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Ottobre-Dicembre 2017

Diritto e pratica clinica 4 RESPONSABILITÀ MEDICA

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ISSN 2532-7607

RESPONSABILITÀ MEDICA

Diritto e pratica clinica IN QUESTO NUMERO La condizione intersessuale in Italia, di Barbara Pezzini Semantica della condotta nell’atto medico e tutela dell’autodeterminazione, di Marco Azzalini

Appropriatezza nelle cure e corretta gestione delle risorse, di Lorena Forni Il patto di manleva tra la struttura e l’esercente la professione sanitaria, di Martina Flamini

Osservanza delle linee guida e buone pratiche nella prospettiva dell’esercente la professione sanitaria, di Gianfranco Sinagra Osservanza delle linee guida e buone pratiche: riflessi sulla responsabilità sanitaria, di Patrizia Ziviz

Ottobre-Dicembre 2017 Rivista trimestrale diretta da Roberto Pucella

Pacini


INDICE Saggi e pareri Barbara Pezzini, La condizione intersessuale in Italia: ripensare le frontiere del corpo e del diritto..................................................................................................................................... pag. 443 Marco Azzalini, Azione, omissione, astensione: semantica della condotta nell’atto medico e tutela dell’autodeterminazione del paziente................................................... » 457 Lorena Forni, Scelte giuste per salute e sanità. L’appropriatezza nelle cure tra doveri di informazione e corretta gestione delle risorse............................................................ » 471 Martina Flamini, Strutture ospedaliere ed esercenti la professione sanitaria: il patto di manleva tra causa concreta e giudizio di meritevolezza............................................... » 483 Fabio Cembrani, La legge Gelli-Bianco e la sua “drammatica incompatibilità logica”...... » 489 Daniela Zorzit, Il diritto alla sicurezza delle cure nella legge “Gelli”: (verso) una nuova responsabilità civile in sanità........................................................................................ » 497

Giurisprudenza Cass.

civ.,

III sez., 11 aprile 2017, n. 9251, con nota di commento di Maria Fontana Vita della Corte, Nascita indesiderata e aborto terapeutico: l’indefettibile presupposto del grave pericolo per la salute della gestante................................................................. » 511 Cass. civ., III sez., 26 luglio 2017, n. 18392, con nota di commento di Roberta Victoria Nucci, La distribuzione degli oneri probatori nella responsabilità medica: “qualificato inadempimento” e prova del nesso causale.................................................................... » 527 Trib. Gorizia, 18 luglio 2017, con nota di commento di Angelo Venchiarutti, Responsabilità dell’ospedale per mancanza di attenzione e accertamenti eseguiti in ritardo........................................................................................................................... » 533

Dialogo medici-giuristi Gianfranco Sinagra, Osservanza delle linee guida e buone pratiche nella prospettiva dell’esercente la professione sanitaria............................................................................ » 539 Patrizia Ziviz, Osservanza delle linee guida e buone pratiche: riflessi sulla responsabilità sanitaria................................................................................................. » 543

Osservatorio medico-legale Rossella Snenghi, Barbara Bonvicini, Chiara Ungaro, Giuseppe Molinari, Amelia Boscia, Enrico Cieri, Massimo Montisci, Danno da contagio HCV e HIV originato da emotrasfusione di sangue e suoi derivati. Metodologia accertativa e criteriologia valutativa........................ » 547

Osservatorio normativo e internazionale Nicola Brutti, Le scuse riparatorie nel rapporto medico-paziente: spunti dal Common Law. » 569 Laurence Klesta, La responsabilité médicale: un retour au passé?.................................... » 573



g g sa re e a La condizione intersessuale p Saggi e pareri Saggi e pareri

in Italia: ripensare le frontiere del corpo e del diritto Barbara Pezzini

Professoressa nell’Università di Bergamo Sommario: 1. La condizione intersessuale. – 2. Il quadro giuridico dell’attribuzione di sesso. – 3. Il trattamento medico ed i protocolli chirurgici. – 4. Le sollecitazioni a ripensare il trattamento medico e giuridico. – 5. Ripensare le frontiere del corpo e del diritto.

Abstract:

Il saggio propone una riflessione sulla condizione intersessuale a partire dall’analisi di genere. Ripercorre il quadro giuridico dell’attribuzione di sesso ed i trattamenti medico-chirurgici, considerando in modo particolare i problemi del trattamento normalizzante precoce sui minori intersessuali. Fra le sollecitazioni a ripensare il trattamento medico e giuridico della condizione intersessuale, richiama la recentissima sentenza del tribunale costituzionale tedesco che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della mancata previsione di una terza opzione accanto alla registrazione del sesso maschile o femminile, per le persone che non si identifichino stabilmente in uno dei due sessi e per le quali tale indicazione corrisponde all’effettiva percezione soggettiva della propria identità sessuale. The essay suggests a reflection on intersexuality from the perspective of gender analysis. The way to assign the sex and the Italian legal scenario as well as the medical practices and protocols are considered, in particular looking at the issues of medical procedure to normalise intersex bodies of new-borns.

Rethinking current approaches, the essay considers, among other statements, the recent decision of German Federal Constitutional Court, which held the unconstitutionality of the Civil Status Act, as far as it does not provide for a third option - besides the entry “female” or “male”, allowing for a positive gender entry.

1. La condizione intersessuale Maschio o femmina? È la domanda che accompagna inevitabilmente l’annuncio della nascita di un nuovo essere umano (ed ancora più precocemente, ormai, se non la prima, la seconda ecografia) e che introduce il primo elemento della narrazione e costruzione dell’identità personale del nuovo nato/della nuova nata (o del/la nascituro/a), incanalandola in una struttura binaria di sesso, e poi di genere, apparentemente tanto fondamentale quanto irrinunciabile. La prospettiva che è sottesa alla riflessione sulla condizione intersessuale che si svilupperà in queste pagine è quella di una analisi di genere del dualismo dei sessi, per riuscire, innanzitutto, a ve-

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dere e, di conseguenza, a rielaborare criticamente come una dimensione materiale dell’esistenza (quale è il sesso) trascolori nella regola sociale, e giuridica, della complementarietà come regola fondativa ed unica del genere. Il riferimento al genere rimanda al dato culturale e sociale che consente di identificare la relazione tra uomini e donne nella società; concetto analitico oltre che descrittivo, segnala il modo sessuato di esistere di una società, indicando la costruzione sociale, fatta di processi, comportamenti e rapporti, che organizza la divisione dei compiti tra donne e uomini differenziandoli; codice binario (che rileva due sessi, uomini e donne) e relazionale (che implica dialettica e circolarità tra le sue componenti), il genere consiste nell’elaborazione, variabile culturalmente, del sesso come coppia gerarchica, dove il maschile è codificato come superiore (e universale) ed il femminile come inferiore (e particolare). Destrutturare e ristrutturare i rapporti di genere uomo/donna ci porta ad una diversa consapevolezza: la dimensione di genere apre ad una condizione intrinsecamente variabile, non statica, che resta, tuttavia, nella sua dimensione analitica focalizzata sulla dimensione gerarchizzata che il genere incorpora, consentendoci di mettere a tema criticamente la relazione corpo-sesso-genere-sessualità-identità. Ci apre così una dimensione critica e di ricerca in cui non possiamo dare nulla per scontato, in cui non si dà all’orizzonte la scorciatoia semplificante della neutralizzazione, ma al contrario è richiesta la piena accettazione della gestione della complessità. Se il concetto di genere restituisce la struttura di una coppia (maschile e femminile, e il posto a ciascuno assegnato nella società) codificata rigidamente, una volta per tutte, con una pretesa di assolutezza ontologica ed assiologica, è innanzitutto nella struttura binaria che si incanala l’identificazione giuridica di ogni nuovo essere umano, la cui nascita va resa nota con l’assegnazione ad un sesso e con l’attribuzione di un nome coerente con il sesso attribuito1. Ma se la distinzione bina-

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Su cui si rimanda al paragrafo successivo.

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ria dei sessi e la conseguente ascrizione alternativa all’uno o all’altro trovano una corrispondenza non problematica per la maggior parte degli esseri umani, per alcune persone la forma alternativa della domanda non consente una risposta appropriata2: possiamo definire in una prima approssimazione come intersessualità la condizione delle persone che, avendo dalla nascita caratteri di entrambi i sessi e non potendo essere univocamente ascritte all’uno o all’altro sesso, sfuggono alla regola binaria per cui ogni individuo deve alternativamente essere riconosciuto come maschio o femmina. La persona intersessuale presenta, alla nascita, un fenotipo non corrispondente al genotipo: per esempio, pur avendo un corredo cromosomico maschile XY presenta genitali esterni femminili, ovvero forme di mosaicismo, vale a dire una compresenza di organi sessuali periferici maschili e femminili. Casi noti fin dai tempi più risalenti, che venivano un tempo riassunti nei termini di ermafroditismo e pseudo-ermafroditismo, vengono oggi codificati dalla medicina in modo assai più articolato, individuando svariate manifestazioni differenti della intersessualità che vengono ricomprese nella categoria dei disturbi della determinazione e differenziazioni sessuale (oltre la condizione molto rara dell’ermafroditismo, caratterizzata dalla presenza contemporanea di caratteri sessuali maschili e femminili, e dello pseudo-ermafroditismo, che si verifica quando l’aspetto degli organi sessuali esterni è opposto al sesso cromosomico e a quello gonadico, alcune sindromi si caratterizzano per anomalie del patrimonio cromosomico tali per cui l’aspetto esteriore non corrisponde al sesso biologico o cromosomico: nella sindrome di Klinefelter l’aspetto maschile del soggetto si accompagna ad una cromatina sessuale femminile; in quella di Turner persone di

Dati sulla incidenza statistica della condizione intersessuale scarseggiano, ma alcune stime più attendibili secondo studi pubblicati sull’American Journal of Human Biology convergono intorno a poco meno del 2% delle nascite (http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/(SICI)15206300(200003/04)12:2%3C151::AID-AJHB1%3E3.0.CO;2-F/abstract).

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aspetto femminile hanno, all’opposto, sesso cromatinico maschile; in quella di Morris le persone hanno un patrimonio cromosomico maschile anche se sviluppano caratteri femminili). A ciò va aggiunta la necessità di considerare anche quelle persone che, pur essendo state inquadrate in uno dei due sessi, dal momento che presentavano alla nascita organi sessuali esterni sufficientemente definiti, scoprono successivamente – in particolare in età puberale, ma talvolta anche solo in età adulta, a seguito di indagini intraprese per indagare la difficoltà di concepire – di avere caratteristiche gonadiche o cromosomiche divergenti dal sesso attribuito. Ora: il problema consiste nel fatto che queste persone non sono inquadrabili nella regola binaria o è riconducibile alla rigidità della regola binaria in sé? è il corpo recalcitrante che va conformato alla regola o la regola stessa può essere ripensata, per lo meno nella sua versione più rigida e senza alternative? Se procediamo guardando alla complessità del reale, ci rendiamo conto che lo stesso termine intersessuale3 non ha una definizione univocamente e pacificamente accettata; possiamo considerarlo un termine collettivo che denota una varietà, relativamente ampia, di condizioni riferibili alle correlazioni tra sesso genetico, gonadico e fenotipico: il bambino può presentare alla nascita un apparato genitale esterno tipicamente maschile o femminile che non corrisponde al quadro ormonale relativo; avere caratteristiche sessuali che corrispondono al corredo cromosomico ma non alle gonadi interne; presentare una configurazione mista, con elementi sia maschili che femminili; avere organi genitali “intermedi”, non univoca-

mente caratterizzati rispetto alla tipicità della configurazione maschile o femminile4. Del resto, la complessità del processo di differenziazione sessuale – che si sviluppa in un arco temporale ampio, avendo inizio con la fecondazione e completamento con lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari nella pubertà – è tale da essere soggetta con relativa frequenza a mutazioni o interferenze che provocano una condizione di disarmonia tra componente genetica, gonadica e fenotipica; tali disarmonie delle diverse componenti del sesso biologico vengono oggi in medicina ricomprese sotto la dizione di “disturbi della differenziazione sessuale” (DDS)5. La distinzione si riflette sull’ipotesi di differenti percorsi “terapeutici”, che agiscono, dunque, imponendo l’adattamento – la conformazione alla regola – senza ulteriormente interrogarsi sulla pertinenza della regola al caso, nonostante sia estremamente chiaro quanto la comprensione dei meccanismi della differenziazione sessuale sia variata nel tempo, influenzando necessariamente la

Ad es. in una bambina una clitoride ipersviluppata, ovvero la mancanza di apertura vaginale; ovvero in un bambino un pene singolarmente piccolo e uno scroto diviso che assume una conformazione analoga a quella delle grandi labbra. Riferendo delle tabelle graduate che vengono utilizzate per l’attribuzione del sesso, nel Rapporto al Consiglio d’Europa del 2015, Human rights and intersex people, reperibile all’indirizzo https://book.coe.int/eur/en/commissioner-for-human-rights/6683-pdf-human-rights-and-intersex-people. html, il commissario Nils Muiznieks riporta i limiti indicati per la lunghezza del pene (non inferiore a 2 cm) e della clitoride (non maggiore di 0.9 cm), a valere rispettivamente per l’ascrizione al sesso maschile e femminile: “male newborns with penises smaller than 2 cm considered ‘too small’ are ‘assigned the female gender and reconstructed to look female’, while clitorises larger than 0.9 cm are considered ‘too big’ and are reduced in size” (ivi, 20). Kessler, Lessons from the intersexed, New Brunswick, Rutgers University Press, 1998, parla provocatoriamente di “fallometro”.

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Vedi la ricostruzione nel parere del 25.2.2010 del Comitato nazionale per la Bioetica (CNB), I disturbi della differenziazione sessuale, disponibile in www.governo.it/bioetica/ pareri.html. Va aggiunto che la categoria stessa dei disturbi della differenziazione sessuale è rigettata da quanti ne sottolineano la portata stigmatizzante e patologizzante e che, in particolare tra gli attivisti e le persone intersessuali, alcune respingono l’idea di identificarsi come tali: OII Intersex Network (2012), The Therminology of Intersex, all’indirizzo oiiinternational.com.

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Davidian, Beyond the Locker Room: Changing Narratives on Early Surgery for Intersex Children, in Goldberg (ed.), Sexuality and Equality Law, Ashgate, Farnham, 2013, 407, osserva che il termine viene respinto da molti intersessuali, perché sessualizzerebbe le persone in termini di erotismo piuttosto che di biologia, implicando che non abbiano una chiara identità di sesso o genere e forzandole ad assumere una identità queer alla quale non appartengono. 3

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definizione stessa della condizione intersessuale, che dipende, in realtà, tanto dallo sviluppo delle conoscenze scientifiche, quanto dalla cultura generale della società6. È di tutta evidenza, per esempio, che una persona che non presenta altre ambiguità sessuali oltre alla deviazione dallo standard cromosomico tipico (XX femminile, XY maschile), che oggi viene ricondotta alla condizione intersessuale, non sarebbe stata identificabile come tale prima della possibilità di diagnosi cromosomica; d’altro canto, determinate conformazioni morfologiche dei genitali7, che pure di per sé non producono necessariamente ambiguità sessuale, vengono trattate come condizione intersessuale. Alcune condizioni intersessuali sono caratterizzate dalla divergenza del sesso cromosomico da quello fenotipico, talché uno è maschile e l’altro è femminile o viceversa (ad es. nella sindrome da insensibilità agli androgeni, nota anche come sindrome di Morris, la refrattarietà agli ormoni androgeni fa sì che il soggetto sviluppi caratteri fenotipici femminili, anche se spesso, ma non sempre, in assenza di utero e ovaie); altre non sono, invece, categorizzabili in un sistema binario (nella sindrome di Klinefelter, per esempio, a causa di un’alterazione genetica il soggetto possiede un cromosoma XXY e un fenotipo per lo più maschile, anche se scarsamente accentuato: è condizione caratterizzata dalla presenza di un cromosoma sessuale X in più in soggetti di sesso maschile o, all’opposto, dalla presenza di un cromosoma sessuale Y in più in soggetti di sesso femminile ?). Ciò che sembra unificare condizioni tanto diverse è il fatto che tutte condurrebbero “a quadri variabili di ambiguità o di disfunzione”8.

La premessa di inquadramento del parere reso dal CNB rende immediatamente evidente l’intersecarsi tra il piano medico e quello sociale.

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Premesso che ambiguità e disfunzione non sono termini omogenei – perché mentre il secondo rimanda direttamente ad una problematicità di funzioni organiche e ad una dimensione più tipicamente medica del problema, la prima esprime innanzitutto la difficoltà di corrispondere ad un registro binario alternativo della identificazione sessuale – è scorrendo il quadro dei trattamenti suggeriti in relazione alle diverse tipologie che emerge la tensione irrisolta tra un trattamento delle disfunzioni inteso come ripristino o surrogazione delle stesse ed un trattamento della ambiguità nella forma di una normalizzazione (cioè di una conformazione alla norma rappresentata dalla regola binaria presupposta9), che può a sua volta essere fonte di disfunzionamenti. Dal velo di silenzio che copre la condizione delle persone intersessuali sta faticosamente emergendo una attenzione finalmente critica alle reciproche e circolari implicazioni tra le componenti scientifiche, sociali e giuridiche del contesto in cui esse vengono definite come corpi sbagliati o recalcitranti; ed in particolare emerge lentamente, rivelandosi però come la punta di un iceberg, il profilo anche drammaticamente più problematico, che riguarda gli interventi chirurgici di normalizzazione – a ben vedere piuttosto estetica che funzionale – praticati sui minori, anche di pochi anni o mesi; l’irreversibilità delle conseguenze patologizzanti di tali interventi si rivela in rapporto inversamente proporzionale con la potenzialità terapeutica ed appare tanto più allarmante, quanto meno definitive e convincenti sono le risposte che tali interventi possono realisticamente offrire al percorso di vita e di identificazione, anche sessuale, della persona nell’arco poi della sua intera esistenza: nella svolgersi della quale la persona non si troverà comunque mai pienamen-

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Davidian, op. cit., 407, cita in proposito il caso della diagnosi di micropenis (lunghezza in estensione ha una deviazione standard maggiore di 2.5 in meno della media riferita all’età) che viene trattata come condizione intersessuale pur non creando necessariamente ambiguità sessuale. 7

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CNB, op. cit., 8.

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Lo rileva anche il Focus FRA (European Union Agency for Fundamental Rights) 04/2015, The fundamental rights situation of intersex people, reperibile all’indirizzo http://fra.europa.eu/en/publication/2015/fundamental-rights-situation-intersex-people, osservando come il CNB italiano rafforzi un approccio esclusivamente medico ai problemi della condizione intersessuale, reintegrando il binarismo sessuale come “elemento indispensabile dell’identità personale” (ivi, 2).

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La condizione intersessuale in Italia

te corrispondente ad una delle alternative reciprocamente escludentesi di maschio o femmina, ma certamente vivrà in condizioni patologizzate (ripetizione degli interventi ricostruttivi e di adeguamento in relazione alla crescita corporea, trattamenti ormonali sostitutivi ecc.10). Nella tensione alla normalizzazione precoce si colloca anche il tema di chi, e come, possa prendere per il minore le decisioni relative ai trattamenti spesso altamente invasivi che vengono suggeriti e delle responsabilità connesse a tali scelte11. Il silenzio sulla condizione intersessuale si riflette anche nella assoluta scarsità della giurisprudenza italiana riferibile a profili di titolarità o responsabilità della scelta: si conoscono, infatti, un caso di nomina di curatore speciale per attuare le pratiche chirurgiche e terapeutiche necessarie all’adeguamento del corpo del minore, a fronte dell’inerzia dei genitori12 ed una vicenda di risarcimento del danno per l’erronea attribuzione al neonato del sesso maschile a causa dell’errata diagnosi di un’ipospadia scrotale, in luogo di una sindrome androgenitale13.

Solo oggi si stanno faticosamente avviando studi epidemiologici sugli effetti a lungo termine dei prolungati trattamenti ormonali. 10

Lorenzetti, Frontiere del corpo, frontiere del diritto: intersessualità e tutela della persona, in Riv. biodir., 2015, 109-127 e La problematica dimensione delle scelte dei genitori sulla prole: il caso dell’intersessualismo, in Giuffrré, Nicotra (a cura di), La Famiglia davanti ai suoi giudici, Napoli, 2014, 485493. Si rimanda anche al Focus Frontiere del corpo, frontiere del diritto. Il trattamento giuridico della condizione intersessuale, in corso di pubblicazione nel numero 1/2018 della rivista telematica GenIUS, Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere, che offre la rielaborazione delle relazioni presentate nel convegno dallo stesso titolo tenutosi presso il Dipartimento giuridico dell’università di Bergamo il 10 febbraio 2017; v. in particolare gli interventi di Stefanelli e Miri che inquadrano, rispettivamente, responsabilità genitoriale e medica.

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Trib. min. Potenza, decr. 29.7.1993, in Riv. it. med. leg., 1996, 299; in Dir. fam. e pers., 1993, 1199. 12

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Trib. Bari, 25.6.2012, n. 2295, in www.leggiditalia.it.

2. Il quadro giuridico dell’attribuzione di sesso Nei confronti dei soggetti intersessuali, l’ordinamento italiano14 sembra presupporre a-problematicamente e a-criticamente l’esistenza di presupposti scientifici che definiscono una persona come maschio o femmina e derivarne la necessità incondizionata del dualismo sessuale (questa premessa è sembrata, ancora più problematicamente, rendere mera ineluttabile conseguenza anche il procedere ad interventi di correzione quanto più precoci possibile sulla persona intersex, che ne consentissero l’iscrizione univoca ad un sesso15). L’assegnazione alla nascita di un sesso a ciascun individuo avviene in base ad un codice rigidamente binario M/F, sulla base dell’osservazione

14 La prospettiva di binarismo sessuale è comune alla maggior parte dei sistemi giuridici occidentali, anche se non tutti richiedono, come in Italia, una corrispondenza univoca tra nome e sesso. Rappresentano l’eccezione alcuni ordinamenti che ammettono una terza possibilità rispetto all’assegnazione del sesso femminile o di quello maschile. Il Focus FRA, op. cit., 4, riporta che almeno quattro stati membri consentono una identificazione neutra nei certificati di nascita: Regno Unito (con la dizione “sesso sconosciuto”); Lettonia (il sesso non è indicato nel certificato di nascita, ma compare come “sesso incerto” nelle certificazioni mediche); Olanda (l’indicazione di “sesso indeterminato” nel primo certificato, può essere rivista entro il termine di entro tre mesi sulla base di una certificazione medica; in mancanza, la registrazione di sesso indeterminato potrà essere sostituita, senza limiti di tempo, una volta che la persona abbia deciso della propria identità sessuale); Germania (il certificato di nascita può essere rilasciato senza l’indicazione del sesso e può essere integrato successivamente senza limiti di tempo); in Portogallo si consiglia a chi denuncia la nascita di un bambino intersessuale di scegliere un nome facilmente adattabile ad entrambi i sessi, sul presupposto della modificazione della registrazione una volta che il sesso possa essere attribuito in modo attendibile. Sulla situazione in Germania v. anche oltre, par. 4. In Australia, una pronuncia della High Court del 2 aprile 2014 (caso NSW Registrar of Births, Deaths and Marriages v. Norrie) ha riconosciuto la possibilità di essere classificati come “non specific”: il Governo australiano aveva approvato un documento a riguardo – le Guidelines on the Recognition of Sex and Gender – già nel luglio 2013.

Bernini, Maschio e Femmina Dio li creò!? Il sabotaggio transmodernista del binarismo sessuale, Milano, 2010, osserva la corrispondenza tra la supposta intrattabilità delle persone intersessuali da parte del sistema giuridico e simbolico ed il loro trattamento da parte del sistema sanitario. 15

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della morfologia dei genitali esterni (dimorfismo sessuale) effettuata dal personale sanitario e consegnata alla attestazione di avvenuta nascita. Sesso e nome diventano elementi fondamentali del processo di identificazione personale e di costruzione di una identità sociale. Apparentemente non problematica e percepita come eminentemente naturale, l’ascrizione sessuale, se guardata più da vicino ed interrogata in modo più esigente, svela il suo carattere, al contrario, interamente culturale; non solo di fronte ai casi di ambiguità, indefinitezza, intersessualità, statisticamente ridotti, ma non per questo meno significativi; ma anche qualora si metta a tema il rapporto tra sesso e genere, qualora, detto altrimenti, si elabori il dualismo maschile/femminile con riferimento, oltre che a dati ed elementi della biologia e della corporeità, anche in relazione ai ruoli e status sociali maschili e femminili, all’insieme di vincoli e possibilità degli uomini e delle donne. A partire dalla riflessione sui rapporti tra sesso e genere (e dal problema se il sesso sia il fondamento del genere o se non sia piuttosto vero il contrario), vengono messe in discussione la naturalità sia delle differenze tra sessi/generi, sia del dimorfismo; le ricerche suggeriscono che la differenziazione sessuale non è unifattoriale, ma è il risultato di numerosi eventi che agiscono in modo coordinato e regolantisi reciprocamente, e che non esiste un confine netto tra due sessi, ma un continuum lungo una scala graduale, con una serie di variazioni e di differenziazioni che non autorizzano la configurazione di due (soli) gruppi nettamente distinti16. Ignorando questa complessità, il d.P.R. n. 396/2000, Regolamento di delegificazione per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, dispone che la dichiarazione di nascita sia fatta entro tre giorni dal parto presso la Direzione sanitaria dell’ospedale o casa di cura dove è avvenuto il parto ovvero, alternativamente, entro dieci giorni presso l’ufficio di stato civile del comune ove il bimbo è nato o del comune di residenza dei genitori (art. 30); nella dichiara-

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Busoni, Genere, sesso, cultura, Roma, 2000.

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zione è richiesta esplicitamente l’indicazione del “sesso del bambino”, che riprende quella dell’attestazione di avvenuta nascita. L’art. 30, comma 2°, prescrive che la dichiarazione di nascita dei genitori sia corredata dall’attestazione di avvenuta nascita, redatta dal personale sanitario che ha assistito al parto e contenente le generalità della puerpera, nonché le indicazioni del comune, ospedale, casa di cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, del giorno e dell’ora della nascita e del sesso del bambino; se nessuno ha assistito alla nascita, viene redatta ex post la constatazione di avvenuto parto, al momento dell’arrivo del personale medico; se neanche ciò è stato possibile, il dichiarante può comunque rimediare con una dichiarazione sostitutiva (art. 29). L’art. 35 richiede inoltre la corrispondenza tra il sesso ed il nome attribuito al bambino17. Come già osservato, l’ascrizione sessuale risulta una operazione priva di ambiguità per la maggior parte dei nuovi nati, ma di elevata problematicità in quei casi in cui l’attribuzione non possa essere fatta in termini univoci; da questo punto di vista risulta di estremo interesse segnalare che le schede in uso in talune strutture sanitarie offrono la possibilità di indicare l’eventuale ambiguità dei genitali: pur mantenendo due caselle per l’assegnazione del sesso anagrafico (maschile/femminile), indicano, infatti, tre opzioni relativamente alla “descrizione” dei genitali (ossia genitali maschili, femminili, ambigui). La normativa non prevede deroghe e neppure dilazioni dell’iscrizione anagrafica completa delle indicazioni relative al sesso; anzi, l’ufficiale dello stato civile può ricevere una dichiarazione tardiva (dopo più di 10 giorni dalla nascita) solo se il dichiarante indica espressamente le ragioni del ritardo, e di tale ritardo viene data segnalazione al Procuratore della repubblica. Nei casi di omessa dichiarazione o di dichiarazione tardiva senza indicazione delle ragioni del ritardo, l’ufficiale dello stato civile riferisce al Procuratore della Repubblica per il promovimento del giudi-

17 Trucco, Introduzione allo studio dell’identità individuale nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 2004, 133 ss.


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zio di rettificazione, dal momento che la dichiarazione di nascita può essere ricevuta solo in forza del decreto dato con quel procedimento (art. 31). Nel quadro giuridico entrano anche le disposizioni che disciplinano la possibilità di modifica successiva dell’indicazione del sesso e del nome attribuiti nell’atto di nascita qualora, anche in considerazione della problematicità dell’ascrizione originaria, dopo la pubertà o in età adulta lo sviluppo sessuale della persona risulti essersi indirizzato verso il sesso opposto. Fino al 1982, erano proprio i casi di disturbi della determinazione e differenziazione sessuale a consentire l’unica forma di rettificazione e correzione del sesso anagrafico applicando il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile18: il procedimento, negato alle persone transessuali19, era ammesso per la riassegnazione del sesso in caso di errore dell’attribuzione alla nascita, anche se, più che di errore in senso proprio, nei casi di intersessualità si dovrebbe parlare di un’attribuzione fatta alla nascita sulla base di una certa interpretazione del medico, che viene successivamente sostituita da una diversa interpretazione, più o meno sollecitata, accompagnata o indirizzata da trattamenti medico chirurgici20. A far tempo dalla adozione della legge n. 164/1982, Norme in

Allora in base all’art. 454 c.c., che prevedeva la rettificazione degli atti dello stato civile in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato (art. 324 c.p.c.) ed è stato abrogato dall’art. 110 del d.P.R. n. 396/2000, regolamento di delegificazione per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile. 18

Nonostante qualche eccezionale apertura (App. Milano, 29.1.1971, in Temi, 1971, 22; Trib. Lucca, 17.4.1972, in Giur. it, 1973, I, II, 374), la giurisprudenza prevalente di merito e di legittimità restava saldamente ancorata all’immutabilità dell’attribuzione del sesso al di fuori dei casi dell’evoluzione considerata “naturale” – o, al più, medicalmente assecondata – delle situazioni di ambiguità e intersessualità: Cass., 3.12.1974, n. 3948, in Giur.it, 1975, I, 1, 880; Cass., 13.6.1972, n. 1874, in Foro it., 1972, I, 2399; Cass., 9.3.1981, n. 1315, in Giur. it., 1981, I, 1, 1015; Cass., 9.3.1981, n. 1315, in Giur. it., 1981, I, 1, 1015. 19

Pezzini, Transgenere in Italia: le regole del dualismo di genere e l’uguaglianza, in Discriminação por orientação sexual. A homossexualidade e a transexualidade diante da experiência constitucional, Marcìlio Pompeu, Facury Scaff (org.), Florianopolis/SC, Brazil, 2012, 327. 20

materia di rettificazione di attribuzione di sesso, tuttavia, la genericità delle disposizioni della legge, che fanno riferimento alla rettifica di attribuzione di sesso senza richiamare le ragioni per le quali si chiede la modifica (senza, dunque, distinguere la condizione transessuale da quella intersessuale), è sembrata indirizzare anche le persone intersessuali ad utilizzare la normativa prevista per il caso di riassegnazione del sesso anatomico e anagrafico a coloro che intendono modificare il proprio corpo, di per sé perfettamente corrispondente al sesso anagrafico assegnato, per adeguarlo alla percezione del sé come appartenente al genere opposto21. Ma la soluzione non convince, dal momento che la condizione intersessuale differisce sostanzialmente da quella delle persone transessuali, per le esigenze delle quali la legge è stata pensata (ed alle quali propone un percorso di supporto terapeutico, temporalmente lungo, giuridicamente ed emotivamente complesso, nonché oneroso22). Una parte della giurisprudenza, infatti, muovendo dalla premessa secondo la quale il sesso anagrafico individua una qualità della persona che connota l’individuo e va indicata nei registri di stato civile, propone il ricorso ad un’azione di rettifica (ex art. 95 d.P.R. n. 396/2000), di gran lunga più snella e e rapida, volta ad una mera correzione di quanto scritto nell’atto di nascita23; la modifica consentirebbe di riportare gli atti di stato civile alla corrispondenza con la realtà materiale rimuovendo l’errore nell’assegnazione24. Questo complessivo inquadramento ha certamente contribuito ad indirizzare la ricerca di risposte alle difficoltà circa l’attribuzione al sesso maschile o al sesso femminile alla nascita di bambini intersessuali, non già nella possibilità di una sospensione/ rinvio della assegnazione del sesso o in una at-

21

Sul tema, Lorenzetti, Diritti in transito, Milano, 2013.

L’azione è disciplinata dalla l. n. 164/1982 e dall’art. 31 d.lgs. n. 150/2011; sul carattere defatigante, oneroso, e irrazionale del procedimento, v. Cardaci, Per un “giusto processo” di mutamento di sesso, in Riv. dir. fam. e pers., 2015, 4, 1459 ss. 22

Cardaci, Il processo di accertamento del genere del minore intersessuale, in Riv. dir. proc., 2016, 690 ss.

23

24 La prospettiva della rettificazione anagrafica è indicata come preferita anche dal parere del CNB, op. cit., 22, nt. 44.

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testazione in via provvisoria, quanto piuttosto nel ricorso quanto più precoce possibile a forme di trattamento medico-chirurgico del soggetto, in particolare indirizzando verso quegli interventi di modificazione dei caratteri sessuali esterni capaci di ricondurre il corpo del bambino entro i canoni di una “normalità” tale da far cessare il livello di problematicità dell’assegnazione del sesso anagrafico.

3. Il trattamento medico ed i protocolli chirurgici Viene dunque in rilievo la necessità di una adeguata ricognizione di quali siano le pratiche cliniche di trattamento dei neonati intersessuali. È lo stesso documento del Comitato nazionale di bioetica a ricordare la corrispondenza tra sviluppo delle conoscenze e modo di considerare la differenza sessuale, con ridondanza sulla condizione intersessuale. La radice più risalente di sesso come “realtà antropologica primariamente corporea finalizzata alla procreazione” implicava il ricorso ai dati somatici e l’emergere del criterio della prevalenza alla quale seguiva una “normalizzazione sociale ed univoca” al sesso individuato come prevalente sul piano biologico; la nascita della scienza biologica nel XVI secolo assume criteri “più rigorosi” identificati nella presenza dei testicoli per il sesso maschile e nel riscontro dei flussi mestruali o la presenza dell’utero per il sesso femminile; le scoperte della seconda metà del XIX secolo, riconoscendo nelle gonadi l’elemento determinante del sesso, avevano consentito di “rimuovere il disagio dell’ambiguità sessuale” assegnando le persone con certezza ad uno dei due sessi25. Passando per l’acquisizione della componente genetica, si è, infine, pervenuti a considerare oggi la multifattorialità incidente sulla determinazione del sesso; di conseguenza, il trattamento dei casi di DDS deve elaborare indici multipli e differenti, a partire da quelli somatici (sesso fenotipico e gonadico), perché se l’aspetto dei genitali è determinante per la registrazione anagrafica, la possibilità di una vita sessuale soddisfacente e

25

CNB, op. cit., 12-13.

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Saggi e pareri

l’elaborazione psichica della auto-identificazione sessuale, il sesso gonadico è rilevante per l’imprinting cerebrale (o sessualizzazione cerebrale), l’elaborazione ormonale e la fecondità; ma senza pretermettere o trascurare gli indici psichici, intesi come identità personale e ruolo sociale26. I modelli di trattamento basati sulla rilevanza della differenza tra diagnosi tardiva e precoce suppongono necessariamente una manipolabilità delle componenti psichiche, estrema nel modello di Money, ormai superato27, in versione temperata delle linee guida di Diamond e Sigmundson (1997) o nel Consensus Statement on management of Intersex Disorders (2006)28. Il paradigma si capovolge nelle Linee guida della Intersex Society of North America (2006), che propongono la doverosità di trattamenti medico chirurgici solo a fronte di una reale, attuale, imminente minaccia per l’integrità fisica del soggetto, non forzando in alcun modo una normalizzazione sociale. Pur nella estrema difficoltà di ricostruire una mappatura attendibile29, diversi segnali mostrano ancora oggi la diffusione anche in Italia di pratiche di trattamento chirurgico estremamente precoce

26

Ibidem, 13.

Il parere CNB, op. cit., 15, tuttavia, pur evidenziando le criticità indiscutibili che hanno determinato il superamento del modello di Money, estremo nella direzione della plasmabilità, lo accredita per l’aspetto della necessità di assegnazione precoce. 27

Che pure rappresenta indubbiamente una discontinuità, come osserva Davidian, op. cit., 414, soprattutto in quanto permette di fuoriuscire dalla logica dell’emergenza sociale ed offre una strategia a lungo termine di trattamento in équipe professionale articolata che lavora insieme con la famiglia. 28

29 Il problema è segnalato specificamente dalla Relazione al Parlamento Europeo sulla tabella di marcia dell’UE contro l’omofobia e la discriminazione legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere (Rapporto Lunacek, A7-0009/2014) che, nell’ambito G. Azioni specifiche a favore di transgender e intersessuali, richiede: “la Commissione, gli Stati membri e le agenzie competenti dovrebbero ovviare all’attuale carenza di informazioni, ricerche e normative pertinenti in relazione ai diritti umani degli intersessuali” (al punto iv). Anche il Focus FRA, op. cit., 5, segnala la mancanza di dati statistici generali. Nell’ambito delle informazioni fornite al Comitato sui diritti delle persone con disabilità dell’ONU, ai fini della stesura del rapporto sull’Italia del 2016, sono riportati 34 interventi chirurgici su minorenni, di cui 23 su infra-decenni (CRPD/C/ITA/Q/1/Add. 1, n. 36).


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dei neonati intersessuali (nelle primissime settimane di vita) che, ai fini dell’assegnazione di sesso, si preoccupano di “correggere” l’inadeguatezza di un corpo rispetto al rigido (ed astratto) modello binario assunto a norma di riferimento per l’ascrizione anagrafica. Si trascura, però, la considerazione della qualità di vita futura, sulla quale si proiettano le conseguenze estremamente dannose di una medicalizzazione forzata vita natural durante: dipendenza da trattamenti ormonali in ragione dell’asportazione delle gonadi, trattamenti chirurgici periodici per adeguare il corpo alla fisiologica crescita, compromissione del piacere sessuale. Nonostante il velo di silenzio che circonda una condizione di per sé talmente minoritaria da risultare pressoché invisibile, in tempi recenti è stato il Comitato sui diritti delle persone con disabilità dell’ONU, nelle Osservazioni conclusive sul rapporto CRPD/C/ITA/1 del 6 ottobre 2016, esprimendo preoccupazione per il fatto “che i bambini siano sottoposti ad interventi chirurgici irreversibili per la loro variazione intersessuale e altri trattamenti medici senza il loro consenso libero e informato”, a formulare la raccomandazione “allo Stato membro di assicurare che nessuno sia sottoposto, durante l’infanzia o la fanciullezza, a trattamenti medici o chirurgici se questi non sono basati su documentazione scientifica; di garantire l’integrità fisica, l’autonomia e l’autodeterminazione ai bambini in questione; e di fornire adeguata consulenza e supporto alle famiglie con bambini intersessuali” (raccomandazione n. 46, nell’ambito “Protezione dell’integrità della persona” – art. 17 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità). L’anno precedente il Rapporto FRA The fundamental rights situation of intersex people30 aveva indicato anche il nostro paese tra i 21 Stati Membri nei quali risultavano praticati trattamenti chirurgici di riassegnazione31, pur in assenza di

30

Focus FRA, op. cit., 6.

Gli altri sono Austria, Belgio, Bulgaria, Rep. Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Olanda, Polonia, Slovacchia, Spagna, Svezia, e Regno Unito. 31

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protocolli medici generali sul trattamento delle persone intersessuali. Da ultimo, un atto di sindacato ispettivo del Senato rivolto al ministro della salute (n. 4-06490 del 12 ottobre 2016), primo firmatario Lo Giudice, ha diffuso una notizia di stampa circa “un intervento chirurgico su un o una duenne dalle caratteristiche intersex eseguito al policlinico universitario Paolo Giaccone di Palermo” nel riportare la quale erano state descritte “le tappe dell’intervento che avrebbe compreso l’asportazione delle gonadi, dell’utero e la ricostruzione del pene del o della giovane paziente”. Si chiede se il Ministro abbia raccolto informazioni sull’accaduto e se l’intervento sia stato giustificato da un pericolo serio ed imminente per la salute del paziente, che si propone come parametro della legittimità di un intervento altamente invasivo e dalla più che dubbia efficacia terapeutica. L’atto parlamentare individua una serie di responsabilità politiche connesse al tema, sollecitando il Ministro ad avviare iniziative di monitoraggio e raccolte dati sui casi di intersessualità, ma anche ad operare per la sensibilizzazione delle famiglie, secondo le linee guida degli organismi internazionali, ai rischi delle operazioni chirurgiche precoci ed alle opzioni alternative che consentano al bambino o alla bambina di crescere con la possibilità di scegliere da protagonista il percorso della propria identificazione sessuale; si mostra, infine, consapevole della necessità di avviare un ampio confronto sui percorsi diagnostici, terapeutici e assistenziali (PTDA), che sollecita, preoccupandosi di specificare la necessità di coinvolgere, da un lato, le Regioni, ma dall’altro le “organizzazioni che si occupano di variazioni intersex e di diritti umani”, che appaiono evidentemente indispensabili a restituire una descrizione adeguata della condizione intersessuale.

4. Le sollecitazioni a ripensare il trattamento medico e giuridico Il ripensamento dei trattamenti medico e chirurgico va tenuto collegato in un unico contesto. Sono soprattutto le organizzazioni internazionali a portare allo scoperto il tema della inadeguatezza e sostanziale pericolosità di un inquadramento Responsabilità Medica 2017, n. 4


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della condizione intersessuale in termini esclusivamente di patologizzanti ed a lanciare segnali di allarme nei confronti della pratica dei trattamenti chirurgici sui bambini, denunciandoli come violazioni dei diritti umani. Nel maggio 2014, diverse organizzazioni in ambito ONU (Organizzazione Mondiale della Sanità, Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Programma Congiunto delle Nazioni Unite HIV / AIDS, Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, Fondo per la popolazione delle Nazioni Unite, Fondo delle Nazioni Unite per bambini) hanno pubblicato una dichiarazione interagenzia, in cui sottolineano che «le persone intersessuali in particolare, sono sottoposte a trattamenti medici e a chirurgia non-medicalmente necessaria nell’infanzia, che porta alla sterilità, senza il consenso informato della persona in questione o dei genitori o tutori. Tali pratiche sono anche state riconosciute come violazione dei diritti umani da organismi internazionali e Corti per i diritti umani e nazionali»32. Nel 2013 il Rapporteur Speciale sulla Tortura dell’ONU aveva fatto appello agli Stati membri per l’abrogazione di “qualsiasi legge che consenta trattamenti invadenti e irreversibili, tra cui la chirurgia genitale-normalizzante forzata, la sterilizzazione forzata, la sperimentazione non etica, ‘terapie riparative’ o ‘terapie di trasformazione’ se eseguiti o somministrati senza il consenso libero e informato della persona interessata”. La condizione intersessuale ed il suo trattamento giuridico sono messe a tema anche da una recentissima sentenza del Tribunale costituzionale tedesco33, che ha dichiarato l’incostituzionalità della previsione esclusivamente binaria del sesso all’atto della registrazione anagrafica, con la sola

32 UN/WHO, Eliminating forced, coercive and otherwise involuntary sterilization. An interagency statement, 2014, http://www.who.int/reproductivehealth/publications/gender_ rights/eliminating-forced-sterilization/en. 33 Bundeverfassungsgericht, sentenza del 10 ottobre 2017, Prima Sezione, BverG 2019/16: un ampio stralcio della motivazione della sentenza, nella traduzione italiana di Roberto De Felice, è pubblicato in http://www.articolo29.it/2017/intersessualismo-e-terzo-sesso-la-rivoluzione-copernicana-della-corte-costituzionale-tedesca-2.

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alternativa della omissione dell’indicazione del sesso e senza prevedere una terza esplicita denominazione. L’incostituzionalità è fondata sulla violazione del diritto generale della personalità, e del principio di non discriminazione, in quanto le norme del Personenstandgesetz34 non consentono la registrazione con l’indicazione positiva del sesso delle persone che, a fronte di uno sviluppo sessuale che differisca da quello maschile o femminile, non sentano di appartenere permanentemente né al sesso maschile né al sesso femminile. La pronuncia affida al legislatore la responsabilità di adottare una normativa conforme alla Costituzione, con termine entro il 31 dicembre 2018; i giudici e le autorità amministrative non possono comunque più applicare le norme dichiarate incostituzionali ed i processi in cui una persona con varianti dello sviluppo sessuale, che non si riconosca permanentemente né nel sesso maschile né in quello femminile e che aspiri alla annotazione di un’altra indicazione del sesso rispetto a quello maschile o femminile, devono essere sospesi fino ad una nuova regolamentazione. I margini di discrezionalità del legislatore sono ampi: potrebbe, in linea generale, rinunciare a un’annotazione del sesso ai sensi della legge di stato civile ovvero aggiungere la possibilità di scegliere una indicazione positiva ulteriore rispetto al sesso maschile o femminile: un terzo sesso, che possa corrispondere all’identificazione delle persone che non si identificano nell’appartenenza durevole a nessuna delle opzioni binarie. La

L’ordinamento tedesco, già dal novembre 2013, consentiva di omettere l’indicazione del sesso nei registri di stato civile: la legge di stato civile Personenstandgesetz, PStG, https:// www.gesetze-im-internet.de/pstg/BJNR012210007.html dispone infatti all’art. 21, comma 1°, n 3 che “Nel registro delle nascite sono annotati: —3) il sesso del bambino” ed all’art. 22 comma 3: “se il bambino non può essere ascritto né al sesso maschile né a quello femminile, allora l’evento di stato civile dev’essere registrato senza tale indicazione”. La ricorrente, che aveva chiesto di poter correggere l’iscrizione “di sesso femminile” riportata nel registro delle nascite con quella di “inter/diverso” o “diverso”, avrebbe però potuto ottenere, secondo le autorità pubbliche e giudiziarie che avevano preso in considerazione il suo caso, solo la cancellazione dell’annotazione, quindi un’omissione della indicazione dell’appartenenza sessuale. 34


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La condizione intersessuale in Italia

ricorrente aveva richiesto per sé la possibilità di indicare sesso “inter/diverso” o “diverso”, ma l’opzione di un’ulteriore annotazione di sesso potrà essere conformata dal legislatore senza essere limitato dalle indicazioni della ricorrente. I profili di interesse di questa sentenza sono molteplici: da un lato, vi è l’indubbia novità del superamento del sistema rigidamente binario. Certamente la Costituzione non obbliga a regolamentare lo status delle persone con riguardo al sesso esclusivamente in modo binario, come non obbliga a prevedere normativamente che il sesso sia una parte dello status della persona, né è contraria a un riconoscimento ai fini delle disposizioni sullo stato civile di una identità sessuale ulteriore al di là di quelle maschile e femminile. Ma neppure dall’esplicito obbligo di eguale trattamento dell’articolo 3, comma 2° del GG deriva un ancoraggio necessario del binarismo; la prescrizione costituzionale impone la rimozione delle discriminazioni sociali esistenti tra uomini e donne, senza escludere un’ulteriore categoria sessuale al di là del maschile e del femminile; ed anche se la giurisprudenza costituzionale ha affermato in passato che l’ordinamento giuridico e la vita sociale partono dal principio che ogni persona sia o di sesso maschile o di sesso femminile, non l’ha fatto per affermare che il dualismo sessuale sia necessariamente presupposto dalla Costituzione, ma semplicemente per descrivere la comprensione sociale e giuridica dominante in quel momento a proposito dell’appartenenza sessuale. D’altro canto, non vi sono interessi di terzi che possano contrapporsi al riconoscimento; aprendo ad un’ulteriore possibilità di registrazione nessuno è costretto ad identificarsi in questo ulteriore sesso: la possibilità di un’ulteriore annotazione del sesso aumenta le opzioni delle persone con una variante dello sviluppo sessuale che non sono rappresentate nella registrazione come uomo o donna, senza togliere ad altri alcuna delle possibilità che il diritto offre sino ad oggi a uomini e donne (comprese le persone intersessuali che come donne o uomini si identificano con il sesso maschile o femminile e vogliono essere registrate). La sentenza esclude poi l’esistenza di contrari interessi dello Stato da bilanciare, non riscontrando una giustificazione alla limitazione del ricono-

scimento né nelle difficoltà e nei costi burocratici, né nelle esigenze di certezza giuridica. Almeno altrettanto, se non più, significativa, è l’ampia argomentazione che, nell’ambito del diritto alla protezione della personalità, sorregge il riconoscimento dell’identità sessuale in quanto costitutiva della personalità di ciascuno. Si sottolinea come l’ascrizione sessuale costituisca un aspetto particolarmente rilevante della percezione esterna nonché della propria comprensione della personalità, non solo nella misura in cui l’ordinamento disciplina i diritti e doveri della persona anche in relazione al sesso, ma anche al di là di specifici effetti giuridici: è, infatti, proprio l’appartenenza a un sesso che determina come ci si debba rivolgere alle persone o quali aspettative si indirizzino all’aspetto esteriore, all’educazione o al comportamento di una persona. La posizione chiave dell’attribuzione di sesso, tanto nella coscienza di sé di una persona quanto nel modo in cui l’interessato viene percepito dagli altri, è sottolineata al punto che diventa poi difficile comprendere come al legislatore venga lasciata esplicitamente aperta la possibilità di rinunciare eventualmente alla indicazione del sesso – di qualsiasi sesso, maschile, femminile, altro – nei registri di stato civile. Evidentemente nella prospettiva del Tribunale una simile opzione non indirizzerebbe verso una neutralizzazione astratta delle persone, che si potrebbero allora trovare private di un momento di riconoscimento giuridico della propria identità tanto primario, ma rappresenterebbe semmai l’arretramento della (sola) dimensione di regolazione giuridica della identità35: nel senso che le persone continuerebbero a vivere nel mondo e tra gli altri

Il punto significativo sembra, a tal fine, individuabile nel passaggio in cui il Tribunale osserva che “l’annotazione ai sensi della legge sullo stato civile, in sé considerata, assume un significato specifico per l’identità sessuale in quanto lo stesso ordinamento dello stato civile esige l’indicazione della attribuzione di un sesso” (sott. ns.). Se non lo facesse, si tratterebbe, quanto al sesso, di una caratteristica priva di rilevanza sullo stato civile e “una pretesa al riconoscimento ai sensi delle leggi di stato civile dei segni d’identità preferiti, che non fosse collegata ad una concreta situazione giuridica” non si ricava di per sé dal diritto fondamentale alla tutela generale della propria personalità. 35

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con una propria specifica identità sessuale non comprimibile – sentendosi e venendo riconosciute come uomini, donne o “altro” – la quale, semplicemente, non dovrebbe più essere formalizzata e registrata nella documentazione di stato civile. In ambito nazionale, vanno, infine, ricordati tre disegni di legge36 presentati nel corso della XVII legislatura, sostanzialmente convergenti nell’affermazione del principio per cui chi presenta condizioni congenite atipiche dal punto di vista dell’identificazione sessuale non può essere sottoposto a trattamenti medico-chirurgici per l’assegnazione di caratteri sessuali di un solo sesso, tranne che vi siano pericolo di vita o esigenze attuali di salute fisica che escludano la possibilità di rinviare l’intervento. Tutti e tre sono rimasti allo stadio della mera assegnazione alla commissione competente, senza che sia stata in alcun modo avviata la discussione.

6. Ripensare le frontiere del corpo e del diritto L’identità e l’identificazione di genere non sono questioni che riguardano solo la strana minoranza delle persone intersessuali; prevedono lo stesso percorso per ciascuno e ciascuna di noi: il rapporto corpo – sesso – genere non si risolve per nessuno nella presa d’atto di un corredo cromosomico, ma neppure nella presenza e funzionalità delle gonadi, nella conoscenza del patrimonio genetico, nella forma e nella misura degli organi genitali. Ciascuno di questi elementi può essere diversamente importante, anche in momenti e circostanze specifiche della propria esistenza; ogni persona sperimenta nel corso della vita il processo complesso attraverso il quale diventa consapevole di ognuno degli elementi che si definiscono “sesso” (caratteri sessuali primari e secondari, sesso cromosomico, cromatinico, gonadico, biologico, psicologico, sociale); un cammino che ha necessità di “narrazioni” attraverso le quali altri e altre

36 A.C. 246, di iniziativa dell’on. Scalfarotto; A.S. 392 di iniziativa del sen. Airola; A.S. 405, di iniziativa del sen. Lo Giudice.

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ci raccontano e noi raccontiamo a noi stessi/e le combinazioni possibili tra tutti quegli elementi, prendendo coscienza del sesso e del genere nella nostra vita37. Le regole del dualismo, che abbiamo visto all’opera, definiscono innanzitutto il grado di gerarchizzazione e/o di complementarietà tra i sessi e i generi; costruiscono le condizioni della subordinazione di genere che, oltre alla dimensione patriarcale, riguarda quella dell’etero-normatività e del binarismo. Le regole sociali e giuridiche creano un paradigma, fondato sul rigido dimorfismo sessuale che distingue nettamente uomo e donna, su una loro necessaria e naturale complementarietà sessuale, sulla coincidenza fra sesso e genere, sulla naturalità dell’orientamento eterosessuale; la scarsa consapevolezza della costruzione giuridica del paradigma recepisce l’etero-normatività ed il binarismo come un postulato esistente a monte delle norme stesse e indipendentemente da esse. Il mondo che cambia e i casi di generi e sessi che attraversano le frontiere persino dei corpi, chiedono di interrogare situazioni ed elementi che consideravamo appartenenti alla (e confinati nella) dimensione pre-giuridica: la necessità e/o la possibilità di fondare l’attribuzione del sesso sulla dimensione biologica e medicalizzata; gli stessi confini della costruzione binaria del genere. Qui interviene più propriamente la riflessione sulla funzione del diritto. Se al diritto attribuiamo la funzione di definire la “normalità” ed i suoi “scostamenti”38 (postulando la definizione di una normalità statistica fondata sul dualismo e sulla etero-normatività, assunta

Fasola, Inghilleri, L’identità di genere nella psicologia clinica postmoderna, in Ruspini, Inghilleri, (a cura di) Transessualità e scienze sociali, Napoli, 2008. 37

Prospettiva che troviamo nella sentenza costituzionale n. 161/1985, secondo la quale la legge n. 164/1982 intendeva fornire tutela alla piena esplicazione della personalità dei soggetti transessuali, proprio perché espressione di una civiltà giuridica in evoluzione, maggiormente attenta ed orientata alla valorizzazione della libertà e della dignità della persona umana «anche nelle situazioni minoritarie ed anomale»: la tutela, quindi, si compie al prezzo di una conferma del confine tra normalità e scostamento dalla norma. 38


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a standard), il problema giuridico implicato dai casi che abbiamo esaminato resta semplicemente quello della presa d’atto dell’esistenza di una condizione esistenziale di minoranza; nella prospettiva dell’uguaglianza, che pure resta un principio fondamentale da applicare in ogni circostanza, ci si accontenta di non penalizzare irragionevolmente gli scostamenti dalla normalità (la questione interroga la condizione di una minoranza deviante – se non dalla morale, dallo standard; di soggetti deboli). Ma se la funzione del diritto è quella di prendere in cura l’umano ed il mestiere di vivere39, le regole – in generale – e l’uguaglianza – in particolare – servono a disporre di strumenti in grado di scoprire e contrastare le subordinazioni. La prospettiva che considero irrinunciabilmente propria del diritto costituzionale contemporaneo è la seconda. Per lo meno, ritengo che tale sia la prospettiva che nella Costituzione italiana offre il principio fondamentale del personalismo: negli articoli 2 e 3 Cost. il diritto costituzionale non si preoccupa di misurare lo scostamento delle vite di chiunque da una presunta normalità, ma offre alle persone, nella quotidianità del “mestiere di vivere”, gli strumenti per contrastare quelle condizioni che accrescono la fatica e diminuiscono la possibilità di libero sviluppo della persona; serve a scoprire ed a rimuovere subordinazione, discriminazione, stigmatizzazione laddove si manifestano. In questo orizzonte, vedendo anche nei casi più particolari tutte quelle persone che, come ognuno/a di noi, cercano e potrebbero trovare nelle regole giuridiche un supporto al mestiere di vivere, non già il metro che misura lo scostamento dalla norma (e dalla normalità), possiamo affrontare la necessità di un ammorbidimento del dualismo dicotomico, abbandonando la prospettiva del duali-

smo del sex-gender system come interesse normativo dato e presupposto dell’intero sistema: tale interesse, semmai, va di volta in volta ricercato e circoscritto, dimostrandone, innanzitutto, la rilevanza per una disciplina o in un settore specifici. Anche la riflessione sulle definizioni giuridiche illumina l’identità di genere, offrendo l’occasione di prendere atto dei nessi che collegano i formanti giuridici, i vincoli e le costruzioni normative alla possibilità di pensare e di vivere la propria identità. Sullo sfondo di un mondo che cambia e che – man mano vengono a cadere le condizioni giuridiche e culturali della subordinazione delle donne, originaria e primigenia matrice dell’impossibilità di pensare le differenze senza gerarchizzarle – sperimenta la necessità di un nuovo linguaggio e di nuove categorie, i corpi che attraversano le frontiere sollevano interrogativi nuovi e mettono in discussione l’apparente linearità della costruzione biologica del sesso, la necessità e/o possibilità di fondare l’attribuzione del sesso sulla dimensione biologica40 e persino i confini della costruzione binaria del genere (che assume la possibilità di nominare gli individui esclusivamente come maschi o come femmine come regola base della costruzione di status, ruoli, aspettative e possibilità differenziate in base al sesso41). Divengono pensabili una serie di possibilità alternative, perché le condizioni considerate fin qui

Si vuole utilizzare la suggestiva espressione della sentenza n. 494/2002 della Corte costituzionale sulla riconoscibilità dei figli nati da rapporti incestuosi: riassumendo la complessità e la drammaticità dell’ingresso di figli naturali in una vita familiare legittima come “un incerto del mestiere di vivere”, in tale evocazione della fragilità della condizione umana assegna al diritto la funzione di occuparsi ragionevolmente della vita quale essa è, rinunciando a forzarla entro i binari di modelli astratti.

Per la tesi della continuità tra le categorie sessuali, v. MonOrientamento sessuale e costituzione decostruita. Storia comparata di un diritto fondamentale, Bologna, 2007, 187, che richiama Stein, The Mismeasure of Desire: the Science, Theory, and Ethics of Sexual Orientation, Oxford-New York, Oxford University Press, 1990, 30, secondo il quale il sesso va incluso tra le categorie continue, in cui fra le entità incluse possono darsi diversi gradi d’appartenenza. V. anche Busoni, op. cit.

39

40 Pur tenendo conto, da un lato, della difficoltà di disporre di dati statistici affidabili in questo campo e, dall’altro, della impossibilità di risolvere il tema nella sua dimensione statistica, si calcola che la percentuale delle persone che non rientrano nelle categorie binarie codificate come F e come M (che include le persone intersessuali e transgender) si aggiri intorno al 2%: v. Greenberg, The roads less traveled: The problem with binary sex cathegories, in Transgender Rights, Currah, Paisley, Juang, Minter (eds.), Minneapolis, 2006, 51. 41

talti,

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come necessità sono in realtà opzioni la cui coerenza sistematica va vagliata criticamente, a partire dall’ampiezza della discrezionalità di cui dispone il legislatore di fronte alle norme ed ai principi costituzionali e da ciò che costituisce fondamento e giustificazione del suo esercizio. Rimosse le facili, ma illusorie, certezze del binarismo, si apre la sfida della costruzione possibile di una accettazione di limiti, ambiguità e variabilità non come errori, ma come possibilità della identificazione personale. D’altro canto, in questo quadro ridefinito andranno a collocarsi più precisamente anche i termini delle responsabilità genitoriali e della responsabilità medica nei confronti delle scelte da operare non già su i bambini intersessuali, ma insieme a i bambini intersessuali: una nuova frontiera ove praticare quella forma altissima di relazione umana interpersonale che è la relazione terapeutica.

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Saggi e pareri


Saggi e pareri Saggi e pareri

g g sa re e a p

Azione, omissione, astensione: semantica della condotta nell’atto medico e tutela dell’autodeterminazione del paziente Marco Azzalini

Professore nell’Università di Bergamo Sommario: 1. Posizione del problema. Centralità del ruolo della condotta nell’attuazione del volere del paziente. – 2. Delimitazione del tema: estraneità del concetto di rifiuto di cure rispetto all’ambito tematico dell’eutanasia propriamente intesa. – 3. Azione, omissione, astensione: categorie della condotta e questioni concettuali. – 4. Morfologia del volere, teoria della persona e semantica della condotta. Necessità di un ripensamento delle categorie acquisite. – 5. Esigenza ineludibile dell’attuazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica e resistenze “di sistema”.

Abstract: Il contributo affronta il problema della qualificazione della condotta del sanitario cui sia richiesto, ai fini dell’adempimento della volontà del paziente, di intervenire attivamente al fine di sospendere un trattamento medico già in atto, specie ove trattasi di trattamento life-saving: rispetto al profilo, anche semantico, di tale atto, la distinzione tra condotta attiva od omissiva, tipica specialmente delle qualificazioni penalistiche, appare inadeguata e insufficiente, auspicandosi una revisione concettuale delle categorie della condotta, anche nell’ottica del significato obiettivo e giuridico di tale azione, considerato alla luce dei più recenti sviluppi dottrinari e giurisprudenziali in materia. This analysis examines the inadequacy of the conceptual categories of acts or omissions relative to the behavior of the doctor or the health worker towards a patient who claims his/her right of self-determination in health care.

1. Posizione del problema. Centralità del ruolo della condotta nell’attuazione del volere del paziente Nell’alveo dell’articolato e complesso dibattito concernente l’atteggiarsi della relazione di cura tra medico e paziente, e specialmente in ordine all’operare pratico del sanitario con riguardo all’attuazione del volere della persona e delle decisioni assunte nell’ambito della cosiddetta “alleanza terapeutica”, v’è un aspetto che spesso assume una portata decisiva e tuttavia non pare sempre ben messo a fuoco nel discorso giuridico, frequentemente condotto secondo schemi e archetipi che in più sedi sono stati giustamente

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giudicati insufficienti o oramai inadeguati rispetto alla materia in questione1. Trattasi del tema che involge il reale significato e l’effettiva portata anche semantica da attribuire alle azioni materialmente poste in essere dai sanitari, alle azioni non poste in essere o, ancora, agli interventi che abbiano per effetto la sospensione di prestazioni medicali già in corso. Il problema della qualificazione da riconoscersi alla condotta del sanitario rappresenta in qualche misura una sorta di fil rouge, non sempre immediatamente evidente ma in realtà neppure troppo sommerso, che lega molti dei più noti leading cases in materia, e che ha trovato pronto riscontro nelle due più famose e paradigmatiche vicende divenute ormai simbolo della lotta per l’affermazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica, vale a dire i casi Welby ed Englaro, laddove il contegno dei sanitari veniva in rilievo, rispettivamente, al fine di attuare la volontà di cessazione dei trattamenti life saving già posti in essere rispetto ad un paziente capace e ad una paziente invece versante da tempo in stato di totale incapacità; ma la questione, che pure, come vedremo, appariva assai nitidamente sin dal caso Welby2, viene in rilievo pressoché in tutti i casi in cui il paziente non sia in grado di opporsi fisicamente alla prosecuzione di un trattamento in corso, ad esempio perché ostacolato in ciò dalla sua stessa malattia, nonché nelle ipotesi in cui risulti comunque necessaria od opportuna o sia in ogni caso richiesta l’assistenza sanitaria nella sospensione del trattamento e in tutti i casi in cui sia il proces-

Cfr., tra i molti riferimenti sul tema, già la pregnante riflessione di Zatti, «Parole tra noi così diverse». Per una ecologia del rapporto terapeutico, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, 143 ss.

