. Ghinassi, I principi generali in tema di determinazione della base imponibile nell’imposta sulle successioni e donazioni, in Riv. dir. trib., 2009, II, 19 ss.; E.M. Bartolazzi Menchetti, Qualificazione dell’atto di affidamento di beni al trustee nelle imposte sui trasferimenti, in Aa.Vv., Corrispettività, onerosità e gratuità. Profili tributari, a cura di V. Ficari e V. Mastroiacovo, Torino, 2014, 108 ss. (121) L’art. 5 del D.lgs. n. 346/1990 individua, infatti, quali soggetti passivi dell’imposta gli eredi e legatari per le successioni, i donatari per le donazioni ed i beneficiari per le altre liberalità tra vivi. Sul punto cfr. T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit., 146. (122) Come rileva sempre T. Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano, cit., 147, l’applicazione dell’imposta ai trust di scopo non risulterebbe coerente con il presupposto del tributo “perché la costituzione di un trust di scopo con segregazione dei beni, non determina normalmente la prospettiva certa, sul piano giuridico, di un futuro arricchimento patrimoniale da parte di un determinato soggetto”.


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presenza di un beneficiario finale cui sia destinata, in prospettiva, l’attribuzione gratuita del bene vincolato (123). Su questi temi è, però, da ultimo intervenuta la Suprema Corte di Cassazione, la quale ha confermato il pagamento dell’imposta al momento della costituzione del vincolo. La Corte ha, inoltre, precisato che tale imposta è una forma di prelievo diversa dall’imposta sulle successioni e donazioni, non dovendosi applicare sui trasferimenti di beni e diritti che conseguono alla costituzione di vincoli di destinazione (come, invece, accade per le imposte di successione e donazione), ma sulla costituzione stessa del vincolo (124). Ciò in quanto, nell’imposta in esame, il presupposto impositivo sarebbe correlato alla predisposizione del programma di funzionalizzazione del diritto al perseguimento degli obiettivi voluti (125); l’oggetto del prelievo consiste-

(123) In questo senso cfr. P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 668, per il quale, appunto, l’elemento discriminante ai fini della tassazione del vincolo non sarebbe il suo carattere auto o etero dichiarato, quanto “l’assenza di beneficiari nel fondo patrimoniale e nei patrimoni destinati ad uno specifico affare”. Beneficiari che, invece, “ben possono esserci in un trust auto dichiarato”. In quest’ottica, prosegue l’Autore, “il discrimine ai fini dell’attrazione all’alveo applicativo dell’imposta sulle successioni e donazioni non è dato dall’esistenza si un “trasferimento di beni” – irrilevante in tutti i casi –, ma dalla presenza di beneficiari che possano, al momento del perfezionamento dell’attribuzione liberale, assumere la veste di soggetti passivi di siffatto tributo”. (124) Cass. Sez. VI, Ord. 24 febbraio 2015, n. 3735, in banca dati Le leggi d’Italia. Nel caso esaminato si trattava di un trust di garanzia, diretto a rafforzare la garanzia patrimoniale già prestata dal disponente in qualità di fideiussore verso alcuni istituti bancari. Al raggiungimento dello scopo principale si prevedeva inoltre che il fondo del trust venisse impiegato per i bisogni della famiglia del disponente e che, al termine della durata del trust, l’eventuale residuo fosse distribuito al disponente, se ancora in vita, oppure ai beneficiari. Si trattava, inoltre di trust auto dichiarato; Cass., Sez. VI, Ord. 24 febbraio 2015, n. 3737, in banca dati Le leggi d’Italia. Si trattava, qui, di un trust costituito da una serie di enti, avente lo scopo di mantenere, riqualificare e sviluppare un aeroporto. Al termine del trust gli eventuali beni residui sarebbero stati distribuiti ad uno dei disponenti, ovvero ad un ente pubblico o ad una società individuata dai disponesti; Cass., Sez. VI, Ord. 25 febbraio 2015, n. 3886, anch’essa in banca dati Le Leggi d’Italia. Qui, invece, il trust era stato costituito da due coniugi ed era funzionale all’applicazione di un regolamento equiparabile ad un fondo patrimoniale. I beneficiari erano indicati nei disponesti stessi, se in vita, ed altrimenti nei figli in parti uguali. Anche qui si trattava di trust autodichiarato. Per un commento a tali ordinanze cfr. T. Tassani, Sono sempre applicabili le imposte di successione e donazione sui vincoli di destinazione?, in Il fisco, 2015, 1957 ss.; D. Stevanato, La “nuova” imposta sui vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, in GT - Riv. giur. trib., 2015, 397 ss. (125) Come rileva giustamente T. Tassani, Sono sempre applicabili le imposte di successione e donazione sui vincoli di destinazione?, cit., 1958-1959, seguendo quest’impostazione oltre agli atti istitutivi di trust e di vincoli di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter del cod. civ.,


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rebbe, invece, nel valore dell’utilità della quale il disponente, stabilendo che sia sottratta all’ordinario esercizio delle proprie facoltà proprietarie, finisce con l’impoverirsi. La giustificazione del prelievo, quindi, non viene individuata nell’arricchimento che deriva ai beneficiari del programma, ma, sembrerebbe, addirittura correlata con l’impoverimento del soggetto che vincola una parte del proprio patrimonio al perseguimento delle finalità indicate nel programma del trust. Ed infatti, nell’ottica della Suprema Corte, se questa imposta necessitasse del trasferimento e, quindi, dell’arricchimento, essa sarebbe del tutto superflua, risultando essa assorbita dal prelievo sulle successioni e sulle donazioni, nelle quali il presupposto d’imposta è, appunto, il trasferimento, quantunque condizionato o a termine, dell’utilità economica ad un beneficiario. Sulla base di simili presupposti i Supremi Giudici sono giunti anche a superare i possibili dubbi di legittimità costituzionale ravvisabili nel prelievo reputando irrilevante la mancanza di arricchimento, giacché il contenuto patrimoniale referente di capacità contributiva sarebbe ragguagliato all’utilità economica, della quale il costituente, destinando, disporrebbe. La Suprema Corte, perviene, infine, a ritenere corretta l’imposizione con la aliquota più alta, di applicazione residuale in mancanza dei presupposti per l’applicazione della aliquote ridotte. La posizione da ultimo assunta dalla Suprema Corte suscita, tuttavia, alcune perplessità (126). L’applicazione dell’imposta in ragione della semplice costituzione del vincolo non sembra, infatti, pienamente giustificata sotto il profilo costituzionale, in quanto la costituzione del vincolo, laddove non

si finirebbe per assoggettare ad imposta anche i patrimoni destinati ad uno specifico affare ex art. 2447-bis del cod. civ., ogni tipologia di fondo patrimoniale, ed, infine, anche il fondo comune della rete-contratto. Tutte ipotesi, tuttavia, fino ad oggi ritenute soggette ad imposta di registro in misura fisa per l’assenza di effetti traslativi. (126) Fortemente critico con l’interpretazione proposta dalla Suprema Corte D. Stevanato, La “nuova” imposta sui vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, cit., 397 ss., il quale evidenzia le forzature che la Corte avrebbe compiuto nell’individuazione del presupposto, nella selezione dei soggetti passivi e nella individuazione delle aliquote applicabili. Forzature che non sarebbero giustificate, nell’ottica dell’Autore, dall’“argomento letterale”, in quanto “la lettura più ragionevole, fondata sul piano storico, oltre che costituzionalmente orientata, è dunque quella che impone di armonizzare il riferimento ai “vincoli” di destinazione”, rispetto alle caratteristiche strutturali del tributo sulle donazioni, che rimane un’imposta di stampo patrimoniale prelevata in occasione del trasferimento di beni e diritti sorretto da una causa (donazione formale) o quantomeno un risultato empirico liberale (liberalità indirette).


Dottrina

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si accompagni, seppure in prospettiva, all’arricchimento gratuito di un altro soggetto, non pare sufficiente ad esprimere un autonomo indice di capacità contributiva. Come rilevato da attenta dottrina, l’imposta sulle donazioni è un tributo chiaramente volto a tassare l’arricchimento del beneficiario e non l’impoverimento di colui che dona (127). A tale ordine di considerazioni non sembra potersi sottrarre neppure l’imposta sulla costituzione di vincoli di destinazione, in quanto, il rispetto del principio costituzionale di capacità contributiva sembra imporre anche in questo caso l’individuazione di un arricchimento cui ancorare il verificarsi del presupposto impositivo. 6. Riflessioni conclusive. – Il contratto di affidamento fiduciario rappresenta, senza dubbio, una rilevante opportunità per il nostro sistema giuridico (128). Il modello, come abbiamo visto, consente finalmente di valorizzare l’intesa fiduciaria non per occultare il possesso della ricchezza, ma per il raggiungimento di interessi che vadano oltre le posizioni del fiduciante e del fiduciario. Interessi che, esprimendosi in un programma alla cui realizzazione l’affidatario di obbliga, oltre a dover presentare il carattere della meritevolezza, ai sensi dell’art. 1322 del cod. civ., paiono doversi, necessariamente, caratterizzare per l’assenza di autoreferenzialità. È proprio nell’assenza di autoreferenzialità, infatti, che, qui, sembra trovare giustificazione lo stesso concetto di segregazione patrimoniale, e le conseguenti limitazioni alla responsabilità prevista dall’art. 2740 del cod. civ. L’imposizione di un vincolo di destinazione sui beni, che può realizzarsi sia nel contesto di un contratto di affidamento fiduciario, sia nell’ambito degli

(127) In questo senso cfr. sempre D. Stevanato La “nuova” imposta sui vincoli di destinazione nell’interpretazione creativa della Cassazione, cit., 397 ss, per il quale “la Corte teorizza in questo modo un’imposta sull’impoverimento, potremmo dire un tributo sull’astinenza, sul sacrificio, sull’utilità negativa che deriva dall’aver posto un vincolo alle facoltà domenicali su determinati beni, con cui il proprietario ne autolimita il pieno e libero esercizio”. (128) Un’opportunità che potrebbe anche essere colta dal legislatore che, in quest’ottica, e sulla scorta di esperienze giuridiche a noi vicine, potrebbe adottare il nuovo modello negoziale in via normativa. Si pensi, in questo contesto, alla legge 1° marzo 2010, n. 43, con cui la Repubblica di San Marino ha adottato “L’istituto dell’affidamento fiduciario”, prevedendo, all’art. 1, che l’affidamento fiduciario sia il contratto con il quale l’affidante e l’affidatario convengono il programma che destina taluni beni e i loro frutti a favore di uno o più beneficiari, parti o meno del contratto, entro un termine non eccedente novanta anni. Per un commento cfr. A. Vicari, Il contratto di affidamento fiduciario nella legge di San Marino, in Aa.Vv., Autonomia privata e affidamenti fiduciari, a cura di A. Barba e D. Zanchi, Torino, 2012, 210 ss.


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atti di destinazione previsti dall’art. 2645-ter del cod. civ., e le connesse limitazioni alla garanzia patrimoniale per i creditori, sembrano, infatti, potersi giustificare soltanto con il perseguimento di interessi che vadano oltre la posizione del soggetto che, segregando, vincola, in tutto o in parte, l’utilizzo degli stessi (129). Rilevante eccezione a questo principio sembrano essere solo le ipotesi di segregazione patrimoniale promosse per l’esercizio di una attività d’impresa. Qui, infatti, il legislatore pare aver ammesso numerose ipotesi di separazione patrimoniale (le società unipersonali, i patrimoni dedicati ad uno specifico affare) che, per la loro validità non richiedono la presenza di un interesse non autoreferenziale del disponente. L’esercizio dell’impresa, in altri termini, sembrerebbe rappresentare un interesse in sé meritevole di tutela, sicché il legislatore ne agevolerebbe il perseguimento consentendo all’imprenditore, anche individuale, di fruire di numerosi strumenti per limitare la propria responsabilità patrimoniale (130).

(129) Con riferimento agli atti istitutivi di vincoli di destinazione cfr. C. Scognamiglio, Negozi di destinazione e altruità dell’interesse, cit., 83-84, per il quale l’interesse “per poter innescare l’effetto segregativo prefigurato dalla norma, non deve esaurirsi all’interno della sfera del disponente, poiché un interesse di tal fatta, alla luce del dato letterale appena segnalato (la legittimazione cumulativa, e non alternativa, anche di qualunque interessato ad agire per la realizzazione dello scopo), così come di quello che potremmo definire assiologico – sistematico (la particolare ‘densità’ della regola racchiusa nell’art. 2740 cod. civ.) è considerato strutturalmente inidoneo dal legislatore”. A queste considerazioni l’Autore, inoltre, aggiunge ulteriori riflessioni, rilevando che “proprio perché l’interesse idoneo a determinare l’effetto segregativo non potrà in alcun caso essere integralmente autoriferito al disponente, lo strumento negoziale per l’articolazione del patrimonio previsto dall’art. 2645-ter cod. civ. non potrà essere utilizzato per realizzare il mero interesse del disponente a selezionare porzioni del proprio patrimonio onde impedirne l’aggressione da parte di questo o di quel creditore. Qui, infatti”, prosegue l’Autore, “verrebbe in considerazione, all’evidenza, un interesse del tutto autoreferenziale (oltre che, con ogni probabilità, anche non meritevole di tutela ex art. 2645-ter, dato che quest’ultimo concetto si deve comunque modulare tenendo conto dell’interesse del ceto creditorio a non vedere vanificata la propria garanzia)”. (130) La S.r.l. unipersonale è stata istituita in Italia con il D.P.R. 3 marzo 1993, n. 88, emanato in attuazione della Direttiva 89/667/CEE (XII direttiva di armonizzazione del diritto societario). Con la riforma del diritto societario attuata con il D.lgs. 22 gennaio 2003, n. 6, invece, il legislatore ha introdotto anche il modello della società per azioni unipersonale, di cui oggi è consentita la costituzione con atto unilaterale di un unico socio fondatore (art. 2328, comma 1, del cod. civ.). La riforma del 2003 ha inoltre offerto alle società per azioni una nuova tecnica per limitare il rischio d’impresa, ossia la costituzione di patrimoni destinati ad uno specifico affare (artt. 2447-bis - 2447-decies). Sul tema cfr. G.F. Campobasso, Manuale di diritto commerciale, III ed. a cura di M. Campobasso, Torino, 2004, 175 ss.


Dottrina

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Al di fuori del mondo dell’impresa, tuttavia, la segregazione sembra trovare giustificazione soltanto in presenza di un interesse non autoreferenziale del disponente. Ecco perché, si è detto, non rappresenterebbe un reale affidamento fiduciario un contratto che vedesse come unico beneficiario del programma destinatorio l’affidante (131). Il contratto di affidamento fiduciario rappresenta, pertanto, una sensibile evoluzione rispetto ai modelli in precedenza utilizzati per rispondere alle esigenze che nascono sul terreno della fiducia. In questo modello, infatti, i rapporti tra fiduciante (affidante), fiduciario (affidatario) e beneficiari vengono compiutamente delineati nel programma destinatorio, laddove, nei precedenti schemi negoziali essi erano soltanto sommessamente accennati o dati per presupposti nell’ambito della segretezza che molto spesso caratterizzava l’intesa. Il nuovo modello, in altri termini, sembra consentire finalmente il pieno esplicarsi della tutela delle posizioni di tutti i soggetti coinvolti. Ma tutto ciò, come abbiamo visto, almeno in apparenza, interessa solo marginalmente lo studioso del diritto tributario. Qui si tratta, infatti, di ricondurre la ricchezza che nel contratto si manifesta, sia al livello statico che al livello dinamico, ai soggetti che tale ricchezza effettivamente esprimono. Se così è, però, la scissione diritto-interesse che caratterizza il fenomeno non può che diventare rilevante anche per il diritto tributario. Negli schemi che si rifanno al negozio fiduciario classico, l’abbiamo visto, tale scissione non sempre è immediatamente percepibile da parte dei terzi, il che, inevitabilmente, finisce per riflettersi anche sulla ricostruzione del trattamento tributario del fenomeno. Come, sul piano del diritto civile, non è sempre facile, per la segretezza dell’intesa, accordare tutela al fiduciante, così, sul piano del diritto tributario, non è sempre facile, se non adottando percorsi interpretativi orientati a valorizzare la “sostanza economica” a scapito della “forma giuridica”, ricondurre la ricchezza al soggetto che effettivamente la esprime (132).

(131) Cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., 416, il quale sottolinea che “Un contratto di affidamento fiduciario che veda l’affidante quale unico beneficiario non è concepibile perché prospetta una eccedenza degli effetti rispetto alla tutela dell’interesse oggetto del programma, sia perché pone in discussione la stessa realità del programma”. (132) Cfr., al riguardo, P. Adonnino, voce Società fiduciaria. II) Diritto tributario, cit., 5, che, commentando la tesi della trasparenza delle società fiduciarie che si rendono intestatarie di beni immobili, rileva che “Al principio di trasparenza fiscale delle società fiduciarie si perviene anche dallo stesso presupposto dell’imposta sui redditi, quale possesso di redditi provenienti da


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Di qui, la tradizionale diffidenza per il fenomeno che finisce per caratterizzare sia lo studioso del diritto civile, chiamato ad individuare strumenti di tutela destreggiandosi tra i concetti di simulazione ed interposizione, fittizia o reale che sia, sia lo studioso del diritto tributario, al quale è rimesso il difficile compito di chiarire, attraverso l’impiego dei medesimi schemi concettuali, se i beni fiduciariamente intestati, e, soprattutto, i redditi che da essi derivano, appartengano al fiduciante o al fiduciario. Tutte queste difficoltà, però, paiono attenuarsi notevolmente allorché si passa all’esame del nuovo modello negoziale. La presenza di un programma che selezioni con chiarezza gli interessi da perseguire, i soggetti beneficiari, le facoltà dell’affidatario e i poteri di controllo dell’affidante, rappresentano, per il civilista, un buon punto di partenza per costruire rimedi dotati di adeguata efficacia, e, per il tributarista, una guida sicura per individuare quel soggetto che, rispetto ai beni ed all’attività oggetto di segregazione, esprime una capacità contributiva reale. In questo senso, si è partiti innanzitutto dalla nozione di “possesso”, che nell’ambito dell’imposizione diretta, individua la relazione che deve sussistere tra il soggetto e la fonte del reddito ai fini dell’imputazione dello stesso. Nello specifico, dopo aver introdotto il concetto di interesse in vista del quale un soggetto è investito della titolarità della fonte, si è giunti a reinterpretare l’elemento soggettivo del presupposto dell’imposta sui redditi, in quanto, si è detto, esso non può, prescindere non solo da un rapporto tra il soggetto e la fonte inteso in termini di titolarità giuridica, ma anche dalla facoltà del titolare di impiegare le utilità che da essa derivano per soddisfare i propri bisogni e le proprie esigenze (133).

qualsiasi fonte (art. 1 TUIR)”. Ciò in quanto, prosegue l’Autore, “Si ritiene che l’espressione “possesso di redditi” recata dall’art. 1 TUIR vada interpretata ricomprendendovi non la sola titolarità giuridica del reddito, ma anche la disponibilità di fatto dello stesso: si accoglie, insomma, una nozione di presupposto dell’imposta sui redditi sganciata dalla titolarità giuridica del bene produttivo di redditi e ancorata invece alla posizione di “proprietà utilitaristica” del soggetto che effettivamente ed economicamente si avvantaggia del reddito”. (133) In questo senso, come abbiamo visto, si esprime P. Laroma Jezzi, La fiscalità dei trust aspettando il “Trust di diritto italiano”, cit., 612, che con la nozione di possesso identifica il “perimetro” entro il quale affluiscono i redditi che il soggetto passivo può giuridicamente utilizzare per soddisfare i propri bisogni e interessi e, per l’effetto, adempiere, spontaneamente o coattivamente, all’obbligazione tributaria. Nello stesso senso Id., Separazione patrimoniale e imposizione sul reddito, cit. 205. Anche la definizione proposta da G. Tinelli, Commento all’art. 1, in Aa.Vv., Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi, cit., 27, laddove valorizza la facoltà del soggetto di disporre volontariamente della fonte reddituale, potrebbe,


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In quest’ottica, l’unico soggetto in grado si esprimere una simile relazione nel contratto di affidamento fiduciario si è appurato essere proprio il patrimonio ivi segregato. Di qui l’inevitabile scelta della soggettivizzazione di tale patrimonio e la sua riconduzione, ai sensi dell’art. 73, comma 2, del TUIR, tra i soggetti passivi dell’IRES, pena, in caso contrario, l’evidente impossibilità di sottoporre i redditi da esso conseguiti al prelievo. Nell’elaborazione di tale soluzione, si è visto, ci si è giovati delle opzioni interpretative a suo tempo proposte in materia di trust, prima che il legislatore, con il noto intervento del 2006, approntasse uno specifico regime fiscale per l’istituto di origine anglosassone, essendo quest’ultimo quello che presenta maggiori analogie funzionali con il modello in esame. Rispetto all’opzione adottata in materia di trust nel 2006, la soluzione qui proposta per la fiscalità diretta del contratto di affidamento fiduciario presenta però un notevole punto di distacco. Non è parso possibile estendere ai contratti di affidamento fiduciario il regime di imputazione dei redditi per trasparenza previsto dall’art. 73, comma 2, del TUIR per i trust con beneficiari individuati. Si è ritenuto, infatti, che l’adozione di un meccanismo di imputazione per trasparenza, implicando una scissione tra titolarità della fonte e imputazione del reddito che sembra derogare al criterio generale, richiederebbe una esplicita opzione normativa. Si è consapevoli che una simile soluzione, pur essendo, in definitiva l’unica coerente con le premesse sistematiche da cui si sono prese le mosse, possa, in certi casi, risultare difficilmente compatibile con l’esigenza di garantire il carattere personale e progressivo dell’imposizione reddituale. L’imputazione per trasparenza dei redditi conseguiti dal trust ai beneficiari individuati, in questo senso, dovrebbe essere salutata con apprezzamento, nonostante le difficoltà che, sul piano dei principi, essa può comportare. Allo stesso modo, l’estensione di un simile regime anche i contratti di affidamento fiduciario nei quali il beneficiario abbia un diritto attuale ed incondizionato alla percezione del reddito dovrebbe reputarsi senz’altro auspicabile, ma, si ritiene, non possa che passare per un intervento del legislatore che parifichi il trattamento fiscale di tali contratti a quello oggi previsto per i trust. Nel frattempo, non può che auspicarsi che le descritte difficoltà, se di difficoltà si può davvero parlare, non compromettano un sereno sviluppo dell’i-

ad ogni buon conto, essere interpretata in tal senso, essendo il potere di disposizione legato alla facoltà di impiegare i beni per soddisfare i propri interessi.


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stituto sul piano fiscale. Laddove, infatti, il programma del contratto esprima davvero interessi meritevoli di tutela e privi di autoreferenzialità non sembrerebbero venire qui in gioco problemi di interposizione, sia essa reale o fittizia, tali da dover imporre l’adozione di specifici rimedi nella fase dell’attuazione del prelievo. Non sembrano esservi ragioni, pertanto, per guardare con diffidenza al proposto modello negoziale, ed in questo senso, le più recenti prese di posizione assunte dall’Amministrazione finanziaria lasciano ben sperare. La selezione degli interessi che si esprimono nel programma negoziale, la loro meritevolezza ed, infine, la loro non riducibilità alla sola posizione dell’affidante sembrano essere, in buona sostanza, i criteri che devono guidare l’interprete, sia nel diritto civile che nel diritto tributario, nella valutazione del contratto, dei suoi effetti e della sua sostenibilità. In ogni caso, essi rappresentano certamente il filo rosso che ha guidato questa riflessione. Allo stesso tempo, eventuali condotte opportunistiche, che potrebbero giovarsi anche del descritto schema negoziale, potranno certamente essere contrastate attraverso l’impiego dell’ampio ventaglio di strumenti antielusivi a disposizione dell’Amministrazione finanziaria, e che si vanno oggi rafforzando grazie anche (e finalmente) all’adozione, sino ad ora sempre rinviata, di una clausola antielusiva generale diretta a contrastare, ad ampio spettro, tutti quei comportamenti qualificati come “abuso del diritto”.

Gabriele Giusti


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Cassazione, sez. V civ., 25 febbraio 2015 - 16 marzo 2016, n. 5117; Pres. Cappabianca, Rel. Greco Agevolazioni – Concorso tra agevolazione Dit e agevolazione Visco –Obbligo di proporzionalizzazione della Dit – Non sussiste Nel caso di concorrenza sull’imponibile IRPEG delle agevolazioni “DIT” e “VISCO”, e nell’ipotesi in cui vi sia “capienza” dell’imponibile ai fini delle due agevolazioni, non sussiste l’obbligo di applicare l’agevolazione “DIT” con il metodo di “proporzionalizzazione” illegittimamente previsto nelle istruzioni al modello “UNICO” . (1)

(Omissis) Svolgimento del processo. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, affidato ad un motivo, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che, accogliendo l’appello della Banca Antonveneta spa, ha annullato l’atto di liquidazione e recupero (della parte residua) delle agevolazioni sull’IRPEG per l’anno 2000, relative alle operazioni di ristrutturazione bancaria, di cui al D.lgs. 17 maggio 1999, n. 153, art. 22 (recupero delle agevolazioni), per la loro incompatibilità con il Trattato CEE dichiarata dalla Commissione nel 2001, regolato con il D.L. n. 282 del 2002, convertito nella L. 21 febbraio 2003, n. 27. Secondo l’Ufficio, infatti, dovendosi nella specie fare applicazione, nel periodo d’imposta 2000, di due concorrenti agevolazioni, la dual income tax di cui al D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 466, art. 1 e la cd. agevolazione Visco di cui alla L. 13 maggio 1999, n. 133, art. 2, il reddito assoggettato ad aliquota agevolata in base alla prima disposizione doveva essere ridotto in ragione del metodo di “proporzionalizzazione”: una volta individuata, cioè, “la base imponibile DIT, dopo la determinazione di quella relativa alla “agevolazione Visco”, si doveva “proporzionalizzare” il reddito assoggettabile alla DIT in guisa da applicare l’aliquota del 19% esclusivamente alla parte della base DIT precedentemente calcolata, proporzionalmente riferibile al reddito soggetto ad aliquota ordinaria (che non beneficia della “agevolazione Visco”)”: la correttezza di un metodo siffatto risiederebbe nel fatto che entrambe le agevolazioni avrebbero il medesimo presupposto, cioè l’aumento del patrimonio netto, e che pertanto sarebbe preclusa la loro mera sommatoria. Il Giudice d’appello, rilevato che l’amministrazione era pervenuta ad una maggiore ampiezza dell’imposta dovuta in base ad una particolare applicazione del mec-


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canismo agevolativo derivante dal concorso di due diverse fonti legislative, e che il complesso meccanismo adottato discenderebbe, ad avviso dell’amministrazione, dalla constatazione che “tali disposizioni godrebbero del medesimo presupposto o meglio assolverebbero la medesima ratio, l’incremento del capitale, e impedirebbe il perverso risultato di poter usufruire di due agevolazioni che si andrebbero a sommare”, ha osservato che “a) non si rinviene nella disciplina alcuna norma ostativa del godimento di più agevolazioni d’imposta; b) le due normative in esame non assolvono la medesima ratio, l’una favorendo l’incremento del patrimonio netto, l’altra le ristrutturazioni dell’impresa; c) è consolidato orientamento della S.C. che nessun temperamento può essere introdotto in sede di interpretazione ed applicazione della legge che vada oltre la lettera della medesima”. Ha ancora sottolineato come l’amministrazione finanziaria non possa “applicare la legge a suo piacimento, riportandola sul piano degli effetti a riduzioni ad equità da essa ritenute giuste”, e come “entrambi i testi legislativi in esame non consentono l’introduzione di quel criterio di proporzionalizzazione, pur suggestivo, che l’Erario ha posto a fondamento dell’atto impugnato”. La società contribuente resiste con controricorso. Motivi della decisione. Con l’unico motivo, denunciando “violazione e falsa applicazione del D.lgs. n. 466 del 1997, art. 1 e della L. n. 133 del 1999, art. 2”, l’amministrazione ricorrente assume che “in presenza di un aumento di capitale di una società (nella fattispecie di un istituto di credito) con contestuale investimento in beni strumentali nuovi per l’impresa, nell’anno d’imposta 2000, sarebbe legittima la pretesa di essa amministrazione finanziaria fondata su una applicazione delle due agevolazioni di cui al D.lgs. n. 466 del 1997, art. 1 (per una parte del reddito pari alla remunerazione potenziale che avrebbe avuto il capitale investito) ed alla L. n. 133 del 1999, art. 2, comma 8, (nella misura pari alla minor somma tra aumento di capitale e acquisto di beni strumentali) su porzioni ideali di reddito non diverse, ma parzialmente identiche (e ciò considerato che la seconda agevolazione di cui alla L. n. 133 del 1999 è calcolata su un comportamento del contribuente - l’acquisto di beni strumentali - potenzialmente derivante dall’aumento di capitale, beneficiato dall’agevolazione di cui al D.lgs. n. 466 del 1997, e improntando l’applicazione delle due norme a un criterio esegetico sistematico, funzionale e costituzionalmente orientato a una ragionevolezza dell’esito dell’intervento agevolatore del legislatore), fondata su un criterio di proporzionalizzazione delle porzioni di reddito agevolate, applicando cioè integralmente l’aliquota agevolata di cui alla L. n. 133 del 1999, e applicando poi l’aliquota agevolata di cui al D.lgs. n. 466 del 1997 non integralmente, ma solo in proporzione alla parte di reddito che non ha già beneficiato della agevolazione di cui alla L. n. 133 del 1999”. Il motivo è inammissibile, in quanto corredato di un quesito di diritto non idoneo alla stregua dell’art. 366 bis cod. proc. civ., risolvendosi nella formulazione di una questione giuridica in ordine alla quale si chiede la convalida della tesi della


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ricorrente, formulata in termini non del tutto lineari e senza chiaro riferimento alla fattispecie – anche considerando i riferimenti esemplificativi a quest’ultima contenuti nella illustrazione del motivo; non viene inoltre indicato il diverso principio applicato e l’errore del giudice di merito che si assume commesso. Questa Corte ha chiarito come “ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., il quesito inerente ad una censura in diritto, dovendo assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, non può essere meramente generico e teorico, ma deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere la Corte in grado di poter comprendere dalla sua sola lettura, l’errore asseritamene compiuto dal giudice di merito e la regola applicabile. Ne consegue che esso non può consistere in una semplice richiesta di accoglimento del motivo ovvero nel mero interpello della Corte in ordine alla fondatezza della propugnata petizione di principio o della censura così care illustrata nello svolgimento del motivo” (Cass. n. 3530 del 2012, n. 8463 del 2009; Cass., sez. un., 23 settembre 2013, n. 21672). Quanto al merito, è appena il caso di ricordare, con riguardo alla identità – confutata dal giudice di appello ma ancora implicitamente sostenuta dalla ricorrente – dei presupposti delle due misure, che, secondo l’orientamento di questa Corte, le norme di agevolazione fiscale, derogando al principio di assoggettamento tributario di ogni manifestazione di capacità contributiva, sancito dall’art. 53 Cost., sono norme di stretta interpretazione, non estensibili ai casi non espressamente previsti. Nella specie, in ordine alla applicazione contemporanea delle due normative, il legislatore ha dettato alla L. n. 133 del 1999, art. 2, comma 10 una norma di coordinamento con la disciplina del D.lgs. n. 466 del 1997, artt. 1 e 6 che non contiene riferimenti al “meccanismo” applicativo propugnato dalla ricorrente. Il ricorso deve essere pertanto rigettato. La mancanza di riferimenti giurisprudenziali di legittimità giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Dichiara compensate fra le parti le spese del giudizio. (Omissis)

(1) L’arbitro fischia il fuorigioco e annulla il goal irregolare dell’Agenzia delle entrate: illegittime le istruzioni ad Unico sulla “proporzionalizzazione” della “Dit” in concorrenza con la “Visco” (nota a cass. n. 5117/2016). Sommario: 1. La fattispecie. – 2. Interpretazione letterale delle disposizioni. – 3. Di-

versa ratio delle agevolazioni. – 4. I principi di applicazione delle disposizioni agevolative. – 5. Le disposizioni relative all’”agevolazione Visco” regolano espressamente i


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rapporti tra le due normative, non prevedendo la “proporzionalizzazione”. – 6. La Corte di cassazione ha confermato la tesi della contribuente. L’articolo concerne una problematica che si era posta a seguito della pubblicazione delle istruzioni al Modello Unico relative al periodo d’imposta 2000. In particolare, dovendosi nella specie fare applicazione di due concorrenti agevolazioni, la dual income tax e la cd. agevolazione Visco, secondo quanto previsto dalle predette istruzioni, il reddito assoggettato ad aliquota agevolata DIT avrebbe dovuto essere ridotto in ragione di un metodo di “proporzionalizzazione”: si sarebbe dovuto cioè “proporzionalizzare” il reddito assoggettabile alla DIT in guisa da applicare l’aliquota DIT del 19% esclusivamente alla parte della base DIT proporzionalmente riferibile al reddito soggetto ad aliquota ordinaria (che non beneficia della “agevolazione Visco”). Tale interpretazione, a parere della contribuente (e della Corte di cassazione), è però illegittima. L’arresto è particolarmente interessante perché consente di affermare il principio che le limitazioni nel godimento di agevolazioni diverse devono essere espresse, ovvero trovare nelle fonti normative adeguata razionalizzazione, non potendo l’Agenzia delle entrate adottare interpretazioni (nella specie, nelle istruzioni al modello Unico) limitative incompatibili con la diversa ratio delle disposizioni. The article is about the instructions to the tax return for fiscal year 2000. In the opinion of Italian tax authorities, the concurrent implementation of two tax benefits (i.e. “dual income tax” and “Visco”) should have led to a reduction of the DIT benefit, because the base of such benefit should have been calculated proportionally to the income on which there was a full-rate taxation, and not a reduced tax-rate due to the other benefit (“Visco”). But that interptation was considered wrong by the Italian Supreme Court. The case is interesting, beacause it implies the principle that limitations to different tax benefits must be justified by expressed rules of law or, at least, by a logical interpretaon of the rules.

1. La fattispecie. – La vicenda riguarda una banca e trae origine dall’”intreccio” causato dall’applicazione per il periodo d’imposta 2000 di tre agevolazioni: - quella di cui alla “legge Ciampi” sulle ristrutturazioni bancarie; - la “DIT”; - e la “Visco”. In particolare: il D.lgs. 17 maggio 1999, n. 153 (c.d. “legge Ciampi”) aveva introdotto disposizioni agevolative in materia di operazioni di ristrutturazione bancaria; le agevolazioni concernevano la tassazione in misura ridotta ai fini delle imposte indirette e delle imposte sul reddito delle predette operazioni di ristrutturazione (artt. 16, 22, 23 e 24). Con decisione C (2001) 3955 dell’11 dicembre 2001, la Commissione europea dichiarò incompatibili con il Trattato CEE le predette disposizioni agevolative.


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Per il “recupero” delle agevolazioni godute presso i soggetti beneficiari fu emanato il d.l. 24 dicembre 2002, n. 282 (convertito, con modificazioni, dalla legge 21.2.2003, n. 27), che ha previsto l’obbligo di versamento di somme corrispondenti alle agevolazioni godute. La banca provvide al tempestivo versamento delle somme corrispondenti alla minor IRPEG versata per il periodo d’imposta 2000 in applicazione dell’agevolazione di cui all’art. 22, D.lgs. n. 153/1999. Il competente ufficio dell’agenzia delle entrate ritenne insufficiente il predetto versamento, poiché la contribuente avrebbe erroneamente liquidato l’imposta a debito. In particolare: - da un lato, l’ufficio ritenne corretta la tesi della contribuente secondo la quale il recupero a tassazione delle agevolazioni godute avrebbe però almeno comportato, a suo favore, la “riespansione” della base di applicazione della DIT – art. 1, D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 466, in base al quale, come noto, era agevolata una quota di reddito complessivo in corrispondenza della maggiore capitalizzazione delle imprese – per il periodo d’imposta 2000; infatti, la “maggiorazione” del reddito imponibile a seguito del recupero dell’agevolazione “Ciampi” consentì, di conseguenza, anche la tassazione in misura ridotta (aliquota 19 %) di una maggiore quota del reddito imponibile complessivo; - d’altro canto, concorrendo nel periodo d’imposta 2000, la DIT e l’”agevolazione Visco” (art. 2, commi 8 - 12, legge 13 maggio 1999, n. 133, in base alla quale, come noto, era agevolata una quota di reddito in corrispondenza di taluni investimenti), l’ufficio ritenne che il reddito assoggettato ad aliquota agevolata in base alla DIT dovesse essere ridotto in ragione del metodo di “proporzionalizzazione” indicato nelle istruzioni al modello di dichiarazione Unico 2001, redditi 2000 (approvato con Provv. Ag. Entr. 26 marzo 2001). In particolare, secondo l’ufficio, una volta individuata la base imponibile DIT, dopo la determinazione di quella relativa alla “agevolazione Visco”, si sarebbe dovuto ulteriormente “proporzionalizzare” il reddito assoggettabile alla dual income tax in modo da applicare l’aliquota del 19 % esclusivamente alla parte della base DIT precedentemente calcolata, proporzionalmente riferibile al reddito soggetto ad aliquota ordinaria (che non “beneficia dell’agevolazione Visco”) (1).

(1)

Un esempio è necessario per chiarire la problematica.


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La contribuente in corso di giudizio denunciò la palese l’illegittimità del “metodo di proporzionalizzazione” della DIT – già previsto dalle istruzioni al modello Unico 2001 (Provv. Ag. Entr. 26 marzo 2001) – che condusse l’ufficio controparte ad una liquidazione e recupero dell’agevolazione di cui alla “legge Ciampi” erronei: - perché tale “metodo di proporzionalizzazione” non è previsto dalle disposizioni relative alle agevolazioni DIT e “Visco”, come desumibile: • in base all’interpretazione letterale delle norme; • in base alla diversa ratio delle agevolazioni; • in base ai principi generali di applicazione delle disposizioni agevolative; • in base alla circostanza che le disposizioni relative all’“agevolazione Vi-

Una società ha dichiarato per il periodo d’imposta 2000 un reddito complessivo imponibile di 100. Ricorrendone i rispettivi presupposti, la società ha: - per una quota di reddito pari a 35, beneficiato di un’aliquota IRPEG ridotta del 19 % in applicazione della DIT; - per una ulteriore quota di reddito pari a 25, beneficiato di un’aliquota IRPEG ridotta del 19 % in applicazione della “Visco”; - pertanto, applicato le agevolazioni su un reddito complessivo di 60 (laddove, ovviamente, la somma dei redditi “agevolati” deve essere inferiore al reddito complessivo imponibile di 100). La società ha, pertanto, calcolato le seguenti imposte sul reddito complessivo (100): - reddito soggetto alla DIT: 35; imposta (19 %) = 6,65 - reddito soggetto alla “Visco”: 25; imposta (19 %) = 4,75 - reddito residuo: 40; imposta (37 %) = 14,8 IRPEG = 26,2. Secondo l’ufficio dell’agenzia delle entrate, l’imponibile e le imposte avrebbero dovuto invece essere così calcolate (“proporzionalizzazione” della DIT): - reddito complessivo: 100; - reddito soggetto alla “Visco”: 25; - reddito potenzialmente soggetto alla DIT: 35; - “proporzionalizzazione” del reddito soggetto alla DIT: reddito complessivo 100; reddito imponibile al netto di quello agevolato “Visco”: (100-25) = 75; rapporto tra reddito imponibile al netto di quello agevolato “Visco” e reddito complessivo (75/100) = 75 %; reddito che può beneficiare della DIT: 75 % di 35 = 26,25. Le imposte sarebbero, di conseguenza, così calcolate: - reddito soggetto alla DIT: 26,25; imposta (19 %) = 4,98 - reddito soggetto alla “Visco”: 25; imposta (19 %) = 4,75 - reddito residuo: 48,75; imposta (37 %) = 18,03 IRPEG = 27,76. La differenza tra la liquidazione dell’ufficio e quella della società è pari a: (27,76 – 26,2) = 1,56 (ovviamente a favore dell’erario).


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sco” regolano espressamente i rapporti tra le due normative, non prevedendo la predetta “proporzionalizzazione”; risultando quindi le istruzioni dell’agenzia delle entrate al Modello Unico 2001 illegittime ed erronee. 2. Interpretazione letterale delle disposizioni. – Il metodo di “proporzionalizzazione” della DIT applicato nel caso di specie era da considerarsi palesemente non conforme alle previsioni di cui agli artt. 1 e ss. D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 466 (“DIT”) e all’art. 2, commi 8 - 12, legge 13 maggio 1999, n. 133 (“agevolazione Visco”), già in base alla loro semplice lettura. Nelle disposizioni richiamate non era presente alcuna norma che limitasse la contestuale fruizione delle predette agevolazioni – ovviamente su diverse quote del reddito complessivo – nel senso preteso dall’ufficio (ove sussistessero i distinti presupposti di applicazione di ciascuna). La motivazione di tale pretesa limitazione era rinvenibile nelle istruzioni ministeriali al modello Unico 2001, ove era precisato (in termini generali con riferimento ai rapporti tra la DIT e tutte le agevolazioni che comportano una riduzione dell’aliquota IRPEG) che “per i soggetti il cui reddito imponibile è assoggettabile, in parte, ad aliquota agevolata, ad esempio al 18,50 per cento, e in parte ad aliquota ordinaria, l’aliquota (DIT, n.d.r.) del 19 per cento, per effetto dell’art. 1 del d.lgs. n. 466 del 1997, va applicata sulla parte di reddito assoggettabile al 19 per cento, proporzionalmente riferibile al reddito soggetto ad aliquota ordinaria”. Va tuttavia rilevato che nella disposizione richiamata – art. 1 del D.lgs. n. 466/1997 – non si rinveniva, contrariamente a quanto lascerebbero intendere le istruzioni, alcuna limitazione nel senso dell’applicazione della DIT al solo reddito (per il quale spetterebbe l’agevolazione) proporzionalmente riferibile al reddito soggetto ad aliquota ordinaria. La disposizione dell’art. 1, D.lgs. n. 466/1997, al contrario, prevedeva che “il reddito complessivo netto dichiarato” fosse assoggettabile a IRPEG con aliquota del 19 per cento “per la parte corrispondente alla remunerazione ordinaria della variazione in aumento del capitale investito rispetto a quello esistente alla chiusura dell’esercizio in corso al 30 settembre 1996” incrementato del 40 per cento, senza imporre alcuna “proporzionalizzazione” di tale reddito nel caso in cui il contribuente beneficiasse di altre disposizioni agevolative. Ciò premesso, il tentativo di “rinvenire” nelle disposizioni relative alla DIT ciò che assolutamente non era previsto (rectius: il tentativo di “far dire”


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alle norme ciò che non dicevano) era forse inquadrabile in un’esigenza di tutela delle ragioni erariali, la cui consistenza avrebbe dovuto per lo meno essere vagliata in base alla ratio delle agevolazioni. 3. Diversa ratio delle agevolazioni. – Le disposizioni sopra citate (D.lgs. n. 466/1997 e art. 2, l. n. 133/1999) hanno introdotto distinte agevolazioni in materia di imposte sui redditi, basate su presupposti del tutto differenti: - l’agevolazione DIT ha avuto la finalità di incentivare la capitalizzazione delle imprese (come risulta dallo stesso titolo del decreto) e, quindi, di “premiare” l’aumento del loro patrimonio netto; - l’“agevolazione Visco” ha avuto la finalità di incentivare gli investimenti produttivi delle imprese e, quindi, di “premiare” la destinazione delle loro risorse al miglioramento dei fattori della produzione. Lo stesso ministero delle finanze aveva in proposito precisato (circ. 20.3.2000, n. 51/E): “è perciò opportuno chiarire, in premessa, le differenze dell’agevolazione in esame (“Visco” – n.d.r.) rispetto alla disciplina contenuta nel D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 466, recante “Riordino delle imposte personali sul reddito al fine di favorire la capitalizzazione delle imprese”: diversa, infatti, è la funzione economico-sociale dei due interventi normativi, nonostante l’affinità del meccanismo di applicazione che consiste, in entrambi i casi, nella suddivisione del reddito imponibile in due parti, di cui l’una assoggettata ad aliquota del 19% e l’altra ad aliquota ordinaria. La “DIT - dual income tax”, infatti, garantendo la tassazione differenziata della parte di reddito d’impresa riconducibile alla remunerazione ordinaria del capitale, assume carattere permanente per disincentivare, a regime, l’indebitamento e la sottocapitalizzazione delle imprese. L’attuale provvedimento (“Visco”, n.d.r.), pur recando un ulteriore impulso in tal senso, si caratterizza per la specifica finalità di rilancio economico e rinnovamento degli apparati produttivi, perseguita attraverso la temporaneità dei benefici e la differente individuazione della quota di reddito agevolata che, come già anticipato, è commisurata al minore importo tra l’ammontare degli investimenti e quello degli incrementi di capitale proprio”. Ne conseguiva, essendo diversi i presupposti di applicazione, che nulla ostasse al contestuale godimento delle medesime. Tanto è vero che neppure l’ufficio ha sostenuto che il godimento dell’una escludesse quello dell’altra; ciò che ha sostenuto è che l’applicazione dell’”agevolazione Visco” (ovvero di altre agevolazioni dalle quali consegua un’applicazione dell’IRPEG con aliquota ridotta) comportasse una limitazio-


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ne del diritto di godimento dell’agevolazione DIT, “interferendo” sul suo funzionamento (in tale prospettiva, le istruzioni ministeriali hanno “inventato” il contestato meccanismo di “proporzionalizzazione”). Vale la pena in proposito rammentare che lo stesso ministero delle finanze (circ. 20.3.2000, n. 50/E, par. 8) – richiamando quanto affermato nella relazione all’art. 1 decreto-legge 12 marzo 1999, n. 63, poi “confluito” nel D.lgs. n. 133/1999 – avesse chiarito che il “provvedimento Visco si muove nella stessa direzione della dual income tax (DIT), determinandone senz’altro un rafforzamento, ma senza interferire sul suo funzionamento. Infatti, la parte di reddito assoggettato ad aliquota del 19 per cento va calcolata autonomamente e prioritariamente rispetto al regime della DIT, di cui l’impresa potrà continuare a fruire, ricorrendone i presupposti, sulla restante parte del reddito conseguito”. Lo stesso ministero delle finanze aveva in altri termini chiarito ciò che è ovvio: trattandosi di agevolazioni con presupposti distinti, le due agevolazioni “funzionavano” autonomamente laddove non erano previste limitazioni legislative al riguardo. In considerazione dell’assoluta diversità delle agevolazioni, anche la “base agevolata” era diversa: da un lato gli aumenti di patrimonio netto (valorizzati attraverso il coefficiente di remunerazione ordinaria), dall’altro gli investimenti produttivi (nei limiti degli utili o conferimenti del periodo d’imposta). Ciò posto, in prima approssimazione, si può sostenere che avrebbe dovuto riscontrarsi (in linea generale) l’assoluta “indipendenza” tra le agevolazioni (che, a ben vedere, avevano in comune la sola aliquota agevolata del 19%). Nel chiedere la cassazione della sentenza di secondo grado favorevole al contribuente, l’agenzia delle entrate ha ulteriormente argomentato circa la asserita ragionevolezza, anche “costituzionalmente orientata”, del preteso criterio di proporzionalizzazione, nel senso che, a suo dire, in presenza di un aumento di capitale della società (agevolato ai fini DIT) con contestuale investimento in beni strumentali nuovi (agevolato ai fini della “Visco”), sarebbe legittima la pretesa “proporzionalizzazione” su porzioni ideali di reddito non diverse, ma parzialmente identiche (e ciò considerato che l’agevolazione “Visco” sarebbe calcolata su un comportamento del contribuente – testuale, n.d.r. – e cioè l’acquisto di beni strumentali – potenzialmente derivante dall’aumento di capitale, agevolato ai fini DIT). La contribuente, nel rimarcare come le porzioni di reddito agevolate non fossero nella specie “parzialmente identiche o sovrapponibili” (poiché il reddito complessivo era assolutamente capiente, nel senso che – esemplifi-


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cato, per 100 – era idoneo a “comprendere” sia una quota di reddito agevolata ai fini Visco – es. 25 – che una quota di reddito agevolata ai fini DIT – es. 35), tanto che la Corte ha dichiarato inammissibile il motivo di cassazione dell’agenzia anche poiché non ha chiarito tale circostanza, ingenerando invece il dubbio che le due agevolazioni concorressero sulla medesima quota di reddito (esempio: come se il reddito complessivo nella specie fosse stato pari a 35), ha ulteriormente argomentato circa l’erroneità di tale ultima prospettazione. In particolare, la tesi secondo la quale ci sarebbe un’”area comune” nel presupposto di applicazione delle due agevolazioni (derivante dall’incremento di patrimonio netto aziendale), conseguendo da ciò necessariamente l’interferenza funzionale nel meccanismo di applicazione di esse, si scontra proprio con la diversità di ratio delle due agevolazioni sopra esposta, volte l’una a beneficiare il reddito nella misura corrispondente alla remunerazione ordinaria del capitale investito (DIT), l’altra nell’attribuire un beneficio nella misura in cui i conferimenti siano particolarmente destinati al rinnovamento e incremento dell’apparato produttivo delle imprese. Soprattutto, l’asserita necessaria interferenza funzionale tra le agevolazioni, peraltro non prevista dalla legge se non sotto un particolare aspetto che si illustrerà, non troverebbe giustificazione nell’intento agevolativo delle disposizioni. 4. I principi di applicazione delle disposizioni agevolative. – In pratica, l’agenzia delle entrate nel caso di specie ha introdotto una “interpretazione restrittiva” nel godimento dell’agevolazione DIT, ovvero più propriamente, una “norma di limitazione”, che però non trovava base e fondamento nelle disposizioni applicate. In proposito, se è vero che come più volte precisato anche dalla Corte Costituzionale le disposizioni esentative o agevolative sono insuscettibili di applicazione analogica (2), è anche vero che nemmeno è possibile per l’amministrazione finanziaria “integrare” le norme agevolative in ragione dell’intento di diminuirne l’effetto favorevole per il contribuente. In particolare, l’amministrazione finanziaria per effetto della nota riserva di legge in materia tributaria (art. 23 della Costituzione) non può emanare norme (anche in materia di agevolazioni tributarie), se non in virtù dell’esercizio

(2) Cfr. ex pluribus, Moschetti, Problemi di legittimità costituzionale e principi interpretativi in materia di agevolazioni tributarie, Rass. Trib. 1986, I, 355 e ss.


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di una delega proveniente da una fonte normativa avente forza di legge, delega che nel caso di specie è del tutto assente. Il paradosso dell’interpretazione proposta nelle istruzioni ministeriali ad Unico 2001 è che, con lo stesso criterio, si sarebbe potuta prevedere una limitazione nel diritto di beneficiare dell’”agevolazione Visco” (considerato che la limitazione in esame non era prevista né dalla normativa DIT, né dalla normativa “Visco”, perché non limitare invece il godimento dell’”agevolazione Visco”, lasciando inalterata la base DIT?). Invece, se è indiscutibilmente del tutto legittimo (e frequente) che le agevolazioni tributarie si applichino contestualmente ove sussistano i distinti presupposti di applicazione e ove (come nel caso di specie) ne beneficino distinte “quote” della base imponibile (poiché ove le agevolazioni avessero concorso su una medesima “quota” di reddito si sarebbe potuto forse trovare più fondata la tesi erariale), nel nostro ordinamento sono addirittura previste agevolazioni che si ricollegano “a cascata” sul medesimo presupposto: si pensi (ma solo per citare un esempio), all’epoca, alle agevolazioni in materia di crediti d’imposta per l’occupazione (art. 7, l. n. 388/2000), alle agevolazioni IRAP per l’occupazione (art. 11, D.lgs. n. 446/1997), al cumulo tra il credito d’imposta di cui all’art. 8, l. n. 388/2000 e l’agevolazione Tremonti-bis (art. 10, c. 3, d.l. n. 138/2002). Ne consegue, pertanto, che la limitazione nella fruizione delle agevolazioni deve necessariamente essere contenuta nella legislazione di riferimento, non potendo essere “introdotta” dall’amministrazione finanziaria: nel caso di specie, la normativa di riferimento non conteneva tale limitazione. 5. Le disposizioni relative all’”agevolazione Visco” regolano espressamente i rapporti tra le due normative, non prevedendo la “proporzionalizzazione”. – Se qualche dubbio poteva nutrirsi circa l’esistenza di una norma “occulta” che limitasse l’agevolazione DIT in presenza della “Visco” nel senso proposto dall’ufficio, si consideri che i rapporti tra le due normative agevolative erano espressamente regolati dalle norme di riferimento sotto un profilo particolare e non nel senso proposto dall’ufficio. Infatti, l’art. 2, comma 10, l. n. 133/1999 (“agevolazione Visco”) disponeva che, ai soli e diversi fini della determinazione dell’aliquota media del 27 per cento applicabile ai fini DIT (rammentiamo che l’agevolazione DIT non poteva condurre all’applicazione di un’imposta con aliquota media inferiore al 27 per cento, per effetto dell’originaria versione dell’art. 1, comma 3 del d.lgs. n. 466 del 1997, in vigore nel periodo d’imposta 2000), non si dovesse


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tenere conto del reddito assoggettato alla “disciplina Visco”, null’altro prevedendo in merito al rapporto intercorrente tra tale normativa e la DIT (con ciò confermando come la pretesa “proporzionalizzazione” della DIT non avesse alcun fondamento) (3). L’espressa previsione in esame consentiva di affermare – con certezza – che ubi lex voluit, dixit (e cioè quale sia il rapporto tra le due normative) e ubi lex noluit, tacuit (e cioè l’asserito “metodo di proporzionalizzazione”). In altri termini, proprio la circostanza prevista dalla normativa “Visco” (art. 2, c. 10, l. n. 133/1999) secondo la quale per la DIT, al fine di determinare l’aliquota media del 27 % (aliquota minima di tassazione IRPEG), si dovesse escludere il reddito assoggettato alla “Visco” chiarisce in modo definitivo come la DIT fosse fruibile secondo il meccanismo di applicazione “suo proprio” (una volta “scorporato” il predetto reddito che “beneficiava” della “Visco”). 6. La Corte di cassazione ha confermato la tesi della contribuente. – L’arresto giurisprudenziale n. 5117/2016 (sentenza depositata il 16 marzo 2016) conferma la tesi interpretativa della contribuente e “sconfessa” le istru-

(3) Tornando all’esempio sopra riportato, si può illustrare con maggior agio il contenuto dell’espressa disposizione che “raccordava” le discipline DIT e “Visco”. La società ha dichiarato per il periodo d’imposta 2000 un reddito complessivo imponibile di 100. Ricorrendone i rispettivi presupposti, la società ha, come sopra esposto: - per una quota di reddito pari a 35, beneficiato di un’aliquota IRPEG ridotta del 19 % in applicazione della DIT; - per una ulteriore quota di reddito pari a 25, beneficiato di un’aliquota IRPEG ridotta del 19 % in applicazione della “Visco”; - pertanto, applicato le agevolazioni su un reddito complessivo di 60. La società ha, pertanto, calcolato le seguenti imposte sul reddito complessivo (100): - reddito soggetto alla DIT: 35; imposta (19 %) = 6,65 - reddito soggetto alla “Visco”: 25; imposta (19 %) = 4,75 - reddito residuo: 40; imposta (37 %) = 14,8 IRPEG = 26,2. La verifica che l’imposta pagata dalla società beneficiando della DIT, non fosse inferiore a quella media del 27 % in presenza dell’agevolazione “Visco”, si doveva effettuare nel modo seguente: - reddito complessivo imponibile = 100 - reddito complessivo al netto di quello che beneficia dell’agevolazione “Visco” = 75 - aliquota media (27 % di 75) = 20,25 - imposte effettivamente pagate (senza considerare quelle dovute in virtù dell’agevolazione “Visco”): (26,2-4,75) = 21,45 (che è maggiore di 20,25, così potendosi godere per intero delle due agevolazioni).


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zioni dell’agenzia delle entrate al modello Unico-2001 di dichiarazione del reddito delle società di capitali per il periodo d’imposta 2000 (approvato con Provv. 26 marzo 2001). In particolare, sotto un primo profilo, rammenta come le norme di agevolazione fiscale, derogando al principio di assoggettamento tributario di ogni manifestazione di capacità contributiva, siano “di stretta interpretazione”, non estensibili ai casi non espressamente previsti. Nella specie – precisa la Suprema Corte – in ordine all’applicazione contemporanea delle due normative, il legislatore ha dettato al comma 10 dell’art. 2 della legge n. 133 del 1999 una norma di coordinamento con la disciplina degli artt. 1 e 6 del D.lgs. n. 466/1997 (quella sopra illustrata), che non contiene riferimenti al “meccanismo” di proporzionalizzazione propugnato dall’agenzia delle entrate. Per la contribuente banca si tratta di un caso “fortunato” in cui l’arbitro – benché dopo tre gradi di giudizio - ha visto che l’azione (le istruzioni al modello di dichiarazione) dell’agenzia delle entrate, era in fuorigioco. Ma per tante banche contribuenti nella stessa situazione, decorsi i termini per chiedere il rimborso, probabilmente sarebbe stata necessaria la moviola in campo.

Andrea Aliberti



Cassazione, civ. sez. tributaria, 22 luglio 2015 – 18 settembre 2015, n. 18383; Pres. Piccinini, Rel. Cirillo. Dichiarazioni Rettifica – Errore nella compilazione – Rettificabilità della dichiarazione– Termine per la presentazione dichiarazione rettificata – Modalità di correzione degli errori – Rapporto tra comma 8 ed 8-bis dell’art. 2 D.P.R. 322/1998 Nell’ipotesi di errore materiale di calcolo nella dichiarazione dei redditi che incida sull’ammontare della base imponibile o dell’imposta, agli effetti del rimborso “nulla osterebbe” a provvedere alla rettifica anche in sede contenziosa di impugnazione della relativa cartella, anche se sia già scaduto il termine previsto dall’art. 2 comma 8 bis d.P.R. n. 322 del 1998 per la presentazione della dichiarazione integrativa. Ciò in ossequio ai principi di “capacità contributiva” e di buona fede (art. 53 cost. e 10 statuto diritti del contribuente) e stante l’inapplicabilità in sede processuale delle decadenze previste dalle norme amministrative che disciplinano l’accertamento e la riscossione. (1)

(Omissis) Ritenuto in fatto. 1. Con diretta iscrizione a ruolo a seguito di controllo automatizzato (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis) della dichiarazione fiscale del 2003 per l’anno d’imposta 2002, il fisco ha inviato il 10 gennaio 2007 alla S.r.l.Vetro & Associati cartella per il pagamento di I.V.A. e imposte dirette non versate e delle relative sanzioni. 2. La contribuente ha proposto ricorso adducendo di essere incorsa in errore nella compilazione del quadro RS, avendo omesso l’esposizione dei costi inerenti a ricavi e quindi errato nell’evidenziare il risultato di esercizio che consisteva pacificamente in una perdita di Euro 19.035 (e non nei soli ricavi di Euro 57.674). Ha precisato, inoltre, di aver provveduto a rettificare la dichiarazione fiscale del 2003 per l’anno d’imposta 2002, con dichiarazione integrativa presentata (telematicamente) il 30 dicembre 2006. 3. I giudici di merito – e, da ultimo, anche il giudice di appello con sentenza del 21 marzo 2009 – hanno ritenuto preclusa ogni rettifica essendo irrimediabilmente spirato il termine di cui l’art. 2, comma 8-bis del regolamento per la presentazione delle dichiarazioni (D.P.R. n. 322 del 1998).


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4. Per la cassazione della sentenza d’appello, la S.r.l. Vetro & Associati propone ricorso denunciando violazione di norme di diritto sostanziali (in particolare D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, commi 8 e 8-bis). Assumendo che, non avendo la contribuente effettuato alcuna compensazione fiscale, il termine per emendare la dichiarazione errata non era quello annuale, coincidente con il termine per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo successivo, ma era quanto meno quello del 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, il tutto alla luce degli arresti della giurisprudenza di legittimità (Cass. 21944/07). Gli intimati, Agenzia delle entrate e Ministero dell’economia e delle finanze, resistono con controricorso. Considerato in diritto. 1. Preliminarmente, fermo il principio che la parte contribuente soggiace all’onere generale di allegare e dimostrare al giudice di merito la concreta fondatezza di ogni sua rettifica, si rileva che la società ricorrente ha veicolato il contenuto della rettifica dei costi (quadro RS), operata con dichiarazione integrativa del 2006, nella fase difensiva processuale per opporsi alla pretesa tributaria azionata dal fisco con diretta iscrizione a ruolo a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione fiscale del 2003 per l’anno d’imposta 2002. 2. Secondo un primo e diffuso orientamento, la cartella emessa a seguito di controllo automatizzato (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis) può essere impugnata, ai sensi dell’art. 19 proc. trib., non solo per vizi propri ma anche per motivi attinenti al merito della pretesa impositiva. Essa, infatti, non rappresenta la richiesta di pagamento di una somma definita con precedenti atti di accertamento, autonomamente impugnabili e non impugnati, ma riveste anche natura di atto impositivo, trattandosi del primo e unico atto con cui la pretesa fiscale è esercitata nei confronti del dichiarante (Cass. 5947/15 e 1263/14). 2.1. L’art. 2, comma 8, del regolamento per la presentazione delle dichiarazioni prevede che, salva l’applicazione delle sanzioni, le dichiarazioni dei redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti d’imposta possono essere integrate per correggere errori od omissioni mediante successiva dichiarazione da presentare, secondo le disposizioni di cui all’art. 3, non oltre i termini stabiliti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43. Il successivo comma 8-bis stabilisce che le dichiarazioni dei redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti di imposta possono essere integrate dai contribuenti per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d’imposta o di un minor credito, mediante dichiarazione da presentare, non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo. Aggiunge, inoltre, che l’eventuale credito risultante dalle predette dichiarazioni può essere utilizzato in compensazione ai sensi del D.lgs. n. 241 del 1997, art. 17. L’art., comma 6 dello stesso regolamento prevede, infine, che per la dichiarazione relativa all’imposta sul valore aggiunto si applica la ridetta disposizione di cui all’art. 2, commi 8 e 8-bis.


