Luglio- Settembre 2018
Diritto e pratica clinica RESPONSABILITÀ MEDICA
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ISSN 2532-7607
RESPONSABILITÀ MEDICA
Diritto e pratica clinica IN QUESTO NUMERO Integrità del malato e “giuridicizzazione” della coscienza, di Marco Azzalini Decisione e coscienza nella relazione di cura, di Camillo Barbisan Capacità ed incapacità del paziente dopo la legge n. 219/2017, con contributi di Fabio Cembrani, Marco Trabucchi, Luigi Ferrannini, Claudio Agostini, Giuseppe Renato Gristina, Mariassunta Piccinni Il “consenso informato” dopo la legge n. 219/2017, di Giampaolo Miotto Quanto devono essere concrete le chances perdute?, di Daniela M. Frenda Valutazione medico legale della sofferenza morale, di Massimo Montisci, Alessia Viero, Arianna Giorgetti, Maria De Matteis
Luglio-Settembre 2018 Rivista trimestrale diretta da Roberto Pucella
Pacini
INDICE Saggi e pareri Fabio Cembrani, Marco Trabucchi, Luigi Ferrannini, Claudio Agostini, Capacità ed incapacità al banco di prova della nuova legge sul biotestamento: i tempi della vita nel traffico di un diritto (sempre meno) gentile................................................................................................ p. 235 Giuseppe Renato Gristina, Alcune considerazioni riguardo al trattamento dei minori nell’ambito della legge n. 219/2017.......................................................................................... » 245 Mariassunta Piccinni, Prendere sul serio il problema della “capacità” del paziente dopo la l. n. 219/2017............................................................................................................................... » 249 Daniela M. Frenda, Errore o ritardo nella diagnosi: quanto devono essere concrete le chances perdute? ....................................................................................................................... » 269 Giampaolo Miotto, Forma e prova del “consenso informato” dopo la legge n. 219/2017......... » 279 Valentina Di Gregorio, La responsabilità per danno da farmaco a trent’anni dall’attuazione della direttiva sulla responsabilità del produttore ......................................... » 295 Simona Viciani, I margini dell’autonomia prescrittiva del medico nella terapia farmacologica............................................................................................................................ » 311
Giurisprudenza Cass. civ., III sez., 23 marzo 2018, n. 7248, con nota di commento di Francesca Cerea, Violazione dell’obbligo informativo e autonoma risarcibilità del danno all’autodeterminazione............................................................................................................. » 321 Trib. Milano, 7 marzo 2018, con nota di commento di Maria Grazia Peluso, Decesso a causa di omessa diagnosi e danni risarcibili, un caso al vaglio del Tribunale di Milano..... » 331
Dialogo medici-giuristi Camillo Barbisan, Decisione e coscienza nella relazione di cura. Quali regole a tutela delle persone? ..................................................................................................................................... » 341 Marco Azzalini, Integrità del malato e “giuridicizzazione” della coscienza: no ad una cura contro la persona.............................................................................................................. » 343
Osservatorio medico-legale Arianna Giorgetti, Maria De Matteis, Massimo Montisci, Alessia Viero, Accertamento e valutazione medico legale della sofferenza morale.................................................................. » 349
Saggi e pareri
Saggi e pareri
Capacità ed incapacità al banco di prova della nuova legge sul biotestamento: i tempi della vita nel traffico di un diritto (sempre meno) gentile
g g sa re e a p
Fabio Cembrani, Marco Trabucchi, Luigi Ferrannini, Claudio Agostini* Sommario: 1. Premessa. – 2. La questione degli incapaci nell’ambito della cura. – 3. L’asincronia tra i tempi della vita ed i ritmi del diritto. – 4. Decision making capacity e capacità di intendere e di volere. – 5. Conclusioni.
Abstract: Gli Autori affrontano la questione degli incapaci e della loro rappresentanza nella cura. La esaminano in relazione alla nuova legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento di cui affrontano gli snodi critici avendo questa norma ridotto l’autonomia professionale del medico e confuso la moral agency con la capacità di intendere e di volere. The Authors address the issue of the incapacitated and their representation in the treatment. They examine it in relation to the new law on informed consent and on the anticipated provisions of treatment which the critical joints face, since this rule has reduced the professional autonomy of the doctor and confused the moral agency with the ability to understand and to want.
Fabio Cembrani - Direttore U.O. di Medicina Legale, Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento, Marco Trabucchi - Presidente Associazione italiana di Psicogeriatria, Luigi Ferrannini (già Presidente della Società italiana di Psichiatria), Claudio Agostini (Direttore U.O. di Psichiatria, Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento).
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1. Premessa Dopo un lunghissimo (e davvero poco fisiologico) periodo di gestazione, nel dicembre del 2017 il Senato della Repubblica ha, a larga maggioranza, approvato il disegno di legge recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” (legge n. 219 del 22 dicembre 2017, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 16 gennaio 2018 ed entrata in vigore il 31 gennaio successivo). Per contrastare gli oltre tremila emendamenti presentati dalle minoranze e dagli schieramenti politici confessionalmente orientati, lo strumento utilizzato per la sua rapidissima approvazione (dopo mesi di persistente fiacca e di veti ideologici incrociati) è stato quello del canguro (un’invenzione lessicale, che non ha però nulla a che vedere con il timido e sospettoso mammifero marsupiale australiano): gli stessi sono stati così raggruppati in blocchi più o meno omogenei, come aveva anticipato Pietro Grasso nella sua carica di Presidente del Senato annunciando la sua rapida approvazione, con la conseguenza che, bocciato il primo, sono poi automaticamente decaduti anche tutti gli altri, contenendo così al minimo i tempi della discussione in Aula. E così, alla fine di una stanca
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legislatura, quando ciò che restava delle coalizioni di Partito era già proiettato nella bagarre elettiva che avrebbe (il condizionale è d’obbligo visto i colpevoli marchingegni della neonata legge elettorale) dovuto eleggere una maggioranza capace di governare un Paese sempre più piegato sulle gambe dalla drammatica crisi finanziaria che ha investito tutti i Paesi dell’Eurozona e dalle acrobazie degli investitori, l’agenda politica italiana ha così riposizionato al centro del dibattito pubblico le questioni sensibili. Goal e palla al centro si direbbe in gergo sbrigativamente sportivo anche se la nostra convinzione è che questa nuova legge non sia stata la segnatura al termine di un’irresistibile azione di gioco ma una clamorosa autorete o, guardando alla parte piena del classico bicchiere riempito a metà, quella segnatura della bandiera che rende la sconfitta meno umiliante ed amara; nonostante il plauso mediatico seguito alla sua approvazione con un ‘Evviva’ e con ‘Mi piace’ pubblico comparsi nella mailing list del Cortile dei Gentili (e con il silenzio dei medici se si eccettua la sola voce espressa dell’Associazione italiana di Psicogeriatria in un draft presentato a Brescia all’inizio del luglio 2017 e poi approvato dal Consiglio direttivo all’inizio del mese di settembre1) determinato dalla convinzione che il nostro Paese si è finalmente dotato di una legge sul fine vita. La qual cosa non è assolutamente veritiera, perché la norma è, in buona sostanza, una legge sul consenso informato che non darà certo una soluzione a quelle tragiche vicende umane riprese dai riflettori della cronaca perché essa non ascolta né risponde all’esasperazione di quelle persone costrette ancora a recarsi in Svizzera per porre fine alla loro umana sofferenza con la pratica del suicidio assistito vietata dalla legge penale italiana2. La sua approvazione,
Cfr. Cembrani et al., Documento AIP: Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, in Psicogeriatria, 2017, 3.
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È notizia recente che la Corte d’Assise di Milano, esaminando la condotta di Marco Cappato nella morte per suicidio assistito di Fabiano Antoniani, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. (Istigazione e aiuto al suicidio) per la sola parte dello stesso in cui: (1) si
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avvenuta con il ricorso ad un meccanismo procedurale davvero poco democratico, non è quindi un esempio di civiltà giuridica come sottolineato dagli entusiastici supporter ma il frutto di un compromesso politico finalizzato a ricompattare il Partito Democratico in vista della tornata elettorale. Probabilmente per provare a disinnescare il grande malessere di quella parte della sinistra italiana che avrebbe voluto approvare la legge sul diritto di cittadinanza, mai arrivata alla discussione per lo scioglimento anticipato delle Camere avvenuto subito dopo Natale: un male minore, di cui non siamo però personalmente persuasi, perché la legge sullo ius soli era davvero una legge di civiltà giuridica, molto più urgente da approvare per dare prova della maturità della nostra democrazia costituzionale messa in fortissima tensione da chi parlando alle pance degli elettori ha costruito il suo programma elettorale sulla difesa dei confini nazionali dall’immigrazione clandestina.
2. La questione degli incapaci nell’ambito della cura La nuova legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento tocca molte importanti questioni pratiche della libertà di cura che riguardano la generalità dei cittadini sani e di quelli affetti da una “patologia cronica o invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta” (art. 5, comma 1°) distinguendo, tra questi ultimi, quelli capaci e quelli giuridicamente incapaci. Essa ha così riposizionato al centro degli interessi dei Commentatori non solo la concreta situazione soggettiva dell’incapa-
incriminano le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1° e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo; (2) prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2° e 27 comma 3° della Costituzione.
Capacità ed incapacità nella nuova legge sul biotestamento
cità legale essendo da tempo noti i suoi difetti e la sua sostanziale rigidità3 ma anche quella dei doveri (poteri) di protezione giuridica del medico e delle persone vicine al malato che, in relazione alle molte situazioni possibili, gli si affiancano o lo sostituiscono nell’assunzione di decisioni riguardanti la cura. La questione dei doveri e dei limiti che i rappresentanti legali incontrano nella loro funzione di garanzia della persona è, come si sa, una questione particolarmente complessa se la si affronta in relazione alla cura anche se ciò che è fuori discussione è che il nostro ordinamento prevede due sostanziali tipologie di figure di protezione giuridica4: (a) quelle cosiddette sostitutive, in tutto (interdizione) o in parte (inabilitazione); (b) e quelle con poteri di rappresentanza più limitati il cui ruolo è quello di affiancare e di sostenere la persona nelle scelte di vita con il minor sacrificio possibile della sua capacità di agire grazie anche all’elasticità del provvedimento di nomina (amministrazione di sostegno). Da qui la convinzione che i volti dell’incapacità sono tanti e molto variegati, non potendo essere essi circoscritti alla sola protezione dell’infermità di mente o alle altre condizioni previste per l’inabilitazione (la prodigalità, l’abuso abituale di sostanze alcoliche o stupefacenti, la sordità e la cecità dalla nascita o dalla prima infanzia che hanno impedito un sufficiente grado di educazione e di istruzione) visto che la norma sull’amministrazione di sostegno contempla non solo le infermità psichiche ma anche quelle fisiche, permanenti o temporanee, che
Si veda Salvaterra, Capacità e competence, nel Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, I diritti in medicina, a cura di Lenti, Palermo Fabris e Zatti, Milano, 2011, III, 341 ss., la quale sottolinea la permanenza in molti ambiti di «una distanza significativa tra dimensione fattiva e normativa della capacità di consentire alle cure, distanza particolarmente presente nel diritto continentale» ed il carattere artefatto della capacità legale.
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4 Così Piccinni, Relazione terapeutica e consenso dell’adulto incapace. Dalla sostituzione al sostegno, in I diritti in medicina, III, 361 ss., la quale ricorda la particolare difficoltà che si incontra nell’«individuare l’ambito di rilevanza giuridica del consenso al trattamento medico, sia sul piano dei soggetti legittimati a prestarlo, che con riferimento ai limiti che derivano dalla rilevanza oggettiva degli interessi».
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riducono l’autonomia della persona nell’espletamento dei comuni atti della vita. La nuova legge, pur dimostrando consapevolezza sul fatto che le condizioni cliniche del paziente siano difficilmente standardizzabili (art. 1, comma 4°) subordina, tuttavia, la competence to consent della persona alla sua capacità di agire (art. 1, comma 5°) rinunciando a far incontrare la sua tradizione filosofica e scientifica con le figure fissate dall’antropologia giuridica. La quale la considera non come un’attitudine biografica della persona ma come la possibilità concreta di compiere atti giuridici mediante i quali si acquisiscono diritti e si assumono doveri5 (art. 2 c.c.) condizionandola, così, al raggiungimento della maggiore età ed alla capacità di discernimento, di comprensione e di decisione (art. 3, comma 1°) o, per dirla seguendo il cifrario dell’archeologia giuridica romanistica, con la capacità di intendere e volere (art. 4, comma 1°). Capacità di agire, maggiore età, capacità di discernimento, capacità di comprensione, capacità di decisione, grado di maturità, capacità di intendere e di volere e incapacità sono così le tante locuzioni che si alternano in maniera confusa e poco strutturata nella nuova legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento che ha una gergalità discutibile e spesso fuorviante anche se l’intenzione del legislatore non solleva dubbi: lasciare la questione del consenso alle cure all’interno dei rapporti giuridici privatistici/ negoziali senza dare diritto di cittadinanza a quei modelli comparativi che ritengono il consenso una scelta dal carattere prioritariamente morale che non può essere mai separata dalle nostre biografie, dai nostri valori di riferimento, dal nostro sentire, dal senso che diamo alle nostre vite, da ciò che siamo e dal ricordo che vogliamo lasciare di noi dopo la nostra morte. Con un’individualità
5 Così Ferrajoli, Principia iuris, Teoria del diritto e della democrazia, Bari, 2007, che la rappresenta come l’idoneità ad essere autore di qualunque atto giuridico in quanto produttivo di effetti: non solo, quindi, degli atti negoziali, ma anche di tutti gli altri atti precettivi con cui vengono esercitati i diversi tipi di potere, e perfino degli atti di adempimento e degli atti illeciti.
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esistenziale di fondo entro cui prende forma la dimensioni soggettiva (o non astratta) della dignità umana la quale stenta a tenere il passo con la rigidità e l’astrattezza della capacità di agire che considera competent la persona capace ex lege. L’art. 3 della nuova norma prevede così che, nel caso del minore, il consenso o il rifiuto alla cura debba essere espresso dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore tenendo conto della volontà dello stesso; che, nel caso dell’interdetto, è il tutore che lo esprime o lo rifiuta sentita, solo “ove possibile”, la persona; che la persona inabilitata o quella in amministrazione di sostegno possono, invece, esprimere personalmente il consenso o il dissenso fermo restando che, per quest’ultima forma di tutela giuridica che dovrebbe essere la più debole sul piano dei rapporti sostitutivi, deve intervenire anche l’amministrazione di sostegno tenendo conto della volontà dell’interessato e della sua capacità di intendere e di volere (art. 3, comma 4°). Con una sostituzione (per così dire) suppletiva, difficile da comprendere e da accettare se il ruolo dell’amministratore è quello di supportare le residue capacità della persona (ciò che, dunque, c’è ancora e non quel che manca) anche perché la norma del 2004 non cita mai la capacità di intendere e di volere facendo solo riferimento alla riduzione dell’autonomia personale provocata da menomazioni di natura sia fisica che psichica. Con un’altra discutibilissima previsione contenuta nella nuova legge che rinvia alla giurisdizione (al giudice tutelare) la soluzione delle eventuali controversie che possono sempre sorgere tra i rappresentanti legali della persona ed il medico nell’ipotesi in cui i primi rifiutino le cure ritenute appropriate e necessarie per la cura della persona protetta pur vietando la futilità e l’accanimento diagnostico-terapeutico; soluzione prevista poi anche nel caso in cui, nel rispetto delle disposizioni anticipate di trattamento, sorgano problemi di vedute tra il medico ed il fiduciario (art. 4, comma 5°). Perché, se può essere da un lato comprensibile che il medico non debba essere lasciato da solo nelle vertenze che sorgono in seguito alle difformità di vedute riguardo a scelte cliniche scientificamente appropriate, rinviare la loro soluzione alla giurisdizione ordinaria signifiResponsabilità Medica 2018, n. 3
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ca annullare la funzione di garanzia pubblica pur ricoperta dal medico trasformandolo in un generico impiegato pubblico, delegittimato dal suo ruolo e privato della sua più autentica autonomia e responsabilità soprattutto riguardo a quelle persone fragili che richiedono sempre un sussulto di umanità. Delegando alla giurisdizione scelte cliniche che devono essere spesso agite con la necessaria tempestività visto che il fattore tempo, nel nostro lavoro, non è mai un optional regolato dai soli ritmi della proceduralità del sistema giudiziario a cui, a nostro modo di vedere, competono decisioni molto più serie, la lotta alle molte forme di criminalità più o meno organizzata ed alla dilagante corruzione che si combatte ancora a parole ma mai nei fatti.
3. L’asincronia tra i tempi della vita ed i ritmi del diritto Senza paura di essere smentiti si può così affermare che la nuova legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento testimonia la colpevole rinuncia a favorire quell’incontro tra i tempi della vita e quelli del diritto senza i quali la certezza di quest’ultimo diviene una pericolosissima scorciatoia per semplificare la complessità della prima: un’illusione o una sorta di (pseudo)immunizzazione o di anestesia forzata alla quale ricorrere per difendersi dai pericoli del reale e dalla sua straordinaria complessità. Nonostante questo modello di capacità sia dichiaratamente in crisi6 per la sua sostanziale artificiosità e per la sua forzata fissità. Perché, quando si affronta in prospettiva etico-pratica il problema degli incapaci rispettando le graduazioni quali-quantitative del vizio di mente e quelle della fragilità che l’esperienza clinica ci consegna nella quotidianità, le situazioni sono molto diverse, mai simili, fenotipicamente instabili nonostante l’identità di genere della nosografia scientifica, pur potendo essere ricondotte a tre grandi contenitori: (1) quello delle persone incapaci legali che non sono in grado,
6 Così Venchiarutti, voce «Incapaci in diritto comparato», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., IX, Torino, 1993, 384 e ss.
Capacità ed incapacità nella nuova legge sul biotestamento
nemmeno sul piano naturalistico, di partecipare alle scelte personali; (2) quello delle persone, che pur non essendo ancora state dichiarate incapaci legali, non sono in grado di partecipare alle scelte che le riguardano; (3) e quello delle persone che, indipendentemente dalla loro capacità legale, sono ancora in grado di esprimere le loro scelte morali sulla base di una sia pur ridotta capacità di discernimento comprovata dall’integrità dei loro vissuti esperienziali o della loro capacità di provare (ed esprimere) sentimenti, attese ed emozioni. Nella prima situazione non si pongono particolari coni d’ombra anche perché il problema della sostituzione dell’incapace da parte del rappresentante legale nelle scelte di cura è stato molto ben analizzato dalla giurisprudenza di legittimità nella vicenda umana di Eluana Englaro7, con soluzioni ampiamente condivisibili e del tutto convincenti. Anche se in dottrina si trova la voce, sia pur minoritaria di qualche pur autorevole interprete8, che continua a pensare che nelle scelte biografiche il rappresentante legale non può mai sostituire l’incapace con la conseguenza che, se così fosse, i centri di interesse di quest’ultimo sarebbero abbandonati a loro stessi ed al loro tristissimo destino.
Cass., 16.10.2007, n. 21748, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 83: «… 7.3 Ad avviso del Collegio, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche».
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Così Bonilini, Chizzini, L’amministrazione di sostegno, Padova, 2007.
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La seconda situazione è molto più interessante agli effetti pratici perché in alcuni ambiti della cura (si pensi ad es. a quelli psicogeriatrici) sono frequentissime (quasi la regola) le situazioni di persone che, ancorché non legalmente incapaci, non sono in grado di partecipare alle loro scelte esistenziali e di aderire/rifiutare le cure. In queste situazioni abbiamo di regola fin qui privilegiato la strada indicata dall’art. 406 (comma 3°) del codice civile9 con alterne fortune non solo essendo stati inermi testimoni dei lunghi tempi della giurisdizione molto spesso incompatibili con le esigenze di cura della persona ma avendo spesso assistito alla maggior efficienza dei Tribunali rispetto agli Uffici dei Giudici tutelari, a discapito però degli obiettivi della legge sull’amministrazione di sostegno che restano quelli di incidere con la minor limitazione possibile dell’autonomia personale. Ritenendo che il ruolo di proxy (o di protettori naturali) dei familiari fosse molto debole proprio sul piano della tenuta giuridica sottolineando che, molto spesso, la convergenza di pensiero sulle scelte di cura tra chi compone la sfera parentale o amicale della persona non è facile da comporre; perché le (ancorché spesso ma non sempre legittime) angolazioni di interesse sono tra loro distanti con la conseguenza che sono all’ordine del giorno i contrasti tra i componenti la sfera parentale riguardo alle decisioni di cura con insulti stressogeni ed ansiogeni che ricadono non solo sul team di cura ma soprattutto sul malato. Queste nostre non sempre positive esperienze ci motivano, così, a verificare la possibilità di suggerire altre soluzioni parallele alla precedente e che non si escludono a vicenda. Recuperando l’idea che “nel nostro ordinamento giuridico il rappresentante legale non è l’unica figura incaricata di occuparsi della cura della persona”10, si potrebbe
«[…] I responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso di cui all’articolo 407 o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero».
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10 Cfr. Piccinni, Relazione terapeutica e consenso dell’adulto incapace, cit.
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seguire così un’altra via: dare rilevanza ai protettori naturali della persona individuandoli nelle persone più vicine al malato, appartenenti cioè all’intera rete di prossimità parentale, di convivenza familiare ed anche amicale della persona come ha suggerito, alcuni anni fa, la Commissione di bioetica della SIAARTI nelle Raccomandazioni delle cure di fine vita. Perché se è vero che la rete dei nostri affetti ha una funzione di garanzia a cui ogni nostra identità è debitrice vero è, altrettanto, che non si può negare a chi fa parte della stessa la possibilità di un qualche potere di rappresentanza riguardante la cura della persona nonostante il suo perimetro sia necessariamente più debole rispetto al rappresentante legale; pur dando per scontato che, in questa complessa materia, ogni primato di forza deve essere guardato con diffidenza e con prudente sospetto. Perché non si tratta di predefinire un catalogo dando un ordine di grandezza ai poteri di rappresentanza di chi lo compone ma discutere le possibilità offerte dal nostro ordinamento e, soprattutto, affrontare la questione dei poteri e dei limiti delle funzioni di tutela, di quelle formali ma anche di quelle meno formali (naturali). Limiti che, per quanto concerne i protettori naturali, pur ci sono, con la conseguenza che è il medico a ricoprire una posizione di garanzia più ampia sia pur con il loro coinvolgimento diretto sia nella fase di informazione che della formazione della decisione che dovrà comunque tener conto delle preferenze della persona anche quando non sia stata redatta una volontà anticipata e non sia stato individuato nessun fiduciario, come prevede la nuova legge sul consenso informato. Con l’avvertenza per il medico, laddove emerga il contrasto tra i poteri di cura dei diversi protagonisti, di attivare immediatamente il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno spiegandone le motivazioni e fornendo una chiara rappresentazione del dissidio con i protettori naturali anche per orientare la scelta dell’amministratore di sostegno. Le questioni più complesse e spigolose sono però quelle in cui la persona, indipendentemente dalla situazione di incapacità legale, abbia una sia pur ridotta capacità di capire e di esprimere le sue scelte morali. Anche se queste difficoltà sono state, per così dire, sommariamente ghigliottinate Responsabilità Medica 2018, n. 3
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dalla nuova legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento che continua a considerare competent le sole persone che lo sono per legge. Questa pubblica esecuzione deve comunque tener conto del fatto che il nostro ordinamento distingue le persone totalmente incapaci (gli interdetti) da quelle che lo sono parzialmente (gli inabilitati) essendo stata poi creata una terza poliedrica categoria di soggetti incapaci di provvedere autonomamente ai propri interessi per menomazioni non solo di carattere psichico ma anche fisico (in questi casi si dovrebbe parlare non di amministrazione ma di procura di sostegno, come hanno suggerito gli interpreti11). E dell’evidenza che questi strumenti di protezione giuridica della persona non sostituiscono per intero la sfera morale della medesima essendo stati creati allo scopo di permettere alle residue capacità di funzionare sul piano esistenziale espandendolo anche in quei territori dove si pone l’esigenza di un titolato supporto di indirizzo e di governo esterno. Da ciò quanto previsto dalla nuova legge: mentre nel caso dell’interdetto il consenso è una questione che riguarda il solo tutore che, laddove possibile, deve sentire la persona interdetta la cui volontà non ha comunque nessuna aspettativa, nel caso dell’inabilitato esso è invece espresso dalla persona inabilitata mentre nel caso della persona in amministrazione di sostegno, con una interruzione davvero poco comprensibile, esso deve essere espresso o da questa persona o, in alternativa, dal suo amministratore in relazione al suo grado di incapacità di intendere e di volere. Con una rottura di quel valore soglia che l’ordinamento le assegna perché la capacità di intendere e di volere non è mai un concetto plastico, flessibile e suscettibile di variazioni in ragione delle variabilità situazionali. C’è naturalmente da chiedersi chi la determinerà nei luoghi di cura, quali dovranno essere i domini da esplorare nella sua pratica valutazione e, nel caso di dubbio o di difformità di vedute tra
Cfr. Bulgarelli, La “procura di sostegno” ovvero l’Amministrazione di sostegno per casi di sola infermità fisica, in Giur. it., 2005, 1843 ss.
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Capacità ed incapacità nella nuova legge sul biotestamento
la persona e l’amministratore di sostegno, quale sarà l’autorità cui dovrà essere rimessa la questione pur dando per ammesso che la norma affida alla giurisdizione la soluzione dei conflitti quando si sarebbe dovuto puntare su strumenti più semplici (second opinion) come da noi ripetutamente suggerito e come prevedono altri ordinamenti europei come quello francese. Perché i conflitti della cura devono essere risolti nei suoi luoghi e con i suoi tempi e non nelle aule di Tribunale per non delegittimare l’autonomia professionale ed il ruolo di garanzia del medico; a patto di non volerlo mettere in discussione come sembra fare la nuova legge che, su questo particolare, rivela la sua profonda superficialità anche se è davvero paradossale che la gran parte delle Società scientifiche non si sia resa conto di ciò e davvero imbarazzante il silenzio della Federazione nazionale degli Ordini (FNOMCeo).
4. Decision making capacity e capacità di intendere e di volere Più che di contenuti innovativi, la nuova legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento è la conferma di un’altra occasione sprecata: quella di riformulare la questione della capacità della persona di autodeterminarsi smarcandosi, una volta per tutte, dall’incapacità di intendere e di volere che, a detta degli stessi interpreti del diritto, è una categoria giuridica di grande opacità e mal adattabile alla struttura sostanzialmente morale del consenso o del rifiuto alla cura. Essa è, infatti, un’attitudine della persona giuridica risultando dal combinato funzionamento di due diverse capacità: quella di intendere (di rappresentare il valore ed il disvalore giuridico delle azioni) e quella di volere (di determinarsi, cioè, in modo coerente con le rappresentazioni mentali). Una capacità, la prima, di carattere sostanzialmente razionale ed una capacità, la seconda, di mantenere saldo il controllo razionale sulle emozioni, sui sentimenti e sulle passioni per agire comportamenti ritenuti doverosi (e legittimi) dall’ordinamento. Pacificamente, essa presuppone un mondo di obblighi dati dall’ordinamento giuridico che fornisce un insuperabile (tassativo) elenco delle infrazioni e delle sanzioni previste nell’i-
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potesi di una loro violazione. Da ciò una libertà di azione limitata e condizionata dalla lex poli che è il tessuto vitale all’interno del quale prende forma e dimensione la capacità di intendere e di volere: capacità che è così chiamata a confrontarsi con questo mondo esterno, popolato da libertà di tipo sostanzialmente negativo, che vive, in questa prospettiva, indipendentemente da ogni nostra biografia personale, dai nostri valori di riferimento, dai principi educativi che ci sono stati dati, dalle attese, dai nostri desideri, dalla parabola di vita che ciascuno di noi ha scelto responsabilmente di percorrere, dalla nostra umanità identitaria e, in ultima analisi, dalla nostra stessa idea di dignità. In termini ancor più ampi, dalla nostra memoria personale e dalla promessa che ciascuno di noi storicizza in ogni scelta di vita. Da una biografia identitaria che è pur fatta di carne, di umanità, da un io irripetibile che si confronta con il noi delle relazioni personali e dei nostri affetti o, con una parola spesso abusata, da una coscienza individuale continuamente lacerata, quotidianamente e faticosamente ricostruita nelle storie e nelle contro-storie per dare ad essa una qualche forma di coerenza: cosa che richiede l’integrità della memoria, di ricordare ciò che siamo e ciò che vogliamo diventare nel nostro arco di vita per realizzare, di conseguenza, quei progetti che ci siamo dati come obiettivo da realizzare. Anche se quest’idea presuppone che la parabola di vita sia di tipo lineare e che la nostra vicenda umana non sia interferita da difetti o rotture che modulano la percezione del sé e quell’identità narrativa che è la base di ogni progetto di vita. In questa chiave di lettura, la persona umana capace di intendere e di volere è una maschera che l’ordinamento giuridico disumanizza proprio riguardo ai principi ed ai valori personali ponendola in relazione ad una sola parte del mondo esterno: quella della legalità e dell’ordine costituito che, naturalmente, tiene in principale conto gli interessi comuni e quelli collettivi. E non certo in modalità soft viste le sanzioni previste dall’ordinamento per ogni infrazione alla legge scritta, finalizzate, evidentemente, a far soffrire il colpevole per la colpa commessa ma con una responsabilità, per così dire, ridotta e scotomizzata, considerata nella sua sola prospettiva negativa. Responsabilità Medica 2018, n. 3
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Diversamente, la moral agency: perché essa, al di là dei diversi orientamenti che pur esistono, è una caratteristica della persona umana che chiama in causa le sue libertà positive le quali esprimono la capacità della persona di avere, oltre ad interessi critici, anche interessi di esperienza, di provare gioia e dolore, di esprimere sentimenti e di formulare giudizi di valore. Assumendo decisioni che – diversamente dalla capacità di intendere e di volere che pur le condiziona attraverso i divieti e le sanzioni – supportano ogni nostro processo di individuazione e di coscientizzazione, anche simbolica; con una espressione della libertà in prospettiva aperta, modulata costruttiva e coerente con ciò che siamo, pur con i condizionamenti provenienti dal mondo esterno, dai legami sociali ed affettivi, nel rispetto dei nostri valori di riferimento e della nostra stessa idea di dignità. In una prospettiva ampia, che ci consente di esprimerci per ciò che siamo e di sviluppare gradualmente e progressivamente la nostra stessa identità e personalità nei nostri rapporti e relazioni con chi è parte del nostro mondo. Lungo un arco di vita che non è mai di tipo lineare, per le sue variabili cronologiche ed esperienziali ed all’interno del quale la persona umana sviluppa il suo processo di individuazione e di graduale presa di coscienza; non solo in virtù delle esperienze provenienti dal mondo sensibile ma, soprattutto, grazie alla memoria, alla promessa ed alla nostra struttura affettiva-emozionale che modula sempre la razionalità. Perché la memoria ci consente di dare sostegno all’identità personale nonostante le sue trappole e le insidie dell’oblio che sono giunti al punto estremo di negare i crimini e le atrocità commesse contro l’umanità nel secondo conflitto bellico nei lager nazisti; perché la promessa, nonostante i sempre possibili tradimenti, ci consente di rivolgere lo sguardo al futuro e di mantenere l’integrità di quel sé che si genera nella fedeltà alla parola data, nell’affidabilità che ci consegna a noi stessi in quella dimensione fiduciaria che ci riappacifica con la concezione agostiniana del tempo recuperandone, soprattutto, gli spunti non metafisici; e perché le emozioni, i sentimenti e gli affetti sono vere e proprie funzioni cognitive di importanza non certo accessoria nel determinare i comporta-
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menti umani e le nostre scelte razionali12. Dato che la memoria crea sempre un ponte con il passato, mentre la promessa è la piattaforma e la base di lancio del futuro e considerato che l’emozionalità condiziona tutte le nostre scelte di vita. In questa dimensione, straordinariamente umana, vitale, non astratta e non condizionata dai soli precetti prescrittivi deve essere collocata la moral agency della persona umana. Rappresentando, essa, la capacità di autodeterminazione che dobbiamo valorizzare come una scelta sostanzialmente e prioritariamente morale. Capacità di intendere e di volere e moral agency non sono, dunque, un’endiadi pur anche ammettendo l’esistenza, tra loro, di qualche punto di contatto. Perché le libertà positive della persona umana non possono certo prescindere dai divieti fissati dall’ordinamento giuridico e perché entrambe prevedono un doppio binario di giudizio. Il primo, uguale in entrambe, è di tipo descrittivo essendo finalizzato ad individuare l’esistenza di una infermità che non è sempre e solo di mente. Il secondo è di tipo esplicativo, con una prospettiva però diversa: di tipo psichiatrico-forense nel caso della capacità di intendere e di volere che deve sviluppare il profilo crimino-dinamico e quello crimino-genetico; in prospettiva biografica, invece, per la moral agency che richiede di essere considerata (ed esplorata) in riferimento all’identità di quella specifica persona posta in quel determinato contesto di vita. Investendo, quest’esplorazione, tutta una serie di luoghi o di abilità funzionali sulle quali esiste un sufficiente accordo nella letteratura internazionale che le ha indicate: (a) nella capacità di manifestare una scelta; (b) nella capacità di comprendere le informazioni, (c) nella capacità di dare un giusto peso alle medesime, (d) e nella capacità di utilizzare razionalmente le informazioni. Suggerendo, di conseguenza, l’utilizzo di strumenti standardizzati, come ad es., la MacCAT-T e MacCAT-CR (specifica per l’arruolamento delle persone in trials clinici sperimentali) impiegati per ridurre
Si veda Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano, 1994.
12
Capacità ed incapacità nella nuova legge sul biotestamento
la soggettività clinica anche se questi strumenti faticano a trovare un ampio utilizzo nel contesto clinico italiano anche perché dovremmo discutere se essi non sopravvalutino le capacità cognitive scotomizzando al contempo quelle affettive (affective capability)13 e se queste ultime debbano essere esplorate in prospettiva ampia o riferite al deciding della specifica situazione. Informability, cognitive and or affective capability e deciding sono comunque le direttrici del giudizio estensionale sulla moral agency della persona ritenendola un concetto comunque plastico, flessibile ed adattabile alle circostanze situazionali. Abbandonando definitivamente quei pregiudizi che la confondono con la capacità di intendere e di volere, quegli stigmi in ragione dei quali le malattie dementigene la comprometterebbero sempre e comunque e quelle becere ed (a)tecniche prassi purtroppo diffuse che la esplorano con batterie neuro-testistiche elaborate per altre finalità (il MMSE primo tra tutti) riconoscendo ad esse un potere, per così dire, taumaturgico nel differenziare la capacità dall’incapacità sulla base di discutibilissimi valori soglia (pre)definiti non si capisce bene sulla base di quali evidenze scientifiche.
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non è facile reggere il confronto espropriando, al contempo, le nostre trafelate soggettività alla ricerca di senso. Da ciò l’idea che il traffico del diritto ed i tempi della vita sono polarità che restano tra loro molto distanti e che l’incontro tra questi tempi non è un’operazione facile da realizzare abdicando alla nostra personale responsabilità che è anche quella di favorirlo recuperando i nostri spazi professionali senza abdicare al nostro umano impegno ed alla capacità di pensiero autonomo. Aiutando anche il diritto a crescere e a considerare a fondo le questioni perché il banalizzarle, l’eluderle o il giuridificarle ostinatamente non serve sicuramente a nessuno, nemmeno alla salvaguardia dell’ordine costituito. Perché la sua gentilezza è un segno di maturità ed il segnale che i tempi della vita e quelli del diritto potranno davvero essere più sincroni.
5. Conclusioni Forse abbiamo riflettuto poco sul fatto che il diritto si costruisce con le sue regole in un mondo di per sé stesso autosufficiente e con una onnipresenza pervasiva anche se la sua partenza è di regola il mondo della vita con la sua spesso imbarazzante nudità che ben conoscono coloro che per ragioni professionali frequentano i luoghi della cura conoscendone le sue straordinarie espressioni fenotipiche. Qualche saggio interprete, interrogandosi su ciò, ha parlato di un vero e proprio imperialismo giuridico14 ammettendo la funzione di immunizzazione sociale esercitata dal diritto che non disvela la realtà trasformandola in un’astrazione o nelle categorie giuridiche con cui
Cfr. Callahan, The role of emotion in ethical decision making (1988) Hasting Center Report, 18 ss. 13
14
Cfr. Rodotà, La vita e le regole, Milano, 2006.
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Saggi e pareri
Saggi e pareri
Alcune considerazioni riguardo al trattamento dei minori nell’ambito della legge n. 219/2017
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Giuseppe Renato Gristina
Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) - Gruppo di Studio per la Bioetica Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il trattamento dei minori nell’ambito della legge n. 219/2017: gli aspetti giuridici e le problematiche cliniche. – 3. Conclusioni.
Abstract: L’articolo fornisce ai professionisti sanitari che si impegnano nella cura dei minori una serie di riferimenti utili a sostenere la complessità della gestione clinica dei piccoli pazienti e le difficoltà, talvolta insormontabili, dei loro genitori, indicando possibili scelte di comportamento che trovano oggi una cornice giuridica nella legge n. 219/2017. The article provides to health professionals who are caring for sick minors some useful landmarks to support their clinical management and, at the same time, to cope with the difficulties of their parents, suggesting possible conduct choices in light of the relevant legal framework offered today by the law n. 219/2017.
1. Introduzione
Charles Gard (2017) e Alfred Evans (2018), le decisioni dei medici e dei giudici di interrompere i trattamenti vitali dopo un lungo e doloroso percorso clinico per lasciarli morire a fronte dell’opposizione dei genitori, hanno suscitato in Italia il solito disordinato dibattito etico che si è concluso in entrambi i casi, come di consueto, con una netta presa di posizione almeno di una parte della Curia1, con un pronunciamento dei politici del nostro Paese2 e, nel caso di Alfred Evans,
La mossa del Vaticano per non far staccare la spina a Charlie Gard, consultabile all’indirizzo: www.ilgiornale.it; Vaticano. Il padre di Alfie dal Papa: nuovo appello e preghiere per il piccolo, consultabile all’indirizzo: www.avvenire.it; Alfie Evans. Per monsignor Paglia potrebbe trattarsi di «sospendere una situazione di accanimento terapeutico», consultabile all’indirizzo www.tempi.it.
1
Su Charlie Gard i nostri politici fanno fronte comune. Contro l’Europa e la decenza, consultabile all’indirizzo: www.ilfattoquotidiano.it; La politica risponde all’appello per Alfie Evans, consultabile all’indirizzo: www.paeseitaliapress.it. 2
Le due diverse forme di gravissima degenerazione neurologica che hanno afflitto i bambini inglesi
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addirittura con un intervento ufficiale del nostro Governo3. Del tutto assente è sembrata invece una riflessione approfondita sulle questioni giuridiche che hanno sotteso le decisioni cliniche nei due casi e che sarebbe stato invece interessante che medici e giuristi avessero condotto congiuntamente, soprattutto se si tiene conto del fatto che la storia di Alfred Evans si è svolta quando in Italia era stata già approvata la legge n. 219/20174 riguardante il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento. Eppure, in ambito sanitario era da tempo avvertito il bisogno di una legislazione ben ponderata che trattasse in modo chiaro ed efficace non solo la questione delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) ma anche tutta la complessa materia del consenso o del rifiuto delle cure e della loro pianificazione, specialmente nel caso di minori affetti da patologie degenerative giunte alla fase finale. Può quindi ora apparire utile per i clinici un approfondimento del tema della responsabilità genitoriale e del medico nell’ambito della speciale condizione della fine della vita del minore, anche alla luce di quanto previsto oggi dalla nostra legge.
2. Il trattamento dei minori nell’ambito della legge n. 219/2017: gli aspetti giuridici e le problematiche cliniche Il testo del 2° comma art. 3 della legge n. 219/2017 (consenso informato e DAT) si ricollega al tema della responsabilità genitoriale che sostituisce con la legge n. 219/20125 la cosiddetta potestà genitoriale, facendo riferimento da un lato all’esercente la responsabilità genitoriale (ERG), dall’altro ai
Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri n. 80 – 24.4.2018. Conferimento della cittadinanza italiana, consultabile all’indirizzo: www.bit.ly.
3
Legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento).
4
Legge 10 dicembre 2012, n. 219 (Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali).
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temi del consenso/dissenso ai trattamenti e del miglior interesse del minore. Il comma in questione recita: “Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dall’ERG o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità”. Il rispetto della dignità del minore da parte dell’ERG non deve essere qui dunque inteso soltanto nel senso più ampio e generale del rispetto che compete alla persona in quanto portatrice dell’attributo primo e irrinunciabile di facente parte della comunità umana, ma deve concretizzarsi nella complessiva qualità della vita che gli è dovuta anche in termini di qualità delle cure garantite in caso di malattia così come sottolineato nell’art. 2 comma 1° della Carta di Nizza: “Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica” e nell’art. 3 del Codice di Deontologia Medica (CDM): “Doveri del medico sono la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona …”. È importante tuttavia notare che, a fronte del rispetto della dignità in termini di “tutela della salute psicofisica e della vita” del minore, vi è anche un rispetto della sua dignità di morente se egli è destinato a morire. A questo proposito è rilevante quanto contenuto nel 2° comma dell’art. 2 della legge n. 219/2017: “Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente [o dell’ERG nel caso del minore – n.d.r.]”. Così oggi, quando il team curante matura scientificamente il convincimento dell’irreversibilità del processo di morte, anche attraverso la sperimentazione dell’inutilità dei trattamenti, ha prima di tutto un obbligo di legge a evitare le cure spro-
Il trattamento dei minori nella legge n. 219/2017
porzionate, che trova corrispondenza nel dovere deontologico di “non intraprendere né insistere in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati” (art. 16 CDM). Nella speciale condizione dell’imminenza della morte di un minore è dunque il sapere esperto dei medici che rappresenta il riferimento necessario all’ERG per comprendere quanto possa essere più dignitosa per il morente la limitazione dei trattamenti invece di un’ostinazione tanto inutile quanto umiliante, quando non anche dolorosa. È importante sottolineare allora che le competenze dei clinici e le relative decisioni di interrompere/non avviare i trattamenti vitali devono costituire il punto fermo dal quale far partire il processo decisionale che dovrà portare alla condivisione delle scelte da parte di tutti gli attori6. È del tutto evidente che tale condivisione, per potersi realizzare, richiede ai professionisti sanitari coinvolti, da un lato l’attitudine a riconoscere pienamente la complessità e la vulnerabilità della condizione psicologica dell’ERG, dall’altro la capacità di tenere in massima considerazione la sua figura nell’ambito di una relazione di cura centrata sul piccolo paziente e basata su un’adeguata comunicazione. La posizione dell’ERG è spesso caratterizzata, soprattutto nel caso di un minore morente, da ansia e depressione che possono aggravarsi se le informazioni risultano incoerenti e contraddittorie7. Peraltro, quando le informazioni sono fornite in condizioni di stress, ansia e confusione, ottengono l’effetto paradosso di ridurre la capacità di comprendere la complessità delle situazioni, causando una continua tensione tra bisogni informativi ed emotivi8.
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Così, l’ERG rischia frequentemente di non comprendere appieno le spiegazioni dei medici, soprattutto per quanto riguarda le opzioni di trattamento e la prognosi9, pur rimanendo il decisore finale che porta da solo il peso di dover fare a tutti i costi la cosa giusta per il paziente10. Un’adeguata capacità di comunicazione rappresenta quindi il principale strumento utile ad alleviare lo stress dell’ERG, ponendolo nella miglior condizione possibile per svolgere il ruolo che la legge 219 gli assegna, come peraltro definito anche nel comma 8° dell’art. 1: “Il tempo della comunicazione tra il medico e il paziente [o l’ERG nel caso del minore – n.d.r.] costituisce tempo di cura”. In un contesto decisionale così complicato può essere del tutto comprensibile che l’ERG chieda ai medici di proseguire trattamenti ormai evidentemente inappropriati dal punto di vista clinico e sproporzionati in termini etici; spetta allora proprio ai medici, come definito nel già richiamato art. 3 del CDM, tutelare la dignità della persona. In termini giuridici e deontologici la posizione dei clinici è rafforzata oggi dai già citati commi 2° art. 2, e 2° art. 3 e dalla seconda parte del comma 6° art. 1: “... Il paziente [ma anche l’ERG nel caso del minore – n.d.r.] non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”. Quest’ultimo richiamo alla non obbligatorietà dell’atto medico a fronte di una richiesta contraria alla legge o alla deontologia trova un utile richiamo nell’art. 22 del CDM: “Il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici …”.
Curtis - White, Practical Guidance for Evidence-Based TI Family Conferences 2008 (4) Chest, 835 ss.
6
Pochard et al., French FAMIREA Group: Symptoms of anxiety and depression in family members of intensive care unit patients: ethical hypothesis regarding decision-making capacity 2001 (29) Critical care med., 1893 ss.
7
Jones et al., Post-traumatic stress disorder-related symptoms in relatives of patients following intensive care 2004 (30) Intensive care med., 456 ss.
8
9 Azoulay et al., Half the family members of intensive care unit patients do not want to share in the decision-making process: a study in 78 French intensive care units 2004 (32) Critical care med., 1832 ss. 10 Kuniavsky et al., Attitudes of Legal Guardians in the ICU – A qualitative report 2014 (7) Intensive critical care nurs., 86 ss.
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Nei casi d’inconciliabilità tra il parere dei clinici e quello dell’ERG la legge 219/2017 prevede il ricorso al giudice tutelare (comma 5° art. 4).
3. Conclusioni Queste considerazioni non hanno la pretesa di affrontare il difficile tema dell’approccio al minore nella speciale condizione della prossimità della morte con un taglio giuridico del tutto teorico. Al contrario, si è cercato in questo articolo di fornire ai professionisti sanitari che si impegnano nella cura dei minori una serie di riferimenti utili a sostenere la complessità della gestione clinica dei piccoli pazienti e le difficoltà, talvolta insormontabili, dei loro genitori, indicando possibili scelte di comportamento che trovano oggi una cornice giuridica nella legge n. 219/2017. Una legge non può risolvere la complessità della malattia, né può alleviare il dolore di un genitore per la morte del proprio figlio; come sostenuto da Paolo Zatti può però “introdurre un senso della misura: delle cure, dell’informazione nel rapporto tra i diversi interlocutori, nella ricerca del consenso e nel contributo dei diversi protagonisti alla decisione, ma anche nel rapporto con le esigenze di tutela e di certezza che il diritto pone alla medicina. È proprio in questa logica più ampia che va cercato il senso della relazione tra medicina e diritto, e insieme, il criterio di soluzione di alcuni problemi che angustiano e deformano quella relazione, in particolare nelle situazioni più dolorose e aspre che tutti conosciamo”11.
11 Zatti, Diritto e Medicina in Dialogo: Il Logos della Proporzione, in Persona & Danno, consultabile all’indirizzo: www. personaedanno.it.
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Saggi e pareri
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Prendere sul serio il problema della “capacità” del paziente dopo la l. n. 219/2017
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Mariassunta Piccinni
Ricercatrice nell’Università di Padova Sommario: 1. Una premessa. – 2. Testi e contesti nella l. n. 219/2017. – 3. Segue: le regole sulla capacità nella l. n. 219/2017. – 4. Dall’incapacità di agire alle misure di protezione giuridica: verso un glossario condiviso. – 5. Segue: categorie ed istituti tradizionali. – 6. Segue: categorie ed istituti emergenti. – 7. Potenzialità interpretative della l. n. 219/2017: oltre il riduzionismo incapacitante. – 8. Una questione urgente per un dialogo costruttivo tra diritto e medicina.
Abstract: Il contributo individua le regole sulla capacità nell’ambito della l. n. 219/2017 in materia di consenso informato e DAT, con l’obiettivo di facilitare un dialogo costruttivo tra professionisti sanitari e giuristi impegnati nell’attuazione dei precetti normativi. L’a., proposto una sorta di glossario sulle categorie giuridiche retrostanti, sostiene la tesi per cui sia possibile un’interpretazione della l. n. 219 che dia risposte adeguate al problema della capacità per le decisioni sulla propria salute. La questione individuata come cruciale è quella dei criteri di accertamento della capacità decisionale del paziente. This paper identifies the rules of legal capacity within the Law n. 219/2017 on informed consent and advance directives. The aim is to facilitate a constructive dialogue between health-care and legal practitioners involved in the implementation of the Law. The author proposes a glossary of the legal categories behind the concept of capacity to consent to medical treatments and she supports the thesis that it is possible to interpret the Law n. 219 in order to give adequate answers to the questions at stake. The main issue becomes to determine the criteria for assessing the patient’s decision-making capacity.
1. Una premessa Da diversi lustri nella letteratura internazionale e nel dibattito interno si evidenziano le criticità delle tradizionali categorie giuridiche attinenti alla “capacità” delle persone1. Il dibattito si è rinverdito con l’entrata in vigore della Conv. Onu sui diritti delle persone con disabilità. Ne è prova la difficile gestazione dell’art. 12 sull’“Equal recognition before the law”2. Il lin-
V. sul punto in diverse prospettive già Stanzione, voce «Capacità, I) diritto privato», in Enc. giur. Treccani, V, Roma, 1988; Busnelli, Capacità in genere, in Lezioni di diritto civile. Corso di aggiornamento. Università di Camerino, Napoli, 1990, 87 ss. (ora in Id., Persona e famiglia. Scritti di Francesco D. Busnelli, Pisa, 2017, 205 ss.); Venchiarutti, voce «Incapaci», nel Digesto VI ed., Disc. priv., sez. civ., IX, Torino, 1993, 367 ss. e Id., voce «Incapaci in diritto comparato», ivi, 384 ss. Per una recente ricognizione dell’evoluzione culturale e della dottrina civilistica: I. Fanlo Cortès, Bambini e diritti. Una relazione problematica, Torino, 2008, spec. 30 ss. 1
2 V. sul punto ex multis: Seoane, ¿Qué es una persona con discapacidad?, in Ágorà, 2011, 143 ss.; Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights, Legal capacity: Background conference document, Sixth Session of the Ad Hoc Committee on a Comprehensive and Integral International Convention on Protection and Promotion of the Rights and Dignity of Persons with Disabilities, 1-12 agosto 2005, in
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guaggio, frutto di un compromesso tra diverse tradizioni giuridiche e divergenti linee di pensiero, è confondente, a quanto pare non solo per il lettore italiano; è, in particolare, dubbio se il termine generico “legal capacity” si riferisca (sempre o talvolta) a quella che nel nostro ordinamento definiamo come “capacità giuridica” o come “capacità di agire”3; così, non è chiaro cosa comporti per gli Stati Parti l’obbligo di riconoscere alle persone con disabilità il godimento della “legal capacity on an equal basis with others” in tutti gli aspetti della vita (art. 12, comma 2°) e di adottare le misure appropriate a garantire l’accesso al supporto di cui potrebbero aver bisogno nell’esercizio della stessa (art. 12, comma 3°). Di qui le polemiche sul modo in cui debbano essere interpretate le misure limitative della capacità legale di agire e sulla possibilità, prevista in tutti gli ordinamenti, di sostituire la persona con disabilità nell’attività giuridica, laddove questa non sia in grado di provvedere per sé4.
http://www.un.org; Dhanda, Legal capacity in the disability rights Convention: stranglehold of the past or lodestar for the future?, in Syracuse J. Int’l L. & Com., vol. 34, 2007, 429 ss.; Hoefmans- de Beco, The UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities: an Integral and Integrated Approach to the Implementation of Disability Rights, Background document prepared for the international conference ‘Work Forum for the Implementation of the UN Convention on the Rights of People with Disabilities’, 18-19 November 2010, Belgian Presidency of the Council of the European Union, Brussels, 14 ss. Per il lettore non giurista, si ricorda la rilevante differenza: per “capacità giuridica” si intende la generale attitudine di ogni persona fisica ad essere titolare di diritti e doveri; attitudine che si acquisisce con la nascita (art. 1 c.c.) e si perde con la morte; la capacità di agire (art. 2 c.c.) può, viceversa, essere definita come l’idoneità a partecipare all’attività giuridica, ponendo in essere atti idonei a modificare stabilmente la propria sfera giuridica. È su questo problema che ci si concentra nel presente contributo.
3
Sulla discussione suscitata dal General comment on Article 12: Equal recognition before the law, Draft predisposto dal Committee on the Rights of Persons with Disabilities, nella undicesima Sessione del 30 marzo-11 aprile 2014 (CRPD/C/11/4), v. il chiaro Editoriale di Dute, Should Substituted Decision-making Be Abolished?, in European Journal of Health Law, 22, 2015, 315 ss.; quanto alle polemiche sull’istituto dell’amministrazione di sostegno, rispetto al quale sono stati mossi alcuni rilievi al nostro Paese in sede di Rapporto sull’applicazione della Convenzione Onu, v. Cendon, L’amministrazione di sostegno non va abrogata, va applicata,
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Il problema è stato affrontato anche con specifico riguardo alla capacità richiesta per le scelte mediche5. In particolare, si è diffusa anche presso la nostra dottrina la tesi secondo la quale, almeno quanto al minore di età, il riferimento non dovrebbe essere alla categoria generale della capacità legale di agire, ma alla capacità di discernimento, da accertarsi caso per caso6. Si sono sottolineate in altra sede7 le difficoltà tecniche di questa tesi, dovute all’utilizzo di categorie e strumenti non sempre adeguati, e le difficoltà pratiche, legate alla necessità di “inventare”8 soluzioni che ade-
in www.personaedanno.it; per un’esemplificazione pratica, paradigmatica rispetto ai limiti del ragionamento “binario” (“servono sempre” vs. “non servono mai”) sui meccanismi di sostituzione della persona con disabilità, si vedano due casi di recente risolti dal Trib. Vercelli con decr. 8.3.2018 e decr. 31.5.2018, entrambi in Ilcaso.it. Per una ricognizione delle relative questioni sia nel nostro ordinamento che nel contesto internazionale, v. per tutti Salvaterra, Capacità e competence, nel Trattato di Biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, 3, I diritti in medicina, a cura di Lenti, Palermo Fabris, Zatti, Milano, 2011, 341 ss. Sottolinea come il problema della capacità alle scelte mediche sia paradigmatico rispetto alla più generale questione della capacità del minore già La Rosa, Tutela dei minori e contesti familiari: contributo allo studio per uno statuto dei diritti dei minori, Milano, 2005, 193. 5
V., pur in diverse prospettive, già Stanzione, Capacità e minore età nella problematica della persona umana, Napoli, 1975; Busnelli e Giardina, La protezione del minore nel diritto di famiglia italiano, in Giur. it., 1980, IV, 196 ss.; Busnelli, Capacità ed incapacità di agire del minore, in Dir. fam. e pers., 1982, 54 ss.; Giardina, La condizione giuridica del minore, Napoli, 1984. Contra con chiarezza e per tutti: Lenti, Il consenso informato ai trattamenti sanitari per i minorenni, nel Trattato di biodiritto, cit., 3, I diritti in medicina, cit., 417 s. Non sono mancate le conseguenti pur prudenti interpretazioni giurisprudenziali. Sull’idea di “autodeterminazione in senso debole del minore” v. Turri, Autodeterminazione, trattamenti sanitari e minorenni, in Questione giust., fasc.6, 2000, ed il disegno di legge S. 4983/2001, della XIII legislatura. 6
7 Rinvio a Piccinni, Il consenso al trattamento medico del minore, Padova, 2007, passim, e spec. 110 ss. e, più di recente ed in prospettiva più ampia, Ead., I minori di età, in Mazzoni - Piccinni, La persona fisica, nel Trattato Iudica-Zatti, Milano, 2016, 397 ss. e spec. 465 ss. per approfondimenti bibliografici.
Uso il termine inventare nel senso di “rinvenire”, nell’accezione da ult. valorizzata da P. Grossi (del quale v., ad esempio, Ritorno al diritto, Bari-Roma, 2015 e L’invenzione del diritto, Bari-Roma, 2017).
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Il problema della “capacità” dopo la l. n. 219/2017
guatamente bilancino le esigenze di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia e quelle di promozione delle loro (anche solo parziali) capacità, insieme alla tutela dell’affidamento dei soggetti a vario titolo chiamati a cooperare nell’attività e nei rapporti giuridici. Di fronte al gran fermento di dottrina e giurisprudenza, il legislatore del 2017 sembra non aver colto le opportunità di rinnovamento. La l. n. 219/2017 continua ad utilizzare, infatti, le tradizionali categorie generali ed astratte – come quella della “capacità di agire” e della “(in)capacità di intendere e di volere” – giustapponendole a quelle di più recente emersione, per loro essenza collegate alle specificità dei casi – dalla “capacità di discernimento” o “di autodeterminazione”, alle “capacità [al plurale] di comprensione e di decisione” –, senza preoccuparsi di coordinarle in una rinnovata visione di insieme9. Ciò crea nel lettore, di primo acchito, confusione e disappunto10.
Tra le diverse soluzioni proposte de iure condendo, che sono passate al vaglio del Parlamento, si richiama la soluzione individuata nel disegno di legge Manconi (S.13-XVII legisl.) che recepiva la Prova di testo normativo sulla relazione di cura, Principi, consenso, urgenza medica, rifiuto e interruzione di cure, dichiarazioni anticipate, pubblicato tra l’altro in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 1 ss., con introduzione di Zatti, Per un diritto gentile in medicina. Una proposta di idee in forma normativa. Il problema della capacità veniva affrontato in modo articolato agli artt. 7-10 che si occupavano dei diritti della persona minore di età e di quella legalmente incapace o non pienamente in grado di autodeterminarsi (art. 7); dei poteri-doveri dei genitori o degli adulti altrimenti responsabili per il minore (art. 8); dei poteri-doveri dei rappresentanti legali o volontari o della persona di fatto vicina al malato nel caso di persona adulta non in grado (o non pienamente in grado) di autodeterminarsi, in assenza di programmazione anticipata di cure o di DAT (art. 9); si prevedeva, infine, il ricorso all’autorità giudiziaria per il caso in cui dalle scelte potesse derivare un serio pregiudizio per il minore o per la persona non pienamente in grado di autodeterminarsi e vi fosse disaccordo tra i soggetti partecipanti alla decisione medica (art. 10). 9
V., ad esempio, sul punto le posizioni dell’Associazione Italiana Psicogeriatria (A.I.P.), Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, a cura di Asioli et al., in Psicogeriatria, 2017, 67 ss., e La pianificazione condivisa della cura e l’autodeterminazione della persona anziana affetta da patologie psicogeriatriche, a cura di F. Cembrani et al., 7.7.2018, in www.quotidianosanita.it; nonché il contributo di Cembrani et al., Capacità ed incapa10
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Si deve esplicitare, per chiarezza, la contrarietà di chi scrive ad operazioni che, de iure condendo, finiscano per “buttare il bambino insieme all’acqua sporca”. Non è, certo, più accettabile, nei sistemi giuridici contemporanei ed anche nel nostro, una concezione giuridica della incapacità legale di agire come status generale, volto a separare ed escludere dal traffico giuridico la persona, sia questa maggiore o minore di età; d’altronde, non mi pare auspicabile, come cercherò di dimostrare anche in questa sede, neppure una rinuncia agli istituti giuridici della “capacità di agire”, “(in)capacità legale” e della “(in)capacità naturale”, intesi come strumenti pensati, perfezionati ed utilizzati per semplificare la vita giuridica dei consociati, destinatari delle norme. Quel che non è più rimandabile è una loro rivisitazione, nel senso di integrazione con i più elastici strumenti della “capacità di discernimento” e della valorizzazione delle capacità emergenti o residuali dei pazienti. Il presente contributo muove da una sommaria ricognizione degli obiettivi fissati, degli scenari contemplati e degli strumenti delineati nella l. n. 219/2017: se ne sottolineano alcuni punti di forza e criticità (par. 2), e si mettono in particolare evidenza le regole sulla capacità (par. 3). Si propone, quindi, una sorta di glossario ragionato, che ambisce ad essere condivisibile per i giuristi ed accessibile anche ai professionisti sanitari, attraverso cui agevolare la comprensione delle regole sulla capacità rispetto alle decisioni che riguardano la salute (parr. 4-6). Il ragionamento procede con la dimostrazione della tesi secondo la quale è possibile ed auspicabile un’interpretazione della legge che sia coerente con il sistema normativo emergente e fornisca risposte adeguate al problema della capacità per le decisioni sulla propria salute (par. 7). La questione su cui è più urgente un dialogo costruttivo tra diritto e medicina risulta, in definitiva, essere quella dei criteri di accertamento delle capacità decisionali del paziente (par. 8).
cità al banco di prova della nuova legge sul biotestamento: i tempi della vita nel traffico di un diritto (sempre meno) gentile, in questo fascicolo 235.