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Chi scrive ritenne di richiamare l’attenzione, seppure embrionalmente, su tale punto già un decennio fa affrontando “a caldo” i profili salienti di quella vicenda, ed in particolare evidenziando i molti aspetti di interesse e i numerosi e gravi spunti problematici che il caso Welby poneva e che si sarebbero poi drammaticamente riproposti in più occasioni negli anni a venire, come in effetti poi accadde; cfr. già Azzalini, Il rifiuto di cure: riflessioni a margine del caso Welby, in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, 313 ss. e riferimenti ivi indicati.

Saggi e pareri

so decisionale che quello attuativo delle decisioni assunte debbano avvenire per il tramite di altri. La questione dell’inquadramento semantico della condotta posta in essere dal sanitario nell’attuazione della decisione terapeutica assunta presenta notevoli riflessi pratici e notevoli implicazioni giuridiche, aspetti che finiscono con il fondersi nel momento in cui, ove il paziente si trovi nelle condizioni sopra descritte o comunque chieda l’assistenza sanitaria al fine di sospendere un trattamento in essere, si ponga il problema di dare attuazione a scelte le cui conseguenze possano essere particolarmente delicate o letteralmente implicare il decesso della persona, come per l’appunto nel caso del rifiuto dei trattamenti life-saving. In quel caso, pare determinarsi un punctum dolens: il sanitario si trova dinnanzi alla necessità di porre in essere un atto che, semplicisticamente inteso, sembrerebbe tale da cagionare causalmente il decesso della persona; il che, sempre in una prospettiva generale e volta solamente alla messa a fuoco del tema, potrebbe esporlo a conseguenze giuridiche pregiudizievoli sia sul piano civilistico che penalistico. Eppure, allo stesso tempo, quell’atto è tale – ed è l’unico tale – da realizzare l’ineludibile, e oramai in più sedi riaffermato3, diritto fondamentale del paziente all’autodeterminazione terapeutica. Con il che ricorre il pericolo del delinearsi, nella pratica o quantomeno laddove non siano ben chiariti i termini di una questione ancora oggi troppo spesso fraintesa, di una sorta di stallo assai pericoloso, traducentesi da ultimo in quell’atteggiamento difensivo e ambiguo che non di rado può finire col comportare la paralisi attuativa della decisione sanitaria assunta, fenomeno che Piergiorgio Welby ben scolpì con sintetica semplicità laddove, nel rivolgersi con un appello ai Presidenti e ai membri delle Commissioni Sanità e Giustizia di Senato e Camera il 14 novembre 2006,

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In ordine a tale profilo, per una trattazione generale sul tema si permetta il rinvio ad Azzalini, Spigolature in tema di “contenzione” della persona capace, in Rossi (a cura di), Il nodo della contenzione, Merano, 2015, 159 ss. e riferimenti ivi contenuti.

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rilevò come, da ultimo, tutta la questione ruotasse in fin dei conti attorno al fatto che nessuno voleva “assumersi la responsabilità di staccare il respiratore” e manifestando conseguentemente l’intenzione, quale extrema ratio, di compiere un atto di disobbedienza civile4: atto che, a ben guardare e anche a prescindere da altri e rilevantissimi profili (non ultimo il diritto ad una gestione dignitosa della malattia e della morte), egli non avrebbe potuto compiere comunque senza l’aiuto fisico altrui, trovandosi immobilizzato dalla sua stessa malattia. Con il riproporsi, dunque, del medesimo problema oggetto del presente scritto: la necessità di un intervento di terzi, e quindi la necessità di qualificazione corretta di una condotta che, pure materialmente attiva o modificativa di un contegno già tenuto (ad esempio la condotta attiva di spegnimento dei macchinari di sostegno respiratorio, o l’atto di cessazione di somministrazione di nutrizione a mezzo di sondino, che muta uno stato d’essere già precedentemente instaurato), sembra allo stesso tempo porsi dal punto di vista naturalistico come volta al recupero di un contegno passivo, e dal punto di vista giuridico risulta certamente essenziale rispetto all’attuazione di un diritto fondamentale della persona5.

2. Delimitazione del tema: estraneità del concetto di rifiuto di cure rispetto all’ambito tematico dell’eutanasia propriamente intesa Come si accennava al principio del discorso, il problema dell’inquadramento teorico e sistematico dell’agire di chi intervenga per sospendere un trattamento sanitario life-saving già in corso di

Per comprendere con precisione la posizione assunta al tempo dal paziente nonché la condizione in cui versava e le ragioni più profonde della sua battaglia, cfr. quantomeno Welby, Lasciatemi morire, Milano, 2006, passim. 4

Cfr. ex multis, per un approfondimento non troppo risalente, Azzalini, I malati, in Cendon, Rossi (a cura di), I nuovi danni alla persona. I soggetti deboli, Roma, 2013, 9 ss. e riferimenti ivi contenuti; cfr. sul punto già anche Zatti, Il diritto a scegliere la propria salute, in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, 2 ss.; cfr. anche Berlinguer, Etica della salute, Torino, 1997, 19 ss. 5

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somministrazione ad un paziente ha trovato una manifestazione chiara sin dal caso Welby, ed in seguito la questione ha assunto ulteriore rilievo anche in ragione del crescente dibattito scientifico e culturale attorno al tema dell’autodeterminazione della persona con riguardo alla propria salute, ampiamente intesa. La vicenda Welby rimane tuttavia anche ad oggi emblematica, e può essere assunta come esempio esplicativo della complessa questione che involge la qualificazione della condotta del sanitario in circostanze siffatte. Va innanzitutto detto che il problema della qualificazione della condotta sembra essere stato, per troppo tempo e non sempre con avvertito spirito critico, affrontato in una prospettiva spiccatamente penalistica e con atteggiamenti sovente meno neutri e meno “laici” del dovuto in quanto influenzati dalla confusione concettuale e terminologica che sino a tempi recenti – per non dire sino ad oggi – ha inficiato il dibattito sul fine vita e sulla relazione di cura in Italia: un dibattito nel quale sono stati con eccessiva disinvoltura accomunati, o anche solo avvicinati, concetti invece molto diversi tra loro, quali quello di eutanasia, di rifiuto di cure, di autodeterminazione terapeutica, sino a ricomprendere in una sorta di calderone indifferenziato fattispecie quali il suicidio o l’aiuto al suicidio: come se il fatto del decesso dell’individuo (unico elemento in fondo accomunante la “galassia” di ipotesi che in più sedi sono state arbitrariamente e irragionevolmente ricondotte ad una mai ben definita matrice comune) rappresentasse un collante bastevole e non vi fosse invece la necessità di indagare i singoli fenomeni con aderenza al senso degli eventi e alle ragioni, modalità, dinamiche sanitarie e giuridiche che si pongono evidentemente in un momento e in una posizione anteriore rispetto al fatto (neutro) del decesso. Non pare inopportuno, dunque, evidenziare anche nella presente sede alcune ragioni di carattere generale che spingono a ritenere che i consueti richiami penalistici non siano, in fin dei conti, applicabili in maniera convincente al quadro fattuale di quei casi in cui il paziente chiede, nell’esercizio consapevole, pieno e libero del proprio diritto all’autodeterminazione terapeutica, la sospensione del trattamento sanitario che lo tiene Responsabilità Medica 2017, n. 4


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in vita; è, questo, tema noto e assai dibattuto, nell’alveo del quale gli autori si sono per molto tempo confrontati muovendosi attorno alle consuete alternative: talvolta si è fatto riferimento alla figura dell’omicidio tout court, declinato in pressoché tutte le sue forme; taluni hanno richiamato il concetto di aiuto al suicidio; da ultimo, un certo filone di pensiero ha ritenuto di ravvisare nei casi in questione una sorta di peculiare declinazione di quella particolare fattispecie costituita dal cosiddetto omicidio del consenziente (art. 580 c.p.). Occorre tenere conto che, in siffatte prospettive, il tema della qualificazione della condotta si lega in maniera estremamente intensa all’idea di una rilevanza penale del contegno del sanitario che intervenga per sospendere il trattamento sanitario in essere: ed è da ritenere che per affrontare, come si diceva, con mente aperta e sgombra la questione dell’inquadramento della condotta di chi si attivi nei termini di cui sopra, sia invece preliminarmente opportuno ridimensionare, in termini congrui, il collegamento con le fattispecie di rilievo penalistico; un collegamento che, come ho peraltro evidenziato anche in altre sedi, appare, a ben guardare, nella maggior parte dei casi piuttosto artificioso e certamente non rispondente al significato degli accadimenti6. Volendo qui riassumere i termini della questione, va in primo luogo avversata l’idea secondo cui la richiesta di sospensione di un trattamento sanitario life-saving sia avvicinabile ad una richiesta di tipo eutanasico; occorre tenere ben distinta l’ipotesi dell’eutanasia, considerata in tutte le sue declinazioni, da quella del rifiuto delle cure mediche, non costituendo, a mio avviso, il mero fatto della conseguente morte, eventuale o certa, del paziente, un collante bastevole a conferire a dette fattispecie un sostrato giuridico comune: perché il fulcro della questione non sta nel fatto della morte, ma nell’eziologia anche semantica della medesima, che nel caso del rifiuto di cure si pone molto diversamente che in quello dell’eutanasia; e anche lasciando da parte il problema, anch’es-

6 Cfr. sul punto già Azzalini, Il rifiuto di cure: riflessioni a margine del caso Welby, op. cit., passim.

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so delicato, della definizione e delimitazione di tale ultimo concetto, va notato come si sia soliti affermare che l’eutanasia aiuti a morire e non nel morire, volendo con ciò evidenziare il fatto che non tutte le fattispecie nelle quali si agevoli o alle quali comunque consegua il decesso del paziente vanno a integrare veri e propri casi di eutanasia. Si badi: il richiamo atecnico all’idea di eutanasia appare di pronta suggestione anche perché la medesima si atteggia in molti modi sia dal punto di vista delle condotte coinvolte che del consenso del soggetto destinatario dell’atto; ed è noto come da tempo la scienza penalistica abbia isolato e messo a fuoco fattispecie di eutanasia attiva e di eutanasia passiva, laddove poi ciascuna delle due ipotesi risulta suscettibile a propria volta di una bipartizione in consensuale o non consensuale7. Dando per assodata l’illiceità dell’eutanasia, attiva e passiva, non consensuale, in quanto contrastante con una moltitudine di principi fondamentali dell’ordinamento, illecita si reputa anche, quantomeno allo stato attuale del nostro ordinamento, l’eutanasia attiva consensuale: e ciò in quanto la stessa si porrebbe in contrasto con il principio di salvaguardia della vita, quantomeno intesa in una certa chiave di lettura, ed implicherebbe, secondo alcuni, un’eccedenza rispetto ai limiti di disponibilità del proprio corpo, limiti che in qualche misura sarebbero presenti pur sempre, anche qualora ci si trovasse in presenza del consenso8, nonché una eccedenza rispetto all’esigibilità di un trattamento di tal fatta; la questione tuttavia appare, specie a seguito delle recenti evoluzioni in tema di concetto di salute e di integrità e dignità della persona, ben più complessa rispetto ai pochi cenni che questa sede consente, e che bastano solamente per escludere dal tema dell’intervento tale delicata ipotesi: dal momento che ciò di cui trattiamo qui non è la condotta cui sia

I riferimenti sul punto sarebbero talmente ampi da non consentirne, nella presente sede, neppure una indicazione esemplificativa. Per una considerazione generale e allo stesso tempo rigorosa del tema, si veda già Mantovani, voce «Eutanasia», nel Digesto, Disc. pen., Torino, 1990, 425 ss. 7

Cfr. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, 102 ss.

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chiamato il sanitario al quale venga richiesto un intervento medicale attivo al fine di determinare la cessazione della vita del paziente, ad esempio perché da quest’ultimo ritenuta intollerabile quanto a qualità o incompatibile con la propria idea del sé, magari a cagione di una patologia fortemente invalidante ma – sempre esemplificando – non di per sé letale (trattasi dei casi di cosiddetto “suicidio assistito”, fattispecie resa nota da numerose trasferte all’estero a tale fine)9: queste pagine trattano, infatti, di una fattispecie diversa, vale a dire di tutti quei casi nei quale il sanitario sia chiamato ad operare al fine dell’attuazione di un rifiuto di trattamento, sia esso da intraprendere o già in essere. Dunque una questione del tutto diversa rispetto al cosiddetto “suicidio assistito”, tema denso di complessità e spunti problematici, che richiede e merita una trattazione autonoma. Quella di cui trattiamo è questione che, tuttavia, è stata talora avvicinata all’idea di una particolare declinazione del concetto di eutanasia passiva consensuale. In ciò sta un primo equivoco, un primo gioco di specchi dal quale non ci si deve far trarre in inganno: e già in un non più recentissimo passato, autorevole dottrina, intuendo una distonia concettuale di fondo, ebbe ad avanzare la tesi secondo cui l’eutanasia passiva consensuale, al di là del nomen che la riconduceva ad un ambito semantico errato, in altro non avrebbe potuto consistere, nel contesto medico, se non in un rifiuto di cure10, e che pertanto essa sarebbe stata da ricomprendere nell’alveo della liceità. E

Al riguardo, molte e diverse vicende personali hanno avuto una notevole risonanza mediatica. Si pensi, ad esempio, ai noti casi di Lucio Magri o di Fabiano Antoniani; trattasi di fattispecie molto diverse tra loro, che meriterebbero una considerazione a sé e si presterebbero a svariati tipi di approfondimento, non solo giuridico. Il primo, politico ed intellettuale di rilievo, non più giovane, scelse nel 2011 il suicidio assistito in Svizzera in ragione, perlomeno a quanto emerse dalla stampa, di una grave condizione depressiva divenuta a suo giudizio oramai insopportabile; il secondo, giovane dj cieco e tetraplegico da anni a seguito di un incidente stradale, nel 2017 ha ritenuto, non tollerando più la propria condizione esistenziale, di optare per il suicidio assistito, anch’egli in Svizzera.

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Mantovani, voce «Eutanasia», cit., 427.

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ciò ben prima del caso Englaro e ben prima delle richieste avanzate da Welby. In particolare, già in epoca anteriore alla più nota casistica italiana, la liceità di tale fattispecie veniva ricondotta, da chi la sosteneva, non (ovviamente) ad un potere del medico di lasciar morire il paziente, bensì ad un diritto di quest’ultimo a non curarsi sino anche al punto di lasciarsi morire11. Ciò che soprattutto conta, è che tale snodo semantico disvela già molto in ordine alle difficoltà di categorizzazione in cui si è incorsi in subiecta materia: e la pretesa definitoria di quanti, specie in passato, si adoperavano nel tentativo di descrivere e dare corpo al concetto di eutanasia passiva consensuale, magari per ricodurla forzatamente ad una dimensione lato sensu illecita, rendeva manifesta la rudimentalità grossolana di quelle distinzioni limitative, ingenuamente o strumentalmente incentrate solo sul richiamo dell’idea del “dare” la morte, anche quando, invece, ciò che si determina è solamente, come già ho evidenziato in altre sedi in passato, una particolare estrinsecazione della garanzia di un non intervento indebito di terzi con riguardo alla propria invalicabile sfera individuale, sotto lo specifico profilo della salute e dell’identità e integrità personali; e ciò anche laddove, in esito a ciò, possa sopravvenire la morte12.

Secondo un autore, in particolare, la liceità della condotta omissiva di un trattamento di sostegno vitale a seguito del rifiuto del paziente non discenderebbe “da un (problematico e discutibile) riconoscimento di un vero e proprio “diritto a morire” (né da un altrettanto problematico “diritto al suicidio”)”, bensì essa costituirebbe “piana e naturale conseguenza dello stesso diritto a rifiutare un qualsiasi trattamento medico, anche se di sostegno vitale”. Così Viganò, Esiste un diritto ad essere lasciati “morire in pace”? Considerazioni in margine al caso Welby, in Dir. pen. proc., 2007, 8 ss. 11

Peraltro, gli equivoci sul punto sono più volte emersi, nelle più varie sedi, anche in epoche non risalenti. Così, ad esempio, nell’esprimere a suo tempo la propria posizione sul caso Welby, l’Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani, criticando aspramente il compimento di “alcun atto medico che sopprima la vita”, concluse, per molti versi sorprendentemente, nel senso dell’impossibilità di chiedere “a questi medici specialisti dell’area critica di fare il possibile per salvare vite umane e nello stesso tempo di staccare la spina spegnendole”. Un simile approccio alla vicenda tradisce e pregiudica, come appare oggi evidente, il senso stesso 12

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Ecco che la rivendicazione del diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria salute e alla propria integrità anche laddove ciò comporti necessariamente l’intervento di terzi al quale possa seguire persino il proprio decesso altro non integra se non una specifica manifestazione di un diritto di autodeterminazione vantato sulla propria corporeità e oramai delineato e riconosciuto in termini chiarissimi in molteplici sedi13. In tali fattispecie, è infatti è sempre la posizione di diritto in capo al paziente, a dover essere posta al centro della vicenda, e non il “fatto” del morire: diritto che si correla al dovere o alla facoltà del sanitario in una chiave e secondo una dinamica del tutto peculiari14, da cui scaturiscono anche il noto problema dell’attuazione di quel diritto e quella sorta di ginepraio di questioni che avvol-

della medesima, appoggiandosi su di un ennesimo fraintendimento riferito al concetto di eutanasia. Si veda Il nuovo Anestesista Rianimatore, Bollettino dell’AAROI, numeri 2 e 3, febbraio marzo 2007, 1,3. Su questi fondamentali aspetti si veda Rodotà, La vita e le regole, Milano, 2006, 247 ss., dove l’autore significativamente riconduce la rivendicazione del diritto di morire al più complesso movimento di riappropriazione del corpo. Sul punto si veda (citato anche dall’autore), lo scritto di Castra, Bien mourir. Sociologie des soins palliatifs, Paris, 2003, 33 ss. Rodotà peraltro, rilevando i tratti propri della rivendicazione del diritto di morire nei termini indicati nel testo, osservava, anche riferendosi ad un articolo comparso su Le Monde il 16 febbraio 2002, come “si è potuto scrivere che l’eutanasia è superata, così dando evidenza al fatto che la volontà individuale ha svuotato di significato una antica e ininterrotta discussione che aveva al centro soprattutto la contrapposizione tra eutanasia attiva e passiva, mentre oggi può dirsi che l’unico vero nodo problematico sia rappresentato da una situazione estrema, il cosiddetto suicidio assistito”. Suicidio assistito che evidentemente richiede la ricostruzione di uno statuto giuridico peculiare, costituendo esso con evidenza una ipotesi diversa da quella dell’eutanasia, in qualsivoglia forma la si intenda. 13

14 Acutamente, già con riguardo al noto leading case italiano, il Campione, in “Caso Welby”: il rifiuto di cure tra ambiguità legislative ed elaborazione degli interpreti, in Fam. e dir., 3, 2007, 300 ss. faceva riferimento al noto concetto di una necessaria “alleanza terapeutica” tra medico e paziente, che, sola, sarebbe idonea a scongiurare il rischio di una ostinazione nel trattamento; in mancanza di essa, vi sarebbe il rischio che le valutazioni del sanitario avessero la meglio, ovviamente non sempre con ragione e non sempre legittimamente, sulle libere e ponderate determinazioni del paziente.

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Saggi e pareri

ge il tema della qualificazione della condotta del sanitario che sia chiamato a intervenire al fine di dare effettività alla pretesa del paziente.

3. Azione, omissione, astensione: categorie della condotta e questioni concettuali Come l’equivoco connesso ad una malintesa, ritenuta centralità del fatto del morire ha determinato per certi versi la confusione concettuale tra eutanasia passiva consensuale e rifiuto di cure, parallelamente il particolare rapporto che si instaura tra il diritto del paziente al rifiuto di cure da realizzarsi con intervento dei sanitari e la posizione assunta da questi ultimi può condurre ad una serie di gravi equivoci, in quanto esso pone in crisi – o, meglio, evidenzia la crisi – della usuale partizione tra le categorie dell’azione e della omissione15. Anche qui, tuttavia, è da ritenere che l’approccio al tema molto risenta delle strutture concettuali penalistiche: come noto, reato omissivo è quello che si commette e si esaurisce con il mancato compimento dell’azione doverosa in quanto tale; e come reato omissivo improprio viene qualificata l’ipotesi ove l’omissione si traduca poi nel mancato impedimento di un evento lesivo che si aveva lo specifico obbligo giuridico di impedire16. Ma ciò che conta è che, comunque la si guardi, l’omissione rimane un concetto tipicamente normativo, non essendo la stessa connotata dalla mera

15 La condotta sanitaria può a volte presentare problemi di inquadramento non semplici, anche e proprio in ragione della possibile divergenza tra atto meccanicamente inteso e suo significato: tale tema è stato maggiormente studiato oltralpe: cfr., oltre all’esemplare lavoro di Birnbacher, Tun und Unterlassen, Stuttgart, 1995, passim, anche ex multis Ingelfinger, Grundlagen und Grenzbereiche des Tötungsverbots, Köln, 2004, passim; Zatti, Decisioni legali e valutazioni scientifiche, in Notizie di Politeia, 2002, 138; Stoffers, Sterbehilfe: Rechtsenwicklungen bei der Reanimator – Problematik, in Monatsschrift für das deutsche Recht, Heft 7, 1992, 621; Schneider, Tun und Unterlassen beim Abbruch lebenserhaltender medizinischer Behandlung, Berlin, 1997, passim. 16 Così, con chiarezza, Padovani, Diritto penale, Milano, 1990, 141; Fiore, Diritto penale, Torino, 1993, 231.


Qualificazione dell’atto medico e autodeterminazione

inerzia, bensì dall’inerzia rispetto ad un comportamento prescritto: l’omissione infatti consiste nel mancato compimento, da parte di un soggetto, di una determinata azione che era da attendersi in base a una norma17. Proprio la normatività pura della nozione di omissione come rilevante per il diritto, e la sua matrice spiccatamente (anche se non esclusivamente) penalistica, deve spingere a interrogarsi in merito alla sufficienza o meno della usuale dicotomia tra azione ed omissione rispetto all’inquadramento delle situazioni quali quelle cui si riferisce il presente intervento. V’è in particolare da domandarsi se non risulti necessario, prima ancora che semplicemente opportuno, dare spazio e rilievo ad un tertium genus categoriale che si aggiunga ai concetti di azione ed omissione e sia in grado di esprimere l’idea di una condotta attiva tale da assumere, in preponderante misura, un significato passivo. Affrontare tale snodo mi pare risulti estremamente importante per offrire un lucido e adeguato inquadramento giuridico e semantico alle condotte che si rendono necessarie in casi quali quello che vide protagonista Piergiorgio Welby, e che abbiamo impiegato quale exemplum per il nostro discorso e in moltissime altre ipotesi rispetto alle quali si avverte, oltre che una più che legittima richiesta di tutela, anche una necessaria istanza di chiarezza e di certezza del diritto18. Ad avviso di chi scrive, l’insufficienza, rispetto al caso di specie, delle due categorie di azione e di omissione risulta agevolmente dimostrabile laddove ci si soffermi a riflettere sul concetto di

Fiandaca, voce Omissione, nel Digesto delle Discipline Penalistiche, Torino, 1990, 547; l’autore riprende la classica e risalente definizione del Grispigni, Diritto penale italiano, Padova, 1947, 34. 17

18 La questione del resto emerse anche in relazione alla nota pronuncia (Trib. Roma, 23 luglio 2007) con cui fu ritenuto esente da responsabilità penale, per aver agito nell’adempimento di un dovere e dunque con la copertura ex art. 51 c.p., il Dott. Mario Riccio, il medico che aiutò concretamente Welby a veder realizzato il proprio diritto all’autodeterminazione terapeutica; cfr. sul punto Azzalini, Trattamenti life saving e consenso del paziente: i doveri del medico dinanzi al rifiuto di cure, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 65 ss.

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astensione: l’astensione, infatti, rappresenta una categoria di condotta differente dalle altre due summenzionate, in quanto in essa si ravvisa l’inerzia rispetto ad un atto o comportamento non dovuto. Mentre elemento costitutivo dell’omissione è la debenza e vincolatività del comportamento non attuato, nel caso dell’astensione tale connotazione manca, in quanto il comportamento, per varie ragioni, non è dovuto. E il riferimento alla categoria dell’astensione può aiutare pure a meglio ridefinire i concetti di azione ed omissione, dal momento che risulta particolarmente interessante ed importante valutare se l’atto che materialmente assuma le caratteristiche del fare qualche cosa, dell’agire affinché il trattamento sanitario cessi, possa considerarsi tuttavia funzionalmente omogeneo al non iniziare quel trattamento, a non averlo, cioè, intrapreso19. In entrambi i casi, infatti, il sanitario si trova, a ben guardare, a porre in essere una condotta idonea a far sì che il paziente muoia a causa del proprio stato patologico rispetto al quale le cure vengono rifiutate20: ed è per questo che, nella parte iniziale del presente intervento, si è affermato che solo una considerazione semplicistica e insufficiente degli eventi (e dimentica del loro profilo semantico e funzionale) può considerare la vicenda secondo lo schema per cui il sanitario cagionerebbe la morte del paziente nel

Cfr. le interessanti riflessioni di Zatti, Decisioni legali e valutazioni scientifiche, op. cit., 145.

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20 Del medesimo avviso ci pare il Viganò, op. cit., 7, laddove osserva quanto segue: “è indubbio che lo spegnimento del respiratore sia una condotta naturalisticamente attiva: si tratta, in fondo, di premere un pulsante, o di girare una manopola. Ma la questione cruciale attiene al significato giuridico di questo atto, che – per quanto riguarda almeno il medico che ha in cura il paziente – è quello di determinare l’interruzione del trattamento che egli stesso, a suo tempo, aveva iniziato”. E se è vero che “il respiratore ben può essere riguardato, in effetti, come il braccio meccanico, come la longa manus del medico che pratica un trattamento di assistenza respiratoria ad un paziente non più in grado di respirare da sé” è conseguenza fondata quella secondo cui “pur sempre di un trattamento medico si tratta, sia pure attuato attraverso un mezzo meccanico; onde la sua interruzione dovrà essere riguardata come omissione dell’ulteriore trattamento. E ciò anche se tale omissione debba attuarsi attraverso una condotta naturalisticamente attiva”.

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senso, appunto, penalistico del termine, attraverso una azione o una omissione. L’inadeguatezza della mera bipartizione tra azione ed omissione nel senso sopra segnalato, e, più ampiamente, la necessità di un ripensamento ed adeguamento dei concetti e delle nozioni e dei principi, in generale, rispetto all’ambito al quale vengono applicati, paiono essere state riconosciute prima e comprese meglio nel contesto anglosassone. In particolare, viene ricordata, per molti e interessanti versi, la ormai assai nota opinione che Lord Goff de Chieveley espresse con riguardo al caso Tony Bland. Tale opinione viene usualmente rievocata nella parte in cui il Giudice affermò la coesistenza necessaria di due principi, non contrapposti ma da leggere in chiave armonica: da un lato, una sorta di sacralità della vita umana, valore radicato nella tradizione giuridica occidentale moderna e tutelato, come tutti sanno, anche in svariate convenzioni internazionali; dall’altro lato, il carattere non assoluto della vita astrattamente intesa come valore acriticamente intangibile in sé, in quanto il valore-vita deve trovare adeguato bilanciamento con altri valori essenziali, quali la dignità e il rispetto della persona, l’identità, la libertà. Valori che in presenza di determinate circostanze estreme potrebbero esigere, o quantomeno condurre a valutare come possibile, il sacrificio della vita stessa21. Ma non basta: perché poi, sempre nell’ambito di quell’opinione, si dava anche conto della possibilità di considerare come astensivo pure un atto materialmente interventivo, perché ciò che caratterizza un atto è anche, come abbiamo chiarito nelle righe che precedono, il suo profilo funzionale, e la funzionalità di talune azioni curative, assistenziali o latamente medicali è, appunto, astensiva22. Così, applicando la fattispecie al noto leading-case italiano, il medico che avesse deciso, in conformità della richiesta del paziente, libera,

21 Per una disamina sul punto, nonché sul caso Bland, si veda McHale, Fox, Murphy, Health Care Law - Text, Case and Materials, Londra, 1997, passim. 22

McHale, Fox, Murphy, op. cit., 845 ss.

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Saggi e pareri

consapevole e reiterata, di sospendere il trattamento life saving a Welby o a chiunque altro versasse in quella condizione e manifestasse i desiderata di quel paziente, altro non avrebbe fatto se non recuperare, in fondo, una posizione di doverosa astensione attraverso l’operazione materiale di distacco del respiratore. L’attitudine eminentemente astensiva che può connotare talune condotte naturalisticamente attive non è peraltro sfuggita alla più autorevole dottrina italiana, che non ha mancato di rilevare, proprio relativamente alla funzionalità astensiva di taluni atti d’intervento, come “questo modo di guardare alle cose diventa particolarmente prezioso, e fedele al senso degli eventi, là dove il trattamento si instaura per urgenza in situazioni che impediscono una valutazione meditata dell’interesse del paziente, e l’interruzione successiva ha il senso di ripristinare un’astensione che si sarebbe considerata doverosa se, fin dall’inizio, l’inutilità del trattamento fosse stata evidente”23. La medesima dottrina, d’altro canto, non trascurando il discusso e delicato problema della doverosità o meno dell’intervento, ha molto opportunamente avuto cura di precisare come, in via prodromica alla valutazione da ultimo descritta, occorra “disinnescare” il profilo del dovere dell’intervento, per verificare che l’astensione non assuma, in quell’ipotesi, i caratteri costitutivi di una omissione vera e propria24: e tuttavia, compiuta tale verifica, ci pare corretto attribuire alla categoria dell’astensione il rilievo che essa merita e che ad essa spetta, proprio in omaggio a quella “fedeltà al senso degli eventi” che così bene esprime i delicatissimi snodi di valore, i conflitti laceranti che inevitabilmente caratterizzano l’approccio giuridico a quei casi nei quali un paziente manifesti, nel pieno del suo diritto all’autodeterminazione terapeutica, il proprio rifiuto rispetto a un trattamento life saving che gli venga praticato e che non pos-

23 Zatti, Decisioni legali e valutazioni scientifiche, op. cit., 2002, 144 ss. 24

Zatti, ibidem.


Qualificazione dell’atto medico e autodeterminazione

sa autonomamente sospendere, per varie ragioni, senza l’assistenza o l’aiuto dei sanitari25. Del resto, spunti nella direzione qui indicata – direzione che, non sempre, anche in epoca recente, ci pare essere stata seguita con il dovuto approfondimento – erano già contenuti nel provvedimento con cui, a suo tempo, il Tribunale di Roma respinse il ricorso presentato dai legali di Welby al fine di ottenere in via cautelare d’urgenza la sospensione del trattamento di assistenza respiratoria che gli veniva praticato invito domino. In quel provvedimento infatti – un provvedimento, peraltro, paradossale e aspramente censurabile per la contraddittorietà con cui, dopo aver riconosciuto il diritto del paziente all’autodeterminazione terapeutica tuttavia finiva per negarne ogni effettività sostenendo l’incredibile tesi di una asserita carenza di strumenti attuativi adeguati26 – si faceva cenno alla necessità di “superamento della impostazione formale della generale doverosità giuridica del mantenimento in vita del paziente” e, in chiave ancor più puntuale, alla prospettiva della necessità di un “leale ripensamento delle categorie distintive tra comportamenti passivi e comportamenti attivi del medico, in particolare valorizzando l’essenza del rispetto della dignità umana, la qualità della vita, e facendo ricorso ai concetti di futilità o inutilità del trattamento medico, di incurabilità della malattia, di insostenibilità della sofferenza e di condizioni degradanti per l’essere umano.” Già in quella sede, dunque, veniva sollevata la questione della necessità di un ripensamento delle categorie della condotta, e giustamente si auspicava una riflessione leale sul punto: ed è proprio in omaggio a tale esigenza di lealtà che all’ormai

25 Non va, al riguardo, sottovalutata la questione della tutela della dignità della persona e dell’ineludibile rispetto ad essa dovuta, anche laddove scelga di optare per la sospensione del trattamento sanitario: anche in tal caso, infatti, si renderà di norma necessaria una accurata assistenza medica, tale da consentire, ad esempio tramite una adeguata sedazione, di evitare implicazioni dolorose o drammatiche nell’attuazione della decisione, evitando sofferenze al paziente nell’atto della sospensione del trattamento. 26 Sul punto, cfr. Azzalini, Il rifiuto di cure: riflessioni a margine del caso Welby, op. cit., passim.

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conclamato riconoscimento dell’esistenza di un diritto alla piena autodeterminazione terapeutica, e dunque anche, se del caso, alla sospensione dei trattamenti life saving27, non può che corrispondere, dal punto di vista della teoria della condotta, il riconoscimento della natura astensiva di ogni

27 Sul punto cfr. Azzalini, Spigolature in tema di “contenzione” della persona capace, in S. Rossi (a cura di), Il nodo della contenzione. Diritto, psichiatria e dignità della persona, Merano, 2015, 159 ss. e riferimenti ivi contenuti; cfr. anche Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 12, il quale precisa come «la maturata esigenza di un consenso al trattamento medico intacca tale equilibrio, così sbilanciato: la capacità del consenso di rappresentare condizione di legittimità dell’atto terapeutico sottrae passività al ruolo del malato. Ancor più, la necessità che il consenso sia “informato” rafforza la visione di un processo realmente partecipativo del paziente alle decisioni che coinvolgono il suo corpo e la sua salute, con ciò venendo meno l’idea di una sterile formalizzazione del rapporto nel quale l’adesione del malato al trattamento sia relegata a mera condizione di rimozione dell’illiceità penale del fatto». Al riguardo, pare utile osservare en passant che la questione dello sbilanciamento insito nella relazione medicale non investe solamente i profili civilistici della materia, ma che anche la configurazione penale dell’atto medico eseguito in assenza di consenso “informato” del paziente si è atteggiata in modo non sempre uniforme nel corso degli anni; un orientamento tradizionale riteneva che il consenso escludesse l’antigiuridicità del fatto, configurando una causa di non punibilità ai sensi dell’art. 50 c.p..; ma tale risalente prospettiva sembra oggi superato da una impostazione diversa del problema, laddove si scorge nel consenso del paziente un vero e proprio presupposto della liceità del trattamento, alla luce dell’applicazione degli artt. 13 e 32 Cost.; cfr. nel tempo, in tal senso, Cass. pen., 16.1.2008, n. 11335, in Resp. civ. prev., 2008, 1522; Cass., 23.5.2001, n. 7027, in Danno resp., 2001, 1165; cfr. anche Gorgoni, Il medico non ha il diritto ma solo la potestà di curare, in Resp. civ. prev., 2008, 1542 ss.; Cacace, Consenso informato: novità sul fronte giurisprudenziale. Rappresentazione in tre atti, in Danno resp., 2008, 889 ss.; significative sull’argomento anche le riflessioni maturate in dottrina in epoca non più recentissima: cfr. sul punto Nannini, Il consenso al trattamento medico, Milano, 1989, passim; Castronovo, Profili della responsabilità medica, in Studi in onore di Pietro Rescigno, Milano, 1998, 117 ss.; Scalisi, Il consenso del paziente al trattamento medico, in Dir. fam., 1993, 463 ss.; Montanari Vergallo, Il rapporto medico-paziente. Consenso e informazione tra libertà e responsabilità, Milano, 2008, passim. Cfr. anche Iadecola, Potestà di curare e consenso del paziente, Padova, 1998, 89 ss.; Palermo Fabris, Diritto alla salute e trattamenti sanitari nel sistema penale, Padova, 2000, 47 ss.; Manna, La responsabilità professionale in ambito sanitario: profili di diritto penale, in Riv. it. med. leg., 2007, 591 ss.

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contegno attivo volto a recuperare quell’inerzia dovuta al paziente che la richieda, e dal punto di vista giuridico l’esclusione dell’elemento dell’antigiuridicità nella condotta di chi attui detta sospensione, con il corollario, non privo di significato anche sociale oltre che giuridico, dell’irrilevanza penalistica del fatto28: e ciò anche in considerazione dell’evidente dato per cui taluni insistiti richiami a fattispecie quali l’omicidio del consenziente, anche al di là di quanto siamo venuti dicendo e concludendo nelle righe immediatamente precedenti, prescindono dalla fondamentale considerazione dell’anteriorità di gran parte del contenuto del codice penale vigente (e, nella specie, delle norme in questione) rispetto alla Carta Costituzionale: il che significa che talune fattispecie che vengono a sproposito evocate non solo soffrono l’anacronismo di un contesto storico, sociale, scientifico e giuridico assai distante e dunque – per infinite ragioni – incommensurabile con quello attuale, ma debbono anche essere valutate, quanto alla loro latitudine applicativa e al senso profondo del disposto, alla luce di una fonte successiva di rango superiore contente prerogative giuridiche incompatibili con le medesime, viepiù in considerazione dell’ampia opera di elaborazione che ha condotto alla migliore messa a fuoco della reale, decisiva portata del diritto all’autodeterminazione terapeutica e del diritto all’integrità della persona29.

Saggi e pareri

Specularmente, proprio questi ultimi spunti di riflessione non possono, concludendo sul punto, non spingere anche ad una conseguente valutazione di patente illegittimità del contegno del sanitario che non sospenda il trattamento quando il paziente manifesti una libera, informata e consapevole volontà in tal senso. Perché, in tal caso, il paziente subirebbe una indebita costrizione, un atto che viola lo spazio fisico, corporeo, che nessuno può invadere senza il consenso del suo titolare30; un atto certamente illegittimo e illecito sotto molteplici profili e reso ancor più grave dalle rispettive posizioni dei soggetti coinvolti: il sanitario da un lato, chiamato ad agire nell’interesse e nel rispetto del paziente, e quest’ultimo, dall’altro, che si vedrebbe ulteriormente pregiudicato nella sua integrità oltre che dal vulnus della malattia, anche dalla vanificazione del fondamentale diritto all’autodeterminazione terapeutica, sia essa perpetrata tramite una vera e propria effrazione corporea o posta in essere con qualsivoglia altro mezzo o contegno31.

di una interpretazione costituzionalmente orientata di dette norme, suscettibile di decretare un ridimensionamento della tutela anche penale della vita. In questo senso si vedano quantomeno Fiandaca, Musco, Diritto penale: parte speciale, II, 1, I delitti contro la persona, Bologna, 2006, 38; Seminara, Riflessioni in tema di omicidio ed eutanasia, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1995, 692. La questione è accennata anche, proprio con riguardo alla vicenda qui in oggetto, da Campione, op. cit., 298. Come si è spesso segnalato, la questione del morire si intreccia in profondità con le tematiche inerenti la corporeità, il suo concetto e la sua tutela. “Se la morte è un’esperienza individuale, e se il fondamento di ogni individualità è nel corpo, solo il corpo può parlare della morte, e ne parla col suo silenzio. Noi comprendiamo la morte quando evitiamo di interrogare un corpo per non udire il suo silenzio, quando teniamo lontana la nostra vita dalle regioni in cui potremmo incontrare questo silenzio, rivelativo di un corpo degradato a oggetto, ricaduto nella condizione di “cosa”, essendo la cosa ciò che riposa in un’assoluta ignoranza di sé e del mondo. Ecco cosa avviene con la morte, non la separazione dell’anima dal corpo, ma la separazione del corpo dal mondo, per cui il mondo non esiste più come luogo in cui il corpo si proietta e si progetta, ma solo come terra che irrimediabilmente lo ricopre”. Galimberti, Il corpo, Milano, 2006, 257 s. 30

A ben guardare, la giurisprudenza stessa s’era nel tempo avveduta, quantomeno in parte, dello stato di cose segnalato nel testo, e ciò in realtà in epoca ben anteriore ai casi Welby ed Englaro. Ciò emerge quando si afferma che “nel diritto di ciascuno di disporre, lui e lui solo, della propria salute ed integrità personale, pur nei limiti previsti dall’ordinamento, non può che esser ricompreso il diritto a rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia segua il suo corso sino alle estreme conseguenze” e dunque “ la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente interessato dal volere, o peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto” (così Assise Firenze, 18 ottobre 1990, in Foro it., 1991, II, 236. La pronuncia venne confermata in Assise d’appello e dalla Suprema Corte, con Cass. pen., 13.5.1992, n. 5639, in Cass. pen., 1993, 33). Se le cose stanno in questi termini, la condotta dell’agente che si adoperi per la sospensione delle cure non ci pare possa dirsi in alcun modo antigiuridica. 28

29

Da qui la prospettazione dell’esigenza imprescindibile

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Come già evidenziato anche in passato, ma l’esempio rimane attuale, se un medico pratica su Tizio, pur a regola d’arte, una endoscopia senza il consenso del paziente, egli commette una invasione senza effrazione. Non produce, per 31


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4. Morfologia del volere, teoria della persona e semantica della condotta. Necessità di un ripensamento delle categorie acquisite Quanto siamo venuti dicendo in ordine alla necessità di un serio ripensamento o aggiornamento del modo di intendere la condotta per le ipotesi cui il presente intervento si riferisce non va, si badi, letto atomisticamente bensì va collocato, come è peraltro già emerso sotto svariati profili nel corso della nostra riflessione, nel solco di una necessità di revisione o integrazione dei paradigmi e degli archetipi concettuali che involge anche altri fondamentali elementi rilevanti per il diritto. Un indice assai significativo e ancora attuale di tale necessità ha trovato espressione già alcuni anni addietro nell’ambito della vicenda Englaro, laddove la Suprema Corte, nella celebre sentenza 21748/2007 con la quale venivano poste le basi per la soluzione del caso, aveva ricostruito in maniera ineccepibile, e affrontando le molteplici e delicate sfaccettature del problema, le ragioni per le quali il diritto all’autodeterminazione terapeutica non può non spettare, pur in presenza di ineludibili presupposti che vanno verificati in concreto, anche alla persona che versi in stato di incapacità32.

così dire, una “rottura del guscio” che protegge ed integra il corpo di Tizio, ma lede ugualmente la corporeità del medesimo, con una condotta abusiva e illecita in quanto puramente invasiva. 32 La vicenda Englaro è assai nota e la letteratura sterminata; per un esame della vicenda nella sua prima fase, nonché per una presa di posizione sui temi di fondo inerenti il caso, si permetta anche in questa sede il rinvio ad Azzalini, Tutela dell’identità del paziente incapace e rifiuto di cure: appunti sul caso Englaro, in Nuova giur. civ. comm., 2008, II, 331 ss. e riferimenti ivi indicati; una interessante panoramica sul caso e sulle questioni, anche pubblicistiche, connesse è operata da Molaschi, Riflessioni sul caso Englaro. Diritto di rifiutare idratazione ed alimentazione artificiali e doveri dell’amministrazione sanitaria, in Foro amm., 2009, 981 ss.; per un ulteriore approfondimento dei molteplici risvolti della vicenda, cfr. Rodotà, Il caso Englaro: una cronaca istituzionale, in Micromega, 2009, 81 ss.

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In particolare, la Suprema Corte e successivamente la Corte d’Appello di Milano, quale giudice del rinvio, percorsero una strada argomentativa che sostanzialmente comportava, seppure indirettamente, un arricchimento nel paradigma teorico del rilievo della volontà e della sua forma di manifestazione, andando per molti versi oltre l’idea dell’atto di volontà inteso come puntuale e rituale esternazione circostanziata di matrice dichiarativa, ed approfondendo invece il concetto del volere e della sua manifestazione sino a rintracciarne le radici in un modo di essere della persona, nella ricostruzione di un complesso di convinzioni e verità individuali, secondo una dinamica che si pone ben oltre le fattispecie volontaristiche tipiche del diritto patrimoniale e del diritto privato “classico”. In quell’occasione, si seppe compiere un passo decisivo: riconoscere, cioè, che la volontà della paziente incapace, una volta ricostruita in considerazione del best interest in concreto adeguato alla persona in questione, poteva e doveva essere rispettata prima che attraverso la ricostruzione di un atto, attraverso quella di un fatto, vale a dire valutando quali fossero i valori, i propositi, i sentimenti, le concezioni della vita che la giovane aveva scelto di porre alla base del suo unico e inviolabile percorso esistenziale. In un paradigma siffatto, a mutare era la morfologia stessa del volere rilevante nell’ambito della scelta da assumersi; i concetti giuridici di volontà e di consenso, insomma, venivano rivisitati per adeguarli ad un quadro rispetto al quale la usuale teoria degli atti appariva stridentemente insufficiente a disciplinare in modo anche solo verosimilmente adeguato la realtà drammatica dei fatti: e così operando si giunse all’idea chiave, applicata appunto con estrema lucidità nel caso Englaro, per cui una volta ricostruita la personalità, per poter tutelare sul serio l’identità e l’integrità della persona si possa e debba procede all’individuazione del migliore interesse dell’incapace assumendo come dato parametrico di base non un best interest astratto o teorico bensì una soluzione il più aderente possibile ad un fatto che si fa anche base per desumere un profilo volitivo, vale a dire la verità personale cui le scelte debbono poi essere adeguate, cui la tutela deve essere rivolta. Responsabilità Medica 2017, n. 4


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Ci si trova qui dinnanzi, ad avviso di chi scrive, ad un mutamento di approccio e di paradigma esemplare di un possibile modo di procedere generale. E non deve dunque meravigliare, da altro punto di vista, l’emergere della necessità di un ulteriore mutamento, questa volta concernente la qualificazione e l’inquadramento delle condotte, non risultando più bastevoli le figure e gli archetipi noti ed essendo necessario dare rilievo alla categoria dell’astensione, nei termini, sopra prospettati, del recupero di una inerzia dovuta. Come si è appena considerato, muta, nel tempo, la concezione giuridica del volere e del suo manifestarsi: muta a seguito degli approfondimenti e degli adeguamenti necessitati dell’evolversi della scienza, della tecnica e dal maturare di esperienze esistenziali inedite e finanche impensabili sino ad un non lontano passato. Muta altresì l’idea giuridica dell’esistenza, emergendo con sempre maggiore chiarezza (e talora in contesti drammatici) la profonda discrepanza che separa la mera sopravvivenza biologica della vita pienamente intesa, laddove la tutela della prima non può ritenersi valore autonomo se il titolare di quell’esistenza si senta spogliato del sé, ad esempio in ragione di una condizione patologica o di un trattamento terapeutico i cui costi appaiano inaccettabili rispetto a benefici che vanno valutati non in rapporto ad una figura astratta di essere vivente bensì in rapporto all’identità biografica e al sé di quella persona, unica e irripetibile33. Ma prima ancora, ad essere mutata, come si è rilevato in più sedi, è l’idea stessa di persona34, i cui

33 Un evocativo riferimento al “palinsesto della vita”, e al fatto che la considerazione della vita nella sua reale rilevanza giuridica di percorso personale rappresenti uno sviluppo piuttosto recente nel pensiero degli studiosi, è ripreso da Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, 250 ss.; l’espressione tuttavia è di Jasanoff, Introduction: Rewriting life, Reframing Rights, in Id., Reframing Rights. Biocostitutionalism in the Genetic Age, Cambridge-London, 2011, 1; cfr. anche, in una prospettiva di ampio respiro, non solo dal punto di vista privatistico, Honneth, Lotta per il riconoscimento, Milano, 2002, 21ss. 34 Cfr. per una intensa panoramica sull’evoluzione del concetto di persona quantomeno Rodotà, Dal soggetto alla persona, Napoli, 2007, passim.

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connotati essenziali sono la centralità nel sistema e la libertà, prerogative che rappresentano, a loro volta, le precondizioni per una corretta messa a fuoco – in un procedimento che appare tutt’ora in corso e che è verosimilmente destinato ad una evoluzione tendenzialmente constante – del diritto all’integrità personale intesa anche come riconoscimento della propria peculiare unicità, che non può essere sminuita o aggredita neppure in ragione di pericolose e acritiche tensioni verso qualsiasi idea di una aprioristica e coattiva legittimità della cura, una cura che verrebbe tra l’altro, in una simile accezione, esposta al rischio della perdita della sua intrinseca ed essenziale connotazione benefica e, in definitiva, della sua missione, trasformandosi in una sorta di drammatico ossimoro: quello di una cura contro la persona. È dunque nel solco di questo ampio processo evolutivo, nel panorama di questo mutare complessivo di paradigmi, che va collocata anche la riflessione affidata a queste pagine.

5. Esigenza ineludibile dell’attuazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica e resistenze “di sistema” Il corretto inquadramento semantico della condotta tenuta in materia sanitaria rappresenta dunque, nei termini che auspichiamo di aver messo a fuoco, una esigenza complessa alla quale occorre, ovviamente attraverso un continuo approfondimento e un affinamento concettuale progressivo, offrire una adeguata risposta: ciò anche e soprattutto in ragione della delicatezza pratica del tema e del sempre maggiore rilievo sociale e professionale che lo stesso inevitabilmente assumerà sia nel breve che nel lungo termine, a mano a mano che il progresso tecnico-scientifico, da un lato, e l’evolversi della sensibilità giuridica in relazione alla reale latitudine da riconoscersi ai diritti fondamentali delle persone, dall’altro, verranno ponendo questioni sempre nuove e sempre più delicate, alle quali è impensabile offrire risposte ondivaghe o non razionali, ingiuste ed evanescenti, od opporre un inammissibile non liquet, trincerandosi dietro l’insufficienza degli schemi di riferimento o la vetustà di un sistema di regole e concetti che


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spesso si appalesa non adeguatamente munito o non adeguatamente capace di adeguarsi alle esigenze in questione35. Ma vi sono anche altre considerazioni, che rendono imprescindibile un sempre ulteriore approfondimento del tema, e che si legano a doppio filo con le empasse applicative a cui abbiamo fatto cenno nella prima parte dell’intervento. Per un verso, il tema è ineludibile perché concerne il momento attuativo di un diritto fondamentale della persona, vale a dire il diritto all’autodeterminazione terapeutica; un diritto che va viepiù difeso e presidiato rispetto a quelle situazioni, cui ci si è precipuamente riferiti nelle pagine che precedono, nelle quali tale diritto rimarrebbe inevitabilmente frustrato in assenza dell’intervento di terzi, dal momento che il paziente colpito da certe patologie particolarmente invalidanti, o da certi stati di incapacità altrettanto gravi, finisce col trovarsi letteralmente e fisicamente “nelle mani” altrui; laddove occorre in ogni modo evitare il pericolo di quello che finirebbe con l’essere un vero e proprio ricatto pubblico, se il singolo, in un frangente così drammatico, non potesse fare totale affidamento sul rispetto del proprio volere terapeutico da parte dei sanitari, con inaccettabile compromissione di una ampia serie di prerogative connotanti la moderna idea di persona. Prerogative che verrebbero, con tutta evidenza,

Si è giustamente affermato al riguardo da autorevole dottrina che «di fronte alla vita non è possibile rifugiarsi in un inaccettabile “droit rétif”, in un diritto recalcitrante di fronte al nuovo che conduce a un inammissibile non liquet, che assume le sembianze della denegata giustizia, o che si rifugia nelle tradizionali categorie privatistiche, per storia e struttura inadeguate a comprendere la diversa dimensione nella quale ormai si collocano la persona e i suoi diritti», cfr. sul punto, anche più ampiamente, Rodotà, Il diritto di avere diritti, op. cit., 262-263; la questione, complessa, molto importante e che meriterebbe notevole approfondimento anche sul piano della teoria generale del diritto, viene sollevata, con una esemplificazione efficace, anche da altra autorevole dottrina la quale afferma “non possiamo più permetterci di proporre e imporre alla relazione medico-paziente un’idea di consenso e dei modelli applicativi assolutamente inadeguati al terreno, gravidi di effetti perversi. Il diritto che trasferisce in sala operatoria – o nel corridoio – le forme che valgono per un contratto bancario fa piangere”, cfr. Zatti, «Parole tra noi così diverse», op. cit., 143 ss. 35

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ulteriormente frustrate se la persona si trovasse a dover ponderare le proprie decisioni magari con il timore, laddove accettasse in una certa condizione personale un determinato trattamento, di non poterne poi ottenere la sospensione, anche a cagione di quell’apparente labirinto concettuale che abbiamo cercato di dipanare attraverso l’analisi condotta in queste righe. Per altro verso, il tema va affrontato con franchezza, realismo e rigore scientifico onde evitare una strumentalizzazione dei problemi sui quali ci siamo soffermati, magari volta al censurabile fine di ostacolare l’esercizio del diritto all’autodeterminazione, in nome di certe ben note resistenze fondate talora su una malintesa idea di sacralità della vita astrattamente concepita, talora su arcaici e insidiosi predicati riconducibili all’idea di paternalismo curativo, talora perfino sull’incredibile idea che lo Stato o le sue articolazioni territoriali possano, non è chiaro su che base, sottrarsi al proprio compito assistenziale e prescindere, in subiecta materia, oltre che da principi giuridici di cruciale importanza e oramai consolidati, persino dalle decisioni della Suprema Corte passate in giudicato. Non si tratta di timori infondati: e ciò è stato ben dimostrato da quel lungo segmento della vicenda Englaro, giunto a termine solo assai recentemente, relativo al diniego a suo tempo opposto da parte della Regione Lombardia, sulla base di argomenti tutt’altro che persuasivi, a fornire alla paziente l’assistenza sanitaria necessaria a eseguire la pronuncia che aveva riconosciuto in capo alla medesima il diritto alla sospensione dei trattamenti di nutrizione e idratazione che la tenevano in vita, in una condizione riconosciuta incompatibile con il suo profilo identitario come ricostruito in esito ad una compiuta istruttoria, e con la visione del mondo e dell’esistenza e il complesso valoriale da costei fatto proprio prima dell’incidente che ne aveva determinato l’estremo grado di infermità36. Il timore, anche nella incerta prospettiva che circonda il tor-

Su tali profili, cfr. ci si permette di rinviare al recente intervento di Azzalini, Molaschi, Autodeterminazione terapeutica e responsabilità della P. A. Il suggello del Consiglio di Stato sul caso Englaro, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1525 ss. e riferimenti ivi indicati. 36

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tuoso percorso dei recenti tentativi di intervento normativo in tema di relazione di cura37, è quello del perpetuarsi di resistenze “di sistema”, più o meno strumentali e più o meno diffuse, che vanno per quanto più possibile “disinnescate” attraverso percorsi logici e scientifici rigorosi, che consentano di adeguare le figure giuridiche al reale senso degli eventi e di mantenerle, o renderle ove non lo fossero, all’altezza delle esigenze di disciplina che inevitabilmente si pongono in ambiti così intrinsecamente legati alla dimensione più profonda e delicata del concetto stesso di persona. Ciò anche – e forse soprattutto – per evitare, in una realtà sempre più complessa e in una relazione sempre più articolata e densa di sfumature qual è quella curativa, che si ripetano e anzi si verifichino con maggior frequenza taluni drammi personali che già oltre un decennio fa una autorevole e attenta dottrina stigmatizzò come non degni di un paese che voglia affermarsi civile38.

37 Il riferimento è ovviamente al D.d.L. 2801 della XVII legislatura, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, attualmente in fase di esame avanti il Senato della Repubblica. 38 Cfr., in tali termini, Alpa, Il principio di autodeterminazione e il testamento biologico, in Vita not., 2007, 1 ss.

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Saggi e pareri


g g sa re Scelte giuste per salute e e pa Saggi e pareri Saggi e pareri

sanità. L’appropriatezza nelle cure tra doveri di informazione e corretta gestione delle risorse Lorena Forni

Ricercatrice nell’Università di Milano - Bicocca Sommario: 1. La giustizia per salute e sanità: un breve inquadramento. – 2. Appropriatezza delle scelte, tra doveri informativi e giustizia allocativa. – 3. Alcuni casi di ingiusta e inappropriata allocazione delle risorse per salute e sanità. – 4. Scelte giuste e appropriate per salute e sanità: alcuni significativi interventi delle Corti. – 5. Brevi osservazioni conclusive.

Abstract:

Il saggio porta argomenti propri della riflessione etico-giuridica a proposito delle scelte giuste da compiere per la salute dei singoli e riguardo ai modelli di sistemi di erogazione dei servizi sanitari. Su questi profili è infatti spesso messo in evidenza il binomio “giustizia-salute”. In proposito, si cercherà di chiarire in che senso entrano in gioco principi e criteri etici, giuridici e bioetici, e qual è la loro rilevanza rispetto alle questioni di “giustizia” per la salute individuale, non meno che per le scelte proprie del contesto sanitario. The essay proposes specific arguments for ethical-legal reflection on the right choices to be made for individuals’ health and the patterns of healthcare system. On these profiles, the “justice-health” combination is often highlighted. In this regard, we will try to clarify in what way ethical, legal and bioethical principles and criteria come into play, and what is their relevance to “justice” issues for individual health, not least for their choices in the healthcare context.

1. La giustizia per salute e sanità: un breve inquadramento La questione della corretta informazione1, dell’appropriatezza delle scelte che riguardano gli interventi sul corpo e sulla salute dei pazienti e dell’equo accesso ai trattamenti sono argomenti centrali in ogni contesto clinico, e sono temi che interrogano, non da oggi, i medici e gli operatori

Questo tema, sempre di grande attualità, è stato di recente approfondito, nel contesto americano, anche in relazione ad un profilo in genere poco considerato: le ripercussioni negative, di tipo fisico, e non solo psicologico, che un’informazione scorretta, frettolosa, ambigua (in poche parole, tutto fuorché appropriata) può generare nei pazienti. Cfr. Barsky, The Iatrogenic Potential of the Physician’s Words (2017) JAMA, pubblicato on line: doi:10.1001/jama.2017.16216. 1

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sanitari2, ma anche i giuristi e i bioeticisti che si occupano di questi aspetti3. In proposito, quando si riflette sulle scelte da compiere per la salute dei singoli e sui modelli di sistemi di erogazione dei servizi sanitari, è spesso messo in evidenza il binomio significativo “giustizia - salute”. Un primo passo da compiere, allora, è chiarire subito che entrano in gioco principi e criteri etico - giuridici, che devono essere precisati e spiegati quando ci si interroga sul significato di “giustizia” per le questioni “di salute” e per le scelte giuste in sanità. Rispetto a questi profili, infatti, nella riflessione etica sulle questioni sollevate dalla pratica clinica4 riveste un ruolo centrale il principio di giustizia. Il principio di giustizia in bioetica è generalmente proposto nell’accezione più diffusa e largamente conosciuta, vale a dire come è stato definito da H. T. Engelhardt: si considera eticamente giustificata ogni prassi clinica o assistenziale realizzata in attuazione di una politica sanitaria che garantisca l’accesso degli individui alle cure mediche in condizioni di equità5. Se ritenessimo questa definizione esaustiva, dovremmo giungere alla conclusione che il principio di giustizia sia privo di ambiguità, che risulti immediatamente chiaro e non controverso, e che possa essere impiegato, senza ulteriori precisazioni, per dirimere molte questioni, non solo nella relazione di cura, ma anche in riferimento ai pro-

Per alcuni profili specifici di appropriatezza, cfr. Cottiet. al., Clinical governance and appropriateness of opioid-prescribing practices in cancer pain: a retrospective single center cohort study in primary care setting (2016) 27 Annals of Oncology, consultabile all’indirizzo //academic.oup.com. Cfr. anche, ad esempio, Burcham, Matthews, Earlier access to palliative medicine: An experience of integration into a community oncology practice (2016) 96 Journal of Clinical Oncology 92. 2

ni

Saggi e pareri

blemi al centro delle scelte di politica del diritto e, in particolare, delle decisioni di politica sanitaria. Va rilevato, invece, che di per sé la definizione di “giustizia” per le questioni di salute, se non meglio precisata, risulta vaga e ambigua, laddove vi sia il problema di individuare strategie capaci di incidere, per davvero, sulle prassi cliniche o assistenziali, per individuare modalità appropriate di allocazione delle risorse o per conferire effettività alle scelte di politica sanitaria, che garantiscano equità nell’accesso a cure mediche. Nella ricerca di una ridefinizione del principio di giustizia più precisa ed esaustiva, ai fini di questo lavoro riproporremo, sinteticamente, alcuni concetti e alcuni argomenti proposti da Amartya Sen6. L’autore, anche se non si è occupato mai specificamente delle questioni di giustizia (allocativa) per la salute o in sanità, ha tuttavia offerto elementi utili ed interessanti ai fini del nostro discorso. Sen sostiene, infatti, che la valutazione da compiere per la giustizia delle scelte, soprattutto allocative, dovrebbe essere stimata in riferimento al vantaggio generale che ne trae un individuo. Nelle teorie classiche (utilitariste, liberiste e neocontrattualiste)7, “vantaggio” è una parola che, spesso, viene messa in relazione con un’ampia classe di espressioni o termini, quali, ad esempio, “utilità personale”, “felicità”, “piacere individuale”, “patrimonio”, “reddito” “giusta retribuzione” etc. etc. Sen propone una originale ridefinizione del termine “vantaggi”, in inglese capabilities. Per “vantaggio” o “vantaggi”, egli intende la capacità concreta dei soggetti di interagire con l’ambiente in modo da modificarlo e di riuscire così a fare «ciò a cui il soggetto stesso assegna un valore»8. Sen precisa, in proposito, che tale espressione può avere due significati. In un primo senso, Sen ritiene che “assegnare un valore” sia un altro modo di individuare ciò che è una risorsa9 In un

Cfr., ad esempio, Forni, La sfida della giustizia in sanità. Salute, equità, risorse, Torino, 2016. 3

Per il riferimento ai principi della bioetica in generale cfr. Beauchamp, Childress, Principi di etica biomedica, Firenze, 1999, trad. it. di Principles of Biomedical Ethics, New York, 1979, 161. Riguardo alla rimodulazione del principio di giustizia, si veda anche la settima edizione del testo degli autori, ripubblicata nel 2013. 4

Cfr. Engelhardt jr., Manuale di Bioetica, Milano, 1999, 404 ss.

5

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Per un approfondimento sulla rilevanza del pensiero di Sen nelle questioni di salute e di sanità cfr. Forni, op. cit., 101 ss., in particolare 137 ss.

6

7

Cfr. Forni, op. cit., 106 ss.

8

Cfr. Sen, L’idea di giustizia, Milano, 2009, 243.

9

Cfr. Sen, op. cit., in particolare 262 s.