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2.2. È stato osservato in dottrina che la disposizione di cui al comma 8-bis Introduce un’attenuazione degli effetti della dichiarazione tributaria nella misura in cui il contribuente – che si attiva entro il termine per la presentazione della denuncia relativa al periodo d’imposta successivo – ottiene il risultato di non soggiacere all’onere di allegare e dimostrare – all’amministrazione e/o al giudice – la fondatezza delle sua rettifica, beneficiandone in modo immediato; mentre, scaduto detto termine, ai contribuente non rimane che avanzare istanza di rimborso delle imposte eventualmente pagate in più, da presentare nei termini e con le modalità stabilite dalla legge per l’indebito fiscale, ovvero, in caso diverso, far valere le proprie ragioni in connessione con l’impugnazione di un atto impositivo. 2.3. Questa Corte – più volte anche di recente – ha affermato il principio di diritto secondo cui, in adesione all’art. 53 Cost., la possibilità per il contribuente di emendare la dichiarazione allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella sua redazione e incidenti sull’obbligazione tributaria, è esercitabile anche in sede contenziosa per opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria (Cass. 5947/15, 434/15, 26187/14, 18765/14; conf. 3754/14, 2226/11, 22021/06). La dichiarazione fiscale – infatti – non ha natura di atto negoziale e dispositivo, ma reca una mera esternazione di scienza e di giudizio, modificabile in ragione dell’acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e di valutazione sui dati riferiti, costituendo essa un momento dell’iter volto all’accertamento dell’obbligazione tributaria (SU 15063/02). Né esigenze di mera stabilità amministrativa, in ossequio alle quali si è talvolta sostenuta la non modificabilità – o la limitata modificabilità – della dichiarazione, possono mai comprimere il diritto de contribuente a versare le imposte secondo il principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost.: tanto in sintonia con la disposizione statutaria dell’art. 10, secondo cui i rapporti tra contribuente e fisco sono improntati al principio di collaborazione e buona fede, essendo appunto conforme a buona fede non percepire somme non dovute ancorché dichiarate per errore dal presunto debitore (Cass. 434/15 e 5947/15; conf. 26181/14, 2366/13 e 22021/06). 2.4. Ne deriva che, seguendo l’ordine di idee qui esposto, nulla osterebbe a che la possibilità di emenda, mediante allegazione di errori nella dichiarazione e incidenti sull’obbligazione tributaria, sia esercitabile non solo nei limiti delle disposizioni sulla riscossione delle imposte (D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38) ovvero del regolamento per la presentazione delle dichiarazioni (D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2), ma anche nella fase difensiva processuale per op-porsi alla maggiore pretesa tributaria azionata dal fisco con diretta iscrizione a ruolo a seguito di mero controllo automatizzato (Cass. 5947/15; con 6665/15, 434/15, 26187/14, 18765/14). 2.5. Tali considerazioni si riallacciano a quanto sostenuto, in contesto fattuale non completamente sovrapponile, da Cass. 10775/15: “È emendabile, in via generale, qualsiasi errore, di fatto o di diritto, contenuto in una dichiarazione resa dal contribuente all’Amministrazione finanziaria, anche se non direttamente rilevabile dalla stessa dichiarazione. Ed invero la dichiarazione non


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si configura quale atto negoziale e dispositivo, bensì reca una mera esternazione di scienza o di giudizio, modificabile in ragione dell’acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e di valutazione sui dati riferiti, e costituisce un momento dell’iter procedimentale volto all’accertamento dell’obbligazione tributaria. Il termine annuale previsto per la presentazione della dichiarazione integrativa è finalizzato all’utilizzo in compensazione del credito eventualmente risultante e non interferisce sul termine di decadenza di quarantotto mesi previsto per l’istanza di rimborso. Tale termine annuale non esplica alcun effetto sul procedimento contenzioso instaurato dal contribuente per contestare la pretesa tributaria, quand’anche fondata su elementi o dichiarazioni forniti dal contribuente medesimo. Il diverso piano sul quale operano le norme in materia di accertamento e riscossione, rispetto a quelle che governano il processo tributario, nonché il rispetto del principio della capacità contributiva, comportano l’inapplicabilità, in tale sede, di decadenze relative alla sola fase amministrativa. In sede contenziosa, quindi, laddove ci si opponga ad un atto impositivo emesso sulla base di dati forniti dal contribuente, non si verte in tema di dichiarazione integrativa, bensì in ordine alla fondatezza della pretesa tributaria, alla luce degli elementi addotti dalle parti, nel rispetto dei relativi oneri probatori. In tal senso va quindi riconosciuta la possibilità per il contribuente, in sede contenziosa, di opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’Amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della sua dichiarazione ed incidenti sull’obbligazione tributaria, indipendentemente dal termine annuale previsto per la dichiarazione integrativa” (mass. non ufficiale; conf. in termini Cass. 19537/14). 3. Diversamente si esprime altro orientamento inaugurato da Cass. 4238/04: “In tema di imposte sui redditi, premesso che la dichiarazione dei redditi, presentata ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, affetta da errore (di fatto o di diritto) commesso dal contribuente, è – in linea di principio – emendabile e ritrattabile quando da essa possa derivare l’assoggettamento ad oneri contributivi più gravosi di quelli che, in base alla legge, devono restare a carico del dichiarante, la richiesta di rimborso presentata ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38, comma 1, è idonea, per i periodi anteriori all’1 gennaio 2002, a rettificare in senso favorevole al contribuente la dichiarazione stessa, non essendo previsti, prima di detta data, termini di decadenza, per tale rettifica favorevole, diversi da quelli prescritti per il rimborso dalla citata norma. Da un lato, infatti, del menzionato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 9, comma 8 (comma aggiunto dalla L. 29 dicembre 1990, n. 408, art. 14, applicabile ratione temporis) – che prevede un termine per integrare la dichiarazione – si riferisce soltanto alle omissioni ed agli errori in danno dell’amministrazione e non anche a quelli in danno del contribuente; dall’altro, solo con il D.P.R. 7 dicembre 2001, n. 435, art. 2 – che ha modificato, con effetto dall’1 gennaio 2002, del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, introducendo il comma 8 bis, è stata prevista una dichiarazione integrativa per correggere errori od omissioni in danno del contribuente, da presentarsi non oltre il termine per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo”.


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3.1. Sulla stessa linea interpretativa si pone Cass. 5852/12 laddove ribadisce che “la possibilità per il contribuente di emendare la dichiarazione, allegando errori di fatto o di diritto, incidenti sull’obbligazione tributaria, ma di carattere meramente formale, è esercitabile anche in sede contenziosa per opporsi alla maggiore pretesa dell’Amministrazione finanziaria, ed anche oltre il termine previsto per l’integrazione della dichiarazione, (fissato in quello prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo dal D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8-bis, come introdotto dal D.P.R. n. 435 del 2001, art. 2), poichè questa scadenza opera, atteso il tenore letterale della disposizione, solo per il caso in cui si voglia mutare la base imponibile, ma non anche quando venga in rilievo un errore meramente formale” (mass. non uff.). 3.2 Il nucleo centrale di tale secondo orientamento, più favorevole al fisco, è individuato da Cass. 5373/12, laddove ritiene “non sostenibile” una lettura del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8- bis, secondo cui “il termine da tale norma previsto rileverebbe soltanto al fine della possibilità di opporre in compensazione il credito risultante dalla rettifica, mentre resterebbe salva la possibilità di operare la rettifica stessa agli effetti del diritto al rimborso”, in quanto “in base ad essa la facoltà di rettificare la dichiarazione in senso favorevole al dichiarante sarebbe esercitabile senza limiti di tempo, il che è certamente contrario all’intenzione del legislatore” (Uff. Mass., Rei. n. 172 del 2 dicembre 2014). 3.3. Il rilievo del tenore della disposizione torna in altre decisioni laddove si afferma che “il D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8-bis (introdotto dal D.P.R. 7 dicembre 2001, n. 435, art. 2, con effetto dal 1 gennaio 2002, in base all’art. 19 dello stesso decreto), ha introdotto precise modalità per l’integrazione delle dichiarazioni ed il limite temporale del termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, al fine di emendare errori od omissioni che abbiano comportato l’indicazione di un maggior reddito od un maggior debito d’imposta od un minor credito, ossia per il caso in cui, tramite la rettifica, si voglia mutare la base imponibile, o l’ammontare dell’imposta” (Cass. 5372/14). E si precisa che “l’atto di rettifica da parte del contribuente inteso a correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito o minor credito d’imposta, è ammissibile, ai sensi del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, comma 8-bis, solo entro il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo” (Cass. 14294/14). 3.4. Tali conclusioni paiono implicitamente condivise anche da altre decisioni (Cass. 24929/13, 454/14, 19661/13, 24929/13, 20415/14), pur frammentariamente emerse nel panorama giurisprudenziale di legittimità. 4. Tirando le fila sparse del discorso sin qui condotto, il Collegio – considerata la duplice chiave di lettura che può avere la questione dei tempi e modi per emendare le dichiarazioni fiscali e tenuto conto della particolare rilevanza dei principi, anche costituzionali e statutari, sottesi alla soluzione, con possibili ricadute sull’azione dell’am-


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ministrazione finanziaria – ritiene opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente per le sue determinazioni in ordine alla eventuale assegnazione del ricorso alle sezioni unite. P.Q.M. La Corte applicato l’art. 374 c.p.c., rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle sezioni unite. (Omissis)

(1) Si possono rettificare gli errori commessi nella dichiarazione scaduta? Questioni aperte alla luce dell’ordinanza interlocutoria n. 18383/2015 della Cassazione*.

Sommario: 1. Premessa: l’oggetto dell’indagine. – 2. Il caso concreto.- 3. L’interpretazione sistematica della emendabilità delle dichiarazioni fiscali. – 3.1. L’inquadramento costituzionale della questione. – 4. I profili applicativi dalla emendabilità della dichiarazione tributaria. La disciplina normativa prima dell’entrata in vigore D.P.R. n. 435/2001. – 4.1. I mutamenti normativi introdotti dal D.P.R. n. 435/2001. – 4.2. Le differenze tra dichiarazione rettificativa ed istanza di rimborso.- 5. Le pronunce dei giudici tributari. – 5.1. La tesi restrittiva. – 5.2. La tesi favorevole al contribuente. – 6. Le statuizioni della Corte di Cassazione. – 6.1. L’orientamento antecedente alla pronuncia delle SS.UU. n.15063 del 25 ottobre 2002. – 6.2. L’orientamento successivo alla sentenza delle SS.UU. n.15063 del 25 ottobre 2002 e la nuova ordinanza interlocutoria della Corte di Cassazione. – 6.3. La concezione favorevole alla piena emendabilità. – 6.4. La concezione “pro fisco”. – 7. Osservazioni conclusive. Il perdurante contrasto in ordine ai tempi ed ai modi della rettificabilità della dichiarazione tributaria ha portato la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione ha rimettere gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. Prendendo spunto da tale contrasto giurisprudenziale tratteremo, quindi, il tema della rettificabilità della dichiarazione tributaria, inquadrando la questione da un punto di vista sistematico, dando atto dell’evoluzione interpretativa, ed evidenziando la pregnanza dei principi sottesi alle diverse soluzioni. The everlasting disagreement about the times and the ways of the tax declaration rectifiability has led the Tax Section of the Supreme Court to refer the case to the First President for the possible assignment to the United Sections. Taking a cue from this jurisprudential contrast we will cover the topic of the tax declaration rectifiability, using a methodical point of view to frame the issue, acknowledging the changes in its interpretation, and highlighting the significance of the principles underlying the different solutions.

(*) Lavoro sottoposto a revisione esterna.


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1. Premessa: l’oggetto dell’indagine. – Con l’Ordinanza interlocutoria n.18383 del 18 settembre 2015, la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per la eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, riguardo al contrasto giurisprudenziale relativo ai tempi ed ai modi attraverso cui si possono emendare le dichiarazioni fiscali, tenuto conto della particolare rilevanza dei principi, anche costituzionali e statutari sottesi alla soluzione, con possibili ricadute sull’azione dell’Amministrazione finanziaria. Tale Ordinanza si inserisce nel filone giurisprudenziale che ha avuto nelle sentenza del 25 ottobre 2002, n.15063 delle Sezioni Unite, la sua consacrazione definitiva, che ammette la ritrattabilità della dichiarazione, in forza di argomentazioni il cui fondamento si trova nell’interpretazione dello Statuto dei diritti del contribuente, alla luce del principio di capacità contributiva e di quello di buona fede che deve intercorrere nei rapporti tra contribuente ed Amministrazione finanziaria (1).

(1) Il problema della ritrattabilità della dichiarazione interessa da molto tempo la dottrina e la giurisprudenza; una riprova di ciò la si trova nelle continue pronunce degli organi giurisdizionali e nei numerosi contributi dottrinali. Tra cui rileva F. Tesauro, Istituzioni di diritto Tributario – Parte Generale, 1998, Torino, 161, che irretrattabilità della dichiarazione dei redditi vuol dire soltanto che una volta presentata, questa è acquisita in modo definitivo dal Fisco. Difatti, prosegue l’Autore, se il contribuente a causa di un errore ha quantificato e versato una somma maggiore di quella dovuta, il rimedio è dato, non dalla presentazione di una nuova dichiarazione, bensì dall’istanza di rimborso. Sempre F. Tesauro, Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975, 122, chiarisce che il diritto al rimborso di un’imposta maggiore di quella dovuta (derivante da un errore nella dichiarazione) non presuppone un contrarius actus, che rimuova la dichiarazione. E. De Mita, Principi di diritto tributario, Milano, 2000, 298, afferma che ritrattazione della dichiarazione “non vuol dire potere di sottrarre all’amministrazione il documento già presentato, potere cioè di presentare una seconda dichiarazione, vanificando così il regime dei termini. Ritrattazione vuol dire prospettare all’amministrazione elementi di giudizio pari a quelli che l’amministrazione potrebbe raccogliere direttamente con la conseguenza che l’amministrazione non è obbligata a fare alcunché, ma nel caso in cui essa rifiuti il rimborso di quanto pagato, il contribuente avrà il potere di sottoporre al giudice l’accertamento del rapporto tributario, nelle occasioni che la legge gli consente. E tali occasioni, sono la notificazioni dell’avviso di accertamento, l’iscrizione a ruolo. l’avviso di mora, il rifiuto di rimborsare”. Ed ancora E. De Mita Discutendo sulla dichiarazione dei redditi, in Boll. trib., 1985, 106 afferma che “la c.d. revocabilità è solo da intendersi come possibilità di prospettare all’amministrazione altri elementi perché l’amministrazione stessa provveda”. Sull’argomento, inoltre, è bene ricordare E. Vanoni, La dichiarazione tributaria e la sua irretrattabilità, ora in Opere giuridiche, I, Milano, 1961, 366 ss. per il quale “le rettifiche e le modificazioni delle dichiarazioni si debbono...considerare come elementi di convincimento dell’amministrazione, aventi in astratto la stessa funzione degli elementi ricavati dalle diverse fonti di informazione su cui gli uffici finanziari possono contare”. Emerge nitidamente il collegamento tra quanto sostenuto nel primo scritto qui citato di E. De Mita e le considerazioni di E. Vanoni.


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La pronuncia dà atto della duplicità di correnti giurisprudenziali in ordine ai tempi ed ai modi della rettifica delle dichiarazioni fiscali, e cioè da un lato (2), il filone che amplia addirittura il principio sancito dalle Sezioni Unite della piena modificabilità della dichiarazione (3), ritenendo che questa possa avvenire anche in sede contenziosa, per contrastare una maggiore pretesa avanzata dall’Amministrazione finanziaria e, dall’altro, l’orientamento più restrittivo che ritiene “non sostenibile” una lettura dell’art. 2, comma 8-bis, D.P.R. n. 322 del 1998, secondo cui “il termine da tale norma previsto rileverebbe soltanto al fine della possibilità di opporre in compensazione il credito risultante dalla rettifica, mentre resterebbe salva la possibilità di operare la rettifica stessa agli effetti del diritto al rimborso”. L’ordinanza è sicuramente pregevole. Con chiarezza e linearità, muovendo dai principi fondamentali del Diritto Tributario, fa giustizia, come altre pronunce avevano già fatto in precedenza (4), di quell’orientamento che non riconosceva la possibilità di rimettere in discussione i fatti comunicati al Fisco attraverso la dichiarazione, ma pone un problema reale in ordine a come e quando, concretamente, il contribuente possa integrare la sua dichiarazione errata. Prendendo spunto dall’ordinanza del Supremo Collegio, si farà il punto sulla evoluzione normativa e sugli orientamenti di giurisprudenza e dottrina in merito alla rettificabilità della dichiarazione del contribuente. Nel compiere tali passaggi risulterà evidente che, limitare la possibilità di emenda, significa porsi contro la razionalità complessiva del sistema. Il contribuente verrebbe, infatti, colpito proprio nello spirito collaborativo e risulterebbe, quindi, più conveniente non dichiarare, piuttosto che rischiare di compilare una dichiarazione difficilmente modificabile.

A ciò si aggiungano gli scritti di fondamentale importanza in materia di dichiarazione di C. Magnani, La dichiarazione annuale dei redditi, Padova, 1972; M. Nussi, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di rimborsi da errata dichiarazione dei redditi, in Rass. Trib., I, 1998, 204 ss. e dello stesso Autore, La dichiarazione tributaria, Torino, 2008. (2) Su tutte Cass. sez. trib. n.2226 del 31 gennaio 2011 in cui la Corte ha stabilito che “La dichiarazione dei redditi del contribuente può essere ritrattata per gli errori commessi, sia di fatto che di diritto, comunque incidenti sulla obbligazione tributaria, anche in sede contenziosa, al fine di consentire al contribuente di opporsi alla maggiore pretesa tributaria avanzata dall’Amministrazione Finanziaria”. (3) Ancora più permissiva è la pronuncia Cass., sez. V, n.22692 del 4 ottobre 2013, in cui la Corte estende la possibilità per il contribuente di correggere in sede contenziosa anche per quegli atti diversi dalle dichiarazioni fiscali. (4) Cass. n. 5947/15; Cass. n. 434/15; Cass. n. 10775/15; Cass. n. 26187/14; Cass. n. 18765/14; Cass n. 3754/14; Cass. n. 26187/14.


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In tale ottica si correrebbe il rischio di irrigidire, nuovamente, il rapporto tra le parti dell’obbligazione tributaria (5) andando contro lo spirito delle riforme degli ultimi anni.

(5) La tesi del rapporto giuridico d’imposta a contenuto complesso è stata originariamente elaborata da A.D. Giannini, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, passim; Id., I concetti fondamentali del diritto tributario, Torino, 1956, 124 ss., e poi ripresa da A. Berliri, Appunti sul rapporto giuridico d’imposta e sull’obbligazione tributaria, in Studi in onore di U. Borsi, Padova, 1955, 455 ss.; Id., Principi di diritto tributario, Milano, 1957, II, 3 ss. In proposito, vd. anche N. D’Amati, Intorno alla struttura del rapporto giuridico d’imposta, in Jus, 1956, 197 ss.. Per una critica a siffatta impostazione, cfr. A.F. Basciu, Contributo allo studio dell’obbligazione tributaria, Napoli, 1964, 32 ss.; E. Potito, L’ordinamento tributario italiano, Milano, 1978, 121 e, sia pure su diverse posizioni, G.A. Micheli – G. Tremonti, Obbligazioni (Diritto tributario), in Enc. dir., Milano, 1979, vol. XXIX, 427. Per un’ampia ricognizione dei doveri gravanti su terzi, vd. da ultimo D. Coppa, Gli obblighi fiscali dei terzi, Padova, 1990. In merito alla riconducibilità dell’obbligazione tributaria a quelle di diritto privato e per una tendenziale applicazione diretta della disciplina civilistica alla stessa cfr.: M.S.Giannini, Le obbligazioni pubbliche, Roma, 1964, 66 ss.; A.D.Giannini , Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1965, 98 ss; cfr. altresì P. Russo, Diritto e processo nella teoria dell’obbligazione tributaria, Milano, 1969, 95, nt. 119; Id., L’obbligazione tributaria, in Trattato di diritto tributario, diretto da F. Amatucci, Padova, 1994, II, 22 ss.; A. Fantozzi, Premesse per una teoria della successione nel procedimento tributario, in Studi sul procedimento amministrativo tributario, Milano, 1971, 98 ss. (il quale però nutre alcune perplessità in ordine ad una completa corrispondenza fra l’obbligazione tributaria e quella civile); L. Rastello, Diritto tributario. Principi generali, Padova, 1987, 628. Contra, G.A. Micheli – G. Tremonti, Obbligazioni, cit., 442 ss. hanno ravvisato nella dazione di una somma di denaro la prestazione oggetto dell’obbligazione d’imposta: A.D. Giannini, Istituzioni, cit., 56 e 75; F. Maffezzoni, Profili di una teoria giuridica generale dell’imposta, Milano, 1969, 37 ss.; E. Potito, L’ordinamento, cit., 17; A. Berlini, Corso istituzionale di diritto tributario, Milano, 1985, 49 ss.; G.A Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1989, 11 ss.; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2005, I, 4. Il A. Berliri (Corso, cit., 173 ss.; Principi, cit., vol. II, 34 ss.), in particolare, ha ritenuto che l’obbligazione suddetta può avere ad oggetto un ƒacere allorché il contribuente sia tenuto all’annullamento di un valore bollato. Per la tesi della possibile pluralità di obbligazioni a fronte di uno stesso presupposto, cfr. A. Fedele, A proposito di una recente raccolta di saggi sul “procedimento amministrativo tributario”, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1971, I, 437, nt. 18. Vd., inoltre, A. Fantozzi, La solidarietà nel diritto tributario, Torino, 1968, 158 ss.; Id., I rapporti tra fisco e contribuente nella nuova prospettiva dell’accertamento tributario, in Riv. dir. fin., sc. fin., 1984, I, 236; F. Gallo, L’imposta sulle assicurazioni, Torino, 1970, 208 ss.; Idem, Problemi vecchi e nuovi di diritto tributario, in Dir. prat. trib., 1979, I, 535 ss.; G. Falsitta, Il ruolo di riscossione, Padova, 1972, 70 ss.; M. Basilavecchia, L’accertamento parziale. Contributo allo studio della pluralità di atti di accertamento nelle imposte sui redditi, Milano, 1988, 82; in posizione critica, e in senso conforme al testo cfr E. De Mita, Le iscrizioni a ruolo, 1971, 87 ss.. Sulla natura dell’imposta principale, complementare e suppletiva nell`ambito del tributo di registro e sulle successioni e donazioni ed imposte collegate vd. in specie: A. Fedele, Le imposte ipotecarie. Lineamenti, Milano, 1968, 170-171; F. Tesauro, Istituzioni, cit., I, 91; Pro, Art. 12 del D.L. n 70/1988: imposta di registro ed imposta di successione.


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2. Il caso concreto. – Il caso trae origine da una cartella di pagamento notificata ad una società di consulenza del lavoro a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione fiscale del 2003, per l’anno d’imposta 2002, avente ad oggetto il pagamento di Iva, imposte dirette non versate e relative sanzioni. Il contribuente proponeva ricorso adducendo di essere incorso in errore nella compilazione del quadro RS, avendo omesso l’esposizione dei costi inerenti a ricavi e, quindi, errato nell’evidenziare il risultato di esercizio che consisteva pacificamente in una perdita di €.19.035 (e non nei soli ricavi di €.57.674). Precisava, inoltre, di aver provveduto a rettificare la dichiarazione fiscale del 2003 per l’anno d’imposta 2002, con dichiarazione integrativa presentata (telematicamente) il 30 dicembre 2006. I giudici di merito – e da ultimo anche il giudice di appello – ritenevano preclusa ogni rettifica essendo irrimediabilmente spirato il termine di cui all’art. 2, comma 8-bis del regolamento per la presentazione delle dichiarazioni (D.P.R. n. 322 del 1998). Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione la società, sostenendo in particolare che, non avendo effettuato alcuna compensazione fiscale, il termine per emendare la dichiarazione errata non era quello annuale, coincidente con il termine per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo successivo, ma coincideva con 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, il tutto alla luce degli arresti della giurisprudenza di legittimità. 3. L’interpretazione sistematica della emendabilità delle dichiarazioni fiscali. – Il problema della rettificabilità delle dichiarazioni del contribuente non può e non deve essere impostato astrattamente (6), ma correlandosi al rap-

Termini imposti all’azione della finanza: considerazioni, in Il fisco, 2003, 712 ss. Da ultimo, ma solo dal punto di vista cronologico, merita attenzione sul punto quanto scritto da R. Miceli, Indebito Tributario e sistema tributario interno, 2009, Milano, 146, la quale pone in essere una interessante connessione tra il principio dell’indebito con la teoria della obbligazione tributaria, facendo riferimento anche al profilo europeo. (6) Esigenza che è stata avvertita anche da: F. Moschetti, Emendabilità della dichiarazione tributaria, tra esigenze di stabilità del rapporto e primato dell’obbligazione dovuta per legge, in Rass. Trib., 4/2001, 1149 ss., nel quale l’Autore ripercorre i passi principali della sua opera fondamentale “Il principio della capacità contributiva”, Padova, 1973; S. Donatelli, La rettifica della dichiarazione dei redditi: tra capacità contributiva, principio di legalità e buona fede nei rapporti tra il contribuente ed amministrazione finanziaria, in Riv.


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porto tra dichiarazione e fatto imponibile ai fini dell’obbligazione tributaria. Se, cioè, la dichiarazione ai fini delle imposte dirette e dell’Iva sia creativa dell’obbligazione tributaria a prescindere dal fatto sottostante, o se il fatto debba prevalere sulla dichiarazione che non l’abbia correttamente rappresentato. La risposta si fonda sia sull’insegnamento consolidato della Suprema Corte sia sulla disciplina procedimentale. Rispetto ad entrambe le impostazioni è evidente il primato dell’obbligazione dovuta per legge (7) ed il carattere strumentale del procedimento applicativo, della dichiarazione del contribuente e dell’accertamento d’ufficio. La dichiarazione deve, infatti, essere vera e completa in relazione a quanto pretende la legge e può giudicarsi del tutto consolidato in dottrina ed in giurisprudenza il convincimento secondo cui la dichiarazione tributaria rappresenti essenzialmente un atto avente la natura di manifestazione di scienza e non anche manifestazione di volontà. In ordine alla natura giuridica dell’atto-dichiarazione, infatti, nonostante non sia ancora pacifica l’individuazione della fonte dell’obbligazione di imposta (8), sono considerate del tutto

Dir. Trib. 2002, II, 383 ss. (7) Tale principio corrisponde a quello tedesco di “legalità della tassazione” che nell’ordinamento teutonico trova una duplice applicazione: a) a livello delle fonti, nel principio di riserva di legge; b) a livello di applicazione procedimentale, nel principio di conformità alla fattispecie cui la legge collega l’imposta (Tatbestandsmassingkeit der Besteuerung). Cfr., sul punto, per tutti, K. Tipke, Die Steuerrechtsordung, vol. I, Colonia, 1993, 151 ss. (8) Rivolgendo l’attenzione alla tesi, dichiarativa, conviene segnalare che fra i sostenitori della medesima si annoverano: A.D. Giannini, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, 232 ss.; Id., I concetti fondamenti del diritto tributario, Torino, 1956, 270 ss.; Id., Istituzioni di diritto Tributario, Milano, 1965, 179 ss.; M. Pugliese, Istituzioni di diritto finanziario, Padova, 1937, 121 ss.; G. Tesoro, Principi di diritto tributario, Bari, 1938, 176 ss.; E. Vanoni, Nascita dell’obbligazione di pagare il tributo e descrizione di alcune fattispecie tributarie, in Opere giuridiche, Milano, 1962, vol. II, 293 ss. Una posizione particolare è assunta da B. Cocivera, Accertamento tributario, in Enc. dir., Milano, 1958, vol. I, 246 ss., secondo il quale sarebbe opportuno far ricorso al concetto di fattispecie complessa a formazione successiva, per il cui tramite si comprenderebbe perché l’obbligazione tributaria, pur sorgendo fin dal momento del verificarsi del presupposto di fatto, non possa essere adempiuta prima dell’accertamento. Afferma altresì la natura legale dell’obbligazione tributaria E. Capaccioli, Contenzioso in materia di imposta sull’entrata in Riv. dir. fin. sc. fin, 1952, II, 54 ss.; Id., L’estimazione semplice, in Riv dir. fin sc. fin., 1956, I, 375 ss., che si pone però in posizione critica rispetto alle correnti formulazioni della tesi dichiarativa dovute agli Autori poco sopra indicati. Più recentemente, hanno aderito all’impostazione in oggetto: A.F. Basciu, Contributo allo studio dell’obbligazione tributaria, Napoli, 1964, 42 ss.; F. Batistoni Ferrara, La determinazione della base imponibile nelle imposte indirette, Napoli, 1964, passim; G. Longobardi, La nascita


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recessive (9) le tesi che attribuivano risalto al momento volontaristico e dunque propendevano per le ricostruzioni di carattere negoziale (10). Determinante a tal proposito è l’argomento secondo cui il contenuto principale della dichiarazione tributaria consiste nella esposizione e nella qualificazione giuridica di fatti ai quali si ricollegano gli effetti previsti dalla legge; la regolazione dell’assetto degli interessi non è dunque riconducibile alla volontà del dichiarante, ma va posta in connessione con la legge. Il soggetto tenuto a presentare la dichiarazione si limita pertanto a “volere” la redazione dell’atto, ma, generalmente, non è in grado di influire con la propria volontà sulla realizzazione di effetti giuridici che sono invece pre-determinati dalla legge. La volontà pertanto non entra nella struttura dell’atto, ma ne costituisce soltanto un requisito. Consegue a tale ricostruzione da un lato la qualificazione della dichiarazione come mero atto, e non atto negoziale, e dall’altro quale dichiarazione di scienza (11).

del debito d’imposta, Padova, 1965, passim; P. Russo, Diritto e processo nella categoria dell’obbligazione tributaria, Milano, 1969, passim; E. Potito, L’ordinamento tributario italiano, Milano 1978, 62 ss.; I. Manzoni, La dichiarazione dei redditi. Natura e funzione. Possibilità di integrazioni e rettifiche, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1979, I, 615; E. Nuzzo, Natura ed efficacia della dichiarazione tributaria, in Dir. prat. trib., 1986, I, 35; F. Batistoni Ferrara – M.A. Grippa Salvetti, Lezioni di diritto Tributario. Parte generale, Torino, 1993, 85 ss. Per i rilievi critici mossi alla concezione dichiarativistica dai costitutivisti si veda, in specie, E. Allorio, Diritto processuale, cit., 74 (in merito all’impossibilità di adempiere l’obbligazione d’imposta in assenza della realizzazione di appositi schemi procedurali contraddistinti dalla presenza di atti emanati dall’amministrazione finanziaria). Cfr., inoltre, sempre E. Allorio, Diritto, cit., 565 ss.; Id., Processo tributario di mero accertamento?, in Problemi del diritto, cit., vol. III, 329 ss.; F. Mangione, L’atto di accertamento tributario nel diritto penale, Padova, 1965, 104 ss.; G. Falsitta, Il ruolo, cit., 82 ss.; da ultimo F. Tesauro, Istituzioni, cit., vol. I, 225 ss.; si veda altresì F. Maffezzoni, Il procedimento di imposizione, cit., 41 ss. con riguardo al profilo dell’esperibilità della tutela giurisdizionale del contribuente solo in presenza degli atti impositivi provenienti dalla amministrazione. (9) A tale conclusione giungono, quindi, sia gli autori che muovono dall’ottica della teoria costitutiva che dichiarativa. In tal senso anche B. Belle, Dichiarazione dei redditi rettifica o ritrattabilità e rimborso dell’imposta, in Riv. Dir. Fin., 1993, II, p.72, che fa notare come la distanza tra dichiarati visti e costitutivisti sfumi completamente quando si discute della rettificabilità della dichiarazione. (10) Si veda G. Falsitta, Il ruolo della riscossione, Padova, 1972, 29 ss., che riconduce la dichiarazione agli atti normativi; cfr. N. D’Amati, La dichiarazione tributaria e la crisi del negozio giuridico, in Dir. e prat. trib., 1977, I, 481; F. Batistoni Ferrara, La dichiarazione nel sistema dell’accertamento tributario, Pisa, 1979. (11) F. Moschetti, Emendabilità della dichiarazione, cit., 1161 sostiene che la dichiarazione “ non è atto creativo dell’obbligazione tributaria dovuta, così come l’accertamento


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Se così non fosse risulterebbero vulnerati simultaneamente – sia il principio di riserva di legge (art. 23 Cost.) (12), che il principio di capacita contributiva (art. 53 Cost.) protetti costituzionalmente, ed inoltre, se l’ordinamento consentisse di cristallizzare gli effetti della dichiarazione erronea in diritto o in fatto, ciò rivoluzionerebbe il rapporto dichiarazione – legge, dichiarazione – fatto imponibile previsto dalla legge, attribuendo alla dichiarazione il primato sulla legge (13). Mentre questa deve assolvere, invece, più che il compito di liquidare l’obbligazione tributaria (14), l’onere di portare a conoscenza dell’amministrazione finanziaria il reddito prodotto da contribuente nel periodo di imposta. Ciò senza dimenticare che la possibilità di rettificare la propria dichiarazione comporta evidentemente la correzione del presupposto, poiché il dichiarante ne fornisce una nuova determinazione quantitativa (15), ed al tempo stesso risponde alle esigenze di civiltà e di correttezza dei rapporti giuridici tra Amministrazione fiscale e contribuente. D’altro canto, la rettificabilità pone problemi in ordine alla stabilità e alla certezza giuridica dei rapporti tributari, ed in specie, impone di evitare un eccessivo prolungamento del termine della dichiarazione così da alterare gravemente la scansione temporale della procedura di liquidazione ed accertamento del tributo. Ciò attiene, quindi, ai “limiti esterni” (16) che possono frapporsi alla rettifica degli errori dei quali sia affetta la dichiarazione medesima e cioè quei limiti che scaturiscono dalla previsione di specifiche norme sostanziali o procedurali.

non è fonte di una nuova obbligazione, ma deve solo accertare l’unica obbligazione dovuta per legge” . (12) Così anche I. Manzoni, La Dichiarazione dei redditi – Natura e Funzione – Possibilità di integrazioni, in Riv. Dir. Fin., 1979, 618; F. Tesauro, Il rimborso dell’imposta, Torino, 1975, 33 ss. (13) Interpretazione che, come sostenuto anche da F. Moschetti, Emendabilità della dichiarazione, cit. p.1166, oltre che incoerente finirebbe per confliggere con lo stesso principio democratico perché non collega più l’obbligazione tributaria alla volontà del Parlamento. (14) Interessante in tal senso la tesi di S. Donatelli, La rettifica della dichiarazione. cit., 394 il quale sostiene che in punto di principio non è del tutto scorretto sostenere che con la dichiarazione il soggetto passivo di imposta determini il quantum da versare e che quindi la dichiarazione assolva ad una funzione di liquidazione dell’obbligazione tributaria. Tuttavia da questa circostanza, far conseguire automaticamente che la funzione di liquidazione impedisca al contribuente di riprendere parte della somma liquidata appare eccessivo. (15) Si opera, sostanzialmente, sul piano dell’accertamento con effetti in punto di riscossione e rimborso. Per un’analisi più completa sul punto si rimanda al paragrafo 4.2. (16) Così P. Russo, Manuale di Diritto Tributario, 2007, Milano, 268.


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Proprio in relazione a tale problematica è stata introdotta una articolata disciplina dei limiti temporali all’esercizio della facoltà di rettificare la dichiarazione da parte del contribuente, finalizzata a contestualizzare questa facoltà nell’ambito della complessa fase di attuazione dei tributi (art.2 co. 8 e 8-bis, del D.P.R. n. 322/1998). In ragione di quanto detto, la dichiarazione emerge, quindi, “come atto servente di collaborazione per facilitare la conoscenza dei fatti e l’applicazione corretta della norma” (17). 3.1. L’inquadramento costituzionale della questione. – Che sia il fatto previsto dalla legge a dover prevalere su quello indicato nella dichiarazione erronea risulta, come illustrato nel paragrafo precedente, dai principi fondanti del Diritto Tributario. Principi da cui non si può prescindere in questo contesto. Innanzitutto rileva il principio che emerge dall’art. 23 della Costituzione, ovverosia il principio di riserva di legge, secondo cui è la legge che stabilisce i presupposti della nascita dell’obbligazione tributaria e ne fissa la prestazione, marginalizzando l’autonomia dei privati nella possibilità di determinazione degli uni e dell’altra (18). Quindi, nel rispetto dei limiti esterni (19), un errore del dichiarante non dovrebbe comportare effetti sostanziali in ordine alla debenza o all’ammontare del tributo, rendendo dovuto ciò che per legge non lo è (20). Non meno rilievo ha il principio di capacità contributiva ex art. 53 della Costituzione, che esige il “concorso delle spese pubbliche in ragione della

(17) Cfr. A. Fantozzi, Diritto Tributario, Torino, 1991, 280, in cui spiega come con la dichiarazione il contribuente porti a conoscenza dell’ente impositore i connotati qualitativi e quantitativi del presupposto. (18) La dichiarazione tributaria può, però, presentare alcuni elementi, anche se marginali rispetto alla funzione generale dell’atto, che sono determinati da scelte dispositive del contribuente e che dunque sono connotati da manifestazioni di volontà. Innanzitutto assumono rilevanza sotto tale profilo le opzioni che il contribuente può formulare nella dichiarazione in ordine ai regimi di determinazione del reddito, ovvero forme di tassazione sostitutive, ovvero ancora a sistemi di rilevazione contabile della base imponibile. Rientrano, altresì, in tale ambito le scelte del contribuente in ordine al rimborso ovvero al riporto a nuovo negli anni successivi delle eccedenze di credito risultanti dalla dichiarazione, come, peraltro, la scelta nella destinazione dell’8 per mille alle diverse confessioni religiose o allo Stato. (19) Cioè quel principio di “ragionevolezza temporale”, esposto in precedenza, riguardo il fatto che la rettificabilità pone problemi in ordine alla stabilità ed alla certezza giuridica dei rapporti tributari. (20) Così I. Manzoni, La Dichiarazione cit., 617.


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capacità contributiva” da applicare nell’individuazione della fattispecie imponibile, quale limite al potere impositivo. In altri termini, secondo la tesi che riporta la capacità contributiva al principio di eguaglianza (21), il limite espresso dal principio di capacità contributiva assume carattere “relativo”, potendo comprimere la discrezionalità del legislatore non oltre il punto in cui è ammesso il bilanciamento dei valori (22). Ne discende che la definizione delle fattispecie tributarie deve essere ricollegabile a fatti e situazioni identificate dal legislatore secondo elementi di razionalità e comunque coerentemente individuati nel sistema complessivo di ripartizione del carico tributario tra consociati (23). Prospettiva, tra l’altro, accolta anche dalla Corte Costituzionale secondo cui il principio di capacità contributiva non viene considerato tanto come valore da tutelare in via assoluta, ma come regola esprimente una funzione (la ripartizione dei carichi fiscali tra consociati e la tutela della sfera individuale) da realizzare mediante la ponderazione con altre norme di ordine costituzionale espresse dall’ordinamento (24). Ne consegue che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il principio espresso dall’art. 53 Cost. si risolve in un criterio di razionalità complessiva del sistema normativo, funzionale a realizzare il concorso alle spese pubbliche, idoneo cioè a limitare la discrezionalità del legislatore solo rispetto ad opzioni normative discriminatorie o comunque espressive di valutazioni manifestamente irrazionali o incoerenti. In altri termini, occorre che la legge

(21) A tale conclusione sono arrivati, su tutti, F. Gallo, Le ragioni del fisco, Bologna, 2007, 19 ss.; A. Fedele, La funzione fiscale e la capacità contributiva, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 4 ss. e in Appunti dalle lezioni di Diritto tributario, Torino, 2005. (22) Diversa dottrina ha sempre inteso la capacità contributiva come limite “assoluto”, e l’ha considerata come un dato preesistente ed idoneo a vincolare incondizionatamente la legislazione ordinaria. In tale ricostruzione, il principio normativo delimita in senso oggettivo le fattispecie tributarie: in specie, si ritiene che le prestazioni tributarie debbano trovare fondamento necessario nel contenuto patrimoniale (o comunque economico) espresso dal presupposto. Si tratta di una ricostruzione che tende a valorizzare la funzione di garanzia del principio rispetto ai diritti di proprietà ed alla libertà di iniziativa economica dell’individuo. In tal senso si sono espressi F. Moschetti, Il principio di capacità contributiva, Padova, 1973; G. Gaffuri, Il senso della capacità contributiva, in AA.VV., Diritto Tributario e Corte Costituzionale, cit., 27. (23) Così A. Fedele, La funzione fiscale cit., 4 ss. e in Appunti dalle lezioni cit., 30 ss., il quale sostiene oltretutto che “i parametri di giudizio per la limitazione del potere discrezionale del legislatore sono così rinvenuti nella congruità funzionale e sistematica delle singole norme e nella coerenza della scelta normativa di volta in volta operata”. (24) In particolare Cost. n. 134/1982; Cost. n. 143/1982; Cost. n. 159/1985; Cost. n. 212/1986.


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colleghi il vincolo a contribuire alle pubbliche spese a situazioni di fatto, le quali presentino il requisito di esprimere nel soggetto sottoposto ad imposizione, un’attitudine peculiare, che è appunto la capacità contributiva (25). In tal senso anche l’emendabilità delle dichiarazioni fiscali deve essere valutata secondo una prospettiva complessiva di congruità funzionale, quindi sistematica della disciplina rispetto le scelte integranti l’intero sistema tributario. Sarebbe, infatti, contro il principio di razionalità complessiva del sistema negare la rettifica da parte del contribuente accortosi dell’errore, laddove altrimenti si finirebbe per punire chi collabora, e si creerebbero, così, situazioni favorevoli per chi si pone in antitesi (26). Oltretutto la scelta ostativa determinerebbe delle ingiustificate discriminazioni fiscali, approfittando degli errori per trattenere somme non dovute (27) e trattando meglio l’evasore del dichiarante caduto in errore (28), che è proprio ciò che la Corte Costituzionale ha sempre stigmatizzato. Tuttavia non si deve estremizzare in senso garantistico, o presunto tale, il diritto del contribuente alla correzione, in un’interpretazione “assolutistica” del principio di capacità contributiva, sino a negare un termine finale, superato il quale le situazioni dichiarate si devono consolidare. L’emendabilità deve essere letta sempre nell’ottica razionale affermata in precedenza e tenendo fermi i limiti esterni della rettifica. Ciò anche perché la stessa prospettiva eccessivamente garantistica si rivela “ossimorica” ritorcendosi contro il dichiarante stesso, poiché dell’indeterminatezza del termine per la correzione se ne gioverebbe la stessa Ammini-

(25) In tal senso F. Tesauro Il rimborso … cit., 34. (26) Non è sempre esistito, inoltre, nell’ordinamento tributario un obbligo annuale di dichiarazione delle imposte sui redditi (introdotto solo nella riforma Vanoni); non sempre alla dichiarazione è stato collegato l’obbligo di autoliquidazione (nelle imposte dirette è stato, infatti, introdotto a partire dalla legge delega n.825/1971). Non in tutti gli ordinamenti europei, infine, si affida tanta responsabilità e richiesta di collaborazione ai contribuenti (nell’ordinamento tedesco la liquidazione delle imposte dirette è affidata all’Amministrazione finanziaria). (27) Già con sentenza del 1 agosto 1998, n. 4878, la Prima sezione della Corte di Cassazione aveva affermato che la tesi della rettificabilità della dichiarazione è “conforme alla concezione che tutta la pubblica amministrazione e anche l’Amministrazione finanziaria dovrebbe improntare lo svolgimento della propria attività, non a trarre profitto dall’errore del cittadino o del contribuente, ma a principi di correttezza, imparzialità e buona amministrazione così come prevede l’art.97 della Costituzione”. Cfr. R. Baggio, La posizione delle Sezioni Unite sull’emendabilità della dichiarazione tributaria, in Riv. Dir. Trib., 2003, I, 91. (28) Tali ultime notazioni sono confortate tra i diversi autori da F. Moschetti, Emendabilità della dichiarazione cit. p.1168.


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strazione finanziaria che si verrebbe a trovare in una situazione di assenza di limiti temporali all’accertamento (29). 4. I profili applicativi dalla emendabilità della dichiarazione tributaria. La disciplina normativa prima dell’entrata in vigore D.P.R. n. 435/2001. – La rettificabilità delle dichiarazioni fiscali a favore del contribuente, non è stata per lungo tempo disciplinata da alcuna norma specifica. Ciononostante, là dove dalla compilazione della dichiarazione tributaria fossero derivate, un’errata formazione della base imponibile o comunque una errata quantificazione del tributo, per le modalità ed i termini di rettifica soccorreva l’art.38, comma 1, del D.P.R. n.602 del 1973, a tenore del quale, l’allora termine per la richiesta di rimborso era pari a 18 mesi dal pagamento delle somme corrisposte in eccedenza. A ciò hanno fatto seguito le disposizioni di cui al D.P.R. n. 322/1998 in virtù delle quali, in caso di errore contenuto nella dichiarazione annuale ritualmente presentata, era possibile presentare una ulteriore dichiarazione “rettificativa”, redatta con le medesime modalità della precedente, purché entro i termini di presentazione ordinariamente previsti. Inoltre, era pur possibile, in ragione della previsione di cui al comma 7 dell’art.2 del D.P.R. n.322/1998, produrre una nuova dichiarazione di rettifica della precedente, anche oltre il termine ordinario di presentazione, ma non oltre i successivi novanta giorni. Pertanto al di fuori di tali ipotesi, la “rettificabilità” della dichiarazione comportava per il contribuente l’onere di presentare apposita istanza di rimborso al competente ufficio finanziario. Infine, per effetto di quanto disposto nella versione originaria del citato art.2 D.P.R. n.322, era possibile presentare all’Amministrazione finanziaria, una dichiarazione integrativa “per correggere errori od omissioni”, restando, comunque con ciò impregiudicata l’applicazione delle sanzioni amministrative. In quest’ottica, visto che la dichiarazione rettificativa, se favorevole al contribuente, poteva essere utilizzata come una richiesta di rimborso, tale soluzione era stata ampiamente utilizzata per aggirare i ristretti termini decadenziali previsti per la presentazione dell’istanza, dal momento che per la dichiarazione integrativa erano previsti termini di presentazione più ampi in considerazione della natura giuridica della dichiarazione medesima.

(29)

Le regole del “gioco” sono uguali per tutti.


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4.1. I mutamenti normativi introdotti dal D.P.R. n. 435/2001. – Il comma 1, lettere c) e d), dell’art.2 del D.P.R. n.435/2001 ha apportato rilevanti cambiamenti all’art.2 del D.P.R. 22 luglio 1998, n.322, in particolare modificando il preesistente comma 8 e introducendo il nuovo comma 8-bis. Il nuovo comma 8 dell’art.2 del D.P.R. 322 in esame, alla luce della citata novella, stabilisce che le dichiarazioni dei redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti di imposta, possono essere integrate per correggere errori ed omissioni mediante successiva dichiarazione da presentare, secondo le disposizioni generali a: Banche, Poste, intermediario o mediante invio telematico diretto, utilizzando modelli conformi a quelli approvati per il periodo di imposta cui si riferisce la dichiarazione, entro i termini di decadenza per l’esercizio dell’accertamento di cui all’art. 43 del D.P.R. n.600/1973 (30). Sostanzialmente le “dichiarazioni integrative”, ovvero quelle non necessariamente favorevoli al contribuente, non possono essere presentate oltre il termine di decadenza del potere di accertamento e salva l’applicazione delle sanzioni, ove ne ricorrano i presupposti (31). In tal modo si parifica la posizione del contribuente a quella dell’Amministrazione finanziaria, in un’ottica di trasparenza e collaborazione, riconoscendo ad entrambi il medesimo termine per la definizione della misura d’imposta (32). Il contribuente può, quindi, ritrattare le informazioni fornite all’Erario nella dichiarazione dei redditi, nei medesimi termini che quest’ultimo ha per controllarla attraverso i poteri di accertamento (33). Nel caso della rettifica in aumento la presentazione della

(30) L’art.43, comma 1, del D.P.R. n.600/1973, in tema di imposte dirette dispone che “Gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione”. Speculare appare il dettato normativo dell’art.57, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972, in materia I.V.A. (31) Con la circolare 31/E del 24 settembre 2013, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito le conseguenze fiscali derivanti dagli errori in bilancio. Il ragionamento dell’Agenzia si incentra sul principio generale secondo il quale i componenti di reddito, sia positivi che negativi, devono essere ricondotti al corretto periodo di competenza. (32) Si colloca in quest’ottica di parificazione anche la riforma dell’interpello attuato con il decreto legislativo, approvato in via definitiva dal Consiglio dei Ministri del 22 settembre 2015, che ha ridisegnato gli interpelli previsti dal legislatore, prevedendone soltanto 4 tipologie: si tratta dell’interpello ordinario, probatorio, anti-abuso e disapplicativo. E ha soprattutto previsto nuovi termini di risposta alle istanze di interpello sono 90 giorni per l’interpello ordinario e 120 giorni per le altre tipologie; per tutti gli interpelli vale la regola del silenzioassenso, in caso in mancata risposta da parte dell’Amministrazione finanziaria nei termini. (33) In tal senso vedi anche P. Boria, Fondamenti del Diritto Tributario, 2015, Torino, 346.


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dichiarazione determina l’applicazione delle sanzioni (34). Nel caso, invece, della rettifica in diminuzione sarà sufficiente la presentazione di un’istanza di rimborso, in luogo della dichiarazione in rettifica, e qualora il contribuente non voglia riportare il credito per il futuro, per il recupero delle somme versate in eccedenza. Non vi è, infatti, alcuna pregiudizialità della dichiarazione integrativa in diminuzione rispetto alla richiesta di rimborso. In quanto, come verrà specificato in seguito, la presentazione dell’istanza di rimborso è assolutamente indipendente rispetto l’emenda della dichiarazione. Invece, il nuovo comma 8 bis, aggiunto all’art. 2 del Regolamento in esame dal D.P.R. n.435, prevede espressamente l’ipotesi di una “dichiarazione rettificativa” a favore del contribuente, in virtù della quale le dichiarazioni possono essere integrate dai contribuenti per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito di imposta o di un minor credito, mediante dichiarazione da presentare utilizzando modelli conformi a quelli approvati per il periodo di imposta cui si riferisce la dichiarazione, non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo. Viene, inoltre, stabilito che l’eventuale credito risultante dalle predette dichiarazioni può, poi, essere utilizzato in compensazione ai sensi dell’art. 17 del D. lgs. n.241/1997. Al contribuente è stata riconosciuta, quindi, in questa ipotesi, la facoltà di correggere in diminuzione la dichiarazione dei redditi inizialmente presentata e di recuperare tempestivamente il credito, utilizzandolo in compensazione con le imposte dovute per il periodo di imposta successivo (35). Pertanto la dichiarazione rettificativa presentata diviene in capo al contribuente uno strumento di recupero del credito ed una valida alternativa, entro i termini previsti, rispetto all’istanza di rimborso (36)

(34) Interessante la riflessione compiuta da parte di R. Miceli, Indebito Comunitario e sistema tributario interno, 2009, Milano, 169, secondo la quale in questo caso la disciplina della dichiarazione rettificativa “si incrocia con quella del ravvedimento operoso”, in quanto il contribuente si ravvede di una precedente evasione di imposta, modificando la propria dichiarazione; così anche P. Boria, Fondamenti del Diritto Tributario, 2015, cit., 347. (35) Cfr. R. Miceli, Indebito Comunitario, cit., 170, sostiene che “con il comma 8-bis, invece, si è attuato un passo importante nella disciplina della rettificabilità della dichiarazione: il legislatore ha, infatti, dotato di autonoma forza la dichiarazione integrativa, rendendola un efficace metodo di recupero del credito ed una valida alternativa alla strada maestra dell’istanza di rimborso”. (36) Sempre R. Miceli, Indebito comunitario, cit., 171, “Laddove, quindi, il contribuente


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Anche tale disciplina trova il suo fondamento logico nelle ragioni di trasparenza e collaborazione tra il contribuente e il Fisco nella fase di attuazione ed accertamento dei tributi, ragioni che sono evidenziate anche nella pronuncia in commento. Il problema che si pone è, allora, quello di coordinare la disciplina della rettifica rispetto al rimborso d’imposta. Ai fini del rimborso (37), deve, innanzitutto, ritenersi superato il precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità (38), che riteneva esperibile l’istanza di rimborso nelle sole ipotesi in cui l’indebito non fosse risultato dalla dichiarazione dovendosi, altrimenti, ricorrere alla rettifica di quella già presentata. Ciò in quanto la giurisprudenza maggioritaria della Corte di Cassazione, anche sulla base della citata sentenza delle Sezioni Unite, n.15063/2002, oramai riconosce la possibilità di presentare l’istanza di rimborso in alternativa alla dichiarazione integrativa. Sostanzialmente, una volta decorso il termine per la presentazione della dichiarazione rettificativa ai sensi del comma 8 bis, subentrerà il regime della dichiarazione integrativa ex comma 8, e fino a 48 mesi, il recupero del credito potrà, quindi, essere effettuato attraverso l’istanza di rimborso (39).

si dovesse rendere conto dell’errore compiuto in dichiarazione entro tempi brevi (cioè entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo) potrà procedere al recupero del credito attraverso la dichiarazione integrativa; nel corso del medesimo periodo il contribuente potrà presentare istanza di rimborso, se preferisce il procedimento tradizionale per azionare il riconoscimento del suo credito (in quanto ritiene, magari, che la rettifica potrebbe essere oggetto di contestazioni)”. (37) In questo contesto appare opportuno ricordare che il termine di 48 mesi, ex art. 38 del D.P.R. n. 602/1973, riguarda solo le imposte dirette e non gli altri tributi. Per il Registro vale, infatti, il termine triennale, ex art. 77 D.P.R. 131/1986; mentre per l’Iva, in mancanza di disposizioni specifiche, si applica la norma residuale prevista dall’art. 21 del D.lgs. n. 546/92 che prevede che la domanda di restituzione non possa essere presentata dopo due anni dal pagamento, ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione. (38) In tal senso Cass. n.4239/1994; Cass. n. 3978/1997; Cass. n. 8756/2002. (39) Cosi si sono espressi anche, in dottrina, R. Miceli, Indebito comunitario, cit., 171; M. Logozzo Le dichiarazioni integrative in aumento ed in diminuzione, in Corr. Trib., n.9/2012, 745; in giurisprudenza, Cass. n. 5399/2012, secondo cui “il principio generale della ritrattabilità della dichiarazione non è sovvertito dalla previsione del comma 8 bis dell’art. 2 DPR 322/1998, posto che, nell’ambito della relativa formulazione, il limite temporale dell’emendabilità della dichiarazione integrativa appare doversi ritenere (anche per il dovuto ossequio ai principi di cui agli artt.53 e 97 Cost.) necessariamente circoscritto ai fini della utilizzabilità in compensazione ai sensi dell’art. 17 D. Lgs. 9 luglio 1997 n.241”.


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Occorre osservare che, contrariamente a quanto sostenuto in alcune posizioni di prassi amministrativa (40), nessuna preclusione dovrebbe nascere in capo al contribuente in ordine alla tutela del proprio credito, a seguito della mancata presentazione della dichiarazione rettificativa. Bisogna considerare, cioè, sempre ammissibile la presentazione di un’idonea istanza di rimborso dell’imposta indebitamente versata, anche senza la presentazione di una dichiarazione rettificata. Una soluzione diversa porterebbe altrimenti a trasformare uno strumento nato per creare collaborazione e trasparenza nel rapporto fisco-contribuente in un impedimento oggettivo alla tutela di un proprio diritto di credito. Peraltro anche la disposizione di cui all’art. 2, comma 8-bis, è orientata in favore del contribuente (41) e, quindi, se fosse interpretata nel senso di

(40) La circolare del 25 gennaio 2002, n. 6/E, aveva circoscritto, infatti, l’ipotesi di cui all’art.2, comma 8, citato, alle sole statuizioni sfavorevoli al contribuente, facendo riferimento ad un maggior reddito da dichiarare. La stessa Agenzia delle Entrate, aveva peraltro ribadito, la tesi restrittiva richiamata in precedenza in altre risoluzioni (nello specifico la n.325/E del 14 ottobre 2002 e la n. 24/E del 14 febbraio del 2007), affermando che la nozione di errore non può comprendere talune scelte inopinatamente operate dal contribuente nella dichiarazione originaria. Ed ancora, con la risoluzione n.459/E del 2 dicembre 2008, l’orientamento era stato ribadito, nonostante una completa richiesta di riesame formulata dall’Avvocatura dello Stato, secondo cui, dall’evoluzione legislativa, risulterebbe chiaro l’intento del legislatore di ampliare il termine previsto a favore del contribuente. Sempre secondo l’Avvocatura dello Stato “l’orientamento espresso dall’Amministrazione Finanziaria avrebbe l’effetto di ridurre eccessivamente tale termine facendolo coincidere con quello per la presentazione della dichiarazione integrativa con esiti allo stesso sfavorevoli. Infatti, il termine previsto per il rimborso dei versamenti effettuati in eccedenza è passato da diciotto a quarantotto mesi a seguito delle modifiche apportate all’art. 34, comma 6, della legge n.388 del 23 dicembre 2000”. Ampliamento che era dipeso dalla volontà del legislatore di ravvicinare i termini di decadenza per l’accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria e quelli applicabili al contribuente per richiedere il rimborso, in modo da evitare differenze sostanziali che facevano dubitare della costituzionalità del sistema, visto l’eccessivo squilibrio tra le posizioni delle parti del rapporto tributario. In conclusione l’Avvocatura dubitava che l’introduzione di un termine di decadenza ristretto rispondesse alle finalità di razionalizzazione e semplificazione della riforma del 2001. Nonché, sempre per l’Avvocatura, la riduzione ad un anno del termine per presentare la dichiarazione con esiti favorevoli al contribuente e la conseguente impossibilità di ripetere le somme versate in eccesso tramite una richiesta di rimborso ai sensi dell’art.38 del D.P.R. n.602/1973, poteva far dubitare della costituzionalità del sistema, a causa dell’eccessivo squilibrio tra le posizioni delle parti del rapporto tributario. L’Agenzia delle Entrate, in risposta alla richiesta dell’Avvocatura, ha predisposto un nuovo documento di prassi, Risoluzione 2 Dicembre 2008, n. 459/E, con il quale ha sostanzialmente cercato di trovare una sintesi tra la propria rigida impostazione e il principio di capacità contributiva. L’Amministrazione finanziaria ha così stabilito che, oltre il termine per la presentazione della dichiarazione successiva, il contribuente, non essendo più in tempo per predisporre una dichiarazione integrativa, può solo avanzare un istanza di rimborso al fine di recuperare l’imposta versata in eccesso. (41) Cosi anche F. Paparella, Diritto Tributario, a cura di A. Fantozzi, 2012, Torino, 880.


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limitare la possibilità di proporre l’stanza di rimborso (42) avrebbe l’effetto di ridurre irragionevolmente a soli 12 mesi il termine per porre rimedio agli eventuali errori ed omissioni commessi a proprio danno, mentre la soluzione opposta denota il pregio di risolvere talune particolari fattispecie riconducibili agli errori del contribuente che si traducono in maggior credito di imposta o in una maggiore perdita rispetto a quanto esposto in dichiarazione (43). Oltre ai limiti temporali indicati in precedenza, pregnanti sono i limiti sostanziali previsti nella disciplina in ordine al potere rettificativo, e ciò è palese soprattutto nella disciplina dell’Iva. In primo luogo, infatti, vi sarà una perdita del diritto di detrazione del tributo, addebitato in via di rivalsa con riferimento ai beni o servizi acquistati o importati nell’esercizio dell’impresa o della professione, il quale non sia stato indicato in dichiarazione ed, in secondo luogo, subentrerà la decadenza dal diritto di ottenere il rimborso dell’Iva versata in eccedenza laddove non sia stata presentata specifica richiesta in sede di dichiarazione annuale. La dichiarazione integrativa deve essere completa in tutte le sue parti, anche riguardo agli elementi non modificati rispetto alla dichiarazione originaria. Essa andrà inviata con modalità telematiche ed è fatto obbligo all’Agenzia delle Entrate di tenere disponibili i modelli per le dichiarazioni integrative sino allo spirare del termine per la relativa presentazione. Inoltre l’intermediario incaricato dovrà rilasciare un nuovo impegno aggiuntivo rispetto a quello della dichiarazione originaria; e dalla emissione di tale impegno decorreranno trenta giorni per procedere alla trasmissione telematica. Per quel che riguarda, infine, le determinazioni volitive a carattere negoziale contenute nella dichiarazione, opinione comune è che queste, in ragione della loro natura, siano modificabili solo se viziate da errore, violenza o dolo (44); e

(42) Giustificata tendenzialmente dal fatto che, attraverso questa modalità, il contribuente beneficia immediatamente della rettifica prima di subire i controlli dell’Amministrazione finanziaria. (43) Sempre nella stessa prospettiva agevolativa nei confronti del contribuente si orienta l’ulteriore recente intervento del legislatore di cui al D.L. 70/2011 che ha previsto la possibilità di integrare la dichiarazione dei redditi e dell’Irap per modificare la richiesta di rimborso avanzata in precedenza allo scopo però di beneficiare esclusivamente della compensazione. Tuttavia in questa ipotesi è previsto un termine di presentazione della dichiarazione assai ristretto, ovvero entro 120 giorni successivi alla scadenza del termine ordinario di presentazione, che può apparire giustificabile solo in considerazione della immediata utilizzazione delle somme prima richieste a rimborso (per conferma si legga il nuovo comma 8-ter dell’art. 2 D.P.R.322/1998. (44) Così P. Russo, Manuale, cit., 271.