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2. Testi e contesti nella l. n. 219/2017 La l. n. 219/2017 è senz’altro apprezzabile per diverse ragioni, che sono state prontamente rilevate in dottrina11. In estrema sintesi, si possono, anzitutto, rilevare con chiarezza i principi di riferimento della relazione di cura: questi valgono, e non potrebbe essere diversamente, sia per la persona in grado che per quella non in grado di autodeterminarsi (v., in particolare, l’art. 1, commi 1°-2° e 8°-10°, e l’art. 3, comma 1°). Il richiamo congiunto ai principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost., insieme agli artt. 1, 2 e 3 della Carta dir. fondamentali UE, ancor prima dell’elenco di “diritti” come “il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione” portano agevolmente l’interprete al centro di quello che è stato definito il nuovo habeas corpus. Si intende, in breve, riferirsi all’assunto per cui le scelte sulla salute, in quanto funzionali allo svolgimento della personalità dell’interessato (art. 2 Cost) devono allo stesso tempo essere fondate sui e tese al rispetto dei valori della libertà (art. 13 Cost.) e della dignità del paziente (art. 32 Cost.)12. Il legislatore individua pure con precisione i soggetti della “relazione di cura e fiducia”. Paziente e medico non sono considerati come individui isolati, ma, fin dall’art. 1, fanno la loro comparsa, insieme al professionista responsabile della relazione di cura, l’«équipe sanitaria», e, accanto al paziente, i soggetti che egli desidera coinvolgere nella relazione: dai «familiari», cui sono equiparati «la parte dell’unione civile o il convivente», alla «persona di fiducia» liberamente scelta dal paziente medesimo. Né il legislatore trascura i soggetti istituzionali13. L’art. 1, comma 9°, opportunamente pone in capo
Per tutti Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 247 ss.
11
12 Per un approfondimento della prospettiva, oltre che dei riferimenti normativi, giurisprudenziali e dottrinali, si rinvia a Piccinni, Biodiritto tra regole e principi. Uno sguardo “critico” sulla l. n. 219/2017 in dialogo con Stefano Rodotà, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2018, fasc. 1, spec. 137 ss. 13
Ciò è essenziale dal momento che il contesto di riferi-
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ad ogni struttura sanitaria, pubblica o privata, l’obbligo di adottare adeguate modalità organizzative volte a garantire la piena e corretta attuazione dei principi richiamati dalla legge; in modo a ciò strumentale, richiede un’“adeguata formazione” per tutto il personale14 e l’“informazione necessaria” per i pazienti; infine, il Ministero della Salute, le regioni e le aziende sanitarie – ovvero tutte le amministrazioni responsabili dell’erogazione del servizio sanitario – hanno il compito di informare i cittadini sulla possibilità di redigere disposizioni anticipate di trattamento o, in caso di patologia in corso, di procedere alla pianificazione condivisa delle cure (art. 4, comma 8° e 5, comma 5°). Il testo normativo, ancora, rifugge da una costruzione eccessivamente astratta della relazione di cura, che viene, invece, colta in diversi scenari in cui la stessa si svolge. Già nella rubrica della legge (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) sono richiamati in via riassuntiva i due poli più distanti: quello del «consenso» espresso dal paziente consapevole, adeguatamente «informato» sulle sue attuali condizioni di salute e sulle possibilità terapeutiche (la cui disciplina è contenuta soprattutto all’art. 1) e quello delle volontà da “ricostruire” con la necessaria mediazione di interpreti (medico curante insieme all’eventuale fiduciario o all’amministratore di sostegno) quando il paziente, or-
mento è, nei fatti, diverso da quello prefigurato all’art. 1, comma 2°: il paziente, almeno quando si rivolge al servizio pubblico, non entra in contatto con un singolo professionista o con un’unica équipe, ma i percorsi di cura sono spesso complessi, continuativi e frammentati. V. sul punto Gorassini, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento nella dimensione della c.d. vulnerabilità esistenziale, in corso di pubblicazione in Annali SISDIC. 14 In proposito, il comma 10° dell’art. 1 specifica che “[l]a formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative”. Ciò si riferisce a tutti i medici ed a tutto il personale sanitario. Sull’importanza di una formazione diffusa, e non solo specialistica, che prenda le mosse dal percorso di studi universitari, v. Spinsanti, Morire in braccio alle Grazie, La cura giusta nell’ultimo tratto di strada, Roma, 2017, 54 ss.
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mai muto, abbia lasciato le proprie «disposizioni anticipate di trattamento». Compaiono, poi, altri contesti, che richiedono strumenti adeguatamente differenziati: dalle cure di persona capace di interagire con il personale sanitario nella fase finale della vita, per le quali si disciplina, in particolare, il problema della divergenza di visione con il medico, e specialmente il tema del rifiuto di cure (art. 1, comma 5°), alle situazioni di “emergenza ed urgenza”, in cui si rendono necessarie decisioni rapide per far fronte a condizioni non previste (art. 1, comma 7°), alle “patologie croniche e invalidanti o caratterizzate da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta”, in cui è auspicabile una programmazione protratta nel tempo (dalla pianificazione condivisa delle cure, di cui all’art. 5: allo stesso “programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia” garantito dalla l. n. 38/2010, richiamata dall’art. 2 della l. n. 219/2017, nell’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore appropriate). Il legislatore ricorda, ancora, la possibilità che, per determinati atti o trattamenti, sia richiesta una regolamentazione speciale (art. 1, comma 11°): si pensi ad esempio, alla disciplina dei trapianti d’organo, ai trattamenti sanitari obbligatori, all’interruzione volontaria della gravidanza o all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, alle trasfusioni di sangue, alla sperimentazione clinica dei farmaci e dei dispositivi medici. Infine, l’art. 3 contempla il caso di cure rivolte a “minori e incapaci”, secondo l’infelice formulazione della rubrica. Veniamo, dunque, alle criticità della legge. Dalla lettura della stessa emerge che la configurazione delle situazioni soggettive nei diversi frangenti di cura non è molto lineare15. L’art. 4 sulle disposizioni anticipate di trattamento è laconico rispetto ai poteri attribuibili al fiduciario ed alla relazione intercorrente tra disposizioni anticipate ed indicazione fiduciaria; la figura qui prevista non
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è coordinata con quella della persona di fiducia di cui all’art. 1; nulla si dice, ancora, rispetto alle possibilità di controllo dell’operato del fiduciario, né sono dettate norme adeguate di coordinamento con l’istituto dell’amministrazione di sostegno, salvo che per l’ipotesi indicata all’art. 4, comma 4°; rilevanti dubbi riguardano i requisiti legati alla capacità e alla consapevolezza richieste al disponente dal comma 1°; il comma 5° prevede una inutile moltiplicazione delle ipotesi – “palese incongruità”, “non corrispondenza alla condizione clinica attuale”, sussistenza di “terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita” – che legittimano il medico a “disattendere” le DAT16. Le questioni ora indicate possono complicarsi rispetto alla pianificazione condivisa di cure per i problemi non espressamente regolati. La stessa, infatti, presuppone un rapporto “bifasico”, che inizia con un paziente capace di interagire direttamente con il personale sanitario, ed è destinata ad evolvere nel momento in cui il paziente perde tale possibilità. Macchinose sono, più in generale, le regole concernenti le forme da utilizzare per esprimere, documentare e rendere pubbliche le proprie manifestazioni di volontà. Quanto al personale sanitario non è prevista l’obiezione di coscienza, ma ne è particolarmente enfatizzata l’autonomia professionale (v. art. art. 1, comma 6°), con possibili difficoltà organizzative o interpretazioni eversive nel caso di conflitto di visioni tra paziente (o suo “portavoce”) e curante.
Opportunamente Delle Monache, La nuova disciplina sul “testamento biologico” e sul consenso ai trattamenti medici, in Il diritto sulla vita. Testamento biologico, autodeterminazione e dignità della persona, a cura di V. Verduci, Pisa, 2018, 55, considera le diverse situazioni tipizzate come specificazioni del concetto generale della “palese incongruità”. Per alcune possibili derive interpretative v. però, ad esempio, con chiarezza Rodriguez, Dat a rischio? Sì, ma c’è una soluzione, in quotidianosanita.it, 3 agosto 2018. 16
15 V., ad esempio, le letture di Carusi, Ippocrate e la polis. Note in margine al disegno di legge 2801 detto “sul testamento biologico”, in Annali SISDIC, 2017, 219 ss. e Id., La legge “sul biotestamento”: una luce e molte ombre, in Corr. giur., 2018, 293 ss. e di Gorassini, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, cit.
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3. Segue: le regole sulla capacità nella l. n. 219/2017 Il punto maggiormente dolente della legge è però proprio quello concernente le regole sulla capacità. Da questa prospettiva emerge molto chiaramente un certo strabismo del legislatore, probabilmente condizionato dal fatto che il tema al centro del dibattito parlamentare è stato quello delle scelte di cura alla fine vita, con particolare attenzione al diritto al rifiuto17. Rispetto a questo scenario ci si è preoccupati, mi pare in maniera nel complesso adeguata, di garantire che le cure (ordinarie, intensive, palliative, in un’ottica possibilmente “integrata”) siano, oltre che appropriate, rispettose dell’autodeterminazione esercitata dal paziente compus sui nel corso della relazione di cura (artt. 1 e 5) o in vista di ipotetiche scelte future (art. 4), anche quando il paziente rifiuti “trattamenti necessari alla propria sopravvivenza”. La situazione è certo importante, anche sul piano simbolico, per il riconoscimento di un rinnovato paradigma nel rapporto medico-paziente18. L’angolo visuale privilegiato nella gestazione della legge e la difficoltà di affrontare in modo altrettanto netto l’altra questione eticamente e politicamente sensibile – quella delle scelte di fine vita per la persona incapace di autodeterminarsi – ha portato, però, ad una configurazione complessivamente insoddisfacente delle regole di capacità. La disciplina organica riguarda solo i “minori” e gli adulti sottoposti a misure limitative della capacità legale di agire (art. 3), mentre il problema della capacità/incapacità di fatto di prendere decisioni sulla propria salute riceve un’attenzione solo incidentale. In particolare, non trova rispo-
V. per tutti Carusi, Ippocrate e la polis, cit., 219 ss. e Id., La legge “sul biotestamento”, cit., 293 ss. 17
V. sul punto per tutti Borsellino, La sfida di una buona legge in materia di consenso informato e di volontà anticipate sulle cure, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2016, fasc. 3, 93 ss. Per le più ampie ripercussioni culturali ed operative sulla pratica clinica v. ad esempio Orsi, Un cambiamento radicale nella relazione di cura, quasi una rivoluzione (articolo 1, commi 2 e 3), ivi, 2018, fasc. 1, 25 ss. e Zamperetti - Giannini, La formazione del personale sanitario (commento all’articolo 1, commi 9 e 10), ibidem, 36 ss. 18
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sta adeguata una questione, quantitativamente e qualitativamente importante in molti contesti clinici: quella delle scelte che ricadano sulla persona che, pur non destinataria di misure di protezione organizzata (ufficio genitoriale per il minore di età; tutela; provvedimento di amministrazione di sostegno con previsione di poteri-doveri di cura della persona in ambito sanitario; curatela, a voler attribuire un significato all’art. 3, comma 5°, cod. civ.), né provvista di un fiduciario previamente indicato (v. artt. 1, commi 2° e 3° e 5°; 4, commi 1°-2°), sia di fatto non in grado (o non totalmente in grado) di decidere per sé. In effetti, il problema della capacità fa la sua comparsa al comma 5° dell’art. 1 rispetto, per l’appunto, al riconoscimento del diritto di rifiutare le cure. È evidente che un problema di capacità si pone anche per il consenso in positivo e, possibilmente, dovrebbe trattarsi dello stesso criterio19. In proposito, si deve rilevare che l’attuale dizione del comma 5° - che nella versione vigente fa riferimento alla “persona capace di agire” – è comparsa solo nell’ultima stesura20, senza essere stata coordinata con l’art. 4, comma 1° - che quanto alle
19 V. già e per tutti Nannini, Il consenso al trattamento medico, Milano, 1989, passim, e spec. 146 ss. e 266, il quale prospetta, piuttosto, una differenza nelle modalità di accertamento della capacità e della consapevolezza del paziente in relazione alle possibili conseguenze dell’intervento (o non intervento) rispetto al paziente, indipendentemente dalla distinzione tra consenso e rifiuto, differenza che rileverebbe, semmai, in relazione alla rilevanza di altre condizioni oggettive, come lo stato di necessità medica. Propone una differenziazione dei requisiti, ma nel senso di una maggiore restrittività quanto al rifiuto, Morozzo Della Rocca, Capacità di volere e rifiuto di cure, in Eur. e dir. priv., 2014, 387 ss. 20 Tanto nella prima versione licenziata dal Comitato ristretto della Commissione Affari Sociali della Camera (pres. M. Marazzati; rel.: D. Lenzi; testo approvato il 7.12.2016) come «testo base» per la prosecuzione dei lavori, quanto nella seconda versione consegnata alla Camera per i lavori plenari del 2.3.2017, l’art. 1, comma 5° faceva, infatti, riferimento ad “[o]gni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere”, con formulazione simmetrica rispetto a quella utilizzata all’allora art. 3 (ora art. 4) sulle disposizioni anticipate di trattamento. Il riferimento alla “capacità di agire” è comparso solo nell’ultimo testo discusso alla Camera, approvato il 20.4.2017 ed, infine, votato dal Senato, a seguito della rinuncia alla discussione, il 14.12.2017, al termine della XVII legislatura.
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DAT richiama, invece, la persona “maggiorenne” e “capace di intendere e di volere”. A prima vista sembrerebbe, dunque, che la legge introduca un criterio più restrittivo di capacità, ma il condizionale è qui d’obbligo, come si spiegherà meglio al par. 7. Nulla si dispone rispetto alla capacità richiesta per avviare una pianificazione condivisa di cure ex art. 5, con il già richiamato problema di coordinare le diverse regole di capacità previste per la prestazione di consenso/dissenso attuale alle cure e per le indicazioni destinate a valere pro futuro. D’altronde, il testo normativo contiene un riferimento alla capacità al diverso fine di indicare il momento in cui sorge l’obbligo, per il medico e l’équipe sanitaria, di attenersi alle decisioni programmate. È interessante notare, in proposito, che la “condizione di non poter esprimere il proprio consenso” è avvicinata a quella in cui il paziente si trovi in “una condizione di incapacità” (da leggersi, in coerenza con l’art. 4, comma 1°, come “di autodeterminarsi”). Emerge con chiarezza, al di là dei termini prescelti, che con questo strumento si vogliono regolare le situazioni in cui il paziente, dapprima in grado di interloquire direttamente con il personale curante, non lo sia più. Il problema dell’incapacità di fatto è affrontato, come già rammentato, solo in via indiretta ed attraverso altre lenti, importanti, ma che possono risultare deformanti, ove utilizzate al di là del contesto per le quali sono state pensate: mi riferisco, in particolare, alle ipotesi descritte dall’art. 1, comma 7°, ed al riconoscimento di diritti di cui all’art. 3, comma 1°. Quanto alla prima disposizione è evidente che, nelle situazioni di emergenza o di urgenza, il paziente sarà solo in casi rari in grado di interagire con il personale sanitario e così, di regola, non vi sarà un rappresentante (formalmente titolato, o di fatto), che possa essere coinvolto con prontezza nelle scelte. È, dunque, coerente con una adeguata tutela degli interessi del paziente la previsione del potere-dovere dei curanti di intervenire, assicurando le cure necessarie anche al paziente in stato di incapacità di fatto, ed indipendentemente da oneri investigativi di eventuali residue capacità o di previe indicazioni che limitino l’efficacia e la tempestività dell’intervento medico (questo il
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chiaro significato dell’inciso “nel rispetto della volontà del paziente, ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla”). Anche le situazioni di urgenza ed emergenza, però, sono marginali in molti contesti clinici21 e non pare, dunque, corretto estenderne la disciplina a tutti i casi in cui sia necessario assumere decisioni per una persona in stato di incapacità di fatto22. L’altra disposizione in cui si può rinvenire una disciplina riferibile (anche) alla persona non in grado di prendere decisioni sulla propria salute è il comma 1° dell’art. 3. All’art. 3 il legislatore affronta, come già ricordato, il problema delle scelte che riguardino minori ed “incapaci”. L’ottica complessiva sembra quella, ormai superata e dunque insufficiente, dello status di generale incapacità e della conseguente sostituzione nell’attività giuridica. Regole specifiche sono individuate solo per i minori (art. 3, commi 2° e 5°) e per le persone maggiorenni provviste di una misura di protezione organizzata (art. 3, commi 3°-5°). Nel succedersi delle diverse stesure23, peraltro, è comparso un significativo comma 1°, che contiene i principi di riferimento nelle decisioni che riguardano “la persona minore di età o incapace” e che non posso-
Per una più generale riflessione sulla necessità di programmare per quanto possibile le cure riducendo l’area dell’urgenza solo a quanto davvero non prevedibile, e per una conseguente riconfigurazione delle medicina e dei dipartimenti di emergenza stessi, v. il “Documento condiviso” per una pianificazione delle scelte di cura, Grandi insufficienze d’organo “end stage”: cure intensive o cure palliative?, promosso dalla Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (S.I.A.A.R.T.I.), ed approvato nel corso del 2013 da 9 società scientifiche, reperibile in www.siarrti.it e l’intervento di Aprà, Decidere per/con il malato nel dipartimento d’emergenza, nell’ambito del Convegno Per un diritto gentile alla fine della vita, svoltosi a Padova il 25.10.2013, per la cui documentazione v. https://undirittogentile.files. wordpress.com/2013/11/f-apra.pdf. 21
22 Mi pare muoversi in questo senso, ad esempio, la prassi del G. T. Modena, per la quale v. ad esempio Trib. Modena, decr. 18.1.2018, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, fasc. 9, in corso di pubblicazione, con nota di Rotelli - Tessera, Amministrazione di sostegno e urgenza terapeutica: oltre il consenso informato.
V. sul punto Piccinni, Decidere per il paziente: rappresentanza e cura della persona dopo la l. n. 219/2017, commento a Trib. Pavia, ord. 24.3.2018, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1122 s. 23
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no non essere riferiti (per interpretazione estensiva, o, eventualmente, analogica) anche a chi, pur non limitato nella propria capacità legale, sia in una condizione di incapacità di fatto. È da questa disposizione che conviene partire per avviare la parte “propositiva” di questo contributo.
4. Dall’incapacità di agire alle misure di protezione giuridica: verso un glossario condiviso L’art. 3, comma 1°, così dispone: “La persona minore di età o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione, nel rispetto dei diritti di cui all’articolo 1, comma 1. Deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà” (corsivi aggiunti). In questo testo, che si presenta centrale per orientare le regole di capacità24, si assiste ad un tentativo di integrazione tra le tradizionali categorie e quelle di più recente emersione. Prima di prospettarne una spiegazione convincente può essere utile proporre un glossario che aiuti il professionista sanitario ad orientarsi nell’individuare i soggetti legittimati a prendere parte alle decisioni sulla salute di una persona in stato di incapacità parziale o totale. Il problema riguarda il discrimine tra i) le situazioni in cui il professionista sanitario deve considerare il paziente suo interlocutore principale; ii) quelle in cui deve necessariamente richiedere l’ausilio di un terzo chiamato a partecipare alla determinazione dell’interesse del paziente attraverso strumenti di rappresentanza sostitutiva (persona di fiducia individuata dal paziente o rappresentante legale previsto dall’ordinamento o nominato dal giudice) o assistenza integrativa (persona di fiducia di questo incaricata dal paziente o amministratore di sostegno con potere di assistenza in ambito sanitario) o, ancora, con una funzione meramente attestativa degli interessi e delle preferenze del paziente (persona di
Così anche Zatti, Spunti per una lettura della legge, cit., 249.
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fatto vicina al paziente – c.d. protettore naturale); iii) quelle in cui, infine, le decisioni nell’interesse del paziente spettano al solo curante. Costruire un glossario tecnicamente rigoroso, condivisibile per i giuristi e fruibile anche ai non giuristi non è semplice per i motivi ricordati fin dall’inizio del presente lavoro. Il sistema della capacità è, infatti, ancora in fase di assestamento ed il baricentro si è fortemente spostato fino a stravolgerne la fisionomia. Si può, però, individuare con sufficiente chiarezza la coesistenza tra un primo insieme di categorie e strumenti di più tradizionale fattura, tendenti all’alternativa secca tra inclusione/esclusione dell’interessato – e, in quest’ultimo caso, ove possibile, sostituzione – dall’attività giuridica, ed un secondo insieme di dispositivi tecnici, di più recente emersione, che tendono a promuovere la partecipazione piena o “assistita” all’attività giuridica, con l’obiettivo di espandere l’autonomia residua o in fieri della persona. Tra i primi si annoverano la categoria generale della “capacità di agire”; le misure di protezione organizzata in via preventiva rispetto all’immissione dell’interessato nel c.d. traffico giuridico, limitative della capacità, previste per le persone minori età o per le persone per le quali sia attivo un provvedimento giudiziario di interdizione o inabilitazione: “incapacità legale” e conseguenti strumenti di sostituzione/integrazione della volontà nell’attività giuridica; le misure di protezione occasionale e successiva al compimento di singoli atti pregiudizievoli per l’interessato, come quelle collegate alla “incapacità naturale”. I secondi spaziano dalla “capacità di discernimento” e “ascolto” del minore, intesi come strumenti di coinvolgimento dello stesso nelle scelte che lo riguardano, ai contenuti molteplici che possono assumere i “provvedimenti di amministrazione di sostegno”, secondo il programma indicato all’art. 1 della l. n. 6/2004 di “tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permeante”. Sembra di potersi affermare che, nella progressiva frantumazione dell’originario ordine del sistema
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normativo, se ne sia ormai delineato uno nuovo, in cui “[l]a protezione prende il sopravvento sul suo […] strumento di attuazione” tradizionale (la in-capacità)25. A seguito delle più recenti riforme, infatti, come già più volte accennato, il centro del sistema di protezione non è più l’incapacità, ma questa è una delle misure di protezione della persona non autonoma26. Si è, anzi, diffusa, pure negli ordinamenti continentali come il nostro, un’ottica innovativa che, in nome del principio di sussidiarietà, considera l’intervento giudiziario come integrativo o residuale rispetto, da un lato, all’esercizio preventivo dell’autonomia privata attraverso strumenti come, ad esempio, il mandato in previsione della propria incapacità o la c.d. procura sanitaria, nella cui linea si colloca la disciplina del fiduciario di cui alla l. n. 219/2017, dall’altro, all’attivazione di strumenti pubblicistici di assistenza integrata alla persona, che comprendono la valorizzazione della sua “rete naturale di protezione”27.
La citazione nel testo è di Busnelli, Capacità in genere, cit., 95. V. sul punto inoltre e per tutti Falzea, I fatti della vita materiale, in Riv. dir. civ., 1982, I, 489 ss. e Giardina, La condizione giuridica, cit. 25
Per una più generale riflessione sul punto e per approfondimenti bibliografici, v. Piccinni, Introduzione, in Mazzoni-Piccinni, La persona fisica, cit., 387 ss. 26
V. con chiarezza la Raccomandazione No. R (99) 4 on principles concerning the legal protection of incapable adults, adottata dal Comitato dei Ministri il 23 febbraio 1999, Principle 5 (Necesssity and subsidiariety), ove si esortano gli Stati membri ad attivare misure di protezione giuridica solo nei limiti in cui queste siano “strettamente” necessarie rispetto alle esigenze di tutela, con riguardo alle circostanze specifiche ed ai bisogni della persona, e salvo il caso del pieno e libero consenso dell’interessato. Si precisa che, nella valutazione della necessità della misura, è opportuno considerare meccanismi meno formali e ogni forma di assistenza che possa essere fornita dai familiari o da altre persone. Tra le forme “alternative” di assistenza sono comprese le possibilità di supporto da parte dei membri della famiglia o delle autorità pubbliche e di attivazione di altri strumenti di assistenza. Per alcune riflessioni sull’evoluzione del nostro ordinamento v. già Bugetti, Nuovi strumenti di tutela dei soggetti deboli tra famiglia e società, Assago, 2008, 177 ss. e Piccinni, Gli adulti privi in tutto o in parte di autonomia, in Piccinni-Mazzoni, La persona fisica, cit., 477 ss. e 537 ss. per approfondimenti bibliografici. 27
5. Segue: categorie ed istituti tradizionali È in quest’ottica che si possono provare a definire le categorie che compaiono nella legge. a) La capacità di agire. Vediamo, anzitutto, il significato della “capacità di agire”, evocata all’art. 1, comma 5°. La categoria mantiene la sua utilità nel selezionare in modo relativamente semplice, e dunque funzionale allo sviluppo delle relazioni giuridiche, i soggetti che possono partecipare all’attività giuridica e quelli che, per esigenze di protezione proprie e per esigenze di certezza e buon funzionamento dei rapporti giuridici, ne devono restare estranei28. La capacità di agire è collegata all’idoneità a provvedere in maniera autonoma ai propri interessi. Chi, con una valutazione prognostica e generale, non è ritenuto in grado di procedere a questa valutazione in modo autonomo è sostituito da un soggetto che dia affidabilità di perseguire gli interessi del beneficiario attraverso l’attribuzione di un ufficio di diritto privato29. È in questo modo che si giustifica il mancato riconoscimento della capacità legale al minore di età (art. 2 cod. civ.) e la possibilità di escluderla o limitarla per l’adulto che si trovi in tipizzate ed accertate condizioni di vulnerabilità (v. nel codice civile del 1942 gli originari artt. 414 e 415, ed ora anche l’art. 404 cod. civ.). Il funzionamento di questo strumento, relativamente agevole per gli interessi di natura patrimoniale (e specie proprietari), lo è molto meno quando si tratti degli interessi direttamente e strettamente legati alla sfera esistenziale della perso-
V. sul punto già Falzea, voce «Capacità (teoria generale)», in Enc. del dir., VI, Giuffrè, 1960, 9 ss., e per le successive elaborazioni, con particolare chiarezza, quelle della scuola pisana, di cui v., in particolare, Busnelli, Capacità in generale, cit., 87 ss. e Giardina, La persona fisica, in Diritto civile, vol. I, Fonti, soggetti, famiglia, a cura di Lipari e Rescigno, Milano, 2009, 280 ss.
28
L’ufficio di diritto privato può definirsi come una funzione caratterizzata da un fascio di poteri-doveri attributi a chi ne sia investito per il perseguimento di interessi altrui. V. per tutti Macioce, voce «Ufficio (dir. priv.)», in Enc. del dir., XLV, Milano, 1992, 641 ss. 29
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na30. Anche in questo campo, può conservare, però, la sua utilità nella misura in cui permette di selezionare i soggetti che possono validamente disporre dei propri interessi. Secondo la teoria tradizionale, la capacità di agire è costruita sulla base di tre criteri concorrenti: 1) normale rilevanza del criterio standardizzato della capacità/incapacità legale; 2) rilevanza limitata della incapacità di fatto (c.d. incapacità naturale); 3) normale irrilevanza della capacità naturale (detta anche capacità di discernimento o di autodeterminazione) dell’incapace legale (minore e interdetto)31. Questa descrizione mi pare mantenere la sua utilità, nonostante la profonda evoluzione del sistema di protezione delle persone non autonome, quanto, almeno, al primo dei tre elementi; il terzo è da tempo messo in discussione ed anche il secondo vacillante, per lo meno al di fuori dell’area del contratto. b) Capacità e incapacità legale. La capacità di agire si acquisisce automaticamente e generalmente con la maggiore età (art. 2 cod. civ.): il minore di età è, al contrario, considerato legalmente incapace di agire. Dopo la maggiore età, la capacità di agire può essere limitata, dando luogo alla opposta condizione di incapacità legale, attraverso un provvedimento giudiziale che la faccia venire meno in generale o la limiti in determinati ambiti (artt. 404 ss. cod. civ.). Quando la persona non sia considerata incapace legale, sia cioè provvista della capacità legale, può, in particolare, avvalersi di una presunzione generale di capacità di agire (cioè del riconoscimento della competenza all’attività giuridica), su cui i consociati possono fare affidamento; è vero che la presunzione può essere, eccezionalmente, superata, nell’ambito del singolo rapporto, da una valutazione contraria di incapacità di fatto, ma l’onere dell’accertamento è in capo a chi voglia far valere lo stato di inca-
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pacità e la sua rilevanza rispetto agli effetti dell’atto (possibilità di annullarlo) è, in genere, limitata dal concorso di altri fattori (pregiudizio, malafede, ecc.). c) L’incapacità di fatto. L’incapacità naturale (questo il sintagma utilizzato ora nel codice civile32) coincide con l’incapacità di intendere o di volere. La terminologia utilizzata è ormai superata rispetto alle acquisizioni scientifiche, ed, anche nel linguaggio normativo, sono preferite nuove formule descrittive più coerenti alle spiegazioni del più complessivo funzionamento dei processi decisionali umani33. Cionondimeno è utile ricordare che, quando la categoria fece ingresso nel codice civile (con recepimento della pure rinnovata categoria penalistica), l’obiettivo era, comunque, quello di ampliare le ipotesi in cui fosse possibile interrompere la relazione tra l’autore dell’atto e le sue conseguenze giuridiche per un malfunzionamento delle capacità cognitive o volitive/comportamentali, che rendessero opportuno superare la presunzione di attitudine a valutare autonomamente i propri interessi, anche in considerazione delle più complessive circostanze in cui l’atto erano stato perfezionato (v. l’art. 428 cod. civ. che detta la regola generale per i contratti e per gli atti per i quali non siano previste diverse disposizioni di legge; tra questi v. ad esempio l’art. 120 per l’impugnabilità del matrimonio; il comma 3° dell’art. 591 per il testamento; l’art. 775 per l’annullabilità della donazione). La possibilità di far valere la propria incapacità naturale si delinea, a seguito della riforma del 2004 ancor più chiaramente, come rimedio residuale e fisiologicamente destinato ad operare successivamente al compimento dell’atto.
Le “misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia” (titolo XII del libro I) sono, infatti, distinte in un capo I, che disciplina l’“amministrazione di sostegno” (artt. 404 ss.) ed in un capo II che si occupa “[d]ell’interdizione, della inabilitazione e della incapacità naturale” (artt. 414 ss.). 32
Per tutti Giardina, La persona fisica, cit., 281; nonché, quanto al problema della capacità richiesta per il consenso al trattamento medico, Nannini, op. cit., spec. 153 ss.
30
31 Parto, per la sua linearità, dalla sintesi di Nannini, che, per primo, è sceso a fondo nell’analisi del problema del consenso al trattamento medico (cfr. Id., op. cit., 153).
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V. anche le considerazioni di Cembrani et al., Capacità ed incapacità, cit.
33
Il problema della “capacità” dopo la l. n. 219/2017
Queste caratteristiche portano a dubitare che sia una categoria utile per risolvere le questioni legate al consenso (o dissenso) al trattamento medico, sia questo espresso in modo contestuale alle decisioni da prendere o anticipato rispetto alla loro necessità. Infatti, in questo caso, l’incapacità di fatto non è destinata a valere rispetto alla produzione di effetti dell’atto (annullabilità, come possibilità di far cessare gli effetti del consenso/dissenso informato per iniziativa del paziente), ma essa semmai rileva come elemento volto a selezionare i legittimi interlocutori del medico (idoneità del paziente a decidere per sé e protezione della fiducia del medico nella affidabilità delle volontà espresse dal paziente), e, dunque, secondo un’ottica più vicina a quella prevista per l’imputabilità degli effetti dell’illecito civile (art. 2046 cod. civ.) o penale (artt. 85 ss. cod. pen.). Sembra opportuno un passaggio dall’incapacità di fatto, come elemento che eccezionalmente esclude la capacità di agire del soggetto, alla capacità di fatto, come elemento che rileva non più in via eccezionale, ma in via ordinaria, per determinare la capacità di agire dell’interessato e riconoscergli dunque il ruolo di interlocutore nelle scelte sulla propria salute34.
6. Segue: categorie ed istituti emergenti Nei testi normativi si sono diffusi, soprattutto a partire dagli anni settanta, accanto alle categorie tradizionali, alcuni concetti più legati ad un nuovo modo di concepire la soggettività e ad una funzionalizzazione dei rapporti patrimoniali rispetto alla realizzazione della persona, che hanno riguardato i soggetti tradizionalmente considerati in stato di incapacità legale, in linea con le istanze di eguaglianza sostanziale, sempre più ineludibili sul piano costituzionale ed internazionale35. d) Capacità di discernimento e ascolto. Non è, dunque, un caso che la categoria della “capacità
Sul punto v. già con chiarezza Nannini, op. cit., spec. 516 s. 34
V. per tutti la ricostruzione di Rodotà, Dal soggetto alla persona, Napoli, 2007, passim.
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di discernimento”, unita alle necessità di “ascolto” e coinvolgimento adeguato dell’interessato nelle decisioni che lo riguardano, nel “rispetto” delle sue “capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni” (così l’art. 147 cod. civ.) via via emergenti, si sia dapprima diffusa per “mitigare” la posizione di incapacità legale del minore all’interno del nucleo familiare e nell’attività giuridica esterna, proprio a partire dalle decisioni più immediatamente attinenti alla sua sfera esistenziale: dal lavoro, agli status familiari, alla riservatezza e libertà sessuale, alle frequentazioni e alla collocazione abitativa, alla libertà religiosa, alle scelte sul proprio corpo e, più in generale, a quelle aventi un impatto sulla salute36. La “capacità di discernimento” è direttamente connessa alla concreta maturità acquisita dal minore e considerata, con riferimento al singolo atto o classe di atti, per attribuire (o meno) rilevanza alla diretta valutazione dei propri interessi operata dall’interessato. Quando riferita alle scelte mediche i documenti normativi spesso la sostituiscono con la necessità del coinvolgimento appropriato del minore, in relazione alla sua età ed al suo grado di maturità (v. in questo senso chiaramente l’art. 5 della Conv. di Oviedo, nonché l’art. 4 d. legis. n. 211/2003, confermato dall’art. 32 del reg. UE n. 536/2014, per la sperimentazione clinica dei farmaci). La valutazione è da compiersi caso per caso, in relazione al tipo di atto da porre in essere ed alle sue conseguenze, alla ricerca di un adeguato bilanciamento tra le esigenze di protezione e quelle di riconoscimento e valorizzazione dell’autonomia del minore. e) L’amministrazione di sostegno. Con la l. n. 6/2004 le esigenze di ascolto e coinvolgimento conforme alle concrete capacità della persona fanno irruzione anche nella disciplina delle misure di protezione dell’adulto privo in tutto o in parte di autonomia, attraverso, in particolare, l’introduzione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno.
Per i riferimenti normativi, giurisprudenziali e bibliografici, si rinvia da ult. a Piccinni, I minori di età, cit., 397 ss. e, tra i diversi lavori più recenti, almeno La Rosa, Tutela dei minori e contesti familiari, cit., passim. 36
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L’assonanza tra il linguaggio inaugurato dall’art. 147 cod. civ. per il minore e quello degli artt. 408 e 410 per il beneficiario di amministrazione di sostegno è evidente. Si giunge, finalmente, ad una totale rivisitazione degli istituti di protezione degli adulti non autonomi con l’abbandono dell’incapacità legale, intesa come (tendenzialmente unica) misura necessaria di tutela della persona non autonoma. L’attenzione si sposta sul fine: quello, appunto, della protezione della stessa. Secondo il disegno legislativo, è il giudice che, nel provvedimento in cui si predispone il progetto di sostegno, individua le eventuali limitazioni della capacità del beneficiario in determinati ambiti di attività, ed i poteri/doveri del suo amministratore di sostegno. In particolare, il criterio di riferimento è quello, già richiamato, della “minore limitazione possibile della capacità di agire del beneficiario”. Il compito attribuito all’amministratore di sostegno si concretizza in poteri meramente “nunciativi” quando consiste solo nel riferire la volontà espressa dal beneficiario, senza possibilità alcuna di partecipare alla determinazione del contenuto dell’atto da porre in essere37. Quando il provvedimento, invece, prevede che per singoli atti sia necessaria l’assistenza dell’amministratore di sostegno (c.d. assistenza integrativa ex art. 405, comma 5°, n. 4 e 409, comma 1°), ne deriva, che, accanto all’espressione di volontà del beneficiario, debba sussistere anche l’autorizzazione dell’amministratore di sostegno, perché il consenso possa essere considerato validamente acquisito38.
37 Un tale tipo di poteri è stato, ad esempio, concesso in giurisprudenza nei casi di pazienti con gravi impedimenti fisici o in condizione di imminente perdita di coscienza, che li rendessero non in grado di interloquire nell’immediatezza con il personale sanitario, ma rispetto ai quali fosse certa la volontà riguardo alle cure (v. per tutti, Trib. Cagliari, g. tut., decr. 16.7.2016, in Nuova giur civ. comm., 2017, I, 513 ss., con nota di Pardini e in Resp. civ. e prev., 2017, 910 ss., con nota di Pisu).
V. ad esempio Trib. Modena, giud. tut., decr. 8.2.2006, in Nuovo dir., 2006, 300, in cui alla beneficiaria, in uno stato di impossibilità parziale di provvedere ai propri interessi, dovuto a particolari vicende esistenziali, è affiancato un ammi-
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Saggi e pareri
I poteri di rappresentanza (art. 405, comma 5°, n. 3 e 409, comma 1°) sono, infine, veri e propri poteri di sostituzione: il provvedimento del giudice può cioè conferire all’amministratore di sostegno il potere-dovere, e la conseguente legittimazione, di esprimere il consenso in nome e per conto (cioè nell’interesse) del beneficiario. Il medico dovrà considerare in questi casi l’amministratore di sostegno suo principale interlocutore. Si deve, peraltro, precisare che, proprio con riguardo al tema delle decisioni in ambito sanitario, assunte ad emblema delle scelte di carattere “personalissimo”, si è ritenuto che i poteri per comodità attribuiti al rappresentante legale (sia questi il genitore, l’amministratore di sostegno o il tutore) sono riconducibili più immediatamente al potere di cura attinente all’ufficio, che non ad un potere di rappresentanza in senso stretto. Giurisprudenza e dottrina, a partire dalla nota Cass. n. 21748/2007, decisiva nella vicenda che ha riguardato la vicenda giudiziaria portata avanti dal padre e tutore di Eluana Englaro, hanno esteso al di là del circoscritto ambito considerato dalla sentenza, il criterio per il quale “«[n]el consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta ad un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non “al posto” dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente (…) ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche»39. f) Il fiduciario. Rispetto agli strumenti di esercizio preventivo dell’autonomia privata, si può ricorda-
nistratore di sostegno a tempo determinato di un anno, con poteri di affiancamento sia nella cura e tutela della salute, che nelle scelte lavorative. Per alcune considerazioni sul punto successive alla l. n. 219/2017 v. da ult. Piccinni, Decidere per il paziente, cit., spec. 1126 ss. e per un’applicazione giurisprudenziale Trib. Vercelli, g. tut., decr. 31.5.2018, cit. 39
Il problema della “capacità” dopo la l. n. 219/2017
re come, fino alle riforme più recenti, si dubitava fortemente della possibilità che la persona potesse individuare un soggetto destinato a sostituirla nelle proprie scelte per il caso di sopravvenuta impossibilità del designante. Quanto alle scelte di natura sanitaria, le principali incertezze sulla rilevanza giuridica delle c.d. direttive di delega riguardavano il profilo della indisponibilità degli interessi di natura esistenziale attraverso atti di esercizio della propria autonomia (limiti di validità) e quello della possibilità che una investitura destinata ad operare in un ambito così vicino al nucleo della persona, potesse valere oltre il momento in cui la stessa perdesse la propria capacità (limiti di efficacia). L’art. 408, comma 1°, cod. civ., con la possibilità ivi prevista di designare una persona da nominare come amministratore di sostegno nel caso di propria futura incapacità, ha segnato un momento di passaggio significativo nell’affermazione dell’autodeterminazione del disponente, anche per dare effetto ad eventuali e concorrenti disposizioni di istruzione. La designazione e le eventuali disposizioni anticipate potevano, però, produrre i propri effetti solo a seguito del controllo giudiziale e nei limiti dei poteri attribuiti dal giudice nel proprio provvedimento. La disciplina di cui all’art. 1, commi 40°-41°, della l. n. 26/2016 (c.d. l. Cirinnà), nonostante tutti i suoi limiti di fattura tecnico-giuridica, ha avuto, invece, un importante effetto dirompente nel riconoscimento giuridico diretto di un tale tipo di atti40. Il problema della possibilità di delegare ad altri le scelte sulla propria salute è stato affrontato in modo più sistematico con la l. n. 219/2017, che individua due istituti, la “persona di fiducia” ed il “fiduciario”, non del tutto sovrapponibili, e che mi pare rendano superata la previgente disciplina (v., in questo senso, l’art. 6 della l. n. 219/2017). La distinzione di fondo riguarda il fatto che la prima figura (art. 1, comma 2° e 3°, e art. 5, comma 2°) è destinata ad interloquire con il personale sanitario nella misura stabilita dal paziente, che con-
V. sul punto Zatti-Piccinni, La faccia nascosta delle norme: dall’equiparazione del convivente una disciplina delle DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 1283 ss., anche per approfondimenti bibliografici. 40
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serva, a sua volta, la propria capacità autonoma di interazione; la seconda è, invece, individuata dal disponente per farne le veci e rappresentarlo “nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie” in previsione di un’eventuale (art. 4) o prevista (art. 5, comma 3°) futura incapacità di autodeterminarsi. g) I c.d. protettori naturali. Nel caso in cui non vi siano misure di protezione organizzata e la persona non abbia provveduto in via anticipata a dare indicazioni circa i propri interessi, è dubbio se sia sempre necessaria l’apertura di un’amministrazione di sostegno. Nell’applicazione giurisprudenziale è emersa una tendenza volta a dare attuazione al principio di sussidiarietà attraverso la valorizzazione della rete sociale e naturale di protezione, nel caso di perdita parziale e, talvolta, anche totale della capacità di fatto dell’interessato41. Con riferimento specifico alle scelte attinenti alla salute, nel vigore del previgente sistema rigido di disciplina della capacità/incapacità legale, a fronte del limitato utilizzo nella prassi dell’istituto dell’interdizione, e della richiamata insufficienza delle misure di protezione residuale per la incapacità non dichiarata, si era molto insistito sulla rilevanza della rete di prossimità di fatto, tentando di riconoscere il ruolo dei c.d. protettori naturali42. La loro posizione è risultata più dubbia con l’entrata in vigore dell’amministrazione di sostegno e con il prevalere nella prassi di strumenti formali attraverso cui individuare i soggetti titolati a decidere. La mancanza di una norma espressa nel-
Cfr. da ult. Piccinni, Decidere per il paziente, cit., 1123 ss. e nt. 25 per le indicazioni giurisprudenziali. 41
V. già De Acutis – Ebene – Zatti, La cura degli interessi del malato. Strumenti di intervento organizzato e occasionale, in Tutela della salute e diritto privato, a cura di Busnelli e Breccia, Milano, 1978, 101 ss., per la lucida impostazione dei termini del problema; Nannini, op. cit., passim, per una prospettiva, interessante ormai sul piano storico-comparatistico; e, più di recente, il documento S.I.A.A.R.T.I., Commissione di bioetica, Le cure di fine vita e l’anestesista-rianimatore: Raccomandazioni SIAARTI per l’approccio al malato morente, in Minerva Anestesiologica, 2006, vol. 72, 17; nonché Piccinni, Relazione terapeutica e consenso dell’adulto “incapace”: dalla sostituzione al sostegno, nel Trattato di biodiritto, cit., 3, I diritti in medicina, cit., 382 ss. 42
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la presente legge porta a considerare il problema ancora aperto.
7. Potenzialità interpretative della l. n. 219/2017: oltre il riduzionismo incapacitante Il quadro ora delineato è compatibile con la l. n. 219/2017? La risposta tendenzialmente positiva che si tenta di fornire a questo interrogativo è condizionata da una scelta metodologica, che è utile esplicitare. Tra le diverse interpretazioni possibili delle ambigue norme che conformano le situazioni soggettive inerenti alla relazione tra il medico ed il paziente con ridotta, assente o dubbia capacità di interloquire, si ritiene di poter privilegiare quelle soluzioni che: i) siano aderenti al sistema delle fonti, fondate, dunque, sulla Costituzione e compatibili con i principi costituzionali, nonché con le fonti di rango sovranazionale; ii) attribuiscano a tutte le parole utilizzate dal legislatore un significato che, pur fedele alla lettera, permetta al contempo di eludere il più possibile le antinomie apparenti all’interno del testo complessivo della legge, nel rispetto della sua ratio, come emergente dai principi e dagli obiettivi individuati dal legislatore, in particolare all’art. 1, comma 1° e 2°, e 3, comma 1°; iii) siano, infine, il più coerenti possibile con il complessivo sistema della capacità. - La capacità richiesta per il “consenso informato” (art. 1) Si propone una lettura, secondo questo schema, anzitutto, dell’art. 1, che individua la regola di capacità in materia di consenso e dissenso “informati”, nell’ambito della relazione di cura e fiducia tra medico e paziente. Si può dare per assodato che, nonostante il comma 5° si riferisca direttamente solo alla capacità richiesta per rifiutare le cure o alla loro rinuncia – anche quando si tratti di “trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza” – una regola analoga debba valere, più in generale, per l’espressione del consenso alle cure43.
43
V. le considerazioni svolte supra, nt. 19.
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Il problema principale resta, allora, quello di specificare cosa si debba intendere per “capacità di agire”. L’espressione sembra utilizzata per indicare che la persona maggiore di età, non sottoposta a provvedimenti limitativi della propria capacità legale (provvedimento di interdizione o di amministrazione di sostegno che incida sulla capacità di prendere decisioni sulla propria salute) beneficia della presunzione di competenza all’attività giuridica, e deve, dunque, essere considerata dai professionisti sanitari come interlocutore principale nella relazione di cura e fiducia, sia ai fini di una informazione “completa, aggiornata” ed espressa in termini comprensibili sulle proprie condizioni di salute e sui diversi scenari possibili rispetto alle cure, all’efficacia delle stesse ed ai rischi legati alle scelte, sia in vista dell’espressione del proprio consenso o dissenso al trattamento medico, che, infine, nella più ampia individuazione del percorso di cura e dei soggetti da includervi, su indicazione del paziente44. La presunzione opera fino al momento in cui, nell’ambito del rapporto di cura, non emergano gravi elementi che portino il medico a dubitare della capacità di agire del paziente e ad un conseguente accertamento della sua incapacità di fatto (ma su questo punto delicato v. meglio subito oltre). - La capacità richiesta per le DAT (art. 4) Si è già ricordato come attraverso le DAT sia possibile lasciare indicazioni destinate a condizionare le scelte sulla propria salute per l’ipotesi (eventuale) in cui la persona si trovi in una condizione clinica che non le consenta di interagire attivamente con il personale sanitario. La regola di capacità è espressa in termini diversi rispetto a quelli utilizzati all’art. 1: ci si riferisce, infatti, ad “[o]gni persona maggiorenne e capace di intendere e di vo-
Sulla necessità di considerare la programmazione condivisa delle cure come “stile” fondante il processo di comunicazione e condivisione reciproca di informazioni ed obiettivi che caratterizza ogni relazione di cura e fiducia, al di là della disciplina specifica dell’istituto di cui all’art. 5 l. 219/2018, v. Benciolini, Art. 5 “Pianificazione condivisa delle cure”, in Biolaw Journal- Rivista di BioDiritto, 2018, fasc. 1, 65 e Gorassini, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, cit. 44
Il problema della “capacità” dopo la l. n. 219/2017
lere”. Si è già avanzato il dubbio che, più che di scelta consapevole, si tratti di dimenticanza, ma, entrato in vigore il testo normativo, è a questo che l’interprete è obbligato a riferirsi. Il linguaggio prescelto è datato e superato45, ma non credo sia questo il problema principale. Infatti, nel diritto privato, la locuzione capacità di intendere e di volere equivale a capacità di fatto; questa – anche alla luce di diversi passaggi della l. n. 219/2017, ed in particolare dell’accostamento operato dall’art. 4, comma 1°, della capacità di intendere e di volere, da un lato, alla previsione della propria “incapacità di autodeterminarsi” (come condizione di efficacia) e, dall’altro, alla necessità di “avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte” (come requisito di consapevolezza della volontà espressa) – mi pare non possa che riferirsi alla capacità di porre in essere quelle scelte in modo adeguato. Un problema più complesso da affrontare è, invece, la correlazione della disposizione con la capacità legale. L’unica certezza è che, in negativo, sono escluse dalla possibilità di elaborare DAT le persone minori di età. Quando si tratti, invece, di stabilire, in positivo, quale regola di capacità sia espressa nella locuzione “capacità di intendere e di volere”, mi sembra ci siano due diverse opzioni ermeneutiche possibili46: a) il legislatore, facendo riferimento alla capacità di fatto, ha inteso dettare una regola per la “capacità di agire” analoga a quella di cui all’art. 1, comma 5°, utilizzando un termine considerato
Come accuratamente spiegano Cembrani et al., Capacità ed incapacità, cit. 45
Una terza opzione, secondo la quale il legislatore avrebbe voluto utilizzare un criterio di capacità più permissivo di quello di cui all’art. 1, con la possibilità di superare la presunzione di inettitudine a disporre dei propri interessi legata alla condizione di incapacità legale per il maggiore di età – pure ammissibile sul piano letterale e prospettata in dottrina (v., ad esempio, Delle Monache, La nuova disciplina sul “testamento biologico”, cit., 13) – non appare convincente: un criterio più permissivo per esprimere una volontà vincolante ora per allora (come nei casi di cui all’art. 4), rispetto a quello richiesto per fare valere una volontà nell’imminenza della malattia (nelle ipotesi disciplinate all’art. 1 e 3) sarebbe incongruente. 46
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equivalente47; b) il legislatore ha voluto rafforzare le regole di capacità, introducendo un criterio più rigoroso di quello espresso all’art. 148. Entrambe le proposte interpretative pongono un problema centrale anche nel caso di consenso/ dissenso attuali nell’ambito del rapporto di cura: quello concernente le modalità di accertamento della capacità e l’onere delle relativa prova; dal punto di vista del paziente (o cittadino, futuro paziente) si tratta di avere garanzie sul fatto che la propria volontà sia presa in considerazione dal medico; dal punto di vista del professionista responsabile della cura si tratta di vedere protetto il proprio affidamento nella competenza dell’interlocutore (paziente o disponente) e di poter, dunque, avere sufficiente certezza di quando poter confidare sulla vincolatività delle opzioni espresse
47 Il Cons. di Stato, nel Parere 18.7.2018, n. 1991 sulla Richiesta di parere in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento del Ministero della salute del 22.2.2018, in Ilcaso.it, punto 2, ad esempio, utilizza anche per il consenso al trattamento medico il riferimento alla “capacità di intendere e di volere”. Nel senso che, sul piano della coerenza dogmatica, il criterio di capacità da utilizzare per l’espressione di volontà attuale debba essere lo stesso che riguarda la volontà destinata ad operare pro futuro pure Morozzo Della Rocca, Capacità di volere, cit., 387 ss., anche se ante l. n. 219/2017, e limitatamente al problema del rifiuto di cure.
Un criterio più restrittivo si giustificherebbe per il fatto che le scelte sono destinate a vincolare il paziente, ancor prima del medico e del fiduciario. Per una scelta analoga bisogna risalire alla l. n. 458/1967, ove all’art. 2 si indicano i requisiti richiesti per la donazione di un rene a scopo di trapianto tra viventi (estesi ex art. 1 l. n. 483/1999 al caso di donazione parziale di fegato ed ex art. 1 l. n. 167/2012 alla donazione parziale di polmone, pancreas e intestino, allo stesso scopo). In quel contesto, che mi sembra comunque distante da quello delle DAT, è peraltro individuato il pretore (oggi sostituito dal Tribunale) come l’autorità preposta ad accertare l’esistenza delle condizioni indicate (oltre alla maggiore età ed al possesso della capacità di intendere e di volere, la conoscenza dei limiti della terapia del trapianto tra viventi e la consapevolezza delle conseguenze personali che il sacrificio comporta; rispetto a queste ultime l’art. 2 del D. M. Sanità 16.4.2010, n. 116, recante il Regolamento per lo svolgimento delle attività di trapianto di organi da donatore vivente, ha istituito anche una “Commissione terza” presso ciascuna Azienda sanitaria sede del Centro trapianti o Centro regionale di riferimento per i trapianti). 48
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dal paziente e di quando scatti, invece, l’onere di accertarne la competenza decisionale49. Propongo di privilegiare la prima opzione ermeneutica. Ne deriva la necessità di ridefinire il significato della stessa regola generale di cui all’art. 1, nel senso di riconoscere che la capacità di agire quanto alle decisioni sulla propria salute indica solo la possibilità di avvalersi, per chi non sia in una condizione di incapacità legale, della presunzione di capacità. Come si è appena ricordato, per il superamento di tale presunzione, sono necessari gravi elementi che portino il medico a dubitare delle capacità decisionali del paziente. Può essere in proposito utile un riferimento al diritto inglese. Il legislatore ha scritto, nero su bianco, nel Mental Capacity Act 2005 quali sono i principi di riferimento per tutte le decisioni sulle persone “who lack capacity”. In particolare, la Sec. 1 contenente, per l’appunto, “I principi”, così li specifica: “(2) Una persona deve essere considerata capace (must be assumed to have capacity) a meno che non sia stabilito che le manchi la capacità (unless it is established that he lacks capacity). (3) Una persona non deve essere trattata come non in grado di prendere decisioni (unable to make a decision), a meno che non siano stati posti in essere, senza successo, tutti i necessari passaggi per aiutarla a farlo (unless all practicable steps to help him to do so have been taken without success) (4) Una persona non deve essere trattata come incapace di decidere solo perchè prende una decisione poco saggia (unwise). (5) Un atto fatto, o una decisione presa, ai sensi di questa legge, per o a nome di una persona priva di capacità (for or on behalf of a person who lacks capacity) deve essere fatto, o presa, nel suo miglior interesse (in his best interests)”50. Nonostante la distanza
tra i due ordinamenti, nessuno di questi criteri è incompatibile con quelli desumibili in via interpretativa anche nel nostro sistema. Nel caso di consenso attuale, nell’ipotesi in cui il medico abbia dei dubbi fondati sulla sussistenza della capacità, dovrà attivarsi e risolverli nell’ambito della relazione con il paziente, e, dunque, con il suo coinvolgimento; nel caso in cui, invece, il paziente disponga per l’avvenire il problema dell’accertamento della capacità potrebbe essere legislativamente ricondotto all’ambito di applicazione del comma 5° dell’art. 4. Si segue sul punto una già richiamata proposta interpretativa51, che nel tentativo di razionalizzarne e valorizzarne il disposto, riconduce alla fattispecie generale della “palese incongruità” tutte le fattispecie tipizzate al comma 5°, e la stessa ipotesi, prevista al comma 1°, in cui dal contenuto delle DAT emerga un quadro conoscitivo distorto da parte del paziente e, dunque, la mancanza di adeguate informazioni sulle conseguenze delle proprie scelte. È, in altre parole, onere del disponente fornire un testo che sia, al suo interno, il meno incongruente possibile, in modo che il medico possa interpretarlo agevolmente, come espressione di una sua volontà validamente formata ed espressa da persona in grado di prendere decisioni sulla propria salute. Quanto alla valutazione sulla capacità potranno influire anche elementi della storia personale o clinica che siano facilmente accessibili al medico chiamato ad attuare le DAT; ne consegue che, nel caso di patologie potenzialmente in grado di incidere sulla capacità decisionale, l’onere per il disponente sarà più gravoso, con la necessità di fornire maggiori elementi di affidabilità circa la stessa (ad esempio: coinvolgimento nell’atto di
V. già Nannini, op. cit., che concentra buona parte della sua analisi sul problema della tutela dell’affidamento del medico anche rispetto allo stato soggettivo di capacità in cui versi il paziente.
per chiarezza e pragmatismo, ad esempio, il documento generale, Assessment of Mental Capacity. A practical Guide for Doctors and Lawyers, London, la cui ult. ediz. risale al 2015; si veda pure il Mental Capacity Act 2005, Code of Practice, pubblicato dal T.S.O. (The Stationary Office) per il Department for Constitutional Affairs, London, 2007.
49
La British Medical Association, insieme alla Law Society, ha iniziato ad occuparsi del problema dell’accertamento dalla capacità del paziente da tempo e già prima dell’entrata in vigore del Mental Capacity Act del 2005. Si può vedere, 50
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Delle Monache, La nuova disciplina sul “testamento biologico”, cit. V., supra, nt. 16.