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secondo, e rilevante senso, l’espressione “attribuire valore” assume il significato di «ciò che vale la pena di fare/essere»10. La valutazione di “ciò che vale la pena”, ovvero “di ciò che è una risorsa” diventa un giudizio articolato di comparazione tra valutazioni soggettive e regole istituite in un certo contesto. Stimare nella situazione concreta cosa valga la pena sapere, usare, decidere, fare… rappresenta allora, per il soggetto/i soggetti coinvolto/i, il vantaggio personale e significa, altresì, stabilire cosa sia una risorsa. Aderendo alle osservazioni di Sen, che ha superato le definizioni offerte dalle teorie tradizionali e “classiche” a proposito della “scelta giusta”, abbiamo a questo punto la possibilità di ridefinire, precisandolo, il principio di giustizia rilevante per le scelte di salute, latamente intese. Possiamo pertanto considerare la giustizia in ambito sanitario il principio che ritiene eticamente giustificata ogni prassi clinica o assistenziale, realizzata in attuazione di una politica sanitaria che garantisca l’accesso degli individui alle risorse in condizioni di equità, laddove la valutazione di cosa valga la pena fare, essere, o utilizzare concorre alla determinazione dell’equità stessa11.

Il concetto di “appropriatezza” merita un approfondimento, specialmente per la densità semantica che ha via via assunto negli ultimi anni. Se è vero, infatti, che anche l’agenda politica contemporanea, soprattutto per quanto attiene al profilo d’attuazione del diritto alla salute12, ha mostrato interesse per provvedimenti volti ad incrementare “l’appropriatezza terapeutica” nell’erogazione di beni e servizi sanitari13, è altrettanto vero che il significato preciso di quest’espressione, centrale per la buona pratica clinica, risulta problematico. “Appropriatezza” è spesso usata come termine capace di veicolare forti, positivi, significati. Senz’altro, una prima area di significato considera “appropriata” ogni proposta terapeutica di comprovata efficacia, avallata dalla comunità scientifica, che sia messa in atto col consenso, libero e informato, del soggetto a cui è rivolta. Una scelta appropriata è, allora, ogni opzione non solo proporzionata alla situazione e alla condizione che si deve trattare, ma lo è anche perché orientata alla valorizzazione dei principi di autonomia, di non maleficenza e di beneficenza, oltre che, e soprattutto, del principio di giustizia. Questa accezione di appropriatezza in ambito clinico-terapeutico è stata ribadita di recente anche dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 169 del 201714. Infatti, possiamo considerare appropriata una scelta/opzione clinico-terapeutica che consenta, attraverso eque procedure del Servizio Sanitario Nazionale, la messa a disposizione e l’accesso a trattamenti, medicinali o terapie che siano adeguati a rispondere ai bisogni di salute degli utenti.

2. Appropriatezza delle scelte, tra doveri informativi e giustizia allocativa Spesso il tema della giustizia nelle scelte di salute, tanto individuali, quanto riferite al contesto in cui le risorse devono essere erogate, viene associato o messo in relazione a quello dell’appropriatezza delle decisioni. Sentiamo infatti usare espressioni del tipo: “Bisogna valutare la scelta giusta” come equivalenti di “Dobbiamo proporre opzioni appropriate”.

Un esempio recente del nostro Paese riguarda la nuova e rivista elencazione dei Livelli essenziali di assistenza, definiti nel d.P.C.m. del 12 gennaio 2017, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 18 marzo 2017. Il testo con l’elenco aggiornato delle prestazioni che rientrano nei nuovi Lea è consultabile all’indirizzo www.trovanorme.salute.gov.it. 12

Il riferimento riguarda la legge n. 208 del 2015, c.d. “legge di stabilità per il 2016”, di cui si può consultare il testo e una relazione di sintesi riguardante i provvedimenti previsti per l’ambito sanitario all’indirizzo www.quotidianosanita.it. 13

Cfr. Sen, op. cit., in particolare il capitolo XII interamente dedicato a Capacità e risorse, 262 ss.

10

Per capire casi e situazioni concrete in cui tale principio, così ridefinito, può essere messo alla prova, si rinvia a Forni, op. cit., 165 ss. 11

14 La sentenza della Corte costituzionale del 12.7.2017, n. 169, è consultabile all’indirizzo www.cortecostituzionale.it.

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Tuttavia, e non da oggi, è presente un ampio dibattito sulla necessità di un allargamento del significato di “scelta appropriata” in ambito clinico-assistenziale. Dai primi anni Duemila si sta discutendo molto circa l’opportunità di ridefinire il concetto di appropriatezza: si è proposto, in particolare, di considerare anche una seconda area di significato, nella quale includere non solo le competenze scientifiche e cliniche degli operatori, e dei medici nello specifico, ma anche una loro competenza amministrativo-gestionale15 riguardo al contenimento dei costi e alla riduzione delle spese. Diventa allora appropriata ogni scelta se è una scelta (anche) economicamente vantaggiosa, che riduce gli sprechi e che comporta spese limitate. L’ampliamento di significato di questa nozione non è tuttavia privo di problemi, perché non offre una condivisa definizione di “appropriatezza”, né circoscrive in modo preciso e univoco il significato del termine. Al contrario, si allarga molto la portata del concetto, facendo rientrare nell’“appropriatezza” sicuramente l’insieme di competenze e conoscenze sul piano tecnico-scientifico, ma anche l’insieme di procedure e, soprattutto, di scelte, che riguardano la proporzionalità delle prestazioni/prescrizioni diagnostico-terapeutiche con riferimento alle risorse a disposizione16. L’ampliamento rilevato, se non ben specificato, della portata di significato dell’appropriatezza in ambito sanitario, è motivo di preoccupazione17, nel senso che sembra, non senza fondamento,

15 Cfr., sul punto, Balduzzi, L’appropriatezza in sanità: il quadro di riferimento legislativo, in Falcitelli et. al. (a cura di), L’appropriatezza in Sanità: uno strumento per migliorare la pratica clinica. Rapporto Sanità 2004, Bologna, 2004, 73 ss.; cfr. anche Vanara, Appropriatezza e risorse potenzialmente liberabili, in Falcitelli et. al. (a cura di), cit., 87 ss.; cfr. Renga, La formazione dell’appropriatezza, in Falcitelli et. al. (a cura di), cit., 113 ss.; cfr., infine, Rozzini et. al., L’appropriatezza nell’assistenza alle persone fragili, in Falcitelli et. al. (a cura di), cit., 251 ss. 16

Sul punto. cfr. www.quotidianosanita.it.

Cfr. Viviani et. al., Con gli occhi degli infermieri. La Spending Review nella salute, in Autonomie locali e servizi sociali, II, 2016, 357 ss., consultabile all’indirizzo www.rivisteweb.it. 17

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Saggi e pareri

che “appropriatezza terapeutica” sia sempre più considerata espressione usata prevalentemente come sinonimo di “contenimento delle spese per le terapie”18. Ed è un significato, quest’ultimo, che ingenera pericolosi fraintendimenti, perché si finisce per considerare come l’unica sintesi possibile per la salute e per la sanità l’equazione (scorretta): riduzione dei costi per terapie = scelta appropriata = scelta giusta, sotto ogni profilo. Sebbene la finalità perseguita della riduzione dei costi e degli sprechi della spesa pubblica statale negli ambiti della salute possa essere considerata approvabile o, in senso lato giusta, non bisogna però sottovalutare il fatto che potrebbero darsi esiti pericolosi e paradossali. Una delle derive paventate riguarda l’insinuarsi di orientamenti, disinvolti e rischiosi, che considerano, ad esempio, sempre appropriate le scelte effettuate in quanto primariamente volte al taglio dei costi. Tali valutazioni hanno, come contropartita, una irragionevole tendenza a considerare opzioni diagnostiche e/o prescrizioni terapeutiche costose necessariamente non appropriate, riducendo, di fatto, la rosa di scelte e l’accesso a cure e interventi per una serie di patologie e di contesti assistenziali, in

Questo particolare aspetto è stato oggetto di accesi dibattiti sia nella Conferenza Stato-Regioni dell’aprile 2015, sia nel confronto politico parlamentare che ne è scaturito, fino a tutto l’autunno 2015, anche in relazione alle esigenze di contenimento della spesa e di taglio di costi per la sanità, che sarebbero stati tuttavia diversi e molto più incisivi di quelli inizialmente individuati nel Patto per la salute 2014-2106. Sulla questione, si rinvia alla descrizione delle trattative, consultabili all’indirizzo www.regioni.it. Nel merito, si profila una riduzione dei finanziamenti regionali per 2,3 miliardi all’anno per il triennio 2015/2017. Oggetto di particolare revisione sono state le prestazioni specialistiche non necessarie. «Dal ministero arriverà presto la lista delle patologie che prevedono analisi necessarie, mentre per tutti i casi diversi si dovrà invece pagare di tasca propria. Il decreto prevede di recuperare fondi dalle banche con il taglio dello stipendio per i medici che prescrivono analisi e controlli non necessari. Il medico, quando fa la ricetta, dovrà riportare l’indicazione della condizione di erogabilità. Le visite e i trattamenti che esulano da quei paletti saranno totalmente a carico del cittadino». Sul punto, cfr. Redazione de Il Fatto quotidiano, 27 luglio 2015, consultabile on line al seguente indirizzo: www. ilfattoquotidiano.it. 18


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quanto considerati troppo onerosi o svantaggiosi per il sistema. I nodi che stanno via via emergendo riguardano proprio la necessità di bilanciare diritti dei pazienti, buone prassi e doveri di cure appropriate, temi che danno conto di un’attenzione mai venuta meno e, anzi, rinnovata, tra tutti gli operatori coinvolti. Premesso ciò, in che senso, allora, una scelta appropriata è anche una scelta giusta? Per rispondere a questo interrogativo, dobbiamo prendere in esame alcuni profili di rilevanza bioetica e giuridica. Il primo elemento da evidenziare riguarda la stretta correlazione esistente, e non sempre adeguatamente evidenziata, tra appropriatezza, informazione e giustizia. Tanto maggiore sarà l’informazione appropriata, puntuale e corretta data al paziente, tanto migliori e giuste saranno le prassi sanitarie che si potranno avere. L’informazione, comprensibile e completa, dovrà riguardare certamente alcuni, centrali, elementi, come la diagnosi, la prognosi, le eventuali alternative terapeutiche, i rischi o le possibili complicanze connesse alla terapia o agli interventi; tuttavia anche altri profili dovrebbero essere presi in considerazione. Dovrebbe, per esempio, essere garantito il diritto di ogni paziente, se lo vuole, di conoscere effettivamente la reale condizione in cui versa, dovrebbe cioè essere tutelato il diritto a non essere ingannato e a ricevere un’informazione puntuale, esaustiva e veritiera non solo sullo stadio della malattia, ma anche sul prevedibile sviluppo che questa potrà avere, anche se si tratta di prognosi grave, di progressiva e inarrestabile degenerazione, o di prognosi ad esito infausto. Dovrebbe altresì essere fornita al paziente l’informazione appropriata, nel senso che deve essere fornita comunicazione e spiegazione riguardo a tutti e soli i trattamenti, validati dalla comunità scientifica, che costituiscono la rosa di opzioni clinico-terapeutiche adeguate alla situazione in cui egli effettivamente si trova. La principale obiezione avanzata, in proposito, si riferisce al fatto che il paziente effettivamente informato sarebbe una sorta di chimera e che la realtà dei contesti sanitari, oggi, non è caratterizzata da soggetti a cui poter proporre questi discorsi, che risultano di particolare ed elaborata complessità.

A dire il vero, l’obiezione è facilmente superabile, in quanto non tutti i pazienti, già oggi, hanno livelli di bassa scolarità, o non sono in grado di comprendere la rilevanza di queste osservazioni. In ogni caso, anche se tutti i pazienti fossero in difficoltà nel comprendere termini difficili, legati alla differenti diagnosi o prognosi o alle alternative terapeutiche, va ricordato che è un dovere deontologico, oltre che giuridico, degli operatori sanitari adeguare la comunicazione ai propri interlocutori (art. 33 Codice deontologico dei Medici), «corrispondendo ad ogni richiesta di chiarimento», tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva, senza escludere elementi di speranza in caso di malattia a prognosi grave o infausta. Il riferimento alla dimensione normativa del diritto alla salute, tanto a livello di regole proprie delle professioni sanitarie, quanto a livello del più volte richiamato dettato costituzionale, è rilevante poiché è il quadro prescrittivo da tenere in considerazione per legittimare e ritenere giustificabili, approvabili, giusti, in senso lato, l’intervento e l’azione medica. Negli ultimi anni, invece, a proposito di prassi informative, si sono verificate situazioni paradossali. A fronte, infatti, di dati che indicano ancora una forte resistenza a dire la verità al malato, in particolare riguardo alla comunicazione veritiera e sincera della prognosi, possiamo ricordare che, in Lombardia, a partire dal 2011, sono state introdotte norme che hanno previsto la comunicazione ad ogni singolo paziente del costo sostenuto dal Servizio sanitario (con particolare riguardo a quello regionale) per le cure, terapie, esami diagnostici a cui si è sottoposto19. Tra gli argomenti addotti a sostegno della non approvvabilità di tale scelta20,

19 Cfr. la delibera della Regione Lombardia n. 2633/2011, con la quale è stato introdotto per la prima volta sul territorio italiano un obbligo, da parte di soggetti eroganti trattamenti e cure, anche ambulatoriali, di «comunicare, nei referti e/o lettere di dimissione o di comunicazioni varie al cittadino, il costo della prestazione sanitaria effettuata, suddivisa nella quota a carico della Regione e, se dovuta, nel contributo a carico del cittadino». Il testo integrale della delibera della Giunta della regione Lombardia è consultabile all’indirizzo www.lombardiasociale.it. 20

Le forti obiezioni, politiche e giuridiche, sollevate da que-

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per brevità, possiamo ricordare una particolare ragione. I costi per i servizi sanitari dovrebbero essere considerati temi di rilevanza sociale e politica, che richiedono, dunque, prevalentemente riflessioni sovraindividuali, pubbliche. Quale finalità o obiettivo può avere, allora, la comunicazione individuale di specifiche voci di costo? Sembra prevalere l’ossessiva preoccupazione di impronta ragionieristica di far sapere al singolo cittadino quanto è costato il suo intervento alla collettività che, come notato nel parere del CNB del 2012 al riguardo21, rischia di essere un’informazione che si presta a dar luogo a forme di mortificazione e di senso di colpa, specialmente nei soggetti più in difficoltà, poveri e fragili. La situazione nella quale i pazienti si preoccupano più del costo delle spese mediche e assistenziali che della possibilità di guarire o, almeno, di migliorare la propria qualità della vita, denota la mancanza di politiche di umanizzazione, e la vanificazione di politiche sanitarie che diano sul serio centralità ai pazienti o alla loro dignità. Se volessimo usare un’espressione “forte”, impiegata da David Lamb, potremmo dire che l’attenzione posta in maniera quasi esclusiva sul livello dei costi della salute «è il prodotto immorale di una società che ha adottato una prospettiva individualistica, restrittiva e distorta»22, nella quale l’accento posto solo sul dovere comunicativo dei costi sostenuti è la forma più evidente di tale distorsione e nella quale i connotati di giustizia sembrano solo annunciati e molto lontani dall’essere messi in atto. Tutto l’opposto non solo di ciò che è appropriato, ma anche di ciò che è giusto. Il ripensamento dei doveri informativi e l’instaurazione di prassi comunicative che mettano davvero il paziente al centro delle possibilità di scelta che gli competono può avere, invece, ripercussioni positive sulla determinazione di cosa è la scelta

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giusta o la giusta allocazione nelle questioni sanitarie, latamente intese. Un secondo, importante, aspetto da mettere in luce sulla giustizia riguarda, dunque, le modalità complessive con cui si attua la relazione di cura23. Relazionarsi con una maggiore e più consapevole attenzione al soggetto che ha in gioco la propria vita, oltre che la propria salute, può rappresentare una svolta nelle prassi sanitarie in tema di allocazione delle risorse. Il paziente, pertanto, andrebbe considerato non solo come uno dei soggetti con cui si entra in relazione, in un contesto clinico o terapeutico, ma, anzi, dovrebbe essere la prima risorsa di cui tenere conto nella gestione di beni e servizi in sanità. Dovrebbe essere coinvolto nella determinazione di quale scelta, fra quelle appropriate e possibili, ha per lui maggior valore, è per lui la più vantaggiosa, è, in breve, la risorsa che vorrebbe fosse utilizzata. In questo modo, non solo sarà valorizzato, ma sarà altresì trattato come soggetto di diritti. Sarà trattato come una persona, nel senso che sarà ritenuto soggetto che gode di diritti e doveri, e in particolare del diritto personalissimo di esprimere un consenso libero e informato ai trattamenti appropriati che gli saranno proposti. Essere trattato sempre come una persona significa essere chiamato ad esprimersi anche su cosa sia, per lui, la scelta che ottimizza al meglio l’uso delle risorse a disposizione, in quanto è la scelta che vorrebbe fare, che per lui vale la pena mettere in atto, ridimensionando fortemente l’idea che le decisioni allocative siano prese sempre a livelli in cui il soggetto non ha accesso o che non può gestire.

3. Alcuni casi di ingiusta e inappropriata allocazione delle risorse per salute e sanità Alla luce delle considerazioni poco sopra formulate, la “scelta appropriata” diventa, allora, il pun-

sta decisione dell’amministrazione regionale lombarda, che nel 2012 è stata oggetto anche di un parere del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), sono stata analiticamente affrontate in Forni, op. cit., 31 ss. 21

Ibidem.

Cfr. Lamb, L’etica alle frontiere della vita, Bologna, 1998, 153.

22

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23 Per quanto riguarda il ripensamento, doveroso e auspicabile, della relazione medico – paziente e, più in generale, della relazione di cura tra sanitari e assistiti, cfr. Pucella, È tempo per un ripensamento del rapporto medico-paziente? in questa Rivista, 2017, n.1, 3 s.


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to di equilibrio da individuare e perseguire, anche e soprattutto in relazione all’individuazione di opzioni e risorse “giuste”. Ragionando a contrario, invece, possiamo dare conto di almeno due situazioni tipiche che sono segno di condotte ingiuste e caratterizzate dalla mancanza di appropriatezza: da una parte, dobbiamo ricordare la mancata adeguata informazione al paziente, anche terminale; dall’altra parte, ci riferiamo a prescrizioni (di terapie, di prestazioni diagnostiche o di farmaci) fuori controllo, immotivate, messe in atto più per paura di incorrere in denunce e in conseguenti cause con il paziente o con i familiari (orientate cioè a condotte tipiche della c.d. medicina difensiva24) che realmente dettate da argomentate ragioni clinico-scientifiche. In molti casi, a proposito di condotte inappropriate, dobbiamo richiamare comportamenti segnati da “overtreatment”25, termine il cui significato denota non solo l’eccesso di trattamenti, ma anche l’eccesso di diagnosi26 o, come è stato proposto più di recente, anche l’eccesso di prescrizioni. Proprio in relazione alla ridefinizione, allargata e ampia che è stata offerta del concetto di appropriatezza, dobbiamo tenere in considerazione le diversificate ipotesi e i differenti casi di overtreatment.

L’overtreatment può portare, pertanto, a interventi o terapie futili, ma anche a prescrizioni inadeguate, perché del tutto irragionevoli o sproporzionate, in relazione al tempo della diagnosi e alle condizioni in cui versa il paziente27. L’eccesso di trattamento si verifica spesso, tuttavia, anche come conseguenza dell’omessa o insufficiente informazione ai fini del consenso28. In poche parole, laddove non vi sia stata una adeguata, appropriata informazione al paziente, perché omessa del tutto o data in modo non veritiero o frammentato, nascono molti problemi29. Non solo la condotta tenuta non è conforme alle regole e ai principi etici e giuridici della buona pratica clinica e, anzi, risulta lesiva dei fondamentali diritti alla salute e all’autodeterminazione circa le cure di cui godono i pazienti30, ma si creano altresì le condizioni per un intervento sproporzionato rispetto alla reale condizione clinica, irragionevole, spesso eccessivo anche rispetto alla gestione delle risorse. Si determina, infine, sul piano giuridico, una condotta che, ledendo diritti di altri e cagionando un danno, comporta la responsabilità risarcitoria di chi l’ha messa in atto31.

Cfr. ad esempio, Aa. Vv., Medico e paziente tra medicina “difensiva” e appropriatezza dei trattamenti, Napoli, 2012. Tra alcuni rilevanti interventi, si deve tuttavia segnalare una certa confusione ancora persistente sulla portata del diritto fondamentale alla salute (ex art. 32 della Costituzione) e sul fraintendimento del potere/dovere di cura dei sanitari, che è ad esempio rinvenibile nel contributo di Dell’Erba, Prevenzione e gestione dell’esposizione al rischio clinico, in Aa. Vv., cit., 153 s. Cfr., infine, per un caso di “inappropriatezza informativa”, caratterizzata da over information, Paternoster et. al, L’over information al paziente come sintomo di medicina difensiva. Un caso emblematico, in Aa. Vv., cit., 211 s.

24

Cfr. Bellini, Overtreatment e overdiagnosis. Rivisitazione dell’inappropriatezza, in Politiche Sanitarie, XIV, 2013, 226 ss. 25

In riferimento a casi c.d. di sovradiagnosi nei pazienti con malattie neurologiche degenerative, ad esempio, si rinvia alle attività del Gruppo di Studio in Bioetica e Cure Palliative della Società Italiana di Neurologia; sul punto, cfr. Tarquini et. al., Malattia di Alzheimer: la diagnosi tra ricerca, prassi clinica ed etica, in Recenti Progressi in Medicina, VII, 2017, 295 ss. 26

27 Per diversificati contesti e casi differenziati caratterizzati da “overtreatment”, cfr., ad esempio, Esserman, Thompson, Reid, Overdiagnosis and Overtreatment in Cancer. An Opportunity for Improvement (2013) 8 JAMA 797 s.

Cfr. Fiori, Marchetti, Medicina legale della responsabilità medica: nuovi profili, Milano, 2009, 364. 28

29 Uno degli ambiti ritenuti, oggi, maggiormente problematici per quanto riguarda le procedure informative per il necessario consenso ai trattamenti, oltre a quello oncologico, è il contesto delle cure palliative. Sul punto, si rinvia, ad esempio, a Pasquino, Le cure palliative nel prisma del diritto alla salute dei malati terminali, in questa Rivista, 2017, n. 1, 79 ss.; cfr. anche Morino et. al., Il consenso informato in cure palliative. Raccomandazioni della Sicp, 2015, consultabile all’indirizzo www.sicp.it. Cfr. anche Borsellino, Malattia a prognosi infausta e responsabilità del medico: considerazioni su due recenti sentenze della Corte di cassazione, in Riv. it. cure pall., IV, 2014, 45 ss.

Sul punto, cfr. Corte cost. n. 408/2008 consultabile all’indirizzo www.cortecostituzionale.it. 30

Cfr., ad esempio, Miotto, Pazienti terminali, ritardi diagnostici e danni risarcibili, in Dir. civ. contemp., IV, 2015, consultabile all’indirizzo www.dirittocivilecontemporaneo. com. 31

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4. Scelte giuste e appropriate per salute e sanità: alcuni significativi interventi delle Corti Il quadro fin qui delineato ci consente di formulare alcune osservazioni. Sul piano dei principi, la giustizia delle scelte per la salute dei singoli e per l’allocazione delle risorse sanitare è possibile laddove sia messa in atto, contemporaneamente, una politica volta a dare concretezza all’autodeterminazione circa le cure. Il primo elemento ineludibile da evidenziare è la necessità di individuare scelte appropriate, attraverso un’informazione veritiera, esaustiva e puntuale nei confronti del paziente. Possiamo affermare, inoltre, che la messa in atto di processi comunicativi/informativi adeguati e l’individuazione di azioni terapeutiche appropriate non sono solo opzioni rispettose dell’autonomia dei pazienti, ma si caratterizzano per essere anche improntate al principio di giustizia. Una politica sanitaria tesa a dare co-primarietà ai principi di autodeterminazione nelle scelte di salute e alla giustizia diventa una politica approvabile, da preferire, in senso lato, giusta. È “giusta” anche perché le scelte compiute saranno non solo improntate alla messa in atto del principio di giustizia, ma saranno anche decisioni e azioni secundum ius. A supportare questo argomento si possono ricordare alcuni interventi della Corte di Cassazione. Si può infatti ricordare che, su questi aspetti, la Corte di Cassazione civile è intervenuta negli ultimi anni. Ad esempio, la sentenza del 20 agosto 2015 n. 1699332 ha sottolineato il collegamento tra appropriatezza clinica e doveri informativi. In questa pronuncia la Cassazione ha precisato che una omessa o ritardata comunicazione della diagnosi di una patologia ad esito infausto33 lede il diritto

32 Cfr. il testo della sentenza della Cass., 20.8.2015, n. 16993, in Riv. it. cure pall., 2015. Sul punto, si può consultare l’indirizzo www.ricp.it.

Nel caso oggetto della sentenza richiamata il medico è stato ritenuto responsabile per una tardiva, e dunque non appropriata, comunicazione di carcinoma all’utero di una paziente. 33

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fondamentale del paziente di poter scegliere se e a quali trattamenti sottoporsi perché, se anche «non si può risolvere il processo morboso»34, il paziente ha in ogni caso diritto a scegliere, laddove possibile, modalità adeguate per alleviare sofferenze e dolore, accedendo tempestivamente, ad esempio, alle cure palliative. Accanto a questa, rileva menzionare anche un’altra sentenza della Cassazione civile, la n. 343 del 13 gennaio 201635. Il caso in esame ha riguardato la responsabilità del medico che ha ritardato di sei mesi la diagnosi di patologia tumorale, che ha comportato un aggravio complessivo della situazione della paziente, la quale ha dovuto subire poi un intervento chirurgico più radicale ed invasivo rispetto a quello inizialmente ipotizzabile. I giudici hanno sancito in capo al medico una responsabilità risarcitoria, per il fatto che l’individuazione e la comunicazione tardiva della diagnosi hanno condizionato negativamente tutto il processo di cura, fino alla necessità di effettuare un intervento più gravoso36. Oltre ad essere un esempio di riconosciuta responsabilità per omessa e tardiva comunicazione al paziente, ci si può domandare se, in una certa misura, la sentenza richiamata possa essere considerata, latu sensu, anche un esempio di decisione volta a censurare condotte che possono tradursi in overtreatment. Una risposta positiva è possibile, per almeno due ragioni. In primo luogo, perché è stata inizialmen-

Cfr. testualmente la sentenza della Cass., n. 16993/2015, cit. 34

35 Cfr. il testo della sentenza Cass., 13.1.2016, n. 343, consultabile in www.personaedanno.it. 36 Il caso ha riguardato una paziente a cui è stato diagnosticato con grave ritardo un linfoadenocarcinoma e che per alcune settimane è stata trattata solo con terapia antibiotica e antinfiammatoria, terapia inizialmente prescritta durante un colloquio telefonico, a cui non è seguita una tempestiva visita del medico. Non essendo risolutiva la terapia prescritta, solo dopo ulteriori accertamenti, a diversi mesi di distanza, il medico ha diagnosticato la patologia tumorale, per la quale la paziente ha subito un intervento di linfoadenectomia ascellare radicale. Per un’analitica ricostruzione della vicenda e per la consultazione della motivazione della Corte di Cassazione, si rinvia al testo della sentenza, con particolare riguardo ai “Motivi della decisione”, Cass., n. 343/2016, cit.


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te prescritta, e per diverso tempo somministrata, una terapia antibiotica e antinfiammatoria, quando era invece ragionevole un diverso approccio, nel senso che la ritardata individuazione di una patologia tumorale, non indagata o curata attraverso altri interventi diagnostico-terapeutici mirati e adeguati, ha comportato l’aggravamento complessivo delle condizioni della paziente. In secondo luogo, perché proprio in ragione della gestione inappropriata della situazione, è stato impedito «un tempestivo intervento delle cure possibili, anche eventualmente palliative»37, che ha comportato il determinarsi di condizioni tali che hanno portato ad un intervento molto più invasivo e radicale, con il conseguente peggioramento delle sofferenze e della condizione in cui si è trovata la paziente. Adeguata informazione, appropriatezza e principio di giustizia rivestono un ruolo importante non solo ai fini della relazione tra operatori sanitari e paziente, ma anche, e specialmente in questi periodi di crisi economica e di spending review, in relazione alla gestione delle risorse in sanità. A dare conto del complesso intreccio nel quale sono coinvolte le nozioni di “giustizia allocativa” e di “appropriatezza”, oltre alle sentenze della Corte di Cassazione poco sopra ricordate, possiamo menzionare anche un altro intervento della giurisprudenza, con particolare riferimento alla Corte dei Conti, sezione Liguria. I giudici amministrativi, con la sentenza n. 98 del 201638, hanno portato attenzione all’appropriatezza quale criterio da impiegare anche rispetto alle scelte cliniche compiute in riferimento alle risorse a disposizione, oltre che con riguardo al fondamentale diritto alla salute dei pazienti. Il caso esaminato è stato considerato un caso emblematico di iperprescrizione, che ha portato al riconoscimento della responsabilità del sanitario per danni erariali. La contestazione della condotta del medico riguardava la prescrizione di un elevato numero

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di farmaci per singolo assistito, con conseguente numero di ricette pro capite39; elevati quantitativi di farmaci prescritti ad ogni paziente; elevata prescrizione di molecole costose; limitato utilizzo di farmaci non più coperti da brevetto; mancato rispetto delle note AIFA; mancato rispetto delle indicazioni terapeutiche previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio del farmaco e riportate nella scheda tecnica40. Nella sentenza sono stati evidenziati alcuni punti salienti. La Corte del Conti ha ribadito che, come peraltro ha ripetutamente ricordato anche la Corte Costituzionale41, ogni volta che si ha a che fare con le risorse sanitarie, poiché il medico agisce nell’ambito del Sevizio Sanitario Nazionale, sono in gioco due interessi costituzionalmente protetti che devono essere bilanciati: da un lato la tutela della salute degli assistiti e, dall’altro lato, il contenimento della spesa farmaceutica entro i limiti delle risorse finanziarie disponibili. Secondo i giudici, la prescrizione di farmaci impegna, quindi, non solo la diretta responsabilità clinico-scientifica ed etica del medico, che deve prescrivere il farmaco più adatto alla cura della malattia diagnosticata, secondo i principi di appropriatezza e di efficacia dell’intervento, ma anche la responsabilità del sanitario quale operatore pubblico, che deve «assicurare l’economicità del sistema e la riduzione degli sprechi, evitando un consumo farmacologico inadeguato, incongruo o sproporzionato»42. In particolare, la Core dei Conti ha stabilito che sono comportamenti non appropriati, sul piano dell’etica medica e della prassi clinica, e produt-

39 Al sanitario veniva contestato dalla Procura uno scostamento costante dalle prescrizioni della media individuata dalla Asl di riferimento tra il 24% e il 28%. 40 Cfr. come testualmente la sentenza della Corte dei Conti n. 98/2016, cit.

37 Cfr. come testualmente la sentenza della Cassazione, n. 343/2016, cit.

41 Tra le molte, cfr. sentenza della Corte Costituzionale, 2.4.2009, n. 94, consultabile sul sito www.cortecostituzionale.it Per una rassegna delle sentenze più significative delle Corti italiane sul tema del fondamentale diritto alla salute, cfr. Forni, La sfida della giustizia in sanità. Salute, equità, risorse, op. cit., 53 ss.

38 Cfr. la sentenza della Corte dei Conti, 18.3.2016, n. 98, consultabile all’indirizzo //servizi.corteconti.it/bds.

42 Sul punto, cfr. Cass. pen., 8.2.2001, n. 13315, consultabile all’indirizzo www.penalecontemporaneo.it.

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tivi di danno per la gestione pubblica, scelte prescrittive volte a utilizzare farmaci al di fuori delle indicazioni di carattere tassativo previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio e dalle note dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA)43 (c.d. iperprescrizione in senso lato), o tese a superare la posologia massima prevista dalla relativa scheda tecnica, o, ancora, qualora vi siano state prescrizioni una tantum di farmaci destinati, invece, esclusivamente alla cura di patologie croniche. Tutte queste modalità, sottolineano i giudici, violano i criteri deontologici e giuridici della appropriatezza, non solo sul piano clinico ed etico, ma anche dal punto di vista della gestione delle risorse pubbliche. Emerge una nozione di appropriatezza tesa senz’altro a ribadire una corretta impostazione della relazione di cura alla luce di principi etici e giuridici, ma anche orientata a considerare elemento caratterizzante della professione sanitaria l’uso ragionato e conforme a linee guida delle risorse a disposizione. La sentenza ha messo in rilievo che non è sufficiente che i farmaci individuati siano efficaci e appropriati riguardo alle patologie dei propri assistiti, ma che per integrare la nozione di appropriatezza in senso lato, che pare emergere, la prescrizioni/scelte diagnostiche individuate dai sanitari devono essere conformi anche a criteri di corretta gestione amministrativa, riconoscendo in capo ai sanitari, qualora questo non avvenga, una responsabilità, per colpa grave, di cattiva gestione delle risorse, e in quanto tale produttiva di danni (per le casse dello Stato). La condotta del medico è stata ritenuta contrassegnata da scelte non appropriate, rinviando ad una nozione ampia di appropriatezza, nella quale sono fatte rientrare anche le scelte relative alle prescrizioni effettuate; tale condotta è stata ritenuta ingiusta, pertanto, perché ritenuta sproporzionata, sia in relazione al diritto fondamentale alla

Saggi e pareri

salute degli assistiti, sia in riferimento alla (corretta) gestione delle risorse pubbliche.

5. Brevi osservazioni conclusive Nelle sentenze richiamate, si evidenzia una stretta connessione tra il fondamentale diritto alla salute, come prescritto dall’art. 32 della nostra Costituzione e la necessità di erogare cure secondo modalità giuste ed appropriate. In particolare, il collegamento rileva non solo rispetto alla salute quale fondamentale diritto di ciascuno a chiedere e ottenere adeguata assistenza sanitaria, ma anche in relazione alla dimensione di “interesse della collettività” che esso riveste44. Dagli interventi delle Corti emerge, infatti, in modo sempre più incisivo, il rilievo che condotte sanitarie che non tengano adeguatamente conto della rilevanza della giustizia nelle scelte allocative non solo danno luogo a decisioni non appropriate45, ma anche a situazioni che deteriorano la dimensione individuale di un diritto fondamentale. Inoltre, ne pregiudicano la valenza sociale diffusa, vale a dire l’interesse costituzionalmente protetto che riguarda la comunità nel suo complesso: si traducono, cioè, in scelte che inficiano la disponibilità e il godimento delle risorse sanitarie per tutti. Il principio di giustizia, l’appropriatezza clinico-terapeutica e i doveri informativi, così come vanno ridefinendosi nei più recenti orientamenti giurisprudenziali e interventi legislativi46, pongono operatori sanitari, giuristi, teorici, non meno

Cfr. art. 32 della Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». 44

Cfr. Cartabellotta, Il processo decisionale condiviso con il paziente riduce la spesa sanitaria? (2013) 5 Evidence. Open access journal, consultabile all’indirizzo www.evidence.it.

45

43 Modulistica, linee guida e interventi di politica sanitaria dell’Agenzia Italiana del Farmaco sono consultabili all’indirizzo www.agenziafarmaco.gov.it.

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46 Bisognerà infatti comprendere in quale misura andrà ad incidere su questi temi la responsabilità dei sanitari, così come è stata disciplinata nella legge n. 24 del 2017, Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, entrata in vigore lo scorso 1° aprile.


Appropriatezza delle cure e giustizia allocativa

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che le istituzioni chiamate a dettare linee di politica sanitaria, di fronte ad un orizzonte fino ad oggi ancora poco considerato. Mostrano senz’altro qualche ombra e destano un po’ di preoccupazione, se li si considera solo in relazione alla loro valenza economica; essi tuttavia danno conto anche di rilevanti luci e di potenzialità nuove, quando sono intesi come criteri a cui improntare le scelte di salute individuali e le opzioni del sistema sanitario, che devono tenere conto del buon uso di tutte le risorse (informative, economiche, di personale, amministrative etc.) per la salute dei cittadini e dell’impegno degli attori coinvolti per poter garantire cure giuste, appropriate, concrete ed effettive.

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g g sa re Strutture ospedaliere ed e pa Saggi e pareri Saggi e pareri

esercenti la professione sanitaria: il patto di manleva tra causa concreta e giudizio di meritevolezza Martina Flamini

Giudice del Tribunale di Milano Sommario: 1. Responsabilità della struttura sanitaria e responsabilità dell’esercente la professione sanitaria: cenni introduttivi. – 2. Le limitazioni convenzionali della responsabilità, l’art. 1229 c.c. e il patto di manleva. – 3. I requisiti del contratto di manleva. – 4. Il giudizio di meritevolezza. – 5. Considerazioni conclusive.

Abstract:

La struttura sanitaria ed il medico professionista stipulano un accordo in forza del quale il medico è tenuto a tenere indenne la struttura da tutte le conseguenze negative derivanti dall’esecuzione della prestazione sanitaria. Il contributo si occupa di esaminare gli elementi essenziali di tale accordo, con particolare riferimento allo scrutinio di meritevolezza del contratto atipico concluso tra le parti, alla luce delle previsioni contenute nella legge n. 24 dell’8 marzo 2017. The medical facility and the doctor shall conclude an agreement on the basis of which the doctor has to indemnify the medical facility from all adverse impact of the performance of the medical service. The essay examines the key elements of the contract, with particular reference to the judgment of worthwhileness of the atypical contract, with regard to the provision of the law n. 24 of the 8 march 2017.

1. Responsabilità della struttura sanitaria e responsabilità dell’esercente la professione sanitaria: cenni introduttivi Il tema dei limiti all’autonomia contrattuale nel settore della responsabilità sanitaria può essere affrontato solo all’esito di una breve disamina delle caratteristiche peculiari di un regime di responsabilità che, in ragione del diritto sotteso alle prestazioni che ne costituiscono l’oggetto – il diritto alla salute, che si connota per una dimensione privatistica ed una pubblicistica, per un profilo individuale ed un riflesso collettivo – e delle caratteristiche dei debitori (la struttura sanitaria e sociosanitaria, l’esercente la professione sanitaria), presenta natura, complessità e specificità tali da aver indotto la più attenta dottrina e la più avveduta giurisprudenza a discorrere di un vero e proprio sottosistema di responsabilità1, all’inter-

1

De Matteis, La responsabilità professionale del medico.

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no del quale gli elementi strutturali e funzionali dell’illecito (la colpa, la causalità, il danno, la prova) appaiono diacronicamente piegati ad un’esigenza che la giurisprudenza, ormai da tempo, avverte come sempre più pregnante: la tutela del soggetto debole del rapporto di cura. Va osservato, in premessa, come la struttura sanitaria, possa adempiere alle proprie obbligazioni solo ed esclusivamente in via “mediata”2, attraverso l’operato di un ausiliario/persona fisica, che esercita una professione protetta. La sua responsabilità, inoltre, si colloca al confine tra determinazioni di carattere terapeutico e scelte di ordine organizzativo e para-organizzativo, nelle quali si apprezza l’incidenza dell’organizzazione sul versante delle attività. Del tutto evidente, inoltre, è la particolarità costituita dal fatto che la prestazione sanitaria si inserisce, spesso, nel quadro dell’esercizio continuativo della professione, nel quale non può che apprezzarsi la distinzione tra l’esecuzione di un singolo atto medico (da parte del professionista) e la programmazione di una serie complessa di attività. Il breve cenno alle predette caratteristiche consente di sottolineare come la legge in materia di “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” (l. 8 marzo 2017, n. 24), distinguendo il regime di responsabilità della struttura da quello dell’esercente la professione sanitaria – che non ha “agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente” – , abbia preso atto delle distinzioni sopra sintetica-

Saggi e pareri

mente indicate, opportunamente differenziandone la disciplina. Con particolare riferimento al regime di responsabilità, non sembra inutile sottolineare come, all’art. 7 della l. n. 24/2017, sia stato inequivocamente disposto che la struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, risponde per un’obbligazione propria, sebbene il suo materiale adempimento postuli la necessità di avvalersi di ausiliari. Tale aspetto centrale, affermato da tempo nella giurisprudenza di legittimità3, appare di grande rilievo anche ai fini dell’esame del tema delle azioni di rivalsa (disciplinate dall’art. 9) e di regresso (che ha un ambito di applicazione molto circoscritto), dei limiti di tali azioni (e, in particolare, del limite costituito dal fatto che la regola di cui all’art. 2055 c.c., per operare, richiede la presenza di un concorso di colpa e di una responsabilità risarcitoria solidale che verrebbe meno in caso di rivalsa in forma integrale), nonché della disciplina pattizia attraverso la quale la struttura può riversare, in tutto o in parte, le conseguenze negative dell’esecuzione della prestazione sull’ausiliario.

2. Le limitazioni convenzionali della responsabilità, l’art. 1229 c.c. e il patto di manleva concluso tra la struttura e l’esercente la professione sanitaria La struttura sanitaria – debitrice – risponde dei fatti dolosi o colposi degli esercenti le professioni sanitarie dei quali si avvale nell’adempimento delle sue obbligazioni (art. 1228 c.c.)4. Dottrina e giurisprudenza hanno da tempo chiarito che la responsabilità è posta a carico del debitore a prescindere da qualunque profilo di colpa propria5,

L’art. 3 del d.l. n. 158/2012 tra passato e futuro della responsabilità medica, in Contr. e impr., 2014, I, 123 ss. Ciò che esclude la bontà di ogni ricostruzione, pur proposta recentemente in dottrina (Navarretta, L’adempimento dell’obbligazione del fatto altrui e la responsabilità del medico, in Resp. civ. e prev., 2011, 1453 ss.,) fondata sull’applicazione dell’art. 1180 c.c., nel solco dell’insegnamento di Nicolò, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, volta che la fattispecie normativa in parola ha, come suo imprescindibile presupposto, la speculare ed alternativa possibilità di adempiere tanto per il debitore principale quanto per il terzo interveniente. 2

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Cfr. tra le tante, Cass., 13.4.2007, n. 8826; Cass., 8.10.2008, n. 24791; Cass., sez. un., 1°.1.2008, n. 577; Cass., 14.7.2004, n. 13066.

3

Cfr. Cass., 13.11.2015, n. 23198; Cass., 22.9.2015, n. 18610; Cass., 13.4.2007, n. 8826.

4

Cfr. Visintini, La responsabilità contrattuale per fatto degli ausiliari, Padova, 1965; Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, nel Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979; Galgano, Diritto civile e commerciale, Padova, II, 5


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Il patto di manleva

atteso che ciò che rileva, ai fini della responsabilità del debitore, è l’inserimento dell’attività dell’ausiliario nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio. La citata disposizione, fa salva, peraltro, la “diversa volontà delle parti”. Un’indagine sul possibile contenuto di tale volontà e, più specificamente, sugli accordi presi tra il debitore ed il suo ausiliario, appare di specifico interesse alla luce dell’espansione crescente di pattuizioni, nel settore della responsabilità medica, che tendono a riversare su una delle due parti le conseguenze derivanti dalla responsabilità dell’altro soggetto. Ci si riferisce, in particolare, alle clausole contenute nei contratti sottoscritti tra il professionista e la struttura sanitaria, in forza delle quali il primo si obbliga a tenere indenne la struttura da tutte le conseguenze negative derivanti dall’adempimento della prestazione sanitaria (e, contestualmente, si obbliga a stipulare un contratto di assicurazione per l’attività professionale). Occorre, dunque, individuare i confini entro i quali possa ritenersi lecito che le parti incidano sulla disciplina della responsabilità, modificandone gli effetti sul piano soggettivo secondo regole diverse da quelle di legge6. Il contenuto di siffatti accordi esula dal campo di applicazione dell’art. 1229 c.c., disposizione volta, essenzialmente, alla tutela delle ragioni del creditore. Non pare inutile sottolineare, infatti, che i patti che preventivamente impediscono il sorgere del diritto al risarcimento o alterano le regole che determinano l’entità della prestazione dovuta sono validi solo entro i limiti della colpa lieve, e nulli, invece, se l’esonero o la limitazione concerne una condotta caratterizzata da colpa grave o da dolo7. Nell’ipotesi di cui all’art. 1229 c.c., il

2004; D’adda, Responsabilità per fatto degli ausiliari, in Commentario Gabrielli, Torino, 2013, sub art. 1228. Per un’ampia ed approfondita disamina del contenuto dell’art. 1229 c.c.: cfr. Delogu, Le modificazioni convenzionali della responsabilità civile, Padova, 2000.

6

Per una definizione di “patti modificativi della responsabilità”, cfr. Cass., 5.2.1971, n. 280, ove si legge che “la responsabilità è la soggezione a quella reazione che l’ordinamento giuridico o il contratto ricollegano ad un comportamento contrario 7

divieto ha ad oggetto quei patti che consentono al debitore di andare esente da ogni responsabilità nei confronti del creditore, così alterando in radice l’equilibrio contrattuale a vantaggio di una delle due parti8. Nel patto di manleva, invece, un soggetto s’impegna a sollevare la controparte dalle eventuali conseguenze patrimoniali dannose derivanti da un determinato evento o dal fatto di uno delle due parti o di terzi9, ed ha, dunque, per contenuto, l’obbligo di tenere indenne il debitore dalle conseguenze di un fatto dannoso. Si tratta di un contratto atipico, ex art. 1322, secondo comma, c.c., che persegue interessi astrattamente non immeritevoli di tutela in quanto, con esso, si trasferiscono le conseguenze risarcitorie dell’inadempimento in capo ad un altro soggetto, che garantisce il debitore della prestazione risarcitoria (i.e., la struttura), obbligandosi a tenerlo indenne dalla pretesa creditoria10. La legittimità di

alle norme del contratto stesso o della legge: e quindi, perché una clausola possa dirsi esclusiva o limitativa della responsabilità contrattuale, occorre che essa stabilisca che, qualora il contraente non adempia puntualmente alla prestazione promessa, egli non incorrerà, o incorrerà solo limitatamente nelle sanzioni conseguenti alla sua inadempienza”. Per un’ipotesi di nullità ex art. 1229 c.c., cfr. Trib. Milano, 24.7.2017, n. 8242, ove il giudice ha dichiarato la nullità del patto stipulato tra struttura e paziente, in forza del quale la casa di cura si esonerava da responsabilità per fatti e danni derivanti alla paziente per effetto dell’attività dei medici che materialmente avevano eseguito la prestazione.

8

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha da tempo affermato la astratta validità del patto di manleva in forza del quale “il debitore riversi su altri, che vi abbia un interesse patrimoniale, gli oneri derivanti dalla propria responsabilità, non essendo esso in contrasto con alcun principio generale del vigente ordinamento, né, in particolare, con la ratio dell’art. 1229 c.c., diretto a proteggere il creditore danneggiato, il quale, anzi, è da questa clausola tutelato”: così, Cass., 2.11.1988, n. 6267 (cfr. anche Cass., 8.3.1980, n. 1543).

9

10 A tal proposito, si veda Cass., 8.3.1980, n. 1534; Cass., 30.5.2013, n. 13613; Trib. Roma, 12.4.2017, n. 7423. La fattispecie negoziale “tipica” più prossima al patto di manleva pare quella dell’accollo cd. interno o semplice, pur con le innegabili differenze morfologiche che non consentono una perfetta identificazione tra i due istituti. L’accollo interno, difatti, è una conseguenza (soltanto eventuale) del diniego di adesione, da parte del creditore, alla stipulazione predisposta in suo favore dall’accollato (debitore) e dall’accollante (terzo rispetto al rapporto principale), adesione cui è fun-

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tale contratto atipico, pertanto, deve essere valutata in relazione alle disposizioni di legge eventualmente limitative dell’autonomia privata e, con specifico riferimento al ruolo del giudice, al vaglio di meritevolezza.

3. I requisiti del contratto di manleva Il patto di manleva non richiede la forma scritta per il suo perfezionamento e può, dunque, concludersi per effetto del solo consenso dei contraenti, manifestato per facta concludentia. L’oggetto del contratto deve, ai sensi dell’art. 1346 c.c., essere determinato o determinabile. In primo luogo, dunque, occorre verificare se la previsione di un obbligo di tenere indenne da responsabilità la struttura sanitaria per tutte le prestazioni mediche rese dal professionista sia sufficiente per individuare il comportamento idoneo ad attivare il rapporto di manleva. A tal proposito, non può essere trascurato il fatto che si tratta di prestazioni il cui contenuto varia sensibilmente in ragione delle modalità attraverso le quali esse sono destinate ad essere adempiute (si pensi agli interventi chirurgici effettuati in equìpe o, ancora, all’indubbia incidenza della programmazione di turni di lavoro particolarmente gravosi). Ed appare poi indispensabile, al fine dell’indagine relativa all’oggetto del patto, precisare che si tratta di comportamenti i cui effetti negativi potrebbero verificarsi a distanza di molti anni, con conseguenze patrimoniali difficilmente determinabili a priori11. Particolarmente rilevante risulta, infine, l’esame dell’ultimo requisito del contratto di manleva.

zionalmente destinata la stipulazione stessa, mentre il patto di manleva è destinato a restare ab initio circoscritto al solo rapporto debitore-garante (sull’accollo inteso come stipulazione a favore di terzo, funditus, Cicala, Saggi, Napoli, 1969, 81 ss.; Rescigno, Studi sull’accollo, Milano, 1958, 20). 11 Cfr., con riferimento alla necessità di una previsione di un importo massimo garantito, Cass., 26.1.2010, n. 1520, nella quale la Suprema Corte ha precisato che, nel disposto dell’art. 1938 c.c., come novellato dalla l. 17 febbraio 1992, n. 154, può essere ravvisato un principio di carattere generale.

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Saggi e pareri

La causa, quale elemento essenziale del negozio, ex art. 1325 c.c., ne individua la ragione pratica, la sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare (la c.d. causa concreta12) quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato. L’indagine sulla causa va, dunque, svolta non in astratto, ma in concreto, al fine di verificare la conformità alla legge dell’attività negoziale posta in essere dalle parti e, quindi, la riconoscibilità della tutela apprestata dall’ordinamento giuridico13. Nei contratti atipici – nei quali non è ravvisabile un modello legale di “tipo” negoziale14 – la valutazione della funzione perseguita dai paciscenti deve operarsi, a più forte ragione, solo in concreto, rispetto al reale assetto di interessi divisato dalle parti, valutazione che necessariamente dovrà rispondere non solo a criteri di liceità, ex art. 1343 c.c., ma, in via prioritaria, al criterio di meritevolezza di cui all’art. 1322, comma 2°, c.c. Occorre, dunque, verificare la natura dell’interesse sotteso alla stipulazione del patto, concluso tra la struttura ospedaliera e l’esercente la professione sanitaria, attraverso il quale il professionista sollevi la prima dalla responsabilità che possa derivare, in futuro, dall’esecuzione della prestazione medica. In tal guisa, la causa potrebbe essere ravvisata nell’interesse della struttura, la quale mette a disposizione del professionista un’organizzazione di mezzi e di persone altamente qualificata, ad essere tenuta indenne dai rischi connessi all’esecuzione del singolo atto medico, là dove il professionista si giova, specularmente, dell’organizzazione predetta. Ancora, il patto di manleva potrebbe soddisfare l’esigenza di evitare lunghe e complesse dispute relative all’individuazione di profili di responsabilità che, proprio in ragione della particolare natura delle prestazioni sanitarie, potrebbero presentarsi di difficile soluzione.

12 In tal senso, per la prima volta espressamente, e con un radicale revirement rispetto alla tradizionale costruzione giurisprudenziale della causa negoziale, Cass., 8.5.2006, n. 10490, pubblicata in tutte le maggiori riviste specializzate. 13

Cfr. Cass., 8.5.2006, n. 10490; Cass., 12.11.2009, n. 23941.

Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966. 14


Il patto di manleva

4. Il giudizio di meritevolezza Lo stretto legame tra giudizio di meritevolezza e autonomia privata appare evidente dalla lettura del disposto dell’art. 1322 c.c.15, ove la clausola generale sulla meritevolezza dell’interesse viene collocata nella disposizione che permette alle parti di concludere contratti “che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare”. Da tempo è stato ormai chiarito che l’autonomia negoziale non può essere disancorata dalla natura degli interessi sui quali una data disposizione è destinata ad incidere16. E poiché ogni interesse è correlabile ad un valore, attraverso l’analisi degli interessi si dovrà individuare quali, fra essi, estrinsechino valori che hanno nella Carta costituzionale il loro riconoscimento e la loro tutela17. Il controllo di meritevolezza degli interessi deve essere condotto, in particolare, alla stregua dell’art. 2 Cost., il quale tutela i diritti inviolabili dell’uomo e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. L’osservanza del rispetto dei limiti posti all’autonomia privata è demandato al giudice (nell’esercizio di un potere officioso attribuito dalla legge), che non può riconoscere la legittimità del diritto fatto valere, se esso si fonda su un accordo il cui contenuto non sia conforme alla legge ovvero sia

Nella relazione al codice civile, n. 603, si legge: “L’autonomia del volere non è sconfinata libertà del potere di ciascuno, non fa del contratto un docile strumento della volontà privata; ma se legittima nei soggetti un potere di regolare il proprio interesse, nel contempo impone ad essi di operare sempre sul piano del diritto positivo, nell’orbita delle finalità che questo sanzione e secondo la logica lo governa”. 15

La letteratura, in argomento, è pressoché sterminata. A titolo soltanto esemplificativo si ricordano, tra gli altri, Bianca, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 1987; Carresi, Il contenuto del contratto, in Riv. dir. civ., 1963, I, 365; Castronovo, Autonomia privata e Costituzione europea, in Eur. e dir. priv., 2005, 29 ss.; Cataudella, Sul contenuto del contratto, Milano, 1966; Ferri, ibidem; Irti, L’oggetto del negozio giuridico, in Noviss. Dig., Torino, 1965, XI, 799 ss.; Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 2006; Roppo, Il contratto, nel Trattato Iudica-Zatti, Milano, 2001; Sacco, De Nova, Il contratto, nel Trattato Rescigno, II, Torino, 1995. 16

17

In questi termini, Cass., 19.6.2009, n. 14343.

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diretto a realizzare interessi che non appaiono meritevoli secondo l’ordinamento giuridico18. Il patto di manleva concluso tra la struttura privata ed il professionista, con il quale quest’ultimo, in via preventiva e senza individuazione di limiti relativi alla tipologia di attività ed all’entità del danno risarcibile, si vincola tout court ad assumere l’obbligo di sollevare l’altra parte dalle eventuali conseguenze patrimoniali dannose derivanti dall’attività svolta in favore dei terzi (i pazienti che si rivolgono alla struttura e che, con essa, stipulano il contratto cd. “di spedalità”) si caratterizza per un evidente squilibrio in favore della struttura e per un’attribuzione ad una sola delle parti di un vantaggio apparentemente sproporzionato e senza contropartita (in assenza, cioè, di un apprezzabile interesse, anche non patrimoniale, ex art. 1174 c.c., del promittente) per il sanitario. Ai fini dello scrutinio di meritevolezza – che non potrà non tenere in considerazione il fatto che il professionista, nel momento in cui sottoscrive un patto di manleva con la struttura, si trova in un’indubbia condizione di “debolezza”

18 Cfr. Cass., 28.4.2017, n. 10509, che ha ritenuto nulla, perché immeritevole di tutela, la clausola claims made, inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile stipulato da un’azienda ospedaliera, per effetto della quale la copertura sarebbe stata prestata solo se tanto il danno causato dall’assicurato, quanto la richiesta di risarcimento formulata dal terzo, fossero avvenute nel periodo di durata dell’assicurazione (decisione pronunciata nel solco dei principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza del 6 maggio 2016, n. 9140); Cass., sez. un., 17.2.2017, n. 4222, che ha ritenuto “immeritevole” la clausola, inserita in una concessione di derivazione di acque pubbliche, che imponeva al concessionario il pagamento del canone anche nel caso di mancata fruizione della derivazione per fatto imputabile alla pubblica amministrazione concedente, per contrarietà al principio di cui all’art. 41, comma 2, Cost.; Cass., 10.11.2015, n. 22950, che ha ritenuto immeritevole di tutela il contratto finanziario che attribuiva alla banca vantaggi certi e garantiti, mentre al risparmiatore non veniva garantita alcuna certa prospettiva di lucro; Cass., 8.2.2013, n. 3080, che ha definito “immeritevole” il contratto atipico stipulato tra farmacisti - in virtù del quale gli aderenti si obbligavano a non aprire al pubblico il proprio esercizio commerciale nel giorno di sabato - in quanto contrastante con la “effettiva realizzazione di un assetto concorrenziale del mercato”; Cass., 19.6.2009, n. 14343, sull’immeritevolezza della clausola contrattuale che vietava al conduttore di ospitare stabilmente persone non appartenenti al suo nucleo familiare, in quanto contrastante coi doveri di solidarietà.

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contrattuale – occorrerà, dunque, verificare se il predetto squilibrio è compensato da un corrispondente vantaggio in favore del professionista. Nel contratto in esame, infatti, l’indagine sul giudizio di meritevolezza deve essere compiuta tenendo in considerazione che l’interesse (meritevole di tutela per l’ordinamento) non può che essere scrutinato con riferimento ad entrambe le parti (e, con particolare rigore, con riferimento alla parte “più debole” del rapporto contrattuale).

5. Considerazioni conclusive Le caratteristiche delle parti che concludono il contratto di manleva, le prestazioni che costituiscono l’oggetto delle obbligazioni, la natura solidale delle obbligazioni risarcitorie gravanti sul professionista e sulla struttura sanitaria costituiscono elementi che rendono del tutto peculiare lo scrutinio sulla meritevolezza del contratto atipico in esame. Tale vaglio non può, inoltre, non considerare le indicazioni poste dalla l. n. 24/2017. In particolare, il legislatore del 2017, attraverso l’espressa affermazione della responsabilità contrattuale delle strutture (a tutela dei pazienti danneggiati) per i danni derivanti dallo svolgimento dell’attività sanitaria, la previsione del limite del dolo o della colpa grave per la rivalsa (cfr. art. 9) e la distinzione dei titoli di responsabilità dei soggetti potenzialmente corresponsabili del danno derivante dall’esercizio dell’attività sanitaria – disponendo, all’art. 7, che il professionista risponde ai sensi dell’art. 2043 c.c. –, ha delineato i confini di sistema di una responsabilità che vedrà come parti contrapposte, nella generalità dei casi (e sempre che i pazienti non abbiano concluso un contratto d’opera intellettuale con il professionista) la struttura ed il paziente danneggiato. All’art. 10, infine, è stato espressamente previsto l’obbligo della struttura di stipulare polizze assicurative (o di adottare altre analoghe misure) in favore degli esercenti le professioni sanitarie che operano presso la stessa. Tali indicazioni non possono non rappresentare dei limiti oggettivi all’autonomia contrattuale delle parti nella previsione di forme di trasferimento convenzionale delle conseguenze risarcitorie dell’inadempimento dalla struttura, contrattualmente responsabile, al medico professionista, Responsabilità Medica 2017, n. 4

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responsabile solo a titolo extracontrattuale. Attraverso la conclusione del contratto di manleva, infatti, le parti potrebbero, seppure indirettamente, vanificare il regime del c.d. doppio binario, poiché il professionista, responsabile ex art. 2043 c.c., tornerebbe, in virtù delle previsioni del contratto di manleva, a rispondere, sia pur effetto del patto, e nell’ambito di un rapporto interno di garanzia medico-struttura, in via “mediatamente” contrattuale, in tal modo disegnando un assetto finale di interessi contrario alla ratio ed alle indicazioni poste dalla l. n. 24/2017. Gli elementi appena tratteggiati – alla luce della diffusione sempre crescente di previsioni contenenti accordi di manleva – non potranno non essere considerati, anche d’ufficio, dal giudice, allo scopo di valutare l’eventuale invalidità del contratto. Tanto è a dirsi sia nel caso in cui la convenzione negoziale di manleva sia stata oggetto di una qualsiasi azione di impugnativa negoziale19, sia se, in relazione ad essa, sia stata proposta domanda di adempimento20 da parte del soggetto garantito dal patto: la rilevabilità d’ufficio di una nullità negoziale in seno ad un procedimento che tragga origine da una domanda di adempimento deve, difatti, ritenersi implicita quanto inequivoca conseguenza dei principi affermati dalle sezioni unite, con le sentenze n. 26242 e n. 26243/2014, nella parte in cui, con esse, viene esaminata e risolta funditus la complessa e dibattuta tematica dell’oggetto del processo (e dell’oggetto del giudicato), che viene identificato con (il negozio e) il rapporto sostanziale dedotto in giudizio, onde evitare la frammentazione delle azioni in un’ottica di concentrazione, effettività e definitività della tutela giurisdizionale.

Cass., sez. un., n. 26242 e n. 26243/2014, pubblicate in tutte le maggiori riviste specializzate. 19

Cfr. Cass., 22.3.2005, n. 6170, ove si afferma – dopo aver ribadito che nullità deve esser rilevata d’ufficio nella causa di adempimento – che: “La validità del contratto, di conseguenza, si pone come pregiudiziale sia delle domande di adempimento o di esecuzione, sia di quella di annullamento il cui potere, o inesistenza di potere, in quanto abbia fonte in un contratto valido, inerisce alla stessa domanda di annullamento proposta, non diversamente da quella di adempimento”. 20


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La legge Gelli-Bianco e la sua «drammatica incompatibilità logica»

g g sa re e a p

Fabio Cembrani

Direttore U.O. di Medicina legale, Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento Sommario: 1. Premessa. – 2. Su alcuni snodi concettuali problematici della nuova legge sulla responsabilità professionale. – 3. Le prime spallate inferte alla legge Gelli-Bianco dalla Corte regolatrice. – 4. Conclusioni.

Abstract:

L’autore riflette sugli snodi critici della nuova legge di riforma della responsabilità medica (legge Gelli-Bianco). E lo fa a partire dall’opera di concretizzazione del nuovo statuto penale della colpa professionale fatta dalla giurisprudenza di legittimità; evidenziandone le diverse linee interpretative e quali sono i pericoli derivanti da una non lettura costituzionale della norma. The author reflects on the new law reform critical joints medical liability (law Gelli-white). And it does so from the opera where the new Statute of criminal-law professional malpractice made by legitimacy; highlighting the different lines of interpretation and what are the dangers of a constitutional reading not the norm.