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ciò conformemente a quanto stabilito dagli artt. 1427 c.c. ss., le cui disposizioni sono pacificamente estensibili ai negozi unilaterali. Si deve, però, sottolineare come le condizioni poste a fondamento delle cause di annullabilità dell’atto negoziale (la riconoscibilità dell’errore, l’effettiva conoscenza del dolo del terzo ad opera della parte che ne trae vantaggio) rendono sul piano fattuale assai difficile l’applicazione effettiva di tali regole rispetto all’opzione espressa in sede di dichiarazione (45). Comunque, posto che in concreto si configuri l’invalidità dell’atto negoziale contenuto in dichiarazione, il contribuente si troverà, di solito, nella condizione di far valere la modifica delle proprie determinazioni volitive in via di resistenza e, quindi, di eccezione alla pretesa avanzata dalla Amministrazione finanziaria (46). 4.2. Le differenze tra dichiarazione rettificativa ed istanza di rimborso. – Tirando le fila del discorso fatto sino a questo punto, il sistema attuale riconosce al contribuente la facoltà di avvalersi indistintamente della dichiarazione rettificativa e dell’istanza di rimborso con la differenza che, sul piano degli effetti restitutori, mentre nel primo caso il contribuente potrà beneficiare della compensazione, nell’ipotesi di istanza di rimborso dovrà attendere l’erogazione delle somme oggetto della restituzione (47). A fronte delle comune attitudine funzionale, la differenza tra rettifica e rimborso è netta sul piano della implicazioni teoriche, dei rispettivi limiti e vincoli, nonché della disciplina applicabile. Di ciò vi è ampia conferma in giurisprudenza (48): le dichiarazioni successive operano, infatti, sul piano dell’accertamento ed implicano i conseguenti effetti in punto di riscossione o di rimborso; inoltre, poiché il dichiarante fornisce una nuova determinazione

(45) In tal senso si è espresso anche P. Boria, Fondamenti, cit., 348. (46) Così P. Russo, Manuale, cit., 271. (47) Sul tema fondamentali sono state le considerazioni di G. Fransoni, Dichiarazione rettificativa ed istanza di rimborso: due profili da non confondere, in Dialoghi dir. trib., 2008, 159. che sottolineava, altresì, il livello non soddisfacente della riflessione scientifica sul tema. (48) Si veda Cass. n.5373/11, che sottolinea la netta differenza tra l’ambito di applicazione dell’istanza di rimborso (riguardante i casi di errore materiale, duplicazione o inesistenza totale o parziale dell’obbligazione tributaria) e quello della dichiarazione rettificativa ex art. 2 comma 8-bis (che avrebbe ad oggetto “i casi di dichiarazione di fatti diversi da quelli dichiarati … in ordine ai quali non si potrebbe ipotizzare un rimborso se non a seguito di un’attività propriamente di controllo e di accertamento del presupposto favorevole da parte dell’Amministrazione Finanziaria”). In dottrina così anche F. Paparella, Diritto Tributario, a cura di A. Fantozzi, cit., 881.


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quantitativa del presupposto, da ciò derivano le conseguenze previste dalla legge anche sul versante delle sanzioni. Infine rimane comunque latente la possibilità di un’eventuale accertamento da parte dell’Erario. Invece, l’istanza di rimborso costituisce un rimedio di carattere generale con il quale il contribuente, sollecitando il contraddittorio con l’Agenzia, chiede che gli sia riconosciuto il diritto a ricevere somme indebitamente versate a prescindere dallo stato del procedimento di accertamento o riscossione e, salvo che non siano maturate preclusioni previste dalla legge (ad esempio, l’intervento di una sentenza passata in giudicato o il decorso di un termine di decadenza). Peraltro, con l’istanza di rimborso il contribuente non sostituisce la dichiarazione originaria, ma si limita ad agire indirettamente nei suoi confronti sollecitando il riesame dell’imposta dovuta o da rimborsare. Tale differenza avvalora ancora di più la necessità di escludere qualsiasi rapporto o vincolo reciproco ai fini del rimborso, come ha sostenuto nel passato l’Amministrazione finanziaria e come talvolta continua prospettare la giurisprudenza di legittimità (49). 5. Le pronunce dei giudici tributari. – In tale contesto è importante capire quale sia l’ottica dei giudici tributari in ordine alla rettificabilità delle dichiarazioni fiscali, dando atto, anche in questa sede, della divisione esistente in ordine alla questione in esame. 5.1. La tesi restrittiva. – Da una parte si colloca l’interpretazione più favorevole all’Erario, fatta propria dalla Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna n.74/2007 – cassata, peraltro, dalla pronuncia della Suprema Corte n.26187 del 12 dicembre 2014 citata nell’ordinanza in esame – che, uniformandosi alle prime interpretazioni date dall’Agenzia delle Entrate dei commi 8 e 8-bis dell’art.2 del D.P.R. 322/1998, aveva respinto il ricorso sulla base del presupposto che, una volta decorso il termine legale per emendare la dichiarazione fiscale errata, ex art. 2, comma 8-bis, il contribuente non poteva “…discutere direttamente presso l’organo giurisdizionale sull’esistenza di un proprio errore pregresso da accertare in contraddittorio con l’Agenzia, ma fuori dalla sede amministrativa sua propria, allo scopo di vanificare una procedura esecutiva legittimamente iniziata ed in fase di espletamento” (50).

(49) Conforme M. Nussi, La dichiarazione tributaria, cit., 337. (50) C.T.R. Emilia Romagna del 19 settembre 2007 il cui orientamento si pone in netto


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Una motivazione che sembra in contrasto con l’evoluzione legislativa determinata dall’entrata in vigore del Regolamento sulle semplificazioni del 2001 – che intervenuto sul D.P.R. n.322/1998, ha di fatto modificato la possibilità di rettificare le dichiarazioni – ma che, invece, segue quella lettura restrittiva data sin dalla entrata in vigore del nuovo art.2 da parte dell’Agenzia delle Entrate. Premesso ciò si deve rilevare che recentemente si è aperto qualche nuovo spiraglio a favore dei contribuenti, atteso che, prima con la risoluzione R.M. n. 459/E/08 l’Agenzia delle Entrate ha affermato che il contribuente non può presentare una dichiarazione integrativa favorevole oltre il termine di presentazione della dichiarazione successiva, ma lo stesso può altresì presentare istanza di rimborso nei modi e nei termini previsti dall’art. 38 del D.P.R. n. 602/1973 (51); e poi con una circolare del 2009 ha previsto la possibilità per il contribuente di presentare una dichiarazione integrativa, in malam partem, al fine di indicare le spese con i paesi “black list” non precedentemente riportate, secondo le disposizioni di cui all’art.2, comma 8, D.P.R. n. 322/1998 (52). Lo “spiraglio” è proprio, nel riconoscimento, da parte dell’Amministrazione finanziaria, della possibilità di presentare istanza di rimborso oltre il termine annuale da un lato, e dall’altro dare una possibilità al contribuente di emendare la dichiarazione entro i termini di decadenza dell’azione di ac-

contrasto con una fondamentale pronuncia di un’altra commissione tributaria (C.T.P. di Modena sez. VI n. 66 del 5 maggio 2009), che ha, invece adottato un provvedimento più conforme ai principi illustrati dalle sentenze citate nel testo. (51) Per una ampia spiegazione di come l’Agenzia è giunta a tale determinazione vedi nota 40. (52) Cfr. Con circolare n. 17/E del 2011 è stato chiarito che, in caso di mancata prestazione della garanzia, il contribuente può rettificare la richiesta di rimborso presentando, entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, una dichiarazione integrativa, al fine di indicare il medesimo credito (o parte di esso) come eccedenza da utilizzare in detrazione o compensazione (variazione del Quadro VX). Successivamente, con circolare n. 25/E del 2012, è stato preso in considerazione il disallineamento tra la disciplina delle imposte sul reddito e la disciplina Iva, verificatosi a seguito dell’introduzione nell’art. 2 del DPR n. 322 del 1998 del comma 8-ter (ad opera dell’art. 7, comma 2, lettera i), del D.L. n. 70 4 del 2011). Nonché la circolare 31/E del 2003 l’Agenzia ha fornito chiarimenti interpretativi in merito al trattamento fiscale da applicare, nell’ipotesi in cui, nel rispetto delle indicazioni contenute nei principi contabili, i contribuenti procedano alla correzione di errori contabili derivanti da: mancata imputazione di componenti negativi nel corretto esercizio di competenza; mancata imputazione di componenti positivi nel corretto esercizio di competenza. Per esigenze di chiarezza espositiva la casistica ipotizzata si riferisce sempre a soggetti con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare.


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certamento, per ottenere l’irrogazione di sanzioni minori rispetto alla misura edittale e, quindi, per una situazione a lui favorevole (53). 5.2. La tesi favorevole al contribuente. – L’interpretazione restrittiva non è stata, comunque, seguita da tutti i giudici tributari. Anzi, nella pronuncia del 5 maggio 2009, n. 66, la Commissione Tributaria Provinciale di Modena (54) si è uniformata alla dottrina maggiormente garantista nei confronti del contribuente. Sulla base, quindi, di una concezione secondo la quale il confine tra il comma 8 e il comma 8-bis deve trovarsi nel fatto che la disposizione del comma 8 consentirebbe la presentazione di una dichiarazione di favore, ma non permetterebbe di utilizzare gli eventuali crediti in compensazione, che invece sarebbe possibile con la rettifica ai sensi del comma 8-bis, il giudice tributario ha ricondotto a ragionevolezza costituzionale l’intera disciplina. Dubbia se, al contrario, lasciata in balia di un termine di decadenza al diritto di rimborso troppo ristretto. E in tale prospettiva lo stesso Giudice, dopo aver ribadito che il citato comma 8 consente la presentazione di una dichiarazione integrativa a favore del contribuente entro il termine quadriennale di decadenza dell’accertamento, ha condannato l’Amministrazione finanziaria al pagamento delle spese di giudizio. Una possibilità di rettifica della dichiarazione entro il termine di decadenza dell’azione di accertamento, anche nelle ipotesi favorevoli per il contribuente, era stata tra l’altro sottolineata anche dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, nella sentenza n. 21 del 26 gennaio 2011 (55), e dalla Commissione Regionale della Puglia con la sentenza n.116/9/10 del 28 ottobre 2010, che, fornendo una interessante interpretazione dell’art. 2 del D.P.R. n.322/1998, avevano ammesso la possibilità di integrare la dichiarazione dei contribuenti sino allo spirare dei termini dell’accertamento, ovvero nei quattro anni successivi la dichiarazione.

(53) L’orientamento ministeriale era stato fortemente criticato, tra gli altri, anche da Assonime secondo il quale il generico riferimento fatto nel testo della norma ad errori ed omissioni dovrebbe portare a considerare tutte le ipotesi di errore e quindi anche quelli a danno del contribuente. (54) In tale sentenza la C.T.P., sulla scorta del brocardo lex specialis derogat generali, aveva letto la legge generale quella che consentiva al contribuente la correzione nel termine più ampio, mentre speciale era quella che consentiva la correzione entro il termine più breve quando il contribuente si vuole avvalere del diritto alla compensazione. (55) Il caso specifico verteva sulla possibilità di integrare la dichiarazione entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello della presentazione della stessa, per integrare perdite non riportate nel modello originario.


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6. Le statuizioni della Corte di Cassazione. – Il principio di emendabilità e ritrattabilità delle dichiarazioni fiscali è divenuto pacifico solo a seguito della, citata, sentenza delle Sezioni Unite n.15063/2002, in quanto, in precedenza, si sono fronteggiati due filoni interpretativi fondati ciascuno su principi contrapposti. 6.1. L’orientamento antecedente alla pronuncia delle SS.UU. n.15063 del 25 ottobre 2002. – Il primo orientamento, infatti, era molto elastico e muoveva dal presupposto che le dichiarazioni fiscali fossero dichiarazioni di scienza e non negoziali, qualificabili come strumenti per portare dati alla conoscenza della Amministrazione finanziaria. In una tale concezione fiduciaria, di collaborazione e di buona fede tra Fisco e contribuente, quindi, le dichiarazioni erano, ovviamente, modificabili, ma sempre che non fosse intervenuta la prescrizione del debito restitutorio del Fisco. Un indirizzo che era già stato esposto dalla sentenza della I sezione Corte di Cassazione n.5989 del luglio 1997 (56), ma che aveva trovato completa espressione nella pronuncia n.1088 del febbraio 1999 (57). Il secondo orientamento, invece, era decisamente più rigido (58) e, pur partendo dal medesimo assioma, che le dichiarazioni fiscali fossero dichiarazioni di scienza e non di volontà, non ammetteva deroghe ai tempi a disposizione per le eventuali correzioni sulle dichiarazioni. Tale interpretazione

(56) Così anche Cass. Sez. I n. 3080 del 9 aprile 1997. (57) Per una più completa visione della giurisprudenza favorevole all’emendabilità di errori commessi in dichiarazione si veda: Cass. 8 agosto 1988 n. 4878; Cass. 9 aprile 1997 n. 3080 in Corr. trib., con nota di R. Lupi, cit. e in Rass. trib. con nota di M. Nussi, cit.; Cass. 21 ottobre 1998 n.10412, in Rass. Trib. 1999, 522, con nota di P. Coppola, Sulla rettificabilità della dichiarazione per questioni di diritto; Cass. 9 febbraio 1999 n. 1088, in Mass. giur. it., 1999; Cass. 18 giugno 1999 n.6113 in Giur. it., 2000, 1312, con nota di M. Nussi Natura e rettificabilità della dichiarazione dell’imposta sulle successioni. (58) Per la giurisprudenza contraria alla rettifica della dichiarazione: Cass. 13 agosto 1992 n. 9554, in Riv. dir. fin. 1993, II, 71 ss. con nota di B. Belle, Dichiarazione dei redditi, rettifica o ritrattabilità e rimborso dell’imposta ed anche in Riv. dir. trib., 1993, II, 115, con nota di C. Bafile, Un chiarimento sugli effetti della dichiarazione; Cass. 27 giugno 1994 n. 6157, in Dir. prat. trib., 1995, II, 804 ss., con nota di F. Batistoni Ferrara, Dichiarazione tributaria, ritrattabilità e rilevabilità degli errori; Cass. 2 maggio 1994 n. 4239, in Foro It., Rep. 1994, voce Tributi in genere n.827; Cass. 2 aprile 1997 n. 2855 in Corr. trib., 1997, 2004, con nota di R. Lupi, Errori in dichiarazione, applicabilità del rimborso ex art. 38 del DPR n. 602/1973; Cass. 25 luglio 1997 n. 6957, in Rass. Trib., 1998, 204 ss., con nota di M. Nussi, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di rimborsi da errata dichiarazione dei redditi.


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aveva trovato una lucida espressione nella sentenza (59) della sezione Tributaria della Corte di Cassazione n. 10055 del 1 luglio 2000 (60) nella quale si affermava che le dichiarazioni fiscali dei contribuenti, integrando il momento di avvio di un articolato procedimento pubblico, comportavano l’automatismo di effetti proprio degli atti giuridici in senso stretto, e, perciò, dovevano essere assoggettate a vincoli di forma e di tempo che ne implicavano una sostanziale irretrattabilità. Da ciò derivava che, al di fuori delle ipotesi di errori materiali o di calcolo (61), le dichiarazioni medesime erano emendabili nei soli termini accordati dalla legge per la valida presentazione della dichiarazione (62). 6.2. L’orientamento successivo alla sentenza delle SS.UU. n.15063 del 25 ottobre 2002 e la nuova ordinanza interlocutoria della Corte di Cassazione. – Il contrasto giurisprudenziale, come anticipato, è stato risolto dalla predetta pronuncia n.15063 del 25 ottobre 2002 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (63), citata anche nella ordinanza in commento, che ha sancito la piena emendabilità della dichiarazione per errori, sia di fatto che di diritto, non desumibili direttamente dalla dichiarazione originaria (64). Le Sezioni Unite hanno anche confermato che l’inesistenza di limiti all’emendabilità della dichiarazione viene fatta discendere dai fondamentali principi della capacità contributiva e di oggettiva correttezza dell’azione amministrativa, che impediscono di dare assoluta prevalenza alla contrapposta esigenza di stabilità dei rapporti tributari. Nonostante l’importanza della sentenza delle Sezioni Unite, l’ordinanza in commento (65) da atto del contrasto ancora esistente nella giurisprudenza

(59) In tal senso anche Cass. Sez. I n. 6957 del 25 luglio 1997. (60) Che nonostante fosse stata resa in termini di Iva recava notazioni di carattere generale e trasposte, quindi, anche alle dichiarazioni dei redditi. (61) I quali non richiedevano una vera e propria rettifica, essendo desumibili ab intrinseco dal testo dell’atto. (62) Tale rigorosa interpretazione ha però, anche nella sentenza citata, trovato un temperamento nella puntualizzazione secondo cui la possibilità di addurre errori ed omissioni di fatto o di diritto poteva esprimersi nei limiti in cui la legge prevedeva diritto al rimborso, ovvero in sede di opposizione ai provvedimenti impositivi dell’Amministrazione finanziaria intesi a far valere una maggiore pretesa tributaria. (63) Chiamata a pronunciarsi a seguito dell’ordinanza n.78/2001 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione. (64) Nel caso specifico si tratta della mancata indicazione dell’onere deducibile. (65) Nell’ordinanza preliminarmente viene, lucidamente, ricordato che la cartella emessa a seguito di controllo automatizzato (art. 36-bis, D.P.R. n. 600/1973; art. 54-bis, D.P.R. n.


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della Corte di Cassazione in merito al termine entro il quale si può rettificare la dichiarazione erronea. Le teorie che si fronteggiano, così come lucidamente delineate nella pronuncia oggetto del presente scritto, sono, ancora una volta, una maggiormente radicata e più favorevole al contribuente e l’altra, minoritaria, più favorevole all’Amministrazione finanziaria. 6.3. La concezione favorevole alla piena emendabilità. – Tale tesi parte dal presupposto che la dichiarazione dei redditi, ma comunque le dichiarazioni in termini assoluti, non ha natura di atto negoziale e dispositivo, ma reca una mera esternazione di scienza e di giudizio, modificabile in ragione della acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e valutazione dei dati riferiti. E, quindi, un sistema normativo che negasse radicalmente la rettificabilità della dichiarazione e sottoponesse il contribuente, sulla base di tale atto, ad un prelievo fiscale sostanzialmente indebito, si rivelerebbe difficilmente compatibile con i principi costituzionali della capacità contributiva e dell’ oggettiva correttezza dell’azione amministrativa. Principi quali, alla luce dell’entrata in vigore dello Statuto dei Diritti del Contribuente, si mostrano oggi ancora più pregnanti. Nella pronuncia n. 26187/14, citata nell’Ordinanza, si palesa, infatti, la sintonia tra l’art.53 Cost. e la disposizione statutaria dell’art.10, secondo cui “…i rapporti tra contribuente e fisco sono improntati al principio di collaborazione e buona fede, essendo appunto conforme a buona fede non percepire somme non dovute ancorché dichiarate per errore dal presunto debitore” (66). Della stessa idea sono anche altre pronunce del medesimo periodo (67), in cui la Corte ha ribadito la sua ottica di piena emendabilità e modificabilità della dichiarazione fiscale sottolineando, ancora una volta, che il contribuente non può restare leso da oneri fiscali diversi e più gravosi da quelli che devono essere posti a suo carico sulla base della legge, ed evidenziando che “in al-

633/1972,) può essere impugnata, ai sensi dell’art. 19 proc. trib., non solo per vizi propri ma anche per motivi attinenti al merito della pretesa impositiva. Essa, infatti, non rappresenta la richiesta di pagamento di una somma definita con precedenti atti di accertamento, autonomamente impugnabili e non impugnati, ma riveste anche natura di atto impositivo, trattandosi del primo e unico atto con cui la pretesa fiscale è esercitata nei confronti del dichiarante. (66) In tal senso si era espressa anche la Cass. n.22021 del 13 ottobre 2006. (67) Cass. n. 4776 del 28 febbraio 2011, anche se nella pronuncia ci si riferiva a dichiarazioni presentate nei primi anni novanta e al quadro normativo antecedente al D.P.R. n. 322/1998.


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tri termini, l’affermazione del principio di emendabilità della dichiarazione non si concilia con il carattere necessitato della presentazione dell’istanza di rimborso, che potrebbe risolversi, in concreto, in una delle conseguenze sfavorevoli dell’errore di fatto e di diritto rettificato dal contribuente, ove lo stesso non potesse optare per l’utilizzazione del credito negli anni successivi, sulla base di una dichiarazione emendativa, ancorché non prevista specificatamente, di certo compatibile con le esigenze sistematiche” (68). La Corte ha anche estremizzato il suo pensiero sostenendo che “la possibilità per il contribuente di emendare la dichiarazione … è esercitabile anche in sede contenziosa” (69) ed inoltre che “è emendabile, in via generale, qualsiasi errore … contenuto in una dichiarazione resa dal contribuente all’Amministrazione Finanziaria, anche se non rilevabile dalla stessa dichiarazione” (70). 6.4. La concezione “pro Fisco”. – Diversamente si esprime l’altro orientamento, più favorevole al Fisco, i cui precedenti si trovano sostanzialmente in due sentenze (71). Tali pronunce partono dalla premessa che in tema di imposte sui redditi, la dichiarazione, presentata ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, affetta da errore (di fatto o di diritto) commesso dal contribuente, è – in linea di principio – emendabile e ritrattabile quando da essa possa derivare l’assoggettamento ad oneri contributivi più gravosi di quelli che, in base alla legge, devono restare a carico del dichiarante. La richiesta di rimborso presentata ai sensi dell’art. 38, comma 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, è idonea, per i periodi anteriori all’1° gennaio 2002, a rettificare in senso favorevole al contribuente la dichiarazione stessa, non essendo previsti, prima di detta data, termini di decadenza, per tale rettifica favorevole, diversi da quelli prescritti per il rimborso dalla citata norma. Ma il nucleo centrale di questo secondo filone è individuato dalla giurisprudenza laddove ritiene “non sostenibile” una lettura dell’art. 2, comma 8-bis, D.P.R. n. 322 del 1998 secondo cui “il termine da tale norma previsto rileverebbe soltanto al fine della possibilità di opporre in compensazione il credito risultante dalla rettifica, mentre resterebbe salva la possibilità di operare la rettifica stessa agli effetti del diritto al

(68) (69) n.3754/14. (70) (71)

Cass. n. 26187/14. Cass. n. 5947/15; Cass. n. 434/15; Cass. n. 26187/14; Cass. n. 18765/14; Cass. Cass. n. 10775/15. Cass. n. 4238/08; Cass. n. 5373/12.


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rimborso”, in quanto “in base ad essa la facoltà di rettificare la dichiarazione in senso favorevole al dichiarante sarebbe esercitabile senza limiti di tempo, il che è certamente contrario all’intenzione del legislatore” (72). 7. Osservazioni conclusive. – Alla luce delle considerazioni sopra svolte, come già anticipato nelle prime pagine del presente scritto, non si può fare a meno di ribadire le verificate implicazioni che potrebbero derivare da una pronuncia che facesse proprio l’indirizzo minoritario e maggiormente restrittivo della Corte di Cassazione. Tra l’altro, anche superato da tempo dalla prassi dell’Agenzia delle Entrate, che ha confermato la possibilità di proporre l’istanza di rimborso ove, non sia stata presentata la dichiarazione integrativa (73). La soluzione comporterebbe, in primo luogo, una abrogazione implicita dell’art.38 D.P.R. n 602/1973, che non pare sostenibile alla luce del contesto normativo e, soprattutto, non coerente con il livello gerarchico delle fonti, considerato che la disposizione sulla dichiarazione integrativa è contenuta in un regolamento, mentre l’art. 38 citato ha rango primario. In secondo luogo, riprendendo uno degli aspetti focali del tema, e partendo sempre dal rispetto della scansione temporale del procedimento di imposizione (74), si penalizzerebbero i contribuenti che hanno collaborato con l’Amministrazione finanziaria. La dichiarazione è, infatti, atto collaborativo e la collaborazione del contribuente deve essere premiata o quanto meno non punita. Quando, invece, si collegano alla dichiarazione effetti di immodificabilità, o si limita la possibilità del rimborso, si riserva un trattamento deteriore a chi ha collaborato. Il che non solo si pone in contrasto con gli elementari principi di meritevolezza (75), ma contraddice l’ordinamento stesso e il suo interesse a pro-

(72) Cass. n. 5373/12. (73) Vedi par. 5.1. (74) In senso a-tecnico cosi come illustrato da A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 271; Id., Federico Maffezzoni e la teoria del procedimento di imposizione, in Riv. Dir. Trib., 2012, I, 131. (75) Interessante da questo punto di vista è leggere le parole della Suprema Corte in merito al principio di buona fede nei rapporti tra Fisco e contribuente. Si legge, infatti, nella Cass. n. 11545/01 che “in un sistema improntato oramai, per effetto della entrata in vigore dello Statuto del contribuente … a principi di tutela dell’affidamento e della buona fede, deve riconoscersi al contribuente la possibilità di far valere, attraverso la procedura del rimborso disciplinata compiutamente dall’art.38 in esame, ogni tipo di errore … commesso in buona


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muovere comportamenti virtuosi nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria (76). In ragione di ciò, appare auspicabile che, finalmente, il Supremo Collegio – ispirato anche da recenti pronunce in materia (77) – ponga fine ad un dibattito che và avanti da molto (rectius troppo) tempo, e che così si possa fugare definitivamente ogni dubbio esistente in ordine alla ritrattabilità delle dichiarazioni fiscali, finanche in sede contenziosa, stante la natura “informativa” della dichiarazione. Ciò anche al fine di non aggiungere un ulteriore, e davvero ingiusto e penalizzante giogo al contribuente, per realizzare un suo puntuale diritto verso l’Erario e, così, da poter indurre l’Amministrazione finanziaria a rivedere in senso radicale le restrittive interpretazioni fino a qui rese.

Francesco Corda

fede nel momento della redazione della dichiarazione, e da cui sia derivato un pagamento indebito”; negli stessi termini da ultimo anche n.22021 del 13 ottobre 2006. (76) Cfr. F. Moschetti, Emendabilità della dichiarazione tributaria, cit., 1176. (77) Cass. 313/16; Cass. 1165/16, con nota di F. Farri, Confermata l’emendabilità in giudizio degli errori in dichiarazione: ma fino a che punto?, in Riv. Dir. Trib, supplemento online dell’11.3.16.


Commissione Tributaria Regionale Lazio, Sezione XXII, 6 maggio 2015, n. 353 Operazioni esenti – Interessi su finanziamenti erogati a società controllate – Attività accessoria o principale - Effetti sul calcolo del pro-rata matematico – Trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea In tema di detrazione dell’Iva sugli acquisti in presenza anche dell’effettuazione di operazioni esenti, sussistono i presupposti per rimettere la questione alla Corte di Giustizia per contrasto al diritto comunitario degli art. 19 comma 5° e 19 bis D.P.R. 633/72 (pro-rata matematico) che stabilisce la detrazione dell’Iva sugli acquisiti sulla base del rapporto tra operazioni totali ed operazioni esenti senza tener conto della effettiva quota di acquisti di beni e servizi destinati ad attività imponibile.

(Omissis) Svolgimento del processo. L’Agenzia delle Entrate - Ufficio di Roma 4 (ora, Direzione Provinciale III di Roma, in prosieguo: “l’Ufficio” o “l’Agenzia”) indirizzava alla società M.-B.I. S.p.A. (di seguito: “la società” o “la contribuente”) l’atto di accertamento n. (…), emesso ai fini IVA, per l’anno di imposta 2004, recuperando una maggiore Iva di Euro 1.755.882,00, oltre agli importi corrispondenti alle sanzioni ed interessi. Le ragioni che sorreggono la pretesa erariale, espresse nella motivazione dell’accertamento, muovono essenzialmente dalla convinzione che la società, avendo indicato nella dichiarazione Iva, per l’anno 2004, operazioni esenti (ex art. 10 del D.P.R. n. 633 del 1972) per Euro 41.878.647,00, relative ad interessi maturati sui finanziamenti erogati alle società controllate, abbia erroneamente qualificato tali attività come accessorie ad operazioni imponibili, escludendole, pertanto, dal calcolo del pro-rata matematico, regolato dagli artt. 19, 5 comma e 19-bis del D.P.R. n. 633 del 1972. Per sostenere la propria tesi, l’Ufficio osserva che la gestione finanziaria rappresenta, insieme a tutte le altre, una delle attività principali e strategiche della società e non, invece, una attività meramente accessoria. La società proponeva ricorso contro l’atto di accertamento,- innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma.


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La contribuente eccepiva – per quanto qui interessa – l’illegittimità delle riprese fiscali, quale conseguenza dell’inapplicabilità del metodo del pro-rata adottato dall’Ufficio: considerando la natura accessoria delle operazioni (esenti) di finanziamento, rispetto all’attività principale svolta dalla società, che rende le medesime operazioni, per espressa previsione legislativa, irrilevanti ai fini della determinazione del calcolo della percentuale di indetraibilità. Inoltre, la società metteva in risalto l’effetto distorsivo nell’imposizione Iva, a favore dell’Agenzia, dipendente dalla scelta di quest’ultima di applicare il pro-rata sulla base di un criterio esclusivamente formale (composizione del volume d’affari e quantificazione delle operazioni esenti rispetto a quest’ultimo), anziché sostanziale (composizione degli acquisti, vale a dire, facendo riferimento alla circostanza che l’imposta sia riferita all’acquisto di beni e di servizi concorrenti alla produzione a valle di operazioni imponibili). A sostegno, la contribuente depositava in giudizio due perizie giurate, con le quali sono stati analizzati i beni ed i servizi acquistati dalla società ed utilizzati per la produzione di operazioni esenti. Da tale indagine il perito è giunto alla conclusione dell’incidenza marginale dei suddetti costi (in specie, prima perizia svolta a campione: incidenza minima pari allo 0,22%; seconda perizia, svolta con metodo analitico dei costi, incidenza minima pari a zero). L’Ufficio si costituiva in giudizio e, nel replicare al ricorso della contribuente, ribadiva la legittimità del proprio operato richiamando le motivazioni dell’atto di accertamento. In particolare l’Agenzia sottolineava che, dall’analisi “fattuale dell’attività di erogazione di finanziamenti” esercitata dalla società, emergono una serie di “elementi”, tra i quali un “elevatissimo volume d’affari ad essa riconducibile”, “pari al 71,64%”, che giustificherebbe la qualifica di “attività propria” (così, a p. 15 dell’atto di controdeduzioni del 30.11.2010). In accoglimento della tesi dell’Ufficio, il giudice di primo grado respingeva il ricorso della contribuente in forza del richiamo alla sentenza della Corte di Cassazione n. 22243 del 21 ottobre 2009, e nel merito, affermando che: “la verifica dell’effettiva attività d’impresa si individua osservandone il volume d’affari”. Pertanto, “laddove il peso delle operazioni esenti – in rapporto al volume d’affari – risulti essere marginale, esse potranno considerarsi operazioni strumentali o accessorie all’attività propria dell’Impresa; per converso, ove il valore delle operazioni esenti sia consistente, esse potranno considerarsi un’attività a sé stante e, dunque, il contribuente sarà tenuto ad applicare il “pro-rata” di detraibilità al valore complessivo dell’imposta delle operazioni passive”. È, quindi, “inconferente quanto eccepito dalla ricorrente per sostenere la marginalità dell’attività di finanziamento e cioè la limitata incidenza dell’Iva relativa all’acquisto di beni e servizi destinati alla produzione delle operazioni esenti”. Considerando che, concludono i primi giudici, “il volume d’affari di Euro 41.878.647,00 generato da tale attività (…) di finanziamento (…) rappresenta


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un’incidenza percentuale sul volume d’affari totale pari al 71,64%” (si cfr. Seni. CTP di Roma, n. 396/60/13, depositata il 3 ottobre 2013). La società presentava appello contro la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Roma. In questo secondo giudizio la contribuente, oltre a riproporre le difese del precedente grado, poneva l’accento sugli effetti distorsivi cui avrebbe condotto l’interpretazione delle norme nazionali fornita dall’Agenzia. Allegava, quindi, una rappresentazione numerica della consistenza dell’effetto distorsivo causato dalla decisione dell’Ufficio di rideterminare l’ammontare detraibile con il metodo del pro-rata matematico. La società faceva, infine, presente che applicando alla specie il diverso metodo del prò rata fisico, regolato dall’art. 19, 4 comma del D.P.R. n. 633 del 1972 (secondo cui: “per i beni ed i servizi in parte utilizzati per operazioni non soggette all’imposta la detrazione non è ammessa per la quota imputabile a tali utilizzazioni e l’ammontare indetraibile è determinato secondo criteri oggettivi, coerenti con la natura dei beni e servizi acquistati”), la limitazione del diritto di detrazione risulterebbe fortemente attenuata, in quanto quest’ultimo metodo, a differenza del pro-rata matematico, è basato su una valutazione fisica, cioè, effettiva della quota di acquisto di un bene o di un servizio destinato ad un’attività imponibile. L’Ufficio, nel resistere al gravame, ribadiva quanto già dedotto in primo grado, evidenziando, in particolare, “che l’attività di finanziamento” svolta dalla società “non possa essere qualificata come attività accessoria”: tenuto conto, tra l’altro, che “il suo effettivo svolgimento (…) genera un volume d’affari (…) che presenta una incidenza percentuale sul volume d’affari totale pari al 71,64%” (così, alle pagine 10 e 11 dell’atto di controdeduzioni del 30.12.2014). Motivi della decisione. La questione pregiudiziale che si intende sottoporre alla Corte di Giustizia riguarda la compatibilità, con il diritto comunitario, del metodo del pro-rata matematico regolato, nell’ordinamento nazionale, dal D.P.R. n. 633 del 1972, precisamente, negli artt. 19, 5 comma (secondo cui: “ai contribuenti che esercitano sia attività che danno luogo ad operazioni che conferiscono il diritto alia detrazione sia attività che danno luogo ad operazioni esenti (…), il diritto alla detrazione dell’imposta spetta in misura proporzionale alla prima categoria dì operazioni e il relativo ammontare è determinato applicando la percentuale di detrazione di cui all’articolo 19-bis”) e 19-bis (secondo cui: “la percentuale dì detrazione di cui all’articolo 19, comma 5, è determinata in base al rapporto tra l’ammontare delle operazioni che danno diritto a detrazione, effettuate nell’anno, e lo stesso ammontare aumentato delle operazioni esenti effettuate nell’anno medesimo. La percentuale di detrazione è arrotondata all’unità superiore o inferiore a seconda che la parte decimale superi o meno i cinque decimi”. (…) “Per il calcolo della percentuale di detrazione di cui al comma 1 non si tiene conto (…) delle (…) operazioni esenti indicate ai numeri da 1) a 9)” dell’articolo “10” dei D.P.R. n. 633 del 1972, “quando non formano oggetto dell’attività propria


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del soggetto passivo o siano, accessorie alle operazioni imponibili, ferma restando la indetraibilità dell’imposta relativa ai beni e servìzi utilizzati esclusivamente per effettuare queste ultime operazioni”). Attraverso tali norme – che recepiscono gli artt. 173, 174 e 175 della Dir. 2006/112/CE – il legislatore italiano ha previsto che, ove il soggetto passivo eserciti contemporaneamente attività imponibili ed esenti, l’imposta detraibile è determinata forfettariamente, a prescindere dalla misura dell’effettiva utilizzazione dei beni e dei servizi in operazioni a valle imponibili, ovvero esenti. In questa ipotesi, la detrazione dell’Iva spetta in base ad una percentuale forfettaria (cd. pro-rata matematico) da applicare non solo all’Iva relativa ai beni ed ai servizi utilizzati promiscuamente, ma a tutta l’imposta assolta sugli acquisti. Questa regola subisce, però, alcune eccezioni, essendo previsto che, ai fini del calcolo del pro-rata, non assumono rilevanza alcune specifiche operazioni esenti (tra cui, i finanziamenti infragruppo), quando non formano oggetto dell’attività propria del soggetto passivo, oppure risultano accessorie ad operazioni imponibili. Nel caso qui in esame, l’Ufficio limita il diritto di detrazione dell’Iva pagata dalla società sugli acquisti effettuati nel 2004. Più specificamente, l’Agenzia ha ridotto l’ammontare detraibile, nella misura risultante dall’applicazione del metodo del prorata matematico fondato sul criterio del volume d’affari, senza valutare l’incidenza degli acquisti rispetto alle attività (imponibili ed esenti) esercitata dalla contribuente. In sintesi: - la società ritiene inapplicabile il metodo del prò rata matematico perché, da un lato, l’attività di finanziamento è esclusa dal calcolo della percentuale d’indetraibilità, avuto riguardo alla sua natura accessoria rispetto all’attività principale (propria) esercitata dalla contribuente. E, dall’altro, per i rilevanti effetti distorsivi, a vantaggio dell’Autorità fiscale, prodotti dall’applicazione del criterio del pro-rata matematico. - l’Ufficio ritiene che le operazioni di finanziamento non abbiano natura accessoria e, dunque, concorrano alla determinazione della percentuale di indetraibilità dell’Iva calcolata con il metodo matematico, a prescindere dalla destinazione dei beni o del servizi acquistati in operazioni a valle imponibili, in base all’incidenza delle medesime operazioni sul volume d’affari complessivo della società. Sulla tesi prospettata dall’Ufficio, accolta dal primo giudice, la società – nel suo atto di appello (pp. 36 e ss.) - ha sollecitato il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ex art. 267 TFUE, evidenziando, in particolare, che la soluzione della presente controversia dipende dall’interpretazione offerta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia sulle norme comunitarie (artt. 168,173, 174 e 175 della Dir. 2006/112/CE). recepite negli artt. 19, commi 4 e 5 e 19-bis del D.P.R. n. 633 del 1972, applicabili alla specie. Rilevanza e motivazioni delle questioni pregiudiziali sollevate La Nota Informativa C-388/2012 del 6.12.2012 sulla Procedura innanzi alla Corte di Giustizia indica la facoltà del giudice nazionale di sottoporre alla Corte una doman-


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da di pronuncia pregiudiziale, relativa all’interpretazione di una norma del diritto dell’ Unione, qualora essa sia necessaria ai fini della soluzione della controversia ad esso sottoposta. In particolare, il rinvio pregiudiziale può risultare particolarmente utile quando si tratti di una questione di interpretazione nuova, che presenti un interesse generale per l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, o quando la giurisprudenza esistente non sembra applicabile ad un fatto inedito. In ossequio all’articolo 94 del Regolamento di Procedura della Corte di Giustizia, integrato dalle Raccomandazioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (2012/C 338/01), il giudice nazionale è tenuto a chiarire non solo i motivi pretisi che lo hanno indotto ad interrogarsi sull’interpretazione del diritto dell’Unione ed a ritenere necessaria la sottoposizione di questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia, ma anche le ragioni della scelta delle disposizioni unionali di cui chiede l’interpretazione, nonché il nesso individuato tra quelle disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia (in questi termini: Corte di Giustizia, Sent. 6.12.2005, C-453/03, ABNA; Ord. 13.1.2010, C-292/09, Calestani e Lunardi; Sent. 1.6.2010, C-570/07, Bianco Pérez). La mancanza di una pronuncia da parte della giurisprudenza Euro-unionale sullo specifico tema della compatibilità delle norme nazionali in contestazione, rende opportuno ottenere un chiarimento dalla Corte di Giustizia, particolarmente utile nel caso dedotto e, in ogni caso, di interesse generale per l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, trattandosi di una questione di interpretazione nuova, applicabile ad un fatto inedito. Valutazione giuridica del tema Dai fatti rilevanti della controversia, come sopra riassunti, si evince che l’oggetto del contendere riguarda la valutazione, da parte della Corte di Giustizia, della compatibilità del metodo del pro-rata matematico, regolato dalle norme italiane (artt. 19, 5 comma e 19-bis del D.P.R. n. 633 del 1972). con le 7 disposizioni della Dir. 2006/112/ CE (artt. 168,173,174 e 175) ed i principi comunitari di proporzionalità, effettività e neutralità. In effetti, l’Ufficio limita il diritto alla detrazione dell’Iva pagata sugli acquisti tramite il meccanismo del pro-rata matematico, assumendo che questo metodo è legittimo in riferimento alla norma nazionale e, dunque, applicabile, in quanto l’attività di finanziamento esercitata dalla società (i) non è accessoria all’attività principale svolta da quest’ultima; (ii) ha un’elevata incidenza sul volume d’affari della contribuente. Nel resistere contro tale pretesa, la società invoca l’applicazione diretta delle richiamate disposizioni comunitarie, sostenendo che la tesi dell’Ufficio, accolta dal giudice di primo grado, conduce ad una grave distorsione, a vantaggio dell’Autorità fiscale, del sistema della detrazione Iva previsto dalla Direttiva 2006/112/CE. Più specificamente il contribuente osserva, in punto di diritto, che il Legislatore nazionale nell’ammettere la limitazione del diritto di detrazione – nella misura forfettaria calcolata secondo il metodo del pro-rata matematico, senza che sia operata


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alcuna distinzione tra i beni ed i servizi acquistati, a seconda del loro effettivo utilizzo (esclusivo o promiscuo) in operazioni a valle imponibili o esenti – ha mal recepito gli artt. 173, 174 e 175 della Dir. 2006/112/CE, considerando che tali norme comunitarie chiariscono che l’ambito applicativo del pro-rata è circoscritto ai soli casi in cui l’uso dei beni e dei servizi è misto, cioè, sono utilizzati da un soggetto passivo per effettuare, nel contempo, operazioni in parte imponibili ed in parte esenti. Sulla base di queste premesse, la società dubita della legittimità della scelta del Legislatore nazionale, siccome interpretata dall’Amministrazione finanziaria italiana, di estendere il meccanismo del pro-rata anche all’Iva che non è relativa ai beni utilizzati promiscuamente: considerando che, secondo la contribuente, nel sistema comunitario della detrazione l’applicazione del pro-rata è limitata al tributo relativo agli acquisti usati in modo promiscuo. A parere della società, l’interpretazione offerta dall’Ufficio delle norme nazionali risulterebbe non compatibile con le disposizioni ed i principi comunitari, sopra indicati. La contribuente richiama, in proposito, alcune decisioni della Corte di Giustizia che trattano di questioni simili, ma non identiche, alla presente controversia, nelle quali i giudici Europei hanno precisato che, per dare concreta attuazione ai principi di neutralità, proporzionalità ed effettività, gli Stati membri devono privilegiare l’adozione di metodi di calcolo del pro-rata, anche diversi dal criterio fondato sul fatturato, che riflettano oggettivamente la quota di imputazione reale delle spese sostenute per l’acquisto di beni e di servizi che può essere imputata ad operazioni che danno diritto alla detrazione. Specificando, inoltre, che attraverso questi metodi, finalizzati ad evitare gravi distorsioni nell’applicazione dell’Iva, gli Stati membri devono garantire che possa essere esercitato il diritto di detrazione sulla parte di Iva relativa alle operazioni che conferiscono tale diritto (Sent. 10.7.2014, C-183/13, Banco Mais SA; Sent. 6.9.2012, C-496/11, Portugal Telecom SA; Sent. 16.2.2012, C-25/11, Varzim Sol; Sent. 29.10.2009, C-174/08, NCC; Sent. 13.3.2008, C-47/06, Securenta. Sul tema si v. anche la domanda pregiudiziale 9.7.2014, C-332/14, Wolfgang und Wilfrìed Rey Grundstucksgemeinschaft, non ancora decisa). Il quesito pregiudiziale ai sensi dell’alt. 267 TFUE Al fine di assicurare l’uniforme interpretazione del diritto comunitario appare necessario disporre il rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di Giustizia, al fine di verificare se la corretta interpretazione dei principi sopra indicati osti all’interpretazione del diritto nazionale fornita dall’Ufficio, sulla base delle norme nazionali vigenti. Sussiste, inoltre, la rilevanza e la pertinenza della questione interpretativa prospettata nel giudizio in corso e la conseguente necessità della pronuncia della Corte di Giustizia sulla compatibilità della legge nazionale con il diritto comunitario, allo scopo di accertare se i 9 principi generali del diritto comunitario si oppongano all’applicazione delia normativa nazionale. È, inoltre, manifesta la rilevanza della questione sul procedimento pendente (cd. “effetto utile”), potendo, nel caso concreto, essere dichiarata l’illegittimità della pre-


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tesa erariale, a favore della società contribuente, ove venisse accolta dalla Corte di Giustizia la questione interpretativa prospettata. In conclusione, la Commissione Tributaria Regionale per il Lazio - Roma - Sez. 22, alla luce delle considerazioni che precedono, considera necessaria la pronunzia della Corte di Giustizia, al sensi dell’art. 267 TFUE, in riferimento alla questione pregiudiziale testualmente enunciata nel dispositivo, al fine di decidere la presente controversia. Consegue la sospensione del presente giudizio. P.Q.M. La Commissione Tributaria Regionale per il Lazio - Roma - Sez. 22, visti l’art. 267, par. 3 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, l’art. 295 cod. proc. civ., la nota informativa riguardante le domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali (2011/C 160/01), e le Raccomandazioni della Corte dì Giustizia dell’Unione Europea (2012/C 338/01) Rimette alla Corte di Giustizia il seguente quesito pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267, par. 3 TFUE: - Dica la Corte se, ai fini dell’esercizio del diritto di detrazione, ostino all’interpretazione degli artt. 168, 173, 174 e 175 della Direttiva n. 2006/112/CE, orientato secondo i principi di proporzionalità, effettività e neutralità, siccome individuati nel diritto comunitario, la legislazione nazionale (segnatamente, gli artt. 19, 5 comma e 19-bis, del D.P.R. n. 633 del 1972) e la prassi dell’Amministrazione fiscale nazionale che impongano il riferimento alla composizione del volume d’affari dell’operatore, anche per l’individuazione delle operazioni cosiddette accessorie, senza prevedere un metodo dì calcolo fondato sulla composizione e destinazione effettiva degli acquisti, e che rifletta 10 oggettivamente la quota di imputazione reale delle spese sostenute a ciascuna delle attività – tassate e non tassate – esercitate dal contribuente”. Ordina la sospensione del presente processo e dispone che copia della presente ordinanza sia trasmessa alla cancelleria della Corte di giustizia all’indirizzo di Rue du Fort Niedergrunewald, L-2925 Lussemburgo, mediante plico raccomandato. Dispone la trasmissione dei documenti ritenuti necessari alla decisione delle questioni oggetto di rinvio pregiudiziale, come da separato indice. (Omissis)

(1) Dubbi sulla compatibilità del criterio del pro-rata Iva con la normativa comunitaria. Sommario: 1. Vicenda processuale. – 2. Principi generali. – 3. Il pro-rata tra diritto interno e diritto comunitario. – 4. Le operazioni accessorie.

Viene rimessa alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 paragrafo 3 Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea il quesito se ostino all’interpretazione degli art. 168, 173, 174 e 175 della Direttiva 2006/112/CE gli artt. 19 comma 5 e 19 bis D.P.R. 633/1972 che impongono il riferimento alla composizione del volume di affari dell’operatore, anche per


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l’individuazione delle operazione accessorie, senza prevedere un metodo di calcolo fondato sulla destinazione effettiva degli acquisti, che rifletta oggettivamente la quota di imputazione reale di tali acquisti con riferimento a ciascuna delle attività imponibili o esenti. In accordance with the Article 267 section 3 of the Treaty on the Functioning of the European Union, it’s left to the Court of Justice to decide whether the question is inconsistent with the interpretation of the Articles 168, 173, 174 e 175 of the Directive 2006/112/ CE Article 19 sub paragraphs 5 and 19 bis D.P.R. 633/1972, which require the reference to the configuration of the operator’s turnover, even for the identification of the ancillary operations, without providing a calculation method based on the actual destination of the purchases that objectively reflects the share of real appropriation of these purchases with reference to each of the taxable or exempt activities.

1. Vicenda processuale. – Con ordinanza n. 353 del 06.05.2015, la Commissione Tributaria Regionale per il Lazio, Sezione 22, ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale riguardante la compatibilità dei criteri di deducibilità dell’Iva sugli acquisti e le modalità del calcolo del pro-rata matematico, con riferimento alle operazioni accessorie, previsti dagli artt. 19, comma 5 e 19 bis D.P.R. 633/1972, con le disposizioni della Direttiva 2006/112/CE, artt. 168, 173, 174, 175 e con i principi comunitari di proporzionalità, effettività e neutralità. La questione pregiudiziale sottoposta alla Corte di Giustizia trae origine da una controversia sorta a seguito di un avviso di accertamento emesso ai fini Iva nei confronti della società M.-B.I. S.p.A. e relativo all’errata qualificazione da parte del contribuente come attività accessorie ad operazioni imponibili di operazioni relative ad interessi maturati sui finanziamenti erogati alle società controllate. La società, non condividendo la qualificazione dell’Agenzia sulla natura non accessoria delle operazioni di finanziamento esenti da Iva ai sensi dell’art. 10 D.P.R. 633/1972, propone ricorso avverso detto avviso insistendo sulla legittima esclusione di dette operazioni dal calcolo del pro-rata ai sensi degli artt. 19, comma 5 e 19 bis dello stesso decreto, ritenendole accessorie alle operazioni di finanziamento rispetto all’attività principale svolta dalla società, accessorietà che rende, per espresso dettato normativo, le medesime operazioni anche se esenti irrilevanti nel calcolo della percentuale di indetraibilità. Inoltre la società evidenzia l’effetto distorsivo nell’imposizione Iva derivante dall’applicazione del criterio del pro-rata “matematico” in quanto la scelta dell’Agenzia di applicare il pro-rata sulla base di un criterio esclusiva-


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mente formale, (che faccia riferimento alla composizione del volume di affari e alla quantificazione delle operazioni esenti rispetto a quest’ultimo), piuttosto che ad un criterio di tipo sostanziale (che tenga invece in considerazione la natura degli acquisti di beni e servizi concorrenti alla produzione a valle di operazioni imponibili), crea un vantaggio a favore del fisco. L’Ufficio ribadisce invece la legittimità del proprio operato ed in particolare ritiene che la natura accessoria delle operazioni di finanziamento risulti sconfessata dall’elevato volume d’affari ad esse riconducibili, che giustificherebbe la qualifica di “attività propria” posta in essere dalla società a nulla rilevando la destinazione dei beni e servizi acquistati per operazioni a valle imponibili. Le motivazioni dell’Agenzia vengono condivise dal Giudice di primo grado secondo il quale solamente laddove l’ammontare di tali operazioni esenti, in rapporto al volume d’affari, risulti essere marginale, le operazioni potranno considerarsi strumentali o accessorie all’attività dell’impresa. La società, nell’appello alla Commissione Tributaria Regionale ribadisce gli argomenti difensivi già espressi in primo grado insistendo sugli effetti distorsivi causati dalla decisione dell’Ufficio di determinare l’ammontare detraibile con il metodo del pro-rata matematico, previsto dall’art. 19 comma 5 D.P.R. 633/1972, facendo presente che il diverso metodo del pro-rata fisico di cui all’art. 19, comma 4, dello stesso decreto, è basato invece su di una valutazione fisica e cioè effettiva della quota di acquisto di un bene o di un servizio destinato ad una attività imponibile. A parere della società, il Legislatore nell’ammettere la limitazione al diritto di detrazione, senza operare alcuna distinzione tra i beni e servizi acquistati a seconda del loro effettivo utilizzo, esclusivo o promiscuo in operazioni a valle imponibili o esenti, ha mal recepito la Direttiva 2006/112/CE che circoscrive l’ambito applicativo del pro-rata ai soli casi in cui l’uso dei beni e servizi sia misto, ovvero vengano utilizzati da un soggetto passivo per effettuare nel contempo operazioni in parte imponibili ed in parte esenti. L’Ufficio ribadisce quanto già dedotto in primo grado, evidenziando che l’attività di finanziamento svolta dalla società “non possa essere qualificata come attività accessoria” in quanto il suo effettivo svolgimento genera una incidenza percentuale di notevole importo sul volume d’ affari complessivo della società. Il Giudice del gravame, rilevata la rilevanza e la pertinenza della questione interpretativa prospettata nel giudizio e la conseguente necessità della pronuncia della Corte di Giustizia sulla compatibilità della legge nazionale con il diritto comunitario – relativa alla conformità del metodo del pro-rata


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matematico al diritto comunitario che non prevede un criterio fondato sulla destinazione effettiva degli acquisti, nonché la individuazione delle operazioni accessorie – decide di rimettere la questione alla Corte di Giustizia. 2. Principi generali. – Nel caso di utilizzo dei beni e servizi nello svolgimento di un’impresa, di un’arte, di una professione, la normativa nazionale attribuisce il diritto alla detrazione dell’Iva sugli acquisti prevedendo dei limiti all’esercizio del diritto alla detrazione in particolare per le operazioni esenti. Se un soggetto realizza solamente operazioni imponibili, può portare integralmente in detrazione l’Iva relativa ai beni e agli acquisti effettuati; viceversa se pone in essere, sistematicamente, solo operazioni esenti, non può esercitare tale diritto (1). Qualora il soggetto passivo eserciti congiuntamente sia attività che danno luogo ad operazioni con diritto alla detrazione sia attività relative ad operazioni esenti, il diritto alla detrazione deve essere esercitato in misura proporzionale alla prima categoria di operazioni, in base al disposto dell’art. 19, comma 5 D.P.R. 633/1972 e secondo una percentuale di detraibilità calcolata secondo i criteri stabiliti dal successivo art. 19-bis (2). Le disposizioni di quest’ultimo articolo fissano le modalità ed i criteri da seguire per il calcolo di detta percentuale di detrazione che è determinata in base al rapporto tra l’ammontare delle operazioni che danno diritto a detrazione effettuate nell’anno e lo stesso ammontare aumentato delle operazioni esenti effettuate nell’anno medesimo. Da tale calcolo sono escluse talune operazioni esenti indicate ai numeri da 1) a 9) dell’art 10 dello stesso decreto, quando non formano oggetto dell’attività propria del soggetto passivo o siano accessorie alle operazioni imponibili (3), quali, ad esempio, per quanto qui interessa, le operazioni di finanziamento, ferma restando la indetraibilità dell’imposta relativa ai beni e servizi utilizzati esclusivamente per effettuare queste ultime operazioni. La formulazione nor-

(1) M. Giorgi, Immobili abitativi con Iva detratta ante 2006 cessioni esenti successive e rettifica della detrazione, in D.T., 2008, 124, afferma che il principio di imputazione specifica contenuto nell’art. 19, comma 2, D.P.R. n. 633/1972, recepisce in modo rovesciato, la norma comunitaria, laddove prevede che il diritto alla detrazione non spetta per i beni e servizi impiegati per effettuare operazioni esenti o comunque non soggette; secondo tale principio l’imposta detraibile deve essere determinata analiticamente in base all’impiego, anche prospettico, dei beni e dei servizi, cui l’imposta a monte si riferisce, per l’effettuazione di operazioni soggette all’imposta o equiparate (2) Sul punto si veda P. Centore, Codice Iva nazionale e comunitaria, III ed., 2015, 789. (3) Cfr. Circolare n. 328/E/1997.


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mativa degli artt. 19, comma 5 e 19 bis, conseguente alle modifiche apportate dal D.lgs. 313/1997, nel recepire il contenuto della Direttiva n. 2006/112/ CE (4) prevede pertanto che, nei casi in cui un soggetto passivo effettui nel contempo operazioni che danno diritto alla detrazione ed operazioni che non conferiscono tale diritto, ai fini dell’individuazione dell’importo detraibile non si faccia riferimento all’utilizzazione esclusiva o promiscua di ciascun bene e servizio, ma trovi applicazione il pro-rata, in base al quale l’ammontare dell’imposta detraibile è determinato moltiplicando la percentuale di detrazione per il totale dell’Iva sugli acquisti. Ai fini del calcolo del pro-rata, è prevista la determinazione della percentuale di detraibilità in luogo della percentuale di indetraibilità stabilita dalla precedente disciplina. Infatti la previgente formulazione dell’art. 19, comma 3, disciplinava il pro-rata come criterio di determinazione dell’imposta indetraibile. In particolare la citata disposizione prevedeva che se il contribuente avesse effettuato anche operazioni esenti ai sensi dell’articolo 10, la detrazione veniva ridotta della percentuale corrispondente al rapporto tra l’ammontare delle operazioni esenti effettuate nell’anno e il volume di affari dell’anno stesso (5). Inoltre la previgente disposizione faceva riferimento alla «effettuazione di operazioni esenti», mentre in base alla vigente formulazione il pro-rata si applica se il soggetto passivo esercita «sia attività che danno luogo ad operazioni che conferiscono il diritto alla detrazione sia attività che danno luogo ad operazioni esenti» (6). Il riferimento alle attività che danno luogo ad operazioni esenti, esclude la rilevanza, ai fini dell’applicabilità della regola del pro-rata, dell’ipotesi in cui il soggetto passivo effettui operazioni solamente in via occasionale e senza sistematicità. Dunque, l’occasionale effettuazione di operazioni esenti da parte di un soggetto passivo che esercita un’attività che da luogo ad operazioni che conferiscono il diritto alla detrazione non determina l’applicazione del pro-rata (7)

(4) La Direttiva n. 2006/112/CE, per ragioni di chiarezza e di razionalizzazione ha proceduto alla rifusione delle disposizioni di cui alla direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977. (5) P. Centore, Limiti oggettivi e soggettivi del diritto alla detrazione IVA, in G.T., 1996, 32. (6) P. Centore, Codice Iva nazionale, cit., 790. (7) Il riferimento “all’esercizio di attività” è stato inserito a seguito di una specifica proposta di una apposita Commissione parlamentare consultiva, il cui parere è stato approvato


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ed in tal caso sarà applicabile la detrazione secondo il criterio dell’utilizzazione dei beni e servizi (8) di cui all’art. 19, comma 4. Diversamente se le operazioni esenti sono poste in essere con sistematicità e continuità, unitamente ad operazioni con diritto alla detrazione, ne consegue l’applicazione del pro-rata (9). Come è stato osservato (10) l’aver subordinato l’applicazione del metodo del pro-rata allo svolgimento di attività che danno luogo ad operazioni esenti, anziché alla semplice effettuazione di operazioni esenti introduce nel sistema della detrazione un elemento di grave incertezza, in quanto potrebbe spesso risultare dubbio stabilire quando l’effettuazione di più operazioni esenti possa qualificarsi quale vera e propria “attività che dà luogo ad operazioni esenti”. È stato pure affermato che il riferimento all’“esercizio di attività” anziché all’ “effettuazione di operazioni”, crea ulteriori incertezze, a causa del mancato coordinamento con altre disposizione relative alla disciplina del pro-rata (11).

nel luglio del 1997, la quale ha rilevato l’opportunità di applicare il pro-rata ad operazioni riconducibili all’attività caratteristica del soggetto di imposta, di modo da evitare l’applicazione del pro-rata anche a chi effettui delle operazioni imponibili e solo sporadicamente operazioni esenti e che non rientrino nella propria attività ed in tale ultima fattispecie applicare la detrazione secondo i criterio dell’utilizzazione. (8) L. Salvini, La detrazione dell’Iva nella sesta direttiva, in Studi in onore di Victor Uckmar, Padova, 1997, 1074. (9) E. Fazzini, La “riforma dell’Iva”, in Il Fisco, 1998, 9303, l’occasionale effettuazione di operazioni esenti da parte di un soggetto passivo che esercita un’attività imponibile non determina l’applicazione del pro-rata ma del criterio generale della specifica utilizzazione dei beni e servizi acquistati e conseguentemente l’assoluta indetraibilità del tributo afferente beni e servizi eventualmente utilizzati esclusivamente in operazioni esenti. (10) D. Stevanato, La detrazione Iva a seguito del D.lgs. n. 313/1997, in Riv. dir. trib., 1998, I, 963. (11) A. Comelli, Iva comunitaria e Iva nazionale, 2000, p. 723, sostiene che nell’ipotesi di parziale utilizzo dei beni e dei servizi acquistati sia per effettuare operazioni esenti sia per operazioni che conferiscono il diritto alla detrazione dell’imposta, quando siano assenti i presupposti che legittimano l’applicazione del pro-rata sussiste una lacuna normativa poiché il disposto dell’art. 19 comma 4 limita il diritto alla detrazione per i beni e servizi in parte utilizzati per operazioni non soggetti all’imposta , ovvero per finalità private o comunque estranee all’impresa arte e professione, prescindendo dall’utilizzo parziale per l’effettuazione di operazioni esenti. Il mancato coordinamento è ravvisabile anche nell’art. 19 bis comma 1, che attribuisce rilevanza alle operazione che danno diritto alla detrazione ovvero a singole operazioni esenti, e non fa riferimento alle operazioni cui è connesso il diritto alla detrazione oppure alle operazioni esenti, purchè effettuate sistematicamente nell’ambito di una attività. Problematico è infine il collegamento tra le regole del pro-rata ed il principio d indetraibilità analitica.