51
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un medico di fiducia52). In definitiva, il richiamo, fatto solo all’art. 4, e non all’art. 1, comma 5°, alla “capacità di intendere e di volere” potrebbe avere il significato di allertare il disponente sulla sussistenza di tale onere. - La pianificazione condivisa delle cure (art. 5). L’art. 5 non pone norme espresse in materia di capacità. È vero che il 5° comma dell’art. 5 dispone che “[p]er quanto riguarda gli aspetti non espressamente disciplinati dal presente articolo si applicano le disposizioni dell’articolo 4”. Ma il legislatore ha dimenticato di inserire una clausola di stile, “in quanto compatibili”, che non può non essere aggiunta in via interpretativa, per tener conto della particolare situazione oggetto della disciplina. La pianificazione condivisa è destinata ad operare nell’ambito della relazione di cura “rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta”. Nel primo stadio del rapporto il paziente è, dunque, capace di interagire direttamente con il personale sanitario, e devono quindi applicarsi (almeno limitatamente a questa fase) le regole di forma e di capacità indicate all’art. 1; così, quanto al portavoce individuato dal paziente, la figura della “persona di fiducia” di cui all’art. 1, commi 2° e 3° ed il “fiduciario” di cui agli artt. 4 si sovrappongono terminologicamente nell’art. 5 (v. comma 2°, da un lato, e commi 3° e 4°, dall’altro) e possono sovrapporsi anche di fatto in quanto potrebbero coincidere nella stessa figura. Nell’interpretazione qui proposta, peraltro, il problema dell’accertamento dei requisiti della capacità del paziente di partecipare alla pianificazione delle proprie cure non si pone, assumendo che siano equivalenti per il caso di consenso attuale e di DAT. Deve peraltro evidenziarsi che la questione della capacità rispetto all’atto di disposizione
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va risolta nella prima fase, nell’ambito della relazione fiduciaria di cura; diverso è il problema dell’accertamento del momento, successivo, in cui la persona non sia più in grado di interagire direttamente con il personale sanitario e si entri, dunque, nella seconda fase del rapporto, sempre in costanza dello stesso. Restano fuori dall’applicazione diretta dell’art. 5 i minori e le persone incapaci di agire. La loro esclusione dall’ambito di applicazione della disposizione, che potrebbe sembrare non giustificata, mi sembra comunque ridimensionata sul piano degli effetti pratici, se si ritiene che il principio della programmazione condivisa delle cure abbia una portata più generale53, che deve valere, dunque, anche per il minore e per la persona in condizione di incapacità legale, pur nelle diverse modalità previste all’art. 3. - La persona minore di età (art. 3, commi 1°, 2°, 5°) Per i minori di età – come emerge, in modo un po’ confuso, anche dalla disciplina congiunta dei commi 1°, 2° e 5° dell’art. 3 – la mancanza della capacità legale non implica più l’incapacità di agire, ma, semmai, l’impossibilità di servirsi della presunzione di capacità e la necessità di valutare, di caso in caso, la loro concreta capacità di autodeterminarsi. Restano esclusi dal problema, chiaramente, i casi in cui la tenerissima età del bambino richieda un loro affidamento totale agli adulti che ne sono responsabili54. Solo così si spiega, anzitutto, il comma 1° dell’articolo. Questo riconosce il “diritto alla valorizzazione” delle “capacità di comprensione e di decisione”, in quanto volto all’attuazione dei diritti di cui
53
V. supra, nt. 44.
Sull’importanza dell’empowerment dei genitori, v. per tutti British Medical Association, Consent, Rights and Choices in Health Care for Children and Young People, London, 2001. V. anche in questo fascicolo Gristina, Alcune considerazioni riguardo al trattamento dei minori nell’ambito della legge 219/2107, quanto alla necessità di dare contenuto alla clausola del “pieno rispetto della dignità” del bambino, anche quando la sua posizione sia caratterizzata da particolari elementi di vulnerabilità, come avviene nel caso di neonato o di bambino in tenerissima età, magari anche nella condizione di morente. 54
52 Il coinvolgimento di un medico di fiducia nella redazione dell’atto, anche se non rientra tra gli elementi che condizionano la validità delle DAT, è, d’altronde, utile in ogni caso per confezionare uno strumento che possa essere il più idoneo possibile allo scopo. Sul punto v. ex multis Carusi, Ippocrate e la polis, cit., 219 ss. e Gorassini, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, cit.
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all’art. 1, e, dunque, del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione del minore, e richiede che siano date informazioni (“in modo consono alle sue capacità”) sulle scelte che ne riguardano la salute, proprio al fine di metterlo “nelle condizioni di esprimere la sua volontà”, che sarebbe contraddittorio considerare irrilevante. È vero che il legislatore utilizza al comma 2° la rozza figura del “consenso informato… espresso o rifiutato” dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore, ma ne condiziona subito il rilievo alla adeguata considerazione della “volontà della persona, in relazione alla sua età e maturità, ed avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità”. Mi pare, dunque, possibile recuperare, in via interpretativa, quanto già emerso nella riflessione dottrinale e nelle applicazioni giurisprudenziali sulla necessità di rispettare e valorizzare l’autodeterminazione del minore nelle scelte sulla propria salute55. L’auspicio è che, de iure condendo, si utilizzi un linguaggio più chiaro ed adeguato al “rispetto delle capacità, inclinazione e aspirazioni” dell’interessato, ed, in particolare, si individuino regole precise per il caso in cui il punto di vista del minore sia divergente rispetto a quello dei suoi rappresentanti legali. - Le persone destinatarie di misure di protezione organizzata ex artt. 404 ss. cod. civ. Rispetto alla disciplina del consenso al trattamento medico delle persone per le quali siano attive misure di protezione privatistica si sono altrove segnalati i molti problemi tecnici56. Può essere utile ricordare due aspetti importanti ai fini della presente discussione. Anche a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 219/2017, tanto per la persona interdetta che per quella sostituita o affiancata per le decisioni in ambito sanitario da un amministratore di sostegno, il titolare dell’ufficio deve coinvolgere il diretto interessato e rispettarne la volontà, quando adeguata-
In questo senso, ad esempio, Senigaglia, “Consenso libero e informato” del minorenne tra capacità e identità, in corso di pubblicazione. 55
56
Piccinni, Decidere per il paziente, cit., 1118 ss.
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mente formata. Al di là delle differenze lessicali, i criteri di fondo mi sembrano quelli meglio esplicitati agli artt. 407 e 410 cod. civ., in base ai quali, da un lato, tutti i soggetti chiamati a prendere le decisioni che ricadranno sul paziente dovranno “tener conto, compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa” e, dall’altro, in caso di “dissenso” con il beneficiario, l’amministratore di sostegno dovrà tempestivamente informare il giudice tutelare57. Il legislatore, invece, non ha modificato i requisiti richiesti per l’attivazione delle misure di protezione organizzata, per i quali bisogna continuare a riferirsi alla disciplina codicistica. In particolare, non si è sciolto il dubbio della rilevanza della incapacità di fatto e di come questa vada interpretata nella sua interazione con la “impossibilità di provvedere ai propri interessi”. - Il paziente legalmente capace di agire con ridotta capacità di esprimere il proprio consenso. L’art. 3 predispone, difatti, regole di disciplina (nella specie di misure di protezione e di strumenti sostitutivi/integrativi della volontà dell’interessato) solo per chi trovandosi in una condizione di incapacità legale (minori o interdetti, inabilitati, beneficiari di amministrazione di sostegno quanto alle scelte sanitarie) non possa beneficiare della presunzione di capacità di agire. A chi si trovi in una condizione di mera incapacità di fatto, sono semmai applicabili i principi di cui al comma 1° dell’art. 3. La lacuna permette di considerare coloro la cui capacità legale non sia limitata e che abbiano una capacità parziale di interagire con il personale sanitario come capaci di agire. Costoro si avvalgono, in particolare, della presunzione di capacità, riconosciuta dall’art. 1, comma 5°, superabile solo se ne sia dimostrata, caso per caso, l’incapacità di fatto. In questo compito, che non può che spetta-
57 Cfr. sul punto supra, par. 4, lett. e). Sulla necessità di un adeguato coinvolgimento anche dell’interdetto, v., ad esempio, Delle Monache, La nuova disciplina sul “testamento biologico”, cit.; per i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 3 per contrasto con l’art. 12 Conv. Onu sui diritti delle persone con disabilità, v. Piccinni, op. ult. cit., spec. 1125 e nt. 26.
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re al curante, e che deve essere svolto nell’ambito della relazione di cura e fiducia, il professionista potrà, dunque, fare affidamento sullo stato dell’arte e sugli strumenti elaborati con riferimento alle diverse fasi della vita e ad eventuali specifiche menomazioni delle capacità decisionali; potrà così stabilire se il paziente possa essere considerato suo interlocutore. Solo per fare un esempio: la capacità richiesta per un paziente di età avanzata, con una malattia di Alzheimer in corso, per indicare come persona di sua fiducia un familiare con cui vi sia una lunga ed affettuosa comunione di vita (ad esempio il coniuge non separato o il convivente di fatto) potrà essere inferiore a quella richiesta per rifiutare un intervento terapeutico poco invasivo che i curanti considerino adeguato rispetto ad obiettivi terapeutici conseguibili e auspicabili per un paziente in quelle specifiche condizioni di vita e di malattia58. - Il paziente legalmente capace di agire del tutto privo della capacità di esprimere il proprio consenso. Anche per il paziente del tutto privo della capacità di fatto può dubitarsi che sia sempre necessaria l’attivazione di misure di protezione organizzata. Questa potrà, anzitutto, essere superflua ove sia stato nominato un fiduciario. Il legislatore non si è, invece, occupato del ruolo da riconoscere ai cc.dd. protettori naturali (v. supra, par. 6, lett. g). D’altronde, il riferimento, diversificato rispetto al “fiduciario”, alle “persone di fiducia”, ad indicare quei soggetti vicini al paziente che lo stesso può coinvolgere nella relazione di cura, con formalità meno strutturate rispetto a quelle richieste per la vera e propria nomina fiduciaria, “se lo desidera” (v. art. 1, comma 1° e 3° e 5, comma 2°)59 potrebbe essere un indice da va-
V. sul punto, ad esempio, il documento su Nutrizione ed idratazione artificiale nella persona affetta da demenza: riflessioni etiche per un corretto impiego, approvato dal Comitato etico per la pratica clinica, ed adottate con delibera 28.6.2018, n. 557, del Direttore generale della Ulss 6 Euganea, Regione del Veneto, 21 s. 58
Come già sopra ricordato (v. par. 6, lett. f) i due modelli della persona di fiducia di cui all’art. 1 e del fiduciario di cui all’art. 4 sono istituti innovativi, che dovranno, dunque, essere adeguatamente approfonditi. Di particolare utilità può 59
lorizzare per attribuire una pur residuale rilevanza alla rete di protezione informale60, almeno nel caso in cui sia facilmente individuabile una persona, di fatto investita di fiducia dal paziente, prima del sopraggiungere dello stato di incapacità. Il protettore naturale avrebbe poteri meramente attestativi dei bisogni e delle preferenze del paziente, e potrebbe solo coaudiuvare i soggetti titolati a decidere per lo stesso: il personale curante, ma anche, ove nominato, l’amministratore di sostegno. Non è un caso che in molti provvedimenti di amministrazione di sostegno, che attribuiscono poteri decisionali in ambito sanitario, si richieda, comunque, di coinvolgere le persone significative per lo stesso61.
8. Una questione urgente per un dialogo costruttivo tra diritto e medicina Dalla ricognizione di cui sopra sono emerse diverse incertezze testuali ed una non immediata convergenza della l. n. 219 rispetto al più complessivo sistema della capacità. L’attività di chi è chiamato all’attuazione della stessa è inutilmente complicata e ne possono derivare interpretazioni opposte, non giustificate da esigenze di uguaglianza sostanziale. Il rischio è “di vanificare la rilevante portata innovativa” delle disposizioni della l. n. 219/2017, per utilizzare le parole del Consiglio di Stato62, del quale pure si condivide l’auspicio che il monitoraggio sull’attuazione della legge si accompagni a modifiche e miglioramenti affidati ad “interventi di carattere amministrativo o normativo”. Inforcando gli “occhiali” che ci si è sforzati di costruire nei par. 4-6, si sono provati ad indicare nel
essere il riferimento all’esperienza francese, in cui pure si distingue tra “personne de confiance” e “mandat de protection future”, ed il legislatore ha sempre mantenuto una (sempre più) residuale rilevanza per i «proches» o per l’«enturage» della persona. Sull’opportunità di procedere in questo senso v. anche Cembrani et al., Capacità ed incapacità, cit. 60
Così, da ult. Trib. Venezia, G. Tut., 26.2.2018, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, fasc. 9, in corso di pubblicazione. 61
62
Così Cons. Stato, Parere 18.7.2018, n. 1991, cit., punto 3.
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par. 7 alcuni punti di riferimento normativi, che sono sembrati sufficientemente affidabili, e che potrebbero essere rafforzati attraverso un’interpretazione “costruttiva” dell’odierna legge quanto ai problemi che ruotano attorno alla capacità del paziente. Altre difficoltà applicative, invece, sono necessariamente legate alla complessità della materia e possono e debbono essere affrontate nella pratica clinica, possibilmente con un investimento nella formazione iniziale e continua dei singoli professionisti e negli aspetti organizzativi del servizio sanitario. La questione più urgente mi sembra, in proposito, quella delle modalità di accertamento delle competenze decisionali del paziente. Posto che per il minore di età non ci si può avvalere della presunzione di capacità di agire e le capacità decisionali vanno accertate di caso in caso, mentre per la persona maggiore di età che non abbia una limitazione della propria capacità legale funziona una presunzione di capacità di prestare un valido consenso/dissenso, il compito di cogliere i segnali di difficoltà del paziente adulto o le potenzialità del paziente minore di età rispetto alla partecipazione alle scelte sulla propria salute non può che essere risolto, di volta in volta, nell’ambito della relazione di cura e fiducia, con una responsabilità che, lo si ribadisce, ricade sui curanti. Per gli adulti si potrebbe immaginare una sorta di “competence question”: “Posso considerare la persona che ho di fronte un interlocutore affidabile?”. Se la risposta è negativa o dubbia, sarà necessario approfondire il problema. L’accertamento deve avere come riferimento lo specifico compito da porre in essere, integrando competenze mediche, psicologiche e culturali/ esperienziali, ed avendo come obiettivo ultimo “il rispetto della dignità del paziente”, che richiede prima di tutto il riconoscimento della sua specificità. Per svolgerlo al meglio è necessaria la diffusione di una rinnovata cultura e di strumenti di accertamento clinici e multidimensionali, volti non solo all’individuazione dei deficit, ma anche e soprattutto delle potenzialità e delle risorse da attivare per la partecipazione alle scelte che riguar-
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dano il paziente63. Nell’ottica della predisposizione di programmi personalizzati ed integrati tra i diversi servizi coinvolti nella cura della persona, capaci di attivare le risorse della stessa e della sua rete naturale di protezione, a partire dai familiari o dalle persone vicine al paziente, la pianificazione condivisa, anche al di là dello strumento specifico di cui all’art. 5, e quello che è stato definito “consenso progressivo”64, divengono cruciali anche sul piano del riconoscimento e monitoraggio delle capacità di interazione del paziente e potrebbero essere lo strumento per superare lo scollamento avvertito dagli operatori tra il modello giuridico della “incapacità di intendere o di volere” e quello etico e medico-scientifico della “competenza/ dignità decisionale” del paziente65.
V. in questo senso, in prospettiva più ampia, l’All. 1 del d.p.r. 12.10.2017 (Adozione del secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità), in attuazione della l. n. 18/2009 di ratifica della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità; in senso conforme già il previgente programma di azione, adottato con d.p.r. 4.10.2013. 63
64 V. Società Italiana di Cure Palliative (S.I.C.P.), Informazione e consenso progressivo in cure palliative: un processo evolutivo condiviso, Raccomandazioni della SICP, Milano, 2015, in www.sicp.it. 65 V. ancora, in questo fascicolo: Cembrani et al., Capacità ed incapacità, cit.
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Errore o ritardo nella diagnosi: quanto devono essere concrete le chances perdute?
g g sa re e a p
Daniela M. Frenda
Ricercatrice nell’Università Cattolica di Milano Sommario: 1. La perdita di chance nella responsabilità medica: una premessa. – 2. Concretezza ed esistenza della chance. – 3. Concretezza della chance e determinazione del danno. – 4. Concretezza della chance e gravità della colpa dell’operatore sanitario.
Abstract: È posizione condivisa, in giurisprudenza, quella secondo cui la chance debba essere “concreta ed effettiva”. Cosa ciò realmente significhi, e come tale concretezza si debba valutare, non è però chiaro: il dubbio è che – le riflessioni sono condotte con particolare riguardo alla casistica in tema di responsabilità medica – dietro la richiesta di una concretezza minima che la chance dovrebbe avere affinché la sua perdita sia risarcibile, si nascondano, in realtà, esigenze di altro genere, e di carattere meno “oggettivo”. It’s a view endorsed by the majority of judgements that a chance must be “real”. But what this means, and how this condition should be considered, is scarcely understandable: the suspect is that – especially in the perspective of medical liability – behind the condition of “reality”, that the courts require in order to admit the claim of damages by the loss of chance, some other and less “objective” need is concealed.
1. La perdita di chance nella responsabilità medica: una premessa Il settore della responsabilità medica offre diversi spunti all’analisi della fattispecie del danno da
perdita di chance, oltre che, per conseguenza, allo studio della questione della sua risarcibilità nel nostro ordinamento. Terreno fertile per il fiorire delle riflessioni sul danno da perdita di chance è dato, in questo campo, dalle tante incertezze che affliggono il giudizio di responsabilità dell’operatore sanitario per il pregiudizio occorso all’integrità fisica, o finanche per la morte, del paziente; complici, da un lato, i limiti della scienza medica, e, dall’altro (in modo senz’altro connesso a quest’ultimi), l’ampia gamma di variabili date, per ciascun caso, dall’avvento di complicazioni di diversa natura, spesso innestate su patologie pregresse, ma non manifeste, del paziente. Sicché accade, non di rado, che a fronte di esito infausto per il paziente e condotta colposa del medico che lo ha avuto in cura, non sia possibile inferire un nesso di causa-effetto tra tale condotta del medico e il pregiudizio patito dal paziente, non potendosi dimostrare (nemmeno in termini di probabilità relativa) che, in caso di condotta impeccabile del medico, l’esito per il paziente sarebbe stato diverso, e più favorevole; né tuttavia potendosi neppure escludere, in molti di questi casi, che il “contributo colposo” dell’operatore sanitario abbia avuto un qualche ruolo, seppure non determinante, nella infelice vicenda che ha investito il paziente.
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Così, di fronte a situazioni di “stallo”, che non consentirebbero di pervenire ad alcun esito risarcitorio (pur non mancando la colpa nella condotta del potenziale danneggiante, né un evento sfavorevole nella sfera del sedicente danneggiato), la giurisprudenza elabora soluzioni alternative volte a temperare il rigore, percepito come eccessivo, dato dall’applicazione delle regole causali, dando così l’avvio a soluzioni di carattere per lo più equitativo, come la causalità proporzionale1, o, appunto, il danno da perdita di chance2. In tal modo la giurisprudenza, superando il principio dell’“all or nothing”, legittima soluzioni “a metà”, che se non gravano in modo eccessivo sulle tasche del potenziale danneggiante (la cui responsabilità non è peraltro provata, ma solo “adombrata” tra le altre alternative possibili), neppure scontentano del tutto coloro che, avendo subìto un evento sfavorevole a fronte di una condotta (almeno) negligente altrui, si trovano tuttavia nell’impossibilità di dimostrare il percorso causale che a tale evento ha condotto. In particolare, per rimediare all’«insanabile incertezza»3 rispetto all’eventualità che l’evento sfavorevole in capo ad un soggetto sia stato causato dalla condotta colpevole di un terzo – e, quindi,
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che la condotta colpevole di questi abbia procurato un danno a tale soggetto – la giurisprudenza ha preso a fare largo uso dell’espediente della categoria del danno da perdita di chance, riferita al pregiudizio che deriva ad un soggetto dalla perdita della possibilità di conseguire un evento favorevole, quando il mancato conseguimento di esso non è riconducibile a condotte altrui nemmeno in termini probabilistici4. In quest’ottica, considerare come evento dannoso risarcibile già il “sacrificio della possibilità” di conseguire un risultato favorevole accorcia il segmento causale oggetto di prova, poiché rimuove proprio il requisito del verificarsi del danno come prodotto della condotta e crea, al suo posto, un nuovo “danno”, “concreto ed attuale”5, «morfologicamente identificato» proprio nella stessa perdita della chance, che dunque è colta nella sua dimensione ontologica6. Nel contesto della responsabilità medica, in particolare, tale espediente ha consentito di giungere a una condanna risarcitoria (per quanto contenuta nel suo ammontare7) nei confronti del medico negligente, o imperito, anche in casi in cui è piuttosto improbabile che sia stato il suo errore
L’area coperta dalla perdita di chance è, invero, quella “del meno probabile che non”, con ciò intendendo che il nesso che lega la condotta all’evento dannoso non soltanto non è verificato con certezza, ma neppure vi è un’accettabile probabilità che esso sia verificato. Sopra questa soglia, l’evento dannoso sarebbe invece interamente addebitato alla condotta colposa altrui, poiché il nesso causale che lega condotta ed evento, in termini di probabilità relativa, sarebbe provato.
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Sul tema, v. Capecchi, Il nesso di causalità. Dalla condicio sine qua non alla responsabilità proporzionale, Padova, 2012, 266 ss. Contra, Belvedere, Osservazioni minime sul nesso di causalità nel diritto civile, in Id., Scritti giuridici. Persona, obbligazioni, responsabilità, contratto, 2, Padova, 2016, 795 ss.; Pucella, Concorso di cause umane e naturali, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 196. 1
La categoria del danno da perdita di chance fa il suo ingresso, in giurisprudenza, già negli anni Ottanta, in un caso di esclusione di un lavoratore da un concorso, con Cass., 19.12.1985, n. 6506, in Riv. dir. comm., 1986, II, 207.
2
Così si è espressa, di recente, la Supr. Corte (Cass., 9.3.2018, n. 5641, in Mass. Giust. civ., 2018), proprio con riferimento al problema del danno da perdita di chance di guarigione, o di vita più lunga o migliore, di una paziente in un caso in cui un errore nell’interpretazione di alcune radiografie toraciche portò gli operatori sanitari a non scorgere tempestivamente l’esistenza di un adenocarcinoma polmonare, che condusse la paziente alla morte. La pronuncia si segnala per lo sforzo definitorio, in quanto analizza il tema del danno da perdita di chance, nel tentativo di ridisegnarne i confini e differenziarlo dai danni da lesione di diritti alla persona. V. ancora infra, par. 3.
3
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5 V., tra tutte, Cass., 4.3.2004, n. 4400, in Contratti, 2004, 1094. L’espediente è criticabile sotto diversi aspetti: ce ne occupiamo nel prosieguo, affrontando il problema della chance sotto il profilo della sua concretezza.
Ovverosia, nel senso “proprio” in cui la chance è intesa in questo campo, ossia come entità a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione: al riguardo ad esempio, e non solo in campo medico, Cass., 4.3.2004, n. 4400, cit., 1091 ss.; Cass., 11.12.2003, n. 18945, in Mass. Giust. civ., 2003; Cass., 22.11.2004, n. 22026, ivi, 2004; Cass., 28.1.2005, n. 1752, ivi, 2005; Cass., 25.5.2007, n. 12243, ivi, 2007; Cass., 18.9.2008, n. 23846, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 284 ss.; Cass., 27.3.2014, n. 7195, in Foro it., 2014, I, 2137; Cass., 9.3.2018, n. 5641, cit. 6
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Sui criteri di determinazione del danno v. infra, par. 3.
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ad aver condotto ad un esito pregiudizievole per il paziente. Ciò accade, ad esempio, a seguito di errori o ritardi nella diagnosi di malattie già in stadio avanzato, e perciò con decorso ormai pressoché immodificabile. In vicende di questo genere – piuttosto frequenti nel panorama giurisprudenziale – poiché l’evento infausto non può essere ascritto al sanitario (atteso che, anche a fronte di diagnosi corretta e tempestiva, non è detto che l’esito sarebbe stato diverso per il paziente), le domande risarcitorie si condensano intorno al dato – considerato come se fosse un evento – delle possibilità perdute per opera del medico: se non per la morte, un risarcimento viene allora preteso per “il dubbio” che la vittima potesse vivere più a lungo (nella consapevolezza, quindi, che un corretto operato del medico avrebbe potuto anche non farla sopravvivere più a lungo), o che potesse vivere meglio, o che potesse soffrire meno, e via dicendo.
2. Concretezza ed esistenza della chance Nel definire i contorni del danno da perdita di chance, la giurisprudenza ha avuto cura di rimarcare, ripetutamente, come la chance perduta debba essere non già «teorica ed ipotetica», bensì debba individuare una «concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato»8. In un contesto in cui il risarcimento segue ad un «danno incerto»9, invero, la necessità che la chance sia almeno “concreta” traduce la volontà di limitare le pretese risarcitorie conseguenti alla sua perdita, escludendo dal giudizio di responsabilità quelle riguardanti le alternative più inafferrabili e lontane dalla realtà.
Il requisito della “concretezza” assurge, così, a carattere minimo che la chance deve avere affinché la sua perdita sia considerata quale danno risarcibile per chi la subisce. Ma cosa si intenda per “chance concreta” – specialmente per ciò che concerne il suo limite minimo (a che condizioni, cioè, la chance possa già dirsi concreta) – non è sempre agevole comprendere, né, soprattutto, pare che tale espressione la stessa giurisprudenza abbia sempre adoperato con lo stesso significato. Al contrario, la varietà – e diversità – di contesti in cui la concretezza è invocata dalle corti quale caratteristica della chance, alimenta la necessità di una riflessione sul significato che l’aggettivo “concreto” assume – oltre le formule “standard” inserite nelle parti motive delle pronunce – quando abbinato al sostantivo “possibilità” o “chance”; termini che, per loro natura, conservano pur sempre una certa dose di astrazione dalla realtà (e, dunque, dal legame causale realmente esistente tra condotta ed evento). In via di prima approssimazione, potremmo affermare che la chance è concreta quando il soggetto che ne lamenta la perdita si sarebbe trovato nella “reale” possibilità – benché confinata comunque sotto la soglia del “più probabile che non”10 – di ottenere il risultato sperato, o di evitare l’evento temuto, se non fosse stato per il comportamento del terzo (e, dunque, nel nostro contesto, quando il paziente avrebbe avuto una “reale” possibilità – ma neppure così vicina a realizzarsi – di sopravvivere più a lungo, o di vivere meglio, a fronte di un corretto operato dei sanitari). Nei termini in cui è resa, tuttavia, la regola giurisprudenziale è ancora troppo vaga per fornire un criterio11: l’assunto evocato a definire la concretezza della chance («concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato») non spiega a quali condizioni la chance soddisfi il requisito di essere concreta
Ex multis Cass., 11.12.2003, n. 18945, cit.; Cass., 4.3.2004, n. 4400, cit., 1094; Cass., 22.11.2004, n. 22026, cit.; Cass., 28.1.2005, n. 1752, cit.; Cass., 14.11.2017, n. 26822, in Mass. Giust. civ., 2018.
8
Cass., 9.3.2018, n. 5641, cit.; cfr. altresì Castronovo, Del non risarcibile aquiliano: danno meramente patrimoniale, cd. perdita di chance, danni punitivi, danno cd. esistenziale, in Eur. e dir. priv., 2008, 322.
9
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V. supra, nota 4.
E infatti, come si è detto, essa è stata richiamata come supporto di decisioni di segno diverso. 11
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(ossia reale); e, dunque, a quali condizioni la sua perdita divenga risarcibile12. Può forse aiutarci a riflettere il caso oggetto della pronuncia della Supr. Corte n. 23846 del 2008, in cui ad una donna, recatasi all’ospedale per forti dolori alla schiena e all’addome, veniva inizialmente diagnosticata la presenza di bolle d’aria di origine nervosa, anziché la grave neoplasia al pancreas in fase già avanzata, di cui questa veniva a conoscenza soltanto un mese dopo, all’esito di un’ulteriore visita medica13. In tale caso, nonostante il non trascurabile errore commesso dai medici che effettuarono la prima visita, non soltanto il legame causale tra l’errata (o, che in questo ragionamento è lo stesso, la tardiva) diagnosi e il decorso della malattia risultava tutt’altro che provato, ma discutibile poteva apparire persino il nesso tra l’errata diagnosi e la perdita della possibilità di un diverso decorso della malattia14. Già all’epoca della prima visita, infatti, la patologia tumorale versava in stadio avanzato, sì da giustificare la conclusione – ad opera dei giudici di primo e di secondo grado, sulla scorta anche delle consulenze tecniche ricevute – che, attese tutte le circostanze del caso, l’errore di diagnosi non fu determinante ai fini della condotta terapeutica: il che può tradursi nel dire che esso non privò il paziente di nessuna “concreta possibilità” di cura15.
12 O quando, al contrario, essa esista allo stadio di mera congettura: v. infra. 13
Si tratta della già citata Cass., 18.9.2008, n. 23846, cit.
Infatti, la richiesta di risarcimento dei danni conseguiti all’errata diagnosi fu respinta sia in primo grado, sia in appello. 14
I giudici dell’appello avevano affermato, invero, che «il detto ritardo nell’attivazione terapeutica non aveva modificato significativamente né la possibilità di somministrazione di farmaci né i benefici da essi derivati» e che l’intervento chirurgico «avrebbe potuto avere solo finalità palliativa ancorché eseguito dalla prima visita […] pur non potendosi escludere» – aveva aggiunto però la Corte d’Appello – «che una maggiore tempestività di esecuzione avrebbe potuto determinare una maggiore efficacia sulla durata della sopravvivenza e sulla qualità della vita di B.». Su quest’ultimo assunto, che secondo i criteri di giudizio adottati dai Giudici dell’appello sembra rientrare in una dimensione soltanto “teorica ed ipotetica” della chance, e cioè fermarsi allo stadio della 15
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Saggi e pareri
Il rigetto di ogni istanza risarcitoria non è parso tuttavia una soluzione soddisfacente agli occhi dei giudici della Cassazione del 2008, che, nel voler giustificare comunque un addebito a carico dei medici negligenti, hanno attribuito alla loro errata diagnosi ora la privazione, per la paziente, della possibilità di ricevere da subito alcuni benefici dati dalla somministrazione di determinati farmaci, che invece poté ricevere solo più tardi; ora la privazione della possibilità di vedere alleviate le sofferenze cui andò incontro; ora la perdita della possibilità di sopravvivere più a lungo, anche se per soli pochi mesi o settimane; ora la perdita della possibilità di subire un intervento chirurgico meno demolitivo; ora, finanche, la perdita della possibilità di scegliere il da fare per garantirsi una migliore salute residua fino all’esito infausto16. Di talché, il significato che qui la Cassazione attribuisce all’espressione “chance concreta” – e, dunque, il limite minimo che essa fissa per ammettere il risarcimento per la sua perdita – coincide con (scende a) quello di “chance esistente”: nel caso di specie, invero, la Supr. Corte ha considerato effettiva la chance, e dunque risarcibile la sua perdita, per il solo fatto che ha ritenuto esistere una qualche possibilità – sulla scorta ad esempio di calcoli statistici, o dell’id quod plerumque accidit – per un soggetto affetto da tumore avanzato al pancreas, di sopravvivere un poco più a lungo,
semplice congettura (chance esistente, ma non concreta?), si gioca, nei termini che andiamo dicendo, il problema della concretezza della chance. 16 In un continuo gioco di sovrapposizioni tra “l’essere e il poter essere”, la Supr. Corte opera spesso una confusione tra la perdita del bene e la perdita della possibilità di conseguirlo: così, confonde, ad esempio, la diminuzione della qualità di vita della paziente con la perdita per quest’ultima della possibilità di ricevere da subìto alcuni benefici dalla somministrazione di determinati farmaci; le maggiori sofferenze cui essa andò incontro, con la perdita della possibilità di vedere alleviate le sofferenze cui andò incontro; la privazione della vita per alcuni mesi o settimane, con la perdita della possibilità di sopravvivere ancora qualche mese o settimana ecc. Cerca di fare chiarezza Cass., 9.3.2018, n. 5641, cit.: v. supra, nota n. 3. Al riguardo cfr. Belvedere, Il nesso di causalità, in Id., Scritti giuridici. Persona, obbligazioni, responsabilità, contratto, 2, Padova, 2016, 873 s.
Concretezza ed esistenza della chance perduta
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o di soffrire di meno, o di subire un intervento chirurgico meno demolitivo, ecc. Sostituire l’esistenza alla concretezza, tuttavia, se da un canto porta a sostenere la risarcibilità di ogni chance indipendentemente dalle probabilità che essa esprime in relazione all’evento finale17, d’altro canto – e proprio, in realtà, come conseguenza di tale assunto – porta a separare la prova dell’esistenza della chance dalla misura delle probabilità che essa esprime in relazione all’evento finale. A questa stregua, il ragionamento presuntivo o probabilistico che – secondo le normali regole della causalità in campo civilistico – è richiesto al danneggiato per affermare il suo diritto al risarcimento per la chance perduta, si applicherebbe, in primis, alla dimostrazione della stessa esistenza della chance, ossia della situazione di fatto fondante la possibilità di ottenere il risultato finale favorevole18, e al fatto che detta chance sia sfumata per mano di un terzo19; mentre non importerebbe,
a questo fine, il grado di probabilità che la chance esprime in relazione all’evento finale favorevole mancato. Parrebbe possibile, in questo modo, ovviare all’imbarazzo di dover respingere integralmente ogni pretesa risarcitoria avanzata dalle vittime in quei casi, particolarmente delicati, in cui l’errore del medico c’è stato, ed è stato tutt’altro che di poca importanza (come infatti nel caso oggetto della citata pronuncia della Supr. Corte n. 23846/2008), ma in cui, per essere la malattia ad uno stadio ormai molto avanzato, è fortemente improbabile che l’intervento del sanitario avrebbe potuto incidere sul suo decorso; in situazioni come queste, invero, non è strano che lo scenario, di per sé già poco nitido, sia offuscato dall’angolo visuale assunto, facendo apparire le possibilità perdute per via dell’operato del medico come di più, o più consistenti, di quanto esse non siano20. Questo ragionamento, però, di concreto ha poco: esso svuota di contenuto lo stesso requisito della concretezza della chance, facendo dipendere la risarcibilità della sua perdita unicamente dalla prova che, in assenza dell’intervento di un terzo, il sedicente danneggiato avrebbe avuto una qualunque possibilità di conseguire un dato risultato. Cosa che, del resto, è contenuta a ben vedere anche nell’affermazione, comune in giurisprudenza, secondo cui il danno da perdita di chance «non va commisurato alla perdita del risultato, bensì alla mera possibilità di conseguirlo»21.
I.e., indipendentemente dalla sua concretezza. Cfr. Cass., 4.3.2004, n. 4400; Cass., 22.11.2004, n. 22026; Cass., 18.9.2008, n. 23846, tutte citt. Sulla contraddizione che ciò comporta, vedi infra, spec. par. 3. 17
18 Dando l’illusione che si debba dare prova anche della “ragionevole probabilità dell’esistenza della chance”: Cass., 18.9.2008, n. 23846, cit., 291, si è espressa infatti anche dicendo che il danneggiato deve provare che «la situazione fattuale che si vuole determinativa della chance dev’essere tale che si possa presumere che essa l’avrebbe determinata o che appaia probabile che essa l’avrebbe determinata». Dello stesso tenore, in particolare, anche Cass., 11.12.2003, n. 18945, cit.; Cass., 4.3.2004, n. 4400, cit.; Cass., 22.11.2004, n. 22026, cit.; Cass., 25.5.2007, n. 12243, cit.; Cass., 27.3.2014, n. 7195, cit. In dottrina v. Franzoni, Il danno risarcibile, nel Trattato della responsabilità civile, 2, Milano, 2010, 90 s. 19 È esplicita, in questo senso, Cass., 27.3.2014, n. 1752, cit., quando afferma che «è l’evento perdita di chance a costituire il termine di riferimento della causalità, quale evento di danno risarcibile». Sicché, in astratto, potrebbe accadere (ma non è mai accaduto, nella pratica) che la perdita della possibilità di una vita più lunga, dovuta ad un errore del medico, debba poter essere risarcita anche se, alla fine, il paziente dovesse salvarsi per qualche intervento riparatore di altro medico o per circostanze fortuite: v. Belvedere, Il nesso di causalità, cit., 870, nota n. 191, e Lisi, Diagnosi errata e chances perdute, in Contratti, 2004, 1099. Giudica paradossale questa circostanza P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017, 578, che infatti ritiene che il danno da perdita di chance non possa valutarsi che in riferimento
3. Concretezza della chance e determinazione del danno La fragilità di un tale discorso affiora ancor più chiaramente quando si voglia procedere alla liquidazione del danno che la perdita di chance esprime.
a “vicende chiuse”; sicché, afferma quest’ultimo A., op. cit., 576, «la chance non è un evento, bensì un giudizio». V., infatti, la lunga lista di possibilità perdute individuate da Cass., 18.9.2008, n. 23846, cit. 20
21
Cass., 4.3.2004, n. 4400, cit., 1094.
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La consistenza della chance, che secondo quest’ultimo indirizzo non è criterio per affermare, o escludere, la risarcibilità del danno derivante dalla sua perdita22, torna ad essere considerata, però, per definire l’entità del risarcimento, nel senso che è proprio la misura che essa esprime in relazione all’evento finale ad orientare il giudice, sia pure su basi inevitabilmente equitative, in sede di quantificazione del danno; sicché, quanto più alta è la possibilità che la chance si possa tramutare in un dato evento, tanto maggiore sarà il risarcimento assegnato alla vittima23. Così, le probabilità di avveramento dell’evento desiderato, quand’anche ritenute ininfluenti nell’affermare la risarcibilità del danno da perdita di chance, tornano ad essere rilevanti quando si tratti di determinarne l’ammontare, facendo riaffiorare, in tal modo, proprio quell’attenzione alla concretezza della chance, messa a tacere nella fase precedente24. In linea con quanto detto, una recente pronuncia della Supr. Corte, all’interno di un obiter dictum dedicato a (tentare di) fare ordine intorno alla nozione di perdita di chance, ha qualificato quest’ultima come «un diminutivo astratto dell’illecito», intendendo che il suo risarcimento costituisce una frazione dell’intero danno derivante dalla mancata realizzazione dell’evento finale favorevole25. Sarebbe così consentito, a mente di certa giurisprudenza, di scongiurare il rischio di «confondere il grado di incertezza della chance perduta con il grado di incertezza sul nesso causale», poiché, mentre l’accertamento dell’esistenza della chance
22 Bastando, a fondare il risarcimento, l’esistenza di una qualsiasi chance. 23
Saggi e pareri
perduta seguirebbe «l’ordinaria trama probatoria dettata in tema di causalità materiale», il grado di incertezza relativo all’evento finale – dunque, in altri termini, il problema della concretezza della chance – si riverserebbe soltanto sull’identificazione del danno (e, quindi, sulla commisurazione del suo risarcimento)26. La suggestione di vedere in tal modo riconciliata la perdita di chance con le regole di causalità civile svanisce però già di fronte ad alcune prime obiezioni. Innanzitutto, col negare ogni rilevanza iniziale alla misura delle probabilità di verificazione dell’evento desiderato, la giurisprudenza è caduta nella contraddizione di affermare esistente (anche se poi, nei fatti, non risarcibile) persino una chance che non esprima alcuna probabilità in relazione all’evento finale: senza avvedersi che, così, la chance esisterebbe… senza esistere27. Vieppiù, è proprio il criterio usato per quantificare il danno da perdita di chance – che, come detto, isola la percentuale di possibilità che l’evento favorevole aveva di verificarsi – a rivelare come sia utopico pensare che, in tal modo, le regole di causalità non siano state vulnerate28; e a mostrare come, al contrario, tutta la tesi sia fragile quanto un castello di carta. Solo apparentemente, infatti, la separazione dei due momenti – esistenza della chance, provata con il metodo del “più probabile che non”, e determinazione del danno, ancorata al grado di probabilità che lega la chance all’evento finale favorevole – consente al primo momento di conservare integro il meccanismo della causalità materiale. Così non è, innanzitutto, perché il giudizio di causalità predica un legame tra una condotta ed un evento, e non già, come accade qui, tra una con-
Così Cass., 18.9.2008, n. 23846, cit., 291 s.
A significare che nessun giudizio o “para-giudizio” di causalità può prescindere dall’evento finale cui ricollegare la condotta, a meno di non voler trasformarsi in qualcosa di diverso, ad esempio in un’attribuzione di un valore convenzionale per tipo di perdita. 24
Cfr. Cass., 9.3.2018, n. 5641, cit. Anche se, al contempo – piuttosto contraddittoriamente – la Supr. Corte rivendica una diversità sostanziale di petitum della domanda di risarcimento del danno da perdita di chance da quella di risarcimento del danno da lesione di un diritto o interesse tutelato dall’ordinamento. 25
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Così ancora Cass., 9.3.2018, n. 5641, cit.
27
Cfr. Belvedere, Il nesso di causalità, cit., 867, nt. 177.
Come forse suggerisce Cass., 9.3.2018, n. 5641, cit., quando afferma che la scelta dell’ordinamento di risarcire il danno da perdita di chance «consente […] di temperare equitativamente il criterio risarcitorio del cd. all or nothing, senza per questo essere destinata ad incidere sui criteri di causalità […]». 28
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dotta e la «reificazione della probabilità»29 che un evento si realizzi, o manchi; sicché solo esteriormente il primo momento non è corroso dall’incertezza che pervade il secondo, poiché il fatto di arrestarsi alla prova della probabilità di un evento non è un modo per combattere l’incertezza, bensì per accettarla come elemento strutturale del giudizio. Del resto, è la stessa Supr. Corte a collocare la figura del danno da perdita di chance «in una dimensione di insuperabile incertezza», definendola come «fattispecie di danno in re ipsa che prescinde del tutto dall’esistenza e dalla prova di un danno risarcibile», e predicando la soluzione della sua risarcibilità come una scelta di politica del diritto, anziché come una conseguenza dell’applicazione delle regole causali30. In seconda istanza, a vulnerare le regole della causalità è proprio, in questo campo, il criterio proposto per la determinazione del danno, che prevede che percentuali di incidenza si tramutino in percentuali di quantificazione (cosicché, per fare un esempio, se il danno conseguente all’evento finale consistente nella morte di Tizio è pari a 100, e la possibilità che egli sopravvivesse più a lungo era del 10%, allora Caio, che con la sua condotta lo ha privato di questa possibilità, sarà chiamato a pagare 10). Il criterio è il medesimo adoperato dalla nota pronuncia della Supr. Corte n. 15991/2011 per valutare l’efficienza causale di (e dunque il costo da addossare a) ciascuna concausa, ed è dato dalla divisione del carico risarcitorio in base alla probabilità, calcolata anche con criteri equitativi, che l’evento sia da ricondurre a ciascuna premessa31. Nonostante sia in uso, l’operazione non può giustificarsi sotto il profilo causale: come è stato os-
Pucella, Causalità civile e probabilità: spunti per una riflessione, in Danno e resp., 2008, 64. 29
30
Cass., 9.3.2018, n. 5641, cit.
Cfr. Cass., 21.7.2011, n. 15991, in Danno e resp., 2012, 192 ss.; il metodo non è poi così distante da quello proposto da Cass., 16.1.2009, n. 975, in Foro it., 2010, I, 994 ss. Sulla differenza – più apparente che reale – tra le due, sia consentito rinviare a Frenda, Concausa naturale e concorso colposo del danneggiato: questioni analoghe, soluzioni opposte, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 419 ss. 31
servato, infatti, essa si traduce in un «escamotage per accollare (anche solo in parte) un danno ad un soggetto, senza accollargli l’evento da cui il danno dipende»32. Tale criterio, lungi dal preservare intatta la regola di causalità del primo tratto (quella che a ritroso lega la chance perduta alla condotta), mischia indebitamente la prova dell’esistenza del danno con la determinazione del suo ammontare, utilizzando per questa seconda fase dati che dovrebbero invece servire a definire la prima. Solo in apparenza, perciò, la prima fase mantiene integra la «trama probatoria dettata in tema di causalità materiale»33, mentre, in realtà, si limita soltanto a rimandare le incertezze, che pur già la riguardano, alla fase di determinazione del danno. Per questo, neppure separando esistenza e concretezza, il giudizio sulla perdita di chance può ambire a liberarsi da quello stato di “insuperabile incertezza”, che è connaturato al suo essere mero sacrificio della possibilità di conseguire un dato risultato; al contrario, separare la chance dall’indicazione delle probabilità che essa esprime in relazione all’evento finale favorevole, è un modo per lasciare insoluta la questione del limite minimo di risarcimento irrogabile, e, in assenza di limiti, per aprire la strada alla discrezionalità del giudice.
4. Concretezza della chance e gravità della colpa dell’operatore sanitario Ma se obliterare il requisito della concretezza non mette il giudizio di risarcimento per la perdita di chance al riparo dall’incertezza sua congenita, nemmeno mantenere saldo il riferimento ad essa fornisce ancora una soluzione al problema della determinazione del limite minimo di possibilità (perdute) risarcibili. Una volta escluso, invero, che la chance possa dirsi concreta (e quindi risarcibile) per il solo fatto di essere esistente, rimane da capire, tornando al quesito iniziale, quale misura di probabilità essa
32
Belvedere, Osservazioni minime, cit., 796 s.
33
Cass., 9.3.2018, n. 5641, cit.
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deve almeno esprimere in relazione all’evento finale, perché possa dirsi concreta ed effettiva (e dunque risarcibile). Al riguardo, è significativa una recente pronuncia della Corte di Cassazione, n. 26822/201734, avente ad oggetto proprio un caso di ritardo nella diagnosi di una neoplasia, che portò il paziente alla morte. In questo caso, attesa, da un lato, la gravità e l’aggressività della malattia, già avanzata nel suo decorso, e, dall’altro, il ritardo molto contenuto da parte dei medici nella consegna del referto (non più di dieci giorni, come si legge in sentenza), i giudici (e non solo della Supr. Corte, bensì anche dei precedenti gradi di giudizio) negarono il risarcimento ai congiunti della vittima, ritenendo che il ritardo fu assolutamente ininfluente dal punto di vista prognostico (i.e., che non vi fosse la prova di alcun effetto di detto ritardo sulle sorti del paziente), e ciò sotto tutti i profili considerati dagli attori; escludendo, cioè, non soltanto che detto ritardo avesse provocato, o accelerato, la morte del paziente, ma pure che lo avesse anche solo privato della possibilità – concreta ed effettiva – di vivere meglio o più a lungo, o di sottoporsi a ulteriori cure. Ora, se tale pronuncia ha il pregio di non avere dato rilievo ad una chance non “concreta”, le espressioni usate conservano però una certa ambiguità, poiché, negando il risarcimento per avere ritenuto il ritardo “assolutamente” ininfluente e, perciò, per avere escluso “qualunque” diminuzione delle possibilità di cura, la Cassazione sembra avere perseverato – benché in negativo, e quindi in modo “innocuo” – nell’errore di equiparare esistenza e concretezza della chance35; senza, perciò, fornire ancora soluzione al problema del limite minimo. Più interessante, in questa pronuncia, è invece notare come la chance non sia stata ritenuta concreta a fronte di un errore medico molto lieve; è vero, infatti, che un ritardo di pochi giorni nella diagnosi di una malattia incurabile non può to-
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gliere al paziente serie alternative di cura – sicché la conclusione della Supr. Corte potrebbe non rimandare immediatamente a considerazioni sulla colpa dei sanitari – ma è anche vero, d’altra parte, che anche nel caso di Cass. n. 23846/2008, su cui abbiamo riflettuto sopra, le alternative di cura o le possibilità di guarigione, per la paziente, non varcavano le soglie della congettura (la corretta diagnosi arrivò appena un mese dopo quella errata). In quella vicenda, però, l’errore dei medici non fu altrettanto lieve: essi non videro una formazione sospetta che, date le sue dimensioni, era difficile ignorare, e la paziente poté ricevere corretta diagnosi soltanto grazie al proprio scrupolo di ripetere la visita mediante canali privati36. Sorge perciò il dubbio che, a dispetto dei proclami della Cassazione, la determinazione del limite minimo di possibilità (perdute) risarcibili non sia appesa ad una non meglio specificata concretezza, bensì dipenda, caso per caso, dalla gravità della colpa di colui per mano del quale tali possibilità (concrete o meno) sono irrimediabilmente sfumate37. Sicché, nel decidere della risarcibilità o meno delle possibilità perdute, la concretezza della chance sembra cedere il passo, soprattutto a fronte di chances “inafferrabili”, alla gravità della colpa. Nel settore della responsabilità medica, in particolare, il rischio che la finalità sanzionatoria abbia il sopravvento su quella compensativa è particolarmente elevato: l’azione di responsabilità sanitaria, incidendo su diritti della persona, si spinge spesso oltre l’istanza di ristoro per danni patiti, raggrumandosi intorno al biasimo per l’errore del medico, che si vuole collegato all’esito infausto del paziente oltre ogni ragionevole… prova. Quando, per di più, la cornice della vicenda è quella della responsabilità contrattuale – come in questo campo accade quando il convenuto sia la struttura sanitaria, o quando il medico abbia assunto un’obbligazione contrattuale direttamente
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Si tratta di Cass., 14.11.2017, n. 26822, cit.
L’errore è comune: v. ad esempio anche Cass., 28.1.2005, n. 1752, cit. 35
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V. supra, parte di testo corrispondente alle note 13 ss.
Sul punto v. anche le riflessioni di Violante, La chance di un giro di valzer (sul danno biologico dell’aspirante ballerino), in Danno e resp., 1999, 536. 37
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con il paziente38 – far scivolare l’intero problema sul piano della colpa è ancora più facile: atteso, infatti, che la condotta colposa del medico configura di per sé un inadempimento a prescindere dal mancato avveramento del risultato finale atteso dal creditore39, breve è il passo a farne conseguire una responsabilità a carico del medico – e, dunque, un diritto al risarcimento a favore della vittima – ancor prima di verificare se tale inadempimento abbia prodotto un danno, oppure no (come dire, nel nostro esempio, che l’errore nella diagnosi è già danno, senza che occorra verificare che ad esso sia conseguita la morte o il peggioramento delle condizioni di salute del paziente). Tale soluzione, tanto comoda ai fini del risarcimento del danno da perdita di chance, affonda le sue radici nella teoria del c.d. danno normativo, che, muovendo dall’assunto secondo cui l’unica conseguenza dell’inadempimento è la responsabilità, considera l’inesatto adempimento come se fosse, esso stesso, già l’evento lesivo40.
Aggirato in tal modo il problema dell’accertamento del nesso causale tra l’inadempimento e il pregiudizio che si assume patito, fa così la sua definitiva uscita di scena anche il requisito della “concretezza”, che viene completamente appiattito sulla gravità della colpa del medico. I riferimenti all’evento dannoso finale come “massimo comune denominatore” su cui calcolare la porzione di danno corrispondente alla chance perduta, allora, se non indici della sua concretezza, restano però a significare il legame tra essa e l’accadimento favorevole mancato, sì da indurre a diffidenza anche verso l’idea – premessa alla tesi della risarcibilità del danno da perdita di chance – che la chance possa costituire un’entità autonoma (e perciò autonomamente tutelabile) rispetto al bene leso per via del mancato verificarsi dell’accadimento sperato: finendo essa, così, per apparire “inafferrabile” in ogni suo aspetto.
38
V., ora, l’art. 7 della l. 8.3.2017, n. 24.
Non occorre infatti attendere il verificarsi di un accadimento come esito della condotta per configurare l’inadempimento del medico, essendo l’obbligazione di cure una tipica obbligazione di mezzi; o, si può anche dire, prendendo le distanze dalla distinzione tradizionale tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, che non occorre attendere il risultato “finale” della condotta, attesa la compresenza, «in ogni obbligazione, sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile» (così Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, in Danno e resp., 2008, 790: in questo senso la condotta negligente, imprudente, o imperita del medico avrebbe impedito il raggiungimento di risultati intermedi). 39
Per questa ragione Castronovo, Del non risarcibile aquiliano, cit., 325, afferma che «la privazione della chance trova la configurazione propria nella responsabilità contrattuale». Cfr. anche Id., La nuova responsabilità civile, III, Milano, 2006, 809 s. Ma, se è vero che nel campo della responsabilità contrattuale non occorre accertare l’ingiustizia del danno – e in questo senso la figura del danno da perdita di chance è in tale ambito rafforzata, poiché è possibile non dare risposta al quesito su quale sia il diritto o l’interesse violato – è pur vero che, a meno di ritenere che l’inadempimento sia già danno, affinché sorga una responsabilità a carico dell’inadempiente, e un diritto risarcitorio in capo al creditore, è necessario che vi sia un evento lesivo riconducibile, quale conseguenza immediata e diretta, all’inadempimento; evento che non può essere lo stesso inadempimento. Sicché il problema del nesso causale tra la condotta e il danno non è risolto, ma solo 40
“schivato”.
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Saggi e pareri
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Forma e prova del “consenso informato” dopo la legge n. 219/2017
g g sa re e a p
Giampaolo Miotto Avvocato in Treviso
Sommario: 1. Contraddizioni ed equivoci nella giurisprudenza in tema di forma del “consenso informato”. – 2. La forma del “consenso informato” prima della legge n. 219/2017. – 3. La forma del “consenso informato” nella legge n. 219/2017. – 4. La prova del “consenso informato” dopo la legge n. 219/2017. – 5. Il valore probatorio delle dichiarazioni del paziente e delle “annotazioni” nella cartella clinica (e nel “fascicolo sanitario elettronico”).
Abstract: Alcune recenti decisioni della Suprema Corte affermano che il “consenso informato” sarebbe un atto a forma vincolata, escludendo che esso possa esser manifestato “oralmente”. In realtà non vi sono norme che prescrivono la forma scritta, né ad validitatem, né ad probationem, per la prestazione informativa dovuta dal medico e/o dalla struttura sanitaria e per l’atto volitivo con il quale il paziente consente o rifiuta il trattamento medico propostogli. La legge n. 219/2017, pur con una formulazione a volte infelice, conferma questa tesi e induce altresì ad una più approfondita riflessione in merito alla prova del “consenso informato” e sul valore probatorio delle dichiarazioni del paziente, nonché sulle annotazioni apposte nella cartella clinica e nel “fascicolo sanitario elettronico” a questo proposito. Some recent decisions of the Supreme Court of Cassation affirm that the “informed consent” would be an action to bound form, excluding that it can be manifested “orally”. There are no norms that prescribe the written form, neither ad validitatem, neither ad probationem, for the informative performance owed by the physician and/or from the sanitary structure and for the volitional action with which the patient allows or refuses the medical treatment proposed him.
The law n. 219/2017, although with an unhappy formulation at times, confirms this thesis and it also induces to a more deepened reflection regarding the evidence of the “informed consent” and the probative value of the declarations of the patient, as well as the annotations affixed in the medical file and in the “electronic sanitary file” to this intention.
1. Contraddizioni ed equivoci nella giurisprudenza in tema di forma del “consenso informato” In una recente pronuncia della Cassazione civile1 si legge che “il medico vien meno all’obbligo di fornire idonea ed esaustiva informazione al paziente […] anche quando ne acquisisca con modalità improprie il consenso, sicché non può ritenersi validamente prestato il consenso espresso oralmente dal paziente”. Alla perentorietà del predetto assunto si accompagna la mancanza di una qualsivoglia argomentazione.
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Cass., 23.3.2018, n. 7248, in Dir. e giust., 2018.
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La decisione, che ha disatteso una censura del ricorrente fondata sulla violazione del disposto dell’art. 1325 c.c., si è limitata ad esplicitare l’intento di “dare seguito” ad un “orientamento” già espresso da un proprio precedente2. All’interprete non rimane, quindi, che riandare a quest’ultimo per rinvenire le motivazioni della tesi accolta dalla Corte, ma, in realtà, neppure la lettura di Cass. n. 19212/2015 restituisce una qualche intellegibile ragione dell’asserita invalidità del consenso “espresso oralmente”. La motivazione della sentenza in parola, invero, consiste in un ampio catalogo dei principi giuridici affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di “consenso informato”, nel quale si ricorda, fra l’altro, che “si è da questa Corte ad esempio ritenuto non validamente prestato un consenso ottenuto mediante la sottoposizione al paziente, ai fini della relativa sottoscrizione, di un modulo del tutto generico, non essendo in tal caso possibile desumere con certezza che il paziente abbia ricevuto le informazioni del caso in modo esaustivo (v. Cass., 8.10.2008, n. 24791)”. Subito dopo si sostiene che “a tale stregua deve allora ritenersi a fortiori inidoneo un consenso come nella specie dalla paziente asseritamente prestato oralmente”. L’incoerenza logica e giuridica di tale conclusione rispetto alla sua premessa risulta tuttavia più che evidente. È ben vero, infatti, che la giurisprudenza ritiene inidoneo a provare l’esatto adempimento dell’obbligazione informativa del medico (e della struttura sanitaria) un modulo prestampato, fatto sottoscrivere al paziente, che sia “del tutto generico”, dal quale “non sia possibile desumere con certezza che il paziente medesimo abbia ottenuto in modo esaustivo le [...] informazioni” necessarie a renderlo edotto “della natura dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative”3.
Cass., 29.9.2015, n. 19212, in Dir. e giust., 2015, con nota di Valerio.
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In proposito si veda, da ultima: Cass., 4.2.2016, n. 2177, in
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L’inidoneità di un simile documento a provare l’esatto adempimento dell’anzidetta obbligazione informativa però non ha nulla a che vedere con la forma del consenso all’atto medico che il paziente deve esprimere sulla base delle informazioni somministrategli. Una cosa, infatti, è la prestazione informativa che il medico deve al proprio paziente, tutt’altra il consenso che questi deve manifestare all’atto diagnostico o terapeutico propostogli. Per cui non è dato comprendere come l’inattitudine di un documento a provare che la prima sia stata adempiuta possa escludere (addirittura “a fortiori”) che il secondo possa esser manifestato verbalmente. Ciò tanto più che la forma è requisito dei contratti, e degli atti unilaterali (art. 1324 c.c.), come il “consenso” in questione, solo nei casi in cui la legge la prescriva a pena di nullità, giusta il disposto dell’art. 1325, n. 4, c.c. Ed, infatti, la tesi postulata dalle due decisioni citate è contraddetta dal contenuto di numerose altre pronunce, anche recentissime, seppure non senza incertezze e ragionamenti largamente impliciti. Basti dire che un’altra decisione della Corte, pressoché coeva della prima citata, afferma una tesi diametralmente opposta, negando che il “consenso” debba darsi per iscritto perché “nel nostro ordinamento vige il principio della libertà delle forme, con la conseguenza che qualsiasi atto negoziale può essere compiuto in qualsiasi forma, a meno che non sia la legge ad imporre lo scritto” e “nessuna norma di legge, né alcun principio, impongono in via generale al medico di raccogliere per iscritto, quoad substantiam, il consenso del paziente all’atto clinico”4. Dello stesso segno è il contenuto della giurispru-
Resp. civ. e prev., 2016, 1359. Cass., 30.4.2018, n. 10328, in DeJure. In precedenza aveva esplicitamente affermato l’ammissibilità di un consenso “orale” anche Cass., 31.3.2015, n. 6439, in Foro it., 2015, I, 3659. Aveva escluso che la forma scritta del consenso fosse necessaria ad substantiam anche Cass., 27.11.2012, n. 20984, in Rass. dir. farm., 2013, 772. Ancor prima aveva ritenuto validamente espresso un consenso per facta concludentia, in assenza di atto scritto, Cass., 28.7.2011, n. 16543, in Giust. civ., 2013, I, 1169.