1. Premessa La nuova legge sulla responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie (oramai conosciuta, da tutti, come legge Gelli-Bianco dal nome dei parlamentari relatori che sono due medici dell’attuale maggioranza di Governo) è stata approvata ed accolta con pareri contrastanti. Accanto agli (alme-

no iniziali) entusiastici plausi mediatici culminati nella raccolta di moltissime firme in una petizione pubblica promossa su un notissimo Quotidiano on line che chiedeva di velocizzare l’iter della sua approvazione per ridurre il contenzioso medico e ridurre i costi pubblici della medicina difensiva, la dottrina ha, infatti, espresso forti e ripetute riserve al punto tale che qualche acutissimo osservatore si è spinto ad affermare che questa legge «cambierà la medicina in peggio», con il rischio che essa, addirittura, potrà arrivare a scardinarne i suoi fondamentali connotati ippocratici1. Queste riserve (numericamente inferiori rispetto all’ampia schiera dei sostenitori della legge) sono rimaste, però, inascoltate al punto tale che ogni intervento pubblico critico, effettuato da chi di noi ha un minimo di dimestichezza con i problemi clinici della quotidianità, è stato sommariamente cestinato con la robusta affermazione che esso rappresentava una tra le tante espressione dell’italica abitudine di criticare, senza costrutto, tutto

1 Così Cavicchi, Linee guida e buone pratiche. Limiti, aporie, presagi, in Ventre (a cura di), Linee guida e buone pratiche. Implicazioni giuridiche e medico-legali. Cosa cambia nella sanità, raccolta degli atti di un Convegno tenutosi a Trieste, in www.quotidianosanità.it, 12 gennaio 2017.

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ed il contrario di tutto. Anche se le obiezioni, che pur alcuni di noi hanno responsabilmente mosso quando la nuova legge era ancora in discussione, erano ben motivate sul piano argomentativo e della robustezza giuridica, nonostante esse si sforzassero di eludere il quesito posto soprattutto dai medici i quali chiedevano (e continuano a chiedere, in tutti i dibattiti pubblici) se il nuovo perimetro dell’irresponsabilità penale, rispetto alla precedente riforma del 2012, è più o meno favorevole o, per dirla in termini più tecnici, qual è realmente l’ampiezza dello scudo protettivo della non punibilità della legge Gelli-Bianco. Un quesito che, con il senno del poi, abbiamo liquidato sommariamente per la sua stucchevolezza e per l’evidenza delle cose; trascurando, però, le preoccupazioni dei professionisti ad esso sottese che avremmo dovuto saper cogliere e, molto probabilmente, banalizzando la risposta che, pur nella sua ovvietà, è stata poi messa in tensione dal vaglio della giurisprudenza di merito che si è subito formata dopo l’approvazione della legge.

2. Su alcuni snodi concettuali problematici della nuova legge sulla responsabilità professionale Sappiamo che la responsabilità dei professionisti della salute rispetto ai delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose ha, nel nostro Paese, attraversato molte complicate stagioni e che essa è stata oggetto, nel giro di pochi anni, di due riforme: quella operata dalla legge 8 novembre 2012, n. 158 (nota come decreto Balduzzi) e quella più recente realizzata dalla legge Gelli-Bianco. In brevissima sintesi, la prima riforma aveva dato luogo ad una parziale abolitio criminis della responsabilità colposa di questi professionisti, meglio precisato il contenuto delle regole di diligenza cautelare (o delle leggi dell’arte) ed escluso la rilevanza penale della colpa lieve rispetto a quei comportamenti lesivi realizzati in modalità coerente con le linee guida e con le buone pratiche clinico-assistenziali, purché accreditate dalla comunità scientifica: la cui osservanza costituiva uno scudo protettivo contro istanze punitive ingiustificate cosicché il rispetto delle leggi dell’arte contenute in questo ricco patrimonio della comunità scientifica poteva Responsabilità Medica 2017, n. 4

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essere rimproverabile solo nel caso di una loro grave violazione anche se la giurisprudenza di legittimità ha poi mostrato qualche titubanza nel caratterizzare le seconde per l’indeterminatezza che su di loro ancora esiste a livello internazionale. Quella prima riforma aveva così riportato a galla la distinzione tra la ‘culpa levis’ e la ‘culpa lata’ presente in molte legislazioni europee e già in parte oggetto di approfondimento da parte della Consulta (sent. n. 166/1973)2 anche se con una incomprensibile mancanza di qualificazione della prima. La qual cosa ha così costretto la giurisprudenza di legittimità formatasi dopo la sua approvazione ad uno sforzo interpretativo sicuramente non semplice, testimoniato dalla sua progressiva e graduale evoluzione3 nell’opera di effettiva concretizzazione del nuovo statuto della colpa professionale. A nemmeno cinque anni di distanza dalla sua approvazione, quella prima riforma è stata spazzata via dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 recante “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” e, più in particolare, dall’art. 6 della stessa che ha introdotto l’art. 590-sexies c.p. (rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”): «Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche

Con questa sentenza era stata esclusa la violazione del principio di eguaglianza nella possibile applicazione in sede penale dell’art. 2236 c.c., riferendone l’operatività ai soli casi in cui la prestazione professionale comportasse la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, contenuta quindi nel circoscritto terreno della perizia.

2

A partire da Cass., 24 gennaio 2013, n. 11493. Si veda Cupelli, La colpa lieve del medico tra imperizia, negligenza e imprudenza: il passo in avanti della Cassazione (e i rischi della riforma alle porte), in Diritto penale contemporaneo, 27 giugno 2016. 3


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clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Con la conseguenza che quest’ultima riforma ha nuovamente cambiato il perimetro dell’irresponsabilità penale del medico con una rifondazione completa della disciplina della responsabilità professionale oggi circoscritta ai soli reati di omicidio e di lesioni personali colpose causate da un comportamento imperito, indipendentemente da quella graduazione della colpa sulla quale, in questi anni, si era molto concentrata la giurisprudenza di legittimità per definirne i non semplici aspetti del suo perimetro. Peraltro, la novità introdotta dall’art. 6 della nuova legge deve essere analizzata in relazione a quanto previsto dall’art. 5 della medesima il quale, a sua volta, prevede che «gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale» ed ancora che in «mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali». Provando a riassumere: l’irresponsabilità penale non riguarda qualsivoglia attività sanitaria in senso lato bensì i soli atti medici di natura diagnostica, preventiva, curativa, riabilitativa, palliativa e di medicina legale produttivi di una lesione personale o causativi la morte della persona in relazione a comportamenti imprudenti o negligenti, agiti od omessi in violazione delle raccomandazioni contenute in quelle guidelines che saranno elaborate dagli Enti e dalle istituzioni pubbliche o dalle Società scientifiche o dalle Associazioni tecnico-scientifiche purché regolarmente iscritte in un apposito elenco nazionale o, in loro mancanza, nelle bestpractice clinico-assistenziali per le quali

l’art. 3 della legge prevede la costituzione di un apposito Osservatorio nazionale. Con la conseguenza che la legge Gelli-Bianco ha stabilito l’irrilevanza penale di quei comportamenti colposi rispettosi delle buone pratiche clinico-assistenziali e delle linee guida nazionali, per come le stesse saranno definite, fatte emergere e periodicamente aggiornate ai sensi di legge4. Essa, facendo però menzione alla sola imperizia, ha così ghigliottinato quel fecondo orientamento giurisprudenziale «per il quale la colpa lieve nell’attenersi a linee guida importa la non punibilità anche nelle ipotesi di negligenza e imprudenza»5: un’esecuzione sommaria che, pur colta dagli interpreti più attenti, non è stata però appieno compresa nei suoi effetti negativi dai professionisti della salute, nemmeno ai loro massimi livelli, visto il plauso entusiastico che ha accompagnato l’approvazione della legge. E che occorre cogliere nei suoi effetti pratici riflettendo sul fatto che la legge Balduzzi nulla diceva a proposito di quali tipologie di colpa generica potevano e meno «rientrare nel beneficio della irresponsabilità per colpa lieve»6. Anche se sulla questione si erano nel tempo formati alcuni orientamenti: da una parte quello che limitava l’irresponsabilità alle sole condotte imperite affermando che le guidelines e le bestpratice offrono raccomandazioni ed indicazioni di carattere generale ricadenti nella sola perizia del professionista; dall’altra quello che ha, invece, ritenuto che l’ombrello protettivo della legge Balduzzi potesse applicarsi anche a queste ipotesi di colpa

Cfr., Cupelli, L’eterointegrazione della legge Gelli-Bianco: aggiornamenti in tema di linee guida certificate e responsabilità penale in ambito sanitario, in Diritto penale contemporaneo, 31 ottobre 2017.

4

5 Cfr., Piras, La riforma della colpa medica nell’approvanda legge Gelli-Bianco, in Diritto penale contemporaneo, 25 marzo 2016.

Cfr., Poli, Il d.d.l. Gelli-Bianco: verso un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del medico ai principi costituzionali, in Diritto penale contemporaneo, 20 febbraio 2017.

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generica7, nonostante le difficoltà nella sua analisi applicativa8. La legge Gelli-Bianco ha così circoscritto l’abolitio criminis alle sole situazioni astrattamente riconducibili nell’imperizia non trovando però essa applicazione né in quei diffusi ambiti del care non governati da linee guida e da buone pratiche clinico-assistenziali né nelle ipotesi in cui le raccomandazioni in esse contenute devono essere disattese a causa delle peculiarità cliniche del paziente o della deviazione del caso rispetto al teorico atteso. Il quale, molto spesso, presenta salti, deviazioni ed interruzioni perché – bisogna tenerlo sempre bene a mente – ogni malattia, al di là del sapere enciclopedico che tende ad ipostatizzarne i contenuti ed i segni, ha, spesso, espressioni i cui caratteri fenotipici sono altamente instabili; con la conseguenza che una cosa è standardizzare per proceduralizzare, un’altra è quella di curare la persona reale nei diversi assetti organizzativi e tecnologici che non sono quasi mai né considerati né esplorati nelle indagini penali.

3. Le prime spallate inferte alla legge Gelli-Bianco dalla Corte regolatrice La nuova riforma della responsabilità medica, nonostante il breve lasso di tempo trascorso dalla sua approvazione, è già stata oggetto di esame da parte della Corte regolatrice che ne ha subito saputo riconoscere il suo regime sfavorevole rispetto alla disciplina precedente, così rispondendo all’amletica e stucchevole questione sollevata costantemente dai medici in ogni dibattito pubblico. Un primo contributo interpretativo finalizzato a chiarire il perimetro applicativo dell’art. 590-sexies c.p. introdotto dalla legge Gelli-Bianco è quello offerto dalla sentenza Taraboni (Cassazione, Sez,

7 Cfr., Rosati, Prime aperture interpretative a fronte della supposta limitazione della Balduzzi al solo profilo dell’imperizia. Nota a Corte di Cassazione, Sez. IV, 9 ottobre 2014 (dep. il 17 novembre 2014), in Diritto penale contemporaneo, 23 marzo 2015.

Si veda, al riguardo, l’interessante Focus apparso sulla Riv. it. med. leg., 2013, 2.

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4 penale, sent. n. 28187 del 20 aprile-7 giugno 20179) che ha annullato il giudizio di assoluzione di un medico psichiatra per il gesto omicidiario commesso da un paziente affidato alle sue cure e rinviato la questione al Tribunale di Pistoia vista e considerata la «portata della recente novellazione, anche al fine di dirimere le questioni di diritto intertemporale derivanti dalla intervenuta successione di leggi penali nel tempo» (par. 6). Nel suo complesso il giudizio espresso dai supremi Giudici sulla nuova riforma della responsabilità professionale è lapidario suscitando essa «alti dubbi interpretativi» attraverso «incongruenze interne tanto radicali da mettere in forse la stessa razionale praticabilità della riforma in ambito applicativo»; con una «disarticolante contraddittorietà» e con una «drammatica incompatibilità logica» (Par. 7) che, a parere dei supremi Giudici, pur novellando l’abolitio criminis, rischia tra l’altro di «vulnerare l’art. 32 Cost., implicando un radicale depotenziamento della tutela della salute» (Par. 7). Un radicale passo all’indietro per tutti, sia per il cittadino che pretende la sicurezza della cura, sia per il professionista il quale chiede un regime di imputabilità meno severo per contenere il contenzioso sia per la collettività la quale pretende, in ogni campo, l’uso responsabile delle risorse e l’allentamento dei costi dell’overdiagnosis e dell’overtreatment che sono oramai diventati veri e propri pilastri della medicina moderna. Il percorso argomentativo seguito dalla Corte regolatrice nell’esprimere il suo giudizio negativo sull’impianto della riforma della responsabilità professionale non è semplice e di ciò sembra essersi reso anche conto lo stesso estensore della sentenza il quale, non certo a caso, ha provato a semplificare il suo pensiero con due esempi chiarificatori: quello di un chirurgo che, nell’eseguire un intervento di resezione addominale, taglia un’arteria con effetto letale e che pretende la sua irresponsabilità penale affermando di aver rispettato le linee guida di esecuzione dell’atto chirur-

Cfr., Caputo, Promossa con riserva. La legge Gelli-Bianco passa l’esame della Cassazione e viene rimandata a settembre per i decreti attuativi, in Riv. it. med. leg., 2017, 2, 713.

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gico approvate ai sensi di legge; e quello di un automobilista autore di un incidente mortale per non aver rispettato la lanterna semaforica il quale pretende di essere ritenuto irresponsabile per aver rispettato il limite di velocità in quel tratto di strada. Esempi che sono utilizzati, in sentenza, per affermare l’impraticabilità dell’interpretazione letterale della novella legislativa perché essa aprirebbe una via pericolosissima ed in contrasto con gli stessi principi fondanti (costituzionali) della colpevolezza i quali devono pur sempre considerare la prevedibilità e la prevedibilità dell’evento. Soprattutto riguardo alla cura, essendo pacifico che le leggi dell’arte, in questo particolare ambito del vivere collettivo, sono in gran parte etero-integrate da atti di rango inferiore alla legge (le guidelines e le bestpractice) che la novella legislativa eleva, rispetto alla riforma del 2012, a «sistema istituzionale, pubblicistico, di regolazione dell’attività sanitaria, che ne assicuri lo svolgimento in modo uniforme, appropriato, conforme ad evidenze scientifiche controllate» (Cass., n. 735/2017, Par. 7). Anche se le stesse non devono mai essere considerate alla stregua di un ombrello protettivo sotto cui trovare riparo dall’ampio cono d’ombra della colpa essendo le linee guida «direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti» con la conseguenza che esse «vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico». Esse non esauriscono così le regole dell’arte medica perché ci sono molti ambiti clinici per nulla disciplinati da guidelines (quello medico-legale ne è un evidentissimo esempio) e perché esse non esauriscono certo, come nel caso esemplificativo del chirurgo o del conducente di autoveicolo, tutte le azioni che si devono responsabilmente agire per la non rimproverabilità penale. A dire che i presupposti della non punibilità sono sostanzialmente tre: (a) l’esistenza di una linea guida (o, in sua mancanza, di una buona pratica clinico-assistenziale) come patrimonio consolidato dell’arte medica, approvata ai sensi di legge ed aggiornata ogni due anni; (b) la non (meglio qualificata essendo venuto meno il riferimento alle «rilevanti» specificità del caso clinico) deviazione del medesimo rispetto a quanto da esse teoricamente rappresentato; (c) la violazione colposa ricaden-

te però nella sola nell’imperizia10, nonostante sia spesso difficile delimitarla rispetto all’imprudenza ed alla negligenza C’è da chiedersi, naturalmente, come questi presupposti potranno conciliarsi reciprocamente senza collidere e come possa prospettarsi un’ipotesi di condotta imperita nel caso in cui le linee guida o le buone pratiche clinico-assistenziali siano state rispettate e le stesse risultino adeguate alla specificità del caso: perché il comportamento ad esse conforme non può che escludere l’imperizia e perché, come è stato del tutto correttamente osservato, «non c’è alcuno spazio teorico per un’imperizia di risulta» e, a guardare ancora con più attenzione, «neppure negligenza o imprudenza, qualora le linee guida contengano relative regole»11. Ed a prescindere da quanto previsto dall’art. 590 sexies c.p. che, probabilmente, è l’effetto della radicalizzazione di quella iniziale giurisprudenza di legittimità formatasi dopo la legge Balduzzi in base alla quale culpa levis sine imperitia non excusat. La quale dimenticava però che le guidelines ed ancor di più le bestpractice clinico-assistenziali (se esse sono davvero schemi rigidi e predefiniti di comportamento come hanno spesso ritenuto i supremi Giudici) non contengono solo regole di perizia ma anche regole di diligenza e di prudenza professionale come è noto a chi di noi le utilizza di regola nella pratica clinica. Prevedere sole regole di perizia quale fonte di esclusione della punibilità eliminando qualsiasi riferimento al grado della colpa, punto centrale di tutto l’impianto della riforma del 2012 operata dall’allora Ministro alla salute, on. Renato Balduzzi12, è così un errore strategico che snatura, alla fine, ciò che è il reale obiettivo e l’intento delle linee guida e delle buone pratiche clinico-as-

Cfr., Cupelli, La legge Gelli-Bianco e il primo vaglio della Cassazione: linee-guisa si, ma con giudizio, in Diritto penale contemporaneo, 13 giugno 2017.

10

Cfr., Piras, Imperitia sine culpa non datur. A proposito del nuovo art. 590 sexies c.p., in Diritto penale contemporaneo, 1° marzo 2017.

11

Cfr. Cupelli, La colpa lieve del medico tra imperizia, imprudenza e negligenza: il passo avanti della Cassazione (e i rischi della riforma alle porte), in Diritto penale contemporaneo, 27 giugno 2016. 12

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sistenziali: le prime delle quali sono, ad unanime consenso, revisioni sistematiche della letteratura che si propongono di ottimizzare gli outcomes di salute dei molti atti medici tenuto conto dei loro rischi e dei relativi benefici. Ed ipotizzare che le regole cautelari in esse contenute attengano alla sola perizia del professionista è cogliere di queste etero-integrazioni della legge Gelli-Bianco una parziale e sfumata rappresentazione che le decolora pericolosissimamente rispetto alla loro variabilità cromatica aprendo le porte alla deriva. Come implicitamente ammesso dalla Corte regolatrice la quale, nella citata sentenza, ha nuovamente ricordato agli sbadati13 che le linee guida veicolano regole generali ed indicazioni di massima le quali devono essere sempre contestualizzate, spesso adattate e qualche volta addirittura disattese, tenuto conto che ogni manifestazione clinica può avere un’espressione fenotipica deviante rispetto all’atteso. Anche perché esse spesso esprimono, come sappiamo, modelli ideali e puramente teorici di comportamento che non si confrontano quasi mai con le ampie disomogeneità dei contesti tecnologici ed organizzativi i quali non sono variabili innocue nel loro ruolo di condizionamento dei risultati attesi dal care. L’interpretazione letterale della norma non è così una strada che può essere seguita secondo la Corte regolatrice in questa prima sentenza che, senza alcun tentennamento, ha riconosciuto che la legge Gelli-Bianco ha fatto riemergere la disciplina giuridica previgente alla precedente riforma del 2012. La quale non consente nessuna distinzione connessa al grado della colpa anche se il principio di cui si fa portavoce l’art. 2236 c.c., esportato dai Giudici nomofilattici nel diritto penale, è la sola strada interpretativa sulla quale ci si può incamminare. Una strada, questa, che come è noto dà rilievo alla colpa grave se il problema tecnico non era di particolare difficoltà anche se siamo consapevoli delle difficoltà che ci saranno e del come si finirà, ancora una volta, per strumentalizzare le diverse espressioni fenotipiche dell’espe-

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rienza clinica con l’obiettivo di trasformarla in un caso sempre deviante, particolarmente difficile ed altamente complesso. Un secondo contributo interpretativo offerto dai supremi Giudici è quello contenuto in una sentenza più recente: la n. 50078 del 19 ottobre 2017 sempre della IV Sezione penale della Corte di cassazione, in diversa composizione14 (sentenza Cavazza). Con un netto ed incomprensibile revirement i supremi Giudici, ritornando sui loro stessi passi o (forse) dimenticando la strada imboccata della precedente lettura costituzionale della nuova legge sulla responsabilità professionale, valorizzano l’interpretazione letterale dell’art. 590-sexies c.p. affermando, in buona sostanza, la non punibilità del medico che, seguendo le linee guida o le buone pratiche adeguate e pertinenti, sia incorso nella loro imperita applicazione (par. 7). L’imperita fase di applicazione delle linee guida o delle buone pratiche clinico-assistenziali ricadrebbe, così, sotto l’ombrello protettivo dell’irresponsabilità penale anche nell’ipotesi di una grave deviazione del comportamento professionale con la conseguenza, davvero paradossale, che la colpa, in questa linea interpretativa, sarebbe circoscritta alla sola loro non conoscenza. Quasi un’imperizia di risulta (o in eligendo) che non soddisfa, evidentemente, nemmeno i medici e che suscita molte perplessità rispetto all’art. 3 Cost. la cui violazione chiamerà sicuramente in causa la Corte costituzionale. Anche se, in questa fase di profonda incertezza nell’interpretazione giurisprudenziale, c’è da chiedersi se questo tentativo di allargare l’ombrello protettivo dell’irresponsabilità penale del medico, favorito dall’interpretazione letterale della nuova norma, non metta in discussione i contenuti di quella risposta che abbiamo ripetutamente fornito a chi ci interrogava sull’ampiezza alare degli scudi protettivi. Perché un’imperizia di risulta confonde nuovamente le acque ergendosi a lido salvifico verso il quale

Cfr., Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia? La Cassazione torna sull’ambito applicativo della legge Gelli-Bianco ed emerge il contrasto: si avvicinano le Sezioni Unite, in Diritto penale contemporaneo, 7 novembre 2017. 14

13 In precedenza si veda Cass., 11.5.2016, n. 23283, nonché anche Cass., 9.11.2014, n. 47289.

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Profili problematici della legge Gelli-Bianco

cercheranno l’approdo ed il riparo le navi della negligenza e dell’imprudenza.

4. Conclusioni Le (almeno iniziali) pesanti spallate che la giurisprudenza di legittimità ha inferto alla legge Gelli-Bianco sono di tutta evidenza nonostante la loro recente attenuazione degli effetti, a conferma che questa riforma è di una disarmante contraddittorietà logica pur avendo nei fatti operato una pericolosissima controsterzata rispetto alla riforma del 2012 sia pur proponendosi, almeno in parte, i medesimi obiettivi: la riduzione del contenzioso medico e dei costi della medicina difensiva. Obiettivi che, sicuramente, non saranno realizzati poiché, nonostante sia pacifica l’irresponsabilità penale del professionista che ha rispettato le regole cautelari previste dalle linee guida e dalle buone pratiche clinico-assistenziali approvate ed implementate nel rispetto della legge, non si capisce come possa essere esclusa la sola punibilità per imperizia o come possa esistere un’imperizia per così dire di risulta per non dire addirittura in eligendo sia pur anche ammettendo, rinunciando a qualsiasi contenuto logico, che esse non contengano regole di prudenza e di diligenza professionale. Resta vitale il terzo obiettivo della nuova riforma: quello di migliorare la sicurezza della cura e di snellire le procedure per il giusto risarcimento del danno da colpa professionale causato alla persona. Saprà la nuova riforma realizzare questi obiettivi? Lo spero, molto dipende dalle risorse umane che metteranno in campo le Regioni e le Direzioni strategiche aziendali ma ne dubito cogliendo ancora molte resistenze, incomprensibili vuoti ed imperdonabili salti pur restando convinto che l’interpretazione letterale della novella legislativa trascina con sé due straordinari pericoli: quello di depotenziare il diritto alla salute che pur resta un principio-guida di rango costituzionale; e quello di far scadere l’impegno del medico che ha sempre riconosciuto la perizia come un connotato costitutivo dello stesso sapere scientifico. Che non è fatto solo di sapere teorico e che vive di un sapere pratico che ci distingue dai molti ciarlatani di cui si sono occupati anche le cronache. Augurandomi che tutti sappiano responsabil-

mente coglierli anche se, molto probabilmente, si doveva fin da subito intervenire per scongiurarli se è vero – come è vero – che tra interpretazioni autentiche della legge fatte dai Ministeri, isterismi delle Società scientifiche e delle Associazioni tecnico-scientifiche per rientrare nell’accreditamento attraverso il reclutamento last-minute di nuovi iscritti e le modifiche statutarie15, prese di posizione del Consiglio superiore della magistratura riguardo alla scelta dei peridi e dei Consulenti tecnici16 e modifiche legislative inserite in provvedimenti omnibus ora all’esame del Parlamento, i correttivi di quella frettolosa riforma si sono già mossi dai blocchi di partenza. Perché il mossiere della quotidianità è inflessibile e perché non è sempre facile coglierne le sfumature e le opacità, senza banalizzare questioni che non sono banali e che sono parte costitutiva del nostro stesso vivere democratico.

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Così Zaramella, in Quotidiano sanità, 30 ottobre 2017.

Cfr., Risoluzione in ordine ai criteri per la selezione dei consulenti tecnici nei procedimenti concernenti la responsabilità sanitaria, Consiglio superiore della Magistratura, 25 ottobre 2017.

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Saggi e pareri Saggi e pareri

g g sa re e a p

Il diritto alla sicurezza delle cure nella legge “Gelli”: (verso) una nuova responsabilità civile in sanità Daniela Zorzit

Avvocato in Milano Sommario: 1. Lo scenario disegnato dalla giurisprudenza. – 2. Dalla “fuga in avanti” al “cammino a ritroso”, verso l’origine del danno. – 3. Il diritto alla sicurezza delle cure: verso una nuova “responsabilità” delle strutture? – 4. Possibili suggestioni: la sicurezza delle cure come obbligo di risultato? – 5. Segue: la legge Gelli rifiuta la prospettiva “sans faute” e prevede una responsabilità inderogabilmente fondata sulla colpa. – 6. L’adozione delle “buone pratiche sulla sicurezza” di cui all’art. 3 l. Gelli potrebbe esonerare la struttura da responsabilità? – 7. Possibili applicazioni: il caso delle infezioni nosocomiali. – 8. Conclusioni.

Abstract:

Il diritto alla “sicurezza delle cure” (cui fa da pendant l’obbligo posto a carico delle strutture sanitarie dall’art. 1, comma 2°, della l. n. 24/2017) rappresenta il fuoco prospettico del sistema tracciato dalla “Legge Gelli” ed apre la via a qualche suggestione interpretativa. L’autrice offre alcuni spunti per una lettura del nuovo quadro normativo, che vede la responsabilità saldamente – ed imperativamente – ancorata alla colpa. Giving priority to quality and safety of the treatments, the Law n. 24/2017 raises new issues and questions: once analyzed with reference to the liability of hospitals and other health care organizations, the “Gelli Reform” seems to break with the case law as we have been knowing it up to now; in fact, it appears to clearly reject a “no fault” system.

1. Lo scenario disegnato dalla giurisprudenza Le coordinate della responsabilità sanitaria hanno subito, negli ultimi trent’anni, una profonda evoluzione, che ha indotto i più autorevoli interpreti a preconizzare (e stigmatizzare) la «inarrestabile fuga in avanti» della giurisprudenza1. Si è trattato di un percorso senza fermate intermedie, diretto verso un unico e dichiarato scopo: tutelare il più possibile il paziente. E, a ben vedere, nel suo divenire tale cammino si è condensato intorno ad una sorta di inversione logico-giuridica: si è, anzitutto, preso di mira l’obiettivo (proteggere il bene salute, di indiscutibile valenza primaria) e si sono, dipoi, cercati gli strumenti ermeneutici ed operativi per realizzarlo. Le linee di tale sistema si sono così intrecciate sino a dare vita ad una

Rossetti, Unicuique suum, ovvero le regole di responsabilità non sono uguali per tutti (preoccupate considerazioni sull’inarrestabile fuga in avanti della responsabilità medica), in Giust. civ., 2010, I, 2231 ss.

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prospettiva quasi rovesciata, ove la soluzione di ogni singola controversia è stata, a priori, condizionata dal “fine ultimo”. Le “istanze sociali”, interpretate alla luce della Costituzione, hanno – qui forse più che altrove – esercitato un forte condizionamento sul pensiero dei Magistrati, al punto che la dottrina2 più critica ha osservato come le decisioni siano «inevitabilmente influenzate dal ruolo che il giudice si dà all’interno della società con riguardo alla risoluzione delle controversie e alla fissazione di equilibri fra posizioni giuridicamente rilevanti (..)». In effetti, la giurisprudenza ha assecondato, con crescente larghezza, le pretese risarcitorie delle (asserite) vittime di “malpractice” creando regole fortemente sbilanciate: si pensi, per esempio, all’uso – improprio – delle presunzioni basate sulla natura dell’intervento (facile/difficile)3 o, più in generale, alla lettura “oggettiva” dell’art. 1218 c.c., che pone la causa ignota a carico del debitore (ospedale o professionista della sanità); ma si consideri anche la propensione, sempre più marcata, a “cancellare” il nesso eziologico, che ha progressivamente perduto la propria robusta natura di “rapporto causa-effetto”, per trascolorare in mera “idoneità astratta della condotta a pro-

Saggi e pareri

durre l’evento”4 o, peggio, in flebile “possibilità di conseguire un’utilità” (perdita di chance)5. Il quadro che si è andato così configurando riflette, forse, una tendenza socialmente diffusa: la convinzione, in qualche modo indotta dal progresso scientifico e tecnologico (ma tutt’altro che fondata, se si ragiona in termini di evidenze scientifiche e medico-legali), che la guarigione sia un “risultato normale”6. Premessa, questa, che ha portato con sé un’inevitabile conseguenza: la responsabilità “sanitaria” ha assunto sempre di più i connotati di una garanzia. Ma ciò ha generato, nel lungo corso, preoccupanti derive: basti qui accennare alla medicina difensiva, che sottrae un’impressionante mole di risorse ai (già fragili) assetti economici su cui si regge il settore, all’esplosione del contenzioso, alla crisi del dialogo (tra il malato e il professionista che lo assiste), alla fuga degli assicuratori dal mercato. E questo contesto di evidente asimmetria ha spinto la riflessione degli studiosi ben oltre i confini (se si vuole limitati) del rapporto “a due” (medico-paziente/struttura), sollevando interrogativi di più ampio respiro: un’ottica non più atomistica, ma di connessione, commistione e bilanciamento di interessi generali. Così, alla preoccupazione della classe medica (radicata nel comprensibile e giustificato timore

Sul punto, Pucella, Causalità e responsabilità medica: cinque variazioni del tema, in Danno e resp., 2016, VIII-IX, 821, osserva come la Corte di Cassazione, nella nota sentenza a sez. un. n. 577/2008, abbia operato «una sorta di “crasi logica” tra dimostrazione processuale della colpa e della catena causale: l’allegazione di una condotta colposa idonea a generare un danno del tipo di quello realmente verificatosi esaurisce l’onere probatorio del creditore danneggiato; l’attitudine delle circostanze a provocare il danno lamentato esonera il danneggiato dalla necessità di dover dimostrare in altro modo la connessione causale. Ne consegue che la dimostrazione che un (certo) fatto è idoneo a determinare un (certo) effetto tiene luogo della concreta dimostrazione che quel fatto ha prodotto quell’effetto». 4

Zeno Zencovich, Una commedia degli errori? La responsabilità medica fra illecito e inadempimento, in Riv. dir. civ., 2008, III, 297, il quale osserva altresì che «Laddove [il giudice] ritenga che l’interesse del paziente sia espressione di valori (costituzionali, di diritti umani etc.) superiori, altererà le regole del giudizio, mettendo il dito sul piatto della bilancia e modificando, come fa in molti altri casi, le regole causali o sull’onere della prova».

2

O, più in generale, al cd. principio di “vicinanza alla prova”, largamente utilizzato dalla giurisprudenza nell’ambito della responsabilità sanitaria; per una critica contro tale impostazione si veda Occorsio, Cartella clinica e «vicinanza della prova», in Riv. dir. civ., 2013, V, 1249.

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Sia consentito rinviare a Zorzit, Il nesso causale in sanità: continuità o cambiamento?, in Gelli, Hazan, Zorzit (a cura di), La nuova Responsabilità sanitaria e la sua assicurazione, Milano, 2017, 287.

5

Cass., 13.4.2007, n. 8826, in Resp. civ. e prev., 2007, 1824, con nota di Gorgoni, Le conseguenze di un intervento chirurgico rivelatosi inutile.

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del professionista di vedere irrimediabilmente compromessa la propria reputazione all’esito di “ troppo facili” condanne) ha fatto eco un crescente e diffuso allarme per la “tenuta del sistema”; e la dottrina più critica non ha mancato di osservare che «estendere (...) la tutela del paziente che ha subito un danno all’interno di una struttura sanitaria pubblica ha un effetto estremamente semplice, quello di far gravare sui contribuenti i risarcimenti liquidati che dovranno essere coperti dalla fiscalità generale e, in assenza di copertura da parte di questa, attraverso la riduzione dei servizi erogati»7. Si imponeva dunque – e da tempo – un intervento deciso ed organico del legislatore, al fine di ristabilire l’equilibrio perduto. Non è ovviamente questa la sede per un esame articolato ed approfondito del corpus di cui si compone la Legge Gelli; in queste pagine l’attenzione verrà focalizzata solo su alcuni aspetti, in via necessariamente sintetica, alla ricerca di qualche spunto che possa stimolare una più approfondita riflessione.

2. Dalla “fuga in avanti” al “cammino a ritroso”, verso l’origine del danno La Legge Gelli-Bianco si apre con una dichiarazione di principio che ne costituisce, al tempo stesso, anima e fuoco prospettico: “La sicurezza delle cure è parte costituiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività”; ad essa fa subito seguito, sul piano operativo, la previsione di un correlativo dovere, a carico delle strutture pubbliche e private, di porre in essere «tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie» e all’«utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative». La norma va letta in correlazione con i commi 538, 539 e 540 dell’art. 1 della cd. legge Finan-

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ziaria 20168 (l. n. 208/2015): «le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano dispongono che tutte le strutture pubbliche e private che erogano prestazioni sanitarie attivino un’adeguata funzione di monitoraggio, prevenzione e gestione del rischio sanitario (risk management)» attraverso l’attivazione di percorsi di audit o altre metodologie finalizzati allo studio dei processi interni, delle criticità più frequenti, alla rilevazione del rischio di inappropriatezza delle prestazioni, alla facilitazione della emersione di eventuali attività di medicina difensiva ecc. La sicurezza delle cure diviene il punto di fuga che richiama, assorbe e rimodula le regole di responsabilità, restituendole all’interprete in una nuova luce: al centro della scena vi sono le strutture sanitarie, pubbliche e private, alle quali viene imposto di adottare sistemi, procedure, presidi ed accorgimenti finalizzati alla neutralizzazione (per quanto possibile) degli eventi avversi. Si assiste, così, ad una (nuova e diversa) “inversione”, che va in direzione diametralmente opposta rispetto a quella “fuga in avanti” attuata dalla giurisprudenza di cui si è fatto cenno più sopra. Se la tendenza delle Corti era di focalizzare l’attenzione solo sul posterius, ossia sul danno già avvenuto e sulla sua monetizzazione, la Legge Gelli-Bianco vuole ribaltare il punto di vista: il momento della prevenzione precede (temporalmente e lessicalmente, come dimostra il titolo della Novella) quello della responsabilità; quest’ultima dovrebbe (nell’auspicio della Riforma) essere solo eventuale perché l’obiettivo è quello di apprestare e rendere operativo un modello organizzativo efficiente, che sia in grado di ridurre drasticamente gli “errori” a monte (e, quindi, di scongiurare il verificarsi, a valle, di episodi negativi per la salute del paziente). Del tutto coerente con questa impostazione è la posizione che viene assegnata all’ente-persona

Le previsioni di cui ai commi 538-539 e 540 erano originariamente contenute nell’art. 2 della proposta di legge A.C. 259 Relatore Onorevole Gelli; esse sono state poi “stralciate” (nel corso dell’esame del d.d.l. in sede referente nella seduta del 20.1.2016 in Commissione Affari sociali) ed inserite appunto nella cd. legge di Stabilità 2016.

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Zeno Zencovich, op. cit., 315.

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giuridica dall’art. 7: l’attuazione del diritto alla sicurezza delle cure è funzione che impegna, si direbbe fisiologicamente, la struttura sanitaria, alla quale appunto si chiede di “mettere in atto” le misure occorrenti. É allora naturale che il costo dei risarcimenti venga canalizzato “in prima battuta” (ossia con regole di maggior favore per il malato, ex art. 1218 - 1228 c.c.) su di essa. La “lente” viene spostata sul soggetto che gestisce l’attività o, se si vuole, sull’“imprenditore” che eroga un servizio, che ha il “governo” del proprio rischio perché può conoscere, dirigere, valutare e coordinare i fattori (anche umani) in cui si sostanzia il proprio agire. L’esercente la professione sanitaria che operi all’interno del nosocomio (senza avere un previo rapporto negoziale con il paziente) risponde, invece, – questa volta in modo chiaro ed inequivocabile – ai sensi dell’art. 2043 c.c.: e tale inquadramento ben si giustifica se si considera che la sua condotta “annega” in un facere collettivo9 (si pensi alle necessarie interazioni tra specialisti, al riparto di compiti e funzioni, al coordinamento tra i vari operatori coinvolti) ed è obiettivamente “condizionata” da limiti esterni (ad es. strutturali, di dotazioni, apparati, strumenti ecc.) su cui, come singolo, non ha potere di incidenza. La Riforma Gelli-Bianco sembra, insomma, aver portato a compimento il disegno che animava già la legge Balduzzi (e che, purtroppo, aveva trovato nella infelice formulazione dell’art. 3 la propria travagliata sorte); l’attenzione viene focalizzata sulla organizzazione, anche in considerazione del

Già negli anni ‘80 la più attenta dottrina osservava come quello erogato dall’ente fosse a tutti gli effetti un “servizio”, ossia un’attività composita nell’ambito della quale, in un gioco complesso di sinergie, si intrecciavano e saldavano tra loro aspetti diversi (strutturali, assistenziali, sanitari, alberghieri): un “agire collettivo”, insomma, al cui interno non era dato scindere i singoli apporti e contributi. Si veda Pucella, Prestazione medica negligente – Responsabilità dell’ente ospedaliero, nota a Cass., n. 2144/1988, in Nuova giur. civ. comm., 1988, I, 604 ss., che esclude l’applicazione analogica delle norme degli artt. 2229 ss. c.c. al rapporto paziente-struttura ospedaliera (per difetto della eadem ratio) in ragione della obiettiva complessità della prestazione di assistenza sanitaria, di cui l’attività stricto sensu medica costituirebbe solo un aspetto.

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fatto che, come dimostrano molteplici studi, nella gran parte dei casi l’evento avverso è il frutto di “buchi del sistema”10, di inefficienze gestionali che si collocano “a monte”11. Anziché colpevolizzare l’operatore, è molto più proficuo ed utile investire sulla prevenzione. E in questo contesto si spiega anche la previsione di cui all’art. 16 secondo cui «i verbali e gli atti conseguenti all’attività del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell’ambito di procedimenti giudiziari». Ciò all’evidente scopo di non frustrare sul nascere l’attuazione del principio pur declamato dall’art. 1: per scongiurare gli errori occorre prima conoscerli; e la cultura della “disclosure”, della comunicazione degli “incidenti” (o dei cd. “near misses”) passa necessariamente attraverso l’eliminazione della minaccia di punizione.

3. Il diritto alla sicurezza delle cure: verso una nuova “responsabilità” delle strutture? Il principio posto dall’art. 1 della legge Gelli-Bianco pare costituire l’asse portante della Novella; e tale “centralità” sembra confermata dal titolo stesso e dalla collocazione “privilegiata” nell’incipit. Ma il diritto alla sicurezza delle cure, cui si accompagna un correlativo dovere di azione (anzitutto in capo agli enti), apre la via a qualche suggestione interpretativa, perché evoca, se non altro per assonanza, le «obligations de sècuritè-rèsultat» coniate in Francia dalla Cour de Cassation. Lo spazio di queste pagine non consente di approfondi-

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Reason, Human Error (1990) Cambridge Univ. Press 53 ss.; Reason, Managing the Risks of Organizational Accidents (1997) Ashgate Publishing Company 114 ss.; Reason, Human Error: models and management (2000) 320 BMJ 768 ss.

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11 La “Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 9 giugno 2009 sulla sicurezza dei pazienti, comprese la prevenzione e il controllo delle infezioni associate all’assistenza sanitaria” (2009/C151/01) in www.europarl.europa.eu, al “Considerando” n. 4 rileva che: «La scarsa sicurezza dei pazienti rappresenta un grave problema per la sanità pubblica ed un elevato onere economico per le scarse risorse sanitarie disponibili. Gli eventi sfavorevoli, sia nel settore ospedaliero che in quello delle cure primarie, sono in larga misura prevenibili e la maggior parte di essi sono riconducibili a fattori sistemici».


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re il tema: basti dire che si tratta di una “categoria concettuale” impiegata dalla giurisprudenza per giustificare una “responsabilité sans faute”, dalla quale l’ente-debitore poteva liberarsi solo provando una causa esterna interruttiva del nesso, non imputabile alla propria organizzazione12. E questa regola di “diritto vivente” elaborata dai Giudici ha finito con l’essere acquisita al formante legislativo attraverso la Loi Kouchner del 4.3.2002 che, novellando il Code de la santé publique, ha introdotto (accanto ad un regime che, in via generale, è fondato sulla colpa, e che prevede altresì, a certe condizioni, l’intervento di un sistema di sicurezza sociale), una peculiare ipotesi di responsabilità oggettiva della struttura, stabilendo che qualsiasi «acte mèdical réalisé dans un etablissement de santé ou dans son cabinet» comporta, testualmente, l’assunzione di «une obligation de sécurité résultat en matière d’infections nosocomiale»13. Il danno che, in tali casi, sia eventualmente derivato al paziente viene quindi posto a carico dell’ospedale, salva la dimostrazione «d’u-

Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Fatti illeciti, inadempimento. Danno risarcibile, Milano, 2005, 147, dà atto che in Francia «sin dai primi del 1900, la giurisprudenza allo scopo di assicurare una protezione più efficace per le vittime degli incidenti di trasporto, ha individuato una obligation de securitè a carico del vettore nel contratto di trasporto di persone», in ragione della quale «il trasportato danneggiato deve provare solo l’infortunio e il vettore può essere esonerato dalla responsabilità solo provando il caso fortuito»; l’A. osserva come, nella evoluzione successiva, i Giudici abbiano compiuto un «passo ulteriore, in cui l’obbligazione di sicurezza si è tramutata quasi in una obbligazione di garanzia, (..) che ha comportato una maggiore oggettivazione del caso fortuito, e cioè l’accollo al vettore di rischi tipici della circolazione stradale, ma non evitabili dal vettore». Con riferimento al nostro ordinamento, l’A. si sofferma sulla categoria degli obblighi di protezione (di cui quelli di “sicurezza” sarebbero una specificazione) e rileva che la loro violazione «ben può essere fonte di responsabilità per danni attraverso un’applicazione diretta, o al più analogica, dell’art. 1218 c.c.»; ciò attraverso il rinvio al principio generale di buona fede ex art. 1175 c.c.

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ne cause étrangère», ossia della “causa estranea”, individuabile “a monte” dell’infezione14. Ed ecco allora che un dubbio si insinua: viene da chiedersi se la solare ed enfatica dichiarazione da cui prende l’abbrivio la legge Gelli segni, anche in ragione di quella “assonanza” linguistica, una secca virata verso un modello di imputazione totalmente svincolato dalla colpa, analogo insomma al regime previsto (seppur limitatamente ad alcune peculiari ipotesi) nell’ordinamento transalpino. E questo interrogativo potrebbe avere un suo senso se si considera, da un lato, l’esigenza – sicuramente tenuta in larga considerazione dal legislatore italiano – di tutelare il paziente, e dall’altro, il fecondo “retroterra” dottrinale che ha preceduto la Novella. Può essere allora utile richiamare alla mente il pensiero di quegli autorevoli studiosi che in anni poco lontani ipotizzavano e suggerivano, come soluzione al travagliato problema della med-mal, la creazione di un sistema a doppio binario15: in tale modello, il “fatto” del medico cd. strutturato (che cioè lavora all’interno dell’ente senza avere alcun rapporto negoziale con il paziente) trova

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Sul punto si veda De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari - Modelli e funzioni, nel Trattato di dir. comm. e dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, 2007, 276 ss. L’autrice osserva che nel sistema francese la prova liberatoria della cause ètrangeré, nel caso di infezioni nosocomiali, si atteggia in termini di «causa esterna» all’organizzazione dell’ente ospedaliero «individuabile a monte dell’infezione». 13

Sul sistema francese si veda Nocco, Un no-fault plan come risposta alla “crisi” della responsabilità sanitaria? Uno sguardo sull’alternativa francese a dieci anni dalla sua introduzione, in Riv. it. med. leg., 2012, 449 ss., il quale osserva che il legislatore francese ha sottolineato il ruolo centrale della colpa come regola generale della responsabilità sanitaria, ma ha anche dato “una pluralità di risposte tra loro combinate” al problema del danno alla persona in sanità. La Loi Kouchner ha infatti previsto anche un modello di indennizzo “no fault” (il sistema di sicurezza sociale gestito dall’ONIAM interviene quando nessuna colpa sia stata commessa durante l’atto o le cure mediche, il danno non sia legato allo stato di salute del paziente precedente al trattamento od alla sua possibile evoluzione e lo stesso sia grave ed anormale). Per quanto concerne le infezioni nosocomiali, l’A. rileva che per effetto di interventi normativi successivi alla Loi Kouchner (decreto del 4 aprile 2003), in caso di invalidità superiore al 25% o di morte del paziente, è sempre previsto l’intervento del sistema di sicurezza sociale, indipendentemente dalla sussistenza di un errore professionale del personale sanitario o di una disfunzione organizzativa della struttura (salvo regresso dell’ONIAM laddove sussistano profili di responsabilità). 14

De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari, cit., 272 ss., nonché De Matteis, La responsabilità professionale del medico. L’art. 3 del d.l. 158/2012 tra passato e futuro della responsabilità medica, in Contr. e impr., 2014, 123 ss. 15

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naturale collocazione entro l’art. 2043 c.c., essendo la sua condotta «ultimo anello causale di un processo organizzativo complesso»16 di cui altri è artefice e controllore. In capo alla struttura viene invece configurata una responsabilità (praticamente) oggettiva; ciò muovendo da una prospettiva che vede nel soggetto “istituzionalmente” deputato alla erogazione delle cure un “imprenditore”, ontologicamente tenuto a farsi carico del “rischio” connesso all’attività svolta17. Nelle elaborazioni dottrinali che si collocano in tale solco si richiede, ai fini liberatori, una prova molto rigorosa, che si risolve sostanzialmente nella dimostrazione dell’intervento di uno specifico fattore esterno alla organizzazione ed alla sfera di dominio dell’ente, che sia tale da interrompere il nesso causale18. Proseguendo lungo questa (ipotetica) traiettoria ci si potrebbe domandare, allora, in che direzione abbia inteso muoversi la Novella.

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De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari, cit., 262 ss.

Visintini, op. cit., 281 ss.: «se l’ente ospedaliero non prova una causa specifica del danno ed estranea al servizio sanitario, così inteso nella sua complessità, è responsabile tout court anche a prescindere dal modo più o meno diligente in cui sono state eseguite le prestazioni professionali vere e proprie». L’a. aderisce all’interpretazione oggettiva dell’art. 1218 c.c. (su cui vedi infra nota 19), e dunque ritiene che nella nozione di causa non imputabile vadano inclusi «quegli eventi che sono interamente estranei alla sfera di controllo dell’obbligato, da lui inevitabili ed in rapporto causale con una effettiva impossibilità di adempiere», ivi, 192 ss., con richiamo al pensiero di Trimarchi, Sul significato economico dei criteri di responsabilità contrattuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1970, 512, secondo il quale la responsabilità resta «esclusa solo se si prova che l’inadempimento è dovuto ad una causa esterna all’impresa del debitore e di carattere catastrofico, mentre le cause interne all’impresa restano a carico del debitore anche se siano incolpevoli». 17

De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari, cit., 271, osserva che in dottrina (ivi rif. bibliografici): «In direzione di una responsabilità – resa autonoma dalla prestazione professionale del singolo medico che riflette su di essa la disciplina della responsabilità professionale – si delinea l’adozione di un modello di responsabilità d’impresa che a seconda dell’inquadramento privilegiato – se nell’ambito di una responsabilità contrattuale o aquiliana – rinvia ai regimi di cui agli artt. 1218 c.c. ovvero agli artt. 2050/2051 c.c. accreditando una spiegazione in termini di responsabilità oggettiva per rischio d’impresa». 18

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Saggi e pareri

4. Possibili suggestioni: la sicurezza delle cure come obbligo di risultato? La soluzione del nodo passa necessariamente attraverso la disamina del testo normativo. L’attenzione deve, allora, essere focalizzata sull’art. 7 comma 1°, a mente del quale: «La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria (..) risponde ai sensi degli articoli 1218 e 1228 c.c., delle loro condotte dolose o colpose». Qui l’indicazione della Novella sembra chiara: la responsabilità della struttura viene espressamente ricondotta entro l’art. 1218 c.c. (non dunque nell’alveo dell’art. 2050 c.c. o dell’art. 1681 c.c., norme a cui la dottrina sopra ricordata aveva ritenuto di poter fare riferimento per giustificare un modello di tipo oggettivo); al di là della dichiarazione solenne di apertura (“la sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute”), non vi è, insomma, nel testo una previsione ad hoc che, analogamente a quanto disposto per es. dalla Loi Kouchner per le infezioni nosocomiali, stabilisca in modo esplicito una regola “sans faute”. Ma, se questo è vero, il dubbio di partenza potrebbe comunque riaffacciarsi perché, come è noto, è controverso se l’art. 1218 c.c. debba essere letto in chiave soggettiva oppure oggettiva. Il dibattito, sul punto, è annoso e il contrasto tra i due diversi orientamenti non pare ancora composto19.

Per un inquadramento generale del tema si vedano Visinop. cit., 191 ss. e ivi bibliografia citata; Fava, La responsabilità civile, Milano, 2009, 400 ss. Per l’affermazione della natura oggettiva della responsabilità contrattuale Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Scritti giuridici, Milano, t° 1, 1973. Per l’interpretazione in chiave soggettiva, Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, Milano, 1994, 61 ss., nonché Bigliazzi Geri et al., Diritto civile, 3, Obbligazioni e contratti, Torino, 1995, 94, i quali concordano con quella giurisprudenza secondo cui è «sufficiente, agli effetti dell’art. 1218, e per escludere l’inadempimento e le relative conseguenze a carico del debitore, la prova da costui data di essersi comportato diligentemente, cioè come esigeva oggettivamente la natura della prestazione, deducendo, in definitiva, da ciò l’intervento di una causa non imputabile al debitore, anche se in concreto non identificata». 19

tini,


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Ed anzi, nell’ambito del contenzioso “sanitario” sembra proprio che l’orientamento maggioritario abbia optato per la lettura di maggiore favor per il paziente, posto che in molte pronunzie anche recenti la Cassazione20 non ritiene sufficiente, ai fini liberatori, la prova della condotta diligente, ma pretende anche che il convenuto dimostri lo specifico fattore esterno non prevedibile né evitabile che ha provocato l’evento lesivo (cosicché il rischio della causa ignota resta a carico del debitore)21.

5. Segue: la legge Gelli rifiuta la prospettiva “sans faute” e prevede una responsabilità inderogabilmente fondata sulla colpa Al di là di queste prime suggestioni, pare tuttavia potersi dire che la Legge Gelli non segua affatto la prospettiva “sans faute”. Anzi.

Secondo l’orientamento che parrebbe maggioritario (nell’ambito della cd. “med-mal”), il debitore medico/ente ospedaliero è tenuto a dimostrare, ai fini dell’esonero da responsabilità, che «la prestazione è stata eseguita in modo diligente e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta». In tal senso, ex plurimis Cass., 20.4.2016, n. 7768, in Ri.da.re.; si consideri altresì Cass., 19.2.2013, n. 4030, in Pluris; Cass., 9.10.2012, n. 17143, in Dir. e giust., 2012; Cass., 24.3.2011, n. 6744, in Pluris. Conformi: Cass., 16.1.2009, n. 975, in Foro it., 2010, III, 1, 994; Cass., 24.5.2006, n. 12362, in Pluris; Cass., 11.11.2005, n. 22894, in Danno e resp., 2006, II, 214, con nota di Batà, Spirito; Cass., 28.5.2004, n. 10297, in Foro it., 2005, I, 247; Cass., 11.3.2002, n. 3492, in Giur. it., 2003, 240. Nella giur. di merito Trib. Bologna, 30.1.2006, in Pluris; Trib. Varese, 16.2.2010, n. 16, in www. altalex.com. 20

Particolarmente significativo è il caso affrontato da Cass., 13.4.2007, n. 8826, in Resp. civ. e prev., 2007, 1824, con nota di Gorgoni, Le conseguenze di un intervento chirurgico rivelatosi inutile: si trattava di intervento al setto nasale (per il recupero della funzionalità respiratoria) che si era però rivelato non risolutivo; dalla CTU espletata nel giudizio di merito non erano emersi profili di colpa in capo ai sanitari; la domanda dell’attrice era stata quindi rigettata sia in primo che in secondo grado. La Cassazione ribalta il decisum perché, in sostanza, i convenuti (struttura e medico) non avevano dato la prova della specifica e ben individuata “causa esterna non imputabile” che aveva comportato l’insuccesso. 21

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Un primo dato assai indicativo potrebbe essere tratto dalla lettera dell’art. 1, a mente del quale «la sicurezza delle cure si realizza anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione (..) e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative». L’espressione “si realizza mediante” e il riferimento all’utilizzo “appropriato” fanno pensare, già solo lessicalmente, ad una obbligazione di “mezzi” (e non “de sécurité résultat”) che, appunto, viene adempiuta “mediante” l’adozione di misure/ procedure conformi ad un modello precostituito. Una prestazione, dunque, la cui essenza è il “fare bene”, conformemente a leges artis, a prescrizioni e linee di indirizzo che hanno finalità preventiva. Ma, forse, l’elemento più significativo è racchiuso nello stesso art. 7: la norma richiama testualmente l’art. 1228 c.c. e, come se non bastasse, ribadisce espressamente che la responsabilità è ancorata alla «condotta dolosa o colposa» dell’esercente-ausiliario. A parere di chi scrive, questa “scelta” semantica e di impostazione non è affatto casuale: è un segnale chiaro e forte che suggerisce riflessioni di più ampio respiro ed induce a ritenere che, d’ora in poi, nell’ambito della cd. med-mal, l’art. 1218 c.c. non possa più essere inteso ed applicato in chiave oggettiva. Seguendo la logica della norma, dovrebbe dirsi che se non vi è un comportamento (almeno) negligente, imprudente o imperito (e quindi se, per converso, si è data dimostrazione di una condotta conforme ai parametri di cui all’art. 1176 c.c.), non può predicarsi alcun “inadempimento” e dunque non può riconoscersi alcun risarcimento22.

Fava, ibidem, osserva come la tesi che legge l’art. 1218 c.c. in chiave soggettiva faccia leva sul disposto dell’art. 1176 c.c. nonché sul chiaro dettato dell’art. 1228 c.c. «che chiama il debitore a rispondere dei fatti dolosi o colposi dei terzi di cui si sia avvalso nell’adempimento dell’obbligazione. L’accoglimento di concezioni oggettive circa la portata dell’art. 1218 c.c. condurrebbe, infatti, all’illogica contraddizione per cui il debitore risponderebbe a titolo di responsabilità oggettiva in caso di esecuzione personale dell’obbligazione, mentre ove si avvalga di ausiliari vedrebbe circoscritta la propria responsabilità ad ipotesi incentrate sulla ricorrenza di condotte dolose o colpose. La coerenza dell’ordinamento, invero, im22

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Il legislatore sembra insomma sbarrare la strada a quell’orientamento “oltranzista” che non si accontenta, ai fini liberatori, della prova di aver correttamente agito, ma pretende anche l’individuazione dello specifico fattore esterno “non imputabile” che ha provocato l’evento (addossando così al debitore il rischio della causa ignota). E ad ulteriore conferma di ciò potrebbe osservarsi che nella formulazione del testo dell’art. 7 è stata fatta una precisa (forse intenzionale?) scelta verbale: se la struttura «risponde» ai sensi degli artt. 1218 c.c. – 1228 c.c., ciò significa che a venire in linea di conto non è (più) una garanzia (di successo), ma, appunto, una responsabilità, che segue (e deve obbedire al) le regole codificate. Tale nuovo assetto sembra trovare definitivo suggello nel comma 5 dell’art 7, che si chiude in modo icastico: «le disposizioni del presente articolo costituiscono norme imperative ai sensi del codice civile». Questa dichiarazione (che autorevole dottrina ha un poco irriso23) pare, invece, dirompente perché rappresenta la consacrazione di un ritrovato modello di responsabilità, fondato – inderogabilmente – sulla colpa; e dunque segna, con il vincolo della imperatività, l’abbandono di quell’orientamento dominante che, nel corso degli anni, ha connotato l’attività “di cura e assistenza” in termini di obbligazione di risultato. Il richiamo all’art. 1228 c.c. è “rafforzato” dalla testuale previsione di una responsabilità ancorata al fatto doloso o colposo24; difficile pensare che

pone di ritenere che il regime di imputazione della responsabilità contrattuale debba essere indifferente alle concrete scelte esecutive del debitore ed operare unitariamente di fronte a fatti aventi la medesima consistenza obiettiva dell’inadempimento». Travaglino, Vaghi appunti sulla riforma della responsabilità sanitaria, in Giustizia Civile.com, che definisce il comma V dell’art. 7 come un «buffo calembour».

23

In giurisprudenza pare pacifico l’orientamento secondo cui la responsabilità ex art. 1228 c.c., se è oggettiva (nel senso che prescinde dalla culpa in eligendo o in vigilando del “preponente”), presuppone però pur sempre il fatto doloso o colposo dell’ausiliario; Cass., 8.5.2001, n. 6386, in Danno e resp., 2001, 1045, osserva che «il positivo accertamento della responsabilità dell’istituto postula pur sempre la colpa del medico esecutore dell’attività che si assume illecita poiché 24

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tale formulazione sia sostanzialmente anodina o, comunque, frutto del caso; al contrario, essa sembra sorretta da una opzione precisa: nel nuovo impianto ciò che viene richiesto (e ritenuto sufficiente) è agire secondo le leges artis (e non necessariamente “guarire”)25. E non a caso, la dottrina che ha interpretato l’art. 1218 c.c. in senso “soggettivo” ha riconosciuto all’art. 1228 c.c. (oltre che all’art. 1176 c.c.) un ruolo chiave: «La norma sulla responsabilità del debitore per il fatto degli ausiliari conferma, piuttosto, che la regola generale sulla responsabilità per inadempimento ha per presupposto la colpa. Il debitore risponde infatti se e in quanto l’ausiliario abbia agito con dolo o colpa»26.

essa costituisce il presupposto richiesto sia dall’art. 1228, che dal successivo art. 2049 c.c.». 25 Sembrano aderire ad una interpretazione soggettiva dell’art. 1218 c.c. Cass., 26.1.2010, n. 1538, in Ragiusan, 2010, 151, la quale, nel condividere la nota Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, pone a carico del sanitario convenuto «l’onere di dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia può essergli mosso, o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non ha avuto alcuna incidenza». Nello stesso senso: Cass., 19.10.2015, n. 21090, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 564, con nota di Sgubin; Cass., 23.9.2004, n. 19133, in Danno e resp., 2005, 12; Cass., 21.6.2004, n. 11488, in Giur. it., 2005, 937; Cass., 30.5.1996, n. 5005, in Pluris. Nella giur. di merito: Trib. Milano, 22.4.2008, n. 5305, in Giur. merito, 2009, 97. Si veda anche Cass., 3.2.2017, n. 2950, in Corr. giur., 2017, IV, 568, in relazione alla responsabilità di Poste Italiane (per non aver adottato le misure che la diligenza tecnica dell’accorto banchiere imponevano per garantire la sicurezza delle operazioni tramite bancomat).

Bianca, ibidem. Va detto però che, per converso, gli stessi sostenitori della tesi “oggettiva” hanno ritenuto di poter ravvisare nell’art. 1228 c.c. una conferma alla propria interpretazione (ciò in base al rilievo per cui il debitore risponde del fatto dell’ausiliario a prescindere da una culpa in eligendo o in vigilando, il che dimostrerebbe l’esistenza di un criterio generale di imputazione sganciato dal “comportamento diligente”). Visintini, op. cit., 286, osserva che «(..) l’art. 1228 c.c. è fondato sull’idea che il debitore deve garantire l’operato dei suoi ausiliari e deve rispondere delle disfunzioni dovute alla rete dei suoi ausiliari a prescindere dal carattere illecito del comportamento di costoro, e non solo – si noti – di quelli interni, ma anche di quelli esterni. É questa un’opinione diffusa in dottrina, che vede nella norma uno dei capisaldi legislativi su cui si può fondare una responsabilità oggettiva». L’Autrice rileva, in chiave storica, che «In conclusione: la dizione legislativa di cui all’art. 1228 c.c. “fatti dolosi o col26


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Del resto, il fatto che lo stesso art. 5 della Legge Gelli enfatizzi il ruolo delle linee guida induce ad ulteriormente confermare questa ricostruzione (ove, appunto, l’accento è posto sull’“agire in conformità” ad un modello, e non tanto sul conseguimento di un risultato). Certo, si potrebbe obiettare che l’ancoraggio alla colpa – nell’economia dell’art. 7 – vale solo quando a venire in considerazione sia il fatto dell’ausiliario; non invece quando si tratti di obbligazioni “proprie” di cui l’ente dovrebbe rispondere ex art 1218 c.c. (e per le quali dunque potrebbe continuare a predicarsi un’imputazione oggettiva). Ma è agevole replicare che un sistema in cui la responsabilità del debitore cambia a seconda che questi si avvalga o meno, nell’adempimento, di collaboratori sarebbe del tutto illogico ed incoerente, oltre che facilmente aggirabile27. D’altro canto, resterebbe da capire quando – nell’ambito di una realtà complessa come quella di una struttura-persona giuridica – possa dirsi che la con-

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dotta è riferibile ad un “ausiliario” piuttosto che direttamente all’ente28. A parere di chi scrive, la Novella schiude dunque nuove prospettive, stigmatizzando la tendenza ormai diffusa presso le Corti a trasformare la responsabilità in una garanzia.