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3. Il pro-rata tra diritto interno e diritto comunitario. – In virtù dell’art. 168 della Direttiva 2006/168/CE, quando un soggetto passivo acquista beni e servizi per la realizzazione di operazioni soggette ad imposta a valle, ha diritto di detrarre l’Iva che ha gravata l’acquisto di tali beni e servizi (12). Tuttavia nel caso in cui un soggetto effettua degli acquisiti ad uso promiscuo, la detrazione è ammessa soltanto per la quota parte dell’Iva proporzionale all’importo relativo alla categoria di operazioni che danno diritto alla detrazione, ai sensi dell’art. 173 della Direttiva. La Corte di Giustizia (13) ha statuito che «l’articolo 17, paragrafo 5, della Sesta Direttiva (14) stabilisce il regime applicabile al diritto a detrazione dell’IVA, nel caso in cui quest’ultima si riferisca ad operazioni a monte utilizzate dal soggetto passivo «sia per operazioni che danno diritto a [detrazione] di cui ai paragrafi 2 e 3, sia per operazioni che non conferiscono tale diritto», limitando il diritto a detrazione alla parte dell’IVA proporzionale all’importo relativo alle operazioni del primo tipo. Da tale disposizione risulta che un soggetto passivo, se usa beni e servizi per effettuare nel contempo operazioni che danno diritto a detrazione e operazioni che non conferiscono tale diritto, può unicamente detrarre la parte dell’IVA proporzionale all’importo relativo alle operazioni del primo tipo». Ne risulta che il regime di detrazione previsto dall’articolo 173 della Direttiva riguarda unicamente i casi in cui i beni e servizi siano utilizzati da un soggetto passivo per effettuare nel contempo operazioni che danno diritto a detrazione e operazioni che non conferiscono tale diritto, vale a dire beni e servizi il cui uso è misto, ferma la possibilità per gli Stati membri di utilizzare uno dei metodi di detrazione previsti dall’articolo 173 paragrafo 2. La Direttiva consente infatti agli Stati membri di optare per uno degli altri metodi elencati nel secondo paragrafo, nel rispetto dei principi su cui si fonda il sistema comune Iva ed in particolare quelli di neutralità fiscale e proporzionalità (15), offrendo agli Stati l’esercizio di una facoltà che deve

(12) In ordine alla spettanza del diritto alla detrazione si veda A. Albano, La soggettività passiva Iva delle società holding e l’accesso al regime Iva di gruppo nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Riv. di Dir. Trib., 2015, 90. (13) Corte di Giustizia C‑16/00, 27 settembre 2001, Cibo Participations. (14) L’art 17, paragrafo 5, Direttiva 77/388/CEE, poi trasfuso nell’art 173 Direttiva n. 2006/112/CE cfr. nota 2. (15) Corte di Giustizia C-511/10, BLC Baumarkt GmbH & Co. KG,Corte di Giustizia, C-496/11 del 6 settembre 2012, Portugal Telecom SGPS SA; Corte di Giustizia cause riunite


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sempre essere subordinata alla soddisfazione di due condizioni cumulative. In primo luogo il metodo di calcolo alternativo non deve assurgere a metodo derogatorio generale a quello della cifra di affari, ed in secondo luogo tale metodo deve garantire la determinazione della portata del diritto a detrazione dell’Iva assolta a monte, in modo più preciso di quello risultante dall’applicazione del metodo fondato sul fatturato (16). Queste due condizioni concretizzano il rispetto della finalità, degli obiettivi e dei principi della Sesta Direttiva, in quanto permettono di «garantire il rispetto del principio di neutralità e di conseguire una maggiore precisione nel calcolo della portata del diritto alla detrazione, ogni volta che ciò è giustificato, senza snaturare la struttura di fondo del regime del calcolo di detrazione Iva che si basa sulla priorità di principio accordata al criterio di ripartizione secondo la cifra di affari» (17). Per quanto concerne la normativa interna, come già osservato, questa prevede l’applicazione della percentuale di detraibilità su tutta l’imposta afferente gli acquisti, indipendentemente dall’utilizzo di beni e servizi acquistati per l’effettuazione di operazioni esenti ed indipendentemente dal fatto che tale utilizzo sia esclusivo o promiscuo (18). Sebbene l’applicazione della regola del pro-rata a tutti gli acquisti anziché ai soli acquisti utilizzati promiscuamente potrebbe giustificarsi con intenti di semplificazione, giacché evita di dover ripartire gli acquisti nelle tre destinazioni (operazioni imponibili, esenti, oppure promiscue) (19), l’applicazione indiscriminata dell’Iva a tutti gli acquisti crea degli effetti distorsivi a causa del carattere forfettario di tale regola e si pone in contrasto con gli artt. 173, 174 e 175 della Direttiva 2006/112.

C-108/14 e C-109/14 del 16 luglio 2015 Beteiligungsgesellschaft Larentia + Minerva mbH & Co. KG, che specifica che la determinazione dei criteri di ripartizione adottati dagli Stati membri, deve tener conto dello scopo e dell’impianto sistematico della Sesta direttiva, circostanza che spetta ai giudici nazionali verificare. (16) Conclusioni dell’Avvocato Generale V. Cruz, C‑511/10, BLC Baumarkt GmbH & Co. KG il quale afferma che la flessibilità della norma , messa a disposizione degli Stati membri può essere giustificata solo se le misure a suo favore consentono di raggiungere lo scopo perseguito dall’Unione che consiste nella precisione del calcolo della detrazione su cui il soggetto passivo vanta un diritto legittimo e nella garanzia di neutralità come principio informatore dell’imposta in oggetto. (17) Così nelle conclusioni dell’Avvocato Generale P. Mengozzi, presentate il 25.11.2015, causa c- 332/14 Wolfgang und Dr WilfriedRey Grundstucksgemeinschaft GbR. (18) L. Salvini, La detrazione dell’Iva, cit., 1073 (19) N. Forte e F. Costanzo, Il riordino delle detrazioni Iva secondo le regole della VI Direttiva UE, in Il fisco, 1997, 11183.


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Pertanto le disposizioni interne in materia di detrazione dell’Iva, non parrebbero recepire fedelmente la disciplina comunitaria sotto diversi profili, tra i quali per l’appunto quello relativo al criterio del pro-rata del quale prevede un’applicazione eccessivamente ampia. Nella normativa nazionale, la regola del pro-rata ha un uso ben più esteso rispetto a quello comunitario, poiché la percentuale di detrazione si applica anche ad acquisti di beni e servizi utilizzati esclusivamente in operazioni che danno diritto alla integrale detrazione e ad acquisti di beni e servizi utilizzati esclusivamente in operazioni che non danno diritto alla detrazione (20). La normativa comunitaria specifica altresì che i beni e servizi utilizzati dal soggetto passivo unicamente per effettuare operazioni che danno diritto a detrazione non ricadono nella sfera di applicazione dell’articolo 173 della Direttiva, ma sono ricompresi, quanto al regime di detrazione, nell’articolo 168. Pertanto, nell’ipotesi in cui i beni o i servizi acquistati a monte debbano essere considerati dotati, complessivamente, di un nesso diretto e immediato con operazioni a valle che danno diritto a detrazione, il soggetto passivo potrebbe legittimamente, ai sensi dell’articolo 168 della Direttiva, procedere alla detrazione integrale dell’Iva applicata all’acquisto a monte dei servizi oggetto della causa principale. La Corte di Giustizia in una recente sentenza (21) ha ammesso il diritto a detrazione dell’Iva «a beneficio del soggetto passivo anche qualora non possa essere ricostruito un nesso immediato e diretto tra una specifica operazione a monte e una o più operazioni a valle che danno diritto alla detrazione, quando i costi sostenuti fanno parte delle spese generali del soggetto passivo e rappresentano, in quanto tali, elementi costitutivi del prezzo dei prodotti o dei servizi che esso fornisce. Costi di tal genere presentano infatti un nesso immediato e diretto con il complesso delle attività economiche del soggetto passivo».

(20) In tal senso P. Maspes e F. Spaziante, La fine dell’eternità: gli ultimi giorni del prorata generale?, in Fisco, 2016, 834. (21) La Corte di Giustizia, C-126/14 del 22 ottobre 2015, Seveda UAB, chiarisce che l’art. 168 della Direttiva 2006/112/CE deve essere interpretato nel senso di conferire, in circostanze come quelle del procedimento principale, a un soggetto passivo, il diritto di detrarre l’imposta sul valore aggiunto assolta a monte per l’acquisto o per la fabbricazione di beni d’investimento intesi a un’attività economica progettata, di turismo rurale o ricreativo, i quali siano direttamente destinati all’utilizzo gratuito da parte del pubblico, ma possano consentire la realizzazione di operazioni soggette ad imposta, se sussiste un nesso diretto ed immediato tra le spese connesse alle operazioni a monte e una o più operazioni a valle che danno diritto a detrazione ovvero con il complesso delle attività economiche del soggetto passivo, ciò che spetta al giudice del rinvio verificare sulla base di elementi oggettivi.


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4. Le operazioni accessorie. – Il riferimento contenuto nella sentenza in esame alle operazioni che non formano oggetto dell’attività propria del soggetto passivo o che sono accessorie ad altre operazioni imponibili di cui non si tiene conto per il calcolo della percentuale di detrazione secondo quanto stabilito dall’art. 19 bis, comma 2, necessita di una puntualizzazione con riferimento alla normativa nazionale e comunitaria che le disciplina. L’art 174 paragrafo 2 della Direttiva dispone che in deroga alle disposizioni del paragrafo 1, per il calcolo del pro-rata di deduzione, non si tiene conto dell’importo della cifra d’affari relativa alle cessioni di beni d’investimento che il soggetto passivo ha utilizzato nella sua impresa. Non si tiene neppure conto dell’importo della cifra d’affari relativa alle operazioni accessorie, immobiliari o finanziarie o dell’importo del volume d’affari relativo alle operazioni di cui all’articolo 135, paragrafo 1, lettere da b) a g), quando si tratta di operazioni accessorie. La non inclusione di alcune operazioni accessorie nel denominatore della frazione utilizzata per il calcolo del pro-rata di deduzione serve a neutralizzare gli effetti negativi di tale conseguenza nella determinazione del calcolo per il soggetto passivo, con il fine di evitare che queste operazioni lo alterino e di assicurare, in tal modo, il conseguimento dell’obiettivo di neutralità garantito dal sistema comune Iva (22). La Corte di Giustizia ha enucleato criteri in base ai quali qualificare un’operazione come accessoria, precisando tuttavia che non hanno valore in senso assoluto. Per esempio, in riferimento al valore comparativo delle varie cessioni e prestazioni la giurisprudenza comunitaria ha affermato che la prevalenza di un’operazione rispetto all’altra rappresenta solamente un elemento di riferimento e non un valore valido in assoluto per individuarne la caratteristica dell’accessorietà, essendo necessario verificare anche l’importanza di siffatta operazione in rapporto all’oggetto principale della società (23). Sullo specifico punto la Corte di Giustizia ha affermato (24) che le

(22) Corte di Giustizia C- 98/07 del 6 marzo 2008, Nordania Finans A/S, secondo la quale la non inclusione, prevista dall’art. 19 della sesta direttiva, delle operazioni accessorie finanziarie nel denominatore della frazione usata per il calcolo del prorata serve ad assicurare il conseguimento dell’obiettivo della perfetta neutralità garantita dal sistema comune IVA. (23) P. Centore, Codice Iva nazionale, cit., 722. (24) Corte di Giustizia C-77 del 29 aprile 2004, Empresa de Desenvolvimento Mineiro SGPS SA (EDM) fa riferimento all’art. 19 n. 2 seconda frase della sesta direttiva, oggi art. 174


Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

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«operazioni devono essere considerate come operazioni accessorie ai sensi dell’art. 19, n. 2, seconda frase, della sesta direttiva, laddove implichino un uso estremamente limitato di beni o di servizi per i quali l’Iva è dovuta; sebbene l’entità dei redditi provenienti dalle operazioni finanziarie ricomprese nella sfera di applicazione della sesta direttiva possa costituire un indizio nel senso che tali operazioni non debbano essere considerate accessorie ai sensi della detta disposizione, la circostanza che redditi superiori a quelli prodotti dall’attività indicata come principale dall’impresa interessata provengano da tali operazioni non può, di per sé, escludere la qualificazione di queste ultime quali «operazioni accessorie». L’entità del volume di affari delle operazioni finanziarie può costituire solamente un indizio per non ritenere che tali operazioni debbano essere considerate accessorie ai sensi dell’art. 174 paragrafo 2; la circostanza che da queste operazioni derivi un volume di affari superiore a quello prodotto dall’attività principale dall’impresa non esclude ex se la qualificazione di queste ultime quali «operazioni accessorie» ai sensi della disposizione medesima. Le modalità del calcolo della percentuale previste dalla normativa interna sembrano essere soltanto parzialmente conformi a quelle previste all’art. 174 della Direttiva, perchè soltanto alcune delle esclusioni previste dalla norma interna trovano riscontro in quella comunitaria e inoltre perchè la norma interna esclude dal calcolo del pro-rata soltanto alcune delle operazioni che sono escluse dalla normativa comunitaria (25). Pertanto alla luce della giurisprudenza comunitaria, che non considera criterio determinante per la qualificazione di una operazione accessoria il volume di affari da queste generato, non sembra corretto il metodo utilizzato nella fattispecie dall’Agenzia per la qualificazione della non accessorietà della stessa e conseguente inclusione nel calcolo del pro-rata. Ed invero includendo dette operazioni nel calcolo della percentuale di detrazione si va a falsare il reale significato del pro-rata nella misura in cui dette operazioni non riflettono l’attività principale del soggetto passivo e conseguentemente si prescinde dalla destinazione dei beni e servizi acquistati in operazioni a valle imponibili. La Corte di Giustizia dovrà quindi pronunciare e valutare se, ai fini dell’esercizio del diritto di detrazione, i criteri a cui è improntata la legislazione

paragrafo 2 della direttiva 2006/112 Ce. (25) A. Comelli, Iva comunitaria, cit., 720.


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Parte seconda

fiscale nazionale, che impone il riferimento alla composizione del volume di affari dell’operatore, anche per l’individuazione delle operazioni cosiddette accessorie, senza prevedere un metodo di calcolo fondato sulla composizione e destinazione effettiva degli acquisti, sia compatibile con la normativa comunitaria (26).

Maria Teresa Montemitro

(26) In tal senso P. Maspes e F. Spaziante, La fine dell’eternità, cit., secondo i quali la normativa nazionale in materia di detrazione dell’IVA appare farraginosa e non pienamente rispondente alla disciplina comunitaria, in particolare per una troppo generalizzata applicazione del criterio del pro-rata, criterio forfettario e dunque per definizione impreciso.


Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli

La criminalizzazione del sostituto d’imposta nel rinnovato assetto del diritto penale tributario Sommario: 1. Una riforma low profile. – 2. Il sostituto d’imposta nuovo obiettivo della disciplina penale tributaria? – 3. Le modifiche apportate dal D.lgs. 158/2015 in tema di condotte del sostituto d’imposta. – 4. In generale: una critica della (opinabile) ratio sottesa alla criminalizzazione del sostituto d’imposta nel contesto del D.lgs. 74/2000. 5. In particolare: una critica della formulazione dei delitti del sostituto d’imposta nella configurazione ad essi attribuita dal D.lgs. 158/2015. – 6. Conclusioni. Le recenti modifiche apportate dal D.lgs. 158/2015 al regime penale tributario del sostituto d’imposta destano più di un dubbio. In termini generali, infatti, le stesse non appaiono coerenti con i principi sottesi al D.lgs. 74/2000 che ravvisa nelle condotte fraudolente il focus dell’assetto punitivo ma anche con i criteri direttivi fissati dalla legge delega 23/2014. Più specificamente poi la formulazione del nuovo delitto di omessa dichiarazione del sostituto d’imposta e quella del rinnovato delitto di omesso versamento di ritenute appaiono imprecise, dando così corpo a talune non trascurabili perplessità interpretative circa la coerenza sistematica dell’intervento operato.

The recent modifications implemented by the Legislative Decree no 158/2015 with regard to the criminal regime concerning the withholding agent pose several doubts. First of all they do not seem in line with the principles of the Legislative Decree no. 74/2000 according to which the fraudulent activities must be the real focus of the criminal tax system. In addition the mentioned innovations are not fully compliant with Law no. 23/2014 (the legal source of Legislative Decree no 158/2015). More in details the new crime of omitted tax return of the withholding agent and the redrafted crime od omitted payment of withholding taxes appear extremely unclear and therefore they cause several doubts with reference to the coherence of this legislative intervention.

1. Una riforma low profile. – Il recente D.lgs. 158/2015 ha modificato (anche) la disciplina penale in materia di imposte dirette ed Iva in attuazione


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dei criteri direttivi di cui alla legge delega n. 23 del 2014 (1). A fronte di taluni miglioramenti pure introdotti non mancano timidezze se non (incoerenti) inasprimenti punitivi. Ne emerge una riforma che ha ben poco di strategico e si colloca in una prospettiva di evidente conservazione dell’assetto esistente conformato da interventi episodici che hanno opacizzato la ratio originaria del D.lgs. 74/2000. Invero, quella introdotta con il D.lgs. 158/2015 è una soluzione che non era affatto scontata in termini normativi (2) e che, ragionevolmente, lascia il sistema in mezzo al guado vale a dire suscettibile di nuovi interventi di fine tuning in un prossimo futuro; una mera manutenzione allorquando sarebbero forse state necessarie modifiche ispirate ad una maggiore visione. Per diverse ragioni non si è riusciti a fare di più a livello legislativo e, pertanto, il risultato ultimo è abbastanza deludente: pochi colpi di pennello in un ambiente normativo che, sotto il profilo sistematico, non esce né ringiovanito né rinvigorito e finisce perciò per dimostrare - ancora più che in passato (se si eccettuano le apprezzabili modifiche in tema di dichiarazione infedele ed un tendenziale innalzamento generalizzato delle soglie di punibilità) - alcuni limiti strutturali che la prassi applicativa aveva posto in rilievo in modo evidente e la dottrina non aveva mancato di stigmatizzare in più occasioni. 2. Il sostituto d’imposta nuovo obiettivo della disciplina penale tributaria? – In questo contesto formalmente innovato ma in modo abbastanza superficiale si assiste anche ad una rinnovata enfasi punitiva nei confronti della figura del sostituto d’imposta. In proposito, infatti, il D.lgs. 158/2015 si caratterizza per ben due interventi i quali, tuttavia, non solo appaiono (abbastanza) inattesi rispetto ai criteri direttivi contenuti nell’art. 8 della L. 23/2014 ma risultano anche asistematici rispetto a quello che, almeno secondo il disegno sotteso alla riforma attuata con l’introduzione del D.lgs. 74/2000, dovrebbe essere (tuttora) l’obiettivo della disciplina penale tributaria: vale a dire il contrasto alle condotte connotate da tratti di fraudolenza e (congiuntamente) da materialità economica. Un obiettivo da perseguirsi per effetto di un impiego puntuale e non generalizzato della

(1) Per una prima analisi delle modifiche recata dal D.lgs. 158/2015 cfr. Aa.Vv., La riforma dei reati tributari, a cura di C. Nocerino e S. Putinati, Torino, 2015. (2) I criteri direttivi tracciati dall’art. 8 della L. 23/2014, infatti, erano così elastici e poco puntualmente precettivi che un intervento ben più significativo non si sarebbe ragionevolmente posto al di fuori delle indicazioni tracciate dalla Legge delega.


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sanzione criminale, in coerenza con i criteri di extrema ratio e sussidiarietà immanenti alla disciplina penale. Una situazione oggettivamente non riscontrabile negli interventi compiuti dal D.lgs. 158/2015 a presidio degli obblighi sanciti dal titolo III del D.P.R. 600/73. Se c’è, infatti, una figura giuridica che nel contesto della recente riforma vede – ceteris paribus – sensibilmente incrementato la propria esposizione al rischio penale (in controtendenza rispetto al menzionato principio di sussidiarietà) è proprio il sostituto d’imposta. Non che al nostro ordinamento (in passato) fosse sconosciuto un rigoroso apparato repressivo delle violazioni del sostituto d’imposta. Chi abbia avuto esperienza del regime di cui alla L. 516/82 (tutt’altro che esente da criticità per effettività della sanzione ed efficacia generale preventiva), sa perfettamente che la cosiddetta manette agli evasori prevedeva più fattispecie criminose (altamente invasive ma altrettanto inefficienti) che presidiavano i principali obblighi del sostituto d’imposta: dal fondamentale obbligo dichiarativo a quello di versamento a quello di semplice effettuazione delle ritenute alla fonte (seguito dall’omessa corresponsione delle stesse) (3). Questo articolato apparato punitivo (che aveva concorso non poco alla elefantiasi del sistema giudiziario, costretto a gestire, ad esempio, innumerevoli procedimenti penali per omessi versamenti di importi a titolo di ritenuta alla fonte del tutto insignificanti), tuttavia, era stato eliso tout court (e senza rimpianti) dal D.lgs. 74/2000. In un sistema ispirato alla necessità di reprimere la frode fiscale ed incentrato sulla (tendenziale) volontà di contrastare l’artificiosa sottrazione agli obblighi fiscali, la figura del sostituto d’imposta non poteva che divenire recessiva e ciò a prescindere dal rilievo economico delle relative violazioni. Questo assetto originario già sensibilmente inquinato per effetto dell’introduzione nel 2004 (4) del delitto collaterale (rispetto al nucleo fondamentale del D.lgs. 74/2000 rappresentato dai cosiddetti delitti dichiarativi) di cui all’art. 10-bis (rubricato nella sua formulazione originaria omesso versamento

(3) Per una disamina della disciplina penale del sostituto d’imposta nell’assetto della L. 516/82 – e pluribus – cfr. R. Zannotti, I reati previsti dall’art. 2 della L. 7 agosto 1982, in Aa.Vv., Diritto penale tributario, a cura di G. Fiandaca e E. Musco, Milano, 1990, 65 e ss. (4) In tal senso cfr. art. 1, comma 414, della L. 311/2004. Per un’analisi della fattispecie delittuosa – ex multis – cfr. G. Soana, Omesso versamento di ritenute certificate, in Rass. trib., 2005, 98 e ss.; A. Pace, I reati di omesso versamento di ritenute certificate e di indebita compensazione, in Riv. trim. dir. trib. n. 2/2015, 233 e ss.


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di ritenute certificate (5)), risulta ora viepiù incrinato in ragione delle modifiche apportate dal D.lgs. 158/2015. Il tutto, peraltro, senza che di tale vera e propria forzatura (come detto inattesa sulla base dei criteri direttivi di cui alla legge delega) sia lecito individuare un’effettiva esigenza ovvero sia possibile scorgere la razionalità. 3. Le modifiche apportate dal D.lgs. 158/2015 in tema di condotte del sostituto d’imposta. – La recente riforma del diritto punitivo tributario interviene con riguardo alla figura del sostituto d’imposta lungo due direttrici che incidono entrambe sull’elemento oggettivo. In primo luogo viene ampliata la descrizione del fatto tipico del delitto di omessa dichiarazione previsto dall’art. 5 del D.lgs. 74/2000 (6) sancendo quindi, previa introduzione del comma 1-bis, che possa risultare soggetto attivo dell’illecito anche il sostituto d’imposta che ometta la presentazione della relativa dichiarazione annuale allorquando il quantum di ritenute non versate all’Erario sia superiore ad Euro 50.000,00. In seconda istanza, poi, viene ugualmente estesa la descrizione della condotta del delitto omissivo di cui all’art. 10-bis del D.lgs. 74/2000 prevedendo che esso possa essere commesso non soltanto da quel sostituto d’imposta il quale ometta di corrispondere all’Erario ritenute certificate nei confronti dei sostituiti ma anche da colui che, pur non rilasciando alcuna certificazione al riguardo, ometta il prescritto versamento di ritenute alla fonte (ragionevolmente effettuate ancorché la formulazione lessicale della norma incriminatrice non lo specifichi) per un importo superiore ad Euro 150.000,00 alla sola condizione che tali ritenute siano dovute (all’Erario) in base alla relativa dichiarazione. La conclusione è che dalle modifiche apportate del D.lgs. 158/2015 (un intervento che – secondo le prospettazioni della L. 23/2014 e le attese – avrebbe dovuto contrarre l’area del penalmente rilevante) l’esposizione al rischio penale della figura del sostituto d’imposta risulta incrementata in maniera più che proporzionale rispetto alla situazione ex ante. Così che nel volgere di soli tre lustri (ossia dalla riforma introdotta con il D.lgs. 74/2000 che aveva fatto tabula rasa della L. 516/82 e della sua pervasiva vis punitiva) la figura del sostituto d’imposta è transitata da una

(5) Una delle modifiche apportate dal D.lgs. 158/2015 è stata quella di modificare la rubrica di tale fattispecie delittuosa sostituendo all’aggettivo certificate l’attributo dovute. (6) Modifica a cui è funzionale anche l’integrazione della definizione di dichiarazione recata dall’art. 1, comma 1, lettera c) del D.lgs. 74/2000.


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situazione di sostanziale irrilevanza penale ad una in cui è identificata come soggetto attivo di ben due fattispecie criminose – l’omessa dichiarazione e l’omessa corresponsione di ritenute – di cui la seconda ampliata nel proprio spettro oggettivo (ossia nella descrizione del fatto tipico). 4. In generale: una critica della (opinabile) ratio sottesa alla criminalizzazione del sostituto d’imposta nel contesto del D.lgs. 74/2000. – La replica usuale che viene formulata allorquando si critica questa rinnovata enfasi punitiva nei confronti del sostituto d’imposta è quella che pone in rilievo come anche le violazioni degli obblighi previsti dagli art. 23 e ss. del D.P.R. 600/73 possano assumere un rilievo significativo in termini economici; di talché non vi sarebbe ragione (ed anzi risulterebbe asimmetrico) prefigurare un sistema repressivo che ne esclude tout court la criminalizzazione. A bene considerare questa osservazione, apparentemente di buon senso, non coglie nel segno ed evidenzia anzi quello che è il vizio (in larga parte sopravvenuto rispetto all’originaria formulazione del D.lgs. 74/2000 e per certi versi acuito dal D.lgs. 158/2015) immanente all’attuale assetto penale in materia di imposte dirette ed Iva. Come (anche da ultimo) rilevato in dottrina (7), infatti, tale osservazione assume ad esclusivo parametro di meritevolezza della sanzione criminale il carattere numericamente significativo del fatto evasivo; con la conseguenza che – al superamento della soglia di punibilità fissata ex lege – il soggetto attivo diviene de plano (per una sorta di presunzione legale assoluta) un criminale fiscale e come tale destinatario naturale di una reazione di natura penale. In questo genere di ricostruzione interpretativa risulta del tutto carente – o, comunque, assolutamente recessivo – l’apprezzamento della fraudolenza della condotta di colui che è identificato come soggetto attivo del delitto. Il mero quantum di evasione è sufficiente ad integrare il fatto – reato; non è il criminale fiscale che viene perseguito ma (assai più prosaicamente) colui che non versa somme superiori alla soglia di punibilità prescritta ex lege. Se ciò è (e sembra difficile negarlo), nulla quaestio sul fatto che tale dinamica è del tutto estranea, non solo all’impostazione che ha condotto alla riforma a suo tempo realizzata con il D.lgs. 74/2000, ma anche alla ratio sottesa a molti degli altri delitti pure previsti dal medesimo provvedimento normativo; e ne sono prova, a mero titolo esemplificativo, le ipotesi di dichiarazione fraudolenta stricto

(7) Cfr. A. Perrone, La nuova disciplina dei reati tributari: “luci” ed “ombre” di una riforma ancora in cantiere, in Riv. dir. trib., 2015, III, 1-36.


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sensu (disciplinate dagli artt. 2 e 3) ma anche la fattispecie di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 la quale, proprio in ragione della riformulazione operata dal D.lgs. 158/2015, tende a non considerare più come rilevante la cosiddetta evasione interpretativa (indipendentemente dalla sua dimensione quantitativa). In ultima analisi, perciò, mentre la connotazione fraudolenta della condotta costituisce il fil rouge della pressoché totalità delle fattispecie criminose fiscali e, più in generale, lo stesso D.lgs. 74/2000 (8) fu a suo tempo elaborato proprio per contrastare i fenomeni di frode fiscale (in antitesi all’esperienza panpenalizzante della L. 516/82 ed in coerenza con il criterio di extrema ratio che dovrebbe sempre presiedere all’intera materia penale) i delitti del sostituto d’imposta si collocano in una posizione eccentrica rispetto a questa impostazione. Tali figure criminose, infatti, sanzionano condotte che sono considerate lesive solo in ragione di una valutazione quantitativa (vale a dire solo in funzione del quantum oggetto dell’inadempimento dell’obbligo fiscale) e prescindono da ogni apprezzamento di ordine qualitativo (ossia si disinteressano del carattere decettivo e fraudolento della condotta). Il risultato ultimo è che, nell’attuale impostazione configurata dal D.lgs. 158/2015, il sostituto d’imposta (recte la persona fisica che legalmente lo rappresenta) assume il ruolo di soggetto attivo di reati meramente omissivi e sprovvisti di ogni connotazione fraudolenta (è l’inadempimento tout court ad essere criminalizzato solo perché superiore alla soglia di punibilità individuata ex lege). Il che – per quanto detto – non è coerente con quella che è sempre stata propagandata come la ratio essenziale del D.lgs. 74/2000 (la focalizzazione punitiva sui comportamenti fraudolenti) e perciò stesso tende ad ibridarne l’assetto, dando luogo ad un framework sanzionatorio difficilmente riconducibile a sistema. In termini generali, quindi, l’incremento della pressione punitiva sugli inadempimenti del sostituto d’imposta – oltre che privo di originalità (si tratta infatti di un maquillage non del tutto riuscito di fattispecie incriminatrici ben note al nostro ordinamento e addirittura risalenti ad un’esperienza come quella della L. 516/82 giudicata dai più come totalmente fallimentare (9)) – è anche sprovvisto di coerenza. Laddove – in

(8) In tal senso, cfr. E. Musco, Reati tributari in Enciclopedia del diritto – Annali – Volume I, Milano, 2007, 1039 e ss. (9) Sul fallimento della manette agli evasori e sulle istanze riformistiche che condussero all’emanazione del D.lgs. 74/2000, senza pretesa di esaustività, cfr. E. Musco, La riforma del diritto penale tributario, in Rivista della Guardia di Finanza, n. 6/1999; A. Traversi e S. Gennai, I nuovi delitti tributari, Milano, 2000; G. Bellagamba - G. Cariti,


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ossequio alla sussidiarietà – la sanzione criminale dovrebbe colpire solo la frode si criminalizza (anche) il solo inadempimento e lo si fa confidando in un incremento dell’effetto di prevenzione generale il quale, non solo, è smentito dall’esperienza pregressa della manette agli evasori, ma prescinde anche (più o meno scientemente) dall’apprezzare i costi connessi all’instaurazione di un procedimento penale (ed alla celebrazione del successivo processo); e ciò – in maniera tutt’altro che sconosciuta al nostro sistema – in virtù del combinato disposto di una sorta di overconfidence legislativa nelle virtù della sanzione di natura criminale (10) (ed una speculare sottovalutazione della portata afflittiva dell’apparato punitivo amministrativo) e dell’esigenza (in termini di comunicazione sociale) di veicolare l’idea di uno stato di belligeranza istituzionale contro i (grandi) evasori fiscali (11). 5. In particolare: una critica della formulazione dei delitti del sostituto d’imposta nella configurazione ad essi attribuita dal D.lgs. 158/2015. – Peraltro, ove pure ci si voglia limitare alla sola analisi in concreto della configurazione dei delitti del sostituto d’imposta come tracciata dal D.lgs. 158/2015, il giudizio non può di certo essere positivo. E ciò per più motivazioni. L’attuale area della responsabilità penale del sostituto d’imposta è – come detto - delimitata dal nuovo delitto di omessa dichiarazione disciplinato dal comma 1-bis dell’art. 5 del D.lgs. 74/2000, da un lato, e dalla (rinnovata) fattispecie incriminatrice di omesso versamento di ritenute prevista dall’art. 10-bis del medesimo provvedimento, dall’altro lato. Nel primo caso – rievocando il cliché punitivo dell’art. 2 della L. 516/82 – viene sanzionato colui che, pur essendovi obbligato, non adempie l’obbligo di presentazione della dichiarazione del sostituto “quando l’ammontare delle ritenute non versate è superiore ad euro cinquantamila”. La finalità di prevenzione generale

I nuovi reati tributari, Milano, 2000; V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano, 2000; Aa.Vv., Fiscalità d’impresa e reati tributari, a cura di R. Lupi, Milano, 2000; I. Caraccioli, A. Giarda e A. Lanzi, Diritto e procedura penale tributaria, Padova, 2000; M. Di Siena, La nuova disciplina dei reati tributari, Milano, 2000; Aa.Vv., Diritto penale tributario, a cura di E. Musco, Milano, 2002; A. Di Amato e R. Pisano, I reati tributari, Padova, 2002; E. Musco e F. Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2010; A. Lanzi e P. Aldrovandi, Manuale di diritto tributario, Padova, 2011. (10) In tal senso restano sempre valide le considerazioni di E. Musco, L’illusione penalistica, Milano, 2004. (11) Sull’atteggiamento di belligeranza mediatica nei confronti dei grandi evasori cfr. R. Lupi, Evasione – Paradiso ed inferno, Milano, 2008.


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sottesa alla nuova fattispecie incriminatrice è di tutta evidenza e non vale la pena di indugiarvi; in quest’ottica (di palese enfasi afflittiva) stupisce se mai (ma la circostanza dà conto del carattere erratico della riforma in esame) il fatto che la semplice infedeltà dichiarativa permanga ex se irrilevante sotto il profilo criminale. Il punto rilevante sotto il profilo concettuale, infatti, è un altro. Perché il fatto tipico del reato di nuova introduzione possa considerarsi integrato è necessaria una duplice omissione: l’inadempimento rispetto all’obbligo di presentazione della dichiarazione del sostituto coniugato all’omessa corresponsione di ritenute; il che sta a significare che risulta essenziale che il soggetto interessato abbia effettivamente erogato somme astrattamente soggette a ritenuta alla fonte di cui ha omesso il versamento e che, in base alle disposizioni tributarie ratione temporis vigenti, sia obbligato allo specifico adempimento dichiarativo. Il tutto parrebbe autoesplicativo (e forse lo è effettivamente) ma v’è un ulteriore elemento di valutazione. La norma incriminatrice, infatti, prevede quale soglia di punibilità (presupponendo così in modo implicito l’omesso versamento quale elemento integrativo del fatto tipico del delitto de quo) un ammontare di ritenute non versate superiore ad euro cinquantamila. Nel rinviare per relationem alla nozione di ritenute non versate, tuttavia, il comma 1-bis non fa alcun riferimento né alla certificazione né all’effettuazione delle ritenute medesime. Ne consegue che – in base al delitto di nuova introduzione – in caso di inadempimento dichiarativo (e di superamento della prescritta soglia di punibilità per effetto dell’omesso versamento) il sostituto d’imposta parrebbe suscettibile di sanzione criminale, non solo a prescindere dall’avvenuta (o meno) certificazione delle ritenute a beneficio dei sostituiti, ma anche indipendentemente dal fatto che abbia o meno realmente eseguito le ritenute. Ciò che in altri termini sembra assumere rilievo è soltanto l’omessa presentazione della dichiarazione del sostituto e la circostanza che il quantum di ritenute non versate dal soggetto attivo del reato (importo determinato, quindi, da un’ulteriore condotta di non facere) sia superiore alla soglia di punibilità individuata in via normativa. Una formulazione quanto meno peculiare (12) – presumibilmente adottata per attribuire adeguata offensività alla fattispecie incriminatrice e per escludere l’integrazione del delitto in esame in presenza di una corretta apprensione da parte dell’Erario delle

(12) Peraltro non del tutto riproduttiva dell’archetipo normativo più prossimo rappresentato dall’abrogato art. 2, comma 1, della L. 561/82.


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ritenute – ma che è difficile ritenere del tutto soddisfacente. E, infatti, se – per un verso – essa comporta (in modo ragionevole) che il semplice inadempimento dichiarativo non assuma rilievo penale in caso di corretta esecuzione degli obblighi di versamento delle ritenute (13), per altro verso, rischia di attrarre all’ambito applicativo del delitto de quo (non è dato sapere quanto in modo meditato) l’ipotesi in cui le ritenute alla fonte non siano state correttamente versate ma ancora prima non siano state neanche eseguite. L’omesso versamento (a cui deve necessariamente seguire l’omessa dichiarazione), infatti, può avere ad oggetto tanto ritenute effettivamente eseguite dal sostituto d’imposta (il quale, in tal modo, si appropria del quantum di pertinenza dell’Erario trattenuto dall’erogazione pecuniaria effettuata a beneficio del sostituito) quanto ritenute non eseguite (è il caso di pagamenti in astratto idonei a porre capo agli obblighi di cui al titolo III del D.P.R. 600/73 ma che sono effettuati in violazione degli stessi ed a fronte dei quali, quindi, il sostituto d’imposta – prima ancora che quello di versamento – viola l’obbligo di effettuazione della ritenuta non trattenendo alcunché dal quantum corrisposto a beneficio del sostituito). Ora, in entrambi i casi, il sostituto d’imposta è obbligato a versare all’Erario le somme dovute a titolo di ritenute alla fonte e ciò a prescindere dalla circostanza che abbia o non abbia adempiuto al preventivo obbligo di esecuzione delle stesse. In modo del tutto analogo, peraltro, in entrambi i casi il sostituto d’imposta è tenuto alla presentazione della relativa dichiarazione. L’obbligo dichiarativo previsto dall’art. 4 del D.P.R. 322/98 infatti, presuppone che il contribuente individuato in via normativa abbia erogato nel periodo d’imposta di riferimento somme in astratto assoggettate a ritenuta alla fonte ai sensi dell’art. 23 e ss. del D.P.R. 600/73 senza che assuma alcun rilievo la circostanza che egli abbia o meno provveduto ex ante all’esecuzione delle stesse (se del caso rilasciando poi la prescritta certificazione che costituisce un posterius del tutto trascurato nella

(13) Se, infatti, la soglia di punibilità fosse stata commisurata alle ritenute suscettibili di essere dichiarate ma non oggetto di dichiarazione (per effetto dell’inadempimento) ben sarebbe potuto accadere che – a livello di materialità del reato (e, quindi, prescindendo da ogni valutazione in termini di colpevolezza dell’agente) – il fatto delittuoso potesse essere considerato perfetto anche in costanza di un puntuale versamento delle ritenute a beneficio dell’Erario. Il che avrebbe determinato una tipica situazione di carenza di offensività (e, quindi, una situazione di tipicità apparente) non risultando leso il bene giuridico tutelato rappresentato (almeno in parte) dall’interesse dell’Erario alla corretta apprensione delle somme di propria pertinenza.


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dinamica dell’art. 5, comma 1-bis, del D.lgs. 74/2000). Ne deriva che – in base al delitto di recente introduzione – l’omissione della dichiarazione (ovviamente al superamento della relativa soglia di punibilità) parrebbe penalmente sanzionabile tanto nell’ipotesi in cui il sostituto abbia omesso il semplice versamento di ritenute (come tali non riflesse nella dichiarazione omessa) di cui abbia provveduto alla preventiva effettuazione quanto nel caso in cui invece non abbia eseguito tout court le medesime ritenute (si tratta della tipica ipotesi dei cosiddetti versamenti in nero). L’equiparazione punitiva delle due situazioni, tuttavia, risulta poco giustificata; è pur vero, infatti, che la condotta sanzionata appare prima facie la medesima (l’inadempimento dichiarativo coniugato all’omissione del versamento) ma la circostanza che le ritenute non corrisposte in un caso siano indebitamente trattenute da parte del sostituto mentre nell’altro tale illegittima apprensione non si verifica, fa sì che il primo comportamento presenti una connotazione fraudolenta non ravvisabile nella seconda condotta (14). Il che, in termini sistematici, costituisce un vulnus alla razionalità della fattispecie incriminatrice la quale – sanzionando in modo identico comportamenti qualitativamente differenti – pone sullo stesso piano (punitivo) condotte fraudolente ed altre che invece non lo sono. Un’uniformità sanzionatoria che non trova apparente giustificazione e che, ad un livello interpretativo più elevato, contraddice quello che come evidenziato in principio dovrebbe pur sempre rappresentare l’obiettivo repressivo dell’intero corpus del D.lgs. 74/2000, ossia gli episodi di fraudolenta criminalità fiscale. V’è poi un ulteriore punctum dolens nella struttura del delitto di omessa dichiarazione del sostituto configurato dal D.lgs. 158/2015 che attiene alla all’elemento psicologico del reato. Nel delitto di nuova fattura, infatti, non risulta riprodotta la formula secondo cui il soggetto attivo del reato deve agire

(14) Né sembra decisiva in proposito la considerazione tale per cui il primo genere di condotta (contrariamente al secondo) – oltre che nel delitto di omessa dichiarazione – troverebbe un ulteriore presidio penalistico nel delitto disciplinato dal successivo art. 10-bis del D.lgs. 74/2000. È intuitivo, infatti, che nell’ipotesi (tutt’altro che inusuale nella prassi) in cui il sostituto, non solo, non presenti la specifica dichiarazione ma ometta anche di certificare le ritenute pur ritualmente eseguite nei confronti dei sostituiti, il comportamento non integrerebbe (anche) il delitto in tema di versamento. Residuerebbe, quindi, la sola fattispecie di omessa dichiarazione la quale – tuttavia – come detto, parrebbe applicabile anche alla più banale situazione in cui il sostituto, in luogo di appropriarsi delle ritenute eseguite in occasione delle erogazioni pecuniarie in favore dei sostituiti, si limiti a corrispondere somme astrattamente soggette a ritenuta alla fonte di cui tuttavia omette tout court l’esecuzione sottraendosi poi anche al successivo obbligo di dichiarazione.


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al “(…) fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto”. Parrebbe quindi – salvo prefigurare un lapsus calami da parte di un legislatore disattento – che l’omessa dichiarazione del sostituto d’imposta sia punibile a titolo di dolo generico. Se così è, tuttavia, la circostanza non può che suscitare notevoli perplessità tenuto conto del fatto che l’archetipo di riferimento (rappresentato, con tutta evidenza, dal delitto di omessa dichiarazione di cui al precedente comma 1) criminalizza l’agente ma solo a condizione che agisca animato da dolo specifico di evasione. Quale possa essere (ove effettivamente vi sia) la ratio sottesa ad una così asimmetrica ricostruzione dell’elemento psicologico delle due fattispecie omissive (omessa dichiarazione ai fini IVA ed imposte dirette, da un lato, ed omessa dichiarazione del sostituto, dall’altro lato) è difficile dire. Non v’è apparente motivo, infatti, perché in un caso (per le imposte di propria pertinenza) l’agente sia sanzionato solo a titolo di dolo specifico laddove, per converso, il sostituto debba essere punito (solo) a titolo generico. Anche in parte qua la sensazione che si ritrae dall’analisi dell’art. 5, comma 1-bis, è tutt’altro che positiva: l’intervento di un legislatore senz’altro poco ispirato se non talvolta disattento. Ma se il delitto di omessa dichiarazione del sostituto d’imposta mostra – per quanto detto – più di una défaillance, un giudizio ugualmente negativo va formulato con riguardo alla revisione del delitto di omesso versamento di cui all’art. 10-bis del D.lgs. 74/2000. Ad onore del vero, questa fattispecie delittuosa (peraltro anch’essa sanzionata a titolo di dolo generico laddove – come noto – la pressoché totalità dei delitti contenuti nel D.lgs. 74/2000 si contraddistingue per una definizione dell’elemento psicologico in termini di dolo specifico) – sin dal suo innesto nel corpus normativo di riferimento – è parsa decontestualizzata rispetto al contesto e divergente dai principi ispiratori della riforma del 2000, finendo per criminalizzare condotte omissive non solo sprovviste ex se di decettività ma facilmente intercettabili da parte dell’Amministrazione finanziaria. In dottrina, quindi, si auspicava che – in sede di attuazione della L. 23/2014 – lo specifico delitto venisse eliminato tout court reintroducendo ordine nel sistema. In antitesi ad ogni aspettativa, invece, il fatto tipico del delitto di cui all’art. 10bis del D.lgs. 74/2000 è stato addirittura ampliato. Nella rinnovata formulazione, infatti, il reato è integrabile – al superamento della prescritta soglia di punibilità (incrementata a 150 mila Euro) – anche solo per effetto dell’omesso versamento da parte del sostituto d’imposta di ritenute dovute sulla base della propria dichiarazione (ferma restando la criminalizzazione dell’omessa corresponsione di ritenute oggetto di certificazione a beneficio dei sostituiti). La modifica ha una propria giustificazione estremamente


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pragmatica che è ben nota agli studiosi della materia. Nel vigore della previgente formulazione, infatti, si è affermato a livello giurisprudenziale (15) il principio secondo cui la prova del rilascio ai sostituiti della certificazione delle ritenute eseguite non possa essere rappresentato dalla sola indicazione della specifica circostanza nella dichiarazione del sostituto d’imposta. La rinnovata descrizione del fatto tipico interviene proprio al riguardo, affrancando gli organi dell’accusa dalla necessità di dimostrare in maniera puntuale il fatto positivo della certificazione da parte del sostituto delle ritenute non regolarmente corrisposte. Il nuovo art. 10-bis del D.lgs. 74/2000 (come tale innovato anche nella rubrica), infatti, estende l’oggetto del comportamento omissivo riferendolo non più alle sole ritenute certificate ma anche a quelle dovute in base alla dichiarazione, lasciando così intendere come sia sufficiente che l’inadempimento risulti anche solo dalla dichiarazione del sostituto e facendo così regredire il profilo certificativo delle ritenute ad una sorta di stato d’irrilevanza sistematica. In ultima analisi (e senza remore interpretative) si è in presenza di una modifica legislativa introdotta al chiaro fine di agevolare l’onere accusatorio e facilitare la prova dell’integrazione del delitto; il tutto superando con impeto normativo una giurisprudenza che, evidentemente, doveva essere apparsa scomoda nell’apprezzamento rigoroso del requisito della certificazione delle ritenute. Già per quanto appena detto, perciò, vi sarebbe motivo per non essere particolarmente soddisfatti della riformulazione operata in parte qua dal D.lgs. 158/2015 la quale più che attuativa della L. 23/2014 parrebbe contraddirne i criteri direttivi che postulavano (ancorché non ex professo) un ridimensionamento (e non un’amplificazione) dell’area del penalmente rilevante. Anche a prescindere da questa critica di sistema, tuttavia, la criminalizzazione dell’omesso versamento delle ritenute dovute in base alla dichiarazione mostra più di un difetto in termini di coerenza giuridica. E, infatti, se il senso della modifica appare chiaro nel risultato pragmatico perseguito, analoga chiarezza non è ravvisabile ove se ne analizzi il ruolo nel contesto della fattispecie. L’estensione dettata dal rinnovato art. 10-bis del D.lgs. 74/2000, infatti, può intendersi in due accezioni. La prima è quella di prefigurare l’indicazione in dichiarazione delle ritenute alla stregua di una sorta di presunzione legale di rilascio della certificazione da parte del sostituto; la seconda (prima facie maggiormente convincente), invece, presuppone una più radicale modifica strutturale del fatto tipico del delitto de quo tale per cui

(15)

In tal senso, ex multis, cfr. Cass., Sez. terza, sentenza n. 10475 del 9 ottobre 2014.


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il delitto risulterebbe ora integrato dall’omesso versamento delle ritenute certificate o (in alternativa) di quelle indicate come dovute all’Erario in sede dichiarativa. A bene considerare – sebbene convergenti quanto all’effetto pratico – entrambe le richiamate interpretazioni sono largamente insoddisfacenti. Nel primo caso, infatti (ossia ove si prediliga l’interpretazione che assume l’indicazione in dichiarazione come una presunzione legale iuris et de iure di certificazione) si introduce in ambito penalistico uno strumento (la presunzione legale assoluta) che contrasta con i più elementari criteri in materia e con lo stesso principio di colpevolezza sancito dall’art. 27 della Costituzione. Ma viepiù asistematica appare l’interpretazione alternativa (con ogni ragionevolezza quella che il legislatore voleva effettivamente prediligere) secondo cui l’indicazione in dichiarazione delle ritenute sarebbe del tutto fungibile rispetto alla certificazione delle stesse. In tale prospettiva, infatti, appare difficile scorgere la razionalità sottesa ad un sistema che finisce per punire in modo identico condotte con un tasso di lesività e decettività chiaramente differenti. E, infatti, sotto il primo profilo mentre nell’ipotesi di omessa corresponsione di ritenute certificate il danno per l’Erario è duplice in quanto – a fronte dell’omesso versamento della ritenuta da parte del sostituto – il sostituito può anche scomputare il relativo quantum dal proprio carico impositivo, in quella di omessa corresponsione non qualificata (ossia in carenza di certificazione) l’evento scomputo è tendenzialmente precluso e perciò il danno si risolve nella sola omessa apprensione della liquidità corrispondente alla ritenuta eseguita. Peraltro anche la decettività delle due condotte non sembra affatto assimilabile tenuto conto del fatto che in caso di rilascio della certificazione il sostituito è ragionevolmente indotto a ritenere che il proprio sostituto abbia adempiuto all’obbligo di versamento laddove, per converso, ciò non si verifica nell’ipotesi di omesso rilascio della prescritta certificazione. Più in generale, poi, la tesi della fungibilità ai fini punitivi della certificazione delle ritenute e della indicazione in dichiarazione determina l’inopportuno effetto di limitare oltremodo la sfera della sanzionabilità esclusivamente amministrativa delle violazioni del sostituto d’imposta; questi, infatti – nel rinnovato ambiente punitivo – permane esente da potenziali conseguenze penali a fronte di propri inadempimenti solo laddove corrisponda somme del tutto in nero considerato che, una volta che invece abbia eseguito le ritenute – fatta salva l’ipotesi (invero abbastanza scolastica) che non le indichi come tali in sede dichiarativa – la sanzionabilità ai sensi del delitto di nuova fattura (ça va sans dire al superamento della prescritta soglia di punibilità) è pressoché immediata.


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6. Conclusioni. – Le modifiche apportate dal D.lgs. 158/2015 al regime penale tributario del sostituto d’imposta destano molte perplessità. In primo luogo a livello sistematico. La criminalizzazione di condotte sprovviste di decettività ed attratte all’alveo della repressione criminale solo in ragione del quantum evaso unitamente alla statuizione del dolo generico quale elemento psichico di riferimento fanno sì che le fattispecie delittuose in argomento risultino poco coerenti rispetto all’impostazione di fondo originaria del D.lgs. 74/2000 e finanche rispetto alle indicazioni (seppure molto generiche) desumibili dai criteri direttivi di cui alla L. 23/2014. Sotto certi profili, infatti, i nuovi presidi penalistici agli adempimenti del sostituto d’imposta non appaiono in linea con la riformulazione del delitto di dichiarazione infedele che mira proprio ad accentuare il focus punitivo sulla fraudolenza delle condotte escludendo la criminalizzazione di quella sorta di evasione di opinione nota come evasione interpretativa. Ma non è solo la ragionevolezza dell’intervento in termini generali a suscitare dubbi. Anche la stessa opera di drafting normativo (o redrafting nel caso dell’art. 10-bis del D.lgs. 74/2000) non è esente da critiche. Una formulazione approssimativa e, apparentemente, poco meditata che ingenera talvolta più dubbi che certezze. Fra i settori dell’ordinamento da maneggiare con cura a livello legislativo vi sono senz’altro la materia tributaria e quella penale. Da un intervento legislativo che congiuntamente (e dopo lunga attesa) li interessa entrambi sarebbe stato logico attendersi di più. Così non è avvenuto e v’è motivo per dolersene.

Marco Di Siena


Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte di Giustizia, Sez. II, 7 aprile 2016, n. C-546/14; Pres. Ilesi, Rel. Escobar Articolo 4, paragrafo 3, TUE – Direttiva 2006/112/CE – Insolvenza – Procedura di concordato preventivo – Pagamento parziale dei crediti IVA La normativa comunitaria non osta al fatto che, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo, l’imprenditore in stato di insolvenza proponga un piano che preveda la soddisfazione solo parziale del credito erariale per imposta sul valore aggiunto, purché la falcidia del credito IVA avvenga sulla base dell’accertamento, compiuto mediante attestazione resa da un esperto indipendente, del fatto che il credito IVA non potrebbe essere soddisfatto in misura maggiore nel caso di fallimento dell’imprenditore medesimo. (1)

(Omissis) La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE e della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU L 347, pag. 1; in prosieguo: la «direttiva IVA»). Tale domanda è stata sollevata nell’ambito di una proposta di concordato preventivo presentata dalla Degano Trasporti S.a.s. di Ferruccio Degano & C., in liquidazione (in prosieguo: la «Degano Trasporti»), dinanzi al Tribunale di Udine (Italia). Contesto normativo Diritto dell’Unione Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettere a), c) e d), della direttiva IVA, sono soggette all’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA») le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso nel territorio di uno Stato membro da un soggetto passivo che agisca in quanto tale, nonché le importazioni di beni. L’articolo 250, paragrafo 1, della direttiva IVA dispone quanto segue: «Ogni soggetto passivo deve presentare una dichiarazione IVA in cui figurino tutti i dati necessari per determinare l’importo dell’imposta esigibile e quello delle detrazioni da operare, compresi, nella misura in cui sia necessario per la determinazione della base imponibile, l’importo complessivo delle operazioni relative a tale imposta e a tali detrazioni, nonché l’importo delle operazioni esenti». Ai sensi dell’articolo 273, primo comma, della direttiva IVA:


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«Gli Stati membri possono stabilire, nel rispetto della parità di trattamento delle operazioni interne e delle operazioni effettuate tra Stati membri da soggetti passivi, altri obblighi che essi ritengono necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitare le evasioni, a condizione che questi obblighi non diano luogo, negli scambi tra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera». Diritto italiano Il Regio Decreto del 16 marzo 1942, n. 267, recante «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa» (GURI n. 81 del 6 aprile 1942), nella versione applicabile ai fatti del procedimento principale (in prosieguo: la «legge fallimentare»), disciplina la procedura di concordato preventivo agli articoli 160 e seguenti. Con tale procedura, che mira a evitare una dichiarazione di fallimento, l’imprenditore che si trovi in stato di crisi o di insolvenza propone ai suoi creditori di mettere a disposizione il proprio patrimonio al fine di rimborsare integralmente i crediti privilegiati e parzialmente i crediti chirografari. Il concordato preventivo può, tuttavia, prevedere un pagamento parziale di talune categorie di crediti privilegiati, purché un esperto indipendente attesti che questi ultimi non riceverebbero un trattamento migliore nel caso di fallimento dell’imprenditore. La procedura di concordato preventivo, cui partecipa il Pubblico Ministero, è avviata su domanda dell’imprenditore dinanzi al giudice competente. Quest’ultimo si pronuncia anzitutto sulla ricevibilità della domanda, dopo aver verificato la sussistenza dei presupposti di legge per il concordato preventivo. In seguito, i creditori ai quali il debitore non proponga un pagamento integrale del rispettivo credito sono chiamati a votare la proposta di concordato preventivo, che deve essere approvata da tanti creditori che rappresentino la maggioranza del totale dei crediti dei creditori ammessi al voto. Se infine tale maggioranza è raggiunta, il tribunale – decise eventuali opposizioni di creditori dissenzienti e comunque verificati nuovamente i presupposti di legge – omologa il concordato preventivo. Il concordato preventivo così omologato è vincolante per tutti i creditori. Peraltro, l’articolo 182 ter della legge fallimentare, intitolato «Transazione fiscale», prevede che, con il piano di cui all’articolo 160 di tale legge, il debitore possa proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali e dei relativi accessori, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie e dei relativi accessori, limitatamente alla quota di debito avente natura chirografaria anche se non iscritti a ruolo, ad eccezione dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea. Con riguardo, tuttavia, all’IVA e alle ritenute operate e non versate, la proposta del debitore può solo prevedere la dilazione del pagamento. Procedimento principale e questione pregiudiziale Il 22 maggio 2014, la Degano Trasporti ha presentato al giudice del rinvio una domanda di concordato preventivo. Trovandosi in stato di crisi, essa intende liquidare in


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tal modo il suo patrimonio, al fine di provvedere al pagamento integrale di taluni creditori privilegiati e al pagamento in percentuale dei creditori chirografari e di creditori privilegiati di grado inferiore, per i cui crediti sostiene che non vi sarebbe comunque capienza, neppure in caso di fallimento. Tra questi ultimi vi è un debito di IVA che la Degano Trasporti propone di pagare parzialmente, senza vincolare tale proposta alla conclusione di una transazione fiscale. Dovendosi pronunciare in merito alla ricevibilità della domanda della Degano Trasporti, il giudice del rinvio rileva, in particolare, che l’articolo 182 ter della legge fallimentare pone il divieto di concordare, nell’ambito di una transazione fiscale, un pagamento parziale dei crediti dello Stato relativi all’IVA – ai quali la legge riconosce il rango di crediti privilegiati di grado 19° –, ammettendone soltanto un pagamento dilazionato nel tempo. Esso precisa che, secondo la giurisprudenza della Corte suprema di cassazione (Italia), tale divieto – seppure posto dall’articolo 182 ter della legge fallimentare, che disciplina la transazione fiscale – vale in ogni caso e rimane inderogabile anche nell’ambito di una proposta di concordato preventivo. Tale interpretazione del diritto nazionale s’impone, secondo detto giudice, alla luce del diritto dell’Unione, in particolare dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE e della direttiva IVA, come interpretati nelle sentenze Commissione/Italia (C-132/06, EU:C:2008:412), Commissione/Italia (C-174/07, EU:C:2008:704) e Belvedere Costruzioni (C-500/10, EU:C:2012:186). Il giudice del rinvio si domanda, tuttavia, se l’obbligo degli Stati membri di adottare tutte le misure legislative e amministrative necessarie a garantire il prelievo integrale dell’IVA, obbligo previsto dal diritto dell’Unione, impedisca effettivamente di ricorrere a una procedura concorsuale alternativa al fallimento, nel cui ambito l’imprenditore in stato di insolvenza liquidi tutto il proprio patrimonio per pagare i propri creditori e preveda pagamenti dei crediti IVA non deteriori rispetto all’ipotesi alternativa del fallimento. Il Tribunale di Udine ha pertanto deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se i principi e le norme contenuti nell’[articolo] 4, paragrafo [3, TUE] e nella direttiva [IVA], così come già interpretati nelle sentenze della Corte [Commissione/Italia (C-132/06, EU:C:2008:412), Commissione/Italia (C-174/07, EU:C:2998:704) e Belvedere Costruzioni (C-500/10, EU:C:2012:186)], debbano essere altresì interpretati nel senso di rendere incompatibile una norma interna (e, quindi, per quanto riguarda il caso qui in decisione, un’interpretazione degli [articoli] 162 e 182 ter [della legge fallimentare]) tale per cui sia ammissibile una proposta di concordato preventivo che preveda, con la liquidazione del patrimonio del debitore, il pagamento soltanto parziale del credito dello Stato relativo all’IVA, qualora non venga utilizzato lo strumento della transazione fiscale e non sia prevedibile per quel credito – sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente e all’esito del controllo formale del Tribunale – un pagamento maggiore in caso di liquidazione fallimentare».