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denza di merito5, seppur con qualche minoritaria decisione di segno contrario6. Implicitamente hanno aderito a quest’ultimo orientamento anche altre decisioni di legittimità, secondo le quali il “consenso” del paziente può esser provato (non già solo per iscritto, ma anche) con la prova testimoniale7, con quella pre-
Si vedano, ad esempio: “La responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell’obbligo di consenso informato discende dalla prova: a) della condotta omissiva tenuta in relazione all’adempimento dell’obbligo di informazione riguardante le prevedibili conseguenze del trattamento terapeutico; b) del verificarsi, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, e quindi in forza del nesso di causalità con essa, di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente. Con particolare riguardo al primo aspetto, si precisa che il consenso informato non richiede la forma scritta “ab substantiam”, ma è necessaria una manifestazione reale, cioè concretamente avvenuta “hic et nunc”. (Nella specie, il tribunale non ha ravvisato la responsabilità del medico, avendo ritenuto soddisfatto, alla luce dell’istruttoria, l’obbligo di informazione, pur in assenza della firma della paziente in cartella clinica, e non avendo ravvisato il nesso di causalità tra l’intervento e l’aggravamento della patologia dell’attrice)” (Trib. Salerno, 28.1.2013, in DeJure). “Nel valutare la responsabilità colposa del medico, deve ritenersi che il consenso informato non necessiti della forma scritta, essendo sufficiente la forma orale o altra modalità, a condizione che le necessarie informazioni vengano effettivamente recepite dal paziente. (Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che sia la disponibilità presso la struttura medica di “dépliant” o “brochure” relativi ai farmaci somministrati, sia la mera consegna di detto materiale al paziente non siano procedure idonee a fornire una seria ed effettiva informazione al paziente stesso, dato che rimettono interamente a quest’ultimo l’iniziativa di apprenderne il contenuto)” (Trib. Milano, 25.11.2005, in Foro ambr., 2005, 406).
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“Il consenso informato del paziente all’intervento medico deve essere trasfuso in un documento scritto” (Trib. Roma, 11.2.2014, in Foro it., 2015, I, 3659). Mentre per App. Roma, 6.12.2011, in DeJure, il consenso può essere espresso anche verbalmente, salvo il caso che l’esame o la terapia cui il paziente deve sottoporsi possano comportare “gravi conseguenze per la salute e l’incolumità della persona”.
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Nel caso specifico la Cassazione ha confermato la decisione di una Corte territoriale secondo la quale era “stata adeguatamente dimostrata la prestazione del consenso da parte del padre dei ricorrenti sulla base di quanto accertato mediante le dichiarazioni rese da una testimone”, osservando che questa aveva “adeguatamente dato conto – sulla base delle specifiche e circostanziate emergenze istruttorie – che la prova era stata fornita sia in ordine all’obbligo di informazione sia in relazione al prestato consenso” (Cass., 30.4.2018, n. 10325, in DeJure). Già in precedenza la Corte
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suntiva8 e con la confessione resa a seguito di interrogatorio formale9. Ammettere che il consenso del paziente possa essere dimostrato con una prova diversa da quella documentale, invero, significa per ciò stesso riconoscere che esso non è un atto formale e che, quindi, la volontà di consentire all’atto medico possa essere validamente manifestata anche verbalmente, per esser poi provata con qualsiasi mezzo. Questa constatazione fa riflettere sull’intima connessione fra il tema (di diritto sostanziale) della forma del “consenso informato” e quello (di diritto processuale) della sua prova, che riguarda i mezzi di prova ammissibili per la sua dimostrazione, ciò che equivale a chiedersi se quest’ultima possa darsi solo mediante prove costituite o anche con prove costituende. Ed è forse questa connessione che può aver suscitato le incertezze e le reticenze di una giurisprudenza oscillante, che, in questa specifica materia, appare connotata dalla litanica declamazione di principi sovente almanaccati in interminabili elencazioni10 o dall’esibizione di improprietà anche
aveva esplicitamente affermato l’ammissibilità della prova testimoniale tanto dell’informazione data al paziente, quanto del consenso da questi espresso (Cass., 31.3.2015, n. 6439, cit.) In un’altra, recente pronuncia la Corte ha, invero, precisato che “il consenso del paziente all’atto medico non può mai essere presunto o tacito, ma deve essere fornito espressamente, dopo avere ricevuto un’adeguata informazione, anch’essa esplicita; presuntiva, per contro, può essere la prova che un consenso informato sia stato prestato effettivamente ed in modo esplicito, ed il relativo onere ricade sul medico” (Cass., 31.1.2018, n. 2369, in Giust.civ.com, con nota di Benvenuti). 8
Sulle sole “dichiarazioni rese in sede di interrogatorio” dal paziente interessato si è basata, invero, la Corte per ritenere che fosse stata raggiunta la prova tanto dell’informazione somministratagli, quanto del relativo consenso, in un’altra recente decisione (Cass., 20.4.2018, n. 9806, in DeJure).
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Si veda, ad esempio, Cass., 31.1.2018, n. 2369, cit.
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gravi11, piuttosto che da un’approfondita elaborazione argomentativa.
2. La forma del “consenso informato”, prima della legge n. 219/2017 Questa constatazione induce a distinguere le due problematiche anzidette ed a trattarle separatamente, per chiarirne con maggior precisione tutte le implicazioni giuridiche. Al riguardo occorre fare una premessa, per ricordare che, in realtà, l’espressione “consenso informato” è un’endiadi12 forgiata per sottolineare la complementarietà di due fatti giuridici ben distinti, e cioè la prestazione informativa relativa ad un determinato atto medico, di cui sono obbligati il medico e la struttura sanitaria, e la manifestazione di volontà, autorizzativa di quello stesso atto, che il paziente deve esprime per consentirne l’esecuzione13.
11 A titolo di esempio riportiamo, senza commentarlo, un passaggio fondamentale della motivazione di una delle decisioni precitate: “La prova orale, è stata provata sia attraverso la produzione del sintetico modulo del consenso informato sia attraverso testimonianze qualificate come quella del prof. R. in merito alla prassi di formazione del consenso stesso. Può dunque ritenersi corretta la motivazione quando a ff 11 parla di fatti concludenti, atteso che il contesto probatorio attiene ad una prova diretta e completa desunta dall’espletamento dell’intervento chirurgico sulla base di un consenso orale informato” (Cass., 31.3.2015, n. 6439, cit.).
“Ne consegue – lo si rileva incidentalmente – la sostanziale imprecisione dell’espressione “consenso informato”: essa è una endiadi, giacché un eventuale consenso “disinformato” non costituirebbe un negozio valido e produttivo di effetti. In altri termini, il consenso all’esercizio dell’attività medica o è informato, o non è neppure consenso (così anche in questo senso, Ferrando, Chirurgia estetica, «consenso informato» del paziente e responsabilità del medico, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 941)” (Rossetti, Responsabilità medica ed obbligo di informare - Quadro di sintesi della giurisprudenza, Ufficio dei referenti per la formazione decentrata della Suprema Corte di Cassazione, 30.3.2011, 10). 12
Com’è stato osservato, in Italia “la dottrina ha accolto la locuzione “consenso informato” di provenienza straniera e ne ha incoraggiato la diffusione, pur lamentandone l’imprecisione. Gli studi sul tema, tuttavia, consapevolmente o meno si occupano dei due processi, quello informativo e quello dell’espressione del consenso, non seguendo l’etimologico, ossia come momenti indistintamente compresi l’uno nell’altro, bensì soffermandosi sui profili precipui ora dell’una (informa13
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Sotto il profilo giuridico questi due fatti debbono coordinarsi, ponendosi in una sequenza temporale di consecutività necessaria e, dando così luogo ad un processo14, il cui perfezionarsi produce l’effetto giuridico di legittimare il compimento dell’atto medico consentito dal paziente 15. È, dunque, riguardo a ciascuno di questi due distinti aspetti del processo di legittimazione dell’attività medica16 che si pone anzitutto il problema della rispettiva forma. Quanto al primo, va premesso che quella del medico e della struttura sanitaria, per dottrina e giurisprudenza ormai univoche17, rappresenta “una
zione) ora dell’altro (consenso)” (Diurni, Milano, Il consenso informato in psichiatria, in Nóoς, 2012, 40; nello stesso senso: Gorgoni, La «stagione» del consenso e dell’informazione: strumenti di realizzazione del diritto alla salute e di quello all’autodeterminazione, in Resp. civ. e prev., 1999, 490). 14 Sulla natura procedimentale del “consenso informato”, e sul suo inserimento in un processo di cura, la dottrina ha eloquentemente osservato che “nella relazione di cura […] il consenso non può essere che il tessuto stesso della relazione […] all’interprete è chiaro – o dovrebbe esserlo – che il consenso è uno stato, non un atto: come tante volte si è detto, un processo che precipita, in taluni momenti, in una concentrazione che è l’atto di consenso – o di rifiuto” (Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 248). 15 “Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario sicché, senza il consenso e al di fuori dei casi di trattamento sanitario obbligatorio o di stato di necessità, l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando sia effettuato nell’interesse del paziente” (Cass., 27.11.2012, n. 20984, cit.). “Il consenso di cui ci stiamo occupando non è quello da cui origina il “contratto” con il medico o con la struttura sanitaria. È il consenso al singolo atto medico, che affida al medico il corpo del paziente, e lo autorizza a superare la soglia, altrimenti invalicabile, dell’intangibilità del corpo” (Ferrando, Informazione e consenso in sanità, in Aleo, De Matteis, Vecchio (a cura di), Le responsabilità in ambito sanitario, Padova, 2014, 411).
Nel senso che “il consenso vale a definire i confini di una condotta di per sé lecita in termini generali, ma che, dovendo essere esercitata nei confronti di un’altra persona, richiede il suo consenso” (Ferrando, Informazione e consenso in sanità, cit., 410). 16
17 Dopo qualche iniziale incertezza, pare decisamente minoritaria la tesi per cui, anziché essere oggetto di un’obbligazione derivante da un contratto “già stipulato”, quella inerente all’obbligo informativo del medico deriverebbe da un generale dovere di buona fede, per cui la sua violazione darebbe luogo ad una responsabilità precontrattuale.
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specifica obbligazione afferente al rapporto curativo”18, diversa da quella principale che essi si assumono per la cura del paziente, e precisamente un’obbligazione “di comportamento”19. La prestazione dovuta per adempiervi consiste, dunque, in un facere o, meglio, si sarebbe tentati di affermare, in un dicere… In questa sede è sufficiente rammentare come la dottrina abbia sottolineato in tutti i modi, a maggior ragione in relazione alla disciplina introdotta dalla legge n. 219/2017, di cui si dirà, il fatto che il consenso informato sia qualificato proprio dal dialogo fecondo tra medico e paziente20, ciò che ben difficilmente può prescindere dall’oralità e, dunque, da una comunicazione verbale delle informazioni pertinenti all’atto medico cui il paziente deve consentire, e relativamente alle quali questi deve essere in grado di poter interloquire. Ad ogni modo, trattandosi di una prestazione, è chiaro che essa non è soggetta a… requisiti di forma. Riguardo alla prestazione, infatti, l’art. 1174 c.c. non prevede requisiti diversi dalla patrimonialità e dall’idoneità a soddisfare l’interesse del creditore21.
18
Cass., 12.9.2013, n. 20904, in Mass. Giust. civ., 2013.
Cass., 13.7.2010, n. 16394, in Ragiusan, 2012, 169. In dottrina si discute se si tratti di un’obbligazione accessoria a quella principale, derivante da un obbligo di protezione, ovvero se essa attenga all’obbligo di diligenza professionale dettato dall’art. 1176 c.c. (per un’illustrazione dei termini di questo dibattito si veda Callipari, Il consenso informato nel contratto di assistenza sanitaria, Milano, 2012, 128 ss.). 19
Per tutte si consideri l’eloquente sintesi di un’autorevole dottrina, che accredita alla legge n. 219/2017 di aver valorizzato “la consensualità come connotato essenziale della relazione di cura, non confinata al problema dell’accettazione della terapia” (Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., 247). 20
21 “L’art. 1174 c.c. non prevede altri requisiti legali oltre alla patrimonialità e all’interesse creditorio e quindi la dottrina ha ritenuto generalmente di includere tra i caratteri fisionomici dell’obbligazione anche la possibilità, la liceità e la determinatezza o determinabilità, che coincidono, sostanzialmente, con i medesimi requisiti previsti dall’art 1346 c.c. per l’oggetto del contratto” (Scarpello, voce «Obbligazione (Concetto e classificazione)», in Enc. Treccani Online), ulteriori requisiti questi ultimi che, tuttavia, non interessano per nulla ai fini del tema in trattazione.
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Essa consiste in un comportamento del debitore e, dunque, rappresenta un fatto giuridico22, di per sé insuscettibile di soggiacere a requisiti formali23. Essendo diretta a realizzare l’adempimento di un’obbligazione contrattuale, di cui rappresenta l’oggetto, dev’essere idonea a tal fine, e non a soddisfare un qualche requisito di forma. Non v’è dubbio, quindi, che la prestazione informativa anzidetta possa esser adempiuta tanto verbalmente, quanto per iscritto, purché idonea a soddisfare l’interesse del paziente-creditore ad una “consapevole autodeterminazione”24. In proposito merita di essere sottolineato come tale idoneità non possa essere condizionata in modo automatico alle concrete modalità di somministrazione dell’informazione, come aveva fatto una giurisprudenza di merito, peraltro decisamente minoritaria, che aveva escluso aprioristicamente l’idoneità dei “moduli” (interamente o
22 “Nel linguaggio del codice civile, la prestazione, in quanto dovuta dal debitore al creditore, è l’oggetto dell’obbligazione […] la prestazione – può dirsi in generale – è un contegno, funzionale all’acquisizione al creditore” di beni o servizi che, a loro volta, sono oggetto della prestazione stessa (Cannata, L’oggetto dell’obbligazione, nel Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, IX, Torino, 1999, 36). “La p. si risolve in un comportamento del debitore esattamente rispondente all’interesse del creditore, in quanto deve essere eseguita in un determinato modo, fissato nella dichiarazione negoziale che forma oggetto dell’autonomia della parte o delle parti, o stabilito dalla legge. La legge stabilisce il principio generale del comportamento secondo correttezza (buona fede) del debitore (art. 1175 c.c.), ulteriormente specificato come dovere di usare la diligenza del buon padre di famiglia nell’esecuzione della p. (art. 1176 c.c.). Ove non esista un regolamento contrattuale o una norma speciale di legge che dispongano altrimenti, al debitore viene attribuito, circa il modo di eseguire puntualmente la p., un potere da esercitarsi nell’interesse del creditore” (voce «Prestazione», in Enc. Treccani Online). Per alcuni invece, l’adempimento di un’obbligazione costituisce un atto giuridico non negoziale (Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1989, 108 ss.).
“In ogni caso, l’atto con cui il medico adempie tale obbligo parrebbe rivestire natura non negoziale, poiché vale ad estinguere l’obbligazione solo in quanto è conforme al modello di condotta siccome configurato secondo la leges artis […] Il medico parrebbe quindi libero di adempiere nel modo che reputa più opportuno” (Farace, La forma del consenso ai trattamenti sanitari, in Foro it., 2015, I, 3668). 23
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Cass., 5.7.2017, n. 16503, in Rass. dir. farm., 2017, 1007.
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parzialmente) preconfezionati e, dunque, dell’informativa scritta25. Per quanto nella “relazione di cura” indubbiamente l’informativa verbale rimanga quella di elezione, non può essere affatto esclusa l’idoneità di quella scritta, specie per gli esami diagnostici o i trattamenti clinici rutinari, senza dimenticare che la comunicazione scritta può assumere un importante ruolo integrativo di quella verbale, sia ai fini di documentarne il contenuto (anche ai fini della relativa prova in sede processuale), sia per completarlo, nel caso di trattamenti medici di particolare importanza e cospicue ricadute sulle condizioni di salute e sulla vita del paziente, tali da imporre un’informazione a volte molto complessa e dettagliata26. Tuttavia, ciò non significa ovviamente che l’informativa possa essere vincolata alla forma scritta, come pur ha affermato qualche altra, sporadica decisione di merito27.
25 “L’onere informativo che va effettuato dai sanitari al paziente che deve sottoporsi ad un intervento chirurgico deve ritenersi direttamente proporzionale alla complessità ed alla rischiosità dell’intervento nonché alla sua evitabilità o non ed all’urgenza, va da sé che occorre informare il paziente sulla natura dell’intervento, sulla portata ed estensione dei suoi risultati e sulle possibilità e probabilità dei risultati conseguibili, nonché anche oralmente circa le cure alle quali sarebbe stato di lì a poco sottoposto, non essendo sufficiente la semplice sottoscrizione dei moduli di consenso informato” (Trib. Teramo, 10.2.2015, in Juris data). “Per quanto, come emerso nel corso dell’istruttoria, all’attrice sia stato fatto sottoscrivere in data 24.2.1998 il modulo per il consenso informato anestesiologico e chirurgico (cfr. il doc. 4 del fascicolo dell’attrice), la questione oggi in esame non può certo ridursi all’espletamento di un passaggio di natura burocratica. Infatti, il consenso deve essere il frutto di una relazione interpersonale tra i sanitari ed il paziente sviluppata sulla base di un’informativa coerente allo stato, anche emotivo, ed al livello di conoscenze di quest’ultimo” (Trib. Venezia, 4.10.2004, in Danno e resp., 2005, 863, con note di Cacace e di Guerra, nonché in Resp. civ. e prev., 2005, 519, con nota di Bordon). 26 Si pensi, ad esempio, ai trattamenti oncologici o agli interventi chirurgici maggiori, riguardo la maggior quantità di informazioni trasmissibili al paziente può consigliare una loro più compiuta e minuziosa comunicazione in forma scritta, quale integrazione e stimolo del dialogo verbale tra questi e gli operatori sanitari con i quali egli deve interloquire. 27 Come Trib. Roma, 11.2.2014, cit., che aveva affermato che “l’assenza in atti di un qualsiasi sia pure minimo consenso informato, la cui trasfusione in un documento scritto è essen-
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Ma il problema di forma posto dall’“orientamento” giurisprudenziale precitato riguarda, invece, il consenso (o il dissenso) del paziente, e cioè la sua manifestazione di volontà diretta a consentire (o a rifiutare) il trattamento propostogli, integrante un atto unilaterale recettizio28. Come si è visto, in realtà, le decisioni che hanno condiviso la tesi per cui si tratterebbe di un atto a forma vincolata non sono state in grado di fondarla su una qualche argomentazione connotata da un minimo di congruenza logica e giuridica. Occorre del resto rammentare che pure per gli atti unilaterali, cui sono applicabili le norme che disciplinano i contratti, in quanto compatibili, ex art. 1324 c.c., vale il principio della libertà della forma che si ricava dal disposto dell’art. 1325, n. 4, c.c. Non essendovi alcuna disposizione prescrittiva della forma scritta per il “consenso informato”, questo non può essere considerato un atto formale, per il quale sia necessaria tale forma ad validitatem, come ha da tempo evidenziato la dottrina29.
ziale non solo per attestare in modo certo una prova a favore del medico, ma anche affinché il paziente, dopo le eventuali spiegazioni orali (in questo caso assenti), possa leggere con calma ed interpretare senza fretta parole ed espressioni della scienza medica ad esso non familiari e che in quanto tali di regola necessitano di tempo e meditazione, su una base scritta, per essere assorbite e metabolizzate”. 28
In proposito si veda: Farace, op. cit., 3668.
“La prestazione del consenso non è soggetta ad alcuna forma particolare. Nel nostro ordinamento vige infatti il principio della libertà delle forme del negozio giuridico, con la conseguenza che le parti possono scegliere quella ritenuta più opportuna (ivi compresa la forma orale e la forma tacita, cioè il comportamento concludente: Cass., 25.7.1967, n. 1950; Cass., 6.12.1968, n. 3906, in Resp. civ. e prev., 1970, 389; Cass., 18.6.1975, n. 2439). Naturalmente, la forma scritta resta quella preferibile, in quanto facilita enormemente il problema della prova del consenso” (Rossetti, op. cit., 15). “[…] i trattamenti sanitari postulano due atti dovuti del medico (informazione e proposta) e un atto negoziale del paziente (il suo consenso). Per tali atti la legge non prevede in generale alcuna specifica forma, né ad substantiam, né vincolata a fini diversi dalla validità […], per cui il medico può scegliere come informare il paziente, come proporgli i trattamenti più adeguati e come ricevere il suo consenso” (Farace, op. cit., 3669). Nesso stesso senso, si veda anche: Ferrando, Informazione e consenso in sanità, cit., 417. 29
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In proposito occorre precisare che, anche in materia di trattamenti sanitari, vi sono casi particolari in cui la legge prescrive dei requisiti formali per il consenso dell’avente diritto e, in alcuni di questi, anche per l’informazione ad esso propedeutica. In particolare, si possono menzionare le norme in tema di sperimentazione clinica di medicinali (che prevedono la forma scritta non già solo per il consenso del “soggetto” interessato alla sperimentazione, ma anche per le informazioni che gli debbono essere comunicate30), di procreazione assistita (che prescrivono la forma scritta per il consenso da esprimere “congiuntamente” al “medico” di “entrambi i soggetti” coinvolti, per di più “secondo modalità” predeterminate da un decreto ministeriale31), di donazione di rene (che impongono l’atto pubblico32), norme queste successivamente estese alla donazione parziale di fegato33 e a quella di polmone, pancreas ed intestino34. Da queste specifiche previsioni normative, dettate per fattispecie alquanto particolari e, almeno per gran parte, connotate da un evidente interesse pubblico che si sovrappone a quello della tutela del diritto individuale all’autodeterminazione, non può certo astrarsi un principio generale implicante la natura di atto formale del consenso del paziente all’atto medico. Quand’anche s’intendesse, invero, aderire all’orientamento dottrinale che ha criticato il dogma del principio della libertà delle forme che si è soliti derivare dal disposto dell’art. 1325 c.c.35, si dovrebbe comunque aver presente che l’esito di questa critica è quello di negare la validità della sua lettura in termini di regola-eccezione, in
30 Art. 4, comma 8°, d. m. 15.7.1997 e artt. 2 e 3 d. lgs. 24.6.2003, n. 211. 31
Art. 3 l. 19.2.2004, n. 40.
32
Art. 3 l. 26.6.1967, n. 458.
33
Dall’art. 1 l. 6.12.1999, n. 483.
34
Dall’art. 1 l. 19.9.2012, n. 167.
Si vedano, in particolare: Irti, Idola libertatis. Tre esercizi sul formalismo giuridico, Milano, 1985; Id., Studi sul formalismo negoziale, Padova, 1997; Sacco, Le forme in genere, nel Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, X, Torino, 2002, 290; Ferri, Forma e autonomia negoziale, in Le anamorfosi nel diritto civile attuale, Padova, 1994, 371. 35
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quanto tale passibile di assegnare alle diposizioni prescrittive di una determinata forma il significato di norme eccezionali, insuscettibili di interpretazione estensiva e di applicazione analogica36. Anche volendo porsi in questa prospettiva, che legittima l’impiego dell’analogia alle norme che prescrivono vincoli di forma per determinati atti, invero, si dovrebbe comunque convenire sull’impossibilità di ravvisare un’eadem ratio tale da consentire l’applicazione analogica delle anzidette norme alla generalità dei casi di “consenso informato”, seppure si voglia attribuir loro natura di norme speciali (e non eccezionali). Infatti, non sarebbe giustificabile un procedimento logico di abduzione che porti a generalizzare un principio ordinamentale prescrittivo di una determinata forma37 per il consenso del paziente all’atto medico38. Ciò non solo per la diversità delle forme previste dalle singole disposizioni, ma soprattutto per l’eterogeneità e la particolarità della ratio legis che
Per un’ampia esposizione e critica del dibattito dottrinale sul tema si veda: Pagliantini, La forma del contratto, nel Commentario del codice civile, diretto da Gabrielli, Torino, 2011, sub artt. 1350-1386, 6 ss. 36
37 Si noti peraltro come in dottrina si sia osservato che, in realtà, “i due momenti del ragionamento analogico fissati dal secondo comma dell’art. 12 d.p. non sfuggono ad una costitutiva ambiguità perché ambigua è la terminologia logica (analogia), e la terminologia giuridica (diritto, legge, principi generali del diritto)” e che, in particolare, con riguardo a questi ultimi “la postulata esistenza di una norma generale esclusiva finisce per identificare il ragionamento analogico con l’argomento contrario. Ne deriva il divieto di ogni tecnica interpretativa di carattere induttivo che permetta cioè di risalire da una norma particolare ad una norma generale” (Giuliani, Le disposizioni sulla legge in generale: gli articoli da 1 a 15, nel Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, II, Torino, 2008, 428). Accogliendo una prospettiva di questo genere ovviamente un procedimento induttivo o, più propriamente, abduttivo, di astrazione di un precetto generale dalle anzidette disposizione particolari non sarebbe nemmeno ipotizzabile. 38 Sui procedimenti logici di elaborazione dei “principi impliciti” dell’ordinamento e, in particolare, sull’abduzione, si veda: Pino, Principi e argomentazione giuridica, in Ars Interpretandi, Annuario di ermeneutica giuridica, 2009, 153 ss. Sul complesso rapporto tra lacuna giuridica, analogia e principi generali dell’ordinamento giuridico, si veda: Velluzzi, Le preleggi e l’interpretazione, Pisa, 2013, 84 ss.
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distintamente ispira ciascuna di esse39, tale da non poter essere riferita in alcun modo alla generalità dei casi di “consenso informato”. Del tutto corretta pareva, dunque, la configurazione del consenso del paziente come atto negoziale a forma libera40.
3. La forma del “consenso informato” nella legge n. 219/2017 Su questo scenario si proietta ora la disciplina dettata dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219, che ha dettato “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, così colmando una lacuna normativa ormai da tempo additata come particolarmente grave. È proprio l’articolo 1 della legge a disciplinare il “consenso informato”, con una quantità di disposizioni per certi versi ridondanti, per altre reticenti ed impiegando un lessico non sempre appropriato. Come si è anticipato, l’insieme delle disposizioni che compongono l’articolo 1 anzidetto (nel secondo comma) tratteggia efficacemente la natura dialogica del “consenso informato”, all’interno
39 “Le varie forme appena illustrate rispondono a esigenze e funzioni eterogenee. Quelle relative ai prelievi di cellule, organi e tessuti […] hanno una sfera di applicazione troppo specifica per avvicinarla al consenso ai trattamenti sanitari in generale” (Farace, op. cit., 3667). “Quanto alla forma, non costituisce requisito necessario se non nei casi in cui la legge espressamente lo richiede” (Ferrando, Informazione e consenso in sanità, ibidem).
“Tutto ciò parrebbe indurre a considerare l’atto in questione come negoziale e non formale, non essendo imposta alcuna forma ad substantiam: un negozio struttura debole […] in cui rilevano volontà, […] causa […] e oggetto” (Farace, op. cit., 3669). Si noti tuttavia come in dottrina è stato osservato pure che “il consenso al trattamento medico non può neppure essere costretto, in una prospettiva civilistica, in una dimensione meramente negoziale” (Ferrando, Informazione e consenso in sanità, ibidem). In proposito si veda pure la critica di quegli autori per i quali “il consenso è uno stato, non un atto […] un processo che precipita, in taluni momenti, in una concentrazione che l’atto di consenso - o di rifiuto” (Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., 248; e più diffusamente: Id., Il processo del consenso informato, in Klesta Dosi (a cura di), I nuovi diritti dell’integrazione europea: la tutela dell’ambiente e del consumatore, Padova, 2000, 214 ss.). 40
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della “relazione di cura e fiducia tra paziente e medico”, come momento di incontro tra “l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico” (senza dimenticare gli eventuali apporti degli altri “esercenti una professione sanitaria” che eventualmente compongano “l’équipe sanitaria”)41. Pur impiegando un lessico a volte inadeguato42 e non dimostrando piena consapevolezza delle implicazioni inerenti alla distinzione tra prestazione informativa del medico e consenso del paziente, l’ordito normativo dell’art. 1 distingue chiaramente l’una dall’altro. La prima è, invero, disciplinata dal terzo comma, con una enunciazione connotata dall’essere formulata nell’ottica del “diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile…” che compete ad “ogni persona”. La disposizione in parola, insomma, più che il contenuto della prestazione informativa del medi-
41 Questo aspetto è stato giustamente sottolineato dalla dottrina, a volte non senza qualche enfasi retorica: “Ed è proprio la relazione comunicativa a costituire il contesto nel quale la legge prevede che siano calate le informazioni […] che del consenso rappresentano la condizione necessaria. Il rilievo dato alla comunicazione come necessario “contenitore” dell’informazione mette al riparo dal rischio di un’informazione asetticamente somministrata […] il legislatore ha prefigurato uno scenario, ad oggi ancora poco rispecchiato dalle prassi, di processi decisionali realmente condivisi con i pazienti da curanti che non incorrano nell’errore di ridurre l’informazione a trasmissione unidirezionale di dati di rilevanza clinica, e che sappiano, per contro, trasformarla in un processo a due vie”, per cui la legge dà vita ad un “rappresentazione del consenso informato come processo evolutivo, contrassegnato dalla scelta dei tempi e dei modi dell’informazione e del consenso in relazione alle esigenze del malato” (Borsellino, “Biotestamento”: i confini della relazione terapeutica e il mandato di cura, in Fam. e dir., 2018, 795). 42 Specialmente laddove consacra l’ambigua espressione “consenso informato”, conferendole dignità normativa, nonostante le importanti critiche della dottrina: “È un peccato – nel senso di culpa – che il testo abbia incluso, addirittura facendone un titolo, la sciocca e deleteria formula del “consenso informato”; è un difetto estetico, ma anche semantico, perché un’espressione raccoglie sempre un’eredità di significati malintesi che bisognava spezzare anche sul piano del linguaggio” (Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, ibidem).
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co, disciplina quello dello speculare diritto all’informazione del paziente. Ciò nondimeno, essa non vincola ad alcun requisito formale l’attività informativa da espletare per soddisfare quel diritto, limitandosi a stabilire che “il rifiuto o la rinuncia alle informazioni” (così come “l’eventuale indicazione di un incaricato” di riceverle in luogo del paziente) debbano essere “registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”. Tale “registrazione”, tuttavia, si riferisce alla rinuncia al diritto anzidetto, che il paziente rimane libero di manifestare senza vincoli di forma, e non all’attività informativa dovutagli dal medico e dagli altri “operatori sanitari”. Per questo aspetto, quindi, la nuova normativa non modifica la libertà degli obbligati di eseguire la prestazione informativa con le modalità che ritengono più opportune. Merita però di essere sottolineato come il nono comma dell’art. 1 prescriva pure alla “struttura sanitaria pubblica o privata” l’obbligo di organizzarsi per l’attuazione dei “principi di cui alla presente legge”, in particolare “assicurando l’informazione necessaria ai pazienti”, così rimarcando che l’obbligazione informativa della struttura si somma a quella dei medici (e degli altri operatori sanitari) che concretamente partecipino alla “relazione di cura” col paziente, con conseguente riferibilità di un suo eventuale inadempimento o inesatto adempimento anche alla struttura sanitaria. La manifestazione di volontà del paziente è, invece, disciplinata dal quarto e dal quinto comma dello stesso art. 1. La prima disposizione si occupa specificamente del “consenso informato”, stabilendo che questo venga “acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni” alle sue condizioni di salute, e sia “documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentono di comunicare”. Oltre a ciò, essa prevede che “il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”. La seconda disposizione disciplina invece “il diritto di rifiutare, in tutto o in parte” gli accertamenti diagnostici o i trattamenti sanitari “con le stesse
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forme di cui al comma 4”, così stabilendo l’omologazione della forma in cui deve essere espresso il diniego delle cure a quella in cui deve essere manifestata la loro accettazione. L’ultima parte del quarto comma stabilisce che “l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”43. Anche per ciò che attiene ai requisiti di forma che qui interessano gli enunciati in questione non brillano certo per chiarezza. A riprova dell’incuria con la quale essi sono stati forgiati, basti osservare l’uso di tre termini diversi nell’ambito del medesimo articolo di legge per esprimere precetti analoghi44, con riguardo al fatto che le manifestazioni di volontà del paziente debbano essere “registrate” ovvero “inserite” ovvero ancora “annotate” nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico… Se alla prescrizione un simile complesso di attività documentative si aggiunge che, come si è visto, il quarto comma dispone che tale manifestazione di volontà debba essere “documentata in forma scritta o attraverso videoregistrazioni” (o in altro modo compatibile con lo stato di disabilità del dichiarante), vi è da chiedersi se il combinato disposto dei predetti enunciati sia diretto a prescrivere ad validitatem un requisito di forma per la manifestazione di volontà del paziente. Molteplici ragioni militano per una risposta negativa. Anzitutto il letterale disposto dello stesso quarto comma, secondo il quale dev’essere “inserito nella cartella clinica” il “consenso informato, in qualunque forma espresso”. Tale enunciato è molto chiaro nell’affermare la
In realtà, che “l’accettazione”, e cioè il consenso all’atto medico, dovesse essere “inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico” era già stato prescritto dall’ultima parte del quarto comma, per cui si tratta di un’inutile ripetizione. 43
44 Questo pare essere, invero, l’intento de legislatore, anche se occorre osservare che, nel lessico giuridico, “documentare” e “registrare” non hanno proprio lo stesso significato, mentre “inserire” consiste, più propriamente, in un’attività materiale, consistente nel collocare un oggetto in una determinata posizione.
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libertà di forma del consenso alle cure, e correlativamente del loro rifiuto, in virtù del rinvio che il quinto comma fa alle “stesse forme” previste dal quarto. Questa interpretazione letterale sembra essere sostenuta da quella sistematica, laddove si legga attentamente l’espressione testé citata nel contesto dell’intero enunciato del quarto comma. Quest’ultimo distingue nettamente l’atto volitivo del paziente da un’attività documentaria diretta a conservarne traccia nella cartella clinica (e nel fascicolo sanitario elettronico). Sotto il profilo semantico tale distinzione è sottolineata dall’assunto per cui il “consenso informato” dev’essere “acquisito”, evidentemente da altri che non sia il paziente, per essere da questi “inserito nella cartella clinica”. Tale ultima attività documentaria, per la quale sono prescritte la forma scritta e quella “telematica”, non si riferiscono dunque all’atto volitivo di chi quel consenso (o rifiuto) deve esprime, bensì all’attività di quant’altri debbano “acquisirlo”. Ed è sempre a costoro che si rivolge pure il comando di “documentare” quello stesso consenso (o rifiuto) “in forma scritta o attraverso videoregistrazioni” (o mediante dispositivi idonei a recepire la manifestazione di volontà del disabile), tanto più che non si può pensare che tale attività competa al paziente e che il relativo precetto sia dunque riferibile alla forma del suo atto di volontà. Una cosa è, dunque, la particolare attenzione che il legislatore dimostra nel prescrivere che l’atto volitivo del paziente venga documentato e conservato nella cartella clinica e nel fascicolo elettronico, tutt’altra è, invece, la regola che egli ha inteso dettare per la sua manifestazione, per la cui validità, non ha posto alcun vincolo di forma, stabilendo anzi che questo possa essere espresso “in qualunque forma”45. Questa conclusione è confermata da un argomento ad absurdum che la dottrina non ha faticato a
“Altro è come deve essere “espressa” – meglio sarebbe dire manifestata – una volontà, altro è il momento e lo strumento per inserirla in circuiti sanitari di documentazione” (Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., 249). 45
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cogliere, evidenziando come, ragionando diversamente, si dovrebbe escludere la validità del rifiuto da parte di un paziente cosciente, ma incapace di esprimersi altrimenti che con un “chiaro gesto muto”, ciò che appare francamente inammissibile46. Ancor più assurda sarebbe però la situazione che verrebbe a crearsi qualora il paziente fosse capace d’intendere e volere, ma non di esprimersi, se non con “chiari gesti muti”, e non ricorressero le “situazioni di emergenza o di urgenza” che legittimano il medico ad agire, nonostante la mancanza di consenso, perché in tal caso, l’incapacità del paziente di esprimerlo nella forma legale imporrebbe di astenersi dalle cure che questi intenda invece consentire. È alla luce di queste considerazioni che deve leggersi, dunque, il precetto dettato dal settimo comma dell’art. 1, laddove, in queste situazioni, prescrive al medico di rispettare la “volontà del paziente”, solo se “le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla” e cioè di poterla percepire, quale sia la forma, verbale ed anche non verbale, in cui tale volontà venga espressa, evidentemente. Il fine della norma che se ne ricava è senza dubbio quello di far rispettare la volontà del paziente ogni qualvolta questa possa esser comunque manifestata, e di preservare dunque il suo diritto all’autodeterminazione in ogni caso in cui questo venga effettivamente esercitato, a prescindere dalla forma in cui la relativa volontà si manifesti. Nonostante l’infelice formulazione delle anzidette disposizioni, che qualche dubbio potrebbero
46 “La legge usa questi termini: “annotato” […] “inserito” – che paiono equivalenti – e “depositato” […] La mia impressione è che si tratti comunque di adempimenti che non sono parte della forma come requisito dell’atto, ma di documentazione per esigenze di buona conduzione sanitaria e di conoscibilità […] Ne traggo conferma anche dalla previsione sul rifiuto di cure (art. 1, comma 5°, che rimanda alle forme di cui al comma 4°, visto che è semplicemente impensabile condizionare l’efficacia di un rifiuto a forme protocollari di qualsiasi tipo: basta un chiaro gesto muto per esprimere il “noli me tangere” ed è dovere imprescindibile del medico di offrire al paziente che non fosse in grado nemmeno di usare i segni elementari della negazione l’opportunità di esprimersi con i mezzi alternativi […]” (Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, ibidem).
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suscitare ad una lettura superficiale, se ne ricava agevolmente che la nuova disciplina non ha prescritto alcun vincolo di forma per il “consenso informato”, e cioè per la manifestazione dell’atto volitivo di consenso o di rifiuto dell’atto medico. Tale conclusione riceve definitiva conferma da un’interpretazione teleologica che collochi il complesso di diposizioni anzidette nel solco delle finalità perseguite dal legislatore, che si possono facilmente ravvisare nella tutela del diritto all’autodeterminazione terapeutica previsto dall’art. 32 della Costituzione. Questa si traduce da un lato nell’intento di assicurare la formazione di una volontà ben consapevole dei presupposti e delle implicazioni delle scelte terapeutiche che il paziente deve compiere e dall’altro in quella di garantire l’attuazione di quella stessa volontà, una volta formatasi. Di qui l’evidente prevalenza da assegnare alla volontà del paziente, comunque manifestatasi, sulla forma con la quale l’atto volitivo è stato concretamente esteriorizzato e, dunque, la necessaria affermazione della regola della libertà di forma del “consenso informato”.
4. La prova del “consenso informato” dopo la legge n. 219/2017 Per il “consenso informato”, dunque, la legge n. 219/2017 non richiede una particolare forma ad validitatem. Ma essa non la dispone neppure “ad probationem”. Nella legge, infatti, non si rinvengono disposizioni che prescrivano la forma scritta o qualsiasi altra ai fini della prova della prestazione informativa di cui sono obbligati il medico e/o la struttura sanitaria e del consenso prestato dal paziente. Tali indubbiamene non sono quelle di cui già s’è detto, laddove prevedono l’“annotazione”, l’“inserimento” ovvero la “registrazione” del consenso o del rifiuto delle cure nella cartella clinica e nel fascicolo elettronico, posto che, come detto, si tratta di disposizioni prescrittive di tali attività documentarie a chi “acquisisce” il “consenso informato”, e non di una particolare forma del consenso, inteso come atto negoziale. Quanto alla prestazione informativa del medico
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e/o della struttura, invece, il terzo comma dell’art. 1 non prevede neppure che la sua esecuzione ed il suo contenuto vengano documentati, sicché a maggior ragione si deve concludere che essa non sia soggetta a requisiti di forma ad probationem. In conclusione, la prova del “consenso informato” è, per ogni aspetto, sottoposta alla regola generale della libertà della prova47. Certo, le anzidette attività documentarie del consenso prestato dal paziente, ove adempiute, consentiranno facilmente l’assolvimento dell’onere della prova in proposito, mediante la produzione in giudizio del documento da quale esso risulti. Ma non si può escludere che, in difetto di prova scritta, la sua prova, così come quella dell’informazione comunicata dal medico e/o dalla struttura sanitaria, sia assolta mediante prove costituende48 (e cioè con la prova testimoniale, la confessione o la presunzione semplice49), come si è già visto esser
47 In proposito è stato inoltre osservato che “meno ancora si può sostenere che una certa forma sia essenziale non ad substantiam actus, ma ad probationem tantum. Si deve ricordare che nel nostro ordinamento vige il principio di libertà delle prove, per cui le norme che limitano i mezzi probatori hanno natura eccezionale (Irti, Il contratto tra faciendum e factum, in Rass. dir. civ., 1984, 938): la forma ad probationem deve risultare espressamente alla legge (ancora Id., Strutture forti e strutture deboli (del falso principio di libertà delle forme), cit., 158)” (Farace, op. cit., 3669). 48 “Altro e diverso problema è la dimostrazione di aver adempiuto con la dovuta diligenza. In assenza di una prova scritta, tale dimostrazione sarà certamente molto più difficile da fornire. Ma non per questo l’obbligo di informare deve intendersi non assolto” (Farace, op. cit., 3668). “La scrittura, tuttavia, ha soltanto un ruolo integrativo e non sostitutivo del processo informativo, che può essere provato altrimenti” (Ferrando, Informazione e consenso in sanità, cit., 417). 49 Per l’ammissibilità della prova presuntiva, oltre a Cass., 31.1.2018, n. 2369, cit., si è espressa Cass., 27.11.2012, n. 20984, cit., che ha sottolineato la distinzione fra “consenso presunto” (o per facta concludentia) e prova presuntiva del consenso: “La sentenza impugnata confonde il consenso presunto con la prova di un consenso reale ed effettivo. Si ha consenso presunto – come tale inammissibile – nel caso in cui si ritiene che il soggetto in quel dato contesto situazionale avrebbe sicuramente dato il consenso se gli fosse stato richiesto. Si ha, invece, prova mediante indizi del consenso prestato quando realmente in un certo momento temporalmente definito c’è stata effettiva richiesta ed effettiva prestazione del consenso. Solo che la prova di tale consenso viene data, non attraverso un documento scritto, ma attraverso testimonianze ed indizi (si faccia il caso
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stato riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità. A questo proposito assume particolare rilievo la problematica dei “moduli di consenso informato” ovvero di quei formulari, suscettibili di addizioni confacenti al singolo caso che a volte vengono apportate da chi li sottopone al paziente, nei quali sono esplicitate le informazioni propedeutiche al consenso che questi deve esprimere ovvero vengono riassunte le informazioni comunicategli verbalmente, ed in calce ai quali il medesimo paziente appone la sua firma, per dichiarare il proprio consenso all’atto medico propostogli. Com’è noto, questa modalità di adempimento dell’obbligazione informativa è stata guardata con sfavore dalla giurisprudenza di merito, specie da alcune decisioni non recenti50, perché ritenuta espressiva di una “burocratizzazione” della relazione di cura. Non meno critica al riguardo si è dimostrata la dottrina, che tuttavia, in alcuni casi, non ha mancato di evidenziare come il “modulo” possa rivestire una “funzione riassuntiva e documentale” del “processo di comunicazione affidato al colloquio diretto con i sanitari”51. In proposito da un lato occorre ribadire che non può essere misconosciuta l’importanza dell’infor-
che il documento con cui il paziente prestava il suo consenso è andato distrutto). A scanso di equivoci va aggiunto che – dati i valori in gioco – non esiste un consenso tacito per facta concludentia. Il consenso deve tradursi in una manifestazione di volontà effettiva e reale. È la prova del consenso che – in caso di impossibilità di prova documentale – può essere fornita con altri mezzi” (Cass., 27.11.2012, n. 20984, in Dir. e giust., 2012, con nota di Basso). Tale distinzione è stata riproposta da Cass., 27.3.2018, n. 7516, in DeJure, che ha ribadito apertis verbis: “è tuttavia consentito al medico od all’ospedale, gravati dell’onere di provare di avere informato il paziente, fornire tale prova in via presuntiva, ai sensi dell’art. 2727 c.c.”, ciò che era avvenuto nel caso deciso dalla Corte territoriale (Cass., 27.3.2018, n. 7516, cit.). “In tema di responsabilità medica, la sottoscrizione del consenso informato, da parte del paziente, non è sufficiente per fare ritenere illustrati e chiariti al medesimo i possibili rischi e le eventuali complicanze connesse all’intervento chirurgico, e ciò anche considerato il livello culturale ed emotivo del paziente” (Trib. Monza, 21.2.2008, in Il civilista, 2011, 12, con nota di Palmieri). 50
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Ferrando, Informazione e consenso in sanità, cit., 415.
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mazione scritta, intesa come integrazione ed approfondimento dei temi oggetto di quella verbale, in caso di trattamenti particolarmente complessi, invasivi e delicati. E dall’altro non può essere ignorato il fatto che il disposto del terzo comma dell’art. 1 citato, come s’è detto, non vincola affatto l’attività informativa del medico e/o della struttura sanitaria ad una determinata forma, limitandosi a stabilire che l’informazione sia completa, aggiornata e comprensibile alla persona cui è destinata. Nonostante la struttura dialogica del processo propedeutico al “consenso informato” induca a ritenere che quella verbale sia la forma privilegiata in cui questo deve svilupparsi, come si è osservato, una volta che la parte obbligata abbia provato documentalmente, mediante la produzione di un “modulo” sottoscritto dal paziente, l’esatto adempimento della propria obbligazione informativa, non vi sono quindi ragioni per negare che il relativo onere probatorio sia stato assolto.
5. Il valore probatorio delle dichiarazioni del paziente e delle “annotazioni” nella cartella clinica (e nel “fascicolo sanitario elettronico”) Tenendo presente quanto si è dianzi precisato in merito all’ambivalenza dell’espressione “consenso informato”, risulta chiaro che ogni “modulo di consenso” presenta un duplice contenuto. Per un verso esso racchiude la prova dell’atto volitivo del paziente (inteso quale fatto storico che di quella prova è oggetto) col quale concretamente questi esercita il proprio diritto all’autodeterminazione terapeutica, consentendo o rifiutando il trattamento propostogli. Sotto il profilo probatorio, per questo aspetto, il “modulo” rilasciato ad un medico libero professionista o ad una struttura privata consiste in una scrittura privata suscettibile di fare piena prova sino a querela di falso del fatto anzidetto, ex art. 2702 c.c., se non disconosciuto dal paziente contro il quale venga prodotto in giudizio (o se riconosciuto autentico a seguito della verificazio-
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ne che consegua ad un suo eventuale disconoscimento)52. Ma vi è quanto meno da chiedersi se quello rilasciato invece al medico pubblico dipendente o a quello operante in una struttura privata convenzionata col Servizio sanitario nazionale non sia invece da qualificarsi come atto pubblico fidefacente sino a querela di falso e, dunque, prova legale, ai sensi dell’art. 2700 c.c. Pacifica la qualità di pubblico ufficiale di entrambe le categorie di operatori sanitari succitate53, va invero osservato che l’attività di “acquisizione” del consenso (o del rifiuto) del paziente e quella consistente nel suo “inserimento” nella cartella clinica54 e nel “fascicolo sanitario elettronico” indiscutibilmente afferiscono alle loro funzioni, atteso il precetto dettato dal già citato terzo comma dell’art. 1 della legge n. 219/2017. Pertanto, non pare dubbio che le dichiarazioni di consenso o di rifiuto delle cure che essi debbono acquisire e documentare debbano qualificarsi come “dichiarazioni delle parti” ovvero “altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza”. Ne consegue che la cartella clinica (così come il “fascicolo sanitario elettronico”), laddove documenti l’atto volitivo del paziente, in tal caso, dovrà qualificarsi come atto pubblico, con le conseguenze anzidette sul piano probatorio. Al medesimo risultato dovrà pervenirsi, com’è ovvio, anche nel caso che una cartella clinica (ed un “fascicolo sanitario elettronico”) non vi sia, ad esempio perché si sia trattato di un mero esame
52 “L’atto di consenso informato, sottoscritto dal paziente e non disconosciuto tempestivamente, costituisce una scrittura privata riconosciuta, il cui contenuto è rimuovibile solo attraverso la rituale proposizione della querela di falso […]” (Trib. Roma, 20.10.2003, in Giur. romana, 2004, 460). 53 Per i medici dipendenti delle strutture ospedaliere pubbliche si vedano: Cass. pen., 14.2.2012, n. 25255, in Guida al dir., 2012, 81; Cass., 24.9.2015, n. 18868, in Mass. Giust. civ., 2015. Per quelli convenzionati, si vedano invece: Cass., 11.5.2000, n. 6045, ivi, 2000; Cass. pen., 11.5.2017, n. 29788, in DeJure.
Sulla natura di atto pubblico della cartella clinica, com’è noto, non vi sono dubbi. In proposito, in giurisprudenza si veda, ad esempio: Cass., 8.11.2016, n. 22639, in Resp. civ. e prev., 2016, 2025. 54
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diagnostico: in questa ipotesi, invero, l’attestazione dell’atto volitivo verbalizzata dall’operatore sanitario pubblico, e per solito acclusa al referto dell’esame stesso, rappresenterà una certificazione cui dovrà riconoscersi valenza di atto pubblico. Il medesimo valore di atto pubblico dovrà essere attribuito all’annotazione eseguita nella cartella clinica ovvero nel “fascicolo sanitario elettronico” del consenso o del rifiuto espresso dal paziente che, a causa della propria disabilità, sia impossibilitato a sottoscrivere un documento, o che, per qualsiasi altro motivo, abbia espresso il proprio consenso solo verbalmente (o con un “chiaro gesto muto”). Per un altro verso, invece, la sottoscrizione che il paziente appone in calce al “modulo di consenso” implica altresì una sua dichiarazione in merito alle informazioni concretamente ricevute dal medico e/o dalla struttura sanitaria con riguardo al trattamento propostogli, quali risultanti dal contenuto del “modulo” stesso. Pertanto, nei confronti delle parti controinteressate (il medico e/o la struttura sanitaria), per questo aspetto, il “modulo” è suscettibile di assumere il valore di confessione stragiudiziale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2733, secondo comma e 2735 primo comma c.c., e quindi di prova legale dei fatti che ne sono oggetto, e cioè del contenuto delle informazioni anzidette. Ciò, beninteso, qualora possieda i requisiti previsti dall’art. 2730, primo comma c.c. A questo proposito si deve osservare in primo luogo che il “modulo” in questione per un verso proviene dalla parte interessata, e cioè dal paziente, e per un altro indiscutibilmente è indirizzato all’“altra parte”, e cioè al medico curante, il quale, quando operi per conto o nell’ambito di una “struttura sanitaria” pubblica o privata, agisce anche per conto di questa, quale suo “ausiliario necessario”55 ovvero in virtù di un rapporto di im-
55 Per la nozione di “ausiliario necessario” della struttura sanitaria pubblica o privata, si veda la consolidata giurisprudenza in materia di responsabilità “propria” (e non “per fatto altrui”) di quest’ultima anche nel caso il trattamento terapeutico praticato al paziente sia avvenuto in esecuzione di un contratto con questi stipulato da un medico operante presso
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piego o di servizio56. Ciò con la precisazione che, in realtà, per rappresentante dell’“altra parte”, ai fini dell’art. 2735, primo, c.c. ed in tema di confessione stragiudiziale, deve intendersi chiunque, ed a qualunque titolo, agisca nell’interesse di questa57. Secondariamente, i “fatti” oggetto della dichiarazione sottoscritta dal paziente sono oggettivamente per lui “sfavorevoli”, perché integrano la prova dell’esatto adempimento dell’“altra parte”, e “favorevoli” a quest’ultima, per la medesima ragione. Né potrebbe dubitarsi dell’animus confitendi del dichiarante, ulteriore requisito che parte della dottrina58 e la giurisprudenza, com’è noto, ritengono indispensabile per attribuire valore confessorio alle dichiarazioni del confitente. Tale elemento soggettivo, invero, si riduce alla consapevolezza e volontà di riconoscere la verità del fatto dichiarato, a sé obiettivamente sfavorevole e favorevole all’“altra parte”, nel caso specifico entrambe indiscutibilmente sussistenti, senza che sia necessaria la conoscenza delle conseguenze giuridiche che possono derivare dalla dichiarazione resa59. È piuttosto sul contenuto delle dichiarazioni formalizzate nel “modulo” che è necessario intendersi.
di essa in regime libero professionale (Cass., 28.11.2007, n. 24742, in Ragiusan, 2009, 211). 56
Cass., sez. un., 9.9.2008, n. 22652, in Ragiusan, 2009, 317.
“Ai fini dell’applicazione dell’art. 2735, comma 1°, c.c., è da considerarsi rappresentante della parte, e non terzo, il soggetto che, nei confronti del confitente, agisca nell’interesse del soggetto cui giova il fatto confessato” (Cass., 19.7.1996, n. 6512, in Giur. it., 1997, I, 444, con nota di Ronco). 57
Silvestri, Confessione nel diritto processuale civile, nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1995, 423 e 426; Messina, Contributo alla dottrina della confessione, in Scritti giuridici, III, Milano, 1948, 9. 58
“L’elemento soggettivo della confessione (“animus confitendi”) si configura come mera volontà e consapevolezza di riconoscere la verità del fatto dichiarato, obiettivamente sfavorevole al dichiarante e favorevole all’altra parte, senza che sia necessaria l’ulteriore consapevolezza di tale obiettiva incidenza e delle conseguenze giuridiche che ne possono derivare” (Cass., 9.4.2013, n. 8611, in Dir. e giust., 2013; nello stesso senso: Cass., 17.1.2003, n. 607, in Mass. Giust. civ., 2003). 59
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Invero, perché ad una dichiarazione possa attribuirsi valore confessorio è indispensabile che essa verta su “fatti”, e su fatti tali da comprovare l’estinzione dell’obbligazione di cui si controverte60. Tale non sarebbe, quindi, la generica dichiarazione del paziente di esser stato “adeguatamente informato” della natura del trattamento terapeutico, delle sue eventuali alternative, dei suoi rischi, delle sue possibili e complicanze e di quant’altro o un’altra dichiarazione di contenuto simile. Questo è il vero motivo per cui allo stampato “del tutto generico”, di cui si è occupata la giurisprudenza poc’anzi citata, sotto il profilo processuale, non potrebbe attribuirsi valore probatorio. Dichiarazioni di tal genere non si sostanziano in una confessione stragiudiziale perché non hanno ad oggetto “fatti”, ma costituiscono valutazioni o opinioni del dichiarante sulla completezza dell’informazione somministratagli. In quanto tali, esse esorbitano dall’oggetto proprio della confessione, come la giurisprudenza ha sempre, univocamente affermato, negando un simile valore ai giudizi ovvero alle opinioni espresse dal dichiarante61. I “fatti obiettivi” in questo caso sono solo le informazioni “riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguar-
60 La dottrina ha da tempo posto in luce come, in effetti, i fatti oggetto della dichiarazione confessoria possano “integrare, di volta in volta, la materialità di un elemento della fattispecie costitutiva, oppure quella di un elemento impeditivo, modificativo o estintivo del diritto controverso, sulla cui esistenza la dichiarazione ammissiva dovrebbe fornire dati di immediata certezza conoscitiva” (Comoglio, Le prove civili, Torino, 1998, 316).
“La confessione deve avere ad oggetto fatti obiettivi — la cui qualificazione giuridica spetta al giudice del merito — e non già opinioni o giudizi. (Nella specie, la Supr. Corte ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso potesse integrare una confessione giudiziale la dichiarazione, resa in interrogatorio formale, secondo cui lo scalino situato all’interno di una chiesa «si vede male perché dà la sensazione di essere in piano, mentre invece c’è un gradino in discesa», la quale, dunque, non verteva non su un fatto, ma esprimeva una valutazione soggettiva di una realtà fisica)” (Cass., 18.10.2011, n. 21509, in Mass. Giust. civ., 2011; nello stesso senso: Cass., 3.8.2005, n. 16260, ivi, 2005; Cass., 6.8.2003, n. 11881, ivi, 2003). 61
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do alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi” che, a norma del terzo comma dell’art. 1 della legge n. 219/2017, devono essere comunicate al paziente, e non l’opinione che questi esprima in merito all’esaustività di tale informazione. Chiarito ciò, si consideri che la dichiarazione del paziente contenuta nel “modulo” in merito alle informazioni comunicategli, per i suoi contenuti e per i suoi effetti giuridici, può essere accostata all’atto di quietanza, al quale la giurisprudenza univocamente attribuisce un valore confessorio62. Anch’essa, infatti, come la quietanza, consiste nel riconoscimento di un fatto storico che implica l’adempimento di un’obbligazione, seppure avente ad oggetto, in questo caso, un “facere” e non un “dare” del debitore. Ma la diversità dell’oggetto della prestazione non esclude l’identità degli effetti giuridici prodotti dal fatto storico che, nei due casi, è oggetto della dichiarazione. La comunicazione al paziente di informazioni adeguate al consenso che egli deve manifestare produce, infatti, quale effetto, l’estinzione per adempimento dell’obbligazione informativa del medico e/o della struttura sanitaria, così come il pagamento del debito pecuniario fatto al creditore estingue l’obbligazione del solvens. Occorre però precisare che, una volta provato, mediante la confessione stragiudiziale risultante dal “modulo”, il fatto storico consistente nel contenuto dell’informazione comunicata al paziente, la completezza e adeguatezza di tale informazio-
“La quietanza, rilasciata dal creditore al debitore all’atto del pagamento, ha natura di confessione stragiudiziale su questo fatto estintivo dell’obbligazione secondo la previsione dell’art. 2735 c.c., e, come tale, solleva il debitore dal relativo onere probatorio, vincolando il giudice circa la verità del fatto stesso, se e nei limiti in cui sia fatta valere nella controversia in cui siano parti, anche in senso processuale, gli stessi soggetti rispettivamente autore e destinatario di quella dichiarazione di scienza” (Cass., 1.3.2005, n. 4288, in Mass. Giust. civ., 2005; nello stesso senso, ex multis: Cass., 31.10.2008, n. 26325, ivi, 2008; Cass., 28.6.2005, n. 13919, ivi, 2005; Cass., 23.1.1997, n. 689, ivi, 1997).
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ne, se contestata, dovrà essere vagliata dal giudice, anche mediante consulenza tecnica d’ufficio, per valutare se effettivamente essa abbia integrato l’esatto adempimento dell’obbligazione informativa di cui il medico e/o la struttura sanitaria erano in concreto gravati nel caso specifico. Ma quello stesso fatto storico, in quanto oggetto di prova legale, quale è la confessione stragiudiziale fatta alla parte, non ammetterà la prova contraria, avendo valore vincolante sia per la parte che l’ha resa, sia per il giudice63, con la conseguente inammissibilità di prove testimoniali o di altro genere di segno contrario. Di qui l’inevitabile rivalutazione, sul piano strettamente probatorio, del “modulo di consenso informato” nel caso che esso, beninteso, risponda agli anzidetti requisiti contenutistici.