6. L’adozione delle “buone pratiche sulla sicurezza” di cui all’art. 3 l. Gelli potrebbe esonerare la struttura da responsabilità? Come si accennava, la legge Gelli ha costruito un vero e proprio “sistema di sicurezza delle cure” che è declinato e modulato su base territoriale e trova un punto di sintesi e fusione nell’Osservatorio Nazionale istituito presso l’AGENAS. Tale Ente si preoccupa di raccogliere, elaborare e studiare i dati provenienti dai livelli locali e regionali ed ha, altresì, un compito “para-normativo” (si passi il

Per esempio, se il primario tiene un certo comportamento (direttive errate nell’ambito della organizzazione del reparto) che si rivela lesivo dei diritti del paziente, si è di fronte ad un “fatto dell’ausiliario” riconducibile all’art 1228 c.c. o, invece, ad una condotta immediatamente riferibile all’ente ex art. 1218 c.c.? Il tema interseca anche quello della natura della responsabilità ex art. 1228 c.c.: in dottrina è controverso se essa sia “diretta” (riferibile cioè al debitore stesso, unico soggetto obbligato), ovvero “per fatto altrui”; sul punto si veda Ceccherini, Responsabilità per fatto degli ausiliari. Clausole di esonero da responsabilità, nel Commentario Schlesinger, Milano, 2003, sub artt. 1228, 1229 c.c. Sul tema si veda altresì (sia pure con riferimento all’ambito aquiliano) Visintini, op. cit., 767 ss., ed ivi rif. bibl., in relazione ai casi in cui potrebbe configurarsi una responsabilità dell’ente pubblico in via diretta ex art. 2043 c.c. ovvero in via “vicaria” ex art. 2049 c.c. «Si può parlare di responsabilità diretta per i danni derivati a terzi dall’azione dei funzionari soltanto quando quest’ultima appaia formalmente come esplicazione di un potere dello Stato o dell’ente, che viene esercitato in modo tale da ledere la sfera giuridica tutelata di un cittadino. E siccome l’esplicazione di un tale potere dà vita a provvedimenti amministrativi, può qualificarsi responsabilità diretta solo quella che attiene all’emanazione illegittima di provvedimenti amministrativi. Viceversa, ove il danno non derivi dall’emanazione illegale di un provvedimento, per accollarne la responsabilità all’ente occorre riferirsi non all’art. 2043 c.c., ma ad altre norme, cioè non allo schema della responsabilità per danni che derivano da fatto proprio, ma allo schema della responsabilità da cose in custodia (art. 2051 c.c.) o per fatto altrui (art. 2049 c.c.)». 28

posi” si spiega, presumibilmente, con la necessità di chiarire che l’ambito della regola si estende anche ai fatti dolosi, in presenza di un dibattito dottrinale che all’epoca verteva sul problema se il dolo interrompesse quella relazione tra il fatto dell’ausiliario e l’ambito di attività del debitore, la relazione cioè che giustifica l’accollo della responsabilità a quest’ultimo. Oltre a questo la casistica che il legislatore del 1942 aveva presente era quella di utilizzo degli ausiliari nell’ambito delle obbligazioni di mezzi, di cui fanno parte le prestazioni professionali, ove l’inadempienza si identifica nella colpa per negligenza o imperizia. Da qui l’espressione legislativa “atti colposi” che non ha certo il significato di condizionare la responsabilità del debitore alla colpa dell’ausiliario». A parer di chi scrive, questa lettura sembra svilire il dato letterale della norma, che richiede pur sempre, in modo chiaro ed espresso, «un fatto colposo» (o doloso) del terzo. Se poi è vero che tale espressione era (nella mente del legislatore del 1942) riferita alle obbligazioni di mezzi – quale quella del medico –, dovrebbe allora concludersi che a fortiori il presupposto perché la responsabilità dell’ospedale ex art. 1228 c.c. sorga è che vi sia, a monte, un comportamento negligente dell’esercente la professione sanitaria. 27 É ovvio che se la responsabilità fosse “cangiante” a seconda che l’adempimento sia o meno affidato ad un ausiliario, il debitore potrebbe agevolmente ricorrere a scelte opportunistiche (per beneficiare del più vantaggioso regime della colpa, potrebbe sempre far eseguire la prestazione da un terzo incaricato).

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termine, ovviamente utilizzato in modo atecnico): «L’Osservatorio (..) anche mediante la predisposizione, con l’ausilio delle società scientifiche e delle associazioni tecnico - scientifiche delle professioni sanitarie di cui all’articolo 5, di linee di indirizzo, individua idonee misure per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario e il monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure (..)». A completare il quadro intervengono poi le disposizioni di cui ai commi 538, 539, 540 dell’art. 1 della l. 28.12.2015 n. 208 (legge finanziaria 2016), che prescrivono l’attivazione dei percorsi di risk management e l’adozione di concrete misure/interventi finalizzati allo studio dei processi interni ed alla prevenzione degli errori/eventi avversi. Si tratta allora di comprendere come tale assetto incida sugli obblighi “organizzativi” e gestionali che gravano sull’ente, la cui violazione potrebbe fondare una responsabilità “diretta” per inadempimento del contratto di spedalità (es. criteri di efficienza e razionalità nella ubicazione dei reparti e delle sale operatorie; dotazione di apparecchiature, sepsi dei locali e della strumentazione ecc.). E dunque, tornando alla questione di partenza, la casa di cura è tenuta, in via oggettiva, ad un “risultato” – id est a garantire “la sicurezza” del malato –, analogamente a quanto accade in Francia nei casi di infezioni nosocomiali previsti dalla Loi Kouchner? Oppure la sua condotta deve essere valutata al filtro della colpa, essendo dunque sufficiente, ai fini liberatori, l’osservanza delle regole di diligenza/prudenza/perizia, o comunque il rispetto delle “buone pratiche” indicate dall’Osservatorio ex art. 3 l. Gelli (ovvero di parametri di “adeguatezza” etero-definiti)29?

29 Il problema si pone anche con riferimento alla responsabilità degli organi apicali; sul punto si veda Taurini, Sicurezza delle cure e gestione del rischio: profili di responsabilità individuale delle cariche apicali, in Gelli, Hazan, Zorzit (a cura di), La nuova Responsabilità sanitaria e la sua assicurazione, Milano, 2017, 218 ss.

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7. Possibili applicazioni: il caso delle infezioni nosocomiali Il terreno di elezione su cui si potrebbe tentare qualche ragionamento (prendendo spunto, non a caso, dall’esperienza francese) è, per es., quello delle infezioni nosocomiali. Le osservazioni sin qui svolte ci inducono a sostenere che nel quadro (e nello spirito) della legge Gelli non vi siano regole ispirate al criterio “sans faute”; stando all’art. 7, per l’ospedale dovrebbe essere sufficiente, ai fini liberatori, la dimostrazione della condotta diligente (e dunque della osservanza delle prescrizioni previste a livello scientifico, per come specificate nell’ambito per es. delle linee guida di cui all’art. 3). Ma il discorso merita qualche approfondimento quando si affronti il tema delle infezioni nosocomiali, che rappresentano, come è noto, un fenomeno sì controllabile e prevenibile, ma non completamente eliminabile; si tratta di un rischio che può essere ridimensionato attraverso una serie di misure, ma che non è, ontologicamente, azzerabile. Esiste insomma “un’alea” irriducibile, al di là dello sforzo diligente esigibile. Vi è, poi, un altro profilo da considerare: spesso è impossibile risalire alla “fonte specifica” del “contagio” (attraverso le risultanze delle procedure di analisi dell’aria, si potrà per es. escludere la presenza di germi patogeni in sala operatoria, ma non si potrà dire – fatta forse eccezione per alcuni pochi casi – se il paziente abbia contratto la malattia nei bagni piuttosto che nella propria stanza per contatto con altri degenti o perché visitato da un operatore che non si era lavato le mani… ecc.). É chiaro che l’ottica della responsabilità oggettiva (che fa ricadere sulla struttura il costo del danno per il solo fatto che l’evento ha avuto causa all’interno della stessa, anche se non era evitabile) offre la massima tutela: l’ospedale pagherebbe praticamente sempre, salva la prova (non facile) del fortuito, inteso come fattore estraneo all’organizzazione d’impresa. In una prospettiva ancorata alla colpa, invece, la responsabilità dovrebbe essere esclusa allorquando si provi di aver adottato una condotta conforme ai parametri di cui all’art. 1176 c.c., e quindi


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quando l’ente dimostri di aver applicato misure preventive (di profilassi, igiene, comportamentali, ecc.) indicate e raccomandate a livello scientifico. C’è però un ulteriore elemento che viene in linea di conto, e si pone per così dire al crocevia tra l’articolo 1218 c.c. e l’articolo 1228 c.c. In questo particolare ambito, gli obblighi “propri” della struttura si intersecano e confondono con il momento attuativo, che passa necessariamente attraverso il comportamento del medico dipendente (chiamato ad applicare le misure di sicurezza etero-definite, e a «concorrere» egli stesso alle attività di risk management ex art. 1 comma 3 l. Gelli). Così, se viene in concreto accertato che l’operatore non si è lavato le mani (ed ha quindi trasmesso l’infezione a tutti i pazienti che ha visitato in quello stesso giorno), è chiaro che l’ospedale non potrà pretendere di liberarsi sostenendo e dimostrando di aver comunque adottato tutte le precauzioni che erano in suo potere (es. aver impartito istruzioni, curato la formazione e istituito un organismo di controllo). E ciò pare coerente con la previsione dell’art. 1228 c.c. che, guardata dal lato del debitore (che appunto decida di avvalersi di terzi), detta una regola di tipo oggettivo, a nulla rilevando l’eventuale culpa in eligendo o in vigilando del medesimo30.

30 Cass., 20.4.2016, n. 7768, in Ri.da.re., ribadisce che quella prevista dall’art. 1228 c.c. è «ipotesi non già di responsabilità per colpa bensì di responsabilità oggettiva» In giurisprudenza è invero diffusa l’affermazione secondo cui l’art. 1228 c.c. sarebbe espressione del principio cuius commoda eius et incommoda; si veda per es. Cass., 27.3.2015, n. 6243, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 934, con nota di Pucella, La responsabilità dell’A.S.L. per illecito riferibile al medico di base, nonché in Danno e resp., 2015, 794, con nota di Zorzit: «Infatti, perché possa operare l’articolo 1228 c.c. non è affatto dirimente la natura del rapporto che lega il debitore all’ausiliario, ma trova fondamentale importanza la circostanza che il debitore in ogni caso si avvalga dell’opera del terzo nell’attuazione della sua obbligazione, ponendo tale opera a disposizione del creditore, sicché la stessa risulti così inserita nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio (Cass., 26.5.2011, n. 11590). La responsabilità di chi si avvale dell’esplicazione dell’attività del terzo per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale trova allora radice non già in una culpa in eligendo degli ausiliari o in vigilando circa il loro operato, bensì nel rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nell’adempimento dell’obbligazione: “sul principio cuius commoda, eius et incommoda, o, più precisamente,

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Ma resterebbe da chiedersi come debba regolarsi il caso in cui non si abbia evidenza alcuna dell’errore del singolo esercente. In linea generale, se si vuole seguire la regola posta da Cass., sez. un., n.13533/2001, si dovrebbe dire che, laddove il paziente abbia allegato un inadempimento astrattamente qualificato, la colpa (della struttura ma anche del singolo ausiliario) si presume; ai fini liberatori occorrerebbe allora dimostrare (seguendo l’interpretazione soggettiva dell’art. 1218 c.c.) che vi è stata, per converso, una condotta diligente non solo da parte dell’ente (che ha dato le direttive e stabilito le misure di sicurezza), ma anche da parte del medico (che le ha, appunto, in concreto osservate). E tuttavia, almeno per quanto concerne tale secondo “segmento” della proposizione istruttoria, probabilmente ci si deve accontentare di una prova presuntiva. Esemplificando: se l’ospedale dimostra di aver non solo fissato le regole precauzionali, ma di aver anche adottato un sistema di controllo sull’applicazione delle stesse (formazione del personale, periodiche ispezioni da parte di organismi interni, procedure atte a ridurre il rischio di dimenticanze o sviste, sensibilizzazione degli addetti ecc.), potrà ragionevolmente sostenersi – per induzione – che è probabile che, nel caso concreto, l’operatore si sia effettivamente attenuto alle istruzioni (ed abbia quindi, nell’ipotesi, lavato le mani). Se, per converso, si pretendesse una specifica prova in relazione alla correttezza e conformità di ogni singolo atto posto in essere da ciascuno degli esercenti di volta in volta variamente coinvolti, si arriverebbe ad accollare all’ente un onere “diabolico” e, quindi, si tornerebbe ad una imputazione para-oggettiva (che, verosimilmente, comporterebbe una nuova ondata di medicina difensiva e costi difficilmente sostenibili)31.

dell’appropriazione o “avvalimento” dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione, comportante l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino» (così anche Cass., 6.6.2014, n. 12833, in CED, Cassazione, 2014). 31 Per tentare di assolvere un simile onere la struttura si vedrebbe probabilmente costretta, per es., a filmare ogni singola procedura/atto dei propri ausiliari.

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Nel senso di un chiaro ripudio di un modello “oggettivo” in punto infezioni nosocomiali si muove la giurisprudenza più recente32, che richiede (e ritiene sufficiente), ai fini liberatori, la dimostrazione di aver adottato tutte le misure organizzative utili e necessarie per prevenire e contenere il fenomeno, attraverso l’attuazione di specifici protocolli diretti all’applicazione, al monitoraggio, all’aggiornamento e verifica delle pratiche a ciò finalizzate. Dall’assolvimento di tale onere viene così ricavata una prova «che non può che essere indiziaria che l’evento dannoso (contagio da batterio nosocomiale) era sì possibile e prevedibile, ma non prevenibile, rientrando in quella percentuale di casi che la scienza medica ha enucleato come eventi che possono sfuggire ai controlli di sicurezza apprestabili e di fatto apprestati dalla struttura sanitaria»33. La Legge Gelli sembra recepire questa impostazione rifiutando anch’essa l’idea di una responsabilità senza colpa. Ma, a differenza di quanto stabilito dalla Loi Kouchner, non prevede – per il caso delle infezioni nosocomiali – alcun meccanismo indennitario, con ciò sollevando le perplessità della dottrina più sensibile alle istanze di protezione del paziente, che osserva come, alla fine, quest’ultimo sia «chiamato a sostenere i costi dell’operazione originaria, i costi per capire se vi era una colpa della struttura in ciò che gli era capitato, e (persino!) i costi necessari a curare il nuovo male che, pur sorto all’interno della struttura, sarebbe da imputarsi ad una sfortuna – quantomeno ironica – che ha deciso di accanirsi

32 Per quanto concerne le infezioni nosocomiali, l’orientamento che parrebbe maggioritario nella giurisprudenza di merito non si spinge fino al punto di chiedere la prova della specifica causa esterna non imputabile (risolvendosi questa in una probatio diabolica), ma ritiene sufficiente la dimostrazione di aver adottato le misure necessarie (secondo quanto stabilito a livello scientifico) per prevenirle, rifiutando così l’idea di una responsabilità oggettiva: Trib. Milano, 5.9.2014, n. 10809; Trib. Milano, 4.2.2016, n. 1584; Trib. Milano, 9.12.2015, n. 13875, tutte in Ri.da.re.; Trib. Roma, 22.6.2015, in www.altalex.com; si veda altresì Trib. Roma, 22.11.2016, n. 21481, in Danno e resp., 2017, 357, con nota di Davola, Infezioni nosocomiali e responsabilità della struttura sanitaria. 33

Trib. Roma, 22.6.2015, in www.altalex.com.

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Saggi e pareri

sul malcapitato»34. Il punto meriterebbe ben altri approfondimenti: basti qui ricordare che i sistemi no fault di tipo indennitario prestano, a propria volta, il fianco a profili di critica, anche perché si rivelano poco incentivanti 35.

8. Conclusioni La lettura delle nuove norme che si è qui tentata respinge le suggestioni “sans faute” e intravede un sistema che è inderogabilmente ancorato alla colpa; e tale ricostruzione sembra essere in linea con la ratio sottesa alla legge, che è quella di scongiurare e contenere il più possibile, a livello operativo e concreto, gli eventi avversi in sanità. Parrebbe infatti poco coerente con il disegno normativo – tutto incentrato sulla funzione preventiva – sostenere, per es., che l’osservanza delle prescrizioni/raccomandazioni dettate dall’“Osservatorio delle buone pratiche per la sicurezza” sia del tutto priva di rilievo ai fini del giudizio di responsabilità (per essere questa oggettiva e superabile solo con la dimostrazione della “causa esterna” non imputabile); anche perché un simile modello non sarebbe per nulla “incentivante” ed, anzi, rischierebbe di non promuovere affatto le condotte virtuose che, invece, nello spirito della riforma, dovrebbero rappresentare lo scenario del futuro. E sempre nell’ambito di una visione allargata, potrebbe valere la pena osservare che se è vero che l’obiettivo preso di mira era “ristabilire un equilibrio” in quel difficile crocevia in cui si affollano le istanze dei pazienti, dei singoli esercenti e gli interessi della collettività (anche in termini di

Davola, ibidem, a commento della sentenza del Trib. Roma, 22.11.2016, n. 21481, che ha ritenuto sufficiente, ai fini liberatori, la prova fornita dall’ente di aver adottato i protocolli universalmente riconosciuti come efficaci per la prevenzione delle infezioni in ambiente ospedaliero, così rigettando la domanda dell’attore e condannandolo pure al rimborso degli oneri di lite e delle spese di CTU. 34

Per una prima disamina si veda Zeno Zencovich, op. cit., 334, il quale osserva che «non mancano critiche ai sistemi no-fault in quanto essi non creano alcun incentivo/deterrente per il miglioramento della qualità del servizio da parte del personale medico e paramedico» ed ivi rif. bibl.

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Qualificazione dell’atto medico e autodeterminazione

gestione delle risorse, molte delle quali “sviate”, “sottratte” ed assorbite dalla medicina difensiva), una imputazione di tipo “oggettivo” non avrebbe probabilmente consentito di raggiungere tale fine, essendo difficilmente “sostenibile”36 (oltre che, per altro verso, forse “eticamente opinabile”37). Invero, non può non tenersi conto – in una prospettiva di più ampio respiro – delle concrete implicazioni “di sistema” che sono invariabilmente connesse alle scelte giuspolitiche. In un contesto economico caratterizzato da difficili assetti38, ogni finanziamento sottratto al com-

Contro l’idea di una responsabilità para-oggettiva “da posizione” delle strutture si esprime Breda, La responsabilità civile delle strutture sanitarie e del medico tra conferme e novità, in Danno e resp., 2017, III, 283 ss., e in particolare, 291; si vedano altresì le riflessioni di Nocco, Un no-fault plan come risposta alla crisi della responsabilità sanitaria? Uno sguardo sull’alternativa francese a dieci anni dalla sua introduzione, in Riv. it. med. leg., 2012, 449 ss. Si veda altresì Clerico, Consumo sanitario, errori umani e risarcimento del paziente, in Balduzzi (a cura di), La responsabilità professionale in ambito sanitario, Bologna, 2010, 155 ss., secondo il quale: «Solo una regola di responsabilità oggettiva è tale da fare sì che si abbia la completa internalizzazione dei costi sociali (ivi incluso il valore stesso del danno). Una simile regola, però, è troppo drastica e comporterebbe costi totali eccessivi per la collettività. Come risultato, si avrebbe una forte riduzione dell’offerta di prestazioni sanitarie con evidente detrimento per la tutela della salute dei pazienti». 36

Casucci, Il rapporto medico - paziente tra umanesimo e diritto ingiurioso, in Casucci (a cura di), Ingiuria, Tra diritto e letteratura, Napoli, 2015, 109, osserva: «La medicina, con la pressante istanza d’umano che la caratterizza, “può fallire” ma non può essere mutata in una roccaforte abbattuta sulla quale imperversano gli strali di una giustizia in cerca di un capro espiatorio, di un colpevole, sommamente ingiusta». 37

Frittelli, Responsabilità professionale e direzione strategica aziendale: problematiche, percorsi, indirizzi della nova legge, “Sicurezza delle cure e Responsabilità sanitaria”, in Quotidiano Sanità Edizioni on line, osserva: «Dal 2001 ad oggi si è registrato un progressivo incremento del finanziamento corrente, a carico dello Stato, per il Servizio Sanitario Nazionale; tuttavia, a fronte di prospettive di incremento della spesa sanitaria indotto dall’invecchiamento della popolazione e dalla ricerca clinica e farmacologica, che immette sul mercato farmaci e dispositivi innovativi alto spendenti, in grado tuttavia di garantire una migliore qualità di vita, il finanziamento del Fondo sanitario, inferiore di circa il 30% di quello dei più ricchi tra i paesi UE, rischia di essere insufficiente a garantire le cure. Un incremento del Fondo ai livelli europei, peraltro, appare improbabile, in quanto, rispetto ai Paesi Ue, in Italia non cambia la percentuale di Pil ad esso

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parto attraverso risarcimenti “facili” o “automatici” (per essere la prova liberatoria praticamente diabolica vd. rischio della causa ignota) si traduce in un vulnus per tutti i cittadini, perché i pazienti che chiedono di essere assistiti e curati vedranno correlativamente ridotti i servizi e le prestazioni erogabili a carico del SSN39. La Legge Gelli si è mossa in una direzione di recupero dell’equilibrio, mediando tra contrapposte esigenze, e lo ha fatto proprio per contrastare gli effetti distorsivi provocati da un eccessivo favor della giurisprudenza per il malato40. E nella ricerca di questo bilanciamento, ha anzitutto puntato sulla prevenzione e gestione del rischio, disegnando un modello in cui il danno è – idealmente – un’eventualità (da scongiurare il più possibile attraverso un efficace rete di controlli), e non il dato “normale” da cui partire.

destinata (in entrambi i casi tra il 6 e il 7%), ma l’entità del nostro Pil, molto inferiore a quello dei paesi in questione; inoltre, il nostro paese ha un problema endemico di evasione fiscale, sicché, come rileva il Rapporto Crea Sanità 2016, solo il 60% degli italiani riesce a coprire con l’Irpef versata la propria quota capitaria sanitaria finanziata dallo Stato tramite la fiscalità generale e il 50% del gettito Irpef è pagato da appena il 10% della popolazione». 39 In senso critico contro l’eccessivo sbilanciamento della giurisprudenza (all’insegna del favor per il paziente) anche Di Marzio, Il nesso di causalità? Per la cassazione il problema è politico, in www.altalex.it, 2007, il quale – così annota Occorsio, op. cit., 1272 – «intravede in questa tendenza un’irrazionale previdenza sociale priva di qualsiasi programmazione a monte e “che non tiene nel minimo conto de il beneficiario sia un Creso o un poveraccio. Una previdenza sociale entro la quale il medico non pagherà, perché pagherà la struttura sanitaria, che neppure pagherà perché pagherà l’assicuratore, che neppure pagherà, perché aumenterà i premi per tutti, sicché alla fine pagheremo tutti, per questa via, un’altra bellissima tassa, indifferente per di più al principio costituzionale di progressività». 40 Sulla situazione esistente in Italia nell’ambito della cd. med-mal ante riforma: Ponzanelli, La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa, in Danno e resp., 2016, 816 ss., che osserva: «(..) il regime elaborato dalla giurisprudenza, soprattutto in tema di responsabilità medica, si è progressivamente avvicinato a quello caratterizzato da un criterio di responsabilità che nulla ha più a che fare con il regime della colpa e che presenta forte similarità con un regime di responsabilità oggettiva seppur relativo, o in ogni caso con un regime di responsabilità aggravato dall’evento».

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In tale contesto assume altresì un ruolo cruciale l’assicurazione, chiamata – anche qui come nella RC auto – a svolgere una funzione “sociale” di tutela (sia verso il professionista/ente, sia soprattutto verso il paziente – terzo)41; la scelta di ancorare – inderogabilmente – la responsabilità alla colpa (art. 7 l. Gelli) ben potrebbe allora trovare (un’ulteriore) plausibile e ragionevole giustificazione nella necessità di far sì che tale “ombrello protettivo” possa in concreto funzionare (in chiave di sostenibilità del livello dei premi). I primi “bilanci” non possono che essere rinviati al prossimo futuro; ma il merito della Novella sta nel fatto di aver costruito i punti cardinali, nell’aver indicato chiaramente un percorso per uscire dalla “crisi”. Sono tuttavia indispensabili, da parte di tutti gli attori coinvolti, un forte impegno ed una volontà costruttiva affinché il cambiamento possa concretamente tradursi negli (auspicati) obiettivi di “riequilibrio” e recupero dell’alleanza42.

Sul punto si veda Hazan, Alla vigilia di un cambiamento profondo: la riforma della responsabilità medica e della sua assicurazione (DDL Gelli), in Danno e resp., 2017, 79 ss.

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42 Secondo un proverbio cinese, “Quando soffia il vento del cambiamento, alcuni costruiscono ripari, altri mulini a vento”. É allora auspicabile uno sforzo congiunto, anche da parte della giurisprudenza, affinché si abbiano a valorizzare i “punti forti” della Riforma, nella direzione di un fattivo cambiamento; ciò non senza negare l’opportunità – da verificarsi e studiarsi “in corsa” – di apportare le modifiche e gli aggiustamenti che appariranno necessari per meglio conseguire gli obiettivi di tutela (dei pazienti, ma anche dei medici e, più in generale, del sistema) dichiarati.

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Saggi e pareri


s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza

Cass. civ., III sez., 11.4.2017, n. 9251 Conferma App. Milano, 2.5.2011

Responsabilità civile – Danno da “nascita indesiderata” – Risarcibilità – Condizioni – Prova che il diritto sarebbe stato esercitato – Necessità – Dimostrazione per presunzioni – Ammissibilità (c.c., artt. 1218, 2043, 2697; l. 22 maggio 1978 n. 194, art. 6)

In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà di interrompere la gravidanza – ricorrendo le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto ricorrendo alla praesumptio hominis, che si avvale delle inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico – fisiche della gestante o le sue progressive manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale. Interruzione volontaria della gravidanza – Condizioni – “Grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” – Necessità – Mancanza di una mano del feto – Qualificazione come rilevante anomalia o malformazione del nascituro – Esclusione (c.c., artt. 1218, 2043, 2697; l. 22 maggio 1978 n. 194, art. 6)

L’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente); le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano solo nei termini in cui possono cagionare il danno alla salute della gestante, non hanno rilievo in sé e per sé con riferimento al nascituro. Ne consegue che la mancanza della mano sinistra non integra gli estremi delle rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro atte ad integrare il requisito del «grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna», legittimante l’eccezionale possibilità di dar luogo, dopo i primi novanta giorni di gravidanza, alla relativa interruzione. Responsabilità civile – Omessa diagnosi di malformazione fetale – Mancata interruzione della gravidanza – Danno iure proprio invocato dal nato disabile – Risarcibilità – Esclusione (Cost., art. 32; c.c., artt. 1218, 2043)

Il danno fatto valere dal nato disabile è irrisarcibile poiché il profilo dell’inserimento del nato in un ambiente familiare, nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo, si rivela sostanzialmente quale mero «mimetismo verbale» del c.d. diritto a non nascere se non sani e va, perciò, incontro all’obiezione dell’incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, con l’unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dall’interruzione della gravidanza. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista

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Giurisprudenza

Nascita indesiderata e aborto terapeutico: l’indefettibile presupposto del grave pericolo per la salute della gestante Maria Fontana Vita della Corte Dottore di ricerca

Sommario: 1. Fatti e decisum. – 2. Nascita indesiderata ed onere della prova: il ricorso alle presunzioni. – 3. Non ogni anomalia fetale permette l’interruzione della gravidanza: il fermo rifiuto dell’aborto eugenetico. – 4. Illecito omissivo del sanitario: quali danni sono risarcibili?

Abstract:

Nelle ipotesi in cui sia preclusa la facoltà di interrompere la gravidanza per omessa rilevazione ecografica di un’anomalia fetale, non è configurabile alcun danno risarcibile ove difetti la prova del grave pregiudizio per la salute della gestante. Tale onere probatorio, nel giudizio di responsabilità medica per illecito omissivo, grava sul danneggiato. When an incorrect diagnostic examination precluded the abortion, the compensation may be allowed only if the pregnant proves serious health damage for herself. In civil proceedings for malpractice, the burden of proof charges on the victim.

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1. Fatti e decisum Con la sentenza in epigrafe la Terza Sezione Civile della Corte di cassazione si trova alle prese con l’ennesimo caso di danno da nascita indesiderata1. Ad agire in giudizio sono i genitori di un bambino nato senza la mano sinistra che chiedono il risarcimento dei danni subiti, in proprio e in qualità di esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio, alla ginecologa e al centro medico presso cui era stata eseguita un’ecografia morfologica sulla gestante alla 21sima settimana senza rileva-

Per approfondimenti giurisprudenziali e dottrinali sui “danni da procreazione” da intempestiva diagnosi prenatale si rimanda a della Corte, Osservatorio di giurisprudenza in tema di “danno da nascita indesiderata”, in corso di pubblicazione sulla rivista Resp. civ. e prev.; Favilli, Il danno non patrimoniale da c.d. nascita indesiderata, in Navarretta (a cura di), Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, Milano, 2010, 493 ss. Tra le sentenze più recenti in argomento v. Cass., 9.5.2017, n. 11208, consultabile all’indirizzo www.rivistaresponsabilitamedica.it.

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Danno da nascita indesiderata

re, colpevolmente, la malformazione congenita. Le doglianze della coppia fanno perno principalmente sull’impossibilità, a fronte del comportamento negligente del sanitario, di esercitare il diritto all’aborto ovvero di iniziare in tempo utile e prima della nascita le terapie mediche di sostegno necessarie a modificare l’evoluzione del processo patologico in atto nel feto, oltre che sul fatto di non essersi previamente preparati psicologicamente al non lieto evento. Gli Ermellini, aderendo alle conclusioni dei giudici di merito, ritengono infondata la pretesa risarcitoria in quanto, pur ravvisando un inadempimento colpevole in capo al sanitario convenuto, al momento in cui si è verificato mancavano i requisiti normativamente previsti per ricorrere all’aborto (art. 6 l. n. 194/1978). Sulla base di tutte le risultanze istruttorie acquisite non è infatti emerso che la mancanza di una mano sia un’anomalia fetale così rilevante da poter determinare un grave pericolo per la salute psico-fisica della gestante, superati i primi novanta giorni di gravidanza. E quand’anche il sanitario si fosse comportato in maniera diligente, allo stesso modo resta escluso – per difetto di prova – che la tempestiva conoscibilità della malformazione avrebbe consentito, da un lato, di somministrare cure mediche adatte ad apportare apprezzabili modifiche sull’evoluzione del processo patologico in atto e, dall’altro, di evitare la sofferenza psichica patita da entrambi i genitori ove si fossero trovati previamente preparati alla nascita malformata. Neppure viene riconosciuto il risarcimento del danno sofferto dal nascituro in conseguenza della nascita malformata, in continuità con l’oramai prevalente orientamento che nega ogni risarcimento del danno sofferto dal nato disabile il quale, non essendo titolare del diritto a non nascere se non sano, non può dolersi del fatto di essere venuto al mondo con malformazioni congenite per mancato aborto, così come non può dolersi di alcun altro danno (pure richiesto) che sia conseguenza dei (non dimostrati) disagi psichici patiti dai genitori per effetto della sua nascita non evitata.

2. Nascita indesiderata ed onere della prova: il ricorso alle presunzioni Nelle fattispecie di responsabilità da nascita indesiderata a seguito di inadempimento del medico consistente nel non aver fornito le adeguate informazioni circa la presenza di anomalie genetiche nel feto si pone il problema di dimostrare – sussistendo le condizioni normativamente previste per legittimare l’interruzione della gravidanza – la volontà abortiva della donna, nel caso in cui fosse stata correttamente informata. Sul punto la Suprema Corte conferma il proprio consolidato orientamento2 e ribadisce che tale

Sin da Cass., 14.7.2006, n. 16123, in Corr. giur., 2006, 1691 ss., con nota critica di Liserre, Ancora in tema di mancata interruzione della gravidanza e danno da procreazione, in Corr. giur., 2006, 1691 ss.; con nota di Gorgoni, Responsabilità per omessa informazione delle malformazioni fetali, in Resp. civ. e prev., 2007, 56 ss.; con nota di Carbone, Ammissibilità del c.d. aborto eugenetico, in Corr. giur., 2006, 1209; con nota di Lubelli, Brevi note sul diritto a non nascere, in Giur. it., 2007, 1921 ss., la giurisprudenza ha assunto un atteggiamento più prudente a fronte del proliferare delle richieste risarcitorie avanzate nei confronti dei sanitari colpevoli di aver precluso alla gestante l’esercizio del suo diritto ad abortire in caso di omessa diagnosi di malformazioni fetali. Infatti, si è rifiutata l’idea che potesse scaturire in maniera automatica dall’inadempimento informativo da parte del medico il diritto della donna di abortire senza fornire la prova della sussistenza delle condizioni legittimanti, ai sensi degli artt. 6 e 7 l. n. 194/1978, l’interruzione della gravidanza. Tale orientamento si è poi preponderatamente affermato nella giurisprudenza più recente: cfr. Cass., 31.7.2013, n. 18341, in Contratti, 2013, 897 ss., Cass., 16.12.2014, n. 26373, in Guida al dir., 2015, VIII, 52 ss.; soprattutto Cass., sez. un., 22.12.2015, n. 25767, in Resp. civ. e prev., 2016, 162 ss., con nota di Gorgoni, Una sobria decisione “di sistema” sul danno da nascita indesiderata; con nota di Franzoni, Riflessioni a margine della sentenza sul «diritto a nascere sani», in Resp. civ. e prev, 2016, V, 1462 ss.; con nota di Piraino, I confini della responsabilità civile e la controversia sulle malformazioni genetiche del nascituro: il rifiuto del c.d. danno da vita indesiderata, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 450 ss.; con nota di Mazzoni, Vita e non vita in Cassazione. A proposito di Cass. n. 25767/2015, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1, 461 ss.; con nota di Bona, Sul diritto a non nascere e sulla sua lesione, in Foro it., 2016, II, 1, 494 ss.; con nota di Carusi, Omessa diagnosi prenatale: un contrordine … e mezzo delle Sezioni Unite, in Giur. it., 543 ss.; con nota di Bilò, Nascita e vita indesiderata: i contrasti giurisprudenziali all’esame delle Sezioni Unite, in Corr. giur., 2016, 41 ss.; con nota di 2

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onere ricade sul genitore che agisce per il risarcimento del danno3. Il fondamento di tale ragionamento risiede nel particolare modo di atteggiarsi del principio della vicinanza della prova4, secondo cui è la donna l’unico soggetto in grado di dimostrare che avrebbe interrotto la gravidanza – ricorrendo il serio o grave pericolo per la sua salute – se fosse stata tempestivamente informata della presenza delle malformazioni fetali. Si è dunque sedimentata la presa di distanza dal precedente orientamento5 che in tema di respon-

Cacace, L’insostenibile vantaggio di non essere nato e la contraddizion che nol consente, in Danno e resp., 2016, 346 ss. Per approfondimenti si rimanda a Pucella, Causalità e responsabilità medica: cinque variazioni del tema, in Danno e resp., 2016, 42 ss.; della Corte, Nascita indesiderata per omessa diagnosi: onere probatorio, interesse leso e danno risarcibile, in Resp. civ. e prev., 2013, 1506 ss.

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Sul principio della vicinanza della prova cfr. Franzoni, La «vicinanza della prova», quindi…, in Contr. e impr., 2016, 360 ss.; Petruzzi, Danno da nascita indesiderata e omessa diagnosi: prova del nesso causale, in Danno e resp., 2014, 1062 ss.; Barbarisi, Onere di allegazione e prova liberatoria nella responsabilità sanitaria, in Danno e resp., 2012, 890 ss. In giurisprudenza si segnalano: Cass., 27.4.2010, n. 10060, in Mass. Giust. civ., 2010, 619 ss.; Cass., 10.12.2013, n. 27528, in Giur. it., 2014, 1585 ss., con nota di Coppo, La prova del nesso nei giudizi di responsabilità per omessa diagnosi, in Giur. it., 2014, 1585 ss. Applicazione recente del suddetto principio nella giurisprudenza di merito, in Trib. Roma, 21.3.2017, n. 5558, consultabile all’indirizzo www.rivistaresponsabilitamedica.it; in Trib. Roma, 4.4.2017, n. 6668, consultabile all’indirizzo www.rivistaresponsabilitamedica.it; in Trib. Palermo, 5.7.2017, n. 3612, consultabile all’indirizzo www.rivistaresponsabilitamedica.it. 4

Tale orientamento è stato inaugurato da Cass., 21.6.2004, n. 11488, in Corr. giur., 2005, 33 ss., con nota di Di Majo, Mezzi e risultato nelle prestazioni mediche: una storia infinita, in Corr. giur., 2005, 33 ss. e con nota di De Matteis, La responsabilità medica ad una svolta?, in Danno e resp., 2005, 23 ss., sulla scorta dell’argomento che «l’omessa rilevazione della presenza di gravi malformazioni nel feto e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, debba essere ritenuta circostanza idonea a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio della facoltà di interrompere la gravidanza. Infatti, si ritiene rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sull’estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza». La pronuncia in questione si allontana dall’iniziale rigore probatorio richiesto da Cass., 8.7.1994, 6464, in Resp. civ. e prev., 1994, 1029 ss., con nota di Gorgoni,

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Giurisprudenza

sabilità del medico per nascita indesiderata, ai fini dell’accertamento del nesso causale tra omessa informazione di anomalie fetali e mancato ricorso all’IVG da parte della gestante, reputava sufficiente la generica allegazione6 da parte della donna

Il diritto di programmare la gravidanza e risarcimento del danno da nascita intempestiva, ibidem; con nota di Batà, Responsabilità del medico, omissione di informazione e danno risarcibile per mancata interruzione di gravidanza, che stabilisce testualmente, in Corr. giur., 1995, 91 ss., e da Cass., 24.3.1999, n. 2793, in Danno e resp., 1999, 766 ss., con nota di Gorgoni, Interruzione volontaria della gravidanza tra omessa informazione e pericolo per la salute (psichica) della partoriente, che espressamente richiedeva l’accertamento delle condizioni legittimanti l’aborto. Nello stesso senso, Cass., 10.5.2002, n. 6735, in Resp. civ. e prev., 2003, 134 ss., con nota di Gorgoni, Il contratto tra la gestante ed il ginecologo ha effetti protettivi anche nei confronti del padre, ibidem; con nota di De Matteis, La responsabilità medica per omessa diagnosi prenatale: interessi protetti e danni risarcibili, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 630 ss.; con nota di Palmieri, Malformazioni del feto e diritto alla scelta, in Foro it., 2002, 3120 ss.; con nota di Simone, Nascita indesiderata: il diritto alla scelta preso sul serio, in Foro it., 2002, 3120 ss.; con nota di Poncibò, La nascita indesiderata tra Italia e Francia, in Giur. it., 2003, 884 ss. Sostegno a tale orientamento in Cass., 4.1.2010, n. 13, in Corr. giur., 2010, 163, con nota di Carbone, Responsabilità medica per la nascita di bambini malformati, in Corr. giur., 2010, 163; con nota di Partisani, Il danno esistenziale del padre da nascita indesiderata, in La resp. civ., 2010, VIII-IX, 587 ss.; con nota di Fortino, La prevedibile resurrezione del danno esistenziale, in Resp. civ. e prev., 2010, 1027; Cass., 2.2.2010, n. 2354, in Mass. Giust. civ., 2010, 1551 ss., con nota di Simone, Nascite dannose: tra inadempimento (contrattuale) e nesso causale (extracontrattuale), in Danno e resp, 2011, 384 ss.; Cass., 10.11.2010, n. 22837, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 464 ss., con nota di Palmerini, Il “sottosistema” della responsabilità da nascita indesiderata e le asimmetrie con il regime della responsabilità medica in generale; Cass., 13.7. 2011, n. 15386, ibidem, 1251 ss., con nota di Carbone, Colpa per assunzione e obbligo di avviso nella responsabilità medico - sanitaria; Cass., 22.3.2013, n. 7269, in Resp. civ. e prev, 2013, 1499, con nota di della Corte, Nascita indesiderata per omessa diagnosi: onere probatorio, interesse leso e danno risarcibile, ibidem; con nota di Pucella, Legittimazione all’interruzione della gravidanza, nascita “indesiderata” e prova del danno, in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 1082; con nota di Amato, Omessa diagnosi prenatale: regime dell’onere probatorio e rilevanza dell’obbligo informativo, in Fam. e dir., 2013, 1095. È evidente l’adesione al più agevole meccanismo di ripartizione dell’onere della prova, affermatosi a seguito della qualificazione in termini forzatamente contrattuali della responsabilità medica, così come previsto da Cass., sez. un., 30.10.2001, n. 13533, in Corr. giur., 2001, 1565 ss., con nota

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che si sarebbe avvalsa di tale possibilità, se opportunamente informata. Tale indirizzo riteneva corrispondente a regolarità causale7 che la don-

di Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro, ibidem; con nota di Laghezza, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite e la difficile arte del rammento, in Foro it., 2002, I, 1, 769 ss.; con nota di Palmerini, La responsabilità medica e la prova dell’inesatto adempimento, in Nuova giur. civ. comm., 2004, I, 783 ss.; con nota di Visintini, La Suprema Corte interviene a dirimere un contrasto tra massime (in materia di onere probatorio a carico del creditore vittima dell’inadempimento), in Contr. e impr., 2003, 903 ss.; con nota di De Matteis, La responsabilità medica ad una svolta?, ibidem, immediatamente confermato da Cass., 4.3.2004, n. 4400, in Danno e resp., 2005, 45 ss., con nota di Feola, Il danno da perdita di chances di sopravvivenza o guarigione è accolto in Cassazione, in Danno e resp., 2005, 49 ss; Cass., 21.6.2004, n. 11488, cit.; Cass., 13.4.2007, n. 8826, in La resp. civ., 2007, 1824 ss., con nota di Gorgoni, Le conseguenze di un intervento chirurgico rivelatosi inutile; con nota di Pucella, I difficili assetti della responsabilità medica. Considerazioni in merito a Cass. n. 8826/2007 e n. 14759/2007, in Nuova giur. civ., 2007, II, 445; Cass., 8.10.2008, n. 24791, in Mass. Giust. civ., 2008, 1448 ss. Le ricadute dell’adesione all’opzione contrattualistica sul riparto probatorio sono evidenziati, tra gli altri, da De Matteis, La responsabilità sanitaria tra tendenze giurisprudenziali e prospettive de iure condendo, in Contr. e impr., 2009, 542 ss.; Zeno Zencovich, Una commedia degli errori? La responsabilità medica fra illecito e inadempimento, in Rass. dir. civ., 2008, III, 1, 297 ss. Per economia della trattazione, si intende tralasciare la discussione relativa alla qualificazione giuridica della responsabilità della struttura sanitaria e del singolo esercente che, in termini generali, riguardano l’intero settore della responsabilità medica, peraltro oggetto di recente intervento normativo (Riforma Gelli-Bianco, 8.3.2017, n. 24). Per approfondimenti: Pucella, È tempo per un ripensamento del rapporto medico-paziente, in questa Rivista, 2017, 3 ss.; Gorgoni, La responsabilità in ambito sanitario tra passato e futuro, ibidem, 17 ss.; Scognamiglio, Il nuovo volto della responsabilità del medico. Verso il definitivo tramonto della responsabilità da contatto sociale, ibidem, 35 ss.; Scognamiglio, Regole di condotta, modelli di responsabilità e risarcimento del danno nella nuova legge sulla responsabilità sanitaria, in Corr. giur, 2017, 740 ss..; Ziviz, Responsabilità sanitaria: appunti sul rilievo delle linee guida in ambito civilistico, in questa Rivista, 2017, 43 ss. Considerazioni anche in Ponzanelli, La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa, in Danno e resp., 2016, 816 ss. È orientamento oramai prevalente della giurisprudenza sia di legittimità che di merito condurre l’accertamento del collegamento tra la condotta dell’esercente la professione medica e la nascita indesiderata sulla base del criterio della regolarità causale assestata sul crinale del «più probabile che non»: a partire da Cass., 16.10.2007, n. 21619, in

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na, ove adeguatamente e tempestivamente edotta della presenza di anomalie genetiche nel feto, atte ad incidere sull’estrinsecazione della sua personalità, si sarebbe inevitabilmente determinata ad interrompere la gravidanza. La tendenza invalsa nelle aule di giustizia era, quindi, quella di non richiedere alcun accertamento né della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge che giustificavano l’IVG né del se la donna avesse davvero l’intenzione di abortire una volta appresa la notizia dell’handicap, presumendo entrambi8; spettava viceversa al sanitario la prova del fatto negativo, ossia di “quegli aspetti del caso (fattori ambientali, culturali, di storia personale), idonei a dimostrare in modo certo che, pur informata, la donna avrebbe accettato la continuazione della gravidanza”9. Da tale prospettiva, l’esigenza di

Danno e resp., 2008, 43 ss., l’indagine sul nesso «per quanto rigorosa, funzionale a predicarne l’esistenza sul piano del diritto, si arresta sovente, quantomeno in sede civile, sulle soglie del giudizio probabilistico». Specifica applicazione del suddetto principio nelle ipotesi di nascita indesiderata in: Cass., 11.5.2009, n. 10743, in Resp. civ. e prev., 2009, 759 ss.; Cass., 10.11.2010, n. 22837, cit.; Cass., 2.2.2010, n. 2354, cit.; Cass., 9.6.2011, n. 12856, in Giust. civ., 2013, I, 782 ss.; Cass., 21.7.2011, n. 15991, in Resp. civ. e prev., 2011, 2496, con nota di Miotto, La Cassazione torna sul concorso di cause umane e cause naturali e butta il bambino con l’acqua sporca. Più di recente in Cass., sez. un., 22.12.2015, n. 25767, cit.; e Cass., 9.9.2016, n. 11789, in questa Rivista, 2017, 135 ss., con nota di della Corte, I criteri di accertamento del nesso di casualità nell’illecito omissivo: “il più probabile che non spazza via ogni certezza”. In dottrina si rimanda alle monografie di Capecchi, Il nesso di causalità. Da elemento della fattispecie “fatto illecito” a criterio di limitazione del risarcimento del danno, Padova, 2005; Pucella, La causalità “incerta”, Torino, 2007, 165 ss.; Pucella, De Santis, Il nesso di causalità: profili giuridici e scientifici, Padova, 2007; Tassone, La ripartizione di responsabilità nell’illecito civile. Analisi giuseconomica e comparata, Napoli, 2007; Nocco, Il «sincretismo causale» e la politica del diritto: spunti dalla responsabilità sanitaria, in termini di “probatio diabolica”, Torino, 2010; Napoli, Il nesso causale come elemento costitutivo del fatto illecito, Napoli, 2012. Cfr. Cass., 14.6.2006, n. 16123, cit., con nota critica di GorResponsabilità per omessa informazione delle malformazioni fetali, ibidem.

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goni,

Cfr. Cass., 10.5.2002, n. 6735, cit. Già in quegli anni, nella giurisprudenza di merito, emergono voci di dissenso rispetto alla soluzione adottata dalla Suprema Corte, in ragione del fatto che, benché spetti al convenuto smentire la presunzione della volontà abortiva della donna occorre fare ricorso

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prova in capo alla gestante sussisteva solo nella specifica ipotesi di contestazione del fatto ad opera del sanitario: in tal caso diveniva necessario stabilire, sulla base del criterio del “più probabile che non”10, integrato con dati di comune esperienza evincibili dall’osservanza dei fenomeni sociali, se, una volta ricevuta l’informazione omessa da parte del medico, nella gestante si sarebbe potuto verificare un pericolo grave per la sua salute fisica o psichica11, determinandola ad abortire pur di non correrlo. A tale indirizzo si contrappone quello12, cui aderisce la pronuncia in esame, meno benevolo per la gestante, che esige la prova più rigorosa della

ad altri fattori (quali dati statistici o altri elementi di comune esperienza correlati alla natura delle malformazioni) piuttosto che a quelli correlati alla storia personale o ambientale della gestante e che non presentano un significato univoco: in tal senso, ad es., Trib. Reggio Calabria, 31.3.2004, in Danno e resp., 2005, 179 ss., con nota di Bitetto, Wrongful birth: diritti dei genitori e assistenza tempestiva al figlio disabile. 10 Per una disamina giurisprudenziale e dottrinale dei criteri di accertamento del nesso causale nelle ipotesi di responsabilità del sanitario per illecito omissivo si rimanda a della Corte, I criteri di accertamento del nesso di causalità nell’illecito omissivo: il “più probabile che non” spazza via ogni certezza, ibidem.

Il pericolo per la salute della gestante poteva essere desunta a posteriori dalla circostanza che, dopo la nascita, la madre avesse fatto ricorso al supporto psicologico di uno specialista: cfr. Trib. Roma, 9.3.2004, in Danno e resp., 2005, II, 197 ss., con nota di Cacace, Perruche et alii: un bambino e i suoi danni.

Giurisprudenza

sua intenzione di abortire: tutte le volte in cui la volontà di interrompere la gravidanza in caso di diagnosi infausta non sia stata espressamente manifestata dalla gestante al momento dell’indagine diagnostica (circostanza che, al contrario, escluderebbe ogni altra valutazione). La mera richiesta di eseguire esami più approfonditi ha solo valore indiziario e di presunzione semplice e spetta, dunque, al genitore che agisce in giudizio l’onere di addurre ulteriori elementi che attribuiscano a tale presunzione la concreta dimostrazione della volontà abortiva. In sostanza, l’interprete è in ogni caso chiamato a ricorrere al ragionamento presuntivo13 al fine di inferire logicamente l’intenzione abortiva da una condotta significante, ossia dalla richiesta dell’indagine diagnostica, tale presunzione (semplice) non può da sola bastare ma deve essere corredata da altri elementi del caso concreto, tra cui la gravità della malformazione, che devono essere introdotti in giudizio dalla gestante in quanto “non solo la legge, ma anche il principio di vicinanza della prova è uguale per tutti”14. Il limite di entrambi gli indirizzi15 richiamati restava quello che, una volta dimostrata la volontà di interrompere la gravidanza in presenza di un’ade-

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Tale orientamento si è consolidato a partire da Cass., 2.10.2012, n. 16754, in Corr. giur., 2013, 45 ss., con nota di Monateri, Il danno al nascituro e la lesione alla maternità cosciente e responsabile; con nota di Carbone, La legittimazione al risarcimento spetta direttamente al concepito nato malformato per errata diagnosi, in Corr. giur, 2012, 1291 ss.; con nota di Gorgoni, Dalla sacralità della vita alla rilevanza della qualità della vita, in Resp. civ. e prev., 2013, 148 e 335 ss.; con nota di Cacace, Il Giudice rottamatore e l’enfant prejudice, in Danno e resp., 2013, 139 ss.; con nota di Palmerini, Nascite indesiderate e responsabilità civile. Il ripensamento della Cassazione, in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 198 ss; Cass., 22.3.2013, n. 7269, cit.; Cass., 10.12.2013, n. 27528, cit.; Cass., 30.5.2014, n. 12264, in Danno e resp., 2014, 1143 ss., con nota di Treccani, Omessa diagnosi – di malformazione del feto – e ripartizione degli oneri probatori, in Danno e resp., 2014, 1146 ss.; con nota di Vapino, La prova della volontà abortiva ai fini del risarcimento da nascita indesiderata, in Giur. it., 2015, 51 ss. 12

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13 In giurisprudenza il ricorso alle presunzioni per accertare l’assolvimento degli oneri probatori in ambito sanitario, consolidato da Cass., sez. un., 22.12.2015, n. 25767, cit., è divenuto sempre più massiccio. Tra le sentenze più recenti, Cass., 20.3.2015, n. 5590, in Resp. civ. e prev., 2015, 1907; Cass., 16.2.2016, n. 2998, cit.; Cass., 31.3.2016, n. 6209, in Mass. Giust. civ., 2016. Nel merito, App. Roma, 28.7.2017, n. 5179, consultabile all’indirizzo www.responsabilitamedica.it. Sull’utilizzo delle presunzioni non solo nel campo della R.C. del sanitario v. Faccioli, “Presunzioni Giurisprudenziali” e responsabilità sanitaria, in Contr. e impr., 2014, 79 ss. Il ricorso ai “vaporosi criteri presuntivi” è stato criticato in dottrina da Gorgoni, Gli obblighi sanitari attraverso il prisma dell’onere della prova, in Resp. civ. e prev., 2010, 669 ss.; Paradiso, La responsabilità medica tra conferme giurisprudenziali e nuove aperture, in Danno e resp., 2009, 7, 703 ss. 14 Cfr. App. Bologna, 20.3.2017, consultabile all’indirizzo www.responsabilitamedica.it. 15 Per il dibattito dottrinale sul tema dell’onere della prova, ex plurimis, v., Di Pentima, L’onere della prova nella responsabilità medica, Milano, 2007; Sella, Wrongful life, in Cendon (a cura di), La prova e il quantum nel risarcimento del danno, Torino, 2014, 380 ss.


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guata informazione sulle anomalie del concepito, veniva presunta la presenza delle gravi malformazioni fetali che avrebbero determinato il rischio di grave danno alla salute (psichica) della donna. A riguardo, la pronuncia in commento, in ossequio a quanto stabilito dalle Sezioni Unite del 2015, che hanno sanato il contrasto giurisprudenziale sul riparto dell’onere probatorio, muove dall’assunto che così come non può esservi automatismo probatorio circa l’intenzione della gestante di ricorrere all’IVG allo stesso modo occorre dimostrare la presenza delle condizioni legittimanti la pratica abortiva e il danno subito per la preclusione di tale possibilità.

3. Non ogni anomalia fetale permette l’interruzione della gravidanza: il fermo rifiuto dell’aborto eugenetico Mediante espliciti richiami a precedenti illustri16, la pronuncia in commento si segnala per aver raf-

Cass., 11.5.2009, n. 10741, in Resp. civ. e prev., 2009, 2075 ss., con nota di Gorgoni, Nascituro e responsabilità sanitaria; con nota di Feola, Le responsabilità del medico e della struttura sanitaria per il danno prenatale causato dall’inadempimento delle obbligazioni di informazione (il diritto “a nascere sano”), in Dir. e giur., 2010, 91 ss.; con nota di Galgano, Danno da procreazione e danno al feto, ovvero quando la montagna partorisce un topolino, in Contr. e impr., 2009, 537 ss.; con nota di Cacace, Figli indesiderati nascono. Il medico in tribunale, in Danno e resp., 2009, 1190 ss.; con nota di Franzoni, L’interprete nel diritto dell’economia globalizzata; in Contr. e impr., 2010, 366 ss.; con nota di Liserre, In tema di responsabilità del medico per il danno al nascituro, in Corr. giur., 2010, 369 ss.; con nota critica di Cricenti, Il concepito soggetto di diritto e limiti dell’interpretazione, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 1258 ss.; negli stessi termini, Cass., 14.7.2006, n. 16123, cit.; Cass., 29.7.2004, n. 14488, cit.; Cass., 22.11.1993, n. 11503, in Giur. it., 1994, I, 1, 556 ss.; con nota di Zeno-Zencovich, Il danno al nascituro, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, 690; con nota di Batà, La tutela del concepito e il diritto a nascere sano, in Corr. giur., 1994, IV, 479 ss.; con nota di Ioratti, La tutela del nascituro: la conferma della Cassazione, in Resp. civ. e prev., 1994, 403 ss.; con nota di Carusi, Responsabilità contrattuale ed illecito anteriore alla nascita del danneggiato, in Giur. it., 1995, I, 550 ss. Tra le pronunce di merito: Trib. Padova, 24.10.2005, in Nuova giur. civ. comm., 2006, 1330 ss., con nota di Siano, Principi giurisprudenziali in materia di responsabilità medica e risarcimento del danno per nascita indesiderata di un figlio handicappa16

forzato il sedimentato principio giurisprudenziale per cui è da escludersi nel nostro ordinamento l’ammissibilità dell’aborto per il solo fatto della presenza di una qualsiasi anomalia fetale (cd. eugenetico)17, prescindente dal serio o grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna e finalizzato ad impedire la nascita di un figlio non sano. L’intento perseguito dalla Suprema Corte è chiaramente quello di porre un freno alle molteplici e seriali richieste risarcitorie avanzate nei confronti dei sanitari per aver impedito l’esercizio del diritto di interrompere la gravidanza a causa del loro comportamento omissivo, tutte le volte in cui manchi la prova del grave pregiudizio alla salute della gestante oltre che della sua effettiva volontà abortiva. Rievocando, dunque, il principio in base al quale lo Stato tutela la vita sin dal suo inizio (art. 1 l. n. 194/197818), la pronuncia rifiuta fermamente l’idea che l’interruzione della gravidanza possa essere usata come mezzo per il controllo e la li-

to; Trib. Catania, 29.3.2006, in Giur. merito, 2006, VII, 13 ss.; Trib. Roma, 13.12.1994, in Dir. fam., 1995, 662 ss.; con nota di Dogliotti, «Diritto a non nascere» e responsabilità civile, in Dir. fam., 1995, 1474 ss. Per una ricostruzione dell’aborto, anche sotto il profilo storico, v. Moscarini, voce «Aborto. I. Profili costituzionali e disciplina legislativa», in Enc. giur. Treccani, I, Roma, 1991, 8 ss.; Zatti, Nannini, voce «Gravidanza (interruzione della)», nel Digesto IV ed., Disc. priv. sez. civ., IX, Torino, 1994, 260 ss. Per un’analisi critica della normativa sull’aborto, v. Fraccon, Relazioni familiari e responsabilità civile, Milano, 2003, 442 ss.; Vari, Considerazioni critiche sull’espressione secondo la quale il concepito «persona deve ancora diventare», in Studi in onore di Aldo Loiodice, Bari, 2012, 1170 ss. 17

Fra i numerosi commenti alla l. n. 22.5.1978, n. 194 si segnalano: Cian, Osservazioni a commento della legge 22 maggio 1978, n. 194, in Nuove leggi civ. comm., 1978, 99 ss.; Bianca, Busnelli, Legge 22 maggio 1978, n. 194. Commentario, ibidem, 1593 ss.; Lipari, La maternità e la sua tutela nell’ordinamento giuridico italiano: bilancio e prospettive, in Rass. dir. civ., 1986, 571 ss.; Zanchetti, La Legge sull’interruzione della gravidanza, nel Commentario sistematico alla legge 22 maggio 1978, in Bianca (a cura di), Padova, 1992, 194; Kirschen, L’interruzione volontaria della gravidanza: profili di responsabilità, in Cendon (a cura di), Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, II, Padova, 2004, 1123 ss. Interessanti le considerazioni etico-giuridiche sul valore della vita prenatale di Zatti, La tutela della vita prenatale: i limiti del diritto, in Nuova giur. civ. comm., 2001, II, 149 ss. 18

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mitazione delle nascite, essendo esclusivamente funzionale ad evitare un pericolo per la salute della gestante19. È, in tal modo, chiaro l’intento di ribadire come nella legge sull’IVG si rintracci un “punto di equilibrio tra due valori di rilevanza costituzionale”20, ossia la tutela della vita umana

La prevalenza della tutela della salute di chi è già persona (la gestante) rispetto alla salvaguardia dell’interesse del concepito di venire al mondo si è affermata, per la prima volta e con portata dirompente, con la storica sentenza Corte cost., 18.2.1975, n. 27, in Giur. it., 1975, I, 1416 ss., la quale ha spianato la strada all’approvazione della legge sull’aborto ammettendo, mediante la declaratoria di illegittimità dell’art. 46 c.p., la possibilità legale di sopprimere il feto se la prosecuzione della gravidanza può provocare “un danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della donna”. Nella giurisprudenza di legittimità la facoltà della madre di abortire al fine di salvaguardare la propria salute viene sancito per la prima volta da Cass., 1.12.1998, n. 12195, in Danno e resp., 1999, V, 522 ss., con nota di Filograna, “Se avessi potuto scegliere …”: la diagnosi prenatale e il diritto all’autodeterminazione; tale pronuncia, di notevole importanza, ha distinto chiaramente il diverso modo di atteggiarsi del diritto all’aborto se praticato entro o decorsi i primi novanta giorni dall’inizio della gravidanza. Nel primo caso l’IVG rappresenta un “intervento profilattico nei confronti di un danno temuto per la salute della gestante”, ossia la malformazione del nascituro agisce come previsione del pericolo alla salute della donna; nel secondo, invece, costituisce “un intervento terapeutico complementare, valido cioè nella globalità delle cure prestate per una condizione morbosa già in atto”. In altri termini, agli effetti dell’interruzione oltre il novantesimo giorno, occorre che la gestante presenti già una patologia fisica o psichica (eventualmente scatenata dalla stessa conoscenza della presenza di anomalie nel feto) che potrebbe evolversi in un pericolo grave per la sua salute ove la gravidanza proseguisse. Per ulteriori approfondimenti, v. Pittalis, La responsabilità per la lesione della paternità conseguente all’interruzione della gravidanza, in Sesta (a cura di), La responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 2008, 191 ss. 19

Si esprime in questi termini, T.A.R. Lombardia, 29.12.2010, n. 7735, in Giorn. dir. amm., 2011, IV, 430 ss. Sul conflitto tra la facoltà di interrompere la gravidanza per la madre e l’interesse del concepito a nascere, v. Melidoro, Bioetica e ragione pubblica: il caso dell’aborto, in Bioetica, 2005, IV, 59 ss.; Corti, La procreazione assistita, nel Trattato Il Nuovo diritto di famiglia, diretto da Ferrando, III, Bologna, 20072008, 490 ss.; Navarretta, Ingiustizia del danno e nuovi interessi, nel Trattato Lipari-Rescigno, IV, 3, Milano, 2009, 174 “(…) non esiste un diritto all’interruzione della gravidanza, ma una disciplina legale del bilanciamento di interessi fra la vita dell’embrione e la vita o la salute della madre, (…) nel senso di non mettere a rischio la vita e la salute della madre a fronte della nuova vita, salvo che la stessa madre desideri accettare tale rischio”. 20

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Giurisprudenza

sin dal suo inizio (quale bene giuridico protetto dall’art. 2 Cost.) e la tutela del diritto alla salute della gestante (che rintraccia il suo fondamento nell’art. 32 Cost.): tale punto di equilibrio si rinviene tanto nella individuazione delle condizioni esatte al verificarsi delle quali è possibile ricorrere all’interruzione della gravidanza, quanto nella definizione delle procedure atte a rintracciare l’effettiva sussistenza di tali condizioni (art. 7). A tal fine si stabilisce che nei primi tre mesi di gravidanza, è consentito alla donna abortire ove ricorrano “previsioni” di malformazioni del concepito tali da mettere seriamente in pericolo la sua salute fisica o psichica (art. 4, l. n. 194/197821) in caso di prosecuzione della gravidanza; viceversa, decorsi novanta giorni dall’inizio della gestazione, l’IVG è consentita solo nei casi tassativamente stabiliti dall’art. 6 l. n. 194/1978, ossia se: a) la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; ovvero, b) siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni fetali, tali da causare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna22; mentre nella fase più avanzata della gravidanza, quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto23, l’IVG è ammessa solo se sussiste un grave pericolo per la vita della madre.