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Sulla questione pregiudiziale Dato che il giudice del rinvio precisa di sollevare il presente rinvio pregiudiziale in fase di valutazione della ricevibilità della domanda di cui è stato investito – sebbene la fase propriamente contenziosa della procedura di concordato preventivo abbia inizio solamente dopo l’approvazione di un siffatto concordato quando i creditori messi in minoranza possono proporre formale opposizione – occorre, in via preliminare, rilevare che tali elementi non ostano alla competenza della Corte a conoscere della presente domanda di rinvio pregiudiziale. I giudici nazionali possono, infatti, adire la Corte se al loro cospetto pende una lite e se sono stati chiamati a statuire nell’ambito di un procedimento destinato a risolversi in una pronuncia di carattere giurisdizionale (sentenze Grillo Star Fallimento, C-443/09, EU:C:2012:213, punto 21, nonché Torresi, C-58/13 e C-59/13, EU:C:2014:2088, punto 19), e la scelta del momento più idoneo per interrogare la Corte in via pregiudiziale è di loro esclusiva competenza (v., in tal senso, sentenze X, C-60/02, EU:C:2004:10, punto 28, e AGM-COS.MET, C-470/03, EU:C:2007:213, punto 45). La Corte è quindi competente a conoscere della presente domanda di rinvio pregiudiziale, sebbene sia stata presentata dal giudice del rinvio in fase di esame non contraddittorio della ricevibilità della domanda di cui è stato investito, domanda diretta ad aprire una procedura di concordato preventivo che, come emerge dalle norme procedurali nazionali citate al punto 8 della presente sentenza, sfocia, se ricevibile, in una decisione di tipo giurisdizionale, adottata in presenza del Pubblico Ministero, dopo che il giudice abbia eventualmente statuito sulle opposizioni sollevate dai creditori messi in minoranza. Con la sua questione il giudice del rinvio domanda, sostanzialmente, se l’articolo 4, paragrafo 3, TUE nonché gli articoli 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva IVA ostino a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, interpretata nel senso che un imprenditore in stato di insolvenza può presentare a un giudice una domanda di apertura di una procedura di concordato preventivo al fine di saldare i propri debiti mediante la liquidazione del suo patrimonio, con la quale proponga di pagare solo parzialmente un debito IVA attestando, sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente, che tale debito non riceverebbe un trattamento migliore in caso di proprio fallimento. A tale riguardo occorre ricordare che dagli articoli 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva IVA nonché dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE emerge che gli Stati membri hanno l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio (sentenze Commissione/Italia, C-132/06, EU:C:2008:412, punto 37; Belvedere Costruzioni, C-500/10, EU:C:2012:186, punto 20; Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105, punto 25, e WebMindLicenses, C-419/14, EU:C:2015:832, punto 41). Nell’ambito del sistema comune dell’IVA, gli Stati membri sono tenuti a garantire il rispetto degli obblighi a carico dei soggetti passivi e beneficiano, al riguardo,


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di una certa libertà in relazione, segnatamente, al modo di utilizzare i mezzi a loro disposizione (sentenze Commissione/Italia, C-132/06, EU:C:2008:412, punto 38, e Belvedere Costruzioni, C-500/10, EU:C:2012:186, punto 21). Tale libertà è tuttavia limitata dall’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione e da quello di non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti, e questo sia all’interno di uno degli Stati membri che nell’insieme dei medesimi. La direttiva IVA deve essere interpretata in conformità al principio di neutralità fiscale inerente al sistema comune dell’IVA, in base al quale operatori economici che effettuino operazioni uguali non devono essere trattati diversamente in materia di riscossione dell’IVA. Ogni azione degli Stati membri riguardante la riscossione dell’IVA deve rispettare tale principio (v., in tal senso, sentenze Commissione/Italia, C-132/06, EU:C:2008:412, punto 39; Commissione/ Germania, C-539/09, EU:C:2011:733, punto 74, e Belvedere Costruzioni, C-500/10, EU:C:2012:186, punto 22). Le risorse proprie dell’Unione comprendono, in particolare, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della decisione 2007/436/CE, Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee (GU L 163, pag. 17), le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione. Sussiste quindi un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell’IVA nell’osservanza del diritto dell’Unione applicabile e la messa a disposizione del bilancio dell’Unione delle corrispondenti risorse IVA, poiché qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde (sentenza Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105, punto 26 nonché giurisprudenza ivi citata). Alla luce di tali elementi occorre esaminare se l’ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo come prevista dalla normativa nazionale di cui al procedimento principale, sia contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione. Al riguardo occorre constatare che, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi da 38 a 42 delle conclusioni, la procedura di concordato preventivo, come descritta dal giudice del rinvio ed esposta ai punti da 6 a 8 della presente sentenza, è soggetta a presupposti di applicazione rigorosi, allo scopo di offrire garanzie per quanto concerne, in particolare, il recupero dei crediti privilegiati e pertanto dei crediti IVA. In tal senso, anzitutto, la procedura di concordato preventivo comporta che l’imprenditore in stato di insolvenza liquidi il suo intero patrimonio per saldare i propri debiti. Se tale patrimonio non è sufficiente a rimborsare tutti i crediti, il pagamento parziale di un credito privilegiato può essere ammesso solo se un esperto indipendente attesta che tale credito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di fallimento del debitore. La procedura di concordato preventivo appare quindi tale da consentire


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di accertare che, a causa dello stato di insolvenza dell’imprenditore, lo Stato membro interessato non possa recuperare il proprio credito IVA in misura maggiore. Inoltre, dato che la proposta di concordato preventivo è soggetta al voto di tutti i creditori ai quali il debitore non proponga un pagamento integrale del loro credito e che deve essere approvata da tanti creditori che rappresentino la maggioranza del totale dei crediti dei creditori ammessi al voto, la procedura di concordato preventivo offre allo Stato membro interessato la possibilità di votare contro una proposta di pagamento parziale di un credito IVA qualora, in particolare, non concordi con le conclusioni dell’esperto indipendente. Infine, supponendo pure che, nonostante tale voto negativo, detta proposta sia adottata e che, di conseguenza, il concordato preventivo debba essere omologato dal giudice adito, dopo che quest’ultimo abbia eventualmente statuito sulle opposizioni sollevate dai creditori in disaccordo con la proposta di concordato, la procedura di concordato preventivo consente allo Stato membro interessato di contestare ulteriormente, mediante opposizione, un concordato che preveda un pagamento parziale di un credito IVA e a detto giudice di esercitare un controllo. Tenuto conto di tali presupposti, l’ammissione di un pagamento parziale di un credito IVA, da parte di un imprenditore in stato di insolvenza, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo che, a differenza delle misure di cui trattasi nelle cause che hanno dato origine alle sentenze Commissione/Italia (C-132/06, EU:C:2008:412) e Commissione/Italia (C-174/07, EU:C:2008:704) cui fa riferimento il giudice del rinvio, non costituisce una rinuncia generale e indiscriminata alla riscossione dell’IVA, non è contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio nonché la riscossione effettiva delle risorse proprie dell’Unione. Di conseguenza occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 4, paragrafo 3, TUE nonché gli articoli 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva IVA non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, interpretata nel senso che un imprenditore in stato di insolvenza può presentare a un giudice una domanda di apertura di una procedura di concordato preventivo, al fine di saldare i propri debiti mediante la liquidazione del suo patrimonio, con la quale proponga di pagare solo parzialmente un debito IVA attestando, sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente, che tale debito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di proprio fallimento. Sulle spese Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.


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P.Q.M. L’articolo 4, paragrafo 3, TUE nonché gli articoli 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, interpretata nel senso che un imprenditore in stato di insolvenza può presentare a un giudice una domanda di apertura di una procedura di concordato preventivo, al fine di saldare i propri debiti mediante la liquidazione del suo patrimonio, con la quale proponga di pagare solo parzialmente un debito dell’imposta sul valore aggiunto attestando, sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente, che tale debito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di proprio fallimento.

(Omissis)

(1) IVA, concordato preventivo e transazione fiscale: profili procedurali e (auspicabili) sviluppi della normativa nazionale. Sommario: 1. I profili sistematici suggeriti dalla Corte di Giustizia: la lettura

“comunitariamente orientata” dell’ordinamento nazionale in materia di crisi d’impresa e la necessaria interpretazione secundum legem (comunitaria) del principio di efficace riscossione delle risorse proprie dell’Unione. – 2. La sentenza della Corte a partire dalle Conclusioni dell’Avvocato generale: principi di neutralità e di effettiva riscossione delle imposte armonizzate nella procedura di concordato preventivo. – 3. Profili di riflessione de jure condendo in materia di falcidiabilità del credito IVA nelle procedure di concordato preventivo e transazione fiscale: la sentenza della Corte di Giustizia in causa Degano rischia di essere inutiliter data?

La Corte di Giustizia, nella sentenza Degano, declina il principio di neutralità e di effettiva riscossione dei tributi armonizzati nella procedura di concordato preventivo, affermando – in considerazione della particolare fase della vita dell’azienda – che il piano ex art. 160 L.F., non assistito da transazione fiscale, può anche contemplare la falcidia del credito IVA, purché la misura del credito riscosso rappresenti, rispetto all’ipotesi di fallimento del contribuente, la “massima riscossione possibile” dell’imposta. A tal fine, per evitare che la falcidia rappresenti una rinuncia “generale ed indiscriminata” all’imposta (incompatibile con il diritto comunitario) è imprescindibile che la misura della falcidia sia assistita dalla valutazione formulata da un esperto indipendente. A tale considerazione, di per sé significativa de jure condito, si affianca una necessaria riflessione, de jure condendo, in merito alla (auspicabile) modifica dell’art. 182-ter L.F., al fine di consentire anche in caso di transazione fiscale, e nel rispetto di disposizioni procedurali rigorose, la falcidia del credito IVA (e, in tal caso, anche delle ritenute operate e non versate). The Court of Justice, in its judgment Degano, dealing with the principle of neutrality and effective tax collection of the harmonized taxes in pre-bankruptcy procedures, affirms that the tentative plan on the basis of art. 160 L.F., not backed by “tax agreement”, may also contemplate the deduction of the VAT credit, as long as the extent of the credit received represents, than in case of bankruptcy of the taxpayer, the “maximum possible recovery” of the VAT credit. To this end, to avoid the deduction represents a waiver “general and indiscriminate”


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(not compliant with european principles) the measure of the deduction have to be assisted by the assessment made by an independent expert. Other than this argument, the Court of Justice judgment is relevant to suggest, de jure condendo, the (desirable) amendment of Art. 182-ter L.F., in order to allow even when tax transaction and under strict rules of procedure, the recovery ratios of the VAT credit (and, if so, also of withholding applied and not paied).

1. I profili sistematici suggeriti dalla Corte di Giustizia: la lettura “comunitariamente orientata” dell’ordinamento nazionale in materia di crisi d’impresa e la necessaria interpretazione secundum legem (comunitaria) del principio di efficace riscossione delle risorse proprie dell’Unione. – La Corte di Giustizia, con la sentenza resa il 7 aprile 2016 (1), ha fornito molti spunti di natura sistematica, sia per quanto attiene alla materia oggetto della decisione (ammissibilità o meno della riduzione del debito per IVA nella procedura di concordato preventivo senza transazione fiscale) (2) che per quanto riguarda il rapporto tra principi comunitari ed ordinamenti nazionali.

(1) CGUE, sentenza 7 aprile 2016, Seconda Sezione, causa C-546/14, Degano Trasporti s.a.s. di Ferruccio Degano & C. in liquidazione. La sentenza è stata oggetto di diversi commenti, anche al fine di valutarne l’impatto sulla giurisprudenza nazionale. Si vedano, in particolare, i contributi di B. Denora, La Corte di Giustizia conferma la falcidiabilità del credito IVA nelle procedure concorsuali, in questa Rivista, edizione on line, 29 aprile 2016, V. Ficari, La Corte UE ammette la riduzione dell’IVA mediante la transazione fiscale, Corr. Trib., 2016, 1549 ss., nonché – in chiave critica rispetto alle posizioni assunte dalla Corte di Cassazione, e valorizzando maggiormente il percorso ancora da compiere, piuttosto che quello compiuto, per raggiungere l’obiettivo suggerito dai giudici comunitari, G. Andreani - A. Tubelli, Falcidiabilità dell’IVA nel concordato preventivo: la querelle non è finita, Fisco, 2016, 2042 ss. Per un’analisi dell’istituto della transazione fiscale alla luce della normativa europea, cfr. F. Amatucci, La transazione fiscale tra disciplina comunitaria e divieto di aiuti di Stato, in F. Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, 688 ss. (2) Sul rapporto tra concordato preventivo e transazione fiscale, si veda innanzitutto la Circolare dell’Agenzia delle Entrate del 18 aprile 2008, n. 40. L’ammissibilità della falcidia del credito tributario nella proposta di concordato preventivo, non assistita dalla richiesta di transazione fiscale, è stata a lungo oggetto di discussione, per essere da ultimo riconosciuta dalla stessa Agenzia delle Entrate con la Circolare 6 maggio 2015, n. 19, commentata da D. Pezzella - B. Santacroce, Credito tributario falcidiabile anche nella proposta di concordato senza transazione fiscale, Corr. Trib., 2015, 1983 ss. Gli Autori mettono in luce che uno dei problemi non risolti dalla Circolare dell’Agenzia, al fine dell’efficacia, in concreto, dello strumento concordatario nella crisi d’impresa, è (era, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia?) rappresentato dall’ammissibilità della falcidia (anche) del credito IVA, espressamente esclusa dal Legislatore nella transazione fiscale, ma non altrettanto chiaramente nella procedura di concordato preventivo. Gli Autori menzionano, poi, un ulteriore profilo, rappresentato dalla non adeguata distinzione, operata sia in sede


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Al fine della formazione del giudizio della Corte, sono state preziose le riflessioni ampiamente sviluppate dall’Avvocato generale nelle proprie Conclusioni, che hanno delineato un percorso coerente con i principi comunitari al fine di fornire risposta alla questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Udine (3). Prima di illustrare il contenuto della sentenza della Corte di Giustizia, a partire dalle riflessioni sviluppate dall’Avvocato generale, è opportuno evidenziare sin da subito i principali profili (4) suggeriti da una lettura sistematica della decisione comunitaria: 1) rapporto tra principi comunitari in materia di imposte armonizzate e ordinamenti nazionali che disciplinano il concordato preventivo e la transa-

interpretativa che dal Legislatore, tra “credito” IVA e “pretesa” IVA, laddove quest’ultima, essendo riferita ad una contestazione contenuta in atti di accertamento non resisi definitivi, potrebbe essere comunque oggetto di falcidia, non ricadendo nell’ambito applicativo dell’art. 182-ter, L.F. Sulla tematica della transazione fiscale, analizza un percorso giurisprudenziale F. Miconi, La transazione fiscale, Fall., 2015, 729 ss.; è interessante la lettura, al fine di individuare argomenti condivisibili in merito all’ammissibilità della possibile falcidia del credito IVA nel concordato preventivo di G. Bezzi, La falcidiabilità dell’Iva nell’ambito di una procedura di concordato preventivo, Fisco, 2014, 1865 ss. Si vedano, inoltre, in ottica ricostruttiva dell’istituto, i contributi precedenti alla Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 19/E/2015 di A. Russo, Obbligatorietà o facoltatività della transazione fiscale nell’ambito del concordato preventivo, Fisco, 2014, 1764 ss., sul rapporto tra gli artt. 182-ter e 160, comma 2, L.F. e sulla discordante giurisprudenza di merito, successiva a quella di legittimità, di cui si dirà oltre nel paragrafo 3, nonché di S. Digregorio Natoli, Transazione fiscale e concordato preventivo: limiti e interferenze per la falcidia dei crediti tributari e dell’IVA, Fisco, 2013, 1778 ss., F. Nicoletti, La natura “opzionale” della transazione fiscale e il necessario soddisfacimento dell’Iva nel concordato preventivo, Fisco, 2012, 1289 ss., G. Bersani, L’ambito di operatività della transazione fiscale nel concordato preventivo: rassegna ragionata di dottrina e giurisprudenza, Fisco, 2012, 6908 ss., C. Attardi, Inammissibilità del concordato preventivo in assenza di transazione fiscale, Fisco, 2009, 6435 ss. In materia di concordato preventivo si vedano, inter alia, G. Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2011 (ivi per riferimenti anche agli aspetti fiscali sul medesimo), nonché per una visione sistematica orientata all’analisi del diritto concorsuale, A. Jiorio - M. Fabiani (a cura di), Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2010. In tale opera si segnala in contributo di Del Federico, Profili evolutivi della transazione fiscale, 1215 ss. (3) Hanno commentato le conclusioni dell’Avvocato generale G. Andreani - A. Tubelli, IVA (in)falcidiabile nel concordato preventivo senza transazione fiscale?, Fisco, 2016, 925 ss. e – in maniera più sintetica – B. Denora, Aperture europee sulla falcidia del credito IVA nell’ambito delle procedure concorsuali, in questa Rivista, edizione online, 7 marzo 2016. (4) Si tralascia, peraltro, di affrontare la riflessione in merito al (discusso) principio dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, invero sollecitato, in subiecta materia, dalla sentenza della Corte Costituzionale, n. 225 del 25 luglio 2014, su cui vedi infra.


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zione fiscale (in particolare, il contemperamento tra il principio di neutralità del sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto con la normativa che consente la riduzione del debito tributario in considerazione della particolare fase della vita dell’operatore economico); 2) principio di effettiva riscossione delle risorse proprie dell’Unione, che si articola in maniera differente se l’operatore economico è in una situazione “patologica” e vi sia una valutazione autonoma ed indipendente in relazione alla misura del debito che può essere efficacemente riscossa; 3) la normativa in materia di crisi d’impresa e, in particolare, concordato preventivo e transazione fiscale, ha natura e finalità profondamente diverse dalla disciplina in materia di condono fiscale c.d. “tombale”, a suo tempo sanzionato dalla Corte di Giustizia, perché quest’ultimo non riguardava particolari situazioni meritevoli, in quanto tali, di valutazioni differenziate, bensì rappresentava, effettivamente, una “rinuncia generale ed indiscriminata” alla riscossione dell’imposta sul valore aggiunto (5). La Corte di Giustizia, con la sentenza annotata, pertanto, oltre a fornire indubbi spunti di interesse de jure condendo, per adeguare la legislazione interna in materia di concordato preventivo (e transazione fiscale) ai principi comunitari, suggerisce un’interpretazione “autentica” del concetto di rinuncia “indiscriminata” all’effettiva riscossione delle risorse proprie dell’Unione, nozione

Sul principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, inter alia, con specifico riferimento al procedimento di accertamento con adesione, cfr. M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001, nonché A.D. Giannini Circa la inderogabilità delle norme regolatrici dell’obbligazione tributaria – Riv. Dir. Fin. sc. Fin., 1953, II, 291 ss., che riteneva sussistente il principio ma derogabile, poichè il Legislatore può attribuire all’Amministrazione il potere di regolare il contenuto dell’obbligazione tributaria e, con riguardo invece alla fase di riscossione dell’imposta, A. Guidara, Gli accordi nella fase della riscossione, in Autorità e consenso nel diritto tributario, Milano, 2007, a cura di S. La Rosa. In materia, si veda anche il contributo di M.T. Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano 2007. (5) Corte di Giustizia, Grande Sezione, 17 luglio 2008, causa C-132/06, su cui vedi G. Falsitta, I condoni fiscali Iva come provvedimenti di natura agevolativa violatori del principio di neutralità del tributo, Rass. Trib, 2008, IV, 334 ss., nonché S. Medici, Gli effetti della declaratoria di incompatibilità comunitaria dell’istituto del condono in materia di Iva, in questa Rivista, 2008, IV, 34 ss. e M.G. De Flora, Osservazioni sull’incompatibilità del condono Iva con la normativa comunitaria, in questa Rivista, 2009, IV, 238 ss. Si ricorda, peraltro, che la corte di Giustizia ha parimenti considerato incompatibile con il diritto comunitario l’art. 8 della L. 289/2002 (“Integrazione degli imponibili per gli anni pregressi”), sulla base delle stesse argomentazioni utilizzate per decidere la questione pregiudiziale relativa al “condono tombale”; cfr. Corte di Giustizia, Quinta Sezione, sentenza 11 dicembre 2008, causa C-174/07.


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utilizzata in sede di declaratoria di illegittimità comunitaria del condono IVA “tombale” e della disposizione che consentiva di presentare una dichiarazione integrativa per la definizione automativa ai fini IVA degli anni pregressi (art. 8, L. 289/2002). Tale espressione, già utilizzata per cristallizzare il principio di effettiva riscossione delle risorse comunitarie e, conseguentemente, censurare il condono IVA italiano, è stata anche recentemente utilizzata per legittimare un rigido atteggiamento sanzionatorio delle violazioni in materia di frodi IVA. Una lettura pienamente sistematica del contenuto della sentenza ivi annotata non può prescindere, allora, da una osservazione del percorso giurisprudenziale svolto dalla Corte di Giustizia anche in subiecta materia, al fine di offrire una chiave di lettura non solamente limitata alle (pur rilevanti) implicazioni sull’ordinamento interno in materia di crisi d’impresa, bensì diretta a valorizzare le fonti del diritto dell’Unione (nella specie, il Trattato UE e la Direttiva 2006/112/CE) rispetto al contenuto dell’obbligazione tributaria avente ad oggetto tributi armonizzati. In tal senso, non può non rilevarsi come il fil rouge valorizzato nella propria giurisprudenza dalla Corte di Giustizia sia l’alterazione del principio comunitario di libera concorrenza; laddove gli operatori economici siano tutti nelle medesime condizioni nel mercato di riferimento, una disposizione normativa (condono IVA “tombale” e “dichiarazione integrativa”, ex artt. 8 e 9 L. 289/02) ovvero una violazione (frode) commessa da uno di essi si pongono sullo stesso piano, in quanto alterano entrambe (sia la normativa che la violazione del singolo operatore) i principi posti a presidio del corretto funzionamento dell’imposta (6). La condizione di chi si trova, invece, in una particolare fase della propria attività economica legittima e – anzi – rende “doveroso” un trattamento differenziato, salvo comunque il necessario rispetto di garanzie procedurali poste a presidio del conseguimento dell’obiettivo di “massima riscossione possibile” (7) dell’IVA.

(6) Si consenta il rinvio ad A. Albano, Riflessioni sistematiche e profili innovativi in materia di contrasto alle frodi IVA alla luce della sentenza ITALMODA: il complesso “equilibrio dinamico” tra tutela del contribuente e fattispecie repressive “impropriamente” sanzionatorie, in questa Rivista, 2015, IV, 59 ss., ivi per ampi riferimenti dottrinali, tra cui in particolare, si ricorda A. Giovanardi, Le frodi IVA. Profili ricostruttivi, Torino 2013 e, per un’ampia trattazione dei principi comunitari del sistema dell’imposta sul valore aggiunto, anche in considerazione della normativa nazionale, A. Comelli, Iva comunitaria e Iva nazionale, Padova, 2000. (7) Espressione contenuta, come vedremo, nelle Conclusioni dell’Avvocato generale


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La sentenza della Corte di Giustizia Degano, pertanto, nel seguito illustrata, merita particolare attenzione perché conferma la necessità di analizzare secondo i principi comunitari gli ordinamenti nazionali laddove essi riguardino la riscossione dei tributi armonizzati e, allo stesso tempo, conferisce portata innovativa rispetto al diritto interno in materia di crisi d’impresa. Il fulcro della decisione afferisce, pertanto, lo scrutinio in merito alla presenza (o meno) di una rinuncia “generale ed indiscriminata” alla riscossione dell’IVA. Al riguardo, è opportuno precisare che la Corte di Cassazione, allorché è stata chiamata ad esprimersi in merito alla compatibilità dell’art. 16, Legge n. 289/2002 (definizione delle liti pendenti) con i principi sanciti dalla Corte di Giustizia nella causa C-132/06 (relativa all’art. 9, della Legge n. 289/2002, c.d. “condono tombale”) e C-174/07 (relativa all’art. 8 della medesima Legge n. 289/2002) (8), ha significativamente affermato la piena legittimità comunitaria di tale disposizione. Nella riflessione compiuta dai giudici di legittimità in tale occasione, infatti, la suddetta disposizione non ha inciso (a differenza degli articoli 8 e 9) sulla determinazione dell’imposta dovuta, essendo uno strumento deflattivo del contenzioso volto a garantire l’esazione di un credito tributario la cui certezza avrebbe dovuto essere già vagliata in sede giurisdizionale. Tali conclusioni sono significative, in quanto consentono di apprezzare i diversi “livelli” di “rinuncia” del credito IVA, al fine di verificare la compatibilità con l’ordinamento comunitario (i cui principi sono – dovrebbero – essere fatti propri dalle Corti nazionali) e, in particolare, di considerare i diversi profili afferenti norme “sostanziali” (artt. 8, 9) ovvero “procedimentali” (art. 16) ai fini del vaglio di legittimità delle disposizioni nazionali. 2. La sentenza della Corte a partire dalle Conclusioni dell’Avvocato generale: principi di neutralità e di effettiva riscossione delle imposte armonizzate nella procedura di concordato preventivo. – Nel primo paragrafo si sono individuati quali sono i profili di riflessione suggeriti dalla sentenza della Cor-

Sharpston (8) Corte di Cassazione, SS. UU. Civili, sentenza n. 3677 depositata il 17 febbraio 2010, in Rass. Trib., 2010, 842 ss., a cui si rinvia anche per il commento di A. Albano, Incompatibilità comunitaria del condono ed effetti nazionali, ibidem, 851 ss.


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te di Giustizia Degano; nel seguito verranno valorizzati, a partire dall’oggetto della questione pregiudiziale, i passaggi delle Conclusioni dell’Avvocato generale (nel seguito, anche solo le “Conclusioni”), che sono stati utilizzati dalla Corte al fine di motivare la propria decisione. Le premesse per la decisione della Corte sono contenute già nel primo punto delle Conclusioni. In apertura della propria analisi, infatti, l’Avvocato Sharpston (9) afferma che: a) “Il diritto dell’Unione impone agli Stati membri di adottare tutte le misure legislative ed amministrative idonee a garantire che l’imposta sul valore aggiunto […] dovuta nel loro territorio sia interamente riscossa; b) La discrezionalità [degli Stati membri rispetto alle misure da adottare] è limitata, in primo luogo, dall’obbligo di garantire l’effettiva riscossione delle risorse proprie dell’Unione e, in secondo luogo, di non creare disparità di trattamento sostanziali tra i soggetti passivi, all’interno di uno Stato membro o fra gli Stati membri (principio di neutralità fiscale). c) La questione pregiudiziale sollevata dal Giudice del rinvio verte sul dubbio in merito alla possibilità di accettare, senza ledere i principi comunitari summenzionati, un pagamento parziale di un debito IVA da parte di un imprenditore in stato di difficoltà finanziaria, nel corso di un concordato preventivo [liquidatorio, n.d.r.]”. Dopo aver richiamato la normativa comunitaria e quella nazionale rilevante al fine della soluzione del quesito, l’Avvocato generale, al punto 16 delle Conclusioni, riporta la questione pregiudiziale sollevata dal Giudice nazionale, di cui si riportano i passaggi fondamentali: - “Se i principi e le norme [comunitarie, di cui all’art. 4, Par. 3, TUE e Direttiva n. 2006/112/CE, come interpretati dalla Corte di Giustizia nelle sentenze relative, in particolare, al condono IVA italiano, rese in cause C-132/06, C-174/07 e C-500/10] debbano essere interpretati nel senso di rendere incompatibile una norma interna […artt. 160 e 182-ter della legge fallimentare]

(9) L’Avvocato Sharpston ha presentato le Conclusioni anche nelle cause relative al condono IVA di cui alla Legge n. 289/2002 (cause C-132/06 e C-174/07), conseguenti al procedimento d’infrazione attivato contro la Repubblica italiana dalla Commissione europea, ed anche nella causa instaurata a seguito di rinvio pregiudiziale da parte della Commissione Tributaria Centrale – sezione di Bologna, relativa alla legittimità della normativa interna in materia di estinzione automatica delle cause tributarie ultradecennali nelle quali l’Amministrazione finanziaria è risultata soccombente in entrambi i gradi di giudizio (Art. 3, comma 2, D.L. n. 40/2010) – causa C-500/10, Belvedere costruzioni.


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tale per cui sia ammissibile una proposta di concordato preventivo che preveda, con la liquidazione del patrimonio del debitore, il pagamento soltanto parziale del credito dello Stato relativo all’IVA, qualora non venga utilizzato lo strumento della transazione fiscale e non sia prevedibile per quel credito – sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente e all’esito del controllo formale del Tribunale – un pagamento maggiore in caso di liquidazione fallimentare”. La domanda del Tribunale di Udine, in pratica, riguarda la possibilità ed i limiti per autorizzare, in caso di concordato c.d. “liquidatorio” (10), ed in assenza di transazione fiscale, la falcidia del credito IVA. L’Avvocato generale ha ritenuto ammissibile la questione pregiudiziale, in quanto rilevante, alla luce del fatto che il dubbio interpretativo verte sulla corretta interpretazione della normativa comunitaria, ed in considerazione anche dell’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione (di cui si darà menzione nel successivo paragrafo) che esclude la possibilità formulata dal Tribunale di Udine, proprio sulla base della normativa comunitaria richiamata nella domanda di rinvio (e alla luce della quale, pertanto, risulta necessaria una pronuncia interpretativa comunitaria). Nello sviluppo delle proprie argomentazioni, l’Avvocato Sharpston opportunamente ricorda che “La direttiva IVA deve essere interpretata in conformità al principio di neutralità fiscale inerente al sistema comune dell’IVA, in base al quale gli operatori economici che effettuano le stesse operazioni non devono essere trattati diversamente in materia di riscossione dell’IVA. Qualsiasi azione degli Stati membri relativa alla riscossione dell’IVA deve rispettare tale principio, che mira a consentire una sana concorrenza nel mercato interno” (punto 29). La principale argomentazione contraria all’ammissibilità della falcidia del credito IVA, sviluppata dalla Commissione, che ha sostenuto la contrarietà ai principi stabiliti nelle sentenze in materia di condono IVA italiano, sarebbe il fatto che “è indispensabile che ai crediti IVA sia attribuito non solo un trattamento di legge preferenziale, ma anche il grado in assoluto più elevato tra quelli riconosciuti ai crediti privilegiati, in termini formali e sostanziali” (punto 32).

(10) Sulle varie tipologie di concordato, per una illustrazione sintetica dal profilo squisitamente operativo, cfr. Vasapollo - Tommasi, Manuale operativo della crisi d’impresa, Trani, 2016, e, in particolare, Le tipologie di concordato, 617 ss.


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L’Avvocato generale, sottolineando che tale profilo esula dall’oggetto della questione pregiudiziale, evidenzia che le caratteristiche delle controversie relative al condono IVA italiano erano profondamente diverse rispetto a quella oggetto della questione sollevata dal Tribunale di Udine e che “In talune circostanze, pertanto, uno Stato membro può ragionevolmente ritenere legittima la rinuncia al pagamento integrale di un credito IVA, purché siffatte circostanze siano eccezionali, puntuali e limitate e purché lo Stato membro non crei significative differenze nel modo in cui sono trattati i soggetti d’imposta nel loro insieme e, pertanto, non pregiudichi il principio di neutralità fiscale” (punto 36). L’eccezionalità della circostanza viene ravvisata, potrebbe dirsi naturaliter, allorché “il patrimonio del soggetto passivo non è sufficiente a soddisfare tutti i creditori” e, opportunamente valutando nella sua interezza la ratio della procedura di concordato preventivo, l’Avvocato Sharpston afferma che “poiché nel diritto dell’Unione non vi sono norme di armonizzazione relative al rango dei crediti IVA, gli Stati membri devono essere liberi di ritenere che altre categorie di redditi (quali gli stipendi o i contributi previdenziali – o, nel caso di soggetti passivi singoli, gli alimenti) meritino una tutela maggiore” (punto 37). Tali condizioni di ammissibilità vengono ritenute sussistenti dall’Avvocato Sharpston perché la procedura contiene tre misure di salvaguardia della tutela dei crediti IVA: - “La proposta di concordato viene respinta, tra l’altro, qualora il ricorrente abbia deliberatamente occultato parte dell’attivo o omesso di denunciare uno o più crediti (compresi i crediti IVA)” (punto 39); - la soddisfazione parziale del credito IVA è possibile solamente qualora “un esperto indipendente” attesti che l’Amministrazione finanziaria non potrebbe ricevere un credito maggiore in caso di fallimento (in altri termini, viene assicurata “la massima riscossione possibile” del credito IVA) (punto 40); - il concordato, infine, “è soggetto al voto di tutti i creditori rispetto ai quali la proposta non prevede un pagamento integrale e immediato […]. I creditori dissenzienti possono, quindi, opporsi al concordato dinanzi al giudice”. Ciò detto “La procedura di concordato consente pertanto allo Stato di adottare tutte le misure che ritiene necessarie per garantire la riscossione dell’importo massimo di credito IVA date le circostanze” (punto 41). Sulla base di tali caratteristiche, l’Avvocato generale conclude che la procedura di concordato “non comporta una rinuncia generale ed indiscriminata al potere dell’amministrazione finanziaria di ottenere il pagamento dei crediti


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IVA. Il sacrificio di parte del credito IVA […] deve essere considerato alla luce dell’obiettivo di concedere ai soggetti passivi in difficoltà finanziaria una seconda opportunità attraverso la ristrutturazione collettiva del loro debito” (punto 42) (11). Come sopra ricordato, le Conclusioni dell’Avvocato generale sono state pienamente condivise dalla Corte di Giustizia, che ha pertanto risolto positivamente la questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Udine, ritenendo che la normativa comunitaria non osta alla proposta di concordato preventivo con la quale venga proposto di “pagare solo parzialmente un debito d’imposta sul valore aggiunto attestando, sulla base dell’accertamento di un esperto indipendente, che tale debito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso di proprio fallimento”. 3. Profili di riflessione de jure condendo in materia di falcidiabilità del credito IVA nelle procedure di concordato preventivo e transazione fiscale: la sentenza della Corte di Giustizia in causa Degano rischia di essere inutiliter data? – La pronuncia della Corte di Giustizia è stata accolta favorevolmente da parte della Dottrina, che sin dalla pubblicazione delle Conclusioni dell’Avvocato generale ha – da un lato – valorizzato la sostenibilità delle motivazioni suggerite nelle medesime e – d’altro lato – sottolineato la difforme (e non condivisibile) lettura offerta dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale, seguita da parte (non uniforme) della giurisprudenza di merito. Il profilo maggiormente significativo suggerito dalla sentenza della Corte di Giustizia, per quanto attiene le disposizioni del nostro Diritto nazionale, è rappresentato dalla possibilità di procedere alla falcidia del credito IVA nella procedura di concordato preventivo (in assenza di un espresso divieto in tal senso) pur se l’art. 182-ter L.F., che disciplina la transazione fiscale, preveda

(11) L’Avvocato generale, inoltra, valorizza al punto 43 delle proprie Conclusioni un ulteriore profilo, per la verità importante anche se trascurato nella sentenza della Corte di Giustizia, e cioè che, qualora il concordato non fosse “liquidatorio” ma fosse finalizzato alla prosecuzione dell’attività aziendale, meritano particolare attenzione le osservazioni formulate dal Governo spagnolo, e cioè l’importanza di perseguire un obiettivo coerente con le Raccomandazioni della Commissione agli Stati nazionali di “eliminare gli ostacoli all’efficace ristrutturazione di imprese sane in difficoltà finanziaria, promuovendo in tal modo l’imprenditoria, gli investimenti e l’occupazione e contribuendo a ridurre gli ostacoli al buon funzionamento del mercato interno” (in tal senso, Raccomandazione della Commissione del 12 marzo 2014 relativa ad un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all’insolvenza). Questo passaggio viene, invece, opportunamente evidenziato da V. Ficari, op. cit.


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solamente la possibilità di procedere alla dilazione del pagamento del credito IVA, ma non una sua riduzione (12). Si ricorda, al riguardo che la Corte di Cassazione, con le pronunce del 4 novembre 2011, nn. 22931 e 22932 (13), pur riconoscendo la possibilità di procedere alla falcidia dei crediti tributari nel concordato preventivo, anche in assenza di transazione fiscale, ha escluso che la falcidia possa comunque riguardare l’IVA, motivando la propria decisione non solamente sul fatto che l’IVA è un tributo comunitario e, pertanto, deve essere comunque rispettato il principio di neutralità (riprendendo le considerazioni sviluppate dalla Corte di Giustizia nelle cause relative al condono IVA), bensì su argomentazioni di natura maggiormente sistematiche. La Corte di Cassazione, infatti, ha – da un lato – evidenziato la scarsa coerenza del Legislatore, qualora fosse stata riconosciuta la discrezionalità al debitore in merito alla falcidia del credito erariale per IVA (14) – dall’altro – riconosciuto la natura sostanziale dell’art. 182-ter della L.F. Dalla natura sostanziale della suddetta norma, i giudici di legittimità fanno discendere la portata “sistematica” della medesima, che quindi non consentirebbe, sia in presenza di transazione fiscale che in presenza di concordato preventivo senza transazione fiscale, la possibilità di falcidiare l’IVA (15).

(12) L’art. 182-ter stabilisce che non possono essere parimenti assoggettate a falcidia le ritenute operate e non versate. Su tale ultimo profilo, recependo integralmente il contenuto della decisione e le argomentazioni della Corte di Giustizia, nonché dell’Avvocato generale, il Tribunale di Livorno, con decreto del 13 aprile u.s., ha omologato una proposta di concordato preventivo che prevede la falcidia del credito erariale per ritenute. Cfr. per un primo commento A. Porracciolo, Il concordato taglia le ritenute INPS, Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2016. (13) Si rinvia, per un breve richiamo, a F. Miconi, op. cit., e – per un’analisi più approfondita, che tra l’altro mette in luce la non omogenea posizione assunta dalla giurisprudenza di merito, G. Bezzi, op.cit. e G. Andreani - A. Tubelli, op. cit, Fisco, 2016, 2042 ss. ed in Fisco, 2016, 922 ss. L’interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione nel 2011 è stata, da ultimo, ribadita anche dalla giurisprudenza di legittimità (Ordinanza n. 2560 del 19 novembre 2015, depositata il 9 febbraio 2016, resa dalla Corte di Cassazione, Sezione VI, annotata da F. Gallio - M. Zara, In ambito concordatario il pagamento dell’IVA prevale sui crediti dotati di privilegio generale anteriore, in Fisco, 2016, 1275 ss. (14) La Corte di Cassazione sostiene la non congruenza,infatti, della eventuale ammissibilità della falcidia del credito IVA, in caso di proposta di concordato preventivo senza transazione fiscale, rispetto a un piano corredato dalla proposta di transazione fiscale (nel qual caso il divieto di falcidia del credito IVA è, infatti, direttamente derivante da una disposizione normativa). (15) È stato, al riguardo, sottolineato da G. Andreani - A. Tubelli, op. cit., 2045 ss., che, sulla base della ricostruzione fornita dai giudici di legittimità, il legislatore avrebbe inteso attribuire


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Inoltre, l’art. 182-ter avrebbe natura di norma eccezionale e, pertanto, derogatoria della norma generale, contenuta nell’art. 160, L.F., introduttivo delle disposizioni in materia di concordato preventivo. Tale orientamento di legittimità è stato, peraltro rafforzato dalla decisione della Corte Costituzionale, n. 225 del 25 luglio 2014, scaturita a seguito della questione di legittimità costituzionale del disposto dell’art. 182-ter e 160 L.F., sollevata dal Tribunale di Verona, Sez. II del 10 aprile 2013 (16). La Corte Costituzionale ha, infatti, dichiarato “non fondata” la questione di legittimità costituzionale, sottolineando che “è la natura dell’IVA quale ‘risorsa propria’ dell’Unione Europea a spiegare i vincoli per gli Stati membri nella gestione e riscossione dell’imposta, come pure l’inderogabilità della disciplina interna del tributo e, nella specie, la formulazione dell’art. 182-ter della L.F. che, in ossequio al principio di indisponibilità della pretesa tributaria all’infuori di specifica previsione normativa che ne preveda la rideterminazione, ha escluso la falcidiabilità del credito IVA in sede di transazione fiscale, consentendone solo la dilazione di pagamento” (17). Alcuni commentatori, sulla scorta di tali osservazioni, hanno opportunamente sottolineato che la sentenza della Corte di Giustizia, seppure opportuna, non vale certamente a risolvere gli argomenti di natura sistematica sollevati dalla Corte di Cassazione.

al credito erariale relativo all’IVA natura di credito “quasi prededucibile”, “superprivilegiato”. Tali osservazioni della Corte di Cassazione sono state puntualmente contestate da G. Bezzi, op. cit., e da G. Andreani - A. Tubelli, Fisco, 2016, 927 ss., laddove si evidenzia, in sintesi: a) che la natura di “quasi prededuzione” del credito IVA avrebbe, nel caso, dovuto trovare accoglimento nell’art. 111 L.F., nell’ambito dei crediti prededucibili, non trattandosi chiaramente di crediti sorti in occasione o in funzione della procedura; b) l’infalcidiabilità dell’IVA – che oltre nella transazione fiscale è stata espressamente riconosciuta ex lege nella procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento (di cui all’art. 7, L. n. 3/2012) – non trova comunque applicazione nei piani di risanamento ex art. 67, comma 3, lett. d), L.F., e nemmeno nel fallimento, nella liquidazione coatta amministrativa e nell’amministrazione straordinaria; c) le riforme che hanno interessato il concordato preventivo negli ultimi anni non hanno mai contemplato l’introduzione di una disposizione preclusiva alla falcidia del credito IVA, analogamente a quanto introdotto nell’ipotesi di transazione fiscale. (16) È interessante osservare che i giudici scaligeri hanno valorizzato, nell’ordinanza di rinvio alla Corte Costituzionale, la possibile lesione del principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione, sancito dall’art. 97 Cost., in quanto la regola della infalcidiabilità del credito IVA nel concordato preventivo impedirebbe alla Pubblica Amministrazione di valutare in concreto la convenienza della proposta. (17) Cfr. il passaggio in F. Miconi, op. cit., p. 731


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È lecito interrogarsi, in altri termini, sulla effettiva portata della sentenza Degano nel diritto vivente e nel nostro ordinamento interno e, soprattutto, su quali iniziative possono essere adottate al fine di consentire il “consolidamento” nazionale della pronuncia comunitaria (18). La pronuncia resa dalla Corte di Giustizia nella causa Degano ha contribuito indubbiamente a sollecitare, non solo l’interprete ma – soprattutto – il Legislatore nazionale a rendere maggiormente coerente con i principi comunitari le disposizioni in materia di crisi d’impresa, su cui peraltro è in corso un profondo lavoro di riforma da parte della Commissione ministeriale per la riforma della normativa in tema di procedure concorsuali presieduta dal Presidente aggiunto della Corte di Cassazione Renato Rordorf (d’ora in poi anche solo “Commissione Rordorf”). La valorizzazione dei principii di neutralità e, soprattutto, di effettiva riscossione dell’IVA, che nella fase concorsuale viene declinato dalla Corte di Giustizia come “massima riscossione possibile”, dovrebbe condurre ad una lettura comunitariamente orientata, da parte dei Giudici nazionali, della fase di riscossione del credito IVA nella procedura di concordato preventivo, in grado di superare il limite (contrario al diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di Giustizia) della necessaria e imprescindibile integrale soddisfazione dell’IVA. Tuttavia, per assicurare una maggiore “stabilità” degli effetti della pronuncia, sarebbe auspicabile, se non necessario, intervenire sull’art. 182-ter, L.F., il cui dettato è parimenti contrario ai principi (opportunamente) precisati a livello comunitario, al fine di superare le argomentazioni sviluppate dalla Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale. Tale intervento potrebbe trovare la sua naturale sede nell’ambito della riforma della Crisi d’impresa e, in particolare, mediante la valorizzazione degli strumenti suggeriti dallo Studio del CNDCEC del dicembre 2015, consegnato alla Commissione Rordorf (19).

(18) Un primo effetto potrebbe essere, come suggerito da V. Ficari, op.cit., la risoluzione della questione di legittimità comunitaria sollevata dalla Corte di Cassazione con ordinanza 1° luglio 2015, n. 13542 con cui è stato richiesto alla Corte di Giustizia di pronunciarsi in merito alla legittimità dell’estinzione del debito IVA qualora il soggetto sia riammesso alla procedura di esdebitazione, ex art. 142 L.F. Su tale questione, cfr. L. Del Federico - S. Ariatti, Esdebitazione ed IVA: tra equivoci e vincoli europei, a margine dell’infalcidiabilità del tributo nel concordato preventivo, Fall., 2016, 452 ss. (19) Cfr. la sintesi delle proposte formulata dal CNDCEC in nota 2 da G. Andreani A. Tubelli, in Fisco, 2016, 921 e sviluppata dai medesimi Autori nel successivo contributo Come rendere più efficace la transazione fiscale, Fisco, 2016, 1256 ss., tra cui si ricordano:


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In tale contesto, valorizzando il contenuto della pronuncia dalla Corte di Giustizia, il Legislatore potrebbe (dovrebbe?) (20) ammettere la possibilità, nel testo dell’art. 182-ter, L.F., di soddisfare l’IVA in misura percentuale (non integrale), come accade per gli altri crediti muniti di privilegio, ed alle stesse condizioni fissate per questi ultimi dall’art. 160, comma 2, L.F., valutandone peraltro l’estensione anche al credito per ritenute (21). La proposta di falcidia dovrebbe, comunque, essere conforme ai principi e alle regole procedurali individuate dalla Corte di Giustizia nella causa Degano.

Alessandro Albano

(i) includere anche i tributi locali tra quelli falcidiabili; (ii) chiarire che per “consolidamento tributario” si intende la sua definitiva cristallizzazione con conseguente preclusione dell’attività di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria con riferimento ai periodi oggetto di transazione fiscale; (iii) applicare il principio del silenzio assenso alla mancata percipazione al voto da parte dell’Amministrazione finanziaria. In merito all’impugnabilità del diniego di transazione fiscale, infine, il CNDCEC suggerisce di indicare quale giudice naturale il Tribunale fallimentare. (20) Alla luce della valorizzazione della fonte comunitaria del tributo, e delle pronunce della Corte di Giustizia, il Legislatore dovrebbe “semplicemente” prendere atto dell’interpretazione “autentica” delle fonti comunitarie (Trattato e Direttiva 2006/112/CE) fornita dalla Corte di Giustizia nella causa Degano (metodo seguito, peraltro, dalla stessa Corte Costituzionale e, prima ancora, dalla Corte di Cassazione). (21) Rendendo, con ciò, coerente un dettato normativo che affianca e assimila il trattamento di tali due (distinte) tipologie di crediti erariali. Cfr. anche quanto affermato dal tribunale di Livorno (cit.), laddove conduce al “naturale” sbocco il ragionamento sviluppato dalla Corte di Giustizia: nel caso di concordato preventivo senza transazione fiscale, superato il vincolo comunitario alla falcidiabilità dell’IVA, a fortiori va consentito il pagamento parziale delle ritenute sprovviste (peraltro) di una siffatta tutela europea.


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

Le procedure amichevoli, con particolare riferimento al transfer pricing: spunti ricostruttivi per rafforzarne l’efficacia in prospettiva di tutela del contribuente Sommario: 1. Premessa e delimitazione dell’indagine. – 2. L’ambito di applicazione

delle procedure amichevoli nelle controversie in materia di transfer pricing: la violazione dei principi di libera concorrenza e del divieto di “doppia imposizione internazionale”. – 3. Il problema dell’efficacia dell’innesco della procedura amichevole nella sua “fase nazionale”. 3.1. L’iniziativa dell’impresa che ha subito la rettifica. – 3.2. l’iniziativa dell’impresa associata. – 4. I raccordi tra attivazione/esiti dei rimedi di diritto interno e svolgimento/conclusioni della procedura amichevole. – 5.- I doveri degli Stati nella valutazione dell’istanza e nello svolgimento del successivo confronto. Riflessioni sugli spazi di tutela per il contribuente interessato. – 6. Alcune notazioni sulla trasparenza nella circolazione delle informazioni acquisite durante lo svolgimento della procedura. – 7. Aspetti procedimentali, con particolare riguardo al diritto al contraddittorio. – 8. I limiti contenutistici dell’Agreement: al confine dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria. – 9. Il delicato coordinamento con la fase di riscossione provvisoria. – 10. Cenni alla procedura amichevole prevista nella Convenzione relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate (90/436/ CEE). – 11. Sintesi e conclusioni della ricerca. Il contributo è dedicato al tema delle procedure amichevoli regolate dai Trattati contro le doppie imposizioni. Si intende, in particolare, esaminare l’utilizzo delle stesse come mezzo per la soluzione di controversie fiscali internazionali in materia di prezzi di trasferimento. Sono da tempo noti i limiti che questi strumenti presentano sul piano dell’effettività ed è evidente come altri istituti (es: arbitrati ed accordi multilaterali) siano destinati ad acquisire progressivamente maggior importanza. Nell’attesa che si delineino compiutamente

* Lo scritto si inserisce nell’ambito del progetto di Ateneo – 2012, Tutela dei diritti economici degli individui nella risoluzione di controversie internazionali (CPDA120174), coordinato dal prof. A. Gattini. Nel quadro della stessa ricerca è previsto un successivo contributo dedicato agli arbitrati internazionali, ai quali dunque, in questo lavoro, si faranno solo limitatissimi cenni.


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questi nuovi scenari, lo scopo dello scritto è comprendere se, de iure condito, sia possibile proporre chiavi interpretative che potenzino l’efficacia delle MAP nella prospettiva di tutela del contribuente. The paper concerns the subject of Mutual Agreement procedures, regulated by Double Taxation Conventions. The specific intention is to examine these as a means of resolving international tax disputes on matters of transfer pricing. The limitations that these instruments have in terms of effectiveness have been known for some time and it is evident that new institutions (e.g. arbitrations and multilateral agreements) are bound to gradually acquire greater importance. While waiting for these new scenarios to become definite, the purpose of the paper is to understand if, de iure condito, interpretative solutions can be provided that strengthen the efficacy of the MAPs from the perspective of protecting the tax payer.

1. Premessa e delimitazione dell’indagine (*). – Com’è noto, l’art. 110, comma 7, Tuir, nel disciplinare il regime fiscale delle operazioni tra società residenti e non residenti legate da rapporti di controllo diretto od indiretto, sovrappone ai prezzi in concreto praticati una valutazione in base al valore normale dei beni e servizi oggetto degli scambi, di guisa che, se i predetti prezzi non sono allineati a quelli di libera concorrenza e vi è stata riduzione di materia imponibile per lo Stato italiano, sono oggetto di rettifica (1). È questo, sul piano descrittivo, il meccanismo essenziale delle verifiche sul transfer pricing, che sono divenute, in quest’ultimo tempo, una delle fasi più delicate dell’attività di controllo, in quanto incidono in profondità sulle politiche di gestione commerciale dei gruppi multinazionali e spesso, proprio per questo, hanno impatti rilevantissimi sul piano del quantum accertabile (2), mentre sembrano rimanere sullo sfondo alcune questioni teoriche, non ancora

(1) R. Cordeiro Guerra, La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. trib., 2000, I, 421e ss. (2) Cfr. C. Burnett, International Tax Arbitration, Legal Studies Research Paper n. 08/31, April 2008, Social Science Research Network Electronic Library, http://ssrn.com/ abstract=1120122: “In terms both of frequency of cases and the amount of money at stake, the major international tax disputes have been over transfer pricing. Tax treaties. Given the estimate that more than 60% of global trade takes place between related entities, the scope for transfer pricing disputes is enormous”. V. anche R. Zielke, Transfer Pricing of Mayor EC Member Countries with Reference to the 2014 Corporate Income Tax Burden of the Thirty-Four OECD Member Countries – Germany, France, United Kingdom, and Italy Compared, in Ec Tax Review, 2014, n. 6, 332 e ss.


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

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appianate, sulla natura giuridica delle regole legittimanti il recupero a tassazione (3). Non è, tuttavia, a tali rilevanti ed irrisolte questioni che si intende dedicare questo scritto, quanto piuttosto al versante dell’accertamento, veduto però in prospettiva transnazionale, con particolare riguardo ai problemi che nascono nei rapporti tra ordinamenti aventi giurisdizione impositiva sulle imprese interessate dalle negoziazioni monitorate. Siamo ancora sul terreno dell’ovvio se osserviamo che, in generale, le rettifiche del transfer pricing vengono effettuate dallo Stato che ritiene di aver subito sottrazione di materia imponibile, in quanto assume che i valori di scambio abbiano condotto ad allocare maggiori redditi sulla consociata estera (4), riducendo ricavi o incrementando strumentalmente i costi del soggetto nazionale. Nei casi descritti, uno Stato esercita, dunque, l’azione impositiva su una componente di ricchezza che nell’altro Stato è già confluita a tassazione presso l’impresa associata (come maggiori ricavi o minori costi), sicchè parrebbe realizzarsi un concorso di pretese riconducibili a differenti sovranità fiscali. Si concretizza, cioè, in queste circostanze, una sovrapposizione di potestà concorrenti, il cui cumulo le Convenzioni internazionali mirano ad evitare disciplinando l’attribuzione del diritto di tassare la fattispecie. Più precisamente, le Convenzioni autorizzano e non obbligano gli Stati firmatari a rettificare gli utili delle imprese associate, ma quando la legislazione interna consenta tali interventi, essi debbono rispettare il parametro della libera

(3) Ci si chiede, in particolare, se l’art. 110, comma 7, abbia una finalità antielusiva, se piuttosto risponda a logiche di contrasto all’evasione, se, più ampiamente, miri a favorire un corretto riparto di imponibile fra giurisdizioni fiscali per evitare fenomeni di concorrenza dannosa tra ordinamenti. Per interessanti spunti su questi problemi, cfr. D. Stevanato, Il «transfer pricing» tra evasione ed elusione, in GT, 2013, n. 4, 303 e ss.; A. Gaggero, Il transfer pricing (1992-2015), in Dir. prat. trib., 2015, II (Rassegne di giurisprudenza), 978 e ss., in particolare 1003 e ss.; G. Palumbo, Rassegna sistematica sull’attuale orientamento della giurisprudenza di legittimità in argomento di transfer pricing (2010-2014), in Riv. dir. trib. 2014, II, 285 e ss., in particolare 303; P. Laroma Jezzi, Transfer pricing come abuso del diritto: tanto rumore per nulla?, in Riv. dir. trib., 2012, II, 179 e ss.; F. Pedrotti, Il non condivisibile utilizzo dell’art. 37-bis del DPR 29 settembre 1973, n. 600 e del principio costituzionale di divieto di abuso del diritto al fine di contrastare una presunta violazione in materia di “prezzi di trasferimento”, in Riv. dir. trib., 2012, V, 24 e ss. (4) Ed infatti l’art. 110, comma 7, Tuir prevede la rettifica ai valori normali se ne deriva un aumento del reddito, riservando gli accertamenti “in diminuzione” soltanto ai casi in cui si tratti di dare esecuzione ad accordi conclusi con le autorità competenti degli altri Stati esteri interessati alla fattispecie, a seguito delle speciali “procedure amichevoli” (sulle quali tra breve ci si intratterrà) previste dalla disciplina convenzionale.


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concorrenza, che dunque costituisce il criterio che vincola l’esercizio della predetta sovranità. Sul piano pratico, poi, a livello di gruppo, si riscontra un appesantimento del prelievo che corrisponde ad una duplicazione sulla parte del corrispettivo dello scambio oggetto di rettifica. In questo senso, è possibile riferirsi alla situazione come ad un’ipotesi di “doppia imposizione” (5). A fronte di tali effetti duplicativi, non paiono, tuttavia, sussistere automatismi per assicurare i correlativi aggiustamenti da parte degli organi amministrativi del Paese che dalle politiche di prezzo contestate avrebbe tratto giovamento in termini di maggior gettito (6). Né, del resto, parrebbe agevole reperire un fondamento all’obbligo dello Stato estero di adeguarsi, trattandosi di dare esecuzione ad un atto amministrativo (quello di rettifica), la cui tipica efficacia provvedimentale non potrà, almeno di regola, prodursi al di fuori dell’ordinamento che attribuisce e riconosce il relativo potere. Sussistono, tuttavia, taluni strumenti, non necessariamente in rapporto di reciproca alternatività (7), con i quali rimediare alla decritta sovrappo-

(5) È, del resto, questa la qualificazione della fattispecie riscontrabile nel Commentario OCSE: cfr. OECD Commentary, C(9)-2, § 5, ove si legge che “The re-writing of transactions between associated enterprises (…) may give rise to economic double taxation (taxation of the same income in the hands of different persons), insofar as an enterprise of State A whose profits are revised upwards will be liable to tax on an amount of profit which has already been taxed in the hands of its associated enterprise in State B”. (6) Cfr. L. Perin e A. Adelchi Rossi, Prezzi di trasferimento, procedure amichevoli e rettifiche collaterali, ne il fisco, 1999, n. 40, 12632 e ss., i quali analizzano alcuni problemi legati all’operatività delle procedure di aggiustamento correlativo. Più in particolare, essi esaminano l’ipotesi in cui le rettifiche dello Stato estero richiedano l’attivazione di istanze di rimborso nazionali entro rigorosi termini decadenziali. Gli Autori richiamati considerano, inoltre, la situazione in cui la rettifica estera comporti l’emersione di una maggior perdita ed approfondiscono il problema della riqualificazione del differenziale tra valore normale rettificato e valore effettivo applicato agli scambi, evidenziando come esso (differenziale) possa essere considerato, ad es., come attribuzione di dividendi (con conseguenze sugli obblighi di ritenuta) ovvero come finanziamento. Gli scrittori citati si chiedono, dunque, se sia possibile per il contribuente italiano “scegliere la metodologia di riqualificazione della transazione più congeniale, piuttosto che subire un’arbitraria rettifica operativa da parte dei verificatori o dei giudici”. Su tali “aggiustamenti secondari”, derivanti dalla riqualificazione del predetto differenziale, cfr., anche per l’analisi dei connessi problemi di doppia imposizione, OECD Commentary, C(9)-3, § 8; A. Denaro, Le rettifiche secondarie di transfer pricing: stato dell’arte e prospettive di sviluppo, ne il fisco, 2012, n. 21, 1-3286 e ss.; R.R. Teixeira, Tax Treaty Consequences of Secondary Transfer Pricing Adjustments, in Intertax, 2009, Vol. 37, Issue 8/9, 449 e ss. (7) Si è osservato, ad es., che parrebbe possibile attivare contestualmente la procedura amichevole basata sulla convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni e quella prevista


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sizione impositiva, strumenti riconducibili essenzialmente a tre distinte tipologie: - Rimedi convenzionali modellati sugli schemi delle procedure amichevoli (MAP) (8); - Convenzioni arbitrali e Clausole di arbitrato internazionale (9) o comunque rimedi giurisdizionali che si spingono ad individuare la Corte internazionale di Giustizia (10) o la Corte di Giustizia Europea (11) quali organi competenti alla decisione;

dalla Convenzione arbitrale europea: cfr. A. Tomassini, A. Martinelli, L’accesso alla «mutual agreement procedure» nell’«arbitration convention», in Corr. trib., 2012, n. 32, 2494 e ss. (8) Cfr. Art. 25, §§ 1-4, OECD Model, nonché art. 25 (alternative A), UN Model, Double Taxation Convention. Sulla sostanziale corrispondenza delle previsioni, cfr. J. Kolmann, L. Turcan, Overview of the Existing Mechanisms to Resolve Disputes and Their Challenges, in Aa.Vv., International Arbitration in Tax Matters, a cura di M. Lang, J. Owens, IBFD, 2016, § 2.3.1.2, Online book. (9) Già abbiamo preannunciato che il tema dell’arbitrato rimarrà estraneo a questo scritto e sarà approfondito altrove. Oltre ai lavori citati in seguito, ci limitiamo, dunque, in questa sede, a richiamare il recente Aa.Vv., International Arbitration in Tax Matters, a cura di M. Lang, J. Owens, cit., nonché C. Sacchetto, Profili fiscali dell’arbitrato, in Dir. prat. trib., 2000, I, 29 e ss., in particolare 62 e ss.; C. Garbarino e M. Lombardo, Arbitration of unresolved issues in mutual agreement cases: the new paragraph 5, art. 25 OECD model convention, a multi-tiered dispute resolution clause, in Aa.Vv., Tax Treaties: Building Bridges between Law and Economics, a cura di M. Lang, P. Pistone, J. Schuch, C. Staringer, A. Storck, M. Zagler, IBFD, 2010, 459 e ss., leggibile anche in http://ssrn.com/abstract=1628765; G. Petrillo, New impetus from the OECD for resolving tax disputes through arbitration: an opportunity to reflect on the validity of domestic restraints to arbitration in tax matters, in Riv. dir. trib. internaz., 2006, n. 2, 171 e ss.; M. Züger, Arbitration under Tax Treaties, IBFD, 2001, Doctoral Series, Vol 5, passim; OECD, Transfer Pricing and Multinational Enterprises: Three Taxation Issues, Transfer pricing, corresponding adjustments and the mutual agreement procedure, 1984, in particolare 20 e ss.; W.W. Park, L’arbitrato nei trattati sulle imposte sui redditi, in Riv. dir. trib. internaz, 2003, gendic., 5 e ss.; Id., Arbitrability and Tax, in L. Mistelis e S. Brekoulakis, Arbitrability: International & Comparative Perspectives, Kluwer Law International, 2009, 179 e ss. (10) Per queste ultime prospettive, cfr. L. Nobrega e S. Loureiro, Mutual Agreement Procedure: Preventing the Compulsory Jurisdiction of the International Court of Justice?, in Intertax, Vol. 37, Issue 10, 2009, 529 e ss. (11) Cfr. M. Lang, ECJ and Mutual Agreement Procedures, in Intertax, Vol. 42, Issue 3, 2014, 169 e ss., che riferisce della Convenzione sottoscritta da Austria e Germania, le quali “amended the rules on the mutual agreement procedure to the extent that the ECJ can settle the conflict between the authorities if these fail to reach a mutually agreed solution”. Lo scritto analizza anche le prospettive evolutive in ambito comunitario ed in particolare le discussioni in sede UE per regolare le procedure MAP sulla base di apposite direttive, emergendo, dunque, un ruolo per la Corte di Giustizia dell’Unione nella soluzione dei relativi conflitti interpretativi. Per ulteriore casistica v. G. Groen, Arbitration in Bilateral Tax Treaties, in Intertax, 2002, Vol. 30, Issue 1, 3 e ss., in particolare 12.