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63 “La confessione stragiudiziale fatta alla parte, una volta provata (con qualsiasi mezzo, ivi compresa la confessione, valendo in tal caso le ordinarie regole probatorie), ha il medesimo valore di prova legale della confessione giudiziale, ed è dotata di efficacia vincolante sia nei confronti della parte che l’ha resa (alla quale non è riconosciuta alcuna facoltà di prova contraria), sia nei confronti del giudice, che, a sua volta, non può valutare liberamente la prova, né accertare diversamente il fatto confessato” (Cass., 10.8.2000, n. 10581, in Mass. Giust. civ., 2000).
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La responsabilità per danno da farmaco a trent’anni dall’attuazione della direttiva sulla responsabilità del produttore
g g sa re e a p
Valentina Di Gregorio
Professoressa nell’Università di Genova Sommario: 1. L’impatto della direttiva “prodotti” nella valutazione della Commissione Europea del 2018. – 2. Danno da farmaco e responsabilità per attività pericolosa: emoderivati e dispositivi medici. – 3. Il danno da vaccino. – 4. Una tipologia di danno non soggetta alle regole sulla responsabilità del produttore: i danni da emotrasfusione. – 5. L’attuazione della direttiva europea sulla responsabilità da prodotto farmaceutico nel Regno Unito. – 6. Conclusioni.
Abstract: Lo studio prende in esame l’applicazione della normativa sulla responsabilità del produttore nel danno da farmaco. A distanza di trent’anni dall’attuazione della direttiva n. 374/85 CEE, con la quale è stato introdotto un regime di responsabilità senza colpa, si può registrare una tendenza moderata della giurisprudenza italiana a ricorrere alle norme consumeristiche per l’imputazione della responsabilità alle aziende farmaceutiche per difetto dei prodotti nell’ambito dei dispositivi medici, dei vaccini, dei farmaci diversi dagli emoderivati – cui è applicato soprattutto l’art. 2050 c.c. – e dalle trasfusioni. Uno sguardo al sistema inglese, in cui l’introduzione di un modello di responsabilità senza colpa ha rappresentato una novità, mostra che il regime adottato a seguito della direttiva ha semplificato il sistema di accertamento della responsabilità, anche attraverso le norme in tema di onere della prova. In questo contesto, le sentenze interpretative della Corte di Giustizia dell’Unione Europea rese in tema di responsabilità per danno da prodotti farmaceutici hanno contribuito a indirizzare gli Stati membri verso l’applicazione della disciplina introdotta dalla direttiva che, dall’esame della giurisprudenza e secondo la valutazione della Commissione Europea, eseguita nel 2018, risulta oggi ancora adeguata.
This article concerns the implementation of product liability directive with respect to pharmaceuticals products damages. Thirty years after the implementation of the directive 85/374, which introduced a strict liability regime, the Italian case law are mainly addressed to protect the consumers against defective products of pharmaceutical companies, regarding medical devices, medicines, vaccines and other blood products and transfusions. With respect to UK, the directive implementation through the Consumer Protection Act (1987) has introduced a strict liability and has made easier the burden of proof of plaintiff. In this context, the European Court of justice interpretation concerning pharmaceutical products liability has contributed to give deadlines to member States in applying the directive. This aspect is confirmed also by the European Commission’s evaluation of 2018, who enforces that the Directive has added the value consisting in the harmonization of the product liabilities rules and of the right balance between consumer’s protection and innovation in Europe.
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1. L’impatto della direttiva “prodotti” nella valutazione della Commissione Europea del 2018 La direttiva in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi n. 374/85 CEE costituisce uno dei primi atti normativi del diritto privato europeo espressamente dedicati alla protezione dei consumatori. Le ragioni dell’adozione della direttiva sono contenute nei “considerando”, da cui emerge l’esigenza di incentivare la crescita economica nel quadro di una concorrenza che permetta alle aziende di immettere sul mercato prodotti innovativi e al contempo di prevenire gli incidenti con regole di sicurezza comuni dei prodotti e un’adeguata distribuzione dei rischi; in quest’ottica viene prescelto un modello di imputazione della responsabilità al produttore per i danni provocati dai prodotti che prescinde dalla colpa (art. 4) e agevola l’onere della prova del danneggiato. Contestualmente sono previste alcune clausole di esonero, tra le quali è compreso il c.d. “rischio di sviluppo” che consente al produttore di andare esente da responsabilità dimostrando che le conoscenze scientifiche e tecniche non permettevano di scoprire l’esistenza del difetto (art. 7, lett. e). La direttiva è mirata ad armonizzare la normativa sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi nell’Unione Europea per mezzo di un sistema che assicuri la sicurezza dei prodotti anche con il coinvolgimento degli altri soggetti della catena distributiva, come il fornitore e l’importatore, garantendo, tuttavia nell’art. 13, la coesistenza dei sistemi nazionali di responsabilità (contrattuale, extracontrattuale o fondati su regimi speciali) che tutelano i diritti dei consumatori; l’interpretazione di questa disposizione in particolare ha creato alcune difficoltà nell’individuazione dello spazio residuato agli Stati alla cui soluzione è stata chiamata la Corte di Giustizia dell’Unione europea1.
Corte giust. UE, 25.4.2002, causa C-52/00, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 119, con nota di Lenoci e Corte giust. UE, 25.4.2002, causa C-183/00, consultabile all’indirizzo: www. curia.europa.eu.
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Riguardo al risarcimento del danno, di cui non ci si occupa in questa sede, la direttiva garantisce protezione contro il danno da morte, lesioni personali e danni materiali, lasciando coesistere il modello risarcitorio vigente nei singoli ordinamenti quanto al danno morale (non patrimoniale) e prevedendo un termine di prescrizione triennale per l’esercizio dell’azione e un termine di decadenza di dieci anni decorso il quale il produttore non si considera più responsabile per i difetti del prodotto. Essendo i vari sistemi nazionali differenti fra loro, la piena armonizzazione delle leggi sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi non può realizzarsi completamente nei singoli Stati a meno che non si limiti la portata della norma che stabilisce i confini dell’applicazione delle regole interne; le relazioni quinquennali presentate dalla Commissione Europea al Consiglio e al Parlamento, ai sensi dell’art. 21, registrano tuttavia l’adeguatezza della direttiva sotto il profilo della sicurezza, della promozione, dell’innovazione e del risarcimento del danno prodotto, ancorché non siano contemplati tutti gli aspetti della responsabilità per danno da prodotti difettosi e sia stata riservata alla discrezionalità degli Stati membri la scelta delle modalità di soddisfazione dell’onere della prova, la previsione di strumenti per delineare un regime di responsabilità differente e di autonomi meccanismi di liquidazione dei danni ex art. 132. I prodotti farmaceutici, destinati alla cura della salute umana e ad interagire con i processi fisiologici dell’organismo, presentano un rischio di pericolosità connesso all’intrinseca natura del
“Relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo sull’applicazione della direttiva del Consiglio relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi (dir. n. 374/85 CEE)”, consultabile all’indirizzo: www.eur-lex.europa.eu. Alpa, La responsabilità civile. Principi, Milano, 2018, 125 ss.; Id., Responsabilità dell’impresa e tutela del consumatore, Milano, 1975; Alpa, Bessone, La responsabilità del produttore, Milano, 1999; Pardolesi, Ponzanelli, La responsabilità per danno da prodotti, in Nuove leggi civ. comm., 1989, 497; Jansen, The State of the Art of European Tort Law, in European Tort Law, Eastern and Western Perspectives, Berne, 2007, 15 ss. 2
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prodotto e alla possibilità che si presentino effetti collaterali dannosi non previsti. La disciplina ad essi applicabile è fondata su una serie di disposizioni legislative contenute nella normativa sulla responsabilità del produttore (d. P. R 24.5.1988, n. 224, attuativo della direttiva 374/1985, confluito nel d. lgs. 6.9.2005, n. 206, Codice del consumo), nel Codice comunitario concernente i medicinali ad uso umano (d. lgs. 24.4.2006, n. 219) frutto della direttiva comunitaria n. 84/2003 CE che comprende norme in tema di “farmacovigilanza”, nella legge sui dispositivi medici (d. lgs. 24.2.1997, n. 46, in attuazione della direttiva n. 42/93 CEE), seguita dal reg. CE n. 1394/2007, sui medicinali per terapie avanzate e dalla legge sugli emoderivati (l. 21.10.2005, n. 219)3. Secondo la normativa sulla responsabilità del produttore, il farmaco è pericoloso quando non risponde ai requisiti di sicurezza che ci si poteva attendere, tenuto conto del modo con cui è commercializzato, delle istruzioni e avvertenze per l’utilizzo (il foglietto illustrativo allegato alla confezione), dell’uso cui è destinato (conforme all’autorizzazione concessa per la commercializzazione e alla prescrizione medica), del tempo in cui è messo in circolazione e delle caratteristiche degli altri esemplari della stessa serie (art. 6 dir. n. 374/85 CEE e art. 117 c. cons.). L’art. 7 della direttiva e l’art. 118, lett. e) del codice del consumo rappresentano nel campo dei prodotti farmaceutici una delle principali cause di esclusione della responsabilità. Lo stesso legislatore comunitario è consapevole del rischio connesso ai farmaci, menzionandoli specificamente nel 13° considerando della direttiva ove si prescrive che “nella misura in cui una protezione efficace dei consumatori nel settore dei prodotti farmaceutici sia già garantita in uno Stato membro anche mediante un regime speciale di responsabilità, devono ugualmente continuare
ad essere possibili azioni basate su questo regime”. La Commissione, nel maggio del 2018, considerato che dopo più di trent’anni l’Unione Europea e le sue norme in materia di sicurezza dei prodotti si sono evolute in sintonia con i cambiamenti sul piano dell’economia e delle tecnologie, ha compiuto una valutazione generale sull’applicazione della direttiva con particolare riferimento all’efficacia, all’efficienza nel raggiungere gli scopi originari, all’adattamento alle norme dell’Unione Europea, alla capacità di promuovere l’innovazione incoraggiando i produttori ad immettere nuovi prodotti sul mercato4. I risultati della valutazione rivelano che la maggior parte delle richieste di risarcimento danni per prodotti difettosi presentate tra il 2000 e il 2016 sono state risolte in via extragiudiziale: il 46% dei casi è stato risolto mediante negoziati diretti, il 32% in sede contenziosa, il 15% tramite meccanismi alternativi di risoluzione delle controversie e il 7% con altri mezzi, come, ad esempio, il ricorso diretto all’assicuratore della parte responsabile5. Al contempo, la relazione precisa che i prodotti maggiormente interessati sono le materie prime, i veicoli, i macchinari e i prodotti farmaceutici, per i quali si registra un picco di istanze alla Corte di Giustizia tradottosi nel 67% delle decisioni rese. Riguardo a questi ultimi, data la complessità tecnica e il grado di sofisticazione del prodotto i principali problemi attengono all’individuazione della difettosità del prodotto, alle difficoltà nell’assolvimento dell’onere della prova sul piano della dimostrazione del difetto e del nesso causale e all’individuazione dell’esimente del rischio di sviluppo.
Evaluation of Council Directive 85/374/EEC on the approximation of laws, regulations, and administrative provisions of the Member States concerning liability for defective products. Final Report, January 2018, consultabile all’indirizzo: www.publications.europa.eu.
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Nel 20% dei casi i tribunali hanno accordato il risarcimento sulla base della disciplina nazionale dettata in tema di responsabilità civile o di inadempimento del contratto, anche se i ricorrenti avevano invocato l’applicazione della direttiva (Evaluation of Council Directive 85/374/EEC, cit., 22).
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Reg. CE n. 1394/2007 del Parlamento europeo e del Consiglio del 13.11.2007 (ATMPs), che ha modificato la direttiva n. 83/2001 CE e il reg. CE n. 726/2004.
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Il riscontro statistico della relazione mostra come la mancata prova del nesso di causalità rappresenti più della metà dei casi analizzati dai giudici nazionali in campo farmaceutico6. Inoltre, secondo il documento, la clausola relativa ai rischi di sviluppo rende complicato l’assolvimento dell’onere della prova del danno perché il danneggiato dovrebbe dimostrare, attraverso evidenze scientifiche, che il rischio era noto al produttore cui, tuttavia, è consentito di liberarsi indicandone l’esistenza nel foglio illustrativo7. A fronte dell’esigua casistica in tema di responsabilità per danno da farmaco nel diritto interno, solo recentemente in graduale aumento, le questioni sollevate davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea negli ultimi anni hanno evidenziato l’esistenza di problemi specifici nell’applicazione della direttiva nei singoli Stati membri, ricollegabili alle diverse modalità di attuazione della direttiva, autorizzate dall’art. 13 e dall’art. 15, comma 1°, lett. b) che consente la deroga all’art. 7, lett. e) sul rischio di sviluppo8. I temi principalmente affrontati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia hanno riguardato la nozione di difetto del prodotto farmaceutico, l’onere della prova, le informazioni circa gli effetti collaterali del farmaco, la compatibilità della tutela fornita dalle leggi nazionali in rapporto alle
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Evaluation of Council Directive 85/374/EEC, cit., 24.
Segnala Mildred, Pharmaceutical Products: The relationship between Regulatory Approval and the Existence of a defect (2007)18 European Business Law Review 1267 ss., come l’industria farmaceutica abbia sostenuto con forza l’introduzione di una clausola di esclusione della responsabilità in caso di difettosità del prodotto quando esso si mostri pienamente conforme alla normativa sulla sicurezza. 7
Cinque Stati membri hanno adottato la “deroga relativa al rischio da sviluppo” di cui all’articolo 15, comma 1°, lett. b) della direttiva, secondo cui un produttore è responsabile anche se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento dell’immissione in circolazione del prodotto non permetteva di scoprire l’esistenza del difetto: Finlandia e Lussemburgo applicano questa deroga a tutti i settori, Ungheria e Spagna escludono in particolare i prodotti farmaceutici, mentre in Francia sono esclusi i prodotti del corpo umano (Relazione della Commissione, cit.).
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disposizioni della direttiva, le clausole di esonero dalla responsabilità9. In particolare, la relazione segnala che la clausola del rischio di sviluppo potrebbe rappresentare in futuro un problema soprattutto in rapporto all’intelligenza artificiale e ai robot (sempre più utilizzati in medicina) che si fondano su sistemi di autoapprendimento; in quest’ottica è decisivo l’art. 15, lett. b) che consente la deroga all’art. 7, lett. e) prevedendo la responsabilità del produttore anche nel caso in cui egli provi che lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento in cui ha messo in circolazione il prodotto non permetteva di scoprire l’esistenza del difetto10. Un altro aspetto critico nell’attuazione della direttiva
Tutte le decisioni della Corte di Giustizia sono reperibili sul sito www.curia.europa.eu. Corte giust. UE, 25.4.2002, causa C-183/00, in tema di trasfusioni di sangue e contagio da epatite, con riferimento all’art. 13, esclude l’applicabilità della disciplina più favorevole prevista dall’ordinamento spagnolo; Corte giust. UE, 21.12.2011, causa C-495/10, resa sull’applicabilità della direttiva ai produttori, ma non ai prestatori di servizi che possono impiegare nella loro attività prodotti risultati difettosi; Corte giust. UE, 20.11.2014, causa C-310/13, secondo cui, con riferimento all’art. 13 della direttiva, le norme nazionali che accordano ai consumatori il diritto di chiedere al fabbricante di un prodotto informazioni sugli effetti collaterali sono compatibili con le norme della direttiva, in quanto non rientranti nell’ambito della sua applicazione; Corte giust. UE, 2.12.2009, causa C-358/08, sulla partecipazione al giudizio del fornitore quando non sia indicato il produttore; (sulla sostituzione anche Corte giust. UE, 9.2.2006, causa C-127/04); Corte giust. UE, 5.3.2015, causa C-503/13 e causa C-504/13, sulla difettosità di un dispositivo medico defibrillatore accertata sulla base di un esemplare e non di una serie; Corte giust. UE, 21.6.2017, causa C-621/15, sulla prova del danno a mezzo di presunzioni. Sul tema anche Corte giust. UE, 25.4.2002, causa C-154/00, in Danno e resp., 2002, 717, con nota di Ponzanelli; Corte giust. UE, 25.4.2002, causa C-52/00, cit., sulla franchigia stabilita dall’art. 9; Corte giust. UE, 29.5.1997, causa C-300/95, in Resp. civ. e prev., 1997, 1040, sul rischio di sviluppo e la compatibilità con l’art. 7, lett. e) della clausola della section 4, n. 1, lett. e) del Consumer Protection Act, che si riferisce alle conoscenze scientifiche e tecniche del settore produttivo cui appartiene il fabbricante. Corte giust. UE, 10.1.2006, causa C-402/03, in DeJure, secondo cui la direttiva n. 374/85 non permette alle legislazioni nazionali di estendere la responsabilità del fornitore al di fuori dei casi previsti dall’art. 3.
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Evaluation of Council Directive 85/374/EEC, cit., 28 s. Si pensi, ad es., all’evoluzione della tecnologia nel campo degli autoveicoli a guida automatica, in cui l’intervento umano è fortemente limitato. 10
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riguarda la messa in circolazione del prodotto ai fini della prescrizione, ritenuta troppo breve rispetto ai danni lungolatenti che compaiono oltre tre anni a decorrere dalla data in cui il ricorrente ha avuto o avrebbe dovuto aver conoscenza del danno, del difetto e dell’identità del produttore o oltre dieci anni dall’introduzione del prodotto sul mercato (artt. 10 e 11). Inoltre, la natura stessa dei prodotti farmaceutici e dei dispositivi medici, insieme all’ampia diffusione sul mercato e la facilità nel procurarseli, soprattutto in Italia, dove non è previsto un controllo sull’abuso di farmaci, in contrasto con la legislazione di altri Paesi europei che hanno adottato regimi più restrittivi anche a scopo di contenimento della spesa pubblica, aumenta il rischio di danno che si estende ad un numero elevato di persone, dando ingresso ai danni da farmaco nei mass torts, tutelabili attraverso l’azione di classe di cui all’art. 140 bis del codice del consumo11. Di qui l’esigenza del rispetto del principio di precauzione in virtù del quale, nell’ambito delle attività produttive che rappresentano un pericolo per la salute umana, occorre eliminare i rischi non conosciuti attraverso interventi di carattere preventivo e risarcitorio mirati a mantenere standard di sicurezza del prodotto (previsti negli artt. 102-113 c. cons. e nelle norme di settore) che consentano al contempo alle imprese di continuare l’attività di produzione e commercializzazione restando al passo con i progressi scientifici e tecnologici che caratterizzano il settore12.
2. Danno da farmaco e responsabilità per attività pericolosa: emoderivati e dispositivi medici Le principali aree di intervento dei consumatori contro i danni da farmaco difettoso riguardano gli emoderivati, le trasfusioni e i dispositivi impiantati nel corpo umano, come protesi e pace-maker, anche se attualmente l’attenzione sembra essere concentrata prevalentemente sull’obbligatorietà dei vaccini, sancita dal legislatore e confermata dalla Corte costituzionale13. Le prime decisioni sul tema del danno da farmaco nel diritto interno si collocano intorno agli anni Settanta e riguardano gli emoderivati. È noto il caso del Trilergan, prodotto farmaceutico a base di gammaglobuline umane e usato per la cefalea, che provocò in un elevato numero di pazienti l’insorgere dell’epatite B. Vennero coinvolti nella vicenda, quali soggetti responsabili, il medico che aveva prescritto il farmaco, la struttura sanitaria, il produttore e il Ministero della salute che ordinò dapprima il sequestro cautelare del farmaco e successivamente il ritiro dal commercio. L’inquadramento normativo della questione originata dagli emoderivati infetti è stato inizialmente fondato sull’art. 2043 c.c. e, a partire dal 1987, ricondotto da alcuni tribunali e dalla Cassazione all’art. 2050 c.c., sulla base del principio già affermato in altre fattispecie riguardanti attività
Corte cost., 18.1.2018, n. 5, consultabile all’indirizzo: www.cortecostituzionale.it, su ricorso della Regione Veneto, ha dichiarato la legittimità costituzionale dell’art. 1 della l. 31.7.2017, n. 119, di conversione del d.l. 7.6.2017, n. 73, che, a seguito del riemergere di malattie endemiche debellate proprio grazie ai vaccini, ha previsto l’obbligatorietà di una serie di vaccinazioni per i minori da zero a sedici anni e per tutti i minori stranieri non accompagnati, imposta come condizione per l’ammissione degli studenti al primo anno del ciclo scolastico. Sugli effetti dannosi dei vaccini si è pronunciata anche la Corte di Giustizia: Corte giust. UE, 21.6.2017, causa C-621/15, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 331, con nota di Toriello, che ha lasciato al giudice interno la valutazione del nesso di causalità tra la somministrazione del farmaco (vaccino) e l’insorgenza della malattia (v. infra, n. 9). 13
Mantelero, I danni di massa da farmaci, nel Trattato di Biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Le responsabilità in medicina, a cura di Belvedere e Riondato, Milano, 2011, 497 ss. Sui danni di massa Ponzanelli, Mass Tort nel diritto italiano, in Resp. civ. e prev., 1994, 173; Poddighe, I “Mass Torts” nel sistema della responsabilità civile, Milano, 2008. 11
È il codice del consumo a regolare la sicurezza dei prodotti negli artt. 102-113. La ratio ispiratrice della legislazione farmaceutica concernente i medicinali per uso umano di cui al d. lgs. 24.4.2006, n. 219 trova il suo fondamento nel principio di precauzione, posto a base della tutela dell’ambiente (in particolare nell’art. 301 d. lgs. 3.4.2006, n. 152) e della legislazione nel settore alimentare. V. soprattutto in quest’ultimo ambito: Al Mureden, Principio di precauzione, tutela della salute e responsabilità civile, Bologna, 2008, 9 ss. 12
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pericolose secondo il quale la responsabilità del produttore in base alla norma sulla responsabilità oggettiva deriva dalla potenzialità intrinseca dannosa per la pubblica incolumità dell’attività di produzione e di commercio e dalla propagazione di tale pericolosità sul mezzo adoperato: nella specie, il prodotto farmaceutico14. Il ricorso ad una nozione ampia di pericolosità che dall’attività trascorre al prodotto quale materializzazione dell’azione e che comprende la produzione finalizzata alla distribuzione del farmaco impone al danneggiato un onere probatorio più favorevole rispetto a quanto stabilito nella disciplina della responsabilità del produttore; l’applicazione dell’art. 2050 c.c. assoggetta l’azienda farmaceutica ad una responsabilità oggettiva che prevede, ai fini dell’esclusione della responsabilità, la dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno al fine di garantire il livello di sicurezza richiesto dalla legge e fondato sulla letteratura medico-scientifica, in presenza dell’autorizzazione alla commercializzazione rilasciata dallo Stato attraverso l’AIFA (Agenzia italiana del farmaco, istituita nel 2003) che esercita funzioni di controllo e vigilanza sulla distribuzione e sull’importazione dei farmaci. Tale tendenza interpretativa permane tuttora nonostante la disciplina contenuta nel codice del consumo (artt. 114-127) preveda la responsabilità senza colpa del produttore e del fornitore e definisca il prodotto difettoso come privo di sicurezza (art. 117 e art. 103 c. cons. che offre la definizione di prodotto sicuro): l’art. 120 stabilisce infatti un onere della prova meno favorevole per il danneggiato rispetto al regime dell’art. 2050 c.c. e nell’art. 118, lett. e) contempla una clausola di esclusione che consente al produttore di liberarsi da responsabilità provando l’esistenza di limiti connaturati alle conoscenze scientifiche e tecni-
14 App. Trieste, 16.6.1987, in Resp. civ. e prev., 1989, 335. La definizione di emoderivato è contenuta nell’allegato 1 dell’art. 1 della legge n. 219 del 21.10.2005 che si riferisce ai “farmaci plasmaderivati ovvero le specialità medicinali estratte dall’emocomponente plasma mediante processo di lavorazione industriale”.
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che del momento in cui è stato commercializzato il prodotto15. La maggioranza delle pronunce rese in materia inscrive quindi la responsabilità per danni da prodotti farmaceutici (emoderivati e non appartenenti a questa categoria) nel quadro dell’art. 2050 c.c., optando per un regime probatorio più vantaggioso per il danneggiato e limitando l’esonero da responsabilità del produttore alla prova dell’adozione delle misure idonee ad evitare il danno, mentre è decisamente ridotto il numero delle decisioni che fondano la condanna del convenuto al risarcimento del danno da farmaco sulle norme del codice del consumo; la ratio di tale scelta è fondata sull’art. 127 che, ai sensi dell’art. 13 della direttiva, stabilisce che disposizioni del codice del consumo non escludono né limitano i diritti attribuiti da altre leggi16.Per i farmaci emoderivati,
15 Alpa, Diritto dei consumatori, Bologna, 2016, 438; v. sul tema AL Mureden, La sicurezza dei prodotti e la responsabilità del produttore, Casi e materiali, Torino, 2017; Sica, D’Antonio, La responsabilità per danno da prodotti difettosi, nel Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, La tutela del consumatore, a cura di Stanzione e Musio, XXX, Torino, 2009, 618. 16 A favore dell’applicazione dell’art. 2043 c.c.: App. Trieste, 16.6.1987, cit.; Trib. Napoli, 9.10.1986, in Resp. civ. e prev., 1988, 407. Le prime pronunce che ritengono pericolosa ex art. 2050 c.c. l’attività di produzione e commercializzazione del farmaco Trilergan sono rese da Trib. Roma, 27.6.1987 e da Cass., 15.7.1987, n. 6241, entrambe in Nuova giur. civ. comm., 1988, I, 475 ss., con nota di Da Molo, che segnala come i giudici pervengano alla medesima conclusione circa la potenzialità lesiva dell’attività e dei mezzi adoperati (la somministrazione di gammaglobuline), pur divergendo le motivazioni delle due sentenze in ordine alla prova dell’attività pericolosa, essendo il giudizio compiuto dalla Cassazione ex ante e dal Tribunale di Roma ex post. Nella direzione da ultimo descritta: Trib. Milano, 19.11.1987, in Foro it., 1988, I, 144; Cass., 20.7.1993, n. 8069, in Giust. civ., 1994, I, 1037, con nota di Barenghi; Cass., 29.1.1997, n. 814, in DeJure; Trib. Bergamo, 23.11.2013, in Rass. dir. farm., 2014, 292; Trib. Salerno, 2.10.2007, in Riv. it. med. leg., 2008, 361 e in DeJure; Trib. Roma, 20.4.2002, in Danno e resp., 2002, 984, che esclude l’applicazione dell’art. 1 del d. P. R. n. 224/1988 riguardo ai farmaci d’importazione, richiamando l’art. 2050 c.c. Nel senso dell’ampliamento del concetto di pericolosità ad opera del prudente apprezzamento del giudice: Cass., 23.2.1983, n. 1394, in Foro it., 1984, I, 1280. L’orientamento a favore dell’applicazione dell’art. 2050 c.c. nel danno da farmaco è condiviso da Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità oggettive, nel Commentario Schlesinger, Milano, 2009, sub
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come per le trasfusioni e le vaccinazioni obbligatorie, la l. 25.2.1992, n. 210 ha previsto un indennizzo a favore dei soggetti che abbiano riportato lesioni o infermità da cui sia derivata una menomazione permanente dell’integrità psico-fisica. L’art. 8 del d. P. R. n. 224/1988 (art. 120 c. cons.) è stato applicato dalla Cassazione in una controversia in cui si trattava di decidere se la casa farmaceutica produttrice fosse responsabile del danno epatico provocato da un farmaco antiulcera. I giudici hanno adottato un’interpretazione a favore della natura presunta e non oggettiva della responsabilità, escludendone la configurabilità nella specie, in sintonia con l’orientamento affermatosi anche in altri casi di responsabilità da prodotto difettoso17. Recentemente si registra qualche decisione di merito favorevole all’applicazione della normativa speciale: è inquadrato nella disciplina dettata dal d. P. R. n. 224/1988 un caso di responsabilità per il danno provocato da un farmaco an-
artt. 2049-2053, 250; critico sull’applicabilità dell’art. 2050 al caso delle gammaglobuline è Recano, La responsabilità civile da attività pericolose, Padova, 2001, 196. Sull’ambito di applicazione dell’art. 2050 non solo in campo sanitario v. Ar. Fusaro, Attività pericolose e dintorni. Nuove applicazioni dell’art. 2050 c.c., in Riv. dir. civ., 2013, 1337 ss.; Id., Emoderivati infetti: la responsabilità in fase di produzione, in questa Rivista, 2017, n. 3, 327 ss.; Id., Responsabilità del produttore: la difficile prova del difetto, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 896. Cass., 28.7.2015, n. 15851, in Danno e resp., 2016, 41 ss.; a favore della natura presunta della responsabilità, relativamente ai danni provocati da un fustino di candeggina v. Cass., 19.2.2016, n. 3258, in DeJure e App. Genova, 28.2.2018, ivi. Secondo Stella, Causa ignota del danno derivante dall’uso del prodotto e responsabilità del produttore per prodotto difettoso, in Resp. civ. e prev., 2007, 1444, entrambe le qualificazioni (oggettiva e presunta) sono compatibili con il modello di responsabilità: oggettiva perché senza colpa e presunta perché dalla prova del danno difetto e nesso causale (art. 120) si presume la responsabilità del produttore, salva prova contraria ai sensi dell’art. 118. Contro la configurabilità di una presunzione di colpa Franzoni, L’illecito, nel Trattato della responsabilità civile, I, Milano, 2010, 448 ss. Si tratta di responsabilità oggettiva relativa per Cabella Pisu, Ombre e luci nella responsabilità del produttore, in Contr. e impr., 2008, 626. Pone in evidenza la necessità di distinguere tra responsabilità oggettiva e presunta, segnalando l’erronea sovrapposizione che echeggia nelle pronunce Pucella, Danno da vaccini, probabilità scientifica e prova per presunzioni, in Resp. civ. e prev., 2017, 1796.
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titumorale dai cui effetti collaterali si era sviluppata un’altra patologia. La domanda viene tuttavia respinta, sulla scorta dell’art. 6 lett. e), perché al momento dell’immissione in commercio non vi era la possibilità di conoscere gli effetti collaterali denunciati18. In un altro caso, la rottura improvvisa di un’artroprotesi con conseguente caduta a terra del paziente che subisce lesioni personali ed è costretto a rinnovare l’intervento, è fonte di responsabilità dell’azienda produttrice per difetto di fabbricazione; la disciplina si applica anche se l’impresa costruttrice ha sede al di fuori dei Paesi dell’Unione Europea, sulla base dell’art. 116, comma 6°, c. cons. che prevede la responsabilità dell’importatore19. Nel campo dei dispositivi medici, le norme sulla responsabilità del produttore trovano applicazione purché il paziente riesca a provare, oltre al danno, al difetto e al nesso causale, anche che l’uso del prodotto ha determinato un risultato anomalo tale da evidenziare la mancanza di sicurezza del prodotto, come nel caso di difetti di protesi o di apparecchiature innestate nell’organismo umano che cessano di svolgere la funzione cui sono destinate. Il produttore, per liberarsi, deve provare che al momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione il difetto non esisteva, restando a suo carico le cause ignote ex artt. 6 e 8 d. P. R. n. 224/1988 o ex art. 120, comma 2°, c. cons.: su questo terreno, la Cassazione, ritenendo che lo svuotamento di una protesi mammaria dopo l’in-
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18 Trib. Sassari, 12.7.2012, in Resp. civ. e prev., 2012, 2067; in precedenza Trib. Roma, 20.4.2002, ivi, 2002, 1107, ha analizzato la responsabilità per danno da farmaco sotto il profilo del danno da prodotto, negando tuttavia il risarcimento per errore del danneggiato nell’individuazione dell’impresa produttrice. 19 Trib. Firenze, 18.11.2014, in DeJure, individua quali responsabili il progettista e l’installatore dell’impianto, ma anche la società produttrice, mentre esclude la responsabilità della struttura sanitaria e dei professionisti coinvolti, mentre Trib. Ravenna, 20.3.2017, consultabile all’indirizzo: www.responsabilitàmedica.it, imputa la responsabilità alla struttura. Riguardo al produttore che opera al di fuori del novero dei Paesi Europei v. Trib. Mantova, 28.10.2016, consultabile all’indirizzo: www.ilcaso.it.; così anche Cass., 20.5.2009, n. 11710, in Foro it., 2009, I, 2659, resa in un caso di scoppio di un airbag.
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serimento nel corpo della paziente rappresentasse un caso di mancanza di sicurezza per aver dato origine ad un risultato anomalo rispetto all’uso cui era destinata, ha affermato la responsabilità del produttore del dispositivo. In particolare, è stata ritenuta soddisfacente la prova che l’uso aveva comportato risultati anomali rispetto alle aspettative e quindi il prodotto, ai sensi dell’art. 5, non offriva la sicurezza che ci si poteva attendere20.
Cass., 8.10.2007, n. 20985, in Resp. civ. e prev., 2008, 350, con nota di Carnevali, in Foro it., 2008, I, 143, ha applicato l’art. 5 del d. P. R. n. 224/1988; nella medesima direzione sono le successive sentenze di: Trib. Milano, 23.9.2008, in Il civilista, 2009, 97 e App. Brescia, 10.2.2014, in Foro it., 2014, I, 2239. Sull’impianto di pace maker: Corte giust. UE, 5.3.2015, causa C-503/13, consultabile all’indirizzo: www. curia.europa.eu e in DeJure. La definizione di dispositivo medico è contenuta nell’art. 1, comma 2°, d. lgs. 24.2.1997, n. 46, di attuazione della direttiva n. 42/93 CEE concernente i dispositivi medici (segue al d. lgs. 14.12.1992, n. 507 che ha attuato la direttiva n. 385/90 CEE in tema di “Ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai dispositivi medici impiantabili attivi”) secondo cui è dispositivo medico: a) qualunque strumento, apparecchio, apparecchiatura, sostanza od altro articolo usato da solo o in combinazione, compresi gli accessori e i software che intervengono nel buon funzionamento dello stesso, destinato dal fabbricante ad essere impiegato sull’uomo ai fini di diagnosi, prevenzione, controllo, trattamento o attenuazione di malattie o lesioni ovvero ai fini di studio, sostituzione o modifica dell’anatomia oppure di un processo fisiologico, ovvero ai fini del controllo del concepimento il quale non eserciti l’azione principale, cui è destinato, con mezzi farmacologici, chimici o immunologici né mediante processo metabolico, ma la cui funzione possa essere coadiuvata da tali mezzi; b) dispositivo medico attivo: qualsiasi dispositivo medico collegato per il suo funzionamento ad una fonte di energia elettrica o a qualsiasi altra fonte di energia diversa da quella prodotta direttamente dal corpo umano o dalla gravità; c) dispositivo medico impiantabile attivo: qualsiasi dispositivo medico attivo destinato ad essere impiantato interamente o parzialmente mediante intervento chirurgico o medico nel corpo umano o mediante intervento medico in un orifizio naturale e destinato a restarvi dopo l’intervento; d) dispositivo su misura: qualsiasi dispositivo medico impiantabile attivo appositamente fabbricato secondo la prescrizione scritta di un medico specialista, che precisi le caratteristiche specifiche di progettazione del dispositivo, sotto la responsabilità del clinico stesso e destinato a essere utilizzato esclusivamente per un determinato paziente; e) dispositivo destinato ad indagini cliniche: qualsiasi dispositivo medico impiantabile attivo destinato a essere messo a disposizione di un medico specialista allo scopo di indagini da effettuarsi in un ambiente clinico umano idoneo. 20
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Il tema della difettosità del dispositivo medico e dell’onere della prova del difetto è stato affrontato anche dalla Corte di Giustizia cui è stato richiesto di pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione di alcune norme della direttiva “prodotti” riguardo ai difetti di uno stimolatore cardiaco21. Il caso riguardava l’accertamento di un guasto di un componente utilizzato per la produzione di un pacemaker che aveva indotto la ditta produttrice a segnalare la necessità della sostituzione anticipata del dispositivo impiantato nei pazienti a causa di un possibile malfunzionamento benché tale difetto non fosse ancora manifestato. In particolare, alla Corte di Giustizia è stato chiesto di esprimersi sull’interpretazione della nozione di “difetto” di cui agli artt. 4 e 6 della direttiva per verificare se un dispositivo si possa ritenere difettoso per il fatto che il difetto si presenti in alcuni esemplari e in rapporto alla definizione di cui all’art. 9 “danno da morte o lesioni personali”, dato che la condizione oggettiva del dispositivo costringeva, nella specie, i pazienti a sottoporsi ad un secondo intervento per la sostituzione. La soluzione offerta dalla Corte, in virtù del principio di precauzione, è fondata sulla definizione di prodotto difettoso: il dispositivo deve qualificarsi come difettoso perché non presenta la sicurezza che è legittimo attendersi, senza che debba riscontrarsene in concreto il difetto in ogni esemplare; quindi, anche nel caso di mero rischio di guasto, secondo la Corte, facilitata nella decisione dall’esplicita denuncia del difetto da parte dell’azienda produttrice, si può individuare la mancanza di sicurezza. La particolare natura del prodotto farmaceutico e l’impatto che determina sulla salute delle persone ha reso necessaria l’introduzione nella cornice legislativa nazionale e, ancor prima, sul piano europeo, di una disciplina mirata a garantire la sicurezza dei prodotti farmaceutici, tradottasi nell’emanazione del Codice dei medicinali per
Corte giust. UE, 5.3.2015, causa C-503/13 e causa C-504/13, consultabile all’indirizzo: www.curia.europa.eu. In precedenza, sull’esimente di cui all’art. 7 lett. c); Corte giust. UE, 10.5.2001, causa C-203/99, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 181. 21
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uso umano (d. lgs. 24.4.2006, n. 219) che contiene la definizione di medicinale e prevede una serie di regole c.d. di “farmacovigilanza” relative agli accertamenti dei presupposti per l’autorizzazione alla commercializzazione dei farmaci, per l’importazione dall’estero, per la redazione del foglietto illustrativo sugli effetti indesiderati del farmaco, sulle quali l’AIFA esercita la propria attività di controllo e vigilanza. La necessità di aggiornamento del foglietto illustrativo non configura tuttavia per il produttore la responsabilità per gli effetti indesiderati se non è intervenuto un provvedimento in tal senso da parte dell’AIFA e se il danneggiato non è riuscito a provare che l’azienda farmaceutica era a conoscenza di tali effetti22. Inoltre, la pratica di utilizzo dei farmaci off label (con finalità diverse da quelle per cui è stata autorizzata la commercializzazione o ancora in via di sperimentazione) e l’attenzione rivolta al tema dall’Unione europea, sensibilizzata dall’aumento dei ricorsi alla Corte di Giustizia per danno da farmaco, ha generato l’esigenza di individuare strumenti non solo risarcitori, ma anche preventivi di tutela che hanno condotto all’emana-
22 Il d. lgs. 24.4.2006, n. 219, emanato a seguito della direttiva n. 83/2001 CEE, modificata dalla direttiva n. 84/2010 UE, contiene la definizione di medicinale nell’art. 1, lett. a), d. lgs. 24.4.2006, n. 219 (che ha abrogato il precedente d. lgs. 29.5.1991, n. 178, emanato in attuazione della direttiva n. 83/2001 CEE e successive direttive di modifica) secondo cui: a) prodotto medicinale o medicinale, è 1) ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane; 2) ogni sostanza o associazione di sostanze che può essere utilizzata sull’uomo o somministrata all’uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un’azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica. Nella lettera i) dell’art. 1 la legge indica anche i “medicinali derivati dal sangue o dal plasma umani: medicinali a base di componenti del sangue preparati industrialmente in stabilimenti pubblici o privati; tali medicinali comprendono in particolare l’albumina, i fattori della coagulazione e le immunoglobuline di origine umana”. Sulla distinzione tra la nozione di farmaco e quella di medicinale, fondata sull’azione sull’organismo umano che caratterizza la prima rispetto al valore di sostanza insito nella seconda, v. Caroccia, La responsabilità per danno da prodotto farmaceutico, in Ann. fac. giur. Camerino, 2013, 3. Sulla descrizione degli effetti collaterali contenuta nel foglietto illustrativo: Trib. Rovigo, 5.1.2016, in Rass. dir. farm., 2016, 531.
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zione da parte del Ministero della salute del d. m. 30.4.2015, che ha potenziato l’azione statale di farmacovigilanza mediante procedure dirette a regolare le reazioni avverse (le reazioni nocive e non volute conseguenti non solo all’uso autorizzato di un medicinale alle normali condizioni di impiego, ma anche agli errori terapeutici e agli usi non conformi alle indicazioni contenute nell’autorizzazione all’immissione in commercio, incluso l’uso improprio e l’abuso del medicinale), a prevedere studi sulla sicurezza dei medicinali successivi all’autorizzazione, a misurare l’efficacia delle misure di farmacovigilanza per monitorare gli effetti dei medicinali e porre in essere un sistema di gestione del rischio da farmaco. Attraverso tali controlli e valutazioni è possibile verificare l’ambito di estensione sulla popolazione degli effetti dannosi diretti o collaterali dei farmaci con conseguente sospensione, revoca o modifica dell’autorizzazione in via preventiva. L’uso dei farmaci off label non comporta per le aziende farmaceutiche una responsabilità per danni che invece ricade sul medico che ha prescritto il farmaco: al fine di contenere gli effetti dannosi sulla salute umana e le conseguenze sotto il profilo penale e disciplinare per il professionista, è stato emanato il d.l. n. 23/1998, art. 3 (convertito in l. 8.4.1998, n. 94), secondo cui il medico può discostarsi dalle indicazioni autorizzate, assumendosi la responsabilità di eventuali danni, quando l’uso sia consolidato e convalidato da inconfutabili dati di letteratura scientifica internazionale, cui ha fatto seguito la l. 24.12.2007, n. 244 che, nell’art. 2, vieta, per contro, tale pratica laddove non siano disponibili “dati favorevoli di sperimentazione clinica di fase seconda”23.
23 Le sanzioni sono previste dall’art. 141 del d. lgs. n. 219/2006; Zana, Ai limiti della responsabilità medica: l’uso off label dei farmaci, in Liber amicorum per F.D. Busnelli, Milano, 2008, 729; Querci, Responsabilità per danno da farmaci: quali rimedi a tutela della salute?, in Danno e resp., 2012, 359, che riporta un’ampia casistica sui farmaci sperimentali o usati con dosaggi e modalità diverse da quelle indicate nella scheda tecnica; Massimino, Recenti interventi normativi e giurisprudenziali in materia di prescrizione dei farmaci off label, ivi, 2010, 1104.
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3. Il danno da vaccino Il quadro si amplia con la discussa questione della pericolosità dei vaccini e dei danni che ne derivano, per il risarcimento dei quali, la legge n. 210 del 1992 (che prevede, come sopra rilevato, un indennizzo per i danni da trasfusioni ed emoderivati) ha stabilito un indennizzo cui si aggiunge un ulteriore ristoro, consistente in un assegno vitalizio disposto da parte del Ministero della salute con legge 29.10.2005, n. 229 a favore dei soggetti che hanno subito una menomazione permanente a causa di vaccinazioni obbligatorie, esteso a partire dal 2007 anche ai soggetti risultati affetti da sindrome da talidomide, determinata dalla somministrazione dell’omonimo farmaco, prescritto per la cefalea che, nelle donne in gravidanza, ha determinato negli anni Sessanta gravi malformazioni sui neonati, consistenti nell’amelia, emimelia, focomelia e macromelia (l. 24.12.2007 n. 244, l. finanziaria per il 2008). Per il riconoscimento dell’indennizzo occorre tuttavia che sia certa la derivazione causale della menomazione o della malattia dal farmaco inoculato. In Italia la questione è stata affrontata dalla Cassazione soprattutto per il diritto all’indennizzo previsto dalla l. n. 210/1992, ma l’ambito di estensione non è mai stato allargato a situazioni diverse da quelle descritte nella legge: è consolidata e condivisibile la giurisprudenza diretta a negare l’indennizzo per l’insorgere di disturbi di tipo autistico a seguito di vaccinazione obbligatoria contro difterite, tetano, pertosse, poliomielite, haemophilus influenzae di tipo B, anti-epatite B, per mancanza di nesso eziologico scientificamente accertato tra la somministrazione e il verificarsi della patologia24.
24 Cass., 23.10.2017, n. 24959, in DeJure; Cass., 21.6.2016, n. 12821, ivi, 2016; Cass., 25.7.2017, n. 18358, ibidem. Da ultimo, Cass., ord. 25.7.2018, n. 19699, consultabile all’indirizzo: www.dirittoegiustizia.it., ha rigettato, per mancata dimostrazione del nesso di causalità, la domanda diretta a ottenere l’indennizzo per l’insorgere di un disturbo pervasivo dello sviluppo di tipo autistico a seguito di vaccinazione obbligatoria (Cinquerix: pentavalente contro difterite, tetano, pertosse, poliomielite ed haemophilus influenzae di tipo b) ed Engerix B (anti-epatite b), somministrata nel 2001 al pre-
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Saggi e pareri
Il tema dei vaccini è stato affrontato dalla Corte di Giustizia in due diverse occasioni. Il primo caso riguardava un vaccino contro la meningite che aveva provocato lesioni cerebrali ad un bambino e la pronuncia pregiudiziale era stata richiesta dall’High Court of Justice, Queen’s Bench Division. Si trattava di una questione di carattere processuale, incentrata sull’interpretazione dell’art. 11 della direttiva che fissa il termine decennale di prescrizione, ma stabilisce un’eccezione nel caso dell’avvio di un procedimento giudiziario; si rendeva dunque necessario stabilire se fosse ammissibile la sostituzione di una parte convenuta all’altra nel corso del processo, e, in base all’art. 3, quale fosse il soggetto responsabile in caso di mancata individuazione del produttore25. La Corte di Giustizia restringe i margini di discrezionalità del legislatore nazionale, chiarendo che la normativa interna non può autorizzare la sostituzione di una parte convenuta ad un’altra nel corso di un procedimento giudiziario in modo da consentire che dopo la scadenza del termine fissato, il produttore, ai sensi dell’art. 3, comma 3° (e dell’art. 11), venga convenuto in sede di sostituzione in un procedimento contro un’altra parte, salvo il caso in cui si accerti che, trattandosi di società controllate, la circolazione del prodotto sia avvenuta da parte della società controllante produttrice del vaccino. Nell’ottica descritta i giudici chiariscono che quando non è individuato il produttore, il fornitore o l’importatore devono considerarsi produttore; ad analoga soluzione si perviene anche sulla base dell’art. 116, comma 5°, c. cons., secondo cui il “terzo indicato come produttore o precedente fornitore può essere chiamato in causa a norma dell’art. 106 c.p.c. e il fornitore convenuto può essere estromesso, se la persona indicata compare e non contesta l’indicazione”.
sunto danneggiato. 25 Corte giust. UE, 2.2.2009, causa C-358/07, in Resp. civ. e prev., 2010, 2000, con nota di Venchiarutti. La Corte europea si era già espressa in questa causa nel 2006, ma la questione era tornata al suo esame dopo il ricorso presentato dall’azienda farmaceutica e il nuovo rinvio da parte della House of Lords.
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Il secondo caso non concerne lo scollamento tra la disciplina comunitaria e la disciplina nazionale, ma l’individuazione, alla luce dell’art. 4 della direttiva, dei criteri di ammissibilità della prova del difetto e del rapporto di causalità tra la somministrazione del prodotto (in questo caso il vaccino contro l’epatite B) e il danno subito dalla persona (l’insorgenza della sclerosi multipla)26. La Corte dichiara in primo luogo la compatibilità delle presunzioni, purché gravi, precise e concordanti, con la distribuzione dell’onere probatorio imposto al danneggiato/attore dall’art.4, senza obbligarlo a fornire prove scientifiche certe, salvo vanificare l’obiettivo di tutela del consumatore della direttiva. In secondo luogo, i giudici, nell’esigere il rispetto del principio di effettività nell’ambito della responsabilità istituita all’art. 1 che induce ad escludere la configurabilità di un regime fondato su una presunzione assoluta, tale da imputare la responsabilità senza verifica di altri elementi contrari o relativa che avrebbe l’effetto di rovesciare l’onere della prova, ritengono non ostativa la mancanza di prove scientifiche certe. In questo contesto, la valutazione degli indizi fattuali che fondano le presunzioni semplici è rimessa al giudice nazionale, senza alcun automatismo che possa pregiudicare il funzionamento del meccanismo probatorio instaurato con la direttiva27. La soluzione quindi torna al giudice nazionale cui è affidato il compito di valutare la sussistenza dei presupposti indicati dalla normativa introdotta dalla direttiva.
4. Una tipologia di danno non soggetta alle regole sulla responsabilità del produttore: i danni da emotrasfusione La normativa sulla responsabilità del produttore non ha trovato applicazione nell’ambito dal danno da contagio da HIV derivato da trasfusioni
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Corte giust. UE, 21.6.2017, causa C-621/15, cit.
Nel senso dell’ammissibilità del meccanismo presuntivo v. Cass., 11.8.2008, n. 582, cit. in nota 13 e in Foro it., 2008, I, 453. 27
(particolarmente diffuso anche nei casi di HBV, responsabile dell’epatite B e HCV, responsabile dell’epatite C, ma attualmente oggetto di attenzione per gli effetti patogeni generati dalle trasfusioni infettate da Plasmodium responsabile della malaria o dal parassita “tripanosoma kruzi”), in cui la giurisprudenza ha riconosciuto il risarcimento del danno patito attraverso l’individuazione di un duplice regime di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale a carico rispettivamente del medico e della struttura sanitaria presso la quale era stata eseguita la prescrizione28. Tale regime ha trovato dapprima parziale conferma nell’art. 3, comma 1°, d. l. 13.9.2012, n. 158, convertito in l. 8.11.2012, n. 189, c.d. “legge Balduzzi” che, riguardo al medico, sanciva l’applicazione dell’art. 2043 c.c., e definitivo riconoscimento nella nuova legge n. 24 del 2017 che, nell’art. 7, comma 1° e 3°, prevede una responsabilità a “doppio binario”, di natura contrattuale per quan-
Le sezioni unite della Cassazione nel 2008 hanno affrontato (nelle sentenze gemelle nn. 576-585) i profili della natura della responsabilità imputabile al medico e alla struttura ospedaliera, dell’onere della prova, della prescrizione e dell’indennizzo spettante al danneggiato. Ha individuato il fondamento normativo della responsabilità del medico e della struttura: Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 612, con nota di De Matteis e in Resp. civ e prev., 2008, 849, con nota di Gorgoni. Segnatamente sul punto dell’applicabilità dell’art. 2043 c.c. e sulla distinzione tra indennizzo e risarcimento spettanti al danneggiato, caratterizzati da ontologica diversità sotto il profilo della colpa: Cass., 11.1.2008, n. 576, in Giust. civ., 2009, I, 2533; Pulice, Il danno da emotrasfusione: dieci sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione, in Pratica Medica e Aspetti Legali, 2008, 185. Più in generale, sulla responsabilità dell’ente sanitario, v. Alpa (a cura di), La responsabilità sanitaria. Commento alla l. 8 marzo 2017, n. 24, Pisa, 2017; De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari, nel Trattato di dir comm e dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, 2007, 253 ss.; Id., Le responsabilità in ambito sanitario. Il regime binario: dal modello teorico ai risvolti applicativi, ivi, 2017; Monateri, Illiceità e giustificazione dell’atto medico nel diritto civile, nel Trattato di Biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, Le responsabilità in medicina, cit., 3 ss.; P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017, 247. Turci, La responsabilità del Ministero della salute per danni da emotrasfusione: i principi delle Sezioni Unite nn. 576-585/2008, a dieci anni dalle pronunce, in questa Rivista, 2018, 55 ss. 28
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to riguarda la struttura sanitaria ed extracontrattuale rispetto al medico29. L’attività trasfusionale e la produzione e importazione di farmaci emoderivati è attualmente regolata dalla l. 21.10.2005, n. 219 che, nell’art. 10, attribuisce al Ministero compiti di indirizzo e programmazione del settore trasfusionale oltre che di coordinamento e controllo con il Centro Nazionale Sangue, con la finalità, tra le altre, di pervenire ad “una più efficace tutela della salute dei cittadini attraverso il conseguimento dei più alti livelli di sicurezza raggiungibili nell’ambito di tutto il processo finalizzato alla donazione ed alla trasfusione del sangue”; nell’art. 5, comma 4°, dispone “l’esecuzione delle indagini di laboratorio e delle procedure di inattivazione dei patogeni finalizzate alla certificazione dei requisiti di qualità e sicurezza previsti dalla legislazione vigente per le unità di sangue e gli emocomponenti, con particolare riferimento alla prevenzione delle malattie trasmissibili con la trasfusione” e negli artt. 15 e 16 regola la produzione e l’importazione dei farmaci emoderivati30. L’allegato 1 all’art. 1 contiene la definizione di attività trasfusionali, sangue, emocomponenti, emoderivati ed emovigilanza
29 L. 8.3.2017, n. 24 (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie).
La legge n. 219/2005 (Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale degli emoderivati) abroga la precedente legge 4.5.1990, n. 107 (Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati) che aveva posto una disciplina dell’attività di trasfusione e della produzione di emoderivati sotto il profilo amministrativo, seguendo ad una normativa frammentaria con la quale era stato già previsto un obbligo di controllo e vigilanza dello Stato e, in particolare del Ministero della salute, in precedenza Ministero della sanità. Ancor prima, la legge 13.3.1958, n. 296 aveva attribuito al Ministero della sanità il compito di provvedere alla salute pubblica e di sovrintendere ai servizi sanitari svolti dagli enti pubblici; la legge n. 592 del 14.7.1967 aveva conferito al Ministero le direttive tecniche per l’organizzazione, la conservazione e la distribuzione del sangue umano per uso trasfusionale, alla preparazione dei derivati e ne esercita la vigilanza; la l. 23.12.1978, n. 833, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, che nell’art. 4, dichiara inoltre che la raccolta, il frazionamento e la distribuzione del sangue sono materia di interesse nazionale. 30
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che rappresenta il sistema di sorveglianza di competenza dello Stato, consistente nella raccolta di dati e di analisi relativa alle donazioni e alle trasfusioni di sangue31. Secondo l’orientamento prevalente, la responsabilità civile per danni a carico dello Stato non derivante da attività di produzione e distribuzione di sangue non è da qualificarsi come pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., ma integra un’omissione di controllo e vigilanza su dette attività, sicché è applicabile l’art. 2043 c.c. In questo specifico campo, sono legittimi i dubbi sull’applicabilità del regime regolato dal codice del consumo, giacché non solo il sangue non può definirsi un prodotto ai sensi dell’art. 115 c. cons. e dell’allegato 1 all’art. 1 l. n. 219/2005, lett. b), ma anche la gratuità della raccolta e della fornitura del sangue all’interno di un sistema pubblicistico, posta a carico del servizio sanitario nazionale, esula dalle previsioni legislative, mentre la direttiva si prefigge l’obiettivo di bilanciare la tutela del consumatore con la libera concorrenza nel mercato europeo.
31 Allegato 1 all’art. 1 l. n. 219/2005: a) attività trasfusionali: le attività riguardanti la promozione del dono del sangue, la raccolta di sangue intero, emocomponenti e cellule staminali emopoietiche autologhe, omologhe e cordonali; il frazionamento con mezzi fisici semplici; la validazione, la conservazione e la distribuzione del sangue umano e dei suoi componenti, nonché le attività di medicina trasfusionale; b) sangue: le unità di sangue umano intero omologo ed autologo; c) emocomponenti: i prodotti ricavati dal frazionamento del sangue con mezzi fisici semplici o con aferesi; d) emoderivati: i farmaci plasmaderivati ovvero le specialità medicinali estratte dall’emocomponente plasma mediante processo di lavorazione industriale, secondo le modalità stabilite dall’articolo 15; e) prodotti del sangue: gli emocomponenti e gli emoderivati; f) emovigilanza: sistema di sorveglianza basato su una raccolta continua e standardizzata di dati e sulla loro analisi, che monitorizza tutti gli eventi inattesi o indesiderati riferibili alla donazione o alla trasfusione di sangue, compresi gli errori trasfusionali, e che include dati sulla prevalenza e l’incidenza di marcatori virali nei donatori e sul numero di pazienti e di emocomponenti trasfusi. Dragone, Il danno da emotrasfusioni, in Cendon (diretto da), La responsabilità medica, Inquadramento, profili civili e penali, assicurazione, procedimento giudiziale e stragiudiziale, casistica, a cura di Todeschini, Milano, 2016, 831; Rubino, Il danno da emotrasfusioni (e somministrazione di emoderivati). La nuova giurisprudenza di merito e legittimità, Padova, 2008, 5 ss.
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La responsabilità per danno da farmaco
Sotto questo profilo, la preoccupazione destata alla fine degli anni Ottanta per il diffondersi del contagio da HIV ed epatite B, anche attraverso le trasfusioni a scopo terapeutico, ha determinato l’introduzione della già citata legge 25.2.1992, n. 210 che nell’art. 1, ha previsto un indennizzo da parte dello Stato a favore dei soggetti infettati a causa di una vaccinazione che abbiano subito una menomazione permanente dell’integrità fisica, siano stati contagiati dal virus dell’HIV e da epatiti post trasfusionali a seguito di somministrazione di sangue e suoi derivati, agli operatori sanitari che in occasione dell’attività di servizio abbiano avuto contatti con sangue e derivati provenienti da soggetti infettati e a tutti coloro che non vaccinati, abbiano contratto la malattia a seguito di contatto con la persona vaccinata. La norma estende l’indennizzo anche a coloro che si siano sottoposti a vaccinazioni non obbligatorie dovendosi recare all’estero per ragioni di lavoro o servizio e ai soggetti a rischio operanti nelle strutture ospedaliere sottoposti a vaccinazioni anche non obbligatorie. In tale ipotesi, la responsabilità riguarda tutti i casi di contagio dovuto all’impiego e alla commercializzazione di farmaci potenzialmente dannosi, sia nel caso di produzione integrale che di una sua componente, come previsto anche dall’art. 121 c. cons.32. Tuttavia, mentre la corresponsione dell’indennizzo consegue alla valutazione compiuta dalla Commissione medica ospedaliera, indipendentemente da ogni profilo di colpevolezza dell’ente, il risarcimento del danno alla persona derivante da negligenza nell’esecuzione dell’attività è fondato sulla clausola generale del danno ingiusto cui consegue per il danneggiato l’onere di provare la colpa dell’ente preposto33. L’entità della somma
32 La responsabilità di produttore finale e di una componente del prodotto, in questo caso, è solidale: v. Cass., 27.1.1997, n. 814, cit. 33 Così, precisamente, Cass., 11.1.2008, n. 576, cit. L’orientamento è consolidato: da ultimo, in tal senso Cass., 10.5.2018, n. 11360, in DeJure; Cass., 13.7.2017, n. 17227, consultabile all’indirizzo: www.responsabilitàmedica.it; Cass., 31.10.2017, n. 25989, ivi; Trib. Roma, 16.7.2017, n. 12283, ivi; Trib. Roma, 9.1.2018, ivi; Trib. Napoli, 6.6.2017, ivi; Trib. Napoli, 2.11.2017, n. 10829, in DeJure; si discosta Trib. Roma,
totale dovuta per il danno alla persona è calcolata scorporando l’indennizzo dal quantum accordato quale risarcimento del danno34.