La norma riconosce la facoltà della donna di interrompere la gravidanza entro i primi tre mesi dal concepimento in maniera pressoché “libera” (ossia rimessa alla mera decisione della gestante), rivolgendosi ad un «consultorio pubblico» o ad una «struttura socio-sanitaria a ciò abilitata dalla regione o a un medico di sua fiducia» ove “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza o il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. 21

Per approfondite considerazioni sull’aborto terapeutico praticato oltre il terzo mese di gravidanza v. Benegiano, Aborti tardivi: drammi evitabili?, in Bioetica, 2007, II, 84 ss. 22

23 Per tale intendendosi «quel grado di maturità del feto che gli consentirebbe, una volta estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche fuori dall’ambiente materno»: cfr. Cass., 4.1.2010, n. 13, cit.; analogamente, App. Catania, 31.3.2016, n. 536, consultabile all’indirizzo www.ridare.it.


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Danno da nascita indesiderata

Nell’ipotesi contemplata dalla lettera a) dell’art. 6, il pericolo per la vita della donna che consente il ricorso all’aborto terapeutico deve essere “grave” ma non imminente24 e tale gravità deve essere valutata sulla base di un ragionamento probabilistico, ossia considerando la possibile negativa incidenza che la prosecuzione della gravidanza o il parto potrebbero avere sulla vita della gestante. Il pericolo può derivare tanto da una patologia autonoma che la gravidanza aggrava, quanto da una patologia (anche psichica) sorta quale conseguenza diretta della gravidanza. Nella diversa ipotesi contemplata nell’art. 6 lett. b) l’aborto terapeutico è legittimo solo ove il processo patologico sia in atto nel momento in cui la gestante apprende dell’esistenza delle anomalie fetali e venga medicalmente accertato (art. 7). In altri termini, quando in base ad una valutazione ex ante25 (c.d prognosi postuma) è possibile ritenere altamente probabile che la conoscenza della anomalia del feto al momento degli opportuni accertamenti determini un pericolo per la salute psichica della

24 Nell’ipotesi di pericolo imminente alla salute della donna, l’art. 7, comma 2°, l. n. 194/1978 consente il tempestivo intervento medico indipendentemente da qualsiasi previa autorizzazione della gestante (o dei suoi familiari) ravvisandovi l’esimente dello stato di necessità ex art. 49 c.p. Cfr. Zatti, Nannini, op. cit., 268 ss. 25 «Quante volte si tratta di stabilire non se la donna possa esercitare il suo diritto di interrompere la gravidanza ma se avrebbe potuto farlo ove fosse stata convenientemente informata sulle condizioni del nascituro, non si deve già accertare se in lei si sia instaurato un processo patologico capace di evolvere in grave pericolo per la sua salute psichica, ma se la dovuta informazione sulle condizioni del feto avrebbe potuto determinare durante la gravidanza l’insorgere di tale processo patologico», cfr. Cass., 21.6.2004, n. 14488, in Resp. civ. e prev., 2004, 1348, con nota di Gorgoni, La nascita va accettata senza «beneficio di inventario»?; con nota di Franzoni, Errore medico, diritto di non nascere, diritto di nascere sano, in La resp. civ., 2005, 486 ss.; con nota di Rizzieri, La responsabilità del ginecologo per non aver accertato che il nascituro era affetto da patologia invalidante; con nota di Liserre, Mancata interruzione della gravidanza e danno da procreazione, in Corr. giur., 2004, 1431 ss.; con nota di Bitetto, Il diritto “a nascere sani”, in Foro it., 2004, I, 3327; con nota di Facci, Wrongful life: a chi spetta il risarcimento del danno?, in Fam. e dir., 2004, 559; con nota di Feola, Essere o non essere: la Corte di Cassazione e il danno prenatale, in Danno e resp., 2004, 379.

madre così grave da assumere carattere patologico (non rientrandovi, ad esempio, lo stress o il mero affaticamento), può ritenersi legittima la richiesta risarcitoria per mancato esercizio del diritto ad abortire in conseguenza del comportamento omissivo del sanitario26. Spetta pertanto alla parte, che richiede il risarcimento del danno per mancato esercizio della possibilità di interrompere la gravidanza, provare, quantomeno in termini di probabilità scientifica27, che la patologia di cui all’art. 6 l. n. 194/1978 si sarebbe manifestata una volta appresa l’informazione da parte del medico. Al giudice resta il compito di effettuare un ragionamento ipotetico sulla base delle condizioni che esistevano al momento dell’omissione informativa, assumendo valore meramente indiziario quanto verificatosi dopo la nascita28. Nel condurre tale indagine, un ruolo dirimente assume anche la misura della gravità della malformazione fetale che dunque non rileva in sé e per sé considerata con riferimento al nascituro29, ma solo ove pregiudizialmente incida sulla salute della gestante. In applicazione di tali principi, la pronuncia ha escluso che la mancanza di una mano possa essere considerata un’anomalia tanto rilevante da

Ampie considerazioni in argomento in Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 120 ss.

26

Così App. Catania, 31.3.2016, n. 536, consultabile all’indirizzo www.ridare.it; Trib. Bari, 24.2.2014, n. 937, in Red. Giuffrè, 2014; Trib. Lecco, 9.11.2009, in Dir. e giust. online. 27

L’insorgere di una patologia psichica nella madre a seguito del parto lascia intendere che analoga reazione si sarebbe verificata anche prima, ossia durante la gravidanza, ove fosse stata correttamente informata dal sanitario della malformazione fetale. Ma, come precisa a riguardo Cass., 21.6.2004, n. 14488, cit., «l’impatto dell’inaspettata rivelazione al momento del parto è indubbiamente maggiore che non l’effetto di una comunicazione al momento della gravidanza»; pur tuttavia, tale considerazione «non può essere logicamente utilizzata al fine di vagliare se la donna, pur informata, avrebbe accettato la continuazione della gravidanza». 28

Cfr. Cass., 31.10.2017, n. 25849, consultabile all’indirizzo www.rivistaresponsabilitamedica.it, ha precisato che la mancanza di entrambi gli arti nel nascituro rappresenta anomalia rilevante non in sé e per sé considerata ma perché idonea a determinare un grave pregiudizio alla salute della gestante, tale da integrare la fattispecie legale per ricorrere all’interruzione della gravidanza. 29

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incidere gravemente sulla salute della gestante; sicché l’alterazione psicologica subita dalla donna per il non lieto evento, sebbene permanente nel tempo ed inevitabile anche ove fosse stata previamente avvisata dal sanitario della sua presenza, non è qualificabile in termini di gravità per come richiesta dall’art. 6 lett. b) l. n. 194/1978, oscillando piuttosto tra una percentuale variabile dal 10% al 33% così come dichiarato dallo stesso consulente di parte attrice e confermato in sede di consulenza tecnica d’ufficio30.

4. Illecito omissivo del sanitario: quali danni sono risarcibili? Escluso che la violazione dell’obbligo informativo da parte del sanitario abbia impedito il ricorso all’interruzione della gravidanza a fronte dell’indimostrata sussistenza dei presupposti legittimanti l’aborto, resta da verificare se l’illecito omissivo abbia avuto una qualche efficacia eziologica rispetto ad altri due ordini di eventi dannosi asseritamente subiti dai genitori ed entrambi dedotti in giudizio. Da una parte ci si interroga se la condotta del sanitario, che non è stato in grado di scorgere la malattia del feto, possa aver precluso la possibilità di intervenire con trattamenti terapeutici in utero al fine di rimuovere o quantomeno di alleviare gli effetti dell’anomalia31; dall’altra, se una tempestiva informazione avrebbe evitato nei genitori32 il trauma psicologico scaturito dal-

Sul ruolo della CTU nella responsabilità medica si rimanda ai richiami dottrinali in della Corte, Le omissioni del medico e il regime di responsabilità, in Resp. civ. e prev., 2014, 572 ss. In argomento anche v. Gorgoni, Il sistema risarcitorio del danno alla persona, Lecce, 2012, 123 ss. 30

31 Sui progressi della diagnostica in utero, v. Rossetti, Errore, complicanza e fatalità: gli incerti confini della responsabilità civile in ostetricia e ginecologia, in Danno e resp., 2001, 12 ss.; Siano, Diagnosi prenatale e responsabilità del medico. L’esperienza italiana e francese, in Dir. e fam., 2006, 999 ss.

La giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto anche il diritto del padre di ottenere il risarcimento del danno nelle ipotesi di accertata responsabilità medica da inadempimento del dovere di informare la gestante circa lo stato di salute del feto (sotto forma di danno da diminuita vita di relazione ovvero quale shock emotivo per essere impreparato ad accogliere un figlio disabile) dapprima in termini di danno 32

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Giurisprudenza

la scoperta della malformazione una volta nato il bambino, in assenza di una adeguata preparazione all’accoglimento dell’handicap. Accertato in sede di consulenza tecnica che l’introduzione, con quattro mesi di anticipo, delle terapie di sostegno non avrebbe inciso significativamente sulla degenerazione della malformazione, la pronuncia che pure ammette che i coniugi – ove tempestivamente informati – sarebbero arrivati al parto preparati al non lieto evento, di fatto esclude che la loro sofferenza psichica (sub specie di danno biologico) avrebbe potuto essere evitata o lenita da una conoscenza tempestiva, negando dunque l’invocato risarcimento. In contrasto rispetto ad altre pronunce33 favorevoli alla risarcibilità del danno subito dai genitori per essersi trovati psicologicamente impreparati alla nascita di un figlio con patologie, la Corte di Cassazione conferma le statuizioni del giudice di merito e non ritiene che il trauma derivante dalla scoperta dell’handicap al momento della nascita, quando oramai si era persuasi all’idea di avere un figlio sano, possa essere più grave di quello che i genitori avrebbero subito alla scoperta dell’anomalia in sede di monitoraggio intrauterino. Né la pronuncia lascia spazio al danno morale ovvero

riflesso (cfr. Cass., 5.2.1999, n. 2793, cit.) e poi considerandolo destinatario diretto del pregiudizio secondo la teoria del contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi (cfr. Cass., 10.5.2002, n. 6735, cit.; Cass., 20.10.2005, n. 20320, in La resp. civ., 2006, 180 ss., con nota di Facci, L’osservatorio delle Corti Superiori; con nota di Cacace, La scelta solo alla madre, il risarcimento anche al padre: cronache di una nascita indesiderata, in Danno e resp., 2006, V, 510; con nota di Cavallo, Risarcimento del danno da nascita indesiderata: il padre ha diritto al risarcimento del danno in via immediata e diretta in Riv. it. med. leg., 2007, 1165 ss.; Cass., 2.2.2010, n. 2354, cit.). Cfr. Trib. Monza, 2.10.2013, n. 2261, consultabile all’indirizzo www.ridare.it, che espressamente sancisce il risarcimento del «trauma subito da entrambi i genitori per essersi trovati senza alcuna preparazione psicologica di fronte alla realtà di un figlio affetto da grave e totalmente invalidante malformazione»; Trib. Cagliari, 12.4.2006, in Riv. giur. sarda, 2007, 419 ss., con nota di Cappai, Omessa diagnosi delle malformazioni del nascituro: il punto sugli interessi coinvolti e sui danni risarcibili, in Riv. giur. sarda, 2007, 419 ss.; Trib. Como, 16.1.2012, n. 46, in Red. Giuffrè, 2012; Trib. Brindisi, 26.6.2012, consultabile all’indirizzo www.ilcaso.it. 33


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Danno da nascita indesiderata

all’eventuale danno da mera lesione dell’autodeterminazione procreativa34 o addirittura al pregiudizio per perdita di chance35 che, in altre sedi,

Cfr. Cass., 9.2.2010, n. 2847, in Resp. civ. e prev., 2010, 1014 ss., con nota di Gorgoni, Ancora dubbi sul danno risarcibile a seguito della violazione dell’obbligo di informazione gravante sul sanitario, ibidem; con nota di Di Majo, La responsabilità da violazione del consenso informato, in Corr. giur., 2010, 1201 ss.; con nota di Cacace, I danni da (mancato) consenso informato, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 783; con nota di Pirro, Sulla mancata acquisizione del consenso informato da parte del medico, in Obbl. e contr., 2010, 563 ss.; Cass., 22.3.2013, n. 7269, cit., «La lesione all’autodeterminazione terapeutica (nel caso di specie perdita di esercitare la facoltà di interrompere la gravidanza) è risarcibile in via autonoma indipendentemente dalla lesione di un diritto alla salute»; Cass., 20.10.2010, n. 20320, cit. Nel merito, interessanti risultano le conclusioni di Trib. Locri, 6.10.2000, n. 462, in Danno e resp., 2001, 393, con nota di Bilotta, Il danno esistenziale: l’isola che non c’era; con nota di Torino, Nascita inaspettata di figlia deforme e danno esistenziale della madre, in Corr. giur., 2001, VI, 786 ss.; con nota di Bona, Mancata diagnosi di malformazioni fetali: responsabilità del medico ecografista e risarcimento del danno esistenziale da «wrongful birth», in Giur. it., 2001, 733. Analogamente, Trib. Roma, 13.12.1994, cit.; Trib. Perugia, 7.8.1998, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 10619 ss., con nota di De Matteis, La responsabilità medica per omessa diagnosi prenatale: interessi protetti e danni risarcibili, ibidem; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 8.9.1999, in Giur. merito, 2000, 207 ss.; Trib. Padova, 24.10.2005, cit.; Trib. Monza, 27 febbraio 2008, in Resp. civ. e prev., 2008, 1846 ss., con nota di della Corte, Diagnosi prenatale ed autodeterminazione procreativa, ibidem; Trib. Latina, 28.6.2011, in Resp. civ. e prev., 2012, 1359 ss., con nota di della Corte, Lesione all’autodeterminazione procreativa per la nascita di un figlio sano e non voluto, ibidem; Trib. Roma, 11.11.2015, in Quot. giur., 2016, per il quale «Il c.d. danno da nascita indesiderata è il pregiudizio non patrimoniale subito in primo luogo dalla gestante a causa del comportamento del sanitario che, in presenza di malformazioni o anomalie del feto, non adempie al suo obbligo di informazione, impedendo alla donna di autodeterminarsi in ordine alla prosecuzione o meno della gravidanza». Sul tentativo di attribuire autonoma rilevanza risarcitoria alla lesione all’autodeterminazione in ambito medico v. Gorgoni, La “stagione” del consenso e dell’informazione: strumenti di realizzazione del diritto alla salute e di quello all’autodeterminazione, in Resp. civ. e prev., 1999, 488 ss.; Gorgoni, Ancora dubbi sul danno risarcibile a seguito di violazione dell’obbligo di informazione gravante sul sanitario, ibidem. Fortemente critico sulla risarcibilità di un danno diverso da quello biologico Busnelli, Il danno biologico. Dal “diritto vivente” al diritto “vigente”, Torino, 2011. 34

Cfr. Cass., 4.3.2004, n. 4400, in Danno e resp., 2005, 45 ss., con nota di Feola, Il danno da perdita di chances di sopravvivenza o guarigione è accolto in Cassazione, ibidem; con nota di Citarella, Errore diagnostico e perdita di chance in Cas35

consentivano il risarcimento anche in assenza di danno biologico. La Cassazione non ritiene nemmeno degna di accoglimento la pretesa risarcitoria avanzata dai genitori nell’interesse del figlio nato malformato per i danni dallo stesso subiti per effetto del comportamento omissivo del sanitario36. Rievocando sul punto l’orientamento perentoriamente espresso dalle sezioni unite (sentenza n. 25767/2015)37 per cui non è configurabile in capo al nascituro un “diritto a non nascere se non sano”, in quanto va “incontro alla […] obiezione dell’incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, con l’unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dall’interruzione della gravidanza”, la pronuncia non si contraddistingue per originalità e si distacca nettamente dagli isolati tentativi giurisprudenziali38 e da alcu-

sazione, in Resp. civ. e prev., 2004, 1045 ss. Peculiare anche Trib. Pesaro, 25.5.2008, in Giust. civ., 2008, I, 2278 ss., con nota di Amoroso, Sulle conseguenze risarcitorie della colposa mancata diagnosi prenatale della malformazione del nascituro, ibidem, che qualifica in termini di “perdita di chance” la violazione dell’autodeterminazione procreativa dei genitori da calcolarsi in misura percentuale rispetto alle possibilità esistenti che l’aborto non venga praticato. Interessante indagine sull’argomento in Foglia, Nascita indesiderata e danno al nascituro - parte prima, in Nuova giur. civ., 2017, II, 276 ss; ID., La lesione dell’interesse a non nascere del concepito - parte seconda, ibidem, 436 ss.

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37

Cass., sez. un., 22.12.2015, n. 25767, cit.

Il riferimento è a Cass., 2.10.2012, n. 16754, cit. Tale pronuncia - fortemente criticata in dottrina (tra i tanti, Gorgoni, Dalla sacralità della vita alla rilevanza della qualità della vita, cit., 148; Carusi, Revirement in alto mare: il “danno da procreazione” si «propaga» al procreato?, in Giur. it., 2013, IV, 809 ss.) ha posticipato al momento della nascita l’insorgenza del danno in capo al nato malformato, sedando dunque il dibattito dottrinale sulla soggettività giuridica del concepito (cfr. Alpa, Ansaldo, Le persone fisiche, nel Commentario Schlesinger, Torino, 2013, 239 ss.; Bianca, Diritto civile, 1, La responsabilità, Milano, 2012, 628 ss.) e ha, per la prima volta, riconosciuto “al nato la legittimazione attiva a far valere il danno da «nascita malformata», originatasi nel momento del concepimento, a causa dell’omessa o errata diagnosi prenatale”. L’orientamento inaugurato da tale precedente non ravvisa, in verità, il danno in capo al nato nella lesione del suo diritto a non nascere se non sano (perché figura priva di fondamento) ma nel nocumento che ha subito per essere venuto al mondo con forti limitazioni in ragione della sua disabilità. Nel merito, si segnala Trib. Catania, 29.3.2006, cit., 38

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ne convinte tesi dottrinali39 che pure avevano ammesso la risarcibilità delle conseguenze negative di una vita menomata riconducibili all’omissione sanitaria40. Secondo tale opinione, il danno risar-

secondo cui non è la nascita che arreca danno al nato ma la malformazione che ha agito come causa del danno al momento del concepimento. Parte della dottrina ha criticato l’indirizzo giurisprudenziale che esclude ogni risarcimento del danno al nato disabile nelle fattispecie di danno da omessa diagnosi laddove l’alternativa alla nascita malformata sia la non nascita. Secondo Monateri, “Le marque de cain”, la vita sbagliata, la vita indesiderata, e le reazioni del comparatista al distillato dell’alambicco, in D’Angelo (a cura di), Un bambino non voluto è un danno risarcibile?, Milano, 1999, 299 ss. dall’inesistenza del diritto a non nascere se non sano non può giocoforza dedursi l’inammissibilità di un qualche risarcimento della lesione causata al nascituro costretto a vivere in una condizione di grave disagio e disabilità in ragione del fatto che, a causa dell’errore sanitario, è venuto al mondo e ciò prescindendo dall’unica alternativa prospettabile, ossia la non vita. Secondo l’A., La responsabilità civile, Napoli, 2006, 229, il danno subito dal nato malformato ben potrebbe essere inquadrato tra le lesioni della personalità (per dover vivere una vita tormentata a causa delle gravi limitazioni fisiche) e non tra le lesioni della persona, essendo il danno un concetto “ampio” e il novero dei pregiudizi, che possono qualificarsi alla stregua del danno risarcibile, non risente di alcuna limitazione (anche De Matteis, Danno esistenziale e procreazione, in Longo (a cura di), Rapporti familiari e responsabilità civile, Torino, 2004, 134, ritiene che il nascituro possa vantare il diritto al risarcimento del danno per lesione della sua personalità, in quanto l’omissione informativa rappresenta «un attentato alla dignità del concepito in una dimensione valutativa dell’ingiustizia del danno»). Il pregiudizio subito consiste, dunque, nell’obiettività di vivere male, a prescindere dalle alternative disponibili, per effetto delle limitazioni che la condizione di invalidità causa al bambino: così Facci, Wrongful life: a chi spetta il risarcimento del danno?, ibidem. Interessanti le riflessioni sul punto di Cricenti, Il concepito e il diritto di non nascere, ibidem, e di Bacchini, Il diritto di non esistere, Milano, 2002; Bacchini, Persone potenziali e libertà. Il fantasma dell’embrione, l’ombra dell’eugenetica, Milano, 2006, 84 ss. il quale non esclude che accanto alla tutela dei cc.dd. “diritti iniziali di primo livello”, cioè connessi alla nascita (tra cui, ovviamente, il “diritto alla nascita come individuo sano”, cfr. Pucella, Responsabilità medica per la lesione del diritto a nascere sani: tutela del nascituro e dei prossimi congiunti, in Nuova giur. civ. comm., 1991, I, 373), si possa configurare anche la tutela dei diritti “di secondo livello”, tra cui il diritto a non nascere, ove siano stati violati i primi. 39

Secondo Liserre, Ancora in tema di mancata interruzione della gravidanza e danno da procreazione, ibidem, l’omissione diagnostica rientra nella categoria degli “illeciti plurioffensivi”, cagionando la lesione contestuale ed immediata

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Giurisprudenza

cibile in favore del nato si configura in termini di patimento, per essersi trovato in un ambiente familiare impreparato ad accoglierlo e di sofferenze derivanti sia dalla propria esistenza menomata che dall’eventuale disaffezione dei genitori che avrebbero preferito non metterlo al mondo. Detto altrimenti, ai fini risarcitori non rileva l’infermità in senso naturalistico ma lo stato funzionale di infermità, cioè la “condizione evolutiva della vita handicappata intesa come proiezione dinamica dell’esistenza che non è somma algebrica della vita e dell’handicap, ma sintesi di vita ed handicap”41. Così impostato il ragionamento, non si discute della configurabilità di un impersonale “diritto a non nascere”, che in quanto inammissibile esclude ogni risarcimento, ma di rendere meno disagevole la situazione di infermità del soggetto portatore di un dato handicap42. La sentenza in epigrafe, sfuggendo a ogni possibile deriva eugenetica che si annidi in tale discorso – giacché alleviare per via risarcitoria un’esistenza non pienamente funzionale altro non è che rifiutarla – nega categoricamente la richiesta risarcitoria del danno psichico e relazionale subito dal nato malformato (per effetto del suo inserimento in un ambiente familiare non preparato ad accoglierlo), giudicandolo un «mimetismo verbale del diritto a non nascere se non sani». E dunque, se nei casi riconducibili causalmente ad una condotta umana (dolosa o colposa)43 alcun dubbio sorge circa il

degli interessi di soggetti diversi (genitori e figlio) compromessi dallo stesso comportamento antigiuridico: «l’eventuale propagazione intersoggettiva di un medesimo fatto illecito, quale evento plurioffensivo incidente sulla lesione di interessi afferenti a più titolari» è tale da «ricollegare al mancato esercizio della facoltà di autodeterminarsi della gestante anche il danno esistenziale patito dal nato malformato». 41

Cfr. Cass., 2.10.2012, n. 16754, cit.

Tale è il punto di vista di Monateri, “Le marque de cain”, la vita sbagliata, la vita indesiderata, e le reazioni del comparatista al distillato dell’alambicco, cit., 290 ss. “Il bambino non solo non è un danno risarcibile, il bambino non è un danno. La sua nascita può però ingenerare danni, ed è quindi di questi che bisogna discorrere”.

42

Per un’elencazione di ipotesi più ricorrenti v. Rescigno, Danno da procreazione e altri scritti tra etica e diritto, Milano, 2006, 50 ss.; Sebastio, Le malformazioni del feto, in Cendon (a cura di), Trattato breve dei nuovi danni, Il risarcimen-

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Danno da nascita indesiderata

diritto del nascituro a richiedere il risarcimento del danno subito per non essere nato sano44, la corte di Cassazione esclude ancora una volta che tale diritto sia configurabile nelle diverse ipotesi in cui le malformazioni derivino da cause genetiche, congenite o virali45. In tali casi il fatto del

to del danno esistenziale: aspetti civili, penali, medico-legali, processuali, I, Padova, 2001, 114 ss.; Rossetti, Errore, complicanza e fatalità: gli incerti confini della responsabilità civile in ostetricia e ginecologia, ibidem; Zeno-Zencovich, La responsabilità per procreazione, in Giur. it., 1986, 235 ss. 44 Già a partire da Cass., 22.11.1993, n. 11503, cit., la giurisprudenza ha garantito la risarcibilità dei danni subiti dal nato malformato, in ipotesi di comportamento commissivo/ omissivo del sanitario, principalmente al momento del parto: cfr. Cass., 5.12.1995, n. 12505, in Danno e resp., 1996, 195 ss. che afferma la responsabilità dei sanitari per i danni subiti dalla minore affetta sin dalla nascita da tetraplegia spastica con grave frenastenia e atrofia cerebrale derivante da un’errata esecuzione del parto che avveniva in via vaginale nonostante fosse sconsigliato per l’altezza della gestante; Cass., 16.2.2001, n. 2335, in Dir. e giust., 2001, 33 ss.; Cass., 14.7.2003, n. 11001, in Rep. Foro it., voce «Responsabilità civile», 341 ss.; Cass., 11.5.2009, n. 10741, cit. Nel merito: Trib. Genova, 3.1.1996, in Danno e resp., 1997, 94 ss. ove si risarcisce il danno patito dal minore affetto da insufficienza mentale cerebropatia dovuta dal mancato uso del cardiotografo al momento del parto; Trib. Reggio Calabria, 31.3.2004, cit.; di recente, Trib. Cassino, 21.7.2017, consultabile in www. rivistaresponsabilitamedica.it. Per approfondimenti in argomento Bilò, Il danno nella procreazione: nascite mancate e nascite indesiderate, in Sesta (a cura di), La responsabilità nelle relazioni familiari, Torino, 2008, 505 ss. Secondo Busnelli, Lo statuto del concepito, in Dem. e dir., 1998, 213, il nascituro vanta un diritto (anche) alla salute, già durante la vita intrauterina, ma la sua tutela non può spingersi fino al punto di riconoscergli il diritto di non nascere a causa della malattia: infatti il diritto di nascere sano è un interesse attuale e non in fieri e, in ragione della non perfetta coincidenza tra la condizione del concepito e quella della persona, non consente di garantire tutela ad un desiderio che non riveste i caratteri neppure dell’aspettativa giuridica (Navarretta, Il diritto a nascere sano e le responsabilità del medico. Nota a Trib. Verona, 15.10.1990, in Resp. civ. e prev., 1039; Gorgoni, Brevi considerazioni sulla risarcibilità del danno morale del concepito. Nota a Trib. Monza, 8.5.1998, in Danno e resp., 1998, 927). Per Cricenti, Breve critica della soggettività del concepito. I «falsi diritti» del nascituro, in Dir. fam. e pers., 2010, 465 ss., la protezione del nascituro non richiede necessariamente la sua personificazione in termini di “soggetto di diritto”, trattandosi di una qualifica normativa che serve solo ad imputare situazioni giuridiche e non invece “tecnica di tutela di entità protette”. 45 A partire da Cass., 29.7.2004, n. 14488, cit. e Cass.,14.7.2006, n. 16123, cit. si è affermata una netta chiusura interpretativa

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medico si pone solo come “causa indiretta” della patologia del feto46, nel senso che la sua condotta inadempiente non ha determinato l’handicap ma, in caso di dimostrata volontà abortiva della donna e della ricorrenza delle condizioni legittimanti l’aborto, non ha impedito la nascita legittimando eventualmente soltanto la pretesa risarcitoria della

della giurisprudenza di legittimità a risarcire il danno subito dal minore nato malformato e rappresentato dall’evento nascita. Come già rilevato altrove (cfr. della Corte, Osservatorio di giurisprudenza in tema di nascita indesiderata, ibidem.), tale atteggiamento risente indubbiamente della polemica scaturita in Francia dopo l’affaire Perruche (Cass., Ass. plen., 17.11.2000, n. 2309, in Sem. lur., 2000, II, 10438, 2309 ss.; con nota di Guarnieri, Wrongful life, bébé préjudice e il discusso diritto a nascere sano… o a non nascere, in Resp. civ. e prev., 2001, 499) e per le cui implicazioni nell’ordinamento italiano, v. Gorgoni, Nascere o non nascere affatto: verso un nuovo capitolo della storia della naissance d’enfents sains non désirés, in Danno e resp., 2001, 475 ss.; Busnelli, L’inizio della vita umana, in Riv. dir. civ., 2004, I, 535 ss. 46 Sul punto le Sezioni Unite del 2015 hanno precisato che il nesso causale tra carenza diagnostico/informativa e danno (presunto) da nascita con malformazioni viene interrotto sia dalla circostanza (naturalistica) che l’anomalia non è stata determinata e/o aggravata dal sanitario che dalla facoltà riconosciuta alla gestante di abortire ove siano in rischio la sua vita e la sua salute. Il comportamento inadempiente del sanitario si pone, dunque, all’interno della catena causale in maniera “negativa” nel senso che l’eventuale corretto adempimento dell’obbligo informativo non avrebbe garantito una nascita sana (a differenza dei casi di danno da lesione) ma, al più, la non nascita. Conferme anche nella giurisprudenza di merito più recente, v. App. Bologna, 20.3.2017, consultabile all’indirizzo www.rivistaresponsabilitamedica.it. Per approfondimenti v. Piraino, ibidem. Con specifico riguardo alla rilevanza delle concause naturali idonee a contenere il risarcimento del danno dovuto dal sanitario in relazione al suo apporto causale v. Pucella, De Santis, Il nesso di causalità: profili giuridici e scientifici, cit.; Pucella, Il perimetro dell’accertamento tra colpa, concause e danno risarcibile, in Resp. civ. e prev., 2016, 1112 ss.; Pucella, Causalità civile e probabilità: spunti per una riflessione, in Danno e resp., 2008, 43 ss.; ex plurimis: Nocco, Il «sincretismo casuale», ibidem.; ID., Rilevanza delle concause naturali e responsabilità proporzionale: un discutibile revirement della Cassazione, in Danno e resp., 2012, 159 ss.; Gorgoni, Quando è «più probabile che non» l’esatto adempimento, in Resp. civ. e prev., 2011, 160 ss.; Bona, «Più probabile che non» e «concause naturali»: se, quando e in quale misura possono rilevare gli stati patologici pregressi della vittima, in Corr. giur., 2009, 1668 ss.; Zorzit, Il problema del concorso di fattori naturali e condotte umane. Il nuovo orientamento della Cassazione, in Danno e resp., 2012, 508 ss.

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gestante per la lesione al suo diritto di autodeterminazione procreativa47 (che, invero, nella vicenda in esame è parimenti esclusa). Nessun danno, invece, spetta al nascituro giacché lamentare di essere nato malato integra gli estremi di una posizione eticamente48 e giuridicamente49 non meritevole di tutela; viceversa, riconoscere il diritto di vedersi alleviato, sul piano risarcitorio, lo “stato funzionale di infermità” del nato malformato che lo ha condannato ad una vita assai limitata e afflitta da sofferenze, garantendogli di vivere in maniera meno disgraziata, riaprirebbe pericolosamente le porte al danno esistenziale50.

Detto in altri termini, quando la malformazione che affligge il minore non sia dovuta a colpa medica ma ad un processo biologico autonomo, la condotta inadempiente del sanitario non va intesa quale causa di produzione del danno quanto piuttosto come “causa di sottrazione” del genitore alla possibilità di esercitare l’IVG; in argomento Palmerini, Il diritto a nascere sani e il rovescio della medaglia: esiste un diritto a non nascere affatto?, in Nuova giur. civ. comm., 2001, 210 ss. Per approfondimenti, v. Travaglino, La questione dei nessi di causa, Napoli, 2012. 47

Riconoscere in capo al concepito il diritto a non nascere se malformato significherebbe ammettere nel nostro ordinamento un principio di eugenesi prenatale, in contrasto con i principi di solidarietà ex art. 2 Cost. e di indisponibilità del proprio corpo ex art. 5 c.c.; di conseguenza, ammettere il risarcimento della lesione di tale diritto significherebbe, da un punto vista strettamente etico-morale, compensarlo di un’esistenza ritenuta ingiusta perché segnata da sofferenze e disagi in nome di un concetto inaccettabile di dignità umana, imposta dall’esterno, che nega ad una vita handicappata il pregio di essere vissuta. 48

Il diritto a non nascere se non sano è un diritto “adespota”, privo di titolare sino alla nascita e destinato a scomparire in conseguenza della nascita stessa. E pertanto, ove pure si attribuisse al concepito una soggettività giuridica autonoma, sebbene “attenuata” per essere centro d’imputazione sostanziale (solo) di alcuni diritti (quali quelli della personalità, della salute, della vita o successori), tali diritti troverebbero tutela nel nostro ordinamento giuridico solo al verificarsi dell’evento nascita, escludendo qualsiasi diritto a non nascere. Interessanti considerazioni sul punto in Feola, La Cassazione e il diritto del minore “a non nascere sano”, in Danno e resp., 2010, 697 ss. 49

Secondo tale tesi il danno esistenziale risarcibile coinciderebbe con lo “stato funzionale di infermità” del nato malformato che lo ha condannato ad una vita assai limitata e afflitta da sofferenze. Sembrano muoversi in un’ottica esistenzialista Monateri, “Le marque de cain”, la vita sbagliata, la vita indesiderata, e le reazioni del comparatista al distillato dell’alambicco, cit., 301, secondo cui una volta individuato il danno 50

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Giurisprudenza

In questa presa di posizione si scorge la preoccupazione della Supr. Corte che il riconoscimento di un diritto a non nascere se malato possa venire in contrasto con quei principi generali, posti a tutela della vita e della pari dignità tra individui, che non consentono nel nostro ordinamento l’aborto ad libitum. La legge n. 194/1978, che pur si prefigge la salvaguardia della vita umana sin dal suo inizio, non garantisce tutela assoluta ed incondizionata alla vita del concepito che è destinato a soccombere a fronte di un pericolo (serio o grave) per la salute della gestante: le anomalie fetali, dunque, non rilevano in relazione al nascituro ma solo in presenza di condizioni che incidono sullo stato psico-fisico della madre. Secondo tale prospettazione il nato non sano non ha diritto di dolersi per essere costretto a vivere una vita disgraziata perché non si è interrotta la gravidanza, non essendo la l. n. 194/1978 posta a tutela di un suo diritto: tanto trova ancora più conferma nella circostanza per cui, anche in caso di gravissime anomalie genetiche, la donna non ha l’obbligo giuridico di abortire, ben potendo portare a termine la gravidanza anche a discapito della sua salute, tantomeno ha l’obbligo di astenersi dal procreare quando possa dare alla luce un figlio con handicap51. Ragionare diversamente condur-

- evento nella “lesione obiettivamente ingiusta” occorre individuare i danni-conseguenza nei loro riflessi patrimoniali, esistenziali, morali e biologici e Di Majo, Mezzi e risultato nelle prestazioni mediche: una storia infinita, cit., 33 ss. Queste conclusioni contraddicono Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26972, 26973, 26074, 26075 (in Resp. civ. e prev., 2009, 38 ss., con nota di Monateri, Il pregiudizio esistenziale come voce del danno non patrimoniale; con nota di Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la complessità dei danni non patrimoniali, in Resp. civ. e prev., 2009, 63 ss.; con nota di Poletti, La dualità del sistema risarcitorio e l’unicità della categoria dei danni non patrimoniali, ibidem, 76 ss.; con nota di Ziviz, Il danno non patrimoniale: istruzioni per l’uso, ibidem, 94 ss.; con nota di Gazzoni, Il danno esistenziale, cacciato, come meritava, dalla porta, rientrerà dalla finestra, in Dir. fam. pers., 2009, 113; con nota di Busnelli, Le sezioni unite e il danno patrimoniale, in Riv. dir. civ., 2009, I, 2, 97 ss.) che scrive nella categoria dei danni non patrimoniali risarcibili solo le lesioni di diritti fondamentali della persona costituzionalmente protetti tra cui non può certamente annoverarsi il diritto a non nascere se non sano. 51

Interrogativi circa l’esistenza di un obbligo per i genitori


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Danno da nascita indesiderata

rebbe all’introduzione nel nostro ordinamento di un diritto del minore all’eutanasia prenatale o addirittura alla condanna dei genitori a risarcire all’infinito il figlio per ogni pregiudizio derivante dalla sua esistenza infelice, perché malata. Il fulcro di tale impostazione risiede nella necessaria individuazione della perdita di utilità quale presupposto di un danno risarcibile52: se dunque il nascituro, per ragioni genetiche, presenta ab origine delle menomazione alla sua integrità psico-fisica, non può lamentare alcuna perdita (risarcibile) per effetto dell’omissione informativa del sanitario non essendosi prodotto alcun peggioramento delle sue condizioni di salute; tantomeno può dolersi del fatto che se vi fosse stato comportamento adempiente del medico (consentendo, pertanto, alla donna di abortire) avrebbe acquistato un bene giuridico giacché la non vita non può ritenersi preferibile alla vita menomata53 e non ha alcun valore morale o patrimoniale risarcibile neppure in via equitativa54. Coerentemente, sebbene il danno sia stato prospettato come conseguenza di quello asserita-

mente patito dai genitori, la Terza Sezione ritiene di non poter accogliere la richiesta risarcitoria formulata nell’interesse del minore neppure ricorrendo alla figura del contratto con effetti protettivi verso i terzi55, giacché non è configurabile un interesse del terzo (nascituro) da proteggere con il contratto tra la gestante e il sanitario56.

In generale sul contratto con effetti protettivi verso i terzi: Aa.Vv., Effetti del contratto nei confronti dei terzi, Alpa, Fusaro (a cura di), Milano, 2000; Maggiolo, Effetti contrattuali a protezione del terzo, in Riv. dir. civ., 2001, 58 ss.; Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 481 ss.; Di Majo, La protezione del terzo tra contratto e torto, in Eur. e dir. priv., 2000, 20 ss.; Di Majo, Le tutele contrattuali, Torino, 2009, 52 ss.; Varanese, Il contratto con effetti protettivi per i terzi, Napoli, 2004. 55

di evitare la trasmissione di malattie al feto e, addirittura, di astenersi dalla procreazione si rinvengono in Zeno-Zencovich, Il danno al nascituro, cit., 698. In generale sulla nozione giuridica di danno v. Di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 219 ss. 52

Contra Cass., 2.10.2012, n. 16754, cit., che secondo GorDalla sacralità della vita alla rilevanza della qualità della vita, ibidem, si rifà inconsapevolmente al paradosso di Parfit del “non identify problem”, a mente del quale la decisione di non mettere al mondo un figlio gravemente menomato si equivale moralmente alla decisione di farlo nascere pur sapendo che è malato, in quanto nessuna delle due soluzioni potrà risultare migliore o peggiore dell’altra per chi non è mai nato. Ulteriori approfondimenti in Busnelli, Cosa resta della legge 40? Il paradosso della soggettività del concepito, in Riv. dir. civ., 2011, 459 ss.; Piraino, ibidem. 53

goni,

Contra Facci, Il danno da vita indesiderata, in La resp. civ., 2005, III, 254 ss. e Facci, Wrongful life: a chi spetta il risarcimento del danno, cit., 571, secondo cui il pregiudizio derivante al minore disabile è costituito dall’handicap e non dal fatto in sé della nascita e dunque il risarcimento va rapportato all’entità di tale menomazione psico-fisica e alla circostanza di essere venuto al mondo. Di conseguenza il minore può pretendere il danno patrimoniale, morale (in caso di reato), biologico ed esistenziale consistente nel dover vivere con l’handicap. Considerazioni critiche sul punto in Princigalli, Nascere malfermo o non nascere: quale tutela per il nuovo nato, in Riv. crit. dir. priv., 2001, 340. 54

56 Contra, Cass., 3.5.2011, n. 9700, (in Danno e resp., 2011, I, 1270, con nota di Palmerini, Il concepito e il danno non patrimoniale, in Danno e resp., 2011, I, 1270; con nota di Facci, L’osservatorio delle Corti Superiori, in Danno e resp, 2011, VII, 548; con nota di Galgano, Uccisione del padre e danno al nascituro, in Danno e resp., 2011, I, 1168 ss.; con nota di Mastroianni, La risarcibilità in favore del concepito quale “vittima secondaria” dell’illecito, in La resp. civ., 2012, IV, 278 ss.; con nota di Landi, Compromissione prenatale del legame genitoriale e risarcibilità del danno al concepito. Applicazioni diacroniche del rimedio aquiliano, in Dir. fam., 2012, 1424 ss.) che, in un passaggio, estende lo stesso effetto protettivo (per il padre) del rapporto intercorso tra gestante e sanitario anche al nato con malformazioni congenite. Perplessità sull’impiego del contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi, ivi incluso il nato malformato, in Gorgoni, La nascita va accettata senza «beneficio di inventario»?, ibidem; Id., Il contratto tra la gestante ed il ginecologo ha effetti protettivi anche nei confronti del padre, ibidem; ID., Dalla sacralità della vita alla rilevanza della qualità della vita, ibidem; ID., Una sobria decisione «di sistema» sul danno da nascita indesiderata, cit., 1465 ss.

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s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza

Cass. civ., III sez., 26.7.2017, n. 18392 Conferma App. Torino 27.5.2014

Responsabilità medica – Lamentato inadempimento della Struttura sanitaria – Onere della prova – Riparto (c.c., artt. 1218, 2697)

Qualora un paziente intenda convenire in giudizio una struttura sanitaria per inesatto adempimento delle prestazioni dovute in virtù del contratto concluso, ha l’onere di provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o insorgenza di nuove patologie in conseguenza delle cure ricevute) e l’azione o l’omissione dei sanitari: parte convenuta ha invece l’onere di provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista

La distribuzione degli oneri probatori nella responsabilità medica: “qualificato inadempimento” e prova del nesso causale Roberta Victoria Nucci Avvocato in Milano

Abstract: La sentenza in oggetto sembra mettere in discussione la decisione delle Sezioni Unite n. 577/2008 sul presupposto di un più gravoso onere probatorio a carico di parte attrice. La decisione appare in realtà una rilevante e significativa interpretazione del principio generale che vede gravare su parte attrice l’onere di allegazione di un inadempimento qualificato.

The judgement seems to question the precedent of the United Sections of the Supreme Court no. 577/2008 when defines the burden of the proof in medical liability judicial cases. As a matter of fact, that decision gives an important interpretation to the principles stated by the United Sections as far as the claimant’s onus of proving the qualified contractual failure is concerned.

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La Suprema Corte interviene sul tema decisivo ed apparentemente definito della distribuzione degli oneri probatori fra parti attrice e convenuta in tema di responsabilità sanitaria, soffermandosi sulla questione del nesso di causalità fra comportamento sanitario ed evento. Questa la vicenda: un paziente muore per infarto dopo esser stato sopposto ad intervento prostatico ed aver subito un’emorragia. La struttura sanitaria presso la quale venne eseguito l’intervento chirurgico era stata convenuta in giudizio dalla moglie del de cuius al fine di vedersi riconosciuto l’asserito diritto al risarcimento del danno. Tuttavia, nel corso del giudizio, il Giudice di prime cure, dopo aver accertato che l’arresto cardiaco che aveva determinato il decesso era stato causato da una trombo embolia polmonare, aveva escluso il nesso tra tale circostanza e l’emorragia verificatasi durante l’intervento, con la conseguenza che in capo alla struttura sanitaria non vi potessero essere motivi di censura, in quanto detto arresto e la morte non rientravano tra le possibili complicanze di tal tipo di intervento. Sia in primo che in secondo grado le pretese della moglie sono state respinte. Parte attrice ricorre in Cassazione e la Suprema Corte conferma le pronunce dei giudici di merito, elaborando un principio in tema di distribuzione degli oneri probatori di particolare interesse, in quanto sembra porsi come rilettura del consolidato orientamento riferibile alla pronuncia delle sezioni unite n. 577/20081. Afferma la Suprema Corte che sul paziente incombe l’onere di provare il nesso di causa tra l’insor-

Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, in Resp. civ. e prev., 2008, 849 con nota di Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzo/risultato: “In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”. 1

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Giurisprudenza

genza e/o l’aggravamento della propria situazione clinica e la condotta della struttura o dei medici. Di conseguenza, l’eventuale causa incognita, che comporta dunque la mancata prova del nesso di causa, resta a carico dell’attore. Alla struttura convenuta spetterà provare di aver adempiuto per quanto era possibile ed esigibile allo stato dell’arte, vale a dire che la prestazione professionale venne eseguita in modo diligente e che gli esiti lamentati dal danneggiato siano derivati da un evento imprevisto ed imprevedibile. Tuttavia, tale onere probatorio sorge in capo al nosocomio solo allorquando il danneggiato provi il nesso di causalità fra quanto lamentato e la condotta dei sanitari. Al fine di meglio chiarire questo passaggio chiave, è necessario approfondire e seguire il ragionamento sviluppato dalla Suprema Corte. La prova del nesso causale – che deve essere fornita dal danneggiato – quale fatto costitutivo della domanda avanzata al fine di far valere la responsabilità per l’inadempimento del rapporto terapeutico, si sostanzia nella dimostrazione che l’esecuzione del rapporto curativo si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di preteso danno (rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui era richiesta la prestazione o dal suo aggravamento) fino anche ad un esito finale come quello mortale o dall’insorgenza di una nuova patologia che non era quella con cui il rapporto era iniziato. Inoltre, la Corte ha avuto modo di rilevare che solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile. Solo dopo che sia stata fornita la prova del nesso causale “fattuale” grava quindi sul convenuto la prova di avere fatto tutto il possibile per impedire che “… una causa, prevedibile ed evitabile, rendesse impossibile la prestazione”. La Suprema Corte, quindi, individua un duplice percorso causale: un primo a carico dell’attore che lega evento a prestazione, l’altro che lega prestazione e sua impossibilità ex art. 1218 c.c.


Inadempimento qualificato e prova del nesso di causa

Il ragionamento della Suprema Corte è ineccepibile, in quanto risulta pienamente rispettoso sia di quell’onere probatorio previsto dall’art. 2697 c.c., in virtù del quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provarne i fatti che ne costituiscono fondamento, sia dell’art. 1218 c.c., allorché impone al debitore – si badi, al convenuto che non abbia provato la correttezza del proprio adempimento – di provare la causa a sé non imputabile. Eppure, se lo stesso Collegio ha sentito la necessità di precisare che il principio appena enunciato non è affatto in contraddizione con quello consolidato delle Sezioni Unite del 2008, forse il tema non è così scontato. Questa sentenza – in effetti – per certi versi sembra stravolgere i punti fermi introdotti dalle sezioni unite con la sentenza 577/2008 che aveva chiarito che, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore doveva limitarsi a provare il contratto e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. In questo senso, il termine “allegazione” faceva comunque riferimento alla necessaria e dettagliata descrizione nella domanda introduttiva del giudizio dei fatti posti a fondamento della pretesa. Ma nell’ambito di una interpretazione pur rigorosa dell’allegazione del qualificato inadempimento, rientrava già la prova del nesso causale fra comportamento ed evento (come afferma ora la III Sezione), o in realtà con la sentenza in oggetto la Suprema Corte ha reso assai più gravoso l’onere probatorio di parte attrice? Nonostante il tranquillizzante approccio dell’estensore della motivazione, il cambiamento di scenario sembra innegabile, soprattutto da un punto di vista eminentemente pratico. L’oscillazione del pendolo giudiziario, un tempo tutto spostato nell’area della massima protezione possibile per il paziente, ha ora portato magistratura e legislatore2 in una zona molto più vicina a quella di parte convenuta, forse nella consape-

Innegabile in questo senso l’orientamento della Riforma Gelli.

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volezza di taluni eccessi – dalla responsabilità da contatto sociale alla sostanziale insostenibilità di un termine prescrittivo decennale – che negli anni hanno reso iper-tutelata la posizione del paziente e pressoché insostenibile l’esercizio della professione medica. In questo scenario la rivisitazione degli oneri probatori a carico delle parti o – se si preferisce – la migliore definizione degli stessi, sembra a chi scrive un’operazione di giustizia. Non era infrequente, in verità, imbattersi nelle aule giudiziarie in vere e proprie “citazioni esplorative”, ove il dogma “non son guarito” o “non ho ottenuto i miglioramenti attesi”, talora accompagnati da relazioni di parte tanto generose nella quantificazione dei postumi tanto severe nella valutazione dei comportamenti, determinava di fatto un rimando all’accertamento del CTU non più ausiliario interpretativo del giudice, ma vero e proprio sostitutivo/esplorativo finalizzato alla ricerca di nessi di causa e/o circostanze a discolpa3.

Rossetti, Responsabilità sanitaria e tutela della salute, in Quaderni del Massimario, 2011, 56 ss., l’autore stigmatizza nella sua opera la genericità concessa in ambito sanitario all’attore al quale sarebbe consentito adire un magistrato chiedendo che il medico sia condannato per un non meglio precisato errore lasciando che sia poi il CTU ad assolvere a qualsiasi onere probatorio in spregio alle normali regole in ambito di responsabilità professionale. Afferma infatti correttamente l’autore: “[…] Questo orientamento di fatto tollera che l’attore possa dire al medico: «pagami, perché hai sbagliato», e che poi in corso di causa si possa andare con tutta tranquillità ad accertare - anche d’ufficio - se, come e dove il medico abbia sbagliato. Ebbene, proviamo ora ad immaginare un giudizio di responsabilità nei confronti di amministratori o sindaci di società commerciali, introdotto da un atto nel quale si dica «pagaci, perché hai redatto un bilancio inveritiero», senza indicare in cosa siano consistite le falsità. Oppure immaginiamo un giudizio di responsabilità nei confronti di un avvocato, introdotto da un atto nel quale si dica «pagami, perché mi hai fatto perdere la causa», senza indicare in cosa sia consistita la mala gestio. Od ancora proviamo a supporre un giudizio nei confronti di un commercialista, introdotto da un atto nel quale si dica «pagami, perché mi hai fatto pagare più tasse del dovuto», senza indicare quali atti il convenuto abbia omesso o erroneamente compilato. In tutti questi casi nessuno dubiterebbe della nullità della citazione ex art. 164 c.p.c., per omessa indicazione del fatto costitutivo della pretesa. Per il medico invece non è così…”. 3

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La precisazione della Suprema Corte chiarisce che nella necessaria allegazione di un fatto si deve dar prova anche della sua rilevanza causale e tale assunto non sembra né contestabile, né superabile4. Come si potrebbe, del resto, considerare allegato un qualificato inadempimento senza rendere ragione del perché il suddetto inadempimento debba ritenersi “qualificato”? È infatti la natura “qualificata” dell’inadempimento, alla quale le sezioni unite avevano fatto riferimento, che contiene in sé il riferimento al nesso causale5.

In dottrina si legge “Allegare un inadempimento «qualificato» è, dunque, formula che sintetizza e copre entrambi gli elementi dell›illecito: solo la precisa qualificazione dell›inadempimento — vale a dire la sua attitudine a generare un danno del tipo di quello realmente verificatosi — porta il danneggiato ad assolvere in modo idoneo il suo carico probatorio; nel contempo — ed è ciò che qui interessa — questa qualificazione esaurisce l›onere probatorio anche per ciò che riguarda il nesso eziologico” ed ancora “…Il vantaggio sul piano probatorio per il creditore danneggiato acquista duplice valenza: il danneggiato – che già beneficia della allegazione dell’altrui inadempimento – è esentato dal dimostrare, in concreto, la sequenza causale che ha condotto al danno di cui egli invoca il ristoro; se ne conclude che la dimostrazione che un (certo) fatto è idoneo a determinare un (certo) effetto tiene luogo della concreta dimostrazione che quel fatto ha prodotto quell’effetto” (così Pucella, Inadempimento qualificato, prova del nesso di causa e favor creditoris, in Resp. civ. e prev., 2014, 1087.

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In questo senso si veda Trib. Roma, 4.4.2017, n. 6668, in www.rivistaresponsabilitamedica.it. E del resto le stesse sez. un. ricordano che “In tema di responsabilità extracontrattuale è onere dell’attore provare il nesso causale tra la condotta del convenuto ed il danno, ma tale prova può essere fornita anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici. È dunque consentito al giudice ritenere provata la sussistenza tra la condotta del medico e il danno patito dal paziente, quando la condotta tenuta dal sanitario sia stata astrattamente idonea a produrlo, e non sia possibile ricostruire con esattezza la serie degli eventi a causa della imprecisa tenuta della cartella clinica da parte del sanitario medesimo” (Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 582). Ed ancora “In particolare il paziente deve provare l’esistenza del contatto e allegare l’inadempimento consistente nell’aggravamento della situazione patologica o nell’insorgenza di nuove patologie per l’effetto dell’intervento, ovvero il nesso causale; mentre resta a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova della diligenza della prestazione e che gli eventuali esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile, non evitabile anche avendo osservato le regole tecniche del caso” (Cass., 7.6.2011, n. 12274).

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Giurisprudenza

Ciò detto, è inevitabile evidenziare come l’accento posto sul nesso di causa potrà, in prospettiva, determinare (o almeno così dovrebbe avvenire) una serie di giudizi nei quali la CTU non sarà stata concessa in quanto parte attrice avrà omesso di fornire la prova del nesso di causa fra comportamento stigmatizzato e danno lamentato. Se infatti “… non solo il danno, ma anche la sua eziologia è parte del fatto costitutivo che incombe all’attore di provare…” e se “… si ascrive un danno ad una condotta non può non essere provata da colui che allega tale ascrizione la riconducibilità in via causale del danno a quella condotta”, ci si domanda cosa dovrebbe fare un magistrato allorché l’atto di citazione non contenga una chiara indicazione sul nesso causale fra condotta contestata ed evento lamentato. Sembra di potersi affermare che tale accertamento non potrà essere demandato al CTU, poiché questi dovrebbe essere deputato a verificare, semmai, la fondatezza scientifica di tesi ed argomentazioni comunque già prodotte. Del pari di rilievo appare il riferimento all’onere probatorio relativo all’accertamento causale dell’impossibilità di adempiere ex art. 1218 c.c. che grava invece sul debitore in quanto prova della causa estintiva dell’obbligazione. Ebbene rispetto a tale prova la Corte, superando con un sol salto tutto il dibattito sui criteri d’imputazione dell’impossibilità ad adempiere6, riprende in modo forse non del tutto lineare l’art. 1176 c.c. ed i criteri di imprevedibilità ed inevitabilità, tanto cari al mondo della medicina legale. Afferma la Corte che se il secondo comma dell’art. 1176 c.c., vale a dire quello che delinea la responsabilità del professionista costituisce la misura del contenuto dell’obbligazione, e quindi se inadem-

Il dibattito sull’adempimento estintivo dell’obbligazione, nella sua concezione soggettiva, focalizzata sulla colpa nell’adempimento e quella oggettiva parametrata al risultato ha anche in Italia radici antiche: si ricorda per la teoria soggettivistica Coviello, Del caso fortuito in rapporto alla estinzione delle obbligazioni, Lanciano, 1895, 55 ss.; mentre per quella oggettivistica notoriamente Osti, del quale, fra i molti scritti al riguardo, si ricorda: La revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1918, 209 ss. 6


Inadempimento qualificato e prova del nesso di causa

pimento c’è stato oppure no, il primo comma, ovvero quello che definisce la diligenza ordinaria, diviene il criterio per accertare se – sotto un profilo soggettivo – l’impossibilità della prestazione gli era o meno imputabile, ferma la prova ulteriore del dato naturalistico ovvero della causa che abbia reso impossibile la prestazione. Dunque il convenuto, ove si riveli inadempiente ex art. 1176, comma 2°, c.c., dovrà provare – ex art. 1218 c.c. – che l’impossibilità della prestazione (ergo dovrà dare prova dell’esistenza naturalistica di una causa di impossibilità) non gli è imputabile (dunque che con diligenza ordinaria ha cercato di prevenire la causa impeditiva). Il complesso ciclo causale determina quindi – in questa ricostruzione della Suprema Corte – che la causa incerta, e cioè quella causa che non si sia riusciti ad individuare come spiegazione di un evento avverso, rimanga a carico dell’attore e la mancata prova di essa comporti il rigetto della domanda risarcitoria; la mancata dimostrazione dell’esistenza di una causa impeditiva dell’adempimento e della sua non imputabilità alla scarsa diligenza del convenuto che non abbia saputo prevenirne l’accadimento seppur evitabile e/o prevedibile, grava invece sul debitore. La Corte non dice con chiarezza se il corretto adempimento, come parrebbe logico, e quindi il rispetto della diligenza ex art. 1176 c.c. escluda il ricorso agli oneri probatori previsti dall’art. 1218 c.c., sciogliendo un punto rimasto non del tutto chiaro in nove anni di sentenze succedutesi sull’argomento, ma non sembrano sussistere ragioni per dubitarne7.

Sul punto in dottrina si legge “… la prova del corretto adempimento grava sul debitore e soltanto in caso di inefficacia della prova circa l’adeguatezza del comportamento (ovviamente ai sensi dell’art. 1176 c.c.) si pone il problema ulteriore della prova del fatto eziologicamente rilevante che abbia reso impossibile l’adempimento, non prima né contestualmente. L’adeguatezza del comportamento debitorio diviene quindi, in questa lettura, non tanto la prova dell’impossibilità a sé non imputabile, bensì ciò che rende superflua detta dimostrazione” (Partenza, La nuova responsabilità del medico e della struttura sanitaria, 2017, Pisa, 124). Nel senso di ritenere liberato il convenuto che provi l’adeguatezza del suo adempimento ex art. 1176 c.c. senza necessità di 7

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La pronuncia, dunque, è realmente in linea con l’orientamento consolidatosi sulla pronuncia delle sezioni unite del 2008 ma la sua lineare chiarezza toglie oramai ogni alibi ai tentativi di giudizi “esplorativi” in ambito di responsabilità sanitaria.

ricorrere all’ulteriore prova della impossibilità dovuta a causa a sé non imputabile viene da Cass., 21.9.2015, n. 18497: “… l’onere della prova della insussistenza dì un nesso causale tra atto medico ed esito peggiorativo dello stato di salute dell’infermo – id est, dell’intervento di un fattore autonomo ed estraneo all’operato del professionista, da solo idoneo a produrre l’evento – grava sul medico solo qualora lo stesso non sia riuscito a provare di avere correttamente eseguito la propria obbligazione, apparendo coerente con il principio della vicinanza della prova e con criteri di ragionevolezza, che, allegato dall’attore un fatto astrattamente idoneo a provocare l’esito peggiorativo lamentato e non assolto o non compitamente assolto dal convenuto l’onere di dimostrare di avere correttamente adempiuto, spetti al medico, per andare esente da responsabilità, attivarsi per provare l’insignificanza, sul piano eziologico, del suo inadempimento, con conseguente rischio di soccombenza, ove il dato rimanga incerto. Ma tutto ciò esula dalle questioni poste dalla presente controversia, avendo il decidente operato la sua scelta decisoria sulla base dell’affermato assolvimento, da parte dei debitori, dell’onere della prova, su di essi gravante, di avere correttamente eseguito l’intervento…”.

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s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza

Trib. Gorizia, 18.7.2017

Responsabilità civile – Struttura ospedaliera – Condotte omissive e commissive dei sanitari – Responsabilità contrattuale – Sussistenza (c.c. art. 1218)

É da configurarsi in capo alla struttura sanitaria una responsabilità contrattuale nel caso in cui sia stato rilevato un comportamento negligente dei sanitari, inteso come deficit di attenzione nel dare il giusto valore ad alcuni parametri di laboratorio e mancanza di sollecitudine nel richiedere, altresì, l’esecuzione di accertamenti strumentali. Responsabilità civile – Struttura ospedaliera – Condotte omissive e commissive dei sanitari – Decesso del paziente per ritardata diagnosi – Nesso di causalità – Criterio di accertamento – “Più probabile che non” (c.c., artt. 1218, 1223; c.p. artt. 40 e 41)

La sussistenza del nesso di causalità tra le condotte omissive e commissive dei sanitari e il decesso del paziente deve ritenersi accertata e provata in termini di causalità materiale sulla base del criterio del “più probabile che non”. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista

Responsabilità dell’ospedale per mancanza di attenzione e accertamenti eseguiti in ritardo Angelo Venchiarutti

Professore nell’Università di Trieste Sommario: 1. Introduzione. – 2. La responsabilità della struttura sanitaria per ritardata diagnosi. – 3. La responsabilità della struttura sanitaria nella legge 24 del 2017 (c.d. “legge Gelli-Bianco”). – 4. La sicurezza delle cure.

Abstract: La decisione riconosce la responsabilità contrattuale della struttura ospedaliera per il decesso di un paziente. Sotto il profilo causale, l’evento dannoso viene attribuito, sulla base della regola probatoria del “più probabile che non”, alle condotte negligenti, omissive e commissive, dei medici dell’ospedale.

The decision recognizes the contractual liability of the hospital for the death of a patient. From a causal point of view, the harmful event is attributed, on the basis of “more probably than not” rule, to the negligent, conduct of hospital doctors.

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1. Introduzione Nella pronuncia in esame, il Tribunale ordinario di Gorizia si misura con l’accertamento della responsabilità di una struttura sanitaria (azienda sanitaria n. 2 isontina), in ragione delle condotte negligenti, omissive e commissive, dei sanitari dell’azienda convenuta in giudizio1. Il commento che segue, oltre a dar conto di un’applicazione pratica di regole di origine giurisprudenziale ben consolidate in questa materia, intende formulare alcune considerazioni attorno alla nuova legge in tema di medical malpractice.

2. La responsabilità della struttura sanitaria A titolo di premessa va evidenziato anzitutto che ad essere chiamata in causa è soltanto la struttura sanitaria. Forse indotti dall’dea che il danno venga allocato attraverso il criterio della deep pocket, i congiunti della vittima tralasciano di agire nei confronti dei sanitari pur se (come emergerà chiaramente nel proseguo) la responsabilità del decesso del paziente verrà ascritta esclusivamente alla condotta negligente, imprudente ed imperita di costoro2. Per quanto riguarda l’inquadramento, il Tribunale del capoluogo isontino colloca la fattispecie nell’alveo della responsabilità contrattuale, aderendo all’orientamento largamente condiviso dalla giurisprudenza e dalla dottrina domestica3. Nel

Sulla responsabilità dell’azienda sanitaria per l’inadempimento, o l’illecito, riferibile al medico di base, cfr. Cass., 27.3.2015, n. 6243, in Danno e resp., 2015, 794, con nota di Zorzit, La Cassazione, il fatto del medico di base e la responsabilità “contrattuale” della Asl: nuove geometrie (e qualche perplessità); in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 934, con nota di Pucella, La responsabilità dell’A.S.L. per l’illecito riferibile al medico di base. 1

Gorgoni, La responsabilità della struttura sanitaria, in Danno e resp., 2016, 807 ss., evidenzia peraltro come siano ben poche, nell’ambito domestico, le sentenze che condannano esclusivamente il sanitario.