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- Accordi preventivi (12) (13), APA (Advanced Pricing Agreement) unilaterali o multilaterali (14), eventualmente anche di diritto interno declinati sulla falsariga del ruling (15). Questo scritto vorrebbe essere dedicato al primo degli istituti elencati, con lo scopo di valutarne l’efficacia e delineare i problemi applicativi da esso posti. Si è dovuto constatare, in effetti, che i Trattati bilaterali e, per conseguenza, le procedure amichevoli in essi previste appaiono “ormai datati e inadeguati a fronteggiare le sfide della globalizzazione” (16) e richiedono, dunque,

(12) In argomento, cfr. A. Mastromatteo e B. Santacroce, Accordi preventivi per l’internazionalizzazione e interpello sui nuovi investimenti, ne il fisco, 2015, n. 38, 1-3609 e ss.; D. De Carolis, Advance pricing agreements: i critical assumptions nelle linee guida OCSE e nel sistema americano: quali suggerimenti per il legislatore italiano?, ne il fisco, 2013, n. 38, 1-5920 e ss.; C. Garbarino, Manuale di tassazione internazionale, Milano, 2008, 1198 e ss., al quale si rinvia per la rassegna dei diversi “rimedi amministrativi” in ambito nazionale e comunitario; L. Patelli, F. Porpora, Il ruling internazionale e gli Advance Pricing Agreements (APA), ne il fisco, 2004, n. 23, 1-3505 e ss.; G. D’Inverno e M. Strata, Transfer pricing: i safe harbours e gli Advance Pricing Agreements, ne il fisco, 2002, n. 30, 1-4791 e ss.; L. Perin e A. Adelchi Rossi, Advance pricing agreements: le nuove raccomandazioni OCSE, ne il fisco, 2000, n. 25, 1-8372 e ss.; ICC Statement on Advance Pricing Agreements, in Intertax, 1995, n. 1, 46 e ss.; J.P. Lagae, Advance pricing agreements, in EC Tax Review, 1999, n. 1, 8 e ss. Per una sintetica definizione di APA e Safe Harbours, cfr. M.T. Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, Milano, 2007, 245 e ss. In prospettiva di comparazione, cfr. G. Meussen e E. Velthuizen, APAs and ATRs: The new Dutch regime in a European perspective, in EC Tax Review, 2002, n. 1, 4 e ss.; M.M. Markham, The Advantages and Disadvantages of Using an Advance Pricing Agreement: Lessons for the UK from the US and Australian Experience, Intertax, 2005, Vol. 33, Issue 5, 214 e ss.; China Tax Scene, The Implementation Rules of the SAT on Advanced Pricing Arrangements (`APAs’) for RelatedParty Transactions (Guo Shui Fa [2004] No. 118) (`APA Rules’), in Intertax, 2005, Vol. 33, Issue 1, 46 e ss.; C. Öner, Legal Nature of Advance Pricing Agreements under Turkish Law: A Comparative Analysis, in Intertax, 2012, Vol. 40, Issue 8/9, 503 e ss. (13) Cfr. art. 1, comma 2, D.lgs. n. 147/2015, che ha introdotto l’art. 31-ter del DPR n. 600/1973. Per quanto interessa si rinvia al comma 1, lett. a) della citata disposizione. Cfr. anche art. 8, comma 1, DL n. 269/2003. (14) Questi ultimi resi possibili dal combinato disposto delle regole sul ruling internazionale e dall’art. 25 Modello OCSE: cfr. Ag. Entr, Bollettino del Ruling di standard internazionale, II ed., § 3.1., 4 e ss. Per un’ampia riflessione sull’istituto, cfr. R. Succio, Advanced Pricing Agreement e procedure negoziate di determinazione del valore normale: la Cassazione nega il potere di veto dell’Amministrazione finanziaria, in Riv. dir. trib., 2016, n. 2, V, 31 e ss. (15) Cfr., sul trattamento fiscale dei piani di investimento nel territorio dello Stato, l’art. 2, D.lgs. n. 147/2015 ed il DM 29 aprile 2016, pubblicato in G.U. n. 110 del 12.05.2016. (16) L. Del Federico, S. Giorgi, Associazione italiana per il diritto tributario Latinoamericano, Relazione nazionale. Il multilateralismo nelle convenzioni internazionali in materia fiscale: la prospettiva europea e l’esperienza italiana, in Dir. Prat. Trib. Internaz.,


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un’evoluzione degli approcci internazionali (17), in parte anche già significativamente avviata. Sino al pieno maturare delle condizioni per i nuovi scenari attesi, l’obiettivo che si ritiene utile cercare di conseguire è quello di verificare se sia possibile, de iure condito, adottare accorgimenti interpretativi che permettano di potenziare l’efficacia dello strumento convenzionale, in modo da assicurare maggior effettività alla tutela del contribuente che vi faccia ricorso. De iure condendo, peraltro, le stesse procedure amichevoli dovranno essere ripensate, anche alla luce delle fondamentali indicazioni dell’OCSE che, nel quadro delle azioni coordinate volte all’attuazione del progetto BEPS, ha identificato talune misure per l’implementazione degli strumenti di soluzione delle controversie transnazionali (18). 2. L’ambito di applicazione delle procedure amichevoli nelle controversie in materia di transfer pricing: la violazione dei principi di libera concorrenza e del divieto di “doppia imposizione internazionale”. – Gli strumenti convenzionali del tipo “procedura amichevole” sono previsti, in particolare, all’art. 25 del modello OCSE, segnatamente, ai §§ 1 e 2, recepiti sostanzialmente nella maggior parte delle Convenzioni bilaterali stipulate dall’Italia. Si ritiene acquisito che il procedimento ivi disciplinato trovi applicazione anche in materia di prezzi di trasferimento (19), quando uno Stato contraente rettifi-

2015, n. 3, 783 e ss., in particolare 798. Allo scritto si rinvia anche per l’analisi dell’Action 15, BEPS: A Mandate for the Development of a Multilateral Instrument on Tax Treaty Measures to Tackle BEPS. In argomento, v. anche J. Malherbe, The Issues of Dispute Resolution and Introduction of a Multilateral Treaty, in Intertax, 2015, Vol. 43, Issue 1, 91 e ss.; N. Mattsson, Multilateral Tax Treaties – A Model for The Future?, in Intertax, 2000, Vol. 28, Issue 8-9, 301 e ss. (17) “(...) anche se non mancano ambiti in cui il modello di cooperazione tra Stati che si riconosce nella procedura amichevole viene riproposto. Si consideri, in particolare, in materia di Iva, il progetto pilota c.d. Cross Border Ruling (CBR), di cui al Provv. Ag. Entr., n. 165827 del 29 dicembre 2015. (18) Cfr. BEPS, Action 14, Making Dispute Resolution Mechanisms More Effective, 2015, Final Report, pubblicato nell’ottobre del 2015. Sugli orientamenti dell’OCSE, cfr. G. Corasaniti, P. De’ Capitani di Vimercate, V. Uckmar e C. Corrado Oliva, Diritto tributario internazionale – Manuale, Padova, 2012, 110 e ss., in particolare 114. Si veda anche il contributo del Committee of Experts on International Cooperation in Tax Matters, Sixth Session, Ginevra, 18-22 October 2010, Guide to the mutual agreement procedure under tax treaties, ove si suggerisce anche una timeline ideale per lo svolgimento delle procedure, dall’introduzione ad opera del contribuente all’attuazione dell’accordo raggiunto da parte delle Autorità nazionali. (19) Cfr OECD Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations, OCSE, Luglio 2010, § C.1, 4.29, 139, ove si legge: “This procedure (…) can


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chi in base al principio di libera concorrenza gli utili di un’impresa vincolata ad una consociata dell’altro Stato da rapporti commerciali o finanziari che non sarebbero stati definiti negli stessi termini tra parti indipendenti (20). Detto

be used to eliminate double taxation that could arise from a transfer pricing adjustment”. (20) Per vero, tale acquisita convinzione potrebbe, in qualche caso, essere messa in discussione. Come risulta dalle indicazioni fornite dal Commentario OCSE (cfr. OECD Commentary, C(25)-10, § 26), alcuni Stati negano al contribuente la facoltà di dare avvio alla procedura amichevole quando le transazioni alle quali si riferisce la richiesta siano considerate abusive. Orbene, sono diverse le occasioni in cui all’alterazione dei prezzi di trasferimento è stato sostanzialmente riconosciuto tale carattere, in particolare quando si è ravvisata elusività nel canalizzare maggiori ricavi verso controllate site in Paesi con fiscalità più favorevole o nel concentrare maggiori costi negli Stati a fiscalità più gravosa. Si considerino, in particolare, Cass. civ., Sez. V, 13-10-2006, n. 22023 (identica Cass. civ., Sez. V, Sent., 16-05-2007, n. 11226), ove si legge che “lo scopo della disciplina dettata dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 76, comma 5 (TUIR) (che regola il c.d. transfer pricing) è di evitare che all’interno del Gruppo vengano posti in essere trasferimenti di utili tramite applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti onde sottrarli alla tassazione in Italia a favore di tassazioni estere inferiori. Si tratta di clausola antielusiva che trova, non solo, radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto (…) ma anche immanenza in diversi settori del diritto tributario nazionale, essendo consentito all’Amministrazione finanziaria di disconoscere - ad esempio - i vantaggi fiscali conseguiti da operazioni societarie (…) poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta (…)”. Cfr. anche Cass. civ., Sez. V, Sent., 13-07-2012, n. 11949, la quale testualmente riprende le già citate decisioni n. 22023/2006 e n. 11226/2007, nonché Cass. civ., Sez. V, Sent., 24-07-2013, n. 17955, ad avviso della quale “la disciplina che regola il ‘transfer pricing internazionale’, costituisce una clausola antielusiva che non solo trova radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto, ma anche immanenza in settori del diritto tributario nazionale (C. 22023/06)”. In senso testualmente adesivo, Cass. civ., Sez. V, Sent., 19-10-2012, n. 17953. La logica antielusiva emerge pure in Cass. civ., Sez. V, Sent., 23-102013, n. 24005, ove si legge che le regole sul Transfer price si spiegano per il “fine di evitare che vi siano aggiustamenti ‘artificiali’ di tali prezzi, determinati dallo scopo di ottimizzare il carico fiscale di Gruppo, ad esempio canalizzando il reddito verso le società dislocate in aree o giurisdizioni caratterizzate da una fiscalità più mite”. Da ultimo, cfr. Cass. civ. Sez. V, Sent., 25-09-2013, n. 22010, secondo cui “la disciplina succitata costituisce – nell’interpretazione più diffusa anche nella giurisprudenza di questa Corte - una ‘clausola antielusiva’, in linea con i principi comunitari in tema di abuso del diritto (…)”. Non differente approccio alle regole che riguardano i trasferimenti di reddito in seno a società collegate (tra le quali è incluso il transfer price) emerge anche nella Giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione, la quale ritiene che le stesse (regole) si giustifichino anche con la finalità di evitare lo sfruttamento di scarti sensibili tra le basi imponibili o le aliquote d’imposta applicate nei diversi Stati membri, sfruttamento che non avrebbe uno scopo diverso da quello di eludere l’imposta normalmente dovuta nello Stato membro in cui ha sede la società che concede il vantaggio alla consociata (cfr. CGUE, Terza Sezione, 21 gennaio 2010, nel procedimento C‑311/08, punti 67-68). Su posizioni difformi parrebbe, invece, essersi collocata Cass., 8 maggio 2013, n. 10739, ove si legge che “la disciplina (…) del transfer pricing, (…) prescinde dalla dimostrazione di una


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“aggiustamento primario” del transfer pricing è, infatti, regolato all’art. 9 del Modello OCSE, dedicato alle Associated Enterprises (21). Occorre, però, preliminarmente chiedersi quale sia l’ambito oggettivo di applicazione della MAP in questo campo (22), se cioè essa abbia la funzione principale di conseguire il correlative adjustment da parte dello Stato estero a fronte dell’accertamento sui prezzi di trasferimento o possa rispondere, altresì, all’esigenza di mettere in discussione anche o eventualmente anche solo la rettifica effettuata, indipendentemente dalla possibilità e dalla disponibilità dello Stato estero ad attuare i predetti aggiustamenti correlativi (23). Si può osservare, al proposito, che l’art. 110, comma 7, Tuir utilizza ai fini dell’accertamento sul transfer pricing il valore normale, che, per effetto del rinvio all’art. 9, comma 3, Tuir, implica il richiamo agli assetti di interessi che si sarebbero determinati “in condizioni di libera concorrenza”. L’art. 9 del modello OCSE, nel considerare la rettifica degli utili delle imprese associate, si riferisce espressamente alle condizioni che si delineano “between independent enterprises”. La citata disposizione non sembra mirare solo a regolare le possibili conseguenze di un intervento sui profitti da parte di

più elevata fiscalità nazionale. Se si vuole, la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare”. Si veda anche Cass., sent. n. 16399/2015, annotata da M. Antonini e P. Piantavigna, “Rigidità” della Cassazione sugli aspetti probatori in materia di “transfer pricing”, in Corr. trib., 2015, n. 43, 4313 e ss. Sul tema, cfr. F. Pedrotti, Il non condivisibile utilizzo dell’art. 37 bis del DPR 29 settembre 1973 n. 600 e del principio giurisprudenziale di divieto di abuso del diritto al fine di contrastare una presunta violazione in materia di “prezzi di trasferimento”, in Riv. dir. trib., 2012, II, 24 e ss. La natura abusiva del comportamento sotteso, ove eventualmente riconosciuta, potrebbe indurre, in questa prospettiva, a porre in dubbio l’attivazione della procedura da parte di chi aderisca a tale qualificazione e ritenga per questo sussistente una causa ostativa alla MAP. (21) Cfr. S. Vorpe, La clausola arbitrale secondo il Modello OCSE e nelle convenzioni contro le doppie imposizioni pattuite dalla Svizzera, in Rivista Ticinese di diritto, 2011, II, 601 e ss., in particolare 610. (22) Si precisa che l’attenzione si concentrerà sulle procedure amichevoli regolate dai Trattati bilaterali contro le doppie imposizioni, diverse, dunque, da quella attivata ex Convenzione arbitrale europea. (23) In dottrina si è pure ipotizzato che la MAP possa essere impiegata per ridurre gli oneri di compliance che si rendono necessari in uno Stato per garantire l’osservanza delle previsioni convenzionali, il che potrebbe avvenire con riferimento all’attuazione del principio di libera concorrenza ed ai connessi oneri in tema di transfer pricing documentation: cfr. E. Furuseth, Can Procedural Rules Create Obstacles to Fundamental Freedoms in European Law?, in Intertax, 2007, Vol. 35, Issue 4, 256 e ss., in particolare 284, ove peraltro l’Autore assume una posizione scettica.


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uno degli Stati contraenti (i sopraddetti aggiustamenti correlativi) ma si preoccupa di dettare il criterio in base al quale, sul piano convenzionale, debbono essere tassati gli scambi tra imprese associate. Il modello stabilisce, dunque, che le relazioni tra le differenti sovranità impositive di cui ciascuno Stato è portatore siano disciplinate in modo che essi non abbiano a subire pregiudizi per effetto di negoziazioni non allineate ai valori di libera concorrenza, ma tali valori sono anche il limite oltre il quale non può spingersi l’azione di recupero. Ciò significa che il parametro della libera concorrenza (il cui rispetto è, sul versante nazionale, presupposto dell’azione accertativa), diviene, in prospettiva internazionale, il criterio di riparto tra sovranità impositive, quando siano in gioco rapporti tra imprese associate. Pertanto, l’alterazione del valore normale, cagionata da un’azione accertativa che non vi si conformi, parrebbe configurarsi come violazione del principio che presiede alla tassazione sugli scambi tra soggetti collegati e, in definitiva, come violazione della Convenzione. Se così è, la procedura amichevole dovrebbe poter essere attivata non solo per rimuovere gli effetti di duplicazione del prelievo a livello di gruppo (che possiamo ricondurre a fenomeni di doppia imposizione economica o giuridica (24)), ma altresì per far valere la violazione del principio di libera concorrenza, espresso nell’art. 9, § 1, del modello OCSE. Ciò potrebbe permettere di investire le Autorità competenti degli Stati coinvolti della questione relativa alla correttezza delle rettifiche sui prezzi di trasferimento, anche a prescindere dalla richiesta di aggiustamenti correlativi, così rendendo la MAP uno strumento di valutazione sovranazionale dei metodi e delle tecniche impiegate per sindacare le transazioni (25). In sintesi, dunque, una condotta del singolo Stato confliggente rispetto alle previsioni convenzionali parrebbe potersi configurare anche quando i contenuti della ripresa a tassazione non siano adeguatamente fondati sull’arm’s length principle (26), quando cioè l’accertamento appaia non corretto e non

(24) A seconda che la rettifica dei prezzi abbia riguardato i rapporti con una subsidiary o con una branch: cfr. A. Vicini Ronchetti, I prezzi di trasferimento, in Aa.Vv., Principi di diritto europeo e internazionale, a cura di C. Sacchetto, Torino, 2011, 288 e ss., in particolare 297. (25) Tale impostazione pare autorevolmente condivisa da L. Salvini, Le procedure arbitrali ed amichevoli come strumento per la risoluzione di controversie fiscali, in NEΩTEPA, 2009, n. 2, 49 e ss., in particolare 51. (26) S. Cipollina, I confini giuridici nel tempo presente, Milano, 2003, 235, richiamando espressamente G. Maisto, Il “transfer price” nel diritto tributario italiano e comparato, Padova,


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coerente con gli obiettivi di ricostruzione dei valori di mercato immanenti nella pattuizione internazionale (27). Per questo, l’impresa che subisce la rettifica pare legittimata a sostenere che il comportamento dello Stato procedente (non dell’altro perché, in ipotesi, rimasto inerte) implica, per ciò solo, un’imposizione “non conforme” al Trattato. L’oggetto della protezione garantita dalla MAP non sarebbe, dunque, solo il contrasto alla duplicazione impositiva (economica o giuridica) nel “gruppo”, ma anche la corretta applicazione dei principi che presiedono alla determinazione del prezzo di libera concorrenza, al cui rispetto sono, del resto, interessati entrambi gli Stati contraenti (28). Questa conclusione pare rafforzarsi se si considera che l’impugnazione dell’atto impositivo nazionale è ritenuta, come vedremo nel seguito, condizione di attivazione della procedura amichevole. Pur se questa regola ha carattere generale, nel caso specifico non avrebbe senso se non fosse possibile contestare la rettifica dei prezzi di trasferimento. Non è logico, infatti, precludere la MAP se questa può mirare solo ad ottenere aggiustamenti correlativi, giacché questi si giustificano proprio sul presupposto della correttezza dei recuperi ed è, dunque, irrilevante che l’accertamento che muove i rilievi sia o meno definitivo. Così, in una situazione delicata quale quella delle rettifiche del transfer pricing, che comportano la soluzione di complesse questioni giuridiche/economiche/aziendalistiche, si renderebbe possibile l’instaurazione di un con-

1985, 79, osserva che l’art. 9 della Convenzione, sostanzialmente ripetitivo delle disposizioni interne, tutela le imprese degli Stati contraenti da valutazioni delle operazioni intragruppo non conformi al principio dell’arm’s length. (27) In astratto, naturalmente, sembra anche possibile dedurre l’assenza dei presupposti per l’applicazione delle regole di aggiustamento primario, contestando i requisiti per l’applicazione del regime delle Associated Enterprises. (28) E. Della Valle, Il transfer price nel sistema di imposizione sul reddito, in Riv. dir. trib., 2009, I, 133 e ss., in particolare § 14, ricorda, citando il Commentario, come ricadano all’interno del campo di applicazione della “mutual agreement procedure, both as concerns assessing whether they are well-founded and for determining their amount”, lasciando intendere che anche le questioni di fondatezza del recupero possano essere deferite a tale pratica internazionale. Non allo stesso modo taluni hanno concluso, se non abbiamo male compreso, in relazione alla Convenzione arbitrale, alla luce dei dati normativi nazionali e comunitari. Al proposito si è detto, infatti, che “solo il profilo di doppia tassazione conseguente a rilievi “transfer pricing” soggiace alla procedura convenzionale. In altre parole, non è contestata la rettifica dei prezzi di trasferimento nel merito, bensì ne sono “normalizzate” le ovvie conseguenze di doppia imposizione internazionale”: cfr. C. Romano e D. Conti, Convenzione arbitrale europea: criticità dell’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate, in Corr. trib., 2015, n. 10, 757 e ss.


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fronto sul merito, con l’ingresso di un attore (l’Autorità competente dell’altro Stato contraente) estraneo alla specifica vertenza tra contribuente ed amministrazione ed in condizione di conferire punti di vista, se non connotati da una maggior indipendenza, quantomeno speculari rispetto a quelli degli organi procedenti e, quindi, idonei ad arricchire il confronto, anche in considerazione della maggior conoscenza delle peculiarità del mercato estero cui si riferiscono le negoziazioni rettificate. A prescindere, cioè, dagli esiti della procedura amichevole, la sola instaurazione della stessa per l’analisi del merito dei recuperi avrebbe il potenziale effetto di rendere più ponderata, consapevole, informata l’azione impositiva dell’Autorità nazionale il che ci pare già di per sé un vantaggio per il contribuente, in considerazione dei “contrappesi” argomentativi che il dialogo internazionale può immettere nella vertenza nazionale. Tale conclusione ci sembra assai utile per ampliare le potenzialità dello strumento, per favorirne una diffusione applicativa ed al contempo per rafforzarne l’efficacia. Invero, se la violazione della convenzione fosse invocabile solo allo scopo di tentare di ottenere gli aggiustamenti correlativi, la procedura MAP potrebbe risultare, almeno all’oggi, nella maggior parte dei casi significativamente depotenziata (29). Occorre, infatti, considerare che l’intervento pubblico sui prezzi praticati tra imprese associate trova all’art. 9 del modello OCSE una disciplina articolata. Se, come sopra ricordato, il § 1 di tale disposizione prevede il potere di incidere autoritativamente sugli scambi ove questi non siano allineati alla libera concorrenza, il § 2, disciplinante i cosiddetti “aggiustamenti correlativi”, impegna l’altro Stato contraente, nel rispetto delle regole della Convenzione, ad introdurre gli opportuni adeguamenti agli utili della consociata, in coerenza con la rettifica attuata dalla controparte firmataria (30).

(29) In effetti, però, il Commentario OCSE, al § 14, C(25)-5, esemplifica le questioni rimettibili alla MAP prospettando il caso in cui sussistono sostanziali dubbi circa la possibilità del contribuente, destinatario di una rettifica dei prezzi di trasferimento, di ottenere i correlativi aggiustamenti nell’altro Stato. (30) Si ricorda che l’Italia ha espresso una riserva relativamente al secondo periodo del secondo paragrafo dell’art. 25, precisando che gli sgravi ed i rimborsi conseguenti alla procedura amichevole dovrebbero considerarsi temporalmente vincolati al termine di decadenza previsto dalla normativa interna (cfr. Reservation on the Article, OECD Commentary, C(25)-34, § 98). In quest’ottica, se male non abbiamo inteso, vi sarebbe il rischio che l’eccessiva durata della procedura internazionale possa pregiudicare le restituzioni. In realtà, sotto un primo profilo, riterrei che il rimborso possa essere attivato quando diventi effettivamente esercitabile il relativo diritto, il che dovrebbe avvenire nel momento in cui si concluda la procedura amichevole.


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Ebbene, la maggior parte delle convenzioni non replica il predetto § 2 dell’art. 9 (31), sicchè in questi casi non sussiste un espresso dovere di attuare contromisure anti-duplicazione quali sono gli aggiustamenti correlativi (32). In assenza di tale clausola potrebbe essere più difficile addebitare all’altro Stato (che non riconosca i predetti aggiustamenti) una violazione della convenzione, o comunque un comportamento ad essa non conforme, per non avere predisposto rimedi rispetto ai quali non si era, però, assunto alcun formale impegno (33).

Si vedano, sul punto, le osservazioni di A. Tomassini, A. Martinelli, Doppia imposizione internazionale e «mutual agreement procedure», in Corr. trib., 2012, n. 16, 1238 e ss., ove si richiamano gli indirizzi esposti nella Circ. 4 maggio 2010, n. 23/E, in particolare nota n. 20. Sotto un secondo profilo, l’accordo raggiunto con lo Stato estero dovrebbe, a nostro avviso, impegnare le amministrazioni nazionali al rimborso d’ufficio, a prescindere dall’attivazione di un’ulteriore apposita istanza. Ad integrare la richiesta dovrebbe ritenersi sufficiente l’avvio della procedura amichevole, con la quale vengano domandati i necessari aggiustamenti correlativi, seguita dall’accettazione dei relativi risultati. Sul punto, però, occorrerà tornare nel seguito, analizzando gli effetti della decisione sulla MAP per le amministrazioni nazionali. (31) Talvolta, peraltro, pur se la Convenzione non riproduce l’art. 9, § 2 del Modello, analoga disposizione si ritrova nei “Protocolli aggiuntivi” ovvero negli “Scambi di note” tra gli Stati contraenti. Secondo autorevole dottrina mentre i primi (i Protocolli) debbono considerarsi parti integranti della Convenzione, i secondi (gli scambi) avrebbero natura di accordo amministrativo tra Governi: cfr. L. Tosi, Transfer pricing: disciplina interna e regime convenzionale, ne il fisco, 2001, n. 7, 2184, al quale si rinvia anche per esemplificazioni sui casi in cui l’art. 9 comma 2 o regole analoghe sono inserite nelle Convenzioni (es. Italia/Turchia), nei Protocolli (Italia/Francia, Germania e Paesi Bassi) o nelle Note (Italia/Regno Unito). In argomento, cfr. anche G. Rolle, “Transfer pricing”: i criteri di confronto fra transazioni e gli strumenti di composizione delle controversie, in Corr. trib., 2015, n. 2, 123 e ss. (32) Si veda, sul punto, G. Rolle, “Transfer pricing”: i criteri di confronto fra transazioni e gli strumenti di composizione delle controversie, cit., ove, alla nota n. 12), si ritrova l’elenco delle Convenzioni che riproducono l’art. 9, secondo § del Modello. (33) Per quanto riguarda l’Italia, si è osservato che l’assenza nella Convenzione di una clausola come quella dell’art. 9, § 2, del Modello OCSE potrebbe trovare un surrogato nella previsione dell’art. 110, comma 7, Tuir, la cui applicazione comporterebbe la sussistenza dell’obbligo, di natura interna, di provvedere alla rimozione della doppia imposizione: cfr. M. Piazza, Guida alla fiscalità internazionale, Milano, 2004, 1150. Al proposito, la conclusione senz’altro ragionevole, ci pare essere in qualche modo messa in dubbio proprio dalla formulazione normativa dell’evocata disposizione. L’art. 110, comma 7, dispone che la rettifica ai valori normali “si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali “procedure amichevoli” previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi”. Si comprende che le rettifiche in diminuzione sono conseguenza di “accordi conclusi” nell’ambito MAP, il che sembra implicare una definizione della procedura amichevole. Ma se a livello convenzionale manca l’art. 9, § 2, è proprio a tale risultato di accordo che potrebbe essere più difficile giungere. Detto in altri termini, l’art. 110, comma 7,


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È vero, peraltro, che il Commentario OCSE all’art. 25, nel discutere sull’opportunità dell’inserimento nei Trattati di una clausola strutturata sullo schema dell’art. 9, § 2, fornisce elementi ermeneutici per superare il problema derivante dalla sua mancanza (34). In esso (35) si legge, infatti, che sarebbe sufficiente il solo richiamo al § 1 dell’art. 9 (36) per desumere l’intenzione dei contraenti di considerare la doppia imposizione economica (derivante dalle rettifiche del transfer pricing) ricompresa nella copertura della Convenzione ed, in quanto in contrasto con lo spirito della stessa, rientrante nell’ambito di applicazione della MAP (37). Non si può omettere di osservare, tuttavia, che, considerando i casi in cui manchi il recepimento dell’art. 9, § 2, del Modello, i toni dello stesso Commentario si fanno più sfumati e dubitativi, con ampio uso di condizionali circa i doveri di intervento correttivo. Si legge, infatti, che, in assenza di tale previsione, gli Stati dovrebbero cercare di evitare la doppia imposizione (should be seeking), che comunque possono esservi opinioni differenti (there may be some difference of view), che vi sono Stati che non condividono questi punti di vista (States wich do not share this view) e che, in pratica, occorre trovare rimedi contro la doppia tassazione economica, in molti casi involgente imprese che hanno operato in buona fede (38), introdu-

Tuir sembra pertenere alla fase di attuazione di una definizione amichevole cui potrebbe essere arduo giungere, proprio per l’assenza di una clausola convenzionale che impegni direttamente ad attuare gli aggiustamenti correlativi. (34) Sul ruolo del Commentario nell’interpretazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, cfr. R. Cordeiro Guerra, Diritto tributario internazionale, Istituzioni, Padova, 2012, 125 e ss.; G. Melis, L’interpretazione del diritto tributario europeo e internazionale, in Aa.Vv., Principi di diritto tributario europeo e internazionale, a cura di C. Sacchetto, Torino, 2011, 15 e ss., in particolare 28 e ss. e, più recentemente, L. Del Federico, S. Giorgi, Associazione italiana per il diritto tributario Latinoamericano, Relazione nazionale. Il multilateralismo nelle convenzioni internazionali in materia fiscale: la prospettiva europea e l’esperienza italiana, cit., in particolare 785 e ss. (35) Cfr. OECD Commentary, C(25)-4, § 12. (36) Quello, lo si ribadisce per comodità, che ammette la rettifica dei prezzi tra consociate non allineati all’arm’s length principle. (37) Così anche A. Vicini Ronchetti, Transfer price tra normativa nazionale e internazionale, in Rass. trib., 2014, n. 3, 487 e ss., in particolare conclusione del § 8. (38) Cfr. ancora OECD Commentary, C(25)-4, § 12. V. anche, sul punto, J. Kolmann, L. Turcan, Overview of the Existing Mechanisms to Resolve Disputes and Their Challenges, in Aa.Vv., International Arbitration in Tax Matters, a cura di M. Lang, J. Owens, cit., § 2.3.1.3.1., Online book, ove si legge: “Some countries take the view that they are not obliged to grant taxpayers access to the MAP or make corresponding adjustments in the absence of a treaty provision based on article 9(2) of the OECD Model. For instance, this is the case with India, which has recorded a reservation to the OECD Commentary stating that it would accept a


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cendo così anche una variabile riferibile allo stato soggettivo dell’operatore economico, di per sé indipendente dall’oggettiva considerazione della duplicazione impositiva. Detto in estrema sintesi, per cercare di chiarire il pensiero, lo Stato estero, obbligandosi formalmente agli aggiustamenti correlativi, si obbliga, in qualche modo, implicitamente, a riconoscere l’efficacia dei provvedimenti amministrativi dell’altro Stato che ha apportato gli aggiustamenti primari e quindi si fa carico di discutere ex professo della fondatezza degli stessi, fondatezza che, ove, beninteso, fosse riconosciuta, dovrebbe comportare l’adozione dei rimedi contro la doppia imposizione. Pur non essendo, dunque, lo Stato contraente tenuto a conformarsi alla rettifica dell’altro Stato qualora non ne accetti i contenuti, ove invece il merito dei recuperi sia condiviso, le connesse correzioni del prelievo parrebbero la conseguenza dell’impegno assunto convenzionalmente. In assenza di tale pattuizione, lo Stato estero è chiamato, ben più modestamente, a cercare di porre rimedio ad un problema di “doppia imposizione” economica creato dall’altro Paese contraente. E se così è, sembra più arduo per il contribuente dedurre una violazione della Convenzione da parte dello Stato estero che, a fronte della rettifica dei prezzi di trasferimento, non abbia attuato gli interventi necessari a neutralizzarla. In questo contesto, è chiaro che una procedura che mirasse essenzialmente ad ottenere aggiustamenti correlativi da parte dell’altro Stato e marginalizzasse la possibilità di mettere in discussione, in un ambito amministrativo sovranazionale, la stessa integrale legittimità del recupero rischierebbe di divenire un istituto magari praticamente anche utile in qualche caso ma giuridicamente, nella maggior parte delle situazioni, piuttosto evanescente. 3. Il problema dell’efficacia dell’innesco della procedura amichevole nella sua “fase nazionale”. – Si vedrà meglio nel seguito che l’attivazione della procedura amichevole è possibile appena si prospetti concretamente la violazione della Convenzione internazionale, sicchè l’iniziativa può essere assunta anche anteriormente alla notifica di un provvedimento impositivo (per esempio a seguito della comunicazione di un processo verbale che sollevi questioni in tema di trasfer pricing) e comunque durante lo svolgimento del

MAP application on transfer pricing matters only if an equivalent to article 9(2) exists in the applicable treaty”.


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giudizio di impugnazione sugli atti di rettifica. La MAP può seguire, dunque, un percorso parallelo rispetto al procedimento ed al processo interni, ragion per cui risulta opportuno riflettere su quale possa essere la modalità più efficace per incardinarla. Se si ammette che l’istituto in esame possa essere impiegato anche per porre in discussione l’atto impositivo di cui si deduca la non correttezza alla luce del criterio della libera concorrenza, sarebbe utile riuscire ad investire della questione lo Stato che non abbia effettuato la verifica, in quanto non interessato alla sua conferma (si tratterebbe, propriamente, di un “controinteressato”). Per come è concepito il meccanismo di innesco della MAP, le regole di identificazione della legittimazione attiva (39) potrebbero, però, frapporre qualche ostacolo al descritto obiettivo (40). Si vorrebbero, al proposito, discutere alcune alternative. 3.1. L’iniziativa dell’impresa che ha subito la rettifica. – Se l’iniziativa viene assunta, come di regola dovrebbe avvenire, da parte del soggetto che ha subito la rettifica dei prezzi di trasferimento, le opzioni possibili sembrano le seguenti: - Il contribuente potrebbe dedurre la violazione delle regole di concorrenza sub specie di erroneità dell’accertamento elevato a suo carico. In questa fattispecie, tuttavia, dovrà sottoporre il caso “all’Autorità competente dello Stato di cui è residente”, vale a dire, per l’Italia, al Ministero delle Finanze (41). Ciò significa che l’istanza di attivazione della procedura è incanalata verso il medesimo “apparato amministrativo” (42), lato sensu inteso, di cui fa parte l’ufficio che ha emesso l’atto. La possibile contiguità

(39) Autorevole dottrina evidenzia come la procedura di cui ai §§ 1 e 2 dell’art. 25 del Modello “è attivata dalla persona che si ritiene colpita dalle predette misure (…)”: cfr. L. Tosi, R. Baggio, Lineamenti di diritto tributario internazionale, Padova, 2011, 60. (40) Si riporta, per comodità del paziente lettore, il testo dell’art. 25 del Modello: “Where a person considers that the actions of one or both of the Contracting States result or will result for him in taxation not in accordance with the provisions of this Convention, he may, irrespective of the remedies provided by the domestic law of those States, present his case to the competent authority of the Contracting State of which he is a resident (…)”. (41) Più precisamente, si tratta del Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanze, come risulta dalle indicazioni fornite dalla Circ. n. 21/E del 2012. Cfr., a titolo esemplificativo, art. 3 Conv. Italia/Germania, recante le definizioni necessarie all’interpretazione delle regole dell’accordo. (42) Usiamo questa espressione senza voler entrare nel complesso tema della natura delle Agenzie fiscali e dei relativi rapporti con il Ministero.


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degli organi investiti della questione e la teorica convergenza di interessi alla conferma dei recuperi rischiano di rendere il vaglio preventivo dell’istanza non troppo dissimile dal ricorso ad un procedimento di autotutela, in cui difetta una netta terzietà del soggetto chiamato a pronunciarsi. Vi sono anche talune formali prese di posizione dell’Amministrazione finanziaria che possono rendere concreto questo pericolo. Ci pare, a riguardo, piuttosto emblematica l’affermazione contenuta nella Circ. 21/E del 2012 ove, nell’illustrare il necessario coordinamento tra Ministero ed Agenzia, si precisa che il coinvolgimento di quest’ultima, sin dalla fase di confezione del “position paper” e di illustrazione degli elementi di fatto e di diritto alla base del caso, si spiega per la necessità di “garantire la massima coerenza tra le posizioni tecniche assunte in sede di procedura con quelle espresse in altri contesti, specificamente in sede interpretativa, di controllo, di prevenzione delle controversie” (43). Del resto, a prescindere dall’incasellamento teorico dell’istanza negli schemi dell’annullamento d’ufficio, su di un piano più generale l’Amministrazione dello Stato interpellato, in quanto tale, è chiamata a valutare una violazione commessa dallo Stato stesso, sicchè, anche da questo più ampio punto di vista, torna ad emergere il descritto problema di terzietà ed indipendenza. In questa prospettiva, è chiaro che potrebbe risultare “spuntato” il meccanismo di innesco della MAP, la quale esige che il ricorso proposto appaia fondato all’Autorità competente investita del problema. - Il contribuente potrebbe anche dedurre l’assenza di aggiustamenti corre-

(43) La sussistenza del problema esposto è chiaramente colta dalla dottrina (cfr. C. Protto, Mutual Agreement Procedures in Tax Treaties: Problems and Needs in Developing Countries and Countries in Transition, in Intertax, 2014, Vol. 42, Issue 3, 176 e ss., in particolare 177, ove si legge che “in some countries, the competent authority function does not count on a reliable independence from the audit function of the tax administration or might be influenced by the general tax collection policy”), nonchè dalle istituzioni internazionali (cfr. OCSE, BEPS Project, Action 14, suggerimento 2.3 di 18 del documento definitivo, ove si legge: “Countries should ensure that the staff in charge of MAP processes have the authority to resolve MAP cases in accordance with the terms of the applicable tax treaty, in particular without being dependent on the approval or the direction of the tax administration personnel who made the adjustments at issue or being influenced by considerations of the policy that the country would like to see reflected in future amendments to the treaty”. In connessione con tale aspetto, si evidenziano – cfr. 2.4 – anche le distorsioni correlate ai criteri di misurazione delle performance dei funzionari fondati sui risultati: “Countries should not use performance indicators for their competent authority functions and staff in charge of MAP processes based on the amount of sustained audit adjustments or maintaining tax revenue”).


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lativi ad opera dell’altro Stato. In tal caso però ci sembra che l’attivazione della MAP presupponga, almeno implicitamente, la correttezza totale o parziale dei recuperi, con conseguente possibile indebolimento delle difese sviluppate mediante ricorso ai rimedi interni, non inibiti dall’attivazione della procedura convenzionale. Per questo motivo, tale iniziativa parrebbe collocabile in una logica subordinata o, comunque, in una più avanzata fase del rapporto tra contribuente ed amministrazione, quando cioè la vicenda abbia già evidenziato concreti rischi di duplicazione, come per esempio qualora si siano avuti primi riscontri giurisprudenziali sulla possibile fondatezza dei recuperi, al fine di precostituire una possibile “exit strategy” per ridurre l’impatto di un giudicato sfavorevole. Nell’ottica da noi suggerita, sarebbe invece utile attivare quanto prima la MAP, per beneficiare del proficuo apporto garantito dal contraddittorio tra Autorità in sede internazionale sul merito della contestazione, dando per presupposto che, almeno in parte, gli esiti di questo confronto possano rifluire nel procedimento/processo nazionale, come più oltre si cercherà di prospettare. Così concepita appare, dunque, chiara la debolezza dell’innesco, il quale potrebbe anche mostrarsi, in certe situazioni, addirittura potenzialmente pregiudizievole per gli interessi difensivi, perché parrebbe poter comportare implicite ammissioni. In ogni caso, poi, ove fosse dedotta solo l’assenza di aggiustamenti correlativi, senza mettere in discussione la fondatezza sostanziale dell’accertamento (argomento che, però, per quanto detto, potrebbe essere di ostacolo alla promozione della MAP per il “conflitto di interessi” dell’Autorità nazionale investita), lo Stato estero coinvolto potrebbe porsi in ottica attendista, obiettando che non vi è alcuna doppia imposizione economica sino a quando non interviene una pronuncia sulla fondatezza dei recuperi, o potrebbe sostenere che il soggetto passivo non si è congruamente difeso avverso una rettifica illegittima. Comunque, particolarmente quando la Convenzione non riproduca l’art. 9, § 2, del Modello, la censura allo Stato estero rimarrebbe esposta all’approccio indicato nel Commentario e appena più sopra ricordato, il quale offre direttive di comportamento che si presentano più come desiderata che come dotate di forza cogente (44).

(44) E’ anche in questo che si manifesta uno dei più significativi limiti delle procedure amichevoli, consistente “in ciò che le amministrazioni coinvolte non hanno alcun obbligo di pervenire ad un accordo e non vi sono termini per pervenire alla conclusione della procedura”:


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3.2. L’iniziativa dell’impresa associata. – Vi è da chiedersi, dunque, se l’avvio possa essere promosso dalla consociata non destinataria della rettifica e se, in questo caso, si incrementi l’efficacia dell’iniziativa (45). Anche così, peraltro, sembrano prospettabili alcune perplessità, tanto se oggetto della contestazione sia l’inosservanza dei corretti principi di concorrenza, quanto se sia il divieto di doppia imposizione economica. - Sotto il primo profilo (violazione dell’arm’s length), la predetta consociata non è destinataria di alcun recupero, ragion per cui i prezzi di trasferimento rimangono per la stessa quelli praticati in accordo con controparte, sul presupposto che rappresentino il corretto equilibrio tra le prestazioni. Non sembra, dunque, agevole che la consociata non verificata possa direttamente censurare la condotta dello Stato che ha effettuato l’accertamento, per di più considerando che nei suoi diretti confronti non vi è stata alcuna applicazione dell’art. 9, comma 1, non essendo stati inclusi maggiori profitti nel suo reddito per effetto della rettifica dei valori normali. Sembra essere, insomma, la società accertata quella legittimata a lamentare che “per lei” le misure adottate dallo Stato contraente che ha esercitato (si assume illegittimamente) il potere impositivo non sono conformi alle previsioni convenzionali. La legittimazione ad attivare la procedura sembra, dunque, essere riconosciuta, per la contestazione descritta, solo alla società accertata, in quanto sarebbe ad essa

cfr. autorevolmente E. Della Valle, Il transfer price nel sistema di imposizione sul reddito, cit., in particolare § 14. (45) In questo senso, cfr., autorevolmente, L. Salvini, Le procedure arbitrali ed amichevoli come strumento per la risoluzione di controversie fiscali, in NEΩTEPA, 2009, n. 2, 49 e ss., in particolare pp. 50, 51, la quale osserva che “di norma l’istanza che dà inizio alla procedura viene presentata dalla società che non ha subito l’accertamento: nell’esempio fatto, quella che non ha dedotto i (maggiori) costi”. Ciò, si è rilevato, non per particolari ragioni giuridiche, ma perché “è nella sostanza compito del contribuente istante convincere la propria Amministrazione della bontà delle proprie tesi. Ed è evidente che è molto più probabile che ciò avvenga con riguardo all’Amministrazione che non ha emesso la rettifica”. L’interessante notazione induce ad interrogarsi sulla possibilità di adottare tale soluzione sia nel contesto della Convenzione arbitrale, sia in quello della Convenzione bilaterale. Invero, con riferimento alla prima, l’attivazione è possibile quando i principi della Convenzione non sono stati osservati e non si precisa nei confronti di quale soggetto debba essersi verificata la violazione. Nel caso della Convenzione bilaterale, il modello prevede, invece, che l’iniziativa possa essere assunta quando un’impresa considera che l’azione di uno o di entrambi gli Stati membri sia nei suoi confronti, “for him” nel testo inglese, in contrasto con le previsioni convenzionali. Emerge, dunque, un riferimento alla direzione soggettiva della violazione che non ci pare presente nella Convenzione arbitrale, la quale, dunque, sembrerebbe più elastica nel tutelare l’iniziativa dei soggetti interessati.


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riferibile la violazione della Convenzione in punto di erronea applicazione dei valori normali agli scambi. - Sotto il secondo profilo (“doppia imposizione”), neppure sembra agevole ipotizzare una censura della consociata non accertata allo Stato della sua residenza, richiedendo un aggiustamento correlativo a suo favore (una sorta di accertamento in utilibus). Appare difficile, infatti, ipotizzare di ottenere l’assenso ad una riduzione dei profitti dichiarati, e perciò ritenuti corretti, per la sola esistenza di una contestazione da parte dell’altro Stato. In ogni caso, concretizzandosi la richiesta in una sorta di istanza di rimborso, emergerebbe nuovamente quel conflitto di interessi che pone in discussione la terzietà dell’organo destinatario della domanda di MAP. Del resto, lo stesso Commentario OCSE fa notare come ciascuno Stato sia ben meno disposto a perseguire in buona fede un accordo bilaterale se l’esito dello stesso comporti la restituzione di imposte già acquisite (46). Tali considerazioni mettono in luce come gli strumenti per assicurarsi un efficace innesco della procedura appaiano, almeno teoricamente, piuttosto deboli (47). Potrebbe forse essere diverso se il soggetto residente nello Stato la cui amministrazione non ha mosso rilievi potesse contestare le irregolarità commesse dall’altro Stato, perché in questo modo l’Autorità competente, chiamata a valutare la fondatezza del ricorso, apparterrebbe ad uno Stato diverso da quello cui appartiene l’amministrazione che ha emesso l’atto e si troverebbe, dunque, in una posizione di più netta indipendenza rispetto agli esiti dell’esame preliminare. Vi sono però alcuni ostacoli da superare: il primo di questi è che, come già sopra osservato, la procedura MAP sembra concepita per consentire la denunzia di violazioni convenzionali da parte del soggetto che le ha direttamente subite. È opportuno, a titolo di conferma, ricordare la formulazione testuale dall’art. 25 del Modello: “le misure adottate (…) comportano (…) per lei un’imposizione non conforme (…)”. Si potrebbe però ipotizzare di dare una lettura estensiva dell’espressione “per lei” (“for him” nel testo inglese): se si intendesse tale sintagma non tanto

(46) Cfr. OECD Commentary, C(25)-19, § 48. (47) In effetti, il Commentario OCSE prevede che gli Stati possano accordarsi per una diversa articolazione della fase di innesco, stabilendo che la domanda possa essere rivolta ad entrambi gli Stati contraenti (OECD Commentary, C(25)-7, §19).


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come significasse “nei suoi confronti” ma come se volesse dire “per i suoi interessi”, si potrebbe forse includere il pregiudizio recato a più ampie ragioni del richiedente, magari comprendendovi gli interessi del gruppo (48). Invero, anche il soggetto residente nel Paese che non pone in essere alcuna rettifica ha interesse a che il gruppo cui appartiene sia sottoposto ad una tassazione conforme ai principi della Convenzione, derivandone altrimenti conseguenze pregiudizievoli di vario genere, seppure magari indirette. Si deve considerare, infatti, che, come osservato da autorevole dottrina, uno dei problemi più rilevanti delle verifiche sui prezzi di trasferimento cross-border è proprio quello delle analisi economico-funzionali che “conducono a riprese palesemente sproporzionate ed impossibili da accettare, nelle loro dimensioni quantitative, dalle Amministrazioni fiscali estere (…)” (49). Se così fosse, l’impresa associata potrebbe denunciare la pratica non conforme attuata dall’altro Stato, investendo l’Autorità amministrativa dello Stato della sua residenza (50). In questo modo l’iniziativa di attivazione del MAP parrebbe, almeno astrattamente, più efficace, poiché la valutazione preliminare sarebbe effettuata dallo Stato che non ha interesse a confermare la legittimità dell’accertamento (51).

(48) Se tali considerazioni possono applicarsi alla società estera controllata, più dubbio è parso riconoscere legittimazione attiva nell’ambito delle Convenzioni bilaterali alla stabile organizzazione: cfr. O. Reale, Le procedure amichevoli nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, in Riv. dir. trib., 2003, I, 335 e ss., in particolare pp. 364-366, il quale, traendo argomento, a contrariis, dalla previsione esplicita della Convenzione arbitrale europea (art. 1, § 2) ritiene che, in queste situazioni, l’iniziativa debba essere assunta dalla “casamadre”, avanti “alla Autorità competente del proprio Stato di residenza e non in quello in cui è localizzata la propria branch”. (49) E. Della Valle, Le direttive sui controlli: i grandi contribuenti, le frodi e la fiscalità internazionale, ne il fisco, 2014, n. 39, 1-3809 e ss. (50) È opportuno segnalare che sulla questione si esprime l’Amministrazione finanziaria: si veda, a riguardo, Circ. n. 21/E del 2012, § 4.2.4., ove si legge che “la procedura amichevole può essere comunque validamente instaurata dall’impresa estera associata, in capo alla quale è già stata assoggettata a imposizione la materia imponibile oggetto di rettifica nel primo Stato. In tal caso, l’impresa associata si rivolge all’autorità competente del proprio Stato di residenza per lamentare la doppia imposizione generatasi in seno al gruppo multinazionale”. Non è chiarissimo, però, se nell’ottica della Circolare l’impresa associata il cui reddito non è rettificato possa contestare la correttezza della rettifica condotta dall’amministrazione dell’altro Stato (violazione della concorrenza) o debba limitarsi a far valere la doppia imposizione, richiedendo gli aggiustamenti correlativi. La maggior efficacia dell’innesco ci parrebbe riconoscibile soltanto nel primo caso. (51) Se non abbiamo male inteso, tale risultato, a nostro modo di vedere anche conseguibile in via ermeneutica, è suggerito come obiettivo nel quadro dell’Action 14 del progetto BEPS, ove, al punto 3.1, si afferma: “Both competent authorities should be made


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4. I raccordi tra attivazione/esiti dei rimedi di diritto interno e svolgimento/conclusioni della procedura amichevole. – Significative questioni si pongono con riferimento al rapporto tra rimedi nazionali e procedura amichevole, aspetto riguardo al quale le indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate ci sembrano poter suscitare più di uno spunto di riflessione. Pare di comprendere dalla lettura del Commentario OCSE che la procedura amichevole, una volta introdotto il ricorso nell’ordinamento del Paese contraente, ben possa essere sospesa in attesa della decisione da parte degli organi investiti della questione (52). La sospensione è anzi individuata come una soluzione ragionevole, pur rimanendo possibile per gli Stati pervenire ad un accordo senza tener conto dell’attivazione degli strumenti di diritto interno, in particolare quando l’Autorità competente non si ritenga vincolata dal giudicato degli organi nazionali (53). La posizione dell’Agenzia delle Entrate, espressa nella Circolare n. 21/E del 2012 (54) parrebbe muoversi in contraria ottica e, nonostante essa sembri assumere la sussistenza di vincoli per l’Autorità competente (55) derivanti dal giudicato interno (come anche tra breve

aware of MAP requests being submitted and should be able to give their views on whether the request is accepted or rejected. In order to achieve this, countries should either: (i) amend paragraph 1 of Article 25 to permit a request for MAP assistance to be made to the competent authority of either Contracting State, or (ii) where a treaty does not permit a MAP request to be made to either Contracting State, implement a bilateral notification or consultation process for cases in which the competent authority to which the MAP case was presented does not consider the taxpayer’s objection to be justified (such consultation shall not be interpreted as consultation as to how to resolve the case)”. (52) Più specificamente, il Commentario precisa che possono darsi due diversi punti di vista, entrambi compatibili con la struttura dell’art. 25: (i) la procedura può essere avviata, ma gli Stati non affrontano la questione fino a quando questa non sia stata definita nell’ambito del diritto interno con gli strumenti appositamente attivati; (ii) gli Stati affrontano la questione ma senza pervenire ad un accordo bilaterale se il contribuente non rinuncia all’azione domestica (cfr. OECD Commentary, C(25)-10, § 25). In ogni caso, il contribuente dovrebbe essere informato dell’approccio adottato. (53) Cfr. OECD Commentary, C(25)-16, § 42. (54) Si veda, in particolare, il § 4.2.5. Per il commento alla circolare cfr. P. Valente, Circolare n. 21/E del 5 giugno 2012 – Le procedure amichevoli come strumento di risoluzione delle controversie fiscali internazionali, ne il fisco, 2012, n. 26, 2-4167 e ss.; D. De Carolis, Le procedure amichevoli di risoluzione delle controversie fiscali internazionali: la circolare dell’Agenzia delle Entrate, in Dir. comm. internaz., 2012, fasc. 2, 513 e ss. Un’analisi del contenuto del richiamato documento ufficiale dell’Agenzia si legge anche in M. Bargagli, Esterovestizione societaria: disciplina convenzionale, in Aa.Vv., Esterovestizione societaria e profili tecnico operativi, a cura di C. Sacchetto, Torino, 2013, 39 e ss., in particolare 52 e ss. (55) In questi termini si esprime, in effetti, con riguardo all’Italia, anche la dottrina straniera


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si vedrà) (56), mostra di propendere per la trattazione della MAP, suggerendo anzi di impiegare semmai gli istituti di sospensione dei procedimenti giurisdizionali interni, riferendosi a precedenti in cui la predetta sospensione sarebbe stata concessa dalle Commissioni tributarie (57). La possibile sospensione del processo tributario è prevista ora dall’art. 39, comma 1-ter del D.lgs. n. 546 del 1992, come novellato dall’art. 9 del D.lgs. n. 156 del 24 settembre 2015 (58). La previsione, fortemente criticata da autorevole dottrina, che la considera inutile e controproducente, in quanto diretta a disciplinare un caso di sospensione impropria, diverso dalla sospensione per pregiudizialità regolata dall’art. 39 (59), parrebbe avere almeno il vantaggio di poter essere “governata” anche dal contribuente, essendo necessaria una richiesta conforme delle parti (60).

che include il nostro Paese tra quelli in cui “internal law does not permit the mutual agreement to override a Court decision”: cfr. J.F. Avery Jones, The relationship between the mutual agreement procedure and internal law, in EC Tax Review, 1999, n. 1, 4 e ss., in particolare 8. (56) (…) vincoli, che, come detto, nell’ottica del Commentario suggerirebbero la sospensione della procedura amichevole. (57) Già in precedenza la dottrina aveva proposto, come soluzione per un più efficiente coordinamento tra procedura internazionale e procedimenti interni, la sospensione di questi ultimi, ma detta soluzione era ritenuta non agevole da conseguire allo stato della legislazione: cfr. O. Reale, Le procedure amichevoli nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, in Riv. dir. trib., 2003, I, 335 e ss., in particolare pp. 357, 358. Sul fatto che procedure interne ed internazionali possano correre su un “binario parallelo”, cfr. G. Palumbo, Rassegna sistematica sull’attuale orientamento della giurisprudenza di legittimità in argomento di transfer pricing (2010-2014), in Riv. dir. trib., 2014, II, 285 e ss. (58) Nel richiamato articolo si legge che “Il processo tributario è altresì sospeso, su richiesta conforme delle parti, nel caso in cui sia iniziata una procedura amichevole ai sensi delle Convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni stipulate dall’Italia ovvero nel caso in cui sia iniziata una procedura amichevole ai sensi della Convenzione relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate n. 90/463/CEE del 23 luglio 1990”. (59) Cfr. C. Glendi, Fermenti legislativi processualtributaristici: lo schema di Decreto delegato sul contenzioso, in Corr. trib., 2015, n. 32, 2467 e ss. (60) Si è osservato che il comma 1-ter dell’art. 39, D.lgs. n. 546/1992 non fissa alcun termine alla sospensione, ciò che potrebbe “generare qualche frizione con la garanzia della ragionevole durata”. Se anche la scelta di richiedere la predetta sospensione è assunta dalle parti, potrebbe, dunque, emergere la necessità di “sciogliersi” dallo stato di quiescenza del processo, quando la procedura amichevole si protragga eccessivamente per fattori imprevedibili. L’atto d’impulso potrebbe essere un’istanza di trattazione ai sensi dell’art. 43, D.lgs. 546/1992, ovvero un’istanza di “revoca della precedente ordinanza di sospensione del processo, a motivo non già della cessazione della causa di sospensione bensì del suo interminabile protrarsi, senz’esito apprezzabile”: in questi termini, cfr. C. Consolo, Sospensione del processo, in Aa.Vv., Abuso del diritto e novità sul processo tributario, a cura di C. Glendi, C. Consolo, A. Contrino, Milanofiori Assago (MI), 2016, 220 e ss., in particolare 234.


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Qualche interrogativo suscita, tuttavia, il fatto che l’ufficio possa opporsi (la richiesta delle parti deve essere “conforme”). È ben vero, infatti, che occorre garantire anche all’Agenzia il diritto di difesa e così la possibilità di ottenere una sentenza sul caso, ma è anche vero che, in questo modo, sembra emergere una certa contraddittorietà nell’azione dell’apparato amministrativo, perché, da un lato, l’Autorità ministeriale competente si determina a perseguire una composizione internazionale della vertenza e, dall’altro, l’organo locale mira ad eluderne gli esiti, anticipando la soluzione interna per avvalersi dei vincoli che, secondo lo Stato italiano, il giudicato pone all’attuazione delle procedure amichevoli (vincoli sui quali appena nel seguito si tornerà). Non è da escludere, inoltre, che l’istituto si presti a possibili strumentalizzazioni: se al rifiuto di sospensione dell’Agenzia si accompagna l’inerzia del Ministero, l’effettività della MAP potrebbe essere in concreto pregiudicata. A nostro avviso, comunque, la logica del “doppio binario” (sostanzialmente suggerita dall’Agenzia (61)) può assicurare alla MAP una maggior efficacia, consentendo al contribuente l’abbandono del giudizio instaurato qualora la stessa si sia conclusa in modo soddisfacente. Lo Stato investito della questione sarebbe, per parte sua, spinto a coltivare la procedura per prevenire un eventuale giudicato sfavorevole, mirando a soluzioni che, con il coinvolgimento del Paese estero, tutelino gli interessi del gruppo societario coinvolto. Se poi si dovesse, eventualmente, concludere prima la vicenda giudiziale nazionale, la MAP ne risulterebbe comunque influenzata ma questo accade in ogni caso. Con un procedimento svincolato dallo svolgimento dei rimedi interni la MAP ci sembra acquisire, dunque, natura di alternativa di carattere amministrativo/internazionale per la gestione delle vertenze sul trasfer pricing (62). Più discutibile è esigere la presentazione del ricorso interno contro il provvedimento impositivo come presupposto necessario della procedura

(61) (…) e condivisa da autorevole dottrina: cfr. R. Cordeiro Guerra, Diritto tributario internazionale, Istituzioni, Padova, 2012, 366. (62) Vi è anche, peraltro, chi ritiene che la possibilità di gestire contemporaneamente MAP e ricorsi nazionali finisca per attribuire al contribuente inopportuni benefici: “in such States where the enterprises have the possibility of using both the mutual agreement procedure and the national appeal procedure this option might give the enterprises unfair advantages. If a solution is found by mutual agreement, one of the enterprises might later after appeal be given a more favourable judgement” (così testualmente G. Lindencrona, How to resolve international tax disputes? New approaches to an old problem, in Intertax, 1990, Issue 5, 266 e ss., in particolare 269).


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MAP (63), al fine di evitare che l’imposta accertata in Italia diventi definitiva. Se, per un verso, rimane ferma la possibilità di attivare la procedura amichevole anche anteriormente alla notifica di un provvedimento impositivo impugnabile ed anche in presenza di un atto non impugnabile (o non necessariamente impugnabile), come ad esempio un ruling (64), per un altro, la sopravvalutazione della possibile cristallizzazione della pretesa contenuta nel provvedimento impositivo non appare coordinata con le caratteristiche e le potenzialità della procedura internazionale. Ed invero, suscita perplessità che la definitività del provvedimento impositivo sia preclusiva rispetto ad un intervento internazionale quando la stessa definitività neppure precluderebbe, in ambito strettamente nazionale, gli interventi in annullamento d’ufficio. La struttura della procedura amichevole, pur comportando un accordo con l’altro Paese contraente, implica un coinvolgimento diretto nella vertenza dell’Autorità amministrativa nazionale che non ci appare qualitativamente differente rispetto ad un riesame. Inoltre, l’accordo amichevole sembra poter avere funzioni e contenuti ben più ampi di quelli propri di un ricorso di diritto interno, non mirando soltanto a far dichiarare l’invalidità/infondatezza degli atti impositivi, ma sovrapponendosi ad essi con la diversa finalità di rimuovere le violazioni del principio di libera concorrenza e gli effetti della doppia imposizione, teoricamente anche con strumenti equitativi e flessibili che non necessariamente appaiono inibiti dalla cristallizzazione della pretesa impositiva per mancata opposizione. Di più, la conclusione adottata confina la MAP ad un ruolo servente e dipendente rispetto alle impugnazioni di diritto interno, mentre invece essa potrebbe costituire una modalità indipendente ed autonoma di soluzione. Si dica, da ultimo, che

(63) Si tratta di una posizione espressa nella maggior parte dei protocolli interpretativi allegati alle Convenzioni, i quali statuiscono che il ricorso alle Commissioni tributarie costituisce requisito essenziale per poter accedere alla composizione amichevole (cfr., ad es., punto 19 del Protocollo relativo alla Conv. Italia-Germania o punto 10 del Protocollo aggiuntivo della Conv. Italia-Bielorussia; lett. g) Protocollo Italia-Cina, su cui v. M. Greggi (a cura di), La Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Repubblica Popolare Cinese, Ferrara, 2007, 173 e ss.). In tal senso si interpreta, dunque, la clausola “indipendentemente dai ricorsi previsti dalla legislazione nazionale”: cfr. M. Del Giudice, Convenzioni internazionali: clausola di protezione del contribuente. Nuovi orientamenti, ne il fisco, 2001, n. 39, 12738 e ss. (64) Così, G. Galizia, Questioni scelte in tema di autotutela dell’amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 2009, I, 989 e ss., il quale richiama P. Pistone, Arbitration procedures in tax treaty and community law: a study from an Italian perspective, in Dir. prat. trib. internaz., 2001, 619.