5. L’attuazione della direttiva europea sulla responsabilità da prodotto farmaceutico nel Regno Unito La direttiva 85/374 è stata recepita nel Regno Unito con il Consumer Protection Act del 1987 che secondo alcuni studiosi ha introdotto un regime di responsabilità per colpa, imponendo l’onere della prova della diligenza sul produttore (section 2.1) e affiancandosi alla tutela fondata sul breach of contract o sul tort of negligence, sempre che la giurisprudenza sia incline a riconoscere, per un determinato illecito, un tort of negligence35. In materia sanitaria la responsabilità da prodotto era già stata parzialmente regolata dall’Employer’s Liability (Defective Equipment) Act del 1969, rela-
27.11.1998, in Giust. civ., 1999, I, 2851, che richiama l’art. 2050 c.c.; Greco, La struttura sanitaria risponde solo parzialmente dei danni da emotrasfusione: rilievi critici e profili problematici, in questa Rivista, 2017, n. 1, 127. 34 Cass., sez. un., 11.1.2008, nn. 577 e 584, escludono il cumulo tra risarcimento del danno e indennizzo ex art. 1 l. n. 210/1992. Così anche Cass., 14.3.2013, n. 6573, in Guida al dir., 2013, 65; Cass., 16.4.2013, n. 9145, in DeJure; Cass., 12.2.2015, n. 2785, ivi; Trib. Bari, 18.6.2015, n. 2771, ivi.
Secondo Mildred, The impact of the directive in the United Kingdom, in Goyens, Directive 85/374/EEC on liability products: ten years after, Louvain - La Neuve, 1996, 34 ss., la regola di responsabiltà è più “caracterised as liability for negligence with the burden of proof reversed” piuttosto che da strict liability, posto che la section 4.1 lett. e) non fa riferimento tanto allo stato della tecnica, quanto ad una nozione di ordine soggettivo in cui il produttore “might be expected to have discovered the difect”. Più favorevole ad una visione in termini di strict liability Aa. Vv., Clerk & Lindsell on Torts, London, 2000, 525. Il precedente in materia è Donoghue v Stevenson (1932) A.C., 562, in cui venne riconosciuta la responsabilità per colpa del produttore di una bottiglietta contenente ginger avariato, indipendentemente da un legame contrattuale tra le parti. Tuttavia dopo tale sentenza l’orientamento non si è consolidato, non essendo la teoria del tort of negligence uninamemente accolta dai giudici inglesi. Sul recepimento della direttiva nei vari ordinamenti degli Stati membri v. Toriello, Regolazione del mercato e private enforcement, Milano, 2018, 84 ss. 35
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tivo all’indennizzo per gli operatori contagiati da materiale infetto e dal Vaccine Damage Payments Act del 1979 sugli effetti pregiudizievoli sulla salute dovuti alle vaccinazioni, mentre al Medicine Act del 1968, novellato nel 1971, hanno fatto seguito le disposizioni del Human Medicine Regulations del 2012 che regola i controlli e le autorizzazioni per l’utilizzo e la commercializzazione dei farmaci. Il Consumer Protection Act fornisce una definizione ampia di “prodotto” che include anche i prodotti farmaceutici, i dispositivi medici, le trasfusioni e gli emoderivati36. Uno degli aspetti di novità della normativa introdotti nel sistema inglese riguarda l’alleggerimento dell’onere della prova del danneggiato al quale non è richiesto di identificare la causa del difetto, ma – come stabilito nella direttiva – di offrire la prova del danno, del difetto inteso come mancanza di sicurezza e del nesso causale, il cui accertamento si fonda sul test “but for”, analogo al criterio italiano del “più probabile che non”, basato sulla dimostrazione che, in assenza di negligenza da parte del produttore e/o in assenza della fornitura di un prodotto difettoso, il ricorrente non avrebbe subito la lesione37. Defective product è quindi il prodotto non sicuro, che non rispetta le attese del consumatore, accertabile sulla base di una serie di fattori, tra i quali rientrano anche le istruzioni o avvertenze per l’uso fornite con il prodotto e conosciute dal consumatore38.
Rehmann, Helmhalt, Product Liability for Medicines and Medical Devices in the European Union, in Synapse Law for life Sciences, 2016. Slopecki, Smith, Moore, The value of Good manufacturing Practice to a Blood Service in managing the delivery of quality (2007) Vox Sanguinis 187 ss. In A. v The National Blood Authority [2001] 3 All E.R. 289 High Court, Queen Bench Division, in Wilkinson, Mass Tort Treatment of Pharmaceutical Product Liability Cases in England, Chicago, 2006, 264 ss., i giudici hanno dichiarato che il sangue è un prodotto compreso nel concetto espresso nella direttiva. 36
East, Business-focused legal analysis and insight in the most significant jurisdictions worldwide (2016) The Law Reviews, consultabile all’indirizzo: www.thelawreviews.co.uk. Causa Ide vs. ATB Sales Ltd [2008] EWCA Civ. 424, at [19] per Thomas LJ. 37
38 La definizione di prodotto difettoso, soggetta alla critica di chi la ritiene circolare e opaca, si è consolidata proprio nel
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Un precedente noto che ha applicato il Consumer Protection Act è A. v National Authority. Un numero elevato di persone (più di cento) aveva chiesto il risarcimento dei danni dovuti al contagio da epatite C provocato da emotrasfusioni e da prodotti derivati dal sangue al servizio sanitario nazionale che aveva eseguito la prestazione e procurato la fornitura39. La Corte, operando una distinzione tra prodotti standard e non standard e confrontando i prodotti incriminati con altri prodotti dello stesso tipo o serie, provenienti dallo stesso produttore, ha distinto, ai fini della valutazione di difettosità (expectation test), tra i “prodotti standard” da intendersi come prodotti dotati delle qualità necessarie e volute dal fabbricante dotati della sicurezza che il pubblico poteva aspettarsi, dai “prodotti non standard”, vale a dire carenti o inferiori in termini di sicurezza rispetto ad altri prodotti dello stesso tipo. Benché i prodotti non standard non debbano essere considerati automaticamente difettosi, secondo i giudici, la difettosità si riscontra più spesso se il prodotto differisce dal prodotto standard, in genere pericoloso e idoneo a causare lesioni40. Poiché secondo la distinzione di cui sopra, una sacca di sangue infetto è considerata un prodotto non standard non dotato della sicurezza attesa e di conseguenza difettoso – diversamente da quanto si ritiene nell’ordinamento italiano – la High Court ha dichiarato che, considerando tutte le circostanze rilevanti, “the safety is not what is actually expected by the public at large, but what they are entitled to expect”. Pertanto, nel valutare le aspettative del consumatore, anche se i medici avrebbero dovuto conoscere il rischio di infezione nel sangue, i giudici, applicando il Consumer
campo dei prodotti medici e farmaceutici ed è coincidente con la mancanza di sicurezza. Howells, Mildred, Infected Blood: Defect and Discoverability a First Exposition of the EC Product Liability Directive (2002) The Modern Law Review 95 ss. A. v National Blood Authority, ibidem. Melnitchouk, Pearl, Hazard Alerts and Product Liability: Hazard Alerts and Product Liability: can a normally functioning medical device be a defective product?, in Medical Law International, (2004) 6, 87 ss.
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A. v National Blood Authority, ibidem.
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Protection Act (diversamente da quanto accade in Italia per il danno da trasfusioni), hanno ritenuto che i pazienti non fossero a conoscenza dei possibili rischi di infezione da epatite C, non conoscessero e/o non accettassero quindi il rischio, sicché hanno accordato il risarcimento per mancanza di sicurezza e quindi per difetto del prodotto41. La soluzione non è altrettanto semplice e quindi la domanda dell’attore riceve più difficilmente tutela nel caso di prodotti standard che non presentano caratteristiche diverse dagli altri esemplari42. Ne costituisce esempio il caso relativo della rottura di una protesi per l’anca (a distanza di qualche anno dall’impianto, ma in tempi relativamente precoci rispetto alle previsioni di durata del dispositivo), in cui il giudice inglese ha respinto la domanda di risarcimento avviata con una class action sulla base della rarità dell’evento e riconducendo il dispositivo alla categoria dei prodotti standard che non presentano difetti al momento della commercializzazione, per i quali erano state date ai pazienti le informazioni riguardo al rischio43. In questo caso, la soluzione fondata sulla mancanza del difetto al momento dell’impianto nell’arto appare similare a quella adottata da alcuni tribunali italiani. La casistica della giurisprudenza inglese presenta anche controversie in cui il risarcimento è negato sulla base della mancata dimostrazione del nesso di causalità: mentre nel campo della responsabilità medica, il giudice cerca di conciliare la prova di uno standard scientifico di significatività statistica con il criterio probabilistico44, nel campo del danno da farmaco, per dimostrare l’esistenza del nesso causale, è stato adottato l’approccio del c.d. “doubling of risk”, secondo cui il nesso causale può essere dimostrato quando l’esposizione a
una sostanza ha più che raddoppiato il rischio di causare una malattia45. Riguardo alle cause di esonero dalla responsabilità, anche la section 4.1 del Consumer Protection Act, in attuazione della direttiva, come il codice del consumo italiano, prevede il rischio di sviluppo di cui all’art. 7 della direttiva, stabilendo che “the state of scientific and technical knowledge at the relevant time was not such that a producer of products of the same description as the product in question might be expected to have discovered the defect if it had existed in his products while they were under his control”46. Sotto questo profilo, poiché la definizione dell’esclusione di responsabilità per rischio di sviluppo appariva nella normativa inglese più ampia e più favorevole agli interessi dei produttori e dell’industria farmaceutica rispetto a quanto previsto nell’articolo 7 della direttiva47, la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione contro il Regno Unito per inadempimento dell’obbligo di una corretta applicazione nel diritto nazionale, respinta tuttavia nel 1997 dalla Corte di Giustizia, secondo la quale la Section 4.1 (e) “placed the burden of proof on the producer as required by the Directive and provided for no restriction on the state and degree of scientific and technical knowledge at the material time which was to be taken into account”48.
45 La soluzione è stata adottata nel caso XYZ v Schering Health Care Ltd 70 BMLR 88, [2002 EWHC 1420 (QB) [XYZ], relativo ai danni cardiovascolari causati dall’uso di diverse categorie di contraccettivi di terza generazione, in Goldberg, Epidemiological Uncertainty, causation, and Drug Product Liability, ibidem.
Nel 1988 sono state pubblicate le Linee Guida per i servizi trasfusionali del Regno Unito: Guidelines for the Blood Transfusion Services in the United Kingdom, London, 1988, in Slopecki, Smith, Smoore, ibidem. 46
41
Section 6 del Consumer Protection Act.
XYZ & Others vs Schering Health Care [2002] EWHC 1420 (QB). 42
43 Wilkes v DePuy International Ltd, High Court Queen’s Bench Division (2017)3 all ER 589, caso DePuy Pinnacle metal - on Metal Hip Group litigation.
Goldberg, Epidemiological Uncertainty, causation, and Drug Product Liability, in McGill Law Journal, (2014), 59, 779 ss. 44
Goldberg, The devolpment risk defence and the European Court of Justice; increased injury costs and the Supplemetary Protection Certificate, in Goldberg, Pharmaceutical Medicine, Biotechnology and European Law (2001) Cambridge University Press, 185 ss. 47
Corte giust. UE, 29.5.1997, causa C-300/95, cit. In particolare, i giudici tendono ad escludere l’esimente del rischio di sviluppo nel caso di danno da trasfusione in quanto lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche consente di scoprire 48
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Nonostante Italia e Regno Unito abbiano implementato le stesse opzioni e regole nelle loro leggi nazionali e l’attuazione della direttiva nelle rispettive legislazioni sia avvenuta sostanzialmente su binari paralleli, permangono differenze nell’interpretazione dei concetti chiave di causalità, danno, onere della prova e riguardo alla definizione delle aspettative dei consumatori nel settore farmaceutico. Emergono profonde divergenze sotto il profilo della tutela del danneggiato fondate sia sulle caratteristiche di ciascun sistema sanitario che inducono ad interpretazioni non sempre coincidenti delle regole sulla protezione del consumatore per prodotti farmaceutici e medicali difettosi, sia sui differenti regimi di responsabilità previsti all’interno di ciascun ordinamento che possono presentare profili di maggiore convenienza per il consumatore danneggiato sotto il profilo processuale, come accade in Italia con l’applicazione dell’art. 2050 c.c., invocato spesso, come si è visto, anche per i prodotti farmaceutici49.
6. Conclusioni Sebbene il meccanismo della responsabilità da prodotto, per quanto può trarsi dalla relazione
il rischio di infezione da epatite C, rilevabile mediante test o screening. V. sul tema Williamson, Strict Liability For Medical Products: prospects for success (2002)5 Medical Law International 281 ss. Nel caso Keith Malcolm Lewin v Glaxo Operations UK Limited [2016] EWHC 3331 (QB), è stato giudicato ammissibile l’avvio di un procedimento da valutarsi sotto il profilo del Consumer Protection Act per danno neurologico provocato da un farmaco usato come mezzo di contrasto nel corso di un esame diagnostico, riproposto per l’aggravamento delle condizioni di salute del paziente e già deciso, prima dell’attuazione della direttiva, in sede di azione collettiva per negligence. In una controversia originata dai danni cardiovascolari determinati da un farmaco antinfiammatorio non steroideo Celebrex (Richards v Pharmacia Ltd 2018 Scot D 30/5), anche i giudici scozzesi della Inner House hanno riconosciuto la responsabilità della casa farmaceutica produttrice per non aver comunicato all’ente di vigilanza l’esistenza di effetti collaterali pericolosi dei farmaci di cui essa era a conoscenza, escludendo, nella specie, che lo stato delle conoscenze scientifiche impedisse di verificarne la pericolosità. 49 Hodges, Approaches to product liability in the EU and Member States, consultabile all’indirizzo: www.cambridge. org.
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Saggi e pareri
della Commissione e dalla disamina della giurisprudenza nei due Paesi presi in esame, funzioni in modo adeguato in Europa nel quadro dell’armonizzazione, dal punto di vista del consumatore, le disposizioni relative all’individuazione del difetto del prodotto farmaceutico, all’onere della prova, alle cause di esclusione della responsabilità riconosciute al produttore (oltre alla soglia per la richiesta di risarcimento danni) e l’applicazione della direttiva sono diversificate in ciascun Paese. Le disposizioni che come gli artt. 13 e 15 lasciano residuare uno spazio normativo alla disciplina interna, possono essere intese come una limitazione dell’efficacia della direttiva e rappresentare un ostacolo per la protezione del consumatore, incidendo in particolare sull’area dei prodotti farmaceutici e sulla sicurezza sanitaria. Il limitato numero di controversie in cui la direttiva ha trovato applicazione attraverso le norme di attuazione ne costituisce testimonianza. Deve peraltro rilevarsi che l’intervento della Corte di Giustizia, unitamente alle sentenze pronunciate dai giudici nazionali, ha contribuito ad incentivare l’applicazione della normativa sulla responsabilità per danno da prodotto anche nel campo dei farmaci, in cui l’esigenza di tutela della salute, nel bilanciamento con la promozione dell’innovazione e dello sviluppo dell’attività economica su mercato e della concorrenza, assume un maggiore peso. È questo infatti l’orientamento da ultimo proposto nella sentenza sui vaccini che ha rimesso al giudice nazionale il compito di valutare il nesso di causalità tra difetto e malattia, prescrivendo tuttavia che l’applicazione concreta del regime probatorio non sia compiuta in modo da determinare la violazione delle regole sull’onere della prova declinate nell’art. 4 della direttiva e da non arrecare pregiudizio all’effettività del regime di responsabilità da essa istituito.
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I margini dell’autonomia prescrittiva del medico nella terapia farmacologica
g g sa re e a p
Simona Viciani
Ricercatrice nell’Università di Firenze Sommario: 1. Rischio clinico e governo clinico. – 2. La scelta terapeutica del medico riguardo alla somministrazione off-label. – 3. I farmaci biosimilari nel contesto dei principi di sostenibilità, equità e giustizia sociale.
Abstract: Il progresso sociale inteso, non solo come nuova distribuzione della ricchezza e implementazione della sicurezza collettiva, ma anche come rinnovamento delle scelte operative nei processi decisionali delle Amministrazioni, può raggiungere il risultato di identificare gli strumenti, i processi e le condizioni più “idonei” nell’attività terapeutica e anche che ci venga suggerita, tra le soluzioni possibili, quella che guardi verso una rivalutazione della posizione del medico sia dal punto di vista etico che giuridico. Social progress meant, not only as a new distribution of wealth and implementation of the community security, but also as a renewal of operational choices in the decision-making processes of the Administrations, can achieve the result of identifying the most “suitable” tools, processes and conditions in the therapeutic activity and also suggest, among the possible solutions, the one that looks towards a re-evaluation of the medical doctor’s position both from the ethical and juridical point of view.
1. Rischio clinico e governo clinico A seguito di una dilagante produzione di norme e protocolli da rispettare fedelmente, emerge, nel
settore della medicina, quella chiara tendenza verso la deficiency perspective per cui il medico si allontana da ciò che è nell’esclusivo interesse del paziente e indirizza le sue decisioni terapeutiche verso situazioni che lo pongano al riparo dal rischio di responsabilità professionali. Tuttavia, è importante comprendere – sia per i medici che per i pazienti – che la medicina non è una scienza esatta, tanto nella diagnosi quanto nella terapia, e che ogni scelta e ciascuna azione deve essere programmata e compiuta nella piena consapevolezza dell’esistenza di rischiosità che vanno sempre analizzate e valutate con un valore probabilistico. Ciononostante, gli operatori sanitari, sentendosi minacciati dalla cultura dell’errore, invece di soddisfare i bisogni e le garanzie di continuità assistenziale del paziente hanno cercato di proteggersi dalle questioni legali utilizzando in modo impreciso le tecniche di gestione del rischio clinico e alimentando un modus operandi che ha perso di vista, anziché rafforzare, la tutela della salute e il sollievo dalla sofferenza, secondo i valori etici della solidarietà umana. È, invece, questa la dimensione in cui si dovrebbe collocare oggi il governo clinico, muovendosi verso l’allargamento dell’idea stessa di “risorsa” fino ad includere valori certamente dimenticati, come le conoscenze scientifiche degli operatori e i confini della loro autonomia all’interno di una dimensione di managerialità più ampia.
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In tale ottica, il governo clinico (clinical governance)1 rappresenta l’impegno delle organizzazioni sanitarie nel creare e nel rendere conto (accountability) di un sistema centrato sui bisogni del paziente, dove la sicurezza e la qualità delle cure e dei servizi forniti raggiungano i massimi livelli rispetto alle risorse disponibili, senza, peraltro, dimenticare la circostanza che il professionista sanitario si trova continuamente di fronte a delle evenienze clinico-assistenziali problematiche che lo costringono a scelte cariche di dubbi, di alternative e, in concreto, potenzialmente rischiose sia per i possibili e, talvolta, differenti percorsi percorribili sia per la natura insita nello stesso itinerario prescelto. A tale riguardo, l’identificazione degli eventi sfavorevoli assume oggi un particolare rilievo non soltanto ai fini medico-legali, ma anche nel cosiddetto controllo di qualità delle prestazioni sanitarie, tanto che l’attenzione di coloro che si sono dedicati a questo problema è stata rivolta principalmente a stabilire i criteri più idonei per determinarne l’esistenza e la natura (semplici, gravi, etc). Charles Vincent2, esperto internazionale del rischio clinico, nei suoi studi ha identificato cinque classi di fattori che determinano il grado di rischiosità di un sistema: fattori organizzativi e gestionali, fattori che riguardano l’ambiente operativo, fattori legati al gruppo di lavoro, fattori individuali dell’operatore, fattori inerenti alle caratteristiche del paziente. La conoscenza dei fattori causali ma anche di quelli contribuenti al verificarsi di possibili errori costituisce il presupposto fondamentale per la co-
1 Clinical governance è una modalità di gestione dei servizi sanitari promossa dal documento inglese “A first class service: Quality in the new national health service”, Londra, Department of Health, 1998, al fine di mettere in atto attività sistematiche di valutazione e di miglioramento della qualità professionale. Essa viene definita da Scally, Donaldson, Clinical governance and the drive for quality improvement in the new NHS in England (1998) British Medical Journal 61 ss. come un “sistema attraverso il quale le organizzazioni sanitarie si rendono responsabili del miglioramento continuo della qualità dei loro servizi e garantiscono elevati standard assistenziali creando le condizioni ottimali nelle quali viene favorita l’eccellenza clinica”.
Vincent et al., Framework for analysis risk and safety in clinical medicine (1998) 316 British Medical Journal 1154 ss.
2
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struzione di percorsi destinati a migliorare la qualità dell’assistenza, delle strutture e degli aspetti organizzativi; inoltre, lo sviluppo della cultura della sicurezza deve prevedere strategie sistematiche di comunicazione e formazione, elaborate sui risultati del monitoraggio di essa nel contesto specifico3. Una delle distinzioni più importanti in questa materia riguarda la capacità di discernere tra errore (o insufficienza) attivo ed errore (o insufficienza) latente. L’errore attivo è per lo più identificabile, in senso spazio-temporale, al verificarsi dell’evento avverso; spesso è riconducibile ad un’azione sbagliata commessa dall’operatore o ad un incidente (ad esempio il mal funzionamento di una strumentazione). L’errore latente consiste, invece, nell’insufficienza organizzativo-gestionale (progettazione, organizzazione e controllo) che resta silente nel sistema finché un fattore scatenante non lo renda manifesto in tutta la sua potenzialità, causando danni più o meno gravi. Se può essere relativamente semplice individuare l’errore attivo, può essere invece piuttosto complesso individuare tutte le insufficienze latenti presenti nel sistema che possono causare una successione di errori secondari e consequenziali al primo. All’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, lo psicologo James Reason4 ideò, per illustrare il problema degli errori, un modello soprannominato del “formaggio svizzero” utile per la comprensione delle complessità e disomogeneità intrinseche nel sistema. I buchi nelle fette di formaggio rappresentano le insufficienze latenti che sono presenti nei processi sanitari: quando si modificano più fattori che normalmente agiscono come barriere protettive, i buchi si possono allineare
Nel Protocollo di monitoraggio degli eventi sentinella del luglio 2009, il Ministero del lavoro della salute e delle politiche sociali, Osservatorio nazionale eventi sentinella, definisce l’evento sentinella come “un evento avverso di particolare gravità potenzialmente evitabile, che può comportare morte o grave danno” e considera grave danno “qualsiasi conseguenza non intenzionale e indesiderabile derivante dall’evento avverso”. 3
Reason, Human Error, Cambridge, 1990; Id., Managing the Risks of Organizational Accidents, Farnham, 1997; Id., Human error: models and management (2000) 320 British Medical Journal 768 ss.
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e permettere il concatenarsi di quelle condizioni che portano all’evento avverso. In definitiva, quindi, l’effetto degli errori secondari può essere così evidente e rilevante da eclissare la gravità dell’errore primitivo tanto da non consentirne più l’identificazione5. Perciò, per evitare quanto più possibile l’insorgenza degli errori in medicina, diviene necessario pianificare un corretto equilibrio tra l’attenzione all’operato degli individui e all’organizzazione dei sistemi sanitari.
2. La scelta terapeutica del medico riguardo alla somministrazione off-label Per il trattamento di una patologia per la quale non sia disponibile una valida alternativa terapeutica possono essere impiegati, su scelta del medico e sotto la sua responsabilità, ed erogati a carico del Servizio sanitario nazionale farmaci autorizzati per altra indicazione terapeutica (utilizzo off-label6). Si definisce “off-label” l’impiego nella pratica clinica di farmaci già registrati ma usati in maniera non conforme a quanto previsto dalle caratteristiche del prodotto autorizzato7.
Nelle organizzazioni complesse, come quella sanitaria, la maggior parte degli incidenti è generata dall’interazione tra i diversi elementi del sistema: tecnologico, umano e organizzativo. 5
L’uso off-label riguarda, molto spesso, molecole conosciute e utilizzate da tempo, per le quali le evidenze scientifiche suggeriscono un loro razionale uso anche in situazioni cliniche non approvate da un punto di vista regolatorio.
6
7 Per tale definizione vedi, Bollettino d’informazione sui farmaci, AIFA-Ministero della salute, anno XIII, n. 3, 2006, 140. L’AIFA aggiorna periodicamente le liste di farmaci con uso consolidato che possono essere impiegati in modo diverso dalle indicazioni previste nell’AIC (Autorizzazione all’immissione in commercio) per il trattamento di neoplasie, malattie neurologiche, terapie post-trapianto, malattie del sangue e tumori pediatrici. Queste tipologie di farmaci possono essere erogate a carico del SSN soltanto dopo parere positivo della CTS, la Commissione tecnico scientifica dell’AIFA, ex CUF. Sul sito dell’Agenzia italiana del farmaco è inoltre possibile consultare la normativa di riferimento sui farmaci off-label. La prescrizione è disciplinata dalla l. 23 dicembre 1996, n. 648. L’art. 3 l. n. 79/2014 ha stabilito che alcuni farmaci possano essere usati per indicazioni terapeutiche differenti da quelle autorizzate anche in presenza di alternative terapeutiche valide, a patto che il diverso impiego sia stato opportunamente documentato a livello clinico e che l’uso rispetti i
La normativa8 che regola l’uso off-label dei medicinali indica che il medico, nel prescrivere un farmaco, debba certamente attenersi alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio, poiché tali modalità sono state valutate nella fase di sperimentazione del medicinale. Tuttavia la legge permette un uso “diverso” del farmaco qualora il medico curante, sulla base delle evidenze documentate in letteratura e in mancanza di alternative terapeutiche migliori, ritenga necessario somministrare un medicinale al di fuori delle indicazioni d’uso regolamentari. La prescrizione di farmaci off-label se, da una parte, è consentita e disciplinata e rappresenta un’importante opportunità che può portare a progressi significativi nella conoscenza e nella terapia di alcune patologie, dall’altra, il relativo uso espone il paziente a rischi potenziali tali da rendere necessario che il medico, oltre ad avvalersi del consenso informato del paziente, spieghi il razionale della terapia, il rischio di possibili eventi avversi, e quali dati di efficacia siano effettivamente disponibili nell’uso off-label del farmaco che intende somministrare9. Su quest’ultimo punto occorre mettere in evidenza che gli eventi avversi dovuti ad errore nel corso di terapia farmacologica sono la causa di danno più frequente nei pazienti e possono verificarsi durante tutto il processo di gestione del farmaco. Pertanto, ai fini della prevenzione, occorre prendere in considerazione l’intero sistema di gestione delle
principi di economicità e appropriatezza. Art. 3 d. lgs. 17 febbraio 1998, n. 23, convertito, con modificazioni, nella l. 8 aprile 1998, n. 94.
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Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 161: “[...] per un verso, l’opera del medico in termini meno meccanici e più moderni ed adeguati ad un rapporto che non è basato solo sulla conoscenza dell’ordine della causalità, ma è piuttosto una discussione tra due persone (anche se spesso si può trattare di un rapporto complesso, in cui la parte obbligata all’esecuzione dell’attività curativa consta di una pluralità di medici) nel corso della quale una vuole aiutare l’altra a trovare una strutturazione quanto più possibile adeguata alla propria essenza e, per l’altro verso, può voler significare seppure implicitamente, che si allenta il legame tra responsabilità medica ed esito della prestazione”.
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terapie10. Tali eventi, prevenibili ed evitabili, vanno tenuti distinti dalle reazioni avverse ai farmaci legate al farmaco stesso e che vengono rilevate e valutate mediante le attività di farmacovigilanza aziendali, regionali e nazionali. Infatti, studi condotti a livello internazionale11 riportano che le cause degli errori in terapia sono multifattoriali e coinvolgono differenti operatori sanitari ciascuno dei quali interagisce a vari livelli nel processo di gestione del farmaco. Vi possono essere anche altre tipologie di errori che, ad esempio, possono riguardare l’ipotesi che il medico non conosca la terapia migliore per la malattia del paziente né la ricerchi in riferimenti aggiornati documentandosi anche con le moderne tecnologie; oppure, che si sia verificato un errore di trascrizione nella prescrizione12, o che sia stata utilizzata una grafia difficilmente leggibile; infine, che si sommino prescrizioni di specialisti diversi, che non siano coordinate e rese compatibili; e, ancora: che il medico non conosca le interazioni dannose tra i farmaci che prescrive; che il medico non adatti il suo comportamento alle condizioni cliniche del paziente; che il medico trascuri di informarsi su determinate ipersensibilità ai farmaci che prescrive; che il trattamento non venga monitorato sia per trascuratezza
10 Joint Commission Resources, Prevenire gli errori in terapia. Strategie per i farmacisti, Roma, 2005.
In uno studio condotto nel Regno Unito nel 2000 (WoloshyNeale, Vincent, Adverse event in hospitalized patient: a pilot study and preliminary findings (2000) 1 Clinical governance Bullettin 2 s.) più della metà degli eventi avversi registrati è dovuta ad errori legati ad un uso non corretto dei farmaci. Un altro studio realizzato in 1116 ospedali statunitensi nel 2001 ha evidenziato che accadono errori di terapia nel 5% dei casi dei pazienti ricoverati in un anno. Un’indagine più recente compiuta sempre negli USA ha mostrato che la maggior parte degli eventi avversi attribuibili agli errori in terapia occorre nella prescrizione e interessa farmaci ipoglicemizzanti (28,7%), cardiovascolari (18,6%), anticoagulanti (18,6%) e diuretici (10,1%). 11
nowych,
In tali ipotesi, se si verifica un errore l’evento avverso che ne consegue potrebbe essere evitato se esistesse un sistema che ne prevenga o ne limiti gli effetti lesivi. Ad esempio, un errore di prescrizione (scelta del farmaco, dosaggio, associazione con altri farmaci, etc.) può essere evitato attraverso una programmazione predisposta ad hoc da un sistema computerizzato. Cfr. Nightingale et al., Implementation of rules based computerized bedside prescribing and administration: intervention study (2000) 320 British Medical Journal 750 ss. 12
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Saggi e pareri
del medico ma anche per scarsa compliance del paziente. In termini di responsabilità, occorre dire che durante il trattamento farmacologico erroneo, nella maggior parte dei casi, il medico ha la possibilità di constatare che esso non solo produce i risultati sperati ma anzi provoca effetti dannosi e quindi egli può, se segue il malato con diligenza e competenza, provvedere alle opportune correzioni. Al tempo stesso, egli non è agevolato nella decisione di usare farmaci al di là dalle indicazioni registrate, elemento che rende più difficoltoso l’accesso a trattamenti che hanno dimostrato di essere in grado di costituire un’opzione terapeutica efficace per patologie gravi nei pazienti che non rispondono alle terapie correnti. Sebbene tutto sembri condurci verso la certezza che il progresso tecnico-scientifico faccia apparire sempre meno aleatorie la diagnosi e la terapia per la sottomissione dell’attività medica alla logica della riproducibilità tecnica e della crisi del “professionalismo” e del personalismo tradizionalmente correlato all’opera intellettuale13, è innegabile che nell’ambito della prestazione sanitaria persista un ambito di discrezionalità culturale, tecnica e di indipendenza nella diagnosi, della cura e delle terapia del paziente. Infatti, la medicina, anche se tecnicizzata e procedimentalizzata, conserva ancora una forte componente di “arte”, cioè una personalizzazione che ogni medico conferisce al suo agire in ciascun caso singolo sulla base della propria esperienza e della propria sensibilità professionale. A questo potere discrezionale corrisponde, però, una correlativa responsabilità civile, penale e deontologica del professionista sanitario per eventuali errori inescusabili commessi, con particolare riferimento al grado della colpa che può rendere il soggetto imputabile. Il punto di partenza è che la prestazione del sanitario debba conformarsi ad un comportamento professionalmente adeguato che sia espressione della diligenza, prudenza e
Zeno Zencovich, La sorte del paziente - La responsabilità del medico per errore diagnostico, Padova, 1994, 2.
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L’autonomia prescrittiva del medico nella terapia farmacologica
perizia richieste per l’adempimento di quella particolare prestazione14. A tale proposito si parla di diligenza qualificata proprio con particolare riferimento allo sforzo tecnico-scientifico computato sulla base delle conoscenze e dell’applicazione del complesso delle regole tecniche della professione, dirette a delimitare l’area del rischio consentito per l’intervento sanitario e aventi la funzione di ricondurre la responsabilità a parametri specifici derivanti anche dalle regole disciplinari. L’imperizia15, invece, avrà un contenuto variabile secondo la condotta effettivamente tenuta dall’operatore sanitario, la specie e le circostanze concrete in cui la prestazione deve svolgersi; tenendo conto che l’ignoranza totale di una pratica non può valutarsi di per sé come imperizia, perché deve essere necessariamente considerata, come elemento costitutivo, la coscienza del proprio operato. Va, infine, attribuito alla prudenza un significato certamente attivo e cioè il comportamento relativo a colui che agisce con avvedutezza, non facendosi carico di un possibile pericolo verificabile alla luce di una ragionevole probabilità16. Per tale ragione in medicina il prudens è colui il quale è in grado di agire con la previsione dell’evento che deriva dalla sua azione e prendendo le misure idonee per porre tale evento al sicuro da insuccessi. In questa prospettiva, l’errore medico ricorre in tutte le ipotesi di inosservanza delle specifiche regole di condotta proprie dell’agente, ipotizzando tanti agenti modello quante sono le branche della medicina.
Cfr. Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano,1958, 295. Secondo il quale “l’obbligazione del medico è un’obbligazione di mezzi o di contegno. L’esito favorevole delle cure non è mai del tutto sicuro, cosicché il medico è in grado di impegnarsi a prestare un’attività diligente, ma non di garantire il buon esito. Il medico non si impegna a guarire il malato oppure a salvargli la vita; contenuto dell’obbligazione è un’attività diretta verso quel risultato”.
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Non solo, ma l’obbligazione assunta dal medico è composta ad un tempo dalla prestazione terapeutica e dal contenuto (input) informativo (sia qualitativo che quantitativo) documentato e fornito al paziente, il quale, proprio sulla base del complesso delle informazioni ricevute, instaura l’effettivo rapporto personale e professionale con il medico e identifica esattamente il contenuto della prestazione terapeutica relativamente alla sua aspettativa di cura e di guarigione. Cosicché, se da una parte è certamente da apprezzare lo sforzo di offrire una maggiore tutela ad un paziente sempre più consapevole e preparato, garantendo standard elevati di prestazioni e ampliando le ipotesi nelle quali il professionista è chiamato a rispondere, dall’altra, non si possono neppure tacere i rischi di un eccessivo irrigidimento dei canoni di valutazione del suo operato; procedimento che può condurre ad una riduzione dei margini di discrezionalità tecnica e alla tendenza a intraprendere procedure superflue al solo scopo di dimostrare una condotta diligente e prudente17.
3. I farmaci biosimilari nel contesto dei principi di sostenibilità, equità e giustizia sociale La trasformazione del sistema sanitario in senso aziendale non può non indurre il professionista sanitario a prestare la massima attenzione anche ai costi conseguenti alle decisioni assunte, in quanto egli è responsabile delle scelte e degli
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L’imperizia è stata definita (Manzini, Trattato di diritto penale, Torino, 1937) come l’esercizio di un’attività relativa ad una professione o arte non conosciuta dall’agente. 15
Vedi, Carnelutti, Sulla distinzione tra la colpa contrattuale e colpa extracontrattuale, in Riv. dir. comm., 1912, II, 744 ss. il quale risalendo all’etimologia della parola definiva l’imprudenza come “il contrario della prudenza, e questa parola è la contrazione della parola previdenza”. 16
17 Sul pericolo che il comportamento del medico, appiattito sull’osservanza acritica delle linee guida, possa portare a pratiche di medicina difensiva, Pulitanò, Responsabilità medica letture e valutazioni divergenti del novum legislativo, consultabile all’indirizzo: www.dirittopenalecontemporaneo.it; Risicato, Le linee guida e i nuovi confini della responsabilità medico-chirurgica: un problema irrisolto, in Dir. pen. proc., 2013, 191 ss.; Roiati, Linee guida, buone pratiche e colpa grave: vera riforma o mero placebo?, ivi, 216 ss. In particolare, Cass. pen., 23.11.2010, n. 8254, con nota di Piras, La colpa medica: non solo linee guida, consultabile all’indirizzo: www.dirittopenalecontemporaneo.it; Nocco, Le linee guida e le “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica” nella “legge Balduzzi”: un opportuno strumento di soft law o un incentivo alla medicina difensiva?, in Riv. it. med. leg., 2013, 781 ss.
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indirizzi diagnostico-terapeutici all’interno del sistema delle allocazioni delle risorse. Ma è solo per perseguire il fine economico che la medicina deve interessarsi al budget? La risposta non può che essere negativa. Ciò si spiega perché si ritiene che esistano argomenti più significativi e più intimamente connessi alla professione medica che giustificano, ovvero, rendono necessario il pieno coinvolgimento dei medici nei confronti degli strumenti gestionali. Secondo quello che troviamo descritto18 numerosi sono gli studi epidemiologici sull’utilizzazione dei servizi sanitari che evidenziano l’esistenza di una loro significativa variabilità. Rispetto agli innumerevoli fattori ritenuti cause determinanti delle variazioni osservate, lo stile clinico del singolo medico e la sua politica assistenziale sembrano giocare il ruolo più importante; e, d’altro canto, gli studi sull’appropriatezza19 tendono ad evidenziare che una quota significativa dell’assistenza sanitaria erogata risulta non appropriata. Queste considerazioni rimandano ad un altro argomento che attiene al costo-opportunità ovvero al costo delle alternative perdute e, cioè, a tutto ciò cui si rinuncia per soddisfare un bisogno e che corrisponde a tutto ciò che si potrebbe avere utilizzando i fattori produttivi nel migliore impiego alternativo. Per tale ragione, si avrà un uso efficiente delle risorse solo quando si sarà riusciti a massimizzare i benefici minimizzando i costi20. Su tale importante questione è acceso il dibattito tra coloro i quali ritengono che le risorse limitate debbano essere impiegate solo dove possono produrre il massimo beneficio possibile21 e chi,
invece, sostiene non solo che non si debba operare nessuna distinzione fra i destinatari dei trattamenti ma che, addirittura, non si debba neppure tener conto delle capacità differenziali riguardo alla possibilità di trarre beneficio dai diversi trattamenti22. Sempre su questo piano, è stata fortemente voluta l’introduzione nel codice deontologico23 dei principi di sostenibilità, equità e giustizia solidale – che si traducono nella necessità di un’equa allocazione delle risorse economiche destinate al sistema sanitario – perché rispondente ad indirizzi oramai acquisiti dalla comunità medica, in questo momento caratterizzato dalla palese difficoltà di rinvenire le risorse economiche in sanità. Per meglio chiarire il senso di questa affermazione, occorre osservare che non vi può essere dubbio alcuno sul fatto che l’attenzione pubblica prevalente in questi ultimi anni si sia concentrata principalmente in termini di spese e di finanziamenti sugli strumenti e sui mezzi dell’assistenza sanitaria in termini di spese e di finanziamenti, sulla questione delle privatizzazioni, sui problemi di scelte politiche e burocratiche, e così via, tralasciandone altri molto importanti, come ad esempio il recupero della centralità del paziente nel rapporto di alleanza terapeutica con il medico24. In questo quadro, si inserisce anche la questione dell’utilizzo dei farmaci biosimilari perché essi costituiscono un’opzione terapeutica a costo inferiore per il Servizio sanitario nazionale, producendo importanti risvolti sulla possibilità di trattamento di un numero maggiore di pazienti e sull’accesso a terapie ad alto impatto economico.
Cfr. Celin, Determinanti della variabilità clinica e appropriatezza delle cure (1997) 7 FORUM Trends Exp. Clin. Med. 43 ss.
Medical Journal 99 ss.
18
Vedi gli studi di Donabedian, The Definition of Quality and Approaches to Its Assessment (1981) 16 Health Ser. Res. 236 s.
19
Dirindin, Efficacia, priorità, politiche intersettoriali e produttività: gli ingredienti per un sistema sanitario efficiente, in Effective Health Care (edizione italiana) 7 (1): 2003; Id., La valutazione farmaco-economica (1997) 7 FORUM Trends Exp. Clin. Med. 7 ss. 20
Come ad esempio, Williams, How should information on cost-effectiveness influence clinical practice? (1994) British
21
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Tra i sostenitori di questa teoria, Harris, Qualyfying the value of human life (1987) Journal of Medical Ethics 13.
22
23 Si rimanda all’art. 13 del codice deontologico medico (2014) per sottolineare quanto il ruolo dei professionisti che operano sul campo sia fondamentale per raggiungere livelli sempre più elevati di appropriatezza clinica ed organizzativa.
Per Singer, Koch, Communicating with our patients: the goal of bioethic (1997) 84 Journal of the Florida Medical Association 486 s.: “listening, teaching, understanding, exploring, explaining: these are the foundations of a sound patient – pysician relationship”. 24
L’autonomia prescrittiva del medico nella terapia farmacologica
Il biosimilare è un farmaco biologico che contiene una versione della sostanza attiva di un farmaco biologico originatore già autorizzato (farmaco di riferimento) e per il quale sia scaduta la copertura brevettuale. Esso dimostra similarità al farmaco di riferimento in termini di caratteristiche di qualità, attività biologica, sicurezza ed efficacia sulla base di un completo esercizio di comparabilità25. Lo sviluppo e l’utilizzo di tali farmaci rappresentano un’opportunità essenziale per l’ottimizzazione dell’efficienza dei sistemi sanitari ed assistenziali, avendo la potenzialità di accogliere una crescente domanda di salute, in termini sia di adeguatezza e di personalizzazione delle terapie sia di adeguatezza d’impiego. Essi rappresentano, dunque, uno strumento competitivo e concorrenziale per lo sviluppo di un mercato dei biologici, necessario alla sostenibilità del sistema sanitario e delle terapie innovative, purché vengano mantenute le garanzie di efficacia, sicurezza e qualità per i pazienti e si garantisca loro un accesso omogeneo e tempestivo ai farmaci innovativi, pur in un contesto di razionalizzazione della spesa pubblica26.
25 Il concetto di medicinale biologico simile è stato introdotto nella legislazione dell’Unione europea dalla direttiva n. 51/2001 CE e successive modificazioni (direttiva n. 63/2003 CE e n. 26/2004 CE), che all’articolo 10 ha fornito una definizione implicita di prodotto biosimilare, successivamente recepita nella normativa italiana tramite il d. lgs. n. 219/2006 all’articolo 10, comma 7°, come segue “Quando un medicinale biologico simile a un medicinale biologico di riferimento non soddisfa le condizioni della definizione di medicinale generico a causa, in particolare, di differenze attinenti alle materie prime o di differenze nei processi di produzione del medicinale biologico e del medicinale biologico di riferimento, il richiedente è tenuto a fornire i risultati delle appropriate prove precliniche o delle sperimentazioni cliniche relative a dette condizioni. I dati supplementari da fornire soddisfano i criteri pertinenti di cui all’allegato tecnico sulla domanda di AIC e le relative linee guida. Non è necessario fornire i risultati delle altre prove e sperimentazioni contenuti nel dossier del medicinale di riferimento. Se i risultati presentati non sono ritenuti sufficienti a garantire l’equivalenza del biogenerico o biosimilare con il medicinale biologico di riferimento è presentata una domanda nel rispetto di tutti i requisiti previsti dall’articolo 8”. 26 Il d.l. 13 settembre 2012, n. 158 coordinato con la legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189 aveva introdotto per
317
In particolare, nello sviluppo di un farmaco biosimilare, l’obiettivo non è quello di valutare il beneficio clinico che può essere apportato ai pazienti, perché ciò è già stato stabilito per il farmaco di riferimento, ma piuttosto quello di dimostrare in modo soddisfacente la sua comparabilità27 con esso, basandosi in parte sulla relativa esperienza di efficacia e sicurezza28. Sebbene l’EMA (European Medicine Agency)29 non esprima raccomandazioni circa l’intercambiabilità dei farmaci biosimilari con i biologici di riferimento, le decisioni degli Stati membri si stanno orientando in tale direzione, dal momento che il processo di autorizzazione e le attività di farmacovigilanza vigenti in Europa garantiscono un profilo rischio-beneficio sovrapponibile tra biosimilare e farmaco biologico originatore. Sempre l’EMA stabilisce30 che i medicinali biosimilari differiscono dai farmaci generici che hanno strutture chimiche più semplici e che sono considerati identici ai loro medicinali di riferimento. Il principio attivo di un biosimilare e quello del suo medicinale di riferimento sono di fatto la stessa
i farmaci generici e biosimilari un meccanismo di riduzione automatica del prezzo e la garanzia della medesima classificazione di rimborsabilità degli originatori, laddove tali riduzioni di prezzo risultassero convenienti per il SSN. Il d. m. del 4 aprile 2013 aveva poi definito i “Criteri di individuazione degli scaglioni per la negoziazione automatica dei generici e dei biosimilari” (pubblicato in GU n. 131 del 6 giugno 2013), individuando le riduzioni “convenienti” per il SSN. Successivamente la sentenza del T.A.R. Lazio, 8.4.2014, in Rass. dir. farm., 2014, 896, resa su ricorso, ha annullato il decreto del 4 aprile 2013. Fonte AIFA– Secondo Concept Paper sui Farmaci Biosimilari, 2017. 27 L’obiettivo primario dell’esercizio di comparabilità è la dimostrazione della similarità (similarity throughout) attraverso studi disegnati in modo tale da individuare le eventuali differenze di qualità tra il biosimilare e il prodotto di riferimento e assicurare che queste non si traducano in differenze cliniche rilevanti in termini di sicurezza ed efficacia tra i due prodotti.
Per questo motivo i disegni degli studi, le popolazioni e gli end point utilizzati nelle indagini comparative sono diversi da quelli precedentemente utilizzati con il farmaco di riferimento per stabilire l’efficacia terapeutica. 28
29 European Medicine Agency procedural advice for users of the centralised procedure for similar biological medicinal products applications, EMA 940451/2011. 30 Questions and Answers on biosimilar medicines, EMA 837805/2011.
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sostanza biologica, tuttavia possono essere presenti differenze minori dovute alla loro natura complessa e alle tecniche di produzione. Come si può ben capire il tema è molto ampio, poiché coinvolge tanto esigenze di risparmio quanto la tutela del più elevato livello di salute e sicurezza del paziente, fino alla libertà prescrittiva del medico, e al consenso informato del paziente. Dunque, non si può non tener conto dell’importanza che questi argomenti, e più in generale la sicurezza dei pazienti e la qualità dei servizi sanitari, hanno assunto nelle scelte di molti Paesi grazie anche all’intervento di importanti organismi internazionali31.
A livello internazionale, negli Stati Uniti, l’Agency for Healthcare Research and Quality (AHRQ) ha promosso, nel 2001, l’impiego diffuso di misure quali ad esempio la richiesta ai pazienti di ricordare e ripetere quanto è stato detto loro durante la procedura del consenso informato. L’Institute for Healthcare Improvement (IHI) (www.ihi.org) di Boston ha lanciato nel 2005 una campagna per incrementare la sicurezza e l’efficacia delle cure ospedaliere, individuando quali strategie efficaci, ad esempio, la prevenzione degli eventi avversi da farmaci. La Dichiarazione di Lussemburgo “Luxembourg Declaration on Patient Safety” (2005) raccomanda, tra l’altro, alle Aziende sanitarie di promuovere un approccio di massima collaborazione tra operatori e direzione aziendale finalizzata allo sviluppo della sicurezza dei pazienti e promuovere una cultura che porti ad accettare e discutere gli errori, avviando la cooperazione tra operatori, pazienti e familiari. Nel 2004 è stata costituita, all’interno dell’OMS, allo scopo principale di supportare lo sviluppo delle politiche e delle pratiche sulla sicurezza dei pazienti, la Word Alliance for Patient Safety, che ha prodotto documenti programmatici attraverso i quali sono state promosse varie iniziative. La Dichiarazione di Londra “Patients for Patient Safety”, redatta nel novembre 2005 dalla World Alliance for Patient Safety, assume prioritariamente i seguenti impegni: promuovere programmi per la promozione e l’empowerment dei pazienti; sviluppare un dialogo con tutti i partner per lo sviluppo della sicurezza; introdurre sistemi per la segnalazione degli errori sanitari su base internazionale; identificare le “migliori pratiche” in questo ambito e diffonderle. Il documento “Stakeholders’ Position Paper On Patient Safety”, elaborato nel 2005 dall’European Society for Quality in Healthcare (ESQH) (www.esqh.net), presenta le raccomandazioni concordate dalle più rappresentative associazioni europee di pazienti ed operatori, tra cui: sviluppare nelle unità operative progetti riguardanti le problematiche legate alla promozione della sicurezza dei pazienti; introdurre sistemi di incident reporting. diversi Paesi europei hanno avviato sistemi di sorveglianza, attuato iniziative d’intervento e formazione, prodotto raccomanda-
31
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Saggi e pareri
La gestione del rischio clinico (risk management) in sanità, ovvero, della probabilità per un paziente di rimanere vittima di un evento avverso costituisce uno degli elementi fondamentali per le politiche di governo clinico. Infatti, la gestione della relazione tra strutture sanitarie e pazienti al verificarsi di un evento avverso richiede un approccio che sia consistente, chiaro e definito in conformità a una procedura condivisa da parte di tutte le strutture sanitarie32 e basato sia sulla gestione dell’evento avverso che sulla comunicazione aperta e trasparente con i pazienti ed i loro familiari. In questa direzione, ogni azienda è tenuta a presentare, unitamente alla domanda di autorizzazione all’immissione in commercio, un piano (Risk Management Plan; EU-RMP) in cui deve esplicitare in dettaglio il sistema di gestione del rischio, descrivendo il profilo di sicurezza del farmaco e tenendo conto anche di quello del corrispondente medicinale di riferimento, e delineare le modalità con cui il produttore continuerà a monitorare la sicurezza e l’efficacia del medicinale e le misure che i titolari dell’autorizzazione intendono introdurre per preve-
zioni ed individuato Agenzie e/o Centri dedicati alla promozione della sicurezza. Il Ministero della salute, anche avvalendosi del supporto tecnico della Commissione sulla sicurezza dei pazienti, istituita presso la Direzione generale della programmazione sanitaria nel 2003, ha avviato numerose attività tra cui: il monitoraggio e l’analisi degli eventi avversi, con l’obiettivo di raccogliere dati che si riferiscono al verificarsi di eventi sentinella per riconoscere i fattori causali; la stesura di raccomandazioni, con lo scopo di fornire indicazioni per prevenire il verificarsi di eventi avversi; la formazione, per diffondere strumenti uniformi di studio ed analisi e aumentare le competenze degli operatori sanitari; la promozione del coinvolgimento di cittadini, pazienti e loro familiari al fine di renderli protagonisti della propria cura; l’approfondimento degli aspetti medico-legali ed assicurativi, per analizzare gli sviluppi internazionali e verificare le dimensioni qualitative e quantitative delle spese assicurative pertinenti. Sul sito del Ministero della salute (www.salute.gov. it) sono disponibili i documenti riguardanti le iniziative avviate dalla direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli essenziali di assistenza e dei principi etici di sistema, nell’ambito della sicurezza dei pazienti. Le principali caratteristiche del sistema di monitoraggio adottato dal Ministero della salute sono l’essere confidenziale, indipendente, non punitivo, orientato al sistema, analizzato da esperti, reattivo, tempestivo. 32
L’autonomia prescrittiva del medico nella terapia farmacologica
nire o minimizzare gli eventuali rischi durante l’uso del medicinale, ivi compresa un’eventuale modificazione dell’efficacia nella pratica clinica33. Anche i prodotti biologici possono essere utilizzati off-label, di cui alla legge n. 648/96; tuttavia, per il medicinale biosimilare – il cui corrispondente medicinale biologico di riferimento sia già stato autorizzato per l’utilizzo off-label e sia, quindi, presente nel richiamato elenco – l’inserimento non è automatico, ma viene verificato caso per caso dalla CTS, che si riserva la possibilità di esprimere il proprio parere sulla base delle evidenze scientifiche e della letteratura disponibili, dell’esperienza clinica e dell’eventuale riconducibilità dell’azione terapeutica ad un identico meccanismo d’azione. Si comprende, allora, come anche in questo campo, evidentemente, rivesta molta importanza l’acquisizione del consenso informato da parte del paziente. L’obiettivo, infatti, è proprio quello di favorire, soprattutto con un’adeguata informazione, il rapporto medico-paziente che non consiste solo nella condivisione del percorso terapeutico- assistenziale, ma anche nella partecipazione attiva alla sua realizzazione di tutte le parti in gioco. Sotto quest’ultimo profilo, i valori fondamentali attinenti alla persona, quali la dignità, la salute e il principio di autodeterminazione dovrebbero rappresentare il punto cruciale per la preparazione del terreno verso una maturazione del rapporto tra il medico e il paziente. E, in effetti, ai fini della responsabilità civile si può affermare che il medico che sottoponga il paziente ad un trattamento terapeutico in assenza di consenso informato, oppure anche diverso rispetto a quello che era stato reso per il trattamento stesso, anche nell’eventualità che il trattamento sia stato eseguito correttamente e si sia concluso con esito fausto, sarà comunque tenuto al risarcimento dei danni conseguenti, patrimoniali e non, derivanti dal fatto che il paziente ha perso un suo diritto inviolabile, inteso come ma-
33 Fonte Secondo Position Paper Aifa sui farmaci biosimilari, 2018.
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nifestazione della libertà, di rifiutare o accettare il trattamento34. Tuttavia, nonostante la complessa situazione in cui il medico si trova a compiere la sua opera, egli dovrà mantenere la facoltà di scegliere liberamente l’articolazione della propria prestazione (pur con il dovere di effettuarla con la massima diligenza) seguendo, responsabilmente, le proprie inclinazioni personali e, laddove si renda necessario, anche prendendo determinate iniziative. Ed è proprio in tale ottica che si dovrà affrontare il tema del collegamento tra il principio di autonomia dell’attività medica con la previsione, nell’esercizio di tale attività, delle potenzialità dei rischi clinico-assistenziali, considerati alla luce dell’appropriatezza delle cure e del principio di precauzione35, nel senso di seguire un orientamento finalizzato a gestire con saggezza, equilibrio e senso clinico le varie evenienze senza tralasciare tutte le possibili alternative per trovare le scelte migliori per ciascun caso clinico.
Cfr. De Matteis, La malpractice medica, in Cendon, Bal(a cura di), Il danno alla persona, Bologna, 2006, 1, 1321, per l’A. la valutazione deve avvenire riguardo al quadro clinico “per poter individuare, mediante un corretto bilanciamento in termini rischi/benefici per la salute del paziente, quale soluzione al momento potesse offrire il miglior risultato in rapporto al rischio connesso al trattamento stesso”. Ancora, Gennari, Il consenso informato come espressione di libertà, in Resp. civ. e prev., 2008, 2135 ss., secondo cui il diritto all’autodeterminazione del paziente è leso non perché sia stata lesa la sua integrità fisica, ma perché non è stato messo nelle condizioni di scegliere come preservarla. 34
dassari
35 Sul principio di precauzione vi è una vastissima bibliogrfia, senza nessuna pretesa di completezza, Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Frankfurt am Main, 1979, tr. it., Il principio responsabilità: un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, 1990; Nollkamper, The Precautionary Principle in International Law. What’s New Under the Sun? (1991) 22 Marine Pollution Bull 107; Luhmann, Risk: A Sociological Theory, New York, 1991, 16 s.; Consolo, Il rischio da “ignoto tecnologico”: un campo arduo per la tutela cautelare (seppur solo) inibitoria, in Alpa (a cura di), Il rischio da ignoto tecnologico, Milano, 2002, 65; Izzo, La precauzione nella responsabilità civile, Padova, 2004. Per un’analisi più approfondita, ci permettiamo di rimandare a Viciani, Errore in medicina e modelli di responsabilità, Napoli, 2017.
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s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza
Cass. civ., III sez., 23.3.2018, n. 7248 Cassa App. Catania, 27.5.2013
Responsabilità civile – Professionisti – Medici – Consenso informato - Inadempimento dell’obbligo di adeguata informazione preventiva sulle possibili conseguenze pregiudizievoli – Autonoma risarcibilità del danno all’autodeterminazione – Onere della prova – Praesumptio hominis (Cost., artt. 2, 13, 32; c.c. artt. 1218, 1223, 2697)
In materia di responsabilità per attività medico-chirurgica, l’acquisizione di un completo ed esauriente consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico, dal cui inadempimento può derivare – secondo l’id quod plerumque accidit – un danno costituito dalle sofferenze conseguenti alla cancellazione o contrazione della libertà di disporre, psichicamente e fisicamente, di se stesso e del proprio corpo, patite dal primo, in ragione della sottoposizione a terapie farmacologiche ed interventi medico - chirurgici collegati a rischi dei quali non sia stata data completa informazione. Tale danno, che può formare oggetto di prova offerta dal paziente anche attraverso presunzioni e massime di comune esperienza, lascia impregiudicata tanto la possibilità di contestazione della controparte quanto quella del paziente di allegare e provare fatti a sé ancor più favorevoli di cui intenda giovarsi a fini risarcitori. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista
Violazione dell’obbligo informativo e autonoma risarcibilità del danno all’autodeterminazione Francesca Cerea
Dottoressa in Giurisprudenza Sommario: 1. I fatti e il decisum. – 2. Diritto all’autodeterminazione e integrità della persona. – 3. Condizioni di risarcibilità del danno e onere della prova. – 4. Forme e contenuti dell’obbligo informativo.
Abstract: La sentenza in commento offre un proprio contributo al noto tema del diritto del paziente ad acconsentire in modo informato al trattamento sanitario, che costituisce da tempo il fulcro del rapporto medico-paziente su cui si fonda la legittimazione del professionista a prestare la propria attività terapeutica. Aderendo all’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in materia,
la Suprema Corte interviene al fine di ribadire ancora una volta l’autonomia risarcitoria del diritto del paziente all’autodeterminazione terapeutica e di formulare alcune considerazioni circa l’estensione dell’obbligo informativo del sanitario e dell’onere probatorio cui il paziente è tenuto.
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The judgment offers its own contribution to the known theme of the patient’s right to informed consent, that has long been the focus of the physician -patient relationship on which the legitimacy of the health worker is based. Adhering to the now consolidated judicial position on the matter, the Supreme Court intervenes in order to reiterate, once again, the compensatory autonomy of the patient’s right to therapeutic self-determination and to formulate some considerations about the extension of the information obligation of the physician and burden of proof to which the patient is kept.