2

L’attuale sistemazione della materia va attribuita alle sezioni unite con la decisione 11.1.2008, n. 577, in Foro it., 2008, I, 455; in Giur. it., 2008, III, 2197, con nota di Cursi, Responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell’onere proba-

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Giurisprudenza

caso di specie l’esistenza del contratto risulterà pacifica alla luce della documentazione sanitaria in atti4. Una volta qualificata la responsabilità della struttura sanitaria in termini contrattuali, il giudice goriziano delinea il riparto dell’onere probatorio tra debitore e creditore. Pure questo passaggio denota l’adesione a regole ben radicate nel nostro sistema. I criteri utilizzati sono quelli emersi dagli interventi di razionalizzazione della Suprema Corte, volti a semplificare la posizione della vittima del danno da inadempimento5. Com’è noto un alleggerimento della posizione processuale del paziente è stato stabilito dalle stesse sezioni unite. L’occasione fu offerta dalla richiesta risarcitoria di una persona, che lamentava di aver contratto l’epatite C a seguito di una trasfusione di sangue infetto eseguita presso una clinica privata. Il collegio di legittimità, aderendo all’opzione contrattualistica della responsabilità sanitaria, dispose, in tema di onere della prova, l’applica-

torio; in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 612, con nota di De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione. Per la giurisprudenza più recente v. Cass., 24.10.2014, n. 22331, in Foro it., 2015, I, 999. Sull’evoluzione concettuale ed operativa della responsabilità nosocomiale, v., ancora, Gorgoni, La responsabilità della struttura sanitaria, cit., 811 ss.; nonché Calvo, La “decontrattualizzazione” della responsabilità sanitaria (l. 8 marzo 2017, n. 24), in Nuove leggi civ. comm., 2017, 468 ss.; Faccioli, La nuova disciplina della responsabilità sanitaria di cui alla legge n. 24 del 2017 (c.d. “Legge Gelli-Bianco”): profili civilistici (Prima parte), in Studium Iuris, 2017, 662 ss. 4 Per il tribunale dunque il perfezionamento dell’accordo avente per oggetto la prestazione d’assistenza preordinata alla tutela della salute umana discende dall’«accettazione» del paziente all’interno del luogo di cura (Cass., 22.10.2014, n. 22331, in Foro it., 2015, I, 999; nonché già Cass., sez. un., 1°.7.2002, n. 9556, in Giust. civ., 2003, I, 2196). Decisiva per l’attrazione della responsabilità entro i confini regolamentari degli artt. 1218 ss. c.c. è stata la tesi del contatto sociale (Cass., 22.1.1989, n. 589, in Danno e resp., 1999, 294 e 777). In altre occasioni l’applicazione delle regole di responsabilità contrattuale è fatta discendere da un obbligo preesistente della struttura ospedaliera e dalla sua non corretta esecuzione: Cass., 2.4.2009, ord. n. 8093, in Foro it., 2009, 10, I, 2683 ss.

I principi in materia di distribuzione dell’onus probandi sono stati consacrati dalle sezioni unite nel 2001: Cass., sez. un., 30.10.2001, n. 13533, in Foro it., 2002, con nota di Laghezza; sul tema, Pucella, Causalità e responsabilità medica: cinque variazioni del tema, in Danno e resp. 2016, 821 ss.

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Responsabilità della struttura sanitaria

zione della regola per cui il paziente deve solo allegare, oltre che l’esistenza dell’evento dannoso (consistente nell’aggravamento della condizione morbosa, o nell’insorgenza di nuove patologie rispetto a quelle iniziali, o addirittura nel decesso, come nel caso di specie), l’evento astrattamente capace di produrre il danno lamentato. L’onere probatorio più consistente graverà invece sul medico e sulla struttura sanitaria: a carico di costoro resterà l’onere di fornire la prova dell’inevitabilità dell’evento, o dimostrare che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso, o che l’inesatto adempimento dell’obbligazione nosocomiale, pur essendovi stato, non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno6. La ripartizione dell’onere probatorio trova fondamento anche nel principio della c.d. “vicinanza della prova” – ossia della considerazione che il medico e la struttura sanitaria, avendo la padronanza “tecnica” e gli strumenti necessari, si trovano nella posizione più agevole per smontare i rilievi avversari. Il giudice goriziano descrive e risolve poi, in modo alquanto risoluto, le problematiche riguardanti l’individuazione del nesso di causalità tra fatto e evento lesivo. La valutazione è strutturata secondo i canoni della probabilità scientifica e logica, in conformità alla dottrina che si è fatta strada nel diritto vivente. Egli rammenta, anzitutto, che pure in materia civile, i principi che regolano la causalità materiale sono quelli tratteggiati dagli artt. 40 e 41 c.p. e dalla regolarità causale. Precisa però come in sede civile nell’accertamento del nesso causale viga la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”7 (in luogo del giu-

dizio fondato sulla certezza o estrema verosimiglianza «oltre ogni ragionevole dubbio»), Il criterio probabilistico consente così ai giudici civili di superare le incertezze che, in più di qualche circostanza, sono destinate a caratterizzare il rapporto causale. Nel caso di specie, dalle consulenze tecniche (espletate nel corso del giudizio e nel corso dell’accertamento tecnico preventivo ex art. 696 c.p.c.) era emerso, in particolare che i sanitari dell’azienda, avevano, da un lato, colpevolmente sottovalutato alcuni parametri di laboratorio e i ripetuti episodi di ematemesi manifestati dal paziente pochi giorni dopo il ricovero (in ospedale per sincope e policontusioni da caduta) e, dall’altro lato, avevano colpevolmente ritardato l’esecuzione di accertamenti strumentali come “l’addome in bianco o posizionare un SNG”. Accorgimenti e interventi che – come specificano ancora le consulenze tecniche – là dove fossero stati adottati avrebbero consentito di rilevare con maggiore tempestività l’ostruzione intestinale con strangolamento da volvolo del cieco. Proprio la ritardata diagnosi di quel malessere viene indicata come la causa che aveva portato all’irreversibilità dello shock settico e poi al decesso del paziente. Alla luce delle conclusioni cui erano approdati entrambi i CTU, il giudice riteneva pertanto accertata e provata la sussistenza del nesso di causalità tra le condotte commissive e omissive dei sanitari e il decesso del paziente in termini di causalità materiale8.

2008, 43, con nota di Pucella, in Corr. giur., 2008, 35, con nota di Bona. Sul tema, Fiori, Il criterio di probabilità nella valutazione medico-legale del nesso causale, in Riv. it. med. leg., 1991, 34 ss. Nella motivazione, il giudice non richiama la circostanza che “le molteplici patologie da cui era affetto il Mininel avrebbero svolto un ruolo negativo nell’assicurare una guarigione anche in caso di tempestiva derotazione del volvolo, nonché la circostanza secondo cui la prognosi quoad vitam dell’ostruzione intestinale in soggetti ottantenni rimanga comunque riservata con rischio morte nel 30 % dei casi”, pur evidenziata da uno dei c.t.u. Visto i termini di percentuale della probabilità della sopravvivenza, la circostanza non avrebbe inficiato l’attribuzione della responsabilità del decesso ai sanitari in base al criterio della “preponderanza dell’evidenza”. Va aggiunto poi che secondo la Eggshell doctrine

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Sul tema della partizione dell’onere probatorio in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, v. sempre Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, cit..; nonché successivamente Cass., 12.12.2013, n. 27855, in http://www.responsabilitasanitaria.it/rassegna/allegati/1391006679098643900. pdf; Cass., 13.10.2017, n. 24073, in http://www.rivistaresponsabilitamedica.it/ con nota di Corso, Onere della prova nesso causalità un caso errore diagnostico.

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Sulla scia di Cass., 16.10.2007, n. 21619, in Danno e resp.,

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3. La responsabilità della struttura sanitaria nella legge 24 del 2017 (c.d. “Legge Gelli-Bianco”) Pur se i fatti che danno origine alla decisione del giudice isontino risalgono al 2006, in questa sede pare opportuno dar conto delle nuove regole in tema di responsabilità sanitaria emanate all’inizio di quest’anno dal nostro legislatore9. Ebbene la legge 8 marzo 2017, n. 24 (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie), nel disciplinare la responsabilità della struttura sanitaria non pare modificare la situazione rispetto al passato. A fronte della collocazione nell’ambito extracontrattuale della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, l’art. 7 (comma 1) della novella prevede che la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, quantunque scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose. La previsione dunque conferma la natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria, pur se non prende chiaramente posizione circa la fonte del rapporto obbligatorio tra paziente e la stessa struttura nosocomiale. Si tratta dunque di una previsione del tutto compatibile con l’o-

diffusa soprattutto nel common law statunitense, il tortfeasor è responsabile di tutte le conseguenze derivanti dalla sua condotta negligente, anche se la vittima subisce un danno insolitamente grave a causa di una preesistente vulnerabilità o debolezza fisica (per tutti, v. Prosser & Keeton, Torts, 5thEd., 1984 § 43, 292). Per alcuni commenti, Alpa, Ars interpretandi e responsabilità sanitaria a seguito della nuova legge Bianco-Gelli, in Contr. e impr., 2017, 728 ss.; Franzoni, La nuova responsabilità in ambito sanitario, in questa Rivista, 2017, 5 ss.; Scognamiglio, Il nuovo volto della responsabilità del medico. Verso il definitivo tramonto della responsabilità da contatto sociale?, ibidem,35 ss.; Calvo, La “decontrattualizzazione” della responsabilità sanitaria (l. 8 marzo 2017, n. 24), cit., 453 ss.; Ponzanelli, Medical Malpractice: la legge Bianco-Gelli, in Contr. e impr., 2017, 356. 9

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Giurisprudenza

rientamento, di gran lunga maggioritario nella giurisprudenza, che riconosce l’esistenza di un rapporto obbligatorio di fonte contrattuale tra malato e struttura sanitaria (al quale come si è detto anche il Tribunale goriziano mostra di aderire)10. Chiara è poi la presa di posizione della legge c. d. Gelli-Bianco a favore di una responsabilità vicaria e indiretta del nosocomio per i danni cagionati dei sanitari operanti all’interno della struttura. Si tratta anche qui di un’impostazione da tempo radicatasi nella giurisprudenza e condivisa da larga parte della dottrina11 – pur se non sono mancate le voci che, facendo leva sugli aspetti dell’autonomia e dell’indipendenza di cui dispone il medico nel corso dell’espletamento della sua attività, hanno sostenuto la tesi dell’irriducibilità del professionista sanitario alla figura dell’ausiliario del debitore12.

4. La sicurezza delle cure La vicenda in esame conferma il ruolo decisivo della valutazione del c.t.u. per fondare il giudizio sull’imputazione dell’evento dannoso (il decesso del paziente, nel caso di specie) alla struttura sanitaria, stante il comportamento negligente dei sanitari. La giurisprudenza del resto ha accolto ormai pacificamente la tesi per la quale, nel giudizio civile, la valutazione della c.t.u. può essere considerata fonte oggettiva di prova “quando si risolva in uno strumento di accertamento di situazione ricavabile solo con il concorso di determinate cognizioni tecniche” derivanti dalle caratteristiche ontologiche della fattispecie13. La specialità della

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V. nt. 4.

Tra gli altri v. Visintini, La responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari, nel Tratt. responsabilità contrattuale, dir. da Visintini, III, Padova, 2009, 606 ss.; Ceccherini, Responsabilità per fatto degli ausiliari. Clausole di esonero da responsabilità. Artt.1228-1229, nel Commentario Schlesinger, 2a ed., Milano 2016, 91 ss. 11

Per le diverse posizioni, tra gli altri, Mazzamuto, Note in tema di responsabilità civile del medico, in Eur. e dir. priv., 2000, 505; Navarretta, L’adempimento dell’obbligazione del fatto altrui e la responsabilità del medico, in Resp. civ. e prev., 2011, 1453 ss. 12

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Tra le altre, v. Cass., 26.1.2010, n. 1538, in La resp. civ.,


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situazione restringe del resto necessariamente i margini di giudizio del giudice. Al riguardo la nuova legge non formula indicazioni specifiche. Non compaiono infatti nel testo della riforma definizioni dell’oggetto delle prestazioni a carico della struttura e di cosa debba intendersi per fatto non imputabile quale perimetro dell’oggetto del contendere. Soltanto nell’articolo di apertura, dedicato alla “sicurezza delle cure in sanità”, vien posta l’enfasi sulla circostanza che la stessa si realizza anche mediante “l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative”14. Occorrerà attendere l’applicazione pratica della nuova normativa per comprendere come simili indicazioni saranno valutate dai giudici.

2010, 592, con nota di Zauli; nonché Cass., 21.4.2015, n. 8297, in Foro it. Rep., 2006, n. 21; Cass., 20.3.2015, in Resp. civ. e prev., 2015, 1907, con nota di Miotto, L’onere della prova del nesso causale nella responsabilità medica (ovvero l’adempimento della prestazione, questo sconosciuto. Pardolesi e Simone, Nuova responsabilità medica: il dito e la luna (contro i guasti del contratto sociale?), in Foro it., 2017, V, 165.

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o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo i d dic s i e r Osservanza delle linee m giu

guida e buone pratiche nella prospettiva dell’esercente la professione sanitaria Gianfranco Sinagra

Professore di Cardiologia, Università di Trieste; Direttore del Dipartimento Cardiovascolare dell’Azienda Sanitaria Universitaria integrata di Trieste

La legge Balduzzi prima e la riforma Gelli oggi attribuiscono un rilievo normativo diretto alle “linee guida” e “buone pratiche”. A tali indicazioni viene ricollegato un dovere di comportamento da parte dell’esercente la professione sanitaria; il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida, ovvero dalle buone pratiche è suscettibile di determinare, inoltre, per l’esercente la professione sanitaria un’attenuazione della sua responsabilità sia sul piano penale che su quello civile. Di conseguenza, assume estrema importanza – per l’operatore del diritto – l’analisi del fenomeno in questione, ai fini della quale appare determinante la creazione e lo sviluppo di un dialogo proprio con chi a quel dovere di comportamento deve dare attuazione. In questa prospettiva alcuni profili critici sono stati presentati sotto forma di quesito allo specialista sanitario e poi posti ad analisi critica dal giurista. È soddisfacente, dal punto di vista dei medici, il passaggio – in ambito giuridico – da un concetto di “linee guida accreditate dalla comunità scientifica” a quello di “linee guida ufficiali” (in quanto elaborate da organismi determinati, secondo procedure predefinite e successivamente verificate

dall’Istituto superiore della Sanità: art. 5.1 Leggi Gelli)? A mio avviso questo cambio di impostazione con la previsione di attenersi alle raccomandazioni previste dalle linee guida “ufficiali” non produrrà modifiche sostanziali nell’esercizio nella pratica clinica. Nella Gazzetta Ufficiale del 10 agosto 2017 è stato pubblicato il decreto con l’elenco delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie nel contesto del quale sono definiti i requisiti per l’iscrizione all’elenco istituito presso il Ministero della salute. I requisiti di cui all’art. 2 potrebbero paradossalmente escludere Società Scientifiche che avrebbero pieno titolo ad esprimersi e formulare raccomandazioni. In realtà molti di noi, pur nell’ambito di un uso necessariamente critico (e non passivo) delle Linee Guida, Statement, Consensi e Raccomandazioni, già da molti anni si attengono ad esse e poco o nulla viene lasciato all’estro individuale. Chi ritiene di non farlo continuerà a non farlo assumendosi la responsabilità delle conseguenze di una condotta difforme da un’impostazione condivisa e scientificamente supportata.

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Piuttosto c’è da chiedersi come verrà interpretato e considerato l’attenersi, frequentissimo, a linee guida di società scientifiche estere accreditate, spesso più incisive ed assertive nelle indicazioni: nel decreto non c’è previsione alcuna e ciò che conta è invece la rilevanza “nazionale” della società scientifica. Le linee guida hanno intrinseci limiti, legati al rapido progredire delle conoscenze, alla rilevanza ed autorevolezza della Società che le formula, all’aggiornamento sulla base delle più recenti evidenze, ad alcuni interessi che intorno ad esse si esercitano, all’ampia fascia di classi e livelli di raccomandazione, che sostanzialmente indicano l’opinabilità dell’agire (classi IIa e IIb). Molti scenari decisionali clinici non hanno studi clinici di riferimento, o criteri di eleggibilità che rendano trasferibili i risultati di uno studio o di una ricerca al singolo paziente, nello specifico contesto, specifiche caratteristiche, specifiche patologie, specifici profili di comorbidità, specifici vissuti di malattia e contesti psico-sociali. Come viene standardizzato il livello di evidenza delle prove di efficacia che supportano le raccomandazioni cui si farà riferimento? Di ciò non si parla. Quanti CTU saranno disposti ad affrontare concretamente questo aspetto piuttosto che adagiarsi sic et simpliciter su un apparente mancato adeguamento a raccomandazioni, prospettando profili di responsabilità, perdita di chance ecc? La riforma Gelli, a differenza della legge Balduzzi, rinvia alle linee guida in quanto rispondenti ad un criterio di adeguatezza a governare il caso concreto. Qual è il punto di vista della medicina con riguardo a tale novità? Cosa si intende, dal punto di vista medico, per “buone pratiche clinico-assistenziali”? È corretto attribuire alle stesse, come fa la riforma Gelli, un ruolo sussidiario rispetto alle linee guida? Non so se di fronte alla estrema variabilità degli scenari clinici e decisionali le “buone pratiche cliniche” debbano essere poste in subordine. Certo, l’ambito di soggettività e discrezionalità si amplia e l’autorevolezza ed imparzialità dei tecnici che

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Dialogo medici-giuristi

supportano il Giudice diviene un elemento fondamentale. Dunque, ci si deve attenere alle raccomandazioni delle linee guida ma “salve le specificità del caso concreto” e in mancanza di raccomandazioni ci si deve attenere alle “buone pratiche clinico assistenziali”. L’attenersi pedissequamente alle linee guida mi pare si profili come inutile anche sotto il profilo della medicina difensiva, posto che preventivamente all’impiego delle medesime è sempre necessaria una valutazione per il caso concreto. Il primo passaggio da affrontare prima di applicare le linee guida, è se le stesse siano o meno rispondenti al caso di specie e se dalle stesse ci si debba discostare necessariamente proprio per la peculiarità del contesto. E se le linee guida non sono applicabili per la peculiarità dello scenario clinico? Va da sé che il criterio di riferimento non può che essere l’evidenza scientifica che a questo punto deve necessariamente mutuarsi dalla letteratura scientifica per concretizzare la “buona pratica clinico assistenziale”. Le linee guida, quindi, altro non fanno che condensare in termini applicativi generali il censimento della migliore letteratura di riferimento che è poi la medesima che applico specificamente nel caso concreto. Quindi, in linea generale, le linee guida forniscono un apporto per una decisione che non può che essere informata alle buone pratiche clinico-assistenziali il che potrebbe portare paradossalmente a concludere che in alcuni casi (non minoranza sparuta) è proprio il distaccarsi ragionato e competente dalle linee guida che realizza la buona pratica. C’è quindi una irrinunciabile necessità di cultura del clinico coniugata a saggezza e buon senso, basati su conoscenze, competenze, relazionalità ed attenzione all’appropriatezza. A quale ambito di regole vanno ricondotti i c.d. “protocolli”? I protocolli costituiscono la declinazione operativa delle evidenze scientifiche e linee guida, e come tali sono maggiormente aderenti alla specifica realtà operativa.


Linee guida e buone pratiche

Costituiscono, a seconda del gergo e metodo con i quali vengono espresse, norme regolamentari interne alle strutture da cui non si può derogare, se non rendendone preventivamente (negli specifici casi) tracciabili i motivi; costituiscono indirizzi ed indicazioni vincolanti e sono altro rispetto alle “raccomandazioni scientifiche”, spesso teoriche, non necessariamente aggiornate, poiché potenzialmente scollegate dalle specifiche realtà, contesti ed esigenze di personalizzazione dei percorsi diagnostico-terapeutici al singolo malato. Il mancato rispetto di un protocollo – se validato – può integrare per il sanitario una colpa specifica, almeno questo parrebbe l’orientamento condiviso. Ma chi valida i Protocolli dentro un ospedale? Il Referente per la Qualità? La Direzione Sanitaria? Un comitato di clinici? Credo nell’utilità di un Comitato per i Protocolli e Procedure interne che non prescinda dall’apporto di specifiche professionalità e che garantisca per la qualità ed aggiornamento del documento e delle evidenze su cui ci si basa. Un Protocollo ed una procedura che risulti prodotto oltre 3 anni prima nega la natura stessa del suo essere documento di riferimento. Un Protocollo o una Procedura devono contenere indicatori per il monitoraggio periodico della compliance ad esso e per la verifica dell’aderenza in caso di AUDIT. Risulta ravvisabile, nella prospettiva medica, uno spazio in cui all’esercente la professione sanitaria possa essere imputato un comportamento imperito (che preveda quindi la violazione di regole tecniche) pur avendo egli rispettato linee guida idonee a governare il caso concreto? (problema con riguardo al quale la Cassazione penale, nella prima pronuncia post-riforma Gelli, – Cass. pen. 7 giugno 2017, n. 28187 – ha osservato che non possono essere fatti rientrare nel perimetro di applicazione dell’art. 590 sexies c.p. “le condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito dell’approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per niente disciplinate in quel contesto regolativo”).

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alla competenza con la quale rendo operativo un piano diagnostico-terapeutico o effettuo correttamente una procedura, sapendo riconoscere o gestire eventuali complicanze o sapendo plasticamente variare strategia di fronte a nuove evidenze o scenari evidenziati nel corso di una procedura. Il comportamento imperito attiene al “non saper fare” qualcosa che si dovrebbe saper fare (competenze) e nell’epoca delle superspecializzazioni, possesso di privilegi e accreditamento delle organizzazioni sanitarie, trova a mio avviso sempre minor collocazione. Ovviamente il possesso delle competenze ed il loro aggiornamento costituiscono aspetti sui quali vigilare, da monitorare e rispetto ai quali garantire piani periodici o straordinari di formazione. Appare difficile ipotizzare una condotta “imperita” da parte di uno specialista, in quanto aver eseguito una procedura senza saperla eventualmente condurre adeguatamente a termine non può non integrare gli estremi dell’“imprudenza” (per essere andati “oltre” le proprie capacità) e “negligenza” (per una valutazione preliminare insufficiente o superficiale) per non aver adeguatamente approfondito preliminarmente la materia o lo scenario in questione. L’aver “seguito le linee guida” non attenuerebbe le responsabilità. Né può essere giudicato di per se imperito un comportamento che si scosti dalle linee guida quando ciò sia esattamente ciò che è richiesto ad un professionista che deve saper fare, in casi particolari, una lettura critica ed articolata delle linee guida, scostandosene se necessario.

Il proposito di “rispettare le linee guida” attiene alla cultura ed al senso di responsabilità di un professionista ma non equivale necessariamente Responsabilità Medica 2017, n. 4



o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo i d dic s i e r m giu Osservanza delle

linee guida e buone pratiche: riflessi sulla responsabilità sanitaria Patrizia Ziviz

Professoressa nell’Università di Trieste Sommario: 1. Le linee guida ufficiali. – 2. Le buone pratiche. – 3. Imperizia e osservanza delle linee guida.

1. Le linee guida ufficiali Il problema relativo all’individuazione delle linee guida da prendere in considerazione, ai fini della valutazione del comportamento tenuto dall’esercente la professione sanitaria, non è stato affrontato dalla legge Balduzzi: al suo interno il legislatore si limita a formulare un generico richiamo alle linee guida accreditate dalla comunità scientifica. La riforma Gelli-Bianco, al fine di ovviare a tale indeterminatezza, ha previsto la creazione di un sistema di “linee guida ufficiali”: con l’intento – come rilevato da Cass. pen., 7 giugno 2017, n. 28187 – di costruire “un sistema istituzionale, pubblicistico, di regolazione dell’attività sanitaria, che ne assicuri lo svolgimento in modo uniforme, appropriato, conforme ad evidenze scientifiche controllate (…). La disciplina intende stornare il pericolo di degenerazioni dovute a linee guida interessate o non scientificamente fondate; e favorire, inoltre, l’uniforme applicazione di direttive accreditate e virtuose”. Un modello del genere è, tuttavia, suscettibile di presentare alcune criticità, talune delle quali emergono con netta evidenza nelle considerazioni del prof. Sinagra. Uno dei nodi più delicati è quello riguardante la necessità, per le Società scientifi-

che che vogliano elaborare linee guida ufficiali, di ottenere l’iscrizione in uno specifico elenco. A tal fine devono essere in possesso dei requisiti normativi richiesti dal legislatore, con riguardo ai quali va rilevato come il D.M. 2 agosto 2017 (pubblicato in G.U. n. 186 del 10 agosto 2017), nel replicare un vizio di fondo presente già in seno alla legge, privilegia il requisito della rappresentanza, piuttosto che quello della competenza. Ciò può sfociare nell’esclusione di organismi che avrebbero pieno titolo ad esprimersi al riguardo dell’elaborazione di linee guida accreditate, soprattutto in quanto si tratti di società estere; il che impedirebbe di inserire nel sistema ufficiale proprio quelle raccomandazioni che più di frequente vengono applicate in ambito sanitario, in quanto dotate di maggior incisività ed assertività. Altro problema, non di poco momento, è quello dell’obsolescenza delle linee guida, legato al rapido progredire delle conoscenze. Gli adempimenti burocratici legati all’inserimento delle raccomandazioni nel sistema ufficiale potrebbero determinare un conflitto tra linee guida invecchiate, ma dotate del crisma dell’ufficialità, e raccomandazioni aggiornate ma non ancora supportate da tale riconoscimento. A fronte di situazioni del genere, il rischio che si corre riguarda un possibile appiat-

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timento – da parte dell’operatore sanitario – su raccomandazioni non ottimali, con l’obiettivo di vedersi assicurati gli effetti giuridici favorevoli riconosciuti a livello normativo. Un’ulteriore segnalazione, che emerge dalle considerazioni del prof. Sinagra, riguarda il fatto che in seno alle linee guida si evidenzia un’“ampia fascia di classi e livelli di raccomandazione, che sostanzialmente indicano l’opinabilità dell’agire”. La necessità che le linee guida vengano seguite esclusivamente ove emerga la relativa adeguatezza è chiaramente esplicitata in seno alla l. n. 24/2017: la quale stabilisce l’osservanza di tali indicazioni “salve le specificità del caso concreto” (art. 5) ed esclude la punibilità in sede penale del sanitario che si sia attenuto a quelle raccomandazioni esclusivamente ove le stesse “risultino adeguate alle specificità del caso concreto” (art. 6). Fondamentale importanza assume, quindi, la definizione dell’adeguatezza delle linee guida: profilo, questo, che risulta rimesso alla valutazione giudiziale e, dunque, alle conclusioni raggiunte sul punto in sede di consulenza tecnica. L’intervento del prof. Sinagra mette in luce come a livello normativo manchino indicazioni sulla standardizzazione del livello di evidenza delle prove di efficacia che supportano le raccomandazioni, per cui il rischio è quello che i CTU trascurino l’esame di tale profilo e addossino la responsabilità al sanitario sulla base dell’inosservanza di raccomandazioni che solo alla stregua di un’indagine non approfondita appaiono applicabili al caso concreto.

2. Le buone pratiche Per le buone pratiche ancora più difficoltosa appare la relativa individuazione, considerato come non emerga una definizione condivisa relativa a tale fenomeno. Si tratterebbe, ad opinione di taluni interpreti, di fare riferimento a condotte non formalizzate per iscritto. A tale riguardo il prof. Sinagra indica la necessità di considerare, ai fini di concretizzare la buona pratica clinico assistenziale, l’evidenza scientifica da mutuarsi dalla letteratura scientifica. Si tratta di regole che – in virtù della sussidiarietà affermata dalla riforma Gelli-Bianco – sono destiResponsabilità Medica 2017, n. 4

Dialogo medici-giuristi

nate a governare qualunque ambito dell’operare degli esercenti le professioni sanitarie fintanto che non risultino elaborate specifiche linee guida. In particolare, bisogna sottolineare l’opportunità di ricondurre all’ambito delle buone pratiche anche le stesse linee guida, in quanto si tratti di raccomandazioni accreditate dalla comunità scientifica, ma non inserite all’interno del sistema ufficiale di accreditamento attraverso il sistema di validazione ufficiale. Un dato evidente, che discende dalla sussidiarietà, riguarda il fatto che le buone pratiche non si prestano ad essere identificate con i c.d. protocolli. Questi ultimi vanno intesi, più propriamente, quali declinazione operativa delle evidenze scientifiche e delle linee guida e incarnano norme regolamentari interne alle strutture, rispetto alle quali una deroga appare praticabile soltanto se preventivamente siano resi tracciabili i motivi. Anche i protocolli – come sottolineato dal prof. Sinagra – presentano problemi riguardanti la relativa validazione: si tratta di identificare chi sia l’organismo a ciò preposto e di garantire qualità e aggiornamento di tali indicazioni, attraverso specifiche procedure di monitoraggio e verifica. La sussidiarietà cui fa riferimento il legislatore in ordine alle buone pratiche andrebbe – in ogni caso – interpretata in senso ampio, in quanto alle stesse bisognerà fare riferimento non solo per i casi in cui non siano ancora state elaborate linee guida, ma anche nelle ipotesi in cui l’operatore sanitario affronti una fattispecie, pur astrattamente governata da linee guida, che per le sue caratteristiche concrete debba essere sottratta all’applicazione di quest’ultime. Se così non fosse, in queste ipotesi sarebbe esclusa in radice la possibilità di accedere al trattamento di favore, sia ai fini penali che civili, spingendo in tal modo gli operatori sanitari ad evitare di prendere in carico pazienti la cui situazione non possa essere gestita tramite le linee guida.

3. Imperizia e osservanza delle linee guida Un trattamento di favore per l’esercente la professione sanitaria – sia sul piano della responsabilità penale, che civile – appare correlato alle


Linee guida e buone pratiche

ipotesi in cui egli abbia commesso una colpa pur nell’osservanza delle linee guida. Problematica è apparsa, fin dall’entrata in vigore della legge Balduzzi, l’individuazione dell’area di comportamenti riconducibili ad una simile ipotesi. Ad essere individuati sono stati, essenzialmente, due casi: quello dell’operatore sanitario il quale si trovi a commettere un errore al momento di mettere in pratica le raccomandazioni delle linee guida/buone pratiche e quello in cui egli si sia attenuto alle linee guida, mentre la peculiarità del caso concreto richiedeva di disapplicarle. Con le modifiche introdotte dalla riforma, si restringe l’area dei comportamenti che possono essere presi in considerazione. Nessun trattamento di favore appare - infatti - praticabile ove il sanitario si sia attenuto a raccomandazioni non adeguate all’ipotesi trattata, dal momento che lo standard di comportamento rilevante viene identificato con l’osservanza di linee guida “adeguate alla specificità del caso concreto”; il rispetto di raccomandazioni non idonee implica, pertanto, una piena responsabilità. Un’ulteriore restrizione deriva dal fatto che il trattamento di favore riguarda soltanto i casi di imperizia. In buona sostanza bisogna fare riferimento esclusivamente alle ipotesi in cui l’esercente la professione sanitaria – uniformandosi a linee guida adeguate al caso concreto – abbia assunto un comportamento imperito. Gli interpreti hanno segnalato, a tale riguardo, la difficoltà di tracciare un confine netto tra il concetto di imperizia e quelli di negligenza e imprudenza: conclusione, questa, che sembra essere pienamente condivisa nelle considerazioni del prof. Sinagra. È stata, in generale, messa in dubbio la stessa possibilità che vengano a coesistere, in capo al professionista, imperizia e osservanza di linee guida adeguate al caso concreto. La contraddizione è stata rilevata dalla stessa Cassazione penale, che nella sentenza n. 28187/2017 appare incline a negare l’esistenza di una sfera di non punibilità penale in capo al medico il quale commetta un’imperizia. Il riferimento alle linee guida/buone pratiche servirebbe, quindi, esclusivamente a fornire una maggior determinatezza in ordine alla condotta dovuta dal sanitario, al fine di stabilire se effettivamente sia ravvisabile in capo allo stesso l’imperizia. In quest’ottica, una volta accertata

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quest’ultima, non vi sarebbe alcuno spazio per l’irresponsabilità penale; né, parallelamente, sul piano civilistico si potrebbe procedere ad alcuna limitazione risarcitoria. Infatti, qualora l’osservanza delle linee guida escluda la ricorrenza della colpa sotto al profilo dell’imperizia, non emergerebbe alcun addebito sul piano del risarcimento; ove, al contrario, si accerti l’imperizia, sussisterà una piena responsabilità anche sul piano civile. Resta da sottolineare, come evidenziato dal prof. Sinagra, la necessità di non bollare in termini di imperizia il comportamento del professionista che abbia disapplicato le linee guida nei casi in cui ciò sia esattamente quanto necessario per affrontare le peculiarità del caso concreto. Ogni valutazione relativa al comportamento del sanitario ruota, pertanto, intorno alla delicata definizione dell’adeguatezza che vengono di volta in volta a rivestire tali raccomandazioni ai fini di gestire la situazione di un determinato paziente.

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t a v r Osservatorio medico-legale Osservatorio normativo e internazionale sse ati o rm z Danno da contagio no rna e t HCV e HIV originato da in emotrasfusione di sangue e suoi derivati. Metodologia accertativa e criteriologia valutativa

Rossella Snenghi**, Barbara Bonvicini**, Chiara Ungaro**, Giuseppe Molinari**, Amelia Boscia*, Enrico Cieri***, Massimo Montisci** Sommario: 1. La tutela indennitaria nei danni da vaccinazione, da trasfusione e da contagio. – 2. La tipologia del fenomeno emergente da una casistica amministrativa territoriale. – 3. Metodologia di accertamento. – 4. Criteriologia di valutazione. – 5. Considerazioni.

Abstract: La legge n. 210/1992 nasceva 20 anni fa per soddisfare esigenze diverse e composite: da un lato, colmare il vuoto legislativo creato dalla sentenza n. 307/1990 in tema di danni da vaccinazione, dall’altro, introdurre una misura atta

Capitano medico dell’Arma dei Carabinieri. Email: boscia. amelia@gmail.com. ** Rossella Snenghi (rossella.snenghi@unipd.it), Barbara Bonvicini (studio.bbonvicini@gmail.com), Chiara Ungaro (ungarochiara@live.it), Giuseppe Molinari (molinarigiuseppe@libero. it), Massimo Montisci (massimo.montisci@unipd.it), afferiscono tutti alla Sede di Medicina legale del Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Cardiovascolari dell’Università degli Studi di Padova, Via Falloppio 50, Padova. *** Tenente Colonnello Medico dell’Esercito Italiano, membro della Commissione Medica Ospedaliera 1^ Sezione del Dipartimento di Medicina Militare Legale di Padova. Email: cieri.enrico@alice.it.] *

a ridurre l’allarme sociale generato dalla paura del “sangue infetto”. La presente trattazione vuole innanzitutto fornire elementi conoscitivi statistico-epidemiologici del fenomeno in ambito amministrativo, emergenti dalle richieste afferite alla CMO dell’Ospedale Militare di Padova. Considerate le molteplici criticità medico-legali inerenti il riconoscimento del nesso causale e la valutazione della conseguente espressione di danno, gli autori propongono una rigorosa metodologia accertativa e la criteriologia valutativa, imprescindibile garanzia di tutela degli interessi delle persone lese nel rischio infettivologico previsto dalla legge, non sottovalutando le implicanze economiche insite nei sistemi riparativi indennitario e risarcitorio. The law n. 210/1992 was born 20 years ago in order to meet different and composite needs: on one hand to fill the legal vacuum created by the judgment n. 307/1990 in terms of damage to

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vaccination, on the other hand to introduce a measure to reduce the social alarm generated by the fear of so-called “infected blood”. This report first aims to provide statistical and epidemiological cognitive features of the administrative phenomenon emerging from the requests made to CMO of Padova’s Military Hospital. Given the many medico-legal issues regarding the recognition of causal link and the assessment of the resulting damage, the authors propose a rigorous assurance methodology and evaluative criteria, which is an indispensable guarantee for the protection of the interests of people affected by the risk of infection, not underestimating the economic implications inherent in compensation and indemnification systems.

1. La tutela indennitaria nei danni da vaccinazione, da trasfusione e da contagio La legge n. 210 del 25 febbraio 1992 nasce come risposta legislativa alla sentenza n. 307/1990 della Corte costituzionale, successiva al giudizio di legittimità promosso dal Tribunale di Milano chiamato a giudicare un caso di poliomielite contratta da una madre durante l’accudimento del figlio già sottoposto a vaccinazione obbligatoria. La richiesta risarcitoria, espressa nei confronti del Ministero della Sanità, si fondava sulla mancata informazione sul pericolo di contrarre l’infezione per contatto con materiale organico quali muco e feci. La vicenda contribuiva ad amplificare lo stato di allarme sociale già diffuso all’epoca a causa della diffusione dell’Aids e dei numerosi casi di contagio da trasfusione di sangue o emoderivati1. Il Tribunale di Milano, espletata una Consulenza Tecnica che confermava l’eziologia della for-

Osservatorio normativo e internazionale

ma morbosa contratta dall’attrice, promuoveva con ordinanza del 23 febbraio 1989 giudizio di legittimità in riferimento all’art. 32 della Costituzione2 ed agli artt. 1, 2 e 3 della legge n. 51 del 4 febbraio 1966 (Obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica) per mancata previsione di un sistema di indennizzo e/o di provvidenze precauzionali e/o assistenziali per i danni da vaccinazione. Il Giudice, osservato a quo che l’art. 32 della Costituzione tutela la salute non solo come interesse della collettività, ma anche e soprattutto come diritto primario ed assoluto del singolo (Corte costituzionale n. 88/1979), rilevava che siffatta tutela si realizza nella duplice direzione di apprestare misure di prevenzione e di assicurare cure gratuite agli indigenti, anche mediante intervento solidaristico (Corte costituzionale n. 202/1981). In tale contesto giuridico si collocava pienamente il caso milanese, risultando evidente che il fondamentale diritto alla salute del singolo individuo non poteva essere sacrificato in conseguenza di legittima attività di tutela della collettività (trattamento vaccinale obbligatorio), senza la giusta previsione di un compenso equivalente, per il sacrificio eventualmente occorso al singolo a causa dell’adempimento ad un obbligo imposto nell’interesse della sanità pubblica. La legge n. 210/1992, intitolata “Indennizzo a favore di soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati”, integrata e modificata successivamente dalla legge 25 luglio 1997, n. 238, prevede la giusta corresponsione da parte dello Stato di un beneficio economico a favore dei soggetti che abbiano riportato “lesioni o infermità dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica” a seguito di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni di sangue o somministrazione di emoderivati. La normativa ha carattere assistenziale ed

Art. 32 Cost.: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

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Il nostro legislatore non è l’unico che ha ritenuto di dover affrontare il problema: anche in Francia, la legge n. 1406 del 31 dicembre 1991 ha istituito un fondo di indennizzo per le vittime di contagio da HIV dovuto a trasfusioni di sangue o emoderivati.

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Danni da contagio

è riconducibile ai doveri di solidarietà sociale e alla tutela del diritto alla salute di cui agli articoli 2 e 32 della Costituzione3. Detta legge mira ad assicurare ai soggetti danneggiati da vaccinazioni o da trasfusioni di sangue o somministrazione di emoderivati infetti un indennizzo vitalizio quale equo ristoro del danno alla salute ingiustamente subito, assicurando al contempo la possibilità di far fronte alle cure e visite specialistiche e ai costi per l’assistenza sanitaria. Ad oggi, la legge e le sue successive modifiche, riconoscono il diritto di richiedere l’indennizzo a coloro che abbiano riportato lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente dell’integrità psicofisica a seguito di: - vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una Autorità Sanitaria; - vaccinazioni non obbligatorie, ma necessarie per motivi di lavoro (es. strutture sanitarie) o per incarichi del proprio ufficio o per poter accedere ad uno stato estero; - contatto con persona vaccinata; - contagio da virus HIV o da virus epatitici da somministrazione di sangue e suoi derivati; - contatto diretto con sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da infezione da HIV o epatite virale in ambito professionale sanitario; - contagio da HIV o da virus epatitici del coniuge di soggetti già indennizzato ex-lege, nonché dei figli esposti durante la gestazione. Chiunque rientri in una delle categorie sopra elencate, per richiedere ed ottenere i benefici previsti dalla legge, deve presentare istanza presso l’ASL di residenza, corredata da documenti comprovanti l’evento di rilievo giuridico (es. trattamento trasfusivo) ed il danno subito4. L’ASL di competenza

Art. 2 Cost.: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

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Ai sensi del d.P.C.M. del 26 maggio 2000 (G.U. n. 238 del 11.10.2000) sono trasferiti alle Regioni, a decorrere dal 1° gennaio 2001, i compiti e le funzioni in materia di indennizzo a favore di soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati di cui alla legge 25 febbra-

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istruisce la pratica verificando i documenti raccolti ed acquisendo ulteriori informazioni (per es. nel caso di epatiti virali post-trasfusionale viene contattato il centro trasfusionale dell’epoca per effettuare il look back dei donatori). Successivamente la pratica è trasmessa alla Commissione Medica Ospedaliera (CMO) territorialmente competente; tale Commissione, istituita presso gli ospedali militari con decreto del Presidente della Repubblica n. 1092 del 29 dicembre 1973 (art. 165), riveste il ruolo di vero e proprio organo tecnico medico-legale del Ministero della Salute. La CMO, dopo aver visitato l’istante e esaminato la documentazione relativa alla pratica, redige un verbale dove esprime i giudizi tecnici attinenti a: - sussistenza del nesso di causalità tra il danno subito e l’evento di rilievo giuridico denunciato dallo stesso (la vaccinazione o la trasfusione, etc); - valutazione del danno che è stimato attraverso l’utilizzo della tabella prevista dalla l. n. 210/92 (Tab. A annessa al DPR 834/81); - tempestività dell’istanza. Di fronte ad un giudizio sfavorevole della CMO, l’istante può in primis intraprendere ricorso gerarchico-amministrativo al Ministero della Salute; e quindi ricorrere alla via giurisdizionale, dinnanzi al Giudice del Lavoro, trattandosi di materia in latu sensu assistenziale (ai sensi dell’art. 442 c.p.c.). Più volte e da più parti è stata messa in luce l’inadeguatezza della tabella prevista ex-lege per la valutazione del danno infettivologico. Ideata per finalità indennitarie diverse (pensionistica di guerra), la Tabella prevede otto categorie di menomazioni ad invalidità crescente dall’8^ alla 1^ (21-100%), che si identificano nella maggior parte dei casi con mutilazioni-menomazioni post-traumatiche, distanti quindi dai quadri morbosi attinenti alla l. n. 210/92. Per quanto concerne la tempestività della presentazione della domanda, i termini perentori previsti dalla legge sono:

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io 1992, n. 210, nonché di vaccinazioni antipoliomelitica non obbligatoria di cui alla legge 14 ottobre 1999, n. 362, articolo 3, comma 3°.

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- 3 anni per i danni da vaccinazione e per le epatiti post-trasfusionali (come da modifica introdotta dalla l. n. 238/1997)5; - 10 anni per le infezioni da HIV. Il momento da cui inizia a decorrere il termine per la presentazione della domanda di indennizzo è disposto dalla legge n. 210/1992 stessa, che così recita al comma 1° dell’art. 3: “i termini decorrono dal momento in cui, sulla base delle documentazioni di cui ai commi 2 e 3, l’avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno”. La norma quindi individua il dies a quo nella “conoscenza del danno” da parte del danneggiato. Detta locuzione deve intendersi come consapevolezza del danno in tutte le sue componenti: il fatto, il danno subito ed il nesso causale tra i due elementi. Il danneggiato deve quindi avere piena conoscenza sia del contagio-lesione (in conseguenza della trasfusione di sangue infetto, somministrazione di emoderivati infetti, vaccinazione, contatto con persona infetta) che del danno conseguito per menomazione permanente dell’integrità fisica. Appare evidente, a questo punto, come inadeguato sia il limite triennale previsto per le epatiti post-trasfusionali, patologie caratterizzate da quadri clinici spesso silenti e lungo-latenti; infatti, nel corso degli anni, la modifica legislativa riguardante l’introduzione del termine triennale per la presentazione della domanda di indennizzo da parte dei soggetti danneggiati da

epatiti di origine post-trasfusionale ha dato luogo a numerosi contenziosi ed a diverse interpretazioni con riferimento al suo ambito di applicazione. All’iter amministrativo può seguire l’iter civilistico nei casi di mancato riconoscimento del nesso di causa ex legge n. 210/1992 e/o nei casi di responsabilità professionale degli operatori e delle strutture sanitarie coinvolte nella genesi del contagio HCV e HIV. Ai sensi del d.P.C.m. del 26 maggio 2000 (G.U. n. 238 del 11.10.2000) sono trasferiti alle Regioni, a decorrere dal 1° gennaio 2001, i compiti e le funzioni in materia di indennizzi a favore di soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati di cui alla legge 25 febbraio 1992, n. 210, nonché di vaccinazioni antipoliomelitica non obbligatoria di cui alla legge 14 ottobre 1999, n. 362, articolo 3, comma 3. Lo scopo della presente trattazione è di delineare un profilo fenomenologico esplicativo della casistica-tipo delle Commissioni Medico Ospedaliere impegnate nell’iter amministrativo; successivamente si vuole proporre la metodologia accertativa e la criteriologia valutativa necessaria per l’espletamento delle attività medico-legali amministrative e di consulenza tecnica, focalizzando l’attenzione sulle molteplici criticità operative emergenti dalla complessità della problematica delle infezioni virali “sanitarie”, considerando il primum movens causale e la successiva espressione di danno.

Inizialmente la legge stabiliva per la presentazione delle domande di indennizzo un termine triennale esclusivamente per le ipotesi di contagio derivante da vaccinazione e un termine decennale nei casi di infezione da HIV; nulla era invece previsto per le ipotesi di epatiti post-trasfusionali. La previsione del termine triennale per la presentazione della domanda di indennizzo anche per i soggetti danneggiati da epatiti di origine post-trasfusionale è stata introdotta dal d.l. n. 344/1996, entrato in vigore il 3 luglio 1996 e successivamente più volte reiterato, sino alla definitiva conversione nella legge 25 luglio 1997, n. 238 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 174 del 28 luglio 1997) la quale ha modificato il menzionato articolo 3 della legge n. 210/1992 nel modo seguente: “i soggetti interessati ad ottenere l’indennizzo di cui all’articolo 1, comma 1, presentano alla ULS competente le relative domande, indirizzate al Ministero della sanità, entro il termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di epatiti post-trasfusionali o di dieci anni nel caso di infezioni da HIV”.

2. La tipologia del fenomeno emergente da una casistica amministrativa territoriale

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La casistica amministrativa comprende 844 soggetti afferiti alla Commissione Medica Ospedaliera (CMO) del Dipartimento di Medicina Militare Legale (DMML) di Padova dal 2007 al 2013 per istanza dei benefici previsti dalla legge n. 210/1992. In merito alla competenza territoriale della CMO si evidenzia che l’assetto territoriale dei Dipartimenti di Medicina Legale Militare italiani è stata ridimensionato dal Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 12 febbraio 2004 e dalla successiva Determinazione dello Stato Maggiore della Di-


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fesa del 27 marzo 2013 con decorrenza del 1 aprile 2013. Ad esempio l’attuale competenza territoriale del DMML di Padova, comprende tutto le province del Veneto, del Friuli Venezia Giulia e parte di quelle dell’Emilia Romagna (Ferrara, Modena, Ravenna, Bologna, Forlì e Rimini). Le province considerate nello studio comprendevano quindi il bacino dell’Emilia Romagna solo a decorrere dal 1° aprile 2013, risultando per il periodo precedente comprese solo l’area veneto-friulana. Le istanze scaturiscono dai diversificati contesti normativo-circostanziali: trattamento trasfusionale; somministrazione di emoderivati; da contatto con il coniuge a cui era già stato riconosciuto il beneficio previsto dalla legge n. 210/92; durante la gestazione da parte di madre a cui era già stato riconosciuto il beneficio previsto dalla legge n. 210/92; contatto con materiale biologico durante lo svolgimento di una professione sanitaria a rischio biologico. Per ogni singola richiesta, la CMO ha esaminato la documentazione e sottoposto l’istante (se ancora in vita) ad accertamento medico-legale, redigendo un verbale nel quale erano riportati i giudizi tecnici circa il nesso di causa tra evento ed infezione contratta, il danno subito (ovvero sull’ascrivibilità o meno della conseguente menomazione permanente dell’integrità psico-fisica riscontrata sull’istante ad una delle otto categorie della tabella A, allegata al d.P.R. n. 834/81) e la tempestività della domanda in relazione ai termini perentori previsti dalla legge. Lo studio si è prefissato di esaminare la metodologia accertativa e la criteriologia valutativa adottate dalla CMO per valutare la sussistenza del rapporto causale tra l’evento e l’infezione contratta dall’istante ed in subordine il conseguente danno. Sono state, inoltre, indagate le cause clinico-patologiche alla base del succedersi degli eventi giuridicamente rilevanti, e sono state esaminate singole patologie che avevano causato i ricoveri degli istanti e i motivi clinici per cui gli stessi erano stati sottoposti ai trattamenti terapeutici con emoderivati. Le 844 domande di indennizzo riguardano: - 729 soggetti (270 maschi e 459 femmine) che ritenevano di aver riportato l’infezione HIV e/o l’epatite virale per emotrasfusione o somministrazione di emoderivati; - 91 soggetti (37 maschi e 54 femmine) operatori sanitari che asserivano di essere stati contagiati

durante lo svolgimento della propria attività lavorativa; - 24 soggetti (5 maschi e 19 femmine) che lamentavano di aver contratto l’infezione dal proprio coniuge o durante la gestazione dalla madre, a cui erano stati già riconosciuti i benefici della legge n. 210/92. Risulta evidente la netta predominanza del gruppo con infezioni post-trasfusionali (86%) rispetto gli altri istanti, complessivamente rappresentati dagli operatori sanitari e dai “parenti” dei soggetti già indennizzati (figura 1). In figura 2, il campione è rappresentato in base alle frequenze degli agenti infettivi identificati. A prescindere dalla modalità di trasmissione dell’infezione e dell’esito valutativo della CMO, risulta predominante l’incidenza del virus HCV, riscontrato nell’88% (N= 741) del totale degli esaminati. Le infezioni da HBV, come unico agente etiologico, sono state osservate nel 10% dei casi, mentre l’associazione dei due virus epatici (HBV + HCV) è stata rilevata nel 2%.

Figura 1

Figura 2

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Particolarmente bassa è risultata l’incidenza delle infezioni da HIV riscontrata solamente in 5 casi, di cui in uno come agente isolato, negli altri 4 in associazione all’HCV. Tale dato risulta giustificato dai progressi tecnico-scientifici delle procedure di trattamento degli emoderivati, comprendenti a partire dal 1984 l’inattivazione termica del virus HIV, l’introduzione nel 1985 del test per la ricerca degli anticorpi anti-HIV e nel 1989 dei primi test di sierodiagnosi. Analoghe considerazioni valgono per i casi di infezione HBV considerando l’obbligo vaccinale nel primo anno di vita introdotto dalla legge 165/91. La previsione dell’obbligo di screening per virus HCV nei donatori di sangue introdotta dal 1990 e gli emergenti sviluppi terapeutici dell’epatite C (Moore 2014, Pawlotsky 2014, Rose 2014) consentono di ipotizzare nel futuro una riduzione anche delle epatiti di tipo C. Considerando le 844 istanze valutate nel periodo 2007-2013 dalla CMO di Padova emergono i criteri valutativi che hanno permesso alla CMO di riconoscere nell’80% (N= 678) la valenza causale tra evento ed infezione: 573 riguardano le emotrasfusioni e la somministrazione di emoderivati, 88 corrispondono ai professionisti con rischio biologico e solo 17 sono i casi di contagio da parte del coniuge infetto o per gestazione da madre infetta (figura 3). Nell’ambito del primo gruppo (emotrasfusi ed emoderivati) nella maggioranza dei casi (328), la valenza causale è stata ammessa nonostante il mancato tracciamento dei donatori coinvolti; solo in 84 casi il nesso causale è stato riconosciuto a seguito di identificazione di almeno un donatore positivo ai test sierologici per la ricerca dell’agente etiologico coinvolto; nei restanti 158 casi, invece, almeno uno dei donatori ricercati è risultato non reperibile o ha rifiutato di sottoporsi ai suddetti tests. Negli 88 casi di operatori sanitari a rischio biologico osservati, il nesso causale è stato riconosciuto dalla CMO in via presuntiva tenuto conto del livello di rischio che emergeva dall’anamnesi lavorativa e dalla documentazione allegata all’istanza e contenuta nel fascicolo istruttorio. Nei pochi casi di soggetti infettati dal coniuge o dalla madre durante la gestazione, la valenza causale è stata riconosciuta nel caso dei coniugi qualora fosse stato identificato il medesimo genotipo virale tra i due, nel caso delle gestazioni mediante Responsabilità Medica 2017, n. 4

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applicazione del criterio cronologico, ovvero solo nell’evenienza di parto successivo all’evento trasfusionale denunciato dalla madre. Nel 20% dei casi totali esaminati, ammontanti numericamente a 166 casi, la CMO non ha invece riconosciuto il rapporto causale tra l’evento e l’infezione. In figura 4, le istanze “rigettate”, sono state suddivise in base ai criteri di esclusione della valenza causale accertati dalla CMO. Nella maggior parte dei casi (114), tutti concernenti infezioni post-trasfusionali, il nesso causale è stato escluso sulla base della documentata negatività dei donatori coinvolti. In 3 istanze, apparentemente concernenti le professioni a rischio biologico, è stato emesso giudizio negativo per la mancanza di rischio biologico (lavoratori espletanti esclusivamente mansioni amministrative). Nei restanti 49 casi terminati con giudizio sfavorevole, il nesso causale è stato escluso per altri motivi, in primis per infondatezza dell’evento trasfusivo e ancora per irreperibilità della cartella clinica con impossibilità quindi di documentare l’evento giuridicamente rilevante e/o per esistenza di altri fattori causali rilevanti quali comprovati stati di tossicodipendenza. In questi 49 casi rientrano anche i coniugi ed i figli a cui non è stata riconosciuta la valenza causale tra l’infezione e la fonte parentale (n° 7) ed i criteri esclusivi sono risultati essere: genotipo virale diverso tra i due coniugi, gestazione precedente alla trasfusione denunciata dalla madre e fratelli appartenenti al nucleo familiare di una donna e di un figlio a cui sono stati riconosciuti i benefici previsti dalla legge 210/92 per la gestazione, ma nati da gravidanza diversa.

Figura 3


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sioni ed emoderivati, distribuite tra i due generi, è rappresentata dalla figura 7.

Figura 4 Nella presente casistica, gli istanti sono inoltre stati suddivisi in base al riconoscimento del rapporto causale, al genere dell’istante ed all’evento denunciato (figure 5 e 6).

Figura 5

Figura 6 Rispetto agli eventi trasfusivi risulta evidente la significativa prevalenza del genere femminile. Le condizioni clinico-patologiche che avevano reso necessaria l’ospedalizzazione ed i conseguenti trattamenti terapeutici infusivi con trasfu-

Figura 7 La condizione clinica più frequente nel genere femminile è rappresentata dai ricoveri connessi alla gravidanza e al parto, osservata in 185 casi su 459 totali (40%); seguono i trattamenti chirurgici in generale (57 casi) e le patologie ginecologiche non connesse alla gestazione (35 casi). Negli uomini, invece, il primo posto per frequenza è rappresentato dagli eventi traumatici (69 casi, 26%), seguiti dagli eventi chirurgici in generale (48) e dalle patologie gastro-enterologiche (48). Ben rappresentate, risultano in entrambi i sessi, le coaugulopatie (32 casi tra 459 donne e 31 tra 270 uomini). Tali risultanze dimostrano che, nel passato, il genere femminile risultava più colpito a causa della peculiarità della gravidanza, condizione questa, tra l’altro, non implicitamente “patologica”. Con elevata probabilità, risultati analoghi si otterrebbero anche dall’osservazione della casistica relativa ad altre CMO operanti nel territorio italiano, in quanto la popolazione femminile presenta, più probabilità di accedere a ricoveri ospedalieri, anche ripetuti nel tempo, proprio in relazione agli stati gravidici e gestazionali. Tra gli uomini spiccano i traumi, ma ben rappresentate sono anche le patologie gastro-enterologiche (in primis le ulcere del primo tratto gastro-enterico il cui trattamento terapeutico principale in passato era l’intervento chirurgico, oggi sostituito dalla terapia medica). Tali risultati dimostrano anche che, in entrambi i generi, tra le cause patologiche più frequenti che hanno determinato il trattamento trasfusivo, si collocano le discoaugulopatie. Responsabilità Medica 2017, n. 4


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La figura 8 illustra invece la stima del danno in base alla categoria assegnata.

L’inizio di un nuovo picco, riferibile a recenti nuove chiusure di altri Dipartimenti di Medicina Legale Militare, con confluenza, verso l’Ospedale Militare di Padova, di altre aree geografiche. Elementi più interessanti, dal punto di vista temporale, emergono dall’analisi degli eventi trasfusivi registrati nel corso degli anni 1948-2007 (figura 10).

Figura 9 Figura 8 La casistica più consistente è rappresentata dall’8^ categoria (60% dei casi), corrispondente alla percentuale di invalidità più bassa della tabella di riferimento già annessa al d.P.R. n. 834/81. Seguono, per frequenza, i casi non ascrivibili (20% dei casi), rappresentati da soggetti che non presentavano, al momento della valutazione eseguita dalla CMO, menomazioni permanenti dell’integrità psico-fisica. Ciò è in parte giustificato dalla natura fisiopatologica di tali quadri clinici, caratterizzati per lunghi periodi da esclusive alterazioni biochimiche (es. ipertransaminasemia) non associate a rilievi sintomatologici. La lunga fase di latenza clinica conferma l’inadeguatezza delle categorie valutative previste dalla tabella A, creata con riferimento alle lesioni ed infermità in ambito “pensionistico di guerra”, che non solo tende ad appiattire tutti i casi osservati verso il basso, ma che porta ad escludere dai benefici economici una percentuale importante di istanti (20%), quando invece la principale finalità prevista dal legislatore stesso è di “solidarietà sociale”. La figura 9 analizza il trend delle richieste nel periodo temporale di osservazione (2007-2013). Si rileva un picco di richieste nel 2010. Tale dato è giustificato da un passato ingrandimento della competenza territoriale del DMML di Padova e non da un reale aumento di casi. Infatti, ancora prima del 2007, anno di inizio di osservazione della nostra casistica, la competenza territoriale dell’Ospedale Militare di Padova interessava non tutte le province del Veneto e del Friuli Venezia Giulia, essendo esistenti in queste regioni altri DMML, poi soppressi (come l’Ospedale Militare di Verona e di Udine). Responsabilità Medica 2017, n. 4

Figura 10 L’incidenza temporale maggiore è compresa tra gli anni 1970-1982. Dal 1985 si è registrato un significativo calo della predetta incidenza. Ciò è ovviamente spiegato, dalla riorganizzazione funzionale, oggi più efficiente ed efficace, dei Centri Trasfusionali che si è andata a concretizzare in questi ultimi anni. Aggiuntivamente, negli ultimi anni, si sono succeduti anche una serie di provvedimenti legislativi e ministeriali che hanno alzato il livello di controllo sulle unità di sangue, introducendo la tracciabilità e lo screening obbligatorio dei donatori, i trattamenti preventivi con il calore degli emoderivati, la vaccinazione obbligatoria per l’HBV, etc. Infine, la figura 11, analizza i giudizi emessi dalla CMO sulla tempestività delle domande presentate secondo i termini di legge.


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- indagini di emovigilanza effettuate su riceventi e donatori; - incident reporting infettivologici occupazionali coinvolgenti gli operatori sanitari. 2) Contatto. Per esplorare tale momento, occorrono: - esame circostanziale; - esame documentale; - esame anamnestico. Figura 11 Di 844 casi analizzati, 290 (35%) hanno presentato l’istanza per il riconoscimento dei benefici previsti dalla legge 210/92, oltre i termini perentori previsti dalla legge stessa. La figura 11 evidenzia come su 678 casi in cui sussisteva la valenza causale tra evento di rilevo giuridico e danno, 223 (33%) non hanno ottenuto i benefici previsti per intempestività della presentazione della domanda. Probabilmente, parte di loro avrà fatto ricorso per via giudiziaria. Come già detto e come da più parti osservato, il termine triennale previsto nei casi di epatiti post-trasfusionali, patologie solitamente “lungo latenti”, appare inadeguato rispetto alla copertura assistenziale introdotta dalla legge.

3) Contagio. L’esame della fase di contagio implica l’analisi di: - esame documentale; - esame anamnestico. 4) Lesioni o infermità conseguenti all’infezione da HCV e/o HIV, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ovvero verifica della patologia contratta. Per indagare tale momento, ci si avvale di: - esame obiettivo; - esame anamnestico; - esami di laboratorio; - esami strumentali.

4. Metodologia accertativa L’applicazione di una rigorosa metodologia accertativa è il presupposto fondamentale per la verifica del nesso causale tra l’evento infettivo (pratica emotrasfusiva, ovvero contagio professionale, ovvero trasmissione parentale) e l’infezione virale. La metodologia accertativa esposta in Tabella 1, è volta ad acquisire elementi conoscitivi inerenti i quattro fondamentali momenti fisiopatologici caratterizzanti imprescindibilmente l’evento infettivo. 1) Rischio infettivologico. L’analisi del rischio deve implicare lo studio delle seguenti fonti:

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Tabella 1. Metodologia di accertamento Fase 1

Esame circostanziale - condizioni nelle quali si suppone sia avvenuta la somministrazione di sangue e suoi derivati, alla quale è seguita la trasmissione di HCV e/o HIV; - occasione di servizio durante la quale sia avvenuto il contatto con sangue e suoi derivati provenienti da soggetti affetti da infezione da HCV e/o HIV, con conseguente infezione.

Fase 2

Verifica del rischio - report di emovigilanza effettuate su riceventi e donatori; - incident reporting infettivologici trasfusionali; - incident reporting infettivologici occupazionali coinvolgenti gli operatori sanitari.

Fase 3

Esame clinico-documentale - acquisizione di referti, certificazioni, cartelle cliniche e documentazione trasfusionale relativi al ricovero presso Strutture sanitarie durante il quale è avvenuta la trasfusione di sangue e suoi derivati, oppure l’infezione da HCV e/o HIV in occasione di servizio; - esclusione di preesistenti infezioni ascrivibili a contesti non iatrogeni; - dimostrazione che il sangue o gli emoderivati provengano da un donatore infetto o portatore, mediante l’effettuazione di indagini e valutazioni retrospettive relative al rischio di malattie trasmissibili con la trasfusione (c.d. “Look Back”); - acquisizione di referti, certificazioni, cartelle cliniche e documentazione trasfusionale attestanti lesioni o infermità conseguenti all’infezione da HCV e/o HIV, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica.