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la doverosa impugnazione degli atti interni potrebbe rivelarsi, in definitiva, un onere meramente formale, che aggrava i costi della procedura internazionale, ben potendo il contribuente abbandonare la controversia instaurata avanti agli organi di giustizia nazionali appena gli sia comunicato il raggiungimento dell’accordo. Infine, le conseguenze della mancata impugnazione potrebbero essere sproporzionate, giungendo ad inibire, almeno in qualche caso, anche l’attivazione stessa della MAP, al solo fine, totalmente estraneo alla definitività della rettifica, di ottenere gli aggiustamenti correlativi (65). Altrettante ed analoghe perplessità suscita l’affermazione dell’Agenzia secondo cui, se il giudicato si forma prima della MAP e se il dispositivo dello stesso non consente di evitare la doppia imposizione, l’Autorità competente italiana non potrebbe che limitarsi a comunicare gli esiti del giudizio alla controparte estera senza poter rimuovere la predetta doppia imposizione, salvo che l’Autorità dell’altro Stato contraente conformi spontaneamente la sua posizione alla decisione espressa dal giudice nazionale. Emerge in questo passaggio come l’Amministrazione italiana mostri di considerare vincolante il giudicato ma anche questa posizione ci appare eccessivamente rigida. Ed invero, nemmeno il giudicato sembra impedire il riesame del rapporto in autotutela, in particolare se si tratti di un giudicato di rito o se siano fatti valere motivi diversi rispetto a quelli posti a base della decisione (si ritiene, cioè, che non operi la regola secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile) (66). Se non sono inibiti gli interventi unilaterali in annullamento d’ufficio, a fortiori non sembra ragionevole lo siano quelli bilaterali derivanti da una procedura convenzionale, almeno entro gli stessi limiti (67). È anche

(65) Si pensi, ad es., al caso in cui l’iniziativa non possa essere assunta dalla casa madre, in quanto soggetto non impugnante, e neppure dalla sua stabile organizzazione nel Paese estero, ove quest’ultima sia ritenuta priva di legittimazione attiva. (66) Certo, sul piano pratico, sembra difficile che, in presenza di una pronuncia sfavorevole al contribuente, l’Autorità competente sia particolarmente propensa a dare impulso ed a sostenere la procedura amichevole se questa concerne la corretta applicazione dei valori normali e cioè se oggetto di denuncia è la legittimità della rettifica (violazione del principio di libera concorrenza). Diverso sarebbe, naturalmente, se la denuncia riguardasse i necessari aggiustamenti correlativi (violazione della doppia imposizione economica). (67) E’ della stessa opinione G. Galizia, Questioni scelte in tema di autotutela dell’amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 2009, I, 989 e ss., secondo cui “in relazione a tale profilo è appunto il caso di richiamare l’art. 2, 2° comma, d.m. n. 37 del 1997, dal quale è agevole desumere, attraverso una lettura negativa, che l’istanza di autotutela può essere avanzata anche al cospetto di una sentenza passata in giudicato favorevole all’Amministrazione finanziaria, purché si pongano in risalto eventi, fatti e circostanze sopravvenuti idonei a


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opportuno ribadire che l’esito della MAP potrebbe teoricamente avere portata, funzioni e contenuti più ampi e differenti rispetto ad un giudicato che si basi su di un ricorso di diritto interno, volto a far valere vizi formali e sostanziali del provvedimento notificato. Ma su tale aspetto occorrerà ritornare. Addirittura fuorviante mi sembra, invece, l’indicazione fornita dalla Circ. 21/E del 2012, secondo cui qualora le autorità competenti addivengano ad un accordo che elimina la doppia imposizione senza che sia ancora intervenuto un giudicato, presupposto necessario per l’esecuzione dell’accordo amichevole è l’accettazione dei suoi contenuti (rectius: dell’atto interno che lo recepisce) da parte del contribuente e la contestuale rinuncia al ricorso giurisdizionale (68). In verità, proprio mantenendosi nell’ottica dell’Agenzia nei termini sopra prospettati, la rinuncia al ricorso, se intesa in senso tecnico (cioè avuto riguardo all’istituto regolato dall’art. 44 del D.lgs. n. 546/1992), potrebbe essere esiziale per il contribuente ed infatti: - se essa viene effettuata nel corso del giudizio di primo grado, comporta la definitività del provvedimento impositivo a suo tempo notificato, sicchè la fattispecie finisce per coincidere con il caso di mancata impugnazione che, secondo l’ufficio, precluderebbe l’utilità e la proponibilità della MAP;

dimostrare l’inesistenza di un’obbligazione tributaria”. Sulla possibilità di considerare l’epilogo della procedura amichevole come circostanza sopravvenuta “idonea a consentire alla p.a. di esercitare il proprio potere di autotutela senza violare il “divieto di elusione del giudicato sostanziale” a sé favorevole”, cfr. C. Consolo, Sospensione del processo, in Aa.Vv., Abuso del diritto e novità sul processo tributario, cit., 232. Pertanto, l’A.F. dovrebbe prendere atto dell’accordo internazionale raggiunto dal MEF ed adeguarvisi, “per non esporre l’Italia ad una violazione, tra l’altro, di quel trattato”. (68) Cfr. C. Attardi, Il ruolo della Corte europea nel processo tributario, Milano, 2008, 311; Id., La composizione delle controversie fiscali internazionali: procedure amichevoli, procedure arbitrali ed ordinamento nazionale, in Riv. dir. trib., 2005, IV, 55 e ss., in particolare 68; B.R. Runge, The German View of the Prevention and Settlement of International Disputes on Tax Law, in Intertax, Vol 25, Issue n. 1, 1997, 4 e ss., in particolare 5., ove si legge “Taxpayers are entitled to reject the result and to attempt to achieve a more favourable outcome by employing legal remedies”; O. Reale, Le procedure amichevoli nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, in Riv. dir. trib., 2003, I, 335 e ss., in particolare 381 e ss., il quale si diffonde anche sulle modalità tecniche di esecuzione dell’accordo raggiunto, accordo che non richiederebbe l’emanazione di appositi provvedimenti di esecuzione o recepimento ma solo l’adozione delle misure necessarie a garantirne la conoscenza e l’attuazione da parte delle autorità periferiche, essendo, dunque, sufficienti anche atti a rilevanza interna. Tali conclusioni sembrano ragionevolmente applicabili anche ai rapporti tra Autorità competente (ministeriale) ed Agenzia delle Entrate.


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- se essa viene effettuata nel corso dei gradi di impugnazione comporta il passaggio in giudicato della sentenza gravata o, a seconda dell’opzione dogmatica, il consolidamento dell’accertamento originario, per cui il caso si riconduce a quello del giudicato sfavorevole (pure ritenuto impeditivo dell’esecuzione della MAP) o a quello di cui al trattino precedente. Detto in sintesi, se definitività e giudicato sono preclusivi dell’attivazione e della prosecuzione della MAP, essi rischiano di esserlo anche della sua attuazione. La soluzione non va, dunque, ricercata nella rinuncia unilaterale ma, a tutto concedere, nell’art. 46, D.lgs. n. 546/1992, disciplinante la cessazione della materia del contendere (69). Il contribuente non dovrebbe, cioè, rinunciare ad alcunchè, ma dovrebbe, se lo ritiene, far valere l’intervenuta soluzione amichevole nel processo tributario come presupposto per un’estinzione del giudizio ricollegabile ad un caso di definizione delle pendenze tributarie. L’Agenzia, dal canto suo, pur non essendo direttamente parte dell’accordo amichevole, dovrebbe, a questo punto necessariamente, aderire, non fosse altro che per ragioni di buon andamento e coerenza della condotta amministrativa. Qualora, invece, il contribuente intenda proseguire il giudizio nonostante l’intervenuta decisione della MAP, sembra preferibile per i suoi interessi che il giudice non debba considerarsi vincolato all’esito della procedura (70), pur potendo trarne elementi di giudizio. Si è prospettata l’ipotesi che l’amministrazione incaricata di dare esecuzione all’accordo (id est l’ufficio dell’Agenzia) non vi proceda. Si è ritenuto che, in tali situazioni, debba essere garantita l’impugnabilità degli atti che si discostano dalla MAP (siano essi provvedimenti impositivi o dinieghi di

(69) Del resto, la conclusione della MAP “consente di realizzare una particolare forma di definizione delle pendenze tributarie”: così, testualmente, P. Selicato, Scambio di informazioni, contraddittorio e Statuto del contribuente, in Aa.Vv., Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, Studi in onore del Prof. G. Marongiu, cit., 472. (70) C. Attardi, La composizione delle controversie fiscali internazionali: procedure amichevoli, procedure arbitrali ed ordinamento nazionale, cit., 68; O. Reale, Le procedure amichevoli nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, cit., 383; F. Adami e F. Leita, La procedura amichevole per evitare le doppie imposizioni, cit., 406. Sul punto, v. però G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, pp. 611-613, in particolare nota n. 47, nonché R. Baggio, Il principio di territorialità ed i limiti alla potestà tributaria, Milano, 2009, 213 ss., il quale afferma che l’efficacia dell’accordo “sarà determinata dall’ordinamento di ciascuno degli Stati contraenti”. In argomento, cfr. anche C. Garbarino, Note a margine del “caso Onduline”: interpretazione funzionale delle convenzioni contro le doppie imposizioni e procedura amichevole, in Dir. prat. trib., 1989, I, 970 e ss.


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rimborso) (71). A puro titolo di spunto, non è da escludere che si possa, in questi casi, interpretare analogicamente l’art. 11, L. n. 212/2000, in combinato disposto con l’art. 1, comma 1, dello Statuto, applicando all’Agreement lo stesso regime dell’interpello sotto il profilo della nullità degli atti difformi, trattandosi, comunque, di un procedimento su di un caso concreto e personale (72). Si è detto, tuttavia, che l’esecuzione dell’accordo sarebbe espressione del potere di autotutela, mancando norme interne che vincolino alla relativa esecuzione, cosicchè la salvaguardia delle ragioni del contribuente incontrerebbe tutti i limiti derivanti dall’assenza di situazioni soggettive efficacemente tutelabili (73). Sul punto saremmo, peraltro, propensi ad osservare che la stessa Circolare, più volte citata, n. 21/2012 parrebbe ritenere automatica l’attuazione dell’accordo raggiunto, se è vero che al § 4.2.10 afferma che “l’Autorità competente che ha ricevuto l’istanza di MAP comunica i contenuti dell’accordo al contribuente, mentre l’Agenzia delle Entrate ne dispone l’esecuzione, provvedendo - ove del caso - al rimborso o allo sgravio dell’imposta non dovuta (74) e relative sanzioni e interessi” (75). Il fatto che non si accenni ad alcuna mediazione di atti interni attuativi, mentre si alluda all’esigenza di comunicare l’esito della procedura al contribuente affinché decida se accettarlo o meno, suggerisce l’idea che secondo l’amministrazione il vincolo nasca ex lege. Del

(71) O. Reale, op. ult, cit., 383, il quale tiene distinta l’ipotesi in cui sia l’Autorità competente a non dare esecuzione alla MAP o a modificarne il contenuto: in questo caso egli ritiene che non sussistano i presupposti per contestare l’eventuale inerzia o per impugnare l’ordine interno diretto all’Agenzia difforme dagli esiti della procedura internazionale e tuttavia riconosce una responsabilità internazionale dello Stato. Il problema ci pare, tuttavia, attenuarsi ove si riconosca l’impugnabilità diretta degli atti impositivi o dei dinieghi di rimborso contrastanti con l’accordo. La tutela sussisterebbe, infatti, “a valle” dell’inadempimento dell’Autorità competente, quando questo si concretizza nei provvedimenti attuativi dell’Agenzia. (72) Una conferma di tale prospettiva interpretativa può essere colta in P. Pistone, Arbitration procedures in Tax Treaty and Community Law: a study from italian perspective, in Dir. prat. trib. internaz., 2001, 613 e ss., in particolare 632. (73) O. Reale, op. ult, cit., 386. (74) Nell’ambito della Convenzione arbitrale europea, cfr. art. 3, comma 1, L. n. 99 del 1993, il quale, regolando le modalità di attuazione dell’accordo raggiunto, stabilisce che il Direttore dell’Agenzia, su domanda del contribuente, dispone che l’ufficio periferico provveda al rimborso o allo sgravio dell’imposta non dovuta a seguito dell’esito della procedura amichevole o arbitrale. (75) Con specifico riguardo al rimborso degli interessi, cfr. amplius P. Pistone, Arbitration procedures in Tax Treaty and Community Law: a study from italian perspective, cit., 630.


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resto, come accortamente rilevato da autorevole dottrina, la ratifica del trattato dovrebbe essere sufficiente a produrre tale effetto, visto che il trattato stesso prevede il ricorso alla procedura amichevole (76). Di più, l’automatismo (nel senso di doverosità dell’intervento correttivo dell’amministrazione nazionale) dovrebbe potersi dedurre dallo stesso tenore dell’art. 110, comma 7, Tuir. Se nella prima frase esso utilizza l’espressione “i componenti di reddito (…) sono valutati”, nella seconda precisa che “la stessa disposizione si applica (…) se ne deriva una diminuzione”, in esecuzione degli accordi raggiunti in procedura amichevole. La doverosità emerge cioè dal primo capoverso, come richiamato in toto dalla seconda parte del comma, il che induce a ritenere che il contribuente possa avvalersi proprio di tale disposizione nazionale per attivare meccanismi restitutori o arginare azioni impositive incompatibili. Non è però da escludersi un’inerzia dell’amministrazione. Si pensi all’ipotesi in cui gli uffici si considerino vincolati dal giudicato interno mentre il contribuente ritenga possibile superarne gli effetti richiamando il medesimo regime proprio dell’annullamento in autotutela. A parte la già prospettata via dell’azione di rimborso o dell’impugnazione dei provvedimenti interni incompatibili, in questi casi, a puro titolo di spunto, si potrebbero sondare diversi strumenti per tentare di conseguire forzatamente l’esecuzione della MAP. Per esempio, valorizzando la struttura consensuale dell’accordo raggiunto, si potrebbe invocare la tutela propria del contratto a favore di terzi (art. 1411 c.c.) (77), ovvero, puntando sulla funzione giustiziale della procedura (78), si potrebbe

(76) G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, cit., pp. 611-613, in particolare nota n. 47, il quale, peraltro, ne trae conseguenze anche sotto il profilo del possibile effetto sul giudizio in corso, prospettando come l’ordine di esecuzione investa l’art. 25 del Trattato e con esso la procedura amichevole ed i relativi accordi. In ogni caso, il Giudice dovrebbe tenere conto che l’Agreement rientra tra “gli accordi successivi tra le parti riguardanti l’interpretazione del trattato o l’applicazione delle sue disposizioni”. Nel senso dell’automatismo parrebbe potersi richiamare anche P. Pistone, Arbitration procedures in Tax Treaty and Community Law: a study from italian perspective, cit., 632, ove si legge che l’accordo prevale sugli atti amministrativi interni e che questa conclusione si fonda sulla circostanza che l’Agreement è una misura necessaria per assicurare una tassazione rispettosa della Convenzione e perciò si fonda sul pactum de contrahendo stipulato con l’altro Stato. (77) Si potrebbe tentare di assumere, cioè, che il contribuente rivesta la posizione di terzo rispetto all’Agreement, che da esso tragga un vantaggio (l’eliminazione della “doppia imposizione”) e che acquisisca il diritto all’attuazione dell’accordo nei confronti dell’amministrazione nazionale (quest’ultima in veste di stipulante). Il mancato recepimento della MAP emergerebbe, in questa prospettiva, sostanzialmente come inadempimento. (78) C. Garbarino, La tassazione del reddito transnazionale, cit., 591.


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proporre una (per vero non agevole) equiparazione ai lodi ai fini dell’attivazione del giudizio di ottemperanza (79). Da ultimo, si potrebbe far constare la violazione dei principi di buona amministrazione come fondamento di un’azione risarcitoria (80) (81). 5. I doveri degli Stati nella valutazione dell’istanza e nello svolgimento del successivo confronto. Riflessioni sugli spazi di tutela per il contribuente interessato. – Un ulteriore rilevante tema attiene al significato che deve essere attribuito all’espressione “se il ricorso le appare fondato”, riferita all’Autorità ricevente l’istanza, la quale è chiamata ad un esame preliminare, in funzione dell’innesco della procedura amichevole. Indipendentemente dalla questione dedotta (violazione del principio di libera concorrenza nella determinazione del transfer price o del divieto di doppia imposizione economica), a nostro modo di vedere tale previsione non intende alludere all’esito di un giudizio definitivo sulla fondatezza (in ottica assimilabile ad un ricorso amministrativo), ma ad una valutazione, a tutto concedere, meramente interinale, orientata

(79) In senso critico, però, stante la natura amministrativa della procedura, cfr. P. Pistone, Arbitration procedures in Tax Treaty and Community Law: a study from italian perspective, in Dir. prat. trib. internaz., 2001, 613 e ss., in particolare pp. 628, 629. (80) Cfr. J.F. Avery Jones, The relationship between the mutual agreement procedure and internal law, cit., 7, ove si legge “In most countries, if a mutual agreement is broken by the tax administration, while it may not be binding as a matter of contract, the tax administration, as a matter of good administration, is bound to carry it out”. (81) Ancor più delicata ci pare la questione relativa alla possibilità di impugnare l’atto interno che dà esecuzione all’accordo internazionale raggiunto, qualora il contribuente non sia soddisfatto del suo esito. In senso positivo si è espressa la dottrina (O. Reale, Le procedure amichevoli nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, cit., 382 ss., F. Adami, F. Leita, La procedura amichevole per evitare le doppie imposizioni, in Riv. dir. trib., 1992, I, 349, in particolare 405; P. Pistone, Arbitration procedures in Tax Treaty and Community Law: a study from italian perspective, cit., 629, che ha ipotizzato l’impugnazione dell’atto applicativo nazionale e la riunione del relativo procedimento giurisdizionale con quello originariamente instaurato avverso la rettifica). L’interessante problema proposto non mi pare di semplice soluzione, non essendo agevole coltivare un’alternativa ulteriore oltre ad accettazione e rinuncia (in quest’ultimo caso con conseguente prosecuzione del giudizio già instaurato sugli atti di rettifica). Occorrerebbe chiedersi, inoltre, quali potrebbero essere i limiti e gli effetti della pronuncia del giudice investito dell’impugnazione dell’accordo. L’annullamento, infatti, produrrebbe il medesimo risultato conseguibile non accettando gli esiti della MAP e la rimodulazione in sede giudiziale parrebbe invadere un’area riservata al potere degli Stati coinvolti nella procedura amichevole. Scettico sulla possibile impugnazione dell’Agreement, anche in considerazione della sua natura di “accordo internazionale in forma semplificata”, appare R. Cordeiro Guerra, Diritto tributario internazionale, Istituzioni, Padova, 2012, 367.


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a valorizzare la sussistenza di un fumus boni iuris. In questo senso, basterebbe il presupposto tipicamente elaborato a proposito delle misure cautelari per giustificare l’attivazione della MAP, ciò che consentirebbe di rendere meno rigorose le condizioni di superamento del vaglio preventivo. Tale approccio parrebbe desumibile dalle indicazioni ritraibili dallo stesso Commentario OCSE, ove si legge: (i) che se i rilievi sollevati dal contribuente appaiono ragionevoli e fondati su fatti accertabili, l’Autorità competente non potrebbe rigettare la richiesta adducendo di non ritenere provato (82) che la tassazione contraria ai principi della convenzione avverrà (83); (ii) che deve considerarsi sufficiente la mera probabilità della doppia imposizione (84); (iii) che l’avvio della MAP non può essere rifiutata se non per buone ragioni (85). Accorta dottrina propone, peraltro, soluzioni ancor più orientate a favorire l’avvio della “fase transnazionale”, affermando che, alla luce dei principi costituzionali, dai quali si desume la limitata discrezionalità nell’esercizio dei poteri dell’amministrazione finanziaria, il rigetto dell’istanza dovrebbe essere disposto solo qualora non fossero integrate le condizioni tecniche del rimedio, come ad esempio quando fosse invocato un contrasto della tassazione con la disciplina interna e non con le regole convenzionali, quando il caso fosse presentato oltre i termini previsti nella convenzione, quando non fossero stati attivati rimedi interni, ove previsti come obbligatori in base al trattato, o quando fossero insufficienti le motivazioni o le prove dei fatti rilevanti dedotti dal contribuente (86). Vi è da chiedersi, peraltro, se vi siano rimedi nel caso in cui l’Autorità competente investita della questione non vi dia corso. In dottrina si riscontrano, a riguardo, posizioni scettiche (87). Peraltro, riportando la questione al più circoscritto ambito del transfer pricing, a nostro modo di vedere l’istanza

(82) sulla base degli standards domestici circa l’onus probandi. (83) Cfr. OECD Commentary, C(25)-5, § 14. (84) Cfr. OECD Commentary, C(25)-6, § 15. (85) Cfr. OECD Commentary, C(25)-13, § 34. (86) In questo senso, cfr. P. Pistone, Arbitration procedures in Tax Treaty and Community Law: a study from italian perspective, in Dir. prat. trib. internaz., 2001, 613 e ss., in particolare 621. L’ultima condizione non sembra escludere, peraltro, margini di opinabilità della decisione in concreto assunta. (87) Cfr. R. Dominici, Le regole per la risoluzione dei conflitti in materia di doppia imposizione internazionale, in Aa.Vv., Corso di Diritto tributario internazionale, coordinato da V. Uckmar, Padova, 2002, 149 e ss., in particolare 151; E. Della Valle, Il transfer price nel sistema di imposizione sul reddito, in Riv. dir. trib., 2009, I, 133 e ss., in particolare § 14, ove si legge che “l’eventuale mancata attivazione della procedura è un fatto di fronte al quale il contribuente è sfornito di una effettiva tutela”.


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di attivazione della MAP, almeno se concepita anche come contestazione dei prezzi di libera concorrenza in concreto praticati dallo Stato che ha effettuato la rettifica, assume connotazioni non troppo dissimili (considerato il destinatario, appartenente al medesimo apparato amministrativo di cui fa parte l’ufficio che ha emesso il provvedimento) rispetto ad una richiesta di riesame, sicchè potrebbero riproporsi le considerazioni svolte dalla dottrina nei casi di silenzio serbato a fronte di un’istanza di autotutela o in caso di diniego (88). Se anche non si potesse giungere ad una pronuncia di “apparente fondatezza” del ricorso MAP, che si sostituisca alla decisione amministrativa imponendo così di attivare la procedura (89), sembra ragionevole ritenere che si possa quantomeno sindacare la condotta degli organi investiti del problema (90),

(88) E’ esplicito, in questo senso, G. Galizia, Questioni scelte in tema di autotutela dell’amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 2009, I, 989 e ss., ove si legge che con riguardo alla fase interna della MAP “è ipotizzabile una pressocché totale sovrapponibilità delle discipline dei due istituti qui considerati”. L’Autore fa notare che, in ragione di tale assimilazione, qualora l’istanza sia presentata ad ufficio incompetente, dovrebbe essere trasmessa ad iniziativa dell’Amministrazione a quello legittimato a procedere. Si è anche precisato che, non essendovi sul punto alcuna previsione convenzionale, gli Stati contraenti non potrebbero opporsi alla MAP deducendo profili di illegittimità formale della fase interna di innesco da parte del contribuente. Analogamente ci pare orientato P. Pistone, Arbitration procedures in Tax Treaty and Community Law: a study from italian perspective, cit., 622. (89) Cfr. C. Garbarino, La tassazione del reddito transnazionale, Milano, 1990, 585; O. Reale, Le procedure amichevoli nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, in Riv. dir. trib., 2003, I, 335 e ss., in particolare 368, ove si afferma la sussistenza di un vero e proprio “dovere di pronunciare” sull’istanza di MAP e di farlo con adeguata motivazione, che renda la decisione controllabile da parte del contribuente. Si assume, altresì, che ove l’istanza possa essere presentata in entrambi gli Stati, il rigetto possa avvenire solo se le Autorità competenti dei due Paesi sono concordi. (90) In effetti la Giurisprudenza, seppure con riferimento alla procedura regolata dalla Convenzione Europea di Arbitrato del 23 luglio del 1990, si mostra sensibile alle esigenze di tutela del contribuente nella fase introduttiva: cfr. Cass., 19/06/2015, n. 12759, ove si legge che “è impugnabile innanzi al giudice tributario il diniego di dare corso alla procedura amichevole (…), conclusa per risolvere i casi di doppia imposizione internazionale economica, connessi al settore tributario, dei prezzi di trasferimento, trattandosi di questione afferente alla fase prodromica della procedura (…), che si svolge integralmente, ex artt. 6 e 7 della citata Convenzione, nell’ambito del diritto interno, sicché non può essere aprioristicamente sottratta alla valutazione giurisdizionale ad opera del competente organo giudiziario dello Stato ove l’istanza è presentata” (v. anche la gemella Ord. n. 12760). A commento cfr., D. De Carolis, Sull’impugnabilità dei provvedimenti di diniego d’accesso alla Convenzione arbitrale europea sul Transfer pricing, in Riv. dir. trib., 2016, n. 1, V, 7 e ss.; G. Beretta, La giurisdizione sul diniego di accesso alla procedura arbitrale in tema di transfer pricing, in Rass. trib., 2016, n. 1, 171 e ss.; C. Romano, D. Conti, Giurisdizione tributaria sul diniego di accesso alla Convenzione arbitrale, in Corr. trib., 2015, n. 34, 2601 e ss., i quali ricordano, peraltro, come


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eventualmente costringendoli ad assumere una determinazione motivata (91). Se, viceversa, l’iniziativa del contribuente si sostanzia in una richiesta di attivazione per ottenere gli aggiustamenti correlativi ad opera dell’altro Stato, ebbene, almeno di regola, la fondatezza non può che apparire in re ipsa all’Amministrazione competente, in quanto l’azione sembra assumere come presupposto proprio la correttezza dell’accertamento effettuato (92). In questo caso l’inerzia potrebbe configurarsi come un’omissione colpevole, poiché, se può, al limite, riconoscersi discrezionalità nel valutare la fondatezza dell’istanza, una volta che questa sia acclarata, la promozione della MAP ci sembra doverosa, configurandosi, dunque, un “duty to negotiate” (93). Pertanto, un

l’Amministrazione italiana abbia espresso, nell’ambito del Joint Transfer Pricing Forum, l’intenzione di apporre riserva ad un’eventuale raccomandazione agli Stati contraenti a garantire l’esperibilità di rimedi giuridici che consentano di accertare se il diniego di accesso alla Convenzione arbitrale europea risulti giustificato. In tema si vedano anche i precedenti della Giurisprudenza Spagnola, su cui cfr. J.M. Calderón, The Taxpayer’s Right to Set the “Mutual Agreement Procedure” in Motion: the Spanish Tax Court’s Approach, in Intertax, Vol 29, Issue 11, 362 e ss., in particolare 364, il quale, peraltro, sembra esprimere qualche perplessità circa la possibilità di assimilare le MAP alle procedure amministrative interne, in quanto in esse dovrebbero trovare spazio non solo i legittimi interessi del contribuente, ma anche gli interessi fiscali, dipendenti da una serie di ragioni di politica, strategia, contesto interno e relazioni diplomatiche. In precedenza, con riguardo all’impugnabilità, in senso favorevole cfr. F. Adami e F. Leita, La procedura amichevole per evitare le doppie imposizioni, in Riv. dir. trib., 1992, I, 349, in particolare 382; P. Filippi, Dalla procedura amichevole…alla procedura arbitrale: osservazioni, in Dir. prat. trib., 1996, I, 1171 e ss., in particolare 1174, tutti richiamati adesivamente anche da O. Reale, Le procedure amichevoli nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, in Riv. dir. trib., 2003, I, 335 e ss., in particolare 369, nota n. 94, il quale propendeva per la tutelabilità avanti alla giurisdizione amministrativa. (91) In tema di annullamento d’ufficio e relativa tutela del contribuente cfr., senza pretesa alcuna di completezza, S. Muscarà, Riesame e rinnovazione degli atti nel diritto tributario, Milano 1992; D. Stevanato, L’autotutela dell’amministrazione finanziaria, L’annullamento d’ufficio a favore del contribuente, Padova, 1996; V. Ficari, Autotutela e riesame nell’accertamento del tributo, Milano, 1999; P. Rossi, Il riesame degli atti di accertamento, contributo allo studio del potere di annullamento d’ufficio a favore del contribuente, Milano, 2008; F. Tesauro, Riesame degli atti impositivi e tutela del contribuente, in Aa.Vv., Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, a cura di S. La Rosa, Milano, 2008, 137. (92) (…) a meno di non ipotizzare il caso che l’Autorità competente giudichi inadeguate le eventuali difese del contribuente avverso la rettifica o ritenga che, in assenza di ricorsi nell’ordinamento interno, il soggetto passivo abbia rinunciato a difendersi avverso un recupero illegittimo, ma in tal caso vi sarebbe da chiedersi se il Ministero, nella sua funzione di vigilanza sull’operato dell’Agenzia, non debba, in applicazione di principi di correttezza, indurre gli uffici a valutare l’opportunità di intervenire in autotutela. (93) Per una rassegna comparatistica circa la configurabilità di tale dovere nei diversi ordinamenti, cfr. E. Farah, Mandatory arbitration of international tax disputes: a solution in


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comportamento inerte, a nostro modo di vedere, potrebbe anche giustificare azioni risarcitorie (94). Acquisiti i presupposti per l’avvio della MAP, l’art. 25, comma 2, del modello OCSE dispone che l’Autorità competente “farà del suo meglio” per regolare il caso in via amichevole. Si tratta, dunque, di attuare ogni sforzo ragionevole per pervenire ad una soluzione concordata con l’altro Stato (95). La formulazione potrebbe prestarsi ad una lettura svalutativa (96), concretizzandosi in un’azione dai contenuti incerti ed assai difficilmente coercibile (97),

search of a problem, Florida Tax Review, 2009, Vol. 9, n. 8, 703 e ss., in particolare 719 e ss. (94) In prospettiva comparatistica, con riguardo ai profili di impugnabilità degli atti collegati alla fase interna della procedura, sia con riguardo all’innesco, sia con riguardo all’attuazione della decisione eventualmente assunta in sede MAP, cfr. A. Ribes Ribes, New Spanish Draft Regulation on the Mutual Agreement Procedures Concerning Direct Taxation, in Intertax, Vol. 36, Issue 4, 2008 172 e ss., in particolare 178 e ss. (95) In questo senso, cfr. L. Riza, Taxpayers’ Lack of Standing in International Tax Dispute Resolutions: An Analysis Based on the Hybrid Norms of International Taxation, in Pace Law Review, Vol. 34, Issue 3, 2014, 1064 e ss., in particolare 1069. (96) Si riscontrano, peraltro, nella galassia delle Convenzioni stipulate, alcune eccezioni, come ad esempio il Trattato Italia-Francia, il cui art. 26, comma 3, dispone che se sia riconosciuta la fondatezza della doglianza, “le Autorità fiscali cui tale domanda è stata rivolta si metteranno d’accordo con le Autorità fiscali dell’altro Stato al fine di evitare la doppia imposizione”. Si è parlato, in questo caso, di “obbligazione di risultato”: cfr. P. Pistone, Arbitration procedures in Tax Treaty and Community Law: a study from italian perspective, cit., 622. Peraltro, presupposto della doverosità dell’intervento è che entrambe le Autorità coinvolte convergano nel riconoscere la fondatezza dell’istanza, la quale deve poggiare sulla prova offerta dal contribuente che “le imposizioni fatte o progettate a suo carico hanno causato o causeranno nei suoi confronti una doppia imposizione vietata dalla Convenzione”. (97) Cfr., in dottrina, sul punto, P. Adonnino, Tutela tributaria ed esperienza internazionale, Intervento, in Aa.Vv., La tutela europea ed internazionale del contribuente nell’accertamento tributario, a cura di A. Di Pietro, Padova, 2009, 117 e ss., in particolare 125, ove si osserva che le Autorità competenti “possono trovare tutti i motivi” per non giungere ad un accordo”, che “quando si inizia la procedura non c’è nessuna garanzia del risultato” e che “le due amministrazioni possono consultarsi per anni” invano. V. anche P. Valente, Circolare n. 21/E del 5 giugno 2012 - Le procedure amichevoli come strumento di risoluzione delle controversie fiscali internazionali, ne il fisco, 2012, n. 26, 2-4167 e ss., ove si legge che “non sussiste, in capo alle autorità competenti, l’obbligo di addivenire a un accordo per l’eliminazione della doppia imposizione; sussiste esclusivamente l’obbligo di “diligenza”, che impone alle Amministrazioni finanziarie interessate di fare del loro meglio per regolare il caso”. La questione è posta anche da P. Tarigo, Principio generale comunitario di eliminazione della doppia imposizione, libertà fondamentali e obblighi convenzionali: il caso Damseaux, in Rass. trib., 2010, n. 5, 1477 e ss., secondo il cui avviso il buon esito delle procedure amichevoli “dipende, in definitiva, da una volontà in tal senso degli Stati”. Si veda anche G. Campos, Treaty Provision for the Arbitration of Transfer Pricing Disputes, in Intertax, 1996, n. 10, 370 e ss., in particolare 371, ove è scritto che tra i molti problemi delle MAP “the most important being


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anche considerando i problemi di budget nascenti dalla gestione di una procedura onerosa per i funzionari coinvolti (98). Le critiche all’effettività delle procedure MAP sono così forti (99) da indurre la dottrina a dubitare che, in base a principi equitativi, esse possano essere qualificate come strumento internazionale di “dispute resolution” (100), con la conseguenza che, per i Paesi

that the competent authorities have no obligation to reach a solution, but are merely required to try to come to an agreement”. Si è parlato, al proposito, della sussistenza di una mera “obbligazione di mezzi“(cfr., G. D’Alfonso, La procedura arbitrale internazionale in ambito tributario e in ambito civilistico, ne il fisco, 2000, n. 44, 1-12956 e ss.), ma se di obbligazione effettivamente si potesse parlare, emergerebbero comunque specifici doveri di attivazione. In analoga prospettiva, si è ritenuto di poter qualificare le clausole MAP come “pactum de negotiando”. In queste fattispecie, pur non sussistendo un obbligo di pervenire alla conclusione di un accordo, gli Stati sono vincolati a porre in essere “all necessary acts and employ all efforts in good faith to come up with a solution to the dispute”: cfr. L. Nobrega e S. Loureiro, Mutual Agreement Procedure: Preventing the Compulsory Jurisdiction of the International Court of Justice?, cit., 541. Per la segnalazione del problema con riguardo ad una specifica Convenzione bilaterale, v. L. Perin e A. Adelchi Rossi, La procedura amichevole e l’arbitrato nella Convenzione tra Italia e Stati Uniti contro le doppie imposizioni, ne il fisco, 2002, n. 48, 1-7645 e ss. Più in generale, per un approfondimento critico sulle regole procedurali proprie delle MAP, cfr. l’articolato contributo di P. Selicato, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, 571 e ss. (98) Su questi aspetti, cfr. C. Protto, Mutual Agreement Procedures in Tax Treaties: Problems and Needs in Developing Countries and Countries in Transition, in Intertax, 2014, Vol. 42, Issue 3, 176 e ss., in particolare 176. (99) Cfr. B.R. Runge, The German View of the Prevention and Settlement of International Disputes on Tax Law, in Intertax, 1997, Vol. 25, Issue 1, 3 e ss., in particolare 4, ove si legge che le procedure amichevoli sono state ampiamente contestate per la loro durata, per la mancanza di una specifica protezione legale del contribuente (sia con riguardo all’attivazione del rimedio, sia rispetto all’eliminazione della doppia imposizione contrastante con i principi del Trattato), nonché per l’assenza del diritto del soggetto passivo ad essere ascoltato e ad essere informato dei presupposti della decisione. (100) Emblematico è il fallimento della procedura amichevole tra Stati Uniti e UK riguardante i prezzi di trasferimento di GlaxoSmithKline su un valore di 3,4 miliardi di dollari, fallimento che non ha favorito la buona reputazione delle MAP: in tal senso C. Burnett, International Tax Arbitration, Legal Studies Research, Paper n. 08/31, aprile 2008, The University of Sydney, Sydney Law School, leggibile all’indirizzo: http://ssrn. com/abstract=1120122, 178. Cfr. anche A. Musselli, Il caso “Glaxo” e transfer pricing del distributore, in Fiscalità Internazionale, 2007, n. 1, 39 e ss. Più in generale, l’analisi dei dati empirici ha rivelato come le MAP siano “untimely in some cases and merely unsuccessful in others”: cfr. M. Bertolini e P.Q. Weaver, Mandatory Arbitration within Tax Treaties: A Need for a Coherent International Standard, in 2012 American Taxation Association Midyear Meeting: JLTR Conference, 13 febbraio 2012, 12, paper leggibile all’indirizzo http://ssrn.com/ abstract=2003897. Per un recente quadro evolutivo, nel quale, peraltro, non mancano sfumature più ottimistiche sull’efficacia della MAP, considerando in particolare il progressivo incremento dei contribuenti che vi fanno ricorso ed i tempi medi di durata della procedura (che tendono


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che hanno riconosciuto la Giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia come Compulsory Jurisdiction in base a dichiarazione unilaterale, la loro previsione nei trattati contro le doppie imposizioni non sarebbe neppure idonea a giustificare l’applicazione delle clausole di riserva ratione fori (101), ciò che consentirebbe di investire delle questioni relative alla possibile inosservanza della Convenzione lo stesso organo di giustizia internazionale (ICJ) (102). Sarei propenso a ritenere, però, che la previsione convenzionale sugli obblighi di diligenza sia inquadrabile nel più ampio dovere di buona fede dell’amministrazione (103), fonte integrativa di doveri di comportamento del soggetto pubblico, la cui inosservanza può essere valutata anche in termini di illegittimità/illiceità della condotta, come abbiamo provato in altra sede a dimostrare (104). Anzi, la stessa dimensione comunitaria del principio, tipizzatasi in doveri di impegno, come fattiva determinazione a rispondere alle esigenze dell’amministrato, superando i problemi derivanti dalla complessità delle situazioni contingenti (105), potrebbe fornire ulteriore supporto alla

a stabilizzarsi nonostante l’aumento delle domande), cfr: P.A. Brown, Enhancing the Mutual Agreement Procedure by Adopting Appropriate Arbitration Provisions, in Aa.Vv., International Arbitration in Tax Matters, a cura di M. Lang, J. Owens, cit, § 4.2.2.1, Online book. (101) Non sembra inopportuno ricordare che anche l’Italia, con Dichiarazione del 25 novembre 2014, ha riconosciuto la Compulsory Jurisdiction della ICJ, introducendo una clausola di riserva ratione fori, secondo cui sono escluse dalla Giurisdizione internazionale quelle controversie in relazione alle quali le parti “have agreed to have recourse exclusively to some other method of peaceful settlement”. (102) L. Nobrega e S. Loureiro, Mutual Agreement Procedure: Preventing the Compulsory Jurisdiction of the International Court of Justice?, cit., 542 e ss., che, peraltro, ricordano come la questione dell’effettività del rimedio MAP non debba essere posta in termini astratti, ma avuto riguardo, in concreto, all’efficacia che dette procedure manifestano con particolare riguardo ai Paesi coinvolti. (103) Così espressamente O. Reale, Le procedure amichevoli nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, in Riv. dir. trib., 2003, I, 335 e ss., in particolare 372, ove si legge che tra le Autorità competenti “sorge un obbligo di correttezza”, in forza del quale non potranno interrompere le trattative se non per fondati motivi, quali per esempio un’inconciliabilità di posizioni dovuta a differenze di ordine costituzionale. (104) Ci sia concesso di rinviare a M. Trivellin, Il principio di buona fede nel rapporto tributario, Padova, 2009, in particolare 96 e ss. Non è, dunque, da escludere che l’inerzia dello Stato o l’inadeguatezza della sua azione possano essere valorizzati in chiave di responsabilità risarcitoria, essendo arduo, in questi casi, identificare strumenti per costringere l’Amministrazione competente ad un accordo. (105) Ancora una volta ci permettiamo, per ragioni di sintesi, di rinviare sul punto a M. Trivellin, Il dovere di correttezza dell’Amministrazione finanziaria nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, Padova, 2014, in particolare 53 e ss.


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sopraddetta cogenza. Vi sarebbe da chiedersi, ad esempio, se, alla luce del predetto quadro sistematico, tra gli oneri connessi al dovere di ricercare positive soluzioni possa includersi quello di convergere sull’individuazione di una procedura che consenta di raggiungere l’accordo, sulla falsariga dell’arbitrato (regolato dal § 5 dell’art. 25 OECD Model (106) o dalla Convenzione arbitrale Europea) ovvero tramite nomina di un mediatore che metta in luce i punti di forza e debolezza delle reciproche posizioni o di un esperto che chiarisca le questioni di fatto sottese (107). Se è dunque possibile astrattamente censurare la condotta di uno Stato che non si sia impegnato abbastanza, identificando a priori un minimum di azioni ragionevoli per cercare una linea di condivisione con l’altro Stato contraente, assai più difficile appare, però, in concreto, acquisire elementi circa le iniziative adottate a tal fine e perciò supportare con prove adeguate l’eventuale censura. L’attivazione del potere di accesso nei confronti dell’Autorità competente nazionale potrebbe fornire, in questo caso, qualche utile ausilio (108).

(106) Cfr., a riguardo, OECD Commentary, C(25)-25, § 69, con riferimento ai casi in cui la Convenzione bilaterale non includa la clausola di arbitrato. (107) OECD Commentary, C(25)-31, 32, §§ 86, 87, ove peraltro si afferma che il ricorso a tali strumenti, pur molto utile, non ha carattere vincolante. (108) È ben vero che il Commentario OCSE (non full version), al § 43 precisa che “However, disclosure to the taxpayer or his representatives of the papers in the case does not seem to be warranted, in view of the special nature of the procedure”, ma, a prescindere dalla più generale questione dell’efficacia del Commentario stesso (cfr. M. Cerrato, La rilevanza del Commentario Ocse ai fini interpretativi: analisi critica dei più recenti indirizzi giurisprudenziali, in Riv. dir. trib., 2009, V, 11 e ss.), la formulazione non appare preclusiva, almeno ove la legislazione nazionale fornisca strumenti conoscitivi. Non sembra agevole, infatti, ricondurre le attività amministrative compiute nell’ambito della MAP alle esclusioni del diritto di accesso previste all’art. 24 della L. n. 241/1990 ed all’art. 8 del Regolamento n. 352/1992. Considerando solo i casi più pertinenti, non pare, infatti, che dalla divulgazione di informazioni concernenti l’impegno dello Stato nel dare impulso alla MAP possa derivare “una lesione, specifica e individuata (…) all’esercizio della sovranità nazionale e alla continuità e alla correttezza delle relazioni internazionali (…)”. Anche se il rilievo TP avesse conseguenze penali sarebbe, inoltre, difficile affermare la sussistenza di un divieto di accesso, giacché questo riguarda solo le “azioni strettamente strumentali (…) all’attività di polizia giudiziaria e di conduzione delle indagini”, mentre nel caso che ci occupa le attività compiute hanno altra finalità, in particolare quella prevista dalla disciplina convenzionale (salvaguardia del corretto principio di concorrenza e del divieto di doppia imposizione). L’esigenza di trasparenza e circolazione di flussi informativi tra le amministrazioni interessate ed il contribuente è, in effetti, suggerita anche nel quadro del MEMAP (Manual on effective mutual agreement procedures), Versione febbraio 2007, 25, ove, alla Best Practice, n. 14, si afferma che “Governments and taxpayers will benefit from a cooperative and fully transparent process” e che “Whilst giving due respect to the confidentiality of government-to-government communications and without


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Né credo possa costituire un invalicabile limite la circostanza che tale diritto risulta escluso sino a quando l’indagine tributaria è in corso. È ben vero, infatti, che la MAP costituisce una procedura nuova che presuppone una specifica e diversa istruttoria, ma è anche vero che l’imposta accertata si cristallizza con la notifica del provvedimento impositivo nazionale e, pertanto, il contribuente chiede di accedere ad un fascicolo relativo ad una fase in cui si discute di una rimodulazione della pretesa a suo favore o della concessione di “benefici compensativi” al gruppo cui appartiene. Non sembra, dunque, sussistere quell’esigenza di segretezza che si spiega per la necessità di salvaguardare l’attività di controllo in corso da iniziative del contribuente che, acquisita conoscenza di ambiti e strategie della verifica, agisca per comprometterne gli esiti (109). Un cenno vorremmo, infine, dedicare alla formulazione letterale del comma 2 dell’art. 25 dell’OECD Model, da cui si desume, prima facie, che chiamata a “fare del suo meglio” sia soltanto l’Autorità competente investita del ricorso, non quella dell’altro Stato contraente, anche se lo stesso riferimento alla risoluzione del caso “per via amichevole” dovrebbe impegnare al medesimo atteggiamento gli organi amministrativi coinvolti di entrambi gli ordinamenti. 6. Alcune notazioni sulla trasparenza nella circolazione delle informazioni acquisite durante lo svolgimento della procedura. – È il tema della

allowing taxpayers to become involved in the actual MAP negotiations, competent authorities are encouraged to consider obtaining input from the taxpayer on factual and legal issues that may arise in the course of the MAP”. Si segnala, comunque, che in dottrina si è posta enfasi sulla segretezza delle negoziazioni e si è affermato che “The government to government negotiations are confidential, even to the taxpayer raising the complaint. Written documents exchanged between the competent authorities also are not vailable to the taxpayer involved”: cfr. C.R. Irish, Private and public dispute resolution in international taxation, in Contemporary Asia Arbitration Journal, 2011, Vol. 4, n. 2, 121 e ss., in particolare 132. Cfr. anche G. Bizioli, Tax Treaty Interpretation in Italy, in Aa.Vv., Tax Treaty Interpretation, Editor M. Lang, London and Linde Verlag Wien, 2001, 195 e ss., in particolare 226, ove si legge che “the proceedings of the meetings is covered by secrecy”. Va peraltro considerato che le informazioni che al contribuente potrebbero essere utili per dimostrare che vi è stata inerzia degli Stati interessati non riguardano tanto i contenuti delle negoziazioni, quanto le iniziative adottate per instaurarle e per sostenerne la prosecuzione. (109) Sui limiti all’accesso in materia tributaria ci permettiamo, per ragioni di brevità, di rinviare a M. Trivellin, Commento all’art. 68 del DPR n. 600/1973, in Aa.Vv., Commentario breve alle leggi tributarie, Tomo II, Accertamento e Sanzioni, a cura di F. Moschetti, Padova, 2011, 337 e ss., in particolare 342 e ss. A titolo di aggiornamento, si vedano Cons. Stato Sez. IV, 29/05/2015, n. 2693; Cons. Stato Sez. IV, 13/11/2014, n. 5588.


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trasparenza della procedura un punto importante, non soltanto al fine di comprendere se gli Stati si siano realmente impegnati a raggiungere un accordo ma anche, ci pare, per acquisire informazioni potenzialmente utili nell’ambito dei rimedi giudiziali interni. La segretezza delle trattative internazionali potrebbe desumersi proprio dall’impianto convenzionale stesso (110), in particolare considerando l’art. 26, §§ 1 e 2, del Modello OCSE (replicato, pur con varie differenze, nei Trattati stipulati dall’Italia), nel quale si legge che le Autorità competenti si scambieranno ogni informazione prevedibilmente rilevante ai fini dell’applicazione delle disposizioni dell’accordo stesso (111) e che, tuttavia, tali informazioni “shall be treated as secret”. Su tale segretezza sembra, peraltro, possibile spendere qualche considerazione ulteriore. Innanzitutto il Modello precisa che il dovere di riserbo ha la medesima estensione che esso presenta nell’ordinamento interno (“in the same manner as information obtained under the domestic laws”) e ciò parrebbe consentire di derogarvi quando la disciplina nazionale lo consenta, come avviene per l’ordinamento italiano che riconosce, pur con taluni limiti, l’accesso agli atti. Allorchè la Convenzione bilaterale replichi tale previsione, l’esercizio di questo diritto alla disclosure sembra dover essere garantito (112). Sotto un secondo profilo, il Modello convenzionale precisa che le informazioni raccolte “shall be disclosed” (113) alle persone o alle autorità investite (concerned) dell’accertamento o della riscossione, comprese le Autorità giurisdizionali e gli organi amministrativi. Al proposito, può osservarsi che l’espressione “concerned”, tradotta appunto come “incaricate” (114), potrebbe anche significare “interessate”, il che permetterebbe di assumere che il Modello presupponga, in realtà, la circolazione delle informazioni (almeno di quelle non coperte da segreto nei casi indicati dall’art. 26, § 3) tra i soggetti coinvolti dalla rettifica e ciò consentirebbe di includervi il contribuente. Ad ogni modo, il flusso in-

(110) P. Pistone, Arbitration procedures in Tax Treaty and Community Law: a study from italian perspective, cit., 623. (111) Sembra, dunque, che la disposizione, stante la sua ampia formulazione, si applichi anche alle informazioni acquisite nell’ambito dello svolgimento della MAP. (112) Si consideri, ad es., la Convenzione Italia-Germania. Diverse sono, invece, sempre a titolo esemplificativo, la Convenzione Italia-Brasile ed Italia-Svizzera che non prevedono il riferimento alle regole dei singoli ordinamenti nazionali. (113) La doverosità è resa nel wording delle Convenzioni nazionali come “saranno comunicate”: cfr. Conv. Italia-Germania, art. 27, § 2. (114) Cfr. ancora, art. 27, § 2, Conv. Italia-Germania.


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formativo nei confronti dell’ufficio locale sembra assicurato, ragion per cui andrebbe incluso nel materiale istruttorio oggetto di doverosa valutazione da parte del medesimo. Questo ci sembra già un risultato, sia perché il principio di buona amministrazione parrebbe impedire un’azione impositiva che non valuti gli elementi raccolti a favore del contribuente, sia perché, anche se il soggetto passivo non possa venire a conoscenza del contenuto dell’informazione, potrebbe però plausibilmente attivare meccanismi per assicurarsi che questa sia utilizzata. Si pensi, ad es., al ricorso al Garante, inquadrabile, a nostro avviso, nell’ampia nozione convenzionale di Autorità amministrativa. A tale istituzione si potrebbe chiedere di vigilare sulla condotta degli uffici periferici, in relazione all’acquisizione e/o all’impiego di notizie provenienti dalla sede internazionale (115), magari ai fini di favorire spontanei interventi unilaterali dell’amministrazione o soluzioni in conciliazione giudiziale (116). Vale la pena, tuttavia, di approfondire la riflessione sull’art. 26 del Modello OCSE, laddove prevede la comunicazione delle informazioni anche nei confronti degli organi giurisdizionali investiti della controversia (Authorities (including Courts (…)) concerned with (…) the determination of appeals in relation to the taxes referred to in paragraph 1 (…)). In un processo di natura dispositiva come quello tributario italiano, l’ingresso nella sfera di cognizione del giudice dovrebbe necessariamente provenire dalle allegazioni delle parti e perciò, se si vuole rendere concreto il circuito conoscitivo includendovi l’organo giudicante, bisogna presupporre che le parti stesse siano coinvolte. Da ciò può dedursi indirettamente che al contribuente (non meno che all’ufficio) deve essere riconosciuta la possibilità di acquisire le informazioni rilevanti, in quanto soggetto legittimato a riversarle nel processo, garantendo così effettività alla previsione dell’art. 26 del Modello. Da ultimo, si potrebbe osservare che le preoccupazioni di segretezza parrebbero da ridimensionare, considerando che, almeno nel caso delle rettifiche

(115) (…) notizie la cui circolazione anche nell’ambito dei procedimenti di accertamento nazionali parrebbe promossa, stanti le indicazioni ricavabili dal contesto normativo. (116) Vi sarebbe da chiedersi se, in relazione alla proposta questione, possa trovare campo l’art. 6, comma 2, L. n. 212/2000 che impone l’obbligo di informare il contribuente sui fatti e sulle circostanze dai quali possa derivare l’irrogazione di una sanzione a suo carico. Si potrebbe forse ritenere che gli atti istruttori compiuti dalle Autorità competenti (rectius: gli elementi dell’istruzione della questione oggetto della MAP) possano rientrare in tale ambito applicativo, giacchè dagli esiti della procedura amichevole potrebbero risultare confermate misure punitive nazionali a danno del soggetto passivo: cfr. M. Pierro, Il dovere di informazione dell’Amministrazione finanziaria, Torino, 2013, pp. 3, 36, 55 e ss.


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sui prezzi di trasferimento, si tratterebbe di notizie sulla specifica posizione del contribuente verificato e, comunque, nella maggior parte dei casi, la questione avrebbe ad oggetto “opinioni” circa la correttezza dei metodi applicati in relazione alle peculiarità delle transazioni ed alla specificità dei mercati (117). In connessione all’esaminato tema della trasparenza, ricordiamo che si è auspicata la pubblicazione degli accordi raggiunti (118), anche per assicurare parità di trattamento nei vari casi (119). Se gli Agreement fossero diffusi tra gli operatori, potrebbero orientare la condotta di quanti si trovino in situazioni analoghe, rendendo possibile invocare il legittimo affidamento (120) a chi abbia, in buona fede, conformato i suoi comportamenti alle indicazioni da essi ritraibili (art. 10 della L. n. 212 del 2000) (121). 7. Aspetti procedimentali, con particolare riguardo al diritto al contraddittorio. – Sin dalla fase del vaglio preliminare e anche successivamente all’instaurazione della MAP, si è sempre osservata una scarsa apertura del-

(117) Per gli obblighi di segretezza nel quadro della procedura disciplinata dalla Convenzione arbitrale europea (90/436/CEE), cfr. art. 9, § 6. (118) E’ già prevista la pubblicazione di statistiche annuali sulla base di report che indichino l’anno di inizio della procedura, nonché il numero dei casi iniziati, in corso e conclusi durante ciascun reporting period: cfr. P. Valente, La procedura amichevole ex art. 25 del Modello OCSE: le statistiche per Paese, ne il fisco, 2012, n. 40, 1-6454 e ss. Allo stato non pare, tuttavia, agevole considerare doverosa la pubblicazione delle singole decisioni assunte in sede MAP, essendo arduo equiparare le stesse agli atti elencati all’art. 5, comma 2, L. n. 212 del 2000. Per completezza, ricordiamo che l’art. 2, comma 5, D.lgs. n. 147/2015, in tema di “interpello sui nuovi investimenti” prevede che l’Agenzia pubblichi annualmente “la sintesi delle posizioni interpretative rese ai sensi del presente articolo che possano avere generale interesse”. (119) È questo un obiettivo ritenuto importante anche in specifici contesti di implementazione dell’efficacia delle procedure MAP: cfr. S. Lyons e C. Angle, Canadian, US Competent Authorities Sign MOU on Mutual Agreement Procedure, in Intertax, 2005, Vol. 33, Issue 8/9, 408, ove si legge che i Paesi interessati “will seek to resolve similar cases in a similar manner”. Si veda, in senso conforme, S.O. Lodin, The Arbitration Convention in Practice, Experiences of Participation as an Independent Member of Arbitration (Advisory) Commissions, in Intertax, 2014, Vol. 42, Issue 3, 173 e ss., in particolare 174, il quale osserva, seppure con riferimento alle decisioni della Commissione consultiva nel quadro delle MAP arbitrali ex Convenzione europea, che “Information about these decisions and the basis and motives for the decisions could be very valuable both for tax authorities in other states and for other multinational enterprises. It could also form the basis for an internationally more homogenous treatment of the problems involved in transfer pricing issues”. (120) L’esigenza è avvertita anche da T. How Teck, The ‘Mutual Agreement’ Article in Tax Treaties - Singapore’s Perspective, in Intertax, Vol. 28, Issue 5, 2000, 206 e ss., in particolare 211. (121) Cfr., con riguardo alla pubblicazione, BEPS, Action 14, Best practice 2 di 29.


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la procedura alla partecipazione del contribuente interessato (122), ciò che, dal punto di vista sistematico, è stato spiegato considerando che l’interesse primario preso in considerazione dalle Convenzioni parrebbe essere quello degli Stati, non essendo riconosciuto a quello del contribuente “qualificazione soggettiva dalle leggi internazionali” (123). Tale problema pare affliggere in misura minore le procedure amichevoli concernenti il transfer pricing, probabilmente anche in considerazione della circostanza che il soggetto passivo, il più vicino alla prova (124) ed il più consapevole delle peculiarità della gestione aziendale, può fornire elementi indispensabili alla soluzione. Invero, il Commentario OCSE, che sul punto richiama le raccomandazioni del Committee on Fiscal Affairs, sottolinea come sia particolarmente utile (particularly useful) assicurare contatti immediati e approfonditi tra contribuente ed amministrazione e tra imprese associate ed autorità interessate sulle questioni più significative, tanto entro la propria giurisdizione quanto in ambito transnazionale e che al soggetto passivo dovrebbe essere data (should be given) ogni ragionevole possibilità di presentare fatti ed argomenti rilevanti sia in forma scritta sia oralmente (125). La più ampia collaborazione del privato andrebbe, del resto, ricercata fin da subito anche in attuazione di più generali criteri. È ben vero, infatti, che la MAP coinvolge relazioni tra Stati ma è anche vero che gli esiti della stessa incidono in modo penetrante sugli interessi diretti ed indiretti (di gruppo) del contribuente, a prescindere dalle eventuali vicende sanzionatorie nei singoli ordinamenti interni. Ciò sembra bastare a lasciare campo alle più evolute applicazioni del giusto procedimento che, quantomeno in ambito nazionale e comunitario, riconoscono al contraddittorio valenza di principio genera-

(122) Cfr. A. Denaro, La procedura arbitrale nel nuovo articolo 25 del Modello Ocse, in Fisco oggi, Venerdì 8 agosto 2008. Sul fatto che i diritti del contribuente si esauriscano nella fase di presentazione dell’istanza è esplicito S. Mayr, La procedura amichevole prevista dalle convenzioni, in Aa.Vv., Il diritto tributario nei rapporti internazionali, I Quaderni di Rass. trib., 1986, n. 2, 95 e ss., in particolare 103. Vedi anche Id., La procedura amichevole nei trattati contro la doppia imposizione, in Boll. trib. 1981, 1150. (123) In questi termini, cfr. P. Adonnino, La prevenzione e soluzione delle controversie tributarie in sede internazionale, in Dir. e prat. trib., 2008, I, 843 e ss. Per una riflessione sui diritti di partecipazione del privato alle procedure in esame, cfr. K. Perrou, Participation of the Taxpayer in MAP and Arbitration: Handicaps and Prospects, in Aa.Vv., International Arbitration in Tax Matters, a cura di M. Lang, J. Owens, IBFD, 2016, 287 e ss. (124) D. Fuxa, L’onere della prova nelle controversie sul transfer pricing, in Rass. trib., 2008, 225 e ss. (125) Cfr. OECD Commentary, C(25)-15, § 40, in particolare lett. a) e c).


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le, da attivarsi perciò anche ove non testualmente previsto (cfr. art. 1, L. n. 241/1990) (126). Nello spazio euro-unitario l’art. 6 del Trattato UE, che attribuisce alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea lo stesso valore giuridico dei trattati e riconosce ai diritti fondamentali garantiti dalla CEDU ed a quelli nascenti dalle tradizioni costituzionali comuni ai Paesi membri lo status di principi generali dell’Unione, dovrebbe imporre l’applicazione di quelle garanzie di partecipazione che costituiscono, appunto, diritti fonda-

(126) Sul contraddittorio la letteratura è vastissima e ricca di autorevolizzimi interventi. Senza, dunque, la benché minima pretesa di esaustività, cfr. L. Salvini, La partecipazione del privato all’accertamento tributario, Padova, 1990; Id., La “nuova” partecipazione del contribuente (dalla richiesta di chiarimenti allo statuto del contribuente ed oltre), in Riv. dir. trib., 2000, I, 3 e ss.; A. Viotto, I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2002, 144 e ss.; R. Miceli, La partecipazione del contribuente alla fase istruttoria., in Aa.Vv., Statuto dei diritti del contribuente, a cura di A. Fantozzi, A. Fedele, Milano, 2005, 673 e ss.; G. Ragucci, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009; A. Colli VIgnarelli, La violazione dell’art. 12 dello Statuto e l’illegittimità dell’accertamento alla luce dei principi di collaborazione e buona fede, in Aa.Vv., Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, Studi in onore del Prof. G. Marongiu, a cura di A. Bodrito, A. Contrino, A. Marcheselli, Torino, 2012, 499 e ss.; A. Fantozzi, La violazione del contraddittorio e l’invalidità degli atti tributari, ivi, 479 e ss.; S. Muleo, Il contraddittorio procedimentale e l’affidamento come principi immanenti, ivi, 406 e ss.; F. Picciaredda, Il contraddittorio anticipato nella fase procedimentale, ivi, 397 e ss.; P. Selicato, Scambio di informazioni, contraddittorio e statuto del contribuente, ivi, 431; A. Marcheselli, Il giusto procedimento tributario. Principi e discipline, Padova, 2013, 21 e ss., in particolare 96 e ss.; F. Tundo, Procedimento tributario e difesa del contribuente, passim, ma in particolare 29 e ss. e 241 ss.; P. Accordino, Considerazioni in tema di principio del contraddittorio, alla luce della più recente giurisprudenza, in Riv. dir. trib., 2015, I, 65 ss. Ulteriori discussioni sul tema è destinata a provocare la recente Cass., Sez. Un., 9 dicembre 2015, n. 24823 (su cui v., senza obiettivi di completezza: M. Beghin, Il contraddittorio endoprocedimentale tra disposizioni ignorate e princìpi generali poco immanenti, in Corr. trib., 2016, n. 7, 479 e ss.; E. De Mita, Sul contraddittorio le Sezioni unite scelgono una soluzione «politica, in Dir. prat. trib., 2016, II, 255 e ss.; G. Marongiu, Il contraddittorio non è d’obbligo, in Dir. prat. trib., 2016, I, 702 e ss.; A. Lovisolo; Sulla c.d. “utilità” del previo contraddittorio endoprocedimentale, in Dir. prat. trib., 2016, II, 719 e ss.; D. Stevanato, R. Lupi, Sul contraddittorio procedimentale la Cassazione decide (forse bene), ma non spiega, in Dialoghi trib., 2015, n. 4, 383 e ss.; A. Renda, Il contraddittorio preventivo tra speranze (deluse), rassegnazione e prospettive, in Dir. prat. trib., 2016, II, 732 e ss.), che affronta la questione relativa alla possibilità di estendere alle c.d. “verifiche a tavolino” le garanzie procedimentali predisposte dall’art. 12, comma 7, L. n. 212 del 2000. Su tali problemi, cfr., a commento della precedente Cass., 13 giugno 2014, n. 13588, R. Iaia, Escluso l’obbligo di contraddittorio in caso di accertamento non preceduto da verifiche in loco?, in Corr. trib., 2014, n. 35, 2737 e ss.; nonché, più diffusamente, Id., Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario nell’ordinamento dell’unione europea. Riflessi nel diritto nazionale, in Dir. prat. trib., 2016, I, 55 e ss.