1. I fatti e il decisum Con la sentenza in commento la Suprema Corte torna nuovamente ad occuparsi del rapporto tra il principio del consenso informato da parte del paziente ed il danno che ad esso ne può derivare, ove inosservato. La pronuncia è degna di rilievo poiché, pur inserendosi nel solco già tracciato dall’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, meglio specifica ed approfondisce portata e significato dell’autonoma rilevanza, ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria ex art. 1223 c.c., della mancata prestazione del consenso da parte del paziente. La Corte di Cassazione, richiamando una propria recente giurisprudenza (sentenza n. 26827/2017), precisa che l’acquisizione di un completo ed esauriente consenso del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l’intervento terapeutico, dal cui inadempimento può derivare, secondo l’id quod plerumque accidit, un danno costituito dalle sofferenze conseguenti alla cancellazione o contrazione della libertà di disporre, psichicamente e fisicamente, di se stesso e del proprio corpo, patite dal primo in ragione della sottoposizione a terapie farmacologiche ed interventi medico - chirurgici collegati a rischi dei quali non sia stata data completa informazione. L’occasione è data dal giudizio risarcitorio intentato dai genitori, in proprio e in qualità di esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio minore, nei confronti del ginecologo e della Casa di Cura ove Responsabilità Medica 2018, n. 3
Giurisprudenza
la gestante aveva partorito. Il piccolo, deceduto nelle more, era venuto alla luce con grave sofferenza fetale e conseguente anossia da parto, a seguito della quale aveva riportato un’invalidità pari al 100%. Le doglianze della coppia facevano perno principalmente sulla mancata acquisizione del consenso della paziente in ordine alla terapia farmacologico/induttiva alla quale era stata sottoposta e alla mancata informazione circa i possibili rischi da questa derivanti tra cui il distacco della placenta, poi avvenuto. Il giudice di primo grado accoglieva parzialmente la domanda degli attori nei confronti del professionista, mentre rigettava le pretese da loro avanzate avverso la Casa di Cura. In secondo grado tuttavia la Corte d’Appello di Catania, sulla scorta di una nuova consulenza tecnica d’ufficio, rigettava del tutto la domanda risarcitoria avanzata dei genitori, escludendo la risarcibilità della violazione del diritto all’autodeterminazione come fattispecie autonoma e l’esistenza del nesso eziologico fra il trattamento cui la gestante era stata sottoposta senza consenso e la vicenda patologica sviluppatasi successivamente. La Suprema Corte accoglie invece il ricorso e censura l’atteggiamento assunto dal giudice di secondo grado che, pur avendo ammesso l’esistenza della violazione denunciata, ha riformato la sentenza respingendo le richieste risarcitorie e ha omesso di valutare, aderendo immotivatamente alla consulenza tecnica rinnovata, tanto gli effetti collaterali del farmaco somministrato alle gestante quanto le dichiarazioni confessorie rese dal medico relativamente al proprio intervento tardivo e alla sua prolungata assenza; circostanze oggetto di puntuale e fedele ricostruzione nella consulenza tecnica effettuata nel giudizio di primo grado.
2. Diritto all’autodeterminazione e integrità della persona La pronuncia, coerentemente con la più recente giurisprudenza, ritiene che la mancanza del consenso del paziente possa assumere rilievo a prescindere dall’esistenza di una distinta lesione alla sua integrità corporea, essendo questa una circostanza irrilevante ai fini della sussistenza del dan-
Autonoma risarcibilità del danno all’autodeterminazione
no al diritto fondamentale all’autodeterminazione in sé considerato1. Così facendo la Corte segna una volta di più la distanza rispetto a quel passato orientamento della giurisprudenza civile di legittimità e di merito che subordinava la risarcibilità del danno all’autodeterminazione all’esistenza di un’originaria violazione dell’integrità psico-fisica della persona; impedendo di fatto al meccanismo risarcitorio di operare nelle fattispecie nelle quali l’offesa al valore persona non avesse implicato anche la lesione all’integrità del corpo2.
Per una ricostruzione del percorso compiuto dalla giurisprudenza verso un ampliamento del bacino del diritto alla salute fino a giungere al riconoscimento dell’autonoma risarcibilità del diritto all’autodeterminazione si veda Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 93 ss.; Id., L’illiceità dell’atto medico tra lesione della salute e violazione del consenso, nel Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, La Responsabilità in medicina, a cura di Belvedere e Riondato, Milano, 2011, 185 ss.; Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018, 75 ss.; Cacace, Autodeterminazione in salute, Torino, 2017, 39 ss. 1
Tale orientamento trova riscontro fra le altre in Cass., 30.7.2004, n. 14638, in Giur. it., 2005, 1395 con nota di D’Auria, Consenso informato: contenuto e nesso di causalità; Cass., 14.3.2006, n. 5444, in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, 250, con nota di Gremigni Francini, Danno extracontrattuale “da mancato consenso informato” ed identificazione del sanitario responsabile; in Riv. it. med. leg., 2007, 865, con nota di Turillazzi, Guerra, Consenso informato, l’obbligo risarcitorio; in Corr. giur., 2006, 1243, con nota di Meani, Sul danno risarcibile in caso di mancato consenso all’intervento eseguito correttamente. In tale pronuncia la Corte afferma testualmente che “la responsabilità del sanitario […] per violazione dell’obbligo del consenso informato discende dalla tenuta della condotta omissiva di adempimento dell’obbligo di informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto e dalla successiva verificazione, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza di un nesso di causalità con essa, di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, mentre, ai fini della configurazione di siffatta responsabilità è del tutto indifferente se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno”. Tra i giudici di merito Trib. Milano, 4.7.2017, consultabile all’indirizzo: www.responsabilitamedica.it; Trib. Milano, 4.3.2008, in Danno e resp., con nota di Cacace, Consenso informato: novità sul fronte giurisprudenziale. Rappresentazione in tre atti e in La resp. civ., 2009, 75 ss., con nota di Fantetti, Diritto di autodeterminazione e danno esistenziale alla luce della recente pronuncia delle S.U. della Cassazione; Trib. Milano, 8.6.2007, in Resp. civ. e prev., 2008, 2
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Tale indirizzo, oggi superato, dava di fatto luogo ad esiti contraddittori e infruttuosi laddove, a fronte di un’identica violazione di un diritto fondamentale avente valore costituzionale quale quello all’autodeterminazione terapeutica3, garan-
402, con nota di Facci, Brevi osservazioni in tema di funzione riparatoria della responsabilità civile e violazione del sanitario del dovere di informazione; Trib. Paola, 15.5.2007, in Resp. civ. e prev., 2007, 2130, con nota di Gennari, Non c’è consenso senza salute; Trib. Roma, 10.5.2005, ivi, 2006, 41 ss., con nota di Facci, Violazione del dovere di informazione da parte del sanitario e risarcimento del danno; Trib. Milano, 29.3.2005, in Corr. mer., 2005, 787, con nota di D’auria, Il consenso informato ad un bivio: tra lesione del diritto alla salute e autodeterminazione del paziente. In dottrina si veda Montanari Vergallo, Il rapporto medico-paziente. Consenso e informazione tra libertà e responsabilità, Milano, 2008, 236; Gambaro, La responsabilità medica nella prospettiva comparatistica, in Aa. Vv., La responsabilità medica, Milano, 1982, 41 ss. il quale sostiene che alla lesione della libertà di autodeterminazione “consegue un danno risarcibile non già ipso iure, ma soltanto nei casi in cui sia stato leso il bene salute rispetto al quale l’obbligo di informazione è necessariamente strumentale ai fini dell’adempimento del contratto di cura”. È con la nota sentenza n. 438 del 2008 che la Corte costituzionale affronta espressamente il tema del consenso informato definendolo come «espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico» e configurandolo «quale vero e proprio diritto della persona [ch]e trova fondamento nei principi espressi dall’art. 2 Cost., che tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”», arrivando a concludere che «la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione». Si veda Corte cost., 23.12.2008, n. 438, in Giur. cost., 2008, 4945 ss., con note di Balduzzi, Paris, Corte costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative, Morana, A proposito del fondamento costituzionale per il «consenso informato» ai trattamenti sanitari: considerazioni a margine della sent. n. 438 del 2008 della Corte costituzionale e Coraggio, Il consenso informato: alla ricerca dei principi fondamentali della le3
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tiva l’operatività del meccanismo risarcitorio solo in presenza di una lesione all’integrità fisica del paziente, negandola invece in caso di atto medico dall’esito fausto e vale a dire migliorativo della salute organica del paziente4. Il diverso orientamento accolto dalla giurisprudenza di legittimità negli ultimi anni e confermato dalla sentenza in epigrafe muove all’opposto dalla premessa che il diritto all’autodeterminazione e il diritto alla salute sono situazioni giuridiche differenti e separate5. Tale diversità è invero resa palese dalla
gislazione statale. Tale pronuncia è stata poi ripresa da Corte cost., 27.7.2009, n. 253, in Foro it., 2009, I, 2890 ss. Per una critica a tale corrente di pensiero si veda Pucella, L’illiceità dell’atto medico tra lesione della salute e violazione del consenso, cit., 209 ss.
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5 La pronuncia che ha dato avvio a tale indirizzo giurisprudenziale è Cass., 9.2.2010, n. 2847, in Resp. civ. e prev., 2010, 1014, con nota di Gorgoni, Ancora dubbi sul danno risarcibile a seguito di violazione dell’obbligo di informazione gravante sul sanitario; in Corr. giur., 2010, 1201 ss., con nota di Di Majo, La responsabilità da violazione del consenso informato; in Contr. e impr., 2010, 313 ss., con nota di Riccio, La violazione dell’autodeterminazione è, dunque, autonomamente risarcibile. Il diritto all’autodeterminazione secondo la Corte “rappresenta, ad un tempo, una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi, che si sostanzia non solo nella facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e ne sancisce il rispetto in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive”. Di questo avviso si segnalano senza pretesa di completezza anche Cass., 4.5.2018, n. 10608, consultabile all’indirizzo: www.responsabilitamedica.it; Cass., 13.4.2018, n. 9180, ibidem; Cass., 13.4.2018, n. 9179, ibidem; Cass., 5.7.2017, n. 16503, in DeJure; Cass., 20.5.2016, n. 10414, in Ragiusan, 2016, 148; consultabile all’indirizzo: www.altalex. it, con nota di Savoia, Il danno da mancata informazione del medico è ontologicamente diverso dal danno alla salute; Cass., 27.11.2015, n. 24220, in Danno e resp., 2017, 63 ss., con nota di Mattina, Il consenso informato e l’autonomia risarcitoria del diritto all’autodeterminazione; Cass., 13.2.2015, n. 2854, ivi, 2015, 421; Cass., 12.6.2015, n. 12205, ivi, 2016, 394, con nota di Gazzara, Responsabilità per omessa o insufficiente informazione pre-operatoria; in Corr. giur., 2016, 634, con nota di Grippaudo, Non tutto è bene quel che finisce bene se manca il consenso informato; Cass., 30.9.2014, n. 20547, in DeJure; Cass., 24.10.2013, n. 24109, ibidem; Cass., 31.7.2013, n. 18334, in Resp. civ. e prev., 2014, 572 ss., con nota di Fontana Vita del-
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circostanza per cui, pur sussistendo un consenso consapevole, ben può configurarsi responsabilità da lesione del diritto alla salute se la prestazione terapeutica mostra di essere stata eseguita in modo inadeguato e viceversa la lesione del diritto all’autodeterminazione non necessariamente comporta l’offesa del diritto alla salute, come accade quando manchi il consenso, ma l’intervento terapeutico sortisca un esito assolutamente positivo. Da ciò consegue che dalla violazione dell’obbligo informativo da parte del medico possono derivare due distinti tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze; nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale, diverso dalla lesione del diritto alla salute. Da una corretta informazione discende invero, precisa la Corte, un fascio di diritti e facoltà per il paziente, quali: a. il diritto di scegliere tra diverse opzioni di trattamento; b. la facoltà di acquisire eventualmente ulteriori pareri di altri sanitari; c. la facoltà di rivolgersi ad altro sanitario e ad altra struttura che offrano migliori e maggiori garanzie; d. il diritto di rifiutare l’intervento o la terapia e/o di decidere consapevolmente di interromperla6;
Corte, Le omissioni del medico e il regime di responsabilità. Con riguardo alla distinzione tra diritto alla salute e diritto all’autodeterminazione in dottrina si vedano, senza pretesa di completezza, Gorgoni, La «stagione» del consenso e dell’informazione: strumenti di realizzazione del diritto alla salute e di quello all’autodeterminazione, in Resp. civ. e prev., 1999, 488 ss.; Zatti, Il diritto a scegliere la propria salute (in margine al caso S. Raffaele), in Nuova giur. civ. comm., 2000, II, 1 ss.; Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, cit., 93 ss.; Id., L’illiceità dell’atto medico tra lesione della salute e violazione del consenso, cit., 185 ss.; Gorgoni, Il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione nella responsabilità medica, in Obbl. e contr., 2011, 191 ss. la
6 Sul dibattuto tema del rifiuto o interruzione di cure non possono non segnalarsi la nota Cass., 16.10.2007, n. 21748, in
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e. la facoltà di predisporsi ad affrontare consapevolmente le conseguenze dell’intervento, ove queste risultino, sul piano post-operatorio e riabilitativo, particolarmente gravose e foriere di sofferenze prevedibili (per il medico) quanto inaspettate (per il paziente) a causa dell’omessa informazione. È possibile pertanto concludere che anche in assenza di complicanze o conseguenze negative che determinano un peggioramento (permanente o temporaneo) della salute organica, possono sussistere altri diversi interessi del paziente suscettibili di essere lesi a causa dell’omessa o carente informazione da parte del sanitario, consistenti nella violazione del diritto a disporre di sé e ad esprimere nel modo e nelle forme più congrue il proprio io7.
Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 83, con nota di Venchiarutti, Stati vegetativi permanenti: scelte di cura e incapacità; in Dir. fam. e pers., 2008, 107 ss., con nota di Gazzoni, Sancho Panza in Cassazione (come si riscrive la norma dell’eutanasia, in spregio al principio di divisione dei poteri); in Foro it., 2007, I, 3025, con nota di Casaburi, Interruzione dei trattamenti medici: nuovi interventi della giurisprudenza di legittimità e di merito e in Fam. e dir., 2008, 136, con nota di Campione, Stato vegetativo permanente e diritto all’identità personale in un’importante pronuncia della Suprema Corte e, in tema di trasfusioni salvavita eseguite al testimone di Geova contro la sua volontà, Cass., 15.9.2008, n. 23676, in Foro it., 2009, I, 36; in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 170, con nota di Cricenti, Il cosiddetto dissenso informato relativa al rifiuto di trasfusioni da parte di testimoni di Geova. Importante, anche se limitatamente innovativo, il recente intervento del legislatore sul tema che con la Legge 22 dicembre 2017, n. 219 (recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) ha introdotto una disciplina organica del consenso informato, del rifiuto e della rinuncia al proseguimento dei trattamenti sanitari. Per una disamina del testo normativo si vedano fra gli altri Rodolfi, Casonato, Penasa, Consenso informato e DAT: tutte le novità, in Il civilista, Milano, 2018; Aa. Vv., La legge n. 219 del 2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, in BioLaw Journal, 2018, 11 ss.; Azzalini, Legge n. 219/2017: la relazione medico-paziente irrompe nell’ordinamento positivo tra norme di principio, ambiguità lessicali, esigenze di tutela della persona, incertezze applicative, in Resp. civ. e prev., 2018, 8 ss.; Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 247 ss.; Tripodina, Tentammo un giorno di trovare un modus moriendi che non fosse il suicidio né la sopravvivenza. Note a margine della legge italiana sul fine vita (n. 219/2017), in Quad. cost., 2018, 191 ss. 7
Possono, in particolare, richiamarsi, a mero titolo esem-
3. Condizioni di risarcibilità del danno e onere della prova Appurata l’autonoma risarcibilità della lesione all’autodeterminazione, resta però aperta la problematica questione inerente le condizioni di risarcibilità di tale lesione e le relative modalità di liquidazione, nonché quella della necessità di fornire prova del danno subito. La sentenza in commento, coerentemente con l’orientamento maggioritario, rimette la dimensione quantitativa del danno ad una valutazione equitativa del giudice, stante l’impossibilità di determinarne a priori il preciso ammontare8. Per monetizzare la lesione di un diritto della personalità non vi è infatti altra via che quella di ricorrere all’equità (art. 1226 c.c.), anche se va tuttavia precisato che è stata avvertita in dottrina l’esigenza di individuare delle regole che possano limitare la discrezionalità del giudice nel determinare concretamente l’ammontare di questo tipo di danno9.
plificativo, una serie di interessi personali giuridicamente rilevanti quali: a) la qualità della vita del paziente ed il suo benessere psico-fisico che può essere compromesso da dolori, acuti e cronici, o da sofferenze permanenti, che il paziente avrebbe potuto scegliere di non sopportare, sottraendosi all’intervento; b) la propria fede religiosa, che può spingere il paziente a rifiutare una trasfusione di sangue, quand’anche sia necessaria per salvargli la vita come accade per il noto caso dei Testimoni di Geova (Cass., 15.9.2008, n. 23676, cit.); c) la compromissione di un’appagante attività lavorativa, derivante dalla sottoposizione ad una terapia o ad un intervento che, necessario ma non urgente, richieda tempi lunghi di recupero e che avrebbe potuto essere differito nel tempo (Omodei Salè, La responsabilità civile del medico per trattamento sanitario arbitrario, in Jus civ., 2015, 805): d) i “rovesciamenti forzati dell’agenda” imposti alla vita della madre in ragione della nascita, non consapevolmente scelta, di un figlio malformato o gravemente malato (Cass., 4.1.2010, n. 13, in Resp. civ. e prev., 2010, 1037 ss., con nota di Fortino, La prevedibile resurrezione del danno esistenziale); e) “il turbamento o la sofferenza che deriva al paziente sottoposto ad atto terapeutico dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perché non prospettate e, anche per questo, più difficilmente accettate” (così Cass., 9.2.2010, n. 2847, cit.). Circa la determinazione della misura del danno da parte dei tribunali di merito si veda l’analisi di Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, cit., 79 ss. dalla quale emerge come la somma liquidata dai giudici dipenda molto dalle concrete circostanze del caso. 8
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Il riferimento è a Ghidoni, Il trattamento sanitario tra
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Il risarcimento delle conseguenze pregiudizievoli di natura non patrimoniale conseguenti alla violazione dell’autodeterminazione individuale è ritenuto tuttavia ammissibile a condizione che tale lesione sia seria ed ecceda una certa soglia di offensività secondo i canoni delineati dalle Sezioni Unite del 200810, le quali hanno stabilito che il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico. Con riguardo ai criteri di riparto dell’onere probatorio non si dubita che la prova dell’avvenuta prestazione del consenso informato del malato gravi sul medico. Nell’ambito della responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.) è infatti noto che spetta al paziente-danneggiato dimostrare l’esistenza del contratto e allegare un inadempimento astrat-
Giurisprudenza
tamente idoneo a provocare il danno lamentato, mentre è onere del professionista dimostrare di aver esattamente adempiuto ovvero che l’inadempimento non è stato causa del danno subito dal paziente11. Si ritiene inoltre a carico del danneggiato anche la prova del nesso eziologico, essendo questo parte del fatto costitutivo che incombe al paziente di provare12. Grava altresì sul danneggiato l’onere di provare il pregiudizio allegato derivante dalla violazione del diritto all’autodeterminazione. Onere che, precisa la Corte, potrà essere soddisfatto sulla base anche di elementi presuntivi la cui efficienza dimostrativa seguirà una sorta di ideale scala ascendente, a seconda della gravità delle condizioni di salute e della necessarietà dell’operazione e mediante massime di comune esperienza13. L’omessa informazione invero non cagiona, di per sé, lesione
Sono questi i principi affermati nel 2008 dalle Sezioni Unite sulla distribuzione dell’onere della prova in tema di responsabilità sanitaria. Cfr. Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, in Resp. civ. e prev., 2008, 849, con nota di Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzo/di risultato; in Danno e resp., 2008, 788 ss., con note di Vinciguerra, Nuovi (ma provvisori?) assetti della responsabilità medica, Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico e Gazzara, Le S.U. “fanno il punto” in tema di onere della prova della responsabilità sanitaria; in La resp. civ., 2008, 397, con nota di Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria. Si tratta di fatto dell’applicazione nel campo della responsabilità medica dei principi enunciati già nel 2001 dalle stesse Sezioni Unite in materia di responsabilità contrattuale (cfr. Cass., sez. un., 30.10.2001, n. 13533, in Corr. giur., 2001, 1569, con nota di Mariconda, Inadempimento e onere della prove: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro; in Foro it., 2002, I, 770, con nota di Laghezza, Inadempimento e onere della prova: le sezioni unite e la difficile arte del rammendo). Sulla questione cfr., ad esempio, Borretta, Responsabilità medica da omesso o insufficiente consenso informato e onere della prova, in Resp. civ. e prev., 2014, 897 ss. 11
protezione della personalità e imposizione di valori etici, in Fam. pers. e succ., 2012, 200 il quale propone di differenziare l’entità del risarcimento sulla base della ragione sulla quale si sarebbe fondata la diversa scelta del paziente, con la conseguenza che, quando il rifiuto di una determinata terapia si basa su una convinzione riconducibile in modo diretto a un’espressione, costituzionalmente garantita, della personalità (come la libertà religiosa o sessuale), il danno dovrebbe ritenersi essere particolarmente grave, mentre nel caso in cui la (potenziale) diversa scelta del paziente scaturisce da un mero personale giudizio di opportunità, il pregiudizio dovrebbe reputarsi essere meno importante e venire, quindi, liquidato con una somma inferiore. 10 Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26972 in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 10 ss., con note di Bargelli, Danno non patrimoniale: la messa a punto delle sezioni unite e Di Marzo, Danno non patrimoniale: grande è la confusione sotto il cielo, la situazione non è eccellente; in Resp. civ. e prev., 2009, 38 ss., con note di Monateri, Il pregiudizio esistenziale come voce del danno non patrimoniale, Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la complessità dei danni non patrimoniali, Poletti, La dualità del sistema risarcitorio e l’unicità della categoria dei danni non patrimoniali e Ziviz, Il danno non patrimoniale: istruzioni per l’uso; in Riv. dir. civ., 2009, II, 97 ss., con nota di Busnelli, Le Sezioni Unite e il danno non patrimoniale; in La resp. civ., 2009, 20 ss., con nota di Franzoni, Cosa è successo al 2059 c.c.?; in Rass. dir. civ., 2009, 520 ss., con nota di Perlingieri, L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla persona; in Foro it., 2009, I, 134 ss., con nota di Ponzanelli, Sezioni unite: il “nuovo statuto” del danno non patrimoniale.
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Cfr. ex multis Cass., 21.6.2018, n. 16336, consultabile all’indirizzo: www.rivistaresponsabilitamedica.it; Cass., 26.7.2017, n. 18392, ibidem; Cass., 16.1.2009, n. 975, in Corr. giur., 2009, 1653; Cass., 9.10.2012, n. 17143, in Riv. it. med. leg., 2013, 1588, con nota di Lazzeri; Cass., 20.10.2015, n. 21177, in Mass. Giust. civ., 2015; Cass., 12.9.2013, n. 20904, ivi, 2013. 12
13 Cfr. Cass., 5.7.2017, n. 16503, cit.; Cass., 9.2.2010, n. 2847, cit.
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del diritto all’autodeterminazione (seppur diritto fondamentale della persona), il che equivale a sostenere che il danno di cui si discute non si può mai ritenere in re ipsa, ma configura piuttosto un danno-conseguenza, risarcibile solo ove venga dimostrato il pregiudizio causalmente connesso che ne è derivato14. Ai fini dell’accertamento di una responsabilità conseguente alla violazione delle regole in materia di consenso informato la Suprema Corte precisa poi che a nulla rileva l’adeguatezza della prestazione medica sotto il profilo esecutivo e della sua conformità alle leges artis. Pare evidente sotto questo punto di vista l’intenzione dei giudici di superare quella tradizione di pensiero che non concepiva responsabilità medica se non in presenza di un errore “esecutivo”15, preferendo aderire al più recente orientamento secondo il quale “La correttezza o meno del trattamento […] non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto indifferente ai fini della configurazione della condotta omissiva dannosa e dell’ingiustizia del fatto, la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni e che, quindi, tale trattamento non può dirsi avvenuto previa prestazione di un valido consenso […] donde la lesione della situazione giuridica del paziente inerente alla salute ed all’integrità fisica
per il caso che esse, a causa dell’esecuzione del trattamento, si presentino peggiorate […]”16.
4. Forme e contenuti dell’obbligo informativo Importante terreno di scontro in tema di consenso all’atto medico è sempre stato quella della formalizzazione della volontà del paziente al trattamento17. Sul punto la stessa giurisprudenza di legittimità si è dimostrata oscillante riconoscendo in alcuni casi la validità del consenso espresso oralmente18 e richiedendo in altri la forma scritta19.
Così Cass., 14.3.2006, n. 5444, cit. Dello stesso avviso Cass., 11.12.2013, n. 27751, in Riv. it. med. leg., 2015, 322, con nota di Posteraro, È risarcibile la lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente per consenso invalido a prescindere dal danno biologico conseguente alla prestazione: il medico ha l’obbligo di rappresentare tutti i rischi (anche quelli straordinari) con l’unico limite della loro imprevedibilità. 16
Lo scontro può dirsi oggi meno acceso a fronte dell’intervento del legislatore il quale con la già citata Legge 219/2017 ha ritenuto di occuparsi anche della forma del consenso aprendo ad una pluralità di prassi cliniche di formazione e raccolta e stabilendo che «Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico» (art. 1, comma 4°). 17
Di questo avviso, fra le altre, Cass., 9.2.2010, n. 2847, cit. Più di recente cfr. Cass., 21.6.2018, n. 16336, consultabile all’indirizzo: www.responsabilitamedica.it; Cass., 12.4.2018, n. 9053, in DeJure. Diversamente si finirebbe per legittimare un ritorno alla tesi che reputava ristorabile il mero danno-evento insito nella lesione dell’interesse protetto, tesi che la giurisprudenza ha, però, da tempo abbondonato a seguito dei chiarimenti offerti da Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26972, cit.
18 Cfr. la recentissima Cass., 13.4.2018, n. 9179, cit. In senso conforme Cass., 31.3.2015, n. 6439, in Foro it., 2015, I, 3659 ss., con nota di Farace, La forma del consenso ai trattamenti sanitari; Cass., 27.11.2012, n. 20984, in Danno e resp., 2013, 743 ss., con nota di Clinca, Ragionamento presuntivo e consenso informato: il no della Cassazione al “consenso presunto” nel caso del paziente-medico; in Giur. it., 2012, 276 ss., con nota di Salerno, Consenso informato in medicina e qualità soggettive del paziente; Cass., 6.12.1968, n. 3906, in Resp. civ. e prev., 1970, 389, nella quale si afferma che il consenso informato, non essendo condizionato a particolari requisiti di forma, può essere manifestato al sanitario anche mediante un comportamento che riveli in maniera precisa ed inequivocabile il proposito di sottoporsi all’atto operatorio.
15 Si consideri che ancora nel 2002 la Cassazione penale riteneva lecito l’intervento medico anche in assenza di un espresso consenso, pur salvo il rilievo decisivo di un eventuale espresso dissenso, del paziente laddove la prestazione fosse finalizzata alla salvaguardia della salute medicale del malato (Cass. pen., 29.5.2002, n. 26446, in Riv. pen., 2002, 751).
19 Cfr. Cass., 29.9.2015, n. 19212, in Danno e resp., 2016, 379, con nota di Farace, Due revirements della Cassazione sul consenso ai trattamenti sanitari il quale esprime più di una perplessità sulle argomentazioni addotte dalla Corte; in Corr. giur., 2016, 1248, con nota di Pardolesi, Baldassarre, Lo statuto sostanziale e processuale del consenso informato; in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 432, con nota di Pizzimenti,
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La sentenza in epigrafe si schiera, richiamandolo espressamente, a favore del secondo degli orientamenti menzionati il quale ritiene che l’obbligazione informativa sia da considerarsi inadempiuta non solo quando manchi totalmente (o parzialmente) l’informazione data al paziente, ma anche quando il sanitario acquisisca il consenso con modalità improprie, comprendendo fra queste il consenso espresso oralmente. In ordine al contenuto dell’obbligo informativo va evidenziato come nell’esperienza giuridica italiana sia ormai radicata la tendenza ad allargare i confini di tale dovere gravante sul medico20. È infatti pacifico in giurisprudenza che, affinché il paziente possa esprimere un consenso effettivamente libero e consapevole, debbano costituire oggetto di informazione la prevenzione, la diagnosi, la prognosi, l’eventuale esistenza di una pluralità di trattamenti terapeutici alternativi, i vantaggi e i rischi di ciascuna terapia, i risultati conseguibili e le possibili conseguenze negative21. Esulano tuttavia, secondo la Suprema Corte, dal contenuto dell’informazione le conseguenze atipiche, anomale e improbabili e ciò poiché, da un lato, le stesse difficilmente possono essere identificate e, dall’altro, la loro prospettazione al paziente potrebbe determinare effetti controproducenti e spingerlo a ri-
Responsabilità medica: il consenso deve essere scritto e completo; in Dir. e gius., 2015, 93, con nota di Valerio, Consenso informato prestato oralmente: non vale se il paziente è sotto narcosi e non conosce l’italiano. 20 Va segnalato che il contenuto dell’obbligo informativo è oggi espressamente specificato nella già menzionata Legge n. 219/2017, allorché si prevede, riprendendo quasi testualmente l’art. 33 del codice di deontologia medica, che ogni persona ha diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e comprensibile con riguardo «alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi» (art. 1, comma 3°).
Cfr. Cass., 13.10.2017, n. 24074, in Rep. Foro it., 2017, voce «Sanità pubblica e sanitari», n. 179. A riguardo in dottrina v. Graziadei, Il consenso informato e i suoi limiti, nel Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, I diritti in medicina, a cura di Lenti, Palermo Fabris, Zatti, Milano, 2011, 243. 21
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fiutare il consenso a fronte del timore di possibili, ma eccezionali, conseguenze dannose22. Dello stesso avviso mostra di essere altresì la sentenza in commento la quale, a fronte del grado di specificità dell’informazione richiesto, giudica non idonea a tale scopo la sottoscrizione da parte del paziente di un modulo di consenso informato del tutto generico e dal contenuto sommario e riadattabile ad una molteplicità di rapporti e di soggetti23. Il modulo si limita infatti a rappresentare in
Questo l’orientamento fatto proprio già da molto tempo dai giudici di legittimità. Cfr. Cass., 12.6.1982, n. 3604, in Giust. civ., 1983, I, 939. L’obbligo di informazione si estende invero, ha precisato al Corte, ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali secondo l’id quod plerumque accidit, anche il fine di evitare il pericolo, di cui i giudici si mostrano consapevoli, che il paziente sia intimorito da possibili ma improbabili conseguenze dannose (cfr. Cass., 15.1.1997, n. 364, in Foro it., 1997, I, 771 ss., secondo cui “il dovere di informazione concerne la portata dell’intervento, le inevitabili difficoltà, gli effetti conseguibili e gli eventuali rischi, sì da porre il paziente in condizioni di decidere sull’opportunità di procedervi o di ometterlo, attraverso il bilanciamento di vantaggi e rischi. L’obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito, che non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, non potendosi disconoscere che l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per una qualsiasi remotissima eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento. Assume rilevanza, in proposito, l’importanza degli interessi e dei beni in gioco, non potendosi consentire tuttavia, in forza di un mero calcolo statistico, che il paziente non venga edotto di rischi, anche ridotti, che incidano gravemente sulle sue condizioni fisiche o, addirittura, sul bene supremo della vita”). Conformemente si v. Cass., 25.1.1994, n. 10014, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 937; Cass., 30.7.2004, n. 14638, cit. che introduce il concetto che la giurisprudenza francese definisce una reaction dangereuse del paziente; Cass., 14.3.2006, n. 5444, cit.; Cass., 29.9.2009, n. 20806, in Ragiusan, 2010, 244. Evidenzia il rischio che l’eccesso informativo si possa trasformare in “accanimento informativo” Cassano, Obbligo di informazione, relazione medico-paziente, difficoltà della prestazione e concorso di responsabilità, in Danno e resp., 2001, 154. 22
Di questo avviso, fra le altre, Cass., 21.4.2016, n. 8035, in Guida al dir., 2016, 38; Cass., 4.2.2016, n. 2177, in Riv. it. med. leg., 2016, 1281, con nota di Riccetti, Consenso informato: quale ruolo gioca il livello culturale del paziente e l’aver già subito un intervento analogo ; Cass., 9.12.2010, n. 24853, in La resp. civ., 2011, 829, con nota di Miotto, La prova del «consenso informato» e il valore di confessione stragiudiziale delle dichiarazioni rese nel «modulo» di adesione al trattamento terapeutico; Cass., 8.10.2008, n. 24791, in Nuova giur. 23
Autonoma risarcibilità del danno all’autodeterminazione
forma statica, come in una fotografia, quello che in realtà è, o dovrebbe essere, un processo dinamico e graduale, irriducibile perciò all’atto della firma apposta in calce dal paziente24. A tale onere informativo il medico non può sottrarsi neppure in presenza di particolari qualità personali del paziente, potendo le suddette qualità incidere unicamente sulle modalità dell’informazione, la quale comunque deve sostanziarsi in spiegazioni complete, veritiere ed adeguate al livello culturale del paziente, con l’adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone25.
civ. comm., 2009, I, 540, con nota di Klesta Dosi, La responsabilità della struttura sanitaria: una conferma della “oggettivazione” della relazione di assistenza a vantaggio della tutela della persona; in Danno e resp., 2009, 414, con nota di Gagliardi, Esercizio di attività sanitaria presso cliniche in convenzione: chi è responsabile? secondo la quale «l’obbligo di informazione non può ritenersi debitamente assolto mediante la mera sottoscrizione di un generico e non meglio precisato “apposito modulo” dovendo […] risultare per converso acclarato con certezza che il paziente sia stato dal medico reso previamente edotto delle specifiche modalità dell’intervento, dei relativi rischi, delle possibili complicazioni, ecc.»; Cass., 28.11.2007, n. 24742, in Mass. Giust. civ., 2007. Vedi, ad esempio, Portigliatti Barbos, Il modulo medico di consenso informato: adempimento giuridico, retorica, finzione burocratica?, in Dir. pen. proc., 1998, 894 il quale osserva che la procedura di acquisizione del consenso «deve essere intesa non come l’espletamento sbrigativamente liberatorio di un onere burocratico in più, né come l’omaggio ad un mito retorico, ma quale prova trasferibile di un colloquio personale realmente avvenuto nei tempi e modi più adatti a promuovere una autentica comunicazione, nel corso della quale il medico deve avere sia cercato di comprendere la personalità del paziente, le sue preferenze soggettive ed opzioni morali, sia suscitato una chiara comprensione delle alternative terapeutiche e dei rispettivi rischi e benefici, sia creato un clima di fiducia nella propria capacità di tener in conto le scelte di valori del paziente, in modo da agevolare la formazione di un comune sentire rispetto alle decisioni da assumere e di una autentica volontà “ferma, univoca, persistente, razionalmente motivata” […] da parte del soggetto». 24
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Sulla scorta di tale orientamento, la Suprema Corte censura pertanto la pronuncia impugnata laddove, pur ammettendo la carenza di adeguata informazione della gestante circa i rischi che avrebbero potuto derivare dalla terapia farmacologico/ induttiva del parto, ha escluso la sussistenza della violazione del diritto all’autodeterminazione come fattispecie autonoma, nonché l’esistenza del nesso eziologico fra il trattamento e la vicenda patologica sviluppatasi successivamente. I giudici di legittimità rilevano invero l’omesso esame da parte della Corte d’Appello di Catania tanto dei documentati effetti collaterali del farmaco somministrato in assenza di consenso, quanto delle dichiarazioni confessorie rese dal professionista in ordine alla mancata acquisizione del consenso della paziente e al proprio intervento tardivo. Frutto di tale omissione mostra di essere l’adesione, secondo i giudici di legittimità, “immotivata” alla consulenza tecnica d’ufficio rinnovata nel secondo grado di giudizio e non sottoposta ad alcun esame controfattuale. Più in particolare la Corte censura la decisione dei giudici di merito per non aver tenuto in alcuna considerazione le risultanze emergenti dalla consulenza svolta nel giudizio di primo grado, attraverso la quale era stata ricostruita la tempistica degli interventi, sulla base della documentazione prodotta e dell’esito dell’interrogatorio formale del professionista. Coerentemente la Terza Sezione sceglie di cassare con rinvio la decisione della Corte d’Appello, affinché riesamini la controversia tenendo conto dell’autonoma risarcibilità della lesione all’autodeterminazione e di tutte le circostanze emergenti dai dati istruttori raccolti, ivi inclusi tutti quei fatti segnalati dalla consulenza tecnica svolta in primo grado, che abbiano carattere decisivo tale che, se esaminate, avrebbero determinato un esito diverso della controversia (nella vicenda in questione, il distacco intempestivo della placenta segnalato come possibile rischio dallo stesso “bugiardino” che accompagnava il farmaco somministrato e la condotta tenuta dal sanitario così come descritta dallo stesso in sede di interrogatorio formale).
Cass., 4.2.2016, n. 2177, cit. e in senso conforme Cass., 28.2.2017, n. 5004, cit.; Cass., 20.8.2013, n. 19220, in Giust. civ., 2013, I, 2345, con nota di Carbone, Obbligo informativo del medico e qualità professionali del paziente; Cass., 27.11.2012, n. 20984, cit. 25
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s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza
Tribunale di Milano, 7.3.2018
Morte a seguito di omessa diagnosi – Risarcimento del danno – Accertamento – Danno biologico terminale – Danno morale terminale – Apprezzabile lasso di tempo (Cost., art. 32; c.c. artt. 2, 2059)
Nel caso di sopravvivenza della vittima per un periodo di quattro giorni è stato accertato come la morte sia intervenuta dopo un pur minimamente apprezzabile lasso di tempo dal fatto colposo di omessa diagnosi. Tale danno, destinato a peggiorare con estrema rapidità e che si è risolto con il decesso, si reputa entrato manifestamente nel patrimonio della vittima quale lesione della propria integrità psicofisica, ingravescente sino al decesso. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista
Decesso a causa di omessa diagnosi e danni risarcibili, un caso al vaglio del Tribunale di Milano Maria Grazia Peluso
Dottoressa in Giurisprudenza Sommario: 1. Il fatto. – 2. Il decisum. – 3. L’annosa questione della risarcibilità dei danni da morte: il danno tanatologico. – 3.1. Danno biologico terminale. – 3.2. Danno morale terminale, quale quantificazione possibile.
Abstract: Il presente contributo prende spunto da un’interessante decisione del Tribunale di Milano che si è trovata a confrontarsi sul tema, particolarmente dibattuto sia in dottrina che in giurisprudenza, dei danni riconoscibili direttamente in capo al soggetto che decede a causa di una condotta illecita di un terzo. Partendo da un’analisi sulla questione della risarcibilità o meno del danno tanatologico, si svolgerà una concisa osservazione delle damnorum figurae che discendono da un evento luttuoso. This report, taking place from a recent decision of a Milan Court, will analyze damages compensated to a victim.
Starting from an analysis on the question of the reparability of the tanatological damage, we will make a brief observation of the various damages that arising from a mournful event.
1. Il fatto Il Tribunale di Milano ha recentemente avuto modo di intervenire sul dibattuto tema dei danni risarcibili agli eredi in caso di omessa diagnosi. L’occasione è data dal giudizio risarcitorio instaurato dei parenti del de cuius deceduto a causa di una dissecazione aortica a quattro giorni dal
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primo ingresso in pronto soccorso. A seguito di un forte dolore toracico, infatti, il paziente era stato trasportato d’urgenza al più vicino ospedale ove, sottoposto a visita ed esami dai quali emergeva uno stato soporoso, eupnoico e con conati di vomito schiumoso, veniva dimesso con la sola raccomandazione di assumere antinfiammatori al bisogno. Dopo quattro giorni il paziente decedeva, a nulla valendo l’intervento sul posto del personale medico. I familiari si rivolgono pertanto al Tribunale di Milano chiedendo il riconoscimento della responsabilità in capo alla Struttura ospedaliera, nella quale operavano i medici che avevano visitato il congiunto, per non avere – a fronte di una tale sintomatologia – diagnosticato prontamente la dissecazione aortica e, al contempo, domandando il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, subiti iure proprio e iure hereditatis.
2. Il decisum Il Tribunale milanese aderendo alla giurisprudenza predominante formatasi in tema di responsabilità ascrivibile agli Enti sanitari, alla luce delle risultanze emerse dalle relazioni peritali, accoglie parzialmente le domande attoree e riconosce una responsabilità di tipo contrattuale in capo alla Struttura ospedaliera in quanto responsabile per l’operato dei propri dipendenti. Si ritiene che la sintomatologia presentata al momento dell’ingresso al Pronto Soccorso fosse compatibile con una diagnosi di dissecazione aortica e sarebbe stato, pertanto, compito dei medici in servizio prendere in considerazione tra le varie possibili cause del malore tale patologia e, conseguentemente, richiedere ulteriori analisi. Inoltre, la dimissione del paziente con la sola prescrizione di antinfiammatori al bisogno configurerebbe, oltre che una grave omissione terapeutica, una violazione delle Linee Guida Internazionali. Proseguendo nell’analisi dei danni subiti dai congiunti iure proprio, il Tribunale ritiene provato e riconosce un danno da perdita del rapporto parentale oltre che un danno biologico psichico in capo alla moglie e ai figli interessati da un disturbo dell’adattamento con ansia e depressione.
Giurisprudenza
Non viene accolta invece la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale, sia iure proprio che iure hereditatis, derivante dal mancato apporto economico che il de cuius avrebbe potenzialmente continuato ad apprestare. Secondo il Tribunale milanese, i familiari, infatti, avendo prodotto solamente il CUD non hanno dimostrato pienamente la sussistenza in capo al defunto di un attuale rapporto lavorativo «la cui retribuzione potesse considerarsi stabile nel futuro, in ipotesi di mancato evento luttuoso». Sotto l’aspetto dei danni subiti direttamente dalla vittima, il Giudice nega il riconoscimento del cd. danno tanatologico, tuttavia ritiene provato, e trasmissibile iure hereditatis, il danno biologico e morale subito personalmente dal de cuius. Il caso di specie offre uno stimolante spunto sul tema dei danni risarcibili agli eredi a seguito di un evento luttuoso, di particolare interesse appare infatti l’argomentazione impiegata dal Tribunale lombardo a fondamento della riconoscibilità dei danni subiti direttamente dalla vittima e trasmessi successivamente ai propri congiunti. Il mai sopito dibattito tra dottrina e giurisprudenza circa il riconoscimento del danno cd. tanatologico e la quantificazione economica dei danni trasmissibili agli eredi, compiuta dal Giudice nella decisione in commento, saranno qui oggetto di una concisa analisi.
3. L’annosa questione della risarcibilità dei danni da morte: il danno tanatologico Il profilo dei danni derivanti da un evento luttuoso, causato da una condotta illecita di un terzo, è stato – ed è tuttora – un argomento particolarmente dibattuto in dottrina e in giurisprudenza a causa delle problematiche afferenti la risarcibilità, quantificazione e configurazione delle varie damnorum figurae che a tale evento possono essere ricondotte. La sentenza in commento, riprendendo apoditticamente la decisione delle sezioni unite del 20151,
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Cass., sez. un., 22.7.2015, n. 15350, in Foro it., 2015, I,
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nega la sussistenza di un danno cd. tanatologico in quanto considerato «un’entità in sé non risarcibile». Tuttavia il Giudice milanese, continuando nell’analisi dei possibili danni risarcibili, riconoscendo come apprezzabile il periodo di quattro giorni intercorrente tra l’omessa diagnosi e la morte, ritiene provato un danno biologico e morale terminale direttamente ascrivibili alla vittima. La questione merita di essere approfondita partendo da una considerazione in ordine alla configurabilità del danno da lesione del bene-vita. Il Giudizio del Tribunale lombardo si innesta nel solco tracciato dall’orientamento tradizionale della Corte di Cassazione che nega la risarcibilità del danno da perdita della vita seguendo un orientamento consolidatosi e che vede le fondamenta in una risalente decisione del 1925. Il Supremo Collegio infatti sancì che: «Se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fino a quando il medesimo sia in vita. Questo, spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone appunto e necessariamente l’esistenza di un subietto di diritto»2. Tale
2682; in Giuda al dir., 2015, 14, con nota di Graziano. Cass., sez. un., 22.12.1925, n. 3475, in Foro it., 1926, 328. Interessante è l’analisi compiuta da Simone, Il danno tanatologico e la ricerca del vero precedente. A proposito di una risalente pronuncia della Cassazione del Regno, in Roma TrEPress, 2016, 579 ss. L’A. sostiene la non invocabilità di tale precedente in quanto la decisione della Corte sarebbe riferita alle pretese patrimoniali iure proprio dei congiunti e pertanto estranee al tema del danno da perdita della vita in quanto tale. A sostegno viene riportato un passaggio dell’argomentazione della Corte che, a opinione dell’A., sarebbe comprensibile in una tale traiettoria: «Se le azioni spettanti agli eredi, in tale qualità, non possono logicamente e giuridicamente essere se non quelle che avrebbe potuto esercitare il de cujus; ne segue che intanto è possibile l’esperimento iure hereditatis di un’azione di danni dipendenti dalla morte di una persona, in quanto il diritto al risarcimento fosse acquistato già a costei, nel momento del decesso. Ma se tali danni, in quanto derivanti dalla morte, non possono logicamente non essere a questa successivi, evidentemente assurda la concezione, rispetto ad essi, di un soggetto di diritto che più non esisteva quando i medesimi si verificarono. Ed allorché incontrario deducesi che l’azione di danni non nasce dalla morte, ma dalla lesione che ha causato la morte, e che fra questa e la lesione istessa deve pur sempre intercedere un intervallo di tempo che, pur quanto minimo fino all’attimo, è sufficiente
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principio è divenuto il fondamento dell’argomentazione cardine che sancisce la negazione della risarcibilità del danno cd. tanatologico in quanto il soggetto morendo perderebbe la capacità giuridica e non sarebbe pertanto più titolare della stessa pretesa risarcitoria3. Nel corso degli anni sono andate consolidandosi diverse argomentazioni a fondamento delle obiezioni circa il riconoscimento del danno da morte, in particolare tradizionalmente si è fatto perno sulla constatazione che il riconoscimento di un diritto di tal fatta sarebbe inevitabilmente in conflitto con altro orientamento della stessa Suprema Corte – anch’esso consolidato – che vede risarcibili i soli danni-conseguenza e non anche i danni-evento4. Si ritiene, infatti, non riconoscibile il danno da morte nei casi in cui il soggetto decede immediatamente, o dopo pochi istanti dal momento del sinistro, poiché in queste circostanze ciò che si chiede venga risarcito non sono le conseguenze della lesione/privazione del bene-vita, dal momento che al decesso non farebbero mai capo ulteriori e successivi effetti dannosi, quanto piuttosto lo stesso evento morte. Inoltre, si reputa che il riconoscimento di un danno cd. tanatologico sia impedito anche dalla stessa natura dei beni oggetto di analisi, questi difatti sarebbero ontologicamente distinti e dunque il bene-vita non potrebbe essere identificato come la massima
a che, durante il suo corso, il lesionato acquisti il diritto ai danni derivanti dalle lesioni; anziché contraddire i concetti anzidetti, si fornisce ad essi argomento di conferma». Guidi, Storia e vicissitudini del danno da morte, in Danno e resp., 2013, 1207. 3
Tale principio, consacrato dalle sentenze di San Martino del 2008, viene confermato anche nella famosa sentenza Scarano che sul punto precisa: «Costituendo quello secondo cui risarcibili sono solo i danni-conseguenza, e non anche il danno-evento, un principio basilare dell’architettura argomentativa su cui si sorregge la rilettura dei danni operata dalle Sezioni Unite del 2008 alla stregua dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 cc, non appare invero consentito allo stato […] farsi luogo a un revirement interpretativo […]». Cass., 23.1.2014, n. 1361, in Resp. civ. e prev., 2014, 492, con nota di Bianca, La tutela risarcitoria del diritto alla vita: una parola nuova della cassazione attesa da tempo; in Foro it., 2014, I, 719, con nota di Palmieri; ivi con nota di Simone. 4
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espressione della salute. La vita, quale bene supremo, non sarebbe godibile se non in natura, dal solo titolare dello stesso, e pertanto non sarebbe in ogni caso suscettibile di essere reintegrato per equivalente. Nonostante l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, un primo spiraglio di apertura alla tutela risarcitoria del bene-vita si ha con la sentenza n. 15760 del 2006 ove la Corte, sebbene solo in un obiter dictum, esplicitamente ritiene configurabile un danno tanatologico in quanto la lesione di suddetto bene diverrebbe «momento costitutivo di un diritto di credito che entra istantaneamente nel patrimonio come corrispettivo del danno ingiusto al momento della lesione mortale, senza che rilevi la distinzione tra evento di morte mediata o immediata»5. A questa pronuncia segue, con il preciso intento di stimolare un revirement dell’orientamento fino ad allora predominante, nel 2014 la famosa sentenza Scarano6. Per la prima volta viene espressamente riconosciuto dalla Corte di Cassazione, indipendentemente dal lasso di tempo intercorrente tra il sinistro e il decesso, il danno da morte. Le argomentazioni poste a fondamento della decisione della terza sezione del Supremo Collegio fanno perno in particolar modo sul sentire sociale. Si reputa infatti intollerabile la non risarcibilità di un bene di così grande importanza quale la vita, esso dovrebbe piuttosto essere primariamente tutelato da parte dell’ordinamento, in quanto oggetto di un diritto assoluto e inviolabile7, giacché, precisa
Giurisprudenza
la Corte, «la perdita della vita non può rimanere priva di conseguenze anche sul piano civilistico». Accolta con molta attesa da quella parte della dottrina favorevole al riconoscimento di una tutela effettiva del bene-vita, le argomentazioni poste dal Supremo Collegio a sostegno di tale orientamento non paiono tuttavia convincere totalmente8. La Corte, infatti, nella preoccupazione di non demolire l’architrave della risarcibilità dei soli danni-conseguenze, ritiene che il bene-vita sia sì un danno-evento ma, non accogliendo le indicazioni che avevano prospettato una ricostruzione della perdita della vita come un danno da perdita di chances di sopravvivenza9 e quelle che teorizzavano la ricorrenza di un danno subito dall’intera collettività, piuttosto che dal singolo10,
Sul piano del confronto con le altre argomentazioni avversative al riconoscimento del danno tanatologico la Cassazione si mostra tuttavia poco convincente. Per un approfondimento si rimanda a Ziviz, Grandi speranze (per il danno non patrimoniale), in Resp. civ. e prev., 2014, 340 ss.; Spinelli Francalaci, Diritto alla vita e danno tanatologico. Quale futuro?, in Dir. fam. e pers., 2015, 456 ss.; Astone, Il danno tanatologico (una controversa ricostruzione), ivi, 2017, 191 s.; Particolarmente interessante Pucella, Coscienza sociale e tutale risarcitoria del valore-persona: sul ristoro del danno da morte, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, 270 ss. L’A., a commento della sentenza Scarano, ritiene non del tutto convincente l’argomentazione sviluppata dalla Corte. Emblematico in tal senso il confronto con l’orientamento che vede risarcibili i soli danni-conseguenza, qui il Supremo Collegio pare temere l’apertura incondizionata alla tutela monetaria in sé dei danni-evento e pertanto si limita a reputare la risarcibilità del danno da morte quale «ontologica ed imprescindibile eccezione al principio di risarcibilità dei soli danni conseguenza». 8
Sul punto si rimanda all’interessante opera di Ziviz, Grandi speranze, cit., 388 ss. L’A., commentando la sentenza citata, ritiene più convincente l’argomentazione secondo cui il danno da vita risarcibile dovrebbe essere identificato con le chances di sopravvivenza dal momento che «a rilevare è, piuttosto, la menomazione di una capacità dell’individuo, vale a dire la sua attitudine alla sopravvivenza. […] È questa compromissione – corrispondente alla menomazione della capacità di sopravvivenza – ad incrinare, dunque, il pregiudizio che la vittima subisce quando sia leso il suo diritto alla vita»; Zorzit, La perdita di chance ed il “danno da morte”: prove tecniche di resistenza e nuovi scenari, in Danno e resp., 2009, 1122 e Ziviz, Illusioni perdute, in Resp. civ. e prev., 2015, 1443 ss.
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Cass., 12.7.2006, n. 15760, in Danno e resp., 2007, 643.
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Cass., 23.1.2014, n. 1361, cit.
Sul punto Sanna, Mors et vita duello conflixere mirando: il difficile caso del risarcimento del danno cd. tanatologico (o da morte istantanea ovvero da perdita della vita) (I parte), in Riv. it. med. leg., 2016, 649 ss. il quale efficacemente fa notare come, sebbene la tutela della vita non sia espressamente sancita dalla Costituzione, la rilevanza di questa traspare come in filigrana e rappresenterebbe il fil rouge dal quale muove, traendone giustificazione, il riconoscimento dell’intera categoria dei diritti inviolabili dell’uomo. L’A. sul punto precisa che «poiché la Carta Fondamentale del 1948 pone al suo centro l’uomo […] l’intero architrave costituzionale dei diritti dell’uomo non può che poggiare sul diritto alla vita». 7
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10 Per un’analisi approfondita si rimanda a Simone, La riscrittura del danno non patrimoniale: il declino del danno
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vi attribuisce il solo carattere di eccezione, in ragione della preminenza e inviolabilità della vita stessa11. Il detrimento di questa non sarebbe quindi la privazione di un qualcosa che dalla esistenza discende quanto la privazione di tutto: «Nel più sta il meno» argomenta il Supremo Collegio, la vita tutto racchiude e pertanto non dovrebbero essere indagate le ulteriori e distinte conseguenze poiché una tale perdita sarebbe foriera «di tutti gli effetti e conseguenze». A tale decisione è tuttavia seguita la sentenza a sezioni unite n. 15350/2015 la quale, deludendo coloro che aspettavano un apparto argomentativo più corposo12, e limitandosi a ribadire gli orientamenti precedenti, ha nuovamente affermato l’irrisarcibilità del danno da morte ritenendo il sentire sociale un fatto non idoneo allo scopo per cui era stato richiamato nella sentenza n. 1361/2014. Il “sentire sociale”, secondo il Supremo Collegio, non essendo un argomento giuridico dovrebbe essere indirizzato all’opera del Legislatore e non dei Giudici, i quali sono chiamati ad essere solamente degli interpreti delle norme13. Ciò che viene riconosciuto come risarcibile è pertanto solo un danno di tipo biologico terminale, e solo qualora
esistenziale e l’ascesa del danno morale?, in Danno e resp., 2009, 16 ss. e Ziviz, Illusioni perdute, cit., 1448 ss. 11
Ziviz, Grandi speranze, cit., 385 ss.
Sul punto autorevole dottrina osserva che la Corte fornisce una «motivazione tecnicamente intransigente e assiologicamente disimpegnata» mostrando così «una sostanziale elusione della questione, la cui importanza era stata espressamente segnalata dall’ordinanza di rimessione: perché quella soluzione rimorde alla coscienza?» Busnelli, Tanto tuonò, che … non piovve. Le sezioni Unite sigillano il “sistema”, in Corr. giur., 2015, 1208. 12
Di diverso avviso Pucella, Lesione del valore-persona e danno-conseguenza: un’architettura da rimodernare, in Riv. crit. dir. priv., 2015, 69 ss., secondo cui il sentire sociale si era già mostrato presente nelle considerazioni svolte dai Giudici in tema per esempio sia di danno biologico che di danno da perdita del rapporto parentale. In questi casi, sebbene manchino altre conseguenze in senso proprio, l’idea della sussistenza di tali danni non viene ostacolata e questo perché «il sentire comune riveste abitualmente di disvalore – e perciò qualifica danno – non (solo) le conseguenze ma, prima ancora la lesione del valore salute (vale a dire la perdita o l’indebolimento di un arto o di un organo in sé considerati)».
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sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo tra l’evento lesivo e la morte. Oltre a ciò può configurarsi in capo alla vittima anche un danno morale cd. catastrofale, questo però solamente qualora il danneggiato abbia lucidamente assistito allo spegnersi della propria vita14. Emerge con chiarezza come l’elemento di discrimen sia proprio la sussistenza in vita per un più o meno consistente arco temporale. Nei casi in cui il soggetto muoia immediatamente, pertanto, non maturerebbe alcun credito trasmissibile agli eredi dal momento che solo rimanendo in vita l’offesa evolverebbe in un danno giuridicamente apprezzabile e maturerebbe nel patrimonio del soggetto direttamene leso15. 3.1 Danno biologico terminale Alla luce delle considerazioni appena svolte, quindi, ad oggi, a seguito di un evento lesivo che sfoci nella morte della vittima, i soli danni astrattamente configurabili direttamente in capo al danneggiato sarebbero un danno biologico terminale e un danno morale cd. catastrofale, o da agonia. A suddetto orientamento si conforma anche la Sentenza in commento la quale ritiene fondati
14 Non sono mancate in dottrina argomentazioni discordi, orientate a un definitivo riconoscimento del danno da morte. Sul punto, tra gli altri, si rimanda a Napoli, Problematiche connesse al risarcimento del danno a favore dei congiunti della vittima, in Dir. fam. e pers., 2013, 1102 ss.; Tomaselli, Sul danno tanatologico: riflessioni e prospettive, ivi, 2008, 2128 ss.; Marchese, La clessidra della morte: riflessioni sulla difficoltà cronometrica del danno tanatologico, in Riv. it. med. leg., 2017, 511 ss.; Sanna, Mors et vitae, cit., 1013 ss.; Ziviz, Illusioni perdute, cit., 1443 ss. Di converso autorevole dottrina si è mostrata contraria a una tale evoluzione di tutela. Per un approfondimento si rimanda a Mandrioli, Spunti critici per un’interpretazione restrittiva del danno risarcibile, in Resp. civ. e prev., 2016, 652 ss.; Navarretta, La «vera» giustizia e il «giusto» responso delle S.U. sul danno tanatologico iure hereditario, ivi, 2015, 1416 ss.
Di diverso avviso invece parte della dottrina la quale ritiene che, tranne in rari casi, non si potrebbe mai parlare di morte immediata trovandosi invece una sequenza non solo cronologica ma anche logica tra evento lesivo e seguente morte del soggetto offeso. Pur se il tempo tra lesione e decesso dovesse identificarsi in uno spazio cronologico infinitesimale questo sarebbe sufficiente affinché il diritto si perfezioni nel patrimonio del soggetto. Per un approfondimento si rimanda a Ziviz, Illusioni perdute, cit., 1149 ss. 15
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tali pregiudizi in ragione delle testimonianze dei prossimi congiunti oltre che delle relazioni peritali prodotte dai CTU nominati. Tuttavia, per comprendere le ragioni del Tribunale di Milano, occorre fare un passo indietro. Un primo riconoscimento del danno biologico terminale può forse essere ricondotto all’accoglimento, da parte della Corte di Cassazione, di parte delle istanze della dottrina dominante che chiedeva a gran voce una compiuta tutela di tutti i danni derivanti da un evento luttuoso. A fronte di tali istanze il Supremo Collegio si determinò ad introdurre un rimedio compromissorio16 tra l’assoluta irrisarcibilità e il pieno riconoscimento del danno da morte iure hereditario, ritenendo risarcibile in capo alla vittima solamente un danno di tipo biologico, questo tuttavia solo qualora tra l’evento dannoso e l’esito letale fosse intercorso un ragionevole lasso di tempo17. La suprema Corte così facendo garantisce il risarcimento di quella lesione alla salute psicofisica del soggetto – ed il conseguente danno alla persona che ne deriva – a cui segue, in tempi più o meno rapidi, la morte e la cui compromissione entra pertanto a far parte del patrimonio della vittima18. Il decesso immediato, secondo detta ricostruzione, non sarebbe dunque idoneo a far sorgere alcun tipo di danno direttamente in capo alla vittima. Dal momento che la lesione psico-fisica per poter essere risarcibile deve avere una qualche incidenza sulla persona, è indispensabile che questa rimanga in vita per un certo lasso di tempo. Inoltre, come già notato pocanzi, la Cassazione ritiene che in tali casi il bene sacrificato sia la vita
16
Guidi, op. cit., 1208.