Fase 4

Esame clinico-anamnestico - malattie eredo-familiari; - eventuale positività per HCV e HIV in altri membri della famiglia; - altre possibili fonti di contagio (es. tatuaggi, assunzione di droghe per via ev, rapporti sessuali a rischio); - altre cause diverse da quella virale (es. patologie dentarie con cure odontoiatriche, epatopatia alcol-correlata, sostanze epatotossiche di origine lavorativa ed extra-lavorativa, immunodepressione farmaco-indotta); - eventuali terapie antivirali pregresse o in atto.

Fase 5

Esame clinico-obiettivo - esiti di procedure odontoiatriche; - segni di epatopatia (es. epatomegalia, splenomegalia, ittero); - presenza di tatuaggi; - segni di assunzione di droghe per via ev; - segni di abuso di alcol.

Fase 6

Analisi di laboratorio - funzionalità d’organo (es. funzione epatica: transaminasi, gamma-GT, fosfatasi alcalina, bilirubina, elettroforesi proteica, colinesterasi, attività protrombinica e fibrinogeno; funzionalità renale; ammoniemia); - carica virale; - stato sierologico; - marcatori di abuso alcolico cronico; - screening tossicologico nei casi sospetti; - altre cause di epatopatia (test sierologici per autoanticorpi, ecc).

Fase 7

Esami strumentali - ecografia epatico-splenica ed esame doppler dei vasi portali; - fibroelastometria epatica; - biopsia epatica; - EGDS; - TAC.

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4.1. Esame dei dati circostanziali L’obiettivo primario dell’accertamento medico-legale è volto ad identificare le condizioni di rischio infettivo alle quali il soggetto esaminato può essere stato esposto. La valutazione e l’esame dei dati circostanziali ha pertanto lo scopo di rilevare le condizioni nelle quali si suppone sia avvenuta la somministrazione di sangue e suoi derivati, ovvero il contatto con materiale biologico durante lo svolgimento di una professione sanitaria a rischio. In particolare devesi procedere alla ricostruzione, quanto più dettagliata, dell’evento ritenuto possibile causa del contagio e della trasmissione di HCV e/o HIV, attraverso il colloquio diretto. 4.2. Verifica del rischio Focalizzato il contesto circostanziale, si dovrà procedere all’acquisizione, dalla/e struttura/e sanitaria/e ipoteticamente coinvolta/e, di report di emovigilanza effettuate su riceventi e donatori, incident reporting infettivologici trasfusionali ed occupazionali coinvolgenti gli operatori sanitari, protocolli post-esposizione con materiale potenzialmente infetto o documentazione comprovante l’avvenuto infortunio. 4.3. Esame clinico-documentale L’esame clinico-documentale ha obiettivo di confermare l’avvenuta esposizione al rischio oggetto di indagine (trasfusione di sangue o emoderivati ed altre fonti di contatto con materiale biologico a rischio), collocandola cronologicamente nel lamentato contesto circostanziale. Tale scopo si persegue mediante la ricerca e l’acquisizione di referti, certificazioni, cartelle cliniche e documentazione trasfusionale (es. scheda informativa compilata dal medico che effettua la trasfusione e comprovante la data di effettuazione della trasfusione o della somministrazione di emoderivati con l’indicazione dei dati relativi all’evento trasfusionale o all’emoderivato), relativi al ricovero presso Strutture sanitarie durante il quale è avvenuta la somministrazione di sangue e suoi derivati o relativi al contatto con materiale biologico durante lo svolgimento di una professione sanitaria a rischio.

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L’esame della documentazione consente altresì di estrapolare indirettamente informazioni clinico-anamnestiche inerenti allo stato di salute del soggetto all’epoca in cui si svolsero i fatti oggetto di indagine, volte ad escludere la preesistenza della condizione morbosa di natura infettiva o da differenti cause. Si dovrà pertanto fare particolare attenzione ai rilievi anamnestici, obiettivi, laboratoristici ed eventualmente strumentali suggestivi di un processo patologico preesistente agli eventi in causa. Un ulteriore aspetto conoscitivo attiene alla dimostrazione che il sangue o gli emoderivati provengano da un donatore infetto o portatore, mediante l’effettuazione di indagini e valutazioni retrospettive relative al rischio di malattie trasmissibili con la trasfusione (c.d. “Look Back”). Tale dimostrazione può risultare difficile per tutte quelle patologie conseguenti ad episodi trasfusionali che si sono verificati in epoca antecedente alla messa a punto dei marker sierologici specifici. In tali casi risulta pertanto necessario procedere alla richiesta al Centro Trasfusionale di competenza di notizie inerenti l’effettuazione di controlli a distanza di tempo eseguiti sui donatori, ovvero sugli accertamenti virologici e di laboratorio espletati dagli stessi, anche se “occasionali”. I Centri Trasfusionali interpellati dovranno fornire informazioni in forma anonima sui donatori delle sacche indicate nelle cartelle cliniche, specificando se si tratti di donatori abituali o occasionali ed il risultato dei controlli dei markers per epatite B e/o C e/o HIV, eseguiti preliminarmente alla donazione. Nel caso, poi, di donatori abituali, dovranno fornirsi ulteriori informazioni sulla loro storia successiva, se cioè hanno continuato a donare, se hanno cessato, con i relativi motivi (raggiungimento dell’età, problemi di salute, ecc) e se nei controlli successivi siano risultati egualmente negativi o se vi sia stata, invece, una siero-conversione. Per quanto riguarda i donatori occasionali, il Centro Trasfusionale dovrebbe procedere a rintracciarli nonché a testarli per i virus coinvolti nel contagio di specie, ovviamente laddove questi soggetti forniscano il loro consenso all’indagine. La fase accertativa implica infine l’acquisizione di tutte le informazioni clinico-documentali attestanti le lesioni o le infermità conseguenti all’infezione Responsabilità Medica 2017, n. 4


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da HCV e/o HIV, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica. 4.4. Esame clinico-anamnestico L’esame clinico-anamnestico è rivolto ad accertare l’avvenuta infezione, acquisendo informazioni relative a fattori di rischio alternativi. Si procede pertanto alla raccolta di un’anamnesi familiare, con l’obiettivo di ricercare eventuali malattie eredofamiliari o l’eventuale positività per HCV e HIV in altri membri della famiglia. L’anamnesi fisiologica deve essere volta ad indagare il consumo alcolico, l’eventuale assunzione di droghe per via endovenosa, pratiche (tatuaggi) e/o abitudini sessuali a rischio. L’anamnesi patologica è volta a identificare altre possibili cause di condizioni morbose diverse da quella virale, come nel caso di esiti di procedure odontoiatriche, esposizione a sostanze epatotossiche di origine lavorativa ed extra-lavorativa, di epatopatia alcol-correlata ovvero di immunodepressione farmaco-indotta. Va infine indagata l’effettuazione di un’eventuale terapia, pregressa o attuale, con farmaci antivirali. 4.5. Esame clinico-obiettivo L’esame clinico obiettivo generale deve essere finalizzato al rilievo di patologie a carico del fegato o di altri organi in relazione all’infezione da HCV e/o HIV. In particolar modo, l’esame obiettivo deve comprendere la tradizionale valutazione epatologica (es. epatomegalia, ittero, ascite, splenomegalia, flapping tremor, spider naevi, eritema palmare, lesioni cutanee purpuriche dolenti) e neurologica. Vanno indagati inoltre gli esiti di procedure odontoiatriche. Vanno infine ricercati tatuaggi e segni di agopuntura (alle pieghe dei gomiti ed al dorso delle mani, ma anche in tutte le parti del corpo) nonché i segni riferibili a tromboflebite ed a processi infiammatori locali (ascessi cutanei e relative cicatrici), per ricercare l’abuso di droghe per via endovenosa.

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4.6. Analisi di laboratorio Le analisi ematochimiche sono mirate ad accertare la positività dell’infezione e lo stato dell’epatopatia o della patologia d’organo conseguenti all’infezione da HCV e/o HIV e sono altresì volte al rilievo di abuso alcolico o di altre cause di epatopatia. La positività dell’infezione va indagata mediante dosaggio della viremia e mediante determinazione sierologica di anticorpi specifici. L’esame della funzionalità epatica ricomprende markers quali transaminasi, gammaGT, fosfatasi alcalina, bilirubina, elettroforesi proteica corredata da albuminemia, colinesterasi, attività protrombinica e fibrinogeno. Alcuni dei suddetti esami (transaminasi e gammaGT), insieme ad altri (addotti dell’acetaldeide, acido sialico, beta-esosaminidasi, CDT e MCV) sono indicatori di un’abituale e protratta assunzione di bevande alcoliche ad alte dosi (cd marcatori di consumo cronico di alcol). Si procederà all’esame della funzionalità renale e dell’ammoniemia in caso di epatopatia avanzata. Nei soggetti reticenti e sospettati di abuso di sostanze stupefacenti per via endovenosa, si renderà necessario procedere ad analisi tossicologica su matrice cheratinica, previo consenso informato dei medesimi. Vanno infine eseguiti test sierologici per autoanticorpi, al fine di escludere altre cause di epatopatia. 4.7. Esami strumentali A completamento dell’accertamento delle lesioni o infermità conseguenti all’infezione da HCV e/o HIV, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, vanno eseguiti esami strumentali che esplorano lo stato morfologico e la funzionalità d’organo. In particolare, l’ecografia epaticosplenica corredata di esame doppler dei vasi portali, la fibroelastometria epatica, la biopsia epatica e l’eventuale esofagogastroduodenoscopia, sono volti ad indagare lo stato dell’epatopatia, con eventuale TAC a completamento del quadro strumentale.


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5. Criteriologia di valutazione 5.1. Epicrisi La criteriologia di valutazione si fonda sull’Epicrisi integrata e comparata dei dati circostanziali, di valutazione del rischio, clinici, anamnestici, obiettivi, laboratoristici, strumentali secondo modelli decisionali, volti alla formulazione di una diagnosi medico-legale di probabilità, circa la sussistenza di lesioni o infermità conseguenti all’infezione da HCV e/o HIV, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica. Una volta posta la diagnosi nosografica si procederà a sostanziare ed a tradurre la suddetta diagnosi di probabilità in diagnosi medico-legale di certezza o elevata probabilità “quasi certezza”. 5.2. Analisi del nesso di causa La conoscenza del rapporto causale tra l’esposizione a rischio infettivo e processo morboso diagnosticato è presupposto indispensabile al riconoscimento dell’indennizzo da parte dello Stato, tutelato dalla legge n. 210 del 25 febbraio 1992, anche se non dovuto a responsabilità di terzi. Nello specifico, la normativa richiede la causalità unica, diretta e immediata tra l’evento protetto (menomazione permanente della integrità psico-fisica) e le procedure sanitarie espletate. In altri termini, l’indennizzo implica ordinariamente un rapporto causale ben preciso da indagarsi attraverso l’applicazione della consolidata criteriologia medico-legale, alla luce peraltro di una medicina sempre più basata sulle evidenze scientifiche. Diversamente, nei casi di richiesta di risarcimento per danno da trasfusione ex art 2043 CC, l’accertamento del nesso di causa dovrà essere articolato secondo il principio del più probabile che non. Gli elementi sui quali si formula il giudizio tecnico sono rappresentati dal criterio dell’idoneità, dal criterio cronologico, dal criterio clinico, dal criterio laboratoristico, dal criterio di continuità fenomenica e dal criterio di esclusione di altre cause. Il criterio dell’idoneità si basa sull’attitudine della procedura sanitaria divenuta oggetto di indagine

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tecnica (trasfusione di sangue o di emoderivati, contatto occupazionale con materiale biologico a rischio) a cagionare l’evento dannoso infettivo. Nell’ambito di questo criterio, diviene necessario soddisfare il principio dell’efficienza (cioè la capacità di effettiva produzione dell’evento) ed il principio della compatibilità (cioè la conciliabilità sotto il profilo clinico ed anatomo-patologico tra la causa e il danno prodotto). Ne deriva quindi che la sola presenza della richiesta di sangue o emoderivati senza oggettiva evidenza dell’avvenuta somministrazione non può essere considerata prova valida e certa, così come le dichiarazioni postume del Centro Trasfusionale; in entrambi i casi si rende quindi necessaria la dimostrazione dell’avvenuta trasfusione mediante un’analisi dettagliata dei dati documentali in possesso. Il secondo criterio che occorre soddisfare è quello cronologico, inteso non solo come insorgenza successiva all’evento lesivo della patologia ma come compatibilità tra l’intervallo trascorso fra la trasfusione e la diagnosi del quadro morboso. Si esclude quindi il nesso di causa qualora l’intervallo temporale tra il rischio infettivo e la positivizzazione infettivologica e/o la diagnosi clinico-istopatologica del danno d’organo sia incompatibile con le consolidate evidenze scientifiche in termini di periodo di latenza. Il criterio clinico si applica sui rilievi derivanti dalla disamina delle manifestazioni patologiche dirette e correlate attraverso le quali può palesarsi l’infezione. A titolo esemplificativo, l’infezione da HCV non solo si rende foriera di un quadro di epatopatia, ma può tradursi anche in vasculopatia, danno renale e neuropatia periferica. Per quanto attiene al criterio laboratoristico, si precisa che il progresso scientifico ha visto il susseguirsi di diverse “generazioni” di test per lo screening infettivo. A titolo esemplificativo, il test sierologico per la ricerca degli anticorpi antiHCV è stato reso obbligatorio nel 1990 con il D.M. 21/7/90. Da allora in Italia, con l’introduzione dei test immunoenzimatici di II e III generazione, il tasso di incidenza in Italia dell’epatite C post-trasfusionale è progressivamente diminuito. I test di I generazione invece presentavano un limite di sensibilità nettamente Responsabilità Medica 2017, n. 4


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inferiore, tanto da non riuscire a svelare soggetti infetti, soprattutto durante il periodo finestra. Il criterio di continuità fenomenica è rappresentato dalla successione ininterrotta del quadro fisiopatologico proprio del processo morboso, fermo restando quanto già affermato in termini di periodo di latenza e considerando anche un’eventuale fase di infezione asintomatica documentata solo dai dati di laboratorio. Occorre infatti precisare che alcuni momenti del processo fisiopatologico possono passare del tutto “silenti” dal punto di vista sia clinico che laboratoristico, oppure dare evidenza attraverso lievi manifestazioni (es. subittero) sottovalutate dal paziente. Non sono quindi rare le situazioni nelle quali si giunge alla scoperta clinica e/o istologica di cirrosi senza possibilità di riuscire ad identifi-

care, neppure a mezzo di esame documentale, un evento acuto pregresso. Il criterio di esclusione di altre cause rappresenta in assoluto il momento di maggior complessità valutativa per l’impossibilità di addivenire con certezza alla ricostruzione di tutte le possibili condizioni a rischio cui è stato esposto il soggetto. Si ribadisce pertanto l’importanza dell’attenta valutazione analitica controfattuale di tutti gli elementi conoscitivi derivanti dalla metodologia accertativa al fine di giungere ad una rigorosa diagnosi differenziale. Nella ponderazione degli elementi conoscitivi emersi nella fase accertativa è necessario applicare i singoli criteri osservando i seguenti parametri (Tabella 2).

Tabella 2. Esempi per i diversi criteri e rilevanza causale CRITERIO

PARAMETRI

Idoneità lesiva

Presenza di una richiesta di sangue o emoderi- vati senza prova dell’avvenuta somministrazione

Clinico

Quadri da infezione da HCV diversi dall’epato- + patia (es. vasculopatia, danno renale, neuropatia periferica)

Cronologico

Evidenza di malattia dopo cut-off temporale in- compatibile (es. cirrosi dopo <2 anni, portatore cronico dopo <3 mesi)

Laboratoristico

Test di screening delle sacche di I generazione vs generazioni successive

Continuità fenomenica

Assenza di quadri clinici evidenti prima della dia- + gnosi di cirrosi

Esclusione di altre cause

Preesistenza di infezione virale prima della tra- sfusione sospetta

Alla luce della discussione dei suddetti criteri, si possono palesare differenti situazioni, riassunte nelle tabelle sinottiche di seguito allegate (Tabella 3). Considerando la duplice prospettiva di indennizzo e di danno RC potrebbe porsi in determinati

Responsabilità Medica 2017, n. 4

R I L E VA N Z A CAUSALE

casi la problematica dell’esclusione del nesso di causa ex lege n. 210/92 e, viceversa, l’ammissibilità risarcitoria in ambito civilistico secondo la regola del più probabile che non.


561

Danni da contagio

Tabella 3. Epicrisi dei dati desunti dalla metodologia accertativa e nesso di causa EPICRISI

NESSO

Cir costan- Valutazio- Documen- Anamne- Obiettiva ziale ne del ri- tale stica schio trasfusionale/ occupazionale

Laboratori- S t r u m e n - Ex lege RC stica tale 210/92 virologica e infettiva

negativa

negativa

negativa

+/-

+/-

+/-

+/-

no

no

positiva

positiva

positiva

positiva

+/-

+/-

+/-

si

si

positiva

positiva

positiva

positiva

negativa

negativa

negativa

no

no

positiva

positiva

Altro schio

ri- positiva

+/-

+

+/-

no

si?

positiva

positiva

Preesisten- positiva te contagio

+/-

+

+/-

no

no

5.3. Danno da indennizzo e danno biologico La legge n. 210 del 1992 nasce dall’esigenza dello Stato di garantire una misura di solidarietà sociale (artt. 2 e 32 Cost.), prevedendo la possibilità, per diverse categorie di soggetti “contagiati” in diverse situazioni circostanziali, di richiedere un indennizzo. L’indennizzo anzidetto è una provvidenza di natura assistenziale e non risarcitoria, in quanto non presuppone l’accertamento della sussistenza di profili di colpa. La legge n. 210 prevede pertanto un percorso facilitato rispetto all’iter che lo stesso danneggiato può contestualmente intraprendere per l’azione di responsabilità civile di chi ha causato il danno. A far tempo dal 1998, anno in cui la sentenza n. 21060 emanata dal Tribunale Civile di Roma, Sez. I ha riconosciuto, per la prima volta, la responsabilità del Ministero della Sanità per i danni fisici e morali riportati dalle persone contagiate a seguito della somministrazione di sangue e/o emoderivati, si è aperta la possibilità per i danneggiati di avanzare una richiesta di risarcimen-

to, condizione confermata di recente anche dalla Suprema Corte6. A tal riguardo, diversi sono i soggetti che possono essere chiamati a ristorare i pregiudizi verificatisi nelle persone contagiate da un virus per trasfusioni di sangue infetto: Ministero della Salute, Struttura Sanitaria pubblica/privata, Personale Sanitario. L’azione nei confronti del Ministero della Salute si fonda sulla responsabilità extracontrattuale per i danni causati dalla violazione dei doveri di sorveglianza e di controllo che gravano su di esso in quanto primo responsabile della raccolta e distribuzione del sangue, nonché della prevenzione dei rischi che sono da sempre connessi a questo

Cass., 29.9.2017, n. 22832: “il Ministero della Salute è tenuto a rispondere dei danni conseguenti all’omissione di attività di controllo e di vigilanza particolarmente in riguardo della pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso degli emoderivati e risponde ex art. 2043 c.c. per omessa vigilanza, dei danni derivanti ad epatite da infezione HIV contratte da soggetti emotrasfusi”.

6

Responsabilità Medica 2017, n. 4


562

Osservatorio normativo e internazionale

liquido biologico. In taluni casi, alla ipotizzata responsabilità extracontrattuale del Ministero si affianca quella del medico o dell’ospedale. Per quel che concerne le strutture sanitarie, la fattispecie va inquadrata nell’ambito della responsabilità contrattuale (Cass., 20 aprile 2010, n. 9315; Cass., 1° dicembre 2009, n. 25277). Dal tipo di responsabilità che viene a configurarsi, discendono le note differenze in relazione al termine di prescrizione dell’azione, di contenuto dell’onere probatorio in relazione al nesso causale e alla responsabilità colposa o dolosa del convenuto.

Le due realtà giuridiche (indennizzo e risarcimento) si traducono, sotto il profilo medico-legale, in differenti percorsi di criteriologia valutativa. Nello specifico, la legge n. 210/92 sancisce che il riferimento da seguire è contenuto nella Tabella A allegata al Testo Unico delle Norme in Materia di Pensioni di Guerra 915/78, modificato dal d.P.R. n. 834/81. Quest’ultima (tabella 4) elenca circa 200 menomazioni permanenti dell’integrità fisica, suddivise in otto categorie, in base alla decrescente riduzione della capacità lavorativa generica, parametro sul quale il medico legale deve esprimere il proprio giudizio non senza difficoltà.

Tabella 4. Categorie della Tabella A Categoria di pensione

N° voci

Riduzione capacità lavorativa generica

I categoria

35

81-100%

II categoria

23

76-80%

III categoria

11

71-75%

IV categoria

21

61-70%

V categoria

23

51-60%

VI categoria

21

41-50%

VII categoria

32

31-40%

VIII categoria

36

21-30%

La complessità valutativa nell’utilizzo della presente tabella nasce dal fatto che tra le voci tabellari spesso non vengono ricomprese situazioni clinico-patologiche che giungono all’osserva-

zione del medico legale, come ad esempio le epatiti. Le uniche voci tabellari che consentono di operare per analogia sono di seguito esposte.

Tabella 4.1 Infermità. Tabella A I categoria

Punto 22

Tumori maligni a rapida evoluzione

II categoria

Punto 15

Affezioni gastroenteriche e delle ghiandole annesse con grave e permanente deperimento organico

VII categoria

Punto 25

Colecistite cronica con disfunzione epatica permanente

VIII categoria

Punto 22

Colecistite cronica o esiti di colecistectomia con persistente disepatismo

Responsabilità Medica 2017, n. 4


563

Danni da contagio

Per le voci non espressamente previste nella Tabella A ci si può avvalere, secondo criterio analogico, prassi consolidata e confortata da numerose sentenze della Corte dei Conti, dei riferimenti va-

lutativi previsti nelle tabelle di invalidità civile ex decreto Ministero della Sanità del 5 febbraio 1992, che prevedono lo stesso riferimento alla capacità lavorativa generica (vedasi tabella 5).

Tabella 5. Voci di interesse tratte dalle tabelle di invalidità civile Cod.

Apparato digerente

Max.

Fisso

6411

Cirrosi epatica con disturbi della personalità (ence- 0 falopatia epatica intermittente)

0

95

6412

Cirrosi epatica con ipertensione portale

71

80

0

6424

Epatite cronica attiva

0

0

51

6425

Epatite cronica attiva autoimmune

0

0

70

6426

Epatite cronica attiva nell’infanzia

71

80

0

6452

Lobectomia epatica destra

0

0

35

Nelle stesse vengono infatti ad essere prese in esame le affezioni dell’apparato digerente (vedasi tabella 6) con chiare indicazioni metodologiche per la valutazione dei deficit funzionali in

Min.

base alla gravità del quadro clinico, giungendo ad identificare quattro classi di compromissione funzionale.

Tabella 6. Categorie di gravità clinica nelle affezioni dell’apparato digerente Classe I

La malattia determina alterazioni lievi della funzione tali da provocare disturbi dolorosi saltuari, trattamento medicamentoso non continuativo e stabilizzazione del peso corporeo convenzionale sui valori ottimali. In caso di trattamento chirurgico non debbano essere residuati disturbi funzionali o disordini del transito

Classe II

La malattia determina alterazioni funzionari causa di disturbi dolorosi non continui, trattamento medicamentoso non continuativo, perdita del peso sino al 10% dei valore convenzionale, saltuari disordini del transito intestinale

Classe III

Si ha alterazione grave della funzione digestiva, con disturbi dolorosi molto frequenti, trattamento medicamentoso continuato e dieta costante; perdita di peso tra il 10 ed il 20% del valore convenzionale, eventuale anemia e presenza di apprezzabili disordini del transito. Apprezzabili le ripercussioni socio-lavorative

Classe IV

Alterazioni gravissime della funzione digestiva, con disturbi dolorosi e trattamento medicamentoso continuativo ma non completamente efficace, perdita di peso superiore al 20% del convenzionale, anemia, gravi e costanti disordini del transito intestinale. Significative le limitazioni in ambito socio-lavorativo

Esaurita la dennitario, del danno nei casi di

trattazione dell’ambito valutativo insi pone la questione della valutazione biologico da trasfusioni ammissibile responsabilità di Strutture e/o Perso-

nale Sanitario, fermo restando la responsabilità dell’Organo di Vigilanza Centrale Ministeriale. L’iter procedurale valutativo implica l’assenza di un sistema tabellare ex lege specifico e si apre quindi il ventaglio dei diversificati sistemi valuta-

Responsabilità Medica 2017, n. 4


564

Osservatorio normativo e internazionale

tivi medico-legali basati sull’utilizzo di guide e/o barèmes proposte da differenti autori, susseguitesi nel corso degli anni. Nel passato le quantificazioni percentuali dell’invalidità esprimevano la diminuzione della capacità lavorativa generica (e, in casi assai più rari, in una più concreta capacità lavorativa specifica). In epoca successiva la dottrina medico-legale ha poi elaborato tabelle con indicazione di valori percentuali che si riferivano non più alla capacità lavorativa generica ma al danno biologico. Tali acquisizioni sono state parimenti recepite anche in ambito di infortunistica lavorativa con decreto n. 38/2000 che ha introdotto la diminuzione di integrità psico-fisica della persona come parametro valutativo in caso di infortunio. Nella tabella sinottica di seguito illustrata sono messe a confronto, considerando alcune catego-

rie elementari, le differenti proposte valutative, riconducibili a: - Tabelle per danno biologico tratte dal d. m. n. 38/2000; - “Guida orientativa per la valutazione del danno biologico” di Bargagna, Canale, Consigliere, Palmieri e Umani Ronchi (Giuffrè editore, ed. 2001); - “La valutazione medico-legale del danno biologico in responsabilità civile” di Palmieri, Umani Ronchi, Bolino e Fedeli (Giuffrè editore, ed. 2006); - “Guida alla valutazione medico-legale dell’invalidità permanente” di Ronchi, Mastroroberto e Genovese (Giuffrè editore, ed. 2015); - “Linee guida per la valutazione medico-legale del danno alla persona in ambito civilistico” della SIMLA (Giuffrè editore, ed. 2016).

Tabella 7. Indicazioni valutative medico-legali Categorie

B a r g a g n a INAIL (DM R o n c h i , Linee guiet al. (ed 12.7.00) M a s t r o r o - da SIMLA 2001) berto e Ge- (ed. 2016) novese (ed. 2015)

Epatite cronica con alterazioni cliniche, laboratoristi- <10 che e morfologiche assenti o di lieve entità

Fino a 8

10

-

Epatite cronica con alterazioni cliniche, laboratoristi- 11-40 che e morfologiche di moderata entità

Fino a 25

10-15

-

Epatite cronica con alterazioni costanti cliniche, labo- ratoristiche e morfologiche, in assenza di ascite, encefalopatia o varici esofagee

Fino a 45

16-35

-

Epatite cronica severa o cirrosi controllabile con trat- 40-60 tamento medico

Fino a 60

36-60

-

Cirrosi scompensata

>60

>60

-

Esiti di lobectomia epatica con funzionalità normale o lievi alterazioni laboratoristiche

-

-

Esiti di epatectomia fino a 1/3 dell’organo con altera- zioni laboratoristiche lievi

Fino a 16

>60

Esiti di epatectomia fino a 1/3 dell’organo con altera- zioni laboratoristiche moderate e comparsa di sintomatologia

Di recente la Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni, nel redigere le Linee Guida per la Valutazione del danno alla persona in ambito civilistico (2016), ha altresì illustrato cinque Responsabilità Medica 2017, n. 4

5 9-15

9-15

-

16-25

stadi di epatopatia con relativi valori percentuali di menomazione dell’integrità psico-fisica (vedasi tabella 8).


565

Danni da contagio

Tabella 8. Stadi di epatopatia ex Guida SIMLA 2016 Stadio di epatopatia Caratteristiche

Percentuale

Stadio I

Assenza o lievissimi segni clinici (es. moderata astenia, lievi disturbi 5-10% dispeptici), lievi o assenti alterazioni degli esami di laboratorio, indice di fibrosi* F0.

Stadio II

Presenza di segni clinici lievi, moderate alterazioni degli esami di 11-15% laboratorio, indice di fibrosi* F1, punteggio Child** <6.

Stadio III

Sintomatologia rilevante (dispepsia, astenia, subittero, eritema pal- 16-30% mare, spider naevi), moderate alterazioni degli esami di laboratorio e necessitĂ di attento follow-up, epato e splenomegalia, indice di fibrosi* F2, punteggio Child** 6-8.

Stadio IV

Presenza di segni clinici (ascite, emorragie digestive ed episodi di 31-50% encefalopatia) e alterazioni degli esami di laboratorio gravi, indice di fibrosi* F3, punteggio Child** 8-12.

Stadio V

Segni e sintomi gravi (ittero, ascite, emorragie digestive ed encefa- 51-75% lopatia persistente), esami di laboratorio indicativi di franca insufficienza epatica, cirrosi conclamata (indice di fibrosi* F4), punteggio Child** >12.

*per gli indici di fibrosi epatica (classificazione METAVIR), vedasi tabella 9. **per il punteggio Child, vedasi tabella 10. Tabella 9. Indici di fibrosi epatica (classificazione METAVIR) Indice di fibrosi

Caratteristiche istologiche

Stadio 0

Assenza di fibrosi

Stadio 1

Allargamento degli spazi portali per fibrosi

Stadio 2

Fibrosi estesa oltre gli spazi portali con rari ponti tra gli stessi

Stadio 3

Numerosi ponti fibrosi che collegano gli spazi portali e le aree centrolobulari

Stadio 4

Cirrosi

Tabella 10. Punteggio Child Parametro

1 punto

2 punti

3 punti

Bilirubina totale (mg/dl)

<2

2-3

>3

Albumina sierica (g/dl)

>3,5

2,8-3,5

<2,8

INR

<1.71

1.71-2.30

> 2.30

Ascite

Assente

Lieve

Da moderata a grave

Encefalopatia epatica

Assente

Gradi I-II (trattabile)

Gradi III-IV (refrattaria)

Punteggio

Classe

5-6

A

7-9

B

10-15

C

ResponsabilitĂ Medica 2017, n. 4


566

6. Considerazioni Dalla seconda metà del XX secolo le trasfusioni di sangue e la somministrazione di emoderivati rappresentano un’importante fonte di rischio per la trasmissione di malattie infettive virali e, per le complicanze che ne conseguono, di notevole rilievo epidemiologico ed economico-sociale. In parallelo le richieste di ristoro dei danni ingiustamente subiti dal contagio di sangue infetto sono cresciute esponenzialmente dando vita ad un contenzioso di dimensioni ragguardevoli per l’onere di spesa sostenuto dalla sanità pubblica. Con l’affinarsi della scienza medica e dei test virologici e bioumorali sulle donazioni di sangue, è andata progressivamente diminuendo la probabilità di contrarre l’epatite post-trasfusionale, con contagi che risultano oramai dovuti esclusivamente all’utilizzo di donazioni di sangue provenienti da soggetti con infezione in fase di incubazione (cosiddetto “periodo finestra”). Ciò nonostante, il problema del contagio HCV e HIV post-trasfusionale contratto prima dell’adozione delle misure di emovigilanza, rappresenta un argomento significativamente “attivo”, con dati di incidenza che trovano conferma nella casistica del presente studio. Dalla casistica esposta è emerso che il gruppo di popolazione più colpito da epatiti post-trasfusionali HCV è rappresentato da madri che, negli anni passati, erano state ospedalizzate ed emotrasfuse per complicanze correlate alla gravidanza. La proiezione temporale individua come anni di maggior contagio gli anni precedenti al 1980, in cui non erano presenti efficaci metodi di screening virologico sulle donazioni, spesso effettuate dai cosiddetti “mercenari del sangue”, soggetti a rischio ritenuti veicolo dell’infezione. L’applicazione delle norme disciplinari previste dalla legge per individuare i donatori pericolosi7, l’introduzione obbligatoria del vaccino per l’HBV, le nuove acquisizioni scientifiche e la maggior

Legge 4.5.1990, n. 107 (G.U. 11.5.1990, n. 106), Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano e ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati.

Osservatorio normativo e internazionale

efficienza organizzativa ed operativa a cui sono andati incontro i Centri Trasfusionali negli ultimi anni, hanno progressivamente diminuito il rischio di contagio. In particolare, i riflessi di tale trend positivo si traducono nella irrilevante incidenza di infezioni da HIV, emersa anche nella nostra casistica. La questione delle infezioni di malattie virali conseguenti ad emotrasfusioni, oltre a costituire una situazione gravosa per i pazienti (costretti a lunghi periodi di accertamenti e cure) e per il Servizio Sanitario Nazionale, che ne sostiene l’onere assistenziale, rappresenta un momento di elevata difficoltà tecnica per il Medico-Legale, chiamato in ambito indennitario e/o risarcitorio ad esprimere un giudizio sul nesso causale e sulla successiva espressione di danno nelle differenti controversie che caratterizzano il tema in questione, peraltro sottoposte all’attenzione della Corte Suprema di Cassazione8. Anche la complessità dell’accertamento medico-legale può influire sulla lungaggine procedurale del sistema amministrativo indennitario italiano, già oggetto, nel gennaio 2016, di condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) di Strasburgo. La principale criticità dell’indagine tecnica medico-legale è rappresentata dall’individuazione delle lesioni o infermità conseguenti all’infezione da HCV e/o HIV, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica ovvero dalla verifica della patologia contratta, che si traduce nella necessità di eseguire un vaglio dettagliato degli aspetti circostanziali, clinici, laboratoristici e strumentali, in applicazione di un modello metodologico accertativo analitico. Tale momento di indagine risulta spesso ostacolato dalla difficoltà di reperire materiale documentale comprovante l’effettiva sussistenza dell’evento antigiuridico, presupposto fondamentale per la determinazione del nesso di causa. Un ulteriore momento di difficoltà tecnica è costituito dalla necessità di quantificare i risvolti di

7

Responsabilità Medica 2017, n. 4

Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo. Re. n° 35. Roma, 21 marzo 2007. Il danno da Emotrasfusioni.

8


Danni da contagio

danno, sia esso di natura indennitaria che risarcitoria. Nel merito, per quanto attiene all’ambito indennitario, lo studio ha confermato l’“inadeguatezza” della tabella A annessa al d.P.R. n. 834/81 per la valutazione del danno sui soggetti richiedenti i benefici previsti dalla legge 210 del 1992, posto che la legge mira ad assicurare, ai soggetti danneggiati da vaccinazioni o da trasfusioni di sangue o somministrazione di emoderivati infetti, un intervento riparatore economico volto al pieno ripristino della situazione ante lesionem. Il 20% degli istanti esaminati hanno infatti ricevuto una “non ascrivibilità tabellare” come giudizio valutativo del danno, rimanendo pertanto esclusi dai benefici economici previsti, mentre ben il 60%, ha ricevuto una 8^ categoria, corrispondente alla percentuale più bassa di “invalidità”, (dal 20 al 30%). Tali rilievi dimostrano che lo spirito proprio della legge “di solidarietà sociale” non viene di fatto conseguito tramite il sistema valutativo imposto dalla legge ed utilizzata dalle Commissioni per la quantificazione del danno. Un aspetto penalizzante per i danneggiati da epatiti virali post-trasfusionali è costituito dall’inadeguatezza dei tempi previsti ex lege per la presentazione della domanda: tale termine, perentorio, rappresentato da tre anni a decorrere dalla data di conoscenza del danno, è in evidente contrasto con il decorso clinico spesso “lungo latente”, nonché con la frequente discrasia tra percezione soggettiva dell’infezione e manifestazione clinica conclamata del danno. Di assoluto rilievo tecnico medico-legale è l’impossibilità di poter procedere all’esatta descrizione della menomazione in relazione ai suoi riflessi sul modo di essere del danneggiato (c.d. aspetti dinamico-relazionali di personalizzazione del danno), tenuto peraltro conto che, dovendo fare riferimento alla capacità lavorativa generica come parametro valutativo di danno, vengono ad essere esclusi i casi di infezione subclinica con parametri laboratoristici nella norma. Maggiori possibilità emergono in ambito risarcitorio, nel quale i baréme valutativi proposti dai vari autori e dalla Società Italiana che li ha interpretati offrono un maggior ventaglio di parametri sui quali poter formulare il giudizio tecnico.

567

In conclusione, alla luce delle evidenze e delle criticità sin qui esposte, gli autori hanno voluto fornire i principi clinici e medico-legali di orientamento per addivenire ad un corretta valutazione del danno epatico e dei suoi riflessi sull’integrità psico-fisica del danneggiato, con particolare ma non esclusivo riferimento alla legge n. 210/92 ed alle sue modifiche. Sono state pertanto proposte una metodologia accertativa e una criteriologia valutativa da utilizzarsi come utile strumento di consultazione per gli operatori medico-legali del settore. La metodologia accertativa non può prescindere dall’acquisizione di tutti gli elementi conoscitivi circostanziali, documentali, clinici, laboratoristici e strumentali volti a documentare il contagio più o meno correlato allo sviluppo della malattia d’organo. Tale dimensione accertativa da effettuarsi sul danneggiato deve essere affiancata dalle indagini di verifica del rischio infettivologico comprovante l’avvenuto evento antigiuridico, attraverso report di vigilanza ed incident reporting infettivologici. Considerata la rilevanza della determinazione del nesso di causalità materiale nei vari ambiti di operatività del medico-legale (indennitario e risarcitorio), anche la valutazione delle conseguenze di danno non può prescindere da un approccio metodologico analitico. Trattasi di un compito di non agevole esecuzione tenuto conto dei limiti di obsoleti riferimenti tabellari, peraltro spesso non esaustivi la variabilità dei quadri epatopatici di riscontro clinico. La standardizzazione della metodologia accertativa e della criteriologia valutativa rappresenta l’imprescindibile garanzia di tutela degli interessi delle persone lese nel rischio infettivologico previsto dalla legge n. 210/92, non sottovalutando le implicanze economiche insite nei sistemi riparativi indennitario e risarcitorio. Nota bibliografica 1) Ambrosio e Trevisson, Indennizzo ex legge 210/92 – Risarcimento ordinario, in Cariti, Gramoni, Tinti, Bonziglia, Trevisson, Ambrosio, Aspetti giuridici e medico legale dell’epatite C, Torino, 2001, 85 ss. 2) Bolino, Urso, La legge 25 febbraio 1992 n. 210 e le sue modificazioni, in Urso, Visco, Bolino, Lamorgese, Le epatiti post-trasfusionali. Aspetti meResponsabilità Medica 2017, n. 4


568

dico-legali e principi di tutela giurisdizionale, Roma, 2006. 3) Castrica, Bolino, I trattamenti pensionistici privilegiati e l’equo dennizzo, Milano, 2005, 590 e ss. 4) Castrica, Bolino, La legge 25 febbraio 1992, n. 210: rilievi critici e suggerimenti operativi di interesse medico-legale, in Jura Medica, 12, 3, 1992. 5) Catalano, Danni da vaccinazione obbligatoria e responsabilità oggettiva dello Stato, nota a sent. Trib. Milano 20.12.1990, Oprandi c. Ministero Sanità, in Nuova giur. civ. commentata, I, 277, 1992. 6) Comandè, Diritto alla salute tra sicurezza e responsabilità civile, in Danno e resp., 1996, 573 e ss. 7) Comandè, Il commento a Corte cost. 18 aprile 1996, n. 118, in Danno e resp., 1996, 576 e ss. 8) Comando del Corpo di Sanità dell’Esercito, Manuale di medicina legale militare – Vol. IV: La causa di servizio. Il trattamento pensionistico privilegiato e indennizzi di altra natura, Roma, 1997, 192. 9) Dragone, Responsabilità medica, danni da trasfusione e da contagio, Milano, 2007, 309 e ss. 10) Izzo, La responsabilità dello Stato per il contagio di emofilici e politrasfusi; oltre i limiti della responsabilità civile, in Danno Resp., 6, 1072, 2001. 11) Lana, Stato di attuazione della l. 25.2.1992, n. 210 in materia di indennizzo di soggetti danneggiati da trasfusioni e somministrazione di emoderivati, in Dir. uomo., 1993, 3, 81. 12) Marinello, La Corte Costituzionale ha riconosciuto l’indennizzo previsto dalla legge 210/1992 anche per i contagiati da epatite a favore degli operatori sanitari, in Professione, 2003, 11 (6), 7. 13) Mattarelli e Mezzini, Indennizzo e risarcimento dei danni da prelievi e trasfusioni di sangue, Bologna, 2007. 14) Mazziotti, L’indennizzo delle vittime di trasfusioni o di vaccinazioni. Necessità di combinare equità e diritto positivo, in RGL, 2001, II, 240-246. 15) Perotti, Legge 25 febbraio 1992 n. 210: dal risarcimento all’indennizzo per danni da trasfusione e somministrazione da emoderivati, in Arch. Med. Leg. Ass., 14, 105-111, 1991. 16) Izzo, La responsabilità dello Stato per il contagio di emofilici e politrasfusi; oltre i limiti della responsabilità civile, in Danno Resp., 6, 1072, 2001.

Responsabilità Medica 2017, n. 4

Osservatorio normativo e internazionale

17) Lana, Stato di attuazione della l. 25.2.1992, n. 210 in materia di indennizzo di soggetti danneggiati da trasfusioni e somministrazione di emoderivati, in Dir. uomo., 1993, 3, 81. 18) Marinello, La Corte Costituzionale ha riconosciuto l’indennizzo previsto dalla legge 210/1992 anche per i contagiati da epatite a favore degli operatori sanitari, In Professione 2003, 11 (6),7. 19) Mattarelli e Mezzini, Indennizzo e risarcimento dei danni da prelievi e trasfusioni di sangue, Bologna, 2007. 20) Mazziotti, L’indennizzo delle vittime di trasfusioni o di vaccinazioni. Necessità di combinare equità e diritto positivo, in RGL, 2001, II, 240-246. 21) Perotti, Legge 25 febbraio 1992 n. 210: dal risarcimento all’indennizzo per danni da trasfusione e somministrazione da emoderivati, in Arch. Med. Leg. Ass., 14, 105-111, 1991. 22) Ponzanelli e Busato, Un nuovo intervento di sicurezza sociale: la legge n. 210 del 1992, in Corr. giur., 1992, 952 e ss. 23) Ponzanelli, “Pochi ma da sempre” la disciplina sull’indennizzo per il danno da vaccinazione, trasfusione o assunzione di emoderivati al primo vaglio di costituzionalità, in Foro.it, 1996, I, 2326. 24) Ponzanelli, Vaccinazioni obbligatorie: un primo commento alla legge n. 238/1997, in Danno e resp., 1997, 649 e ss. 25) Rigano, L’indennizzo per epatite post-trasfusionale contratta all’estero, in Riv. Giur. Lav., 2003, II, 204. 26) Rubino, Il danno da emotrasfusioni (e da somministrazione di emoderivati). La nuova giurisprudenza di legittimità e di merito, in IPSOA (Collana diretta da Giuseppe Monateri), 2008, 20 e ss. 27) Trevisson, Ambrosio, Indennizzo ex legge 210/92. Risarcimento ordinario, in Cariti, Gramoni, Tinti, Bonziglia, Trevisson, Ambrosio, Aspetti giuridici e medico-legali dell’epatite C, Torino 2001, 85-118. 28) Urso, Visco, Bolino, Lamorgese, Le epatiti post-trasfusionali. Aspetti medico-legali e principi di tutela giurisdizionale, CIC, Roma, 2006, 1 e ss.


t a v r Osservatorio normativo e internazionale Osservatorio normativo e internazionale sse ati o rm z o a n n Le scuse riparatorie nel r e t n i rapporto medico - paziente: spunti dal Common Law Nicola Brutti

Professore nell’Università di Padova

Abstract: La nota espone alcune considerazioni sul valore delle scuse riparatorie nel rapporto medico-paziente. Si tratteggiano studi ed esperienze giuridiche significative, con particolare attenzione alle apologies nei sistemi di Common Law. The note deals with the role of remedial apologies in the doctor/patient relationship. It points out relevant studies and legal policies with specific reference to Common Law systems.

Quanto è importante nel rapporto di cura, oltre alla diligenza professionale in senso stretto, il compito di prestare ascolto alle emozioni del paziente? Al centro è il concetto di persona. Secondo una certa interpretazione la radice sarebbe la stessa del latino ‘personare’, cioè “risuonare attraverso” (cfr. Burckhardt, Simboli, trad. it., Milano, 1979, 14). In questa nota si vuole concentrare l’attenzione su un aspetto scarsamente sondato: quello delle scuse riparatorie. Il rapporto del paziente con il proprio referente professionale è tradizionalmente caratterizzato da una situazione di vulnerabilità psicologica del primo che va gestita nel corso di tutto il rapporto, senza alcun atteggiamento di sufficienza o di sottovalutazione.

Come avviene a proposito della relazione fiduciaria, vi è il rischio che qualche episodio negativo possa, anche se del tutto fisiologico, compromettere una duratura cooperazione, innescando atteggiamenti sospettosi ed ostili. Si pensi al deterioramento dei rapporti contrattuali di durata basati sull’intuitus personae che porta a contestazioni o a risoluzione, ovvero ai danni non patrimoniali consistenti nelle sofferenze psicologiche della vittima che non riesca ad ottenere alcuna spiegazione o ravvedimento relativamente ad eventi dannosi o pericolosi. Di certo una presa di coscienza sul punto, che si traduca in iniziative ben calibrate, potrebbe recare beneficio anche alla prestazione medico-sanitaria in sé, integrandone la qualità e soprattutto migliorando la gestione di situazioni critiche. In parte vale il principio dell’importanza della cortesia come aspetto del comportamento secondo buona fede nei rapporti intuitu personae, entro cui la relazione di cura può inscriversi (cfr. Lipari, Rapporti di cortesia, rapporti di fatto, rapporti di fiducia (Spunti per una teoria del rapporto giuridico), in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1968, 415 ss.; Cass., 14.1.2016, n. 469; De Hippolitis, In tema di scelta del medico di base, nota a Cons. Stato, III sez., 10.2.2016, n. 565, in Foro it., 2016, 6, 336). La differenza potrebbe farla proprio una comunicazione attenta al lato emotivo, capace di esprimere un gesto simbolico di riconoscimento

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dell’altro, in grado di mantenere aperto un dialogo ed impedire chiusure reciproche. Nulla esclude che un atto o prestazione di cortesia possa, dunque, intervenire unilateralmente in un contesto prelitigioso o litigioso, come spontaneo gesto di riparazione e riconciliazione. Le politiche del diritto più recenti, soprattutto nei sistemi di Common Law, puntano proprio sul rafforzamento di una comunicazione empatica ed emotivamente sensibile, sottolineandone i vantaggi economici oltre che sociali, rispetto ad un esasperato ricorso alla litigation (litigation culture). Va da sé che nei procedimenti di mediation stragiudiziale si osservi quanto sia importante incentivare la trasparenza e la cooperazione tra le parti. Vale la pena, allora ricordare, seppur per brevi tratti, esperienze recenti e significative che valorizzano tale prospettiva in ambito medico-sanitario. Alcuni studi (vedi Ho-Liu, Does sorry works? The impact of apology laws on medical malpractice, in J. Risk Uncertain, 2011, 43, 141) esaminano i casi risolti in via transattiva e la diminuzione dei costi, collegandoli alla presenza di dichiarazioni di scuse. Queste ultime risultano, anche in base a studi statistici, un fattore rilevante (oltre all’offerta di un congruo risarcimento) nella decisione dei pazienti danneggiati di accettare una soluzione non contenziosa. Le ricerche dimostrano quanto sia auspicabile un approccio in cui si combinino disclosure e apology (per riferimenti puntuali: Charnow, Apology Laws Found to Speed Up Malpractice Litigation, in Renal & Urology News, 7 maggio 2016). Negli U.S.A. è stato incentivato un meccanismo di mediazione chiamato “apology based mediation”, ossia mediazione fondata sulle scuse. Grazie a questo sistema basato sul dialogo e sulla restaurazione dell’alleanza terapeutica, il 90% dei casi sottoposti a questo procedimento sono stati risolti amichevolmente [Occorsio, Responsabilità medica e mediazione, in Pilia (a cura di), Quaderni di conciliazione, Cagliari, 2011, n. 2, 155 ss.) Guadagnino, Malpractice Mediation Poised to expand, consultato in data 20 luglio 2016 al seguente indirizzo web: www.physiciansnews. com/2004/04/23/malpractice-mediation-poised-to-expand/.]. Responsabilità Medica 2017, n. 4

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Un recente studio riporta l’incidenza dell’ascolto e del dialogo sulla riconciliazione medici-pazienti a seguito di danni risentiti da questi ultimi (Moore, Mello, Improving reconciliation following medical injury: a qualitative study of responses to patient safety incidents in New Zealand, in B.M.J. Qual. Saf., 2017, 1-11). L’impronta è quella di una costante comunicazione con la vittima, finalizzata ad aggiornarla sulle azioni (internamente) intraprese per approfondire e ricercare le cause dell’evento. Dimostrare un comportamento diligente nella fase del post-damnum potrebbe ridurre in maniera significativa l’intensità del contenzioso e la dimensione dei risarcimenti, tanto da suscitare l’interesse delle compagnie assicurative che vi intravedono una delle nuove frontiere per il contenimento dei costi nella responsabilità civile del medico (v. Yee, Mandatory Mediation: the Extra Dose Needed to Cure the Medical Malpractice crisis, 7 Cardozo J. of Conflict Resolution, 2006, 397, 408). Tuttavia, questo approccio appare per molti versi inusuale ed in parte insidioso. Alcuni lamentano l’assenza di genuinità dell’atto, sotto cui potrebbe celarsi anche una mossa interessata ed anticompensativa. Altri – si pensi alla classe forense ed alle compagnie assicurative – preferiscono di solito ponderare attentamente le proprie mosse e non esporsi, seppur per fini nobili. Di solito, in vista di un potenziale contenzioso, ci si difende con circospezione, così consigliati anche dai propri legali (Robbennolt, Apology and Civil Justice, in Aa.Vv., Civil Juries and Civil Justice: Psychological and Legal Perspectives, New York, 2008, 217). Le resistenze ad adottare una simile prospettiva, in realtà, sono legate al timore più che fondato che ciò possa pregiudicare la propria posizione in un eventuale giudizio. Si sottolinea come le compagnie di assicurazione commisurino le ricadute finanziarie che un’apology può comportare (cfr. Cohen, Advising Clients to Apologize, 72 S. Cal. L. Rev., 1999, 1027). Ma non necessariamente queste ultime presenterebbero un saldo negativo: si pensi a riduzione del contenzioso, abbassamento delle spese legali, facilitazione di transazioni. Varrebbe la pena, anche per questo, indagare eventuali soluzioni atte


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a salvaguardare gli effetti benefici, limitando, ove possibile, quelli sfavorevoli. Una delle possibili iniziative è quella di intervenire con leggi che sottraggano le scuse riparatorie del medico o del suo staff al trattamento probatorio altamente sfavorevole (a chi si scusa) riservato alla confessione (id est admissions against interests). Sulla scorta di queste ricerche, si vanno diffondendo soprattutto in ambito di Common Law (Australia, Canada, Stati Uniti, Inghilterra, Nuova Zelanda, Hong Kong), apposite leggi (dette Apology Acts) che garantiscono, tra l’altro, un safe harbor per i medici che esprimano simpatia e dispiacere ai pazienti in seguito a lesioni conseguenti ad errore medico. Ciò significa che le apologies non possono in linea di massima essere utilizzate sic et simpliciter come prove in un eventuale giudizio, qualora non ammettano puntualmente fatti rilevanti ai fini dell’accertamento della responsabilità. Più raramente (es. Hong Kong) tali legislazioni proteggono la dichiarazione nella sua interezza, anche se contenga ammissioni di fatti (cfr. The Apology Ordinance has been gazetted today in Hong Kong, September 1 2017, www.lexology.com). Si pensi al medico che si dichiari profondamente dispiaciuto e si scusi con i familiari per non aver potuto salvare il ferito in conseguenza di complicazioni delle lesioni riportate in un incidente. Ciò non significa che l’evento sia accaduto a causa di errore o colpa del medico. Ragionare altrimenti equivarrebbe ad un post hoc propter hoc, cioè a scambiare un effetto del fatto (il rammarico e la prostrazione per non essere riusciti a salvare una vita) con la sua causa (l’antecedente causale dell’esito infausto). Un’altra possibilità – attualmente rinvenibile anche in Italia – consiste nell’interpretare le mere scuse come un atto non necessariamente confessorio, ma eventualmente diretto ad un componimento bonario della controversia. Il punto è, tuttavia, oggetto di discussione e meriterebbe maggior approfondimento (sia consentito rinviare al mio Law & Apologies. Profilo comparatistico delle scuse riparatorie, Torino, 2017). Un puntuale riscontro dei potenziali costi che le apologies potrebbero comportare è offerto dal contenzioso in materia di responsabilità profes-

sionale del medico o dell’avvocato, laddove la corrispondente polizza assicurativa consideri le confessioni, non previamente concordate con la compagnia, tra le cause di esclusione della copertura (cfr. Cohen, Advising Clients to Apologize, cit., 1026-1027). Qui il principio di prudenza difensiva opera quale più generale dovere di cooperazione alla risoluzione del contenzioso, la cui gestione è devoluta, anche stragiudizialmente, alla compagnia assicurativa. Spesso si prevedono nelle polizze specifiche clausole cautelative, consistenti nel divieto di ammettere responsabilità e soprattutto di proporre risarcimenti, senza aver preventivamente interpellato avvocati od assicurazioni. La cautela nel rivelare eventuali errori sembra avvertita anche nei codici deontologici (cui le polizze solitamente fanno rinvio). Ad esempio, si veda Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, Codice di deontologia medica, 18 maggio 2014 (consultato sul sito web: http://www.privacy.it/2014_Nuovo CodiceDeontologiaMedica.pdf) in particolare, l’art. 14 (Prevenzione e gestione di eventi avversi e sicurezza delle cure): “Il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e degli operatori coinvolti, promuovendo a tale scopo l’adeguamento dell’organizzazione delle attività e dei comportamenti professionali e contribuendo alla prevenzione e alla gestione del rischio attraverso: …omissis… la rilevazione, la segnalazione e la valutazione di eventi sentinella, errori, ‘quasi errori’ ed eventi avversi valutando le cause e garantendo la natura riservata e confidenziale delle informazioni raccolte” (corsivo aggiunto). Si tenderebbe insomma a considerare con sfavore un’apology che, in quanto admission against interests, possa determinare l’esclusione della copertura assicurativa. Soprattutto nelle assicurazioni obbligatorie, un tema sensibile è quello dell’eventuale asimmetria tra regime di responsabilità civile e regime (contrattuale) assicurativo. In particolare, questo tipo di esclusioni della copertura segna un divario, in quanto obiettivamente finisce per trasferire il rischio di un’interpretazione sfavorevole

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della dichiarazione di scuse in capo all’assicurato. La presenza di un regime di safe harbor, diretto ad escludere un’assimilazione piana tra admissions in negligence ed apologies, ristabilirebbe una maggior congruenza tra i due ambiti, incentivando l’adozione di queste ultime [cfr. Vines, 14. Apologies as ‘Canaries’-Tortious Liability in Negligence and Insurance in the Twenty-First Century, in Barker - Fairweather - Grantham (eds.), Private Law in the 21st Century, London, 2017]. Si tratta, insomma, di un tema sensibile, in parte inesplorato ed aperto al dibattito interdisciplinare.

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t a v r Osservatorio normativo e internazionale Osservatorio normativo e internazionale sse ati o rm z no rna e t in

Cour de cassation, civ. 1ère, 3.11.2016, n° pourvoi 15-25348

Responsabilité – Professionnel de santé – Faute – Identification du professionnel – Comportement – Négligence fautive – Oubli compresse chirurgicale.

LA COUR DE CASSATION, PREMIÈRE CHAMBRE CIVILE, a rendu l’arrêt suivant: Sur le moyen unique: Attendu, selon l’arrêt attaqué (Aix-en-Provence, 16 octobre 2014), que Mme X... a été opérée, le 6 octobre 2004, par M. Y..., chirurgien, à la Clinique Saint-Michel pour une hystérectomie totale par laparotomie et, le 10 octobre 2005, par M. Z..., chirurgien digestif, à la Clinique du Coudon, pour une récidive de hernie hiatale par laparotomie; que, le 4 décembre 2007, lors d’une nouvelle laparotomie, une compresse chirurgicale a été retrouvée dans l’abdomen de Mme X...; qu’après avoir sollicité une expertise en référé, la patiente a assigné en responsabilité et indemnisation M. Z..., M. Y... et la Clinique Saint-Michel, et mis en cause la caisse primaire d’assurance maladie du Var qui a demandé le remboursement de ses débours; Attendu que Mme X... fait grief à l’arrêt de rejeter ses demandes, alors, selon le moyen, que lorsque la preuve d’une négligence fautive consistant en l’oubli d’un matériel chirurgical dans le corps d’un patient est rapportée, il appartient à chaque professionnel et établissement de santé mis en cause de prouver qu’il n’est pas à l’origine de la faute; qu’en déboutant la patiente de sa demande d’indemnisation au motif qu’elle n’établissait pas l’acte chirurgical au cours duquel la compresse avait été oubliée dans son abdomen, la cour d’appel a violé l’article 1315, ensemble l’article L. 1142-1 du code de la santé publique; Mais attendu qu’en vertu de l’article L. 11421, I, alinéa 1er, du code de la santé publique, hors le cas où leur responsabilité est encourue en raison d’un défaut d’un produit de santé, les professionnels de santé ainsi que tout établissement, service ou organisme dans lesquels sont réalisés des actes individuels de prévention, de diagnostic ou de soins, ne sont responsables des

conséquences dommageables d’actes de prévention, de diagnostic ou de soins qu’en cas de faute; que la preuve d’une faute incombe au demandeur; que s’agissant d’une responsabilité personnelle, elle implique que soit identifié le professionnel de santé ou l’établissement de santé auquel elle est imputable ou qui répond de ses conséquences; Et attendu qu’après avoir retenu l’existence d’une négligence fautive liée à l’oubli d’une compresse sur le site opératoire d’une des interventions, l’arrêt relève, en se fondant sur le rapport d’expertise, qu’aucune donnée ne permet de rattacher la présence de la compresse à l’intervention du 6 octobre 2004 ou à celle du 10 octobre 2005, pratiquées par des chirurgiens différents dans des cliniques distinctes et qui ont l’une et l’autre nécessité l’usage de compresses, et qu’aucun comportement fautif de tel ou tel médecin exerçant à titre libéral ou auxiliaire n’est démontré; que la cour d’appel n’a pu qu’en déduire que leur responsabilité ne pouvait être engagée; que le moyen n’est pas fondé; PAR CES MOTIFS: REJETTE le pourvoi; Laisse à chaque partie la charge de ses dépens; Vu l’article 700 du code de procédure civile, rejette les demandes; Ainsi fait et jugé par la Cour de cassation, première chambre civile, et prononcé par le président en son audience publique du trois novembre deux mille seize. Décision attaquée: Cour d’appel d’Aix-en-Provence, du 16 octobre 2014

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La responsabilité médicale: un retour au passé? Laurence Klesta

Professoressa aggregata nell’Università di Padova

Abstract: Le code de la santé publique pose le principe de la responsabilité pour faute des professionnels de santé (art.L.1142-1). S’agissant d’une responsabilité personnelle il incombe au demandeur à l’action d‘identifier le responsable du dommage corporel selon les règles de la responsabilité extracontractuelle.

Au cours d’une intervention chirurgicale, une compresse fut retrouvée dans l’abdomen d’une patiente. Celle-ci ayant subi différentes opérations dans plusieurs établissements de santé, le rapport d’expertise conclut à l’impossibilité d’identifier l’auteur du comportement fautif. Une action solidaire en réparation du dommage fut alors intentée tant à l’égard des médecins, susceptibles d’avoir provoqué le dommage, que des établissements où la patiente avait été hospitalisée. En première instance et en appel, la requête de la patiente fut rejetée au motif que la demanderesse n’avait pas été en mesure d’identifier l’auteur du dommage. Dans le but de justifier une inversion de la charge de la preuve, le pourvoi en cassation se fonde alors sur la particularité du comportement fautif pour élaborer une présomption de responsabilité: il incombe à chacun des co-responsables, solidairement tenu, de démontrer qu’il n’a pas causé le dommage1.

La Cour de cassation rejette le pourvoi sur la base de deux articles «élémentaires»: l’art. L. 1142-1, I, comma 1° code de la santé publique qui pose le principe de la responsabilité personnelle, tant à l’égard des professionnels de santé que des établissements de santé où “sont réalisés des actes individuels de prévention, de diagnostic ou de soins”; et l’art. 1353 code civil en matière de charge de la preuve selon lequel la preuve d’une faute incombe au demandeur. La simplicité du raisonnement et la brièveté des “attendus” de l’arrêt contrastent avec le caractère fort complexe des motifs présentés à l’appui du pourvoi2 et, en général, de la jurisprudence médicale, si bien qu’ «retour au passé» a même été craint de la part de certains commentateurs3. La Cour ne semble en effet n’avoir aucune considération pour le dommage – inhabituel – souffert, le caractère particulier des critères de conduite, la source de l’obligation, les exigences d’organisation de l’établissement de santé, la solidarité passive, bref comme si la situation ne concernait pas le milieu médico-sanitaire; ou plutôt comme si l’intérêt de la patiente ne méritait pas d’être protégé au regard du préjudice subi.

civ. 1ère, 17.6.2010 in Dalloz, 2010, 1625, note Gallmeiter. La décision est disponible sur le site https://www.legifrance. gouv.fr/. Cass. civ. 1ère, 24.9.2009 in Dalloz 2009, 2342, note Gale id., 28.01.2010, in Dalloz, 2010, 49, note Brun (cc. dd. “arrêts Distilbène). Les décisions sont disponibles sur le site Legifrance.

2

lmeister

1

Par référence à un cas d’infections nosocomiales: Cass.

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3

Goud, note, in Dalloz, 2016, Etudes et commentaires, 26.


Responsabilité médicale

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En effet la Cour, après avoir exclu l’application de la responsabilité sans faute – limitée aux dispositifs médicaux défectueux et aux infections nosocomiales – rappelle les conditions de la responsabilité civile et si, parmi celles-ci, sont mentionnés plusieurs fois le fait dommageable et le lien de causalité («aucune donnée ne permet d’identifier le coupable») le mot «dommage» ne ressort aucunement. Ceci confirmerait donc le peu de cas accordé à la situation de la patiente, comme si la dernière opération chirurgicale avait, de fait, bien que la Cour ne prenne pas position, effacé les conséquences dommageables du fait illicite.

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