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mentali (cfr. art. 41 della Carta dei Diritti UE) (127). Tale conclusione sembra giustificarsi anche considerando che il mancato raggiungimento dell’accordo amichevole impedisce di eliminare la doppia imposizione e che la stessa non può essere rimossa neppure tramite i rimedi domestici, che operano solo sul piano del sindacato di legittimità dell’azione impositiva. Proprio per questo, si è ritenuto che la limitazione del contraddittorio in ambito MAP sia qualificabile come possibile violazione dell’art. 6 CEDU (128). In ogni caso, avuto riguardo all’ordinamento interno, l’attivo coinvolgimento del contribuente dovrebbe essere promosso dall’Autorità competente anche solo per acquisire tutti gli elementi necessari ad affrontare la procedura causa cognita, in attuazione dell’art. 97 Cost. Resta ovviamente fermo che il contribuente, quand’anche non potesse intervenire attivamente nell’ambito della procedura, non sarebbe limitato nel suo diritto di presentare deduzioni all’Autorità nazionale (129). Se poi queste siano o meno introdotte nel contesto della MAP dipenderà dalle singole amministrazioni coinvolte, ma, con riguardo a quella italiana, un dovere di farlo potrebbe desumersi dai principi dell’ordinamento interno (130), tra i quali quello del contraddittorio parrebbe il più pertinente.

(127) Per l’estensione di tali garanzie in procedure in cui si riscontrino fattispecie di cooperazione internazionale, cfr. P. Mastellone, L’applicabilità delle garanzie contenute nella CEDU alle procedure di cooperazione fiscale internazionale, in Aa.Vv., Convenzione europea dei diritti dell’uomo e giustizia tributaria italiana, a cura di F. Bilancia, C. Califano, L. Del Federico, P. Puoti, Torino, 2014, 181 e ss.; C. La Valva, La tutela del contribuente nelle procedure di mutua assistenza amministrativa alla luce del sistema multilivello di protezione dei diritti fondamentali, in Dir. prat. trib., 2013, I, 361 e ss. (128) In tal senso, cfr. G. Maisto, The Impact of the European Convention on Human Rights on Tax Procedures and Sanctions with Special Reference to Tax Treaties and the EU Arbitration Convention, in Aa.Vv., Human Rights and Taxation in Europe and the World, G. Kofler, M. Poiares Maduro, P. Pistone (editors), IBFD, 2011, 373 e ss., in particolare § 21.5.2, ove si osserva che l’art. 6 CEDU potrebbe entrare in campo anche con riferimento ad altri aspetti, come la durata delle procedure o il diritto ad essere informato sulle ragioni della decisione finale, capace di avere effetti su periodi d’imposta diversi. (129) In questo senso, cfr. P. Adonnino, Tutela tributaria ed esperienza internazionale, Intervento, in Aa.Vv., La tutela europea ed internazionale del contribuente nell’accertamento tributario, cit., in particolare pp. 125, 126, il quale afferma che se il contribuente non può intervenire direttamente nella procedura, può farlo, tuttavia, indirettamente, presentando “qualche posizione che vorrebbe tutelata o comunque sostenuta innanzi all’amministrazione alla quale ha chiesto di iniziare la procedura (…)”. (130) In questi termini, cfr. P. Pistone, Arbitration procedures in Tax Treaty and Community Law: a study from italian perspective, cit., 626.


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Sul piano procedimentale, l’iniziativa del privato deve essere adottata “entro i tre anni che seguono la prima notificazione della misura” (rectius: entro i termini specificamente previsti da ciascuna Convenzione), formulazione che, avuto riguardo alle procedure nazionali, non appare del tutto limpida, non essendo chiaro se faccia riferimento alla conoscenza sostanziale o formale del rilievo considerato non conforme alla Convenzione (131). Non è, dunque, pacifico se il termine decorra dalla notifica dell’atto impositivo ovvero dalla comunicazione del PVC, ovvero ancora, a titolo esemplificativo ed al limite, dal rilascio di un processo verbale giornaliero sottoscritto dal contribuente nel quale siano per la prima volta formulati i rilievi. A nostro avviso, la natura della disposizione, che parrebbe introdurre rigorosi termini decadenziali (ma che, in ottica di collaborazione, potrebbe, forse, lasciare margini ad iniziative dell’Agenzia anche oltre questo limite) impone un’interpretazione restrittiva, dovendosi far decorrere il termine dalla notifica formale del provvedimento autoritativo di recupero, ferma ovviamente la possibilità per il contribuente di anticipare l’iniziativa. Anche il Commentario OCSE suggerisce, al proposito, di adottare la soluzione interpretativa più favorevole al soggetto passivo (132), ciò che ci sembra condurre ad agganciare il decorso del termine ad un fatto che integri l’esercizio compiuto della potestà impositiva ed assicuri la conoscenza effettiva della contestazione, garantita dal rispetto delle procedure legali di notificazione (133).

(131) La dottrina (G. Galizia, Questioni scelte in tema di autotutela dell’amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 2009, I, 989 e ss.) fa osservare che vi sono anche situazioni nelle quali non è previsto né l’obbligo di attivazione del contenzioso interno, né un termine di decadenza per l’attivazione della MAP (cfr., ad es., Convenzioni stipulate con Brasile, Giappone, Marocco). In tali casi dovrebbero ritenersi applicabili le più favorevoli regole di diritto interno che, con riferimento all’autotutela, cui almeno la fase nazionale della MAP parrebbe riportabile, consentono di chiedere la correzione dei provvedimenti illegittimi senza vincoli temporali, non essendo neppure necessaria l’impugnazione dell’atto in sede giurisdizionale. (132) Cfr. OECD Commentary, C(25)-7, § 21, ove si legge che il riferimento alla prima notificazione “should be interpreted in the way most favourable to the taxpayer”. Si vedano anche, per ulteriori precisazioni, i successivi §§ 22-25. (133) A riguardo, si è anche ipotizzato che, essendo necessariamente da coordinarsi le procedure amichevoli ed i ricorsi di diritto interno (poiché questi ultimi sono condicio sine qua non per l’avvio della procedura amichevole), sia possibile disapplicare i termini processuali interni a favore dei limiti specificati dalla norma pattizia: G. Galizia, Questioni scelte in tema di autotutela dell’amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 2009, I, 989 e ss. Valutazioni basate su criteri di prudenza inducono, però, la stessa dottrina a scartare questa conclusione.


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8. I limiti contenutistici dell’Agreement: al confine dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria. – Per dare l’auspicabile efficacia allo strumento, un non trascurabile problema concerne i possibili contenuti ed i limiti dell’accordo che risolve la controversia. La formula “regolazione del caso in via di amichevole composizione” parrebbe lasciare aperte infinite possibilità, dalla spontanea effettuazione degli aggiustamenti correlativi da parte dell’altro Stato contraente all’abdicazione della pretesa da parte di quello che ha notificato l’accertamento (134), senza astrattamente escludere persino soluzioni che attribuiscano “benefici compensativi” all’uno o all’altro dei soggetti coinvolti, anche non riguardanti i rapporti di scambio oggetto di rettifica. Ci si deve chiedere, inoltre, se in ambito comunitario si debba tenere conto dei principi dell’Unione che parrebbero limitare l’applicazione dell’arm’s length standard alle transazioni “outright ‘abusive’ and ‘artificial’” (135) e/o se debba essere riconosciuto spazio alle specifiche ragioni commerciali (come ad esempio l’esigenza di salvare una controllata in difficoltà) che spieghino prezzi non allineati a quelli di libera concorrenza, invocando il principio di proporzionalità che la Corte di Giustizia dell’Unione ritiene, a questi fini, applicabile (136). Vi è da do-

(134) Potrebbero darsi astrattamente sia soluzioni coerenti rispetto alla natura del rilievo transfer pricing (es: parziale riduzione dei recuperi in Italia e simmetrici aggiustamenti correlativi da parte dello Stato estero), sia soluzioni del tutto “eccentriche” (es. aggiustamenti correlativi asimmetrici e parziali rispetto ai rilievi dell’amministrazione italiana). (135) W. Schön, Transfer Pricing Issues of BEPS in the Light of EU Law, in British Tax Review, 2015, n. 3, 417 e ss., in particolare 423.; M. Antonini e P. Piantavigna, “Rigidità” della Cassazione sugli aspetti probatori in materia di “tranfer pricing”, in Corr. trib., n. 43, 2015, 4313 ss. Cfr. anche F. Roccatagliata, Ripartizione dell’onere della prova in materia di prezzi di trasferimento e principio di vicinanza: uno sguardo oltre confine, in GT, 2014, n. 4, 350 ss. (136) Cfr. M. Glahe, Transfer Pricing and EU Fundamental Freedoms, in EC Tax Review, n. 5, 2013, 222 e ss. ed ivi giurisprudenza citata a 227. E’ possibile che l’Agenzia abbia notificato l’avviso di accertamento a prescindere dalla circostanza che il soggetto passivo abbia conseguito vantaggi fiscali dalle politiche di transfer pricing praticate. Questo perché l’ufficio potrebbe intendere l’art. 110, comma 7, Tuir come disciplina volta ad individuare un’equa ripartizione tra diverse giurisdizioni statuali che “prescinde dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale” e dal carattere elusivo della condotta (in questi termini Cass., 8 maggio 2013, n. 10739, ma anche CTR Lombardia, 10 luglio 2013, nn. 83 e 84), quasi si trattasse di colpire atti di “destinazione a finalità estranee” all’esercizio dell’impresa. La Corte di Giustizia europea ha, tuttavia, chiarito che le normative nazionali applicabili ai casi in cui sussistano rapporti di interdipendenza tra società che si trovano in Paesi diversi dell’Unione (e l’art. 110, comma 7, Tuir rientra tra queste) confluiscono “nell’ambito di applicazione materiale delle disposizioni del Trattato CE relative alla libertà di stabilimento” (CGUE, 21 gennaio 2010, nel procedimento C-311/08, § 28). Tale conclusione risulta rafforzata se si considera che


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mandarsi, insomma, più in generale, se possano ammettersi soluzioni anche a struttura essenzialmente transattiva, in particolare nell’ordinamento italiano, nel quale si dibatte circa la configurabilità di un principio di indisponibilità o di irrinunciabilità dell’obbligazione tributaria. Il problema è, in realtà, posto dallo stesso Commentario OCSE, il quale non esclude affatto che possano darsi preclusioni di diritto interno al raggiungimento di un accordo e, pur sottolineando che tali situazioni dovrebbero essere ampiamente giustificate sul piano legale (duly explained on legal basis), si limita ad affermare che,

le rettifiche dei prezzi di trasferimento non sono ammesse quando riguardino società entrambe residenti (cfr. art. 5, comma 2, D.lgs. n. 147/2015, ma v. anche Cass., 22 giugno 2015, n. 12844, annotata da R. Baggio, La rettifica dei prezzi di trasferimento nei rapporti interni, in Riv. dir. trib., 2015, II, 160 ss., da M. Grandinetti, Il rasoio di Occam e il transfer price interno, ivi, 172 ss. e da M. Mauro, In tema di rettifica fiscale dei prezzi nei rapporti nazionali infragruppo, in Riv. dir. fin. Sc. fin., 2015, II, 104 ss.), il che evidenzia il trattamento differenziato delle transazioni internazionali. Sulla scorta di costante giurisprudenza della Corte UE, una misura idonea a porre ostacoli alla libertà di stabilimento può essere ammessa solo se persegue “uno scopo legittimo compatibile con il Trattato ed è giustificata da ragioni imperative di interesse generale” (v. ex multis, CGUE, 11 marzo 2004 in causa C-9/02, § 49). Su queste premesse, la Corte europea ritiene che le regole che autorizzano alla rettifica degli utili delle partecipate siano compatibili con la predetta libertà quando mirino a conseguire congiuntamente l’obiettivo di tutelare la ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri e quello di prevenire l’elusione fiscale. Per questo è necessario che la normativa nazionale “si fondi su un esame di elementi oggettivi e verificabili per stabilire se una transazione consista in una costruzione di puro artificio a soli fini fiscali”. (cfr., ancora, CGUE, 21 gennaio 2010, nel procedimento C-311/08, § 69). Parrebbe di intendere che, nella prospettiva euro-unitaria, l’obiettivo di corretta ripartizione del carico impositivo tra Stati non possa essere perseguito autonomamente e disgiuntamente da quello di combattere fenomeni di carattere elusivo, cosicché le misure di contrasto dovrebbero poter operare se le transazioni integrino “una costruzione di puro artificio a fini fiscali”. Del resto, la stessa Corte europea, con lo scopo di salvaguardare il principio di proporzionalità, precisa che il contribuente deve essere messo in grado, senza eccessivi oneri amministrativi, “di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali per le quali tale transazione sia stata conclusa” (CGUE, 21 gennaio 2010, nel procedimento C-311/08, § 71). La prova dei predetti elementi serve evidentemente ad attestare che il movente dell’operazione non è meramente tributario. Se sussistono adeguate giustificazioni economiche, la rettifica non parrebbe, quindi, ammessa, anche se il prezzo non fosse pienamente allineato a quello di libera concorrenza, perché la costruzione negoziale non sarebbe artificiale. Il descritto approccio potrebbe essere valorizzato in sede di MAP. Nel contesto della procedura amichevole la regola interna dell’art. 110, comma 7, Tuir potrebbe essere applicata in coerenza con i principi comunitari e, senza porsi il problema della sua possibile disapplicazione per contrarietà all’ordinamento europeo, potrebbe giustificare una rinuncia totale o parziale alla pretesa che non sarebbe tecnicamente annullamento d’ufficio ma attuazione di un accordo, pur fondato sull’interpretazione sistematica e, per così dire, “comunitariamente orientata” dello stesso art. 110 Tuir.


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in questi casi, il soggetto passivo deve esserne tempestivamente informato, affinchè non si generino in lui false aspettative (137). La questione, però, sembra più complessa, riguardando, per quanto ci interessa, non tanto se un accordo possa essere concluso (il che dovrebbe essere pacifico con riguardo ai prezzi di trasferimento), ma quale accordo, guidato da quali criteri. Ed invero, nel Commentario OCSE si legge che prima di tutto le Autorità competenti debbono determinare le loro posizioni sulla scorta delle regole dei loro rispettivi ordinamenti tributari ed alla luce delle previsioni convenzionali, ma, quando questo apparato di norme non consenta di pervenire ad un accordo, è possibile ricercare sussidiariamente la soluzione del problema mediante ricorso ad un principio di equità (have regard to considerations of equity in order to give the taxpayer satisfaction) (138). Occorre, dunque, capire se la soluzione amichevole possa muoversi solo entro i binari di una ricerca della “giusta imposizione” transnazionale o possa spingersi a modulazioni della pretesa, anche di tipo abdicativo o, lato sensu, compensativo, ispirate da parametri equitativi ed esclusivamente orientate al risultato di rimuovere sul piano economico gli effetti pregiudizievoli della doppia imposizione, aprendosi anche alla considerazione complessiva degli interessi diretti o indiretti del gruppo di cui fanno parte le imprese associate. Pur ammettendo un così ampio spettro di soluzioni amichevoli, la MAP non parrebbe contrastare con il divieto di aiuti di Stato (139), perché il suo scopo è pur sempre rimediare ad un pregiudizio derivante da un eccesso di imposizione dovuta al prelievo su valori normali, non coordinato con la deduzione dei valori reali di scambio nell’altro Paese. Lo scopo dell’istituto è, dunque, proprio quello di ripristinare gli equilibri di un assetto di libera concorrenza alterati dall’azione impositiva ma il predetto obiettivo di ripristino segna an-

(137) Cfr. OECD Commentary, C(25)-11, § 27. (138) Cfr. OECD Commentary, C(25)-14, § 38. Cfr., sul punto, P. Filippi, Dalla procedura amichevole…alla procedura arbitrale: osservazioni, in Dir. prat. trib., 1996, I, 1171 e ss., in particolare 1172, ove si legge che la procedura amichevole non ha carattere giurisdizionale e pertanto essa non deve tanto dimostrare la ragione dell’uno o dell’altro quanto cercare di pervenire ad una soluzione con una certa flessibilità. (139) Per un inquadramento, cfr. Aa.Vv., Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di L. Salvini, Padova, 2007; G. Fransoni, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato, Pisa, 2007; R. Schiavolin, L’autonomia tributaria degli enti territoriali e il divieto di aiuti di Stato, preprint, in padua@research; Aa.Vv, Aiuti di stato fiscali e giurisdizioni nazionali: problemi attuali, a cura di A. Di Pietro, A. Mondini, Bari, 2015; C. Fontana, Gli aiuti di Stato di natura fiscale, Torino, 2012.


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che il confine delle misure correttive adottabili, che non potrebbero eccedere quanto necessario, pena lo sconfinamento nell’area dei benefici ad personam. Bisogna, però, considerare i limiti posti dal quadro costituzionale nazionale. Si tocca qui la questione relativa alla configurabilità di un principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, la cui soluzione dipende dalle opzioni dogmatiche ritenute preferibili, ragion per cui il punto non può essere appianato in questa sede (140). Nondimeno, alcune sintetiche considerazioni possono essere tentate. - Sotto un primo profilo, lo stesso sistema convenzionale delle MAP sembra dare attuazione a principi di cui sono portatori gli art. 10, comma 1 ed, in particolare, 11 della Costituzione, sicchè i meccanismi di soluzione dei conflitti emergenti tra ordinamenti tributari parrebbero trovare una legittimazione in valori costituzionali dotati, in quanto tali, di forza contrapponibile agli altri valori su cui si ritiene poggiare l’indisponibilità (segnatamente gli artt. 23 e 53 Cost.) (141). La logica di bilanciamento tra principi

(140) Sul complesso tema dell’indisponibilità la letteratura, che si è confrontata con le peculiarità di diversi istituti collocati nella fase procedimentale di accertamento, in quella di riscossione ed in quella processuale, è vastissima e non possiamo che proporre qui alcuni richiami: M. Miccinesi, Accertamento con adesione e conciliazione giudiziale, in Aa.Vv., Commento agli interventi di riforma tributaria, a cura di M. Miccinesi, Padova, 1999, 1 e ss.; E. Marello, L’accertamento con adesione, Torino, 2000; M. Versiglioni, Accordo e disposizione nel diritto tributario, Milano, 2001; G. Falsitta, Funzione vincolata di riscossione dell’imposta e intransigibilità del tributo, in Riv. dir. trib., 2007, I, 1047 e ss.; A. Fantozzi, La teoria dell’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Aa.Vv., Adesione, conciliazione ed autotutela, a cura di M. Poggioli, Padova, 2007, 49 e ss.; M.T. Moscatelli, Moduli consensuali e istituti negoziali nell’attuazione della norma tributaria, cit., 121 e ss.; G. Falsitta, Natura e funzione dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua «indisponibilità», in Aa.Vv., Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, a cura di S. La Rosa, Milano, 2008, 45 e ss.; A. Fedele, Autonomia negoziale e regole privatistiche nella disciplina dei rapporti tributari, ivi, 125; P. Russo, Indisponibilità del tributo e definizioni consensuali delle controversie, ivi, 89 e ss.; M. Beghin, Giustizia tributaria e indisponibilità dell’imposta nei più recenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali. La transazione concordataria e l’accertamento con adesione, in Riv. dir. trib., 2010, II, 679 e ss.; A. Guidara, Indisponibilità del tributo e accordi in fase di riscossione, Milano 2010; G. Toma, La discrezionalità dell’azione amministrativa in ambito tributario, Padova, 2012, 245 e ss.; A. Giovannini, Reclamo e mediazione tributaria: per una riflessione sistematica, in Rass. trib., 2013, n. 1, 51 e ss., in particolare § 6. (141) La logica del “contrappeso” si riconosce anche in O. Reale, Le procedure amichevoli nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, in Riv. dir. trib., 2003, I, 335 e ss., in particolare 379, ove si ritiene che l’obiettivo di eliminare la doppia imposizione conviva con quello di protezione della sovranità impositiva.


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non sarebbe, cioè, troppo diversa da quella che si può intravedere, a puro titolo di esempio, nella transazione fiscale (142), se in essa si vogliano riconoscere i segni di più ampie finalità di salvaguardia dell’impresa e dell’occupazione che trovano pure il loro supporto nella nostra Carta fondamentale. - Andrebbe poi considerato che le procedure amichevoli si pongono lo scopo di scongiurare duplicazioni in un contesto internazionale, contesto in cui gli obiettivi di risultato non sono agevolmente ottenibili se vi sono preclusioni dovute alla disciplina nazionale. Il fine ultimo parrebbe, dunque, proprio rimuovere distorsioni che possono determinare “sovraimposizioni”, pure queste valutabili forse come potenzialmente contrarie al principio di capacità contributiva (143), anche se, nella maggior parte dei casi, ciò richiederebbe di spingersi un passo oltre, movendo dalla considerazione della singola unità a quella del gruppo nel suo complesso, o dell’articolazione organizzativa dell’ente nel caso in cui si tratti di stabili organizzazioni (144). Ad ogni modo, l’eventuale superamento dell’indisponibilità sarebbe funzionale a ripianare un conflitto tra pretese tributarie di diverse giurisdizioni e non mostrerebbe, dunque, i caratteri della mera deroga all’equo riparto tra i consociati (145). - C’è anche da notare che la sovrapposizione dei valori normali a quelli di scambio implica una tassazione su ricchezze non effettive per finalità di salvaguardia del gettito. Se la “legittima difesa delle ragioni erariali” che aveva condotto a prelievi su redditi fittizi viene ritenuta non necessaria in sede di MAP, lo stesso Stato parrebbe poter rinunciare a trattenere quella materia imponibile. Così facendo, infatti, non verrebbe alterato alcun

(142) L. Del Federico, La nuova transazione fiscale nel sistema delle procedure concorsuali, in Riv. dir. trib., 2008, I, 216 e ss. (143) L’analisi dei profili transnazionali del principio di capacità contributiva è problema assai complesso, per il quale si rinvia, senza alcuna pretesa di esaustività, a R. Cordeiro Guerra, Principio di capacità contributiva e imposizione ultraterritoriale, in Aa.Vv., L’evoluzione del sistema fiscale e il principio di capacità contributiva, Padova, 2014, 149 e ss.; G. Bizioli, Il principio della capacità contributiva nella dimensione internazionale, ivi, 243 e ss. (144) Non è un caso se accorta dottrina ha osservato che il fallimento dell’Agreement, e così la mancata eliminazione della doppia imposizione, potrebbero essere anche esaminati alla luce dell’art. 1 del Primo Protocollo CEDU: cfr. G. Maisto, The Impact of the European Convention on Human Rights on Tax Procedures and Sanctions with Special Reference to Tax Treaties and the EU Arbitration Convention, cit., § 21.5.2. (145) (…) come, invece, potrebbe avvenire quando si rinuncia in tutto od in parte alla pretesa tributaria nei confronti di chi sia ritenuto evasore.


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“giusto riparto” (146) perché il transfer pricing opera, per così dire, un “riparto ingiusto”, legittimato da finalità di protezione di interessi statuali in una dimensione transnazionale. - Le riflessioni proposte sembrano anche in linea con le previsioni degli artt. 27 e 46 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, dalle quali parrebbero scaturire spunti ricostruttivi che inducono a propendere per soluzioni ermeneutiche che non comprimano il possibile ambito di applicazione delle previsioni convenzionali. Ci sembra, infatti, che la limitazione dei contenuti assumibili dalla composizione amichevole costituisca, in qualche modo, un ostacolo posto dal diritto interno alla più estesa ed efficace applicazione della regola pattizia. Non possiamo, tuttavia, nasconderci che l’apertura a soluzioni equitative parrebbe essere negata da autorevole dottrina, la quale, pur essendosi espressa con riferimento ai poteri decisori della Commissione nominata nell’ambito delle procedure regolate dalla Convenzione arbitrale europea (147), ha prospettato dubbi di portata più ampia (148). Più in particolare, si è affermato che la base giuridica della decisione è identificata nell’art. 4 della citata convenzione. Se non abbiamo male inteso, il criterio guida, alla luce della disposizione richiamata, dovrebbe essere quello della libera concorrenza che avrebbe governato le relazioni tra parti indipendenti, e ciò dovrebbe esigere che il predetto criterio non risulti alterato mediante l’impiego di differenti parametri di giudizio, quali sarebbero, ad esempio quelli equitativi. Inoltre, si è osservato che una decisione secondo equità “potrebbe soddisfare le amministrazioni ma potrebbe ledere gli interessi delle impre-

(146) Cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2012, 291. (147) Sui confini dei poteri decisori della Commissione, derivanti dal richiamo ai principi dell’art. 4 della Convenzione, cfr. L. Hinnekens, European Arbitration Convention: Thoughts on Its Principles, Procedures and First Experience, in EC Tax Review, 2010, n. 3, 109 e ss., in particolare 110. (148) Cfr. P. Adonnino, La Convenzione europea 90/436 sulla cosiddetta procedura arbitrale. Limiti e problemi, in Riv. dir. trib., 2002, I, 1211 e ss.; L. Hinnekens, The Tax Arbitration Convention. Its Significance for the EC Based Enterprise, the EC Itself, and for Belgian and International Tax Law, in EC TAx Review, 1992, n. 2, 70 e ss., in particolare 95. Perplessità sembrano manifestate anche da P. Pistone, Arbitration procedures in Tax Treaty and Community Law: a study from italian perspective, cit., 624, il quale ravvede profili di incompatibilità con il principio di “strict legality”. Egli tuttavia ammette che debba essere riconosciuto un certo grado di flessibilità alle Autorità fiscali, alla stessa stregua di quanto accade per la soluzione concordata delle vertenze nazionali con la procedura di conciliazione giudiziale.


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se, in quanto limitante il diritto di ciascuna all’eliminazione completa della doppia imposizione” (149). È arduo superare tali stringenti considerazioni e, tuttavia, crediamo di poter osservare che se vi sono irrigidimenti di uno dei Paesi coinvolti su quale sia realmente il prezzo di libera concorrenza (150) e se, dunque, la soluzione non si può trovare “su quel terreno”, si materializza concretamente una duplicazione impositiva che sembra essere comunque violazione del Trattato, seppure sotto altro profilo. La soluzione equitativa potrebbe, dunque, apparire, in quest’ottica come una via di compromesso, o meglio, di bilanciamento tra diversi principi (salvaguardia delle condizioni negoziali di libera concorrenza e divieto di duplicazioni impositive), dotati, ci sembra, di pari dignità nell’ambito della Convenzione (151). L’inconveniente dovuto al fatto che un accordo su base di equità potrebbe non rimuovere del tutto le distorsioni derivanti dal cumulo di pretese, e così non soddisfare pienamente le imprese interessate, sarebbe, invece, superabile considerando che l’attuazione della MAP presuppone il consenso del contribuente, al quale non è comunque preclusa la prosecuzione del giudizio interno. Aspetto peculiare del Transfer pricing è poi la circostanza che una verifica potrebbe determinare effetti in differenti ordinamenti, come avverrebbe se, ad esempio l’Italia contestasse il valore normale degli scambi con più distributori controllati con residenza in diversi Paesi. In questo caso parrebbe necessario attivare distinte procedure amichevoli (152), ciò che potrebbe porre alcuni problemi di raccordo tra le diverse iniziative, suggerendo de iure condendo la previsione di strumenti multilaterali (153).

(149) P. Adonnino, op. loc. ult. cit. (150) (…) magari proprio per la fisiologica resistenza ad accettare gli esiti di una verifica condotta da altra amministrazione e con effetti di riduzione del gettito per lo Stato che sarebbe tenuto agli aggiustamenti correlativi. (151) Cfr. B.R. Runge, The German View of the Prevention and Settlement of International Disputes on Tax Law, cit., in particolare 4, il quale fa presente che la maggior parte delle procedure amichevoli condotte dalla Germania hanno avuto esito positivo, proprio perché la soluzione, in molti casi, si è concretizzata in un “compromise dictated by considerations of what is equitable”. (152) La questione è messa in luce anche da A. Tomassini e A. Martinelli, Doppia imposizione internazionale e «mutual agreement procedure», in Corr. trib., 2012, n. 16, 1238 e ss. (153) Le attuali procedure MAP convenzionali non appaiono adeguate a risolvere problemi coinvolgenti più Stati, sicché parrebbe estremamente utile il ricorso a strumenti multilaterali: cfr. autorevolmente L. Del Federico, S. Giorgi, Associazione italiana per il diritto tributario Latinoamericano, Relazione nazionale. Il multilateralismo nelle convenzioni internazionali in


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Si può, tuttavia, ritenere che l’impegno di diligenza richiesto allo Stato cui è rivolta l’istanza di MAP implichi anche il dovere di promuovere una gestione coordinata della vertenza tra i Paesi in cui si trovano le diverse imprese associate coinvolte, per cercare una composizione unitaria quanto a tempi e contenuti. Occorre, inoltre, considerare le conseguenze di esiti non omogenei delle procedure internazionali. Ad. es., nel caso in cui solo con uno degli Stati interessati si concluda un accordo di revisione della rettifica, tale accordo avrebbe effetto limitato tra le “parti contraenti” ma, qualora comportasse il riconoscimento della legittimità di determinate scelte del contribuente con riflessi su tutto il gruppo, metterebbe in discussione la correttezza dei recuperi anche con riferimento alle altre consociate residenti nei Paesi con i quali non si è raggiunto l’Agreement. Se l’accordo ha natura equitativo-transattiva o comunque si basa su logiche compensative dipendenti dalla disponibilità “politica” di un Paese, magari in ragione di interessi economici più generali, pare difficile estenderne la portata, ma se esso implica il riconoscimento di un errore, l’autotutela sarebbe doverosa. Per questo è necessario che l’Agreement espliciti le ragioni di fatto e di diritto della decisione. 9. Il delicato coordinamento con la fase di riscossione provvisoria. – Di interesse è la questione del raccordo tra pagamento delle imposte e attivazione delle procedure MAP. Occorre considerare che la disciplina interna prevede forme di prelievo derivanti dall’accertamento (atti impoesattivi, iscrizioni a ruolo, riscossioni frazionate in pendenza di ricorso), operanti a prescindere dalla proposizione di rimedi MAP e con essi non coordinate (154). A livello internazionale, si è affermato che l’esecuzione in

materia fiscale: la prospettiva europea e l’esperienza italiana, cit., in particolare 800, 801, i quali ricordano come, ad es., la Convenzione Nordica contro le doppie imposizione disciplini anche fattispecie triangolari (797). Su tali problemi, cfr. anche J. Malherbe, The Issues of Dispute Resolution and Introduction of a Multilateral Treaty, Intertax, 2015, Vol. 43, Issue 1, 91 e ss. V. altresì BEPS, Action 15, Developing a multilateral instrument to modify bilateral tax treaties, 5 ottobre 2015. (154) Il problema è considerato, ad esempio, da A. Tomassini, A. Martinelli, Doppia imposizione internazionale e «mutual agreement procedure», cit., ove si legge che “il contribuente, nelle more della procedura amichevole, potrebbe essere assoggettato a provvedimenti di riscossione provvisoria (in pendenza di giudizio) delle maggiori imposte accertate ovvero anche definitiva (…)”, provvedimenti rispetto ai quali non è “attualmente previsto alcun obbligo” di sospensione.


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pendenza di procedura è criticabile sia in quanto contrasta con gli obiettivi di rendere più agevole l’accesso alla stessa, sia per il possibile pregiudizio dovuto alla non convergente policy dei singoli Paesi nel rimborso degli interessi, sia per la necessità di affrontare significativi esborsi finanziari che non favoriscono gli obiettivi di promozione degli scambi e degli investimenti cross-border (155) e, seppure temporaneamente, anticipano il concretizzarsi di effetti duplicativi. Pur prendendo atto che il problema è avvertito da molti Paesi come una questione procedurale non governata dall’art. 25 (156) e pur dovendosi rilevare che rimangono proponibili gli strumenti di cautela interinale connessi alla doverosa attivazione dei rimedi giurisdizionali di diritto interno, è opportuno segnalare che, su questo tema, il Commentario OCSE (157) offre indicazioni di massima, precisando che gli Stati dovrebbero tenere conto degli eventuali flussi di cassa e dei relativi effetti di doppia tassazione derivanti dall’anticipata richiesta di versamenti. Se si colloca tale affermazione nel contesto degli obblighi di diligenza che vincolano lo Stato a fare del suo meglio per ricercare una soluzione del problema, le ricordate affermazioni potrebbero anche acquisire una giuridica efficacia. Lo stesso Commentario, evidenziando come sussistano ragioni obiettive che riducono l’efficacia della procedura se questa richiede pagamenti preliminari (158), assume come risultato minimale un’equiparazione (equivalenza) tra rimedi interni e procedura MAP anche per quanto riguarda le riscossioni preventive (159).

(155) In questi termini, cfr. UN Committee of Experts on International Cooperation in Tax Matters, Guide to the Mutual Agreement Procedure under Tax Treaties, 15-19 Ottobre 2012, punto 2.4.10, § 226 e ss., 39. (156) Cfr. OECD Commentary, C(25)-18, § 46. (157) Cfr. OECD Commentary, C(25)-18, § 47. (158) Si considerino, in particolare, come già ricordato, le esigenze di trovare meccanismi di assorbimento degli oneri accessori (interessi) che maturano medio tempore, le difficoltà potenzialmente nascenti dagli stessi esborsi di cassa in uscita, la minor propensione degli Stati a pervenire ad accordi se questi comportano la restituzione di importi già incassati: cfr. OECD Commentary, C(25)-19, § 48. (159) Più specificamente, l’esigenza di equiparazione è affermata con riguardo ai casi in cui il pagamento condizioni l’accesso all’istituto (una sorta di solve et repete). Si afferma, infatti, che, come minimo, la corresponsione del tributo non può condizionare l’avvio alla MAP se non condiziona i ricorsi di diritto interno e che un versamento dovrebbe essere richiesto solo una volta che il relativo obbligo sia sorto nell’ordinamento nazionale (OECD Commentary, C(25)-18, § 47). Per quanto riguarda sanzioni ed interessi, il principio di equivalenza sembra essere affermato nell’ultima frase del § 49: cfr. OECD Commentary, C(25)-20, § 49.


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In assenza di regolamentazione specifica (160), si può far riferimento all’istituto della sospensione amministrativa. Occorre, però, considerare che se ciò che il contribuente chiede con l’attivazione della MAP sono aggiustamenti correlativi da parte dell’altro Stato, egli agisce in sede internazionale presupponendo la legittimità dell’atto interno. Potrebbe, dunque, non essere agevole ottenere la sospensione di un provvedimento il cui fumus boni iuris è implicitamente ammesso dallo stesso soggetto passivo, perché si espone l’Erario ad un possibile pregiudizio nonostante non sia sostanzialmente in discussione la correttezza dell’azione amministrativa. Bisognerebbe, allora, invocare l’invito ricavabile dal Commentario ad evitare che duplicazioni impositive si producano anche in via provvisoria durante lo svolgimento della procedura, dando cogenza alle predette indicazioni di “soft law” mediante richiamo ai doveri di impegno emergenti dall’art. 25 del Modello (161). Se invece, accogliendo la prospettiva di questo scritto, si ammette che si possa agire tramite MAP per far valere errori nella determinazione del prezzo di libera concorrenza e quindi per evidenziare vizi nella ricostruzione dell’ufficio, sembra coerente invocare le regole proprie dell’autotutela (art. 2-quater, comma 1-bis, D.L. n. 564/1994) (162).

(160) Si ricorda che un’apposita forma di sospensione è, invece, prevista nell’ambito della procedura disciplinata dalla Convenzione arbitrale europea (su cui alcuni cenni infra): cfr. art. 3, comma 2, L. n. 99/1993. La norma, nel testo in vigore dal 24.06.2009, stabilisce che la sospensione può essere richiesta al Direttore dell’Agenzia delle Entrate, tramite istanza da presentarsi all’ufficio periferico competente in ragione del domicilio fiscale del contribuente. La concessione può essere subordinata al rilascio di apposite garanzie (stranamente, la littera legis parrebbe implicare che la misura interinale venga deliberata dal Direttore, ma le manleve possano essere pretese dall’ufficio locale). (161) In questo senso si orienta l’Agenzia delle Entrate (cfr. Circ. 21/E del 2012, § 4.2.7), la quale richiama allo scopo l’art. 39 del DPR n. 602/1973. L’Amministrazione non si spinge però ad affermare l’esistenza di un obbligo di sospendere, fondato sui doveri di diligenza e buona fede da cui la MAP deve essere animata. Vi è anche da chiarire quale sia l’organo titolare del potere di sospensione, se cioè l’Autorità competente investita della questione di merito (il Ministero) o l’ufficio locale. A mio avviso, se si responsabilizza lo Stato contraente, riconoscendo che esso debba fare del proprio meglio per evitare le conseguenze negative derivanti dall’esecuzione provvisoria, dovrebbero essere coinvolti anche gli organi che hanno emesso il provvedimento che causa la possibile duplicazione impositiva. Ci sembra dunque che la misura interinale ben possa essere decisa dall’Agenzia. Tuttavia il potere di bloccare la riscossione andrebbe riconosciuto anche all’Autorità competente, in quanto direttamente chiamata ad esprimersi sulla fondatezza delle ragioni poste a base dell’istanza di MAP. (162) A puro titolo di spunto, un’altra possibile soluzione potrebbe essere l’interpretazione


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10. Cenni alla procedura amichevole prevista nella Convenzione relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate (90/436/CEE). – Un meccanismo sostanzialmente corrispondente alla MAP è previsto nell’ambito della Convenzione relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate (90/436/CEE) (163), la quale, come chiaramente risulta dall’art. 1, § 1, e dall’art. 4, n. 1), è applicabile alle rettifiche transfer pricing (164). La fase propriamente amministrativa della controversia mostra rilevanti convergenze rispetto alle MAP disciplinate dalle Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni. In coerenza con la finalità di regolare rettifiche complesse e potenzialmente multilaterali quali sono quelle sul TP, è, tuttavia, previsto un possibile coordinamento tra i diversi Stati contraenti eventualmente interessati alla rettifica (165). È utile osservare che alcune disposizioni convenzionali parrebbero poter avere qualche ricaduta anche sull’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria. Si consideri, in particolare, la previsione dell’art. 5, il

analogica delle regole sulla riscossione frazionata in pendenza di ricorso, espandendo così la portata del principio di equivalenza affermato nel Commentario. Pur rendendoci conto che si tratta di una interpretazione molto ardita, si potrebbe, insomma, immaginare di equiparare la MAP al primo grado di un giudizio interno. Derivano da tale soluzione alcune possibili conseguenze. Se, per es., si volesse ravvisare nella disciplina sui prezzi di trasferimento una finalità antiabuso, si potrebbero applicare le regole che, nei casi di elusione, rinviano la riscossione all’esito del primo grado di giudizio (v. art. 10-bis, comma 10, L. n. 212 del 2000, introdotto dal D.lgs. n. 128/215, art. 1). In tal modo l’esecuzione verrebbe posticipata alla chiusura della MAP. (163) Ai fini dell’applicazione della Convenzione arbitrale, cfr. anche il Codice di condotta (atto 2006/C – 176/02, come modificato da atto 2009/C – 322/01). Sul predetto Codice e sulla sua efficacia, v. D. De Carolis, La convenzione arbitrale sul transfer pricing: fossile giuridico o strumento della nuova Governance europea?, Riv. dir. trib. 2012, V, 93 e ss.; G. Rolle, Recenti sviluppi della Convenzione “arbitrale” in materia di prezzi di trasferimento, in Fiscalità internazionale, 2005, 234 e ss., in particolare 235; G. Beretta, La giurisdizione sul diniego di accesso alla procedura arbitrale in tema di transfer pricing, cit., 186 e ss. (164) Per un cenno alle vicende della sua vigenza, cfr. G. Valente, Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, Milano, 2012, 450. Per il problema dell’applicabilità all’Irap, v. G. Comi e M. Marconi, Transfer pricing: l’estensione all’Irap allarga l’ambito “mutual agreement procedure”, in Fiscalità e Commercio Internazionale, 2014, n. 6, 5 e ss. (165) V. art. 6, § 1, secondo capoverso: “l’impresa informa simultaneamente l’autorità competente se altri Stati contraenti possono essere interessati a tale caso. L’autorità competente informa quindi senza indugio le autorità competenti dei suddetti altri Stati contraenti”. Si considerino anche le indicazioni ritraibili dal Codice di condotta: in particolare cfr. Revisione 2009/C – 322/01, § 6.2, Casi triangolari.


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quale dispone che quando un’Autorità amministrativa ha deciso di rettificare i prezzi di trasferimento deve dar notizia al contribuente della sua intenzione in tempo utile (“it shall inform the enterprise of the intended action in due time”), in modo da offrirgli l’opportunità di informare l’impresa associata, affinchè questa, a sua volta, possa interessare l’Autorità competente dell’altro Stato contraente. La descritta procedura informativa che ricorda i meccanismi di comunicazione preventiva disciplinati dall’art. 10-bis della L. n. 241/1990, potrebbe essere inquadrata nei più ampi doveri statutari di cui agli artt. 5 e 6 della L. n. 212/2000 (166) e sembra garantire l’attuazione di diritti e facoltà previsti a livello euro-unitario allo scopo di agevolare l’instaurazione e lo svolgimento delle procedure di risoluzione dei conflitti internazionali in tema di transfer pricing. Può accadere in concreto che l’ufficio acquisisca la trasfer price documentation in sede di controllo, ometta di attivare un contraddittorio preliminare sulla stessa e rilevi carenze o errori direttamente in sede di processo verbale di constatazione. Ci sembra che, in questi casi, non venga comunicata al contribuente un’intenzione preliminare di rettificare i prezzi di trasferimento ma una determinazione già assunta e formalizzata. L’inosservanza della regola convenzionale potrebbe, dunque, inficiare la validità delle rettifiche “a sorpresa”, in quanto non precedute da un preventivo confronto, che dovrebbe essere promosso non già dopo la formazione del PVC (quando l’intervento sui prezzi non è ormai più un’intenzione ed è già effettuato, seppure non ancora riversato in un atto a carattere provvedimentale), ma durante lo svolgimento dell’attività istruttoria, appena emerge la possibilità di elevare la contestazione (167). Per quanto riguarda la relazione tra le Autorità competenti investite della questione, la più rilevante diversità rispetto alle procedure amichevoli fondate su Trattati bilaterali pare consistere proprio nella circostanza che la gestione “diplomatica” della questione ha una durata predeterminata (due anni) (168)

(166) Cfr., in generale, M. Pierro, Il dovere di informazione dell’Amministrazione finanziaria, Torino, 2013. (167) Gli spunti di questa riflessione sono tratti da L. Hinnekens, Different interpretations of the European Tax Arbitration Convention, in EC Tax Review, 1998, n. 4, 247 e ss., in particolare 253, il quale sottolinea l’importanza di tale “notification formality”. (168) Per la decorrenza del biennio nel caso in cui siano proposti ricorsi giurisdizionali di diritto interno, cfr. art. 7, § 1, primo capoverso della Convenzione arbitrale.


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decorsi i quali, a particolari condizioni (169) (170), è istituita una Commissio-

(169) Tra le condizioni più rilevanti vi è quella disciplinata al § 3 dell’art. 7, secondo cui qualora la legislazione interna non consenta alle Autorità competenti di derogare alle decisioni delle rispettive Autorità giudiziarie, la Commissione consultiva è costituita solo se “l’impresa associata (…) ha lasciato scadere il termine di presentazione del ricorso o ha rinunciato a quest’ultimo prima che sia intervenuta una decisione (…)”. L’Italia ritiene di essere annoverabile tra i Paesi che non ammettono deroghe al giudicato (cfr Circ. 5/06/2012 n. 21, § 5.6), ancorché le conclusioni assunte con riguardo all’autotutela suggeriscano forse maggior prudenza rispetto all’assolutizzazione di tale affermazione. Pertanto, nell’ambito della MAP disciplinata dalla Convenzione arbitrale si configura un’alternatività tra rimedi giurisdizionali e rimedio internazionale, i quali si escludono reciprocamente. Per questa ragione (cioè perché si sceglie la via di una definizione interna della vertenza), l’eventuale chiusura della controversia in sede nazionale tramite istituti deflattivi (adesione, mediazione e conciliazione giudiziale) precluderebbe l’accesso alla sopraddetta procedura internazionale (cfr. Circ. 21/2012, § 7.2). In senso critico rispetto a tale impostazione cfr. A. Tommassini e A. Martinelli, L’accesso alla «mutual agreement procedure» nell’«arbitration convention», in Corr. trib., 2012, n. 32, 2494 e ss., ove si legge che “contrariamente a quanto previsto in caso di intervenuto giudicato (inderogabile per l’Ufficio), la definizione transattiva in ambito domestico è un qualcosa che a nostro parere può essere «superato» dal principio del divieto di doppia imposizione internazionale”. Secondo l’Agenzia, a conclusioni simili a quelle raggiunte con riguardo alla Convenzione arbitrale si dovrebbe pervenire anche in caso di Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni, seppur sulla base di considerazioni parzialmente diverse. Alla preclusione per intervenuto “concordato” non si perverrebbe, infatti, invocando l’alternatività dei rimedi nazionali e transnazionali ma la funzione deflattiva che caratterizza gli istituti definitori, aventi effetti analoghi a quelli della mancata impugnazione (Circ. 21/2012, § 7.1). Resterebbe in entrambi i casi impregiudicata la possibilità dell’Autorità dell’altro Stato di intervenire unilateralmente per l’eliminazione degli effetti di doppia imposizione. Poiché l’art. 7, § 3 della Convenzione arbitrale dispone che non è impedito il ricorso a rimedi domestici (coesistenti, dunque, con la MAP) quando essi riguardino “elementi diversi da quelli di cui all’articolo 6”, ci si è chiesti se sia possibile coltivare la questione relativa alle sanzioni. La Circ. 21/2012 lo nega, almeno per quanto riguarda le misure punitive collegate al tributo ed al tema della fondatezza dei rilievi TP, essendo in tal caso “la contestazione (…) inscindibilmente correlata con quella riferita alla legittimità del recupero oggetto della procedura arbitrale (…)” (cfr. § 5.6, al quale si rinvia per l’elencazione dei casi in cui sarebbe possibile proseguire il giudizio sulle sanzioni). La conclusione dell’Agenzia non ci pare del tutto compatibile con la formulazione dell’art. 7, § 2, della Convenzione arbitrale, a tenore del quale “Il fatto che la commissione consultiva sia stata investita del caso non impedisce a uno Stato contraente di avviare o continuare, per il medesimo caso, azioni giudiziarie o procedure per l’applicazione di sanzioni amministrative”. Se il Legislatore comunitario immagina l’ipotesi di una Commissione consultiva costituita in pendenza di un procedimento giudiziario di irrogazione delle sanzioni che può “continuare”, significa che tale procedimento (giudizio) non si è forzatamente chiuso all’atto dell’avvio della fase arbitrale/MAP, il che dovrebbe comportare che esso non è stato di necessità abbandonato dal contribuente. (170) Un’ulteriore condizione è specificata all’art. 8 che esclude l’obbligo degli Stati contraenti di avviare la MAP o di costituire la Commissione consultiva quando risulta definitivamente da procedimento giudiziario od amministrativo che una delle imprese interessate


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ne consultiva, che opera seguendo le procedure e con i poteri indicati agli artt. da 9 a 12 (171). È, dunque, codificata una tempistica, il che già comporta attenuazione di una delle più decise critiche normalmente rivolte alla MAP, vale a dire l’assenza di orizzonti temporali per la trattazione del caso. La decisione dell’organo consultivo, se gli Stati non si accordano diversamente, è vincolante (art. 12 § 1, secondo capoverso), ragion per cui la procedura in esame presenta la peculiarità di essere interconnessa ad un procedimento a struttura

è passibile di sanzioni gravi. In tali situazioni, le procedure internazionali eventualmente in corso possono essere sospese sino alla conclusione di quelle interne volte all’accertamento delle predette sanzioni. Secondo l’Agenzia delle Entrate (Circ. 21/2012, § 5.3) la preclusione potrebbe riscontrarsi in presenza di violazioni penalmente rilevanti di cui agli artt. 2 e 3 del D.lgs. n. 74/2000, peraltro non agevolmente adattabili alle violazioni in tema di transfer pricing, meglio inquadrabili, semmai, nella fattispecie di dichiarazione infedele, tenendo anche conto, in questo caso, dell’incidenza delle valutazioni estimative e della circostanza (da vagliare alla luce della riforma introdotta con D.lgs. n. 158/2015) che gli eventuali componenti negativi (costi eccedenti il valore normale) transitati a conto economico e disconosciuti sono esistenti, ancorché non deducibili. In difetto di frode potrebbero essere, al limite, configurabili cause ostative alla MAP solo ove emergesse una chiara sussistenza di dolo specifico di evasione: cfr., sul punto, A. Tommassini, A. Martinelli, L’accesso alla «mutual agreement procedure» nell’«arbitration convention», cit., nonché P. Valente, Procedure arbitrali contro la doppia imposizione anche in caso di “sanzioni gravi”?, in Fiscalità e commercio internazionale, 2011, n. 9, ed in Banca dati Leggi d’Italia Professionale, Fisconline Dottrina. Si vedano, altresì, A. Albano, Illecito tributario e sanzioni improprie in materia di prezzi di trasferimento, in Riv. dir. trib, 2013, V, 73 e ss., in particolare 77; I. Caraccioli, La convenzione arbitrale in materia di transfer pricing nei suoi riferimenti penalistici, in Riv. dir. trib., 2013, III, 3 e ss. A prescindere dalla questione, non trascurabile, relativa alla possibile asimmetria tra Paesi nell’identificazione delle sanzioni gravi, in parte attenuata dalle raccomandazioni comunitarie (Codice di condotta), volte a circoscrivere a casi eccezionali, quali le frodi, l’impedimento, a chi scrive pare che la condizione preclusiva possa generare un certo qual cortocircuito applicativo. Se non ho male inteso, qualora risulti definitivamente constatata, con procedimento amministrativo o giurisdizionale, la commissione di una violazione grave, la MAP sarebbe inibita. Peraltro, per poter proseguire la MAP nella fase arbitrale occorre abbandonare il contenzioso interno. Ma abbandonando il contenzioso interno potrebbe prodursi, appunto, la definitività del procedimento da cui proprio risultano le sanzioni gravi, le stesse che sono alla base dei rilievi penali, i quali ovviamente riguardano le responsabilità individuali dei soggetti coinvolti. Per uscire dall’impasse occorre riconoscere che l’obbligo di abbandonare il contenzioso interno riguarda soltanto la vicenda amministrativa, rimanendo possibile proseguire quella penale, nonostante la potenziale coincidenza di oggetto. La contestazione penale, del resto, come detto, interessa le persone fisiche e non l’impresa in quanto tale. (171) Per una efficace descrizione della scansione procedimentale, illustrata anche con tabelle, cfr. P. Cauwenbergh e B. Van Honsté, The Belgian Arbitration Convention Circular: the Defensive Approach of Transfer Pricing, in Intertax, 2001, Vol. 29, Issue 4, 140 e ss.


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arbitrale (172), di cui costituisce una sorta di fase prodromica (173). Si tratta, dunque, di un mezzo più articolato ed efficace di soluzione della controversia internazionale, che deve essere affiancato ai casi nei quali le Convenzioni bilaterali prevedano l’inserimento di clausole arbitrali come quella suggerita dall’art. 25, comma 5 del modello OCSE. Per questi sviluppi l’istituto si colloca, dunque, al di fuori dei più circoscritti limiti della presente ricerca, che, come indicato in premessa, si pone l’obiettivo di analizzare i problemi più spinosi relativi alla fase propriamente amministrativa della procedura amichevole, cercando di comprendere se vi sono soluzioni ermeneutiche allo stato della normazione per smorzarli un poco. 11. Sintesi e conclusioni della ricerca. – Il tentativo di conferire effettività alle procedure amichevoli, avvalendosi degli strumenti interpretativi a disposizione ha permesso di conseguire taluni risultati ricostruttivi che vorremmo elencare sinteticamente. 1) La MAP in materia di prezzi di trasferimento dovrebbe poter essere attivata sia per conseguire la rimozione della doppia imposizione economica, promuovendo l’applicazione degli aggiustamenti correlativi, sia anche solo per contestare la correttezza dei prezzi di trasferimento rettificati da provvedimenti impositivi nazionali. In questo caso, oggetto di censura non sarebbe tanto la violazione della Convenzione bilaterale sotto il profilo della duplicazione impositiva quanto l’inosservanza della stessa con riguardo alla non corretta attuazione del principio di libera concorrenza, evocato dall’art. 9 del Modello OCSE come criterio che deve governare gli scambi tra imprese associate ed il riparto delle sovranità impositive. 2) Allo scopo di rendere più efficace l’innesco della procedura, sarebbe opportuno riconoscere l’iniziativa di attivazione anche al soggetto che non ha subito l’azione impositiva, non solo per ottenere gli aggiustamenti correlativi da parte del proprio Stato, ma anche per contestare preventivamente la correttezza dei prezzi di trasferimento rettificati dall’amministrazione dell’altro Stato contraente. In tal modo potrebbero attenuarsi i problemi di terzietà ed indipendenza connessi alla circostanza che la valutazione preliminare della

(172) Secondo W.W. Park, L’arbitrato nei trattati sulle imposte sui redditi, cit., in particolare 11, “se tale procedura costituisca realmente un arbitrato resta una questione aperta”. (173) Per un’analisi delle possibili prospettive evolutive dell’istituto, cfr. H.M. Pit, Improving the Arbitration Procedure under the EU Arbitration Convention (1), in EC Tax Review, 2015, n. 1, 15 e ss.


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fondatezza della domanda di MAP viene, di regola, effettuata dall’Autorità competente dello stesso Paese che ha posto in essere il provvedimento di cui si vuol far valere l’illegittimità per contrasto con la Convenzione. 3) Tale risultato parrebbe ottenibile interpretando l’espressione “for him”, utilizzata nel lessico convenzionale per riconoscere legittimazione attiva al soggetto che lamenta una lesione della propria sfera giuridica, come significasse “per i suoi interessi”, intendendo ricompresi quelli diretti ed indiretti. Poiché anche l’impresa associata non accertata subisce, per effetto della rettifica, una mediata lesione dei propri interessi, in ragione dei pregiudizi indirettamente ricadenti sul gruppo di cui fa parte, in questo modo sarebbe possibile attribuire ad essa un autonomo potere di iniziativa. 4) La fase interna di valutazione preliminare della fondatezza dell’istanza, condotta dall’Autorità competente nazionale, non dovrebbe consentire un esame del merito, ma un semplice riscontro della sussistenza dei presupposti legali per l’attivazione della procedura amichevole. A tutto concedere, potrebbe ammettersi un sindacato di merito nei limiti della valutazione del fumus boni iuris, dovendosi, dunque, disporre la prosecuzione della MAP ogni qual volta le ragioni del contribuente non appaiano manifestamente pretestuose. 5) Ad ogni buon conto, il diniego di attivazione della MAP, o comunque l’inerzia (silenzio-rifiuto) dell’amministrazione, dovrebbero essere equiparati all’esito di una fase di riesame e dovrebbero, dunque, poter essere impugnati con le modalità proprie del diniego di autotutela, essendo così riconosciuta protezione alle ragioni del contribuente, quantomeno entro i limiti elaborati con riferimento all’annullamento d’ufficio. 6) Comunque, non può escludersi che un atteggiamento meramente passivo dell’Autorità investita possa configurarsi come contrario ai doveri di correttezza e buona amministrazione, legittimando anche reazioni sul piano risarcitorio. 7) Come opportunamente sostenuto dall’Amministrazione italiana, l’attivazione dei rimedi di diritto interno non dovrebbe determinare la sospensione della procedura amichevole, anche se il Commentario OCSE parrebbe, in diversi casi, suggerirla. La prosecuzione della MAP appare utile, sia per consentire al soggetto passivo di abbandonare il giudizio allorquando la soluzione internazionale della vertenza gli appaia soddisfacente, sia per stimolare lo Stato che ha effettuato la rettifica a promuovere la conclusione dell’accordo, al fine di evitare l’alea del giudizio. 8) Il mancato assolvimento dell’onere di impegno dell’Autorità competente a tentare con diligenza di concludere l’Agreement dovrebbe poter es-


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato

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sere contestato dal contribuente, dimostrando che non sono state compiute le attività da considerarsi ragionevoli per conseguire l’obiettivo. A tal fine, dovrebbe essere riconosciuto il diritto di accesso al fascicolo della pratica, diritto che non parrebbe poter essere limitato dalle previsioni che stabiliscono la riservatezza della procedura internazionale. 9) In ogni caso, la circolazione delle informazioni tra le Autorità investite dell’accertamento (art. 26, § 2, Mod. OCSE) potrebbe essere invocata per favorire la diffusione di elementi conoscitivi dalla sede internazionale a quella nazionale, potendo, dunque, il contribuente cercare di far immettere (per es. rivolgendosi al Garante) nell’ambito del procedimento o del processo interno gli elementi probatori ed argomentativi acquisiti in fase di svolgimento della MAP, vuoi al fine di promuovere interventi unilaterali in revisione da parte degli uffici periferici, vuoi allo scopo di conseguire la soluzione concordata della vertenza in sede di adesione o di conciliazione. 10) Il confronto con il contribuente durante lo svolgimento della procedura dovrebbe essere assicurato in forza degli obblighi di buon andamento, buona fede e attuazione del contraddittorio, doveri, questi, che le fonti nazionali ed internazionali elevano a rango di principi generali, aventi portata pervasiva anche oltre i casi espressamente regolati. 11) Gli esiti del giudizio instaurato avverso il provvedimento impositivo di rettifica non dovrebbero vincolare le Amministrazioni investite del rimedio pattizio più di quanto il giudicato interno di rito e di merito vincoli rispetto all’adozione di provvedimenti di riesame. 12) Sembrano sussistere margini per ritenere che il contenuto degli accordi raggiungibili in sede MAP possa essere caratterizzato anche da approcci di tipo equitativo/transattivo, non rimanendo, dunque, la procedura amichevole necessariamente vincolata al rispetto del principio di stretta legalità. Tale risultato potrebbe non essere incompatibile con l’indisponibilità dell’obbligazione tributaria, quand’anche questa sia considerata portato dei fondamenti costituzionali dell’imposizione. 13) Parrebbe doveroso riconoscere la possibilità di sospendere l’esecuzione dei provvedimenti impositivi anche in fase di svolgimento della MAP, al fine di evitare la concretizzazione di una, seppur temporanea, doppia imposizione e di favorire l’accesso alla procedura, nell’ottica di attuazione degli obiettivi convenzionali. 14) Dovrebbe essere possibile ottenere coattivamente l’adeguamento dell’imposizione nazionale all’accordo, senza la necessità di ulteriori provvedimenti domestici volti a dare attuazione al contenuto dispositivo dell’Agre-


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Parte quinta

ement da parte degli uffici periferici. CosÏ si ridurrebbe il pericolo di intoppi nella fase di trasmissione delle determinazioni conclusive della MAP nell’ambito dell’apparato amministrativo nazionale.

Mauro Trivellin



Marco Versiglioni

Abuso del diritto Il divieto di abuso di un diritto soggettivo è una regola giuridica applicata in molti ordinamenti. L’esercizio del diritto soggettivo, oltre che dal contenuto di questo, stabilito dall’ordinamento (limite esterno o elemento formale), è limitato dalla necessità che persegua effettivamente l’interesse a tutela del quale il diritto è stato attribuito. In materia tributaria, una fondamentale sentenza della Cassazione ha affermato che “il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”. Negli ultimi anni, al riguardo, si è acceso un aspro dibattito giurisprudenziale e dottrinale. Il volume, si rivolge principalmente ai professionisti del settore e ai corsi universitari. Analizza nel dettaglio il complesso istituto dell’Abuso del diritto. In particolare, una volta individuato l’inquadramento legislativo, giurisprudenziale e dottrinale nonchè i relativi obiettivi e limiti, l’Autore si sofferma ad esaminare l’abuso del diritto sotto i profili logico e normativo.

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