Tra le altre Cass., 28.8.2007, n. 18163, in Giust. civ., 2008, I, 689; Cass., 23.2.2005, n. 3766, in Foro it., 2006, I, 2463; Cass., 23.2.2004, n. 3549, in Danno e resp., 2004, 1199, con nota di Caputi; Cass., 16.5.2003, n. 7632, in Dir. e giust., 2003, 66, con nota di Rossetti, Danno biologico e morte della vittima. La Cassazione prova a “mettere ordine” nella materia; recentemente Cass., 20.7.2016, n. 14940, in Foro it., 2016, I, 3427, con nota di Palmieri; Cass., 23.3.2016, n. 5684, in Arch. giur. circ., 2016, 394. 17
Giusti, La giurisprudenza sul danno biologico e morale terminale: natura e liquidazione, in Resp. civ. e prev., 2015, 892 ss. 18
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Giurisprudenza
e non la salute19. Posto che qualunque lesione che abbia come conseguenza immediata e diretta la perdita della vita comporta di per sé una compromissione della salute fisica dell’interessato, appare chiaro come l’elemento di discrimine sia proprio il cd. spatium vivendi, che come tale deve essere ritenuto “apprezzabile”. Come è possibile immaginare da un concetto così generico, quale è quello di apprezzabilità di un arco temporale, sono discese non poche incertezze, in particolar modo perché la valutazione di quest’ultimo viene lasciata alla completa discrezione dei Giudici di merito. In alcuni casi sono, infatti, stati ritenuti “apprezzabili” periodi molto brevi (finanche di 24 ore20), mentre in altri la sopravvivenza per tre giorni non è stata ritenuta idonea a configurare una lesione biologica terminale21. Al fine di ridurre l’aleatorietà di dette valutazioni la Suprema Corte22 è intervenuta chiedendo ai Giudici di valutare l’apprezzabile lasso di tempo non da un punto di vista cronologico ma da uno sostanziale. In altre parole ciò che deve essere considerato, dice la Corte, è la consistenza del danno, pertanto sarebbe più corretto riferire l’aggettivo apprezzabile non al tempo ma al danno alla salute23. In forza di tale considerazione si è approdati in giurisprudenza a ritenere risarcibile il danno terminale indipendentemente dalla sussistenza di una lucida coscienza della vittima24, infatti ai fini del riconoscimento del danno è ritenuta sufficiente l’obiettiva insorgenza della lesione e non anche la conoscenza soggettiva che della stessa la vittima può o meno aver avuto25.
19
Cass., 22.7.2015, n. 15350, cit.
20
Cass., 19.10.2007, n. 21676, in Danno e resp., 2008, 313 ss.
In Cass., 26.9.1997, n. 9470, in Mass. Giust. civ., 1999, la Corte afferma esplicitamente che «in concreto il decesso del M. avvenuto dopo solo tre giorni da fatto illecito ha reso, in partica, inqualificabile il pregiudizio alla salute non essendo stati i due momenti – fatto illecito e decesso – separati da un apprezzabile lasso di tempo». 21
22
Cass., 2.4.2001, n. 4783, in Giust. civ., 2001, I, 1788.
23
Giusti, op. cit., 894 ss.
24
Cass., 28.8.2007, n. 18163, in Giust. civ., 2008, I, 689.
25
Cass., 1.12.2003, n. 18305, in Danno e resp., 2004, 143.
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Sulla risarcibilità del danno da morte
Nonostante detto intervento, i dubbi interpretativi sono rimasti immutati: è stato infatti negato il danno in parola in un caso di sopravvivenza della vittima per due giorni26. Appare pertanto evidente come il criterio individuato dalla Suprema Corte lasci ai Giudici di merito l’ingrato compito di cronometrare la fase terminale della vita delle vittime, inoltre l’eccessiva discrezionalità della valutazione da compiersi, monca di una qualche certa indicazione da seguire circa la quantificazione cronologica riferita “apprezzabile”, come parte della dottrina ha significativamente osservato «rischia di trasformare il sistema risarcitorio in una sorta di macabra lotteria»27. Sotto il profilo della misura del risarcimento la sentenza in commento, sebbene formalmente condivida la giurisprudenza predominante28, considerando applicabili fattori di personalizzazione particolarmente elevati in ragione del fatto che la lesione prodotta, sebbene momentanea, sia massima di intensità e gravità e come tale vada riferita all’effettiva vita residua del danneggiato piuttosto che alla prevedibile durata della vita della vittima29, nella pratica liquida ai congiunti la somma di 145 euro giornalieri che, personalizzata in ragione della sofferenza subita, si quantifica per un totale di soli 1.160 euro. L’entità della liquidazione stabilita dal Giudice milanese, soprattutto
26
Cass., 20.9.2011, n. 19133, in Mass. Giust. civ., 2011.
Sanna, Mors et vita, cit., 648 ss. La quale con questa immagine evocativa efficacemente afferma che tale incertezza deriva sia dall’assenza di una dimensione cronologica «quantificamente» certa sia dall’estrema difficoltà della prova «dal momento che nella maggior parte dei casi, l’accertamento dell’esatto momento della morte o la misurazione del lasso di tempo tra l’azione lesiva e l’evento morte ovvero la valutazione dello stato di coscienza non sono affatto agevoli anche dal punto di vista medico-legale». 27
Cass., 11.11.2008, n. 26972 e 26973, in Mass. Giust. civ., 2008. 28
Sul punto si rimanda a Giusti, op. cit., 893 ss. L’A. sottolinea come la stessa Cassazione avesse censurato le Corti di merito per aver provveduto a liquidare il danno biologico terminale come un danno avente natura permanente. Tra le altre Cass., 20.10.2014, n. 22228, in Guida al dir., 2015, 42, ove espressamente si afferma che «la Corte territoriale ha erroneamente liquidato il danno biologico spettante iure hereditatis agli attori rapportandolo all’invalidità permanente totale della dante causa».
29
se raffrontata alla giurisprudenza dominante che vede liquidati risarcimenti consistenti nell’ordine della decina di migliaia di euro30, mostra di non aver adeguatamente rapportato le indicazioni delle Tabelle di Milano con la particolarità del caso concreto. Giova ricordare che la ratio sottesa al risarcimento del danno biologico terminale è sì legata ad un danno da invalidità temporanea ma ciò deve essere sempre e comunque preso in considerazione nell’ottica che tale danno ha poi condotto alla morte del soggetto. La quantificazione monetaria indicata nelle tabelle di Milano, invece, fa riferimento a una situazione destinata a ritornare, più o meno compiutamente, in una condizione di salute del soggetto leso31. È proprio in virtù di tale considerazione che l’opera di personificazione del Giudice dovrebbe essere particolarmente accurata.
Ex multis Cass., 18.1.2011, n. 1072, in Resp. civ. e prev., 2011, 1021, con nota di Ziviz, È risarcibile la perdita della vita? 30
La stessa Corte di Cassazione prescrive «Se la morte è stata causata dalle lesioni, l’unico danno biologico risarcibile è quello correlato all’inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso concepibile un danno biologico da invalidità permanente. Infatti, secondo i principi medico-legali, a qualsiasi lesione dell’integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un’invalidità permanente. Per l’esattezza l’invalidità permanente si considera insorta allorché, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, l’individuo non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità. […] ne consegue che quando la morte è causata dalle lesioni, dopo un apprezzabile lasso di tempo, il danneggiato acquisisce (e quindi trasferisce agli eredi) soltanto il diritto al risarcimento del danno biologico da inabilità temporanea e per il tempo di permanenza in vita» (Cass., 23.2.2004, n. 3549, cit.). In parte contrari De salvia, Gesumunno, La malattia rapidamente fatale in responsabilità civile. Giurisprudenza corrente e soluzioni operative in medicina legale e in diritto per la liquidazione integrale del danno ed esemplificazione casistica, in Riv. it. med. leg., 2011, 90 ss. in riferimento a malattie che permettono la sopravvivenza per qualche mese o per anni, comportando un’evoluzione cronica degli effetti della patologia, gli Autori sostengono che il danno maturato debba essere considerato come danno biologico permanente poiché ad esso corrispondono postumi che non andranno mai verso un miglioramento, bensì volgono ad un peggioramento che condurrà in ultima istanza al decesso. 31
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Appare pertanto con evidenza come un risarcimento di così poca entità rappresenti un riconoscimento simbolico del danno occorso, piuttosto che un effettivo e completo ristoro delle lesioni subite: una somma siffatta non sarebbe, infatti, adeguata a compensare integralmente il pregiudizio sofferto. Da ciò emerge come le tabelle del tribunale di Milano, se pure ben si adattano alla quantificazione di un danno per un soggetto rimasto in vita, necessitano di un maggior intervento equitativo del Giudice chiamato alla loro applicazione nei casi in cui il danneggiato soccomba a causa della gravità delle lesioni riportate, nel rispetto così del principio di integrale risarcibilità sancito definitivamente dalle Sezioni Unite del 200832. Appare chiaramente infatti come l’intensità del danno biologico discenda proprio dalla sua incidenza sulla possibilità del soggetto di recuperare la salute perduta, possibilità che in questi casi viene negata avendo l’aggressione subito condotto al decesso33. 3.2 Danno morale terminale, quale quantificazione possibile Continuando nell’analisi della decisione in commento il Giudice lombardo reputa altresì provato, in ragione della testimonianza dei figli del de cuius anch’essi spettatori alla fase terminale della vita del padre, un danno morale terminale. All’evento morte infatti, oltre che la compromissione del bene salute, può essere ricondotto un ulteriore profilo, particolarmente traumatico per il danneggiato, rappresentato proprio dal danno cd. catastrofale. Questo viene inquadrato come la sofferenza morale patita dal soggetto che assiste lucidamente allo spegnersi della propria vita34.
32
Ziviz, Grandi speranze, ibidem.
Interessante è il contributo di De salvia, Gesumunno, ibidem, i quali ritengono all’uopo fondamentali le perizie medico-legali, le quali, descrivendo con una maggiore precisione possibile l’entità delle sofferenze fisiche e psichiche subite dalla vittima, sarebbero strumenti idonei al fine di evitare eventuali duplicazioni risarcitorie.
33
Nelle note sentenze di San Martino la Cassazione qualifica come danno morale terminale cd. catastrofale o da lucida agonia la sofferenza provata dalla vittima nell’avvertire coscientemente l’ineluttabile approssimarsi della propria morte. 34
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Giurisprudenza
Elemento imprescindibile risulta pertanto la lucida consapevolezza della vittima, indipendentemente dal periodo di tempo trascorso tra sinistro e decesso. Il danno qui risarcito attiene infatti all’acuta sofferenza psichica che un danneggiato subisce nella consapevolezza di stare vivendo gli ultimi attimi della propria vita, tale consapevolezza chiaramente prescinde dall’arco temporale in cui essa perdura ma appare comunque massima anche in tempi molto brevi35. La categoria del danno catastrofale, o da lucida agonia, viene pertanto ricondotta al danno morale, considerato in una lata accezione, e come tale degna di salvaguardia risarcitoria. Sui familiari grava pertanto l’onere di provare la lucidità e consapevolezza del proprio congiunto al fine di vedersi riconoscere tale danno per via ereditaria36. È la stessa Cassazione, infatti, a prescrivere esplicitamente che il risarcimento del danno catastrofale possa essere concesso agli eredi, a titolo di danno morale, solo a condizione che esso sia entrato a far parte del patrimonio della vittima e che in assenza della prova di uno stato di coscienza della persona – nell’intervallo tra sinistro e morte – non sia possibile riconoscere la sussistenza di detta lesione37. La prova della sofferenza patita può essere tuttavia desumibile da diversi elementi quali l’attesa vigile della morte, la preoccupazione per i congiunti che sopravvivranno oltre che dalla consapevolezza dell’irreversibilità della patologia e dell’inevitabile prognosi infausta38.
In particolare Cass., 11.11.2008, n. 26972 e 26973, cit. 35 Cass., 2.4.2001, n. 4783, in Danno e resp., 2001, 820, con nota di Bona; Cass., 41.2.2007, n. 3260, in Mass. Giust. civ., 2007; Cass., 11.11.2008, n. 26972 e 26973, cit.; Cass., 13.6.2014, n. 13537, in Foro it., 2014, I, 2470, con commento di Pradolesi.
Non è stata riconosciuta la sussistenza di tale requisito poiché i familiari non avevano dato prova della lucidità e della sofferenza della vittima, in Cass., 11.10.2012, n. 17320, in Dir. e giust. online, con nota di Di Michele, Danno parentale biologico e morale: la mancata liquidazione non lede la tutela del bene della vita. 36
Cass., 24.3.2011, n. 6754, in Mass. Giust. civ., 2011; in Foro it., 2011, I, 1035. 37
38
De
salvia,
Gesumunno, op. cit., 88 ss.
Sulla risarcibilità del danno da morte
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Sotto il profilo della quantificazione del danno morale, data la difficoltà di un accertamento specifico dell’entità dei danni subiti, questo viene lasciato al libero apprezzamento dei Giudici secondo un criterio equitativo, che tuttavia deve sempre scrupolosamente valutare la natura e la gravità delle lesioni subite dalla vittima. Sarà pertanto, ancora una volta, compito del Giudice di merito prendere in considerazione fattori quali l’età della vittima, la gravità delle lesioni subite e l’intensità della sofferenza sopportata, al fine di non dar luogo alla liquidazione di una somma irrisoria o simbolica e non correlata al danno stesso, ma piuttosto un’entità che sia espressione di un’integrale risarcibilità dei pregiudizi subiti39. Una volta accertata pertanto la sussistenza di un danno sia di natura biologica che di natura morale terminale il Tribunale milanese, argomentando sulla monetizzazione del danno risarcibile, afferma l’indifferenza, ai fini della quantificazione del risarcimento, della distinzione tra danno biologico e danno morale terminale. Questi, sebbene confluenti nell’unico pregiudizio non patrimoniale risarcibile iure hereditatis, dovrebbero tuttavia a rigore essere considerati distintamente. Il danno biologico terminale – secondo l’accezione riconosciuta dalla prevalente dottrina e giurisprudenza – attiene infatti al mero accertamento dello stato di salute del danneggiato mentre il danno cd. catastrofale viene identificato come un detrimento morale, afferisce cioè ai valori della persona lesi in quanto essa si trova lucidamente testimone dello spegnersi della propria vita e da cui discende una sofferenza particolarmente acuta. Appare dunque chiaramente come questi beni siano distinti e pertanto abbiano una logica e ontologica autonomia40. Come autorevole dottrina rappresenta, tali concetti non si sovrappongano ma seguono vie parallele che non si intersecano41.
39
Cass., 30.1.2006, n. 1877, in Mass. Giust. civ., 2006.
Trapuzzano, Il danno patrimoniale da morte, 2012, 1007 ss. 40
Monateri, Il pregiudizio esistenziale come voce del danno non patrimoniale, in Aa.Vv., Il danno non patrimoniale, Milano, 2009, 255.
41
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o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di st i e r Decisione e coscienza nella m giu relazione di cura. Quali regole a tutela delle persone? Camillo Barbisan
Responsabile del Servizio Bioetica dell’Azienda Ospedaliera di Padova
Caro Marco, inizio proprio in questo modo molto diretto senza rivolgermi, in prima battuta, al giurista. La ragione è assai semplice. Con Te voglio dialogare di cose che attengono a strati profondi dell’umano che ci caratterizza e che trova espressione sintetica e simbolica nel nome che traduce il nostro essere “questa” persona, “questa” storia, “questa” vita. Attraverso le mie narrazioni e la Tua frequentazione del perimetro dell’ospedale dove lavoro, con le connesse esperienze, Ti ho portato dentro ad un mondo dove accadono quotidianamente fatti che amo qualificare come intensi ed estesi, che coinvolgono biografia e biologia, corpi e persone. Quello che denominiamo ospedale, piccolo o grande che sia, è tutt’altro che una realtà monolitica, singolare: in verità è un microcosmo quantitativo e qualitativo. Lo è per la varietà degli spazi, per la molteplicità dei professionisti che vi lavorano, per la pluralità delle prestazioni che si erogano. Lo è altresì per le questioni che vi si trattano: la malattia, la sofferenza, la guarigione ed anche la morte; e ciò a tutte le età, per tutte le persone che ne fruiscono. Ma è anche una esperienza che coinvolge profondamente tutte le persone che ne sono professionalmente partecipi. Questo è un mondo attraversato da un elemento costante: la necessità di decidere. Lo sguardo, la comprensione, la valutazione del disagio impongono sempre la decisione. E in questo contesto la faccenda si complica perché la scelta non solo apre scenari di possibilità, ma coinvolge anche percezioni ed emozioni. Chiama in causa ciò che – tradizionalmente e complessivamente
– denominiamo coscienza: il mondo dei valori, le convinzioni della persona malata ma, anche e tradizionalmente, quello stesso mondo riferito ai curanti. In questo dialogo parliamo proprio della coscienza come questione tutt’altro che chiusa e definita dal sintagma “scienza e coscienza” che si afferma come millenaria – e perciò apparentemente indiscutibile – bussola che orienta il cammino – decisioni comprese – del medico. Va subito chiarito che non propongo l’abolizione dell’elemento guida dell’agire del professionista in sanità: se così si facesse si porrebbe in discussione la base della medicina costruita sul duplice fondamento delle competenze – conoscenze da un lato, e dei valori di riferimento dall’altro. Ciò che va posto all’ordine del giorno è una nuova declinazione dell’istanza della coscienza che sappia tenere conto, almeno di due elementi: il “potere” intenso ed esteso della medicina e il rilievo da assicurare all’eguale espressione della coscienza della persona malata. Operando da oltre vent’anni in questo mondo di decisioni, colgo da tempo istanze ed espressioni che manifestano il disagio ed invocano elementi di chiarificazione. Anche quelli provenienti dal mondo della giustizia e del diritto, ovviamente! Mi capita di sentire dire: “io non me la sento”. Qui è evidente una motivazione che confonde e sovrappone elementi emozionali e valoriali pretendendone in fondo anche una trasposizione di stampo giuridico. Ancora: “la coscienza me lo impone” o, versione uguale ma opposta: “la coscienza mi impedisce”. Responsabilità Medica 2018, n. 3
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Qui si tratta di comprendere quali siano gli elementi valoriali cui si attinge per fondare l’azione, l’astensione, l’omissione. Così come è rigoroso il fondamento scientifico del profilo clinico, altrettanto dovrebbe valere per l’elemento coscienziale. Insomma come del primo vi è capacità di rendere ragione, altrettanto dovrebbe farsi per il secondo. Ma, e qui inizio a questionare il giurista, posto che la coscienza che induce il medico ad agire, astenersi od omettere di agire sia fondata, che ne è – per la medesima storia di cura – dell’espressione della coscienza del paziente che si esprime – poniamo – in modo opposto? Se con ciò si esprime la sua identità – libertà, questa può assumere la figura di un diritto esigibile? Altra situazione: “rispetto a questa situazione noi – come gruppo di professionisti – facciamo obiezione di coscienza”. Dove, quando ascolti simili espressioni, non riesci a comprendere se ti trovi in un contesto di associazione religiosa o sindacale ma, andando oltre la battuta, dall’altra parte appunto c’è sempre qualcuno che attende qualcosa che riguarda il suo corpo e quindi la sua vita. Quanto Ti ho fin qui rappresentato non è che un piccolo frammento che ha tuttavia la sostanza dell’insieme. Ti voglio cioè far presente che – paradossalmente – nello scenario della medicina avanzata, della medicina tecnologica, l’appello – più o meno pertinente – alla clausola di coscienza non è evento raro. Ciò che invece non ha una tradizione storica affermata e talvolta neppure una forma linguistica codificata è l’espressione-manifestazione “dell’altra coscienza”: quella dell’uomo malato. La fragilità del male, piccolo o grande che sia, non può legittimare che quanto vi è di più “sacro e nobile” nell’uomo sia oscurato o misconosciuto, proprio nel momento in cui dovrebbe essere massimamente valorizzato. Caro giurista, in modo molto radicale, ciò che io Ti propongo come oggetto del dialogo è semplicemente questo: come gestire l’attrito tra la coscienza del medico e quella della persona malata quando il riferimento alla forma del bene da realizzare e del male da evitare non è componibile? Ovvero quali regole porre per offrire garanzia rispetto ai beni in gioco e ai soggetti da tutelare?
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Dialogo medici-giuristi
Il Tuo contributo può risultare estremamente utile per rendere meno fragile quello che tuttavia – con buona pace di chi offre e di chi attende – resta un orizzonte inoltrepassabile, come ci è stato offerto da questo aforisma ippocratico: “la vita è breve, l’arte è lunga, l’occasione è fugace, l’esperienza è fallace, il giudizio è difficile”. In questo mare ci siamo dentro tutti ma per navigare e non per naufragare ed affogare.
o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di st i e r Integrità del malato e m giu “giuridicizzazione” della coscienza: no ad una cura contro la persona Marco Azzalini
Professore nell’Università di Bergamo
Caro Camillo, le Tue riflessioni, così ampie e puntuali ad un tempo, toccano molti degli snodi centrali che involgono la sostanza della relazione di cura, rendendola materia complessa e delicata. Tra questi, riprendendo alcuni temi da Te sollevati, credo presentino particolare rilievo il crocevia problematico della necessità di assumere decisioni critiche ma ineludibili in contesti dai quali dipendono le sorti terapeutiche ed assistenziali della persona; lo snodo della tutela dell’identità e integrità del soggetto nel momento difficile della malattia e dell’infermità, con tutte le fragilità connesse, siano esse evidenti o meno evidenti; la possibilità di attriti tra la coscienza del sanitario e le istanze di rispetto identitario del paziente. Trattasi di questioni assai sfaccettate, rispetto alle quali il presente dialogo non può ovviamente costituire né un punto di partenza né certo un approdo, ma semmai una delle tante stazioni intermedie attraverso le quali può dipanarsi e crescere una riflessione. Tenterò, da giurista, di affrontare nell’ordine di cui sopra le segnalate questioni, più per mettere a fuoco alcuni possibili punti attorno ai quali costruire un nuovo statuto della relazione tra medico e paziente, che per fugare i troppi dubbi che la realtà sempre suscita, ponendoci spesso di fronte a situazioni che giocoforza finiscono con lo svelarci come defunte le troppe – o a volte troppo
comode – certezze nelle quali, sino ad un attimo prima di molti accadimenti, avremmo magari pensato di rifugiarci. Quello che credo occorra costruire sono soprattutto un metodo e un criterio comunicativo e concettuale composito e comune tra i vari protagonisti della relazione di cura: e in qualche misura è attorno a questa idea che mi pare essersi sviluppata anche la recente legge 219/17, della quale non è possibile non tenere conto nelle nostre riflessioni. Il primo aspetto è quello della decisione, che, come Tu hai efficacemente scritto, rappresenta un elemento costante del contesto di cura. Inizierei con l’osservare che l’ambito sanitario non è connotato solamente dalla complessità contenutistica delle decisioni da assumere, ma anche dalla difficoltà della costruzione stessa di una decisione. Ho già sottolineato anche in passato, in alcuni scritti, come non sia più possibile oggi, ammesso e non concesso che mai lo sia stato, richiamare – e talora purtroppo lo si è fatto anche strumentalmente – l’idea che possa esistere una sorta di area di “indecidibilità” concernente le sorti dell’esistenza nell’ambito terapeutico: una formula malintesa con la quale a volte si è pensato di evitare i problemi, evocando ora una sorta di indisponibilità della vita da parte di chicchessia, ora una asserita inabilità del malato ad assumere determinazioni – legata per lo più allo stato stesso di
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infermità o alla ritenuta carenza di conoscenze tecniche –, ora una apodittica signoria del curante sulle sorti dell’infermo. Se, per un verso, un sistema giuridico che ponga al suo centro la persona correttamente e pienamente intesa, e dunque la persona singola e non una semplicistica idea astratta di individuo standard, non può tollerare l’espropriazione dell’esistenza dei soggetti in nessuna fase della vita e ad opera di chicchessia, per altro verso meno che meno ciò appare tollerabile in un ambito, quello appunto della cura e dell’assistenza, dove massima è l’esigenza del rispetto che va riservato all’identità, alla singola peculiarità e all’integrità delle persone. E ciò anche al fine di evitare che ad una condizione di debolezza, già pregiudizievole, si accompagni oltretutto una possibilità di abuso e deformazione di quel concetto – la cura – che per essere tale non può mai rappresentare qualcosa che si ponga contro l’essenza stessa dell’irrepetibile sé che caratterizza ognuno di noi. Il decidere insieme è parte essenziale di questo rispetto, dovuto sia umanamente che moralmente che giuridicamente: e dunque alcuna decisione può essere assunta senza il consenso informato del paziente; e affinché questi possa, appunto, elaborare una propria consapevole posizione in ordine ai trattamenti proposti dai sanitari occorre instaurare un dialogo nell’ambito di una relazione costruita sulla base di una comunicazione chiara, onesta, comprensibile, leale. Il sapere specialistico del medico deve coniugarsi alla considerazione continua e protratta dell’indole, del sé e del volere del paziente: in una dinamica talvolta non facilmente inquadrabile nelle categorie giuridiche tradizionali (atti, forme, negozi, ecc.) in quanto a venire in gioco non sono solamente manifestazioni di volontà puntuali riferite a decisioni che involgono cose diverse dalla propria persona, ma progressive e non sempre definitive assunzioni di coscienza e volontà in merito proprio alla sorte della medesima. Per il diritto, una sfida complessa e ancora in divenire – come forse lo sono quasi tutte, più o meno – ma che non può essere né sottovalutata né elusa, a pena di privare di tutela un fascio di diritti fondamentali, profondamente intrecciati e tutti rilevanti nella relazione di cura:
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Dialogo medici-giuristi
salute, libertà, autodeterminazione, uguaglianza sostanziale, identità, integrità. Non è dato invocare, dicevo, l’indecidibile: perché, come già ho chiarito in più sedi, l’indisponibilità autentica della vita si avrebbe per affermata soltanto laddove si lasciasse sempre e comunque operare la malattia secondo il suo naturale decorso, abbracciando una concezione oggi evidentemente del tutto estranea al nostro modo di intendere il mondo e l’esistere degli uomini. Affermando, invece, una asserita intangibilità della vita nel senso di una pretesa signoria del medico sul paziente associata ad una mancanza, in capo a quest’ultimo, di un diritto esigibile all’autodeterminazione terapeutica rispetto a qualsivoglia frangente di infermità, altro non si affermerebbe che un dovere precettivo di vivere al modo altrui, di curarsi al modo altrui, in definitiva di interpretare il mondo al modo altrui e non secondo ciò che siamo: e ciò in frontale ed evidente contrasto con una ampia rosa di chiari parametri costituzionali – a mero titolo di esempio si pensi agli artt. 32, 13, 3 Cost. – e di affermazioni contenute e ripetute in testi di matrice internazionale. Del resto, l’idea dell’indecidibilità, oltre che frutto di un insano artifizio teorico risulta chiaramente truffaldina e profondamente sleale, in un ambito che esige invece il massimo di lealtà ed onestà intellettuale: l’esperienza clinica e quella assistenziale mostrano infatti sempre di più come non sia evidentemente vero che, anche abbracciando una simile ottica, nessun soggetto alla fine decida o si ritenga legittimato a farlo. Qualcuno decide sempre: e a volte si decide anche fingendo di non farlo, attraverso una inerzia, o un rifiuto di azione o di sospensione, che altro non finiscono con essere se non decisioni mascherate. La questione sul tavolo, dunque, è chi debba e possa decidere, non se si debba o possa farlo. E in questo senso deve essere chiarito – come del resto risulta limpidamente, da ultimo, nel tessuto della legge 219/17 – che a decidere non può essere un sanitario che non tenga conto del volere del paziente, delle sue inclinazioni, dei suoi obiettivi, del suo modo di costruire il proprio orizzonte esistenziale. Una delle principali questioni giuridiche relative alle decisioni nella relazione di cura ruota dun-
Integrità del malato e “giuridicizzazione” della coscienza
que, quantomeno in tempi recenti, attorno al centro di imputazione della decisione. E accettare che tale centro sia da individuarsi solo o soprattutto in capo al medico, senza adeguata considerazione dell’identità e della necessità di rispetto dell’integrità anche biografica del paziente, sia esso capace o incapace, implicherebbe l’inammissibile e anticostituzionale affermazione dell’esproprio di una fase delicatissima della vita, quella della malattia: e ciò tanto ove la malattia finisca col determinare l’ingresso nella fase finale dell’esistenza, magari nel solco di quelle terminalità lunghissime di cui l’esperienza clinica sempre di più dà conto e che il progresso tecnico rende sempre più frequenti, quanto ove la patologia non sia di per sé letale. Dunque occorre trovare, di volta in volta, una formula in cui la decisione sia esito della condivisione di un percorso umano e terapeutico che non si limiti alla vicenda clinica ma involga l’intero orizzonte esistenziale della persona malata: per il medico una sfida notevole e che richiede formazione ed esperienza non solo scientifiche, verrebbe da dire una sorta di empatia che da inclinazione più o meno personale si faccia concetto tecnico tale da diventare parte integrante della cura. Come dicevo, una sfida. Così come tali frangenti rappresentano una sfida anche per il giurista, il quale non può più rifugiarsi nelle astrazioni degli atti e delle strutture tipiche del diritto patrimoniale, ma deve trovare la chiave e lo strumentario per far correttamente rilevare nella materia giuridica concetti spesso ad essa poco commensurabili: la cura, la comunicazione, il dialogo, la fiducia personale rispetto ai profili più intimi dell’esistere. Sia il sanitario che il giurista si trovano a dover compiere un passo avanti e al di fuori dai propri terreni tradizionalmente congeniali, e di ciò si ha traccia ed esempio nella legge 219/17: per il medico il tempo della comunicazione diviene tempo della cura; per il giurista, il consenso da atto diviene percorso, da fatto statico diviene concetto dinamico. La vita biografica irrompe in entrambi gli ambiti e rende di colpo obsolete e inadatte sia le conoscenze prettamente cliniche che le concettualizzazioni giuridiche tradizionali. Non sono solo gli operatori sanitari, dunque, a trovarsi talora disorientati dinnanzi ad un paradigma relazionale
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nuovo e da costruire: come autorevolmente si è ricordato in un non lontano passato, la vita stessa, come concetto ed elemento biografico personale rilevante per il diritto, è una “invenzione” recente; non deve dunque troppo meravigliare che anche i giuristi incontrino difficoltà, dubbi, impacci nell’affrontare situazioni spesso nuove, perché un tempo impensabili e ora possibili e anzi frequenti grazie al progredire di conoscenze, tecniche, terapie, mezzi assistenziali. Ma proprio queste novità e queste difficoltà richiedono che si attribuisca il massimo peso e il massimo rilievo al secondo profilo cui accennavo: connesso al primo, è quello della necessità del più pieno rispetto della persona malata. Scenari nuovi richiedono anche una sorta di “aggiornamento” del concetto di rispetto, che non si traduce più in una apodittica difesa della vita biologica ad ogni costo, in una lotta alla patologia vissuta come una sorta di missione contro la morte. Rispettare nel profondo la vita delle persone non significa più solo combattere senza quartiere i nemici biologici, salvare gli organismi dalle malattie e dai vulnera: ciò non solo non è più sufficiente ma talora diviene persino incongruente col vero rispetto della persona. Il nuovo rispetto, che una corretta concezione della centralità della persona impone, comporta una attenta e rigorosa considerazione dell’individuale concezione del mondo, della personale visuale della dignità, del diritto di ciascuno a scrivere la propria storia in ogni sua pagina, senza che quella storia divenga un racconto altrui. Si tratta quindi non solo di fronteggiare una patologia, di vincere un dolore fisico, di apprestare un sostegno medicale: si tratta di difendere anche un sé, un “io” che non deve essere sminuito in ragione dell’infermità del corpo. Così anche la malattia e il morire si disvelano per quello che sono: parti del vivere, porzioni del percorso biografico della persona, che vanno dunque gestite in aderenza al medesimo, secondo le inclinazioni dell’unico vero protagonista infungibile di quella situazione, vale a dire la persona malata; così come si è, e si deve essere, gli unici protagonisti infungibili della propria vita quando non vi sia infermità o, anche ove vi sia, non sia nota. Responsabilità Medica 2018, n. 3
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In ciò sta, oltretutto, una ulteriore importante connotazione del rispetto: la persona malata non diventa la sua malattia, non deve diventarlo. La persona malata non va “degradata” a paziente ma va semmai aiutata a difendere il proprio essere anche contro la malattia e contro la sofferenza e contro l’abominevole snaturamento del sé che talora diviene corollario dell’infermità. Pure questa è una sfida, anche giuridica. La tutela del sé delle persone malate, la tutela del loro diritto a rimanere se stesse anche in un frangente di debolezza così pervasivo e allo stesso tempo tanto equivoco da far maturare nei terzi – e anche nei sanitari talvolta – pulsioni e atteggiamenti contrastanti, complessi, intrecciati: protezione, terapia, sfida, controllo, soggezione, dolore, potere, frustrazione, impotenza, tracotanza nello spingere i trattamenti oltre il loro fine virtuoso, senso di sconfitta che talora annebbia il reale senso delle cose, degli obiettivi, della verità personale di chi si ha di fronte. A questa esigenza di rispetto assoluto della persona anche laddove la sua concezione del vivere sia diversa da quella del sanitario, o diverga rispetto ai protocolli ospedalieri, si lega poi l’ultimo, difficile punto sul quale Ti soffermi. Trattasi dello sdrucciolevole problema dei possibili attriti tra il rispetto della coscienza del sanitario e la necessità di rispetto della persona malata, quale che sia la sua scelta terapeutica, quale che sia la sua prospettiva esistenziale con le connesse istanze. È evidente che tale tema presenta una notevole rilevanza pratica anche rispetto alla concreta effettività delle tutele previste dalle fonti normative (la Costituzione, quantomeno agli artt. 3, 13, 32, varie convenzioni sovranazionali, da ultimo la legge 219/17 e potremmo continuare): perché occorre evitare che il presidio giuridico dei diritti fondamentali della persona (la salute, la libertà, l’integrità personale, nonché la dignità e il rispetto che necessariamente vi si legano) sia vanificato dalla possibilità che tali prerogative rimangano neglette in conseguenza dell’appello del sanitario ad una o più ragioni “di coscienza”. Non basterebbe, al riguardo, l’argomento talora impiegato – ad esempio anche recentemente nelle ultime propaggini postume del caso Englaro Responsabilità Medica 2018, n. 3
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– per evitare il problema, vale a dire il sostenere che una struttura sanitaria non può opporre obiezione di coscienza perché la menzionata obiezione potrebbe riguardare semmai la posizione dei singoli operatori, dei singoli individui e non invece dell’Amministrazione Pubblica in quanto ente. Non basta ovviamente questo ad affrontare il problema, che si colloca su di un piano più profondo e sostanziale. Al centro della questione, infatti, ritengo che si ponga prima di tutto il quesito in merito all’astratta ascrivibilità di una materia quale quella dell’attuazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica alla costellazione delle questioni per le quali possa essere ritenuta legittima una obiezione di coscienza. Il tema è ovviamente complesso, ma non può né deve essere eluso. A me pare che risulterebbe per molti aspetti distonico e anche insidioso rispetto alla ricostruzione generale del diritto al rifiuto di cure e, più in generale, all’autodeterminazione terapeutica e al rispetto dell’integrità della persona nel senso di cui dicevo, l’idea di una possibile obiezione di coscienza invocabile dal sanitario che, ad esempio, opponga proprie intime convinzioni ostative alla pretesa astensiva del paziente o alla richiesta di assistenza nell’interruzione di un trattamento in essere, cui pure questi abbia diritto. E risuonano qui le espressioni da Te richiamate e più volte udite nei luoghi di cura: “non me la sento”, “la coscienza mi impedisce” o “la coscienza mi impone” e simili. Si tratterebbe di una prospettiva distonica, dicevo. Infatti, se si afferma, come peraltro risulta non solo da consolidate ed autorevoli prese di posizione, ma già chiaramente dalla fondamentale sentenza 21748/2007 della Suprema Corte, e come del resto era emerso, seppure attraverso sconcertanti tortuosità, sin dal caso Welby, che le decisioni medicali assunte sulla base del criterio che pone al centro del giudizio il consenso del paziente e il criterio della cosiddetta “proporzionalità vissuta” appartengono senza dubbio, oltre che alla galassia dei principi fondamentali in materia di diritti delle persone, anche alla buona pratica clinica, e dunque a tale buona pratica vanno ascritte pure decisioni che contemplino l’interruzione del sostegno vitale in presenza di certi presupposti e quindi pure l’assistenza alla relativa fase
Integrità del malato e “giuridicizzazione” della coscienza
operativa, allora diviene a mio modo di vedere assai difficile individuare un nucleo di obiezione legittima, che a quel punto comporterebbe una sorta di bilanciamento tra valori personali – del sanitario – incompatibili con il rispetto dei diritti fondamentali della persona e con la buona prassi in questione, o comunque un bilanciamento con controvalori – sempre evocati dal sanitario – che dovrebbero essere realmente bilanciabili con quei diritti fondamentali che vengono in rilievo. E ciò specie se si pone attenzione ai principi che la legge 219/17 pone al centro della relazione di cura, principi a fronte dei quali una obiezione di coscienza – peraltro mai nominata neppure come ipotesi astratta né indirettamente individuabile neppure in chiave interpretativa in qualsivoglia punto del provvedimento – non si potrebbe tradurre in altro che in una sorta di aggressione alla persona, frontalmente incompatibile con la tutela dei suoi diritti come emergente anche da ultimo nella legge 219/17. Del resto, per meglio intendere la questione basterebbe raffrontare la fattispecie in discorso con la delicata materia dell’interruzione di gravidanza, laddove la possibilità di obiezione è espressamente prevista dal legislatore; e per un’altra ipotesi normativamente prevista, si pensi all’art. 16 della l. 40/2004, in tema di procreazione medicalmente assistita. Con riguardo all’interruzione di gravidanza, la previsione, pur discutibile e pur contenuta entro limiti precisi, appare sostenibile in virtù del pregiudizio definitivo che l’intervento arreca alla possibilità di sviluppo del feto. E lì quindi la questione di coscienza si concentra attorno all’ablazione, se non di una autonoma vita in essere – come pure alcuni sostengono – di una vita agli albori. Quanto alla procreazione medicalmente assistita, si può pensare che l’obiezione, anche qui pur discutibile, riguardi aspetti etici legati alle “artificialità” tecniche inevitabilmente connesse con lo scopo ricercato attraverso il trattamento sanitario; del resto, l’art. 16 della l. 40/04 limita, si badi, la possibilità di obiezione al compimento delle procedure e delle attività specificatamente e necessariamente dirette a determinare l’intervento di procreazione medicalmente assistita, mentre non
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può essere oggetto di obiezione l’assistenza antecedente e conseguente l’intervento. Ma nel caso delle operazioni connesse all’attuazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica, quali che siano le determinazioni del paziente – purché assunte secondo i criteri previsti dalla legge 219/17 – e anche al di là del silenzio normativo sul punto, non pare affatto agevole né persuasivo individuare un nucleo valoriale tale da legittimare in maniera convincente una obiezione di coscienza che possa non finire col tradursi in una diretta violazione proprio di quei fondamentali diritti che la legge garantisce. E neppure, ritengo, si potrebbe ricostruire una giustificazione per tale obiezione fondandola sulla ritenuta sacralità o indisponibilità della vita o della persona, perché il tema, come dicevo, è in realtà eccentrico ed estraneo alla problematica in questione, dal momento che, anche al di là di una irrealistica e malintesa concezione di indisponibilità della vita, l’autodeterminazione terapeutica si pone proprio a presidio di una idea precisa e piena di persona, di un’idea piena e precisa dell’esistenza e del rispetto dell’individuo nella propria unicità, biografia, integrità. Un’idea di persona che pare emergere, con una certa forza, anche dal tessuto della legge 219/17: con il che una eventuale possibilità di obiezione finirebbe, a ben guardare e con un risvolto certamente grave e quantomeno in parte bizzarro, per ledere in qualche misura proprio la “sacralità” che vorrebbe esprimere, finirebbe col pregiudicare aspetti essenziali e intrinseci della buona prassi medica, finirebbe col lasciare lo spazio ad un inaccettabile passo indietro rispetto all’idea stessa di cura. Per questo una tale prospettiva finirebbe con l’essere anche assai insidiosa. Perché ammettere una obiezione di coscienza rispetto alla buona cura – e dunque alla cura rispettosa, alla cura posta in essere da chi accetta e applica anche la sospensione di taluni trattamenti, da chi guarda al bene concreto e ponderato della persona singola più che ad una astratta lotta di trincea contro una patologia magari intollerabile o invincibile – vorrebbe dire lasciare uno spazio di discussione rispetto ad un diritto fondamentale, messo a fuoco nel tempo e con fatica, e quindi rimettere in discussione anche l’idea stessa di persona a cui si ispira Responsabilità Medica 2018, n. 3
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l’ordinamento: e dunque è proprio la centralità e non negoziabilità del diritto in discorso a rendere illegittima un’area di obiezione di coscienza rispetto alla sua attuazione. Un diritto che, come si è osservato in passato, non va a scapito di nessuno e si pone anzi quale baluardo di una prospettiva ordinamentale volta alla tutela della vita della persona intesa nel suo significato più profondo, più complesso, più integrale. Con il che, anche a voler ricondurre, come pure taluni fanno, la nozione di obiezione di coscienza ad una base giuridica costituzionalmente rilevante, non pare possibile affermare fondatamente che fattispecie quali quelle che vengono in rilievo nell’ambito del diritto al rifiuto di cure e più ampiamente del diritto all’autodeterminazione terapeutica possano realisticamente confliggere con valori pur legittimanti, in altri casi, la menzionata obiezione, che dunque ritengo non potrebbe essere opposta al fine di disattendere, ad esempio, neppure le disposizioni anticipate di trattamento. Diversamente, si finirebbe col giungere al paradosso cui già accennavo: la legittimazione, neppure troppo indiretta, dell’inaccettabile idea di una possibile cura contro la persona. Una prospettiva inammissibile e in sicuro contrasto con molteplici principi fondamentali e con lo spirito stesso della legge 219/17. Laddove in gioco vi siano, dunque, posizioni personali fondamentali quali la salute concepita in chiave fisica e psichica secondo un proprio personale parametro necessariamente soggettivo, l’identità, la dignità, l’uguaglianza, nonché la libertà e l’autodeterminazione intese come prerogative sul proprio corpo, non è possibile ammettere un bilanciamento con altre configgenti concezioni altrui dell’esistere a pena di tollerare l’intollerabile: appunto l’idea di una aggressione mascherata da terapia e da assistenza, di una cura nemica del suo destinatario, di una cura “sfigurata” perché non più cura. Nessuna “giuridicizzazione” della coscienza, insomma, potrebbe prescindere dal rispetto del diritto all’integrità della persona nel senso cui mi sono più volte riferito. È un terreno difficile, lo ripetiamo spesso: così come è costante, e vi ho indugiato anche in queste pagine, il richiamo al fatto che le categorie Responsabilità Medica 2018, n. 3
Dialogo medici-giuristi
giuridiche tradizionali non sempre sono atte a rispecchiare ed esprimere la reale consistenza, anche semantica, di certe vicende della vita. Ciononostante il diritto non può non occuparsi della relazione di cura e della malattia, proprio per cercare un equilibrio in una materia che vede accostarsi, e a volte contrapporsi, esigenze e tensioni diverse e pervasive, rispetto al più universale e allo stesso tempo personale valore che dobbiamo preservare. Quello che Stefano Rodotà sapientemente riassunse con l’espressione, già da altri impiegata, del “palinsesto della vita”, che certo non può essere sottratto, in nessun momento e in nessun frangente, a chi, il protagonista di ogni singola esistenza, è l’unico soggetto titolato a stabilirne contenuti e valori, continuità e discontinuità, risvolti e declinazioni. Scelgo di concludere la presente tappa del nostro dialogo, destinato peraltro a proseguire anche al di fuori della pagina attraverso l’indagine e l’approfondimento di questioni che forse mai – e meno che meno in questo caso – possono dirsi realmente esaurite, e raramente possono ritenersi adeguatamente risolte, facendo mio, con riguardo alle vicende tutte che ruotano attorno alla relazione di cura, un auspicio. Quello a suo tempo espresso da Küng e Jens in ordine alle decisioni sul morire, in un suggestivo saggio oramai non nuovo ma assai attuale: “ci spinge la speranza che la domanda sulla responsabilità personale dell’uomo nei confronti della morte possa essere posta in maniera nuova e sobria, degna e moralmente seria, al di là di ogni dogmatismo e di ogni fondamentalismo”1. Ciò prima ancora che per la morte, ritengo debba valere per ogni fase e momento dell’esistenza, anche e soprattutto laddove la stessa sia solcata dalla malattia.
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Jens, Küng, Della dignità del morire, Milano, 1996, 18 s.
r o t Osservatorio medico-legale a Osservatorio medico-legale er v ico s d le s e o Accertamento e valutazione m ga le medico-legale della sofferenza morale
Alessia Viero*, Arianna Giorgetti**, Maria De Matteis***, Massimo Montisci**** Sommario: 1. Prefazione. – 2. Documento di sintesi. – 3. Conclusioni.
Abstract: Nel mese di aprile 2018 un Gruppo di Esperti Specialisti Medico Legali Nazionali identificati dalla Società Italiana di Medicina Legale (SIMLA) si è riunito a Padova al fine di confrontarsi, alla luce dei contenuti della legge 4.8.17, n. 124, della dottrina medico legale e della recente giurisprudenza di merito, circa gli ambiti di competenza medico legale nell’accertamento e nella valutazione del “Danno non patrimoniale” alla persona ed ha contestualmente esteso un documento di sintesi con particolare riferimento alla sofferenza morale, successivamente approvato dal Direttivo della predetta Società, al fine della diffusione su tutto il territorio nazionale.
In April 2018, a Group of National Experts in the field of Legal Medicine, identified by the Italian Legal Medicine Society (SIMLA), convened in Padova in order to discuss, in light of the contents of law 4.8.17, n. 124, the medico-legal doctrine and the recent jurisprudence, regarding the skills of the medico-legal Expert in the ascertainment and assessment of “non-pecuniary damage”; furthermore, a summary document was drafted with particular reference to moral suffering, subsequently approved by the SIMLA Board, to be diffused throughout the national territory.
Dottoranda iscritta al Corso di Dottorato di Ricerca in Nanoscienze e Tecnologie Avanzate. U.O.C. Medicina Legale e Tossicologia. Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Vascolari. Università degli studi di Padova. ** Medico in formazione specialistica, U.O.C. Medicina Legale e Tossicologia. Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Vascolari. Università degli studi di Padova. *** Medico in formazione specialistica, U.O.C. Medicina Le-
gale e Tossicologia. Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Vascolari. Università degli studi di Padova. **** Direttore U.O.C. Medicina Legale e Tossicologia. Direttore Scuola di Specializzazione in Medicina Legale - Università degli studi di Padova. Professore Ordinario Settore scientifico, MED/43 - Medicina Legale. Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Vascolari. Università degli Studi di Padova.
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1. Prefazione Il Codice Civile italiano prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. nei soli ed esclusivi casi determinati dalla legge1, ossia nei casi di danno derivante da reato. Progressivamente si è giunti ad interpretare tale norma quale strumento di tutela dal pregiudizio arrecato ad interessi non economici aventi rilevanza sociale, tra i quali, principalmente, i diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente tutelati (art. 32 Costituzione)2. Nel 2003 sia la Corte di Cassazione con le famose Sentenze gemelle3 che la Corte Costituzionale4, hanno definito il danno non patrimoniale come unicum, ricomprendendo al suo interno il danno morale soggettivo, il danno biologico e il danno esistenziale. Nel corso degli anni, la giurisprudenza di merito si è espressa mediante plurime sentenze circa la liquidazione del danno biologico e della sofferenza morale, quali la sentenza di San Martino delle sezioni unite della Cassazione5 e le sentenze della Cassazione, sezione civile, n. 12408/20116, che invitava il giudice all’utilizzo delle “Tabelle economiche di Milano”, n. 2228/20127 e n. 22909/20128 che censuravano la liquidazione della sofferenza calcolata in ragione della frazione di danno biologico e rimandavano ad una valutazione tecnica espressa dal medico legale. A chiarire ogni fraintendimento, con sentenza n. 235 del 2014, la Corte Costituzionale ha stabilito che il danno morale che si accompagna ad una menomazione fisica o psichica, “e cioè la sofferenza personale suscettibile di costituire ulteriore posta risarcibile (comunque unitariamente) del danno non patrimoniale, rientra nell’area del danno bio-
Risarcibilità del danno morale, pretium doloris, ex art. 185 c.p. in presenza di una fattispecie di reato accertato in astratto. 1
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Corte cost., 14.7.1986, n. 184, in Giust. civ., 1986, I, 2324.
Cass., 31.5.2003, n. 8827, in Giur. it., 2004, 29 e Cass., 31.5.2003, n. 8828, ibidem.
3
Corte cost., 11.7.2003, n. 233, in Nuova giur. civ. comm., 2004, I, 231.
4
Cass., sez. un., 11.11.2008, nn. 16972-5, in Arch. giur. circ., 2009, 25.
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Cass., 7.6.2011, n. 12408, in Foro it., 2011, I, 2274.
7
Cass., 16.2.2012, n. 2228, in Guida al dir., 2012, 75.
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Cass., 13.12.2012, n. 22909, in Guida al dir., 2013, 67.
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logico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente”. In merito, la recente legge n. 124 del 4.8.17 ha modificato gli artt. 138 e 139 del c. ass.9 stabilendo che “qualora la menomazione accertata – corrispondente a lesioni di lievi entità – incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati ovvero causi o abbia causato una sofferenza psico-fisica di particolare intensità, l’ammontare del risarcimento del danno … può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 20%. L’ammontare complessivo del risarcimento riconosciuto ai sensi del presente articolo è esaustivo del risarcimento del danno non patrimoniale conseguente a lesioni fisiche”. Per quanto attiene alle lesioni di non lieve entità, “qualora la menomazione accertata incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali documentati e obiettivamente accertati, l’ammontare del risarcimento del danno … può essere aumentato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, fino al 30%” e “al fine di considerare la componente del danno morale da lesione all’integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico … è incrementata in via percentuale e progressiva per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione la quota corrispondente al danno biologico”. Infine, la sentenza n. 7513 della III sezione civile della Cassazione, del 27 marzo 2018, ha da un lato scongiurato la temuta duplicazione del risarcimento e dall’altra eliso dall’ambito di competenza medico-legale il “danno morale”, esplicitando che “in presenza di un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità per-
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Accertamento e valutazione medico-legale della sofferenza morale
manente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione).” In considerazione di ciò, il gruppo di lavoro “Accertamento e liquidazione della sofferenza” dell’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano si è interrogato sull’opportunità di coinvolgere i professionisti psicologi e psichiatri nel processo di valutazione della sofferenza. In tale panorama giuridico-dottrinario si prospettano svariate criticità, quali: - l’automatica deduzione della sofferenza morale dall’entità del danno biologico. Ciò comporterebbe una stortura valutativa, per cui condizioni caratterizzate dalla medesima percentuale di danno biologico permanente, ad esempio una tetraplegia ed una grave demenza, verrebbero considerate foriere del medesimo disagio/dolore/degrado percepito, a fronte di una sofferenza morale elevatissima nel primo caso e lieve nel secondo; - la dipendenza del risarcimento per il danno biologico temporaneo dall’entità della menomazione, con importi liquidativi distinti per le lesioni di lieve e non lieve entità; - la limitazione alla personalizzazione del danno, in particolar modo in caso di lesioni di lieve entità ove, nella maggiorazione del 20%, sono da riconsiderare e la sofferenza morale e l’aspetto dinamico-relazionale; - l’estraneità del medico-legale alla valutazione del “danno morale”, con la prospettiva di un coinvolgimento di altre figure professionali. Giacché, ad oggi, il danno biologico comprende gli aspetti dinamico-relazionali, non computati nella definizione percentuale, mentre non include la valutazione della sofferenza morale conseguente al danno stesso, tali premesse costituiscono anche il presupposto per una riflessione inerente la necessità di una nuova definizione di danno biologico. Alla luce dei contenuti della predetta legge, della dottrina medico-legale e della giurisprudenza di merito, un Gruppo di Esperti Specialisti Medico-Legali Nazionali10, identificati dalla Società Italiana di
10 Gruppo di Lavoro: Prof. Alessio Asmundo, Dott.ssa Maria De Matteis, Prof. Ranieri Domenici, Prof. Piergiorgio Fedeli, Dott.
Medicina Legale (SIMLA), si è riunito a Padova nel mese di aprile 2018 al fine di confrontarsi circa gli ambiti di competenza medico-legale nell’accertamento e nella valutazione del “Danno non patrimoniale” alla persona ed ha contestualmente esteso un documento di sintesi successivamente approvato dal Direttivo della predetta Società al fine della diffusione su tutto il territorio Nazionale.
2. Documento di sintesi Nella categoria del “Danno non patrimoniale” sono ricomprese le offese a diritti inviolabili dell’individuo costituzionalmente garantiti, quali la dignità della persona e la salute (rispettivamente art. 2 e art. 32 della Costituzione), beni distinti, autonomi, indipendenti e, ove connessi a condizione di lesione-menomazione, suscettibili di accertamento e valutazione medico-legali e come tali soggetti a contraddittorio tecnico. L’autonomia ontologica della sofferenza morale rispetto al danno alla salute e la correlata distinzione in termini di risarcimento confermano che non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d’una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi attinenti alla sfera morale, componenti entrambe suscettibili di accertamento e valutazione medico-legali. Il danno biologico è concordemente identificato nella menomazione temporanea e/o permanente dell’integrità psico-fisica della persona che esplica una incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita, comuni a tutti. Il danno biologico così inteso, danno base, viene espresso percentualmente in sede medico-legale. Laddove siano compromesse attività dinamico-relazionali personali, particolari dell’individuo, il pregiudizio ulteriore dovrà essere espresso in termini descrittivi.
Enrico Galizio, Dott.ssa Arianna Giorgetti, Prof. Gian Aristide Norelli, Prof. Enrico Marinelli, Dott. Luigi Mastroroberto, Prof. Massimo Montisci, Prof. Luigi Palmieri, Dott. Enrico Pedoja, Dott. Lorenzo Polo, Dott. Francesco Pravato, Prof. Enzo Ronchi, Dott.ssa Alessia Viero, Prof. Guido Viel, Prof. Riccardo Zoia.
Responsabilità Medica 2018, n. 2
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Gli estensori del presente Documento propongono di definire la sofferenza morale quale stato emotivo della persona, temporaneo e/o permanente, produttivo di percezione di disagio/degrado/dolore, rispetto alla condizione anteriore. Si ritiene che tale componente di danno non sia di competenza medico-legale solo nel caso in cui sia indipendente da una lesione-menomazione psicofisica; mentre si conferma come sia di precipua competenza dello specialista medico-legale intervenire nell’accertamento e nella valutazione di tale componente di danno, quando questa derivi da una lesione-menomazione all’integrità psico-fisica. Relativamente all’accertamento della sofferenza morale da lesione-menomazione, come già delineato dal Padova Charter on personal injury and damage under civil-tort law11, al fine di ottenere una “prova scientifica” e di ridurre il più possibile il rischio di un risarcimento non adeguatamente motivato, esso deve essere fondato sulla metodologia propria della Medicina Legale. L’attribuzione di tale competenza allo specialista medico-legale trova inoltre la sua base nell’interesse condiviso per una corretta ed equa valutazione della sofferenza medesima, che consenta di evitare matematici automatismi risarcitori avulsi dalla realtà. In merito si evidenzia come, a parità di percentuale di danno biologico permanente, il grado di sofferenza morale possa essere assai differente. A titolo esemplificativo, si segnala come in caso di stato vegetativo persistente, l’automatica deduzione della sofferenza morale dalla percentuale di danno biologico permanente massimale comporterebbe la definizione di una sofferenza morale elevatissima, nonostante tale condizione patologica non si accompagni a percezione di disagio/ degrado/dolore da parte del danneggiato. Nel novero di condizioni che pure comportano lo stesso valore di danno biologico permanente risulta per altro evidente come il disagio/degrado/dolore percepito possa essere totalmente differente.
Ferrara et al., Padova charter on personal injury and damage under civil-tort law: medico-legal guidelines on methods of ascertainment and criteria of evaluation (2016) 1 International Journal of Legal Medicine 1 ss.
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Osservatorio medico-legale
Dalle considerazioni sopraesposte si evince la necessità di individuare condivisi parametri tecnici idonei a definire quali-quantitativamente la sofferenza morale individuale del danneggiato, in relazione sia all’entità ed al decorso della lesione/ malattia, sia alla successiva eventuale menomazione permanente. La sofferenza morale dovrà essere definita in funzione di tutte le componenti percettive del disagio/degrado/dolore. Tali componenti dovranno essere descritte sia in riferimento alla temporaneità che alla permanenza della menomazione, secondo la metodologia accertativa e la criteriologia valutativa proprie della Medicina Legale, con epicrisi complessiva espressa qualitativamente mediante aggettivazione e/o quantitativamente per mezzo di gradazione numerica, di cui ad un successivo elaborando documento tecnico.
3. Conclusioni Si riportano di seguito, in conclusione, gli assunti essenziali condivisi dal Gruppo di Lavoro incaricato dalla SIMLA in merito all’accertamento e alla valutazione medico-legale della sofferenza morale. - La sofferenza morale da lesione/menomazione dell’integrità psicofisica è una componente del danno non patrimoniale alla persona, autonoma rispetto al danno biologico. - La sofferenza morale non può essere misurata con un automatismo matematico legato alla durata del danno biologico temporaneo ed alla percentuale di danno biologico permanente. - Lo specialista in Medicina Legale possiede gli strumenti idonei per dare un contributo tecnico motivato all’accertamento e valutazione della sofferenza morale legata a lesioni/menomazioni psico-fisiche. Per quanto attiene alla aggettivazione/quantificazione delle specifiche componenti della sofferenza morale, di cui al successivo elaborando documento tecnico, si ribadisce la necessità di una valutazione della sofferenza morale nei due distinti momenti della menomazione temporanea e della menomazione permanente, nonché di una valutazione epicritica finale, secondo la metodologia propria della Medicina Legale.